Lyceum
n. 41 - Maggio 2011
Editoriale
La Scuola pubblica è
la Scuola democratica
La solidarietà, la tolleranza, la libertà di pensiero,
l’entusiasmo dei docenti, in questo momento storico,
costituiscono l’unico argine alla deriva antidemocratica
che ci riporterebbe indietro di secoli
La Scuola pubblica, garanzia di buoni Valori. Un altro anno scolastico si avvia alla conclusione con i soliti problemi, le consuete attese e le
naturali speranze. Mai come in questo periodo la
fine di un anno scolastico è stata accompagnata
da una serie di polemiche, attacchi e contestazioni che stanno rendendo il contesto socioculturale della società italiana
a dir poco scandaloso, proprio
mentre non mancano eventi
storici di enorme rilevanza,
che stanno sconvolgendo ed
infiammando, con sviluppi
imprevedibili, la sponda meridionale del Mediterraneo. Altre
situazioni terribili sono state
registrate e tramandate dalla
storia in epoche precedenti e a
diverse latitudini. Quindi, si potrebbe dire, niente di nuovo e
di diverso rispetto alla normale
quotidianità che ci circonda e
ci avvolge; eppure l’attuale sta-
gione mi mortifica e mi addolora più di qualsiasi
altra precedente esperienza.
È mia ferma convinzione che nel momento
attuale, gravato da annosi problemi economici e
sociali, sia necessario riaffermare con forza il ruolo
fondamentale della Scuola pubblica, affinché
essa, oltre a tramandare la cultura del passato,
Lyceum Maggio 2011
3
4
sia sempre più aperta alle istanze dell’oggi e alle
sfide del domani. La società guarda, con grande
preoccupazione, al degrado del comportamento
sociale, alla base del quale vi sono la noncuranza
ed il disprezzo per la cultura, a torto giudicata
priva di rilevanza e ricaduta economica, ma
soprattutto alla perdita di valori come l’onestà
e la moralità sempre più trascurati e screditati,
quando non addirittura sostituiti da altri. La Scuola pubblica, per la sua stessa storia, ha il dovere
di difendere quei valori, la cui pratica è condicio
sine qua non di ogni attività intellettuale e della
stessa vita civile del paese. Piero Calamandrei,
nel discorso pronunciato al III
Congresso in difesa della Scuola
pubblica a Roma l’11 febbraio
1950, affermava: “La scuola di Stato
deve essere una garanzia, perché
non si scivoli in quella che sarebbe la
fine della scuola e forse la fine della
democrazia e della libertà.”
Questa volta proprio non mi
va giù che si continui a parlare di “cattivi valori”
che i docenti trasmettono ai giovani durante le
ore di lezione. Invece di soffermarci su queste
polemiche provinciali, bisognerebbe riflettere
sul fatto che gli sconvolgimenti di questi giorni
devono indurre al potenziamento dei valori,
universalmente riconosciuti come tali, e alla
capacità di ragionare e riflettere in maniera
autonoma, senza condizionamenti dottrinali
o convenienze di schieramento, sul futuro del
nostro essere italiani.
È triste dover confrontarsi con revisionismi
storici e politici proprio nella ricorrenza dei 150
anni dall’unità dello Stato nazionale italiano.
Siamo convinti che dalla crisi finanziaria ed
economica possiamo uscire solo con un grande
sforzo generale che si fondi sul realismo e sulla
responsabilità e scommetta su innovazione e
formazione. La nostra Nazione si presenta ancora giovane e quindi fragile, nonostante siamo
riusciti attraverso la Scuola a formare il cittadino
nuovo con una sola lingua e cultura. Oggi le
difficoltà sono tante e pericolose; soprattutto
si avvertono fremiti di disgregazione che fanno
tornare indietro le lancette della Storia.
La Scuola ha il dovere di dare di più e meglio a chi parte da condizioni di svantaggio.
La crisi certamente acuisce questo smarrimento,
rendendo ancora più nevralgico l’intervento
dei diversi soggetti sociali, in particolare della
Scuola; ma è proprio in questo difficile momento
che quest’ultima deve rivendicare a sé il ruolo di
soggetto sociale e, soprattutto, di guida spirituale
per coniugare coesione e sviluppo. La Scuola
deve imporsi al Paese tutto per il suo rigore
morale ed intellettuale nei confronti dei giovani
e per i giovani, per costruire quel futuro che non
spazzi via la tradizione e il passato, ma li valorizzi
e li attualizzi nella società globale del
futuro. Ormai, tutti sono convinti,
nel mondo contemporaneo, del
fatto che la vera ricchezza, più che
dalle materie prime, proienga dalle
conoscenze e da tutto il capitale
umano. Se vogliamo continuare ad
essere una pietra miliare nella storia
dell’umanità e competere da pari
a pari con le grandi potenze economiche, non
possiamo prescindere da una Scuola di qualità
che ha le sue radici profonde nell’impegno dei
docenti e nel merito degli studenti.
La società che abbiamo ereditato dalla
generazione precedente riconosce alla Scuola
il dovere di dare di più e meglio a chi parte da
posizioni di svantaggio. La meritocrazia verrà
solo dopo che avremo sanato le differenze che
derivano dai diversi contesti territoriali e sociali.
In un momento così difficile è necessario che
si faccia squadra, che si lavori tutti insieme per
aprire nuove prospettive ed indicare nuovi
orizzonti ai giovani che ci stanno davanti. È più
che mai il momento di trasmettere agli studenti
quei valori che sono propri di una società civile
e democratica: la solidarietà, la comprensione, la
tolleranza, la libertà di pensiero. È il momento di
insistere nello sviluppare nei ragazzi la capacità
critica, la capacità di interpretare ciò che accade
nel mondo in cui vivono. La Scuola statale, la
Scuola pubblica, è la Scuola di tutti, è la Scuola
democratica dove esiste il confronto e in questo
momento è l’argine alla deriva antidemocratica
che ci riporterebbe indietro di secoli.
Il dovere di chiedere alla Politica una
Scuola migliore. Proprio quest’anno scolastico,
il primo che ha visto la riforma entrare nelle aule
della Scuola secondaria di secondo grado, dopo
tanti altri tentativi naufragati, circa quarantamila docenti vanno in pensione senza tentare di
resistere a questo nuovo “status” sociale, perché
le condizioni di lavoro di oggi non sono quelle
di una volta e i docenti non sono più rammaricati per il fatto di andare in pensione; anzi, se
non fosse per gli alunni, la pensione verrebbe
paragonata alla libertà per l’ergastolano, una
gioia da conquistare! Eppure proprio in questo
momento, mi si presenta nella mente un sogno,
un bel sogno che mi riporta il sorriso e la gioia per
il lavoro e per il domani. Voglio chiedere a tutti
gli operatori scolastici, ed in particolar modo ai
docenti, di non far venire mai meno l’entusiasmo
dei primi anni d’insegnamento, di continuare ad
affrontare gli anni di servizio che restano con lo
spirito dell’esploratore e la gioia della scoperta,
di vivere una nuova stagione, senza pensare a
ciò che manca, quanto, piuttosto, a tutto ciò che
possiamo e vogliamo fare. Sono certo che, così
facendo, faremo un grande favore a noi stessi e
a tutta la comunità!
In questo sogno, qualcosa va chiesto anche
ai politici, nazionali e locali, che parlino meno
della Scuola, dei suoi operatori, delle discipline e
dei programmi ed operino, invece, nel realizzare
strutture più adeguate, ma soprattutto nel porre
la formazione dei giovani al vertice del bene
comune a cui sono invitati a dedicarsi. Nel sogno di una Scuola migliore non possono restare
fuori i giovani, i nostri studenti. A loro voglio dire
semplicemente che essi sono il futuro e per quel
futuro è giusto pretendere l’impegno dei docentiformatori, è giusto richiamare ai propri doveri
istituzionali i politici e quanti hanno il dovere
di fornire supporto alla formazione; ma è altresì
vero che essi debbono impegnarsi, impegnarsi
molto per realizzare i loro sogni; diversamente
questi resteranno nel cassetto e noi tutti saremo cancellati come tutti i “vinti” che la Storia ha
conosciuto.
Solo il riconoscimento dell’importanza della
coerenza, della dignità, della sincerità e dell’impegno come condizioni necessarie per conseguire gli obiettivi che ogni operatore scolastico si
pone, permetterà ai giovani di diventare cittadini
consapevoli e non sudditi inerti.
Giuseppe Vastola
Dirigente Scolastico del
Liceo Classico “T. L. Caro”
con sezioni annesse di Liceo Scientifico
e di Liceo Linguistico - Sarno
Lyceum Maggio 2011
5
l'opinione
Una prospettiva americana sui 150 anni dell’Unità italiana
UN PAESE ANTICO SUL LIMEN DELLA MODERNITÀ
S
6
Senza l’Italia,
impensabile l’America
pesso durante la prima lezione
di un corso di lingua italiana alla
mia Università di Towson, nel
contesto di una conversazione libera
su quel che gli studenti già sanno (o
credono di sapere) dell’Italia e degli Italiani, faccio
una domanda ridicola: l’Italia è un paese antico o
nuovo? “Antico! Antichissimo! Leonardo-Infernogondole-Le quattro stagioni-Colosseo-VesuvioTorre Pendente-Davide!” Con un lieve sorriso
delfico poi dico, “Ma pensate che l’Italia è libera
e unita solo dal 1861.” Fulmine – wow. Stupisce
proprio che un Paese notoriamente pieno di “roba
antica” sia più giovane del nostro, che si sia liberato durante la nostra Guerra Civile, conflitto che era
già sintomo di stanchezza e di delusione morali in
uno stato invecchiato al di là dell’innocenza delle
origini rivoluzionarie del 4 luglio 1776.
Ci colpisce nella vanità, perché ci consideriamo sempre un popolo nuovo, pieno di speranza,
ricco di possibilità; quasi fa male pensare che la
veneranda Penisola sia veramente più giovane
di noi. Ma reca anche una certa soddisfazione
psicologica: che sotto certi aspetti questo “Vecchio Mondo”, di cui l’Italia fa parte e dal quale
possiamo anche sentirci giudicati, non è poi così
maturo – le complicatezze della democrazia parlamentare che dall’Oltreoceano a volte vengono
caratterizzate come puro caos, o la squallida
vicenda di Amanda Knox , o Mafia/Camorra, o in
chiave positiva la pizza, il film d’essai del giorno
(ce n’è sempre uno: Io sono l’amore, qualche anno
fa La vita è bella, poco prima Il postino, e poco
prima di ciò Cinema Paradiso), Valentino-stilista/
Valentino Rossi, la Coppa Mondiale, o la strepitosa contemporaneità di Jovanotti.
Ecco la doppia immagine che ha
l’Italia all’estero. Da un lato è ed è
sempre stata patria della Cultura con
la C maiuscola: belle arti, splendido
patrimonio letterario che non rispetta
frontiere (la Commedia di Dante appartiene al
retaggio spirituale e intellettuale dell’umanità e
non solo dell’Italia), profonde radici e lunghe tradizioni, leggendaria eleganza. Dall’altro, appare
in prima pagina, va di moda, ci affascina e attira
con attrattive, non dell’Antico, ma del Duemila.
Nel salutare i centocinquanta anni dello
Stato Italiano, chiudo con un accenno a un legame ben più profondo di quelli suggeriti sopra,
che riflettono stereotipi e proiezioni al limite
del nevrotico. E questo legame quale sarebbe?
Ricordiamo che il nostro Abraham Lincoln, nei
giorni più cupi della Repubblica Americana, in cui
tutti i sogni della democrazia e dell’uguaglianza
rischiavano di andare in aria, invitava Garibaldi
ad essere generale honoris causa degli eserciti
del Nord. Non a caso, e non solo per l’immenso
prestigio del gran Liberatore in questo emisfero,
ma perché l’italianità stessa era già simbolo di
libertà e di solidarietà umana. Dal libero Comune
medioevale all’Umanesimo della Rinascita con
il suo culto della dignità e creatività individuali,
dalla schietta veracità dell’Eppur si muove di Galileo al fiero e personalissimo grido del Sempre
libera verdiano, l’Italia traccia una lunghissima
traiettoria verso la democrazia. Senza l’Italia,
impensabile l’America.
John C. McLucas
Professore ordinario di Lingua e Letteratura
italiana e Direttore del Dipartimento di lingue
straniere, Università Towson, Baltimora, USA
AN AMERICAN PERSPECTIVE ON THE
the opinion
150TH ANNIVERSARY OF ITALY’S UNIFICATION
I
IS ITALY OLD OR NEW?
usually start my Italian 101 classes
here with an open discussion of
what students already know (or
think they know) about Italy and Italians.
At a certain point, I ask a dumb question:
“Is Italy an old country or a new country?”
“It’s old, of course – way old! Look at Leonardo da Vinci – or Dante’s Inferno – or
gondolas – or Vivaldi’s Four Seasons – or
the Colosseum – or Mount Vesuvius – or
the Leaning Tower of Pisa – or Michelangelo’s
“David”! Then with a smug little smile I say, “Actually, Italy became a free and independent country
only in 1861.” This always gets a great reaction:
“Really? Wow!” Students are amazed that a country
which is famous for “old stuff” is actually newer
than ours, that it gained its freedom while we were
already fighting our Civil War. That conflict was
a symptom that our nation was already to some
extent morally tired and disillusioned, that we had
aged beyond the innocent revolutionary fervor of
July 4, 1776. It hurts our pride in a way to think of
Italy as “younger” than we are, because we like to
see ourselves as a new people, fresh and hopeful,
with our best days still before us. At some psychological level, however, it’s also somewhat satisfying
to think that in some ways the Old World of which
Italy is part, which we sometimes imagine looks
down on us, isn’t really all that grown up. We look
at the twists and turns of parliamentary democracy
and characterize them as mere chaos; we see the
awful Amanda Knox case, the Mafia, or – more
cheerfully – pizza, the latest Italian art film (at any
given time, there’s always one that everyone has
seen: “I am Love,” “Life is Beautiful,” “Il Postino,” or
“Cinema Paradiso”), Valentino the designer or Valentino Rossi the motorcycle racer, the World Cup,
or the always-amazingly hip Jovanotti.
This is Italy’s dual image for the rest of the
world. On the one hand, Italy is and
has always been the land of capital-C
“Culture,” with its fine arts, its truly global literary tradition (Dante’s Divine
Comedy belongs to the spiritual and
intellectual heritage of humankind,
not just of Italy), its deep roots, its
legendary elegance and beauty. On
the other hand, Italy shows up in the
headlines, it’s trendy, and it charms
and attracts us with the lure, not of the ancient and
venerable, but of the here and now.
In honoring the 150th anniversary of Italian independence and unity, I want to close by mentioning what I think is a much deeper connection than
those listed above, which mostly reflect foreigners’
stereotypes of and slightly morbid projections onto
Italy.What connection am I talking about? Let’s
recall that our revered Abraham Lincoln, in the
darkest days of our Republic, when it seemed that
all our dreams of freedom and equality might go up
in smoke, asked Garibaldi to serve as honorary general of the Union forces. This was no coincidence,
and it was not motivated only by Garibaldi’s huge
prestige as a freedom fighter in South America.
Rather, it reflected the fact that Italy in and of itself
was already synonymous with liberty and human
solidarity. Starting with the free city-states of the
Middle Ages and going through the Humanist cult
of individual dignity and creativity, from the frank
truthfulness of Galileo’s famous, “And yet it does
move” through the fierce, soaring cry for personal
freedom in Verdi’s “Sempre libera,” Italy has always
been on a pioneering trajectory towards democracy. Without Italy, there could be no United States
of America. Period.
John C. McLucas
“Professor of Italian Language and Literature,
Chair of the Department of Foreign Languages
Lyceum Maggio 2011
7
8
Strumenti
Non c’è limite, per essere in tema, alla produzione scritta, frutto di studio, approfondimento,
riflessione ed elaborazione personale di idee che ruotano intorno a fatti concreti per coglierne
il senso più profondo.
È il caso del contributo del Prof. Alfonso Tortora sul rapporto Dommatica ed Eresie, in cui centrale
è la figura di Alfonso M. de’ Liguori; una vera e propria lezione di storia, politica e religione che
dà la sensazione di tornare, da studenti, nelle aule universitarie.
Le lezioni, si sa, richiedono attenzione ed energia mentale e fisica; perciò, immaginando di
ricaricarsi con una buona cioccolata calda, ci immergiamo nell’affascinante storia del cacao, a
tratti suggestiva e misteriosa, come la Venezia de Il fuoco, vissuta in tutto il suo incanto in un
rapporto d’amore tra sogno e realtà, dove il tempo sembra sospeso. Il tempo che è protagonista
nell’opera di Giorgio Vasta, quel tempo in cui, come da recensione qui presentata, si sarebbe
dovuto amare ma non lo si è fatto.
E cosa dire del viaggio nel Risorgimento, trasportati dalla musica e dagli inni, dai più ai meno
noti, che ad esso hanno fatto da colonna sonora? Un viaggio ugualmente originale è quello che
ci introduce nell’opera del Verga, soprattutto laddove viene meno il muro di impersonalità dello
scrittore; ma anche alla filosofia liminare di Maria Zambrano, all’insegna dell’identificazione tra
pensare ed essere vivente, preludio al romanticismo amaro del Professore che ha conquistato
l’Ariston, cantando “la vita dell’uomo tra silenzio e tuono”.
Strumenti/Liminarismo
Manifesto del Liminarismo
10
Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello
metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno,
ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a
reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia”
(limen) e di “confine” (limes).
In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i
passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed
analizzare:
• il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe
dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che,
pur se cangiante, non è relativistica;
• il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle
azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di
senso da dare alle cose;
• i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e
cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base
dell’identità di una nazione o di una comunità;
• il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro;
• la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura;
• il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti
i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione;
• il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari;
• il ruolo della contaminatio fra culture diverse;
• la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”;
• il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come
rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico;
• il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia;
• il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare
e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo;
• il superamento del limite come propensione verso la conoscenza;
• il concetto matematico di limite come valore al quale tendere;
• il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”.
La Direzione e la Redazione di Lyceum
Manifesto of Liminarism
In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time
is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure
of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always
subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a
network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes).
According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study
the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following:
- the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the
stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision
which, while certainly subject to change, is not merely relativist;
- the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning
in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any
meaning to give to things;
- the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion
and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past
11
and present) on which national or community identity is frequently based;
- the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other;
- the function of law within both democratic and dictatorial regimes;
- the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which
appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas;
- the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as
repositories of traditional knowledge;
- the role of contaminatio among differing cultures;
- the line between normality and “ab-normality”;
- the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield
richer insights into a work of art than its macroscopic aspects;
- the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness;
- the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as
“translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a
word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply
original and unrepeatable form;
- the crossing of boundaries as a movement towards knowledge;
- the mathematical concept of limits as a value to be striven for;
- the process of “trial and error” in scientific research.
The Directors and Editors of Lyceum
La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof. John
C. McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora.
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
12
Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla
Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata
Manifest Liminaryzmu
13
Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora,
alto funzionario dell'Istituto Italiano di Cultura a Varsavia.
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
SAGGI
14
il “simbolo tridentino”
e la “teologia riformata”
In margine alle opere di
Alfonso M. de’ Liguori contro le eresie
S
ulle opere dommatico-erudite di Alfonso M. de’ Liguori. Il 1772 è l’anno in cui Alfonso M.
affida alle cure della stamperia di Gianfrancesco Paci di Napoli1 le bozze di una sua ulteriore
fatica dal titolo, emblematico e significativo, Trionfo della Chiesa cioè Istorie dell’eresie Colle loro
Confutazioni, opera che, opportunamente riletta ed emendata lo stesso anno dal de’ Liguori, vedrà la
stampa in edizione definitiva e “a spese Remondini di Venezia” l’anno seguente, vale a dire nel 1773.
In quel tempo Alfonso
M. era Vescovo di S. Agata
de’ Goti, lo sarà dal 1762 al
17752, e già qualche anno
prima si era espresso sul
tema dell’eresia sia con una
Breve dissertazione contra gli
errori de’ moderni increduli,
oggidì nominati materialisti
e deisti, stampata in Napoli
da Pellecchia nel l756, anno
coincidente, tra l’altro, con la
morte di uno dei suoi più importanti maestri di dogmatica e di morale, il canonico
Giulio Nicola Torno, sia con
un’Opera dommatica contro
gli eretici pretesi riformati,
stampato in Napoli ancora
dal Paci nel 1769 e corredata
da due appendici pubblicate
a parte, ma con la stessa data,
e contenente i seguenti titoli:
1) Del modo come opera la
grazia nella giustificazione del
peccatore e 2) Dell’ubbidienza
dovuta alle definizioni del
Concilio [di Trento], per conseguenza alla Chiesa cattolica
romana, fuori di cui non vi è salute.
In una più recente classificazione dell’abbondante, ma non eccezionale, per l’epoca in cui visse, produzione letteraria di Alfonso M. proposta
da Francesco Chiovaro, il quale formula la sua
proposta, assumendo come punto di partenza la
sicura ed ancora oggi accreditata catalogazione
offerta dal belga Maurice De Meulemeester nel
19333, almeno due delle tre opere su menzionate,
vale a dire l’Opera dommatica e il Trionfo della
Chiesa, rientrerebbero tra le «opere dommaticoerudite» del Vescovo di Sant’Agata dei Goti4; mentre, in luogo della Breve dissertazione contra gli
errori de’ moderni increduli, egli colloca in questo
nuovo ordine un’altra opera del Santo scrittore,
il cui titolo è Verità della Fede contro i Materialisti
che negano l’esistenza di Dio, i Deisti che negano la
religione rivelata, ed i settari che negano la Chiesa
Cattolica essere l’unica
vera, edita in Napoli
dal Di Domenico nel
17675.
Non è possibile in
questa sede seguire le
esatte motivazioni di
queste inserzioni ed
esclusioni proposte
dal Chiovaro, le quali,
indubbiamente, anche da un punto di vista filologico riflettono alcune rilevanti varianti contenutistiche dei testi fatti
oggi rientrare tra le opere erudite del moralista
napoletano. Ma forse appare importante precisare
almeno che alla base di questo nuovo raggruppamento, stilato anche su basi comparative tra le
edizioni apparse vivente l’autore e quelle stampate postume, si collocano soprattutto gli «indici»
di proposte editoriali, che sembrano muoversi
in relazione al momento storico in cui videro la
luce e, pertanto, verso i gradi di acculturazione e
di sociabilità dei destinatari dei discorsi proposti
15
dal Vescovo di Sant’Agata dei Goti in relazione
6
alla sua articolata opera pastorale . Conviene a
questo punto lasciare la parola al Chiovaro ed al
suo esercizio di lettura storica.
«Come per tutte le opere alfonsiane – scrive
il Chiovaro – l’apogeo editoriale delle Opere
dommatico-erudite si situa nel secolo XIX; ma
l’ultimo quarto dell’Ottocento segna la fine della
fortuna editoriale di questo tipo della letteratura alfonsiana: fra il 1871 e il 1876 si registrano
le ultime edizioni. Quest’ultima costatazione
– precisa il Chiovaro – merita qualche approfondimento. Che le Opere dommatico-erudite si
siano stampate durante un secolo costituisce
già un grosso successo. E questo fenomeno
bisognerebbe spiegarlo. Forse bisognerebbe
cominciare col chiedersi se il relativo successo
di queste opere alfonsiane non sia indice della
povertà dell’erudizione cattolica durante questo
periodo: in Italia prima (105 edizioni), ma anche
nell’area francofona (48 edizioni) e nei paesi di
lingua tedesca (16 edizioni) senza contare con
la potenziale diffusione delle traduzioni latine
(10 edizioni […])»7.
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
16
Si ripropone qui per il Chiovaro il problema,
del tutto evidente nell’Ottocento, della circolazione e ricezione delle Opere dommatico-erudite
di Alfonso M. e del rapporto genealogico che
si pone, per ragioni evidentemente storiche,
tra questi scritti e le istanze culturali avanzate
dalla società del tempo in cui videro la luce: il
Settecento.
Sappiamo che dell’Opera dommatica, vivente
l’autore, se ne stampò una sola edizione; che anche del Trionfo della Chiesa cioè Istorie dell’eresie,
ancora vivente l’autore, se ne stampò una sola
edizione; infine, che della Verità della Fede contro
i Materialisti, in vita l’autore, se ne stamparono
ben tre edizioni8. Quindi, se ne deduce che i primi
due argomenti, nonostante il carattere pastorale
e lo stile divulgativo, non ebbero quella penetrazione attesa in mezzo alla società del tempo.
Indiscutibilmente, l’operetta che ebbe un certo
successo editoriale è la Verità della Fede contro i
Materialisti, che dovette in qualche misura meglio
rispondere ai bisogni spirituali e, soprattutto,
culturali del tempo.
Abbiamo prima richiamato il canonico Giulio
Nicola Torno, maestro di Alfonso M. di dogmatica e di morale presso il Seminario napoletano,
Studium profondamente rinnovato e non solo
nella docenza teologica dal cardinale Cantelmo
Stuart9. Sarà proprio il canonico Torno, com’è
noto, nella sua qualità di “amico, estimatore e
revisore ecclesiastico di Giambattista Vico, a trasmettere ad Alfonso M., da un lato, la più chiara
comprensione dell’opera del Vico “giudicato
‘oratore’, ‘giureconsulto’, ‘erudito’ nonché ‘theologus’, mentre dall’altro, ha notato il Giannantonio,
«quell’atmosfera intellettuale opposta a quella
dei Caravita, perché il Torno era curialista o antiregalista intransigente»10. Sarà ancora il Torno che
consiglierà ad Alfonso M. di leggere la Medulla
Theologica di Louis Abelly (1604-1691), «che con
metodo cartesiano esponeva idee essenziali e
distinte», mentre per la morale suggeriva al de’
Liguori la Théologie morale di François Genete
(1640-1703) di indirizzo probabiliorista11. Così
facendo l’antigiansenista Torno avvezzava i suoi
allievi alla tolleranza per la dogmatica e al rigore
per la morale.
Ora, personaggi anche apparentemente così
lontani gli uni dagli altri come il Torno, l’Abelly,
François Genete offrono una comune lezione di
cultura, su cui Alfonso M., homo seriosus, costruirà
la sua breve, ma intensa riflessione/confutazione sui “materialisti e i deisti”, proponendo per
questa specifica circostanza
l’idea di una nuova “eresia”,
specialmente con riferimento al “Deismo”, che nega la
“rivelazione” come fatto del
pensiero, ma anche come
negazione della mediazione
di un Dio creatore del mondo e ispiratore nell’uomo
dell’anima immortale12.
D’altra parte, ben conosciamo la posizione teorica
del Vico, a cui Alfonso M. pur
Giambattista Vico
si ricondusse e non solo per
13
via del Torno , e la sua decisa opposizione al metodo razionalistico proposto dal Cartesio. Proprio
in sintonia con il pensiero del Vico, per Alfonso M.
il metodo matematico-deduttivo, come risultato
del filosofare, non riusciva a dar conto dell’autonomia del “probabile” e del “verosimile”, elementi
della speculazione che venivano, per converso,
ben espressi dall’eloquenza, dalla retorica, dalla
poesia. Pertanto, per Alfonso M. il “materialismo”
ed il “deismo” si presentavano come aspetti della
demagogia del suo tempo e, quindi, come negazione dell’ordine costituito e rappresentato dalla
Santa Chiesa Cattolica14.
I “confini” dell’eresia. L’idea dell’«eresia»
intesa come «demagogia» ha una lunga storia
in età moderna, ma che in pieno Illuminismo
settecentesco si mostra – forse per la prima
volta in maniera evidente – come problema da
storicizzare non in relazione al passato storico, ma
al presente «riformato» da comprendere soprattutto a partire dalle sue stesse radici. In questa
direzione si muovono alcune considerazioni di
Alfono M. verso i «latitudinaristi»15.
Il terreno sociale su cui si innestava il concetto di “riforma”, poi, – riecheggiando qui le
tesi classiche avanzate da Reinhart Koselleck
nella sua Critica illuministica e crisi della società
borghese del 195916 – implicava un processo di
ammodernamento laico della società, schema
interpretativo, questo, dominante tra i philosophes settecenteschi, al cui vertice si collocava
il pensiero illuminato mediato dall’azione dello
Stato, la cui opera combatteva un’aspra battaglia
contro la onnipotenza del clero e la manomorta
ecclesiastica, cacciando i Gesuiti (1773, l’ordine
venne soppresso da Clemente XIV), diminuendo
di assai il numero dei conventi e degli ecclesiastici, imponendo una legislazione giusrisdizionalistica mirante a colpire anche, ma in maniera
certamente più morbida, i ceti feudali.
Questi temi si ritrovano, per così dire, diluiti
nella materia dogmatica e con un elevato grado
di erudizione da Alfonso M. nella Verità della fede
contro i materialisti che negano l’esistenza di Dio,
i deisti che negano la religione rivelata, ed i settari
che negano la Chiesa Cattolica essere l’una vera.
Un’opera che oggi sarebbe possibile definire di
stringente attualità culturale e politica per l’epoca
in cui vide la luce, dove Alfonso M. riprende il
tema della “Verità della fede” contro i “materialisti”, i “deisti” ed altri settari, ai quali rimprovera
di negare, tra l’altro, che la Chiesa cattolica fosse
l’unica vera Chiesa voluta da Cristo17, confutando
inoltre alcune opere, una delle quali era quella di
Helvétius intitolata l’Esprit, di chiara ispirazione
volteriana, dove si conteneva il motivo antropologico, etico e politico della “materia pensante”,
che aveva nella stessa Francia suscitato le reazioni della Sorbona. Ma è in quest’opera che
si esprime soprattutto una interessante analisi
della patogenesi della società del tempo in cui
viveva Alfonso M. ed è qui che viene espressa
dal moralista napoletano una precisa posizione
di avversione contro chi pretendeva, partendo
dal principio di un ordine cosmico naturale, una
contrapposizione tra società, Stato e Chiesa cattolica. Del resto, non si dimentichi che Alfonso M.
rivestiva i panni del missionario, del predicatore,
del Pastore e del fondatore di un ordine religioso,
che per il Tanucci “odorava” di gesuitismo, i cui
compiti lo impegnavano anche in una rigorosa
valutazione scritta della morale sulla politica, del
privato sul pubblico e, quindi, sulla assoluta pos-
Lutero brucia la scomunica
sibilità e capacità di organizzare e di pianificare
la realtà sociale, cui era soggetta, ma sempre nel
rispetto dell’ordine ecclesiastico romano. È qui
che si coglie nella sostanza – come ha ben visto
Giuseppe Galasso – uno dei sensi più profondi
contenuti nelle Riflessioni utili a’ Vescovi per la
prattica di ben governare le loro Chiese, operetta
scritta da Alfonso M. nel 1745. Ciò sarà visibile
anche e soprattutto durante il suo episcopato
in Sant’Agata dei Goti.
Ermeneutica dei riformatori. In un interessante contributo dedicato alla figura di Lutero nella cultura italiana del Settecento, Daniele Menozzi
ben sottolinea come in quest’epoca in Italia «l’urgenza della lotta controriformistica sia ancora
così vivamente avvertita da impedire ogni sforzo
di storicizzazione del contesto della riforma, dal
momento che poteva suonare come pericolosa
concessione dell’avversario»18. Aggiungiamo,
inoltre, che l’immagine dei riformatori Lutero,
Calvino, ma non diversamente Zwingli ed altri,
emergente dalla complessiva letteratura controversistica del tempo, ribadiva, nella sostanza,
l’inclinazione libertina e sovversiva di questi personaggi, il cui animo, individualmente assunto,
tendeva a liberarsi dai rigori della vita ecclesiastica e a dedicarsi ai piaceri della vita materiale
e alla disorganizzazione
della società. Questo
imperante punto di vista si raccoglieva tanto
nel manuale della Historia ecclesiastica di Amat
de Graveson (1721) 19
Lyceum Maggio 2011
17
Strumenti/Liminarismo
18
quanto nell’Istoria di tutte le eresie […] compendiata ed accresciuta da G. Lancisi nel 173320. La
continuità dei tradizionali modelli interpretativi
dei riformatori Lutero, Calvino ed altri, subisce
qualche sensibile mutamento tra il primo ed
il secondo Settecento nel contesto cattolico
italiano e ciò per effetto – ha scritto il Menozzi –
anche delle «traduzioni delle storie ecclesiastiche
di Claude Fleury e B. Racine»21, dove un Calvino,
ad esempio viene presentato con un maggior
controllo critico, venendo addirittura accreditato, al pari di Lutero, come uomo di non comune
sapere teologico. Non va qui sottaciuta, inoltre,
l’importante traduzione italiana del Dizionario
delle eresie del Pluquet curata dal Contin22, opera
in cui Calvino e Lutero si presentano, tra gli altri,
come uomini dotati di logica e orientati ad eliminare dalla Chiesa cattolica ogni forma di abuso
e di scandali, ma che poi avevano, comunque,
oltrepassato ogni limite di sopportabile carità
cristiana e dato mostra di eccessivo orgoglio23.
Per converso, ben conosciamo la decisa opposizione del Giannone ai dogmi intransigentemente
sostenuti da Lutero e Calvino e ciò lo avvicina
molto all’eredità della Controriforma su questi
temi. In Muratori, invece, la prospettiva interpretativa dei Riformatori, con speciale riferimento
a Lutero e a Calvino, «si sposta da oggetto di
controversia teologica a terreno per l’indagine
storica»24, traslazione concettuale, i cui riflessi si
avvertono anche nell’esame dottrinale condotto
dal Genovesi nel volume Universae christianae
theologiae elementa dogmatica historica critica,
apparso postumo.
Eresie, eretici e processi. L’esame filologico della
Bibbia, che ancora in pieno
Settecento mancava, tra l’altro, di un’adeguata esegesi,
portò Alfonso M. a ritenere la
storia come una moltitudine
di processi, più o meno obbligati, da cui derivavano, come
causa diretta o indiretta, gli
eventi materiali ed ideologici
che, pervadendo l’uomo, lo
Pietro Giannone
attraversavano e ne definivano la sua condizione soggettiva. Tutto ciò, dobbiamo precisare,
in perfetta sintonia con il pensiero giuridico
napoletano ben orientato da Giambattista Vico
e da Pietro Giannone. Del resto, vale la pena qui
ricordare come il de’ Liguori, fu discepolo di Domenico Aulisio (1639-1717), giurista indirizzato
alla storicizzazione della realtà e ad una genesi
concreta del diritto25.
Alfonso M. visse, ed intensamente, le premesse e le conseguenze del rinnovamento
culturale napoletano della piena età moderna, le
cui premesse si annidavano nel Seicento, il secolo
della crisi, per intenderci, ma anche il tempo della
rinascita delle Accademie – si pensi, per fare un
solo esempio, all’accademia di Medinacoeli – del
rinnovamento linguistico e delle nuove eresie.
Circolavano le opere di Gassendi, di Cartesio,
di Galilei e l’ipotesi atomistica aveva prodotto
i Novatori, ben presto accusati di ateismo. Ma il
dibattito culturale tra Sei e Settecento proponeva
essenzialmente e per voce dell’Aulisio, maestro di
erudizione oltreché di diritto, l’esame dei fatti in
luogo delle teorie. Da qui ne risultava la «valorizzazione della storia con inevitabili riferimenti alla
Chiesa, alle sue secolari vicende e segnatamente
agli eventi delle sue origini evangeliche»26. Vigeva, inoltre, il problema del giansenismo. Dibattuto appariva il tema della teologia scolastica e la
sua validità. Ricche d’inquietudini e d’intrecci con
la scuola giurisdizionalistica si presentavano, poi,
le diverse controversie sulle origini stesse della
Chiesa, ripresentando un’accesa discussione
sulla metafisica e sulla condizione ecclesiastica.
Non ai margini di tutto ciò, ma al lato di
questi dibattiti si muoveva una corrente
di pensatori che cercava una certa conciliabilità tra la “nuova scienza” e la fede
cattolica, operando delle serie distinzioni
tra tradizionalismo scolastico e conservatorismo ecclesiastico. Espressione matura
e, dunque, erede di questa corrente di
pensiero, fu senz’altro l’opera pastorale e
teologico-morale di Alfonso M., il quale si
muoverà, come ben mostra il suo operato
nella qualità di Vescovo di Sant’Agata dei
Goti, ma non solo in quella circostanza,
nel segno sia di un rinnovamento delle
strutture ecclesiastiche di sua pertinenza, sia nello spirito di affermazione della predicazione itinerante
come valore dell’apostolato.
In questo sia pur rapido quadro di riferimento si coglie il senso
dell’Opera dommatica contro gli eretici
pretesi riformati, stampato in Napoli da
Paci nel 1769 e corredata da due appendici
pubblicate a parte, ma con la stessa data, e contenente i seguenti titoli: 1) Del modo come opera
la grazia nella giustificazione del peccatore e 2)
Dell’ubbidienza dovuta alle definizioni del concilio
[di Trento], per conseguenza alla Chiesa cattolica
romana, fuori di cui non vi è salute.
Alfonso M., da giurista quale era e da buon
allievo dell’Aulisio, in quest’opera – su cui manca
ancora una attenta riflessione storica – si esprime,
tra l’altro, contro la Storia del Concilio di Trento di
Paolo Sarpi, argomentando sulla apologia e sulla
demagogia del Sarpi e, pertanto, attribuendo allo
stesso la responsabilità di aver diffuso la peste
dell’errore, ossia l’eresia. Basti qui, per il momento, aver accennato al tema, che riprenderemo più
diffusamente in altra sede.
Tra eresie e confutazioni. Una ulteriore,
anche se ancora rapida osservazione richiede
il Trionfo della Chiesa, all’interno della quale
ritroviamo pure buona parte delle confutazioni
relative all’intransigenza dei dogmi dichiarati
dai Riformatori ed in particolare da Giovanni
Calvino.
In primo luogo occorre dire che l’opera si
articola in tre volumi, di cui il primo tratta delle
eresie che vanno dai primi secoli della Chiesa
fino al secolo XIV (Giovanni Hus, la sua condanna, ecc.); il secondo comprende il periodo che
va dal secolo XVI (Lutero, Calvino, ecc.) fino ai
Quietisti e alle questioni della “affettata santità”
(Molinos, ecc.); il terzo è interamente dedicato
alle “Confutazioni” delle varie eresie descritte nei
volumi precedenti.
Occorre dire subito che l’opera, nel suo insieme, riflette il clima culturale dell’età muratoriana.
D’altra parte, questo dato emerge dalle stesse
parole del Vescovo di Sant’Agata
dei Goti, il quale, nelle intenzioni
premesse all’opera, così scrive:
«mi ha spinto a dar fuori quest’Opera il vedere, che gli Autori moderni,
i quali meglio hanno appurati i
fatti, han parlato dell’Eresie, scrivendo essi dell’Istoria universale della
Chiesa, come han fatto il Baronio, Fleury,
Natale Alessandro, Tillemont, Orfi, Spondano,
Rainaldo, Graveson, ed altri; ond’essi – prosegue il Nostro – han parlato di ciascuna
Eresia, in diversi luoghi, secondo l’ordine de’
tempi, ne’ quali è uscita fuori quell’Eresia, o
ha fatto progresso, o è stata abbattuta; e perciò il Leggitore ha da scorrere diversi luoghi
dell’Opera per informarsi della nascita, del
seguito, e della sconfitta, che quell’Eresia ha
avuta. Io – continua Alfonso M. – all’incontro
ho procurato di unire insieme nello stesso
luogo tutte le notizie, che a ciascuna Eresia si
appartengono»27.
Ma appare decisamente interessante seguire
ciò che immediatamente dopo scrive Alfonso M.,
poiché dalle sue stesse parole si evidenzia un
ulteriore, interessante carattere dell’iniziativa.
«Di più – aggiunge il de’ Liguori – non tutti i
nominati Scrittori hanno addotte le confutazioni dell’Eresie; e queste confutazioni io le
collocherò nella seconda Parte di quest’Opera.
Non prenderò però tutte a confutarle, ma
quelle sole che hanno avuto maggior seguito,
come sono state quella di Sabellio, di Ario, di
Pelagi, di Macedonio, di Nestorio […], degl’Iconoclasti, de’ Greci, e simili. Delle Eresie poi,
che hanno avuto minor seguito, accennerò
in breve solamente gli Autori, e gli errori, la
falsità de’ quali si conosce dalla loro evidente
insussistenza, o pure dalla confutazione che
addurrò delle altre Eresie più celebri, che
poc’anzi ho nominate»28.
Dunque, dal contesto affiora chiaro il proposito di Alfonso M., che appare essere quello di
Lyceum Maggio 2011
19
Strumenti/Liminarismo
Cardinal Querini
20
compendiare, in un’opera sistematica ed organica, su basi comparative e valutative propriamente
storiche l’insieme delle eresie e, cosa ancora
più interessante, per asserzione dello stesso de’
Liguori viene espressa la necessità di confutare
«nella seconda Parte di quest’Opera» alcune
delle eresie storicamente documentate. Certo,
nel 1756 c’era stata l’opera del cardinale Angelo
Maria Querini, espressione di una necessità di
avvicinare il contesto dogmatico protestante con
quello cattolico29. Ma l’operazione del Querini
aveva riscosso scarso successo negli ambienti
ecclesiastici30. Più tardi, circa un decennio dopo,
il Trionfo della Chiesa, pur servendosi di un titolo
che appare un puro espediente retorico, nel suo
insieme si ispirava, almeno nella compilazione, al
pari del Baronio e della più generale trattatistica
controriformata, alla rivendicazione dell’eccellenza della storia sacra sulla profana. In essa si
insisteva sull’affermazione della qualità e della
verità tracciata dalla scuola cattolica e tridentina
sulla rivalutazione dei sacri testi, riproponendo in
campo cattolico il rinascere della critica testuale,
poco congeniale, per converso, agli eretici Lutero
e Calvino, sui quali, però, il moralista napoletano
cerca un allargamento delle indagini storiche.
In quest’ultimo punto rileviamo un interessante
momento di modernità.
La Controriforma, infatti, come ben sappiamo, puntando al rafforzamento dell’autorità
della Curia romana, aveva, tra i secoli XVI e XVII
potenziato e moltiplicato la visibilità della Chiesa
cattolica mediante la costituzione di nuovi ordini
religiosi o strutture confraternali ad essi affiliate.
Ma ciò aveva prodotto un duplice effetto: da
un lato, la concreta limitazione e diminuzione
dell’autorità e delle autonomie episcopali, dall’altro la frantumazione, nel corso del secolo XVII,
dei canoni della trattatistica «istorica» nata come
risposta a Flacio Illirico e ai suoi collaboratori. Vi
era stato, poi, tutto un immaginifico barocco, che
aveva prodotto nel corso del Seicento e parte del
primo Settecento un folto fiorire di storie universali della Chiesa, all’interno di ognuna delle quali,
sul modello della storiografia rinascimentale,
venivano adattati e modellati i fatti storici narrati
secondo un criterio egocentrico, che meriterà ai
Gesuiti l’appellativo di solipsi, come scriverà Lucio
Cornelio Europeo, noto anche come Melchior
Inchoffer, nella sua Monarchia Solipsorum scritta
nel 1645.
Nel Trionfo della Chiesa, invece, la stessa
utilizzazione della dogmatica cattolica ritrovava
il senso più pieno nella confutazione alle eresie
occorse in tutti i tempi, a cui si collegavano, in una
sorta di continuità temporale, soprattutto quelle
dichiarate da Lutero e da Calvino.
Sul vero senso delle Scritture. Scrive Alfonso M.: «Calvino adottò quasi tutti gli errori di
Lutero, il quale prima adottati aveva quasi tutti
gli errori delle antiche Eresie […]»31. In questo
modo Alfonso M., collocando gli errori di Lutero
e di Calvino nel passato storico, si avvicina di
molto all’idea dell’intuizione cristiana espressa
nel Triregno dal Giannone, per il quale la dolorosa
miseria della condizione umana si lega all’errore
compiuto nel passato e che senza la mediazione
sacramentale propria dei cattolici si traduce in
atto di fiducia nelle capacità dell’uomo, da cui
deriverebbe il fervore della Riforma32.
«Circa la sagra Scrittura – scrive il Vescovo di
Sant’Agata dei Goti – Calvino nel suo libro contra
il Concilio di Trento per I. toglie alla Chiesa l’autorità d’interpretare, e giudicare del vero senso
delle scritture […]»33.
Riaffermato il valore divino della Scrittura,
avendone confutati alcuni precisi dogmi enunciati da Calvino, restava aperto ad Alfonso M.
il grave problema dei rapporti esistenti tra la
filosofia e i «Libri sacri approvati dal Concilio».
Inoltre, la riduzione del Cristianesimo ai dogmi
dell’Incarnazione del Verbo, della resurrezione
dei morti nel giorno del giudizio, della vita eterna
successiva, assumeva nell’ottica di Lutero e di
Calvino, secondo Alfonso M., un preciso significato politico, in quanto minava alle basi la potenza mondana della Chiesa cattolica. Ma questa
semplificazione del contenuto della fede riduce
sensibilmente, secondo il Vescovo di sant’Agata
dei Goti, la possibilità di un accordo tra religione
e filosofia. Qui Alfonso M. cerca di rintracciare in
Calvino, ma anche in Lutero, in perfetta sintonia
con lo schema generale della sua opera dedicata
alle eresie, elementi epicurei, materialistici, stoici,
rintracciabili anche nelle posizioni gassendiane
e cartesiane, la cui rigidità rende impossibile
ogni accordo fra filosofia “moderna” e Scrittura.
Per Alfonso M. la ragione non escluderebbe la
fede, a condizione che la ragione si subordini alla
Tradizione dettata dai Sacri Canoni.
Alfonso M. rimprovera, ad esempio, a Calvino
di essere troppo“conchiuso” nei suoi principi,
nei suoi dogmi, «pertanto», annota il moralista
napoletano,
«dice Calvino che i Sagramenti non han virtù
di conferir la grazia, ma solo di eccitar la fede,
siccome la predicazione della Divina parola; e
perciò si burla de’ termini ex opera operato,
come noi diciamo; dic’egli, esser questa un’invenzione di Monaci ignoranti»34.
A differenza di Calvino per Alfonso M. la verità
della fede può essere raggiunta una volta per
tutte. Essa non è sottoposta ad alcuna prescrizione di tempo, ad alcun patrocinio di persona,
né a qualunque privilegio di nazione. Qui viene
affermata, in opposizione a Calvino il valore
storico di una verità eterna, che il tempo può riscoprire. La Chiesa cattolica, perciò, si pone come
depositaria di verità rivelate e deve, pertanto,
ottenere obbedienza assoluta. Quando cadono
dubbi sopra alcuni punti di fede già rivelata, nota
Alfonso M. nel confutare a Calvino la derisione
del «carattere sagramentale che s’imprime per lo
1
In una lettera del 27 marzo inviata al Remondini di Venezia, Alfonso M. parlava del Paci definendolo “il mio
stampatore”. Cfr. O. Gregorio, Valore critico delle edizioni Remondini e Paci, in S. Alfonso M. de Liguori, Opere Ascetiche,
a cura di O. Gregorio, G. Cacciatore, D. Capone, Introduzione Generale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960,
p. 80.
2
Su questo periodo cfr. M. Campanelli, Centralismo romano e «policentrismo » periferico. Chiesa e religiosità nella
Diocesi di Sant’Alfonso Maria de Liguori, Milano, Franco Angeli, 2003.
3
Bibliographie de st. Alphonse M. de Liguori, première partie, Louvain/La Haye, Imprimerie St-lphonse/
Nijhoff,1933.
4
F. Chiovaro, Sincronia e diacronia della tradizione in S. Alfonso M. de Liguori, in Alfonso M. de Liguori e la società
del suo tempo. Atti del Convegno internazionale per il Bicentenario della morte del santo (1787-1987), Napoli, S.
Agata dei Goti, Salerno, Pagani 15-19 maggio 1988, a cura di P. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1990, pp. 139-160:
qui pp. 144-145.
5
Ivi, p. 145.
6
Su cui cfr., tra gli altri numerosi contributi quelli di A. De Spirito, A. Marranzini e M. Campanelli, in La figura e
l’opera di Alfonso de Liguori nel Sannio, a cura di A. De Spirito, Milano, Ancora, 1999. Più di recente sul rapporto tra
dottrina e pratica pastorale di Alfonso M., intravista, però, attraverso le suggestioni prodotte in don Giueppe De
Luca e Gabriele De Rosa, si veda A. De Spirito, Sant’Alfonso, san Gerardo, don Giuseppe De Luca e lo storico Gabriele
De Rosa, in «Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris», 58 (2010), fasc. 2, pp. 229-279.
7
F. Chiovaro, Sincronia e diacronia della tradizione in S. Alfonso M. de Liguori, cit., pp. 147-148.
8
Ivi, pp. 144-145.
9
Cfr. A. M. Tannoia, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de’ Goti
e fondatore de’ preti missionari del SS. Redentore, rist. anast., Materdomini Valsele, Tipografia Materdomini, 1982,
p. 168-71. Per «gli anni di Seminario» cfr. anche T. Rey-Mermet, Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de Liguori (16961787), Roma, Città Nuova,1983, pp. 165-191. Sul Torno e la sua incidenza intellettuale su Alfonso de’ Liguori cfr.
le rapide, ma puntuali indicazioni in D. Capone, Le citazioni nelle opere ascetiche di S. Alfonso, in Opere ascetiche.
Lyceum Maggio 2011
21
Strumenti/Liminarismo
Battesimo, la Cena, e l’Ordinazione»35, la Chiesa
nel deciderli non può errare, perché allora decide come congregazione nella quale presiede lo
Spirito santo, che non può errare. Inoltre, l’enorme semplificazione introdotta da Calvino nella
dogmatica ridurrebbe, per Alfonso M., di molto
le competenze della Chiesa e ciò non potrebbe
mai essere.
In definitiva, per concludere qui queste noterelle su di una ricerca appena iniziata e ancora
tutta da volgere, intento di quest’opera di Alfonso
M. è di far vedere
22
«che la Chiesa Cattolica Romana è fra tutte
le altre Chiese l’unica vera, dimostrandosi la
cura, che Dio ne ha tenuta, facendola sempre
restar vittoriosa contra tutte le persecuzioni
de’ suoi nemici»36.
E ciò è in continuità con una lunga tradizione
ecclesiastica, le cui radici affondano le proprie
basi nella logica della Controriforma.
Alfonso Tortora
Università di Salerno
Introduzione Generale, cit., pp. 291- 388, in particolare pp. 341- 343 e nota n. 1, senza dimenticare dello stesso
autore, Primi incontri di s. Alfonso con la filosofia, in O. Gregorio, D. Capone, A. Freda, V. Toglia, S. Alfonso de Liguori.
Contributi bio-bibliografici, Brescia, Morcelliana, 1940, pp. 169 ss.
10
Cfr. P. Giannantonio, A.M. de Liguori e la cultura del suo tempo, in Alfonso M. de’Liguori e la società civile del suo
tempo, cit., p. 16.
11
Ibidem.
12
Cfr., su ciò, R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori e la filosofia del Settecento, in Alfonso M. de’Liguori e la società
civile del suo tempo, cit., pp. 127-138.
13
Sul punto cfr. A. Battistini, Convergenze e divergenze culturali tra Vico e de Liguori, in Alfonso M. de Liguori e la
civiltà letteraria del Settecento, Atti del Convegno internazionale per il tricentenario della nascita del Santo (16961996), Napoli 20-23 ottobre 1997, a cura di P. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1999, pp. 269-295.
14
R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori, cit., pp. 131-132.
15
Alfonso M. de Liguori, Breve dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli, cit., p. 47, su cui v. le considerazioni di R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori cit., pp. 134-135.
16
Trad. it. Bologna, il Mulino, 1972.
17
Cfr. R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori, p. 130.
18
D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, in Lutero in Italia. Studi nel V centenario della nascita, a
cura di L. Perrone, introduzione di G. Miccoli, Casale Monferrato, Marietti, 1983, p. 145.
19
Romae, apud F. Gonzagam, 1717-1721.
20
Roma, per Girolamo Mainardi, 1733.
21
D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, cit., p. 156.
22
F. A. Pluquet, Dizionario delle eresie, degli errori, e degli scismi: o sia memorie per servire all’Istoria degli Sviamenti dello Spirito umano rapporto alla Religione Cristiana, a cura di T. A. Contin, Venezia, presso Gian Francesco
Garbo, 1771 (ediz. seconda, «corretta ed aumentata di un Sesto Tomo intorno le Frodi degli Eretici dello stesso
Traduttore»). La prima edizione è del 1767.
23
D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, cit., p. 157.
24
Ivi, p. 150.
25
P. Giannantonio, A.M. de Liguori e la cultura del suo tempo, cit., p. 9.
26
Ibidem, p. 13.
27
Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa […], Napoli, Paci, 1772, pp. 9-10.
28
Ivi, p. 10.
29
Su cui cfr. C. Castelli, Il card. Angelo Maria Querini, in «Brixia sacra», 12 (1920), pp. 103-137.
30
Ciò si collocherebbe come indice dei dissapori esistenti tra il cardinale Querini e papa Benedetto XIV. Sul
punto cfr. C. Castelli, Il card. Angelo Maria Querini, cit.
31
Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa, cit., II, p. 487.
32
Cfr. B. Vigezzi, Pietro Giannone riformatore e storico, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 255.
33
Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa, cit. p. 487.
34
Ivi, p. 494.
35
Ibidem.
36
Ivi, I, p. 1
Antropologia e psicoanalisi
Un alimento liminare:
la cioccolata
“A dangerous
temptation?”
B
reve storia del cacao dall’anno Mille
a.C. alla scoperta dell’America. ll cacao entra nella storia del genere umano
prima dell’anno mille a. C., nella regione del
Centroamerica.
Gli Olmechi, stabilitisi in un’area corrispondente al Messico centro-meridionale, furono la
prima popolazione civilizzata del Mesoamerica ad
utilizzarla; la loro civiltà prosperò tra il 1400 ed il
400 a.C. e ad essa viene attribuita l’usanza del gioco della “pelota” e dei sacrifici umani. Gli Olmechi
diedero il nome di “Kakawa” alla pianta del cacao.
Fu, però, presso le popolazioni dei Maya e
degli Aztechi che si diffuse grandemente l’uso
del cacao. I primi agricoltori di cacao furono
i Maya; questa antica civiltà, che si è estinta per
cause misteriose nel X secolo d.C., occupò la
parte meridionale dell’attuale Messico e della
penisola dello Yucatan. Secondo una leggenda,
il cacao sarebbe stato introdotto per volontà del
loro terzo re Hunahpu ed abitualmente veniva
consumato come bevanda calda.
Gli Aztechi furono una popolazione di origine settentrionale, tribù dei Nahua. In nahuatl, il
linguaggio nativo degli Aztechi, “Azteco” significa
“colui che viene da Aztlan“, terra degli aironi: una
regione mitica nel nord del Messico. Gli Aztechi
si riferivano a loro stessi come Mexica o Tenochca: l’uso del termine “aztechi” come nome
generico per designare tutte le genti accomunate da tradizioni, abitudini, religione e lingua
ai Mexica è stato introdotto dal geografo
tedesco Alexander von
Humboldt.
Gli Aztechi occuparono tutto il centronord dell’attuale Messico, fondando la città
di Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico.
Questa fu costruita,
secondo la leggenda,
verso il 1325 o il 1370
su un’isola del lago
Texcoco e fu la prima
sede della monarchia
azteca, iniziatasi con
Lyceum Maggio 2011
23
Strumenti/Liminarismo
24
re Acamipichtli. I Mexica erano soliti
Anche la cioccolata era una
bere la cioccolata fredda e, nella
bevanda riservata a nobili, sacerdoti
loro lingua Nahuàtl, chiamavano
e guerrieri. Questa meravigliosa beil cacao “cacahuatl” e la cioccolata
vanda era usata anche in cerimonie
“xoxocoatl”. L’etimologia delle pareligiose, venendo accostata alla
role “cioccolato” e “cioccolata” podivinità Xochiquetzal, o Ichpuchtli,
trebbe derivare dall’accostamento
che, secondo la mitologia azteca
di due termini di lingua azteca: xoc,
è il nome della dea dei fiori, della
il rumore che la bevanda provoca
fertilità, dei giochi, della danza e
quando viene sbattuta per ottenere
dell’agricoltura, oltre che degli artila schiuma, e atle, l’acqua che si
giani, delle prostitute e delle donne
aggiunge al cacao per ottenere la
incinte. Secondo la tradizione l’imbevanda insieme a spezie o pepeperatore Moctezuma II beveva fino
Alexander von Humboldt
roncino, mancando lo zucchero,
a 50 tazze di cioccolata al giorno ed
sconosciuto agli Aztechi. una, sempre, prima di accedere alla stanza di una
L’alimentazione azteca comprendeva ceredelle sue favorite. Presso le popolazioni mesoaali, fagioli, chili e pomodori, che sono tuttora
mericane pare si svolgessero veri e propri riti di
importante parte della dieta Messicana. Inoltre,
culto durante l’operazione della coltivazione del
gli Aztechi pescavano gli Acocil, piccoli crostacei
cacao: il cibo degli dei consacrava un’alleanza
che abbondavano nel lago Texcoco, nonché
tra l’uomo e la divinità; durante tutto il periodo
alghe dalle quali ricavavano una sorta di torta.
della coltivazione del cacao l’intera popolazioTra gli alimenti erano preminenti gli insetti,
ne si sentiva coinvolta in una totale astinenza
come grilli, vermi, formiche, larve, utili per la
sessuale a cui facevano seguito, al momento
loro abbondanza di proteine, e ancora oggi
della raccolta, delle cerimonie orgiastiche che
considerati una prelibatezza in alcune parti del
andavano a rispecchiare quell’unione tra Dioniso
Messico. In particolare, erano e sono tuttora oge l’uomo. Questi sono esempi della tradizionale e
getto di allevamento, nel Lago Texcoco e in altri
leggendaria potenza afrodisiaca della cioccolata,
laghi salati, alcune specie di cimici acquatiche,
che verrà poi confermata, nei secoli successivi, da
note con il nome di axayácatl, e le cui uova sono
famosi personaggi.
utilizzate per produrre l’ahuautle, il ricercato
In relazione alla loro esigua disponibilità ed
“caviale messicano”.
alla importanza e valore (nutritivo e simbolico)
Gli Aztechi utilizzavano in modo estensivo
del loro prodotto, i semi del cacao erano usati
l’agave americana, dalla quale ottenevano cibo,
in operazioni di scambi commerciali e, per un
zucchero, nonché fibre per corde e vestiti. Dalla
certo esteso periodo della loro storia, il cacao rappianta si ricavava infine il pulque, una bevanda
presentava per loro quella che per noi è oggi la
fermentata con un contenuto alcolico paragonamoneta, un vero e proprio “oro nero”; naturalbile a quello di una birra, e liquori quali Tequila e
mente più grossi erano i semi più valore essi
Mezcal che contiene all’interno un piccolo verme,
avevano: così, ad esempio, per l’acquisto di un
che deriva da una larva che vive nell’agave. Tali
tacchino o di uno schiavo occorrevano circa 100
bevande alcooliche erano riservate alla sola
semi grossi; mentre una dozzina erano necessari
classe dei nobili e dei sacerdoti; il resto della poper guadagnarsi la compagnia di una prostituta e
polazione poteva bere solamente nel corso delle
10 per l’acquisto di un coniglio. Ai semi più piccoli
cerimonie religiose (ciò era concesso anche ai
spettava invece una funzione più propriamente
prigionieri prima di essere sacrificati). Ubriacarsi
gastronomica o anche farmaceutica: gli Aztechi
prima dei 60 anni era comunque proibito; per le
se ne servivano come ricostituenti oppure li
prime violazioni vi era una certa tolleranza, ma
utilizzavano per risanare le piaghe.
l’ubriachezza ripetuta era punibile con la morte.
1502: un anno liminare per la gastronomia
riconducibile ad un antico rettile volante del
europea. La data ufficiale della “scoperta del
tardo Cretaceo, il Quetzalcoaltlus il cui nome
cacao” è il 30 luglio 1502, giorno in cui gli Aztederiva appunto da Quetzalcoatl. I resti fossili
chi, andati incontro alla Santa Maria, offrirono
di questo pterosauro gigante sono stati rinvea Cristoforo Colombo, durante il suo quarto e
nuti per la prima volta negli anni ’70, e furono
ultimo viaggio alla ricerca dell’oro, oltre a tessuti
descritti da Douglas A. Lawson nel 1975. I ritroe cuoio lavorato, anche la loro moneta, cioè i
vamenti erano molto frammentari, ma le poche
semi di cacao.
ossa degli arti, paragonate a quelle del grande
Alla storia del cacao e della conquista delle
Pteranodon, furono sufficienti a ricostruire uno
Americhe è legata anche la leggenda del dio
pterosauro dall’apertura alare di circa 18 metri,
Quetzacoàltl (Kukulkan in Maya) che letteralovvero un’apertura alare pari a quella di un cacmente significa serpente con piume di Quetzal.
ciabombardiere, dal collo smisuratamente lungo,
La mitologia narra che il Dio possedesse un imcon il cranio che doveva essere molto più grosso
menso tesoro composto da tutte le ricchezze del
di quanto precedentemente ipotizzato, ma di
mondo, oro e argento, pietre verdi chiamate chalcostituzione leggera e fornito di una cresta, che
chiuitl ed altri oggetti preziosi, come una grande
avrebbe potuto giustificare l’impressione della
abbondanza di alberi di cacao di diversi colori.
presenza di piume.
La leggenda narra che, quando Quetzalcoàtl era
Tuttavia solo alcuni anni dopo gli europei
ancora un re, a causa di una grave malattia che lo
avranno modo di apprezzare questo cibo divino;
aveva colpito, venne spinto a bere una pozione
così infatti, nel 1753, Carl Linnaeus (1707-1778)
che anziché guarirlo lo portò alla pazzia: egli fuggì
chiamò la pianta del cacao : “Theobroma cacao
allora verso il mare su una zattera di serpenti
linn”, a conferma della bontà del suo frutto
intrecciati. Nel fare ciò Quetzalcoàtl promise che
(“ες” «dio» , “ρµα” «cibo»). Furono i monaci
25
avrebbe fatto ritorno per riprendersi il suo regno
spagnoli, grandi esperti di miscele e infusi, a sonell’anno posto sotto il segno del “Ce-acatl”.
stituire il pepe e il peperoncino con lo zucchero e
Secoli più tardi, nel 1519, anno sotto il segno del
la vaniglia creando una bevanda dolce e gustosa;
“Ce-acatl”, una grande nave carica di uomini con
ai monaci spagnoli va anche il merito di aver sotscintillanti armature con scaglie di serpente ed
tolineato l’alto potere nutrizionale del cioccolato.
elmetti piumati, fece la sua comparsa vicino alla
In Toscana si cominciarono ad aggiungere alcuni
costa orientale del regno azteco.
particolari ingredienti: le scorze fresche di cedrata
Immediatamente l’imperatore Montezuma
e limoncello, aromi di gelsomino, cannella, ambra
credette alla profezia, pensando che lo spagnolo
e muschio.
fosse la reincarnazione del “Serpente piumato” ed
Protagonista indiscussa era la cioccolata al
accolse pacificamente quella nave
gelsomino del Granduca Cosimo III
pronto a restituire il regno al Dio
dei Medici, inventata nel Seicento
Quetzalcoàtl (che nella tradizione
dallo scienziato Francesco Redi e
era bianco ed aveva una fluente
da considerare come il primo vero
barba). Fu così che Hernàn Cortès
esperimento di ingegneria botanied i suoi uomini furono accolti con
co-culinaria. La sua preparazione,
grande sfarzo e vennero offerti
infatti, era stata descritta in una
molti doni quali oro, argento, pietre
ricetta che elencava in dettaglio inpreziose, schiave e… cesti pieni di
gredienti, dosi e procedimento, ma
semi di cacao, accompagnandoli
proprio per tale motivo divenuta un
con coppe di oro piene di cioccolata
vero e proprio segreto di stato tanto
offerta da bere.
che poteva essere gustata solo alla
Secondo alcuni, il mito di Quetcorte del granduca. La cioccolata
Carlo Linnaeus
zalcoàtl aveva un’origine reale
era particolarmente gradita alla
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
26
corte del re Sole, dove se ne apprezzavano anche
le qualità afrodisiache: Madame de Pompadour
soleva mescolarla all’ambra grigia, mentre Madame du Barry la offriva ai suoi amanti. Goethe, dal
canto suo, non viaggiava mai senza portare con
sé la sua cuccuma per la cioccolata.
Nell’Inghilterra del ‘700, i Quaccheri detenevano il primato di maestri cioccolatai: osteggiati
in tutti i lavori tradizionali, trovarono in quel
nuovo mestiere il loro lucroso rifugio. Inoltre,
consideravano il cioccolato una valida alternativa
all’alcool e, per sanare la piaga dell’alcolismo,
crearono e diffusero in tutto il paese le “Sale da
cacao”, antagoniste delle peccaminose birrerie.
L’italiano Giacomo Casanova (1725 - 1798) era
solito “stimolare” le sue performances erotiche
bevendo tazze di cioccolata. L’elenco di personaggi famosi “affezionati”
al cacao continua ancora per arrivare ai maestri
cioccolatieri: in Olanda Coenraad Johannes van
Houten (1801, Amsterdam - 1887, Weesp) inventa
una macchina per estrarre il burro di cacao, la
bevanda comincia a diventare più fluida e quindi
più gradevole, attraverso l’eliminazione della
componente amara del gusto: “Dutch process”;
in Svizzera, alla fine del 1800, lo Svizzero Daniel
Peter aggiunge al cioccolato del latte condensato, ottenendo un cioccolato al latte di consistenza
solida. Sempre alla fine del 1800, un altro svizzero,
Rudolph Lindt, sviluppa un metodo nuovo ed
originale per raffinare il cioccolato, il risultato è
un prodotto finito estremamente fine: è il cioccolato fondente.
Un confine incerto: cacao1, cibo divino e
remedium o noxa patogena? Resta ora da affrontare il problema se questo cibo divino debba
essere considerato una potenziale “noxa” ovvero
un “remedium”.
Certamente siamo a conoscenza del fatto
che tra i vari potenziali “triggers” della crisi
emicranica, in particolare tra quelli alimentari,
la cioccolata può essere fattore importante e
piuttosto frequente.
Qui riporto un parziale elenco di “triggers”
alimentari:
• Formaggi piccanti o stagionati,
• Salumi (hot dog, pancetta, prosciutto e
salame)
• Agrumi
• Grassi o fritti
• Cioccolato, noci
• Glutammato monosodico
• Coloranti, additivi
• Aringhe marinate, fegatini di pollo
• Gelato
• Yogurt, panna acida
• Carne ed estratti vegetali
• Carne di maiale e frutti di mare
• Fichi in scatola, fagioli, pomodori
• Astinenza di bevande che contengono
caffeina (caffè, tè, tutte le “Cola” soft drink)
• Bevande alcoliche (vino rosso, birra)
• Aspartame, nitriti, solfiti.
Del resto qualcuno ha asserito che la cioccolata rappresenta la conciliazione degli opposti,
perché è :
sia solida che liquida,
chiara e scura ,
dolce e amara,
bisessuale (‘’cioccolata’’, una bevanda
calda, ‘’cioccolato’‘, tavoletta fredda e
dura).
Dunque ritengo giusto considerare anche gli
aspetti positivi di questo importante nutriente
che contiene quasi 380 componenti chimici.
Analizziamo alcuni di essi:
1. I Flavonoidi e i lipidi d’origine vegetale
(rappresentati dall’acido stearico, palmi-
2.
3.
4.
5.
tico ed oleico, presenti nel
burro di cacao) esplicano
una importante azione
antiossidante ed ipocolesterolemizzante.
Alcuni suoi componenti
esercitano una importante azione protettiva
sui denti; il Fluoro è un
importante costituente dello smalto, i Fosfati
bloccano gli acidi formati
dal metabolismo degli
zuccheri, i Tannini, contenenti il 6% di
polidrossifenolo, inibiscono lo sviluppo
di batteri.
Il Triptofano che è un amminoacido
essenziale ed è fondamentale nella produzione della Vitamina B3, Niacina, e del
neurotrasmettitore serotonina.
La Teobromina e la Caffeina; fanno parte
della classe delle methylxanthine, come
la teofillina; tra le due la Teobromina è
l’alcaloide principale del cacao (in molta
minor misura è presente la caffeina: in
effetti un grammo intero di cioccolato
al latte non contiene più caffeina di una
tazza di caffè tipico “decaffeinato”) ed è
presente anche nel tè e nel guaranà. La
Teobromina ha un sapore amaro che
è responsabile del gusto tipico del cacao; ha effetto stimolante, antiartmico,
ipotensivo, antiasma, vasodilatatore
(afrodisiaco?). Attenzione a non dare la
cioccolata ai nostri cani: in essi (come
nei cavalli) può determinare effetti tossici
molto pericolosi, quali aritmie cardiache
e crisi epilettiche!
La Phenylethylamina - PEA -, definita
anche anfetamina endogena, è una
sostanza amfetaminosimile in grado
di favorire il rilascio di Noradrenalina e
Dopamina (quest’ultima in particolare
nei centri del “reward” mesolimbico), con
potenziale effetto di migliorare memoria
e tono dell’umore; essa viene catabolizzata da Mono Amine Oxidasi type-b
(= phenylethylaminasi); viceversa IMAO-b,
quali Selegilina e Rasagilina, farmaci antiparkinsoniani, sono
in grado di prolungare
l’azione benefica del
PEA nella cioccolata.
6. Il Tetrahydrocannabinolo (THC) invece
non è significativamente presente nella
cioccolata e questo
dimostra come non si possa diventare
“abusers” farmacologici dalla cioccolata
7. L’Anandamide letteralmente deriva da
Ananda ( parola che in sanscrito significa
“divina beatitudine”) e Amide; essa è una
amide che fa parte della categoria degli
Endocannabinoidi (questi si giustappongono agli Esocannabinoidi o Fitocannabinoidi, esogeni, di origine vegetale); tali
sostanze interagiscono con recettori di
27
due tipi: CB1 (soprattutto distribuiti nel
cervello ed in alcuni organi interni) e CB2
(sulle linfocellule T del sistema immunitario e nel SNC, con azione anti-infiammatoria e immunomodulatrice. Le funzioni
degli Endocannabinoidi sono tuttora
oggetto di studio, ma probabilmente
sono molteplici ed inerenti a meccanismi
quali: regolazione dei circuiti cerebrali del
vomito, modulazione dell’appetito e della
spasticità (sclerosi multipla), attività analgesica, intervento in processi che regolano la memoria, azione anticonvulsivante,
vasodilatante e ipotensiva, regolazione
dei processi riproduttivi, modulazione
della risposta immunitaria, azione antiossidativa , funzione “anti-stress” simile
alle endorfine, regolazione dei processi
di proliferazione cellulare (tumori)
8. L’ N-oleolethanolamina and N-linoleoylethanolamina rappresentano composti
strettamente imparentati con l’Anandamide, essendo in grado di prolungarne gli
effetti, rallentandone il metabolismo.
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
A conclusione, voglio ricordare con ammirazione le parole di un grande ricercatore di
conoscenza, quale fu Alexander von Humboldt
(1769-1859), che, pur mancando delle attuali
nozioni, scrisse: “In nessun altro posto la natura
ha stipato la più importante quantità di sostanze
nutritive in un posto così piccolo come ha fatto
con il seme del cacao”.
Giacomo Visco
Neuropsicologo e Psicoanalista
28
1
“Il cacao merita sicuramente il nome di teobroma (cibo degli Dei)! È cibo e bevanda, è conforto al ventricolo
e sferza il cervello: eccita l’intelligenza e nutre riccamente. Conviene ai vecchi e ai giovani, ai deboli e alle persone
prostate da lunghe malattie. Per chi lavora, il cacao offre un eccellente cibo mattutino”. Così scriveva nell’800 Paolo
Mantegazza, fisiologo, antropologo, patriota e uomo politico italiano, anticipando gli effetti di questa sostanza
su cuore e cervello, pur senza conoscerne appieno i componenti.
letteratura italiana/1
Un rapporto “in limine” tra sogno e realtà
piacere”), non possiamo pensare che tutte le
vicende del romanzo veneziano siano state
vissute in prima persona dall’autore.
Per il “vate” conta solo la verità dell’arte:
così il paesaggio toscano de “La sera fiesolana” è il calco di quello umbro che troviamo
appuntato in occasione di un suo viaggio
ad Assisi.
D’Annunzio non solo non ha partecipato
al funerale di Wagner, ma non si trovava neppure a Venezia. Ha cominciato a conoscerla e
a vagheggiarla attraverso gli scrittori che hanno
contribuito a crearne il mito a partire dalla seconda metà del Settecento. Innanzitutto Ruskin,
(ne “Le pietre di Venezia” troviamo “Là sono stati
29
lavorati i marmi di mille montagne, e le offerte
di mille isole si sono incontrate in un’unica nube
d’incenso – e da questa mascherata da questa
danza di regni e di tempi è sorta un’unica fantastica armonia marina, la più dolce di quante l’anima
umana abbia mai concepito”), la cui suggestione
è tanto potente da influenzare profondamente
anche Proust, che lo traduce in Francese, e Pater,
il quale, parlando di Giorgione, asserisce che tutte
le arti aspirano costantemente alla musica; ma
anche Barrès che la associa alla morte miasmatica
(“La morte di Venezia”), de Régnier che la interpreta come sopravvivenza di un tempo ormai
passato (vittima anche lui, secondo i superstiziosi,
di quella Ca’ Dario che
D’Annunzio definiva “una
vecchia cortigiana piegata sotto il peso dei suoi
monili”), Diehl che tende
a identificarla con Bisanzio (studioso della civiltà
bizantina, ha dedicato alla
città veneta “Venezia. Una
repubblica patrizia”).
Lyceum Maggio 2011
Ca’ Dario
n un romanzo così sofferto dall’autore e così,
per molti versi, disomogeneo come “Il fuoco” sono
sicuramente tra le pagine più
toccanti e coinvolgenti quelle che descrivono il funerale
di Wagner a Venezia.
Il protagonista, Stelio Effrena-D’Annunzio, non appare un distaccato osservatore
esterno delle esequie, ma un protagonista attivo
con i suoi compagni. I particolari così precisi,
l’emozione a stento trattenuta creano nel lettore
il convincimento che è proprio stato D’Annunzio
a portare il feretro o per lo meno che l’autore ha
assistito in prima fila al funerale.
Il mondo pareva diminuito di valore. Stelio
Effrena domandò alla vedova di Riccardo Wagner
che... fosse concesso l’onore di trasportare il feretro
dalla stanza mortuaria alla barca e dalla barca al
carro. Tanto fu concesso.
Tuttavia a una lettura un po’ meno ingenua ci
si accorge della trasfigurazione epica cui l’evento
è soggetto: Wagner è “l’eroe”; la fedele compagna, quasi con stile formulare, viene definita
“donna dal volto di neve”, che potrebbe ricordare,
tra l’altro, “Isotta dalle bianche braccia”.
Ad ingannarci cospira anche la propensione
evidente ne “Il fuoco”, ma presente in gran parte della produzione dannunziana, a inserire elementi autobiografici e scritture
private che, però, non contribuiscono
a ricostruire realisticamente la sua
vita, ma a forgiarne il mito.
Come non può essere totale
l’identificazione con Andrea Sperelli
(l’”imaginifico” non era né nobile, né
romano come il protagonista de “Il
Richard Wagner
I
D’Annunzio e Venezia
Strumenti/Liminarismo
30
Stando alle fonti più attendibili, non ultima
Gino Damerini col suo “D’Annunzio e Venezia”, il
primo incontro con la città che tanto lo suggestionò avvenne solo nel 1887, ben quattro anni
dopo la morte del compositore tedesco.
Due furono gli avvenimenti che attirarono il
poeta a Venezia: l’inaugurazione del monumento
a Vittorio Emanuele II e l’apertura della Sesta
Esposizione nazionale d’Arte. Il primo contatto
vero con la città è, quindi, di natura politica e
nazionalistica, ma anche pervaso da suggestioni
artistiche. Questi due aspetti attraversano tutta
la produzione dannunziana da “Il fuoco” a “La
nave”. La Serenissima diventa per lui non solo la
città d’arte e decadenza, che aveva conosciuto
attraverso il filtro della letteratura, ma anche la
protagonista del sogno politico di dominio sul
mare che trova la sua espressione più enfatica
nella tragedia “La nave”.
Probabilmente D’Annunzio tornò a Venezia
diversi anni dopo, grazie al suo traduttore francese Hérelle, in una veste
molto più privata, solo
nel ’94. Ma anche qui la
confusione tra biografia
e letteratura agisce: ne
“Il trionfo della morte”
Giorgio Aurispa passa
due giorni al “Danieli”
L’hotel “Danieli”
con la sua amante, Ippolita Sanzio.
Rivissero di minuto in minuto i due giorni di vita
segreta, nell’albergo Danieli, i due giorni d’oblìo, di
suprema ebrezza, in cui parevano entrambi avere
smarrito ogni nozione del mondo e quasi ogni
conscienza del loro essere anteriore.
Non mancano particolari realistici (o apparentemente tali):
Ricordi il frappé del Danieli, a Venezia? Ah, come
mi piace quando scende lento lento a fiocchi!
Nei lettori nacque la certezza che anche
l’autore avesse soggiornato nel lussuoso albergo
veneziano con Barbara Leoni.
Se fino al ’94 il fascino di Venezia è soprattutto artistico e letterario, a partire forse da
quest’anno entra in scena la più grande attrice
italiana dell’epoca, Eleonora Duse: quella che
diventerà la Foscarina de “Il fuoco”. Anche qui
le leggende abbondano; ci possiamo limitare
a menzionarne due: il primo episodio sarebbe
avvenuto a teatro nel camerino dell’attrice, dove
il poeta l’avrebbe sorpresa in lacrime (recitava ne
“La signora delle camelie”) e le si sarebbe rivolto
definendola “grande amatrice”; il secondo aneddoto, invece, riguarda un incontro a Venezia tra il
giovane, stremato da una notte di vizi, e la Duse
che gli avrebbe chiesto di scrivere per il teatro.
Sull’autenticità dei due episodi vi sono forti
dubbi. Comunque dal sodalizio artistico e sentimentale con l’attrice nasceranno molte delle più
importanti tragedie dannunziane e si rafforzerà
il rapporto viscerale con la città lagunare, vera
protagonista del romanzo; ma ciò che attirerà
l’interesse morboso dei lettori sarà soprattutto
l’identificazione della coppia Stelio-Foscarina
con quella Gabriele-Eleonora.
Eppure probabilmente la malia de “Il fuoco”
nasce proprio dalla rappresentazione di Venezia,
dapprima città ignea e poi della tenebra, del
silenzio. Il personaggio della Foscarina trae la
sua linfa vitale non solo dal suo amore infelice
(il suo senhal è Perdita) o dalla sua rappresentazione nicianamente dionisiaca, ma anche dall’
identificazione esplicitata più volte con la città
lagunare:
Anch’egli tremava nell’intimo cuore, avendo
innanzi a sé le due mire verso di cui si tendeva in
quella sera la sua forza come un arco: la città e la
donna, entrambe tentatrici e profonde, e stanche
di aver troppo vissuto, e gravi di troppi amori, e
troppo da lui magnificate nel sogno, e destinate a
deludere la sua aspettazione.
Venezia e l’attrice sono accomunate
dalla loro potenza di
seduzione, dalla corrosione del tempo (lei si
riconosce nelle statue
mutile delle ville sulla
Riviera del Brenta) e dai
troppi amori, ma anche
dall’ossessione del labirinto che percorre tutto
Eleonora Duse nella
“Signora delle camelie”
il romanzo (momento
chiave lo smarrimento in quello di Stra) e soprattutto dalla corruzione che nasce dal contatto con
la gente: per l’attrice il suo pubblico, per Venezia
i turisti dal “piede profanatore”.
Anche per Venezia, quindi, può valere
quanto Pirandello denunciava per Roma attraverso le parole di Anselmo Paleari ne “Il fu Mattia
Pascal”:
I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo
fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese
siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro
sigaro...
Carlo Pica
Docente di Lettere
Liceo Scientifico “Ugo Morin”
Mestre - Venezia
31
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
letteratura italiana/2
Un romanzo liminare
Il tempo materiale
Quello in cui si sarebbe
dovuto amare e non lo si è fatto
U
32
no dei periodi più difficili dell’Italia unita
è stato sicuramente quello del terrorismo brigatista. È un periodo da non
dimenticare perché l’Italia appare ancora oggi
una nazione immatura che non ha voglia di fare
i conti fino in fondo con la sua storia e, perciò,
come dice Giorgio Vasta, rischia di implodere,
tornare al punto di partenza.
Il romanzo di Vasta, ambientato negli anni
delle Brigate rosse, offre l’occasione per riflettere su questo periodo ma anche sulle occasioni
perse, dall’unificazione politica in poi, perché il
nostro diventi un paese normale.
Tra realtà e letterarietà. Il tempo materiale,
pubblicato dalle edizioni minimum fax, è il primo
romanzo di Giorgio Vasta, un giovane scrittore
siciliano trapiantato a Torino. Primo romanzo,
ma opera già matura e di grande interesse, che
racconta la vicenda di tre ragazzini palermitani,
emuli, nel 1978, delle azioni delle Brigate rosse.
La storia in sé non è particolarmente originale, se non per l’età dei tre protagonisti e della loro
vittima, tutti poco più che bambini. E, tuttavia, la
scelta dell’età
rappresenta
un elemento di non
trascurabile
importanza e
niente affatto
s e co n d a r i o.
Anzi, potremmo dire che è
un elemento
liminare che
Giorgio Vasta
decide le sorti del romanzo, perché se Nimbo, Raggio e Volo, - gli
appellativi sono nomi di battaglia che i ragazzi
scelgono per evitare la banalità dei nomi comuni - avessero avuto qualche anno in più, l’opera
sarebbe potuta essere derubricata ad una sorta
di cronaca di uno dei tanti fatti generati in quegli
anni dall’imitazione delle imprese brigatiste e
realmente accaduti in luoghi periferici, rispetto
ai centri più direttamente coinvolti, della nostra
nazione. Ed invece, l’età dei protagonisti fa del romanzo di Vasta un’opera emozionante, metaforica, ma più illuminante di un trattato di sociologia,
come si tenterà di spiegare brevemente.
Partiamo dunque dal profilo psicologico dei
tre ragazzini. Mihaly Csikszentmihalyi, direttore
alla Claremont University di California e pioniere
della psicologia positiva, sostiene che ognuno
deve riuscire a sviluppare il suo potenziale in
famiglia, a scuola, sul lavoro per poter allontanare
gli spettri dell’aggressività, del terrore e della
disperazione. Nel romanzo di Vasta i tre protagonisti danno l’idea di non riuscirci. Il primo a
mostrare tutta la carica distruttiva che lo pervade
è Nimbo. Fin dalle prime pagine egli mostra la
sua attrazione per il male, quando di nascosto
tortura con del filo spinato un gatto malandato,
denominato lo storpio, al quale la madre, detta
lo Spago, porta da mangiare. La scena descritta
è violenta nella sua banalità e normalità e ci
richiama alla mente analoghe angherie sugli
animali alle quali abbiamo assistito da bambini,
angherie tali da costringerci a rivedere i diffusi
stereotipi sulla bontà dei fanciulli. Per di più, la
violenza appare inspiegabile perché non trova
una giustificazione nella famiglia, che è tutto
sommato normale anche se un po’ amorfa, né
nella società palermitana, che in questo romanzo
non si presenta con la sua consueta durezza o
spietatezza.
La violenza nasce in Nimbo stesso, dalla
convinzione di essere un eletto e dalla sua logica
deformata dall’anaffettività, dal suo essere mitopoietico, come lo aveva definito la sua maestra,
fabbricatore di parole che hanno una forza ed un
valore in sé, senza che siano legate alle cose e ai
sentimenti. Anzi, quando i sentimenti provano
ad affacciarsi, Nimbo, almeno in una prima fase,
li teme, rifiuta di viverli, come nel caso di una
bambina sua coetanea che egli chiama bambina
creola della quale preferisce non sapere nulla, per
lasciarla nell’indeterminatezza, come un fenomeno, senza l’oltraggio di una storia.
A Nimbo, voce narrante del romanzo, di cui
non conosciamo il nome reale, si affiancano i
due compagni di scuola, Bocca e Scarmiglia,
appellati con i nomi di battaglia di Raggio e
Volo dal momento in cui i due ragazzi, insieme al
protagonista, decidono di passare dalle
parole ai fatti e di costituire una cellula
combattente sull’esempio di quelle
delle Brigate rosse.
Raggio e Volo, nonostante tratti in
comune con Nimbo, come la passione
per la politica, l’avversione per l’ironia,
l’idea di superiorità rispetto alle persone
dialettofone sulla base delle competenze linguistiche, presentano anche
delle caratteristiche peculiari. Volo, per
esempio, appare come l’ideologo del
gruppo e in un certo senso il leader, colui che
riesce a fare un ragionamento partendo da un’intuizione altrui, a trasformare, come dice Nimbo
stesso, una scintilla in un falò; Raggio, invece, è
più modesto e lo dimostra anche nella scelta
del nome di battaglia, da lui giustificata col fatto
che il raggio è ciò che mette in comunicazione il
centro con la periferia.
Tutti e tre i protagonisti, tuttavia, vanno alla
ricerca dell’affermazione di sé. E ciò è evidente
in alcune pagine centrali del romanzo, quando,
dopo un pedinamento, fatto a scopo di esercitazione, di un uomo scelto a caso, prima Raggio
e poi Nimbo, incalzano Volo con una serie di
domande che servano a definire chi è il nemico.
Le risposte sono tanto allucinanti quanto illuminanti: Il nemico perfetto non esiste. Il nemico
reale è sempre imperfetto: non è mai perfettamente
maligno, mai perfettamente invincibile. Ha tratti
mansueti, persino teneri. È vulnerabile. L’unico
nemico perfetto è quello che generi tu stesso. E
all’obiezione che un nemico imperfetto permetta
di vincere molto facilmente, Volo risponde: E chi
33
ha detto che vogliamo vincere?
Ma la psicologia dei protagonisti è ulteriormente chiarita dal pensiero di Nimbo riportato
non a caso in quarta di copertina: Fin dall’inizio
il nostro sogno è stato diventare dei socrate
della lotta armata: inevitabilmente sconfitti, ma
orgogliosamente sconfitti. E a quel punto, nella
sconfitta, invincibili.
La conseguenza di questi ragionamenti è, dal
punto di vista narrativo, la scelta dell’incolpevole
compagno di classe, Morana, come vittima da
sacrificare, per la realizzazione dei farneticanti
progetti di lotta armata
al sistema. Ma, nel lettore la deformata logica
dei protagonisti produce
come conseguenza lo
squarcio improvviso e
senza timori di un velo
che ha impedito a molti
di noi di capire gli anni
terribili del terrorismo,
quelli in cui il paese
perse l’innocenza, e le
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
34
motivazioni che spesso ne erano alla base. La
volontà autodistruttiva da una parte e l’orgogliosa affermazione di sé come esseri superiori
dall’altra mettono in luce aspetti presenti non
solo nei tre ragazzini del romanzo ma in tanti
protagonisti della lotta armata negli anni terribili
della storia repubblicana e mostrano quanto infantilismo possa esserci in ideologie ignare della
compassione, basate solo su una sproporzionata
presunzione che si avviluppa intorno a vere e proprie ossessioni. Quanta banalità possa, insomma,
esserci nel male.
Nel romanzo la via di uscita è la maturazione
di Nimbo. Il suo doloroso percorso di formazione,
dopo averlo portato all’inferno, gli fa vedere la
luce e la possibilità di resurrezione grazie alla
bambina creola, una Beatrice muta, perché per
un mitopoieta la salvezza non può venire dalla
dottrina ma da un silenzio purificatore delle troppe parole che si sono nutrite di se stesse. Nella
società è, invece, più difficile dire quale sia l’antidoto; forse è la memoria, perché non si perda la
consapevolezza conquistata dopo il dolore.
dosi di immagini e suoni provenienti da scritture
meno alte come la radiofonica, la cinematografica o la televisiva. Tutto ciò non dà però luogo
ad un impasto costruito in maniera cerebrale ma
ad una fusione in cui i confini si sfumano in una
riconciliazione linguistica che stride paradossalmente sia con la storia narrata che con l’età del
narratore- protagonista e crea uno spiazzamento
nel lettore, sempre più affascinato, nel corso della
lettura, dalla capacità narrativa e, per contrasto,
sempre più inorridito dalla profondità del male
e del dolore narrato.
Ma, dunque, se lo stile non deve essere fine
a se stesso ma mezzo per dire delle cose si comprende facilmente che la proliferazione linguistica della quale Nimbo si fa veicolo è funzionale
al senso della storia raccontata. E cioè, dato che
Nimbo è esigente, disprezza tutto ciò che è banale e non ama le approssimazioni ma vuole dare a
ogni cosa il nome specifico, per lo scrittore è stato
necessario utilizzare termini ricercati e parole
tratte da linguaggi specifici e settoriali.
Questa scelta stilistica sembrerebbe richiamare la teoria verghiana della forma inerente al
Una scrittura liminare tra realismo e visiosoggetto, se non fosse che nel romanzo di Vasta il
narietà. In un’intervista rilasciata a Marta Ciccolarealismo è fatto a pezzi, perché nessun ragazzino
ri Micaldi, Giorgio Vasta ha dichiarato che spesso
di undici anni pensa e parla come Nimbo. Eppure
lo stile non viene inteso come un mezzo per
quel linguaggio così elevato ed irrealistico per
dire delle cose ma come un fine. Otteun undicenne serve a illuminarne il caratnendo uno stile si diventa identificabili,
tere e a definirne la personalità meglio
si produce una situazione del tipo:
di qualsiasi descrizione, a far cogliere
dimmi in che modo scrivi e ti dirò chi
come dietro quei ragionamenti ci sia
sei. E, siccome si ha disperatamente
il malessere esistenziale di chi non
bisogno di conoscere la propria
si rassegna ad essere uno dei tanti,
identità, allora si farà di tutto per
destinato a scomparire. Non a caso
mescolare tra loro degli elementi
Nimbo afferma che le Brigate rosse
specifici che la conferiscano. Ma
nascono dal desiderio disperato
se lo stile si trasforma in questo, in
di esistere al centro del tempo. Nel
questa prigione volontaria, allora, secuore infuocato della storia. Per non
condo Vasta, è meglio correre il rischio
scomparire, per restare visibili.
di non averne uno e sperimentare.
Ma le analogie/opposizioni con
Con questo romanzo che oscilla tra
Verga non si fermano qui. Come nei MalaGiovanni Verga
realismo e fuga dalla realtà, Giorgio Vasta
voglia alle vicende della famiglia Toscano
sembra proprio che non abbia avuto timore di
fanno da sfondo gli anni successivi all’unità d’Italia
sperimentare, creando una lingua lucidissima che
e la narrazione è disseminata di precisi riferimenti
amplifica la letterarietà con la cura della parola
storici, così anche ne Il tempo materiale compama realizza pure un’azione di ibridazione, serveniono continui richiami a fatti e personaggi degli
anni della lotta armata. Tuttavia, come
Ma anche un altro scrittore italiano
precisa lo stesso Vasta in una nota di
sembra aver lasciato il segno nella prosa
fine opera, la cronologia reale del
di Vasta: è Dino Campana che l’autore
1978 è stata in parte modificata
siciliano cita espressamente come suo
secondo necessità drammamodello nell’intervista indicata in preturgiche e le inesattezze sono
cedenza. Del plurilinguismo generoso
funzionali alla storia raccontadi Campana che spazia dal registro
ta, con un chiaro disinteresse
aulico a quello popolaresco la traccia
documentario.
evidente è nell’impasto linguistico di
Il gioco di richiami e oppocui si è detto. Ma l’influenza dell’ausizioni nei confronti dell’illustre
tore dei Canti orfici appare particolarconterraneo risulta ancora più
mente evidente nelle ultime pagine del
evidente nell’uso frequente dei
romanzo in cui Nimbo appare immerso
soprannomi che non sono, però,
in un vortice che infrange i confini di
ne Il tempo materiale, né antifrastici
spazio e tempo, in un’unione simbolica con
Dino Campana
né realistici, ma piuttosto avvolgono
la bambina creola e con il Tutto, che cancella
in un senso di mistero e di indecifrabile parole e apre ad un pianto purificatore e
lità coloro ai quali sono riferiti. E, dunque, se chi
liberatorio.
legge I Malavoglia apprende subito che la famiEd è giunto il momento allora di chiederci
glia Toscano, in contrasto con il nome, di voglia
perché questa scelta di visionarietà dietro la facdi lavorare ne aveva tanta, chi cerca di avere dei
ciata realistica di una storia generata dal sequeprecisi indizi sulla personalità o le caratteristiche
stro Moro. Probabilmente Vasta, con la sensibilità
dei personaggi di Vasta rimane piuttosto deluso
dell’artista, si è reso conto che comprende meglio
35
e non ricava granché dai nomi dei familiari di
di altri il proprio tempo chi ne svela gli aspetti più
Nimbo: la Pietra, lo Spago, il Cotone.
reconditi e meno evidenti, chi si allontana dalla
Vasta, insomma, sembra fare riferimento in
cronaca per cogliere le motivazioni più profonde
modo ostentato a Verga, ma per prenderne le
che hanno portato alla disumanità. E ciò è utile
distanze, e se Verga, adottando l’artificio della
non solo per una corretta comprensione della
regressione dell’autore colto al livello della renostra storia recente ma anche per cercare di
altà popolare che vuole rappresentare, simula
capire perché ancora oggi, come sostiene lo
il linguaggio dei suoi personaggi e ne adotta la
scrittore, l’Italia sia un Paese dalla crescita morale
mentalità, Vasta si impone ai protagonisti del
bloccata, un organismo che ha mancato tutte le
suo romanzo, pur assumendone il punto di vista,
sue occasioni di rinnovamento.
attraverso una lingua colta e irrealistica.
Elsa Franco
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
Musica e storia
Risorgimento in musica
Appunti di viaggio sulla strada
dell’unificazione d’Italia
I
36
n occasione delle celebrazioni per i 150
anni dello Stato unitario, è doveroso ricordare l’importanza che rivestì la musica, vera
“colonna sonora” di ideali e avvenimenti storici.
In tale contesto, il mio discorso vuole essere
più evocativo che accademico, al fine di comprendere che le gesta dei Risorgimentali non si
ispiravano solo a grandi momenti corali di sommi
musicisti, ma erano anche accompagnate da
compositori meno noti e da testi di inni patriottici
meno aulici, ma forse più aderenti alla sensibilità
e alle passioni della gioventù del tempo.
Ma parliamo prima della “missione” sociale
della musica. Il personaggio politico che in
quegli anni volle dare una dignità “dottrinale” all’arte dei suoni fu Giuseppe
Mazzini. Il fondatore della “Giovine
Italia” ed eroico animatore della
Repubblica Romana, amico e sostenitore di Garibaldi, fu sempre, nella
testimonianza di Saffi, suo collega nel
Triumvirato romano, “attentissimo a
tutto ciò che usciva di nuovo nel mondo musicale”. Per questo Mazzini, esperto
chitarrista, esecutore di Rossini, Paganini e
Giuliani, scrisse nel 1836 il saggio Filosofia della
musica. Rifacendosi al compito sociale, civile ed
educativo della musica già espresso dai Greci,
egli si rivolge soprattutto al melodramma, forma
musicale fondamentale nell’Italia del tempo e
terreno ideale per realizzare un collegamento
della musica con le altre arti, in particolare con la
letteratura. Secondo Mazzini si deve evidenziare
in esso l’importanza dei contenuti del libretto e lo
si deve liberare dal mero virtuosismo della vocalità. La musica deve attenersi “alla verosimiglianza
storica, afferrare il concetto di un’ epoca e metter-
lo in atto”. In questo senso il teatro musicale ha
la funzione di spronare verso gli obiettivi politici
da raggiungere e grande importanza ha il coro in
quanto voce del popolo. Mazzini aggiunge che
l’Italia è piena solo di “maestri e trafficatori di
note”. È necessario che un grande riesca a “trarre
la musica dal fango o dall’isolamento in che giace
per ricollocarla dove gli antichi grandi, non di
sapienza, ma di sublimi presentimenti l’avevano
posta accanto al legislatore ed alla religione”.
È quasi una profezia, visto che pochi anni
dopo il giovane Giuseppe Verdi comincerà a
raccogliere i suoi primi grandi successi. Fu
proprio Verdi ad accettare l’invito di Mazzini a musicare nel 1848 l’inno Euterpe
Patria. Il testo è opera del giovane
Goffredo Mameli che l’anno prima
aveva scritto, in collaborazione con
il musicista Michele Novaro, Il canto
degli italiani, nostro attuale inno
nazionale. Verdi, entusiasta per i
moti rivoluzionari milanesi, compone questo inno popolare “a voci sole”
sul testo di Mameli, che non potrebbe
essere più esplicitamente patriottico:
“Fuoco, per Dio, sui barbari, / sulle perdute schiere”, “La tricolor bandiera / che nata tra i patiboli /
terribile discende / fra le guerresche tende”, “Noi
lo giuriam per i martiri, / uccisi dai tiranni / pei
sacrosanti palpiti / compressi in cor tant’anni”. È
doveroso fare a questo punto riferimento alle “
scene famose” del melodramma verdiano usate
dai patrioti per cementare il loro sentimento
nazionale. Ricordiamo il coro Va’ pensiero del
Nabucco (Milano 1842), su libretto di Solera: “Oh
mia patria sì bella e perduta!” (di cui esiste persino
una trascrizione “popolare” per organetto di Bar-
beria), il coro del Macbeth (Firenze
1847) su libretto di Piave: “Patria
oppressa!”, il coro de I lombardi
alla prima crociata (Milano 1843)
su libretto di Solera: “O Signore,
dal tetto natio”, il coro da La
battaglia di Legnano: “Viva Italia!
Sacro un patto”. Quest’opera,
Giuseppe Verdi
composta da Verdi con evidenti
finalità di propaganda risorgimentale su libretto
di Cammarano, viene rappresentata per la prima
volta a Roma al teatro Argentina il 27 gennaio
1849. Nella Roma senza il Papa della Repubblica
Mazziniana, il titolo posto all’inizio del quarto
e ultimo atto dell’opera: “Morire per la patria” è
sicuramente emblematico.
Va anche ricordato che la Norma di Bellini,
rappresentata per la prima volta senza problemi
di censura a Milano nel 1831, venne proibita
dagli Austriaci nel 1859 perché i Milanesi, che di
lì a poco, con la seconda guerra d’Indipendenza,
avrebbero ottenuto la libertà, si sarebbero facilmente identificati nel coro “Guerra! Guerra!”.
Per ciò che riguarda i musicisti “minori”
è bene ricordare alcuni inni popolari e cori
patriottici composti nella Milano del 1848. Il
trentenne Antonio Bazzini compone, su testo di
Antonio Buccelleni, l’inno Il vessillo lombardo: “Su
lombardi, al vessillo di guerra / liberiamo l’italica
terra”; Stefano Ronchetti compone su testo di
Giulio Carcano un Inno nazionale in occasione
delle solenni esequie pei morti nella rivoluzione di
Milano scritto per ordine del Governo provvisorio: morti che “Per la patria il sangue han dato
esclamando Italia!”. Il ventiquattrenne Jacopo
Foroni compone su testo anonimo L’italiana –
grido di guerra all’unisono. Il giovane Foroni, a
Milano per la fortunata rappresentazione della
sua prima opera Margherita, partecipa ai combattimenti delle Cinque Giornate; la musica e il
testo ben riflettono la violenza degli scontri e le
motivazioni dei patrioti: “Quante l’ambasce / fur
dei scannati / e quanti gemiti / fur dei calcati”,
“passiam dei lurchi sull’ossa infrante”, “l’immondo
sangue inondi il suol”.
Alcune romanze da camera sono pure ispira-
te ai fatti del Risorgimento. È il caso di due
composizioni del musicista Angelo Mariani e del suo poeta Giovanni Pennacchi che
parteciparono come volontari alla prima
guerra d’Indipendenza: La fidanzata del
guerriero ucciso sui Campi di Lombardia e
L’amante del volontario italiano che sottolineano l’eroismo dei patrioti e delle loro
donne, tutti disposti ad accettare il sacrificio per la patria. Michele Novaro, il musicista di
Fratelli d’Italia e il poeta Francesco Dall’Ongaro
scrivono Il canto del dragone e La bandiera italiana
che fanno parte della raccolta di Canti popolari
italiani pubblicata nell’antologia Viva l’Italia
(Lucca 1860). Non vanno inoltre dimenticati
alcuni brani strumentali che evocano situazioni
e personaggi del Risorgimento. Il compositore
Ernesto Cavallini scrive una romanza per clarinetto e pianoforte dal nostalgico titolo Lontano
dalla patria. Padre Davide Maria da Bergamo (al
secolo Felice Moretti) compone la fantasia per
organo Le sanguinose giornate di marzo, ossia
la rivoluzione di Milano.
37
Il più famoso Amilcare
Ponchielli, autore della Gioconda, scrive nel
1882 l’elegia per banda
Sulla tomba di Garibaldi.
La composizione gli è
stata commissionata
dal comune di Cremona per commemorare
Goffedro Novaro
l’eroe dei Due mondi a
un mese dalla morte. Il brano si presenta come
un’ampia parafrasi dell’inno garibaldino musicato da Alessio Olivieri sui versi di Luigi Mercantini
All’armi all’’armi, si scopron le tombe si levino i morti
(1858). Questa elegia per banda, nella sua forma
puramente strumentale senza testo cantato,
rappresenta un solenne e commosso omaggio
all’eroe di Caprera, la cui Impresa dei Mille fu
determinante per l’unità d’Italia.
Ruggero Prospero
Stipendium Bayreuth 1992
Docente di Filosofia e Storia
Liceo Scientifico “G. Bruno” Mestre - Venezia
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
Avi Trezza
Analisi testuale
Il padre del Verismo era
davvero uno scrittore
impersonale o il latente
teorico di uno slittamento lirico ondeggiante nel magma di focalizzazioni composite?
38
L
Verga liminare
a scena più rappresentativa della tecnica dell’impersonalità ne I Malavoglia
di Giovanni Verga è quella descritta
nelle pagine conclusive del romanzo, nella
quale icasticamente ci viene presentata la scena
dell’ultimo addio del giovane ’Ntoni al suo paese
natio Aci Trezza. Prevalente è l’utilizzo di una
focalizzazione esterna, palese nelle espressioni
dialettali (“buscarmi il pane”) e nella gestualità
(“stette zitto a guardare intorno con gli occhi
lucidi”), che esprimono appunto quel senso di
istantanea rappresentazione di una realtà altra
dalla weltanschauung dello scrittore.
Queste sono appunto alcune delle spie
dell’impersonalità verghiana: in particolare, la
gestualità in maniera liminare rappresenta anche
un’introiezione dell’autore nella mente dei personaggi secondo la massima di Maupassant L’art
exprime le dedant par le dehors. Il passo “parlava
cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato
nelle spalle” è un esempio di questo uso liminare
delle due focalizzazioni: infatti, con questa descrizione Verga ci dà l’impressione di un narratore
oggettivo, che ci delinea una scena, alla quale
assiste per caso. D’altro canto, questa espressione
rientra anche in una focalizzazione interna, che
squaderna il mondo interiore del personaggio,
sottoposto a un processo di reificazione che lo
riduce ad un nulla.
Questo muro di impersonalità, che separa
lo scrittore dai suoi personaggi, viene meno in
alcuni momenti, durante i quali uno spiraglio
di personalizzazione riesce a far breccia. Perciò,
la focalizzazione esterna è intervallata da fugaci
istanti di focalizzazione interna, grazie alla quale
temporaneamente l’autore si pone come personaggio fra i personaggi (che “soffre” con una sorta
di “slittamento lirico” con loro”). Questo avviene
nell’utilizzo dello sgrammaticato “che” invece del
“dove”, e questo è icasticamente descrittivo del
linguaggio ricco di errori, tipico delle comunità
rurali meridionali. Lessemi, inoltre, propri del
sottocodice popolare sono poi i nomi delle costellazioni “i tre Re” e la “Puddara”, quest’ultima
descritta come una chioccia con i suoi pulcini,
un’immagine presente anche nel Gelsomino
notturno di Giovanni Pascoli.
Altro esempio di focalizzazione interna è la
massima popolare “perché il mare non ha paese
nemmeno lui”, che manifesta l’ingaglioffirsi dello
scrittore che si abbassa a livello dei figli della sua
penna, assumendo la visio mundi popolare. La
massima popolare si differenzia dal proverbio,
poiché essa ha valenza solo per le classi subalterne e quindi non ha carattere universale, tanto che
essa è introdotta da un perché pseudo-obiettivo,
che indica la parziale obiettività di tali sentenze.
Questi proverbi sono il preludio al superamento
di un nuovo limen: rappresentano, infatti, un
intermezzo fra la focalizzazione interna e quella zero.
La non focalizzazione è
il colpo finale che abbatte il
bastione apparentemente
inespugnabile dell’impersonalità. L’autore, che nella
prefazione de L’amante di
Gramigna si era abbandonato ad una accorata perorazione della tesi dell’impersonalità, secondo la quale lo
scrittore non deve lasciare
traccia di sé nell’opera d’arte, dimostra tutto il suo
essere nell’ossessivo refrain
“devo andarmene”.
Tale iteratio è un pendant del fatalismo di Verga, infatti, nell’ottica verghiana ’Ntoni è un vinto
dal fato economico. Questo personaggio, però,
riesce a trovare alla fine una rivalsa nel sacrificio
volontario a favore dei suoi cari; e da giovane
sconsiderato e desideroso di cambiare il suo status
quo si trasfigura in una variatio del protagonista
canonico di Verga,“eroe silenzioso del dovere”.
Il carattere splendidamente reduplicativo della
narrazione ben si caletta per entro questo clima
popolareggiante, fatto di ripetizioni, non consone
ad uno scrittore magister linguae come Verga.
Ormai lo scrittore dell’impersonalità deve
cedere il posto a uno scrittore/personaggio che
vede il mondo attraverso gli occhi del
giovane ’Ntoni, e insieme a lui è partecipe della sua ironia nel parlare della
nuova giornata di Rocco Spatu. Questo
personaggio, per molti versi simile a
’Ntoni, è l’archetipo dello scansafatiche,
che, però, tuttavia comincerà una sua
giornata (sebbene non di lavoro) in un
mondo, al quale ‘Ntoni non appartiene
più. L’estraniamento del personaggio
dal suo mondo natale è un ultimo
elemento di focalizzazione interna che
39
sottolinea il parallelismo liminare fra il
personaggio e lo scrittore, perché l’autore è del tutto a suo agio nel parlare
dell’estraniarsi di ’Ntoni da un mondo,
quello popolare, che anche per lui è
sempre stato estraneo e lontano.
Carmine Rosario Gigi
III B Liceo Classico
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
Filosofia
Vent’anni fa moriva Maria Zambrano,
grande pensatrice liminare
Una “filosofia vivente”
“Siamo così abituati alle vecchie
contrapposizioni tra pensiero e
passione, tra spirito e vita, che in
certo modo ci meraviglia l’idea di
un “pensiero appassionato”, in cui
pensare ed essere vivente si convertono in una stessa cosa”
40
che, trascurando altri aspetti
della vita.
Proprio per
questo, María
Zambrano invita il pensiero
ad abbandonare qualsiasi sistema filosofico,
(Hanna Arendt, Heidegger o
quel «castello di ragioni, muraglia chiusa del
il pensiero come attività pura)
pensiero di fronte al vuoto», per intraprendere un
viaggio fra quelle acque rimaste ancora in gran
parte inesplorate, alla ricerca di una «filosofia
vivente», disposta a confrontarsi con l’essere
entativo d’incontro fra verità della “raumano nella sua interezza, disposta, con un imgione” e verità del “cuore”. Il percorso
pegno sia intellettuale che viscerale, a dar voce
speculativo di María Zambrano (Vélez
a ciò che resta in silenzio, a rendere manifesta
– Màlaga 1904 – Madrid 1991), una delle voci
l’oscurità, l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato,
più originali della filosofia contemporanea, nasce
muto, nascosto ma intimamente «sentito», unico
dalla consapevolezza che solo un incontro fra filocapace di liberare dalla tendenza assolutizzante e
sofia e poesia, possa dar vita ad un sapere capace
di imporre l’umiltà, condicio sine qua non per ogni
di cogliere la totalità della realtà e l’uomo nella
cammino di conoscenza completa.
sua interezza. Uomo e realtà, infatti, possono
La Zambrano, quindi, auspica una «contaessere integralmente tutelati solo da un sapere in
minazione» della filosofia con la vita, sulla base
grado di esplorare anche quel «logos che scorre
di una necessità connaturata e reciproca che
nelle viscere», che invece la tradizione fivita e pensiero hanno: la vita, infatti, senza
losofica ha per lo più ignorato. Infatti,
pensiero rimane sola e ribelle, mentre il
secondo la filosofa spagnola -che su
pensiero astratto, puro, «senza vita», vaga
questo punto, come su altri, è conabbandonato, incapace di superare i procorde con i pensatori dell’Esistenpri confini e quelli della propria struttura.
zialismo, della Fenomenologia e
E ciò riduce l’uomo al delirio: «se infatti
del Decostruzionismo-, l’uomo
si perde il contatto con la realtà si delira:
occidentale, affidandosi compledelira la ragione in una pura forma senza
tamente al Logos ed ai processi
vita, impassibile e senza tempo; e delira la
conoscitivi logico-formali, ha contrivita in un vagare spettrale e senza figura, in
buito alla nascita di una filosofia dalle
caratteristiche strettamente scientifi- María Zambrano una dispersione umiliata e rancorosa».
T
Una ragione aperta all’eterogeneo. Vita e
attimo il metodo rigoroso e andandole incontro.
pensiero non sono due mondi eterogenei o due
Ecco che allora l’unica forma di conoscenza che
cosmi autosufficienti, ma una sola realtà, quella
possa garantire la «vera oggettività» è, per Zamesistenziale, che è inserita in un organismo che è
brano, come lei stessa scrive in El realismo español
l’uomo, e, pertanto, la speculazione filosofica non
como origen de una forma de conocimiento, il
deve trascurare e sentire come estraneo nessun
realismo come «modo di trattare con le cose».
elemento o aspetto umano, primo fra tutti quel
«frammento di cosmo che è l’anima» e, non da
Il realismo come metodo di innamoramenultimo, quello che, per Zambrano, è stato spesto. Il realismo -secondo le chiarificanti parole di
so ingiustamente identificato con la «prigione
un’attenta studiosa di Zambrano, Pina De Luca- è
dell’anima»: il corpo. Per essere realmente vivente
uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depola filosofia deve dunque riconoscere non solo
ne senza nessuna pretesa di ridurlo a qualcos’all’anima ma anche il corpo, quale fonte di creatitro. Per tale adesione disinteressata il realismo è
vità e trascendenza, quale «luogo pulsante che
un essere innamorati del mondo [...]. Non vi è,
media il contatto con le forze sacre della materia
però, in ciò la violenza del possesso ma dediziovivente, con i residui della matrice originaria da
ne, cura, minuziosa attenzione. L’amore ha qui,
cui l’uomo si è strappato per vivere come un
per la Zambrano, il segno dell’eros platonico: gli
essere indipendente». Pertanto, secondo María
sono perciò estranee la violenza e l’ingiustizia
Zambrano, solo una ragione «riformata», ossia
(Introduzione a Filosofia e Poesia).
più malleabile e aperta al difforme e all’eteQuesta caratteristica dell’innamoramento è
rogeneo, disposta ad accogliere anche quelle
tipica del realismo spagnolo (Zambrano lancia
verità non rischiarate dalla luce dell’intelletto
una sfida alla tradizione filosofica considerando
ma, tuttavia, «sentite» dentro, può contribuire
la cultura spagnola come una modalità di co41
a fondare una nuova conoscenza, più
noscenza in grado di risollevare
aderente alle multiformi sfaccettature
l’uomo occidentale dalla crisi che
dell’umano esperire.
sta attraversando), e ancor di più
Alla luce di considerazioni come
di quel suo tratto caratteristico
queste si potrebbe attribuire alla filosoe radicale che è il materialismo
fia zambraniana, con tutte le dovute ed
considerato come «la consainnegabili differenze, il motto oraziano
crazione della materia», da non
adottato nel corso del ‘700 dagli illumiintendersi, tuttavia, come un
nisti e in modo particolare da Immanuel
idealismo europeo rovesciato,
Kant, ossia il «Sapere aude»: abbi il
perché il materialismo spagnolo
coraggio di sapere ma, sembra quasi
presenta, al contrario di quello
Immanuel Kant
che aggiunga la pensatrice spagnola,
europeo, un’inclinazione più
non solo ciò che è nei limiti della sola ragione,
teorica, più dogmatica, più appassionata tale da
ma anche gli «interminati spazi» e i «sovrumani
apparire astratto, «ma si tratta di un’astrazione
silenzi» «di là da quella» che fungono “da liquido
che non ha origine nell’intelletto bensì nella
amniotico, da placenta sempre vivificante per la
passione». Questo materialismo come «pratica
verità stessa” la quale se, come ci tramandano i
amorosa», come adesione innamorata alle cose,
filosofi greci, è a-lethéia, dis-velamento, necessita
in cui avviene un «materiale parteciparsi di
di un precedente nascondimento.
soggetto e cosa», si sviluppa, per Zambrano, in
Se l’essere, dunque, prima di svelarsi si vela,
senso radicale nella poesia. Solo il poeta, infatti,
per conoscerlo occorre raggiungerlo nella caverè capace di fare di se stesso uno spazio vuoto in
na oscura del suo primo darsi, e ciò comporta un
cui le cose si depongono nella loro materialità
abbandono, un immergersi fiduciosi negli abissi,
e come tali in lui vivono [...]. Solo a colui, infatti,
laddove la verità nasce, dimenticando per un
che in sé sperimenta la forza dell’impotenza, che
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
42
conosce la «passività per
Il senso dell’incontro fra filosofia e poesia.
amore», la realtà si fa
Ecco che, finalmente, ci appare evidente il senso
incontro.
ultimo dell’incontro perseguito da María ZamPosta in questi termibrano fra filosofia e poesia; solo una conoscenza
ni, tuttavia, sembrerebbe
poetica, infatti, dalla «profonda radice d’amore»,
che la soluzione prospetnata dalla simbiosi di lucidità intellettuale e di
tata da María Zambrano,
sapere emotivo, può accogliere anche le verità
affinché l’uomo possa
«dell’altro» ed effettuare quel connubio degli
rimanere fedele ad ogni
opposti capace di realizzare il prodigio di vivere
possibilità dell’essere, sia
tra i due, «conseguendo il nous senza perdere
offerta dalla poesia e che,
l’anima; addentrandosi per quanto è possibile
Heidegger
pertanto, la sua opera
nella libertà senza annientare né umiliare la vita
non possa rientrare pienamente nella categoria
delle viscere». Proprio in nome di un’«armonia
speculativa. In realtà, la questione è molto più sotdei contrari» (più vicina alla danza eraclitea che
tile. La riflessione zambraniana, infatti, non è volta
non alla calma unità realizzata dal concetto),
ad individuare e descrivere il pensiero della poesia,
per mezzo della quale possano coesistere in una
ovvero a sostituire il come della poesia a quello
«lotta amorevole» tutti i termini in conflitto tra
del pensiero. È, questo, un tema fondamentale
loro senza che né l’uno né l’altro domini defigià per Heidegger, al quale la Zambrano rivolge
nitivamente la scena dell’esistenza, Zambrano
un ringraziamento perché, senza la sua «giusta
inizia un percorso di riforma della ragione,
fama un fatto del genere, pur apparendo in
affinché essa possa tornare ad appassioaltri testi, non sarebbe stato riconosciuto
narsi alla sua più grande antagonista:
e nemmeno intravisto».
la vita. Il tutto, però, è condotto
Grazie ad Heidegger,che fa del linsecondo un movimento che non
guaggio poetico la dimora dell’Essere,
cede mai alla tentazione di imporre
«risulta che le è necessario [alla filoso«con la spada», sia pure quella della
fia] tornare alla poesia, attenersi, onde
parola, la verità di cui Zambrano si
riaversi [...] ai luoghi dell’essere da quefa messaggera.
sta indicati e visitati».Pertanto, l’intento
María Zambrano indica un senzambraniano, ben lungi dall’esaltare le
tiero, mostra immagini, figure che
ragioni della poesia per mortificare
possano «innamorare» ed essere
F. Nietzsche
quelle della ragione, è quello di «riseguite; il suo pensiero si fa guida
connettere poesia e pensiero riattivando “l’impeto
affinché ognuno possa, individualmente e
appassionato” che la poesia ha trattenuto per sé
personalmente, dare forma a quel contenuto
e di cui il pensiero è divenuto privo [...] perché
impetuoso, caotico, indeterminato e sfuggente
vi sia altro pensiero, un pensiero che sia spazio
che è la vita; la sua parola poetica, mediatrice tra
di nascite», un pensiero che, come un grembo
la luce e l’oscurità, tra il linguaggio e il silenzio,
materno, sia in grado di accogliere «l’altro da sé»
tenta di insinuarsi nelle più profonde caverne
in un’unione-nella-differenza, perché: «l’essere è
delle viscere umane (si potrebbe azzardare, sulle
“vario non uno”, è “radicale eterogeneità” che per
orme di Nietzsche e Freud), laddove è rinchiuso
pensarsi richiede mobilità, “continuo spostamento
e risuona il mistero dell’origine, per rischiararle
dell’attenzione” [...]. È allora necessaria la “fede” sia
e risvegliarle cautamente.
“poetica” che “razionale” per arrivare a comprendeMaria Alvino
re che l’uno soffre di “incurabile alterità”».
II C Liceo Classico
Musica & poesia
Chiamami ancora amore: il romanticismo amaro
Il ritorno
del Professore
Roberto Vecchioni
conquista l’Ariston,
e l’Italia stessa.
“I
n questo disperato sogno, tra il silenzio
e il tuono, difendi questa umanità...
anche se restasse un solo uomo.” Un
grido, un’esortazione, una supplica: la voce
calda di un uomo che, da solo e solo con le sue
parole, fa bruciare le ferite ancora aperte di un
mondo indifferente al suo stesso dolore. E canta
la disperazione, quella di un’esistenza trascinata
tra il silenzio della sua solitudine e il tuono di
ogni suo pensiero.
Come qualunque insegnante degno di tale
definizione, Roberto Vecchioni, il professore, vuole darci tutto ciò che possiede; un magister vitae
che dall’alto della sua esperienza ci tende una
mano: vuole farci conoscere, vuole farci vedere
le luci e le ombre, le gioie e i dolori di un mondo
che assaporiamo senza gusto, ciechi di fronte
ai suoi più rivelati segreti. Alunni svogliati, noi.
Eppure lui non si arrende. Timidamente si insinua
come un tarlo, e il suo grido corrode ogni fibra
del nostro corpo.
Si abbassano le luci, all’Ariston. Il palco è
grande, forse troppo per chi ormai da anni è uno
spettatore distratto di una realtà da lui lontana.
Però, quello stesso palco, oggi, si estende ai suoi
piedi. Ai piedi dell’asceta, che ritorna tra le persone che lo hanno amato e aspettato, e riprende
ad ammaliarli come se l’incanto non si fosse mai
spezzato. Il rituale applauso si spegne tra le mani
della platea. Silenzio. Gli occhi socchiusi; l’orchestra è in attesa, le dita afferrano il microfono. Con
un morbido movimento della mano del maestro,
43
la bacchetta lascia che quel silenzio si rompa.
“E per”. È una storia già cominciata, quella che
le sue parole costruiscono: è stata scritta a caratteri cubitali, raccontata da mezzi busti davanti a
una telecamera, condivisa col mondo sul web. È
la storia di uomini che, sospinti dal vento della
libertà, tagliano le proprie radici in cerca di notti
più serene, uomini, donne, bambini per i quali il
mare che doveva essere la strada per la libertà
diventa la culla del sonno senza risveglio; è la
storia di chi ha visto impotenti le proprie idee imbavagliate con la forza; è la storia del sudore non
retribuito sulla fronte di chi ogni notte è costretto
ad ascoltare il pianto del suo bambino, debole ai
morsi della fame; è la storia della “generazione X”
di questi anni zero, che si guarda intorno e vede
soltanto terra bruciata, eppure dei valori ancora
ce li ha, la forza di ribellarsi per difendersi da
chi la sta silenziosamente uccidendo ancora ce
l’ha; è la storia di tossicodipendenti la cui droga
sono i soldi e il potere, che calpestano tutto e
tutti pur di averne ancora e ancora e ancora; è la
storia di troppi vasi di terracotta, che, pur di non
essere mandati in frantumi, sacrificano la propria
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
coscienza; è la storia di tutti noi, e di tutto quanto
è stato nostro da sempre, e ora non ci appartiene
più: i nostri ricordi e la memoria di ciò che siamo
stati, la nostra vita e la nostra voglia di vivere.
Ma la speranza, quella no: la speranza non
ci ha ancora abbandonati nell’oblio di questa
notte senza luce. E prende vita, voce, colore e
consistenza proprio grazie a noi, alla nostra arte
di saper tradurre in una realtà tangibile che i
nostri sensi possono percepire ogni eterea sen-
44
sazione, ogni pensiero, ogni emozione. La nostra
speranza vivrà fintanto che avremo delle idee
con cui alimentarla; idee immutabilmente vive,
come le stelle e come le farfalle che volano per
tutta la loro vita, ma ancor di più idee immortali,
al pari della forza di una madre che ama e pari
all’amore di Dio stesso.
In questo sputo di universo, dove “adda passà
a nuttata” (per dirla con Edoardo), dobbiamo
avere il coraggio di chiamarci ancora con il nome
E per la barca che è volata in cielo
Che i bimbi ancora stavano a giocare
Che gli avrei regalato il mare intero
Pur di vedermeli arrivare
Perché le idee sono voci di madre
Che credevano di avere perso
E sono come il sorriso di Dio
In questo sputo di universo
Per il poeta che non può cantare
Per l’operaio che non ha più il suo lavoro
Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire
In un deserto come in un porcile
E per tutti i ragazzi e le ragazze
Che difendono un libro, un libro vero
Così belli a gridare nelle piazze
Perché stanno uccidendo il pensiero
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole
Per il bastardo che sta sempre al sole
Per il vigliacco che nasconde il cuore
Per la nostra memoria gettata al vento
Da questi signori del dolore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e di parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Continua a scrivere la vita
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Che è così vera in ogni uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
Dovrà pur finire
Perché la riempiremo noi da qui
Di musica e parole
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
Tra il silenzio e il tuono
Difendi questa umanità
Anche restasse un solo uomo
Perché le idee sono come farfalle
Che non puoi togliergli le ali
Perché le idee sono come le stelle
Che non le spengono i temporali
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché noi siamo amore
più dolce, più romantico, più significativo, più
bello che ci sia: amore.
Sorride, il professore. Percepisce la sincerità
di quell’applauso, legge l’emozione sui volti sconosciuti. Abbandona il palco con passo incerto:
sa quello che ha fatto. Ci ha innalzati al cielo, per
poi restituirci immediatamente a questo stanco
suolo, raccontandoci i suoi pensieri. Adesso,
tornati quaggiù, sentiamo davvero di stare
sprofondando, a fondo, sempre più a fondo.
Non abbiamo appigli, assolutamente nulla a cui
aggrapparci. Ciascuno di noi è terribilmente solo
nella sua consapevolezza.
E allora ci torna in mente il suo sorriso, tranquillo e affabile, che pare ora come ora volerci
dire soltanto una cosa: non aver paura.
Mirella Astarita, II A
Rosachiara Caldiero, I A
Liceo Classico
45
Lyceum Maggio 2011
Strumenti/Liminarismo
Un
Un poeta
poeta liminare:
liminare: TThomas
homas S
Stearns
tearns E
Eliot
liot
L’ARTISTA MODERNO
GETTATO NELLE FAUCI
DELLA VITA
46
Un passato che si dissolve. Un
nuovo mondo che emerge. La
poesia si trasforma, perdendo il
suo ruolo consolatore. Thomas
Stearns Eliot vacilla sul sottile
fil rouge tra l’aridità spirituale e
la sterilità del mondo moderno
nel suo poema Terra desolata.
Un nichilista che trova speranza
in un’inquieta e purgatoriale
conversione.
I
caratteri liminari del poema Terra Desolata. La cultura occidentale in frantumi. La solitudine dell’artista alienato. Una tradizione
letteraria, quella vittoriana, che scivola via nella
nullità del passato. Il poeta si sente disorientato
in una crisi cosmica, in cui la poesia modernista
diventa una poesia di immagini, temi e frammenti. L’immagine viene intesa non più come
simbolo nel senso medioevale, romantico o
simbolista, ma come correlativo oggettivo, corrispondenza oggettiva, perciò non personale,
del sentire. Teorizzata da Thomas Stearns Eliot,
questa tecnica consente di esprimere emozioni
come l’autore stesso affermò: l’unico modo per
esprimere un’emozione in forma d’arte consiste nel
trovare un correlativo oggettivo; in altre parole, una
serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi
che costituiscano la formula di quella particolare
emozione; tale che, quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensoriale, sono dati,
l’emozione immediatamente è evocata.
Sin dalle sue prime poesie il limen tra il bello
e lo squallido permette ad Eliot di criticare la
vacuità e la frivolezza di Boston e di Londra, che
vengono contrapposte a visioni di lirica bellezza.
Eliot, infatti, apre la terza sezione, Il sermone del
fuoco, del suo famoso poema, Terra desolata, con
il fiume Tamigi, visto nel suo moderno stato di
squallore e sudiciume che stride con l’immagine
mitica del Tamigi dell’epoca elisabettiana. Ma
Terra desolata è incentrato soprattutto sul confine tra l’aridità spirituale e la sterilità del mondo
moderno. “Aprile è il più crudele dei mesi”: con
queste parole iniziali, transcodificate da Geoffrey
Chaucher (Il prologo dei Racconti di Canterbury),
Eliot presenta un’immagine inusuale dell’amabile
mese primaverile che nell’incipit di La sepoltura
dei morti (prima sezione di Terra desolata) è descritto come portatore di un’estate arida.
Caratteristiche importanti di tutto il poemetto sono la simultaneità, che rende possibile il
contrasto tra cultura passata e sterilità moderna, e
la decontestualizzazione, che provoca nel lettore
un senso di spaesamento e di shock. Eliot, infatti,
pone la sua visione di desolazione e aridità spirituale in un implicito contrasto con il mondo dei
poeti più antichi, suoi maestri. A volte potrebbe
sembrare un’antitesi ironica, ma la poesia ormai
ha perso il suo ruolo consolatore per esprimere
l’estrema inutilità provata dall’uomo, trovandosi
A limen poet:
THOMAS STEARNS ELIOT
The modern artist
thrown in the
jaws of life
T
he limen characteristics of the famous
poem The Waste Land. Western culture in fragments. The solitude of the
alienated artist. The Victorian literary tradition
which slides in the vacuity of the past. The poet
feels bewildered in a cosmic crisis, in which the
modernist poetry becomes poetry of images,
themes, fragments. The image is not considered
anymore a symbol according to the medieval,
romantic or symbolistic sense, but as objective
correlative, objective correspondence, therefore
not personal, of the feelings. Theorized by T. S.
Eliot, this technique allows the poet to express
feelings, as the author himself claimed: “The only
way of expressing emotion in the form of art is by
finding an “objective correlative”; in other words, a
set of objects, a situation, a chain of events which
shall be the formula of that particular emotion;
such that when the external facts, which must
terminate in sensory experience, are given, the
emotion is immediately evoked”.
As from his first poetry the limen between
the beauty and the shabbiness lets Eliot criticize
the shallowness and the uselessness of Boston
and London, which are set against views of lyrical beauty. In fact Eliot opens the third section,
The Fire Sermon, of his famous poems The Waste
Land, with the river Tames, seen in its modern
state of wretchedness and filth, which clashes
with the mythical image of the river, during the
Elizabethan age. But The Waste Land revolves
in particular around the border between the
spiritual dryness and the sterility of the modern
world. “April is the cruellest month” with these
A dissolving past. An emerging
new world. Poetry is
transformed, losing his
consoling role. Thomas Stearns
Eliot staggers on a fine fil
rouge between spiritual
aridity and sterility of modern
world in his famous The Waste
Land. A nihilist who finds
hope in a restless and
purgatorial conversion.
first words, transcoded from Chaucer, Eliot portrays an unusual image of the spring like a lovely
month, which in the incipit of The Burial Of Dead
(the first section of The Waste Land) is described
as bearer of a dry summer.
The important features of all the poem are: the
simultaneity, which makes possible the contrast
between the previous culture and the modern
sterility, the econtextualization, which produces
in the reader’soul a sense of disorientation and
shock. In fact Eliot underlines his vision of desolation and spiritual dryness in an unexpressed
contrast with the world of the most ancient
poets, his masters. Sometimes this could seem
an ironic contrast, but the poetry now has lost
its consolatory role to express the extreme sense
Lyceum Maggio 2011
47
Strumenti/Liminarismo
a dover vivere in un mondo sterile, dove nulla
ha più significato.
48
L’uso del metalinguaggio di un uomo abbandonato da Dio. Questo disinganno politico è
da relazionarsi con lo stato di spaesamento in cui si
trovava quella generazione che aveva sprecato la
propria giovinezza nella Prima Guerra Mondiale.
L’uso del metalinguaggio diventa l’unica soluzione
per proporre nuovi valori in un mondo in cui, di
fatto, i criteri di giudizio sono ormai del tutto
dissolti. Perciò la poesia di Eliot si pone al limen
tra le leggende e i miti classici, le bellezze antiche
e lo squallore delle osterie, ma con versi taglienti
e duri e con un’alternanza di termini aulici e
colloquiali. Reagendo al razionalismo cerebrale
del Settecento e al vaporoso sentimentalismo
romantico, Eliot propugna una poesia che sia
un mélange di intelletto e sentimento, risalendo
alla lezione dei poeti metafisici e al simbolismo
universale di Dante, che è per lui: «la più grande
intensità emotiva del suo tempo, basata su quello
che costituisce il pensiero del suo tempo».
Del Sommo Poeta vorrebbe imitare le
“chiare immagini visive”, nel tentativo di
riproporre a orecchi umani il messaggio
dell’ineffabile divino come nei Quattro
Quartetti. Quindi la prima fase della poesia
di Eliot è data dal tema della solitudine
dell’uomo, abbandonato da Dio in cui non
crede più, estraneo alla società che lo circonda (è il motivo della Canzone d’amore di Alfred
Prufrock) e che è in decadenza, priva di morale,
incapace di agire, sostanzialmente alienata. La
posizione del poeta è quella di uno spettatore
coinvolto, ma anche ironicamente distaccato,
legato all’arida finzione delle forme borghesi, ma
chiuso a ogni intervento liberatore sul piano sia
della storia che su quello della religione. Dall’incertezza ironica, inquietantemente esistenziale,
si passa a una visione più angosciata del mondo
visto come “cumulo d’immagini spezzate”.
Da posizioni nichiliste alla conversione. La
meditazione sul tempo, cioè sulla storia e sul rapporto del divino con essa, introduce un processo
di meditazione interiore, che porta Eliot ad aderire
alla Chiesa d’Inghilterra nel 1927. Gli anni ‘20 e ‘30
furono molto importanti per il poeta, perché trovò
nella religione la via d’uscita dal nichilismo della
sua prima fase, che esprimeva un mondo privo
di significato, in cui al crollo dei valori tradizionali
non seguì la nascita di nuove certezze, ma un
mondo di morti viventi. La sua graduale accettazione della fede cristiana si ritrova nelle sue opere
scritte alla fine degli anni ‘20: Il Viaggio dei Magi
e Mercoledì delle ceneri, anche se questa ricerca
raggiunge il suo culmine in un’opera teatrale
molto famosa: Assassinio nella cattedrale, basata
sul martirio di Thomas Becket. Con la conversione
Eliot trova, invece, una risposta e una speranza
concreta che colma la sua attesa; ma si tratta sempre di una speranza e un’attesa inquiete, ansiose,
purgatoriali, che si placano solo nel mistico invito
all’umiltà, al distacco, all’introspezione.
E se Eliot avesse sempre avuto dentro di sé
questa speranza? Potrebbero esserci elementi cristiani nella Terra desolata? Probabilmente, il riferimento biblico alla figura di Gesù Cristo, chiamato
“Figlio dell’uomo” (prima sezione), oppure il ruolo
rigeneratore dell’acqua (quarta
sezione) affiorano all’interno del
poema come spie dell’ossessiva
ricerca, condotta dal poeta,
per medicare quelle ferite che
svuotavano di significato la vita
e il mondo.
La conversione diventa, quindi, il punto di arrivo di un’anima errante nel
fluttuante caos della vita. Quattro quartetti costituiscono una summa della poesia eliotiana. Il
mondo qui non è più caos di immagini spezzate,
ma viluppo apparentemente caotico, significante
d’indizi e congetture che suggeriscono un universo duraturo al di là delle loro false parvenze.
Il nostro mondo è fenomeno, ma proprio come
segno dell’infinita, trascendente realtà divina. Il
modello poetico è il Dante del Paradiso: nasce,
così, una musicalità quasi paradisiaca, che consente di placare la profonda crisi esistenziale di
un’intera era.
Valeria Fortuna Gigi
Caterina Ambrosio
III B Liceo Classico
of the uselessness felt by a man who has to live
in a sterile world, where nothing has a meaning
anymore.
The use of a metalanguage of a man abandoned by God. This political disillusion is to be
compared with the state of shock in which that
generation, who has thrown away her youth in
World War I, finds
iself. The use of a
metalanguage becomes the unique
solution to suggest new values
in a world where,
actually, the valuation methods
have disappeared.
So Eliot’s poetry
places itself in the limen between legends and
classical myths, rituals, ancient beauties and
the shallowness of the taverns, using sharp and
strong verses and an alternation of aulic and
colloquial terms. By reacting to the rationalism
of the eighteenth century and the brain hazy
romantic sentimentalism, Eliot advocates a poem
that is a mélange of intellect and feeling, going
back to the lesson of the metaphysical poets
and the universal symbolism of Dante who is for
him: “the greatest emotional intensity of his time,
based on what is the thought of his time”.
Of the Great Poet he would like to imitate the
“clear visual images” in an attempt to reproduce to
human ears the message of the ineffable God as in
the Four Quartets. So the first phase of Eliot’s poetry
is given by the theme of human solitude, a man
abandoned by God, whom he does not believe
in outsider of the society around him (this is the
reason for The love song of J. Alfred Prufrock), which
is declining, without morals, unable to act, substantially alienated. The position of the poet is that of
an involved spectator , but also ironically detached,
linked to arid pretence of bourgeois forms closed
to every liberating intervention both in history
and in religion. He moves from ironic uncertainty,
disturbingly existential into a more anxious view
of the world as a “heap of broken images”.
From nihilist positions to the conversion.
The meditation about time, that is about history
and the relationship with the divine, introduces a
process of inner meditation, which leads Eliot to
adhere to the Church of England in 1927. The ‘20s
and ‘30s were very important for the poet, because
he found in the religion the way out of the nihilism
of his first phase, that expressed a world with no
meaning, where the collapse of traditional values ​​did not follow the birth
of new certainties, but a world of the
living dead. His gradual acceptance of
Christian faith is reflected in his works
written in the late ‘20: The Journey of
the Magi and Ash Wednesday, although
the search reaches the climax in a very
famous play written by Eliot: Murder in
the Cathedral based on the martyrdom
of Thomas Becket. With the conversion
Eliot finds , however, an answer and a real hope
that fills his waiting, but it is always a hope and an
expectation restless, anxious, purgatorial, which
appeases only in the mystical invitation to humil49
ity, detachment , introspection.
And if Eliot had always had this hope within
himself? Might there have been Christian elements
in The Waste Land? Perhaps the biblical reference to
the figure of Jesus Christ, called “Son of Man” (first
section), or the regenerative role of water (fourth
section) emerge from the poem as spies of the
obsessive research, led by the poet , to cure the
wounds that rob life and the world of meaning.
The conversion thus becomes the culmination of a soul wandering in the fluctuating chaos
of life. Four Quartets are a culmination of Eliot’s
poetry. The world here is no longer the chaos of
broken images, but seemingly chaotic tangle,
meaning of clues and conjectures that suggest a
world of lasting beyond their false appearances.
Our world is a phenomenon, but as a sign of the
infinite, transcendent, divine reality. The model
is the poetry of Dante’s Paradiso: almost a musical paradise originates, it can appease the deep
existential crisis of a whole era.
Valeria Fortuna Gigi
Caterina Ambrosio
III B Liceo Classico
Lyceum Maggio 2011
Percorso
Apre la szione dedicata al 150° dell’Unità d’Italia la lectio magistralis di Raffaele Cananzi su
“Risorgimento e Costituzione”, di cui, per esigenze editoriali, si propone la prima parte, rinviando al
prossimo numero della Rivista la pubblicazione della seconda. L’atmosfera di cui è pregno lo scritto
fa da sfondo alle vicende di Jacopo Ortis in perenne peregrinazione dal centro natio (Venezia) a
quello ideale (Roma) e poi politico (Milano) fino al centro dei centri: la morte da suicida. Ma peregrino è anche il ghibellin fuggiasco, la cui condizione di grande esule ne fa il profeta dell’italianità
e il vate dell’unità linguistica. Quell’italianità che si fa sentimento, emozione, speranza, illusione e
disincanto nel filo rosso della storia di un mosaico a rischio, ma ben rappresentato da due icone dure
a morire pur tra schiamazzi e derisioni, quasi a voler simboleggiare la forza che si sprigiona dalla
vita di una donna-patriota senza tempo. E, rimanendo nell’orizzonte femminile, ci incamminiamo
lungo un percorso che si avvia con la Rivoluzione Partenopea, passa per il Risorgimento ed arriva
alla Resistenza, con accompagnatrici eroiche ed esemplari: le sorelle d’Italia.
L’argomento del prossimo Percorso è:
150 anni dall’Unità d’Italia
Sui temi della Giustizia, della Costituzione e dell'Identità nazionale italiana
il Prof. Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale, terrà una Lectio magistralis agli studenti del Liceo “T. L. Caro” il 27
maggio. Il testo sarà pubblicato nel prossimo numero di Lyceum.
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
53
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
54
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
55
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Programma del Convegno
56
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
A 150 anni dall’Unità d’Italia
Un Convegno-Evento
G
Promotori: il Liceo “T. L. Caro” di Sarno, l’Istituto Superiore
“Da Vinci” di Poggiomarino e l’ITC di Nocera Inferiore. Con
il Patrocinio dell’Università di Salerno. Tra i Relatori anche
il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della
Campania, dott. Diego Bouché.
randissimo successo di pubblico e di
critica per l’Evento-Convegno di tre
giorni: 7, 8 e 9 aprile. Un titolo pregnante: “A 150 anni dall’Unità d’Italia, percorsi e
riflessioni”. Promotori: il Liceo Classico “T. L.
Caro” di Sarno, l’Istituto Superiore “Leonardo
da Vinci” di Poggiomarino e l’Istituto Tecnico
Commerciale “Raffaele Pucci” di Nocera Inferiore, con il patrocinio dei rispettivi Comuni e
dell’Università di Salerno.
Con questa Manifestazione, circa duemila
studenti coinvolti: anche la Valle del Sarno vuole
presentare al pubblico giovanile e, al tempo stesso,
agli addetti ai lavori aspetti inediti sulle vicende
del Risorgimento in terra campana e sugli sviluppi
storici dopo l’Unità.
Il fine è quello di fare
emergere nel cuore
e nella mente delle
nuove generazioni
quell’amore per l’Italia,
che negli ultimi anni
avanza prepotente.
Perché, pur in questi
nostri tempi tristi, un
numero sempre più
crescente di persone
afferma di amare l’Italia, la sua bandiera,
la sua storia. Segnate
dalle lacrime e dal sangue di chi ha costruito
l’identità nazionale.
L’Evento prende l’avvio dal Centro Sociale
di Sarno, giovedì 7 aprile, in cui il Liceo Classico,
dopo i profondi e sentiti interventi del Dirigente
Scolastico Prof. Giuseppe Vastola e del Sindaco
Avv. Amilcare Mancusi, presenta come Relatori:
il Prof. Vincenzo Pacifici (Università “La Sapienza” di Roma) che illustra una relazione inedita di
Luigi Minervini sulle province napoletane del
1861, il Prof. Luigi Rossi (Preside Facoltà di Scien57
ze Politiche Università di Salerno) che spiega l’attualità del Risorgimento, il Prof. Alfonso Conte
(Università di Salerno) che affronta il problema
del Mezzogiorno nel Risorgimento, e il Prof.
Franco Salerno (Docente a contratto dell’Università di Salerno e Docente del Liceo Classico “T.
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
58
L. Caro”) che fa conoscere le “Sorelle d’Italia”, cioè
le patriote del Risorgimento e oltre.
Il Prof. Vastola modera il dibattito con
grande maestria, illustrando anche come tutta
l’attività didattica del Liceo Classico, Scientifico
e Linguistico sia, durante quest’anno, dedicata
proprio ai 150 anni dall’Unità d’Italia. Fa, poi, un
cenno all’attualità e al problema dell’immigrazione. Ed esorta i suoi giovani studenti, presenti in
sala, a non negare mai nessun evento storico: un
Popolo senza Storia non ha ragione di esistere.
E’ la volta dei saluti istituzionali: Il Sindaco
Mancusi, che ha anche la Delega alla Cultura
dell’Amministrazione sarnese, svolge un intervento emblematico sulla riscoperta della parola
“patriottismo” e del suo significato storico e
politico più ancestrale. Stigmatizza le posizioni
partitiche separatiste ed esalta il ruolo della
figura del Presidente della Repubblica: un ruolochiave, un ruolo decisivo per la nostra democrazia. La Storia è quella che si sviluppa attraverso
i secoli e questo anniversario non deve essere
meramente celebrativo, ma significativo di un
popolo che ha sempre reagito ai momenti bui.
Il Sindaco chiude con un messaggio rivolto ai
ragazzi, i quali devono conoscere il passato per
attualizzare il presente e costruire già da ora il
futuro dei loro figli.
Il Prof. Pacifici, invece, relaziona su un tema
difficile e lo fa con toni critici verso le correnti
separatiste nel nostro Governo. Alla luce di
una Relazione di Minervini, delinea le difficol-
tà dello Stato italiano a costruire il sogno dei
patrioti di una Nazione libera e giusta: anche le
soluzioni forti post-unitarie avevano come fine
il preservare le grandi conquiste ottenute con il
sangue degli Italiani. Significativo è il giudizio di
Minervini sulla popolazione meridionale come
generosa e capace di grandi imprese. Del resto,
il contributo del Sud all’Unità oggi non è più da
nessuno posto in dubbio.
Il Prof. Rossi con una trovata geniale, scende
in platea e interagisce con gli alunni. Insieme a
loro, fa la differenza tra il termine “vacanza” e
la parola “festa”. Legge un passo dei “Promessi
Sposi” di Manzoni e lo riscrive in chiave attuale,
ponendo dei giusti parallelismi tra due Italie così
temporalmente diverse, eppure così politicamente simili. E, poi, analizza magistralmente l’Inno di
Mameli: dal punto di vista musicale, dal punto di
vista letterale, dal punto di vista affettivo. Cantiamo l’Inno emozionandoci. Cantiamo l’Inno ora,
come se fosse allora: le note iniziali di trombe
e tamburi per richiamare l’attenzione, le note
sincopate come il battito del cuore, le pause, gli
alti e i bassi…e un sì carico, sentito, deciso, fiero:
noi siamo italiani, sì!
Innovativa, la conferenza del Prof. Franco
Salerno sulle “Sorelle d’Italia”. Un tema generalmente trascurato. Le donne, infatti, sono
state nell’Ottocento dietro le barricate e si son
battute come leonesse contro il tallone di ferro
dell’Austria; ma quasi nessuno le ha ricordate.
La Relazione, arricchita da recitazioni degli studenti, è partita da Luisa Sanfelice, ultima martire
della Rivoluzione napoletana del
1799: dalla sua decapitazione nasce
il Risorgimento, che vede Nord e
Sud uniti nella lotta. Dalla milanese
Adelaide Cairoli, madre di quattro
giovani morti per la Patria, a Cristina
Belgiojoso Trivulzio, che conduce
duecento napoletani a combattere
nelle Cinque giornate di Milano; dalla
veneziana Adele Cortesi, che lancia il
primo manifesto delle donne patriote
femministe, all’eroica protagonista del
Risorgimento meridionale Antonietta
De Pace, è tutto un elenco toccante e
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
sorprendente di grandi donne. Donne, che
hanno dato un tributo
altissimo di sofferenza
e di sangue nel dopoUnità e nella guerra
di Resistenza, in cui
è risuonato profondo
e forte il loro “Viva
l’Italia”.
Le conclusioni al
Prof. Conte, che si è
fatto portavoce della
tesi secondo cui il Sud
ha vissuto il Risorgimento non come una
guerra di conquista
subìta, ma come l’azione consapevole di un
popolo unito e desideroso della libertà. Artigiani
e professionisti, intellettuali e popolani: è stato
questo crogiuolo di ceti e di classi così composito che ha garantito il successo di un sogno
grandioso come l’Unità d’Italia. Di cui bisogna,
soprattutto oggi, in tempi aspri e difficili, conoscere i Valori. Per recuperare e rinsaldare il senso
dello Stato e delle Istituzioni.
Bravissimi tutti gli studenti che hanno
letto dei loro scritti inediti ed originali sul tema
“Perché amo l’Italia”, che, davvero ci rendono
fieri di essere italiani. Molto applaudite, infine, le
performances dei ragazzi de La Nave dei Folli che,
tra l’altro, hanno anche suonato e cantato live
l’Inno d’Italia, con la particolarissima riscrizione
del M° Ciro Ruggiero. Davvero complimenti ad
una Scuola pubblica di fine qualità che abbiamo
l’onore di avere sul nostro territorio e che vanta
iscritti da tutto il comprensorio dell’Agro.
I riflettori si sono poi spostati l’8 aprile a
Poggiomarino, nell’Aula Magna dell’Istituto Superiore “Leonardo da Vinci”, diretto dal Preside
Prof. Filippo Filosa. Dopo l’intervento, appassionato e coinvolgente, del Direttore Generale
dell’Ufficio Scolastico Regionale della Campania,
Dott. Diego Bouché, il Prof. Marco Sagrestani,
dell’Università di Firenze, ha relazionato sul
Granducato di Toscana nel Risorgimento, il Prof.
Vincenzo Pacifici si è soffermato sui Deputati
campani nella prima Camera unitaria, l’On. Avv.
59
Raffaele Cananzi, Ex Presidente Nazionale Azione Cattolica, ha chiarito i nessi tra Risorgimento
e Costituzione e il Prof. Giuseppe Palmisciano,
dell’Università di Viterbo, ha offerto una panoramica sul Risorgimento nell’Agro sarnese.
Giornata conclusiva a Nocera, il 9, nell’Aula
Magna dell’ITC. Introdotti dal Dirigente Scolastico Prof. Donato Viscido, si sono alternati: il Prof.
Giuseppe Cacciatore, dell’Università “Federico II”
di Napoli, relatore sulle filosofie del Risorgimento,
il Prof. Marco Sagrestani, autore di un intervento sul Plebiscito nel Granducato di Toscana,
il Prof. Maurizio Martirano, dell’Università di
Potenza, studioso della cultura napoletana postunitaria, e il Prof. Graziano Palamara, dell’Università di Salerno, che ha trattato il dibattito su
Napoli capitale.
Viridiana Myriam Salerno
Addetto stampa del Convegno
In questo numero di Lyceum vengono pubblicati la prima parte della Relazione dell’On.
Avv. Raffaele Cananzi e l’intervento del Prof. Franco Salerno. Gli altri testi appariranno
nel prossimo numero.
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
60
Lectio magistralis
Risorgimento e
Costituzione
Il testo dell'Avv. On. Raffaele Cananzi, qui pubblicato,
è la prima parte della Lectio magistralis, svolta l’8 aprile
2011, nell'Aula Magna dell'Istituto Superiore “Leonardo
da Vinci” di Poggiomarino. La seconda parte sarà pubblicata nel prossimo numero di Lyceum.
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Premessa
Oggetto della riflessione sono due eventi
distinti della nostra vicenda nazionale. Non solo
distinti ma anche temporalmente distanti. Il
Risorgimento, secondo forse la più accreditata
storiografia contemporanea, è, infatti, un periodo
della storia italiana che si tende a racchiudere fra
gli ultimi anni del 1700 e il 1870, anno nel quale,
con la conquista di roma, si chiude il processo
dell’unificazione dell’Italia. Gli anni, invece, della
Costituzione repubblicana appartengono al XX
secolo e, con riguardo alla caduta del fascismo
e agli eventi che hanno portato, con la fine della
seconda guerra mondiale, al suffragio universale
di maschi e donne e alla scelta della forma repubblicana, possono datarsi a partire dal 1943. La Costituzione repubblicana viene redatta nel corso
degli anni ’46 e ’47 dall’Assemblea Costituente,
entra in vigore il 1° gennaio del 1948 e continua
ad essere ancora oggi la legge fondamentale
della Repubblica italiana. È evidente la distanza
temporale fra i due eventi. Ma questo certamente
non basta per escluderne ogni connessione e,
soprattutto, per esentarci da una profonda ricerca
circa lo spirito, gli intendimenti, la natura dei valori e l’ampiezza degli orizzonti che hanno animato
i due eventi. Lontani nel tempo, ma vicini nello
spirito e nella sostanza della vicenda italiana?
Per rispondere con un minimo di fondamento a questo interrogativo occorre avere a cuore
una disamina equilibrata di un lungo itinerario.
L’equilibrio, soprattutto se chi scrive non è uno
storico di professione, è quello che non si fa
prendere la mano da una retorica che vorrebbe
vedere sempre e, comunque, luci splendenti
lungo questo cammino, ma è anche quello che
non s’immerge in una pregiudiziale valutazione
complessivamente negativa che finirebbe con
la rappresentazione di un generale gioco di
ombre e di messaggi di sciagure e di ingiustizie.
Il quadro, come di consueto nelle umane cose,
è di luci e di ombre. Questa forma di equilibrio
va sempre tenuta presente; per quanto attiene
al nostro argomento; essa interessa assai di più
il momento risorgimentale rispetto a quello
costituzionale sulla cui vicenda i pareri sono
meno discordanti. Sul risorgimento, invece,
in occasione dei centocinquant’anni dell’unità
d’Italia si è aperta, non senza qualche asprezza,
una disputa assai vivace1 nella quale certamente
non entrerò cercando, invece, di sottolineare
quei profili che hanno avuto maggiore risonanza
e hanno accompagnato il cammino del popolo
italiano che si è poi in qualche modo ricapitolato,
e rigenerato, nella vicenda della Costituzione
del 1948.
il patriottismo nazionale: alle origini di un
sentire comune
È forse l’idea di “nazione” che anima sia la
vicenda risorgimentale sia quella costituzionale,
anche se la diversa condizione storica e il concreto vissuto degli italiani nei due distinti momenti
assegnano a questa idea una rilevanza differente.
Nel pensiero di Norberto Bobbio -il grande filosofo torinese del ‘900- “ patriottismo nazionale” e
“patriottismo costituzionale” hanno una diversa
sostanza ma possono ben essere coniugati
insieme. La vicenda della nazione, nella quale si 61
configura e si sviluppa quella della Costituzione repubblicana, ha un singolare itinerario in
quell’articolato territorio che dalle Alpi alla Sicilia
vede snodarsi il corpo della Penisola e di alcune
isole ad essa collegate per tradizioni, cultura e,
spesso, per vicende storiche. Le culture su questi
territori e, dunque, anche i costumi delle diverse
popolazioni, ebbero matrici diverse. Matrici fenicie, greche, etrusche e latine furono presenti ed
esercitarono, ora più ora meno, vaste e incisive
influenze che resistettero per tempi diversi rispetto al successivo amalgama di Roma, che anche
per la provincia Italia operò costruendo unità pur
nella varietà delle originarie posizioni etniche,
morali e culturali. L’influsso di Roma, prima repubblicana e poi imperiale, rispetto alla provincia più
prossima al centro politico e culturale, fu di amplissima portata e di fortissima incidenza, sicché
l’amalgama romano rispetto all’Italia fu non solo
duraturo ma riuscì a plasmarne le ulteriori forme
e, in qualche modo, a segnarne orizzonti e destini
Al tramonto dell’Impero romano d’occidente
l’Italia conservava, come risulterà qualche tempo
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
62
dopo dai codici giustinianei, la denominazione
di domina provinciarum.
Questa “signora delle province” romane subì
invasioni di popolazioni germaniche, longobarde, franche, arabe, normanne, ma molte di queste
forme culturali assorbì nelle sue usanze e nei suoi
costumi e di alcune seppe assumere stili e lettere
così ampliando il proprio bagaglio culturale e
respingendo, però, ogni visione localistica. Nel
primo millennio dopo Cristo nell’Italia dei barbari, dell’Impero carolingio, germanico e bizantino
resta forte il senso universale che sprigiona da
Roma, prima sede e fonte dell’Impero e poi sede
primaziale e luce spirituale di una religione, il Cristianesimo, che per sua stessa natura si definisce
universale. Come è stato notato il fatto che Roma
abbia costituito il centro dell’Impero e del Papato
è stato motivo di orgoglio ma anche ragione di
singolare travaglio per l’Italia.
In Italia si è generato uno spirito universalistico che, per un verso, per molti secoli ha
oscurato quello nazionale e, per altro verso, ha
fatto sì che i conati imperiali per la costruzione di
un’Italia politicamente unita siano stati sempre
vanificati dalla presenza del potere temporale
della Chiesa, che ha conservato ed esteso il suo
dominio su vaste zone della penisola. Peraltro
questo sentire universale degli italiani, che sarà
elemento costante, ora più ora meno presente,
della cultura italiana renderà idoneo il patrimonio
spirituale, etico e culturale dell’Italia ad esprimere
un respiro globale e un orizzonte planetario che
ne costituiranno carattere costitutivo e ragione
di universale apprezzamento.
Percorso artistico-letterario
Anche la visione politica di Dante si muove
in chiave universalistica fra Impero e Papato ma
la sua poesia realistica, nella nuova lingua, non
manca di richiamare la condizione dell’Italia,
implicitamente auspicandone una diversa e più
espressiva di uno spirito nazionale. Nel canto del
Purgatorio dove si incontrano due mantovani,
Virgilio e Sordello, l’invettiva dell’esule fiorentino
suona come un forte richiamo per un risveglio
dello spirito nazionale.
“Ahi serva Italia, di dolore ostello,
Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di province, ma bordello!”
È vero che l’Italia è serva perché non considerata ed abbandonata dall’Imperatore ma anche
perché priva di uno spirito di cittadinanza nazionale, luogo di grandi ingiustizie e sofferenze,
nave senza governo e incapace di darsi una meta
ed un porto dove approdare, non più signora fra
le province di Roma ma sede di corruzione e di
mancanza di dignità civile. Dante indica la necessità di una svolta nello spirito degli italiani(più
che nella vicenda italiana) una svolta che proprio
dalla poesia cosiddetta “politica e civile” prende
le mosse per la nuova lingua che restringe l’universalità del latino e per una proiezione dell’unità
religiosa già da secoli raggiunta nella penisola,
unità che considera il dato universale (cattolico)
né contrastante, ma coniugabile, con uno spirito
nazionale né necessariamente collegato al potere
temporale del Papa.
Leonardo Olschki2 così scrive su Dante: “L’impronta che Dante ha lasciato su tutta la civiltà
italiana è evidente ovunque, ma per certi rispetti
imponderabile… L’influenza di Dante non si avverte in un campo particolare della letteratura e
dell’attività artistica, ma nell’atmosfera generale
della vita italiana, nella riverenza e nella familiarità che circondano il nome e la memoria del
poeta, nella notorietà delle leggende popolari
e degli aneddoti scherzosi che si sono formati
intorno a lui e soprattutto nell’impronta che il
suo genio ha dato alla lingua italiana. Per più di
sei secoli il popolo italiano ha trovato nella Com-
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
creazioni musicali, forme
culturali tutte che hanno reso altissimo il genio
italiano. Di questo ricco
itinerario non posso che
richiamare pochissimi che
con le loro opere di natura
filosofico-letteraria hanno
reso nel loro tempo vivo
e plastico il sentimento
della nazione. Niccolò Machiavelli, Tommaso
Campanella, Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri.
Parini, prete milanese, mise in luce gli ozi raffinati
degli aristocratici fannulloni e le ingrate fatiche
del popolo operoso ed affamato, esaltando le
virtù sociali, la dignità umana, la patria terra. I
medesimi sentimenti morali e sociali fece rivivere il conte Vittorio Alfieri con il suo odio per la
tirannia e il suo culto per le patrie glorie. Con le
tragedie, i poemi satirici, gli scritti politici Alfieri
si rese vate di una forte indignazione morale
verso ogni tirannia ed ingiustizia e di un appassionato patriottismo lirico e intellettuale. Con
63
la Vita e le Rime di Vittorio Alfieri siamo all’alba
dell’ottocento. È tempo di Risorgimento non
come diversità ma come forma di incarnazione
del patriottismo nazionale che assume forma di
vissuto concreto e di realtà politico-esistenziale
del popolo italiano.
Niccolò Machiavelli
media una fonte inesauribile di insegnamento
ed ispirazione, di conforto e diletto. La vita tutta
della nazione si è venuta identificando con essa,
e nel corso di tante generazioni ha attinto vitalità,
forza e grandezza dalla meditazione sulle infinite
esperienze individuali e nazionali rispecchiate
nell’opera di Dante come in un libro sacro che
assommi in sé tutti gli aspetti dell’attività nazionale e della saggezza umana”.
Se Dante fu sommo maestro dello spirito
nazionale con la poesia e la lingua nuova, Giotto lo fu con la sua pittura ispirata “dallo stesso
sentimento di comunione immediata con gli
aspetti del mondo reale, dallo stesso godimento
delle sue apparenze
naturali ed umane da
cui Dante era stato
affascinato”. Forse
si può dire che da
questo processo di
nuova umanizzazione prende forma un
sentire nazionale che
trova nel Petrarca il cantore (sì di Laura ma
anche) di un patriottismo nazionale che trovava
fondamento negli antichi valori civili e morali,
da cui trae ragione, per un tributo alle qualità
umane del popolo italiano, instillando nella
coscienza nazionale l’idea dell’unità spirituale
dell’Italia. “L’esaltazione poetica del Paese in versi3
e in prosa, l’incessante evocazione delle glorie
della patria, l’appassionata esaltazione delle
sue bellezze nelle epistole e nelle rime infusero
negli italiani un sentimento patrio permeato di
lirismo, bensì ancor vago ed indeterminato, ma
pregno di una sostanza spirituale che contrastava
palesemente col gretto e rabbioso particolarismo
dei signori e delle repubbliche d’Italia”.
Questo patriottismo nazionale che si rivela
nella letteratura e nell’arte del Trecento, non nella
forma politica ma in quella dell’unità spirituale e
morale del popolo italiano per storia, cultura, lingua, religione ed arte, attraversa tutta la vicenda
italiana costituendo ora parte essenziale ora marginale di un processo nel corso del quale cultura
dominante sono le lettere o le arti figurative o il
fervore filosofico o gli entusiasmi scientifici o le
Spirito e valori del Risorgimento italiano
Che il patriottismo nazionale avesse avuto
un orizzonte limitato -nel senso che non fosse
inclusivo di una visione di nazione-Stato e,
dunque, di una dimensione geopolitica indipendente- può desumersi dal fatto che fino al
1775 non sembra si sia parlato di “risorgimento”
ma soltanto di “resurrezione”, “rinascita”, “rigenerazione”. Un’espressione nazionale che non
fosse meramente geografica era certamente
auspicata ma non in stretto riferimento ad una
nuova condizione di indipendenza politica. Ciò
è tanto vero che quando Saverio Bettinelli, gesuita, conia il termine “Risorgimento” e pubblica,
appunto nel 1775, “Del Risorgimento d’Italia negli
studi, nelle arti, nei costumi dopo il Mille”, nessun
riferimento è percepibile circa una concezione
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
64
politica della nazione, essendo lontana l’idea che
l’unità nazionale potesse essere realizzata nelle
condizioni politiche di quel passaggio storico
che inglobavano, fra l’altro, non solo l’esistenza
di uno Stato pontificio assai esteso ma anche forti
interessi delle altre potenze europee. Il Bettinelli
richiama, in fondo, quegli elementi dei quali il patriottismo nazionale si era fino ad allora sempre
più alimentato.
Come nota Giuseppe Galasso (4) l’evoluzione
dell’idea nazionale si verificò quando una relazione intrinseca “si determinò fra l’idea nazionale e le
idee di libertà e di democrazia nella grande congiuntura europea della fine del XVIII secolo, quando l’idea di Stato fu fatta pienamente coincidere
con quella di nazione, e di nazione innanzitutto
come popolo sovrano. Perciò il “buon patriota”
era allora il rivoluzionario che rappresentava il
popolo-nazione nei suoi diritti sovrani e nelle sue
istanze di libertà e democrazia, e la patria non era
tanto “la terra dei padri” quanto il paese in cui
ciascuno si riconosceva e sentiva la paternità universale dei diritti imprescrittibili dell’uomo come
individuo e come corpo sociale”. Come per gli altri
popoli europei anche per gli italiani la rivoluzione
francese del 1789 generò un’idea più compiuta
di nazione ed i primi a sentirsi investiti dell’alta
missione di rigenerare la nazione nel quadro dei
nuovi principi di libertà, uguaglianza e fraternità
furono i “patrioti” napoletani con la sfortunata ma
nobile rivoluzione del 1799.
Ma a quella che Galasso (5) chiama “la
successiva fase romantica di elaborazione e di
formulazione dell’idea nazionale” che “diede a
quest’ultima…la sua massima e più alta consistenza” si perviene in Italia non solo a seguito
della rivoluzione francese ma anche della presa
d’atto che un’unità politica è possibile dopo lo
sfaldamento e la ricomposizione dei vari stati
italiani ad opera di Napoleone nella sua prima
campagna d’Italia. Quasi a meglio sottolineare
questa possibilità come una naturale conseguenza della dominazione napoleonica in Italia
è l’appello all’indipendenza di Gioacchino Murat
proclamato nel 1814, che accende ulteriori speranze. Ma non nel cuore di molti.
Nell’intermezzo napoleonico Ugo Foscolo,
personalità cosmopolita come quella dell’Alfieri, poeta di grande
umanità e profonda
sensibilità, politicamente democratico,
aveva già scritto sia le
Ultime Lettere di Jacopo
Ortis sia quel capolavoro della poesia civile
che porta il titolo Dei
Sepolcri, nel quale le
alte memorie del passato sono un grande
viatico di speranza per
il futuro dell’Italia.
Il proclama di MuGioacchino Murat
rat fa breccia nello
spirito di un altro grande italiano: Alessandro
Manzoni che scrive Aprile 1814 e Il proclama di
Rimini. Né può esser sottaciuto che nel 1818
vengono pubblicate a Roma per la prima volta
le due odi patriottiche di Giacomo Leopardi
All’Italia e Sopra il monumento di Dante, canti
pur toccati da qualche accento retorico ma che
non smentiscono il grande lirismo del poeta di
Recanati e la sua anima universale che, però,
sente forte la storia, la cultura, l’arte ed il genio
tutto della sua Italia.
In questo clima nascono in quegli anni le
prime sette segrete che avranno come principale
la Carboneria ed in cui affiliazione e giuramento
hanno non un generico obiettivo umanitario ma
un sempre più chiaro e affinato orizzonte in cui si
staglia un arcobaleno di libertà, indipendenza ed
unità. Il patriottismo nazionale assume una chiara
connotazione politica e con queste associazioni
segrete si tenta di suscitare nuovi aggregati, di
minare le forze armate e la pubblica amministrazione negli stati governati dallo straniero,
di far giungere nelle scuole e nelle famiglie il
messaggio dell’unità nazionale e delle libertà democratiche mentre si attuano forme cospirative
che inquietano il potere straniero.
Le forme tipiche letterarie, intellettuali ed
artistiche del Romanticismo europeo non mancano in Italia; ma qui è nello spirito patriottico e
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
risorgimentale, è nell’azione politica ed in eroiche
e sanguinose imprese di patrioti rivoluzionari che
questa corrente di pensiero trova una peculiare
forma di incarnazione. La mobilitazione politica
del popolo italiano avanza rapidamente e fermenti rivoluzionari esplodono dal 1820 in avanti.
I moti lombardi del 1821 ispirano al Manzoni Marzo 1821, dove l’Italia, fra l’Alpe ed il mare, viene
cantata “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”. Quello del poeta lombardo
è un canto di speranza, tanto che quest’ode non
potrà che essere pubblicata soltanto nel 1848
quando il rischio dell’esilio, delle prigioni e delle
torture sarà certamente minore. Al canto di
questi grandi poeti –Foscolo, Leopardi, Manzoni
che, pur con diverse matrici spirituali e morali e,
dunque, con differenti visioni del mondo e della
vita, cantano con identica passione lirica l’amore
per la libertà e per l’indipendenza di un’Italia
unita– si accompagna il canto di molti altri minori
ma non meno amanti della patria. Berchet e
Pellico, Giusti e Niccolini, Grossi e Tommaseo,
Prati e Mameli (quest’ultimo l’autore dell’inno
nazionale italiano, morto giovanissimo combattendo per la Repubblica romana). “Tutti questi
Silvio Pellico
poeti esprimevano il fervore,
le speranze e le delusioni
della nazione che andava
sorgendo dalle trascinanti
passioni rivoluzionarie e
che nello stesso tempo
si sentiva inceppata nel
suo impeto unitario dalla
coscienza della propria debolezza ed impreparazione. In un momento di
tanta importanza storica il paese avrebbe avuto
bisogno non solo di bardi, cospiratori, profeti e
martiri, ma anche di capi politici dotati di una
visione lungimirante e di potere persuasivo,
capaci di trasformare un vago stato d’animo in
una concreta convinzione e le effusioni liriche
(e musicali come quelle di Giuseppe Verdi) in
azioni ben determinate e in un’organizzazione
efficiente”(6).
Le basi ideologico-politiche dell’indipendenza
È in questo contesto -di moti insurrezionali
spesso domati nel sangue (anche l’Italia libera
65
indipendente ed unita nasce da non pochi
martiri), di nobili ideali, di alto lirismo- che le
linee di pensiero e di azione più politicamente
caratterizzate e le forme organizzative più idonee si manifestano fra il 1830 e il 1870. Credo
che, in estrema sintesi, si possa dire che le linee
politiche sulle quali si è costruita l’indipendenza
della nazione e la formazione dello Stato italiano
sono state fondamentalmente quattro. La linea di
pensiero religioso-democratico (Dio e Popolo) di
Giuseppe Mazzini con la sua “Giovane Italia” che
inizialmente attirò la grande maggioranza dei patrioti in un alone di religione civile e nella convinzione che l’insurrezione popolare avrebbe dato
vita ad una repubblica scacciando gli stranieri
dal suolo della nazione. Le imprese mazziniane
furono sfortunate e represse. Il sogno dell’esule
genovese non aveva i necessari presupposti perché si potesse avverare ma certamente contribuì
non poco a tenere alto lo spirito nazionale e forte
il sentimento di servire il nuovo ideale di una sola
Italia anche a costo della propria vita.
Ebbe, invece, successo l’impresa di Giuseppe
Garibaldi -l’eroe mitico dei due mondi- con la
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
66
quale il Regno delle Due Sicilie fu sottratto ai
Borbone e affidato a Teano nelle mani di Vittorio
Emanuele II di Savoia, re del piccolo Regno di
Sardegna. Garibaldi si rassegnò al sogno
repubblicano perché comprese che
la possibile via dell’unificazione
passava attraverso il re di Sardegna non per i meriti della dinastia
dei Savoia ma per la grandissima
abilità politico-diplomatica di
quello che fu certamente uno dei
più grandi statisti dell’800: Camillo
Benso conte di Cavour.
Questa impresa di Garibaldi avvenne alle soglie della proclamazione
del Regno d’Italia; ma prima di questa terza
linea di azione un’altra aveva avuto singolare
svolgimento negli anni ’40 ad opera del sacerdote liberale Vincenzo Gioberti che, come Garibaldi, all’inizio aveva fatto parte della Giovane Italia.
Gioberti scrisse Del primato morale e civile degli
italiani (1843) sollecitando l’adesione degli italiani ad un modello federale degli Stati esistenti
sotto l’egida spirituale del Papato e quella militare
del re di Sardegna e così offrendo un’impostazione neo-guelfa alla soluzione del problema
italiano nella luce dell’attaccamento alle
tradizioni regionali e religiose. Questo
disegno del Gioberti ebbe largo seguito di
cattolici e non, anche perché fu sostenuto
dalle speranze che suscitarono le prime riforme amministrative del nuovo Papa Pio
IX, che però mutò atteggiamento quando
si trattò di partecipare alla guerra contro
l’Austria e di fronte alle insurrezioni del
1848 che scoppiarono in ogni parte del
paese e che costrinsero lo stesso Papa, il
Granduca di Toscana, il Re Carlo Alberto
del Piemonte e Ferdinando di Napoli a
concedere gli Statuti come primo segnale
di riconoscimento delle libertà civili dei
cittadini dinanzi all’assoluto potere dei
sovrani.
Le linee di pensiero e di azione di
Mazzini e Gioberti non ebbero concreta
traduzione sotto l’aspetto conclusivo
della vicenda unitaria ma certamente con-
tribuirono ad ampliare il consenso allargando la
base popolare verso la triade valoriale della libertà, dell’indipendenza e dell’unità. La positiva linea
di azione di Garibaldi fu, invece, ben utilizzata
da Cavour che giungeva a concludere il
processo unitario dell’Italia nel 1861
dopo che da dieci anni prima, quale
primo ministro del Regno di Sardegna,
da abilissimo politico e diplomatico
aveva tessuto una tela complessa con
tutte le potenze europee interessate e,
pur sconfitto talvolta nelle operazioni
belliche, era riuscito a conquistare la
Lombardia e ad annettere al Regno dei
Savoia, con i plebisciti popolari, il resto
dell’Italia geografica ad eccezione del Veneto e
dello Stato pontificio sostanzialmente ridotto al
territorio laziale.
Cavour muore qualche mese dopo la proclamazione del Regno d’Italia e, a seguito di trattative diplomatiche, nonostante la sconfitta italiana
del 1866, il Veneto viene ceduto all’Italia e nel
1870 Roma viene occupata dalle truppe italiane
e il Papa si ritira nelle mura Vaticane. Si completa
così il processo unitario. Già dal 1861 gli italiani
erano messi alla
prova nel senso
di costruire una
realtà etico-sociale e politicoeconomica che
fosse non solo
rispettosa dei valori nazionali che
avevano sostenuto il cammino
risorgimentale,
striato da non
poco sangue,
ma capace di
ampliare portata e significato
dei medesimi
valori di libertà,
indipendenza e
unità per rendere
Re Carlo Alberto
l’Italia un paese
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
degno delle storia delle sue origini, delle tradizioni antiche e nobili della sua gente e del suo
genio per il quale ha sempre ricevuto ossequio
ed ammirazione.
Il primo tempo dell’Italia unita (1861-1945)
Non intendo certamente fare alcuna sintesi
storica di questo lungo periodo dell’Italia monarchica, ma soltanto sottolineare alcuni
profili della vicenda italiana al fine di
mettere in risalto luci ed ombre di un
itinerario difficile in cui i valori risorgimentali non sempre hanno brillato e
lungo il quale, quindi, le condizioni del
popolo italiano non sempre li hanno
pienamente espressi.
Il centralismo statale voluto da Cavour e
mantenuto dai suoi successori, nonostante le
spinte federaliste di Cattaneo, non ha giovato a
risolvere quello che è sembrato subito un problema fondamentale della nuova realtà italiana. Le
condizioni socio-economiche del Mezzogiorno al
momento dell’unificazione non erano le stesse di
quelle del Nord. Sul punto occorre considerare la
grandissima quantità di analfabeti, la condizione
di povertà di grandissime masse di contadini
nelle campagne del Regno borbonico, la diversità
delle complessive condizioni igienico-sanitarie
e dei servizi pubblici allora esistenti fra Napoli
e alcune altre città rispetto al resto del Regno,
la modesta realtà industriale e dei trasporti,
considerando anche che le più fiorenti industrie
meridionali erano per la grande maggioranza
statali. Certamente il sistema dei grandi feudi
esistenti al Sud non aiutò il processo di sviluppo
economico a favore dei contadini, anche per le
resistenze degli agrari. La non sempre efficiente
amministrazione non aiutò, d’altro canto, la nuova organizzazione statale trasferita sul modello
piemontese all’intero territorio nazionale. La
questione meridionale non viene però percepita
ed assunta dagli organi centrali del nuovo Stato
in tutta la sua vastità e complessità ma, a causa
degli episodi di brigantaggio pur presenti, viene
considerata essenzialmente come questione di
ordine pubblico con forme repressive di singolare
violenza estesa ad intere comunità e capaci di
colpire con i briganti anche contadini, esasperati
dalla miseria, e legittimisti borbonici, difensori
nostalgici del passato regime.
Nei primi quarant’anni dell’Italia unita, la
mancanza di un serio approfondimento della
realtà socio-economica del Mezzogiorno e di
conseguenti politiche volte ad agevolare uno
sviluppo economico capace di generare forme
propulsive locali, non solo non ha
iniziato un superamento del dualismo italiano, ma ne ha in qualche
modo, anche se inconsapevolmente, agevolato il processo. Segno
palese fu la grande emigrazione
dei meridionali in cerca di lavoro
e il grande divario di reddito pro capite per
quanti riuscirono a restare in Italia allocati in
gran parte presso le pubbliche amministrazioni.
Nonostante la legge speciale per Napoli agli
inizi del ‘900 e un processo di lenta e circoscritta
industrializzazione, accompagnato da una buona scolarizzazione che comportò una notevole
diminuzione dell’analfabetismo, il paese duale
67
persisteva con evidenza anche dopo la prima
guerra mondiale.
Questa tragica guerra, che contò centinaia di
migliaia di morti e feriti, oltre a completare l’unificazione servì a cementare lo spirito nazionale
fra le varie parti del Paese, ciascuna delle quali
sacrificò al fronte molte giovani vite. L’aggravata
condizione economica dell’Italia nel dopoguerra
rese ancora più chiara su questo piano la dualità,
evidenziando come il problema del Mezzogiorno fosse certamente la più rilevante questione
nazionale che l’Italia si trascinava dalla sua unificazione. Il ventennio fascista provvide sì alla
bonifica delle paludi, a qualche limitato processo
di industrializzazione attraverso l’IRI costituito
negli anni ’30, ma contò soprattutto sulla possibilità di utilizzare le masse meridionali come forza
di colonizzazione nei
territori del Nord-Africa, ritenendo questa
la migliore soluzione
del problema occupazionale. La seconda
guerra mondiale con i
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
68
milioni di morti operò distruzioni ingenti in tutto
il nostro paese e, pur nelle degenerate condizioni complessive, registrò alla fine del conflitto
il permanere di un divario fra Nord e Sud che
diventava, nell’impegno ricostruttivo del paese,
la questione nazionale di maggior rilievo umano,
politico ed economico.
Dopo oltre ottant’anni di storia unitaria l’Italia
presentava una questione economica nazionale
assai aggravata per gli effetti di una guerra
perduta. All’interno di essa v’era una questione
meridionale ancora di gigantesche proporzioni
sotto il profilo economico e sociale. V’era poi una
questione politico-istituzionale di rilievo che
l’unificazione italiana aveva ben indirizzato sui
temi dei diritti e delle libertà civili e politici. Sul
piano politico, però, il processo era stato molto
lento, non agevolato da formazioni politiche coese e programmaticamente opposte. Quello che si
chiamerà il “trasformismo italiano” è quasi subito
presente nel percorso politico dell’Italia unita e
genererà quel “notabilato” della classe politica
che contrassegna molti decenni di vita unitaria.
La democrazia cresce lentamente e quando, nelle
elezioni del 1913, si arriva al suffragio totale maschile il passaggio da una democrazia “bambina”
a “giovane” viene interrotto prima dalla guerra
mondiale e poi da formazioni politiche –socialiste e cattoliche, le prime rigenerate ma divise al
loro interno (socialisti e comunisti) e le
altre nuove (il Partito Popolare di Luigi
Sturzo)– incapaci di collegarsi per arrestare un processo di lotte e confusione
che porterà al governo presieduto da
Benito Mussolini, conclusione imposta
anche con una certa violenza e avallata dalla monarchia.
In pochi anni la “democrazia bambina” scompare definitivamente in un
regime autoritario e dittatoriale, in
cui i partiti non hanno più diritto di
cittadinanza, la libertà di pensiero e
di espressione è tolta o gravemente
censurata, la libertà di insegnamento
ed educazione è solo quella fascista,
l’etnia ebraica viene perseguitata.
Mussolini stringe un’alleanza con il
nazismo e fa entrare in guerra l’Italia accanto
alla Germania di Hitler. L’immane catastrofe
della guerra combattuta su più fronti, la caduta
di Mussolini sfiduciato dai suoi stessi uomini del
Gran Consiglio, l’armistizio richiesto ed ottenuto
dall’Italia, l’abbandono di Roma da parte del Re
e del Governo italiano, l’occupazione del CentroNord d’Italia da parte dei tedeschi appoggiati
da Mussolini che governa da Salò con milizie
fasciste, questo complesso di avvenimenti pone
gli italiani democratici in una condizione di
riconquista della libertà, dell’indipendenza e
dell’unità. Sono anni di nuovo risorgimento e di
preparazione ad una nuova alba dell’Italia unita:
Resistenza e Costituzione gettano le fondamenta
della nuova democrazia italiana.
Resistenza e Costituzione
La Resistenza fu un movimento militare e
civile che perseguì due obiettivi necessari per
consentire all’Italia di riprendere un cammino
di libertà ed indipendenza. Si trattava, infatti, di
liberare il paese sia dalla presenza dell’invasore
tedesco con il quale, dopo l’armistizio, si era determinata una condizione bellica, sia dalla ancora
persistente presenza al Nord di un governo fascista guidato da Mussolini e protetto dalle forze
tedesche. Poiché alle dipendenze del governo
fascista di Salò agivano con non pochi militari,
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
già dell’esercito regolare italiano, civili italiani,
la Resistenza costituì anche una sorta di guerra
civile per liberare definitivamente il Paese da una
perniciosa appendice fascista la cui permanenza
avrebbe generato non pochi problemi nei rapporti con i vincitori della guerra, con i quali l’Italia
avrebbe dovuto stipulare il trattato di pace.
Nel processo unitario dell’Italia la Resistenza
resta un passaggio significativo che può ben
essere salutato come il secondo Risorgimento
italiano perché gli ideali che informarono il
movimento popolare furono sostanzialmente
la riconquista delle libertà civili e politiche, che
il fascismo aveva cancellato dalla concreta vita
degli italiani, la rinnovata indipendenza del paese
dall’invasore tedesco e la determinazione di un’
unità di governo che rispondesse all’esigenza
unitaria della nazione. Questo movimento popolare fu guidato dalle forze politiche che in Italia
già dal 1942 avevano cominciato a ricostituirsi
come principio plurale per un processo democratico, forze politiche già presenti nel governo
al Nord, alternativo a quello fascista di Salò, e
costitutivo del Comitato di Liberazione Nazionale
che guidò grande parte delle operazioni belliche
e politiche della Resistenza.
Non mette conto qui ripercorrere il processo
politico che portò alle elezioni del 2 giugno del
1946 ma solo evidenziare che quella vicenda
elettorale determinò, per un verso, uno iatus
nell’itinerario dello Stato unitario mutandone la
natura da monarchica in repubblicana e, per altro
verso, pose le basi, con l’elezione dei componenti
di un’Assemblea Costituente, perché l’antica
democrazia bambina potesse, in virtù di un rin-
novato risorgimento spirituale morale e politico,
riprendere il proprio cammino, consentendo al
popolo italiano di raggiungere forme concrete
di maturità democratica.
Il risveglio alla democrazia trovò in campo dispiegate e, perciò, rappresentate nell’Assemblea
Costituente tre formazioni politiche di diversa
storia e matrice culturale: quella social-comunista
di matrice marxista; quella laico-repubblicana di
matrice liberale; quella democristiana di ispirazione cattolica. Le grandi distanze nei principi
fondamentali delle tre correnti di pensiero e le
forti contrapposizioni politiche determinatesi
negli anni ’46-’47 per il governo del Paese non
facevano certamente sperare bene per un
processo costituente. La sensibilità umana dei
costituenti non poteva non tener conto della
tragedia della guerra e delle condizioni morali e
materiali in cui il paese si trovava in quegli anni.
La loro dimensione morale non consentiva di
far valere lo spirito di parte sul reale interesse
generale e sull’oggettiva necessità di porre basi
chiare e condivise alla ricostruzione dello Stato
69
unitario, idonee premesse per l’edificazione di un
concorde patto di convivenza. La loro preparazione culturale e politica li induceva ad un discorso
alto e profondo, capace però di vincere sterili e
polemiche contrapposizioni e di concorrere a
condividere valori provenienti da ogni parte che
comunque fossero oggettivamente assai significativi nell’ottica della costruzione di un bene
comune in un orizzonte dagli ampi sviluppi.
I nostri padri costituenti dettero, anzitutto,
un timbro esemplare alla nostra democrazia
facendo risaltare la dimensione dialogica come
essenziale e idonea a ricercare, pur nella naturale
contrapposizione di maggioranza e minoranza, la
soluzione più adeguata per il governo dei processi sociali. La loro dialettica fu alta, anche accesa
ma di contenuti chiari, mai strumentale ma volta
a dare consistenza a principi e valori fondativi
che hanno retto al vaglio di un tempo complesso globale e veloce qual è quello vissuto anche
dal nostro Paese in quest’ultimo trentennio. La
loro capacità di sintesi fu ammirevole perché
nobilitata dalla passione di aprire agli italiani un
orizzonte ricco di possibili mete civili e sociali e
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
70
perché idonea a dare luce ad un
cammino di democrazia matura.
La nostra Carta Costituzionale non determinò una sorta di
do ut des, un “compromesso” fra
principi e valori delle tre culture
presenti nella Costituente perché
lo spirito non fu quello di uno
scambio. Fu, invece, quello di una
reciproca accoglienza di quanto,
con convinzione nascente da un dialogo alto e
serrato, fu quasi unanimemente ritenuto giusto
-a prescindere dalla provenienza culturale- porre
a fondamento morale, giuridico e politico del
nuovo Stato repubblicano. I costituenti acquisirono così un grande merito storico perché seppero
distinguere dalla pur ferrea lotta ideologica e
politica che in quegli anni attanagliava il Paese
l’opera fondativa della Costituzione. Questa
nasceva dalla tragedia morale e materiale della
guerra e dalla comune passione della Resistenza
e non solo per quella contingenza doveva valere
ma per reggere a lungo la comune convivenza
degli italiani. .
Da questa condivisa origine umana e civile e
per questo orizzonte, anch’esso pienamente condiviso, si volle una Carta che, in quanto posta a
fondamento, non fosse possibile cambiare se non
con determinate e assai più rigide procedure di
quelle di una legge ordinaria. Per questa ragione
si dice che la nostra Costituzione è “rigida”. E più
tardi la Corte Costituzionale, il supremo organo
di garanzia dell’ordinamento costituzionale e,
dunque, di uno Stato democratico e di diritto,
dirà che quella rigidità si muta in una non revisionabilità giuridicamente rilevante non solo
per quanto espressamente previsto nella stessa
Costituzione (art.139) -la forma repubblicana- ma
per tutti quei principi che dal complesso normativo si evincono come “supremi” e, dunque,
determinativi delle qualità non solo fondative
ma perennemente caratterizzanti il nostro ordinamento repubblicano.
Su alcuni principi della prima legge dello Stato
Di alcuni di questi principi, che accanto alla
loro rilevanza giuridica esprimono valori di alta
pregnanza etica e,
perciò, di indirizzo
morale per la vita
sociale e civile degli
italiani, è bene dare
qualche esemplificazione perché il
discorso non resti
meramente astratto. Il principio personalistico, per il quale la persona umana è
posta al centro dell’ordinamento, non in quanto
individuo né in quanto numero di una massa ma,
come uomo o donna, inserita nella fitta trama di
relazioni sociali dove si svolge la sua personalità,
titolare di diritti inviolabili, che lo Stato non può
non riconoscere, e protagonista nell’ordinamento repubblicano. Questo principio, per un verso,
sottolinea la peculiare importanza che per l’ordinamento italiano assume la dignità della persona
umana, costituita da quella irripetibilità, da quella
inalienabilità –non può essere né comprata né
venduta-, da quella inviolabilità fisica e morale
–non può essere né violentata, né sottoposta
a tortura, né uccisa, neppure per volontà dello
Stato (pena di morte) sia in pace che in guerra, né
soggetta a lesioni o minacce– che fanno di essa
persona sempre un fine e mai un mezzo (I. Kant).
Dunque la persona non può mai essere cosa,
né mai essere strumentalmente usata. Per altro
verso lo stesso principio
porta al recupero ed
alla valorizzazione delle
formazioni sociali in
quanto realtà funzionali allo sviluppo e al
perfezionamento della
persona umana.
Il principio di eguaglianza, strettamente
legato a quello personalistico perché in un
ordinamento democratico e plurale le
persone non possono
che essere tutte eguali
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
per la legge e per le azioni poste in essere dalle
istituzioni della Repubblica che ha il compito “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica, economica
e sociale del Paese” (art. 3 Cost.).
Il principio di solidarietà, che impone a ciascuno e a tutti di non chiudersi in una dimensione
egoistica, consumistica e utilitaristica ma di
considerare che va sempre tenuta presente la
stretta relazione di interdipendenza fra l’agire
del singolo e il bene comune. V’è il dovere di farsi
carico, ciascuno per la sua parte, delle esigenze
della più ampia comunità di appartenenza e,
perciò, di rendersi concretamente partecipi sul
piano sociale, politico ed economico offrendo il
proprio contributo perché la dignità delle altre
persone sia effettivamente tutelata e l’eguaglianza sostanzialmente raggiunta
Le norme economiche della Costituzione
(cosiddetta Costituzione economica: artt.41,42
e 43) sono fortemente segnate dal principio di
solidarietà.
Il principio di sussidiarietà, che salvaguarda
le autonomie delle istituzioni pubbliche consentendo a quelle più vicine alle persone (per es. municipalità e comuni) di assolvere le loro funzioni
che vengono integrate solo in via sussidiaria da
altre istituzioni a più larga competenza (province,
regioni e stato). Nel contempo garantisce anche
un ausilio orizzontale consentendo l’autonoma
iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale come
il volontariato o il no profit (art. 118 Cost.). Si tratta
di un esplicito riconoscimento della funzione sociale della società civile. Dunque, sussidiarietà verticale e orizzontale ampliano i profili di autonomia
ma, nel contempo, corresponsabilizzano ad una
dimensione di servizio reciproco.
Il principio di laicità, che non
poco ha fatto discutere, anche in
tempi recenti, nel nostro paese. Questo principio non è espressamente
sancito nella nostra Costituzione ma
lo si desume dagli artt. 2, 3, 7, 8,19
e 20 della Costituzione, come ampiamente e
puntualmente motivato dalla Corte Costituzionale nella chiara e “storica” sentenza del 1989.
Nella Costituzione francese la laicità dello Stato
è dettata espressamente ed ha un senso di esclusione di ogni religione e collegata morale dalla
sfera pubblica. In Italia, invece, la laicità assume
una connotazione diversa. La sfera religiosa è
autonoma e non può invadere quella politica,
nel senso che l’autorità ecclesiastica non può
compiere scelte politiche. La libertà religiosa
individuale, collettiva e istituzionale ed in ogni
forma di culto, che non contrasti con il buon costume, è garantita anche nel senso che le autorità
ecclesiastiche o le comunità religiose possono
esprimere il loro pensiero su questioni pubbliche,
assumendo quella rilevanza che compete in una
libera democrazia alle formazioni sociali.
La Costituzione, sostanzialmente, riconosce un favor religionis e, per quanto attiene
alla religione cattolica, con il Concordato pure
richiamato nella Carta, auspica una piena collaborazione per il bene del Paese nella convinzione
71
che il fattore religioso sia significativamente
importante per la coesione sociale. Lo Stato, di
conseguenza, non interferisce nella vita religiosa
del Paese o nella sfera morale delle singole persone i cui comportamenti vengono giudicati, ed
eventualmente sanzionati, solo se contrari all’ordinamento statale. Il principio di laicità rende
rispettosi dell’autonomia delle realtà temporali
ma non implica una separazione fra le attività
delle Chiese e le attività dello Stato ma solo
una doverosa distinzione, tenendo conto che le
une e le altre si rivolgono alle stesse persone ed
intendono conseguire, sotto profili diversi ma
collegati, il bene comune .
Nei primi dodici articoli della Costituzione,
sotto la rubrica “Principi fondamentali”, oltre quelli
già citati, i Costituenti hanno anche inserito: il
diritto al lavoro e il concorso di
ciascun cittadino al progresso materiale o spirituale della società; la
tutela delle minoranze linguistiche;
la promozione dello sviluppo della
cultura e della ricerca scientifica e
tecnica; la tutela del paesaggio -e,
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
dunque, dell’ambiente- e del patrimonio storico
e artistico; il rispetto del diritto internazionale,
della relativa condizione giuridica dello straniero
e del suo diritto all’asilo nel territorio della Repubblica per cause politiche; il ripudio della guerra
come strumento di offesa e la promozione della
pace e della giustizia fra le nazioni; il tricolore
come bandiera della Repubblica.
72
Prima e seconda parte della Costituzione
La Carta Costituzionale contiene poi due
parti. La prima parte concerne “diritti e doveri dei
cittadini” e si compone di quattro titoli: rapporti
civili ( libertà personale, di corrispondenza, di
domicilio, di riunione, di associazione, di pensiero, di stampa; diritto a non essere privato per
motivi politici del nome, della cittadinanza e della
capacità giuridica; dovere di dare prestazioni
personali se imposte per legge; diritto al giudice
naturale; esistenza del reato solo se già previsto
dalla legge; presunzione di innocenza sino alla
condanna definitiva; pene, escluse quella di
morte e le torture, con funzione rieducativa;
divieto di estradizione del cittadino per reati
politici; responsabilità diretta dei dipendenti
pubblici ed indiretta dei relativi enti pubblici per
violazione di diritti); rapporti etico-sociali (riconoscimento della famiglia fondata sul matrimonio e
diritti e doveri di genitori e figli; protezione della
maternità, dell’infanzia e della gioventù; tutela e
promozione della salute; libertà di arte e scienza;
la scuola aperta a tutti con almeno otto anni di
istruzione obbligatoria e gratuita; autonomia
dell’università); rapporti economici (tutela del
lavoro, diritto alla retribuzione, lavoro femminile,
assistenza sociale e privata, diritto al lavoro di
inabili e minorati; libertà dei sindacati e diritto
di sciopero; libertà dell’iniziativa economica e
garanzia della proprietà privata e loro funzione
sociale; bonifiche e trasformazione del latifondo;
espropriazione per fini di pubblica utilità; funzione sociale della cooperazione; tutela e sviluppo
dell’artigianato; partecipazione dei lavoratori
alla gestione delle imprese; tutela del risparmio);
rapporti politici (diritto di voto e di associazione in
partiti politici; proposte popolari di leggi; accesso
agli uffici pubblici e alle cariche elettive; difesa
della Patria; dovere di pagare i tributi; dovere di
fedeltà alla Repubblica e di esercitare le funzioni
pubbliche con disciplina ed onore).
La seconda parte concerne l’ “ordinamento
della Repubblica” e si compone di sei titoli: il
Parlamento (Camera dei Deputati e Senato
della Repubblica; il procedimento di formazione delle leggi ordinarie, dei decreti-legge in
caso di urgenza e dei decreti legislativi delegati
dal Parlamento al Governo); il Presidente della
Repubblica (elezione e funzioni); il Governo (il
Consiglio dei ministri; la pubblica amministrazione; il Consiglio di Stato; la Corte dei Conti); la
Magistratura (giudici ordinari e pubblici ministeri;
giudici amministrativi; giudici contabili; Consiglio
superiore della magistratura; prerogative dei
giudici; organizzazione spettante al Ministro
della giustizia; norme sulla giurisdizione e obbligo dell’azione penale da parte del pubblico
ministero); le Regioni, le Province, i Comuni (sono
oggi tutti enti costituzionali in cui si articola, con
lo Stato, la Repubblica italiana; regioni a statuto
speciale con più ampia autonomia sono Sicilia,
Sardegna, Trentino- Alto Adige, Friuli-Venezia
Giulia e Valle d’Aosta; le altre sono a statuto ordinario e oggi hanno potestà legislativa generale,
ad eccezione di quelle materie che sono dalla
Costituzione -art.117- demandate alla esclusiva
competenza dello Stato, mentre l’esercizio delle
competenze amministrative dovrebbe essere di
norma delegato dalla Regione ai Comuni e alle
Province; sono anche previste Città metropolitane; tutti questi enti territoriali hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa; il Governo ha
un potere di sostituzione in casi espressamente
previsti; dall’art. 121 all’art. 133 la Costituzione
disciplina la costituzione delle Regioni e le leggi
regionali); Garanzie Costituzionali (sono gli ultimi
sei articoli della Carta e disciplinano la compo-
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
sizione e le funzioni della Corte Costituzionale
nonché le leggi di revisione costituzionali con le
questioni sulla rigidità della Costituzione di cui
sopra ho fatto cenno).
Un intento didattico-esortativo
La ragione per cui ho sommariamente dedicato una pagina alla descrizione dei titoli che
costituiscono il contenuto della Costituzione è
meramente didattico-esortativo. Intanto auspico
che questo scritto vada soprattutto in mano a
docenti e studenti e che la lettura del sommario
costituzionale susciti in tutti la sana curiosità
ad andare a leggere integralmente il non lungo
testo costituzionale. Nella lettura non bisogna
avere fretta ma dedicare qualche ora leggendo
ogni giorno un titolo e cercando di memorizzare
oltre ciò che più personalmente colpisce anche
quello che costituisce il contenuto essenziale. Se,
poi, ci si fornisce di un facile testo di commento
si vedrà che il tutto diventa più interessante e
il senso della cittadinanza e dell’appartenenza,
ad uno Stato dotato di una Carta fondamentale
così alta , certamente registrerà maggiore consapevolezza, incrementando il legittimo desiderio
del cittadino di essere pienamente responsabile
e partecipe al processo di sviluppo e di sempre
maggiore modernità ed umanizzazione della
propria nazione.
La lettura del testo costituzionale deve
sempre farsi accompagnare dal pensiero che nei
primi quarantacinque anni di applicazione dei
valori etici e dei principi giuridici contenuti nella
Carta il nostro Paese è diventato una potenza
mondiale anche dal punto di vista economico,
mantenendo il suo primato come nazione di arte,
cultura e storia. All’Italia, almeno fino agli anni
’90, si è guardato con rispetto ed ammirazione
ed effettivamente noi italiani abbiamo ragione,
fino a quegli anni, di essere sanamente orgogliosi. Dalle macerie materiali e morali della guerra
abbiamo con tenacia,passione e dedizione ricostruito il Paese dandogli una spinta vertiginosa
in modo da generare un boom economico e da
ridurre il dualismo fra Nord e Sud.
Nonostante la crisi petrolifera dei primi anni
settanta ed i primi preoccupanti segnali del terro-
rismo, che avrebbe reso bui non pochi anni successivi della Repubblica, l’Italia procedeva sulla
via di importanti riforme imposte, appunto, dalla
effettiva costruzione di uno Stato democratico,di
diritto e sociale quale disegnato dalla Costituzione post-bellica. Negli anni ’50 con la Comunità
del carbone e dell’acciaio si era aperto il lungo e
ancor oggi travagliato, ma importantissimo, processo europeo. Con la riforma agraria, con il piano
per la costruzione di case economiche e popolari,
con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno si
apriva un capitolo di riforme sociali e di interventi
pubblici che promuovevano l’economia nell’intero Paese e facevano guadagnare al Mezzogiorno
un passo più spedito e lungo per accorciare il
divario. L’industrializzazione si allargava nel Paese
e si incrementava soprattutto nel Nord anche in
virtù dell’ausilio singolare di mano d’opera che
l’emigrazione dalle zone del Sud ha continuato
a fornire per qualche decennio.
La condizione socio-economica degli italiani,
con un notevole risparmio familiare o con l’acquisto della casa, migliorava nettamente di anno in
73
anno e, in virtù della qualità e dell’innovazione sul
piano industriale, anche il trend delle esportazioni si incrementava e l’Italia assumeva nel contesto
internazionale una posizione di rilievo per la sua
capacità economico-finanziaria. Nel 1956 entra
in funzione la Corte Costituzionale e si dà vita
a quella giurisprudenza che, superando le forme
delle sentenze di mero accoglimento o di mero rigetto delle questioni di legittimità costituzionale,
consente alle norme della Carta di avere una capacità espansiva sul piano interpretativo in modo
da superare ogni perniciosa cristallizzazione che
non avrebbe corrisposto allo spirito costituente.
L’opera della Corte è ampiamente meritoria per lo
sviluppo e il progresso della società democratica
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Giacomo Brodolini
nel nostro Paese e per la grande
apertura dell’Italia ai nuovi processi di internazionalizzazione e
di globalizzazione che all’epoca
della Costituente erano soltanto
concettualmente embrionali.
Negli anni ‘70 lo Statuto dei
lavoratori, la riforma del diritto di
famiglia, il complesso delle leggi
che adegueranno l’ordinamento
militare allo spirito della Costituzione, l’entrata in funzione delle assemblee elettive e delle giunte delle Regioni a statuto ordinario,
segnano momenti di singolare importanza per
l’attuazione della Costituzione; così come più tardi la revisione del Concordato fra Stato italiano e
Chiesa Cattolica, l’approfondimento del principio
di laicità, nonché profonde riforme delle autonomie locali e della pubblica amministrazione.
Queste ultime riforme furono condotte a buon
fine, negli anni novanta, a Costituzione invariata
ma sostanzialmente sollecitarono, per una piena
applicazione e per una più completa attuazione
del principio di sussidiarietà, la riforma del titolo
V della seconda parte della Costituzione. Fu
così conferita a Comuni, Città metropolitane,
Province e Regioni quella più forte autonomia
costituzionale che ha consentito di parlare, impropriamente, di un federalismo italiano sul quale, con molte incertezze e contrastanti posizioni
politiche, stanno faticosamente provvedendo
Parlamento e Governo. Questo federalismo è
auspicabile solo se effettivamente sarà graduale,
cooperativo e solidale.
74
La nostra democrazia si è dimostrata
solida sul piano della lotta al terrorismo,
alla criminalità organizzata, alla realizzazione dello stato sociale, allo sviluppo
dell’occupazione e dell’economia, alla utilizzazione delle nostre bellezze paesaggistiche e del nostro grande patrimonio
storico, artistico, letterario, archeologico
e scientifico. La scolarizzazione e l’alfabetizzazione ha compiuto giganteschi
passi in avanti e nel cinema, nel teatro,
nella moda e nell’utilizzazione dei media e dei
sistemi digitali l’Italia non ha mancato di far
sentire la sua capacità di incidenza e di creatività
a livello mondiale.
Nella luce della Costituzione del 1948 il
nostro Paese ha espresso una democrazia
matura e ha raggiunto la dimensione di una
grande nazione che si ascrive fra i fondatori
dell’Unione Europea e fra le più industrializzate
nazioni del mondo. Credo che si possa affermare
che, tra molte luci e certamente alcune ombre,
il nostro patto costituzionale ha segnato di
libertà, progresso sociale e maggiore giustizia
il cammino degli italiani fino alla fine del secolo scorso, anni nei quali con sacrificio e con
capacità di direzione politica siamo riusciti ad
entrare nel sistema dell’euro mantenendo una
posizione di primo piano nel consesso europeo
ed internazionale.
Raffaele Cananzi
Ex Presidente dell'Azione Cattolica
e già Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio
1
In occasione del 150° dell’unità d’Italia sono stati pubblicati molti testi fra i quali: Alberto Mario Banti, Il
Risorgimento, Laterza; Luigi Ganapini e Alberto De Bernardi, Storia dell’Italia unita, Garzanti; Pino Aprile, Terroni,
Piemme; Giacomo Biffi, L’unità d’Italia, Cantagalli; Aldo Cazzullo, Viva l’Italia, Mondadori; Carlo Fruttero e Massimo
Gramellini, La patria bene o male, Mondadori; Emilio Gentile (a cura di Simonetta Fiore), Italiani senza padri, Laterza;
Massimo Viglione, 1861. Le due Italie. Identità nazionale,unificazione,guerra civile, Ares.
2
Leonardo Olski, L’Italia e il suo genio, Mondadori-Milano, 1953
3
Della “Poesia civile e politica” v’è un’ampia antologia nel volume omonimo della collana dell’Istituto Poligrafico
dello Stato, Roma, 1995. Il volume contiene una interessante introduzione di Mario Lunetta, oltre singole premesse
ai vari periodi (secoli) in cui il volume è suddiviso. È evidente che non tutto il genere poetico può essere ascritto
alla rigenerazione dello spirito nazionale degli italiani, ma certamente spunti e orientamenti in questo senso sono
in alcuni autori che non cito nel testo.
4
Giuseppe Galasso, voce Nazione in Enciclopedia del Novecento, Istituto Enciclopedia Italiana- Roma 1998
5
Giuseppe Galasso, ibidem
6
Leonardo Olski, op. cit.
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
IDEE
il filo
rosso
un modo nuovo di guardare
al risorgimento è quello per
cui, senza sminuire l’opera
di statisti come cavour, patrioti, politici e filosofi come
mazzini, combattenti come
Garibaldi, si rivalutano sentimenti, emozioni, speranze ed
illusioni di persone comuni.
Quelle che, in maniera sempre
più incisiva, agiranno, per e
in nome dell’italia, perché
fiduciosi nonostante tutto.
date ed eventi rilevanti
17 marzo 1861, 3 novembre 1918, 25 aprile
1945, 2 giugno 1946, 1 gennaio 1948, 27/28
marzo 1994…
Sono solo alcune delle date più significative
nella storia d’Italia tra XIX e XX secolo, tenute insieme da una forza per alcuni essenziale, perché
storicamente efficace, per altri del tutto marginale, perché oscurata da idee, teorie e metodi, patrimonio esclusivo di personalità deputate a gestire
la politica sia interna che internazionale dell’Italia.
È la forza di migliaia di persone, uomini ma
anche donne, che hanno dato un contributo
notevole all’evoluzione del nostro paese in senso
liberal-democratico, a partire dal Risorgimento,
fenomeno da cui si snodano e si dipartono le
vicende salienti dello stato-nazione; ma anche
di quanti, e sono centinaia di migliaia, che ad
esso hanno guardato con simpatia, trepidazione
e partecipazione, e che, nel più completo anonimato, hanno inseguito, voluto e messo in atto
un ideale di libertà e di indipendenza, erede del
più genuino giacobinismo francese, quello che,
per fare un esempio emblematico, ispirò la breve
e travagliata vita della Repubblica Partenopea
(gennaio/giugno 1799).
Dato che induce a riflettere, soprattutto in
ragione di un contesto storico, quello che connota l’Ottocento e parte del Novecento, in cui i 75
problemi erano tanti e troppo spesso di una gravità inaudita (analfabetismo largamente diffuso,
suffragio ristretto, sfruttamento delle classi rurali
ed operaie, condizioni igienico-sanitarie al limite
della decenza, parziale sviluppo delle vie e dei
mezzi di comunicazione…e l’elenco potrebbe
continuare) ma che non hanno frenato gli animi
nelle svariate ondate rivoluzionarie prima e belliche poi e che hanno guidato l’azione sotto l’impulso dell’emozione e della suggestione ispirate
da ideali di rinnovamento, inizialmente mitizzati
e via via interiorizzati a tal punto da far emergere
una matura opinione pubblica, portatrice di un
inedito spirito di appartenenza nazionale.
Rinnovamento che le tre guerre d’indipendenza identificano con la liberazione dallo
straniero e l’unificazione territoriale, raggiunte
anche grazie all’azione di gente comune, stanca
di essere vessata ed umiliata: il numero degli affiliati alle sette, dei rivoltosi del’20-’21, degli iscritti
alla Giovane Italia, di coloro che scendono in piazza
o partono volontari o guerreggiano nell’esercito
regolare del Regno di Sardegna o organizzano
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
in dono, passivamente) e, a seguire, con la nascita
della Prima Repubblica e della Costituzione.
Impegno di lotta messo in versi, come sempre
in maniera efficacissima, da Giuseppe Ungaretti:
Qui vivono per sempre/gli occhi che furono chiusi
alla luce/perché tutti/li avessero aperti/per sempre/
alla luce.
76
ospedali e servizi di collegamento nel 1848-49,
che tessono trame insurrezionali nei primi anni
cinquanta, che si arruolano volontari nel 1859, nel
1860 e nel 1866, che vanno a votare ai plebisciti,
che si affollano ai funerali di Mazzini, di Vittorio
Emanuele, di Garibaldi e di altri ancora, è assolutamente imponente (Alberto Mario Banti – Paul
Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in
Storia d’Italia, Annali, 22, Il Risorgimento, Einaudi,
Torino 2007).
Rinnovamento che la fine della Prima Guerra
Mondiale vede concretato nel completamento
dell’unificazione, con un tributo in termini di
vite umane elevatissimo: quanti dei cosiddetti
“giovani del ‘99” sacrificarono sè stessi in nome
di un patriottismo (poco conta se realmente nato
nel proprio intimo o indotto dall’entusiasmo
collettivo che esplose nelle radiose giornate di
maggio) che si poneva oltre ogni prospettiva di
pericolo, di insidia, di malessere fisico e psichico,
perché di reale c’era solo la bellezza della guerra
in nome dell’Italia?
Rinnovamento che, sullo scorcio del ventennio fascista e della Seconda Guerra mondiale, si
identifica con la liberazione, (protagoniste, ancora una volta, tante giovani vite confluite nei vari
Comitati e Brigate con un unico scopo: resistere
e sconfiggere il nemico interno ed esterno. Con
questo impegno di lotta il popolo italiano, non
trascinato da una dinastia, da un esercito o da un
governo legittimo, ha riconquistato la libertà con
le sue forze e con i suoi sacrifici, senza aspettarla
Valori e principi spesso calpestati
Inevitabile e doveroso, a tal punto, un bilancio in termini di riconoscimenti politici, civili
e sociali, oltre che culturali. Innegabili il diritto
alla libertà di pensiero, di parola, di coscienza,
all’uguaglianza dinanzi alla legge, al voto, al lavoro, allo sciopero, all’istruzione, alla salute…ma
altrettanto innegabili gli sviamenti che, già nel
corso della prima repubblica e, poi, nel passaggio
alla seconda e, in maniera ancora più devastante,
negli ultimi quindici anni hanno demarcato la
disparità (tra i pochi ed i molti) a tutti i livelli, ma
essenzialmente a livello economico-sociale.
Ci si riferisce, in sintonia con l’evento che
apre questo contributo, ad uno dei problemi
storici più dibattuti e controversi, che ancora
non trova risposte adeguate, anzi è aggravato
dalla proposta di legge sul federalismo fiscale
che, secondo il parere autorevole di esperti
economisti, taglierebbe fuori il grosso delle città
del Sud riproponendo, anche se per altre vie, la
cosiddetta Questione meridionale.
Tema, come dicevamo, difficile da affrontare
soprattutto se si parte dalla domanda in merito
all’esistenza, oggi come ieri, di “due Italie”.
Domanda a cui rispondono affermativamente gli storici di “destra”, perché convinti
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
che vengono dallo stato, c’è il rischio reale che la
democrazia venga sostituita dal populismo.
Se questa è quell’ “Unità” (termine da assumere nei suoi molteplici significati) così
ardentemente voluta da italiani fiduciosi in un
avvenire il più possibile sgombro da problemi
di tal genere, ebbene bisogna ripartire dal senso
più vero di italianità, quello che va ben oltre un
fatto puramente nominale.
che la storia d’Italia sia, fin dall’inizio, una storia
a due velocità, a causa dell’arretratezza delle
strutture economiche e sociali del Meridione
(arretratezza, é doveroso aggiungere, non certo
dovuta al caso).
Affermativamente rispondono anche gli
storici di “sinistra”, pur se per motivi diversi: il
Meridione è diventato un’Italia di serie “b” perché
colonizzato dall’Italia del Nord con un carico
fiscale che ha consentito l’accumulazione di capitali necessari per la sua industrializzazione.
Ma a queste due analisi contrapposte, che
hanno dominato il dibattito storico per più di
un secolo, se ne aggiunge una di stampo revisionista che trova in Giuseppe Giarrizzo, autore
di Mezzogiorno senza meridionalismo, uno degli
esponenti principali e per il quale non esiste e
non è mai esistita una separazione territoriale
netta fra un Nord sviluppato e un Sud sottosviluppato, ma un insieme di realtà diverse al Nord
come al Sud, e qui, in modo particolare, diverse
aree con problemi comuni non adeguatamente
affrontati dalla politica. Pertanto, afferma l’autore,
sarebbe più corretto parlare di una “questione
urbana” meridionale e di una fragilità strutturale
del sistema produttivo, entrambe derivanti dal
tipo di sviluppo che si è scelto per il Sud.
Interpretata in un modo o nell’altro, rimane il problema di fondo: a 150 anni dall’Unità,
come afferma Carlo Galli ne la Repubblica del 27
dicembre 2010, la frantumazione del ceto medio
creato dalle passate politiche di Welfare è già in
atto, e si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri;
le forme giuridiche dell’uguaglianza – la legalità, i
diritti civili – sono minacciate dall’insicurezza e dalla paura, e, a fronte dei nuovi messaggi biopolitici
La Storia al cinema
Appare appropriato, a questo punto, il titolo
del film di Mario Martone Noi credevamo che,
a mio avviso, si presta ad una duplice interpretazione, ovvero “ noi avevamo fede”, ma anche
“noi ci illudevamo”, laddove la prima inerisce alla
fiducia fatta propria da quanti hanno combattuto
e sacrificato la propria vita, non solo per l’unità
territoriale ma anche per una maggiore giustizia
sociale che equilibrasse il rapporto tra i vari strati
sociali. Ciò che in parte, grazie all’azione di partiti
e sindacati e di una politica volta ad accorciare le
distanze tra paese legale e paese reale, pur se tra
77
alti e bassi, si è verificato ed ha portato l’Italia, nel
1957, a far parte della CEE e a vivere il cosiddetto
miracolo economico, anche se con una ricaduta,
di lì a pochi anni, particolarmente dolorosa: il
fenomeno dell’emigrazione dal polo agricolo
al polo industriale del paese, non senza disagi,
umiliazioni, rimpianti. Mentre la seconda fa leva
sull’illusione che, già nell’immediato clima postunitario, viene stroncata dalla consapevolezza
che ideali nobili sono stati traditi; consapevolezza
che si rafforza sotto la guida di Fancesco Crispi,
un primo ministro che diede all’Italia nascente
un’impostazione non proprio progressista e
bassamente colonialista, determinando il disincanto in quanti si convincono sempre più che
non saranno mai considerati parte integrante di
uno stesso Stato, perché ritenuti scarsamente o
per niente produttivi, inattivi, passivi, costretti a
vivere in aree condizionate dal permanere del
latifondo, primo ostacolo per un’economia dinamica e competitiva, oltre che da politici locali
poco o per niente attenti ai problemi dei cittadini,
e da cittadini pronti a tutto pur di raggiungere i
propri scopi (ieri come oggi).
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
78
Aree, come è ben noto, in cui nascerà il
brigantaggio quale unico modo possibile per
contrastare una misera esistenza, terreno fertile
per ogni forma di vessazione e di conseguente
resistenza. Nonostante, secondo quanto emerso
dall’Archivio di Stato Torinese, il notevole apporto
popolare al progetto di Garibaldi: gente umile
che, dalla Sicilia alla Lucania, dalla Calabria alla
Campania, in 40.000, si era unita alle camicie
rosse e che, con il regio decreto dell’11
novembre 1860, si vide negato dal
governo di Torino l’immissione
nelle truppe regolari. Volontari, di
cui sono emersi nomi, mestieri,
paesi d’origine, e, a simbolo dei
quali basta citare Carmine Crocco,
combattente con Garibaldi al Volturno, destinato a diventare uno dei
protagonisti del brigantaggio postunitario, le cui origini vanno cercate
anche nel tradimento sabaudo delle aspettative suscitate dai garibaldini nelle popolazioni
del Meridione.
Naturalmente, con ciò, non si vuole giustificare un fenomeno che nasce e si attesta al di
fuori della legalità, ma solo cercare di capire la
causa prima all’origine di un evento doloroso
che, purtroppo, è gradualmente degenerato in
vere e proprie associazioni a delinquere, male
indomabile del nostro Paese e di uomini spesso
conniventi e collusi pur di vedersi riconosciuto un
seggio in Parlamento o in qualsiasi altra “stanza
dei bottoni”, contravvenendo in tal modo ad ogni
principio etico ma, soprattutto, determinando
l’imbarbarimento della politica e dell’economia.
E, effetto disastroso, alimentando un sentimento
di sfiducia nei milioni di giovani, quinta generazione di quegli uomini e quelle donne che hanno
dato il proprio contributo per un’Italia dal volto
più umano e solidale, perché convinti che al di
fuori della logica della democrazia non si potesse
vivere nel rispetto del prossimo. Giovani che,
nonostante la valida formazione, fatta di lodevoli
capacità e competenze, sono costretti a lasciare il
proprio caro pezzo d’Italia pur di vedersi riconosciuto effettivamente il principio lavorista sancito
agli artt. 1 e 4 della Costituzione.
Un obiettivo comune
È il motivo principale che ha indotto gli studenti italiani a lottare uniti, contro una riforma che
è ispirata e retta, per gran parte, da parametri
anticostituzionali e che induce a valorizzare
il giudizio espresso dallo storico Emilio
Gentile nel saggio edito da Laterza Né stato,
né nazione. Italiani senza meta, secondo
cui la fiducia dei cittadini è necessaria alla
salute di uno Stato democratico, tanto
faticosamente costruito, come l’ossigeno è
necessario alla vita degli esseri umani.
Fiducia che viene meno quando scelte
politiche utilitaristiche offendono e calpestano la
dignità dei “fratelli d’Italia” che, paradossalmente,
si sentono davvero tali solo quando tutti uniti e
col cuore in gola applaudono la Nazionale che
scende in campo.
Fiducia che, però, va alimentata quotidianamente a partire dalla famiglia e dalla scuola
e con l’ausilio di ogni altra agenzia educativa:
continuiamo a parlare ai giovani di oggi di altri
giovani che non inseguivano il potere personale
e che credevano solo in un mondo migliore.
Tanto, affinchè, contro il rischio di forme
estreme di qualunquismo, si riesca a trasmettere
il significato più profondo dei principi vitali del
paese; un paese che ha bisogno di una nuova
classe dirigente, determinata, preparata, ma soprattutto memore di quel filo rosso che percorre
un pezzo di storia italiana e che troppo spesso si
è tentato di spezzare.
Angelina Rainone
gennaio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
letteratura & risorgimento/1
La patria perduta di
L
Jacopo
Ortis
a seconda parte delle Ultime lettere di
Jacopo Ortis rac­conta in tutte le edizioni
un viaggio effettivo per località reali, tra­
sfor­mando le disconti­nuità geografiche e statali
e l’assenza di una meta defi­nita nella ricerca dello
“stato-nazione”.
Nell’Ortis 1802, incentrato sull’indipendenza
italiana, lo spostamento circolare, che consente di
con­clu­dere il racconto dove era co­minciato, ripro­
duce fedelmente i movimenti di Fo­scolo tra 1799
e 1802. Rovigo, Ferrara, Bologna, si configurano
come fer­mate di passag­gio verso Firenze –cuore
della cultura italiana– e la To­scana –co­stellata
dalle sofferenze che nella storia hanno segnato la
gente comune–, ma non verso l’agognata Roma,
dove a Jacopo è im­pedita l’entrata: «Ad­dio. Roma
mi sta sempre sul cuore».1
Il febbrile vagabondare, circoscritto solamente all’Italia setten­trionale, poi­ché non ol­trepassa
Firenze e la Toscana, acuisce la verifica mo­rale e
poli­tica del pro­tagonista, inserita in un ordine
natu­rale im­perniato sull’irreversibile diritto della
forza e sul tramonto di po­poli e regni.
Di conseguenza, il
cammino tra una storia
interrotta, imbrigliata
nelle ri­v alità locali in
cui gli stessi italiani si
lavano «le mani nel sangue degl’italiani» (EN,
IV, p. 137) e «guardano
come barbari tutti quegl’italiani che non sono
della loro provincia»
(p. 233), conduce a incroci reto­r ico-let­terari
(i mo­numenti e le città
H. Bonaventure Monnier, Esilio
to­scane, i guerrieri e le battaglie me­dioevali) e a
in­contri mancati o realizzati (Al­fieri, Parini), attardandosi su scorci simboli­ci come le acque profonde e vor­ticose del Po o il pro­filo acci­dentato
e sel­vag­gio delle Alpi Marit­time, pre­para­zione
79
allo sguardo «dall’alto»2 sulla storia de­gli uomini
e delle nazioni.
Ma il vagare «di città in città» nutre una più
sofferta partecipazione alle sorti nazionali, di cui
è spia l’immagine associata all’uso di “patria”.
Per quanto le occorrenze siano equamente
ripartite, nella prima parte il lemma, laddove non
abbia valenza gene­rica, si riferisce per lo più in
ma­niera centrifuga alla burrascosa situa­zione
di Venezia dopo la ca­duta delle speranze di
libertà, avvertita quale cesura storica, mentre il
richiamo agli italiani e all’Italia pare risuonare di
una connotazione più che altro spa­ziale, accomunando gli abitanti della penisola nel destino di un
umiliante tradimento. Basti pen­sare alla celeber­
rima lettera dell’11 ottobre 1797 («Il sa­crificio
della nostra pa­tria è consu­mato ... [...] Poiché ho
disperato e della mia patria e di me stesso ...»: p.
137) o a quella del 16 ottobre in rela­zione alle
traversie di Lauretta («Suo padre e i suoi fratelli
hanno dovuto fuggire la loro patria ...»: p. 139).
La posizione collima con quella di Foscolo, che,
appena rien­trato nella Serenissima, il 19 giugno
1797 proclama alla So­cietà d’Istruzione Pubblica
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
80
la volontà di lottare per la città lagunare:
illu­stri, puntualmente codificata
«La Re­pubblica Cispadana m’accolse, e mi
da un lessico rituale («io adorafregiò d’onori non troppo a me cari, perché
va», «contemplandole io tremava
non erano onori della mia Patria; ma la
preso da un brivido sacro», «pie
Patria di­venne libera, ed io volai …».3
zolle», «an­dare a Roma a proLa prospettiva cambia al­lorché Jacopo,
strarmi», «Sull’urna tua, Padre
spostandosi, dilata i limiti geo­gra­fici, perDante!... Ab­bracciandola mi sono
ché, a contatto con le ferite inferte, il concetto
… genuflesso»: pp. 227, 233 e 265).
della pic­cola pa­tria viene con vitalità incorporato
Già l’incuria col­pevole, che ha ridotto l’abiden­tro quello della grande pa­tria. L’orizzonte itatazione di Petrarca ad Arquà a «un mucchio di
liano si profila distesamente nelle due lettere carruine» tra «ortiche» ed «erbe selvatiche» (p. 152),
dinali del 4 dicembre 1798 e del 19-20 febbraio
sfocia nell’acre invettiva contro l’«irreligione»
1799: «… sovente ho guardato con una specie di
dei proprietari e nell’appassionata esortazione
compiacenza le miserie d’Italia, poiché mi parea
a non tradire la memoria patria («O Ita­lia! placa
che la for­tuna e il mio ardire riserbassero a me
l’ombre de’ tuoi grandi!»), vera base della civiltà.
solo il merito di liberarla» (EN, IV, p. 238); «i ge­miti
Strettamente concatenato a questo lamento,
di tutte le età, e que­sto giogo della nostra patria
l’accenno alla com­miserevole vita di Tasso, pernon ti hanno per anco insegnato che non si dee
seguitato dalla malvagità e dall’ingiustizia degli
aspet­tare libertà dallo straniero?» (p. 241); «Io odo
uomini, inaugura il canone della nuova nazione
la mia patria che grida» (p. 244); «Conosco i disaita­liana. Galileo, Ma­chia­velli, Mi­che­lan­gelo, i
stri, le in­fermità, e la indigenza che fuori della mia
«primi grandi To­scani», gli «avanzi della no­stra
patria mi aspettano?» (p. 263). In quello stesso
gran­dezza» di Roma (pp. 232-233), si alline­ano
torno di tempo Foscolo si pronuncia chiaramente
retro­spettivamente quali sacrari di una devo­
in favore del pro­getto italiano: nella Dedicatoria
zione patriot­tica, sepolti, però, nell’oblio.
a Bonaparte (1799) l’estinzione del debito conL’impossibilità di trasformare il coraggio in
tratto a Campoformio reclama il compenso della
azione allontana il giovane dalla percezione del
dignità di na­zione all’Italia (EN, VI, pp. 163-164);
presente: dalla pace euganea, in cui «mi riesce
nell’Orazione a Bonaparte (1801-1802) il sa­crificio
di di­menticarmi ch’io vivo» (p. 140), si trascorre
di Venezia è risarcito in una repubblica
nazionale riconosciuta come soggetto
politico (pp. 225-226).
Jacopo invoca una comunità di
legami sociali e storici, l’eredità di prin­
cipi intorno a cui si raccoglie l’idea di
una nazione, ma il paesaggio trac­ciato
abbraccia i brandelli di un insieme lacerato («Nulla ti manca se non la forza
della con­cor­dia»: EN, IV, p. 260), svela
la negazione di una nazione («le nostre
terre non por­gono né tugurj né pane
a tanti Italiani che la rivo­luzione ha
balestrati fuori del cielo natio»: p. 233),
non sortisce nessuna ap­partenenza. Il
tragitto, frustato dalle vergogne con­
tempora­nee e sospinto verso il pas­sato,
acqui­sta sempre più le sem­bianze di
una discepolanza af­fol­lata di om­bre Il trattato di Campoformio
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
rapidamente all’accostamento del proprio
destino a quello degli
spiriti sublimi, quando
le dolenti parole di Tasso morente strappano
un’ammissione rassegnata: «e’ mi par di cono­scere
chi forse un giorno morrà
ripetendole» (p. 311).
Dalla lettera fioren­t ina
del 27 ago­sto 1798 questa consonanza ideale
risuona a tutto tondo: Casa di Petrarca ad Arquà
davanti alle tombe dei grandi, in dissi­dio con la
società a causa del suo «li­bero ge­nio» (pp. 157 e
163-164), Jacopo, che anche per il signor T*** ha
«il cuore e le virtù di un altro secolo» (p. 216), si
rico­no­sce loro concit­tadino, col­mando la distanza che se­para dalla realtà la civiltà lettera­ria.4
Ortis, insomma, è trascinato lontano dal
centro, sia esso quello nativo (Ve­ne­zia), sia quello
ideale (Roma), autobiograficamente sempre vivo
nel cuore, sia quello politico (Milano). Gli resta
soltanto l’eterno pre­sente della cultura (Fi­renze e
la Toscana, terra beata delle «sacre muse» e delle
«let­tere»: p. 232), di cui non si fregia la capi­tale
politica: «Chiesi la vita di Ben­venuto Cellini a un
li­brajo: – non l’abbiamo. Lo richiesi di un altro
scrit­tore e al­lora quasi di­spettoso mi disse, ch’ei
non vendeva libri italiani. La gente ci­vile parla
ele­gantemente il francese, e appena intende lo
schietto toscano» (p. 235), dimo­strazione della
crisi nazionale, perché ogni nazione ha una
lingua, si ricono­sce nella propria tradizione e
attraverso il proprio idioma in­terviene nella vita
collettiva: «È legge riconosciuta da per tutto che
il fo­restiere abbia il torto, se non parla la lingua
del paese dove egli è. I Fran­cesi beffano gli Italiani
che stando in Francia non parlino bene il francese; in Italia s’ingegnino essi d’imparare a parlar
l’italiano» (EN, VI, pp. 84-85). Nell’atmosfera greve,
nell’«aria morta», nel «poco cuore» di Mi­lano (EN,
IV, p. 245), ammorbata dall’occhiuto spionag­gio
sui pen­sieri e sulle pa­role (p. 234), vil­mente prona
al padrone d’oltralpe con la sua massa di adulatori
e di postu­lanti, si toc­cano con mano il degrado
dei valori civici fondamentali e il
di­ritto impune­mente violato. Nel
disprezzo di tutto ciò che sente di
italiano persino il venerando Parini
«paventa di essere cacciato dalla sua
cattedra e di trovarsi costretto dopo
settanta anni di studj e di gloria ad
agonizzare elemosinando» (p. 235).
A Venti­miglia, giunto ai confini
dell’Italia, da­vanti allo spetta­colo
mae­stoso e ino­spitale della natura,
l’avvertimento dello scacco materiale e mo­rale smaschera la so­cietà
quale «necessaria ne­m ica degli
indivi­dui», na­tu­ralmente simili gli uni agli altri,
al di là dell’insediamento geogra­fico: «an­che
nelle terre straniere ti se­gui­ranno la perfidia degli
uomini e i do­lori e la morte» (pp. 262-263). Di
conseguenza, dopo l’ulteriore incontro con l’ex
te­nente della Cisalpina, depauperato di uno spazio abitativo proprio in quanto esule disperato (p.
251: «Emigrò per la pace di Campo-Formio»), il
viaggio, programmato verso la Francia (pp. 25381
254 e 266), si arresta.
Jacopo, mettendo una pietra tombale sopra
tutte le speranze, rinuncia all’idea di varcare la
frontiera fisica, per­ché nessun passaggio potrà
mai se­gnare una svolta. In una situazione in cui
«noi tutti Italiani siamo fuoru­sciti e stranieri in
Italia» (p. 233) e «in uno stato ov’io sono reputato stra­niero» (p. 236) ha già la consape­volezza
di sentirsi esule, di non es­sere radi­cato in una
realtà nazionale («Così io grido quando io mi
sento in­su­perbire nel petto il nome Italiano e
rivol­gen­domi intorno io cerco né trovo più la
mia patria»: p. 260), di non potersi inte­grare con
il conformismo spre­giudi­cato e con la bas­sezza
servile dei conterra­nei, con «questa razza d’uomini tanto da me di­versa» (p. 166). Icona della corsa
sfrenata a presentarsi cre­dibili interlocutori del
vincitore diventa, dall’Ortis milanese, Odoardo.
La sua visione meccanicamente fredda della vita,
scandita dall’orologio e dagli affari, ne designa
l’appartenenza a un contesto sociale molle e
abietto, pronto ad approvare le catene di Campoformio (p. 212) e, di conseguenza, a ostracizzare
le qualità antiche di Jacopo.
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Così, in assenza di qual­siasi trasformazione,
alla richiesta affan­nosa e inevasa d’asilo («Ma
dove cer­cherò asilo? in Italia? infelice terra!
premio sem­pre della vitto­ria»: p. 138), dà rispo­
sta ri­solu­tiva il suici­dio, gesto estremo che si
paga per conservare l’autenticità nel mondo
impraticabile alla virtù e per mon­darsi dai mali
umani (p. 288): «... quale asilo ci resta? ... Per
noi dunque quale asilo più resta fuorché il de­
serto, o la tomba?» (p. 233). In una condizione
incep­pata, dove è improponibile ogni forma di
col­laborazione con chi ha con le armi tradito
ogni aspettativa di in­dipendenza, la rivolta si
compie con l’autodistruzione, morte auspicata
anche per l’intera patria e l’intera stirpe: «Ahi, se
potessi, seppellirei la mia casa, i miei più cari e
me stesso per non la­sciar nulla nulla che potesse
inorgoglire costoro della loro onnipotenza e
della mia servitù! È vi furono de’ popoli che per
non obbedire a’ Romani ladroni del mondo,
diedero alle fiamme le loro case, le loro mogli,
i loro figli e sé me­desimi, sot­terrando fra le immense ruine e le ceneri della loro patria la lor
sa­cra indi­pendenza» (p. 143).5
Valerio Vianello
Università di Venezia
82
1
U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nelle tre edizioni del 1798, 1802, 1817, a cura di G. Gambarin, Firenze,
Le Monnier, 1970, p. 264 (Edizione Nazionale, vol. IV: EN, IV).
2
«Io guardando da queste alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro gl’invasori ven­detta» (EN, IV, p. 260);
«Ma, mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali scia­gure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni, e la
debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo?» (p. 262). Sul tema vd. E. Guagnini, Un Foscolo odeporico ovvero
La ricognizione del dolore, in Aa.Vv., Studi di Letteratura italiana per Vitilio Masiello, a cura di P. Gua­ragnella e M.
Santagata, Roma-Bari, Laterza, 2006, II, pp. 21-30.
3
U. Foscolo, Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Fi­renze, Le Monnier, 1972, p. 13
(EN, VI).
4
«Non sono obnoxius a verun municipio: ogni terra d’Italia m’è patria natia, e a me basta di non uscire d’Italia:
ed in Italia io vivo non tanto con quelli che stanno abitandola in questo mortalis aevi spatium brevissimo, quanto
con que’ magnanimi che l’hanno da molti e molti secoli addietro abitata, e con quelli più di noi fortu­nati, forse,
Che questo tempo chiameranno antico: – però chi ha riverenza per gli avi nostri, e cura amorosa de’ posteri loderà
almeno l’intento delle mie lunghe fatiche»: Epistolario, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1954, vol. IV, pp. 374375 (a Giambattista Giovio, settembre 1813).
5
A detta di Girolamo Politi, è l’identica furente reazione invocata da Foscolo dopo il trat­tato di Campoformio
in una delle ultime sedute della Municipalità, quando spinse «il suo furore fino all’eccesso d’insinuare accaloratamente al suo uditorio di correr a metter fuoco alla Città ne’ siti principali, onde il tiranno dell’Austria abbia più tosto
motivo di piangere sulle ceneri di Venezia che di esul­tare sulla sua schia­vitù» (dispac­cio ad Antonio Micheroux del
13 novembre 1797, riportato in C. Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolo dal «noviziato letterario» al
«nuovo classicismo», Bologna, Clueb, 2003, p. 69). Del resto, Jacopo «instigato una sera da Odoardo che giustificava
il trattato di Campo-formio, si pose a disputare, a gri­dare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa,
e a piangere d’ira» (EN, IV, p. 212).
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
letteratura & risorgimento/2
Dante Alighieri: il Grande Esule
Il Profeta dell’Italia unita
L’italianità come valore e l’unità linguistica della Penisola traspaiono in filigrana dalla biografia del Sommo Poeta e tra gli aurei versi della Commedia
T
ra Arte e Politica. Nel 1300 Dante è noto
come poeta e come priore del Comune di
Firenze. Il 15 giugno del 1300 si tengono
le elezioni politiche: la fazione dei Guelfi Neri
contro quella dei Guelfi Bianchi. Vincono i Guelfi
Bianchi e tra i nuovi Priori c’è anche Dante. Ma il
primo problema da affrontare è una condanna
-lasciata sospesa dalla fazione dei Neri- contro
tre banchieri fiorentini: Simone Gherardi Spini,
Noffo Quintavalle e Ser Cambio da Sesto, che
avevano tramato per consegnare Firenze al papa
Bonifacio VIII. La condanna, inflitta a questi nuovi
Priori, era il taglio della lingua; i nuovi Priori, tra i
quali Dante, confermano ed eseguono la terribile
sentenza. Da quel momento il nome di Dante è
scritto in eterno nel libro dei Guelfi Neri.
Il 27 gennaio del 1302, un banditore con
gonnella e mantello verde percorre a cavallo il
centro e i sobborghi di Firenze, suona la lunga
tromba d’argento: «le donne spaurite spiano
dai balconi, gli uomini corrono in strada per
ascoltare la novità». Il banditore srotola con
lentezza professionale la pergamena e legge con
«voce clara et bona» la condanna al pagamento
di cinquemila fiorini inflitta dal Podestà Cante
de’ Gabrielli a quattro cittadini fiorentini: ad un
giurista, a due agenti di cambio e ad un poeta.
Il poeta è Dante Alighieri. La sentenza non parla
di colpe specifiche, ma accenna vagamente a
illeciti guadagni, corruzione elettorale, amicizie
con persone sospette e ribellione al sommo pontefice. Ma Dante non si presenta al podestà per
giustificarsi né paga la multa. Viene condannato
all’esilio perpetuo e alla confisca dei beni.
È il 10 marzo del 1302. Il poeta fiorentino
comincia a percorrere la lunga via dell’esilio, un
calvario che durerà vent’anni, imparando a sue
spese «come sa di sale / lo pane altrui e com’è
duro calle / lo scendere e il salire per l’altrui scale
(Pd. XVII, 59-60). Dante, dotto nello scrivere e
nel parlare. pensoso del “bene comune”, eroe
del suo tempo, rivela la sua grandezza e suscita
Lyceum Maggio 2011
83
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Giambattista Vico
L’idea di patria percorre a
più riprese l’opera dantesca, intendendosi con essa non solo
un substrato di sentimento e di
cultura, ma anche un territorio con
ben delimitati confini. Inaugura
Dante la cultura dell’italianità che
larga parte avrà poi nel pensiero
del Petrarca, del Machiavelli, del
Vico, dei nostri risorgimentalisti,
dei soldati della Grande Guerra. A tal proposito
si racconta un episodio del 10 novembre 1915. Il
poeta Giosuè Borsi di Livorno teneva con sé una
minuscola edizione della Divina Commedia. Ma,
mentre usciva dalla trincea per andare all’assalto,
una pallottola lo fulminò al cuore e i compagni
che tentavano di soccorrerlo videro spuntare da
sotto la giubba, dalla parte sinistra, il piccolo divin
poema insanguinato.
Italianità e libertà vengono da Dante difese
con ogni forza morale e intellettuale e segnano
le tappe fondamentali del suo esilio. Egli aveva
prima lottato per la sua Firenze ed ora si trova a
dover peregrinare per tutta l’Italia settentrionale,
da una corte all’altra, postulando la protezione e
l’ospitalità dei principi. Quel sapere, ch’era stato
per lui tramite di libera professione, ora dovrà
porlo al servizio dei potenti. Egli stesso si sente
continuamente esposto al capriccio degli eventi e
all’umore mutevole dei Signori che lo ospitano.
Le vicende dell’esule accendono una luce
nella storia politica dell’Italia centro-settentrionale del XIV secolo «con un’epopea di nomi e
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiero in gran tempesta
non donna di province, ma bordello!
(Pg. VI, 76-78)
[...]
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra
(Pg. VI, 82-84)
Francesco Petrarca
84
l’ammirazione unanime quando
la miseria umana ne sfuma l’immagine, riportandolo uomo tra gli
uomini, attraverso la sofferenza
dell’esule. La solitudine, la carenza
degli affetti familiari, l’assenza dei
beni, che pure amareggiano la sua
giornata, lasciano spazio al più
cocente dolore di vedere infranto
quel rapporto tra Stato e Chiesa,
che avrebbe dovuto assicurare agli uomini la
pace universale.
Per Gioacchino Paparelli, Dante è un contestatore in polemica con gli uomini che rappresentavano le istituzioni laiche e religiose del suo
tempo, e la sua Commedia è una lunga lettera
di un condannato a morte. Il conflitto tra l’eroe
e i tempi iniqui, nel quale si polarizza la vicenda
dantesca dell’esilio fino alla «conquistata pace»
della funzione catartica dell’Arte con la stesura
del suo capolavoro, non esaurisce la dilacerazione tutta umana e intima dell’uomo, ma ne esalta
la figura del martire.
Dante si presenta nelle vesti di un illuminato,
di un profeta che rivela in ogni istante il gran
segreto della vita. Maestro di vita e di poesia, trasfonde l’una nell’altra da impareggiabile artista e
versa nella poesia il tema della libertà, sentita e
perseguita dall’uomo, cittadino di Firenze prima
e dell’Italia poi, tanto da sopportare con dignità
morale ed intellettuale le amare vicissitudini
dell’esilio.
L’italianità è un valore. Dante è legato alla
coscienza nazionale dei vari momenti storici
dell’Italia e lamenta la situazione politica dei
suoi tempi:
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
di luoghi» che è possibile definire «geografia
dell’esilio», a tratti meravigliosamente descritti da
rappresentare vere e proprie brochures turistiche.
Potremmo supporre che tali luoghi abbiano dato
a Dante l’idea dell’ambientazione di molti episodi, nonché della struttura stessa del capolavoro
della Divina Commedia.
«L’aiuola che ci fa tanto feroci» diventa «lo
giardino de lo imperio» (Pg. VI, 105), se si considera la bellezza di tanti castelli disseminati sulla
Penisola italiana ed in cui feste, danze, cacce e
tornei allietano l’esistenza dei feudatari, sublimata e ingentilita dalla presenza dell’intellettuale e
dalla sua poesia.
Dante, Vate dell’unità linguistica. Il poeta
fiorentino trova ospitalità in Lunigiana presso
i marchesi Malaspina; a questi feudatari parve
una vera fortuna l’incontro con un uomo che non
soltanto sapeva leggere e scrivere, ma possedeva
una certa pratica di affari politici e diplomatici.
E, durante il suo esilio, Dante soggiorna in Val
d’Arno nel Casentino, a Lucca, a Verona presso
Cangrande della Scala, a Treviso, presso Gherardo
da Camino, a Padova, e proprio a Padova incontra
Giotto (1266-1337). Il celebre pittore lavora a
Padova alla Cappella degli Scrovegni e, mentre è
intento alla pittura con i suoi allievi, arriva Dante.
Giotto salta giù dall’impalcatura e con le mani
sporche di colore abbraccia il grande poeta. I due
più grandi uomini del secolo, il genio della penna
e il genio del pennello, si scambiano notizie su
Firenze e sulle rispettive famiglie.
Guido Novello, signore di Rimini, nipote di
Francesca da Rimini, chiama Dante a Ravenna:
è un onore per lui avere come ospite colui che
aveva immortalato il tragico amore dell’infelice
zia. Ma, quando scoppiano controversie tra Venezia e Ravenna, Guido Novello, nell’imminenza
del pericolo, manda Dante come ambasciatore a
Venezia. Siamo in estate, e, durante il viaggio di
ritorno, nell’attraversare le valli di Comacchio, zona
infestata dalla malaria, Dante si ammala. Giunto a
Ravenna la situazione si aggrava e nella notte tra
il 13 e il 14 settembre del 1321, all’età di 56 anni,
muore il Grande Esule, padre della lingua italiana.
“La storia della lingua italiana, come espressione della nostra cultura, è lunga e ricca, mentre
breve è la storia unitaria” ha detto il Presidente
della “Società Dante Alighieri”, Bruno Bottai, ed
ancora -come ha sostenuto il Presidente della
Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano- “La
lingua italiana parlata e scritta rimane un fat85
tore caratteristico e fondamentale della nostra
unità nazionale. È il grande concetto romantico
di nazione che fece esclamare a Manzoni “Uni
per te di lingua e di cor”, e che vede nel comune
substrato linguistico il riconoscimento di un’appartenenza culturale e politica.
Il Grande Esule si erge, sin dal suo tempo,
come Vate di unità linguistica, maestoso profeta
di quella sensibilità e ricchezza spirituale di umana sapienza che promana dalla lingua italiana,
degna dell’ “Aula”, luogo in cui la comunità tutta
si riconosce, ancora oggi, per alti sentimenti civili,
morali e politici. L’Esule ha trovato la sua terra, si
è liberato dal marchio dell’infamia e si è rivestito
di luce ... italiana”.
Pina Basile
Università di Salerno
Presidente Società “Dante Alighieri”
Comitato di Salerno
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
unitÀ d'italia/storia e controstoria
Eroiche ed esemplari le donne
che hanno dato un potente
contributo di idee e di sangue
al Risorgimento e ai 150 anni
di storia della nostra Patria.
L
uisa Sanfelice, prima martire del Risorgimento. Quell’11 settembre del 1800
era una bella giornata, con l’ultimo sole
dell’estate, quel sole che ti riscalda, che ti entra
fin nelle ossa. Luisa Sanfelice, capelli al vento,
salì sul patibolo di Piazza Mercato a Napoli. Aveva
un tenero sorriso sulle labbra rosee e carnose. La
Luisa Sanfelice
86
Sorelle
d’ Italia
larga tunica bianca lasciava immaginare il suo
corpo sinuoso e profumato. Anche i popolani,
accorsi per lo spettacolo, rimasero sgomenti per
la sua morte e fecero a pezzi il boia, che aveva
sbagliato due volte il colpo e le aveva mozzato
la spalla e un braccio.
Prima di Luisa erano stati uccisi la scrittrice
Eleonora Pimentel Fonseca, il giurista Mario Pagano, il sacerdote Domenico Troisi, il duca Gennaro
Serra e tanti tanti altri patrioti. I 120 martiri della
Rivoluzione Partenopea del 1799. Che, nata il
21 gennaio, fu soffocata nel sangue, dopo 144
giorni, il 14 giugno, dall’azione congiunta delle
truppe borboniche e delle bande dell’Esercito della santa Fede, che, guidato dal cardinale Fabrizio
Ruffo, si macchiò, tra l’altro, come ha documentato Maria Antonietta Maciocchi, di uno stupro
di massa di quaranta suore, avvenuto nel maggio
1799 nel Monastero del Soccorso di Altamura, in
provincia di Bari.
Per 15 terribili mesi si protrasse la lunga scia di
condanne e di esecuzioni. Il sogno di patria e di Repubblica dei patrioti napoletani era durato quanto
un breve soffio di vento, un lieve profumo di rosa,
un fugace sguardo d’amore. Ma la Costituzione
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
di questa Repubblica rimase celebre
religione sociale e civile) nell’età risornella storia del diritto, perché prevedeva
gimentale. Di lei Giuseppe Garibaldi
provvedimenti favorevoli ai ceti meno
disse: “L’amore di una madre per i figli
abbienti, come l’abolizione dell’imposta
non può nemmeno essere compreso
diretta sul capofamiglia e del dazio sugli
dagli uomini [... ]. Con donne simili
alimenti, e contemplava per i funzionari
una nazione non può morire.”
benestanti la rinuncia allo stipendio. Cade
Ed eccezionale è la vita anche
la Repubblica Napoletana, la reazione Cristina
della milanese Cristina Trivulzio Belborbonica ritorna al potere, si scatena Trivulzio
giojoso, nata nel 1808. Immortalata
Belgiojoso
da parte dei lazzari la caccia ai giacobini
in un celebre ritratto di Hayez, ispira
e alle loro donne. Ma inizia da Napoli una nuova
a Stendhal la duchessa Sanseverina de La Certosa
fase della storia, che è rimasta scolpita nel cuore
di Parma ed è amica di grandissimi intellettuali
di tutti gli Italiani: il Risorgimento.
europei, come il poeta tedesco Heinrich Heine, il
compositore ungherese Franz Liszt e lo scrittore
Il 1848 e le donne. Dal 1799 al 1848 c’è un
francese Alfred De Musset. Organizzatrice di inlungo periodo in cui la fiaccola patriottica rischia
surrezioni, nel 1834, giunge a finanziare il colpo
di essere spenta. Brillano sotto la cenere solo
di mano mazziniano nel Regno di Sardegna, in cui
le idee degli scrittori e le azioni dei testimoni, i
peraltro perde la vita Giovanni Battista Scapacciquali credono che il destino dell’Italia non possa
no, considerato la prima Medaglia d’Oro al Valor
rimanere quello di una nazione divisa e schiava
Militare del futuro esercito italiano. Rifugiatasi a
dello straniero. E questo messaggio di speranParigi, trasforma il suo palazzo in un falansterio,
za ha il colore di grida e di volti femminili. Ma
cioè una comunità secondo il modello del socialipochi hanno ricordato il ruolo delle donne nel
smo utopistico, proposto da Charles Fourier.
87
Risorgimento. Esse stavano nelle strade dietro
Trovandosi poi a Napoli nel 1848, pochi giorni
le barricate mentre si battevano come leonesse
prima delle cinque giornate di Milano, parte
contro il tallone di ferro dell’Austria; ma quasi
subito per questa città, pagando il viaggio ai
nessuno le ha viste. Esse stavano davanti ai fucili
circa 200 napoletani che decidono di seguirla.
che sparavano sul loro petto, ma la Storia (quella
Persi poi i suoi beni, sequestrati dal Maresciallo
ufficiale) non se n’è quasi mai accorta. Per cui, se
austriaco Radetzky, scende in difesa della Repubdovessimo scorrere i fotogrammi di un tradizioblica, a Roma, dove recluta centinaia di infermiere
nale film sull’Unità d’Italia, vedremmo che i registi
insieme con Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta
e i protagonisti hanno tutti rigorosamente nomi
di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane: costitue cognomi maschili. Proviamo allora a svelare
iscono così un eroico triumvirato femminile, che
l’identità, segreta e misconosciuta, umiliata ed
i giornali reazionari chiamano invece il “trio delle
offesa, delle nostre “Sorelle d’Italia”.
meretrici infami”. Vede coronato il sogno di Roma
Partiamo dal Nord. La prima patriota italiana
capitale nel 1870, ma l’anno dopo muore. Al suo
che balza ai nostri occhi, archetipo
funerale (cosa che nemmeno oggi
dell’eroe plutarchiano al femminile,
desta meraviglia!) non partecipa
non è una moglie, non è una fidanzata,
nessuno dei politici dell’Italia che ella
ma emblematicamente una madre:
cosi coraggiosamente ha contribuito
Adelaide Cairoli (nata a Milano nel
a rendere unita e indipendente.
1806 e morta nel 1871), che ebbe
cinque figli maschi, di cui quattro
Risorgimento ed emancipaziomorirono per la patria. Ella incarnò
ne femminile. Contemporaneamencosì in maniera sublime il prototipo
te anche il Veneto diventa centro
di
laico della Mater dolorosa, oggetto di Olio
attivissimo della resistenza allo
Domenico Romano
un vero e proprio culto (tipico di una (1860-75)
straniero, che avrà il suo clou nell’in-
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
surrezione del 17 marzo 1848 a Venezia. In questo
clima non va sottovalutato un episodio curioso,
come quello successo il 6 gennaio. La ballerina
Fanny Cerrito, per uno spettacolo al Teatro “La
Fenice” di Venezia (si intitola “La Siciliana” in
omaggio all’insurrezione della Sicilia: straordinaria prova di un gemellaggio ideale Nord-Sud), si
presenta con un costume tricolore, che fa andare
letteralmente in visibilio il pubblico. Fulmini e
saette, invece, da parte dell’Amministrazione
austriaca, che d’ora in poi vieta la fabbricazione
di “stoffe patriottiche”.
88
A questo episodio “mondano” segue la trafila
degli eventi della Repubblica di Venezia. Il suo
leader è, senz’altro, Daniele Manin; ma oggi molti
storici (da Alvise Zorzi a Paul Ginsborg) sostengono che l’insurrezione veneziana è condotta
sull’onda della mobilitazione femminile, oltre
che studentesca. In prima fila, le aristocratiche e
le borghesi raccolgono fondi a favore dei feriti. A
Padova, ad esempio, Angelina Cristina Sartori e
Annetta Giustiniani organizzano, come racconta
un giornale dell’epoca (Il Caffè Pedrocchi), una
colletta, girando in carrozza. E una loro amica,
Elisabetta Michiel Giustinian, moglie di Giobatta
Giustinian, futuro primo sindaco di Venezia italiana, risponde fieramente alle minacce di arresto
da parte della polizia austriaca gridando di essere
pronta ad andare in carcere.
Intanto, sempre a Venezia nel ’48, vengono
pubblicati e diffusi i primi giornali di patriote,
come Il Circolo delle donne italiane. Di quest’ultimo è portavoce Adele Cortesi, repubblicana
veneziana, che, nel primo
editoriale (chiamato Proemio) di questo giornale
femminile, scrive: “La nostra causa è decisa; ed è
perciò che anche noi vogliamo prendere parte agli
interessi della patria [... ]
Noi abbiamo già un diritto
alla riconoscenza dell’Italia:
sin dai tempi dell’austriaco
fummo esiliate alla campagna o all’estero per le
collette raccolte a pro’ dei martiri: raccogliemmo
dunque le offerte per la patria, vestimmo i militi fratelli, li assistemmo
negli ospedali. Ora vogliamo di più:
vogliamo educarci, noi e i nostri
figlioli. Nessuno potrà negare che
il pregiudizio di non istruire le
femmine non sia ricaduto sopra gli
uomini. Se escludete le donne, intanto cominciate a ridurre a mezzo
la vostra universalità. Per voi le donne [... ] divengono angeli; ma angeli
sono quando educano i figli al buon
costume, alla religione, al sacro
fuoco della patria.” Un manifesto,
come si vede, che potrebbe ispirare una moderna
rivendicazione dei diritti delle donne.
Donne, Risorgimento e Sud. Passando al
Sud, tra le tante patriote vogliamo scegliere, per
iniziare il nostro breve viaggio, da una poetessa
siciliana, morta a 26 anni: Giuseppina Turrisi
Colonna (1822-48), che nel 1843 scrive un’Ode
rivoluzionaria intitolata Alle donne siciliane, in
cui, con un linguaggio che ancor oggi sorprende,
sostiene che la donna (ma lei usa l’espressione
il sesso femminile) non deve essere né trastullo
né servo, ma merita dignità conforme alla realtà
femminile. Ispirandosi a questi versi, il 20 giugno
1848 un gruppo di 136 signore di ogni età si riunisce a Palermo in casa della Duchessa Guidolfi
e, sventolando il tricolore, lancia un manifesto
politico e un giornale (La Tribuna delle Donne),
in cui chiede il suffragio elettorale femminile.
È da questo clima che nascono donne combattenti come Lucia Salvo, di
Siracusa, che, durante la
Spedizione dei Mille, fa la
staffetta per i cospiratori e
ha il coraggio di introdurre
nel carcere alla Vicaria i
messaggi per i detenuti
politici, giungendo a nascondere le armi sotto le
gonne.
Ma la donna che più si
distinse nell’attività di patriota fu Antonietta De
Pace (1818-1894), originaria di Gallipoli (Lecce).
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
La madre era Luisa Rocci Cerasoli, una nobildonna d’origine spagnola, i cui fratelli avevano partecipato attivamente alla Repubblica napoletana
del 1799. Mazziniana e repubblicana, iscritta alla
Giovine Italia, partecipò ai moti del 1848 a Napoli.
Fu protagonista di azioni rischiose e clamorose,
legate ai rapporti che ella manteneva con i prigionieri politici. Riuscì, ad esempio, ad ottenere un
lasciapassare per accedere al carcere di Procida,
sostenendo falsamente che avrebbe dovuto
contrarre matrimonio con Aniello Ventre, uno dei
cospiratori, reclusi nella fortezza isolana.
Altrettanto rocambolesca fu la vicenda del
suo arresto, avvenuto il 26 agosto 1855. Come
scrisse Beniamino Marciano (sacerdote liberale
vissuto a Striano che poi ella sposò nel 1876),
Antonietta -per non svelare la rete dei cospiratori- dinanzi alle guardie borboniche “si tolse
dal petto due proclami di Mazzini, ne fece una
pillola, poiché Mazzini usava la carta velina,
e in faccia a loro li inghiottì”. Rinchiusa in una
cella angusta, per circa quindici giorni, senza
potersi mai né distendere su un letto, né lavare,
subì ripetuti interrogatori notturni. Divenuta
un caso internazionale e difesa a spada tratta
da autorevoli giornali stranieri come il francese
Journal des debats e l’inglese Times, fu sottoposta
a 46 udienze in un processo penale, dal quale
riuscì con la sua dialettica a rigettare ogni incriminazione. Il coronamento della sua battaglia si
verificò il 7 settembre 1860: accanto a Giuseppe
Garibaldi che entrava trionfalmente a Napoli vi
erano, insieme agli ufficiali soltanto due donne,
Emma Ferretti e Antonietta De Pace, vestita con
i colori della bandiera italiana.
Dall’Unità d’Italia alla Resistenza. Dopo
l’Unità d’Italia il contributo femminile alla causa
della Nazione continuò ad essere determinante.
Un contributo di tragica umiliazione e tremendo
dolore, perché furono le donne a pagare drammaticamente gli errori, che, nell’immediato periodo post-unitario, furono commessi dallo Stato
italiano durante la repressione del brigantaggio.
Che ebbe anche un significato di resistenza da
parte dei poveri e dei diseredati, degli umiliati
e degli offesi del Sud nei confronti delle nuove
élites borghesi e dei “galantuomini”, i quali passarono dall’appoggio
ai Borbone al sostegno
del blocco moderato.
Ne è testimonianza l’eccidio della città
di Pontelandolfo, che
nel 1861 fu rasa al suolo insieme a quella di
Casalduni, per essersi schierata al fianco
del brigante Cosimo
Giordano. Gli abitanti di
queste città erano, a loro
modo, patrioti, perché
amavano la “terra dei
loro padri”. Tremendo
è il racconto di Antonio
Ciano: “Pontelandolfo Irma Bandiera
fu messa a ferro e fuoco.
Tutto il paese bruciava. Nicola Biondi, contadino
sessantenne, fu legato ad un palo della stalla
89
da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia
Concettina, di sedici anni, e tentarono di violentarla. Ma la ragazza difese strenuamente l’onore.
Dopo un’aspra colluttazione, sanguinante cadde
a terra esanime. [... ] Il saccheggio e l’eccidio
durarono l’intera giornata del 14 agosto 1861.
Donne seminude, sorprese mentre dormivano,
cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie,
venivano subito infilzate, se giovani ed avvenenti,
venivano violentate e poi uccise”.
Poco si parla di queste stragi, come poco si
parla delle patriote del Risorgimento. Su di esse
difficilmente vedremo delle fiction. Su di esse
difficilmente ascolteremo nei talk show opinioni
e vedremo litigi. Di fronte ad esse per anni, per
decenni abbiamo preferito girarci dall’altra parte
e fingere che nulla fosse successo. Come non
vedremo fiction sulle donne della Resistenza
antifascista e antinazista.
Noi qui vogliamo ricordare solo la vita e la
morte di due di queste persone speciali. La prima è la bolognese Irma Bandiera, arrestata dai
fascisti il 7 maggio 1944. Le trovarono addosso
documenti cifrati, per loro incomprensibili. Fu
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
90
il Valor militare: “Due tenere figliolette, l’attesa di
una terza, non le impedirono di dedicarsi con
tutto lo slancio della sua bella anima alla guerra
di liberazione. In quindici mesi di lotta senza
quartiere si dimostrava instancabile
ed audacissima combattente, facendo
della sua casa una base avanzata delle
formazioni partigiane[... ]. Catturata, fu
sottoposta alle torture più atroci per
indurla a parlare: le furono strappati i
seni e cavati gli occhi, ma ella resistette
imperterrita allo strazio atroce senza dir
motto. Dopo dura prigionia, con le carni
straziate, ma non piegata nello spirito
fiero, dopo aver assistito all’esecuzione
di dieci suoi compagni, affrontava il
plotone di esecuzione con il sorriso sulle
labbra e cadeva invocando un’ultima
volta l’Italia adorata”.
Franco Salerno
Gabriella Degli Espositi
torturata per ore ed ore per cercare di estorcerle i nomi dei compagni. Ci erano riusciti
-dovettero pensare- con questi metodi con altri
partigiani, uomini grandi e grossi; figurarsi con
questa signorina esile e fragile.
Ma si sbagliavano. Infierirono su
di lei con ogni genere di tortura
e mutilazione, per sette giorni,
arrivando perfino ad accecarla. Il
14 agosto la portarono moribonda sotto le finestre di casa sua,
chiedendole per l’ultima volta di
parlare. Ma lei tacque. La finirono
lì, impotenti, con una furibonda
scarica di mitra e se ne andarono
bestemmiando.
Qualche mese dopo toccò
all’emiliana Gabriella Degli Esposti, uccisa il 17 dicembre 1994. Straziante è la motivazione per la Medaglia d’oro a lei conferita per
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
italia ed europa
L’ italia fulcro
della coscienza
europea
Dai movimenti di unificazione
nazionale al sorgere dei nazionalismi
L
’epopea napoleonica ebbe l’effetto di
alimentare gli ideali dell’indipendenza
nazionale in Europa, e ciò avvenne in
particolare in Italia e in Germania.
A partire dal 17 marzo 1861, l’Italia è stata
proclamata Regno d’Italia, divenendo una realtà
politica e territoriale unitaria, dopo sette secoli
di frammentazione, durante i quali altri avevano
deciso il destino delle genti che vi dimoravano.
Tra i protagonisti del movimento di unifi-
cazione italiana si ricorda il conte Camillo di
Cavour. Grazie alla sua abilità diplomatica, il re
Vittorio Emanuele II poté contare sull’appoggio
della Francia contro l’Austria che portò all’unificazione dell’Italia centro-settentrionale. La
spedizione dei Mille, guidata da Garibaldi, e
la conquista del Regno delle due Sicilie portarono al completamento del processo unitario del
Regno d’Italia.
91
Un altro personaggio storico che con la sua
ideologia ha contribuito all’unificazione nazionale fu Mazzini, il quale intese la nazione come un
tutto organico che si concretizza nella coscienza
che il popolo matura di sé.
Nell’ottica mazziniana, la volontà e la piena
coscienza del popolo diventano una “condicio
sine qua non” del processo unificatore.
Ma Mazzini, nell’esaltare la nazione, la pone
in stretta connessione con l’umanità europea, per cui compito dell’Italia
sarà quello di prendersi cura
dell’Europa, riscattando prima
la propria libertà, e poi quella degli altri popoli ancora
schiavi.
Questa “coscienza europea” mancava del tutto alla
classe politica della neo-nazione germanica, in cui l’artefice dell’unificazione (gennaio
1871) fu il cancelliere Otto Von
Bismarck. Costui, a differenza
Otto Von Bismarck
del moderato conte di Cavour,
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
92
europeo-umanitario”.
Nel giro di pochi decenni,
il termine “nazionalismo” ha
smarrito l’autentica idea di
nazione, e di conseguenza
è avvenuta la trasformazione dei «nazionalismi patriottici», basati sul principio
dell’autodeterminazione dei
popoli, in «nazionalismi aggressivi», in relazione allo sviluppo di dinamiche capitalistiche,
imperialistiche, nonché razziste, affermatesi in
Europa verso la fine del XIX secolo.
Questo complesso intreccio storico-sociale
ben si riflette sul pensiero di Max Weber
(1864-1920), studioso di formazione giuridica
ed economica, il quale elaborò l’etica della
responsabilità (Verantwortungsethik), come
modello per l’agire politico dell’uomo moderno,
e tra l’altro comprende in sé sia la fedeltà ai propri
principi che la prescrizione di tener conto delle
conseguenze delle scelte operate.
Maria Teresa Risi
Federico Chabod
negava il valore dell’Europa, per affermare lo
Stato singolo, per cui
l’unificazione nazionale della Germania
segnò l’inizio di una
nuova fase storica,in cui
il principio nazionale
tende ad imporsi allo
spazio europeo, mettendo a rischio l’equilibrio
dell’Europa e degli imperi austro-ungarico,
ottomano e russo.
Riguardo a questo aspetto drammatico
dell’ultimo periodo dell’Europa scrive Federico
Chabod: “La nazione era stata affermata in connessione con la libertà e l’umanità. Ma questa trinità fu ben presto infranta. Si assiste allo spostarsi
dei valori costitutari della nazione, cioè della
“volontà” e della “coscienza” in un “a priori”,
fisso e immutabile, di carattere etnico; il sorgere
dei vari nazionalismi, chiusi in se stessi, portò
rapidamente all’esasperarsi del senso nazionale,
e al suo allontanarsi da ogni altro sentimento
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
scienziati e risorgimento/1
I matematici
per l’Unità d’Italia
Italia, un Paese “di santi, poeti, navigatori...” e anche di matematici.
Perché hanno avuto un ruolo cruciale nella formazione del moderno
Stato italiano.
I
n occasione delle celebrazioni per i
150 anni dell’Unità d’Italia ci sembra
opportuno sottolineare l’importanza
che la matematica ha avuto nello sviluppo
sociale e culturale del Paese. Il ruolo di
questa scienza nel processo unitario è
stato spesso sottovalutato eppure eminenti matematici sono stati coinvolti, sia
a livello scientifico che politico.
Mazzini, Garibaldi e Cavour sono,
doverosamente, i nomi che più frequentemente vengono ricordati nelle manifestazioni ufficiali, mentre personaggi come
Francesco Brioschi, Enrico Betti o Luigi
Cremona sono praticamente sconosciuti ai più.
Invece, è interessante notare come si possa trovare un notevole parallelismo tra le vicende della
storia della matematica e quelle della storia della
civiltà e di come la ricerca scientifica si intrecci
con la lotta risorgimentale. Il periodo pre e post
unitario fu ricco di fermenti sia in campo politico
che culturale, in particolare nella ricerca matematica, e gli studiosi italiani riuscirono rapidamente
a ottenere riconoscimento internazionale.
Enrico Betti, matematico di Pistoia, fu direttore della Scuola Normale di Pisa. Importanti i
suoi studi sulle equazioni algebriche e la teoria
dell’elasticità. La sua opera, diretta ed indiretta,
contribuì in modo essenziale e risollevare il livello
degli studi matematici in Italia.
Francesco Brioschi, insigne matematico di
Milano, contribuì alla diffusione di alcune teorie algebriche prima note solo all’estero. I suoi
contributi riguardarono la risoluzione mediante
funzioni ellittiche delle equazioni di
5° e 6° grado. Fu membro e successivamente presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei.
Felice Casorati, laureato in
ingegneria, fu assistente di Brioschi
e professore di algebra e geometria analitica all’università pavese.
Contribuì in modo essenziale a far
conoscere la teoria delle funzioni
93
di variabile complessa.
Luigi Cremona, laureato in
ingegneria, insegnò geometria
superiore e statica grafica, di cui
è considerato uno dei fondatori. Fra i contributi
personali alla matematica si ricorda lo studio
delle corrispondenze algebriche birazionali, che
sono dette giustamente “cremoniane”.
Eugenio Beltrami, matematico cremonese,
studiò in particolare le superfici a curvatura
costante. I suoi lavori, redatti in forma chiara ed
elegante, sono divenuti dei modelli per lo stile
matematico.
Angelo Genocchi iniziò come giurista, poi
si dedicò alla matematica interessandosi della
teoria dei numeri. È ricordato per il “Genocchi –
Peano”, trattato di matematica.
Ma quello che appare singolare è che questi
matematici non furono soltanto brillanti ricercatori o insigni studiosi, ma ebbero anche parte
attiva nelle vicende del Risorgimento e nella vita
politica dopo l’unificazione.
La massima espressione della partecipazione degli scienziati italiani al Risorgimento è
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
94
senz’altro la costituzione del
Battaglione degli universitari
pisani formato da studenti
e professori tra cui figurava
Enrico Betti che con loro
combatté volontario a Curtatone e Montanara.
Ma questo non fu l’unico
episodio importante che
vide coinvolti i matematici,
infatti Francesco Brioschi
aveva partecipato alle Cinque giornate di Milano; il
giovanissimo Luigi Cremona prese parte alla Prima Guerra di Indipendenza e si guadagnò i gradi
di sergente durante la difesa della Repubblica di
Venezia fino alla resa. Angelo Genocchi partecipò
ai moti di Piacenza e fu costretto, al ritorno degli
austriaci dopo la battaglia di Custoza, all’esilio.
La partecipazione dei matematici italiani alle
battaglie del Risorgimento ed alla vita politica
non si esaurì con il 1849. Eugenio Beltrami fu
licenziato per motivi politici dall’amministrazione delle strade ferrate del Lombardo-Veneto
nel 1859.
Una volta raggiunta l’Unità d’Italia, questi
scienziati, in particolare matematici, si ritrovarono naturalmente a partecipare alla costruzione
del nuovo stato, nel tentativo di superare le
disomogeneità che l’Italia appena realizzata
presentava.
Le menti illuminate della classe dirigente
dell’Italia post-unitaria, prendendo a modello
altri paesi europei, individuarono nella promozione della ricerca scientifica uno degli obiettivi
prioritari da perseguire per fare uscire il Paese
dalle condizioni di arretratezza.
La matematica, indiscussa punta di diamante
della scienza italiana, rappresentò la forza trainante di questo progetto di rinnovamento.
Genocchi fu senatore del Regno d’Italia.
Betti ebbe importanti cariche politiche, fu in
più occasioni deputato eletto in Parlamento,
segretario generale del Ministero della Pubblica
Istruzione e senatore del Regno a partire dal
1884. Brioschi, che fu deputato e senatore, si
impegnò nella realizzazione di un sistema
educativo nazionale con indirizzo tecnicoscientifico che culminerà con la creazione
del Politecnico di Milano. Ebbe un ruolo
importante anche nell’organizzazione del
Catasto Italiano.
Eugenio Beltrami, fu presidente dell’Accademia dei Lincei succedendo a Brioschi e
nel 1899 fu nominato senatore del Regno.
Infine Cremona, senatore dalla XIII legislatura, dedicò molte delle sue energie alla
costruzione dell’Italia unitaria sacrificando
notevolmente la sua attività di matematico.
Fu Ministro della Pubblica istruzione nel 1898,
anche se solo per un mese. La sua influenza
sull’organizzazione degli studi matematici in
Italia fu enormemente superiore a quella che
poteva derivare da questo solo mese di responsabilità diretta ministeriale e si esplicò soprattutto
in Senato, in cui la sua autorità nelle questioni
scolastiche era grandissima, e nei concorsi.
Il rifiorire degli studi dopo l’Unità d’Italia
avvenne, quindi, in un sistema progressivamente
ordinato della pubblica istruzione ed il sistema di
concorsi nazionali dotò anche le università minori
di professori di grande qualità per periodi più o
meno lunghi.
L’unificazione, nei primi decenni e fino all’inizio della prima guerra mondiale, produsse una
benefica liberazione di energia, che favorendo i
contatti internazionali e incrementando le opportunità per gli studiosi, agevolò lo scambio di
rapporti scientifici. Nelle scienze matematiche,
in particolare, l’Italia arrivò a occupare uno dei
primi posti in Europa. Fu un matematico, Vito
Volterra, a dare vita al Consiglio nazionale delle
ricerche tutt’ora punto di riferimento in campo
scientifico e tecnico.
Le celebrazioni del 150° ci hanno dato l’occasione per ricordare scienziati che hanno onorato
la nostra Nazione fin dalla sua costituzione. Sono
stati uomini che non si sono sottratti all’impegno
politico e sociale dando prova, in Parlamento,
di grandi capacità anche al di fuori dell’ambito
strettamente scientifico.
Aniello Della Rocca
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
scienziati e risorgimento/2
Il ruolo della scienza nel
Risorgimento italiano
“Quale ruolo ha avuto la cultura scientifica nel periodo del
nostro Risorgimento? Pochi ne parlano. Molti scienziati, invece,
hanno combattuto in prima linea per l’Unità d’Italia e, dopo
l’unificazione, si sono impegnati a sviluppare una nazione
moderna, industriale e tecnologicamente avanzata.”
L
a cultura scientifica ha avuto un ruolo
importante anche se spesso non riconosciuto nel Risorgimento italiano. Accanto a letterati, filosofi, musicisti, gli scienziati
italiani hanno contribuito alla maturazione di
una coscienza nazionale, promuovendo le idee
di libertà e di unità, essenziali per la nascita di
una nazione.
Nella prima metà dell’Ottocento, la scienza
italiana era molto indietro rispetto a quella dei
paesi europei come l’Inghilterra, la Francia e la
Germania che avevano scienziati illustri come
Sadi Carnot, Gay-Lussac, Dulong e Petit, Faraday,
Coulomb, Lavoisier, solo per citarne alcuni. Le
cause erano molteplici. La frammentazione del
territorio nazionale in tanti Stati comportava una
maggiore difficoltà di dialogo fra gli scienziati. Le
industrie dotate di macchine tecnologicamente
avanzate per l’epoca erano quasi assenti. La
mancanza di finanziamenti pubblici per la ricerca scientifica da parte dei vari Stati richiedeva,
che, per cominciare a lavorare nel campo delle
scienze, si doveva possedere notevoli risorse
economiche e poi, solo se la ricerca effettuata era
valida, si poteva ottenere un finanziamento.
Negli Stati europei scientificamente più avanzati, l’epoca dello scienziato benestante che inventa nel chiuso del suo studio era finita da quando la Rivoluzione Industriale si era affermata. In
questi Stati, lo sviluppo scientifico e tecnologico
erano riconosciuti come fattori produttivi di ric-
chezza. Si comprese che il progresso tecnologico,
non poteva essere affidato solo ad artigiani che
lavoravano su basi esclusivamente empiriche, ma
aveva bisogno di scienziati che, risolvendo i problemi legati all’aumento di produzione mediante
le loro conoscenze scientifiche, ottenevano il
massimo profitto possibile dalle innovazioni
95
tecnologiche. La scienza andava sempre più
legandosi con il mondo della produzione e fare
lo scienziato assunse il significato di lavorare per
lo sviluppo tecnico-economico del paese.
In Italia tutto ciò non avvenne, almeno fino
alla seconda metà dell’Ottocento. La ricerca
scientifica viveva una situazione di profonda
arretratezza. D’altra parte, i ricercatori italiani
non erano isolati dal resto dell’Europa, ma intrattenevano rapporti con gli scienziati dei Paesi
scientificamente più avanzati, e avvertivano che
la situazione in cui versava l’Italia non era più
sostenibile. Nella speranza di porvi rimedio,
diedero vita al primo Congresso degli scienziati
italiani a Pisa nel 1839, in cui venne stabilito di
incontrarsi regolarmente ogni anno in varie città
d’Italia. Questo fu un evento importantissimo
perché, per la prima volta, gli scienziati italiani
avevano l’occasione di scambiarsi idee in modo
diretto e di instaurare rapporti personali e professionali. Con il primo Congresso nasceva così
una comunità scientifica nazionale prima ancora
della nazione stessa!
I Congressi furono autentici eventi scientifici
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Macedonio Melloni
96
nel 1811. I suoi studi furono rivolti alla
meccanica celeste e
tra i suoi lavori più importanti ricordiamo
un nuovo metodo per
determinare l’orbita
delle comete e lo studio della rotazione del
sole. Nel 1841 venne
nominato professore di fisica matematica e
meccanica celeste all’Università di Pisa. Partecipò
ai moti del 1820-21 e fu costretto ad espatriare
e vivere per circa 15 anni esule tra la Svizzera, la
Gran Bretagna e l’Argentina. Tornò in Italia nel
1835 e nel 1848 partecipò alla prima guerra d’indipendenza comandando, con il grado di Maggiore, il battaglione Universitario di Pisa durante
la battaglia di Curtatone e Montanara. Quando
l’Italia fu unita nel 1961 fu nominato senatore del
Regno. Si spense a Pisa nel 1863.
Amedeo Avogadro nacque nel 1796 a Torino
da una nobile famiglia. Si laureò in giurisprudenza e successivamente si specializzò
in legge ecclesiastica. Praticò la
professione giuridico amministrativa per un certo tempo ma
la sua vera passione erano le
scienze fisiche e matematiche.
Egli scrisse due memorie in una
delle quali descrive la legge, che
recita: “Volumi uguali di gas, alla
stessa temperatura e pressione,
contengono lo stesso numero di molecole” con cui è possibile determinare non
solo le masse molecolari ma come conseguenza
anche le masse atomiche. Gli venne assegnata
la cattedra di Fisica sublime all’Università di
Torino nel 1820 ma poiché prese parte ai moti
rivoluzionari del 1821 contro il re di Sardegna
fu allontanato dall’Università e solo nel 1834 fu
richiamato ad insegnare su quella cattedra. Nel
1956 morì a Torino.
Insieme a Melloni, Mossotti e Avogadro ricordiamo anche Carlo Matteucci (1811-1868),
fisico, fondatore della rivista “ Il Nuovo Cimento”
che ancora oggi è pubblicata, e Ministro della
Ottaviano Fabrizio Mossotti
anche se, durante i lavori era inevitabile parlare
di politica. Gli scienziati si rendevano conto che il
maggior ostacolo al progresso scientifico italiano
era proprio la frammentazione in vari Stati e che
solo con l’unità, la scienza avrebbe potuto godere
di una rapida evoluzione e l’intera società si sarebbe avviata verso un rinnovamento culturale.
In questi Congressi, quindi, oltre ad impegnarsi
per lo sviluppo delle scienze, i partecipanti si
proponevano di risvegliare il sentimento di fratellanza e di nazionalità nel popolo italiano. In tale
prospettiva, si possono comprendere gli slanci
patriottici della maggior parte degli scienziati italiani del Risorgimento. A tal proposito, ricordiamo
di seguito alcuni scienziati patrioti .
Macedonio
Melloni, nato a
Parma nel 1798,
divenne professore della cattedra di fisica presso l’Università di
Parma nel 1824.
È considerato il
fisico della radiazione infrarossa:
e g l i s o s te n n e
che la radiazione
ultravioletta e infrarossa sono manifestazioni
diverse di uno stesso fenomeno. Ebbe una fitta
corrispondenza con Michael Faraday, il padre
fondatore dell’elettromagnetismo, con cui
scambiava sia idee scientifiche che politiche.
Fu premiato dalla Royal Society per i suoi lavori
scientifici, con la Rumford Medal, una specie di
premio Nobel dell’epoca. La sua vita non fu facile
perchè per aver partecipato ai moti del 1831 dei
Ducati di Parma e di Modena, fu perseguitato e
costretto a fuggire in Francia. Nel 1838, ritornò in
Italia e si stabilì a Napoli dove fondò l’osservatorio
meteorologico alle falde del Vesuvio. Quando nel
1848 scoppiarono i moti insurrezionali, non poté
fare a meno di parteciparvi ed ancora una volta
fu punito e destituito da tutte le sue cariche. Morì
nel 1854 a Portici, prima dell’Unità d’Italia.
Ottaviano Fabrizio Mossotti nacque nel
1791 a Novara e si laureò in matematica e fisica
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Antonio Pacinotti
Pisa, giovanissimo inventò quello che fu poi
chiamato l’anello di Pacinotti, si racconta proprio
mentre partecipava alla seconda guerra d’indipendenza. Questa invenzione rivestì un’enorme
importanza perché essa sta alla base dei motori
elettrici a corrente continua e quindi alla base dello sfruttamento a livello
industriale dell’energia
elettrica.
Successivamente
Galileo Ferraris (18471897) ingegnere e scienziato realizzò altre due
invenzioni che da più di
un secolo svolgono un
ruolo essenziale nella
nostra vita quotidiana:
il trasformatore e il motore elettrico a corrente
alternata. Il primo riesce a trasformare la tensione
delle correnti alternate, favorendone il trasporto
anche a distanze continentali; il secondo riesce
a ricavare energia meccanica dalle correnti alternate.
97
Una storia particolare ebbe lo sfortunato inventore
patriota Antonio
Meucci. Nacque a
Firenze nel 1808 e
studiò all’Accademia delle Belle Arti.
Partecipò alle cospirazioni del 1833
Antonio Meucci
e 1834 e fu imprigionato per tre mesi. In seguito, per sfuggire alle
persecuzioni politiche, partì per Cuba nel 1835.
Nel 1849, ottenne la trasmissione della parola per
via elettrica, inventando il telefono. Depositò un
brevetto temporaneo per la sua invenzione che
non riuscì a rinnovare alle successive scadenze annuali a causa di problemi economici. Così quando
Alexander Graham Bell presentò la sua domanda
di brevetto per il telefono, ottenne la regolare
concessione. Solo molti anni dopo, una sentenza
della Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe
a Meucci la priorità dell’invenzione. Fu grande
amico di Giuseppe Garibaldi, che ospitò nella sua
Lyceum Maggio 2011
Galileo Ferraris
Pubblica Istruzione dopo l’Unità nel 1862; Riccardo Felici (1812-1902) fisico noto per aver
fornito una formulazione matematica della legge
di Faraday sull’induzione magnetica (l’altra è
dovuta a Newmann), prese parte alla battaglia
di Curtatone insieme a Mossotti.
Nella seconda metà dell’Ottocento, la situazione politica nel Piemonte cominciò a cambiare
con l’affermarsi della figura di Cavour, che era
riuscito ad imporre un programma economico
di industrializzazione e ad avviare un processo
di modernizzazione dello Stato. Egli credeva
che per industrializzare il paese era necessario
far ricorso alle tecnologie allora più avanzate
come l’energia elettrica. Quando l’Unità d’Italia
verrà progressivamente portata a compimento,
gli scienziati patrioti che avevano partecipato
attivamente alle guerre d’indipendenza furono coinvolti nella realizzazione del disegno
di Cavour. Essi contribuirono a trasformare il
paese e la sua organizzazione sociale da uno
stato semifeudale basato sull’agricoltura in una
moderna nazione industrializzata. Furono una
parte fondamentale della nuova classe dirigente
e alcuni di loro diventarono ministri, deputati o
senatori impegnandosi, con la loro attività politica, a superare le arretratezze e le disomogeneità
regionali.
La ricerca scientifica italiana risentì del
cambiamento politico e cominciò ad essere
maggiormente competitiva con quella degli
Stati europei più avanzati, anche se incontrò
notevoli difficoltà nel trasferire i prodotti della
ricerca in una dimensione produttiva. Questo
perché ancora non esistevano industrie che rendevano possibile quello che noi oggi chiamiamo
il binomio ricerca- sviluppo. Con questa realtà
si scontrarono gli scienziati
Antonio Pacinotti e Galileo
Ferraris. Le loro geniali invenzioni contribuirono in modo
decisivo allo sviluppo delle
tecnologie applicate all’elettricità, fino ad allora usata solo
per l’illuminazione.
Antonio Pacinotti (18411912), allievo di Mossotti a
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
casa a Clifton. Insieme costruirono una fabbrica
di candele dando lavoro a molti esuli italiani. Non
tutti sanno che Garibaldi era un appassionato
cultore della scienza e della tecnologia. Meucci
morì nel 1889 a Clifton e la sua casa è attualmente
sede del museo Meucci e Garibaldi.
La scienza italiana, dall’Unità ai nostri giorni,
ha raggiunto spesso vette di assoluto valore,
basti ricordare i premi nobel Guglielmo Marconi,
inventore della radio ed Enrico Fermi, che con i
“ragazzi di via Panisperna”, collaborò alle ricerche
sull’energia nucleare, fino ad arrivare ai nostri
giorni con Renato Dulbecco, Carlo Rubbia e Rita
Levi Montalcini.
Scienziati, tecnici e inventori sono stati protagonisti in questi 150 anni di storia italiana. La
cultura scientifica ha avuto e continua ad avere,
un ruolo importante dovuto essenzialmente alla
rilevanza profonda dei contributi applicativi e
delle scoperte che incidono sulla struttura economica e sul benessere della nazione.
Adele De Santis
98
Bibliografia
M. Cialdi, Reazioni Tricolori, Franco Angeli.
L. Russo, E. Santoni, Ingegni Minuti, Feltrinelli.
A. Guerraggio, P. Nastasi, L’Italia degli scienziati, Saggi Bruno Mondadori.
Basilio Catania, Antonio Meucci una vita per la scienza e per l’Italia, pubblicazione edita dall’ISCTI.
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
la poesia
Il mosaico a rischio
L’ombra del bello si contorna di rinnovata essenza,
Sembra risvegliarsi lentamente, come una reminiscenza.
I sorrisi dell’intelletto banchettano nella composizione armoniosa,
Scevra da vincoli incatenanti, si manifesta rigogliosa
Di forme e di colori, di rima e simmetria,
Che trova ispirazione anche nella nostalgia.
La musa ispiratrice, nella prospettiva appena nata,
Mette a fuoco l’essenza umana come fonte ritrovata.
Dolce anima palpitante trasuda sensazioni che sanno di vero,
Che cammina disinvolto come un prode condottiero,
Che indica la strada della nuova percezione:
Mosaici perfetti son lo sfondo di questa dimensione.
Come una rinascita dal torpore medievale
Prendo ispirazione per narrar dello stivale
La sua storia affascinante ricca di sangue assai versato
Per urlare finalmente “il paese, il nostro paese è nato”
Tutti uniti in un sol cuore
La bandiera è il tricolore…
…ma i selvaggi son sempre esistiti
e stranamente da deboli menti riveriti,
arroganza, odio e razzismo
come sfondo del separatismo:
finta chimera di venerazione
in cui del tricolor vien fatta derisione.
Nello Agovino
Lyceum Maggio 2011
99
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Musica e risorgimento
L’Inno di Mameli
e la nostra storia
Musica, storia e narrazione si fondono nel Canto degli Italiani, il nostro amato (e discusso) “Inno nazionale”. Tanta la storia racchiusa
in quelle parole, enorme il fervore
patriottico dei suoi compositori e,
purtroppo, grande anche la nostra
impreparazione sul suo significato
e sulle sue origini.
S
critto nell’autunno del 1847 dallo studente
genovese Goffredo Mameli, appena ventenne, e musicato poco dopo a Torino da
100
un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli
Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico
che già preludeva alla guerra contro l’Austria.
L’inno, molto probabilmente, fu scritto da
Mameli su richiesta di un altro eroe del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini, il quale
voleva creare un inno nazionale forte come la
Marsigliese, ma con chiari richiami alla storia
d’Italia e al sentimento degli Italiani. Fu così che
“i figli della patria” francesi divennero “fratelli
d’Italia”.
Il testo fu poi inviato al compositore genovese Michele Novaro, il quale scrisse la musica di
getto, cosicché l’inno poté debuttare il 10 dicembre 1847, quando, sul piazzale del Santuario della
Nostra Signora di Loreto a Oregina (Genova), fu
presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti
italiani in occasione del centenario della cacciata
degli austriaci dalla città.
L’immediatezza dei versi e l’impeto della
melodia ne fecero il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Esso
accompagnò i nostri patrioti durante le Cinque
Giornate di Milano, supportò Garibaldi e i suoi
Mille durante la conquista dell’Italia meridionale
e affiancò i bersaglieri nella presa di Roma.
Il suo impeto fu così travolgente che sconfisse
tutti i tentativi di divieto e censura delle autorità
austriache.
Chiaramente a noi moderni il testo sembra
molto retorico, e la musica appare come una
marcetta non troppo solenne. Ma quel testo
scritto di getto, spontaneo, appassionato e composto poi da un giovanissimo combattente per la
libertà (appartenente a quella generazione che lo
storico francese Jules Michelet definì “misteriosa”
perché “amava i sogni, disprezzava il successo
e serviva la causa più con il sangue che con la
vittoria”) sembrava il più adatto a simboleggiare
la giovane Italia rivoluzionaria.
Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle
Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli
Italiani –e non alla Marcia Reale, inno ufficiale
del Regno d’Italia– il compito di simboleggiare la
nostra Patria. Insomma, il Canto degli Italiani era
divenuto il simbolo non solo del Risorgimento,
ma di tutta la storia e la nazione italiana.
Lo stesso accadde durante la Prima Guerra
Mondiale: l’irredentismo che la caratterizzava,
l’obiettivo di completare la riunificazione, trovò
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
facilmente ancora una volta un simbolo nel Canto
ritrovare l’Italia del dopo Risorgimento. Un’Italia
degli italiani.
unita come non mai, che s’impose sugli oppresLe cose non cambiarono durante la dittatura
sori stranieri grazie al suo senso di appartenenza
fascista. Certo, al Canto degli Italiani furono molte
a un’unica Patria. Oggi l’esortazione ad “amarci
volte preferiti canti prettamente fascisti, ma esso
e unirci sotto un’unica Bandiera” è quanto mai
rimase comunque un simbolo inequivocabile
attuale poiché è sempre più forte la tendenza
dell’identità e dell’unità italiana anche nei periodi
a mettere in discussione la nostra Patria. Contro
più bui della sua storia. L’Inno di Mameli conserquesta moda l’Inno Nazionale può costituire un
vò, dunque, la sua importanza ed è considerato
antidoto molto efficace, purché lo si canti a voce
da molti come l’inno “ufficioso” della Repubblica
alta in ogni occasione, per dimostrare a noi stessi
Sociale Italiana, accanto a Giovinezza e all’ufficiale
e agli altri che ancora crediamo nella Patria, nella
Marcia Reale.
nostra storia e nei nostri eroi.
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’inno
Raffaella Celentano
di Mameli, insieme a molti altri canti partigiani,
II A Liceo Classico
risuonò per tutta l’Italia, venendo
trasmesso sempre più spesso dalle
FRATELLI D’ITALIA
radio e dando coraggio agli italiani. In
Fratelli d’Italia,
Il suolo natio:
questo periodo di transizione, sapenL’Italia s’è desta;
Uniti, per Dio,
do che il Paese stava per mettere in
Dell’elmo di Scipio
Chi vincer ci può?
discussione la monarchia, il governo
S’è cinta la testa.
Stringiamci a coorte!
adottò La Canzone del Piave come
Dov’è la Vittoria?
Siam pronti alla morte;
inno nazionale provvisorio, sostiLe porga la chioma;
Italia chiamò.
tuendolo alla classica e monarchica
Ché schiava di Roma
101
Dall’Alpe a Sicilia,
Marcia Reale. Nel 1945, tuttavia, il
Iddio la creò.
Dovunque è Legnano;
Canto degli Italiani vide riconosciuta
Stringiamci a coorte!
Ogn’uom di Ferruccio
l’importanza che gli spettava quando
Siam pronti alla morte;
Ha il core e la mano;
fu eseguito nell’Inno delle Nazioni di
Italia chiamò.
I bimbi d’Italia
Verdi, affiancando gli ufficiali God
Si chiaman Balilla;
Save the Queen e la Marsigliese.
Noi siamo da secoli
Il suon d’ogni squilla
L’inno passò dall’ufficioso all’ufCalpesti, derisi,
I Vespri suonò.
ficiale il 12 ottobre 1946, quando Il
Perché non siam popolo,
Consiglio dei Ministri della neonata
Perché siam divisi.
Stringiamci a coorte!
Repubblica Italiana acconsentì ad
Raccolgaci un’unica
Siam pronti alla morte;
adottarlo come inno nazionale provBandiera, una speme;
Italia chiamò.
visorio. Ma si sa: in Italia niente è più
Di fonderci insieme
Son giunchi che piegano
definitivo delle cose provvisorie. E
Già l’ora suonò.
Le spade vendute;
così Fratelli d’Italia è rimasto un inno
Stringiamci a coorte!
Già l’Aquila d’Austria
provvisorio per vari decenni. BisoSiam pronti alla morte;
Le penne ha perdute.
gna aspettare il 2006 per ottenere
Italia chiamò.
Il sangue d’Italia
un’ufficiale normativa che presenta
E il sangue Polacco
Fratelli d’Italia come inno definitivo
Bevé col Cosacco,
della Repubblica Italiana.
Uniamoci, amiamoci;
Ma il cor le bruciò.
Fatto sta che la scelta dell’Inno
L’unione e l’amore
di Mameli non è certamente casuale
Stringiamci a coorte!
Rivelano ai popoli
perché, dopo la caduta del Fascismo
Siam pronti alla morte;
Le vie del Signore.
e le disastrose conseguenze della SeItalia chiamò.
Giuriamo far libero
conda Guerra Mondiale, occorreva
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
fantastoria
Dal diario immaginario di Antonietta De
Pace
Gli ultimi istanti di
una patriota e donna
senza tempo
C
hampagne! Tutte quelle bollicine, le
osservo mentre si rincorrono furiose
nel mio calice di cristallo. Ne butto giù
un sorso mentre mi avvicino alla finestra. Fuori
il sole sta calando: gli ultimi raggi si tuffano nel
limpido mare di Procida, mentre la luna inizia a
vedersi nel cielo. Ormai anch’io come il sole sto
tramontando, sono alla fine dei miei giorni, questa bronchite mi sta uccidendo. Sembra ieri che
102
mi trasferii nella bellissima Napoli e invece sono
passati più di trent’anni. Grazie a mio cognato e
compagno di avventure Epaminonda Valentino,
che mi ha fatto conoscere questo posto da sogno,
ed aiutare la sua calorosissima gente, Napoli è
diventata la mia Napoli.
Mi sento morire, ho la testa che mi gira,
ma non mi riposo, nonostante gli inviti di mio
marito a restare a letto sono voluta scendere
in salotto. Mi viene da sorridere,
non cambio mai! Sono sempre
la solita sciocca e ostinata Antonietta. Non mi sono mai fermata
davanti al dolore, ho sempre
tirato avanti sorvolando sui miei
problemi e cercando di risolvere
quelli altrui.
Mia madre non si spiegava
perché nonostante avessi tutto:
casato, ricchezza, educazione,
istruzione … mettessi tutto da
parte per combattere l’ingiustizia,
la fame, la povertà. Avevo tredici
anni quando portai a casa un
bambino, il piccolo Vincenzo Veltrò, che era malato di malaria e aveva perso entrambi i genitori.
Ma non dimenticherò mai Tonina, una donna che
difesi tanto contro il marito che le usava violenza
e le faceva mangiare avanzi e rifiuti. Le offrii un
posto dove stare, vestiti, cibo ed un coltellino
per tagliuzzarlo. Proprio con quello, però, lei
uccise il marito.
Mi volto. Mio marito, Beniamino, si sta versando dello champagne e mi guarda con lo sguardo
innamorato. Sono ormai trentacinque anni che
siamo insieme ma ogni giorno sembra il primo.
Non saprei fare a meno di lui. Ricordo ancora
quando lo incontrai per la prima volta a Striano,
il suo paese natale, era il 1858. Lui era un prete
liberale e per questo ci abbiamo messo un po’ per
sposarci, ben venti anni, ma alla fine l’amore ha
trionfato. Da quando ci siamo conosciuti siamo
sempre stati complici non
solo in amore ma anche in
politica. Insieme abbiamo
aiutato Giuseppe Garibaldi
nel suo processo di unificazione dell’Italia.
Mi siedo accanto a lui
e guardo il mio bicchiere.
Dentro riflette la luce rossa
del tramonto, lo stesso rosso della distintiva camicia
del nostro compagno Garibaldi. Che forte emozione
quel 7 settembre 1860
quando lo accompagnai
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
nella sua entrata trionfale a Napoli. Mi sembra
ancora di sentire quelle grida di festa e quell’odore di vittoria, di libertà. Sorrido.
Sul tavolino c’è un volantino in cui si legge
dell’Italia unita. Cosa non ho fatto per la mia Italia,
mi sono fatta anche maschio. Sotto lo pseudonimo di Emilia Sforza Loredano ho mantenuto
vivi i rapporti tra i mazziniani del Nord e quelli
del Sud e nel 1848 ho combattuto al fianco di
Valentino e Settembrini. Mi sentivo invincibile
in quel periodo, ero una rivoluzionaria, una patriota, ero bella, passionale, ardente, coraggiosa.
Si, coraggiosa. Non mi sono mai tirata indietro,
mai fatta intimorire, nemmeno quando nel 1855
mi arrestarono.
Che angoscia se ripenso a quei 18 mesi in
carcere, sottoposta a 46 udienze! Illusi quei giudici
che speravano di avere da me il nome di qualche
cospiratore, ma niente, non dissi niente. Sono
stanca, ho il respiro un po’ affannato. Mi avvicino
a Beniamino, ci guardiamo. Ormai ho 75 anni e
sappiamo entrambi che per via della malattia a
giorni potrei anche morire, ma non ho paura. Non
mi preoccupo per niente, ciò che desideravo di più
ormai è compiuto, l’Italia è unita, ed anche grazie
a me. Alzo il calice, Beniamino mi accompagna,
voglio brindare a me, a lui, a noi, a questa agognata
unità d’Italia per cui ho incessantemente lottato.
Antonia Falco
I B Liceo Classico
103
Lyceum Maggio 2011
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
Sventola, o bandiera
identità nazionale
La storia del nostro
Tricolore dal 1796 a oggi
“Tutti uniti in un sol fato
stretti intorno alla bandiera
griderem mattina e sera
viva viva il tricolor,
griderem mattina e sera
viva viva il tricolor,
il tricolor, il tricolor!”
Q
(Canzone politica popolare)
uante volte, durante il Risorgimento
italiano, si udirono queste parole in
104
segno di ammirazione e lode del nostro
popolo per quell’Italia che finalmente riuniva, in
un unico Stato, tutti i suoi territori sparsi. Quel
semplice drappo di stoffa fissato ad un’asta era
in grado di infiammare gli animi e di infondere
un indomabile senso di appartenenza. E non
erano stati scelti a caso i suoi colori. Il verde era
simbolo della speranza, a lungo coltivata, di
raggiungere un’Italia libera e unita e, inoltre,
richiamava la macchia mediterranea, importante
elemento paesaggistico del centro-meridione;
il bianco era simbolo della fede cattolica e dei
ghiacciai settentrionali delle Alpi; il rosso ricordava il sangue che gli uomini avevano versato
per il loro Paese.
Ma la vita del nostro tricolore
è stata tra le più travagliate della
storia. Utilizzato occasionalmente
dai giacobini italiani per affermare la loro vicinanza ideologica alla
Rivoluzione francese, fu disegnato in seno al Senato di Bologna
il 18 ottobre 1796, e fece il suo
ingresso ufficiale, nella storia ita-
liana, a Reggio Emilia, il 7 gennaio 1797, dove fu
acclamato come simbolo della Repubblica Cispadana. Napoleone Bonaparte lo adottò poi come
bandiera nazionale del Regno d’Italia (1805).
Nei tre decenni che seguirono il Congresso di
Vienna (1814-1815), il vessillo fu soffocato dalla
Restaurazione, ma continuò ad essere sventolato
durante i moti del 1831, nelle rivolte mazziniane,
nella disperata impresa dei fratelli Bandiera e
nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa.
Nel 1848 il Tricolore sostituì lo stendardo
azzurro sabaudo quale insegna del Regno di Sardegna, con l’aggiunta al centro dello scudo dei
Savoia. Il 17 marzo 1861, dopo la proclamazione
del Regno d’Italia, la bandiera continuò ad essere
quella della prima guerra d’indipendenza. Ma
la mancanza di una apposita legge al riguardo
-emanata soltanto per gli stendardi militari- portò alla realizzazione di vessilli
di foggia diversa dall’originaria, spesso
addirittura arbitrari. Soltanto nel 1923
si definirono, per legge, i modelli della
bandiera nazionale e della bandiera
di Stato. Quest’ultima (da usarsi nelle
residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresen-
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
tanze diplomatiche) avrebbe ancora presentato
l’icona della corona reale.
Durante il secondo conflitto mondiale la
Repubblica Sociale Italiana (RSI) adottò una propria bandiera e solo dopo la nascita della nostra
Repubblica un decreto legislativo stabilì la foggia
provvisoria della nuova bandiera, confermata
dall’Assemblea Costituente nella seduta del 24
marzo 1947 e inserita all’articolo 12 della nostra
Carta Costituzionale, che recita “La bandiera della
Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e
rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”:
lo stemma sabaudo era stato
eliminato.
Certo è che,
a qualsiasi periodo storico
si faccia riferimento, balza
in primo piano
la grande forGiosuè Carducci
za scaturita dal
nostro tricolore e penetrata perfino nel cuore di
grandi poeti. Non a caso il celebre Giosuè Carducci (1835-1907) sentì forte il bisogno di tenere, il
7 gennaio 1897 a Reggio Emilia, un discorso per
celebrarne il centenario. Esso si apriva, emblematicamente, con un’esclamazione : “Sii benedetta!”
e culminava con l’esaltazione dei tre colori della
nostra bandiera.
Purtroppo, oggi, seppur in condizioni istituzionali e sociali molto difficili, sembra che sia
scemata la carica patriottica che il tricolore era
sempre riuscito a trasmettere agli italiani. Tanto
è avvenuto, forse, perché travolti dalla frenesia
della vita, è difficile trovare il tempo di soffermarsi
su quello che solo apparentemente è un pezzo di
stoffa, ma che ha come essenza prima e ultima
profondi valori d’identità. Ecco perché non si può
guardarlo con ammirazione solo quando cinge
le bare di giovani uomini morti per il proprio
Paese, occasioni in cui dagli occhi di chi fissa
quelle casse di legno scendono lacrime tricolori.
Il valore e l’importanza della nostra bandiera
andrebbe rammentata sempre come simbolo
dell’unità. È quanto ha fatto Francesco Tricarico
(cantante italiano nato a Milano nel 1971), che
ha partecipato al festival di Sanremo 2011 con
la canzone “3 colori”:
“Quelli nella nebbia hanno una bandiera verde
ricorda che la nostra tre colori ha
la battaglia è già iniziata
buona giornata
cannoncini con le bocche in su
partiremo noi da dietro
con l’aiuto di San Pietro
il destino poi ci guiderà
quelli sul confine hanno una bandiera rossa
ricorda che la nostra tre colori ha
quelli nella nebbia hanno una bandiera verde
ricorda che la nostra tre colori ha..”
Sono passati più di duecento anni dalla
nascita del tricolore, eppure una cosa è certa: gli
ideali dell’uomo di allora, che vedeva il paese in
ginocchio, sognava un’Italia migliore e cantava,
devono nutrire l’animo e la mente dell’uomo di
oggi, pur se in un contesto storico diverso, ma
ugualmente gravido di problemi, che solo uniti
si può cercare di risolvere.
Loredana Gaudino
IIIC Liceo Classico
Lyceum Maggio 2011
105
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
storia
Cavour
e l’Italia
Q
Tra l’Italia
e l’Italia mai più!
uesti sono i miei fiumi che solcano le
terre d’Italia in cui tante volte la vita si è
riversata, si è persa, si è ritrovata come
quando dal liquido amniotico tutto comincia.
Dove è finito quel senso di appartenenza che
Ungaretti ritrovava nei suoi fiumi? Le stesse
106
acque ancestrali che un tempo han destato le
penne dei poeti sono ormai crepe d’acqua dolce
tra volti fratelli ma lontani.
È triste pensare che ad interromperne il naturale confluire sia la grande diga della politica che
tenta di sradicare dall’Italia quel senso di unità
nazionale che infervorò gli animi dei patrioti
dell’800. Federalismo e Scissionismo sono oggi le
parole chiave quando si parla della nostra Italia.
Certamente, a suo tempo, Camillo Benso conte di
Cavour, ministro del Regno di Sardegna, nonché
primo presidente del Consiglio del neonato Regno d’Italia, sarebbe inorridito di fronte a siffatti
progetti politici, preferendo una visione unitaria
del suolo italico.
Ma all’alba del centocinquantesimo anniversario della sua unità, l’Italia sembrerebbe aver
dimenticato i meriti di quest’uomo, il quale vedeva nella creazione di uno stato territorialmente
unito, il primo passo verso la concretizzazione
del progetto di sviluppo e crescita economici e
sociali da lui promossi per il Regno di Sardegna,
da cui nascerà la futura Italia. D’altronde nel
suo Chemins de Fer, Cavour afferma: «La storia
di tutti i tempi prova che nessun popolo può
raggiungere un alto grado di intelligenza e di
moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo
che non può essere fiero della sua nazionalità il
sentimento della dignità personale esisterà solo
eccezionalmente in alcuni individui privilegiati.
Le classi numerose che occupano le posizioni più
umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi
grandi dal punto di vista nazionale per acquistare
la coscienza della propria dignità».
L’unificazione italiana non era il solo obbiettivo di Cavour, molto ampia fu, infatti, la
sua opera riformista che interessò ogni aspetto
della vita sociale: dal potenziamento delle
tecniche agrarie allo sviluppo dell’allevamento
del bestiame, dal miglioramento dei mezzi di
trasporto, soprattutto ferroviari, al sostegno della
promulgazione dello Statuto Albertino; il tutto
astenendosi da ogni potenziale rivoluzionario.
Un realistico riformismo per necessità più che
per convinzione il suo: le riforme vanno fatte
quando non se ne può più fare a meno, quando
insistendo con una politica reazionaria il rischio
di una rivoluzione si fa reale comportando così
la perdita del potere sino allora gestito.
Alla nascita, nel 1847, del partito moderato
come alternativa riformista ai movimenti di ispirazione democratica e insurrezionale aveva contribuito anche il pensiero politico del giovane aristocra-
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
tico piemontese
che sulla base
delle proprie
idee liberali nel
1846 così scriveva: “In Italia una
rivoluzione democratica non
ha probabilità
di successo [..].
Il partito favorevole alle novità
politiche [..] non
Alessandro Manzoni
incontra grandi
simpatie nelle masse...in genere assai attaccate
alle vecchie istituzioni del paese. La sua forza risiede nelle classi medie e in una parte della classe
superiore. Su queste classi [..] così fortemente
interessate al mantenimento dell’ordine sociale le
dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno
presa. Perciò ad eccezione dei giovani [inesperti
ed ingenui] si può affermare che non esiste in
Italia se non un piccolissimo numero di persone
seriamente disposte a mettere in pratica i principi
esaltati di una setta inasprita dalla sventura.”
Parimenti a quanto sostenuto da Cavour,
il popolo italiano sembrerebbe ancora una
volta estraneo agli avvenimenti o molto più
probabilmente ancora poco cosciente della
propria identità nazionale. Non sono bastate le
polemiche, gli appelli, i richiami ufficiali. La gran
parte degli italiani non sa che nel 2011 ricorre
il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Se si
chiede ai giovani di esprimere un’opinione sul
senso di quell’evento storico, quasi la metà è
d’accordo nel ritenerlo poco o per nulla attuale.
Ancora meno sono, a differenza degli adulti, i giovani che se ne sentono coinvolti personalmente,
facendo sì che il futuro della nazione italiana sia
sempre più velato da una patina di indifferenza
e noncuranza. Ci sembra opportuno lasciare che
siano le parole di Alessandro Manzoni ad esprimere tale atteggiamento nei confronti dell’esodo
della propria esanime patria, priva ormai di ogni
antica dignità:
“Oh giornate del nostro riscatto!
oh dolente per sempre colui
che da lunge dal labbro d’altrui,
come un uomo straniero, le udrà!
Che a’ suoi figli narrandole un giorno
dovrà dir sospirando: “Io non c’era”;
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.”
Lyceum Maggio 2011
Anna Casalino
Denise Miranda
Marilena Pacelli
Ersilia Zuottolo
II D Liceo Classico
107
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
l'italia, oggi
LA SOLITUDINE DEI NUMERI ZERO
L
Abbiamo fatto l’Italia,
facciamo gli Italiani
a solitudine è un fenomeno sociale che
avanza, tipico soprattutto dell’ultimo decennio del XX secolo e in rapido aumento
fino ai giorni nostri. Certo, non è un fenomeno
solo dei nostri giorni: se leggiamo la poesia che
Saba dedica alla Milano degli anni ’60 vediamo
che anche allora questo fenomeno esisteva. È
inevitabile, in ogni epoca, che qualcuno rimanga
solo, ma a preoccupare sono i grandi numeri. Certamente la condizione di solitudine non avviene
mai per caso o perché un particolare destino
prenda di mira alcune persone.
108
Dagli anni di Cristo all’era di Facebook è cambiato poco, i motivi di fondo sono spesso identici.
Prima i lebbrosi ed i poveri venivano isolati, poi si
passò alle streghe, agli alchimisti, agli ebrei. Oggi
questo ostracismo è praticato nei confronti degli
immigrati, regolari o irregolari, ammesso che una
persona possa essere classificata o, ancor peggio,
ritenuta degna di esistere e vivere in base a un
pezzo di carta. E nella categoria dei reietti mettiamoci anche gli anziani, come giustamente fa
Teresa Monestiroli in un suo articolo su “Repubblica”, abbandonati da figli che si dimenticano o
fanno finta di dimenticarsi dei propri genitori,
di chi li ha messi al mondo, solo perché questi
diventano diversamente abili.
Nella società moderna i freni vanno eliminati,
non c’è spazio per coloro che ci rallenterebbero
nella corsa verso la ricchezza. In un mondo partecipe o vittima della globalizzazione, un paese
moderno si identifica nel suo “PIL”. Di ciò si è
parlato nella trasmissione televisiva Report del
12 dicembre scorso. Ma capiamo bene che non è
un numero che può identificarci. Ci sono i fattori
società, legalità ed ecosostenibilità che sono più
importanti, o quantomeno hanno lo stesso valore
di quello economico.
In un paese, quale l’Italia, in cui circa il 26%
delle persone vivono in solitudine (fonte ISTAT) la
questione sociale dovrebbe essere al centro del
dibattito politico, di quello sano intendo, non di
quello da campagna elettorale.
Non si può considerare solo il dato economico: oltre al guadagno ed oltre ai flussi di
denaro ci sono persone di cui tutti noi, tutta la
società deve farsi carico tramite quel sistema
di mutua assistenza di cui tutti noi dovremmo
poter usufruire.
Ormai solo dei grandi pensatori mettono in
evidenza questo male della nostra società.
Tra questi c’è il filosofo Umberto Galimberti,
che in un articolo su la Repubblica del luglio 2007
evidenzia non solo il problema politico, spesso
sottaciuto, ma anche quello tecnologico.
Effettivamente è paradossale che nell’era dei
social network, delle chat e del world wide web
aumenti la solitudine.
Le tre espressioni inglesi significano rispettivamente “rete sociale”, “chiacchierare” e “grande
Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia”
ragnatela mondiale”. A
leggere il significato dei
tre termini si penserebbe che indichino mezzi
capaci di far comunicare e di far relazionare
il mondo intero. E in
effetti qualsiasi utilizzatore di Facebook o di un
altro social network ha
centinaia o addirittura
migliaia di amici dei quali, tuttavia, al massimo
conosce il 60-70%. Ma il problema principale è
di andare al di là del contatto virtuale.
Le nuove tecnologie hanno indiscutibilmente i loro pregi e vantaggi, ma tra questi
di sicuro non c’è quello di garantire un’attiva
vita sociale. Ci sono troppi avatar e pochi
volti, troppe persone e poche comunità.
Alla fine sono sempre i più deboli che
soffrono, che ne fanno le spese e che talvolta
muoiono nell’indifferenza di un mondo diventato individualista e spietatamente egoista. Si cerca la felicità nel lontano ignorando
il vicino, si guarda al futuro ignorando il
presente e si guarda a se stessi ignorando gli altri.
Antonio Annarumma
I C Liceo Classico
L’elaborato è il prodotto di un’esercitazione in classe
109
Lyceum Maggio 2011
Orientamento
Aspro e spesso ingiusto verso i Professionisti della Scuola è il dibattito agitato in questi mesi
sulla formazione e sull’insegnamento pubblico, sui docenti e sui discenti. Una delle prove della
vitalità del Pianeta Scuola è data dalla realizzazione dei Progetti PON, che si ispirano a progettualità
e qualità, autonomia e interdisciplinarità. Queste Azioni a livello curriculare ed extra-curriculare,
egregiamente portate a termine nel Liceo “T. L. Caro”, hanno fatto emergere non solo energie e
potenzialità amplissime da parte degli studenti, ma anche profonda professionalità da parte dei
Tutor e degli Esperti. In questo numero di Lyceum abbiamo pubblicato una parte delle prove di
Scrittura creativa, redatte nell’ambito del PON “Stage di giornalismo”, che, tra l’altro, ha realizzato
come prodotto finale un numero speciale del giornale Soci@l medium, pubblicato come Supplemento del Periodico Eventi, diretto da Livio Pastore.
Altrettanto interessanti i Progetti POF Lettura, Incontro con l’Autore e Gli studenti a teatro.
I Progetti PON del Liceo “T. L. Caro”
Una Scuola di eccellenza
P
rogettualità e qualità. Autonomia e interdisciplinarità. Questi, i quattro punti
cardinali di una Scuola pubblica moderna,
eppur tesa a tesaurizzare esperienze e valori
della migliore tradizione italiana. Un pianeta,
quello dell’Istruzione e della Formazione, spesso
trascurato e messo da parte, talvolta umiliato
e offeso, che però ha dentro di sé energie e
potenzialità amplissime. Capaci di operare una
rivoluzione copernicana nelle coscienze e nella
società. Il Liceo Classico di Sarno “T. L. Caro” (con
sezioni annesse di Liceo Scientifico e di Liceo
Linguistico) -guidata dal Dirigente Scolastico
Prof. Giuseppe Vastola, manager attivo e sorretto
da una profonda preparazione dal punto di vista
sia didattico che istituzionale- si colloca in questa
ottica da vari anni. Offrendo un’azione curriculare
di altissimo livello e proponendo prodotti culturali di grande prestigio, come la Rivista “Lyceum”
e l’attività teatrale.
Ad essi si è aggiunta da tempo un’altra modalità finalizzata a raggiungere
un potenziamento
dell’offerta formativa:
quella dei PON (Programma Operativo
Nazionale). Si tratta
di Progetti inseriti nel
Piano Integrato 2010,
volti a migliorare i “livelli di conoscenza
e competenza dei giovani” e, più ampiamente,
le “competenze per lo Sviluppo” (il cosiddetto
Obiettivo C). Finanziati al 50 % dalla Commissione
Europea e al 50% dallo Stato Italiano, sono seguiti
da 324 allievi (circa un quinto dell’Istituto), essi
si concluderanno tutti entro l’inizio del mese di
maggio. La certificazione verrà messa agli atti
negli scrutini di fine anno scolastico e, per gli
113
alunni del triennio, costituirà credito secondo i
criteri stabiliti nel POF della Scuola. Ed inoltre
ogni corsista riceverà una certificazione scritta
sul percorso realizzato, sulle capacità, sulle abilità
e sulle competenze acquisite.
Vari sono questi Progetti attivi nel “Tito Lucrezio Caro” (coordinati dalla Prof.ssa Enza Salerno),
che si distinguono tecnicamente secondo Azioni.
L’Azione n. 1 (Codice: C-1- FSE- 2010 – 2929) prevede Interventi per lo sviluppo delle competenze
chiave (comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza
matematica e competenza di base in scienza e
tecnologia, competenza digitale, imparare ad apprendere, competenze sociali).
I Progetti che vi rientrano
sono: Parlare e scrivere
correttamente 2, Problematizzazione e strategie
risolutive, Matematica
laboratoriale, Laboratorio di fisica 2, ECDL core
2, ECDL advanced 2, Le
Creatività e cultura
della ricerca.
Queste le linee-guida
per dar vita a una Scuola
di qualità.
Lyceum Maggio 2011
Orientamento
scienze: patrimonio per il futuro 2, Improving
my English 2, The Key to your Future e Paseando
por España.
I Progetti rientranti, invece, nell’Azione n. 4
(Codice: C – 4 – FSE – 2010 – 728) riguardano Interventi individualizzati per promuovere l’eccellenza.
Essi sono: 6,02 x 10^ 23 risposte: la chimica, Sta114
ge di Giornalismo e Discere ad Certamen 2.
Il Progetto riguardante l’Azione n. 3 (Codice:
C-3- FSE- 2010 – 625) si configura come una serie
di Interventi di educazione ambientale, interculturale, sui diritti umani, sulla legalità e sul lavoro
anche attraverso modalità di apprendimento
informale. La denominazione del Progetto è:
Salvaguardia dell’Ambiente ed Ecolegalità.
Esso è attuato insieme ad Enti partner: l’Associazione di volontariato “Legambiente Parco del
Vesuvio ONLUS”, la “Cooperativa sociale ONLUS
Archeosannio” e la “Cooperativa sociale ON-
LUS Ambiente e cultura”. Collocato
nell’ambito dell’iniziativa “Le(g)ali al
sud: un progetto per la legalità in ogni
scuola”, questo Progetto, della durata
complessiva di 100 ore, prevede
anche 40 ore di attività in situazione
presso Enti e Associazioni, impegnate
nel campo del recupero, della salvaguardia, della gestione e della tutela
dell’ambiente e nella promozione di
comportamenti “responsabili”.
Altrettanto rivolto al sociale è il
Progetto “Stage di giornalismo”, che
produrrà, alla fine del Corso, un vero e
proprio Giornale studentesco, “Soci@l
medium”, il cui primo numero, prodotto l’anno scorso, sarà premiato il 5 maggio a
Benevento dall’Ordine nazionale dei Giornalisti. Il
prodotto di quest’anno, allegato ad uno dei prossimi numeri di “Eventi”, manifesta la voglia delle
nostre “giovani penne” di leggere, in maniera
originale, la realtà della società e dei sentimenti,
del Pianeta-Scuola e delle tradizioni della nostra
terra. Particolare rilievo avrà il “backstage” del
Corso di Giornalismo, riservato al “Laboratorio
di scrittura creativa”.
Un Programma, dunque, nutrito e qualificato, volto a fare emergere le capacità dei giovani, spesso misconosciute e sottovalutate, nel
progettare con creatività, cultura e serietà. Tre
virtù fondamentali per dare vita, in tempi tristi
di barbarie e di corruzione, ad una società più
giusta e più attenta alla difesa dei grandi Valori
della nostra Civiltà.
Viridiana Myriam Salerno
pon /stage di giornalismo
Soci@l Medium Backstage
I corsisti del PON hanno pubblicato un giornale,
edito come supplemento del Periodico Eventi
P
ubblichiamo in queste pagine una parte
delle esercitazioni e delle prove di scrittura
creativa, che possono essere considerate
una sorta di backstage rispetto allo “Stage di
giornalismo”, un Progetto Pon che, tra l'altro,
ha prodotto anche un giornale: Soci@l medium.
Insomma, vi facciamo entrare nel laboratorio
segreto (ora -in parte- non più) della nostra
Redazione.
Qui di seguito abbiamo posto un pezzo sui
pensieri del lupo mannaro (l’autrice si è collocata
dal punto di vista di questa anomala creatura).
Nella pagina seguente vedrete gli esercizi sul
I pensieri di un lupo mannaro
Quella notte nella mia stanza l’unico rumore
era il ticchettio di una pioggia troppo stanca
per ritornare, troppo recente per sparire. Avevo
iniziato a vedere il mio film preferito come abitudine del lunedì sera. Senza che me n’accorgessi,
mi ritrovai serenamente addormentato. A svegliarmi fu il “buonanotte” di mia madre. «Spegni
quella dannata tv e prima di andare a letto porta
fuori la spazzatura, tocca a te stasera! » urlò.
Passando per la cucina, mi avviai verso l’esterno.
Uscito fuori, mi accorsi dell’incredibile spettacolo
notturno: un raggiante plenilunio illuminava la
fitta oscurità del quartiere. Un brivido di paura mi
scosse. Sapevo che cosa sarebbe successo.
Ebbi una sensazione d’improvviso tormento
interiore tra desiderio di uccidere e istinto di sopravvivenza. Ma ecco che sentivo il nervosismo
inondarmi mente e corpo e mi vedevo cadere
a terra, come in preda ad
un attacco epilettico: le
mie membra si contorcevano ed ero travagliato
da atroci dolori.
Uno scatto di rabbia
“Come va?”, la cui tipologia è stata inventata da
Umberto Eco (si immagina di rivolgere questa
domanda a personaggi famosi e si ipotizza una
loro ironica risposta ispirata alla loro vita o alle
loro idee), e una proposta di riscrittura dell’Inno
di Mameli senza la vocale “e”.
A seguire sono collocati gli esercizi sui lead di
un articolo (su un attentato a Mosca) e su esempi
inventati di reportage. Infine, esercizi sull’uso del
sottocodice: uno consiste nel riscrivere una notizia (la rivolta in Algeria) usando vari sottocodici,
un altro riscrivendola à la manière di Alessandro
Manzoni. Buona lettura.
sbilanciò il mio debole autocontrollo ed iniziai a
tremare. Sentivo la mia temperatura aumentare
gradualmente e il mio corpo cambiare.
Dal riflesso del vetro della porta vidi rispecchiato un corpo umanoide, peloso, dal petto
ampio, dalla testa di lupo e con zampe al posto
delle mani.
Contro ogni logica, non ero più nella mia
forma umana. Stavo tossendo e, tra urla e ululati atroci, sputavo sangue. Scorsi con la coda
dell’occhio la finestra della casa di fronte: una
candida fanciulla si pettinava i lunghi capelli.
Da lontano sono tutti così belli! Da vicino,
invece, c’è la possibilità di riscoprirli anche
buoni. Individuata la preda, tutto andava molto
meglio. Udivo il fruscio debole del tappeto di
foglie sotto le zampe, il sussurro delle ali di un
gufo, il lamento dell’oceano ad occidente. Tutto
questo e nient’altro.
Sentivo i miei muscoli in tensione, sentivo
tendini e ossa fremere dentro di me. Perso in
quel vuoto, non sarei tornato mai più. Un urlo
fuoriuscì dalla mia gola e accelerai il ritmo della
mia corsa per sfuggire a me stesso.
Giuseppina Iazzetta
Lyceum Maggio 2011
115
Orientamento
Cartesio
“Come va?”
“Penso, quindi bene.”
“COME VA”?
Dante
“Come va?”
“Mi sono smarrito.”
Giotto
“Come va?”
“A colori”
Giovanna la Pazza
“Come va?”
“Cose da matti!”
Gianni Morandi
“Come va?”
“Andavo a cento all’ora.”
116
Conte Ugolino
“Come va?”
“Ho qualcuno sullo stomaco.”
Dracula
“Come va?”
“Non sono in vena.”
Copernico
“Come va?”
“Mi girano.”
Enrico VIII
“Come va?”
“Non c’è più religione”
Cupido
“Come va?”
“Un amore.”
Gesù
“Come va?”
“È una croce!”
Orazio
“Come va?”
“Un attimo.”
Spinoza
“Come va?”
“In sostanza, bene.”
Benedetta Allocca
Gabriele Cialdini
Yuri Gaito
Simona Miranda
e Francesco Piscosquito
Inno di Mameli
riscritto
senza la vocale “e”
Nativi d’Italia,
L’Italia si riscatta;
Il bronzo di Scipio
Appoggia sul capo.
Conquistiamo la gloria!
Abbassi il suo capo
Voluta da Dio
Al giogo di Roma.
Riuniamoci in falangi
Affrontiamo il fato
Affrontiamo il fato
L’Italia gridò!
Riuniamoci in falangi
Affrontiamo il fato
Affrontiamo il fato
L’Italia gridò: “Sì!”
Maria Alvino - Annalisa Carbone
Autilia D’Avino - Maria Del Sorbo
e Debora Tommaseo
“Lead situazionale con particolare” di un articolo su un attentato in Russia
La frenesia nei passi lenti. Cammina nell’aeroporto di Mosca: un uomo
qualunque. La sua mano furtiva cerca con lucida disperazione il passaporto per l’inferno. Lo trova. Un urlo si dispiega, paura e rabbia nelle sue
corde vocali. bloccano i caotici viaggiatori. Un attimo assordante, ne basta
uno e poi il silenzio. Un silenzio tombale. Porta questo alla libertà?
Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio,
Ilaria Giordano, Marika Manna e Morena Vastola
Due braccia smagrite avvolgono un involucro ormai irriconoscibile: un bambino. Un abbraccio:
è l’unica immagine che brilla tra cumuli di polvere. Intorno, a parlare sono i bagagli, testimoni di
un viaggio dirottato per sempre, quello di milioni di vita. All’alba della tragedia su Mosca piovono lacrime amare. Corpi innocenti hanno pagato un conto inaspettato. È forse l’ennesimo, vano,
attacco di rabbia. Ma…
Nunzia Annunziata, Armando Campolongo, Melania Dolgetta,
Elisa Miranda, Cristina Pastore e Loredana Rega
A distanza di due anni nella capitale russa incombe nuovamente il terrore. La storia si ripete.
Verso le 18:25 ora locale, gli aerei smettono di decollare. Le urla dei turisti assordano l’aeroporto
ormai distrutto. Lo sguardo vuoto e senza vita dei 35 morti si specchia nel letto ghiacciato del
Volga. Gli attentatori ceceni con una rapida e violenta azione puntano le armi contro gli innocenti
e cospargono di sangue un governo troppo dispotico, quello russo.
Benedetta Allocca, Gabriele Cialdini, Yuri Gaito, Simona Miranda e Francesco Piscosquito
Reportage su villaggio africano/1
La suola della mia scarpa toccò timidamente l’arida terra africana; si sentiva inadeguata tra le
orme nude dei bambini affamati. Pance gonfie e sguardi vuoti adombrati da un sorriso vitale. Le
mani tese mi chiedono la felicità di un attimo. Dicevano che sarebbe stata bella, l’Africa, ma il suo
male ha contagiato anche me. Fame e solidarietà: vi ho raccontato la mia Africa.
Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio,
Ilaria Giordano, Marika Manna e Morena Vastola
Reportage su villaggio africano/2
I primi raggi del sole penetrano attraverso le fessure della capanna. Qui siamo gli unici ad assaporare una tazza di caffè caldo che risveglia il ricordo degli incontri di ieri, quando, per la prima
volta abbiamo incrociato gli sguardi disperati e affamati degli abitanti del villaggio di Mgogo.
La fame in Veyula è il destino comune, ma non per questo meno drammatico.
Dalle parole di Sarì, madre del piccolo Rafael, emergono chiare la rassegnazione di una donna arresasi al suo destino e la rabbia impotente di una
madre consapevole del futuro di suo figlio.
Rafael è un bambino di sei anni, di quelli che si vedono in tv con la pancia
gonfia e gli occhi grandi. Sono gli unici protagonisti del suo volto. Quegli
occhi noi ancora ce li abbiamo in testa, così come il rumore assordante del
suo futuro.
Maria Alvino, Annalisa Carbone, Autilia D’Avino, Maria Del Sorbo e
Debora Tommaseo
Lyceum Maggio 2011
117
Orientamento
Reportage sul luogo di un’alluvione/1
Case sporche di fango violento; auto ribaltate dalle lacrime della
montagna; persone private di un luogo a cui tornare; persone private dei
loro cari da amare. Le urla giungono ovattate al mio angolo di salvezza. Se
siamo davvero al sicuro, questo non lo so. Parole confuse si rincorrono in
questa stanza angusta nella disperata ricerca della certezza che il proprio
figlio sia ancora vivo, in questa Sarno in cui qualcuno ha già vissuto due
alluvioni. Il 5 maggio 1998, il 25 novembre del 2032. La vendetta di una natura crudele o l’incuranza spregevole dell’uomo così palesemente egoista?
Lina Mara Campaniello, Simona Ciaravolo, Antonella Correale, Antonia Falco, Stefania
Marone, Giovanna Tramontano e Anna Saporito
Reportage sul luogo di un’alluvione/ 2
118
New Orleans è un’indistinta distesa di fango.
Noi giornalisti insieme ai più fortunati trascorriamo le giornate al limite tra l’oggi e il domani in
baraccopoli occasionali, cercando di renderci utili
il più possibile. Un simile cataclisma rovescia ogni
equilibrio. La disperazione si respira nell’aria, si
legge negli occhi di chi ormai ha perso molto più
di un tetto, si sente nelle grida silenziose dell’impotenza. Ad un occhio esterno questa potrebbe
sembrare una Apocalisse in anticipo. Case senza porte né finestre. Alberi spezzati e vite sradicate.
Ma questa non è l’Apocalisse. Solo la più o meno diretta conseguenza del cinico progetto dell’uomo,
a cui la natura non ha esitato a rispondere con altrettanta spietatezza. Che cosa ne sarà di quel
fango, neppure chi ancora se lo scrolla di dorso può saperlo.
Maria Alvino, Annalisa Rosa Carbone e Maria Del Sorbo
Riscrittura delle notizie sulla rivolta di Tunisia,
usando un sottocodice specifico
Notizia: Pietre contro la polizia per “l’intifada” del pane.
Ben Ali ordina la chiusura dei licei e delle università
Riscrizione con il sottocodice medico
La febbre del pane ha colpito anche la Tunisia. Dopo mesi
di incubazione il virus è inesorabilmente esploso costringendo i
giovani nord-africani ad una terapia d’urto senza precedenti. Per
sedare la carestia pietre affamate sono state lanciate contro le camionette della polizia. Ben Ali ha
perciò ordinato la chiusura di licei e università sperando di scongiurare la pandemia.
Maria Alvino, Annalisa Carbone, Annalisa D’Avino, Maria Del Sorbo e Debora Tommaseo
Riscrizione con il sottocodice musicale/1
Solfeggiano proteste a ritmo di note stonate, giovani solisti uniti in un coro. Spezzano le righe
del pentagramma lanciando pietre a chi non capisce che il pane è la loro chiave di violino.
Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio, Marika Manna e Morena Vastola
Riscrizione con il sottocodice musicale/2
Rullo di tamburi: un coro di giovani scende in piazza, la loro. Note di violenza compongono
una melodia agghiacciante. Il ritmo incalzante della fame si fa sentire. Pietre, strumenti stonati
per le orecchie nemiche. Al cielo una sinfonia triste, si cala il sipario.
Elisa Miranda, Cristina Pastore, Ilaria Giordano, Loredana Rega, Melania Dolgetta, Armando
Campolongo.
Riscrizione con il sottocodice storico
“Il popolo non ha pane... Che mangi le brioches”: disse a suo tempo la regina Maria Antonietta
d’Austria. Ben Ali, invece, reagisce chiudendo università e licei, tentando di soffocare l’insurrezione.
Deborah Del Core e Giuseppina Iazzetta
Riscrizione à la manière de Alessandro Manzoni
Oltre lo mar nostro, culla di storie e civiltà, la gente molto diradata
grida per la fame e per le ormai rie condizioni giornaliere, per lo più
nel giovin popolo. I giovin di cultura poscia son accorsi al centro,
adirati e pronti alla tenzone; con prodezza e rabbia a contrastare
l’ormai esanime sistema, indi a dar sollievo alla vita resa ben cruda
dai pesanti prezzi sul pane. Tutti gridan alla guerriglia, pria con sassi
e dopo con le nude braccia, senza paura di perir, affinché lo pane
fia per tutti.
Gabriele Massimo Cialdini
119
Il Tutor dello Stage di giornalismo è la Prof.ssa Giuseppina Di Filippo,
l'Esperto è il Prof. Franco Salerno.
Soci@l medium è stato pubblicato a livello cartaceo dal Periodico Eventi
ed è consultabile sul sito del Liceo (www.licei.org).
Il numero di Soci@l medium dell'anno scorso ha ricevuto un Premio dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti; la cerimonia di premiazione si è svolta a Benevento il 4 maggio.
Il numero di Soci@l medium è stato presentato, nell’Aula Magna del Liceo, il giorno 12 aprile,
alla presenza del Dirigente Scolastico Prof. Giuseppe Vastola, alla Stampa, alle Famiglie, alla Comunità scolastica. I Redattori del giornale, invitati dal Direttore di “Eventi” Livio Pastore, a dar
vita, all’interno di questo Periodico, ad una pagina completamente auto-gestita sul tema “Pianeta
Giovani”, hanno presentato al folto pubblico una versione “televisiva” degli articoli pubblicati: da
essi hanno tratto dei testi light che hanno letto, a mo’ di servizi, in un TG virtuale, dotato di sigla,
speakers e intervistati.
Una Giuria di giovani presenti (della sezione D del Liceo Classico e del Liceo Scientifico) hanno
premiato Marika Manna e Morena Vastola della II B Liceo Classico (Primo posto); Rosachiara
Caldiero e Mirella Astarita della II A Liceo Classico e Simona Ciaravolo e Stefania Marone della
I B Liceo Classico (Secondo posto ex aequo) e Benedetta Francesca Allocca e Yuri Gaito del Liceo
Scientifico e Roberta Esposito e Alessia Minichini della I C Liceo Classico (Terzo posto ex aequo).
Una Giuria tecnica di Giornalisti ha premiato Marika Manna e Morena Vastola della II B Liceo
Classico e Antonia Falco della I B Liceo Classico (Primo posto ex aequo); Loredana Rega e Elisa
Miranda della II B Liceo Classico e Rosachiara Caldiero e Mirella Astarita della II A Liceo Classico
e Benedetta Francesca Allocca e Yuri Gaito del Liceo Scientifico (Secondo posto ex aequo) e
Giovanna Tramontano e Mara Pasqualina Campaniello (Terzo posto).
Lyceum Maggio 2011
Orientamento
Progetto “officina d’autore”
All’attenzione
dei giovani studenti di Sarno
Il “T. L. Caro”
incontra
120
N
Sales
“I preti e
i mafiosi”
ote struggenti, quelle del violino di Giusy
Adiletta, che ha presentato la “Meditazione” tratta dall’opera Thais di Itzhak
Perlman; immagini sconvolgenti di vittime della
mafia, quelle che scorrono sul muro dell’Aula
Magna del Liceo “Tito Lucrezio Caro” di Sarno, in
un’atmosfera coinvolgente ed emozionante. È
così che inizia, nell’ambito del progetto “Officina
d’Autore”, l’incontro organizzato dal Liceo sarnese
con Isaia Sales, docente di Storia della criminalità
organizzata nel Mezzogiorno d’Italia all’Istituto
Suor Orsola Benincasa di Napoli e autore del
saggio intitolato I preti e i mafiosi.
Al progetto, giunto al quinto anno di rea l i z z a z i o n e,
hanno aderito
le classi dell’indirizzo Brocca
IV MS, III MLA
e le classi II A,
II B, II C del liceo classico ad
indirizzo tradizionale. Dopo
i saluti del preside, prof. Giuseppe Vastola, del
rappresentante della casa editrice Einaudi, dott.
Claudio Bartiromo, e della prof.ssa Giovanna Vaccaro, responsabile della funzione strumentale, la
parola è passata al moderatore dell’incontro, prof.
ssa Elsa Franco, che ha offerto brevemente alcuni
spunti di discussione e ha sottolineato il valore di
un testo che “non banalizza l’argomento dando
risposte semplici a problemi complessi”.
Ma, in maniera molto più dettagliata, le tante
possibili spiegazioni al paradosso del rapporto
tra Mafie e Chiesa vengono indicate e spiegate
proprio dall’autore, che afferma: “Se la mafia è
una mentalità, non si può escludere, dai nostri
studi sull’argomento, la Chiesa, che ha forgiato la
nostra mentalità”. Egli confessa, inoltre, di avere
avuto “un’ insoddisfazione per tutte le spiegazioni
del fenomeno mafioso”: proprio da questa mancanza, unita ad esperienze di carattere personale,
nasce I preti e i mafiosi.
Nella lunga e appassionata relazione Sales
sottolinea come la Chiesa sia stata una delle
prime Istituzioni ad aver portato la cultura anche
tra le popolazioni rurali dell’Italia meridionale,
influenzandone di conseguenza il modo di vivere.
Nel silenzio della Chiesa rispetto alle mafie vi è
pertanto la causa fondamentale della decisiva e
duratura affermazione di queste nel sud Italia.
Durante l’incontro Sales espone ai ragazzi, in
modo semplice e lucido, il fenomeno dell’omertà
da parte della Chiesa e addirittura la responsabilità di questa importante istituzione morale
e religiosa nel convincere a volte mafiosi a non
collaborare con la giustizia. Ma il discorso si
allarga anche ad aspetti teologici, come quello
del perdono. La pratica cattolica del perdono
relativamente facile, spesso rimproverata ai
cattolici dai protestanti, ha fatto ritenere a feroci
assassini che basti una semplice pratica religiosa
per stare in pace con Dio. Il contenuto del saggio
descrive, quindi, una realtà che ci tocca direttamente: criminali e assassini che commettono
delitti col crocifisso in tasca e si recano in chiesa
a pregare che Dio finga di guardare altrove; preti
indegni che, per paura o per interesse, tacciono
anch’essi.
Le domande si fanno incalzanti. Ad una Sales
risponde: “Il problema della mafia non sono i
mafiosi; essa è forte se ha relazioni con coloro
che dovrebbero contrastarla”. E, quando ancora
gli viene chiesto se i preti siano stati più complici
o più ignavi in modo spiazzante afferma: “È più
silenzio che complicità. Ma quanta complicità
sta nel silenzio?”.
Con l’esecuzione del “Primo movimento dal
Concerto per due violini in la minore” di Vivaldi
da parte di Giusy Adiletta si chiude, così come era
iniziato, l’incontro. Le note, però, stavolta accompagnano i pensieri di tanti che hanno maturato
una maggiore consapevolezza e forse hanno
compreso che, per combattere le Mafie, non
bastano gli interventi di polizia, ma è necessario
cambiare mentalità.
Oriana Mancusi
II C Liceo classico
Lyceum Maggio 2011
121
Orientamento
progetto lettura
Il “T. L. Caro” incontra
Diego
De Silva
“Mia suocera
beve”
122
“S
piritus durissima conquit“. È con
questo slogan che, una delle più
autorevoli case editrici italiane, Giulio
Einaudi, approda al Liceo “T. L. Caro” di Sarno.
Suggestiva e stimolante è l’esperienza dello scorso 31 marzo. Alunni e docenti si ritrovano seduti
l’uno accanto all’altro. Stavolta infatti non è una
cattedra a separarli. Delle pagine, un inchiostro
su della carta, una copertina rosso sgargiante
si mimetizza col loro volto. Portano inciso, tra
i lineamenti, il titolo di quel libro: Mia suocera
beve. Il Dirigente Scolastico del Liceo “T. L. Caro”,
prof. Giuseppe Vastola, con l’esaustivo aiuto della
prof.ssa Giovanna
Vaccaro, funzione
strumentale attività extracurriculari,
fa sì che i propri
alunni aderiscano
al progetto lettura
sostenendo che
Quando c’è qualco-
sa da dire, i giovani ascoltano. Perché non renderli
partecipi a una tale opportunità?!
È con queste parole che il Dirigente anticipa
l’entusiasmante incontro. Impregnata tra quelle
mura vi è un’aria appagante. Di assoluto interesse.
Come un libro possa suscitare tanto accanimento,
è ancora da valutare. Rilevante, senza alcun dubbio, è la spensieratezza unitamente all’altrettanto
coinvolgimento dell’autore. Diego De Silva incarna alla perfezione la semplicità, la scorrevolezza
con cui Malinconico fa leggere di sé. Un avvocato,
un filosofo involontario che fa della sua vita una
dottrina. Trae da essa le peripezie più assurde,
modellandole al suo ego ugualmente bizzarro.
Un personaggio fuori dagli schemi. Un padre,
un genero su cui s’abbattono le ingiustizie della
vita. Ma la simpatia, la verità che traspare da ogni
singolo capitolo sono la chiave di lettura della sua
spiccata personalità. Il dibattito si apre. L’intensità
dei sorrisi evolve. La curiosità prende voce, si fa
sentire e trova risposta nella chiarezza del romanziere. Un uomo, anzitutto. Che trova riparo, nello
scrivere, a quello che della vita ancora ci rimane.
L’unicità delle sue dichiarazioni emoziona. Il suo
dar libero sfogo ai pensieri, sorprende.
Allo stesso modo, l’innata capacità di condurre il lettore oltre la peculiarità della concretezza.
Ad interessare il giovane pubblico non è solamente il cordone ombelicale che fonde l’indole
dell’autore col personaggio. Le problematiche
giuridiche, istituzionali, sentimentali interrompono, difatti, i prolungati applausi. La prerogativa
della realtà anima lo stesso autore. Lo spinge,
ancora una volta, ad insinuarsi nei nostri panni.
Come un padre. O forse di più. “I sentimenti non
sono attendibili sulle parole. Più sono dichiarati,
più sono fallaci, ragazzi. Ricordate questo: una
persona innamorata ha timore dei propri sentimenti. Ma noi, abituati ai reality show, abbiamo
perduto la sobrietà.”
Francesca Quarto
IIIB Liceo Scientifico
123
i
m
e
r
IP
Brillantissimo successo dello studente Emilio Sepe della III MS (allievo della Prof.ssa Maria
Teresa Sessa), che ha superato le Gare Regionali delle Olimpiadi della Matematica 2011,
per cui è stato ufficialmente invitato a partecipare alle Gare nazionali che si svolgeranno
dal 5 all’8 maggio a Cesenatico.
Alle Olimpiadi di Scienze naturali 2011 (fase regionale) il Liceo “T. L. Caro” ha fatto
registrare un risultato molto positivo, in quanto 5 suoi studenti figurano nei primi venti
posti per la categoria Biennio e altri 5 nei primi venti posti per la categoria Triennio. Il “T. L.
Caro”, pertanto, è il Liceo che ha il numero più consistente di allievi in questa importante
graduatoria.
La II B del Liceo Scientifico (coordinatrice: Prof.ssa Grazia Celentano) è stata insignita
del Premio Jonathan 2011 (Primo posto) con un filmato sul fiume Sarno.
Lyceum Maggio 2011
Orientamento
Teatro/U na piacevolissima
sorpresa
I Menecmi:
passato
o presente?
Un viaggio nell’epoca romana
per capire esperienze moderne
N
ocera Inferiore, Teatro Diana. È una bella
mattina invernale. Trecento studenti attendono con ansia l’apertura del sipario.
Delle ombre inquietanti dal palco cominciano un
lamento cantilenante: “Che tragedia! Che tragedia!” e noi, già con gli occhi che si chiudono, ci
prepariamo ad assistere a quella che quasi tutti
124 pensano sia l’ennesima rappresentazione teatrale
da sbadiglio: i Menecmi di Plauto.
Molti hanno lo sguardo altrove. Altri sgranocchiano patatine disinteressati. D’un tratto
compare una figura vagante: è il regista e primo
attore Domenico Corrado. Alle sue prime battute
scoppiano ovunque fragorose risate e un simpatico umorismo tra cadenze campane e siciliane
anima la sala e ci diverte tutti.
La noiosa opera teatrale si trasforma in un
esilarante spettacolo. Scene comiche raccontano
le vicende di due gemelli separati in tenera età.
Uno è sempre vissuto a Siracusa, l’altro è cresciuto
a Pompei: quando il gemello di Siracusa giunge a
Pompei alla ricerca del fratello, viene scambiato
per lui e comincia una lunga serie di spassosi
equivoci. La storia ci appassiona. Il Pompeiano ci
colpisce perché ci ricorda tanto uno “scugnizzo
napoletano”: scapestrato, imbroglione, circondato da donne. Stridula, la voce della megera
Fiorellino pizzica i nostri timpani e solletica la
nostra allegria.
Davvero ci stiamo divertendo? E chi se
l’aspettava! Siamo partiti con il pregiudizio che
il teatro sia noioso a priori. Oggi ci dobbiamo
ricredere. Ma questa commedia non ci piace
solo per il suo tono frizzantino. Anche perché
riconosciamo in essa dei temi attuali. Ad esempio, la crisi d’identità. I due gemelli sono divorati
dalla confusione. Dal caos. Da un senso di vuoto.
Hanno smarrito la propria individualità.
Riflettendo, ci rendiamo conto che anche noi
giovani siamo spesso portati a perdere il nostro
Io. Questo perché viviamo in una società che ci
impone con prepotenza dei modelli legati alla
materialità della vita. All’aspetto superficiale di
ogni cosa.
Le reazioni sono diverse. C’è chi si adatta. Chi
no. E chi non si adatta si sente spesso escluso. È
per questo che il gemello di Siracusa decide di
assecondare le aspettative delle persone che
incontra a Pompei. Si adegua alla vita dissociata
del fratello che rispecchia la società di quel tempo. Pressoché tutti erano soliti avere una moglie
e una concubina, truffare e utilizzare il proprio
servo come complice dei numerosi misfatti.
È proprio vero che il teatro appartiene al
passato?
Antonella Correale
Anna Saporito
I B Liceo Classico
Itinerari
In questa sezione Lyceum ospita i contributi degli studenti relativi ai Progetti teatrali delle due
Compagnie operanti nel Liceo: L’Allegra Brigata (composta da allievi del Liceo Scientifico) e La Nave
dei Folli (che annovera nelle sue fila studenti dei tre Plessi del Liceo). La prima ha prodotto uno
spettacolo ispirato al Negromante dell’Ariosto e la seconda, con Facemmo un sogno, ha sviluppato
un percorso storico-teatrale-musicale sul tema dei 150 anni dall’Unità d’Italia. Altri due pezzi
riguardano il Progetto di Arte visiva e una proposta di “itinerari di scrittura” relativa alla tipologia
B (articolo di giornale) della Prima Prova scritta prevista per l’Esame di Stato.
La bellezza della
disarmonia
S
empre più spesso la disarmonia viene intesa non come un
concetto astratto, presente solo in un quadro del Novecento
o in un’opera d’arte moderna, ma come qualcosa di reale che
si può trovare nella vita di tutti i giorni.
Ci sembra impossibile poter
pensare di indossare una maglia e
dei pantaloni dello stesso colore delle
scarpe, rischiando quasi di diventare
semplicemente una macchia gialla
o verde nello spazio. Ci risulta più
logico, invece, indossare maglia e
pantaloni di colori diversi facendo
comunque attenzione che non
“stonino” fra loro. Questo perché,
sicuramente, anche nella disarmonia
c’è un ordine tale da dare un senso al
caos generale.
Un po’ come quando sulle nostre scrivanie si
accumulano pile di libri, quaderni e fogli e non
ci va di metterli in ordine perché a noi sta bene
così, perché in questo
modo trovare le cose
ci risulta quasi più
semplice. E se qualcuno ci rimprovera
arriviamo anche ad
appellarci ad Einstein:
“Se una scrivania disordinata è sintomo
di una mente disordinata, di cosa può
essere segno, allora,
una scrivania vuota?”.
È proprio il disordine nell’arte, la disarmonia,
il tema principale del progetto che, nel corso
dell’anno 2010/11, il professore E. Terlizzi, con la
collaborazione della professoressa A. Buonaiuto,
ha tenuto presso il liceo classico “T. L. Caro” di
Sarno. Vi hanno partecipato alcuni alunni dello
stesso liceo che hanno elaborato vari lavori per
avvicinarsi alla concezione artistica di disarmonia.
Si è cercato di rappresentare l’essenza della
realtà tramite segni disordinati, linee
oblique e frammenti di immagini
che scomponevano e quasi svisceravano l’aspetto esteriore della realtà
stessa, come la vediamo tutti i giorni,
per arrivare a mostrare ciò che può
nascondere.
Dietro ad un apparente e semplice caos sono state costruite
armonie complesse a partire da
elementi basilari come punti, colori
e lettere. Questi elementi possono
essere ritrovati in tutti i lavori realizzati durante
il progetto, dedicati in particolare ai 150 anni di
Unità che l’Italia, il 17 marzo 2011, ha festeggiato.
Infatti, sempre rimanendo fedeli al tema della
disarmonia, i lavori
sono stati realizzati
partendo da immagini
di grandi uomini della
storia italiana quali
Cavour, Mazzini, Garibaldi e Dante e di
127
luoghi simbolo delle
Tre Capitali. Sono stati utilizzati materiali
diversi come carta da
imballaggio, ritagli di
giornale, stoffe e nastri tricolore.
Le opere più originali, che meglio rappresentano il concetto di disarmonia, sono state esposte
in occasione del convegno di Studi sull’Unità
d’Italia tenutosi il 7 aprile presso il Centro Sociale
di Sarno e verranno poi riproposte in una mostra
nei corridoi del Liceo alla fine del progetto.
Valeria Scognamiglio
Martina Ranieri
III MS
Lyceum Maggio 2011
Itinerari
teatro/allegra brigata
N
Il Negromante
ovità. Passione. Coinvolgimento. Sperimentazione. Questi sono gli elementi
che quest’anno hanno caratterizzato il
laboratorio teatrale de L’Allegra Brigata. Con il
passaggio di testimone tra la prof.ssa Antonella
Esposito e le prof.sse Giovanna Vaccaro e Grazia
Celentano e con l’esperto esterno Antonio Avigliano i giovani attori, noi, sono stati fin dall’inizio i veri
protagonisti del palcoscenico e della magia che
esso rappresenta. Non è stato facile all’inizio per
la compagnia intraprendere un nuovo laboratorio
senza la presenza della prof. Esposito che, con la
sua caparbietà e la sua esperienza, per dodici anni
ha guidato moltissimi ragazzi come noi. È stata, ed
è tutt’ora, il cuore della Brigata, ma le referenti del
progetto e il nostro regista hanno saputo sapien128 temente colmare questo vuoto col duro lavoro
e con impegno costante. Così l’Allegra Brigata è
riuscita a continuare la sua tradizione teatrale, anzi
ancora più motivata di prima e carica di energia e
passione nonostante si siano presentati numerosi
ostacoli. Fondamentale per noi è stata la presenza
L’arte non consiste nel
rappresentare cose nuove,
bensì nel rappresentarle con novità.
(Ugo Foscolo)
di alcuni ragazzi che hanno fatto parte della compagnia negli anni scorsi e che presi dallo spirito
travolgente e coinvolgente della Brigata hanno
voluto continuare a vivere questa esperienza
unica sebbene non frequentino più il liceo.
Essendo ragazzi come noi hanno compreso
perfettamente le nostre ansie e i nostri timori e
dunque hanno saputo aiutarci in una maniera
del tutto unica ed efficace. Non meno importanti
sono state le prof.sse Giovanna Vaccaro e Grazia
Celentano che insieme ad Antonio Avigliano
sono riuscite con tenacia a tirar fuori ciò che
ognuno di noi aveva dentro valorizzando al
meglio le nostre potenzialità. Suggestivo e valido è stato il training autogeno, che attraverso
sensazioni acustiche e visioni immaginarie ha
portato ad affrontare e a riportare le ansie e le
tensioni di ciascuno: esperimento ben riuscito
che ha facilitato l’unione del gruppo ma che
ci ha fatto scoprire anche nuove tecniche di
concentrazione e di comunicazione. Così con
entusiasmo e pazienza ci siamo cimentati nella
messa in scena del “Negromante” di Ariosto, uno
dei grandi capolavori dell’autore ferrarese.
La realizzazione e la ricerca degli oggetti per
le scene ci hanno portati alla scoperta di tradizioni
interessanti e affascinanti che altrimenti sarebbero
rimaste a noi sconosciute. Per questo è importante
servirsi di autori della tradizione letteraria, perché
solo in questo modo si crea una sinergia e sintonia
tra saperi curriculari ed extracurriculari. Sì perché
la Brigata non è solo teatro, ma è formazione
culturale, è vivere momenti indimenticabili in
sintonia. È condivisione di emozioni è un modo
per superare le proprie difficoltà. E nel mio caso il
laboratorio di specializzazione teatrale dell’Allegra
Brigata è stato molto utile, è riuscito a farmi superare la paura di stare in un gruppo e di relazionarmi
con gli altri. Mi ha aiutato ad aprirmi, a superare la
mia timidezza e come me tanti altri sono riusciti
a migliorare la propria persona e ad accrescere il
proprio bagaglio sia umano che culturale.
Per questo la Brigata ogni anno accoglie un
numero di ragazzi sempre superiore, perché
non si limita a portare avanti un mero laboratorio teatrale, ma costituisce una vera e propria
esperienza di vita. Alla base del lavoro, dunque,
c’è anche l’analisi storico-temporale dell’epoca
e l’indagine psicologica dei singoli personaggi.
Una connotazione comica, particolare e dinamica
è stata la rotta scelta dalla compagnia che ha
voluto lavorare su una comicità che, sulle basi
di quella ferrarese, risultasse più attuale e con
un’ambientazione diversa. Colpi di scena, beffe,
inganni e magia. Questo c’è da aspettarsi da uno
spettacolo che ha appassionato tutti. Ma il lavoro
continua e con l’appoggio che costantemente
abbiamo dai nostri docenti vi aspettiamo con
gioia la sera dello spettacolo.
Yuri Gaito 4G
Liceo “T.L.Caro”
indirizzo SCIENTIFICO
129
Lyceum Maggio 2011
Itinerari
teatro/nave dei folli
Lo spettacolo sui 150 anni
dall’Unità d’Italia
Facemmo
un sogno
130
Dare spazio ai pezzi piccoli
della storia che non sono citati
nei manuali, che hanno combattuto dietro le quinte delle
grandi battaglie, che hanno
dato inizio al Risorgimento,
che hanno fatto l’Italia.
L
ottare! Per la patria, per la famiglia, per
gli ideali, fino alla morte. Credere! Nei
compagni, nei sentimenti, nella forza dei
popoli, per conseguire un risultato. Urlare! Contro
la dominazione straniera, contro i soprusi dei
potenti, contro la soppressione della Giustizia e
della Libertà, fino a perdere la voce.
Questi i Valori che ispirano il nuovo lavoro de
La Nave dei Folli. Che quest’anno mette in scena
uno Spettacolo ispirato ai 150 anni dall’Unità
d’Italia. Titolo: Facemmo un sogno (testo di Franco
Salerno; regia di Angelo Pastore e Franco Salerno;
arrangiamento e direzione musicale di Ciro Ruggiero; aiuto regia: Francesco Mancuso e Viridiana
Myriam Salerno; danze a cura di Luisiana Levi;
servizio fotografico a cura di Luigi Moscariello).
Qual è lo scopo di noi ragazzi della Nave dei
folli? Dare spazio ai pezzi piccoli della storia che
non sono citati dai manuali, che hanno combattuto dietro le quinte delle grandi battaglie, che
hanno dato inizio al Risorgimento, che hanno fat-
to l’Italia. Sì, sono loro, gli Italiani che noi impersoniamo sul palco, che ci hanno affidato la loro
memoria, che ci chiedono tra le righe delle loro
storie personali di non essere dimenticati. E così
dietro le pesanti coltri del sipario ci prepariamo a
diventare Vittorio, Maria, Francesco, Luisa...
Ogni volta che saliamo sulla scena gli occhi corrono sulle prime file per scorgere volti
familiari. Il cuore accelera i battiti. I suoni degli
strumenti che vengono accordati dai musicisti
ci giungono alle orecchie; la mente ritorna alle
ore passate insieme e un sorriso sorge spontaneo
sulle nostre labbra.
Quante difficoltà, quante paure abbiamo
dovuto affrontare! Eppure quante risate, quanti
indimenticabili momenti abbiamo vissuto! E nulla ci ha mai fermato. Abbiamo provato all’aperto,
in classe, durante le vacanze da scuola e in ogni
momento libero. Abbiamo riso dei nostri errori e
gioito dei nostri successi. Ora siamo un gruppo,
una compagnia, una grande famiglia, perché no?
“Qual è il motto di quest’anno?” esclama qualcuno. Forse Tirem innanzi (“Tiriamo avanti”), nel
senso di andare avanti e resistere per garantire
un’identità nazionale.
La storia entra in scena, e lo fa proprio attraverso una mente giovane, qualcuno che ama la verità.
Una discussione accesa; fogli che vanno in pezzi;
insulti e minacce; poi una scena familiare: è la
vittoria del meta-teatro. Storie di leggi e innocenti
puniti per aver desiderato la libertà, per essere
stati sinceri in una corte di intriganti, di ipocriti, di
pervertiti scorrono davanti ai nostri occhi e catturano la nostra attenzione. Ma facciamo silenzio, il
carcere di Procida ha appena aperto le porte per
noi. Non dovremmo essere qui, non dovremmo
assistere ad una conversazione proibita.
Quante persone hanno sofferto, hanno dato
la vita per consegnarci quest’Italia che qualcuno
disprezza o considera scontata. Come abbiamo
fatto a non accorgercene per così tanto tempo?
Tante persone umili ne sono state allontanate,
a discapito del loro onore, della loro dignità:
contadini, madri che sussurrano ninnananne ai
figli appena nati, minatori (sono come gli elefanti,
i minatori, non dimenticano niente) che non di-
menticano l’umiliazione di essere estranei nella
loro patria, e dovunque vadano.
Alla fine di ogni spettacolo dall’alto i volti di
attori e musicisti vengono illuminati: la magia
è compiuta e noi lasciamo i panni dei patrioti e
torniamo alla realtà per accogliere quel tumulto
di applausi rivolti solo a noi. Il nostro compito è
svolto, la nostra missione compiuta. Abbiamo
portato in scena il Risorgimento, abbiamo salutato l’Italia unita, come se davvero avessimo
contribuito a formarla.
E così, oltre a rappresentare il sogno dei patrioti dell’Ottocento, vogliamo coltivare un altro
sogno: che questa nostra “giovane” Italia possa
resistere e ispirare dozzine e dozzine di rappresentazioni teatrali e romanzi e poesie e canzoni
anche grazie ai nostri sforzi. Quegli stessi sforzi
che ci apriranno le porte del futuro: futuro per il
quale sapremo combattere; futuro che vedrà le
nostre aspirazioni finalmente realizzati; futuro
durante il quale porteremo nel nostro cuore
tutti i meravigliosi ricordi del nostro viaggio alla
scoperta dell’Italia unita.
131
Giovanna Tramontano
I B Liceo Classico
Lyceum Maggio 2011
Itinerari
Itinerari di scrittura
PRIMA PROVA SCRITTA:
TIPOLOGIA B (ARTICOLO DI GIORNALE)
Morire lavorando,
lavorando per morire
Sale a galla il mistero delle morti bianche,
un alibi che tutti conosciamo, ma pur sempre un alibi.
Bianche perché non c’è un perché.
132
È
tutto a posto: sistemandosi lentamente il
bavero della camicia, fissa spavaldo il cerchio di anime intorno a lui. Agghiacciante.
Cammina accanto agli “sbirri” -è così che qui si
chiamano- tranquillo. Un raggio di sole fa luce
sulla sua, ormai sporca, persona. Dopotutto il sole
è l’unica cosa che ci resta. Crolla lentamente il
grattacielo di Mario De Meis, illustre proprietario
dell’omonima impresa edile. A incastrarlo? Una
trave difettosa, o, meglio, un’intera impalcatura
che ha preso coscienza di sé, dei propri diritti.
Un altro duro colpo per la bella Napoli, melodia
dei sensi.
18 gennaio 2011: questa, una data da ricordare. Sale a galla il mistero delle morti bianche,
un alibi che tutti conosciamo, ma pur sempre
un alibi. Bianche perché non c’è un perché. In
realtà, si finge che non ci sia, basta scrollarsi
di dosso quei brandelli di vite e indossare un
nuovo abito da sera, tutto ipocrisia. 6 Gennaio:
Hassan, giovane muratore diciottenne, è sepolto
da una raffica di mattoni. Pochi lo conoscevano,
era di passaggio, come quasi tutti gli operai
del cantiere. Al regista piace cambiare attori:
molte comparse, nessun colpo di scena. Eppure,
questa volta c’è stato un imprevisto. Il corpo del
giovane giaceva inerme sull’asfalto. Per gli occhi
dei passanti? Una vittima della strada, investita
dall’ebbrezza di una ruota ubriaca. Fortuna che
non è sparito, almeno qualcuno potrà piangere
sul suo cenere muto.
“A me mi dicevano di prenderli, poi li gettavamo in una fossa comune. Nessuno chiedeva
niente e nemmeno io. Quando hai fame, non te
ne importa se i soldi sono sporchi”: è cosi che
esordisce un cinquantenne napoletano. Non si
sa che cosa lo abbia spinto a parlare.
“Eravamo cinque, chiedevamo lavoro. Ci
dissero di lavorare ogni tanto, per trenta euro al
giorno. I miei compagni sono spariti. Non fare
domande: questo mi dicevano. E si lavorava un
giorno in più”: con queste parole un altro testimone si fa avanti.
E il Mezzogiorno batte il record con le morti
sul lavoro. Italiani? Forse qualcuno. Immigrati?
Almeno uno su sei. Si piange e nella calce si
mescolano cemento e ossa. Non sorprendetevi:
è una realtà nazionale, internazionale. Milletre-
centosettantasei morti ogni anno, un paradosso.
Non si lavora forse per vivere? Il tricolore mostra
il vergognoso trofeo. È al primo posto sui grafici
dell’ Eurispes. Seguono Germania e Francia,
ottocentoquattro e settecentoquarantatre. Nu-
meri che denunciano il mal funzionamento del
sistema. Un minuto di silenzio. Chiediamoci se è
giusto morire così.
Elisa Miranda
II B Liceo Classico
Questo testo è la fedele riproduzione di un compito in classe, eseguito -in riferimento ai documenti
riportati qui di seguito- secondo le modalità della Prima Prova scritta dell’Esame di Stato (tipologia
B: articolo di giornale).
DOC 1: In Italia. Nel 2010, nei soli cantieri edili, hanno perso la vita in 235. Uno su due muore
al Nord, almeno uno su sei è un immigrato. Secondo Rovelli, non è raro che il corpo di
qualche poveretto venga rimosso in tutta fretta per simulare un incidente stradale. O
più semplicemente venga fatto sparire.
DOC 2: In Italia 1376: la media annuale di morti sul lavoro calcolata dall’ Eurispes sui dati Inail
relativi al periodo tra gennaio 2000 e ottobre 2010.
DOC 3: Quattro: la media degli infortuni mortali al giorno.
DOC 4: Siamo comunque primi nella classifica più terribile con 944 vittime contro le 804 della
Germania e le 743 della Francia. Di più, tolta la Spagna, messa perfino peggio di noi,
siamo in testa alla tabella degli incidenti mortali in rapporto al Pil: 68 ogni dieci miliardi
di euro noi, 45 la Francia, 36 la Germania.
Lyceum Maggio 2011
133
Scarica

n°41 - Maggio 2011 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro