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Nella foto: Rosaria Mazza
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Francesco Bellanti
L’ U O M O D E I S O G N I
Romanzo
LULU EDIZIONI
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L’UOMO DEI SOGNI
A mia madre
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L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale.
Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.
Dialoghi con Leucò,
Cesare Pavese (9 settembre 1908 – 27 agosto 1950)
Un giorno Chuang Tzu si addormentò e, mentre dormiva,
sognò di essere una farfalla che volava in estasi.
E quella farfalla non sapeva di essere Chuang Tzu che sognava.
Poi Chuang Tzu si svegliò e, a giudicare dalle apparenze,
era di nuovo se stesso, ma ora non sapeva se fosse un uomo
che sognava di essere una farfalla o una farfalla
che sognava di essere un uomo.
Gli insegnamenti di Chuang Tzu.
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PARTE PRIMA
L’UOMO DEI SOGNI
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Capitolo I
Il sogno di Dio
Del primo sogno di Francisco Bardana, come lo vide il puro
sogno di suo figlio Filippo. Che pensò finalmente alla sua vita e a
come era diventato un sogno.
Quella notte Francisco Bardana sognò Dio. Un Dio garibaldino.
Dio, infatti, aveva il volto e la postura dell’Eroe dei Due Mondi. Il
sogno di Filippo, suo figlio, entrò nella sua mente di dormiente e vide
che egli sognava Garibaldi-Dio. Il sogno di Filippo aveva finalmente
imparato a riconoscere i sogni di suo padre. D’altra parte, era un
sogno familiare, non era la prima volta che i Bardana sognavano
Garibaldi, anche se quella notte Francisco si accorse subito che
Garibaldi non era un Dio rassicurante. Garibaldi-Dio era a cavallo
sotto il più alto degli eucalipti della piccola tenuta dei Bardana, aveva
il moschetto nella mano sinistra e una lunga spada nella mano destra
dentro un fodero di metallo nero, aveva alla cintola un pugnale e un
revolver col manico d’osso bianco, stivali di cuoio nero, una stampella
che aveva scritta sul manico la parola Aspromonte. La cavalla
Marsala con le redini attaccate a un ramo dell’eucaliptus festosamente
nitriva, consapevole di avere sulla groppa una soma immortale.
Garibaldi-Dio aveva una folta e bellissima barba bionda, capelli
lunghi e lisci, naturalmente biondi, occhi azzurri, luminosi e
penetranti. Indossava una camicia, naturalmente rossa, e i pantaloni
azzurri, una stella a sette punte sul petto, un fazzoletto blu intorno al
collo che aveva disegnati i simboli della massoneria. Fumava un
sigaro toscano che faceva ampi cerchi nell’aria. Un Dio che fumava.
Ci fu un momento in cui Francisco stava scambiando Garibaldi-Dio
per uno dei falsi profeti e ciarlatani che da sempre venivano ad
Almeda, ma Garibaldi somigliava troppo a Dio per non essere Dio,
Garibaldi era Dio.
Era un Dio guerriero e patriota, che aveva sofferto ed aveva
amato, che aveva combattuto, un Dio severo e austero. Così il mitico,
leggendario, solenne, immortale, immenso eroe nazionale italiano si
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identificava con Dio, quella notte, in sogno a Francisco, in una
metastorica affinità. Certo, tutto sommato, anche Cesare, benché
pagano, poteva contendergli la palma di eroe nazionale-Dio, ma
Francisco non amava la storia antica, la storia per lui cominciava col
Risorgimento e con Garibaldi, quella che lui aveva studiato ed amato,
quella che i suoi avi gli avevano raccontato e avevano vissuto.
All’improvviso, mentre il sogno di Francisco stava sprofondando
nei meandri tortuosi dell’Impero Romano, l’Eroe dei Due Mondi-Dio
sguainò la spada e scagliò su Francisco il tremendo monito di Dio.
Voi, gli disse Garibaldi-Dio, siete una famiglia di merda. Tuo
nonno Francisco nel 1860 voleva uccidere Garibaldi, voleva fermare
l’Unità d’Italia, il progresso, la storia. Io non c’entro con questa storia,
gli rispondeva Francisco, è passato tanto tempo. So solo che mio
padre mi diceva che mio nonno Francisco nel 1860 era un giovanotto
scapestrato, una testa calda, uno che si voleva fare avanti nella vita.
Bel modo di farsi avanti, lo incalzava Garibaldi-Dio, uccidendo il
fondatore dell’Italia moderna, Paese guida della civiltà del mondo. La
verità è che voi Bardana siete stati sempre dalla parte sbagliata della
storia. Ma era al servizio di un principe filoborbonico di Almeda,
ribatteva Francisco, mio padre mi diceva che Francisco aveva avuto
l’ordine di uccidere Garibaldi perché sotto i Borbone si stava bene,
c’era il progresso.
Progresso un cazzo, esplodeva Garibaldi-Dio, il Regno delle Due
Sicilie era quanto di peggio potesse esserci allora in Europa. No,
diceva Francisco risentito e più convinto delle sue opinioni, la storia è
storia, e non la fai tu. Me lo diceva mio padre e l’ho studiata anch’io.
Ferdinando II era un re progressista, ed amava il suo popolo. Abbassò
le tasse, ridusse le spese pubbliche e quelle di corte, reinserì molti
esuli nell’esercito e nelle funzioni pubbliche più importanti, diminuì le
pene per i condannati politici e cercò di migliorare le condizioni dei
detenuti e di recuperare i delinquenti. Ferdinando II, inoltre, avviò
molte industrie, costruì la prima ferrovia nel 1939, la Napoli-Portici, e,
sempre nello stesso anno, la prima illuminazione a gas d’Italia.
Minchiate, si irritava Garibaldi-Dio, tutte minchiate! Dove le hai lette
queste baggianate? Chi cazzo te le ha raccontate? Ah, sì?, ribatteva
Francisco. E dove lo metti il primo osservatorio vulcanico e
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sismologico del mondo, l’Osservatorio Vesuviano del 1841? E le
strade, e gli edifici comunali, e le terme? E le scuole per sordomuti, e
le scuole e gli asili per i poveri e gli orfanelli, e i manicomi, e i porti di
Mazara, Marsala, Girgenti? Basta, gridava Garibaldi-Dio, non dire
bestialità! Vuoi forse convincermi che Ferdinando II era un re
progressista, un socialista, una specie di Marx ante litteram?
Non parlare difficile con me, rispondeva Francisco, non te ne
approfittare che sai il latino. Si vede che non hai argomenti da
ribattere. La verità è che sotto i Borbone si costruirono molte industrie
e università, accademie, collegi, licei. Si bonificarono paludi e si
misero a coltura terre boscose, si costruirono ponti e strade. Le terre
erano ricche di grano e i prezzi erano bassi, i mercati ricchi, c’era
ricchezza dappertutto e la popolazione cresceva. Palermo era città
capitale, e non c’era la leva obbligatoria. L’unica colpa di Ferdinando
II fu di isolarsi in Europa, la Francia e l’Inghilterra lo scaricarono,
solo così si poté fare l’Unità d’Italia. E col tradimento e la corruzione
di molti generali, come Landi…
Ora mi sono rotto i coglioni, gridò Garibaldi-Dio. Nel bene e nel
male, l’Italia andava fatta, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla
storia, schiacciata da potenze immani come l’Impero Austriaco, la
Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Russia, l’Impero Ottomano.
L’Italia oggi è una delle nazioni più ricche e industrializzate del
mondo, faro di civiltà e di progresso. E voi Bardana, in questo paese
di merda che è Almeda, avete perso sempre tutti i treni. Vi siete fatti
fregare perfino da Bresci, quando volevate uccidere quel mezzo
minchione di Umberto I. Voi, una famiglia di vigliacchi e di lavativi.
Per esempio, tu, Francisco, perché non hai servito la patria nella Prima
Guerra Mondiale? Veramente, precisò Francisco, nel 1915 non ero
ancora nato. Ah, sì, scusa, m’ero distratto, disse crucciato GaribaldiDio. Ti ho confuso con altro dei tuoi. Fu tuo padre che non ci andò a
combattere. Altro codardo. No, lo difendeva Francisco, aveva una
famiglia da campare, ed era già grandetto, aveva trentadue anni. Solite
scuse dei vigliacchi, diceva Garibaldi-Dio con un sorriso sarcastico.
D’Annunzio partì volontario, ed aveva cinquantadue anni. Sì,
ribatteva Francisco, ma lui non aveva famiglia. Fanculo, diceva
Garibaldi-Dio, solite scuse puerili. Nella seconda, però, perché non ci
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sei andato, ah? Dimmi, perché? Veramente, rispondeva Francisco, io
non potevo andare a difendere gli interessi dei fascisti, io ero
antifascista. I fascisti hanno perseguitato la mia famiglia, mio padre, i
miei figli, me. Non mi hanno fatto studiare, come volevo io. Io ero
intelligente, potevo diventare professore universitario… E infatti
volevate uccidere pure Mussolini, lo interruppe Garibaldi-Dio. Perché,
non era giusto uccidere un dittatore?, disse Francisco. No, gridò forte
Garibaldi-Dio, voi non siete un cazzo per cambiare la storia.
Mussolini non poteva essere ammazzato mentre scopava con una
puttana. Mussolini doveva essere ammazzato dai partigiani, alla fine
di una lunga, gloriosa, guerra di liberazione nazionale. Così aveva
decretato il destino. E poi la Seconda Guerra Mondiale sarebbe
scoppiata lo stesso, i fascisti avrebbero messo un altro al suo posto. La
storia aveva preso ormai il suo corso, gli uomini erano solo degli
strumenti. E voi non eravate un cazzo.
Ho capito, gli rispondeva sconsolato Francisco, meglio cambiare
argomento: in fatti di politica, Dio non può mai perdere. Parliamo del
paradiso. Vediamo se sei veramente Dio, o se sei invece solo
Garibaldi. Io sono Dio, gli rispondeva sdegnato Dio, diffidente nato, e
il paradiso esiste. Il paradiso è un posto bellissimo, con freschi ruscelli
e prati verdi, e fiumi di latte e di miele, e giardini di aranci e di palme.
In paradiso ci sono frescura e ombra, e case all’ombra dei pini e degli
ulivi, e fiori, fiori bellissimi e profumati, viali odorosi di rose e ville
coi camini fumanti, tutto il contrario di Almeda, insomma, dove non
c’è un cazzo. In paradiso si mangia, pure, continuava Garibaldi-Dio, e
c’è il pane e c’è il vino, ci sono cibi prelibati, il paradiso è un luogo
dove si mangia e si beve. Però non si fa l’amore, gli diceva
provocatoriamente Francisco. Sì, si fa pure l’amore, soggiungeva
Garibaldi-Dio facendo l’occhiolino a Francisco, lui le conosceva
talune sue debolezze, in paradiso si fa pure l’amore, sì, perché l’amore
non è peccato, è peccato il sesso consumato solo per il sesso, non per
l’amore.
Certo, questo Garibaldi-Dio lo riconosceva, su questa materia lui
non era stato in verità molto chiaro, né nel Vecchio né nel Nuovo
Testamento. I tempi non erano maturi, però nel Medioevo i teologi,
chiaramente ispirati da lui, avevano detto una volta e per sempre che
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Adamo ed Eva nel paradiso terrestre facevano l’amore, anche se non
conoscevano l’eccitazione, che l’uomo era stato creato a immagine e
somiglianza di Dio, che lo stesso Gesù Cristo suo figlio mangiava e
beveva e defecava, e – come è scritto nei Vangeli - fece tutto. Anche
se non era vero che si era sposato con Maria Maddalena ed aveva
avuto figli: questo era una leggenda metropolitana, una stronzata dei
vangeli apocrifi.
Ad ogni modo, tagliò corto alla fine Garibaldi-Dio, difficilmente
in paradiso ci andrà un Bardana. Per la verità, aggiunse, sarà anche
difficile che vi accoglieranno all’inferno, perché siete stati troppo
coglioni nella vostra vicenda terrena. A questo punto, Francisco si
crucciava, e pensieroso domandava a Garibaldi-Dio – forse era il
rimorso interiore – se c’era qualche speranza per lui di andare in
paradiso, dopo la vita senza senso che aveva vissuto. Garibaldi-Dio gli
rispondeva che, nonostante lui, Francisco, avesse condotto una vita
inutile, qualche speranzella di andare in paradiso c’era ancora. Però
doveva eliminare le sue bestiali abitudini culinarie. Francisco gli
rispondeva che, sì, lui aveva ragione, ma nemmeno lui, Francisco,
aveva torto, perché in trent’anni di vedovanza qualcosa doveva pur
fare per non abbandonarsi alla depressione.
No, gli diceva Garibaldi-Dio, sono scuse senza senso. Ci sono
tanti modi per impiegare il proprio tempo. Tu, invece, per anni e anni,
per decenni, dopo che hai lasciato la biblioteca comunale, ti sei
strafogato, tu e quell’altro tavernaro di tuo figlio, di baccalà fritto e di
olive nere rifritte con contorno di cipolla cruda, sanguinacci e trippe
all’aglio e in tutte le salse, stigliole al peperoncino, piedi di porco e
budella arrosto, spiedini e salsicce di maiale e capra, teste di pecora,
calli di cavallo, spezzatini e involtini di milza di lumache e orecchie di
coniglio, oche e tacchini ripieni, lumache allo spiedo e fegatini di
gallo. Sfincioni e panini con la milza, arancini e panelle, crocchette e
caponata, frattaglie e rascature. Uno schifo.
E poi pentole di ceci e di fagioli e di lenticchie, polpettone di
cuore di cavallo, polpette di manzo al pecorino speziato, all’aglio,
pepe, cipolla, peperoncino piccante messicano che era una bomba
atomica, e altre schifezze del genere, cioè tutte le schifezze della tua
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famiglia. Dovrò rinunciare a tutto questo?, gli chiedeva agitato
Francisco. Sì, gli rispondeva severo Garibaldi-Dio, ma poi, vedendo
Francisco molto triste, compassionevole gli diceva, vabbè, ti
consentirò di continuare l’alimentazione terrena, di mangiare queste
schifezze insomma, ma solo tre volte la settimana, per non essere
accusato di favoreggiamento. E qui si fermava, e Francisco ci restava
lo stesso un po’ male, perché capiva che doveva proprio rassegnarsi a
rinunciare in paradiso al suo piatto prediletto, che Garibaldi-Dio non
nominava, non per eccessivo pudore ma forse perché lo riteneva
troppo afrodisiaco – cioè i coglioni di toro al pepe, prezzemolo, aglio,
cipolla, aceto e il solito peperoncino messicano atomico.
Passato un momento di smarrimento, però, Francisco chiese a
Garibaldi-Dio, vista la sua non più verde età, quanto gli restava da
vivere, solo per prepararsi, mica per altro. Ma Garibaldi-Dio gli
rispose che no, questo non era possibile, nessun mortale doveva
conoscere il momento preciso del proprio trapasso, per ragioni
tecniche, diciamo, che uno, poi, sapendo di dover morire in un giorno
determinato, poteva combinare qualche grossa minchiata. Allora
Francisco gli chiese di farlo morire di giorno almeno, in piena
coscienza, per avere i sacramenti - lui, che non andava in chiesa da
secoli! - e i parenti vicini, perché il terrore della morte non lo faceva
dormire la notte, e lui dormiva di giorno, visto che non aveva un cazzo
da fare, e quindi non dormiva mai la notte, e poi dormiva di giorno, e
poi ancora non dormiva di notte, era una catena. Garibaldi-Dio, allora,
pietoso e quasi con le lacrime agli occhi, provò infinita tenerezza per il
povero vecchio, e - privilegio concesso a nessun altro mortale - gli
promise che lo avrebbe fatto morire di giorno, anche se sapeva che
Francisco era un furbastro e non si fidava lo stesso. Qui, GaribaldiDio sguainò la spada di Calatafimi e la puntò minacciosa verso
Francisco, infine sparì fra le nuvole in groppa alla fedele Marsala.
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Capitolo II
L’inventore dei sogni
Di come Filippo Bardana di Almeda inventò l’elisir dei sogni
dopo una delusione d’amore.
Filippo Bardana si era ricordato di Rafael Cernada, un mago di
Malaga.
Era l’ultimo di una moltitudine di maghi e ciarlatani che con
straordinaria continuità passavano da Almeda e profittavano della
millenaria ingenuità della popolazione per vendere le loro erbe
miracolose e gli elisir di lunga vita, e fungevano così da collegamento
tra l’ignoranza di Almeda e il resto del mondo.
Vendevano erbe e decotti, strani medicinali per guarire epilettici o
per curare le malattie più disparate, antidoti per fare uscire dall’oblio o
dalla dimenticanza estrema, o per fare risuscitare i morti, in un tempo
in cui la primaria incombenza del popolo di Almeda era non di
dedicarsi alla scrittura o di cadere nella depressione, ma di evitare la
fame. Un bel giorno, dopo centinaia di tentativi clamorosamente falliti
per creare l’elisir dei sogni, Filippo Bardana cercò di far tornare alla
memoria quella singolare medicina che molti anni prima il Cernada
aveva fatto provare nella piazza principale del paese a uno straniero doveva essere un suo complice - che, caduto in catalessi per tre ore,
alla fine disse di aver sognato la sua prima notte d’amore, stordendo
ed eccitando l’ingenuo popolo di Almeda che assisteva
all’esperimento.
Il Cernada quel giorno fece un sacco di soldi vendendo centinaia
di pozioni di quella medicina miracolosa, ma subito dopo sparì col suo
socio, e degli effetti di quel prodigioso infuso nessuno ad Almeda
parlò, segnale evidente e clamoroso che quasi sicuramente il mago
malagueño aveva preso per il culo l’intero popolo di Almeda. Ad ogni
modo, Filippo Bardana si ricordò in quei giorni di disperazione di
quell’imbroglione spagnolo che andava vendendo per le terre sperdute
di Sicilia quel misterioso infuso di erbe che, a suo dire, faceva uscire
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dalle tempie un fumo che si materializzava in visioni oniriche e
celestiali, facendo venire prima il sonno e poi facendo sognare quel
che uno desiderava sognare. Riprese un quaderno dove aveva scritto
appunti della chiacchierata che aveva avuto in quel tempo remoto col
sedicente mago andaluso subito dopo l’esperimento, e cominciò a
procurarsi gli ingredienti per sperimentare l’accozzaglia esoterica di
erbe.
Non fu una cosa facile. Per giorni e giorni, per settimane, Filippo
Bardana comprò e si fece portare da ogni parte del mondo le erbe che
il malagueño diceva di aver messo nell’infuso. Erano spesso erbe
strane, che nessuno ad Almeda aveva mai visto. Filippo Bardana le
macerava, le distillava e le mescolava in quantità precise al
milligrammo, secondo quello che aveva scritto sul quaderno. Dopo tre
mesi di lavoro e di cotture e di distillazioni, l’inventore di Almeda
giunse, o credette di giungere, al miracoloso infuso. Fu una
liberazione, soprattutto per suo padre Francisco, che in quei giorni
camminava a casa sua stordito da tutti quei profumi e da quelle
esalazioni che dal laboratorio del figlio si spandevano per la casa e
inondavano perfino tutto il quartiere vicino.
Era un miscuglio bestiale di valeriana, tiglio, camomilla, luppolo,
belladonna, mandragola, biancospino, escolzia, melissa, assenzio,
ephedra, mirra, stramonio, giusquiamo, incenso, hascisch, marjuana,
erbe tibetane e indiane con grandi proprietà oniriche. C’erano tutti i
trentotto fiori di Bach, un medico inglese che pare fosse un sensitivo,
questi fiori di Bach si diceva che mettessero in contatto con Dio e
l’essenza dell’universo. Erano agrimonia, centaurea minore, cicoria
comune, eliantemo, genzianella autunnale, mimolo giallo, balsamina
dell’Himalaya, piombaggine, fiorsecco,verbena, violetta d’acqua,
clematide, acqua di fonte, forasacco maggiore, brugo, ginestrone,
olivo, quercia, vite, agrifoglio, caprifoglio comune, carpino bianco,
ippocastano bianco, castagno dolce, ippocastano rosso, faggio
selvatico, gemma di ippocastano bianco, larice comune, melo
selvatico, mirabolano, noce, olmo inglese, pino silvestre, pioppo
tremulo, rosa canina, salice giallo, senape selvatica, ornitogalo.
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Erano fiori contro la paura e la solitudine, contro lo sconforto e la
disperazione, contro l’ansia e la debolezza di volontà, fiori contro il
panico, il pessimismo e lo scoramento, la depressione, fiori contro la
sfiducia di sé e l’insicurezza, fiori che favoriscono l’entusiasmo, fiori
per chi vuole sognare ad occhi aperti e vuole fuggire dalla realtà, fiori
per chi è infelice e insicuro su ciò che vuole fare nella vita. Fiori per
chi odia la solitudine, fiori contro la fatica fisica e mentale, fiori per
chi prova desiderio di dominio, fiori contro l’invidia e l’odio, fiori per
chi ha nostalgia del passato e vuole ricordare solo le cose belle, fiori
che fanno aumentare l’energia vitale, fiori contro i pensieri di suicidio,
contro l’intolleranza e l’arroganza, fiori per chi teme di perdere la
ragione, contro la rassegnazione e l’apatia, fiori contro il maleficio.
C’erano erbe di tutti i generi, insomma. Petali di fiori non
coltivati, fiori di piante spontanee. Erbe che avevano fama di piante
magiche, afrodisiache, lassative, che avevano il potere di restituire
l’armonia fisica e mentale, erbe allucinogene, narcotiche, erbe contro
stati d’animo negativi. Stelle di Bethlem, genziana, papaveri di Sicilia,
damiana, eleuterococco, muira puama, acanthea virilis Benth, ginseng,
yohimbehe, equiseto, maca. Erano erbe e fiori che guarivano
addirittura dall’asma, dalle ulcere. L’inventore di Almeda alla fine
aromatizzò l’incredibile intruglio con essenza di arancio di Ribera, di
cui i suoi concittadini erano ghiotti.
Filippo Bardana ce l’aveva avuto fin da piccolo il pallino di voler
cambiare il mondo con le sue invenzioni, anche quando era un
brillante studente di lettere all’università, ma si dedicò del tutto alle
invenzioni subito dopo la prima vera delusione d’amore, a ventun
anni. Aveva fatto tanti esperimenti, ma per un motivo o per un altro
erano tutti falliti. Aveva provocato anche parecchi incidenti. La sua
casa aveva preso fuoco più volte. C’erano state ben due esplosioni nel
suo laboratorio. Aveva fatto soprattutto esperimenti chimici.
Frequentò saltuariamente scuole professionali, prima di approdare ad
un liceo, solo per imparare tecnologie e apprendere nozioni
fondamentali di chimica. I suoi compaesani non lo amavano, lo
consideravano un pazzo, e pensavano addirittura che portasse
sfortuna, a tal punto che, quando lo vedevano, si toccavano i coglioni.
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Era un sentimento nobilmente ricambiato, e che spesso si
manifestava in clamorose burle da parte di Filippo Bardana verso i
suoi compaesani, con grande imbarazzo del padre, che si trovava
sempre tra i piedi tanti curiosi. Una volta l’inventore di Almeda
pubblicò un libretto arancione dove c’erano scritti consigli di filosofia
di vita che secondo l’autore dovevano condurre alla felicità. Molti ci
credettero, e il libro andò a ruba. Un’altra volta fece diffondere la voce
che aveva inventato un filtro per guarire dal mal d’amore. Ci fu un
gran rumore in paese, l’inventore di Almeda subì minacce, tentativi di
furto di ampolle nascoste. Tra le sue fissazioni di gioventù ci fu anche
quella di trovare la formula che consentisse la trasformazione del rame
in oro; nel momento culminante di un esperimento, una notte prese
fuoco il suo laboratorio. Il padre Francisco lo cacciò di casa, Filippo
dormì per due mesi in un pagliaro, in un podere di famiglia non
lontano da Almeda. Qui lo contattarono e lo picchiarono alcuni strani
loschi figuri che erano venuti ad Almeda incuriositi dal bizzarro
inventore.
Un’altra volta pubblicò su un giornale locale la formula
matematica che spiegava l’universo, ma di quella scoperta non gliene
fregava niente a nessuno in quel tempo. Per le ricerche mediche non
aveva gli strumenti adatti, visto che era un solitario, e lasciò perdere la
cura del cancro. In tempi più recenti, si stava dedicando alla ricerca di
un superviagra, ci stava provando con degli ormoni asinini tratti dallo
sperma dei ciuchi almedini, che erano famosi in Sicilia per la
dimensione del pene, affatto enorme. Poi si accorse che non poteva
competere con gli americani e si diede a ricerche spirituali e religiose,
ad elaborare filosofie e religioni che potessero dare felicità
all’umanità, ma anche queste fallirono tutte miseramente. Quelle che
c’erano bastavano ed avanzano, di filosofie e religioni, ed era risaputo
che non avevano dato la felicità agli uomini. Poi gli venne la fissa di
creare una musica sublime che potesse dare gioia e felicità
all’umanità. Creò una specie di sinfonia, lui che si dilettava al
pianoforte, una musica sincretica dove si potevano sentire echi di
Beethoven, Gershwin, Mozart, Bach e Puccini. Era una cosa davvero
sublime, a detta di alcuni stranieri di passaggio che l’udirono, ma solo
gli animali erano attratti quando lui la suonava, venivano tutti davanti
alla sua porta di casa, soprattutto galline ovaiole, cani e gatti. I suoi
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concittadini non l’amarono forse anche perché erano appassionati solo
di musica napoletana e di canti popolari siciliani. Ci fu un tempo in
cui si dedicò con tutte le sue forze agli studi per trovare la formula
dell’immortalità, ma gli mancarono alcuni esperimenti e strumenti
operativi, e la sua indefessa attività di ricerca clamorosamente si
arenò.
Prima di inventare l’elisir dei sogni, Filippo Bardana diceva di
avere inventato un misterioso decotto che consentiva di utilizzare la
memoria come meglio uno desiderava, si poteva dimenticare o
ricordare un tempo preciso del passato, ma non fu possibile verificare
l’invenzione perché nessuno si sottopose all’esperimento, nessuno
voleva dimenticare o ricordare tutto. L’esperimento, infatti, prevedeva
che si potesse dimenticare o ricordare per sempre non un’azione
singola ma un intero periodo del passato, e la gente non se la sentì di
rischiare di dimenticare o di ricordare tutto, le azioni nefande o le
azioni sublimi, perché la gente voleva ricordare le cose belle e
dimenticare le cose spiacevoli, ma questo non era possibile farlo con
quell’invenzione. L’arte del Bardana in quel tempo non era ancora
perfetta, però stava giungendo alla meta finale, cioè la memoria
governata, quella di ricordare o dimenticare un evento singolo, ma
l’inventore di Almeda allora lasciò perdere tutto perché, cosa non
desueta nel suo carattere, si era stancato.
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Capitolo III
L’elisir dei sogni
Di quando Rafael Cernada disse a Filippo, dopo che questi aveva
preparato la medicina, quello che doveva fare per trasformarsi in
puro sogno ed entrare nei sogni degli altri, e conoscere la realtà
dell’universo. Ovvero del tedio, della melanconia, di fantasmi e di
gnomi, di vampiri e di spiriti notturni, di angeli e di diavoli, dei poeti
dei sogni, della natura dei sogni e di altre cose misteriose ed arcane.
- Sei rimasto un pazzo, Filippo – disse Cernada – Loco. Come
cuando eri niño. Voglio portarti via con migo, in un mondo più bello,
más hermoso. Lì tutto ciò che desideriamo se realiza. Sì, sei arrivato
dove sono arrivato yo. La medicina è perfetta. La formula è quella.
Ma non basta solo bere una poción miracolosa per fare questo, occorre
anche uno sforzo de la voluntad. Tienes que creer. Bisogna credere.
- …
- Perché, Filippo, vuoi diventare el signore dei sogni? Eres un
hombre triste. Anche se non sei mai stato allegro.
- Io sono assalito dal tedio, maestro. La noia e l’accidia si sono
impossessate della mia anima. Provo disgusto per la violenza e il male
del mondo, l’uomo è marcio, e io mi sento un cuore puro smarrito
nella sofferenza dell’essere.
- Il tuo sufrimiento vien da lontano. Eri un bambino melanconico
che inseguiva dei sogni. Forse la felicidad.
- Per la felicità si può cadere nel baratro della follia, Rafael.
Negli ultimi giorni ho visto, o mi è parso di vedere, come ombre, elfi
o gnomi dei boschi saltellare di qua e di là nel mio giardino, davanti
alla finestra. Ho visto diavoletti o silfi leggeri e capricciosi nel mio
studio che rovesciavano libri e carte, nanetti e fate bizzarre che
lanciavano stelline sul tetto e sui lampadari, genietti dispettosi che
scorreggiavano e poi fuggivano. Ho visto folletti e spiritelli in piena
notte volare come comete e girare intorno alla mia testa. Ho sognato
troll, uldras, gnefri e leprecani, dèmoni mostruosi e streghe. Infine, ho
visto licantropi e vampiri nei pleniluni saltare per i tetti e salire le
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pareti, con ululati sordi e spaventosi. Ombre. Quante ombre ho visto!
Ombre senza luce e fantasime astrali.
- Sì, Filippo: ombre. Son sombras, infatti, proyecciones de la tua
mente, del tuo io nascosto. Potremmo dire che son sueños. Anzi,
senz’altro sono anch’essi dei sogni.
- Chissà, forse anche tu sei un elfo, una larva, un fantasma.
- Chissà. Forse sono un sogno. Forse anche tu sei un sogno.
Somos dos sueños. Forse in questo momento nuestras palabras, i
nostri sguardi sono già dei sogni. E noi siamo sueños que parlano dei
sogni. Da un momento all’altro tutti possiamo trasformarci in sogni,
todos podemos diventar sueños.
- ….
- O forse io sono la tua vera ombra, Filippo. Soy tu sombra vera.
E tante altre cose. Se tu sei qui, un motivo ci sarà. Soy tu sueño, io
sono il tuo sogno, lo spirito guida, tu ángel. Yo son todo per te. Yo
soy la luz de Dios, come un faro che illumina il buio de la noche. Io
sono il dèmone vicino alla tua alma, io sono la voce che hai sin da
cuando eri un fanciullo. Yo soy la gracia de Dios. Io sono qui per
accompagnarti e guidarti verso Dio. Io sono il tuo Genio familiare.
Soy el inventor de sueños, io sono l’inventore dei sogni. Io sono
l’uomo dei sogni. Yo soy el hombre de los sueños.
- Io cerco la felicità, Rafael. Ho sempre cercato la felicità. Per un
momento, ho creduto di averla trovata, ma quella ragazza mi ha
lasciato.
- Anche la felicidad è un sogno, Filippo. Es una criatura de
nuestra mente. Ha pasado mucho tiempo, Felipe, 40 años. Forse tu hai
solo sognato in questo tiempo. Que esiste la felicidad, que es una
donna la felicidad. No. Che tra il sognare e il fantasticare se consuma
la vida, con l’unico scopo di consumare el tiempo per niente, questo
todavia io non lo penso. Porque tu crees como yo que il piacere
consista solamente nei sogni, dunque debemos prepararnos, conviene
que ci determiniamo a viver per sognare. O a sognare per vivere.
Penso pure che il piacere sia solo un deseo, desiderio. Sperare di
trovare un Genio tipo quello della lampada di Aladino, che te fa
diventar prince e magari ti dà un tappeto mágico, volante, per
raggiungere a tu amada. O encontrar la fórmula de la felicidad, trovare
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la formula della felicità. Né credo che il rimedio alla noia siano
l’oppio, il sonno, o el dolor.
- …
Rafael Cernada osservò Bardana che guardava il mare di Malaga
attraverso la finestra, come se la felicità si trovasse tra i pesci, o
nell’indistinto brodo primordiale. Poi pronunciò decine di nomi
famosi, che non sempre ebbero a che fare con la felicità.
- Napoleone, Cesare, Ottaviano Augusto, Nerone, Caligola,
Davide e Saul, Nabucodonosor, Tutankamon, Gengis Khan, Alarico,
Federico Barbarossa, Claudio, Gaio Gracco, Mario,Tiberio, Caracalla,
Ottone I, Hitler, Stalin, Mussolini, Churchill, Robespierre, Carlo
Magno, Alessandro Magno, Federico II di Svevia, Carlo V, Luigi
XIV, Bismarck, Adamo, Federico II di Svevia, Enrico VIII, Carlo V,
Filippo II, Abramo Lincoln, Toro Seduto, Innocenzo III, Alessandro
VI, Pietro il Grande, Ivan il Terribile, Cavour, Mazzini, Crispi,
Kennedy, Kruscev, Nenni. Lorenzo dei Medici, Annibale, Luigi XVI,
Gregorio VII, Pericle, Filippo IV il Bello, Tito, Gugliemo Tell, Silvio
Pellico, Custer, Carlo Alberto, Attila, Colombo, Diaz, Magellano, De
Gama, Vespucci, Mao tze-tung, Abramo, Mosè, Elia, Isaia, Geremia,
Ezechiele, Noè, Daniele, Zoroastro, Rama, Lao-tzu, Vardhamana
Mahavira, Confucio, Milarepa, Shri Ramachandra, Ramakrishna
Paramahansa, Vivekananda, Caitanya Mahaprabhu, Gandhi, Martin
Luther King, Lutero, Calvino, Maometto. Bernardo di Chiaravalle,
Francisco d’Assisi, Milarepa, Buddha, Confucio, Krishna, Orfeo,
Pitagora. Qué dicono usted estos nombres, amigo?
- Non saprei, señor – disse un po’ imbarazzato Filippo Bardana Sono nomi di re, imperatori, capi di Stato, faraoni, condottieri,
dittatori pazzi, zar, capi di governo, papi, generali, rivoluzionari,
riformatori religiosi, profeti, navigatori, presidenti, politici, navigatori,
esploratori, santi, asceti, mistici, fondatori di religioni.
- E estos nombres che te dicon, inventor de Sicilia? – continuò
Rafael Cernada - Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Darwin,
Curie, Einstein, Fermi, Majorana, Oppenheimer. Socrate, Platone,
Aristotele, Bacone, Giordano Bruno, Kant, Spinoza,
Hegel,
Schopenhauer, Croce, Nietzsche, Mozart, Beethoven, Bach, Verdi,
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Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Tiziano, Giotto.
- Sono grandi medici e scienziati – disse Bardana – Grandi
filosofi, musicisti sublimi, geni cosmici, pittori, scultori.
- Bien, y ahora me dice: Shakespeare,
Gòngora, Goethe,
Dante, Leopardi, Petrarca, Belli, Borges, Shelley, Cavalcanti,
Hoelderlin, Manzoni, Tolstoij, Montale, Pascoli, D’Annunzio,
Foscolo, Garcìa Lorca, Juan Ramón Jiménez, Metastasio,
Cardarelli, Carducci, Neruda, Pavese, Rilke, Mann, Musil, Joyce,
Proust, Cardarelli, Saba, Tagore, Byron, Keats, Boccaccio, John
Donne, Coleridge Milton, Ungaretti, Verlaine, Rimbaud, Chaucer,
Baudelaire,William Butler Yeats, Campana, Pindaro, Virgilio,
Seneca, Tacito, Euripide, Orazio, Catullo, Tibullo, Ovidio. Chi son
éstos?
- Sono scrittori e poeti di smisurata grandezza – rispose un po’
infastidito Bardana – Ma che gioco è?
- No te preocupes – disse Cernada – E ahora in ultimo dime:
Pancho Villa, Emiliano Zapata, Lawrence d’Arabia, Rasputin, Nicola
II zar, Trotzkij, Guglielmo II, Carlo I d’Asburgo, Benedetto XV,
Mustafà Kemal Ataturk, Turati, Gramsci, Giolitti, Bonomi, Facta,
Vittorio Emanuele III, Matteotti, Gobetti, Alessandro I Karageorgevic,
Alfonso XIII, Primo de Rivera, Giorgio II di Grecia, Hindenburg,
Zogu I, Chiang Kai-Shek, Sturzo, Ibn Saud, Hirohito, Zinoviev,
Kamenev, Sandino, Bucharin, Chamberlain, Pio XI, Grandi, Farinacci,
Starace, Ciano, Goering, Goebbels, Antonio Salazar de Oliveira,
Hoover, Roosvelt, Pu-Yi, Himmler, Dollfuss, Giorgio V, Edoardo VII,
Giorgio VI, Badoglio, Francisco Franco, Leon Blum, Faruk, Somoza,
Pio XII, Von Ribbentrop, Daladier, Molotov, De Gaulle, Petain,
Graziani, Rommel, Hailé Selassié, Hess, Togliatti, Tito, MacArthur,
Montgomery, Eisenhower, von Paulus, Cavallero, Doenitz, Zukov,
Patton, Clark, Alexander, Truman, Parri, De Gasperi, Saragat,
Umberto II, De Nicola, Peròn, Ho Chi-Minh, Einaudi, Ben Gurion,
Adenauer, Gomulka, Chou En-lai, Batista, Beria, Malenkov, Kruscev,
Nagy, Reza Pahlavi, Nasser, Scelba, Gronchi, Segni, Eden, Diem,
Duvalier, Fanfani, Giovanni XXIII, Faysal, Nenni, Moro, “Che”
Guevara, Sihanouk, Tambroni, Mobutu, John Kennedy, Paolo VI,
Johnson, Suharto, Bokassa, Brandt, Malcom X, Nerhu, Moshe Dayan,
25
Pompidou, Dubcek, Nixon, Husak, Golda Meir, Arafat, Saddam
Hussein, Allende, Pinochet, Karamanlis, Ford, Amin Dada, Papà Doc,
Sadat, Le Duc Tho, Van Thieu, Pol Pot, Videla, Berlinguer, Giovanni
Paolo II, Khomeini, Breznev, Craxi, Pertini, Indira Gandhi, Reagan,
Mitterand, Ceausescu, Rabin, Andreotti. Chi sono questi?
- Mah – rispose Bardana rinfrancato: erano gli ultimi – Sempre
uomini politici, rivoluzionari… Però, credo abbiano in comune il fatto
di appartenere al XX secolo.
- È così – disse Cernada – Pero todos los que io ho mencionado,
nella tua opinione, lo que tienen en común?
Filippo Bardana guardò il sorriso del novantenne Rafael Cernada.
Il Mago di Malaga. Un piccolo Mago su una sedia a rotelle. Piccolo,
pallido, con gli occhietti incavati. Osservò poi la sessantenne moglie
siciliana Carmela ormai diventata Carmen che portava due caffè.
Carmen sorrise al marito. Ma il Mago di Malaga guardava il mare.
Uno strano incrocio di sguardi. Anche Bardana sorrise. In fondo, non
era stato difficile trovare Cernada. Se passò da Almeda come il Mago
di Malaga, doveva essere di Malaga, pensò. E prima o dopo, gli
uomini ritornano – anche solo per morirvi – nel luogo dove sono nati.
Così si recò in Andalusia, a Malaga. Temeva di trovarlo morto, in una
tomba. Invece era vivo Rafael Cernada. E dopo due settimane lo
trovò.
- Mi sbaglierò – disse Bardana – Ma ho l’impressione che in
comune hanno il fatto di essere tutti morti. Maestro.
- Bravo el mi amigo – disse sorridente il vecchio – Sono tutti
morti. Sono solo sogni. Ahora. Sueños.
- Sogni - ripeté Bardana – Sì. Ora posso conoscere il segreto dei
sogni. E anche il segreto della vita, se la vita e il sogno sono la stessa
cosa.
- Sì – disse Cernada - Io ho inventé el mismo medicamento con
la cual potevo col mi sogno entrar en los sueños de los altri e così
andare indietro nel tiempo, siempre più indietro, para descubrir come
è nato l’universo. Mi diede la formula una vieja gitana, zingara, de
Granada, Miranda se chiamava, ma era conosciuta come Viento del
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Este, che l’aveva avuta da suo nonno, uno di Bagdad. Ho girato toda
Europa e muchos paesi del mundo, ma nessuno, nada, nessun hombre
ha voluto credere alla mia invención. Porque nessuno cree a los
sueños. E mai alla possibilità che el mundo fue creado dai sogni. Solo
tu ci hai creduto: meriti di entrare nel misterio de los sueños.
- Chissà, Rafael. Forse avresti avuto più successo in Oriente. Lì
la vita è fatta di sogni. In Occidente nessuno vuole i sogni, forse
perché non li capisce.
- Solamente tu ci hai creduto. Todavía te recuerdo, in quel paese
desperado, dimenticado de Dios, che scrivevi la formula, che io te
dictabo. Hace muchos años.
- Ho percorso tutte le strade, maestro, – disse Bardana – e alla
fine ho scelto i sogni. Mi sono ricordato di te. Sembrava impossibile
che uno potesse fare uscire i sogni dalla propria mente e far vivere
loro una vita autonoma, farli parlare con gli altri sogni, farli
innamorare, farli diventare più vivi e reali della vita stessa. Accadrà
questo, vero?
- Sì – rispose felice il vecchio – La vita dei sogni è più bella. Io
sono ormai muy viejo, fra un po’ me convertiré in puro sogno.
- Tu, maestro, l’hai provata?
- Sì – rispose Cernada guardando il porto - Ed è para este que yo
ho vissuto tanto, ho compreso el secreto de la vida e dell’universo, de
la felicidad. Ora posso morire felice. Yo descubrí el secreto del
universo. Il sogno è un prodotto miles de millones de neuronas del
cervello, ho scoperto che el alma, l’anima, è il cervello, e che il sogno
è un prodotto dell’anima, se vuoi. Sono entrato en el misterio delle
quattrocento miliardi di stelle que componen nuestra galaxia, en el
misterio delle cento miliardi di galassie que componen lo universo.
- Volevi fare partecipare l’umanità a questo mistero, ma
l’umanità ti ha rifiutato.
- Sì, è così, amigo. L’umanità non è andata oltre i sogni, dai quali
è stata creata. Rassegnati: nadie vuole tu invención. La puoi usare per
capire te, la tua familia, l’universo, questo sì. Los hombres no amano
los sueños.
- Dunque sono i sogni ad avere creato l’universo. Questo non
avevo capito.
27
- Bisogna sempre andare fino in fondo al misterio – ripeté
Cernada - Vai. Tuo padre no está muerto. Está vivo. Es un sueño.
Entra en el sueño de tu padre. Solamente los sueños danno la
felicidad. Solo i sogni liberano dalla paura, dall’angoscia, da la
desesperación. Lo vedi hoy? Sono tutti un fallimento, todas las
iglesias y las ideología.
- Eppure, Rafael, – disse Bardana – per molto tempo ho pensato
che i sogni avessero a che fare con la psicanalisi. Che rappresentassero
solo i nostri desideri più nascosti, i ricordi che riaffiorano, le nostre
speranze, le nostre ambizioni più profonde.
- Los sueños sono diventati miti, – disse il vecchio sorridendo símbolos del subconsciente, porque sono stati abandonados da el
hombre. L’uomo si deve riappropriare dei propri sogni, debe saber
cómo gobernar. Senza sogni l’uomo decade en un desorden profundo,
e da qui en la enfermedad. La malattia conduce al male e infine alla
morte.
- L’uomo, maestro, è dunque una unità di spirito, mente, corpo, e
questa unità si realizza solo nel sogno. Possiamo dire che la felicità
dei sogni è l’unica via possibile. Veramente democratica.
- Sì. Porque senza felicidad non c’è amore, - disse il Mago di
Malaga - senza sueños dunque non c’è amore, e senza amore nessuno
si salva. Ma è pure vero, inventor de Almeda, che solamente nel sogno
l’uomo ha potuto creare obras inmortales, musiche divine. Solo
attraverso i sogni, los hombres han dado vida a sus aspiraciones,
hanno creato inmensos imperi.
- Quand’ero piccolo, maestro, confondevo i sogni con i fantasmi,
o con i vampiri, e nelle fredde notti invernali ne avevo paura. Poi mi
sono abituato a loro, a tal punto che ho creduto che fosse possibile
attraverso di loro potere parlare con i defunti, con gli angeli, con i
diavoli, con Dio. Chi sono i fantasmi, Rafael?
- Los fantasmas non vengono dall’aldilà, sono anch’essi sueños.
Sono dei sogni un po’ strani, la mala conciencia de los hombres. I
vivi, invece, pensano que los fantasmas siano dei lenzuoli bianchi
che camminano nella noche con due grossi buchi neri davanti, los
ojos, gli occhi.
- Di che natura sono fatti, allora, i fantasmi? Sono ectoplasmi,
spiriti, aria, odorano di qualcosa? Che temperatura hanno, di che
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sostanza sono fatti? Sono una sostanza viscida, morbida, solida,
fluida o vaporosa, fredda, asciutta al tatto? Sono la materia dello
spirito materializzato? Me lo sono sempre chiesto, Rafael, da piccolo,
da grande.
- I fantasmi, Felipe, sono fatti della natura dei sogni. Dunque i
fantasmi esistono da siempre, sin dal principio stesso della creación.
Los fantasmas vengono sempre dall’uomo, no son sólo imágenes
che se vedono per pochi secondi in una specie di buco temporal. I
fantasmi sono un fenomeno frutto della mente, anche del tipo
autosugestión.
- Non sono allora allucinazioni, folletti, o genietti famigliari,
tipo quello che tormentava Torquato Tasso.
- Diciamo che i fantasmi son sueños venuti male – precisò
Cernada - Pero los fantasmas, Filippo, son de la naturaleza de los
sueños, come dicevo, e proprio per questo popolano l’universo. Come
un libro infinito che contiene muchas páginas, l’una simile all’altra,
diversa solo per pochi elementi, ma tutte formano un unico testo con
infinitas variaciones, così l’universo è composto da un número
infinito de dimensiones. I fantasmi sono presenze che abitano la
dimensione dei sogni, in todos los mundos.
- Oh, questo universo sterminato! Quanti fantasmi, quante larve,
quanti spettri, angeli o dèmoni con le loro lugubri ombre, con i loro
misteri, popolano castelli e manieri, cimiteri, palazzi, squallidi tuguri,
quante anime senza requie, senza pace, vagano di pianeta in pianeta,
di stella in stella, di costellazione in costellazione!
- Sono sogni, Filippo – disse il Mago di Malaga guardando in alto
il tetto della camera - Son los hombres che popolano l’universo con i
loro sogni. Durante la notte, in sogno, los hombres viaggiano
attraverso tante di queste dimensiones, ma poi tornano al risveglio
nel loro cuerpo mortal. L’anima, insomma, viaggia nello espacio
ma anche nel tiempo di otras dimensiones, questo accade soprattutto
quando facciamo sueños premonitorios, quelli che appunto noi
chiamiamo sogni. Per questo il sogno è una experiencia
maravillosa, perché è unica: quando si viaggia attraverso l’universo in
un numero infinito di espacios, luoghi y tiempos, cioè di dimensiones,
è impossibile percorrere due volte la stessa via. La vida, le azioni e i
gesti, se puede repetir. Ma non i sogni. Los sueños non si ripetono
29
mai. La tragedia è che muoiono sempre all’alba. Bisognava trovare un
modo per non farli morire mai. Io l’ho trovato.
- Dunque, anche i fantasmi sono sogni.
- Sì, Filippo. I fantasmi non sono almas de los difuntos, que vagan
su la tierra in cerca di pace, né appaiono ai vivi dicendo quel che
devono fare o no. Non sono almas malditas que hanno un fine
malvagio, condurre gli uomini alla rovina, anime sporche d i peccato,
almas pecadoras sucias, costrette a vagar su la tierra porque ancora
attaccate ai vivi. I fantasmi non sono anime sospese, suspendidas, in
una dimension sconosciuta, spiriti che portano sciagure, che si
rifiutano di lasciare questo mundo, continuando a vivere le proprie
abitudini. Per questo i medium engañar a los vivos cuando dicono che
possono chiamare dall’aldilà las almas de los muertos. No hay nada de
impalpable nell’universo se non los sueños.
- Una cosa però è sicura, - disse sorridendo Bardana - Non
credo che esistano i poltergeist che fanno rumore di catene e
spostano mobili nella notte, o sbattono finestre e porte, o
rovesciano bicchieri e bottiglie, e rompono piatti, rompono i
coglioni ai vivi scorreggiando e ruttando. Non ho mai sperimentato
nulla di simile. Quand’ero piccolo, credevo che questi poltergeist, o
spiriti fracassoni come dici tu, fossero spiriti un po’ selvaggi e
primitivi, spiriti di persone morte di morte violenta e improvvisa,
spiriti della vita non compiuta che non ha realizzato la propria
missione, il proprio naturale destino. In so mma , p e n sav o ch e i
poltergeist fossero spiriti senza via d’uscita e senza pace,
bloccati come veri spiriti, che spesso si manifestavano ai vivi in
modo violento. Erano gli spiriti infelici che infestavano le case dei
morti ammazzati, questo rimane nella mia memoria, quando ero
fanciullo e mi raccontavano queste cose nelle notti d’estate davanti
alla mia casa.
-…
- Quand’ero piccolo, quando moriva qualcuno in un
incidente o quando una persona veniva uccisa, i miei nonni mi
dicevano che nel posto dove era morta questa persona l’anima del
morto sprigionava un’energia potente, che trovava
sfogo
esternamente ed andava ad impregnare l’ambiente, i luoghi, gli
oggetti…. Erano questi i fantasmi della mia gioventù, Rafael.
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- Que los fantasmas que tormentano i viventi – suspendidos nel
tiempo e nello espacio - siano quelli che non vogliono entrare nella
loro dimension – disse Cernada - abbandonare un mundo que non
gli appartiene più, è bello pensarlo. Che i fantasmi non siano
cambiadi, che siano sempre los mismos. Que los fantasmas popolino
ancora manieri e castillos, dove sono state asesinade muchas
personas. O case di impiccati, ahorcados, di suicidi, di morti violente,
di historias dolorosas. Ma in realtà i fantasmi sono la coscienza
sofferente dei vivi, Filippo, los fantasmas son sueños.
- Deve essere come tu dici, Rafael. Quand’ero piccolo, c’erano
momenti in cui mi sarebbe piaciuto essere un vecchio fantasma, con
l’aspetto terribile, gli occhi rossi come carboni ardenti, con le vesti
sporche e stracciate, coi capelli lunghi e bianchi, con l’alito pestifero,
con i segni satanici, e terrorizzare con catene ululati nella notte,
come faceva il fantasma di Canterville, per fare abbandonare castelli o
vecchi manieri a chi vi abitava…
- Anche a me sarebbe gustado diventare un fantasma, Felipe. Poi
ho scoperto che solo i sogni esistono, solo i sogni restano, e quando
l’universo terminará, avrà fine, solo i sogni resteranno, sólo los sueños
son inmortales. I sogni non invecchiano mai, tu puede entrar en
sueños, e giungere all’origine della creación. La loro natura è
impalpabile, la loro sostanza è quella dell’etere, non diventano mai
viejos o decrépitos.
-…
-…
- Quante presenze popolano l’universo! Fantasmi, spiriti guida,
immagini strane, angeli, genietti bizzarri, come folletti, elfi o gnomi
dei boschi. Forse anche diavoletti o silfi leggeri e capricciosi.
Vampiri. Angeli custodi. Diavoli. Anche questi sono sogni?
- Oh, quanti spiriti irrequieti, atormentados, Filippo! Sono spiriti
divorati da un dolor selvaggio, spiriti di defunti, espíritus de los
muertos, spiriti travolti dalla storia. Anime vaganti senza requie nel
marasma del mondo, almas abandonadas da ogni destino, o che non
hanno mai incontrato un destino.
- Legioni di angeli e di diavoli, eserciti, migliaia e migliaia,
milioni, bilioni di angeli e di diavoli popolano il cosmo. Sì, Rafael.
Perfino l’Apocalisse parla di miriadi di miriadi di migliaia di angeli
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custodi e di diavoli, tutti presenti sin dall’inizio. Angeli
dell’Apocalisse, puri spiriti perfetti, immortali come l’universo, che
hanno il compito di distruggere il mondo, angeli con le ali nere e
bianche, che nella mano sinistra tengono la spada senza lama, la
spada che distruggerà il mondo.
- Angeli, diavoli. E gli uomini? Ci sono mai stati los hombres?
Forse sì, e forse no. Certo è che l’universo è un immane teatro
popolato di ombre, sombras, spiriti e fantasmas, presenze fantastiche,
un mundo di finzioni, ficciones. Ma in realtà, sai come la penso: son
todos los sueños.
- Forse noi, Rafael, siamo angeli e diavoli, che hanno
abbandonato il paradiso perché annoiati e nauseati dalla monotonia
della beatitudine celeste. Angeli e diavoli che hanno abbandonato il
paradiso e sono scesi sulla Terra per vivere la loro vita come
professori,
impiegati, banchieri, artisti e così via. Meglio
abbandonarsi all’angoscia, alla paura, all’ambizione, ai piaceri, alle
passioni, al dolore, alla fatica del lavoro, alla speranza, alla
disillusione, che cedere alla noia. Per questo forse sulla Terra noi
siamo fatti della stessa natura dei sogni.
- Mi sembra di aver sentito parlare di una cosa del genere, creo
que es una obra, La rivolta degli Angeli, di Anatole France, francese.
Tu vivi troppo di letteratura, Filippo. E di fantasia. Ma forse proprio
per questo tu puoi impadronirti, para esto puede agarrar, del mondo
dei sogni.
- Sai che ti dico, Rafael? Tu hai ragione: solo i sogni possono
salvare il mondo. Sì. Viviamo in un tempo povero, il tempo di un
pianeta che corre rapido verso la fine. È il tempo in cui l’uomo si sta
facendo distruggere dalla tecnica, il tempo in cui l’uomo ha perduto le
grandi visioni del mondo che davano un senso alla storia. È il tempo
gigantesco della tragica dissoluzione del mondo, il tempo
straordinario in cui cataclismi immani proiettano la Terra verso i
baratri del cosmo. Solo la straordinaria potenza visionaria dei sogni
potrà salvarci.
- Sì, il tempo dei sogni è il tempo al di sopra del tempo, di ogni
tempo. Solo los sueños, solo lo sguardo dall’alto può dare questo
tempo. Solo così si è sempre moderni.
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- Questo è un tempo povero che mi fa rimpiangere un tempo
migliore. Sì, ho nostalgia. Io voglio un tempo in cui non si deve
rimpiangere un tempo migliore. Bisogna tornare alla natura. Sogno un
mondo arcadico, pastorale, un tempo di memoria e non di perdita,
un’età in cui si sogna anche per gli altri, per costruire un’epoca di
pace, amore, felicità, progresso, uguaglianza, tolleranza e solidarietà
universale, un’epoca di compassione e di carità, per una vita realizzata
in pienezza di senso e di progetto.
- Sei un romanticone, Filippo. Eres un nostálgico. Es un tiempo
difícil para encontrar. Todavia, il tempo povero è il tempo dei profeti
in delirio, o dei poeti del tempo della fine. Quelli che cantano la
povertà del tempo. Che indicano la via. El tiempo de Rilke cantore de
un’epica che tende ad accorciare la distancia tra la sterminata miseria
quotidiana e los espacios incontaminati del mito. Es el tiempo dei
poeti e degli scrittori come Tasso, Cervantes, Hoelderlin, Leopardi,
Nietzsche, Kafka, Proust, Pirandello, García Márquez, Saramago. È il
tiempo de los hombres che hanno i sogni.
- Solo chi è padrone dei sogni può cantare il tempo. Solo chi è
padrone dei sogni può amare.
- Vedo che hai compreso, Felipe. Questo povero tempo ha ancora
una esperanza. Buttati a capofitto nell’abisso dei sogni. Essi sono la
muerte e sono la vida.
…?
- Sì, Filippo. I sogni sono la sola cosa che ci lega a la vida y a la
muerte. Solamente nel sogno non esiste la evolución inexorable verso
la muerte. Nel sogno el tiempo è immobile. È col giorno, con
l’avvento de la luz che tornano i sintomi de la decadencia mortal verso
la fine. Solo nei sogni si supera el límite entre los eventos de magia,
entre la fantasía y la realidad, solo nei sogni il tempo si libera della
sua circolarità, dell’eterno presente, e si vince el terror de la muerte, si
supera l’angoscia della soledad. Solo coi sogni si esce dalla millenaria
solitudine e dalla alienación, dalla frustrazione e dalla desesperación
dell’uomo moderno.
- …
- …
- Da piccolo, quando mi svegliavo, all’alba, Rafael, io sentivo il
canto del gallo, ma non era un canto che annunciava funesti destini, io
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non ricordavo fate che facevano incantesimi, o streghe che facevano
fatture, o esercitavano malefici influssi. Mi svegliavo in un tempo
santo e pieno di grazia.
- Porque tu vivevi un tiempo mitico, magico, romantico, Filippo,
e questo lo potevi fare solo por los sueños, per la loro forza. Noi
estamos fatti de la misma materia que los sueños. Il sogno è la vera
condición dell’uomo.
- Sempre da piccolo, - continuò sognante Bardana - pensavo ai
sogni come a qualcosa che aveva a che fare con la chiaroveggenza.
Pensavo infatti ai veggenti, ai maghi, che potevano, attraverso i sogni,
conoscere il futuro. Ora tu mi dici che gli eventi e l’ambiente sono una
creazione della nostra mente, e che perciò è possibile fare durare
questa fase fino al punto di potere manipolare e governare le cose e i
fatti del nostro sogno.
- Sì – disse il vecchio guardando verso la cucina, da dove stava
tornando la moglie - Cuando comincerai lo experimento, vedrai. Noi
dobbiamo avere la conciencia de trovarci in un sogno. La vida è un
teatro in cui gioca un ruolo da protagonista il sogno. Anzi, è il sogno a
essere un teatro, dove è la vida real que gioca un ruolo importante. Si
deve entrare in un mundo fatto solo di sogni, dove solamente los
sueños comunicano tra di loro. Vanno a braccetto tra di loro, volano
en el aire, sono la realidad.
- O sogno, pura vita del mondo, quando le immagini illusorie del
giorno si afflosciano e sonnecchiano, mentre gli straordinari fantasmi
della notte fanno il loro risveglio! – esclamò Bardana, guardando
verso il mare.
- Sì, Felipe – annuì il vecchio, prendendo una medicina portata
da Carmen - Noi abbiamo inventato el tiempo in cui è stato eliminato
l’abisso que separa los sueños del día da quelli della notte, con
l’audacia del genio, con la magia. Abbiamo creato il tempo eterno e
infinito. Porque i sogni sono la sola cosa che non muore con los
hombres. Nel giorno in cui no existerà più un solo hombre sulla Terra,
solamente los sueños continueranno a sopravvivere. La vida senza
sueños è solo un problema meschino de la Tierra. L’universo intero è
todo un sogno. L’universo è fatto della stessa sostanza dei sogni. I
sogni viaggiano en el espacio interestelar, negli abissi del cosmo, e
infine giungono al primer momento de la creación, quando el tiempo e
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lo espacio erano la unica cosa.
- E al principio tutto era silenzio.
L’inventore di Almeda si alzò. Vide Carmen che veniva e spariva
come un fantasma. Guardò il piccolo Cernada seduto. Rivide nei suoi
piccoli grigi tutti i personaggi che aveva nominato all’inizio. Vide
scorrere tutti i sogni che volevano rientrare nelle scene del mondo,
riprendere un cammino interrotto, riconquistare un destino, fantasmi,
larve abbattute da un’idea, da un progetto. Ciò che poteva essere e non
era stato. Vide tutte le luci e le ombre. Si era scatenato l’inferno dei
sogni. Vide il caos, il tumulto, il marasma cosmico.
- In realtà, Felipe, tutto è stato e sarà siempre silencio – disse
infine il Mago di Malaga, annunciando con un gesto il congedo - Nel
silenzio assoluto del sogno trova la sua pace anche il clangore potente
de la historia. El viento de l’Apocalisse un giorno spazzerà via ogni
traccia de este país e dell’intero pianeta. La Tierra preda di un ingorgo
senza senso di esperanzas e di desideri, di sentimenti vani, di ilusiones
efímeras e di sueños incoerenti, di angosce e di rancori profundos, si
perderà negli espacios sterminati dell’universo. In quel caos immane e
in quella sconsolante solitudine, solamente i sogni resteranno, estrema
testimonianza del silenzio che avvolge tutte le cose.
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Capitolo IV
Francisco si trasforma in pipistrello
Come Francisco Bardana un giorno si addormentò e non si
svegliò più, diventò un pipistrello e alla fine si trasformò in sogno.
Un giorno Francisco Bardana si addormentò e non si svegliò più.
A 92 anni, vedovo e in pensione da quasi trent’anni, dopo una vita
trascorsa come impiegato nella biblioteca comunale di Almeda, tutti i
fratelli morti nella sua prima giovinezza, Francisco ormai si avviava –
anche se non proprio serenamente - ad accettare il naturale destino
della morte. Viveva solitario in una torre accanto alla casa di famiglia,
accudito solo da una inserviente romena che gli preparava da
mangiare, gli lavava i panni e gli puliva la camera. Non si aspettava
più nulla dal tempo, era ormai un uomo alla deriva della storia. Anche
lui si considerava ormai un sopravvissuto. Non andava più al circolo
da anni, non gli interessava più osservare distrattamente gli altri
dilapidare la propria vita nel gioco, né passeggiare con abitudini
selvagge per le vie semideserte del paese e sentirsi dire “Francisco, da
quando non ti vedo! Vedo che stai bene”, come se volessero dirgli
“Ancora sei vivo?”. Conduceva un’esistenza vuota, senza senso.
Contribuiva in modo decisivo a questa sensazione di fallimento la
difficoltosa comprensione del suo passato e della sua vita. E
l’aberrazione del figlio con i suoi esperimenti alla ricerca della
formula della felicità.
Una mattina, Margareta, la cameriera romena, si recò nel
laboratorio di Filippo e mise l’inventore di Almeda davanti
all’evidenza ineluttabile che suo padre si era trasformato in pipistrello.
Le ore di sonno del vecchio negli ultimi due mesi erano
progressivamente aumentate fino ad arrivare a ventidue ore al giorno,
riducendo così a soli centoventi minuti il tempo dedicato alla
soddisfazione del nutrimento e dei bisogni fisiologici. La giovane
badante aveva notato che il vegliardo si alzava puntualmente alle sette
del mattino, andava in cucina, faceva colazione, andava in bagno per i
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consueti bisogni fisiologici e quindi tornava a letto. Francisco faceva
sempre le stesse cose - letto, cucina, bagno, letto. Tre volte al giorno,
per pochi minuti. E poi si addormentava. Margareta disse che
Francisco sognava, sognava, e continuava sempre a sognare. Lo
capiva perché aveva sempre un’espressione felice in volto.
Un’espressione gioiosa, uno sguardo fisso, come se guardasse un film
divertente. Sembrava non volersi svegliare più.
Due ore al giorno di veglia. Era un tempo estremo, che, tuttavia,
alla fine bastò per le esigenze minime di Francisco, perché l’uomo
ormai consumava pochissime energie, e perciò mangiava pochissimo,
come un uccellino. Filippo si recò subito sulla torre con la domestica
romena e si rese conto subito del fatto. Disse a Margareta di non
parlare con nessuno del sonno del padre e di provvedere in silenzio
alle sue esigenze. Si avvide che ogni giorno che passava, Francisco
dormiva sempre di più e che i processi onirici del padre si stavano
sostituendo alla vita stessa con una velocità e un accanimento che gli
davano più di qualche pensiero. Filippo temeva che il padre stesse per
decadere in una specie di animalità letargica, ciò che voleva dire un
dipanarsi per anni e anni di felici sensazioni oniriche, ma anche una
immobilità che gli avrebbe precluso altri piaceri della vita, come
respirare l’aria fresca della sera, e soprattutto mangiare, e lui era
ancora in buona salute, e – in veglia - aveva un appetito veramente
bestiale.
Francisco era ormai sprofondato in un sonno profondo, in una
catalessi letargica senza fine. La sua era una vita assolutamente
onirica, la realtà era stata assorbita completamente dal sonno. La sua
vita reale e il suo sonno continuo non erano quelli dei comuni mortali.
Francisco sembrava ormai scomparso dalla scena del mondo, immerso
in una dimensione sconosciuta agli altri, una sterminata solitudine.
L’inventore di Almeda, a un certo punto, cercò con la forza di
trattenerlo alla vita diurna. Un mattino, dopo che il padre ebbe
consumato la leggerissima colazione a cui ormai si era abituato, gli
disse che era disdicevole per un Bardana coi coglioni d’acciaio come
lui continuare a dormire, ma il padre non lo ascoltò, fece due gocce di
pipì e andò a coricarsi. Allora Filippo, dopo che Francisco si fu
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addormentato, si avvicinò al suo letto e cercò di svegliarlo. Lo toccò
con una mano sulla fronte, di solito nella vita normale questo gesto
bastava per svegliarlo, ma quella volta suo padre fu insensibile. Allora
lo chiamò, prima a bassa voce poi ad alta voce, poi gli gridò, lo
insultò, gli disse pure merda, quindi lo punse con un ago, lo
schiaffeggiò, gli diede pugni, calci, gli buttò in testa anche una
bacinella d’acqua gelata: fu tutto inutile. Gli disse pure, guarda, c’è
Margareta, la cameriera romena, con la quale pare che Francisco
avesse intrattenuto negli ultimi tempi un inconsueto sodalizio
sentimentale. Niente, a Francisco non gliene fregava nulla nemmeno
della romena.
In preda alla disperazione, l’inventore di Almeda si vestì da
profeta e Figlio di Dio e con le braccia aperte gli gridò, Francisco,
alzati e cammina, ma fu tutto inutile: il vecchio non si svegliava.
Infine, gli scagliò contro l’epiteto ingiurioso più terribile che un
Bardana potesse sentirsi dire, coglione di Bergamo, ma non ci fu nulla
da fare. Per un momento, Filippo pensò che l’esasperata attività
onirica del padre fosse la conseguenza della pena di vivere e il
preludio dell’abbandono dolce e lieve all’onda cosmica del nulla. Per
verificare le condizioni fisiche del padre, l’inventore di Almeda
chiamò allora in gran segreto don Antonino Mangiavillano, il medico
di famiglia, del quale tuttavia prima non c’era mai stato bisogno,
perché i Bardana avevano sempre goduto di ottima, devastante,
bestiale salute.
Filippo Bardana non aveva grande stima del suo medico di
famiglia, ma era l’unico che ad Almeda sapeva mantenere il segreto.
Don Antonino Mangiavillano, ormai ottuagenario e mezzo
rincoglionito, viveva appartato in una casa di campagna e si era ormai
dimenticato di Francisco Bardana.
Don Antonino si presentò con Margareta e una misteriosa valigia
da Filippo Bardana e gli disse di volere essere lasciato solo. Rimasto
solo con Francisco, piuttosto eccitato perché finalmente aveva davanti
un Bardana che forse si era ammalato, per svegliarlo sperimentò sul
povero Francisco tutte le cure e le medicine che non aveva mai
somministrato alla stirpe. Fu una vendetta biblica, accompagnata da
rituali magici e risate sataniche. Don Antonino tirò fuori dalla valigia
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tutti gli arnesi che aveva portato e torturò Francisco con salassi e
scosse elettriche, gli diede pure tre pugnalate sul carpo, sul metacarpo
e sull’avambraccio, gli infilò cerini accesi dentro le narici, gli mise
una corona di spine in testa, gli diede colpi tremendi di accetta sulle
ginocchia, invocò perfino la maledizione di Dio. Infine - lui che aveva
sempre biasimato le orrende abitudini culinarie dei Bardana e che non
si era mai spiegato perché, nonostante ciò, campassero tanto - gli fece
un clistere gigantesco di quindici litri di acqua salata, ma anche questo
fu un insuccesso clamoroso: Francisco riempì la stanza di merda, ma
non si svegliò. Alla fine chiamò Filippo, non è un uomo, disse,
Francisco è diventato un pipistrello, un vampiro.
L’inventore di Almeda, visti tutti quegli efferati strumenti di
tortura e tutto quel sangue, imbestialito, schiaffeggiò don Antonino,
gli sputò in faccia, lo mandò a fare in culo, infine lo buttò dalla scala.
Contattò allora, anche se c’era il rischio che potesse trapelare la
notizia, il migliore scienziato di Sicilia, tale Traspadano Poidomani,
chiamato Timbuctù, uno studioso che si occupava da quarant’anni
delle malattie del sonno dell’America Latina e dell’Africa Equatoriale.
Filippo Bardana fece visitare il padre una mattina presto, subito
dopo la colazione, prima che Francisco ripiombasse nell’onirico,
devastante, letargo. Timbuctù visitò per più di un’ora Francisco, gli
tastò il polso, fece le analisi del sangue, fece ecografie e altri esami
specialistici. Alla fine parlò. Disse che si trattava di encefalite
letargica onirica, di sonno patologico profondo incoerente, di
isterismo sonnolento deviante onirico, di accanimento di controllo del
sogno, di tripanosomiasi africana, di tripanosomiasi sudamericana
ossia di morbo di Chapas, di nagana e di surra, tutta roba, insomma,
che riguardava soprattutto le bestie, cammelli, cavalli, buoi, e poi di
altre rare forme tropicali di malattie del sonno – l’inventore di Almeda
non ci capì un cazzo, tutto questo gli parve arabo, credette che
Timbuctù volesse prenderlo per il culo. E, cosa ancora più grave,
Francisco non si svegliava.
Tuttavia, Timbuctù aveva parlato anche di sogni e di accanimento
di controllo del sogno: qualcosa forse aveva capito, e questo, se non
bilanciava il sentimento funesto della imminente perdita del padre, in
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qualche modo incoraggiava l’inventore di Almeda a sperimentare
l’efficacia della sua invenzione.
Francisco, ad ogni modo, era diventato ormai un problema
davvero imbarazzante.
Filippo Bardana, allora, credette che fosse meglio rendere
pubblico il lungo sonno del vecchio. In preda alla disperazione, dopo
aver chiamato uno che si spacciava per mago e guaritore, tale Mago
della Mancia (lui aveva grande stima dei maghi spagnoli), il cui
intervento con una sfera magica si risolse in un clamoroso fallimento,
pensò bene di mettere – come si suol dire – il ferro dietro la porta, e
chiamò un prete per fargli dare la benedizione e l’estrema unzione, nel
caso che Francisco dovesse all’improvviso tirare le cuoia. L’inventore
di Almeda, insomma, un po’ per amore del padre, un po’ per pietà, un
po’ anche perché la situazione stava diventando veramente
imbarazzante, facendo credere che Francisco si voleva confessare,
fece chiamare il vecchio prete della sua parrocchia, don Pasquale
Alletto detto Ciavulazza, perché vestiva sempre di nero e pare anche
che portasse sfortuna.
La visita del prete portò un cambiamento radicale nel letargo di
Francisco. Forse fu la paura, forse fu la sfortuna che il prete portava,
forse fu il fatto che Francisco credette di essere morto, certo è che,
dopo aver visto l’uomo vestito di nero, Francisco non si alzò più dal
letto, né in quel momento né mai.
Altro fatto sconvolgente fu che Francisco, appena vide il prete,
quasi in stato comatoso, disse parrinu. Cioè, prete. O era un sogno in
cui il prete era protagonista, oppure voleva veramente confessarsi.
Anche Ciavulazza rimase sorpreso di questo ritorno religioso di un
Bardana. Anzi, in un primo momento, si era rifiutato di andare dal
vegliardo perché i Bardana, anche questo era noto, portavano sfortuna
ai preti. Anche i trascorsi atei e materialisti della famiglia non
deponevano a favore dei Bardana. Francisco, infatti, più di
sessant’anni prima e non propriamente in possesso di sé, nel pieno di
una sua fase atea e socialista, aveva schiaffeggiato in chiesa, davanti a
tutti, l’allora giovanissimo Ciavulazza, nel giorno in cui il papa
doveva passare da Almeda (e obiettivamente Francisco un po’
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vigliacco lo fu, perché se la prese col più debole fra i clericali del
paese).
Fu, quello, un colpo tremendo per il giovane prete di allora, che
officiava la prima delle sue sessantamila messe, e che sarebbe stato
poi perseguitato proprio per le sue idee liberali. Tuttavia, più che il
rancore poté la pietà cristiana, e Ciavulazza, alla veneranda età di
ottantotto anni, benché fuori servizio e ormai rimminchionito, si trovò
davanti Francisco per confessarlo. Ignaro dello stato letargico del
vecchio, il semiparalitico prete cominciò a chiedergli se si ricordava di
lui; Francisco rispose parrinu. Il prete, incoraggiato, gli domandò
allora se era consapevole di volersi confessare; Francisco rispondeva
sempre con quelle tre sillabe che stavano diventando un sibilo,
parrinu. Il vecchio prete, dopo un po’, non ritenne questo sufficiente
per una confessione, e allora optò, col pieno consenso di Filippo, per
l’estrema unzione, non prima di avere cristianamente rimesso i peccati
di Francisco, che non erano certo pochi, e che egli non era in grado di
confessare.
Non l’avesse mai fatto, il povero Ciavulazza! Nel pieno di quel
sacramento decisivo dell’esistenza terrena, che il reverendo prelato
amministrava con intensa partecipazione emotiva, uno straordinario
sputo catarroso accumulato in tante settimane di inattività polmonare
uscì potentissimo ed in forma di proiettile dal profondo dei polmoni e
delle viscere di Francisco, ed andò a colpire proprio gli occhialetti di
Ciavulazza, il quale - dopo un attimo di esitazione - ebbe pure la forza
di continuare e di portare a termine umilmente la sua funzione.
Prima di andare via, poi, Ciavulazza chiese a Filippo se era sicuro
che Francisco stesse per morire.
- Non lo so, - rispose mortificato Filippo Bardana - però è la
prima volta che dice parrinu.
- Ed è la prima volta che si pulisce il gargarozzo? - domandò
ancora Ciavulazza, che non diede la sensazione di attendere la
risposta, perché fece subito cenno a Margareta di essere accompagnato
alla porta.
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Dopo l’incontro col prete, Francisco si trasformò definitivamente
in un pipistrello. Un pipistrello sognante, che però non voleva saperne
di morire. Era un grumo di carne e di ossa che faceva una sola attività,
dormire e sognare. Passavano i giorni e le settimane, passavano i mesi,
il suo letargo stava diventando sterminato. Filippo Bardana credette
che suo padre volesse profittare del suo grande sonno per morire.
D’altra parte, negli ultimi tempi Francisco aveva più volte confessato
al figlio che egli sentiva l’approssimarsi della fine. Non era la prima
volta che, intorno ai novantadue anni, i Bardana attraversavano
qualche crisi esistenziale, ma Filippo Bardana non aveva memoria che
qualcuno dei suoi avi fosse sprofondato nel rincoglionimento per lo
sterminato letargo, o si fosse abbandonato a un destino di morte dopo
un’esperienza onirica smisurata.
Francisco Bardana era ormai il dimenticato dalla morte, il figlio di
Morfeo, il dormiente, il letargico, il pipistrello, il grande sonno,
l’eterno sognante, la sepoltura eterea, l’onirico perenne, la distrazione
dei Cieli, il catalettico, il subumano relitto del tempo, il morto
apparente, il vivo apparente, il morto vivente, il vivo morente, il sogno
vivente, il morto sognante, il sopravvissuto, l’immortale - che però
non voleva rendere l’anima a Dio.
L’inventore di Almeda un giorno pensò che, anche in questa
estrema situazione, fosse giusto dare degna sepoltura al padre. La
situazione era diventata ormai eccessivamente imbarazzante, e il padre
non voleva più svegliarsi, voleva morire, in conseguenza del suo male
di vivere. Sì, rendere l’ultimo servizio cristiano al padre morente e
dargli - dopo solenni funerali - degna sepoltura. Causa della morte:
malinconia e noia di vivere. Era tutto a posto. Aspettava il momento
opportuno per agire. La naturale cessazione delle funzioni biologiche.
Che però non venne.
Perché Francisco, dopo alcuni mesi, stabilizzò le sue condizioni
biologiche e il suo processo letargico. Francisco il pipistrello fu
praticamente abbandonato dal figlio al suo destino di dormiente, a
parte qualche piccola, pressoché insignificante, disposizione di
medicina generale. A sei mesi dal grande sonno, i battiti cardiaci del
vecchio erano poco meno che regolari, cinquantacinque al minuto; poi
scesero progressivamente fino a stabilizzarsi, alla fine del primo anno,
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intorno a dodici al minuto, cioè un battito ogni cinque secondi,
praticamente quanto bastava per non andare in decomposizione. Da
ciò Filippo comprese che nutrire suo padre non era molto oneroso, né
presentava serie difficoltà organizzative.
Filippo Bardana, per dare sostentamento al padre, inventò una
incredibile brodaglia di cavoli, fagioli, patate, aglio e peperoncino
tritati insieme che gli faceva bere – solo una volta al giorno - con una
speciale cannuccia a pressione, dentro la quale metteva anche una
certa medicina che solo lui conosceva. La medicina in realtà era
qualche goccia abbondante di cicuta che serviva per sterminare
l’assalto di virus e di agenti esterni pericolosi. Francisco muoveva
appena le labbra, respirava un po’ più profondamente, a causa
dell’aumentata pressione, quindi, dopo aver bevuto la tiepida broda,
tornava al suo immane torpore. Per il resto, altra storica incombenza
di Filippo Bardana e della paziente Margareta era di cambiare ogni
settimana da sotto il lettino del grande dormiente un vaso da notte,
dove il perpetuo sognante - attraverso un buco fatto nel materassino orinava e defecava, ciò che per Francisco erano ormai la stessa cosa.
Francisco conduceva ormai una esistenza vegetale, con quel
disgustoso brodame, su un lettino di un metro per due, in una stanza
buia e piccola. Giaceva, il pipistrello, pallido e freddo, ormai con
l’esile corpo magro, secco come un chiodo, sotto una pesante coperta
di lana, con la bocca socchiusa e le mani sul petto: insomma,
sembrava morto. Ma morto non era. Dormiva e sognava. E tuttavia,
che vita era quella? Da un anno, e chissà per quanto tempo ancora
ormai, l’unica sua presenza nel mondo dei vivi era quella estrema
immobilità di un metro per due: una tomba nell’aria, una sepoltura
aerea. Un sogno nell’aria.
Di svegliarsi, Francisco si svegliava, certo. Nel tardo mattino e
nel pomeriggio, per una breve pausa, Francisco si svegliava dai suoi
sogni, come per riprendere energie. Ma che cos’era il suo risveglio?
Intanto, quando si svegliava, Filippo lo capiva non da un rumore, non
da un movimento, non da un respiro, perché tutto intorno al dormiente
era silenzio. C’era invece come un’onda magnetica, una percezione
eterea, un flusso spirituale, un messaggio medianico, come un fischio
impercettibile, un’aria, qualche cosa di strano che si avvertiva
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dappertutto, era invisibile eppure arrivava lontano. Nella torre, il
primo a sentire il risveglio del dimenticato dal tempo era un uccello,
un passero solitario: cantava e faceva mille giri sotto il tetto, sopra il
cadavere sognante. Francisco Bardana tornava alla vita. Vita. Ma che
vita era quella? Francisco Bardana era più vivo quando dormiva e
sognava che quando era sveglio.
Apriva lentamente gli occhi ma i suoi occhi guardavano il buio,
non solo perché le finestre restavano chiuse, ma perché Francisco era
oramai quasi completamente cieco, poteva solo intravedere vagamente
una debole luce azzurrina di là di una persiana che suo figlio lasciava
aperta di un paio di centimetri per far penetrare uno spiraglio di aria,
di tepore. Non riconosceva nessuno, nemmeno il figlio, percepiva solo
con la mente l’ombra, non la carne, non la materia, non il corpo che
gli si avvicinava. Era sordo, le parole e le voci erano un quasi
impercettibile ronzio che proveniva dai confini del nulla. Ad ogni
risveglio, con quella vocina fievole, debolissima, che sembrava uscire
da un’assenza remota, chiedeva al vuoto degli spazi, chi annu è?, ma
non dava mai la sensazione di aspettare la risposta, né se ne crucciava
- aveva ormai perduto il senso del tempo, anzi, aveva perduto il
tempo, i ricordi, la memoria, la storia. Per lui, il tempo era solamente
il sonno. La storia, i ricordi erano solo i sogni, se pure aveva la forza
di sognare, chissà. Se gli fosse accaduto di pensare, se con
l’infinitesimale energia delle sue residue cellule cerebrali si fosse
chiesto dove si trovava, sicuramente non avrebbe mai creduto di
essere ancora sulla terra, ma forse neanche in paradiso, perché in
paradiso, così aveva sempre pensato Francisco, non esiste il buio.
Stava così, in quella posizione semicatalettica, per un’ora o due:
con gli occhi aperti verso la luce azzurrina, i battiti cardiaci aumentati
a sostenere una lievissima attività cerebrale, il lento movimento delle
labbra, che muoveva come un pesce. Questo era il risveglio di
Francisco. Poi, passato il precario tempo della veglia, chiudeva gli
occhi e le labbra, e ripiombava negli sterminati abissi del sonno.
Francisco, insomma, era diventato un vegetale. Certo, un vegetale
che però forse sognava. Tuttavia, in quelle condizioni era meglio che
Francisco morisse. In quelle condizioni, pensava sempre Filippo, tanto
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valeva seppellirlo, magari in una grande cassa - con l’ossigeno che
consumava non c’era pericolo che morisse soffocato, poteva stare
sottoterra ancora mille anni. Ormai la gente sapeva che Francisco
Bardana era caduto in catalessi a causa di una malattia misteriosa.
Così si sarebbe levata quella vergogna di mezzo, ed egli avrebbe avuto
di che rispondere quando gli domandavano (capitava, capitava) - Tuo
padre? – È morto, - avrebbe finalmente risposto - è morto. Ma così,
che cos’era?
Non era né carne né pesce, né vivo né morto: era un sospeso.
Francisco era solo un sonno. Un sonno sospeso nell’aria. Forse era
anche un sogno. Ma anche i sogni, prima o poi, devono morire. Non
pensava, Filippo, a cose materiali, meschine, come lo spazio aereo che
suo padre occupava e che, in effetti, poteva servire a lui. No. Il suo era
un problema morale, etico; non si è eterni, ed è giusto, naturale, che ad
una certa età si muoia. C’è un tempo per vivere e c’è un tempo per
morire, era scritto da qualche parte, e questo tempo di vivere
Francisco lo aveva superato da un bel po’, e perciò era giusto che egli
morisse e alla fine trovasse una sistemazione decorosa e dignitosa,
non solo sottoterra, ma anche nella memoria degli altri. A parte il
fatto, poi, che Filippo - lui non lo diceva, ma era così - prima di morire
doveva pure piangere qualcuno, doveva avere una tomba dove andare
a pregare, e quale tomba era più cara di quella del proprio padre?
(Veramente, Filippo, una tomba dove andare a pregare l’aveva, quella
di sua madre, ma in quei momenti non ci pensava).
Francisco Bardana era oramai diventato un sonno. Un sonno che
forse era popolato di sogni. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui
sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno, dice il
poeta (e gli aveva ricordato il Cernada). Francisco, chissà, sognava il
tempo e metteva ordine al caos, preso sempre da nuovo sopore
ricadeva nell’abisso letargico e trasformava in sogni la violenza o il
torpore bestiale del tempo, ritrovava così - sprofondando sempre di
più nell’oblio della storia - la via che dava senso alla sua vita e al
disordine del passato. Davanti a quel rudere, a quel povero scheletro
abbandonato anche dalla pietà, davanti a quella solitudine e a quel
silenzio - una solitudine e un silenzio così abissali e lontani come
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dovettero esistere solo prima della creazione dei tempi – l’inventore di
Almeda alla fine si convinse di sperimentare la sua invenzione, quella
che aveva cercato per tutta la vita, vedere in un lungo interminabile
sogno tutti gli accadimenti dell’esistenza terrena di suo padre e della
sua stirpe, le speranze e le attese, i pensieri e i sogni delle generazioni
e dei popoli. In un uomo ormai rincoglionito e fiaccato dalla storia,
sprofondato nel delirio totale di uno sogno senza confini, le spudorate
menzogne non trovavano più posto – questo volle credere – perché nel
sogno remoto di Francisco si dipanavano il destino dei secoli, le
sterminate esistenze che attraversavano il tempo.
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Capitolo V
L’uomo dei sogni
Di quando Filippo Bardana sperimentò su se stesso l’elisir dei
sogni e vide il pandemonio dei sogni che pullulavano nella sua mente
e nella mente di suo padre Francisco.
Fatto l’elisir, e con l’incoraggiamento del mago Rafael Cerdana,
Filippo Bardana avrebbe voluto pregare il padre di aiutarlo in quella
che forse era la sua ultima prova come inventore. Filippo avrebbe
voluto dire a suo padre che aveva creato una medicina con proprietà
miracolose. Che avrebbe potuto sognare il paradiso, ricordare tutti i
più piccoli eventi del suo passato, sognare rapporti amorosi o sessuali
meglio di come se fossero reali. Francisco, che già era sdegnato della
vita e non aveva nulla da perdere, avrebbe fatto felice il figlio e si
sarebbe sottoposto volentieri all’esperimento.
Negli ultimi quarant’anni non aveva fatto altro che vedere il figlio
affannarsi inutilmente coi suoi ridicoli esperimenti, e questo spesso gli
faceva pena. Tante volte gli aveva fatto da cavia. Perciò avrebbe
accolto l’ultima disperata richiesta del suo unico figlio quasi con
liberazione.
Ma non fu necessario.
Francisco Bardana era in catalessi letargica da più di un anno, e
forse – come aveva detto Cernada – si era addirittura trasformato in
sogno. Se anche il suo elisir fosse fallito, non avrebbe arrecato alcun
danno a un corpo che si avviava lentamente verso la fine.
Una sera di luna piena, Filippo Bardana, prima di bere l’elisìr dei
sogni, si preparò una cena affatto maestosa, come gli aveva anche
consigliato Cerdana. Stuzzichini di panelle, melanzane, salsicciotti,
olive ascolane, prosciutti, formaggi, tartine con caviale e tante altre
cose. Un antipasto di mare con polipi, gamberi, pescespada, tonno,
cozze, vongole. Tre primi, pasta con sarde, tagliatelle con ragù e
mortadella, orecchiette all’orto. Poi tre secondi, gamberoni, dentice,
triglie e calamari, vitello con patate, cacciagione in umido. Insalate e
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verdure a volontà. Frutta di stagione, pesche, albicocche, fichi. Torte
varie. Vino bianco di Pantelleria e Nero d’Avola. Spumanti e
Champagne in grande abbondanza.
La cena durò circa due ore. Alla fine del glorioso pasto, Filippo
avvertì pesantezza alla testa e un forte desiderio di riposare e di
addormentarsi. C’erano le condizioni ideali per sperimentare l’elisir
dei sogni. Perciò si spogliò, indossò il pigiama, bevve due bicchieri
della agognata medicina e si distese su un lettino accanto a quello del
vecchio padre. Si addormentò.
Subito dopo il sogno di Filippo Bardana uscì dal suo corpo e volò
nell’aria, si fermò sotto il tetto della stanza. Era il puro sogno, la pura
immagine, la pura sostanza volatile ed eterea di Filippo Bardana non
ancora contaminata da altri sogni. Il sogno di Filippo Bardana si
compiacque di ciò e si meravigliò di vedere il suo corpo che dormiva
immobile, vicino a quello di suo padre. Ancora non sapeva che cosa
era, se un sogno o un’ombra, uno spirito o un fantasma, o un’anima
vagabonda nel mare infinito dell’essere.
Guardò Francisco Bardana nel suo sonno profondo che sorrideva
e muoveva gli occhi sotto le palpebre. Si ricordò allora della sua vita e
dei suoi esperimenti, dell’elisir dei sogni. Si catapultò nella mente di
Francisco e solo allora scoprì di essere un sogno tra i sogni.
La mente di Francisco Bardana era un caotico pandemonio di
sogni che scorrazzavano di qua e di là in cerca di pace o di un approdo
sicuro. Il sogno di Filippo Bardana vide come su una parete scorrere
immagini di suo padre giovane che camminava per le vie di Almeda.
Era un ragazzino, suo padre, poteva avere quattordici o quindici anni.
Erano i primi anni Trenta ad Almeda. Non era, però ancora un vero e
proprio sogno, ordinato, coerente.
Una moltitudine sterminata di sogni pullulavano nella mente di
Francisco Bardana. Incompleti, incoerenti, incompiuti. Il sogno di
Filippo Bardana vide infinite immagini accavallarsi con altre,
incontrare altre immagini, visioni interrompere visioni, sovrapporsi ad
altre visioni. Francisco sognava tante cose. Il sogno di Filippo vide i
sogni di Garibaldi-Dio, sogni di angeli e di diavoli, sogni di fantasmi,
sogni d’amore, del primo amore di Francisco e della prima notte
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d’amore con la moglie Marilena, del primo rapporto sessuale con una
prostituta di Almeda, nei primi anni Trenta, al tempo del fascismo.
Il sogno di Filippo vide i momenti belli e brutti della vita di
Francisco, quelli relativi alla sua attività pluridecennale di
bibliotecario, ma anche fatti oscuri e sconosciuti a suo figlio. Vide
dialoghi quasi insignificanti avuti al circolo da Francisco e con
persone da tempo scomparse e che avevano occupato un posto
secondario nella sua esistenza, vide sogni di pensieri solitari, sogni di
sogni perduti nella notte.
Vide sogni d’amore e discussioni sui bordelli di Francisco e dei
suoi avi, come li avevano raccontati a Filippo suo padre e suo nonno,
o altre persone. Vide i sogni dei Bardana che volevano uccidere
politici e governanti, mafiosi, vigliacchi. Vide i sogni di chi voleva
cambiare la storia. Il sogno di Filippo, l’inventore di Almeda, non si
meravigliava di ciò, i Bardana erano stati spesso delle mezze teste.
Un’altra cosa che meravigliò molto, invece, il sogno di Filippo
Bardana fu che i sogni parlavano e gridavano, ed erano voci stridule di
bambini, voci accorate di donne innamorate, voci tronfie di re e
governanti. Il sogno di Filippo Bardana comprese di essere sogno tra i
sogni, anche se un sogno speciale, mentre l’universo sterminato dei
sogni di Francisco si distendeva senza ordine e senza pace. Sogni
importanti di tentati assassinii di re e dittatori si confondevano con
sogni quasi senza senso, come quello in cui era stato protagonista
Francisco, un giorno che aveva quasi ammazzato con due revolverate
Giovanni Bugia perché era andato a raccontare ai militi che lui aveva
rubato un carico di fave, oppure un altro in cui Donna Mara la puttana
gliene fece fare tre con una lira a Francisco, perché gli era simpatico
(e perché aveva bisogno, c’era la guerra, la fame), oppure ancora un
altro quando Francisco e suo padre volevano tagliare i coglioni al
segretario del Fascio di Almeda.
In un turbinio di sovrapposizioni temporali, sogni lontani si
mischiavano a sogni più recenti, sogni interrompevano sogni, sogni
cominciavano una storia e altri sogni la finivano, il sogno di Filippo
Bardana si sentì smarrito sogno tra i sogni, puro sogno nel cosmo
sterminato dei sogni.
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Il sogno di Filippo Bardana allora tornò nella mente di Filippo
Bardana e comprese di essere il puro sogno. Vide infatti all’inizio un
mondo caotico di sogni simile a quello di Francisco Bardana, mille e
mille sogni, mille e mille, milioni di immagini in movimento, del
presente e del passato, del futuro di Filippo Bardana. Vide i sogni di
sua madre e di suo padre, vide i sogni dei suoi avi, vide i sogni della
sua storia, degli accadimenti di tutto il tempo che aveva vissuto, di
tutti i desideri, di tutti i pensieri. Vide i sogni già compiuti e sogni
ancora larve, sogni indecisi sogni precari, sogni già assoluti proiettati
nell’immenso mare dell’essere, nella vastità degli spazi interstellari.
Vide i sogni della storia e i sogni dell’amore, i sogni del rancore e
i sogni dell’amicizia. Si ricordò che anche nella mente di suo padre
aveva visto sogni simili: avevano lo stesso colore e lo stesso odore, lo
stesso modo di parlare e di camminare. Imparò ben presto a
riconoscerli.
Vide che i sogni incontravano gli altri sogni, parlavano con loro,
li corteggiavano, si innamoravano di altri sogni. Anche se i sogni
dell’amore preferivano stare con i sogni dell’amore, i sogni della
storia con quelli della storia, e così via. Era un formicaio di sogni che
correvano di qua e di là. Uscivano dalle loro tane, parlavano con altri
sogni, li annusavano, e poi tornavano nei loro nascondigli. Vide sogni
solitari e sogni orgogliosi, sogni verecondi e sogni lussuriosi, sogni
traditori e sogni fedeli. Vide sogni colti e sogni ignoranti, sogni
superbi e sogni umili. Gli parve di vedere l’intera umanità diventata
una moltitudine sterminata di sogni. Non era possibile che gli uomini
avessero le menti così piene di sogni.
Li guardò dall’alto e da lontano, e fu così che capì di essere il
puro incontaminato sogno mandato per conoscere gli altri sogni della
sua mente e delle altre menti.
Lui capì di essere il puro sogno, la coscienza, il pensiero, la
mente, il fantasma, l’angelo, l’anima di Filippo Bardana, il puro sogno
che sogna e incontra gli altri sogni, il puro sogno come può essere
sognato dagli altri sogni, il puro sogno come può essere sognato da se
50
stesso. Ebbe terrore di quel mondo brulicante di sogni che volevano
uscire, trovare un senso, un’esistenza propria. Si accorse che tutti i
sogni della mente di Filippo Bardana volevano uscire, forse volevano
incontrare gli altri sogni delle altre menti. Era quello che volevano
fare anche i sogni di Francisco Bardana. Forse anche i sogni di tutte le
persone del mondo in quel momento volevano fare la stessa cosa,
uscire per le vie del mondo e incontrare gli altri sogni, amare gli altri
sogni. E tutti i sogni del mondo forse volevano raccontare la vita di
tutti gli uomini del mondo, anche di quelli che non avevano sogni. Ma
non c’era il puro sogno che li ridestasse.
I sogni di Filippo Bardana lo riconobbero, lo inseguirono, un
immenso esercito di sogni si abbatté sulla solitudine del puro sogno.
Il puro sogno dell’inventore di Almeda allora uscì di nuovo dalla
mente piena di sogni di Filippo Bardana e piroettò nell’aria, osservò
dall’alto i due corpi pieni di sogni di Francisco e Filippo Bardana.
Pensò per un momento di andare via ma non poté farlo, lui era il puro
sogno di Filippo Bardana. Il corpo di Filippo Bardana era la la sua vita
e la sua prigione.
Gli piacque, tuttavia, aver lasciato dietro di sé il caos primigenio,
il clangore indistinto, il rumore del tempo, il frastuono animale, il
fragore il silenzio di tutte le cose create.
51
Capitolo VI
I sogni di Almeda
Quando il sogno di Filippo Bardana uscì dalla torre e svegliò
tutti i sogni di Almeda e tutti i sogni di Almeda uscirono per le strade
e le piazze e le case e si impossessarono della città.
Il sogno di Filippo Bardana fece mille giri sotto il tetto della
stanza, poi attraversò velocemente la finestra e uscì dalla torre, si posò
sul balcone. Osservò il paese muto. Poi cominciò a volare sopra i tetti,
si inabissò infine nella notte rischiarata dalla luna ed entrò come un
baleno in tutte le case di Almeda. Il sogno dell’inventore dei sogni
attraversò i muri e le porte, le finestre, entrò nelle stanze, nei corpi,
nelle menti dei dormienti, svegliò tutti gli altri sogni, poi tornò sul
balcone.
Uno spettacolo incomparabile apparve sotto di lui.
Almeda quella notte si era trasformata in un sogno. Con
meraviglia, il sogno dell’inventore di Almeda si accorse che poteva
vedere gli altri sogni fuori dalle proprie menti. Era una cosa banale,
non ci aveva fatto caso subito, ma se lui era uscito da un corpo, anche
gli altri sogni potevano uscire dai loro corpi. Lui li aveva svegliati.
Perché lui era un sogno speciale: lui era stato creato dall’elisir dei
sogni di Filippo Bardana. Lui ora poteva mettere in movimento tutti i
sogni dell’universo.
Il primo sogno che vide fu quello dell’ingegnere Giovanni
Aronica, che sognava di essere il Conte Vlad Dracula, Vlad
l’impalatore Principe di Valacchia, novello Nosferatu che con in
braccio la sua Lisa volava di balcone e in balcone e coi canini
appuntiti mordeva l’aria e succhiava il sangue dal collo candido
dell’amata per regalarle l’immortalità. Il vampiro con gli occhi rossi,
avidi, alla fine tornò sulla finestra di Aronica, posò dolcemente Lisa
sul letto ed uscì, osservò il vuoto sotto di sé. Guardò il buio della
strada e le deboli luci delle case, il fumo dei camini. Viscido e
repellente, pallido, bianco, come un geco cominciò a strisciare lungo
52
il muro della casa, poi scese velocemente verso il basso, sospeso
sull’orrido abisso buio, mentre il mantello si apriva sul suo corpo, lo
avvolgeva, formava due grandi ali distese.
A metà percorso, il vampiro si fermò. La luce della luna
improvvisamente illuminò il corpo del Conte, provocò strani
inquietanti effetti, sinistre figure, ombre contorte. Il Conte digrignò i
canini, annusò l’aria, respirò profondamente, sibilò. Ripartì. Le dita
delle mani e dei piedi si avvinghiarono agli angoli delle pietre, il
Conte scivolò come una lucertola verso il basso a grande velocità.
Toccò la strada, guardò verso una pozzanghera sotto di sé, non vide
la sua immagine; allora risalì vertiginosamente il muro, ritornò sulla
finestra. Aprì il mantello e volò intorno alla casa, poi si trasformò
in pipistrello, rapido percorse l’angusto spazio della casa, il piccolo
disagevole tempo per un vampiro, tornò sulla finestra, si trasformò
ancora in Nosferatu, Vlad l’impalatore Principe di Valacchia, Conte
Vlad Dracula, che malediceva Dio per la morte dell’amata moglie,
Conte Vlad che eternamente per le vie del mondo cercava la
moglie. Guardò dentro, vide una donna nuda sul letto. La riconobbe,
era Lisa, era sua moglie, tanto desiderata. Volò sopra di lei, l’avvolse
col suo mantello, lei lo aspettava nuda, con le cosce aperte, il sesso
desideroso, entrò col suo membro possente dentro di lei, l’amò.
Se Giovanni Aronica – era nota la sua passione per la letteratura
vampiresca – sognava felice di essere il Principe dei vampiri, in quello
stesso istante Rosario Spina fu il grande Cesare. Il Questore, l’Edile, il
Pretore, il Generale invincibile, il Propretore, il Console, il
Proconsole, il Dittatore Perpetuo, il Pontefice Massimo, il Padre della
Patria, il Divo Giulio. La Storia. Il sogno di Filippo Bardana vide la
storia volare sulla casa dell’umile impiegato Rosario Spina. Vide
un’immagine immensa, potente e turbinosa vorticare intorno alla casa
di Spina, vide la travolgente corsa dei millenni, vide legioni avanzare
dalle nuvole, vide l’ora fatale del tempo. L’uomo più inutile del
mondo, Rosario Spina, era l’imperator, il più potente dei triumviri,
l’indiscusso capo dei popolari, il conservatore e il rivoluzionario,
l’invitto stratega, il geniale statista e condottiero, l’assoggettatore dei
barbari; il conquistatore delle Gallie, il vincitore, lo sterminatore dei
53
Britanni e dei Germani, il glorioso trionfatore sui popoli, il supremo
comandante dell’esercito più grande dell’antichità. L’uomo più
insignificante della storia era l’avvocato e oratore splendido,
magnifico, acuto ed elegante, il profondo grammatico analogista e il
filologo, l’astronomo e il riformatore del calendario moderno; era il
poeta, il tragediografo, lo scrittore e storico, era il creatore di una
prosa letteraria insuperabile, unica e ineguagliabile per bellezza e
semplicità, era l’immortale scrittore del De bello Gallico e del De
bello civili.
L’uomo senza qualità fu per qualche ora l’uomo del destino, il
signore di Roma, l’uomo più grande della latinità, l’intelletto più vasto
della stirpe, il fondatore dell’Impero, del più grande organismo
politico dell’universo. Fu il duce clemente, spietato e generoso,
rapido e sicuro, il travolgente dominatore della storia universale,
l’uomo al cui cospetto la paura diventava forza e la morte vita, l’uomo
che diede il suo nome ai re e agli imperatori del mondo, l’uomo che
con il suo genio perfetto in quindici anni fece quel che nessuno fece
mai, né Alessandro Magno, né Carlo Magno, né Gengis Khan, né
Carlo V, né Napoleone Bonaparte. Sì, l’uomo che non ebbe mai
bisogno di un epiteto o di un cognome fu, per una volta e per sempre,
soltanto Cesare.
L’uomo da nulla per una notte fu l’uomo che fondò la civiltà più
duratura della storia, culla delle future civiltà del mondo, l’uomo
dinanzi al quale si apriva solenne lo spazio e s’inchinavano i millenni,
l’uomo di cui pure si disse che la maestà e la vastità del suo ingegno
restarono sempre più in alto delle sue fortune. Fu l’uomo che
trasformò un popolo di roncole e di poveracci morti di fame, di
contadini miserrimi, in un formidabile esercito di conquistatori,
l’uomo Gaio Giulio Cesare che ebbe troppa dignità per compiacersi di
un obiettivo così scadente, quale doveva essere la difesa dei confini
dell’impero. Fu l’uomo che fondò l’Europa moderna e conquistò il
mondo intero, che diede un posto e un destino a tutti i popoli
d’Europa, gli Elvezi nella Svizzera, i Belgi nel Belgio, i Germani di là
dal Reno, gli Slavi ad est, i Britanni al nord; fu l’uomo che diede
ordine all’Europa, e fece sì che tutti i popoli d’Europa restassero nel
posto dove si trovavano e dove si trovano ancora oggi; fu l’uomo che
54
fondò l’antropologia, l’etnologia e la geografia, l’uomo che irradiò la
lingua e la civiltà di Roma su tutto il mondo.
Mentre dormiva, Rosario Spina fu l’uomo immenso che non
parve veramente un uomo ma un dio, l’uomo che rese immortale la
baia sperduta di Almeda perché per due giorni qui amò Cleopatra,
regina d’Egitto e ultima discendente dell’immenso Alessandro e di un
regno leggendario, inseguendola fra i boschi e le spiagge sotto lo
sguardo attento dei legionari come un fanciulletto al suo primo amore.
Era giunto qui, il grande Cesare, con sei navi da Lilibeo.
Cantò questo amore solo Calpurnio Siculo. E forse proprio per
questo la storia ben presto diventò leggenda. Ma quando la leggenda si
mette in marcia diventa ancor di più storia e verità. Tanto bastò,
perciò, perché questo amore diventasse eterno. Tanto bastò perché un
uomo inutile vivesse questo immenso amore: il sogno dell’inventore
di Almeda vide estasiato il sogno di Spina che sognava felice di amare
Cleopatra.
Quella notte, il paese fu assediato da tutti i sogni della storia. Tutti
i sogni, tutti i desideri vennero fuori e volarono nel cielo di Almeda, il
futuro non ebbe più confini e nemmeno il passato. Quella notte ad
Almeda la storia cambiò percorso. La storia diventò un sogno. Il
sogno dell’inventore di Almeda vide il sogno del giovane prete
Alfredo Lauricella, il reverendo Martin Luther King che poco prima di
essere ammazzato gridava Io non ho paura di nessuno perché i miei
occhi vedono la gloria del Signore che arriva.
L’arciprete Angelo Scopelliti invece sognò di essere Dio. Non il
Garibaldi-Dio di Francisco Bardana, ma il vero Dio del Vecchio e del
Nuovo Testamento, alto, imponente, con la grande veste bianca. Per la
verità, molti quella notte sognarono di essere Dio. Tanti Dio volarono
sopra le case e le strade di Almeda. Una moltitudine, una infinità di
Santi. E angeli, tanti, tantissimi angeli volarono sopra i tetti, da un
tetto all’altro, candidi, leggeri, veloci.
Nel profondo della notte, nella notte più buia, il sogno di Filippo
Bardana vide poi tanti diavoli e tanti vampiri scontrarsi con gli angeli,
con i Santi e con Dio. Il cielo si tinse di mille colori, di fuoco, di
55
fumo, di immagini spettrali, di visioni tenebrose, l’Apocalisse era
piombata su Almeda.
Il sogno di Filippo Bardana li conosceva tutti i sogni dei suoi
compaesani, e quella notte ne ebbe piena consapevolezza. Lui aveva
risvegliato tutti i sogni del paese. Non proprio tutti, perché quella sera
aveva visto i sogni dominanti. Tutti i sonni, però, esplosero in mille e
mille sogni senza fine. Il suo sogno quella notte fu come il lievito che
fa crescere il pane, la fiammella che dà inizio a un incendio. Il sonno
di Almeda si riempì di miriadi e miriadi di sogni.
Il sogno di Filippo Bardana vide dall’alto che nelle case i sogni
volavano da una casa all’altra, da una stanza all’altra e si
materializzavano in immagini e visioni. Vide molti sogni d’amore,
vide Paolo e Francesca che si tenevano per mano ed erano sbattuti da
una bufera di vento, vide Lancillotto e Ginevra che si baciavano
tremanti mentre leggevano il libro galeotto, vide Abelardo ed Eloisa
che facevano l’amore e poi Abelardo alzarsi, col terrore di essere
evirato. Ma i sogni erano davvero strani, volarono da una casa all’altra
sogni di guerre mondiali e di storie d’amore inverosimili, Renzo e
Lucia che scappavano inseguiti da Hitler ed Eva Braun, Romeo e
Giulietta che chiacchieravano felici con Mussolini e Claretta Petacci. I
sogni erano veramente stravaganti, a un certo momento, tutto diventò
un caos, una confusione, un tumulto senza senso.
I sogni degli uomini si incrociarono con tutti gli altri sogni in
modo furibondo. A un certo punto, anche se conosceva i sogni dei
suoi concittadini, e per questo dai sogni poteva risalire alla loro
identità, il sogno di Filippo Bardana quella notte ebbe la rivelazione
clamorosa di vedere come certi uomini potevano avere sogni che mai
lui avrebbe immaginato. Vide, infatti, sogni davvero imbarazzanti. In
alcune case vide sogni adulterini, sogni di mogli che tradivano i mariti
e di mariti che tradivano le mogli, sogni di uomini e di donne che si
trovavano in posti dove non dovevano essere.
Tuttavia, tutti sembravano felici perché erano felici di vivere i
loro sogni. Non c’era nessuno quella notte nelle strade perché i sogni
si erano impossessati del paese, e Almeda era diventato un paese di
dormienti. Alcuni poveri malcapitati che stavano rientrando tardi a
casa furono nelle vie furono inseguiti, schiaffeggiati, derisi dai sogni.
56
Scappavano, perché ne ebbero paura, dovettero scambiarli per
fantasmi. I sogni si erano impossessati delle case, delle strade, delle
piazze, dei bar, dei ristoranti, dei locali notturni di Almeda. Gestivano
essi stessi i locali al posto dei proprietari, sedevano insieme ai pochi
avventori, bevevano e mangiavano, si divertivano.
Per tutta la notte, il sogno di Filippo Bardana vide che molti si
svegliavano, andavano a vedere dalle finestre e dai balconi i propri
sogni e quelli degli altri volare di casa in casa, poi rientravano a casa e
serravano tutte le finestre, chiudevano a chiave le porte, quindi si
rinchiudevano nelle stanze, si mettevano a letto e continuavano a
sognare.
Almeda era diventato un paese di vampiri. Tutti dormivano su
catafalchi vampireschi e sognavano. Tutti erano felici perché potevano
sognare finalmente tuttò ciò che avevano sempre desiderato.
Mentre stava per rientrare, il sogno di Filippo vide un sogno
smarrito sotto il balcone della torre. Sorrideva. Gli sorrise anche lui.
Gli si avvicinò. Lo riconobbe. Era il sogno di una bambina compagna
di giochi della sua prima infanzia. Si chiamava Maria. Lo baciò sulla
fronte, quindi tornò rapido nella torre e sul letto deserto di suo padre
accanto a lui posò.
57
Capitolo VII
Fantasmi di Sicilia
Quando il sogno di Filippo uscì dalla torre e andò a svegliare
con i sogni di Almeda tutti i sogni di Sicilia che apparvero dal mare in
forma di moltitudini di genti e di fantasmi e di eserciti imponenti.
Osservò il padre di Filippo che coi suoi sogni sprofondava ancor
di più nel caos, nel torpore del suo secolo, quindi il sogno di Filippo
uscì ancora dalla torre, ma questa volta non si fermò nelle case del
paese. Il sogno di Filippo Bardana volò oltre i tetti di Almeda, al di là
del mare, infine si inabissò oltre l’orizzonte, nei baratri sconfinati
della notte, dove nulla poteva illuminarlo, né la luna piena, nemmeno
la striscia allucinata argentea del mare.
Scomparve il sogno in una specie di crepuscolo vermiglio, ma era
ancora uno degli aspetti di quella notte profonda, e – come ridestati da
un sonno profondo, come un fuoco d’artificio acceso da una miccia subito dopo apparvero sull’orizzonte del mare di Sicilia moltitudini di
immagini e visioni.
Il sogno dell’inventore di Almeda vide eserciti avanzare, ne ebbe
inquietudine e sgomento. Lui li aveva risvegliati, ma vide anche i
sogni di Almeda spuntare dal mare. Anche i sogni di Almeda erano
andati a svegliare tutti i sogni di Sicilia. Guardò i due corpi immobili
nella stanza, poi il sogno di Filippo si affacciò e così gridò alto nel
cielo dalla collina.
Ecco, vi vedo giungere da lontano, dal mare, eserciti possenti.
Andate, ma dove andate? Oh, tutti venite a conquistare la gloriosa
terra di Sicilia, terra di santi, poeti, viaggiatori, imperatori, re,
scienziati, filosofi, matematici, terra di musicisti, di pittori. Terra di
apostoli, di martiri, di eremiti. Tutti volete conquistare la Sicilia, sì, la
terra da favola, la terra da conquistare, la Sicilia, il lontano paese delle
meraviglie, la terra dei Greci e dei Romani, della poesia, dell’arte,
della cultura. La terra delle mille e una notte. Oh, tutti desiderano
questa terra, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Svevi,
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Spagnoli, Francesi, Tedeschi, Austriaci, e certo, è la terra circondata
da mari incantati e da monti altissimi, da vulcani maestosi
impennacchiati, e da fiumi che scendono da ghiacciai perenni. La terra
di fiumi scoppiettanti di vita, limpidi e sonori, di boschi alti e folti da
dove si scruta l’infinito, la terra dei pascoli verdi e delle mandrie
feconde, delle distese di ulivi e di vigne, di limoni e di aranci, delle
valli di pianure ubertose e feconde, e delle fiorenti splendide città sul
mare, terra di sole. Terra al centro dei mari, al centro del mondo, di
magnifiche e potenti città greche, meraviglia del mondo, culla di
artisti, isola del sole, prima fra le province romane che sentì
pronunciare, per bocca degli apostoli Pietro e Paolo, il nome di Cristo.
Sì, vi vedo, giungete armate invincibili, i più grandi eserciti del
mondo, sbarcate dal mare, scorrazzate sui campi come forze
primigenie devastanti, cozzate tra di loro le armate, irrompono eserciti
immensi, Romani, Greci, Bizantini, Arabi, Francesi, Saraceni,
Spagnoli, Italici, Normanni, Svevi. Trombe squassanti squarciano il
silenzio, si scontrano legioni, falangi, combattono, a v a n z a n o
c o n do ttie ri, a v an z a n o g en e ra li su cavalli rutilanti, fendono la
bruma, avanzano guerrieri immortali, avanzano cavalieri, eserciti
poderosi forze immense, avanzano dalle caligini del tempo. Spade
cozzano contro spade, spade lacerano la carne, fantasmi larve di
sogni escono dalle tenebre della storia, hanno elmi abbaglianti,
cavalcano cavalli bianchi coi brandi scintillanti, salgono su carri
greci sfavillanti, divorano l’erba, divorano la vita.
Ecco, poderosi eserciti cercate la battaglia, avanzano consoli e
generali, rimbombano trombe e tamburi sul campo nella notte, nelle
tenebre un tumulto si spande. Oh, orrore di sangue di cavalli
scalpitanti sui guerrieri moribondi, di grida e di pianti e di urla nella
notte, fumi vapori scintille fuochi, spiriti dannati fuggono nel silenzio
immoto negli abissi profondi del mare, pire fumanti si stagliano nel
campo, è la battaglia perduta, la sconfitta, lo scalpitare dei cavalli
dissanguati, l’urlo il grido il pianto, la disperata fuga.
Avanzate eserciti, è il galoppo rapido dei millenni. Ora avanzate
eserciti ancora più possenti, moltitudini di navi, spuntano cannoni
dalle pianure, carri armati devastanti, aerei scaraventano bombe,
distruggono la città, è lo scontro cruento supremo, la battaglia finale,
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la guerra il tumulto l’inferno, annichiliscono la vita, annichiliscono
lo spazio, annichiliscono il tempo.
Oh, ecco, finalmente il silenzio. Spiriti e fantasmi di Sicilia,
superstiti larve, venite fuori, larve, spettri, fantasime del tempo,
incubi, ombre della notte, parvenze, immagini, sogni, angoscia, fumo,
vento che si disperde, niente. Levatevi carne e ossa, spiriti di Sicilia.
Ecco vi vedo, riemergete dalla storia, vi catapultate nel tempo
immortale, nello spazio vuoto, nel sogno, nella mente di Filippo
Bardana.
Fantasmi, larve di Trinacria, uscite dalle strade buie, inondate il
mondo, spiriti di tutti i popoli e di tutte le razze, greci, ebrei, arabi,
normanni, svevi, francesi, sogni di tutte le genti, inondate il tempo.
Fenici audaci naviganti, esploratori, colonizzatori, mercanti,
avventurieri; Greci fondatori del mondo, strateghi, tiranni, grandi
condottieri e generali cartaginesi; consoli romani, governatori e
prefetti, questori, legioni gloriose; barbari goti, corsari barbareschi e
saraceni, turchi, turmarchi e protospatari generali arconti bizantini;
imam, gran visir, consiglieri politici e religiosi, emiri e califfi dai
colori sgargianti, dai paludamenti solenni regali, emiri aghlabidi,
imam fatimidi mujāhidin mussulmani, sultani barbuti con turbanti blu,
su tappeti volanti e residenze da mille e una notte, con lampade
magiche di Aladino; soldati berberi e giurisperiti malikiti, emiri
kalbiti, poeti geografi giuristi filosofi arabi, persiani; conti duchi e re
normanni, cavalieri e avventurieri normanni, scribi e protonotari
svevi, religiosi cristiani, preti cristiani; maestri ebrei, greco-ortodossi,
ebrei, genti piemontesi e lombarde, logoteti e protonotari svevi;
intellettuali e medici arabi, filosofi, astronomi, astrologi, scienziati,
letterati, notai, ministri, burocrati, scrivani, matematici, musici;
ballerine di straordinaria bellezza, odalische, eunuchi, saltimbanchi,
poeti, avventurieri; guerrieri saraceni, catalani, castigliani, baroni e
nobili angioini, infanti e re di Spagna, viceré fannulloni rapaci,
feudatari e baroni spagnoli, generali austriaci, piemontesi, borboni;
carbonari e rivoluzionari, briganti, garibaldini, statisti, scrittori,
drammaturghi di Sicilia: uscite dal buio, uscite dalle tombe, tornate
nel tempo.
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Ecco, sì, vi vedo. Voi camminate, voi siete in marcia fantasmi di
tutte le genti e di tutti i popoli, di tutte le razze e di tutte le religioni;
uscite dai giardini di aranci e dai mercati, uscite dalle moschee e dalle
sinagoghe, dalle cattedrali normanne, tra mosaici d’oro bizantini e
colonne greche; uscite dalle tombe, uscite dalle case, dalle vie buie e
tenebrose dela storia, uscite dalle menti, uscite dai sogni degli uomini
ed inondate il mondo.
Ecco, ora vi vedo. Sì, vi vedo, state occupando le piazze. Vi vedo,
occupate le vie, vi vedo, morti, spiriti sepolti nell’abisso dei millenni,
vi svegliate dal sonno profondo, uscite dalle bare, dalle tombe dai
tumuli superbi, dai cimiteri, dalle chiese, dai catafalchi, uscite dal
vuoto, dal nulla, riconquistate la luce, il respiro vitale, il vostro posto
nella storia.
Fantasmi senza pace, larve del passato, spiriti solitari, ombre,
avanzate in marcia alla conquista del mondo; sogni spezzati, giungete,
cantate l’inno della fine del mondo, coprite lo spazio vuoto, il deserto,
insieme nella marcia funebre del mondo.
Anime disperate, senza amore, anime sospese, uscite dalle nebbie,
dagli antri nascosti della terra, dalla notte profonda; sogni interrotti,
incubi paurosi, fantasmi senza passione, vi catapultate nel
palcoscenico del mondo.
Sogni, pure parvenze, destini inconclusi, andate alla ricerca
disperata di amori perduti, sogni solitari preda della follia, andate, ma
dove andate? Forse andate di inferno in inferno, di mondo in mondo
nell’immane vagare delle pure parvenze, oh spiriti sbandati del cosmo,
illusioni, voi andate in tutti gli abissi sperduti del tempo, ombre, nel
fuoco dei pianeti, nel baratro del tempo.
Sogni, pure parvenze, destini inconclusi, vi perdete nei mille e
mille miliardi di pianeti dell’universo, per mondi lontani e sconosciuti,
voi andate, ma dove andate? Voi andate per i pianeti e le stelle, per
cento e cento miliardi di stelle, per cento e cento miliardi di galassie, e
vi portate il profumo della terra di Sicilia, il desiderio di amori mai
posseduti, nelle estreme solitudini dell’universo.
Sogni, destini infranti, ombre vinte dalla ferocia della storia, larve
abbattute da un sogno, da incubi paurosi, volete riprendere un
61
cammino interrotto; in un baleno riconquistare un destino, il silenzio
altissimo e profondo, fuori dal caos, dal tumulto, dalla caduta del
tempo.
Spettri, sogni infranti, avanzate, vi fate largo nel caos, nelle folle
sterminate, negli abissi dello spazio, dove si dissolvono e forse
trovano pace l’angoscia e l’amore, il rancore, il caos e la pena, il
tormento, il furore; spettri, sogni infranti, voi avanzate dove forse
trovano finalmente riposo il male e l’odio, l’incubo e il terrore, l’ira,
la ferocia, il disordine, e un silenzio altissimo e profondo si leva sul
clamore, sul tumulto, sul caos della storia, e avvolge ogni cosa,
il disfacimento, la rovina, lo sfacelo, il crollo rovinoso dei mondi, il
lento decadere dello spazio, l’indolente morire del tutto.
Oh, sogni del mondo, voi vi destate dal sopore della morte, dalle
dimenticanze estreme, e andate nel sole, nella luce, sulla luna, dove
finalmente la pace trovano i sogni, dove forse trova riposo la storia, il
formidabile declinare del tempo nel marasma del cosmo.
62
Capitolo VIII
La solitudine del mondo
Di quando Filippo Bardana si innamorò ed ebbe la prima,
definitiva, ultima, devastante delusione d’amore e decise di
abbandonare il mondo e di dedicarsi alla ricerca della felicità.
Le luci della Friedrichstrasse, quel 21 settembre del 1969, erano
ancora accese quando Filippo Bardana si affacciò per l’ennesima volta
alla finestra dopo una notte insonne. Contemplò l’alba di Volkach,
l’ultima alba di Germania prima del suo ritorno in terra di Sicilia. Era
un’alba piovigginosa, non rara in quel tempo di fine estate nella Bassa
Franconia. Perlustrò tutta la Friedrichstrasse finché i suoi occhi non
giunsero nella Piazza del Mercato. Qualcuno usciva dal Gasthof
Kreuzer, non era un italiano, gli italiani non sono così mattinieri. Non
era nemmeno un tedesco, quello non era un locale frequentato da
tedeschi. Aveva un nome tedesco, ma quello era un locale frequentato
da turchi. E da un italiano: lui, Filippo Bardana. C’era andato spesso
in quei tre mesi, con la sua ragazza turca, lì l’aveva conosciuta. Si
chiamava Sevim, la sera prima lo aveva lasciato.
Guardò il mondo oltre la Friedrichstrasse, oltre la piazza, lontano,
molto lontano. Vide - gli parve di vedere – aspri e angosciosi e
desolati luoghi, prigioni orribili piene di fornaci immense e
fiammeggianti, dove bruciavano tutti gli esseri viventi, fiamme dove
nessuna luce usciva ma il buio, un buio trasparente, tenebre dentro le
quali poteva scorgere fantasmi paurosi, visioni di sventura. Vide
regioni senza speranza, paesi lontani senza pace, consumati dal dolore
e dall’angoscia, che non troveranno mai requie o riposo. Vide paesi
affollati dove mai nessuna luce o speranza penetra, ma solo sofferenze
senza fine, e diluvi di pioggia e di fuoco, e delitti, e pene d’amore mai
consunte.
Chiuse gli occhi.
63
Vide guerre e legioni di demòni e di angeli che combattevano nei
giorni del’Apocalisse, e la sua vita sbattuta come un piuma nel vento,
una pagliuzza trasportata dalle correnti marine. Guardò oltre il fiume,
al di là dei mari e degli oceani, e vide la sua esistenza come una nave
senza rotta, scaraventata di qua e di là senza un approdo in vista.
Vide delitti consumarsi anche fra gli esseri più puri, assassinii e
tradimenti nelle famiglie più caste. Vide eserciti di angeli e di
arcangeli cozzare contro armate di diavoli nei mondi e negli universi, i
reggitori degli degli spazi e degli universi, gli dèi planetari e i
reggitori dei mondi lottare contro i demòni e attraversare oceani di
tempo, vide innumerevoli armate, bilioni e trilioni e miliardi di forme
divine e umane e animali di ogni specie genere e qualità cozzare tra di
loro, eserciti senza principio e senza fine e senza centro riempire i cieli
di fuoco e di fumo, di bagliori stridenti, di mostri, di fantasime astrali.
Guardò oltre i tetti della Friedrichstrasse, oltre i cieli, e vide tutte
le legioni, le più potenti manifestazioni dei piani e dei mondi guardarsi
con timore e smarrimento, i più grandiosi eserciti celesti rilucere di
glorioso splendore e contemplare il loro tremendo aspetto prima della
fine, generali e grandi guerrieri, tutti gli eserciti dei mondi come le
correnti rigonfie dei fiumi che si riversano nel mare tumultuosamente
cadere negli abissi degli spazi celesti, riversarsi veloci nelle bocche
fiammeggianti del tempo come se desiderassero la loro distruzione, il
tempo maturo e completo che azzanna e riduce in polpa tutte le sue
creature, il tempo che consuma i mondi e divora tutti gli esseri viventi
da ogni parte e senza limiti.
L’amore, il suo primo vero amore, lo aveva abbandonato ed egli
aveva visto in quell’alba di niente il suo destino. La sera prima,
Sevim, dopo aver fatto per l’ultima volta l’amore con lui, gli aveva
detto che le loro vite, i loro destini, non si sarebbero mai uniti per
sempre. Si erano conosciuti a giugno, lui veniva dall’Italia per
trascorrere tre mesi presso un suo parente, per lavorare e divertirsi. Lei
lavorava in una fabbrichetta di quel paese. Si incontrarono una sera al
Gasthof Kreuzer, si scrutarono, si piacquero, si amarono. Tre mesi
meravigliosi di amore, di passeggiate nei boschi, nei giardini accanto
al fiume, nelle piazze quasi deserte di Volkach.
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Lei gli era entrata nel sangue, nell’anima. Il suo profumo, il suo
sorriso, la sua dolcezza. Ben seni seviyorum, aveva imparato a parlare
d’amore in turco. In inglese, in italiano, in tedesco, in tutte le lingue
del mondo. Ora lei lo lasciava. Lo amava troppo, diceva, per potere
sopportare la sofferenza di un distacco più brutale. Lei era
musulmana, lui cattolico, lei doveva lavorare, lui doveva studiare
ancora. E poi, come si sarebbero sposati, col rito cattolico o
musulmano? Chi se ne frega del rito, lui le diceva. E i figli? Dovevano
essere battezzati o no? Uno sì e uno no, lui scherzava. L’amore non si
misura con le feste e i battesimi. È stata un’infatuazione, non vero
amore. No, è vero amore, tutto comincia così. Amerai un’altra, una
della tua terra. No, l’amore non ha confini. È stata solo un’avventura
estiva, dimentica questi tre mesi. Dimenticherai, la memoria serve
anche per dimenticare. No, tu sei la mia gioia, il mio profumo. Sei
entrata dentro di me, nel mio respiro, nel mio sangue. Tu devi
studiare, laurearti, diventare professore. Io sono venuta qui dalla
Turchia per lavorare. Che cosa mi aspetta in Italia? Tu devi studiare, i
nostri mondi non si incontreranno mai. Tu hai davanti un ambiente
diverso dal mio. Mai ho amato una donna così come ho amato te. Mi
piace tutto di te, come canti, come balli, come ridi, come parli. Mi
uccido. Lascia perdere.
Ritirati dal mondo, fu il pensiero caotico di Bardana, il mondo è
l’inferno. Anzi, il mondo è peggio dell’inferno, perché è un inferno
senza pena. Tutto è perduto. Il mondo non avrà nessun altro Bardana.
Percepisco sentore di carname, di preda innumerevole, e gusto il
sapore di morte che viene da tutte le cose viventi. John Milton,
Paradiso Perduto. No, non esiste Satana. L’uomo è Satana. La natura
ha creato qualcosa di marcio. E non esiste nemmeno Dio.
Il tempo ha avuto inizio con l’universo stesso, dunque non
esisteva un tempo prima dell’universo. Ecco perché non esiste un Dio
che abbia creato l’universo, perché non esisteva un tempo senza
l’universo, un tempo in cui Dio poteva aver pensato e creato
l’universo.
No, Dio non esiste perché gli uomini sono infelici. Punto e basta.
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Ritirati dal mondo, Bardana. E impiega il tempo che ti rimane in
solitudine a cercare la formula che possa dare la felicità a questo
mondo infelice. Non viaggiare più, viaggiare significa soprattutto
tornare, tornare sempre a casa, vivere e abitare più liberamente, più
poeticamente la propria casa, così dice il poeta. Così pensò Bardana.
Tra questi pensieri, vide all’improvviso moltitudini sterminate
avanzare verso il male, il male che si nutre del male. Vide il mondo
come un immenso bordello pieno di puttane,una latrina gigantesca,
una prigione libera piena di delinquenti, ladri, assassini, malavitosi,
avventurieri, fraudolenti, qualunquisti, depravati, violenti, truffatori;
vide visioni di morte, il degrado totale, lo sfacelo del tempo.
Via, Bardana, via dal tumulto e dalle passioni del mondo, via dal
peccato che trascina nel fondo dell’abisso. Un mondo che non accetta
la purezza del tuo amore è un mondo peccaminoso. Questo è la
caduta, il precipitare, il cadere sempre più in basso, il degradare, il
decadere dall’umanità allo stato ferino, il disvalore assoluto del
tempo.
La tua vita, il torpore e il letargo della speranza, la disperazione
della solitudine.
Sì, altre visioni ingombrarono la sua mente.
Vide in un istante i sogni perduti della sua giovinezza, le
speranze, gli amori.
Vide il tempo che travolgeva il caro immaginare e il tramonto
della sua vita, il tempo rovinoso che distrugge tutte le cose, le nascite
e le morti, e lo sterminato fluire delle esistenze, dove non sai mai se
incontri pure presenze reali o parvenze o fantasmi, che vagano di
secolo in secolo, di millennio in millennio, di mondo in mondo.
Vide il caos tumultuoso della storia, vide il mondo come una
fogna sterminata, una cloàca fetida, spaventosa, che contiene tutto
il fetore dell’universo, una fogna gigantesca dove scorre tutto il
puzzo più insopportabile delle galassie.
Vide il mondo come un inferno abbagliante ma senza vera luce, il
regno delle tenebre fosforescenti e vuote, tenebre che entrano nella
pelle, nell’anima, che ottenebrano la mente, tenebre che non hanno
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relazione con la luce, a tal punto che uno può credere di far parte
delle stessa natura delle tenebre.
Vide le tenebre che significano solitudine, la disperata solitudine
dell’uomo in mezzo a una moltitudine che non ti capisce.
Per allontanare per sempre da sé gli appetiti bestiali della
carne, dell’incontinenza, della lussuria e della concupiscenza,
della cupidigia, della gola, della frode e dell’inganno contro il
prossimo, della violenza contro l’umano, della violenza contro Dio,
Bardana pensò di entrare in vari monasteri, ma fu un momento, suo
padre si sarebbe opposto a tale decisione. Meglio la morte che un
Bardana socialista in monastero.
Aprì di nuovo gli occhi. Osservò non lontano il sinuoso Meno
scorrere placido, lento, verso le feconde pianure di Germania. Per la
prima volta, aveva conosciuto l’amore in una terra lontana. Aveva
perduto la castità in quel paese, con una donna straniera, pure lei casta,
che veniva da una terra d’oriente, pure essa molto lontana. Veramente,
Bardana era andato con donne, ma erano tutte puttane. Era la prima
volta che faceva l’amore con una donna vera. Si era innamorato. No,
non era una infatuazione passeggera. Sevim gli era entrata nell’anima.
Ma ora lei aveva deciso. Dovevano separarsi, per sempre. Perché? Se
lo chiese infinite volte quella notte. Lei – ne era sicuro – lo amava.
Non era possibile che una ragazza di vent’anni potesse già decidere il
proprio destino.
Scese nel Gasthaus di sotto. Sedette, come sua abitudine, nel
solito tavolo all’angolo, quasi nascosto, discreto. Appena lo vide,
Heinz, il gestore, comprese che il giovane Bardana non stava bene. Gli
preparò il solito disgustoso cappuccino all’italiana e due krapfen.
Glieli portò. Il rubicondo Heinz gli fece un largo sorriso. “Capisco”,
gli disse. “Tu devi tornare in Italia e la turchetta ti ha lasciato. Non te
la prendere. Ha fatto bene. Non avevate un futuro comune. Il tempo
non è maturo per una unione come la vostra. Dimentica. Un giorno
capirai che la tua ragazza aveva ragione, magari quando si sarà fatta
una famiglia con uno di qua, anche un tedesco, per dimenticare più in
fretta la sua povertà. E se non lo capirai, ricordati di chi, come me, è
sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ha servito un pazzo come
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Hitler, si è fatta tutta la campagna di Russia, è tornato dopo dieci anni
di prigionia in Siberia, ed è finito – la cosiddetta razza eletta - a fare lo
sguattero di studentelli depressi come te e di turchi puzzolenti e
ubriachi”.
Bardana lo guardò indifferente. Heinz sorrise. Sorrise,
tristemente, anche lui, Bardana.
Sì. A dare sostanza e destino alle esistenze, ci doveva essere
qualcosa di più forte, di più potente dell’amore. Forse era la
formidabile preveggenza di una fanciulla che leggeva il futuro della
gente nei residui di caffè nelle tazzine, forse era il calcolo spietato di
una donna già matura, o forse era l’ineluttabile, irrazionale, caotico
procedere della storia.
All’improvviso, un vento leggero entrò nella torre. Il puro,
incontaminato sogno di Filippo Bardana ebbe un sussulto, si girò, vide
il volto felice di Francisco che muoveva le labbra, il sorriso di Filippo
che levitava sul suo sonno, nel tempo in cui il sogno del ricordo
svanisce e si ricorda di essere il puro sogno che vuole conoscere il
mistero del tempo. Il puro sogno dell’inventore di Almeda allora entrò
ancora nella mente di Francisco Bardana, si fece largo nei viluppi
misteriosi dei sogni dell’universo e infine si trovò davanti non le
vicende di un avvilente vicereame senza storia, non i tempi fulgidi di
una Nazione fortunata, non vicende angosciose e ambigue di generali,
governanti e re, ma accadimenti di uomini veri, ma il portento, la
straordinaria forza visionaria del sogno della Storia.
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PARTE SECONDA
LA STORIA
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Capitolo IX
Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana volle vederci più
chiaro nei sogni dei Bardana su Garibaldi e nel tentativo di omicidio
di questi da parte di un suo avo. Quella volta l’Eroe dei Due Mondi
non era Garibaldi-Dio ma solo Garibaldi, e il sogno di Francisco
parlò con lui dell’Unità d’Italia, dell’Impresa dei Mille, del
Risorgimento, del Regno delle Due Sicilie, dei Borbone, della
massoneria, del socialismo, della storia, della verità e dei sogni.
Parte prima
Cinque maggio 2011. Tarda mattina. Cimitero di Palma di
Montechiaro. Garibaldi davanti all’ingresso, seduto, pensieroso.
Francisco. Ehilà, Generale! Che sorpresa! Che ci fate in questo
paese dimenticato dalla storia?
Garibaldi. Strano. Un turista di questo paese, in visita a Caprera,
mi ha detto che in questo cimitero è sepolto un garibaldino, non citato
nelle cronache. Io li conoscevo tutti, i miei garibaldini, ma in
occasione delle celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Unità
d’Italia, per scrupolo, sono venuto a vedere: nella storia possono
accadere dimenticanze estreme. No, non ho trovato nessun garibaldino
in questo cimitero. Ho chiesto anche in paese, è da due settimane che
son qui, ma nessuno sa niente.
Francisco. No, Generale, vi hanno fatto uno scherzo: non c’è stato
nessun garibaldino in questo paese. E nessun picciotto. E, se devo
essere sincero, ne sono fiero. L’Unità d’Italia è stata un fallimento, e
queste celebrazioni sono retoriche e false.
Garibaldi. Ma che cazzo stai dicendo? Chi sei?
Francisco. Sono Francisco Bardana, professore e bibliotecario,
nipote di quel Francisco Bardana mio nonno che nel 1860 voleva
uccidervi.
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Garibaldi. Ecco, adesso capisco. Ho preso informazioni su tutti gli
abitanti di questo paese. Sì, questo tuo avo me lo ricordo. Era un
giovanotto sui trent’anni. Poteva essere uno di quei picciotti che a
migliaia lottarono con l’esercito garibaldino per edificare una grande
nazione, invece era al servizio di un nobilotto filoborbonico
dimenticato dalla storia, e venne a trovarmi in una villa nei pressi di
Palermo con l’intenzione di uccidermi.
Francisco. Ancora mi domando perché non l’ha fatto. Aveva un
revolver sotto il panciotto, sei colpi pronti a uccidere l’Eroe dei Due
Mondi. Era a un metro da voi.
Garibaldi. Forse comprese, alla fine del nostro colloquio, che le
ragioni che portavano all’unità erano superiori a quelle contrarie.
Dirigeva le aziende agricole di quel principe, ma aveva buona cultura
e modi affabili, disse che aveva studiato in seminario.
Francisco. Sì. Ma i Bardana, allora, non avevano le forze né per
allevare papalini né per creare controrivoluzionari. Forse per questo
non vi uccise.
Garibaldi. Mah, la storia! Si fece presentare come uno che, per
conto di un nobile patriota, veniva ad offrire i servigi per la causa. E
poi, quando fu davanti a me, mi fece un lungo discorso sul buon
governo dei Borbone e sulle presunte nefandezze che erano alla base
dell’impresa dei Mille. Alla fine mi puntò la pistola ma si fermò. Io gli
dissi che un colpo di pistola non poteva cambiare la storia, e che
l’Italia non poteva perdere quel treno. Ma non fu per questo che non
mi uccise.
Francisco. E che cosa fu?
Garibaldi. Secondo me tuo nonno capì che Garibaldi aveva un
destino e i Bardana no. Che i Bardana erano dalla parte sbagliata della
storia.
Francisco. Perciò anche i Bardana hanno fatto l’Italia.
Garibaldi. In un modo o nell’altro, sì.
Francisco. Questo mi rammarica molto. L’Italia non andava fatta,
Generale. Voi avete consegnato una brutta Italia agli Italiani. Gli
Italiani sono litigiosi, l’Italia è troppo lunga, contiene tante tradizioni,
tante culture. Sarebbe stata meglio una federazione di Stati Italiani,
tutti sovrani: magari sotto il patrocinio spirituale del Papa.
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Garibaldi. Ma che minchia stai dicendo, figliolo? Tu, un
socialista! I socialisti non devono essere così antipatriottici. Per questo
voi Bardana sognate sempre Garibaldi: è la vostra cattiva coscienza.
Volevate uccidere Garibaldi, volevate uccidere l’Italia.
Francisco. Non sono antipatriottico: è che l’Italia non andava
fatta. Noi Bardana sogniamo spesso Garibaldi forse perché non ci
diamo pace per non aver compiuto un destino: il nostro. Saremmo
passati alla storia per aver contribuito a fondare un grande Stato,
l’Italia del Sud. Ah, l’Italia! l’Italia unificata da un tedesco! Non
poteva che nascere male, questa Italia!
Garibaldi. Tedesco? E chi cazzo sarebbe il tedesco? Io?
Francisco. Sì. Voi. Voi avete origini tedesche, Generale. Il vostro
cognome significa pronto alla battaglia e audace. E poi ho letto da
qualche parte che eravate imparentato con il barone Teodoro Von
Neuhof. Un vostro avo, Joseph Baptist Maria Garibaldi si unì in
matrimonio con Katharina Amalie Von Neuhof…
Garibaldi. Con tutto il rispetto per il popolo tedesco e per tutti i
popoli - io fui e sono socialista e internazionalista - anche se Nizza
allora era francese e io fui registrato come Joseph Marie Garibaldi,
cittadino francese, io sono italiano dalla cima dei capelli fino ai
coglioni, amico mio. Certo, con tutto il rispetto, se penso che sono
stato registrato come cittadino francese, Joseph Marie Garibaldi, io,
italianissimo figlio di italianissimi…
Francisco. M’immagino. Vi sareste chiamato Garibaldì. Suona
anche bene. Meglio di Joseph Von Garibald. E che cazzo!
Garibaldi. Ehi, boy, che fa, pigli per il culo?
Francisco. Non mi permetterei, Generale. È che sono sorte tante
leggende sul vostro conto. Come questa dell’Unità d’Italia. Ma che,
parlate inglese, Generale?
Garibaldi. Io parlo tutte le lingue e tutti i dialetti dei Paesi che ho
conosciuto. Una leggenda, dici. Vuoi spiegarmi perché? E sì che sei
un siciliano. L’unico rispetto che ti porto è che sei siciliano. Ma non
continuare a provocarmi. La scintilla politica e rivoluzionaria
dell’Unità d’Italia scoccò dalla Sicilia.
Francisco. Ora volete imbrogliarmi con la storiella che è stata la
Sicilia a volere l’Unità d’Italia.
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Garibaldi. Amorè, io ti dico la verità. Sono stati i Siciliani a
spingermi a preparare la spedizione. Crispi, per esempio. E Rosolino
Pilo. I Siciliani, del resto, sono famosi per questo: o non fanno un
cazzo o fanno tutto. I Siciliani si erano rotti i coglioni del regime
dispotico e poliziesco di Francesco II. Che voleva addirittura una Lega
cattolica e un ritorno reazionario.
Francisco. Su questo, io ci andrei piano.
Garibaldi. L’insurrezione del quattro aprile del 1860 a Palermo, al
convento della Gancia, con la fucilazione degli insorti, fu decisiva.
L’incendio ormai era scoppiato, e anche al Nord i patrioti e i
repubblicani mi chiedevano di intervenire in aiuto degli insorti
siciliani.
Francisco. Questa è una storiella che non si insegna più nemmeno
nelle scuole elementari. Raccontatela a qualcun altro, Generale. Anche
se riconosco che amavate la Sicilia.
Garibaldi. Non è una storiella, mon ami, ed io ho amato la Sicilia.
Sì, io ho amato la Sicilia. Due mesi prima di morire, ormai vecchio e
quasi paralizzato, l’ultimo mio viaggio lo feci proprio in Sicilia. Era
l’aprile del 1882. Ci andai, contro il parere di medici e amici, per le
celebrazioni dei Vespri Siciliani. Ebbi la conferma che un intero
popolo mi amava, i patrioti, i miei ex compagni e picciotti, le donne.
Oh, la Sicilia! Terra meravigliosa di bellezza e di storia, di cultura!
Terra di libertà, di coraggio, di indipendenza, di patria! Terra di leoni!
Senza i Siciliani non avrei potuto sbaragliare uno dei più potenti
eserciti d’Europa!
Francisco. Che poesia! Vabbè che ne avete scritte tante, di poesie,
ma questa è la più bella! A chi volete darla a bere? La verità è che
molti, siciliani, meridionali, anche quelli del Nord, diciamo quasi tutti
gli Italiani, si sono rotti i coglioni di questa Unificazione.
Garibaldi. Chi sarebbero queste teste di cazzo che si sono rotti i
coglioni dell’Unificazione?
Francisco. Io per primo. E poi quelli del Nord, per esempio.
Perché, secondo loro, avete portato il sottosviluppo all’Italia del Nord.
Un peso, la mafia, la povertà, l’arretratezza. E poi quelli del Sud, che
invece pensano che sotto i Borbone se la passavano meglio, e meglio
ancora se la sarebbero passata sotto di loro.
74
Garibaldi. Minchia che casino che ho combinato allora, ‘mpari!
Ma io non ci credo, a queste cazzate! E bene sta facendo il Presidente
della Repubblica Italiana fare questo popò di celebrazioni. Me lo
merito. E se lo meritano tutti quelli che, a modo loro, hanno
contribuito a fare nascere questo Paese: Mazzini, Cavour, Vittorio
Emanuele II, e soprattutto il fior fiore della gioventù italiana che ha
dato il suo sangue per l’Italia. Il fior fiore dei Siciliani.
Francisco. Soprattutto loro ce l’hanno con voi, Generale.
Garibaldi. Ma dimmi perché, benedetto figliolo.
Francisco. Ve lo dico subito. Vi siete proclamato Dittatore della
Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II e avete insediato un governo
provvisorio siciliano e ne avete affidato la carica di Segretario di Stato
a Francesco Crispi. Avete ordinato la leva di massa di tutti gli uomini
dai diciassette ai cinquant’anni e con un altro decreto avete rimesso in
vigore tutte le leggi precedenti la restaurazione borbonica del 1949.
Con un altro colpo e un po’ di coraggio in più avreste proclamato
l’indipendenza del Sud, Generale.
Garibaldi. Ma fammi il piacere! L’Italia andava fatta così com’è.
Uhè, guagliò, dammi ascolto: saremmo stati spazzati via dalla storia.
Io non potevo perdere questo treno. Io ero dalla parte giusta della
storia. L’Italia, tutta, doveva essere unita. Oggi l’Italia, con tutti i suoi
problemi, è una della Nazioni-guida della storia universale.
Francisco. Voi avete unificato l’Italia con la corruzione, con
l’inganno, con l’ipocrisia, con il crimine. Avreste fatto meglio a fare il
medico, o l’avvocato, o addirittura il sacerdote, come volevano i vostri
genitori.
Garibaldi. Ehi, piccirì! Modera le parole. Io sono Garibaldi e tu
sei un pezzo di merda. Sei nessuno, vivi in un paese di merda: come
cazzo puoi cambiare la storia tu? La storia d’Italia è già fatta: l’ho
fatta io.
Francisco. La storia! Quale storia, Generale? Voi siete stato la
longa manus della massoneria londinese che voleva fare di Casa
Savoia lo strumento per liquidare il Papato e gli Stati cattolici come
l’Austria o la Santa Russia.
Garibaldi. Non ti agitare, amico: vivi di fantasie. Che cazzo di
libri hai letto?
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Francisco. Su, via, Generale: è la verità. Ormai è passato tanto
tempo, potete ammetterlo. Re Ferdinando aveva fatto tante cose
buone. Era un re che si dedicava tutto al governo del Regno. Non
pensava né a feste né al gioco, né ai divertimenti. Era un uomo
semplice, laborioso. Frugale. Nel suo Stato c’era pace, sicurezza,
tranquillità, libertà, ricchezza, prosperità. Il re aveva costruito tante
strade, ospedali, prigioni, scuole, case termali, edifici comunali.
Aveva costruito tanti asili e ospizi, case di riposo, per poveri e orfani,
e rifiuti della società, manicomi e case varie per i folli. Re Ferdinando
aveva costruito anche porti a Girgenti, Mazara, Marsala, Catania.
Garibaldi. Garzoncello scherzoso, io tutto questo veramente non
l’ho visto. Quando sono sbarcato in Sicilia, la prima cosa che mi colpì
fu l’estrema povertà dei villaggi nelle campagne, la miseria dei
contadini, la sporcizia nelle città. L’arretratezza.
Francisco. Non siate bugiardo, Generale. Quelle erano un po’
dappertutto. La verità è che re Ferdinando costruì industrie,
accademie, licei, collegi; istituì molte nuove cattedre nelle università,
banche, società edilizie. Furono bonificate tante terre paludose, tanti
boschi furono trasformati in terre da coltura, sotto di lui. La Puglia e la
Sicilia stavano diventando le terre più ricche d’Europa.
Garibaldi. Garçon, forse qualche tuo lontano parente
filoborbonico ha tramandato qualche bella favola ai tuoi avi. Lasciami
riposare, all’ombra di questo cipresso, ché oggi è na bella iurnata’e
sole.
Francisco. Generale, io non ho avuto parenti filoborbonici. I miei
sono stati tutti di tradizione socialista. Il Regno del Sud non era il
paradiso, ma per quei tempi era uno
degli Stati più avanzati d’Europa. Napoli era la terza città
d’Europa, dopo Londra e Parigi. Nel Regno delle Due Sicilie c’erano
le migliori università e i migliori codici napoleonici, legislazioni e
ordinamenti moderni, un’amministrazione efficiente, sia nella finanza
che nella giustizia. Certo, Ferdinando I ci ha fatto uno sgarbo, a noi
Siciliani, dopo seicento anni di indipendenza, quando ha unito le due
corone di Napoli e di Sicilia, formando il Regno delle Due Sicilie.
Anche questo abbiamo digerito.
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Garibaldi. Uhè, guagliò, tu non parli da socialista. Io ho
conosciuto fior di socialisti e repubblicani con l’amor di patria! E poi
non annoiarmi ancora con tutta ‘sta prosopopea borbonica.
Francisco. Obbedisco, Generale! Allora continuo col felice Regno
di Ferdinando II e di Franceschiello. Nel Regno dei Borbone si sono
avuti la prima ferrovia, l’Osservatorio Vesuviano, il primo
osservatorio vulcanico e sismologico del mondo, la prima
illuminazione a gas d’Italia, i primi esperimenti di illuminazione
elettrica delle strade. È stata costruita la più meravigliosa Reggia
d’Italia, forse inferiore solo a Versailles…
Garibaldi. Devi aver letto qualche libraccio revisionista, amigo.
Di qualche reazionario napoletano. Gli storici napoletani sono i
peggiori. Non ti fa onore, a te, un professore di liceo.
Francisco. No, Generale. Mentre voi ve ne stavate a godervi la
gloria, bello tranquillo, nella vostra tomba di Caprera, io forse ho letto
qualche libro di quelli che non si usano nelle scuole, perché sono un
tipo curioso. E ho fatto qualche ricerchina. Per esempio, ho letto che
re Ferdinando costruì molte fabbriche e molti ponti vicino ai fiumi, e
che tutte le nuove invenzioni sono state attuate nel Sud, prima che
nelle altre parti d’Italia. Ho letto anche che il Regno dei Borbone era
all’avanguardia per la stipula di nuovi trattati di commercio, per
l’istituzione di guardie civiche e guardie d’onore a cavallo. I Borbone
avevano un esercito potente, una Marina tra le più poderose d’Europa.
Garibaldi. E infatti si è visto come è finita.
Francisco. Su questo torneremo fra un po’. Nelle città c’erano
palazzi, ville straordinarie. Le terre erano ricche di messi, i mercati
abbondanti, i prezzi bassi e buoni, il popolo viveva nell’agiatezza,
rispetto ai parametri del tempo. La popolazione cresceva, come
l’industria, così come tante altre cose buone. Gli abitanti vivevano in
un tempo felice, e tempi ancora felicissimi li attendevano. Re
Ferdinando è stato il primo a concedere la Costituzione nel ’48,
purtroppo rimasta sulla carta perché travolto dalla storia. Grandi
riforme liberali si stavano facendo, come quella affidata a Francisco
De Sanctis sulla Pubblica Istruzione…
Garibaldi. Sì, il Sud era l’Eden. Figliolo, tu farnetichi. Devi aver
letto, lo ripeto, qualche libello propagandistico di qualche alto
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funzionario filo-borbonico, qualche storico meridionale reazionario
che ce l’ha con questi fessacchiotti del Nord.
Francisco. Io dico la verità, Generale. Voi avete compiuto un
crimine gravissimo.
Garibaldi. E daje co ‘sti crimini. Quale crimine? Di che stai
parlando, guagliò?
Francisco. Ma dell’Unità d’Italia, Generale. Che cosa è stata
l’Unità d’Italia? Un’aggressione internazionale contro due legittime
istituzioni, la Chiesa e il Regno Borbonico. Una violazione gravissima
contro il diritto internazionale, contro uno Stato riconosciuto sul piano
europeo, internazionale, il Regno delle Due Sicilie.
Garibaldi. Eh, che parolone! È stata una rivoluzione, ‘mpari. E
come tutte le rivoluzioni di popolo, è normale, qualche escandescenza,
qualche esagerazione, dico, può esserci stata!
Francisco. No, Generale, non è stata una rivoluzione. I contadini
siciliani e napoletani non sapevano che minchia era una rivoluzione, e
nemmeno uno scontro, una guerra tra Italiani, una guerra civile, dico.
L’Italia non esisteva, i Siciliani o i Napoletani non erano ancora
Italiani. Il vostro è stato un attacco contro la cultura siciliana,
napoletana, meridionale, contro i valori spirituali e culturali del Sud.
Il Regno delle Due Sicilie è stato calunniato per lungo tempo, non era
secondo a nessun Paese civile. Il Regno delle Due Sicilie aveva
medici, maestri, avvocati, scienziati. Non è stata una rivoluzione, e
nemmeno una liberazione.
Garibaldi. Ah, no? E che cosa è stata allora, giovanotto?
Francisco. È stata una annessione. Una spudorata annessione dei
Piemontesi. Di stranieri. Vittorio Emanuele II e Cavour parlavano in
francese e in dialetto piemontese, si scrivevano in francese. Questo
Cavour, poi, che non era sceso oltre Firenze, non conosceva la storia
della Sicilia, la sua ricchezza, la sua bellezza, i due raccolti all’anno, i
suoi giardini, il giardino dell’Europa… I Piemontesi sono venuti al
Sud a saccheggiare le case, a depredare, loro, i cosiddetti
galantuomini. Voi, il liberatore dei popoli, uno che diceva di essere un
eroe che aveva lottato per liberare gli oppressi. Voi vi siete prestato al
gioco. I Savoia vi hanno usato, vi hanno fregato.
Garibaldi. Ehi, ora mi sono scassato ‘o cazzo! Modera i termini,
mezzasega! Pajetta della mia minchia! Nessuno ha potuto fregare in
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quel secolo Giuseppe Garibaldi. Io sono l’Eroe puro, il liberatore dei
popoli, un grande. Senza di me l’Italia sarebbe stata spazzata via dalla
storia!
Francisco. Ah, la storia! Lo vogliamo dire, caro Generale, perché
avete vinto la guerra? Perché re Ferdinando aveva voluto restare
indipendente. E questo lo ha rovinato. Non voleva farsi assoggettare
dalla Francia, dall’Inghilterra. E queste gliel’hanno fatta pagare. Re
Ferdinando ha pagato l’isolamento politico. Soprattutto non doveva
inimicarsi gli Inglesi, cedendo il monopolio dello zolfo a una società
francese privata.
Garibaldi. Su questo non posso dargli torto, anche se Parlmerston
era capace di bombardare Napoli: con lo zolfo gli Inglesi ci
mangiavano, lo pagavano niente. Lo zolfo siciliano bastava e
avanzava per tutto il mondo.
Francisco. Senza zolfo, gli Inglesi erano fregati, non potevano far
funzionare le loro industrie, soprattutto quelle che fabbricavano armi.
L’Italia è nata, caro Generale, perché era una cosa che serviva alla
Francia e all’Inghilterra, era come un bastone che doveva essere
messo fra le ruote dell’Austria e della nascente Germania.
Garibaldi. Chissà, pensandoci bene, forse questa guerra i Borbone
non potevano proprio vincerla. Francisco II era un debole, succube
della matrigna Maria Teresa, la Regina Santa, e della moglie Maria
Sofia, sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, una donna forte,
una tedesca. Timido, mite, rassegnato troppo religioso, fatalista,
chissà, forse era un destino, ma Francesco II non aveva nemmeno il
corpo di un re, visto che era magro e lungo, con il volto pallido, la
schiena incurvata, le spalle cascanti. Tutti gli uomini di Stato e i capi
militari erano vecchissimi. Questo un po’ mi ha aiutato, via. Vittorio
Emanuele II, con un generale come me, non poteva non avere buon
gioco sul suo debole cugino Franceschiello.
Francisco. Fuori dall’ironia, però, caro Generale, questo re inutile,
questo sovrano imbelle, aveva già concesso autonomie ai comuni,
amnistie, aveva ridotto le tasse doganali, migliorato le condizioni dei
carcerati, dimezzato l’imposta sul macinato, aveva comprato grano
all’estero e lo aveva rivenduto sottocosto alla popolazione e agli
indigenti, quello che non fece mai Vittorio Emanuele II. La guerra i
Borbone l’hanno perduta per altre ragioni.
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Garibaldi. Ah, sì? Quali?
Francisco. Voi, caro Generale, siete stato uno strumento di forze
più grandi e potenti. La vostra è stata una conquista coloniale anglopiemontese che ha utilizzato un corpo di almeno venticinquemila
mercenari formato da ungheresi e zuavi, polacchi, indiani, e chissà
quali altre genti, che avevano già combattuto al soldo dei Francesi in
Algeria. C’erano anche soldati piemontesi in congedo e arruolati
ancora una volta per la bisogna come volontari. C’erano soldati
inglesi. Gli Inglesi vi appoggiavano perché volevano distruggere la
più grande flotta mercantile del Mediterraneo, quella del Regno delle
Due Sicilie, per liquidare il più pericoloso concorrente nei commerci
con l’Oriente, visto che stava per essere aperto il Canale di Suez in
Egitto.
Garibaldi. Fantasie. Pure fantasie, caballero! La storia è un’altra
cosa.
Francisco. È stata una guerra sporca. Dietro di voi c’era un’altra
bandiera. La storia poi ha raccontato un’altra storia, la storia dei
vincitori. Come sempre, purtroppo. Voi avete corrotto col denaro i
migliori generali borbonici, cioè i peggiori. I Piemontesi hanno
finanziato una guerra sporca per svuotare le casse grasse e ricche delle
banche del Regno delle Due Sicilie, per pagarsi i debiti fatti a Parigi e
a Londra. I Savoia erano fortemente indebitati con i banchieri
Rothschild di Francoforte. Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, e
perfino la vostra massoneria, voleva controllare le più di quattrocento
miniere di zolfo necessario per la sua flotta e il suo esercito, per
l’industria britannica, per dominare il mondo. La Sicilia, la miniera
del mondo. Gli Inglesi facevano sempre guerra a tutti i Paesi che
volevano rendersi autonomi e applicavano pesanti dazi. Così hanno
fatto guerra al Regno delle Due Sicilie, al Paraguay, agli Stati
americani. La Francia voleva che nascesse un grande Stato tra sé e
l’Austria. Ma i più intelligenti sono stati gli Inglesi, che sono riusciti
ad ottenere che nascesse un grande Stato tra l’Austria e la Francia per
dare più equilibrio all’Europa. Cioè per proprio vantaggio.
Garibaldi. Tu farnetichi, figliolo. Seguro. Quando la storia si
mette in marcia, non fa questi ragionamenti piccini, di bassa politica.
La storia è come un fiume impetuoso che porta al mare le scorie inutili
80
ma anche la sua linfa vitale, è come un esercito che calpesta l’erba ma
la trasforma in sentiero luminoso.
Francisco. ‘Azz, che poesia! Via, Generale, voi non potete negare
che è stata Londra a finanziare l’impresa. La massoneria inglese ha
finanziato la guerra con milioni di piastre d’oro turche. I vostri libri
contabili, i vostri registri, naturalmente poi li avete bruciati. Ma non
vorrete negare che le navi militari inglesi hanno protetto il vostro
sbarco a Marsala. O che vi hanno aiutato la mafia, i grandi proprietari
che avete comprato a suon di lire. Non è vero che vi siete incontrato di
nascosto il 14 maggio con i generali borbonici Landi e Anguissola per
accordarvi sul tradimento? A bordo di una nave ammiraglia della
marina inglese?
Garibaldi. Ehi, guapo, non gettare fango sulla tua terra! Su un
grande Paese! Ormai l’Unità d’Italia è consegnata alla storia. La storia
è un sogno. Non si cura di questi particolari. La storia è una corsa
travolgente verso un sogno.
Francisco. Un sogno! In questo sogno dell’Unità d’Italia gli
Inglesi ci avevano messo il becco già nel 1948. La rivolta del 1848 in
Sicilia era guidata dagli Inglesi, che suggerirono al governo di Napoli
di riconoscere l’indipendenza della Sicilia per appropriarsene.
L’Inghilterra voleva unire l’Italia e separare il Regno delle Due
Sicilie. Sempre per la storia dello zolfo che serviva per le loro
acciaierie. Dopo l’occupazione francese dell’Algeria, gli Inglesi
volevano controbilanciare l’accresciuta potenza navale francese nel
Mediterraneo. Voi siete stato uno strumento dei massoni inglesi. Gli
Inglesi poi si convinsero che senza una destabilizzazione interna, con
la complicità di vertici militari e civili, nel Regno delle Due Sicilie
mai ci sarebbe stata la conquista da parte del Piemonte.
Garibaldi. E che minchia! E che erano il Demonio, ‘sti Inglesi!
Francisco. Peggio. Gli Inglesi ce l’avevano coi Borbone anche per
la loro eccessiva fede cattolica, perché erano troppo vicini al Papa, e
perché si stavano avvicinando alla Russia, che voleva trovare uno
sbocco sul Mediterraneo. Ce l’avevano coi Borbone per la
persecuzione contro le sette massoniche, per la posizione strategica
dei porti del Regno delle Due Sicilie in vista l’imminente apertura del
Canale di Suez. Garibaldi. Minchia! Ce l’avevano col mondo intero,
‘sti Inglesi. Comunque, Inglesi o no, l’Italia si doveva fare, professù.
81
Francisco. No. Quella unione non si doveva fare, è stata una
catastrofe per l’Italia. I Piemontesi volevano saccheggiare tutto l’oro e
l’argento delle Due Sicilie, volevano rastrellare tutta la immensa
massa monetaria circolante nel Regno e sostituirla con pezzi di carta
inutile del Re savoiardo. Lo Stato italiano è nato con la corruzione,
con l’inganno, l’ipocrisia.
Garibaldi. Ahò, sì ‘na musica, guagliò! L’Italia si doveva fare
anche così. Non c’era altra via. Troppo sangue era stato versato.
Francisco. C’era un’altra via. Nel Parlamento del Regno di
Sardegna, voi eravate stato eletto fra i democratici, Generale. Molti
speravano in voi. Conoscevano il vostro sdegno per l’affare di Nizza.
Quell’impresa potevate ancora salvarla. Potevate create una
repubblica autonoma, indipendente dalla monarchia sabauda.
Garibaldi. Quell’impresa la voleva un tuo conterraneo,
giovanotto. Francesco Crispi. E non si poteva realizzare diversamente.
Francisco. Crispi aveva caldeggiato quell’impresa, ma faceva il
doppio gioco, incontrava voi e Mazzini ma era filo-monarchico: poi si
è visto.
Garibaldi. Io non potevo fare allora la guerra civile. Avrei avuto
contro non solo gli Italiani e i monarchici, ma anche la Francia e
l’Inghilterra.
82
Capitolo X
Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana volle vederci più
chiaro nei sogni dei Bardana su Garibaldi e nel tentativo di omicidio
di questi da parte di un suo avo. Quella volta l’Eroe dei Due Mondi
non era Garibaldi-Dio ma solo Garibaldi, e il sogno di Francisco
parlò con lui dell’Unità d’Italia, dell’Impresa dei Mille, del
Risorgimento, del Regno delle Due Sicilie, dei Borbone, della
massoneria, del socialismo, della storia, della verità e dei sogni.
Parte seconda
Cinque maggio 2011. Tarda mattina. Cimitero di Palma di
Montechiaro. Garibaldi davanti all’ingresso, seduto, pensieroso.
Francisco. Don Peppì, voi dovevate fare una rivoluzione vera.
Voi, un repubblicano. Un socialista. Il più intelligente si è dimostrato
il Re Vittorio Emanuele II, che era considerato il più coglione. Vi ha
mandato avanti, se perdevate, lui non avrebbe perso nulla, visto che
non si era fatto coinvolgere; se aveste vinto, come poi è successo,
avrebbe vinto pure lui. Come Cavour, l’altro furbacchione. Anche se
lui si sentiva scavalcato e non voleva che voi partiste, palesemente o
di nascosto, poi vi ha lasciato partire, ma non poteva compromerttersi
apertamente contro una monarchia potente come quella dei Borbone.
Cavour non vi ha mai stimato, e nemmeno il Re. Vittorio Emanuele II
non vi stimava, vi ha solo usato. Vi considerava un modesto
comandante e uno che si circondava di canaglie. Anche se voi con una
lettera avete cercato di coprirlo… Ah, gli intrighi, gli ambigui accordi
della rivoluzione italiana!
Garibaldi. Uhè, guagliò, non farmi così ingenuo! Conoscevo i
sentimenti del Re e di Cavour nei miei confronti. Non dimenticare mai
che stai parlando con un grande della storia! Gli uomini che hanno
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fatto l’Italia si odiavano un po’ tutti, ma avevano un obiettivo comune.
Questo li ha resi grandi. Ricordalo.
Francisco. Io ricordo anche che occorre smascherare l’impostura
della storia. Stranamente, le navi borboniche avvistarono in ritardo le
vostre navi, protette dagli Inglesi. Gli Inglesi non hanno fatto niente
per impedire lo sbarco. Un Risorgimento di traditori, caro Garibaldi.
A Marsala non pare che ci siano state scene d’esultanza della
popolazione, tutti rimasero chiusi in casa o fuggirono nelle campagne.
Solo gli Inglesi vi hanno accolto festosamente. Perché vi siete
rifugiato nell’isola di Mozia? Temevate la reazione popolare?
Garibaldi. Ehi, piccirì, io ho vinto battaglie epiche. Io sono un
titano della storia. Sguazzati la bocca prima di pronunciare il nome di
Garibaldi.
Francisco. Sì, ancora vi fa male a guallara. Tutte le vostre
battaglie vinte sono state una farsa militare.
Garibaldi. Ehi, amico, ora hai proprio scassato ‘o cazzo. Tutta
questa merda portatela a casa.
Francisco. La vostra è stata una conquista, la conquista del Sud.
Dove erano le masse, Generale? Quali masse vi seguivano, quali vi
appoggiavano, in quali campagne avete veduto le insurrezioni di
contadini? Guerriglia? Bande armate? Ma dove? La verità è che voi
avete portato sofferenze e orrori alle nostre popolazioni, e vi siete
appropriato del titolo di liberatore. Nel bene e nel male, Francesco II
era il legittimo re dei Borbone e dei meridionali, mentre Vittorio
Emanuele II era un sovrano sconosciuto e lontano.
Garibaldi. Io sono un liberatore di popoli, grandi popoli mi hanno
sempre seguito. Chi cazzo segue te?
Francisco. Popolo? Quale popolo vi seguiva nell’impresa? Vi
seguiva la feccia del popolo, briganti, uomini di malaffare, gente
senza coscienza morale e civile, che aspettava solo il bordello per
cavarci qualcosa, questi erano i vostri alleati. Avevate sparpagliato
agenti e spie piemontesi per seminare odio fra la popolazione. Le
persone perbene, invece, non avevano niente a che spartire con voi,
non potevano intendersi con voi, parlavano lingue diverse da quelle
che parlavano le vostre truppe. Questo era il vero popolo. Queste
persone avevano leggi, istituzioni diverse. Moneta diversa. La loro
moneta era di metallo sonante, prezioso, la vostra di carta. Avete
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messo a ferro e a fuoco case, terre e paesi, messi. Uomini illustri di
onesta e chiara fama, marescialli, generali, colonnelli innocenti ma
contrari ai Savoia, questo il loro unico peccato, furono assaliti nelle
loro case e incarcerati, arrestati, fucilati in massa, deportati chissà
dove. L’aristocrazia che non era d’accordo coi Piemontesi venne
cacciata via, mandata in esilio, i fuoriusciti di tutta Europa, i
delinquenti, si sono impadroniti del Meridione. Il Regno delle Due
Sicilie è stato invaso, occupato e conquistato. Altro che liberazione!
Garibaldi. Lo Stato borbonico era arretrato e il popolo sottomesso
e sfruttato. Questa era la condizione del tuo popolo, pezzo di merda!
Francisco. No. Offendete pure. Io continuo a sostenere che il
Regno delle Due Sicilie era uno Stato florido e potente, e Francesco II,
come i suoi predecessori, aveva saputo dare al suo popolo ciò di cui
aveva bisogno. Nel Regno c’erano città e capitali splendide, come
Napoli e Palermo. C’erano un’industria e un commercio, un
artigianato fiorenti. L’agricoltura era florida e ricca. C’erano l’esercito
e la flotta più potenti della Penisola, ma purtroppo con i peggiori
comandanti. Lo Stato borbonico era diventato il più grande, il più
ricco, il più potente degli Stati d’Italia. Uno dei più potenti d’Europa.
Garibaldi. I Borbone erano una casta di cattivi governanti, amigo.
Reazionari, arretrati, cattolici integralisti e ipocriti.
Francisco. Ferdinando II, Francesco II, erano ottimi principi. I
Borbone non erano un’entità estranea, erano meridionali anch’essi.
Avevano lo stesso sangue, gli stessi vizi e le stesse virtù dei
meridionali, e se mancava una vera costituzione liberale, questo era
una colpa dei liberali meridionali. La guerra non l’hanno persa i
Borbone ma i giovani napoletani e siciliani, i molisani, gli abruzzesi, i
pugliesi, i calabresi, i lucani. La guerra l’hanno perduta a causa del
tradimento, molti sono morti dimenticati dalla storia nelle squallide
prigioni sabaude. Hanno conosciuto la miseria, la barbarie,
l’emigrazione, il sottosviluppo, la malavita, e tutto questo è stato il
lascito dell’Unificazione.
Garibaldi. La guerra, anche se aiutati dai picciotti e dal popolo,
l’hanno vinta i Mille, gli eroici, epici, Mille!
Francisco. I Mille! Chi erano questi Mille! I Mille scappavano da
qualcosa. C’erano tra di loro militari inglesi, ufficiali ungheresi,
polacchi, turchi. Dopo i Mille vennero fatti sbarcare altri 22.000
85
soldati piemontesi che erano stati fatti disertare. L’unica vera battaglia
fu quella del Volturno, che i Borbone persero non per eroismo di
Garibaldi ma per insipienza del comandante borbonico. In realtà, voi
comandavate una teppaglia di canaglie.
Garibaldi. Non erano canaglie gli illuminati liberali meridionali
che hanno accolto con entusiasmo l’Unità. E questi non erano
fessacchiotti come i contadini. Erano borghesi colti, come i Mille che
sono venuti a liberare il Sud.
Francisco. I liberali meridionali! Che destino! Voi siete
responsabile del loro miserabile destino. Li avete convinti con false
promesse a diventare schiavi della borghesia del Nord. Hanno fatto
sparire fabbriche, macchinari, beni religiosi e demaniali; hanno
commesso ruberie, assassinii, si sono dati ad arricchimenti facili. Sono
diventati tutti collaborazionisti, tutti, grossi borghesi, massari
arricchiti sulla pelle di nobilotti borbonici decaduti, quelli che hanno
fatto carriera coi nuovi sfruttatori. Questi sono diventati i peggiori
nemici del popolo siciliano. Sono diventati i nuovi parassiti, quelli che
hanno venduto le nostre industrie al Nord. Nulla di nuovo sotto il sole,
è stato sempre così coi nuovi dominatori della Sicilia, sin dal tempo
dei Romani. E dopo la vittoria, con uno dei soliti falsi plebisciti, vi
siete annessa mezza Italia con dieci milioni di Italiani.
Garibaldi. Giovanotto, io non mi intendevo di economia e di
politica, queste discipline un po’ le ho studiate e capite dopo l’Unità.
Io, in quel momento, avevo una missione suprema da compiere, io
dovevo creare una Nazione, un popolo, uno Stato. In un tempo in cui
popoli di poco conto avevano già una patria, un grande Paese come
l’Italia non poteva restare ai margini della grande storia. Nessuno
poteva interrompere quella missione, quel destino.
Francisco. Sono stati gli stranieri a compiere quel destino. Sono
state le cancellerie inglesi, francesi e piemontesi a preparare lo
scellerato disegno di fare conquistare il Regno delle Due Sicilie ai
Savoia. I soldati garibaldini e piemontesi avevano fucili inglesi, molti
agenti segreti piemontesi e inglesi furono trovati morti, evidentemente
potevano dare fastidio. Militari e mafiosi li avete pagati con denaro
inglese, milioni e milioni di lire. Vi siete lasciata dietro una scia
infinita di chiese saccheggiate, fucilati, tra questi frati e preti, donne e
bambini uccisi, migliaia di prigionieri e di arrestati. I Piemontesi, voi
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coi vostri colori sgargianti, eravate come dei barbari, oppressori,
conquistatori. Vi pentirete di questa unificazione, e delle promesse che
non avete mantenuto, di dare una casa e un podere agli uomini che vi
hanno sostenuto.
Garibaldi. E daje! Sei una musica, giri sempre il solito disco. Io
dovevo unire l’Italia, le colpe e le responsabilità – se ci sono – dei
problemi creati dall’Unità non mi appartengono.
Francisco. Va bene, cambiamo registro. Parliamo della vostra
vita. Non mi pare che abbiate compiuto cose edificanti.
Garibaldi. Che hai da dire ora sulla mia vita? Vuoi continuare
ancora a gettare fango sulla mia vita? Io sono un liberatore dei popoli,
e tu sei un calunniatore, mascalzone!
Francisco. Da semplice mozzo a generale! Bella carriera, don
Peppì.
Garibaldi. Sì, e alla luce del sole. Certo, chi se lo sarebbe
aspettato che dopo mille e mille viaggi per mari ed oceani come
semplice mozzo mi sarei preso sulle spalle questo fardello! Non fu
facile convincere mio padre, ma fin da piccolo capii che c’era il mare
nel mio destino. Ho combattuto contro corsari e pirati, sono stato
fermo ammalato in porti lontani e in terre sconosciute. Divenuto
capitano, percorsi il Mediterraneo in lungo e largo, finché non conobbi
a Costantinopoli le idee mazziniane…
Francisco. Mazzini! Avete seguito ciecamente Mazzini, un
terrorista sanguinario, che ha fatto saltare in aria vascelli, come la
fregata Carlo III nel golfo di Napoli, uccidendo centinaia di persone
innocenti. Che ha attentato alla vita di re, in particolare di Ferdinando
II. Vogliamo parlare del fallimento di Pisacane e dello sterminio di
centinaia di poveri disgraziati? O dell’attentato a Napoleone III
dell’Orsini, otto morti e decine di feriti?
Garibaldi. Non è come dici tu. Senza la visione di Mazzini, senza
il suo sogno, l’Italia non si sarebbe fatta! Con lui compresi che
l’Unificazione dell’Italia era il momento iniziale della redenzione dei
popoli oppressi, guida luminosa per la liberazione dei popoli. Mazzini
ha cambiato la mia vita. Io, che avevo adottato l’umanità come patria
e mi ero fatto cosmopolita e avevo dato la mia spada e il mio sangue a
tanti popoli per liberarli dalla tirannide, non potevo non andare fino in
fondo a questo destino.
87
Francisco. Certo, condividete con il generale francese Gilbert du
Motier de La Fayette, eroe della rivoluzione americana, il soprannome
di eroe dei due mondi , però siete unico per molti aspetti. La vostra
effigie è su tutti i francobolli del mondo, in tutti i musei d’Italia si
possono trovare vostre testimonianze, tutte le piazze d’Italia vi
ricordano con statue e lapidi, il vostro nome ha dato origine a un
aggettivo audace e temerario. Moltitudini di storici, romanzieri, sono
stati affascinati dalla vostra figura. Eppure io credo che ci sia
un’esagerazione in tutto questo. In fondo, avete lottato per piccoli
popoli, siete stato più un guerrigliero che un grande capo
rivoluzionario come La Fayette.
Garibaldi. Giovinò, forse i popoli che liberavo erano piccoli ma
gli ideali grandi. Gli ideali mazziniani di libertà, uguaglianza, umanità
sono scolpiti ancora oggi nelle bandiere e nelle leggi nelle terre
dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul. Io lottai senza respiro contro
l’Impero del Brasile, contro tutti gli imperi.
Francisco. In verità, molti allora vi consideravano un cospiratore
pazzo, con poche idee.
Garibaldi. Amigo, io, che ho subito l’infamia di essere considerato
un cospiratore pazzo, un disertore e latitante per la causa mazziniana e
per gloriose rivolte e insurrezioni popolari mai realizzate, io che
riparavo presso fruttivendole e ostesse, io che viaggiavo sotto falso
nome ed ero vittima di epidemie e di colera, io ho liberato migliaia di
schiavi negri. Diventato colonnello della marina uruguayana, ho
compiuto mille imprese per la liberazione dei popoli del Sudamerica,
assedi, battaglie, spedizioni, per danneggiare il commercio marittimo,
e altre azioni per portare la rivolta dei popoli oppressi all’attenzione
dei grandi Stati europei. In Sudamerica ho propagandato le idee
mazziniane, ho conosciuto la Giovine Italia e fui a capo della Legione
italiana e non avevo neppure 28 anni.
Francisco. Oh, commovente! In realtà, voi e Mazzini siete stati i
sobillatori che hanno provocato la morte di tante persone innocenti.
Episodi di rivolta irrealizzabili, solo per provocare i governi. Voi siete
stato condannato a morte come cospiratore e come bandito, siete stato
un marinaio della flotta piratesca di Hussen Bey, Signore di Tunisi.
Garibaldi. Io non sono stato un bandito, io inseguivo le idee, la
Giovine Italia, la carboneria…
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Francisco. Voi siete stato un avventuriero che si celava sotto i
nomi di Giovine Italia, carboneria, massoneria. Oh, la carboneria! Che
cosa facevano i carbonari? Le sette carbonare, come la Società
Nazionale con a capo Daniele Manin, avevano il preciso compito di
organizzare azioni terroristiche e favorire la diffusione della stampa
massonica che aveva il fine di influenzare l’opinione pubblica
attraverso la pubblicazione di menzogne che screditavano i governi
dell’Austria, dello Stato della Chiesa, del Regno delle Due Sicilie.
Garibaldi. Non infangare il nome della carboneria, cosa inutile!
Francisco. Va bene. Torniamo al Sudamerica. In Sudamerica,
razziatore, pirata, avete assalito navi mercantili isolate, avete ucciso
inermi marinai delle navi catturate, avete assalito villaggi di contadini,
rubato oggetti, violentato le donne. Non vi facevate vedere l’orecchio
destro, perché vi era stato staccato con un morso da una ragazza che
volevate violentare, e per questo portavate i capelli lunghi.
Garibaldi. Ora hai rotto i coglioni, nullità, rottame della storia!
Francisco. Voi siete stato imprigionato per una efferata rapina
durante la guerra tra Argentina e Uruguay, la guerra l’Argentina l’ha
persa perché la flotta anglo-francese…
Garibaldi. Basta, miserabile!
Francisco. E poi Anita. Il marito di Anita, Duarte, è morto di
crepacuore perché gliela avete rubato, Anita, e il Duarte lo avete
ferito, malmenato. Questa è la verità della vostra vita. Quella nascosta.
Garibaldi. Pulisciti la bocca quando parli di Anita, pezzente!
Quando conobbi Anita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, aveva
diciotto anni, era una ragazza meravigliosa. Capii che faceva parte del
mio destino. Ma devo andare, con te non c’è nessuna possibilità di
dialogo. Tu sai solo provocare ed offendere.
Francisco. No, continuate la vostra epopea. Faremo i conti alla
fine.
Garibaldi. Non mi tiro certo indietro. Tornato nel 1848 per la
guerra di Indipendenza contro l’Austria, le cocenti delusioni, con
Mazzini, con Carlo Alberto, le incomprensioni, le sconfitte. Poi, la
difesa della Repubblica Romana, la caduta di Roma, la sconfitta, la
fuga, l’asilo a San Marino e la morte di Anita, sepolta come una cagna
in un terreno isolato e incolto. Infine, Gibilterra, Tangeri, Liverpool,
New York, la coabitazione con Meucci, la navigazione, i commerci, il
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Perù, la Cina, le Filippine, l’Australia, Boston. E poi ancora l’Europa,
sempre Mazzini, l’acquisto di Caprera, la fattoria, la produzione di
olio d’oliva, le vigne, l’allevamento di bovini, polli, capre, maiali,
asini. Insomma, divenni contadino e allevatore.
Francisco. Meno male che c’era il problema dell’Unità d’Italia,
altrimenti l’Italia avrebbe conosciuto un Garibaldi imprenditore. Altro
che generale, patriota e condottiero. Uomo politico. Certo, una vita
avventurosa.
Garibaldi. Sono commosso per gli elogi, giovanotto. Ti stai
sprecando. Poi l’incontro con Cavour nel 1858, i Cacciatori delle Alpi,
la Guerra di Indipendenza del 1859, la gloria di Bezzecca, le epiche
battaglie, le vittorie, la gloria. Sconfissi grandi comandanti austriaci,
poi ancora umiliazioni: mi mandavano in scenari bellici di periferia,
mi toglievano il comando, ma tutto sopportavo per amore dell’Italia.
Figliolo, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, il sogno, la mente, la
forza, ciascuno a suo modo, furono uomini più grandi di me. Io però
ebbi un’occasione unica, irripetibile, che non mi sarebbe capitata più
nella vita, nessuno poteva fermare quel destino. Io ero l’uomo del
destino.
Francisco. Un destino glorioso, eppure Vittorio Emanuele II non
si fidava di voi.
Garibaldi. L’invidia della gloria. Ma l’Italia aspettava me. Solo
gli armistizi poterono fermare la mia furia, io trasformavo eserciti di
riserva e di volontari in potenti dispiegamenti di forza, come accadde
nell’impresa di Digione durante la guerra franco-prussiana del 18701871. Io presi l’unica bandiera tedesca della guerra, la mia fu l’unica
armata a dare gloria alla Francia. Solo io, lo disse anche Victor Hugo,
sono intervenuto a difesa della Francia, io avevo capito allora dove
avrebbe portato il militarismo prussiano, a Hitler!
Francisco. Non vi scaldate, Generale. Restiamo nell’Ottocento,
per carità.
Garibaldi. La mia fama attraversò gli oceani. Mi vollero a capo
dell’esercito nordista nella guerra civile americana. Io però volevo un
impegno deciso per l’emancipazione degli schiavi negri, non mi
diedero nessuna certezza, e allora rifiutai, era una guerra che non mi
interessava. Poi fui accolto trionfalmente a Londra nel 1864 ed
incontrai Henry John Temple, Terzo Visconte Palmerston, e Mazzini.
90
Francisco. Forse volevate essere nominato comandante in capo di
tutto l’esercito nordista, per questo non vi diedero l’incarico. Per le
vostre ambizioni, stavate perdendo la testa. Eravate una mezzatesta,
Generale. La follia dell’Aspromonte del 1862, volevate marciare verso
Roma contro i Francesi unici amici del Regno d’Italia, che cazzata!
Tentativo velleitario, senza senso. Ancora morti. E poi l’altra follia del
’67, con il sacrificio inutile dei fratelli Cairoli e di altri che furono
decapitati. Roma, una città che non conquistaste mai! L’onta di
Mentana, e sempre l’arresto. Voi, un deputato del Regno, un eroe!
Garibaldi. Fui tradito dai romani, che non sono stati mai capaci di
una rivoluzione. Io ero un precursore, pochi mi capirono. Non fui un
avventuriero. Io fui difensore dei diritti degli animali, fondai in Italia
la prima società per la protezione degli animali e divenni vegetariano
per questo. Gli animali e le piante hanno un’anima e noi dobbiamo
rispettare la natura proprio per questo. Fui favorevole al suffragio
universale
e
all’attuazione
della
piena
democrazia,
all’autodeterminazione dei popoli. Fui poeta e scrittore, storico. Mi
battei per l’abolizione della pena di morte.
Francisco. Siete stato anche un massone.
Curioso che
l’unificazione italiana sia opera del Gran Maestro del Grande Oriente
di Palermo e d’Italia, col 33° grado del Rito scozzese.
Garibaldi. Guagliò, mettiti il cuore in pace: il Risorgimento
Italiano e gran parte della storia moderna sono opera della massoneria.
Sì, è vero, fui massone, e raggiunsi i vertici della massoneria, ma
allora la massoneria esprimeva valori che hanno fondato le Nazioni e
la civiltà moderna.
Francisco. Siete stato un anticlericale pervicace.
Garibaldi. Fui anticlericale ma non anticattolico, ero contro i preti
discendenti di Torquemada, nemici del genere umano e dell’Italia.
Francisco. Non vorrete dirmi che eravate un fervente religioso?
Garibaldi. Io non ero ateo. Io vedevo nella Chiesa il maggiore
ostacolo all’Unità d’Italia. Ma io credevo in Dio.
Francisco. Via, lo sanno tutti che avete frequentato società atee e
razionaliste negli ultimi anni della vostra vita.
Garibaldi. È vero, ma io ho sempre creduto in Dio e
nell’immortalità dell’anima.
91
Giuseppe Garibaldi, checché se ne dicesse allora, cioè che ero
corto di senso, aveva troppa ricchezza di spirito per escludere Dio dal
suo orizzonte religioso e culturale. D’altra parte, non potevo
dimenticare che preti e monaci avevano combattuto per me e per
l’Unità d’Italia e la liberazione dei popoli oppressi.
Francisco. Anche il vostro socialismo, per la verità, era un po’
confuso.
Garibaldi. Io credevo nell’unico socialismo possibile, quello
democratico. Democrazia socialista. Un socialismo umanitario,
impregnato di principi etici e di valori cristiani. Ero contro il
socialismo marxista e il collettivismo anarchico bakunista. Io che
avevo combattuto per la libertà di tutti i popoli, che sentivo come mia
la causa della libertà di tutte le Nazioni, avevo un grande spirito e una
grande coscienza internazionalista. Io sognavo una società più giusta e
più umana, fondata sulla classe dei lavoratori. Una società in cui lo
Stato interviene nella vita sociale ma per garantire progresso e i diritti
e i principi etici dei cittadini. Io ero per la solidarietà umana,
l’emancipazione politica e sociale delle classi più povere e sfruttate,
per l’affermazione dei valori della famiglia, della patria e della
solidarietà umana e sociale. La repubblica è la sola forma di governo
degna di un popolo libero, soltanto la democrazia può rimediare al
flagello della guerra. Solo lo schiavo ha diritto di fare la guerra ai
tiranni. La proprietà privata, come la cooperazione, o le varie forme di
associazione, non sono altro che strumenti e mezzi del progresso
sociale. Ti sembrano cattive idee queste? La storia mi ha dato ragione.
Francisco. Non sono sicuro che fossero veramente queste le
vostre idee. La vostra mente è parsa sempre un po’ confusionaria.
Però, devo ammetterlo, su una cosa non avevate confusione. Voi,
l’eroe nazionale degli Italiani, un titano della storia, uno dei
personaggi storici più famosi al mondo, così debole!
Garibaldi. Su che cosa fui debole?
Francisco. Le donne. Quante donne, Generale! Vi piaceva la figa,
ah!
Garibaldi. Figliolo, non scendiamo troppo in basso! Sì, ho amato,
ho tanto amato. Ma, in verità, io cercavo sempre Anita, perché ho
amato solo Anita. Dalla nobile inglese Emma Roberts alla contessa
Maria Martini della Torre, alla nipote di Gioacchino Murat, Paolina
92
Pepoli. E Maria Esperance von Schwartz, Battistina Ravello, la
fedigrafa Giuseppina Raimondi, la mia terza moglie Francesca
Armosino. In loro io vedevo sempre Anita.
Francisco. Che varietà! Nobili, domestiche, puttane! Giuseppina
Raimondi! Anche i grandi possono subire l’oltraggio delle corna!
Garibaldi. Già. Ma è pure un modo per sentirsi mortali. È giusto
che possa accadere l’oltraggio delle corna.
Francisco. E quanti figli, Generale! Otto quelli ufficiali.
Domenico Menotti, Rosa, Teresita, Ricciotti, da Anita. Un’altra Anita
la aveste dalla Ravello. Clelia, Rosita, Manlio dalla Armosino. E
quelli illegittimi, Generale? Vogliamo parlare di Giannina Repubblica
Fadigati…
Garibaldi. Figliolo, io ho avuto una vita gigantesca. In una tale
vita si possono commettere anche errori. I miei amici Fadigati
volevano allevare un figlio di sangue garibaldino, e accettai di
fecondare la signora Fadigati più che per amor patrio per vanità. Lo
ammetto: ho sbagliato. Non dovevo. I figli devono nascere dall’amore.
Ma ora devo andare, amico mio. Sono stanco, centocinquanta anni di
storia e di morte cominciano a farsi sentire.
Francisco. Dovremmo parlare di Nizza, Generale. Vi accusano di
aver fatto poco affinché Nizza tornasse italiana…
Garibaldi. Nizza? Io lottai sempre disperatamente affinché Nizza
tornasse italiana, anche come membro dell’ Assemblea Nazionale di
Bordeaux. Dopo la proclamazione della Terza Repubblica francese,
nel 1871, tentai inutilmente di far abrogare il Trattato di Torino del
1861, con il quale Vittorio Emanuele cedette Nizza a Napoleone III.
Da qui i Vespri nizzardi, la repressione militare, le mie dimissioni
dall'Assemblea Nazionale… non mi fare parlare, va.
Francisco. Dove andate, Generale? Vi siete innervosito?
Garibaldi. È che mi hai rotto i coglioni, oggi.
Francisco. Perché, Generale, molte delle cose che ho detto non
sono forse vere?
Garibaldi. Amico mio, si potrebbero scrivere ancora migliaia di
libri, la verità definitiva sull’Unità d’Italia non si saprebbe mai. In una
rivoluzione, poi, non tutte le cose si possono controllare. La verità
cammina, è sempre un passo più avanti della storia. La storia non dà
mai verdetti definitivi. La storia procede spesso in modo tortuoso.
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Possiede la storia solo chi possiede la verità. Ma la verità non sta
sepolta nei libri o nelle memorie. La verità cammina. È come lo spirito
del tempo. Le forze immani della storia e lo spirito del tempo in quegli
anni avevano deciso che l’Italia, la Germania, andavano unificate.
Così doveva essere e così è stato. La verità è come un sogno, che non
si può fermare. Solo gli uomini che hanno un sogno fanno la storia. La
verità la possiedono solo gli uomini che hanno un sogno. La verità è
un sogno che vola alto sulle miserie umane.
Francisco. E voi avevate questo sogno, l’Unità d’Italia.
Garibaldi. Sì, Francisco. Questo era il mio sogno. Io ho creato
l’Italia, il progresso, la storia. Io sono il fondatore dell’Italia moderna,
Paese guida della civiltà del mondo. E l’altra verità è che tu invece sei
dalla parte sbagliata della storia. Nel bene e nel male, l’Italia andava
fatta, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla storia, schiacciata da
forze immani come l’Impero Austriaco, la Germania, la Francia,
l’Inghilterra, la Russia, l’America.
Francisco. Capirai che guadagno! Bella cosa oggi l’Italia di
Dante, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leopardi, Galilei,
Verdi!
Garibaldi. Mon ami, in centocinquanta anni ci sono state tre
guerre coloniali, cinque emigrazioni di massa, l’assassino di un re, la
dittatura fascista, due guerre mondiali, la caduta della monarchia, la
perdita di tutte le colonie, la guerra civile, la Repubblica, il terrorismo,
le stragi, il boom industriale, le crisi economiche, gli scandali, la
mafia, la disoccupazione, le lotte per i diritti civili, almeno cinquanta
governi inutili o criminali, e l’Italia ancora esiste. L’Italia oggi è una
delle nazioni più ricche e industrializzate del mondo, faro di progresso
e di civiltà nel mondo. E questa nazione l’ho creata io… Perché
sorridi?
Francisco. Ho voluto provocarvi, Generale. È stato tutto uno
scherzo. Forse di cattivo gusto, lo riconosco, ma è stato uno scherzo.
Avete ragione voi, la verità cammina. La verità è un sogno. E io credo
nei sogni. Io questa notte ho sognato voi, Generale.
Garibaldi. Davvero? Ancora? E come mi hai sognato, Francisco?
Francisco. Sì. Vi ho sognato come un Garibaldi-Dio. O un Dio
garibaldino. Ho sognato Garibaldi-Dio a cavallo sotto il più alto degli
eucalipti della mia campagna, aveva il moschetto nella mano sinistra e
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una lunga spada nella mano destra dentro un fodero di metallo nero,
alla cintola un pugnale e un revolver col manico d’osso bianco, stivali
di cuoio nero, una stampella che aveva scritta sul manico la parola
Aspromonte. Cavalcava la cavalla Marsala, era con le redini attaccate
a un ramo dell’eucaliptus e nitriva e recalcitrava, alzava la testa e
guardava la soma immortale sulla groppa. Garibaldi-Dio aveva una
fluente e folta, bellissima, barba bionda, capelli lunghi e lisci, pure
essi biondi, occhi azzurri, luminosi e penetranti. Indossava una
camicia, rossa, e i pantaloni azzurri, una stella a sette punte sul petto,
un fazzoletto blu intorno al collo che aveva disegnati i simboli della
massoneria. Fumava un sigaro toscano che faceva ampi cerchi
nell’aria. Un Dio che fumava. Per un momento scambiai GaribaldiDio per uno dei falsi profeti e ciarlatani che da sempre si aggirano nel
mio paese, ma questo Garibaldi somigliava troppo a Dio per non
essere Dio, Dio era Garibaldi. Un Dio guerriero e patriota, mi diceva
che aveva sofferto ed amato, che aveva combattuto, era un Dio severo
e austero. Mi diceva che lui era il mitico, leggendario, solenne,
immortale, immenso eroe nazionale italiano e che era anche Dio. Solo
Cesare, diceva, poteva contendergli la palma di eroe nazionale-Dio,
ma Cesare era un pagano e lui invece era un cristiano, era un
Garibaldi-Dio del glorioso Ridorgimento. Garibaldi-Dio voleva
l’Unità d’Italia. Alla fine Garibaldi-Dio ha sguainato la spada di
Calatafimi, ha gridato “Qui si fa l’Italia o si muore!”, ha lanciato il
tremendo monito di Dio, ha spronato la cavalla Marsala verso
l’orizzonte, verso le campagne e le città, le immortali vestigia d’Italia,
poi si è dileguato ed è salito sulle nuvole come un Dio.
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Capitolo XI
Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia
Di quando il sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro
nei sogni dei Bardana su Umberto I Savoia Re d’Italia e nel tentativo
di omicidio di questi da parte di suo padre e suo nonno. Quella volta
il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, del
Risorgimento, del regicidio, della Monarchia dei Savoia, della storia
del Novecento, del fascismo, della verità e dei sogni.
Parte prima
Umberto I. Ehi, tamarro, dunque tu sei figlio di quel giovanotto
scalcagnato che con suo padre ormai vecchio e rincoglionito voleva
spararmi sui coglioni?
Francisco. Oh, Dio! Che baffoni enormi!
Umberto I. Non sono Dio, coglione! E i baffi sono un segno
regale. Sono il Re che tuo padre e tuo nonno volevano ammazzare.
Tanti cercarono di uccidere me, tanti fallirono. Potevate riuscirci voi,
ma non dovevate. Già tuo nonno ci aveva provato con Garibaldi, poi
tu e tuo padre stavate per….
Francisco. Maestà, perdonate. Però, il fatto è che qualche
peccatuccio lo avete commesso, voi e tutti i Savoia. Per questo anche
noi volevamo uccidervi. Siete stati una dinastia di regnanti mediocri.
Umberto I. Forse io fui un re mediocre, forse i Savoia furono
mediocri, ma erano uno strumento di Dio. E voi Bardana non siete mai
stati un cazzo.
Francisco. Maestà, non dovete approfittare della vostra posizione
per offendere. Voi Savoia non meritavate di governare l’Italia. Non
siete nemmeno italiani, venite da lontano. Che cazzo di interesse
avevano gente come voi ad amare l’Italia? L’unità d’Italia è stata un
fallimento.
Umberto I. Modera i termini, bifolco. Ho già sentito queste
chiacchiere. La verità è che voi Bardana avete sempre voluto uccidere
96
l’Italia. Voi però siete stati dei vigliacchi, oppure siete sempre arrivati
in ritardo, pigri, indolenti, sempre un passo più indietro della storia. E
poi un Savoia non poteva farsi ammazzare da due terroni.
Francisco. Noi saremo dei terroni, ma voi non siete nemmeno
italiani, cazzo. Parlavate dialetto piemontese e francese quando è stata
unificata l’Italia, non italiano.
Umberto I. Perché voi che parlavate, tamarri che non siete altro?
Solo dialetto siculo, ah? E da dove venite voi, ah? Dall’Africa? Voi,
col vostro nome, e col vostro lignaggio, volevate passare alla storia
uccidendo un re Savoia?
Francisco. Perché, quel Bresci, che lignaggio aveva? Meritava di
passare alla storia questo coglione di Bresci, un emigrato dandy, un
donnaiolo, e forse anche garruso, e non un figlio della terra come i
Bardana?
Umberto I. Almeno non era terrone come voi.
Francisco. E daje! Noi saremo terroni, ma voi che siete? Siete
stati tutti incestuosi, per millenni non avete fatto altro che sposarvi tra
voi, scopare tra voi, cugini che sposavano i cugini, e vedete che
risultato. Re nani, re lunghi lunghi, alti, re froci, re minchia…
Umberto I. Ehi, pirla, neh? Ora stai rompendo le palle.
Francisco. Ma chi cazzo erano questi Savoia, di origine bastarda?
Voi discendete dagli Asburgo, dai Lorena, dalle casate di Borbone,
Sassonia-Curlandia, Lorena-Armagnac, von Corvin-Krasinska, AssiaRotenburg, Savoia-Carignano, altre casate di Polonia, Austria,
Germania, Francia, che manco me lo ricordo tutte ora…
Umberto I. Noi siamo italiani dalla testa fino all’ultimo pelo dei
coglioni, bischero! Il nostro capostipite era Berengario II d’Ivrea,
deposto nel 961 da Ottone I. E poi il conte Umberto I Biancamano che
ottenne dall’imperatore Corrado II la contea…
Francisco. Cazzate! Dopo che vi siete pappata l’Italia, alcuni
cosiddetti studiosi vostri scagnozzi hanno cercato un’origine italiana.
La vostra dinastia ha ascendenze lotaringie, viennesi e provenzali. Per
la precisione discendete, per linea femminile, da Lotario II di
Lotaringia…
Umberto I. Ora hai cacato il cazzo, verme! I Savoia discendono,
se vogliamo essere precisi, da Amedeo I detto il Coda e Oddone…
97
Francisco. Ehi, non offendere, Re! È la storia che vi ha fatto
diventare grandi, a voi Savoia! Voi non eravate una minchia! Siete
una dinastia che viene dalla Borgogna, dove avete ottenuto il feudo
della Contea di Savoia, e poi con matrimoni ed eredità anche titoli e
prebende. Eravate una dinastia minore che dipendeva dai francesi, poi
avete capito che in Francia non potevate fare un cazzo – non è che ci
voleva tanto a capirlo - e rivolgete gli appetiti verso l’Italia. E portate
la capitale da Chambéry a Torino. Francesi! Anzi, Tedeschi! Che è
anche peggio. Sì, perché le origini della vostra famiglia risalgono al
sassone Vitichindo…
Umberto I. Ehi, terun! Devo continuare ad ascoltare ancora le tue
stronzate? Parlo ora io delle vostre origini? Per la verità, non saprei
nemmeno da dove cominciare, non esiste un vostro albero
genealogico, non avete contato mai un cazzo nella storia. Forse avete
un’origene araba, berbera. Bar-dan, boh…
Francisco. Maestà, lasciamo perdere, ché queste cose non
interessano agli italiani, e nemmeno ai sogni. Però, che è stata la
Sicilia a farvi diventare re, cazzo, questo lo riconoscerete, no?
Umberto I. Noi eravamo già re! Noi avevamo la Corona
di Cipro, Gerusalemme e Armenia, Avevamo ereditato questi
domini…
Francisco. Sì, con la minchia che eravate re! Titoli di carta!
Umberto I. Beh, sì, dai. I Savoia ebbero effettiva dignità regia nel
1713, dopo la guerra di successione spagnola, ottenendo la corona del
Regno di Sicilia. Questo te lo concedo, mangiamacco. Barattato poi
con quello di Sardegna nel 1720. Ma i tempi erano maturi, i Savoia
dovevano diventare re per fare l’Italia…
Francisco. Capirai che bella cosa! L’Italia non andava fatta, caro
Sire! L’Italia unita è una cosa contro il Sud. La conquista del Regno
delle Due Sicilie è stata una aggressione internazionale favorita dagli
inglesi…
Umberto I. Eh, che lagna! I soliti disfattisti dei Bardana! Guarda
che stai sognando Umberto I di Savoia, non Peppino Garibaldi. Basta!
E che cazzo!
Francisco. Va bene, cambiamo registro. Allora, ditemi: Voi
Savoia, che minchia avete fatto per l’Italia, ah?
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Umberto I. Beh, tante cose, misero te. Io personalmente ho
cercato di dare equilibrio alla nascente democrazia, promuovendo
riforme sociali a favore dei ceti meno abbienti. Ho cercato di
combattere gli estremismi repubblicani e irredentistici, di rilanciare
l’economia nazionale, di porre fine all’isolamento internazionale
dell’Italia e di aumentare il suo prestigio in politica estera.
Francisco. Bella politica estera! Avete fatto occupare nel 1881 la
Tunisia ai Francesi senza fare una minchia, una politica estera debole,
da pappamolla. Anche irrazionale. Vi siete alleato con l’Austria e la
Germania, paesi imperialisti, militaristi. Avete realizzato la politica
del ndo cojo cojo.
Umberto I. Che dovevo fare, stronzo? Come potevo evitare
l’isolamento internazionale dell’Italia? Tutti facevano alleanze, e
l’Italia rischiava di rimanere isolata. Pure il papa Leone XIII rompeva
i coglioni, macchinava coi ministri degli esteri stranieri per ripristinare
il dominio dello Stato Pontificio. Avevo bisogno dell’appoggio
dell’Austria, la nazione cattolica più prestigiosa. Così avrei disarmato
il Papa. Anche l’alleanza con la conservatrice Germania era un
deterrente contro i movimenti repubblicani di ispirazione francese e
contro quelle potenze straniere che potevano avere qualche grillo per
la testa in merito a un nuovo ristabilimento del potere temporale dei
papi. Ma capisci di politica te, pirla?
Francisco. Così però avete fatto gli interessi di Bismarck, che era
un isolato. E dell’Austria, che così poteva calmare i
moti irredentistici nei territori italiani in suo possesso. Ni capisciu
puru iu di politica, Maistà!
Umberto I. Prima o poi, questo delle terre irredente era un
problema che andava risolto. D’altra parte, le stesse rivendicazioni noi
potevamo pretenderle nei confronti della Francia e dell’Inghilterra per
Nizza, la Corsica e Malta. Ma in quel momento il nazionalismo
andava frenato. L’alleanza era un patto difensivo. Io facevo una
politica moderna. Internazionalista. Io feci diventare l’Italia una
grande potenza, le diedi prestigio internazionale. Occupai l’Eritrea e
la Somalia…
Francisco. Parliamo dell’eccidio di Dogali…
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Umberto I. Disfattista! Vuoi parlare solo delle cose negative. Io
accolsi i superstiti dell’eccidio come eroi del Risorgimento, anzi
meglio, ma allora l’Italia non era pronta per l’epopea coloniale.
Francisco. Lasciamo perdere l’Africa, e il Negus e Menelik, e i
sultanati somali, la disfatta di Adua. Neanche in politica interna avete
fatto cose edificanti.
Umberto I. È in politica interna, invece, che raggiunsi i migliori
risultati, gnurant! Fui molto solidale con le popolazioni colpite da
calamità, verso i siciliani colpiti dall’Etna, i veneti devastati dalle
piogge. Sono andato in soccorso dei napoletani massacrati dal
Vesuvio, ho debellato l’epidemia di colera a Napoli.
Francisco. Minchia, chi sforzo! Questo è il minimo che deve fare
un re!
Umberto I. Ah, sì? Ti sembra poco, allora, avere abolito col
codice Zanardelli la pena di morte? E, per l’epoca, aver portato gli
elettori da 650.000 a due milioni? Abbassando il censo da 40 a 19 lire
annue e l’età da 25 a 21 anni? Io abolii la tassa sul macinato, il corso
forzoso, e realizzai un vasto programma di riforme sociali. Io cercai
sempre di fare rispettare e di rispettare io stesso le leggi.
Francisco. Minchiate! Sotto il vostro regno ebbe inizio la
spudorata pratica del trasformismo, con la Destra e la Sinistra
mischiate in un unico calderone. Voi eravate un conservatore
reazionario, un re autoritario, avete represso col sangue i moti di
Milano, povera gente che era affamata, avete quasi raddoppiato il
prezzo del pane, cazzo che liberale! Cento morti e cinquecento feriti!
L’esercito contro i civili! Belle leggi! Scioglimento delle
organizzazioni socialiste, cattoliche e radicali, dei partiti, delle leghe
del lavoro, fu una svolta autoritaria, conarresti di esponenti politici,
soprattutto socialisti, limitazione della libertà di stampa, stato
d’assedio. Alla faccia dei diritti civili e della libertà!
Umberto I. L’Italia in quel tempo era un bordello, amico!
Insurrezioni, caos, rivolte, come quella della Lunigiana, i moti di
Milano, i Fasci siciliani. E dovevo pure stare attento perché volevano
farmi la pelle.
Francisco. Voi giravate l’Italia per farvi pubblicità, e per
conquistare donne, e certi facchini volevano farvi la pelle! Chi
bastardi!
100
Umberto I. Lascia perdere questa stupida ironia, stronzetto!
Nessun re fu così clemente verso i suoi attentatori come Umberto I.
Perdonai tutti. Prima ci provò un tale Alberigo Altieri, ma nessuno si
avvide del tentato omicidio. Il giorno dopo, l’anarchico Giovanni
Passannante, che a Napoli, il 17 novembre 1878, mentre mi facevo
largo tra la folla su una carrozza scoperta, si lanciò contro di me
facendomi ferire con la mia stessa spada. Commutai la condanna a
morte in carcere a vita. Perdonai anche Acciarito, che, armato di
coltello, a Roma, all’ippodromo delle Capannelle, cercò di uccidermi,
ma io non potevo morire accoltellato su una carrozza. Sarebbe stato
disdicevole per un re, per un Savoia poi. Anche con lui, fui generoso,
ebbe l’ergastolo ma non la pena di morte.
Francisco. Oh, certamente. E come al solito, avete fatto la solita
retata di socialisti, anarchici e repubblicani. E avete ammazzato quel
Frezzi in carcere che aveva solo una foto dell’attentatore… Peccato
che non avete potuto graziare Bresci.
Umberto I. Stava a me scegliere il mio assassino. Un Savoia
doveva immolarsi al tempo nuovo che avanzava. Quel 29 luglio del
1900 al concorso ginnico di Monza non indossai apposta la maglia
protettiva sotto la camicia. Solo i grandi capiscono il loro destino, non
gente come i Bardana.
Francisco. Già. E voi sceglieste Gaetano Bresci. Perché?
Umberto I. Per esclusione. Bresci era un anarchico, un uomo
colto, anche se donnaiolo. Lo conoscevamo, era stato schedato come
anarchico pericoloso, era stato relegato a Lampedusa. Lo seguivamo
anche in America, dove andò nel 1896. Sapevamo della sua presenza a
Milano qualche settimana prima dell’attentato, era qui per spiare i
miei movimenti e le mie abitudini. Io dal 21 luglio ero in villeggiatura
estiva nella Villa Reale di Monza. Come avvenne il regicidio è storia.
Tre colpi di rivoltella al cuore, alla spalla, al polmone mentre in
carrozza mi accingevo a tornare nella Villa Reale dopo avere assistito
a un saggio ginnico. Alle 22.30 di quel giorno doveva concludersi la
mia esistenza. Tre colpi di pistola sulla carrozza, in mezzo alla folla.
Così muore un re. Anche lui fu graziato, da mio figlio Vittorio
Emanuele II. Figliolo, i tempi erano maturi per il regicidio. Ma le
capisci le cose, te?
101
Francisco. Graziato, ma morto in circostanze strane. L’arresto
facile, la morte misteriosa, il finto suicidio. Mah, se aveste scelto mio
padre e mio nonno forse non ci sarebbero stati tutto questo scalpore e
questi misteri. Ma certo non stava bene che un re Savoia fosse
ammazzato da due viddani meridionali.
Umberto I. Vedo che sei duro di testa ma ogni tanto afferri
qualcosa. Sapevo tutto anche di loro. La polizia me li segnalò.
Vestivano con abiti neri, strani. Mangiavano soli, in luoghi isolati. Si
muovevano male, si fecero notare. Alloggiavano in una pensioncina
vicina a quella di Bresci. Me li feci portare nella Villa Reale di
Monza. Dissero che erano padre e figlio. Non volevo crederci ma era
vero: un padre di 70 anni e un figlio di 17. La polizia sequestrò loro un
coltello e un vecchio revolver a cinque colpi, quasi identico a quello di
Bresci. Davanti a me balbettavano, erano storditi: dal lusso, dal fatto
di trovarsi davanti al re d’Italia. Si guardavano sbigottiti. Che cosa
volevate fare con quella pistola, chiesi loro. Uccidervi, Maestà,
dissero candidamente. E perché, domandai ancora. La Sicilia è alla
fame, e voi siete contro il Sud, e avete represso i Fasci siciliani, mi
dissero. Beh, dissi, comprendo le vostre ragioni. Però tornate a casa,
avete famiglia. Le cose stanno cambiando. Mi ucciderà qualcun altro,
lo so. Pagheranno altri. Francisco il padre mi confessò che nel 1860
voleva uccidere Garibaldi ma non lo fece. Allora non è destino, dissi
io. Non è tempo che un Bardana uccida un re. I Bardana non meritano
di cambiare la storia. Andate, dissi, questo non è il vostro secolo,
imporrò il silenzio su tutta la vicenda. Si guardarono, annuirono,
andarono. E io imposi il silenzio su tutta la vicenda.
Francisco. Mio padre e mio nonno volevano uccidervi perché la
Sicilia era nella merda, Maestà. Le terre dei baroni falliti le avevano
comprate altri baroni e feudatari e gabelloti arricchiti, che così
ingrandirono ancora di più i loro latifondi. Non si formò una classe di
piccoli e medi proprietari. I contadini poi diventarono più poveri
perché persero anche i diritti comuni e gli usi civici che la feudalità
concedeva.
Umberto I. Cazzate! Sono menzogne che ti hanno raccontato a
scuola. Non mi fare lo storico adesso, Francisco.
Francisco. È la storia che parla, non lo storico, Maestà. Chi è, vi
scantate della storia, ah? Voi vi siete servito di quello impestato di
102
Crispi per reprimere i Fasci Siciliani e questo Crispi di merda è stato
un esecutore spietato, si è scagliato contro la sua Sicilia, contro i
Fasci, l’unico vero movimento democratico e socialista capace di
sfidare la mafia dei gabelloti e la rassegnazione. Un movimento
popolare formato da braccianti, proletariato urbano, operai, contadini,
minatori, zolfatai, donne, intellettuali.
Umberto I. Non si può protestare contro la proprietà, contro lo
Stato, che rappresenta tutti, amigo.
Francisco. Anche mio padre e mio nonno facevano parte di questo
Stato, amigo. Essi non protestavano contro lo Stato, ma contro la
mafia, contro la proprietà terriera protetta dalla mafia, contro uno
Stato che proteggeva sia la classe benestante, sia la mafia, che la
proteggeva a sua volta, questa classe. Nonostante l’abolizione del
feudalesimo, in Sicilia le terre e le ricchezze erano ancora in mano a
pochi. L’Italia era nata per tutti, invece aveva continuato a portare
ingiustizie. Quelli come mio padre e mio nonno chiedevano solo
riforme agrarie e fiscali, l’abolizione delle gabelle e la redistribuzione
delle terre.
103
Capitolo XII
Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia
Di quando il sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro
nei sogni dei Bardana su Umberto I Savoia Re d’Italia e nel tentativo
di omicidio di questi da parte di suo padre e suo nonno. Quella volta
il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, del
Risorgimento, del regicidio, della Monarchia dei Savoia, della storia
del Novecento, del fascismo, della verità e dei sogni.
Parte seconda
Umberto I. Ehi, polpettino, non mi fare il sociologo, ora. La
Sicilia in quel tempo era diventata un bordello. Nel 1893 non ci
furono solo scioperi, ma anche un tentativo di insurrezione. C’erano
violenti scontri sociali, vere e proprie occupazioni delle terre, i Fasci
volevano anche dettare loro, per il rinnovo dei contratti, le condizioni
alla proprietà terriera. Capisci te?
Francisco. Capisco. C’era il caos. Ma i Fasci volevano solo
giustizia, Maestà. E voi avete armato questo assassino di Crispi. Ah,
già, tanto lui era albanese, non era italiano o siciliano, lui se ne fotteva
dei siciliani. Ormai l’Unità d’Italia era stata fatta. Arresti, esecuzioni.
Crispi, lo Stato che si allea con la mafia locale. Tredici ammazzati a
Caltavuturo da soldati e carabinieri. Centinaia di dispersi. E poi, in
seguito ad altre sommosse, migliaia di studenti e professionisti,
contadini, inviati al confino senza processo. Arresti, eccidi, stato
d’assedio, sospensione delle libertà individuali, dell’inviolabilità del
domicilio, della libertà di stampa, del diritto di associazione. A parte i
circoli dei nobili e i casini dei civili, si capisce. Questa è storia, non
sociologia, Maestà.
Umberto I. È vero, lo riconosco, fu un momento difficile. E in tali
momenti non sempre i comportamenti di chi governa sono quelli
giusti. Poi, però, nel 1895 concessi la clemenza a tutti i condannati,
104
con una amnistia a tutti i condannati dai tribunali di guerra per i fatti
del ’93-’94.
Francisco. Sì, però i Fasci del lavoratori non si dovevano più
ricostituire. Non si attua così la pacificazione nazionale. Maestà, voi
ancora fate finta di ignorare che il sistema economico in Sicilia, basato
essenzialmente sui gabelloti, era sbagliato. Questi gabelloti bastardi
avevano strozzato la mia famiglia e migliaia di famiglie come la mia.
Mafiosi, non gabelloti, perché facevano parte della mafia e solo loro si
prendevano in gabella le terre dei nobili, che andavano a sguazzarsi i
coglioni a Palermo. Gabelloti coi loro soprastanti, loro uomini di
fiducia, e i campieri, che erano la polizia privata del feudo. Questi
bastardi di gabelloti, che strozzavano i contadini subaffittando le terre
avute in gabella ad un prezzo molto superiore alla gabella che
dovevano pagare ai proprietari. Uno di questi viddani era diventato
mio nonno, che prima era al servizio di un nobilotto filoborbonico e
poi non ne aveva approfittato ed era diventato povero. Loro, questi
gabelloti, coi loro soprastanti e campieri, assoggettavano i viddani
bisognosi con la violenza per non fare aumentare gli affitti delle terre,
e si arricchirono così e si comprarono poi le terre dei nobili. Degli exfeudatari. E vincevano anche le aste dei beni ecclesiastici, impedendo
la redistribuzione delle terre. E diventavano galantuomini, con diritto
di voto, se non avevano il titolo nobiliare di barone.
Umberto I. E bravo o guaglione! Il riformatore sociale che sa
tutto.
Francisco. Questa era la Sicilia di allora: c’erano i grandi
proprietari terrieri, i gabelloti, i cosiddetti borghesi, i coloni e i
braccianti agricoli. Mio nonno Francisco era un borghese, un piccolo
proprietario terriero con qualche ettaro di terra che per le eccessive
tasse ricorreva agli usurai e perciò prendeva in mezzadria altri terreni
e così dipendeva dall’economia del latifondo. Insomma, era uno
terrorizzato di diventare colono, se non bracciante che non possedeva
nulla, che sperava la mattina di essere ingaggiato da un campiere per
un tozzo di pane, e di finire una volta e per sempre nella merda.
Questa era la Sicilia di allora, Maestà, e, cambiando nomi e mestieri,
la Sicilia di adesso. Era un sistema che non andava. Anche le
fabbriche siciliane se l’erano mangiate le fabbriche del Nord, e le
miniere, anche nelle miniere di zolfo i carusi e i picconieri erano
105
sfruttati dai gabelloti delle miniere. Per questo, Francisco Bardana e
mio padre Filippo volevano uccidervi.
Umberto I. Basta! Che cazzo vuoi fare, dare una lezione di
economia e di politica a un re? Figliolo, la Sicilia di allora sembrava
un continente lontano. Non la capiva nessuno, e nemmeno i re.
L’Italia intera ha delle colpe sul sottosviluppo del Sud. E purtroppo
questo sottosviluppo ha generato la mafia.
Francisco. Vi sbagliate, Maestà: è la mafia che genera
sottosviluppo, dai campieri e gabelloti di allora ai mafiosi di oggi,
perché sfrutta tutte le risorse e le potenzialità del territorio a proprio
vantaggio impedendo che esse si traducano in sviluppo e progresso
sociale ed economico. Sono stati sprovveduti mio padre e mio nonno:
non dovevano farsi beccare. Dovevano uccidervi loro. Se vi avessero
ucciso due viddani del Sud, il destino della Sicilia, del Meridione e
forse dell’intera Italia sarebbe stati diverso. Perché questa Italia, così
come è adesso, è stata un fallimento.
Umberto I. E daje, sempre la stessa lagna. Sì, errori ne sono stati
commessi, anche grandi, ma l’Italia andava fatta e la storia non poteva
fermarsi. Oggi l’Italia è una nazione guida, faro di civiltà nel mondo.
Francisco. Questa Italia non andava fatta. I Savoia non
meritavano l’Italia. La Sicilia vi ha fatti diventare re. Vittorio
Emanuele II, vostro padre, che cazzo ha fatto? Ha invaso e depredato
un libero Stato florido e ricco violando ogni diritto internazionale e
approfittando del favore della storia. Avete conquistato il Sud solo
perché lo volevano la Francia e l’Inghilterra e grazie ai finanziamenti
della stessa Inghilterra e delle logge massoniche, grazie alla mafia e
agli ufficiali borbonici corrotti, e Francesco I Borbone era un isolato.
È stata un’operazione militare di colonizzazione. I moti insurrezionali
furono provocati da agenti inviati da voi Savoia, e i plebisciti furono
fatti in modo illegale.
Umberto I. Ehi, pischello! Ancora le solite chiacchiere
revisionistiche. Le ho sentite anche da tuo nonno. Mio padre fu
definito Re galantuomo per avere difeso le libertà costituzionali e per i
suoi sentimenti patriottici. Vittorio Emanuele II è stato un titano del
Risorgimento, ha creato l’Italia. Dopo l’annessione del Veneto ha
fatto diventare Roma capitale concludendo la gloriosa pagina del
Risorgimento, anche se mancavano le terre irredente di Trento e
106
Trieste. Mio padre ha dovuto affrontare i problemi dell’analfabetismo,
del brigantaggio, del diritto di voto, dell’industrializzazione, della
questione romana, con un papa che era una spina nel fianco del
giovane Stato. Non mi fare ripercorrere tutte le gloriose tappe del
processo di unificazione che lui ha guidato, nonostante i calcoli troppo
sottili di Cavour, una testa calda come Garibaldi e uno sconsiderato
rivoluzionario come Mazzini. C’erano problemi immensi dopo
l’Unità, era molto alta la mortalità infantile, l’ottanta per cento circa
della popolazione era analfabeta, l’igiene precaria e la malnutrizione
causavano frequenti epidemie di colera, diffuse erano la malaria e
la pellagra.
Francisco. Oh, sicuro! Mischino! E per risolvere tutti questi
problemi che cosa ha fatto? Come ha governato l’Italia? Facendo una
politica contro il Sud. Per risolvere questi problemi, Vittorio
Emanuele II pensò bene di mettere una tassa sul macinato e favorire
l’emigrazione.Tutto è cominciato con il tradimento di Garibaldi. Il
Risorgimento italiano è stato una rivoluzione mancata perché la
partecipazione delle masse popolari è stata limitata e non ha risolto la
questione contadina. Il Sud non è stato capito dal Nord, veniva
considerato “arabo”, “africano”. I giovani del Nord non hanno
coinvolto i contadini del Sud. Garibaldi non mantenne le promesse, tra
queste quelle di abolire la tassa sul macinato e del dazio di entrata dei
cereali, gli affitti e i canoni per le terre demaniali, e di volere
procedere alla riforma del latifondo. Naturalmente, fu per questo
motivi che i contadini invasero i demani comunali e i feudi dei baroni
e dei latifondisti, e bruciarono gli archivi comunali dove erano
custoditi i titoli del loro servaggio. E furono anche uccisi nobili e
benestanti.
Umberto I. Uhè, Francì. Ora mi sono stancato di tutta questa
politica. I problemi allora erano così complessi che dopo quasi due
secoli e migliaia di libri ancora nessuno li capisce. C’era da
riorganizzare l’esercito, la marina, le leggi in tutto il territorio
nazionale. Sotto il regno di mio padre, l’istruzione vide una
importante riforma, con la legge Coppino fu resa obbligatoria e
gratuita fino ai nove anni di età l’istruzione elementare. E fu anche
efficace l’istituzione del sistema prefettizio.
107
Francisco. Maestà, lasciamo perdere, va. L’economia basata sul
libero scambio, favorita dalla Destra, ha strozzato l’industria italiana,
soprattutto quella meridionale, perché il capitalismo europeo era più
forte, e anche l’estensione della legislazione piemontese, così come la
coscrizione obbligatoria, su tutta la Penisola non è stata un bene.
L’eccessivo fiscalismo, attraverso imposte dirette e indirette, ha
ancora di più prosciugato e impoverito il Sud. Poi, voi e vostro figlio
Vittorio Emanuele III avete portato a compimento la totale
devastazione dello Stato liberale.
Umberto I. Ahò, ora maggio rotto o cazzo, guagliò. Sotto Vittorio
Emanuele III fu introdotto il suffragio universale maschile, furono
approvate importanti riforme sociali. Lui era un democratico sincero
ma fu costretto a dare spazio al fascismo dai tempi turbolenti. Portò a
compimento l’epopea risorgimentale, il destino storico dell’Italia. Con
Trento e Trieste. Si stava riavvicinando alla Francia, certo perché gli
diede via libera per la conquista della Libia, e alla Russia, per via del
matrimonio con la principessa Elena del Montenegro. Nei primi anni
del suo regno lo chiamavano in molti paesi del mondo per ristabilire la
pace e per arbitrati internazionali.
Francisco. Mischino, infatti ha preso insegnamento quando si è
imbattuto nel fascismo. Forse non poteva, era tarato di testa, era figlio
di cugini primi. La rovina dei Savoia: i matrimoni tra consanguinei.
Per questo sposò la principessa Elena, per dare nuovo sangue alla
dinastia.
Umberto I. Non fare il gradasso, buffone. Tu di chi cazzo sei
figlio? Da qualche pirata berbero? Turco? Te lo ripeto: era, doveva
essere, un buon re, ma si imbatté nel fascismo. E nel nazismo. Lui
voleva la pace sociale, lo chiamavano infatti il Re socialista. Voleva
migliorare le condizioni dei lavoratori, dal punto di vista intellettuale,
morale, economico, assicurando l’istruzione completa a tutti i
cittadini, maggiore equilibrio fra le classi. Approvò leggi sugli
gl’infortuni sul lavoro e sull’obbligo del riposo settimanale, leggi che
tutelavano gli emigranti, il lavoro delle donne e dei bambini, leggi a
favore della maternità e della disoccupazione, approvò provvedimenti
contro la malaria, istituì l’Ufficio del lavoro, l’edilizia popolare.
108
Francisco. Infatti, era così democratico che anche lui subì un
attentato, dall’anarchico Antonio D’Alba, nel 1912. Ma questa volta i
Bardana non c’entrano.
Umberto I. Gli anarchici allora avevano la fissa di ammazzare i
Savoia e basta. La verità è che mio figlio, più di Giolitti e di
Mussolini, era per uno Stato laico e per la separazione fra Stato e
Chiesa. I Patti Lateranensi furono un’invenzione di Mussolini, che si
servì di essi per avere prestigio internazionale. La Legge delle
guarentigie, anche a mio parere, era già sufficiente per regolare i
rapporti tra Stato Italiano e Chiesa, questo la storia deve saperlo.
Francisco. Le leggi, il popolo. Però era un imperialista…
Umberto I. No, la conquista della Libia la chiedevano tutti,
Francia, Russia, Inghilterra, per dare più equilibrio al Mediterraneo.
Francisco. E anche le industrie italiane. Forse anche l’Impero
Ottomano si tolse un peso, se con la pace di Losanna del 1912 gli
vennero riconosciuti enormi compensi. La Libia fu una conquista
inutile, come inutile fu la Prima guerra mondiale.
Umberto I. La prima guerra mondiale era necessaria, si doveva
completare il processo risorgimentale, e il Patto di Londra e l’ingresso
in guerra a favore dell’Intesa - Francia, Gran Bretagna, Russia furono il naturale approdo della sua politica di riavvicinamento a
queste nazioni.
Francisco. Maestà, lo ripeto, visto quello che ha ottenuto dopo la
guerra il Paese, sarebbe stato meglio non intervenire o accettare le
concessioni territoriali dell’Austria-Ungheria.
Umberto I. Lui sentiva questa guerra. Lo chiamarono infatti Re
soldato.
Francisco. Veramente lo chiamarono anche Re Peschiera, Re
della Vittoria, Re Borghese, Sciaboletta, Re Tappo, Re bloccardo.
Curtatone. Insomma, ebbe tante personalità…
Umberto I. Facile fare ironie su Vittorio Emanuele III. Ti sei
guardato allo specchio, arabo? Lui ogni mattina partiva in automobile
per il fronte o per visitare le retrovie, con gli aiutanti da campo.
Veniva informato sempre, ogni sera, sulla situazione militare da un
un ufficiale di Stato Maggiore ed esprimeva i suoi pareri, senza
scavalcare i compiti del Comando Supremo.
109
Francisco. E poi irruppe nella storia Mussolini. Maestà, siete certo
che vostro figlio non ebbe colpe sulla presa del potere del fascismo?
Umberto I. Sottovalutò il fascismo. Come quasi tutti. L’Italia in
quel tempo era il caos, il bordello. Questa è storia. Il Re era
consapevole della debolezza del governo Facta, il Duca d’Aosta e
l’entourage monarchico erano filofascisti, i vertici militari incerti e
deboli, c’era paura della guerra civile. Ma dobbiamo parlare del
fascismo, adesso?
Francisco. Sì, Maestà. Il fascismo. La vostra rovina. Il fascismo.
L’occupazione del potere. La Monarchia si è compromessa col
fascismo. Senza il compromesso con la Monarchia, il fascismo non
sarebbe mai arrivato al potere.
Umberto I. Molti ci hanno creduto al fascismo, allora. Giolitti,
Croce, De Gasperi, Gronchi…
Francisco. Ma tutti ci ripensarono, ben presto. Certo,
l’opposizione era debole, anche se aveva la maggioranza dei deputati
in Parlamento, le masse erano estranee alla democrazia, però… Le
elezioni irregolari del 1924, l’assassinio di Matteotti, l’ignavia
connivenza del Re, secondo le parole di Nitti, le testimonianze degli
stessi squadristi contro Mussolini, la trasformazione dello Stato in
senso autoritario e totalitario, la chiusura di circoli politici
d’opposizione, l’arresto degli oppositori, le leggi fascistissime del
1925, lo scioglimento di tutti partiti politici, la censura sulla stampa, la
modifica dello Statuto Albertino, l’istituzione del Tribunale Speciale
per la difesa dello Stato e della polizia politica segreta, l’O.V.R.A., il
confino di polizia per gli oppositori politici, la conquista - contro la
storia - coloniale dell’Etiopia, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler e
il nazismo, la guerra civile, la distruzione del Paese, la perdita delle
colonie: Maestà, i Savoia non c’entrano niente con tutto questo?
Umberto I. Bischero, i problemi erano così grandi che i Savoia
non potevano non entrarci. Mio figlio era di formazione liberale e si
oppose vigorosamente a queste disposizioni che ledevano i principi di
non discriminazione sanciti dallo Statuto Albertino. Credeva che la
svolta autoritaria fosse di breve durata. Temeva Mussolini. Mussolini
avrebbe colto il momento opportuno per liquidare anche la Corona e
instaurare un regime repubblicano, il Diario di Ciano è
inequivocabile… Il Re era contro i tedeschi e Hitler, che del resto
110
voleva che Mussolini si sbarazzasse della Monarchia, ma la
Monarchia aveva un ampio sostegno popolare, era forte, solo i brogli
di un referendum poterono cancellarla dalla storia. Il Re era ostile alla
retorica fascista, a tutte quelle buffonate, il saluto fascista, il voi…
Francisco. Il Re era ostile a tutto, ma approvò tutto… vidi chi
minchiati.
Umberto I. Il Re non voleva entrare in guerra, odiava i nazisti, era
filo-britannico, cercò di rovesciare Mussolini. Voleva solo la legalità
formale, un voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, cosa
che desiderava del resto lo stesso Mussolini, che era stanco, e
intendeva consegnarsi agli inglesi. Tutto aveva nella testa Mussolini,
tranne quello di creare la Repubblica Sociale di Salò per Hitler. Il
governo Badoglio era nell’aria da tre anni. L’armistizio si doveva fare
subito, non si dovevano fare entrare i tedeschi in Italia. Ma molto
rimane oscuro di quei mesi turbolenti.
Francisco. Il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo lo
ottenne, ma tre anni dopo, a guerra perduta. Poi la vergognosa fuga da
Roma. E lo sbando dell’esercito. E il 13 ottobre, dopo la dichiarazione
di guerra alla Germania, il vergognoso status di nazione
cobelligerante. Alla nazione si poteva risparmiare quest’altra
umiliazione.
Umberto I. Non è così, guapo. Il Re lascia Roma per garantire la
continuità formale dello Stato, e per gli Alleati la validità formale
dell’armistizio, e questo evitava un duro regime di occupazione.
Francisco. Forse sarebbe stato meglio per la Monarchia e per
l’Italia che Vittorio Emanuele III abdicasse prima del 1946.
Umberto I. Lo credo anch’io, anche se questo non avrebbe salvato
la Monarchia. Morì in una umile casetta della campagna egiziana,
ebbe funerali di Stato dal re d’Egitto Faruq, riposa nella Cattedrale di
Alessandria d’Egitto. Donò alla Stato italiano una imponente
collezione numismatica, la più bella del mondo.
Francisco. Ma donò ai Savoia la Repubblica e all’Italia l’onta del
fascismo.
Umberto I. Ebbe però il coraggio di sbarazzarsi del fascismo e di
fare arrestare il Duce. E così, con l’armistizio, di salvare l’Italia e
Roma dalla distruzione. Nonostante venti anni di fascismo, aveva
ancora il controllo della situazione.
111
Francisco. Forse il il migliore dei Savoia sarebbe stato Umberto
II, sarebbe stato un ottimo re. Mi è stato sempre simpatico. Non lo
avrei mai ucciso uno come lui. Nonostante i sospetti realistici di brogli
elettorali, accettò da galantuomo il risultato del referendum.
Umberto I. Molte cose furono illegali in quel referendum, l’Italia
era ancora monarchica, ma ormai la storia aveva deciso. Peccato.
Francisco. Se anche avesse vinto, la Monarchia ormai era finita.
Lo disse anche Umberto II. La Repubblica si può reggere col 51 per
cento, la Monarchia no. La Monarchia non è un partito. È un istituto
mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile
volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla.
Umberto I. È così. A testa ti camina ogni tanto, guagliò. La
Monarchia non doveva essere sottoposta a referendum. Bisognava
dare l’ultima opportunità alla Monarchia. In fondo, avevano unito
l’Italia, i Savoia. E Umberto II sarebbe stato un grande re, avrebbe
riscattato i Savoia. Umberto II, detto il Re di Maggio, anche se di
carattere introverso e riservato, perché cresciuto sotto un padre
autoritario e una madre eccessivamente affettuosa, aveva dignità,
modi garbati, signorilità. Credente, elegante nel portamento,
contrariamente a mio figlio che era arido, riservato, diffidente, un
complessato per l’inferiorità fisica, Umberto II era un uomo
intelligente e colto, disprezzava Hitler e il nazismo, disprezzava il
fascismo, come la moglie. Messo in disparte dal fascismo e tenuto
sotto controllo dall’O.V.R.A. che alimentava calunnie sulla sua
persona, ora per le innumerevoli avventure con donne di ogni ceto
sociale, ora per comportamenti da omosessuale, egli sarebbe stato un
re moderno, garante della Costituzione, perché avrebbe fatto tesoro
degli errori commessi dalla Monarchia. Pensava di poter tornare per
dare il suo contributo all’opera di ricostruzione e di pacificazione
nazionale. Morì solo, assistito da una infermiera e gridando “Italia”,
“Italia”.
112
Capitolo XIII
Lettera anonima al prefetto
Lettera anonima inviata al prefetto di Gandara, che rimase
anonima solo un giorno, perché una spia della Prefettura la fece
avere a Filippo Bardana il vecchio e che il puro sogno di Filippo
Bardana l’inventore si trovò davanti nella mente di Francisco prima
di parlare col sogno del ricordo di costui.
Signor Prifetto,
io non sugno fascista, manzannò l’avissi mannata al Federali di
Gandara questa littra. Anzi, io littre anonimi non ni manno, ma sugno
costritto dalla vita e dal tempo. Io sugno uno ca ha lavorato ni li
propiità della famiglia Barresi, prima al servizio del papà
dell’ingegneri, Filippo Barresi detto Pezzanculu, perché era un umili
contadino che si ha fatto da se, ed è divinuto ricco di propiità ma
sempri cortesi e gentili e di bono animo, non scurdannosi le sui origini
operaie e contadini.
Filippo Barresi ha faticato comu un mulo per tutta la vita e
insignato boni virtù ai figli e li ha studiati li figli, Mariannina che è
divinnuta maestra e Giosuè che è divintato ingegneri rispittato, ca ha
stato costretto a pigliarisi la tessera fascista per lavorari e fari il
proprio mestieri, ed è stato puro portato dal cognato Sovrintendente in
Libia.
Questa educazioni della famiglia ha stata afforzata poi da donna
Assunta, donna santa e pia, moglieri dell’ingegneri.
Signor Prifetto, questa famiglia Barresi ha avuto tanti offesi da li
fascisti, anchi si ora ca ci siti Voi e il Potestà e ca l’ingegneri ha
pigliato la tessere fascista, lui e più rispittato.
La vita ca io o passato e ca haio stato in questa famiglia mi ha
fatto capiri tanti cosi. E la prima è ca questi fascisti sunno dei bastardi
compreso il loro capo Binito Musolino, ca è uno ca va all’avventura e
ca pir chista avventura ci havi a portari alla catastrofi con chisto altro
esartato di Hitlèr, como sento diri al circolo e alla radio.
113
Questi fascisti erano cosi inutili, figli di morti di fami, di viddani
e di scassapagliara, ca vittiru passari stu trenu e ci acchianaro.
Potivano addivintari sogialisti o libirali si chisti se ne ivano
all’avventura. Però a verità è ca anno visto i patruna ca iero cu
Mussolino e si iero iddi appresso. Pirché da suli non sunno capaci
manco di cacari, sgusassi, signor Prifetto.
Ma ora andiamo al dunqui, e parliamo del motivo ca vi ho scritto
questa littra.
C’è il figlio dell’ingegneri Barresi, Filippo, giovani abbocato
intraprindenti, ca si misi in testa di volire prisintari una commedia di
Mussolino, L’amanti del Cardinali, mi pari ca si chiama accossì,
sempri ca e vero che la scritta Mussolino, si vide ca tanno non aviva
na minchia di fari. Questo scapigliato di picciotto Filippo, si è
innamorato di Giulia, la figlia del Podestà, ca voli fari l’attrici, e la
voli accuntintari. Pari ca Sua Eccillenza il Potestà Carmazzo è
d’accordo, e questa cosa seconno mia è una cosa sbagliata.
Pirchè, vidisse Signor Prifetto, Almeda è un paisi particolari, ca
pari tutto carmo e ammeci un ci voli nenti a sbampari. Pirchè mi pari
ca parla chista commedia di un Cardinali ca avia un’amanti, perciò è
una cosa contro la chiesa, e si è una cosa contro la chiesa non può
portare che guai.
Questo Mussolino, volenti o no, o per i suoi porci commodi, ha
fatto paci con la chiesa tanto ca si po’ diri ca ora sunno cazzo e culo. E
noi ora gli voliamo rompiri i coglioni, alla chiesa. E se si incuietano i
parrini, penso ca chisto non piacirà allo stisso Mussolino, ca non voli
aviri minchii coi parrini.
Io penzo ca chisto e un poviro paisi senza senzo ca avi a ristari
fora da storia, e chista commedia di parrini e di amanti forse eni
troppo piricolosa, non sulo pi chisto paisi.
La storia nun si fa ni li campagni e ni li paisi, ma ni li città e ni li
capitali. A storia di chisto paisi devi filari diritta, ca ci sunno omini
chiu importanti ca anno a fari la vera storia.
Signor Prifetto, secunno mia è meglio ca ci tira l’orecchi puro al
Potestà, ca, como si dici, si sta calanno li causi pi fari cuntenta alla
figlia Giulia, senza pinzari a quello ca po’ succederi ni sto paisi.
114
Vero è puro ca tutti si stanno accrozzanno pi chista commedia ca
portirà tutti alla ruvina. Facissi quarchi cosa Vostra Eccillenza, nun
sulo pirchì ponno succediri cosi torti, ma puro pirchì po’ alla fini
fanno cacari, scusassi, tutti i cosi o pisci grosso, e u pisci grosso ni
chista pruvincia è Vossia.
Ossegui
Mi l’avia scordato. Vidisse, Signor prifetto, ca il Barresi è cazzo e
culo con Filippo Bardana, ca è il vero capo dei sogialisti di chisto
paisi. È uno ca, sgussassi Eccillenza, i cugliuna ci stricano in terra, e
non si scanta di nuddu, anchi si a avuto tanti torti di fascisti. Il Potestà
lo rispetta, pirchè è persona vera, un omo, comu dicemmo noi qua.
Basta ca non comina minchiati. E forsi anchi voi lo canusciti, ca è
canosciuto lui in provincia. Se succedi quarchi cosa al Barresi lui non
sta a minarsela a casa, sgusati ancora Eccillenza. E Filippo Bardana,
Eccillenza, forsi Vossia lo sapi, è la sola pirsona in questo cacatoio ca
non ha preso la tessera fascista. E chisto è tutto.
115
Capitolo XIV
Il sogno del bordello
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del
ricordo di Francisco che contattò il sogno di suo padre Filippo il
vecchio e si fece raccontare la serata che egli passò col Podestà di
Almeda e con altre persone discutendo di bordelli e di altre cose non
amene al tempo del Fascio.
- Oh, il bordello! – tuonò il dannunziano Giuseppe Catanese
detto Vuccazza - È la nostra prima radice il bordello! Roma era un
bordello, l’Impero era un bordello! E Messalina, l’augusta meretrice,
la moglie dell’imperatore Claudio, la più grande delle puttane!
Quando Claudio si addormentava, il balbuziente, il claudicante,
l’epilettico, il flatulente Claudio, dice il poeta Giovenale, la troia,
accompagnata da una ancella, abbandonava il talamo imperiale per
un’umile stuoia di lupanare (minchia che assonanza, Vuccà!). Qui,
nascondendo i capelli scuri sotto una parrucca bionda, varcava la
soglia di un postribolo tenuto caldo da un tendone malandato, dove, in
una cella a lei riservata, col falso nome di Licisca, si prostituiva nuda,
coi capezzoli dorati, offrendo il ventre che, un tempo, il generoso
Britannico aveva portato. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il
prezzo stabilito, e giacendo supina godeva dell’assalto d’ognuno. Poi,
quando il magnaccia mandava via le sue puttane, lei usciva a
malincuore, con la sola concessione di poter chiudere per ultima la
cella, il sesso ancora in fiamme e desideroso di voglie. Sfiancata dagli
uomini, ma non sazia ancora, se ne tornava a casa: il viso ammaccato
di lividi, impregnata del fumo di lucerna, portava il lezzo del bordello
sin nel letto imperiale.
- Li me cojoni, che troia! – esclamò il segretario comunale Ettore
Ceccarelli detto er Fregnetto, romano de Roma, da dieci anni ad
Almeda perché sposato con una del posto.
(Bona accumincià a sirata, pensò Filippo Bardana il vecchio.
Troie, cazzi, puttane, bordelli e cugliuna).
116
- Io lo di’o da sempre che voi siete un grande poeta, ‘azzo! –
disse il podestà Roberto Carmazzi, detto Cacafino, o pure
impropriamente U checcu, il balbuziente, per il suo tosco eloquio Meritereste migliori fortune!
- Oh, l’estrema libidine della prostituta imperiale! – proseguì
ispirato il Vuccazza - Completamente depilata, i capezzoli dorati, gli
occhi truccati con antimonio e nerofumo, si offriva a marinai e
gladiatori in uno squallido bordello, anche se pure Claudio era un
adultero e prediligeva l’alcova al talamo nuziale. Oh, vita torbida di
augusta meretrice! Consumava la notte nei postriboli della Suburra, lo
confermò anche Plinio il Vecchio, col nome d’arte di Licisca la
donna-cagna, sfidò la più famosa puttana dell’epoca e vinse, con 25
rapporti in un solo giorno.
- Minchia! – disse ancora er Fregnetto. E la minchia in bocca a
lui aveva un che di epico.
- A faccia do cazzo! – si liberò il napoletano Vincenzo Cacace
detto o’ Guallara, ufficiale dello Stato civile di Almeda.
(Ma chisti chi mangiano sempri cazzi!, pensò ancora il Bardana).
- Che storia squallida! – continuava a declamare il Vuccazza,
ormai in gloria, lisciandosi il pizzetto, gli occhi fissi sul camino
acceso che crepitava - Ebbe relazioni incestuose coi fratelli, si fece
dare dal marito i migliori pretoriani, fece orge con decine di attori e di
amanti, consoli e governatori, si fece mezza Roma. Schiava di
amplessi bestiali, col vizio sfrenato cercò di riempire una vita vuota e
insoddisfatta, priva di amore. Imperatrice ragazzina, impubere ma già
depravata, padrona del cuore dell’imperatore del mondo, l’immorale
sgualdrina, l’assassina dissoluta e corrotta, meretrice dagli appetiti
sessuali bestiali e insaziabili, malata, perseguitò, esiliò e uccise
avversari, amanti e parenti, leggera e disinvolta anche in tempi così
degenerati e corrotti. Poi si innamorò, e Gaio Silio patrizio intelligente
e bellissimo fu ricolmo di doni imperiali e di meravigliosi giardini
carpiti col sangue e con capricci regali per coronare il suo sogno
d’amore. Voleva uccidere Claudio per governare da imperatrice col
suo amante nella villa sul Pincio. Uccise tutti i rivali di suo figlio
Britannico affinché questi diventasse imperatore; alla fine pagò non
solamente con la vita tutti gli intrighi e gli assassinii commessi, e su di
lei gravò la damnatio memoriae.
117
- Che bagascia! – disse finalmente la sua il suocero del Fregnetto,
Sasà Canta detto Manuzza, per una menomazione alla mano destra.
- ‘azzo che poesia, Vuccazza! – disse invece il podestà. E
aggiunse un po’ di legna al camino.
- Il bordello è quello che si addice all’Italia – proseguì più
prosaico il Vuccazza - Da secoli, da millenni l’Italia è sempre stata un
bordello: guerre civili, malgoverno, sfruttamento, anarchia,
corruzione. Lo diceva anche Padre Dante: Ahi serva Italia, di dolore
ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province,
ma bordello! Potremmo parlare di tutte le puttane della storia d’Italia,
da quelle raccontate da Boccaccio nel suo Decameron alla cugina di
Cavour, la Contessa di Castiglione, che per la Patria immolò la sua
purezza e aprì le cosce a Napoleone III (Minchia chi curtura ca avi,
pensò Manuzza. A sta funcia di minchia chi curtura, pensò pure il
Bardana).
- Purezza i miei cojoni! – sbottò er Fregnetto – Ho letto da
quarche parte che la chiamavano la “fregna d’oro”, pardon, la “vulva
d’oro”, quanno se scopava er francese. Ar marito, poveraccio, che
l’adorava, fece le corna sempre ed ebbe addirittura quarantatré amanti
(Minchia, ma comu li sannu tutti sti cosi?, pensava sempre il
Manuzza. E parivanu ignoranti, pensò pure il Bardana).
- Certo, – chiuse la risorgimentale parentesi il podestà – dopo
l’armistizio di Villafranca nel 1859, la sua stella presso Napoleone III
si oscurò, ma ormai l’Italia era fatta.
- Anche in questo paese, me pare, – disse er Fregnetto guardando
Filippo Bardana il vecchio, come a volere una conferma da un uomo
che non poteva non sapere tutto del suo paese – c’è na “fregna d’oro”,
anzi d’acciaio, visto che s’è scopata tutti li gerarchi de Sicilia. È una
gran bella puttana raffinata, de grido. Che fa felice er Fascio e fa felice
pure er marito guardone.
- Chi merda, però, stu barone Nasca ca si fa futtiri a muglieri
mentri iddu talìa! – disse il Manuzza sconsolato.
- Già – confermò il genero – Er guardone che se fa scopà la moje
dai fascisti. Vuoi vedere che ad agosto quando verrà qui er Duce de
l’Impero…
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- Oh, delirio! – intervenne dall’abisso dei suoi sogni il Vuccazza
– Delirio orgasmatico d’avere nella fregna l’obelisco immortale
poderoso potente del fascismo!
- Oh, ‘azzo! – intervenne il Carmazzi – Non mischiamo sa’ro e
profano. Non abbassiamoci al meschino pettegolezzo, ‘azzo. L’epo’a
eroi’a del fascismo è superiore alle debolezze dell’uomo, il fascismo
deve tirare dritto verso la meta gloriosa del destino della stirpe….
(Minchia, u podestà mancu cugliunia – pensò il Bardana
guardando fisso il camino scoppiettante - Accussì però si fa sbintari).
- Comunque io dico solo questo: - continuava per i cazzi suoi il
Vuccazza, ormai spiritato - il bordello è l’unica istituzione che si
confà allo spirito italiano. Quella dove l’italiano medio celebra la
propria mascolinità, il proprio spirito vitale. Il bordello in Italia è
come la fede cattolica, la patria, la famiglia (chistu si voli fari
arrestari, pensava sempre Manuzza).
- Adesso non fate il bischero, Vuccazza – disse il podestà Abbiamo ‘apito il bordello. Ma il bordello non è una ‘osa buona. Da
quindici anni, da quando il Duce ha riportato l’ordine, si vive un po’
meglio, via. Si’uramente qual’osina da aggiustare c’è sempre: ma ‘ol
bordello non si vive bene.
(Giustu, pensò il Bardana. Però, ahi serva Italia!).
- L’Italia vivrà almeno mille anni di pace. Il fascismo è
l’espressione più pulita dell’anima italiana – sigillò il poeta – Il
fascismo è il bordello organizzato. Come una casa chiusa.
- Però, Eccillenza. – intervenne teso il Manuzza – Non è manco
giusto, con rispetto parlando di bordelli, che qua, in questo paisi, ci
sono tanti casini aperti. Ni bastassi sulo uno.
(Veramenti, pensò il Bardana, tuttu u paisi è un unicu burdellu).
- Mio suocero forse ha ragione, Eccellenza – disse er Fregnetto –
Forse il bordello fa parte della natura degli italiani. Ma qui se sta a
esagerà.
- Le licenze per le ‘ase ‘hiuse sono ‘oncesse se’ondo la legge –
disse il podestà – E poi, immaginate lo squallore delle prostitute nelle
strade, senza ‘ure mediche, senza assistenza, preda della sporcizia,
delle malattie, del fango…
119
- Mo, invece, nell’Italia fascista, nell’Italia der Fondatore
dell’Impero, er meretricio fa parte di un progetto – disse ancora er
Fregnetto.
- Oh, l’affascinante mondo del bordello! – riesplose il Vuccazza
– I bordelli soddisfano i biechi istinti degli italiani, la brama, la
concupiscenza? No! Il bordello è poesia. O la poesia del lupanare,
Tacito, i postriboli della Suburra…
- Ah professò, e che ‘azzo – disse alzando la voce il podestà Mi’a siamo al bordello qui! Non ri’ominciamo! Può darsi che la storia
d’Italia sia stata sempre un ‘asino, però… L’Italia ha sempre
provveduto a regolamentare il meretricio.
(Meretricio! E chi è?, pensò Manuzza. Mi piace sta parola, pensò
invece il Bardana. Anchi si avi sempri a chi fari cu i buttani).
- Sì! Il meretricio di Stato! – intervenne o’ Guallara - Si sono
fatte più leggi sulle puttane che sul Meridione! Hihihi! 1859: decreto
di Cavour sui bordelli di Lombardia, passati sotto il controllo dello
Stato! Mannaggia quante leggi si sono cumbinate pe purchiacchie!
(Purchiacchie, meditò il Bardana. Chi nomu minchia pi diri
sticchiu!).
- Bisognava adeguare i postriboli sabaudi alle maisons
napoleoniche, no? – disse il podestà - E nel 1860 nascono le ‘ase di
tolleranza. Certo, però, quante leggi! Nel Novecento si dispone che le
‘osiddette ‘ase di perdizione abbiano muri alti dieci metri e le finestre
‘hiuse, e una regolamentazione rigida, anche sui prezzi e sulle tariffe,
sulle tabelle.
- E nascono i luoghi moderni dei congressi carnali – intervenne
ancora l’aèdo del bordello, il Vuccazza - Dove però le signorine
fondano una cultura, le sacerdotesse del sesso che intrattengono i
clienti sulle copule, o sui massimi sistemi del mondo! Per ingannare
l’attesa, il tedio del mondo!
(Minchia chi paroli!, pensò il Bardana. Chistu è veramenti un
poeta. Poeta dello sticchio).
- Oh, le marchette! – disse er Fregnetto – Certo che il prezzo e il
tempo di un amplesso hanno misurato l’evoluzione de la società e
pure er camino der progresso. Una lira, due lire, cinque lire per la
scopata semplice. Ministri come Urbano Rattazzi e Giovanni Nicotera
che fissano per decreto durata e prezzo della scopata! (Oh, yes, pure la
120
rima!, pensò). Case di lusso, case popolari, sconti per soldati,
sottufficiali, bordelli per professionisti, bordelli per militari, bordelli
per operai, per l’esercito, per la truppa… Cazzo che fantasia! E che
mercato!
(Minchia, vero, chi fantasia pi futtiri, cogitò il Bardana).
- Sconti do cazzo quanno nu criature guadagnava tre lire al
giorno – obiettò o’ Guallara.
- Oh, le puttane! Che nomi fantasiosi! La Siciliana, la
Marchigiana, la Rossa, la Sticchiuta…- recitava Vuccazza.
- Almeda! Almeda tutta è una puttana – si sentì coinvolto il
Manuzza - Ci sono più puttane in questo paisi ca in tutto il mondo!
Mi scusassi, Voscienza!
(Ora u capisti, cugliuni?, pensò il Bardana).
- Beh, insomma, non esageriamo – disse il podestà.
- Pare che il più grande frequentatore di puttane sia don Peppino
Griolo, Eccillenza! – continuò invasato il Manuzza - Si è mangiato 30
salme di terreno a puttane! Da quaranta anni, si ni fa due ogni sera,
questo si dice, e nel migliore casino di Almeda. Vi ricordo, Eccillenza,
che oggi una puttana di lusso nel casino della Zia Rosa costa sette lire
l’ora.
- Minchia! Ma lui fotte sempre all’ora? – domandò o’ Guallara.
- Sì, perché dice che se ne fa quattro all’ora. E risparmia –
rispose Manuzza.
- Ma quanto ‘azzo costa una puttana qui? – disse curioso il
podestà – Vedo che siete informato, ‘aro ‘anta.
- Sissi, Voscienza – ma io non ci ho mai andato – Però, mi hanno
detto al circolo Carrettieri, una marchetta alla buona costa una lira e
dieci centesimi, doppietta due lire, mezzora quattro lire e cinquanta.
Minuti venti tre lire e sessanta, se non ricordo male. Due ore dodici
lire. Compresi acqua e asciugamani. Saponetta normale centesimi
cinque, acqua di Colonia centesimi venticinque. E ci sono
agevolazioni per i giovanotti di primo pelo. E naturalmente per
militari e truppa. E la direzione della Zia Rosa è molto tollerante sul
tempo che le signorine devono restare coi signori clienti.
(No ca un cia iuto, bastardo!, l’immediato pensiero di Filippo
Bardana).
121
- ‘azzo ‘come siete informato, ‘anta! – disse il podestà,
interpretando il pensiero di tutti, non solo del Bardana – E meno male
che non ci siete andato. Ora lo ‘apisco perché il Griolo ha mandato
tutto a puttane!
- Non offendete mio suocero – disse er Fregnetto – Che io so che
vita fa, Eccellenza: un monaco!
- È pure malato, il Griolo – continuò Manuzza - Si è preso
quattro sifilidi! Però soffre di pri… insomma, ce l’ha sempre tiso!
Mischino!
- ‘azzo! – esclamò il podestà.
- Però sono controllati i casini ad Almeda! – intervenne ancora
nell’amena discussione o’ Guallara - Ci va ‘o medico che visita le
guaglione, soprattutto quelle che arrivano della quindicina. Tutte le
signorine hanno ‘o libretto sanitario. Non è così, Eccellenza?
- Libretto sanitario un cazzo! – disse er Fregnetto - Però se deve
dì che er casino della Zia Rosa è pulito. A parte sto odore schifoso de
lisoformio.
(Quante parole strammi!, rifletté il Bardana. E che minchia è sto
lissoformo?).
- Ed è anche molto riservata – disse ancora Manuzza - Se uno
non si vuole fare conoscere, chiede il “libero” alla tenutaria e tutti al
suo arrivo se ne vanno.
(Pi chissu è, a Zia Rosa vero riservata è, meditava sempre il
Bardana).
- Sapessi quanti gerarchi lo hanno fatto! E quanti preti! – disse
finalmente Vuccazza, come destandosi da un lungo sonno – E quanti
poeti!
- Ehi – disse il podestà – Lasciamo perdere i gerarchi.
- Comunque, per me, per motivi di pulizia, – disse Manuzza - i
casini devono restare aperti, Voscienza! No che c’è quarchi coglione
che li vuole chiudere, come sento dire da quarcuno!
(Che sono io, uno di questi coglioni, bastardo!, ancora la mente
del Bardana).
- Ma come cazzo li chiudono! – disse o’ Guallara - Dicono che ci
sono in Italia mille bordelli con seimila posti letto e cinquemila
puttane! Anche se non tutti pagano le tasse…
122
- Quante storie, quanti racconti, quante testimonianze! – esclamò
sognante Vuccazza - Un’intera letteratura! Quanta umanità si è
consumata nei bordelli! Pianti, ricordi, memorie…
- Ma io, amici, - lo interruppe il podestà, che intendeva chiudere
la riflessione sui bordelli - non vi ho chiamati qui per parlare solo di
bordelli. Un evento inaspettato è entrato nel destino della mi famiglia.
Per farla breve, mia figlia Giulia e il suo fidanzato Filippo, benedetti
figlioli, vogliono rappresentare una ‘ommedia, L’amante del
cardinale. Claudia Particella, scritta in gioventù dal ‘apo del
Governo, Sua Eccellenza Benito Mussolini, che forse, se avesse avuto
meno impegni politici, sarebbe potuto diventare anche un grande
scrittore… (Fussi stato meglio, pensò il Bardana guardando sorridente
il podestà) Veramente, ancora deve diventare una ‘ommedia, perché
mi’a è facile fare diventare ‘ommedia un grande romanzo, anche se
giovanile, di sua Eccellenza Benito Mussolini…
- Non conoscevamo questo spirito di artista di vostra figlia,
Eccillenza – disse Manuzza.
- Mah, che volete ‘aro ‘anta – disse il podestà – È un periodo,
questo, in cui i giovani devono scoprire ancora se stessi, e perciò le
provano tutte. Lei dovrebbe interpretare la parte dell’amante del
‘ardinale. Filippo, no, non partecipa, lui organizza, vuole organizzare
l’evento. Sì, insomma, la rappresentazione della ‘ommedia. Volevo
chiedervi ‘osa ne pensate. Se si può fare. Se crea dei problemi.
- Certo che il figlio di Giosuè Barresi, detto u Principino… stava cominciando il Vuccazza.
- Ah Vuccà, non c’è bisogno sempre di ricordarmi questa ’azzata
del soprannome… - disse il podestà.
- Eccellenza, mi’a volevo offenderlo… Volevo solo dire che il
vostro futuro genero è un giovane avvo’ato intraprendente…
(E chi minchia parla toscano puru iddu ora?, pensò correttamente
il Bardana. Il Vuccazza, comunque, conosceva tutti i dialetti d’Italia).
- Il figlio di Giosuè Barresi, stimato ingegnere di Almeda, è tale e
quale il padre (spero, ‘azzo, però che non prenda la tessera fascista
‘ome il padre per potere lavorare, pensò). (Se non era pel cognato
Sovrintendente, che gli ha fatto prendere la tessera fascista e se l’è
portato in Libia, i miei cojoni che Giosuè Barresi inteso Pezzanculu
lavorava, pensò er Fregnetto).
123
- Ma di che parla sta commedia? – domandò o’Guallara – Anzi,
sto capolavoro che si deve trasformare in commedia?
(Già, di chi parla, pensò il Bardana, che io tutta ssa minchia di
pinzeri avia, quannu ma detti u podestà, di leggiri u libru di
Musulinu).
- Ve lo dico io di che parla, ignoranti – disse Vuccazza – È una
storia di sesso e di veleni, di amore torbido e di passionale. “Pur di
possederla avrebbe venduto l’anima a Satana e preferito alla
gratitudine dei cieli i roghi infernali per tutta l’eternità. La passione in
cui l’odio e l’amore si alternavano aveva finito per irrigidire l’animo
di questo prete. Egli si era pietrificato, fossilizzato nel suo desiderio.
Ed ora che la virilità accennava al tramonto, fiamme ossessionanti di
libidine gli torcevano le carni”. Oh che parole immortali! Che sublimi
termini di passione!
- Ahò! Sempre a recità sta sto poetucolo der cazzo! – s’incazzò er
Fregnetto - Ma di che cazzo parla sta comedia?
(Parlati, pensò il Bardana, ca puro io mi staiu rumpennu la
minchia).
- L’amante del Cardinale. Claudia Particella – disse preciso il
podestà, concentrandosi sul fuoco del camino - è un romanzo eroti’o
anticlericale ispirato ad una storia vera del Seicento. Su richiesta di
Cesare Battisti, fu pubbli’ato sul giornale trentino Il Popolo in 57 puntate, dal 20 gennaio all’11 maggio 1910. Insomma, un romanzo
d’appendice, nemmeno scritto male, amici, nel tempo in cui il Duce si
professava socialista rivoluzionario (ma s’intendeva sempre di sticchi,
pensò il Bardana) e sapeva scrivere vicende e ‘ose di sartine. Il
protagonista è il ‘ardinale ‘arlo Emanuele Madruzzo, il Principe
Vescovo di Trento, che ama la bella ‘ortigiana ‘laudia e la vorrebbe
sposare perché è perdutamente innamorato, rinunciando alla gloria, al
potere, alla ricchezza. Ma lui è un debole e soggiace al potere della
femmina e dei papi, in perenne abdicazione della sua virilità in un
tempo in cui la Chiesa non accetta il matrimonio e tollera l’impudi’o
‘oncubinato.
(Minchia chi belli paroli pi diri na minchiata!, commentò nella
sua mente il Bardana).
- È un romanzo fantastoricopolitico, insomma, di un giovane
mangiapreti anticlericale – disse er Fregnetto.
124
- ‘arlo Emanuele ama la bella ‘laudia Particella, - continuò il
podestà - ma, nonostante i suoi servigi alla Chiesa, le missioni
diplomatiche per il Papa e gli Asburgo, non riesce ad ottenere la
dispensa per potere sposare ‘laudia. Il ‘ardinale, che si invaghì della
giovane popolana quando ancora non aveva preso la porpora
‘ardinalizia, si in’ontrava con la sua amata attraverso un passaggio
sotterraneo tra la villa Madruzzo e ‘asa Particella…
- E poi ragazzi, – intervenne il Vuccazza - storie di morti e di
assassinii e di tradimenti, di sangue, e di fantasmi, quello della bella
Claudia - ma questa forse è una leggenda - che appaiono in castelli.
Un feuilleton…
- Minchia che bordello! – disse Manuzza – Oh, scusassi,
Eccillenza.
- A sto cazzo che capolavoro! – disse o’ Guallara
- Lasciamo stare i giudizi estetici – disse il podestà – Che qui,
tranne il nostro poeta, siamo tutti ignoranti. Io, amici, vi ho ‘onvocati
qui per un parere: se’ondo voi, posso dare il permesso per sigillare
l’amore di questi du’ figlioli senza avere ‘asini? Perché, prima di
parlare ‘ol prefetto, voi che ‘onoscete un po’ l’Italia fascista e anche
Almeda, siete i migliori giudici. Sempre che si trovi uno che sia
‘apace di trasformare il romanzo in ‘ommedia.
- Secondo me qualche casino potrebbe averlo dai preti,
Eccillenza – disse il Manuzza - Soprattutto dall’arciprete
Ziccaminchia, che è puro mafioso!
- Secondo me potrebbero rompere i coglioni pure i fascisti –
disse er Fregnetto - Non perché capiscano queste cose, la letteratura,
il feuilleton etcetera, ma per non avere chiacchiere coi preti. Con
questo coglione del segretario del fascio di Almeda, poi! Come lo
chiamano? Ah, sì il Trummittuni.
- Stiamo attenti ragazzi, quello non è pericoloso – disse il podestà
- È pericoloso l’altro, il federale di Gandara. Quello ce l’ha ‘on tutti,
‘on me, ‘ol prefetto, ce l’ha perfino ‘on Dio!
(Secondo me, disse fra sé la sua il Bardana, a tutti non ci nni futti
na minchia di sta cazzata).
- Piuttosto, voi, don Filippo – disse ancora il podestà, osservando
il volto meditabondo del Bardana - Siete stato in silenzio questa sera.
Non avete aperto bocca.
125
- E chi siti addivintato mutanghero? – aggiunse il Manuzza.
(Puro con quest’altro minchia è cummattiri, pensò il Bardana).
- Eccillenza – disse dopo un momento di silenzio Filippo
Bardana – Io mi intendo poco di puttane e di troie, e di bordelli. Che
volete che vi dica. Ci avrei fatto la figura del dilettante. Se fosse per
me, io li chiuderei tutti questi casini, bastano quelli che abbiamo a
casa. E anche le puttane, ce ne sono di più nelle cosiddette buone
famiglie che nei bordelli. Bastano e avanzano. E alle signorine
disoccupate darei un nuovo lavoro e una nuova dignità. Ma certo so
che mi avete chiamato per questa commedia.
- Sì, ma che pensate di questa ‘osa? – disse il podestà – Si può
rappresentare questa ‘ommedia, di’o, in questo paese? Non è che può
provo’are bordelli o ‘asini vari? Voi ‘onoscete tutto di tutti in questo
paese…
- Eccellenza – rispose sorridendo il Bardana – E io che ne
capisco di queste commedie? Io, poi, non è che amo molto il teatro.
Con tutti i teatri che abbiamo oggi… E che può fare poi una
commedia, Eccellenza? Qui la gente è di bocca buona, ama divertirsi,
se fa ridere, poi… E se anche non fa ridere, chi farebbe casini contro
una commedia del Duce? Se era per il mio parere, Eccellenza,
potevate non prendervi il disturbo di saperlo, perché lo sapete che io
ho sempre apprezzato il vostro buon governo, il vostro equilibrio…
126
Capitolo XV
Mussolini
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del
ricordo di Francisco, che narrò di quando Francisco e suo padre
Filippo con due compari andarono per uccidere Mussolini, ma poi se
ne pentirono, perché un Duce che scopa con una nobildonna puttana
non vale una minchia.
Era la sera, una bellissima sera, del quindici di agosto del 1937.
Una sera chiara, serena, tranquilla. Dolce. Senza vento. Il paese era
deserto. Tutti erano alla marina per la festa della Madonna del Mare.
Non c’era nessuno nelle strade. Le radio, le poche radio di Almeda,
inondavano con echi lontani le vie e le piazze di discorsi del Duce. Il
Duce aveva visitato quel giorno Gandara, il capoluogo di provincia a
pochi chilometri da Almeda. Radiose giornate di Mussolini nel cuore
dell’Isola. Molti erano felici quel giorno, erano tornati da Gandara ed
avevano visto il Duce dell’Impero che scendeva dal treno che veniva
da Enna, bello come un dio, col vestito bianco e la camicia nera, e il
berretto sulla testa. Il Duce, il costruttore dei tempi nuovi, aveva
inaugurato alcune opere pubbliche, il Monumento ai Caduti,
l’Ospedale Psichiatrico. E, come sempre, aveva avuto un grande
successo di folla. Il Duce. La necessità storica dei destini della stirpe.
La gloriosa Beretta 34 nera in una tasca della giacca era appena
una insignificante increspatura dello spazio possente liscio di Filippo
Bardana. Sette cartucce per rivoluzionare il tempo. Incuranti di quelle
radiose giornate di Sicilia, Filippo Bardana il vecchio e suo figlio
Francisco, quella sera, dopo aver cenato con un chilo di baccalà fritto
con le olive nere e due litri di vino, si avviarono per dare un destino
alla loro storia personale e alla storia d’Italia.
In un baleno, accompagnati dalle deboli ombre delle fioche luci
dei lampioni, lasciarono la piazza di pietra piena di sterco di capre e di
pecore di Sant’Angelo e, dopo duecento metri, giunsero davanti alla
chiesa del Convento, così ancora oggi è chiamata la chiesa della Sacra
127
Famiglia, perché accanto a questa chiesa c’era un Convento di Padri
Scolopi, l’ultimo libero istituto – anche se religioso - di cultura ad
Almeda. Filippo Bardana si fermò davanti al grande portone
d’ingresso di quello che era stato un Convento: si commosse, per la
prima volta nella sua vita, si sentì nello stesso tempo vicino a Dio e al
Socialismo.
Il Convento era stato trasformato in un monumento fascista.
Quarantaquattro anni prima era morto l’ultimo degli Scolopi. Tutti i
frati Scolopi erano stati sepolti nella cripta della Chiesa della Sacra
Famiglia, dove ben presto erano stati dimenticati. I quadri, i libri, tutto
era stato rubato. Al silenzio dei frati si era sostituito il battere dei
tacchi degli stivali fascisti sul selciato del Convento, al passaggio
silenzioso dei monaci sotto il porticato il chiasso vuoto delle adunate
del Fascio.
Che pena, pensò Filippo Bardana il vecchio, accompagnato dallo
sguardo complice di Francisco, il glorioso Convento trasformato nel
Cinema Balilla! Il Convento, infatti, il più glorioso edificio di
Almeda, era diventato sede del Fascio e due stanze a piano terreno
erano state adattate a cinema del regime dove si proiettavano tutti i
documentari e i film di propaganda del fascismo. Il Convento era
diventato un monumento fascista. C’erano tutte le propaggini del
fascismo lì, la sede del Fascio, la sede della Milizia, il cinema fascista,
l’ambulatorio fascista per le vaccinazioni, il tribunale fascista. Quante
volte aveva pensato di dare fuoco di notte a quell’edificio, ma, più che
le forze, gli fece senso il rispetto – che mai gli venne meno – di Dio!
Il rispetto di Dio non gli venne meno nemmeno quella sera,
perché immprovvisamente apparvero da una via laterale Filippo
Barraggello detto Occidicrasto, uno dei suoi più fidati contadini, e il
falegname Gaetano Cucuni detto Tanu Panzadicaniglia. Un’occhiata
d’intesa, un cenno. Così hanno inizio le più grandi imprese. Partirono.
Camminando silenziosi accanto ai muri, attraversarono un paese
deserto e muto. Attraversarono piazze deserte, vie deserte, case
deserte. Chiese deserte e solitarie. Case abbandonate, androni,
finestre, porte abbandonate. Una sera ogni anno il paese si trasferiva al
128
mare. No, oltre, oltre l’oceano. Forse voleva andare via dal tempo,
dalla storia. Solo la luna vigilava, proiettando inquietanti ombre
davanti e dietro i quattro di Almeda. La luna, forse, non voleva che
accadesse quel che stava per accadere.
Giunsero finalmente sul luogo dove doveva avere un nuovo corso
la storia. La rivoluzione del tempo. Davanti a loro, ad appena trecento
metri, debolmente illuminata ma visibile, grande, elegante, si stagliava
la villa dell’impotente e depravato barone Domenico Nasca, detto il
Pacifico Cornuto. Quella sera la sua bellissima e troissima moglie, la
baronessa Felicina Scarrano detta Trecculi, la donna più bella e più
puttana della provincia, doveva avere – davanti agli occhi del marito
guardone e malato - un congiungimento carnale con un uomo molto
importante, l’uomo che loro, Filippo Bardana e i suoi, dovevano
uccidere.
Filippo Bardana sotto un carrubo fece cenno ai suoi di fermarsi e
pensò. Prima di avviarsi verso l’ultimo tratto che separava il suo
miserabile tempo dal tempo glorioso della storia universale, pensò a
tutti i luoghi e ai fatti, al piccolo spazio e alla piccola storia della sua
vita. Gli erano morti giovanissimi due figli, per malattie banali, altri
due erano stati massacrati nella guerra d’Etiopia, tra i pochi a morire
per una guerra senza senso, per creare un Impero contro la storia.
Forse, pensava spesso, e spesso lo diceva all’unico figlio superstite,
Francisco, un mondo che fa schifo non merita più di un Bardana.
Pensò alla sua vita, alla sua giovinezza vissuta fra conventi e chiese
perché suo padre voleva farlo diventare prete, pensò ai suoi precettori
privati filosofi e professori universitari antifascisti, pensò alla via del
socialismo che intraprese agli albori del nuovo secolo.
Filippo Bardana era rimasto socialista anche da facoltoso
possidente e da credente, era lui il vero capo dei socialisti di Almeda.
Era rispettato dal podestà socialistoide Carmazzi e dal prefetto
liberale, che lo difendevano dai fascisti ma in cambio volevano che
non accadessero casini gravi in paese. Lui, l’ultimo antifascista,
l’ultimo socialista. Suo figlio Francisco esaurito e quasi pazzo per le
angherie dei fascisti, il prefetto e il podestà che avevano i loro cazzi
129
per organizzare la visita del Duce e per fare rappresentare quella
cazzata di commedia, L’amante del cardinale. Claudia Particella.
Almeda era un paese senza fascisti veri e senza antifascisti veri. I
fascisti erano solo quattro esaltati, quattro cose inutili, quattro militari,
due o tre nobilotti, due impiegati coi pantaloni rattoppati. Il segretario
del Fascio, Saro Patacca detto Trummittuni, era un povero coglione
che aveva una passionaccia solo per le parate. Il vero pericolo era il
federale di Gandara, il Patacca dipendeva da lui. Uno che voleva fare
la primadonna, che voleva fare carriera. Il prefetto gli diceva di stare
buono, a Filippo, soprattutto per non avere problemi col federale.
Il federale era uno che, al prefetto, gli rompeva sempre i coglioni.
Soprattutto per quanto riguarda le nomine di ufficiali e dirigenti, il
federale voleva suoi uomini, mentre il prefetto cercava di fare svolgere
regolarmente i concorsi. L’Ufficiale sanitario di Almeda, questa
nomina poi il federale non l’aveva digerita. L’Ufficiale sanitario aveva
denunciato tante trasgressioni di fascisti al podestà. E la richiesta
assurda poi del segretario del Fascio di una specie di quartiere fascista
dove sistemare Casa del Fascio, Casa del Balilla, il Comando della
Milizia fascista, tutte le organizzazioni filofasciste, il dopolavoro, il
campo sportivo, le camere dei commercianti, degli operai, dei
contadini, e che cazzo, che era Roma? Lui, Filippo Bardana, l’unico
che non si era piegato, non solo al fascismo di Almeda, ma anche al
fascismo nazionale. Lui, l’unico, il vero, l’ultimo socialista, lui,
l’ultimo uomo. Sarebbe diventato il più grande, ma doveva eliminare
il rancore.
Un paese inutile, Almeda, e proprio per questo pericoloso. I
grandi gerarchi ne stavano alla larga anche, soprattutto per questo,
perché il prefetto e il podestà non garantivano la sicurezza. Ah, i
pensieri di Filippo Bardana!
L’amante del cardinale. Claudia Particella. Mah! Che minchia di
commedia! Se è di Mussolini, deve essere una gran minchiata. E
questo figlio di Giosuè Barresi, Filippo, un ingegnere che si fa
imprinari dalla figlia del podestà, Giulia, che vuole fare l’attrice, e per
conquistarla lui, come lo chiamano?, ah il Principino, figlio di un
socialista, lui, un avvocato figlio di un ingegnere, il grande Giosuè
Pezzainculu, che si vende… ah, la forza del pilo! Però loro sono
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socialisti borghesi, mica sono come me, che ho lavorato sempre in
campagna, un contadino, un massaro, che ho ereditato una buona
proprietà e l’ho ingrandita, ho creato un’azienda moderna con
mandorle, ortaggi, pomidoro, ulivi. Una commedia di merda, sicuro!
Però sono sempre le cose di merda che portano guai. Per questo,
sicuro, il podestà è andato a trovare il prefetto. Comunque, ormai è
fatta. Perfino il federale, questo malato, ha dato il suo benestare, la
commedia si sta rappresentando alla marina… chissà che successo! Il
federale ha fiuto, ha ormai capito che la commedia porterà acqua al
suo mulino. Che strano! Questa commedia la vogliono tutti, fascisti e
antifascisti, questi perché sono convinti che – essendo una commedia
anticlericale - porterà discredito al fascismo e ai fascisti del luogo.
Non è come quel coglione del segretario del Fascio… o come i preti…
Il segretario del Fascio dice che la commedia può creare disordini. Si
impegna a non farla rappresentare. È contro la Chiesa ed è contro il
fascismo… ma che coglioni! Ci vuole ben altro per distruggere il
fascismo! Anche Mussolini la vuole fare rappresentare… c’è qualcosa
che non si capisce. Tutti la vogliono, massoni, mafiosi. Contadini,
borghesi, nobili. Monache. Puttane.
Tra questi pensieri, Filippo Bardana e i suoi giunsero a cento
metri dalla meta. Occidicrasto e Panzadicaniglia con un cenno
chiesero a Filippo Bardana che cosa dovevano fare. Filippo Bardana
con un cenno pure lui fece capire che dovevano sedere e attendere.
Senza fumare. Francisco era seduto in mezzo a Occidicrasto e a
Panzadicaniglia. Erano nascosti a circa cinquanta metri dal cancello
della villa. Sotto un ulivo. I tre non sapevano chi dovevano uccidere.
Filippo Bardana non glielo aveva detto. Sapevano che dovevano
uccidere uno importante. Francisco era lì perché lo aveva voluto il
padre. Lui non doveva uccidere, lui doveva solo vedere uccidere,
essere iniziato alla vita, capire quando finisce e comincia una storia.
Filippo Bardana sapeva più di quello che sapevano gli altri. Per
questo era il più tranquillo. Gli altri sapevano solo che dovevano
uccidere un uomo, un uomo molto importante, e non dovevano fare
domande. Dovevano solamente obbedire ai suoi ordini. Rimasero in
silenzio sotto un ulivo per poco più di mezzora. La casa del barone
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Nasca era silenziosa. Erano illuminate solo due camere del primo
piano. Silenzio quasi assoluto. Solo qualche grillo solitario.
Mentre Francisco con gli occhi sbarrati guardava il padre, una
Balilla nera giunse quasi in silenzio. I quattro la riconobbero: era
quella del barone, che doveva essere andata a prendere una persona
veramente importante. Si fermò sullo spiazzo, davanti al cancello
della villa. Scese un uomo: era l’autista, Peppe Giancone detto u
Pirciato, per la faccia butterata. Aprì il cancello, tornò sulla Balilla ed
entrò con l’automobile fino al portone d’ingresso della villa. Scese di
nuovo u Pirciato, aprì lo sportello posteriore e scesero due uomini.
Uno, molto alto, con lo stesso Pirciato tornò indietro per chiudere il
cancello. Rimasero dietro il cancello, nella villa. L’altro, più
tracagnotto, avanzò verso il portone d’ingresso, dove c’era il barone
ad attenderlo. Aveva un cappotto nero e un cappello a falde larghe,
pantaloni scuri. Entrarono.
Filippo Bardana bisbigliò a suo figlio e ai suoi due complici di
seguirlo. Lentamente e in silenzio girarono intorno alla villa finché
non giunsero ad una porticina laterale, seminascosta da arbusti.
Filippo Bardana conosceva bene la villa del barone. Era andato spesso
lì perché aveva acquistato diversi appezzamenti di terreno dal barone.
Aprì un piccolo cancello di legno. Disse agli altri di camminare
sempre silenziosamente. Salirono per una stretta scala esterna che
conduceva al primo piano. Si trovarono davanti a una porta chiusa.
Filippo Bardana puntando l’indice della mano destra al naso fece
cenno di fare silenzio.
Si sentiva un chiacchiericcio dentro la casa. La moglie del barone
depravato parlava. Ansimava. Si sentirono chiare le parole “Ancora,
Duce, sono tutta vostra”. Occidicrasto guardava esterrefatto
Panzadicaniglia. Chi cazzo era questo Duce? Che c’era il Duce dal
barone malato? Francisco, anche lui, era sbigottito. Filippo Bardana
sembrava invece sereno. Si poteva leggere un sorriso in volto. La
baronessa intanto imperterrita continuava. “Duce dell’Impero,
dammelo tutto, sfondami”. Panzadicaniglia e Occidicrasto erano
increduli, si guardavano l’un l’altro, poi guardavano Francisco e infine
Filippo. Attendevano ansiosi un suo cenno. Che arrivò. Filippo
sussurrò che avrebbe pensato lui all’estraneo, e che loro, avrebbero
132
puntato le pistole sulla baronessa e sul barone, senza sparare però.
Subito dopo cominciarono a diffondersi dei discorsi, discorsi del
Duce. Quelli sulla fondazione dell’Impero. Dopo qualche minuto,
Filippo Bardana diede ordine di entrare.
Entrarono e videro una scena allucinante.
Da un grammafono su un comò la voce del Duce si innalzava
trionfale. La baronessa era sul letto nuda, con le cosce aperte, che
gridava “Duce, Duce”. L’uomo che si scopava la baronessa con un
balzo si scaraventò dall’altra parte del letto, e si nascose tra il letto e il
guardaroba. Tremava, con la faccia rivolta verso il pavimento. La
baronessa cominciò a gridare e cercò di coprirsi come meglio poteva,
col lenzuolo. Il barone, che era seduto sul salotto di fronte al letto in
atto di masturbarsi, scappò come una furia verso la porta per uscire ma
fu fermato da Occidicrasto che gli puntò una pistola sulla tempia. Il
barone si inginocchiò e disse “pietà”. Piangeva.
Filippo Bardana guardava l’uomo che tremava accanto al letto.
Sembrava il Duce. Era il Duce. Il Duce aveva una divisa militare nera
e gli indumenti intimi su una sedia. Continuava a tremare e a coprirsi
il pene con le mani. Gridava “È tutta una farsa, non mi uccidete”. “No,
non mi uccidete, è mio marito che lo vuole”, la baronessa farfugliava.
Intanto il Duce si alzò e tutto nudo fece il saluto romano, dicendo
“Duce”, poi “Eja eja alalà”, probabilmente a se stesso.
Era una scena sconvolgente. Il duce in piedi nudo col saluto
romano, la baronessa depravata nuda sul letto che si copriva le parti
intime con un pezzo di lenzuolo che tremava e piangeva, il barone in
ginocchio che piangeva e implorava pietà con una pistola puntata sul
cranio, Filippo Bardana con la pistola Beretta puntata sul Duce,
Panzadicaniglia che puntava la sua pistola sulla baronessa, visto che
non c’erano altri da puntare, e Francisco che non sapeva a chi cazzo
puntarla e faceva girare pericolosamente la rivoltella da sinistra a
destra e da destra a sinistra, con estremo terrore di tutti i presenti.
Filippo Bardana a un certo punto, dopo qualche minuto di
angosciosa attesa, guardò suo figlio, guardò di nuovo i suoi due amici,
digrignò i denti, guardò il Duce, provò un senso di schifo. Disse “Con
tre colpi di pistola mi libero della dittatura, delle puttane e dei
133
coglioni” e fece per sparare. Poi, all’improvviso, si fermò. Guardò suo
figlio, guardò ancora i suoi due amici. Sputò su tutti e tre, sulla
baronessa puttana, sul marito depravato, sul Duce.
- Andiamo - disse infine - Si è fatto tardi.
Francisco e i due si guardarono sbigottiti.
- Perché, pà? – domandò incredulo Francisco – Non
ammazziamo Mussolini?
- Un Duce così – rispose Filippo Bardana - non merita nemmeno
una cartuccia. Il Duce dell’Impero, che per una scopata, anche se con
la donna più bella di Sicilia, si presta alle perversioni di un barone
maniaco sessuale. E non sarà un siciliano, e tantomeno un Bardana, a
passare alla storia.
Comprese perché tutti volevano rappresentare la commedia del
Duce. Tutto il paese doveva essere alla Marina affinché il fondatore
dell’Impero si scopasse serenamente la baronessa puttana in paese.
Infine, disse ai suoi, andiamo, e si avviò verso l’uscita come un grande
della storia. All’autista e all’altro uomo che erano di guardia al
cancello, che gli puntarono due pistole a lui e ai suoi, disse, andate a
fare in culo, coglioni, e seguito dagli altri uscì.
134
Capitolo XVI
Sì, era un sosia del Duce – ribadì il barone Domenico Nasca
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del
ricordo di Francisco che narrò di quando da Francisco e da suo
padre Filippo andarono il barone Nasca e il mafioso Lignutortu per
mettere una pietra sopra sulla vicenda del Duce.
- Sì, era un sosia del Duce – ribadì il barone Domenico Nasca –
Uno vestito da Duce. Una farsa, don Filippo, come ce ne sono tante in
questa terra. E io sono un uomo malato di questi divertimenti, come
ce ne sono tanti in questa terra, purtroppo.
- Mettiamoci una pietra sopra, don Filippo – disse Totò Cardone
inteso Lignutortu - La vita deve pure continuare. E nessuno saprà di
violazione della proprietà privata, di porto d’armi abusivo, e
soprattutto di tentato omicidio. E di tante altre violazioni della legge.
Si vive così serenamente in questo paese benedetto da Dio!
Filippo Bardana osservò i due e provò ancora, cosa non desueta in
lui in quel tempo, un senso di schifo. Domenico Nasca si era
presentato in quel tardo mattino del sedici agosto, senza farsi avvisare,
con Totò Cardone detto Lignutortu. Ufficialmente, capomafia di
Almeda, tollerato dai fascisti perché controllava e teneva sott’occhio
la piccola malavita locale, scassapagliari e similari. Al servizio degli
agrari di Almeda. Uno che, senza la protezione dei fascisti e degli
agrari, era meno di una pernacchia nel vento. Li osservò attentamente.
Piccoli, moretti, coi baffetti, sembravano due gemelli, due facce
identiche della stessa medaglia. Nello spiazzo davanti alla sua fattoria,
poco distante dalla Balilla del barone, l’autista del barone, lo stesso
della sera precedente, attendeva sotto un ulivo.
- Ognuno a casa propria può fare quello che vuole – proseguì
Lignutortu – Al barone e alla sua rispettabilissima signora piace fare
questo gioco…
135
- Io ho già dimenticato la cosa, Totò – lo interruppe Filippo
Bardana – Ho tanti altri pensieri adesso, a parte due figli morti per il
fascismo. Sì, è un divertimento. E non sta nemmeno a me giudicare se
è buono o se è sbagliato. Forse, nella mia ignoranza, io penso che è un
omaggio al fascismo vedere la moglie in atto di unirsi con uomini
vestiti da gerarchi o addirittura da Duce. Un omaggio alla virilità, alla
forza, al destino di questa grande idea che è il fascismo.
Filippo Bardana guardò i due. Sorridevano. Il sentimento di schifo
continuava a rimanere sentimento di schifo.
- Il Duce ha indovinato la ricetta giusta per gli italiani – disse Lo devo ammettere. Il Duce ha capito che in tutto ciò che gli italiani
fanno c’è sempre qualcosa di buono. Non devono esistere i partiti, le
politiche, le rivoluzioni. Io sono ignorante, ma, secondo me, ha
ragione lui, per governare bene un paese bisogna prendere tutto il
meglio che quel paese ha fatto in tutta la sua storia. Il fascismo sta
avendo successo perché sta facendo proprio questo: sta prendendo il
meglio della storia di questo paese. Forse veramente il fascismo e
l’Italia sono una cosa sola.
Lignutortu e Nasca guardavano rapiti e turbati Filippo Bardana. Il
socialista si era ravveduto.
- Patria, famiglia, Dio, ordine, disciplina, pace e concordia tra
lavoratori e imprenditori, come nel Medioevo, l’amore per le donne –
continuò il Bardana - L’impero, la gloria, il podestà che viene da fuori
e mette ordine nei comuni che si scannano tra loro. Il potere che viene
dato a tutti, anche ai meno fortunati. Le bonifiche a favore dei
contadini, l’agricoltura. Mussolini ha la testa brillante, sì. Ci ho messo
un po’ di tempo, ma alla fine l’ho capito. Ma anche il Duce ha faticato
un po’ per trovare la sua strada, non vi pare? Da giovane è stato un
po’ tutto, no? Lo ha detto lui stesso, no? Che all’inizio fu anarchico,
poi socialista massimalista, giornalista e scrittore anticlericale,
repubblicano, interventista, sindacalista rivoluzionario, radicale,
ardito, insomma. Un po’ tutto. Come in amore.
136
Lignutortu e Nasca si guardavano, continuavano a non credere ai
loro occhi.
- Azione, la Nazione – continuava Bardana - Cazzo, ci ha messo
tutto, un bel minestrone, forte, nutriente! Le idee buone, se non fanno
parte della storia di un popolo, se non vi sono inserite, non lievitano, si
rattrappiscono, muoiono. Non si può prendere, che so, una teoria, di
un altro Paese e innestarla di sana pianta in un altro Paese. Come
succede magari per le idee socialiste, o quelle liberali, capitaliste. E
poi il Duce un po’ di politica socialista, anche se trasformata a modo
suo, ce l’ha: lo vedo nell’economia, nelle fabbriche, nelle bonifiche.
Ha vinto la battaglia del grano. Ha eliminato la malaria, la
tubercolosi, la rabbia, la pellagra, il vaiolo, la peste del sangue
italiano. Non è contro il socialismo, ma il socialismo non deve
rompere i coglioni allo Stato. Insomma, un colpo agli agrari un colpo
ai proletari. È molto abile, il Duce. Ci sa fare. È abile nell’oratoria,
sfrutta bene la radio, il cinema, i giornali, l’anima fascista dell’Italia.
Con i podestà fa funzionare i consigli comunali, sta facendo crescere
una generazione italica forte, sia sul piano morale che fisico, con
l’Opera Nazionale Balilla e poi con la Gioventù Italiana del Littorio,
sta istituendo la previdenza sociale per i lavoratori. Favorisce la
famiglia in tutti i modi. Ha dato un impero alle famiglie italiane. Il
fascismo può e deve accogliere tutto, lo ha detto egli stesso, il Duce.
C’è il patriottismo e il nazionalismo, l’espansionismo, cose giuste per
un grande popolo come quello italiano, ci sono anche l’idea della
rivoluzione sociale, del primato del lavoro, il principio del dovere e
della gerarchia. Insomma, si deve pure traghettare la storia d’Italia
verso i tempi moderni, uscire da questo tempo di mezzo. Gli italiani
hanno bisogno di sogni, e qualcuno deve dare dei sogni. Ci ha pensato
il Duce. Certo, manca un po’ di libertà. Ma, diciamocelo chiaro, a che
cazzo serve la libertà se uno deve vivere nella merda? La libertà della
fame? Della disoccupazione? E poi, qual era la libertà degli italiani,
quella del dopoguerra, del bordello totale?
Libertà. Nasca e Lignutortu si guardarono ancora. Sorrisero
compiaciuti. Era accaduto un miracolo. Il Bardana continuava.
137
- Gli italiani, secondo me, non hanno mai conosciuto la vera
libertà.Vera libertà è quella in cui l’uomo non ha bisogno della libertà.
Vera libertà è quella di un mondo in cui l’uomo ha tutto ciò che gli
serve per essere felice, l’amore, il lavoro, la gioia, l’amicizia, il buon
cibo, la natura. Quella che ha dato il fascismo all’Italia. Il fascismo è il
futuro dell’Italia, il fascismo è azione, virilità, forza, attivismo,
giovinezza, religione laica, il primato assoluto della nazione, la
famiglia, il fascismo è la storia, mito, per la creazione di un nuovo
ordine, di una nuova civiltà, dell’uomo nuovo. E passi pure se qualche
barone della lontana periferia della Sicilia si passa il capriccio di
vedere la moglie scopata dal Duce, o se si sta stringendo amicizia con
un pazzo tedesco che si chiama Hitler che ci porterà dritto alla guerra.
Noi, noi siamo piccoli uomini, caro Totò, caro barone. Non potremo
mai decidere i nostri destini. E se le cose dovessero andar male, il
fascismo non avrà colpe. Giunge sempre su questa Terra ogni tanto un
grande cataclisma che spazza via tutto, anche il bene, non solo il male.
Purtroppo, spazzerà via anche quel bene che il fascismo sta facendo, e
sommergerà tutto sotto una montagna di immondizia.
138
Capitolo XVII
Altra lettera anonima al Prefetto
Altra lettera anonima inviata al prefetto di Gandara, che rimase
anonima solo un giorno, perché una spia della Prefettura la fece
avere a Filippo Bardana il vecchio e che il puro sogno di Filippo
Bardana l’inventore si trovò davanti nella mente di Francisco mentre
parlava col sogno del ricordo di costui.
Signor Prifetto,
Saccio ca Filippo Bardana con suo figlio Francisco e due o tre
accoliti è iuto pi ammazzari Musolino ni la villa del baroni Nasca, ca
non sulo è minchia, ma ancha dipravato e porcu. Musolino si duviva
fottiri la sua moglieri, e lui avia a taliari pirchì, comu dissi, è porco.
Vinutulo a sapiri, Filippo Bardana ha pinzato di ammazzari Musolino,
e lo stava facenno, però poi si è pentito e non lo ha fatto che ci faciva
schifo ammazzari a Musolino porco e senza pantoloni nudo. Così mi
disse uno ca c’era. Ah se lo faciva, ca così ci lo levavamo dai
cugliuna. Doppo saccio ca lo ha chiamato il Podestà al Bardana, però
non so che minchia gli ha detto.
Comu pinzava, ca ci lo dicia ni la littra ca mannavo prima, sta
commedia avia cosi ca un mi cummincivano. Forsi vulivano fari iri
tutti a la festa pi fari chistu incontro cu Musolino, e Filippo Bardana lo
sappi e circò di ammazzarilo.
139
Capitolo XVIII
Il prefetto convoca il Bardana per parlare del tentato omicidio di
Mussolini
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del
ricordo di Francisco che contattò il sogno di suo padre Filippo, che
narrò l’incontro che egli ebbe col prefetto che voleva sapere del
tentato omicidio di Mussolini.
- Voi Bardana avete il pallino di volere a tutti i costi entrare nella
storia. Mi sono informato, un vostro antenato voleva uccidere
Garibaldi. So anche che due altri Bardana andarono per uccidere
Umberto I di Savoia Re d’Italia, ma furono anticipati dal Bresci. Uno
di questi eravate voi, avevate 17 anni. Non voglio sapere da voi quello
che volevate fare con vostro padre, né il modo. Quello che so mi
basta. Io dico che nella storia si può entrare diversamente. Facendo
cose egregie. E comunque non uccidendo governanti, re e capi di
Stato. Questo vuol dire entrare nella storia dalla finestra o dalla porta
di servizio: nella storia è meglio entrarci dal portone principale.
- Nella storia, Eccellenza, uno fa quello che può – disse Filippo
Bardana il vecchio - E se uno ci entra qualche volta dalla porta di
servizio o dalla finestra, è perché magari trova il portone principale
chiuso.
- Parole sagge – ribatté il prefetto – Però, se uno non può, non è
detto che nella storia deve entrarci per forza.
Filippo Bardana osservò attentamente il prefetto Umberto
Emanuele Cordero detto Occhialino o Palladivetro e sorrise. Nomi,
cognome, ingiuria, era tutto a posto: un prefetto perfetto. Piemontese,
liberale, e poteva essere mai un prefetto siciliano socialista o
scassapagliara? Anche il fisico, alto, pizzetto, occhialini, l’età,
sissantino. Buone maniere, la moglie Martina Boero detta Testagrossa,
alta, impettita, austera, che saluta cortesemente e se ne va. Tutto a
posto. Guardò oltre la finestra, vide i templi, vide il mare. Tutto a
posto. Tornò a gurdare il prefetto. Gli fu subito simpatico, il prefetto.
140
Il podestà lo era già da tempo. Guardò anche lui, poco, perché subito il
prefetto riprese fra le mani il destino del colloquio.
- La vostra famiglia è stata sempre contro la patria, - proseguì il
prefetto - contro la società, contro la storia. Garibaldi, Umberto I, il
capo del Governo, Sua Eccellenza Benito Mussolini, che cosa
rappresentano, secondo voi? Rappresentano lo Stato, il consorzio
civile.
- Però il Duce è anche il capo del fascismo – disse Bardana - E
non c’è più libertà, e ci sono tante cose che non vanno. Io ho solo un
poco di cultura, leggo, quel poco che si può leggere, ma certe cose le
capisco. (A mia chisto un ma cunta bona, pensò. Dice e non dice, lui sì
che rapprisenta lo Stato, ma non può offendere il fascismo, che ora è
al governo).
- Voi, Bardana, certe cose non dovete sforzarvi di capirle – disse
il prefetto - Ci sono cose più grandi delle singole vicende personali. Il
Capo del Governo è stato nominato da Sua Maestà il Re Vittorio
Emanuele III e rappresenta lo Stato. Voi, pertanto, volevate uccidere
lo Stato.
- Sì – confermò il podestà - Forse voi volevate uccidere il Duce
perché egli rappresenta lo Stato, non perché è il ‘apo del fascismo.
- Sì – disse ancora il prefetto - Avete fatto bene a non ucciderlo,
un Duce non si uccide così. La storia non può prendere questo corso.
In genere, questi uomini vengono abbattuti dalle rivoluzioni, dalle
guerre, da grandi cataclismi.
- Don Filippo Bardana – disse il podestà – nell’in’ontro che ha
avuto ‘on me ha detto di essersi pentito di ciò che ha fatto e di ciò che
avrebbe voluto fare. Quella sera si erano ubria’ati, lui, il figlio e i suoi
amici. A ciò aggiungiamo le tristi vicende personali, i figli morti in
Etiopia, le vicissitudini familiari, i problemi sociali, economici, le
tensioni nel paese, Eccellenza. Del resto è stata a’omodata la
questione anche col barone Nasca…
- Quello che dovevo dirvi, - disse il prefetto annuendo - per
mezzo del podestà, ve lo ho già detto. Vi ho convocato qui perché
volevo conoscervi di persona. Ho sentito parlare di voi come di
persona degna di rispetto, uomo di equilibrio, anche se con idee che
non sono propriamente in linea con quelle del fascismo…
141
- Il fascismo non è lo Stato. Lo Stato è il Re. Il Re è il Capo dello
Stato – disse Bardana. (Sì, perché tu e il podestà, vi conoscono, al
Duce gli tagliereste i coglioni).
- In questo momento, vi piaccia o no, il fascismo è lo Stato, disse il prefetto - e lo Stato non può permettersi uno scandalo. Si
stanno aprendo scenari giganteschi per la storia dell’umanità, se anche
fossero veri, questi sono fatterelli insignificanti in eventi di portata
epocale. La vita privata di ogni persona, e soprattutto quella del Duce,
è sacra. Agli italiani interessano i destini della patria.
- Eccellenza, io non ci capisco molto di politica, – disse Bardana
– Però devo dire che in certe cose del governo non c’è logica.
Insomma, secondo me il governo sta sbagliando politica. Ci stiamo
avvicinando a questo pazzo tedesco per le sanzioni, ci avviciniamo
alla Germania, che i tedeschi sono stati sempre nostri nemici, e ci
allontaniamo dalla Francia e dall’Inghilterra, che senza di loro, altro
che unità d’Italia. Gli italiani hanno in simpatia la Francia e
l’Inghilterra, è la simpatia che ha le sue radici nel Risorgimento e
nella prima guerra mondiale. Non c’è bisogno che glielo insegno io
questo, Eccillenza.
- Certo, certo – disse il prefetto.
- Poi c’è questo impero africano che non ci servirà a niente, continuò Bardana - che è un paese povero l’Etiopia, e non ha una
minchia, scusassi Eccillenza.
- Non siete solo voi a non capire bene la politica del governo,
Bardana – disse il prefetto – A volte sembra che dia un colpo a destra
e uno a sinistra. Sembra una cosa complessa, il fascismo. Prassi, non
dottrina, dice lo stesso Duce. Potere, regime, non ideologia. La
conservazione del potere. Ordine, disciplina, quello che vuole la destra
agraria e industriale, e la piccola borghesia senza più soldi e senza
considerazione sociale… Libero mercato. Quando parla sembra un
liberale, ma il suo libero mercato è controllato dallo Stato. Bel
capitalismo! Certo, lui non si dichiara uomo di destra. Il popolo, i
proletari, queste parole gli sono sempre in bocca… Questo Mussolini,
insomma, che dà un colpo a destra e un colpo a sinistra… Sì, questo è
Mussolini, il proletario che si vanta di venire dal popolo e si veste da
maestro, uno che non ama la pulizia ma si profuma, anticlericale ma fa
142
battezzare i figli, idee politiche niente affatto ordinate, superficiali, un
ardito che però dice che non bisogna forzare il destino…
- Sì, Eccellenza – disse ancora Bardana - A me il fascismo
sembra come un guscio vuoto che si riempie di cose sempre diverse,
come un piatto dove vengono servite tante pietanze diverse, che sono
patria, colonialismo, famiglia, proprietà…
- Tutto il ‘ontrario del nazionalsocialismo di Hitler, ‘aro Bardana
- intervenne il podestà – Che è una dottrina, perversa sì, ma
dottrina… La razza ariana, l’odio ‘ontro gli ebrei, il nazionalismo,
l’espansionismo, lo spazio vitale, ‘ancellazione delle ‘lausole del
trattato di pace di Versailles, riarmo, rimilitarizzazione della
Renania…
- Sissignore – disse Bardana – Vedo che anche voi lo capite. A
parte le parolone, ci aspettano tempi felici, Eccillenza. Per ora il Duce,
il popolo lo ama per le glorie d’Etiopia, ma appena si vedrà che non ci
prenderemo manco una fico secca e ci sarà la guerra…
- Mah! – disse il prefetto – Forse noi siamo troppo piccoli per
comprendere le idee geniali del Duce. Il Duce ha idee grandi. Vuole
creare l’Impero del sud. Il tedesco vuole creare l’Impero del nord e lui
quello del sud. Con l’aiuto del tedesco. Sì, il Duce vuole creare un
grande Impero. Il Duce ha idee grandi. Vuole creare, per la gloria
d’Italia, un Impero immenso che va dall’Europa mediterranea
all’Oceano Indiano, più grande di ogni altro, di quello dei russi
bolscevichi, della Francia, dell’Inghilterra, dell’America. (Minchia,
pensava Filippo Bardana, chisto è pazzo. E con chi lo deve fare,
questo Impero, con questi quattro scarsi?). Compresi pure l’Africa e il
Medio Oriente. Dove potere diffondere la superba civiltà italica. Il
Cancelliere Hitler si farà il suo Impero al nord, noi al sud. E insieme
domineremo il mondo. La razza ariana e la razza mediterranea.
Fascismo e religione cattolica, colonizzeremo il mondo. (Questo,
pensò Bardana, sta prendendo per il culo tutto il fascismo, tanto sa chi
sono io: uno che non lo dirà a nessuno. Non può tradirlo).
Il prefetto si fece serio. Guardò fuori, verso il mare, verso i lidi
africani. Due minuti di abissale silenzio.
143
- Ad ogni modo, - disse poi rivolgendosi a Bardana – poco fa io
ho scherzato. E anche il podestà ha scherzato. Quello che voi stavate
per uccidere non era il Duce, era un pagliaccio che si prestava a un
gioco ignobile. Io volevo conoscervi solo personalmente. Non
indagate su chi era e chi non era. Se ci sarà un giudice, sarà la storia.
Sarà la storia a dire chi era. Il Capo del Governo ha visitato la Sicilia
ma non è mai stato ad Almeda. Egli deve andare a concludere altrove
la sua vicenda terrena e i destini della Patria. E il barone depravato
Nasca e la sua lussuriosa moglie finiranno nell’oblio della storia.
Quando la storia intraprende un percorso, lo deve concludere. La
fatalità, il destino. Chiamatelo come volete. Sono in cantiere progetti
che apriranno albe luminose. (Ho capito tutto ora, pensò il Bardana).
- Oppure pozzi senza fondo – disse Filippo Bardana - Certo, la
storia non può sterzare in questo paese di merda… Oh, scusate,
Eccillenza. Noi che possiamo fare, Eccillenza? Solo osservare,
possiamo fare… La storia la devono fare gli altri. E poi, il Capo del
Fascismo ucciso con una puttana….Via… Chissà quante puttane avrà
avuto il Duce, quanti figli illegittimi, e dovrebbe morire ammazzato
con una puttana!
- Nemmeno il minimo dubbio, il minimo sospetto ci deve essere
che il Duce sia passato da questo paese – disse il prefetto Immaginiamo poi che si sia fermato.
- E poi, ‘aro Bardana, - intervenne il podestà - che ‘osa volete ‘he
sia una scopata davanti ai fulgidi destini della stirpe? (Già, pensò
Bardana, pi na ficcata si può affunnari a storia?).
- Questa storia è ‘ome un treno ‘he non si può fermare, o giunge
alla meta, o ‘ade dal ponte – fu ancora lapidario il podestà – E poi
dov’è l’opposizione? Non esiste un’opposizione organizzata, non c’è
stato tempo per organizzarla. Forse la farà una guerra, l’opposizione…
- E poi le rivoluzioni si fanno in città, non nei villaggi – disse il
prefetto.
- Mentre le puttane invece sono dappertutto… - disse Bardana Oh, scusate ancora, Eccellenza.
- Vi capisco – disse il prefetto – Ma ricordate che il Duce
fondatore dell’Impero è venuto in Sicilia in pieno agosto non per le
puttane ma per inaugurare un nuovo tempo. (È un attore, pensò il
Bardana. Sì, un grande attore). È stato a Siracusa, Enna, è stato ad
144
Agrigento, a Palermo. Ci sono state inaugurazioni, celebrazioni, feste.
Ha tenuto discorsi bellissimi, appassionati, veri. I siciliani, ha detto,
sono gente laboriosa, fiera. La Sicilia sarà al centro di un Impero
latino, la Sicilia è il posto ideale per realizzare il fascismo in Italia. La
Sicilia, terra magnifica, fiera e laboriosa, in cui la povertà sarà la sua
ricchezza. Ha parlato del suo programma di costruzione di villaggi
rurali con acqua e strade, della liquidazione della peste del latifondo e
della cultura estensiva. La Sicilia diventerà una delle contrade più
fertili della Terra, un paradiso, una terra felice. Un giardino dove
prevarranno la piccola e media proprietà. La Sicilia, la terra degli
oliveti e degli aranceti, delle vigne e delle messi, centro di valori sani,
puri, quelli della famiglia laboriosa, centro geografico dell’Impero,
luogo di pace, trionfo della politica fascista. La Sicilia, un’isola piena
di passione, di poesia, di storia, di cultura. (Minchia, questo sì che è il
fascismo, pensò Bardana. Un paradiso).
- Ci hanno provato tanti – disse Bardana – a fare diventare un
paradiso la Sicilia, e non ci sono riusciti. Anche un grande imperatore
come Federico II non c’è riuscito, e ci vuole riuscire il Duce?
- Federico II si è messo ‘ontro la ‘hiesa e contro i ‘omuni del
nord – disse il podestà – Brutte bestie. Per questo non c’è riuscito.
- Eh, sì – disse il prefetto – Il fascismo è diverso. Il fascismo ha
unificato il paese, ha dalla sua parte la Chiesa. Dopo la conquista
dell’Etiopia, la Sicilia diventerà un nodo strategico, non più la remota
periferia dell’Impero, soprattutto dopo la distruzione della mafia. Così
ha detto il Capo del Governo. (Sì, sta minchia avi a distruggere, pensò
Bardana).
- Eppure io credo, Eccillenza, - disse Bardana - che questa terra
non sarà mai fascista perché questa terra sarà sempre contro lo Stato.
Qui da noi abbiamo il particolarismo malefico, egoista, violento. E c’è
la miseria pure. Per questo c’è la mafia. E ci sarà sempre.
- Forse nelle parole del signor Bardana c’è ‘ualche verità,
Eccellenza – disse il podestà.
- Forse avete ragione voi – disse il prefetto - Eppure io sono
convinto, caro Carmazzi, che l’anima italiana è un’anima fascista, e
che questa persona sta realizzando un capolavoro politico. Parlando
ora seriamente, non di gusci vuoti, l’Italia non crede nella democrazia
ma nell’individuo che le risolve i problemi. Il fascismo sta prendendo
145
il meglio e il peggio della storia, della cultura e della tradizione
d’Italia. Il fascismo è autoritario, dittatoriale, ma non è
antidemocratico in economia, non è contro i lavoratori. È favorevole
all’impresa privata purché essa non sia contro gli interessi della
Nazione. Se non ci sarà un evento inaspettato, una guerra, un colpo di
Stato, questo movimentro trasformerà definitivamente l’anima
italiana. (Forse qua non si sbaglia, pensò Bardana).
Il prefetto guardò il podestà, poi Bardana. Sorrise. Poi si fece
serio. Continuò.
- La lotta contro le plutocrazie e il capitalismo, contro le
socialdemocrazie e le democrazie deboli e corrotte, l’uomo nuovo
fascista, la passione superba della migliore gioventù italiana. La gente
ci crede, a queste cose. (Minchia chi paruluna!, pensò il Bardana).
Caro Bardana, dappertutto, in tutta Italia. Ve lo dice uno che, ve lo
confido, perché il podestà lo sa, uno che gli hanno fatto cambiare
cinque sedi in Italia. E che si è inimicato anche il Re per tenere qui il
podestà di Almeda. Né io né voi, né il podestà, da soli possiamo
cambiare il mondo.
- Eppure, Eccillenza, – disse Bardana – mi sbaglierò, ma stavamo
assaporando un poco di democrazia. Ma abbiamo vinto una guerra ed
è come se l’avessimo perduta. Forse non c’è stato il tempo di fare
lievitare le idee buone.
- Forse, caro Bardana, chi lo sa?, stiamo vivendo un tempo di
mezzo – disse il prefetto guardando fuori, verso i templi greci. Serio.
Non era mai stato così serio quella mattina – Sì, un tempo di mezzo.
Questo è un tempo di mezzo. Tempo precario. Il Duce a settembre
andrà in Germania dal Führer, poi certamente Hitler ricambierà l’anno
prossimo la visita. Si prospetta all’orizzonte un’alleanza di ferro, anzi
d’acciaio. Ci stiamo facendo coinvolgere in un progetto che non è il
nostro. Ci stiamo facendo trascinare nell’abisso. L’Etiopia, una
conquista inutile, lo avete detto pure voi, ha dato alla testa a qualcuno.
Il Trattato di Versailles è stato una cosa scellerata, dobbiamo dirlo,
contro la Germania. Il Cancelliere tedesco darà ancora gomitate ad
ovest e soprattutto a est, per conquistare il suo spazio vitale. Nessuno
lo fermerà. L’Europa democratica e liberale è fragile. La Gran
146
Bretagna è un’isola, la Francia è un colosso d’argilla. Franco vincerà
la guerra civile spagnola. A est, fra gli slavi cosiddetti sottosviluppati,
c’è un certo Stalin che vorrà riprendersi i territori perduti dalla Russia
nella prima guerra mondiale. E aspetta che si scannino gli europei per
mangiarsi il continente (Minchia, ora sì ca mi piaci, rifletté Bardana.
Forsi si scurdà ca ci sugnu iu ca dintra. Anche si un haio caputo
quanno è serio e quanno cugliunia).
- Tutti parlano di pace, Eccellenza, ma si preparano alla guerra –
disse il Carmazzi - Tutti hanno un impero, la Francia, la Gran
Bretagna, l’Ameri’a, la Russia, il Giappone, la Cina, perfino noi,
l’Italia, un Paese fragile ‘ome la terra su ‘ui poggia, abbiamo un
impero. La Germania ha ottanta milioni di abitanti, il doppio
dell’Italia, Eccellenza, deve dar da mangiare a ‘uesto popolo
sterminato. La Germania vorrà il suo impero. Il guaio è che lo vuole in
Europa, e questo non glielo permetteranno. E se si scatena una guerra
in Europa, l’America non starà a guardare. E in Asia c’è l’Impero del
Sol Levante che è piuttosto irrequieto (Bravo, anche a chisto. Anchi si
un saccio quanno, pure lui, quanno è serio e quanno cugliunia).
- Dite bene, Carmazzi – disse il prefetto - Dovremmo invece
stare al riparo, non dico però di stare a guardare, a farci le seghe,
scusate, ma lavorare per la pace, questo dovremmo fare. Gli italiani, il
Re, Ciano, Grandi, tutti dicono di essere antitedeschi, invece corrono
verso questa funesta alleanza.
- Vero è, Eccillenza – intervenne il Bardana - Pari invece una
commedia in cui ognuno pensa di dovere recitare una parte, anche si
succedi l’apocalisse.
- E purtroppo questa non è una commedia, caro Bardana, - disse
il prefetto - ma una tragedia. E a interpretare questa tragedia, c’è
gente pericolosa, niente affatto sprovveduta. Alla fine della quale c’è
il sangue, il lutto, il suicidio. Le dittature, detto fra noi che ci
conosciamo e stimiamo, non hanno vita lunga. E conducono sempre
allo sfascio. Vedo all’orizzonte tempeste apocalittiche - forze immani,
cataclismi, guerre devastanti si stanno per abbattere sulla storia, e
spazzeranno via ogni vestigio della civiltà. (Minchia, pensò ancora
Bardana, è la fine del mondo).
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- La dittatura è arrivata perché non c’era democrazia in Italia –
disse il Bardana -Anche l’Italia di Giolitti, con tutto il rispetto,
Eccillenza, non è che era democratica…
- In Italia non c’è mai stata la democrazia, caro Bardana – disse il
prefetto - Né forse ci sarà mai. Io sono un liberale vecchio stampo,
austero, uno degli ultimi rappresentanti di un mondo al tramonto. Ma
forse una vera politica liberale si deve ancora realizzare, forse il
liberalismo è stato strozzato dalla guerra.
- Anche il socialismo, Eccellenza, – disse il podestà
simpatizzante socialista - probabilmente è stato strozzato dalla guerra,
e la storia conosce solo quello della rivoluzione russa. I cosiddetti
partiti di massa hanno abdicato prima di nascere nel 1922… Sì, forse
avete ragione voi, forse questo non è tempo di niente, e questo è solo
un tempo di mezzo.
- Chissà che fra cinquant’anni o cento – disse il prefetto - non
spariranno queste vecchie categorie dello spirito, e nuove ideologie
appariranno, o forse nessuna ideologia governerà il mondo, ma solo
interessi egoistici e di casta.
- E mi viene anche il sospetto, - disse il podestà - che il fascismo
in’arni veramente l’anima degli italiani, e ‘he esso possa ripresentarsi
sempre, sotto altre forme, anche se adesso o fra mille anni dovesse
sparire.
- Strana comunanza di interessi, la nostra, caro Carmazzi – disse
il prefetto - In questi tempi di dittatura, siamo accomunati dall’amore
per la democrazia e per la libertà, in tempi di democrazia magari,
come è già successo, ci scanneremmo per altre ragioni, economiche,
politiche o per altro. Chissà che, se dovesse finire il fascismo, le
nostre strade non si divideranno… Voi che ne pensate, Bardana?
- Io, Eccillenza, – rispose il Bardana – nella mia ignoranza, penso
che forse è stata la debolezza dei liberali e dei socialisti che ha fatto
andare il fascismo al potere. E dei cattolici. Grandi partiti popolari,
che si sono fatti fregare da quattro violenti e cose inutili (Minchia,
ormai ci l’aviva a dire, pensò. Tanto l’ho capito che anche il prefetto,
e non solo il podestà, è contro il fascismo).
- Bene – disse il prefetto – Ora è il momento, caro Bardana, che
potreste anche dirmi che paese è questo Almeda, anche se il podestà
mi ha fatto sempre relazioni puntigliose e precise. Tanto per capire
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che ne pensate voi. (Chisto voli sapiri no chi penso io, ma chi sugno
io, pensò Bardana. Però gli arrifrisco la mente).
- Come sicuramente l’ha informata sua Eccillenza il signor
podestà, - disse subito Bardana – Almeda è un paese veramente
strano, signor prefetto. Un paese dove tutto pare a posto ma niente è a
posto, dove tutto può scoppiare come una bomba all’improvviso. Ci
sono, Eccillenza, quattro nobili inutili che non fanno niente e si
mangiano bruciano i guadagni delle proprietà nei circoli cittadini e se
ne fottono del fascismo e del Duce, e al momento sono fascisti per
convenienza. C’è poi un esercito di pretazzi ignoranti che pure se ne
strafottono dell’educazione dei giovani e hanno lasciato questi ultimi
al fascismo per il quieto vivere e per difendersi, a modo loro, si
capisce, dai comunisti e dai socialisti. Ci sono tanti contadini ignoranti
che credono ancora nella distribuzione delle terre e intanto molti di
loro sono andati in Etiopia a rompere i coglioni al Negus… oh, mi
perdoni Eccillenza. E quasi tutti vanno a mietere per un pane al
giorno. Ufficialmente sono tutti fascisti, professionisti, impiegati,
contadini, ma io penso, Eccellenza, che tutti lo sono per convenienza,
e che se succede un quarantotto, tutti strappano subito le loro tessere e
se la danno a gambe levate.
- Ma allora, secondo voi, Bardana, – disse il prefetto quasi
divertito – non ci sono antifascisti ad Almeda? Eppure me lo hanno
descritto come un paese terribile, pieno di anarchici e bombaroli.
Compresi voi Bardana. (Ora provoca, pensò Bardana. Ora gliele dico
due).
- Eccillenza, - disse Bardana – non c’è bisogno che ve lo dico io
chi sono gli antifascisti ad Almeda. Le idee dei Bardana voi le
conoscete. Io non sono uno infame, uno spione di polizia. C’è qualche
proprietario che pensa che sua Eccellenza Mussolini è una specie di
socialista mascherato. Mah! Poi, quelli che si intendono di politica
sono pochi.
- Va bene, ho capito – disse il prefetto – Non volete parlare. Vi
aiuto io. Diciamo che i veri antifascisti, però persone a posto, per
carità, sono l’ingegnere Giosuè Barresi e suo figlio Filippo, il
fidanzato di Giulia, la figlia del qui presente podestà, e la famiglia del
cognato Sovrintendente, che però hanno dovuto prendere la tessera
non per paura o codardia ma per potere lavorare. Poi gli altri
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antifascisti, forse i più veri, e non facciamo nomi, sono quelli che
gravitano intorno alla vostra famiglia: il farmacista , il vostro medico,
un maestro ex sindacalista, un falegname, un calzolaio, un minatore, e
una mezza dozzina di contadini che lavorano alle vostre dipendenze.
Non è così?
- Tutto voi state facendo, Eccillenza – disse Bardana. (Sta
minchia ca tu dico).
- E i fascisti, diciamo veri, chi sarebbero? – lo incalzò il prefetto
– Almeno questo potete dirmelo.
- Questo ve lo dico, Eccillenza – disse Bardana (Tanto li
conoscono tutti, e almeno mi faccio bello con voi, pensò) – Per me i
più pericolosi, perché i più stupidi, sono quelli che dipendono dal
segretario del fascio di Almeda, Saro Patacca detto Trummittuni, per
questa passione che ha per le parate. Qualche nazionalista, due o tre
che si fanno chiamare arditi, quattro militari, due nobili con le pezze al
culo, scusassi Eccillenza, e quattro impiegatucci esaltati e morti di
fame. E poi ci sono i quattro carabinieri che non contano un cazzo,
Eccillenza, sempri scusate. E poi c’è questo federale di Gandara,
Eccillenza, uno che vuole contare, e che se non mi sbaglio qualche
grattacapo ve lo ha dato perché voi volete fare svolgere i concorsi in
modo regolare.
- Vedo ‘he il signor Bardana legge po’o ma è molto informato, –
intervenne il podestà – e ‘ueste non sono certo notizie che gli do io. Sì.
È un uomo esagitato, un ex squadrista, un violento. Il federale, di’o.
- Sì - confermò il prefetto – Anche davanti a voi, Bardana, posso
dirlo: il federale mi ha dato non pochi problemi. Io mi sono fatto in
quattro per organizzare la visita del Capo del Governo, e lui voleva
fare la primadonna, riunioni di qua, riunioni di là, direttive,
manifesti… Non vuole accettare di essere un subordinato, come tra
l’altro stabilisce la circolare del gennaio 1927.
- Ce l’ha ‘on voi, Eccellenza, - disse il podestà - perché avete
fatto svolgere in modo regolare tanti ‘oncorsi. Per non parlare della
nomina dell’Ufficiale sanitario. voi, Eccellenza, avete sentito il parere
del podestà, cioè del sottoscritto, e non del segretario del fascio
cretino di Almeda…
- Eh, sì – disse il prefetto - Si è indispettito perché la nomina non
era di suo gradimento, e io non l’ho consultato.
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- Ora arrabbiato lo è an’ora di più, - disse il podestà - perché
‘uesto Ufficiale sanitario ha denunciato al podestà, cioè a me, tante
trasgressioni sanitarie di iscritti al fascio ad Almeda. Non parliamo poi
di quel cretino del segretario del fascio di Almeda, che si lamenta
sempre che la ‘asa del Fascio, la ‘aserma della milizia e la ‘asa del
Balilla sono tutte nello stesso edificio… (Chi minchia mi ni fotti a mia
di sti chiacchiere inutili, pensò Bardana).
- Eh, sì – disse il prefetto - Tutti ammassati in un piccolo edificio
davanti al campo sportivo. E vi accusa, caro Carmazzi, di ritardare,
per mezzo dell’architetto Ravanà, che secondo lui sarebbe un vostro
fedele, la presentazione del progetto voluto dai fascisti della provincia
di Gandara…
- Mentre voi sapete, Eccellenza, - disse il podestà – ‘uante volte
io sono venuto da voi, anche ‘ol federale, per intercettare
finanziamenti destinati a scuole per utilizzarli per la ‘ostruzione di
‘uesto enorme edificio, che dovrebbe servire anche per le scuole, si
‘apisce. Una ‘osa molto difficile.
- Finanziamenti impossibili – disse il prefetto - per un edificio
che dovrebbe contenere la sede politico-amministrativa del fascio con
le sue organizzazioni giovanili e femminili, la sede del Comando della
Milizia, le organizzazioni dopolavoristiche, il sindacato degli operai,
le Unioni dei commercianti, degli agricoltori, degli industriali, il
dopolavoro, il campo sportivo…
- E che ‘azzo si crede il fascismo, la ‘asa di Dio? – disse il
podestà - Oh, scusate, Eccellenza… (Sapissivu quanto me ne fotti a
mia, pensò Bardana).
- Eh, già – disse il prefetto – Però stiamo annoiando il nostro caro
Bardana, Carmazzi. (Meno male che ve ne siete accorti, coglioni,
pensò Bardana).
Il prefetto guardò fisso Filippo Bardana il vecchio, poi il podestà.
Infine parlò.
- Sapete che cosa penso di voi, Bardana?
- Spero che non vi siete fatti una cattiva idea, Eccillenza – disse il
Bardana.
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- No – disse il prefetto – Voi siete un contadino, un massaro
rispettato. Siete anche colto, aspetto da non sottovalutare per niente.
Voi siete l’unico che non si è mai piegato al fascismo ad Almeda. Il
fascismo vi ha distrutto la famiglia, non vi sta facendo studiare
l’ultimo figlio, che per questo dicono che sta diventando pazzo, e
cammina su e giù per il corso principale del paese, l’unico che a molti
di voi Bardana hanno consentito di frequentare. Una vita spezzata. Voi
avete subito subito tante violenze, tanti soprusi. Vi hanno bruciato due
case, vi hanno devastato le proprietà, distrutto vigne e uliveti. Voi
siete un uomo che ha vissuto nell’odio per il fascismo. L’odio è
diventato rancore. E il rancore, in questa terra, è qualcosa di più
profondo dell’odio. Lo so che col rancore non si costruisce la nuova
società, ma almeno si demolisce quella vecchia.
- Filippo Bardana è l’ultimo socialista – disse il podestà.
- No – disse il prefetto - L’ultimo uomo.
- Io non so se sono l’ultimo uomo o il primo, - disse Bardana ma è in tempi come questo, in questi tempi di mezzo, come dite voi,
Eccillenza, che o si diventa merda o si diventa uomini. E se non si è
uomini, non si sarà mai socialisti o liberali o cattolici. O anche
fascisti. E oggi l’uomo è marcio, Eccillenza.
- Avete ragione, Bardana – disse il prefetto – Mi permetto solo di
precisare che oggi l’uomo non è marcio: semplicemente, non è.
Questo è un tempo di mezzo, e come tutti i tempi di mezzo bisogna
fare in modo che passi velocemente, anche con violenza, affinché
giunga presto alla fine. Non bisogna opporre resistenza, occorre
lasciare che scorrano. Nessuno li vorrebbe mai, ma spesso giungono e
bisogna accettarli. Sono tempi di attesa, che giungono quando c’è
indecisione, quando la storia si racchiude in se stessa e chiede una
pausa, non sa che via prendere. Lo si capisce subito per l’eccezionalità
delle cose che accadono, delle persone che vi agiscono. Tutto sembra
più veloce, più caotico, entrano in scena personaggi strani, stravaganti,
straordinari.
- ‘ome Mussolini, Hitler, Stalin: non è ‘osì, Eccellenza? – disse il
podestà.
- Sì – disse il prefetto – Solo alla fine dei tempi di mezzo, quando
questi uomini non ci saranno più, verranno fuori i veri uomini. Forse
verrà un tempo in cui questi uomini, questi anni, verranno considerati
152
come un’interruzione, una parentesi, come un baratro, un abisso, un
incidente della storia, che riprenderà il suo corso normale.
- Si potrebbe, Eccillenza, – disse Bardana – affrettare questi
tempi, farli arrivare subito alla loro fine.
- Affrettare gli eventi? – disse il prefetto con un sorriso - E verso
dove? Verso la distruzione? No, caro Bardana. I tempi di mezzo
corrono sempre verso la loro distruzione. Non ha senso affrettarli.
Non vanno conclusi subito, potrebbero arrecare danni più gravi,
irreparabili.
- Ho capito, Eccillenza – disse Bardana – Per questo nei tempi di
mezzo gente come Hitler, Mussolini o Stalin devono finire il loro
tempo. E se si interrompe questo tempo loro possono diventare eroi. E
allora il tempo di mezzo diventa più lungo, e può portare danni
maggiori.
- Avete compreso perfettamente – disse il prefetto – È nei tempi
di mezzo che che si prepara il tempo definitivo, tutto il resto, anche
l’aria che respiriamo, è una buffonata o una tragedia.
- Ecco perché anche il Duce può essere ‘onsiderato un uomo
provvisorio – disse il podestà.
- Altro che uomo del destino… - chiuse Bardana.
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PARTE TERZA
UNA GIORNATA PARTICOLARE
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Capitolo XIX
Francisco Bardana e la storia
Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il
sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una
giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il
bibliotecario, nel 1983.
Diego Gambino mangiava con gran gusto le interiora di animali e
di volatili. Sì, e pure uova fritte, prosciutti, lardo, burro, formaggi.
Joyce. Ma soprattutto carne. Povero Diego Gambino! Sangue mio! Ti
piacevano i coglioni di toro. Li mangiavi anche seduto sul cesso.
Cancro al culo. Devastante. La vendetta della mucca. Anzi, del toro.
Quanto mangiavi, Dè! Carne, sempre carne. Stigliola al forno, corata.
Calia di agnello, fegato, rognone, uova sode, cipolla, aglio,
prezzemolo, alloro, listarelle di lardo, budella di agnello, sale, pepe.
Ah, le patate, spicchi di patate nella stigliola. Cuore, polmoni. E il
fegato. Quanto fegato, Dè! Fritto, impanato, in umido con cipolle.
Milza, panini con la meusa. Con la ricotta. Ti piacevano con la ricotta,
i panini con la milza. Beh, anche col caciocavallo. Oh, il cavallo!
Anche la carne di cavallo ti piaceva. Rossa, al sangue. Eri anemico,
Dè. Per questo mangiavi tanta carne. Maiale. Porchetta, bistecche di
maiale. Alla griglia. Costolette di agnello alla griglia. Pepe, sale,
rosmarino. Roast beef. Roast beef al forno con patate e rosmarino.
Carne rossa. Eri un vampiro, Dè, non eri un uomo. Castrato alla
griglia. Salsiccia di maiale alla griglia. Carne rossa e carne bianca.
Carne di vitellone a pezzi col sugo. Costata di manzo alla griglia.
Coniglio alla cacciatora. Ali di pollo fritte con patate fritte. Pollo
arrosto. Gozzi, colli di anatra e di tacchini. In brodo. Povero Diego.
Avevi da sempre un piede nella tomba. Quanta carne! Altro che dieta
mediterranea!
157
Povero Diego! Cancro al culo. Sei mesi di dolore. Poi la miglior
vita. Asceso al cielo. Alla casa del Padre. Ti sia lieve la terra. Quale
terra? Nemmeno la terra è lieve. Nemmeno il cielo. Ti sia lieve il
loculo. Amen. Anche tu te ne sei andato. Marito e padre esemplare.
Capirai, che consolazione. Quand’anche foste casti come il ghiaccio e
puri come la neve, non sfuggirete per questo alla calunnia.
Shakespeare.
Questa notte si è spento serenamente Diego Gambino, assistito
amorevolmente dai suoi. Dopo una breve malattia. Ne danno il triste
annuncio i parenti tutti. Quali parenti? L’ultimo dei Mohicani. Era
ormai solo come un cane. L’ultimo cugino. Cognome diverso ma
stesso sangue. L’ultimo della stirpe. No, il penultimo: l’ultimo sono
io. No, il terz’ultimo: c’è mio figlio. Altro disperato solitario. Senza
discendenza. I funerali si svolgeranno domani, alle ore undici, nella
Chiesa di Sant’Ignazio. Capirai, i funerali li fanno adesso la mattina.
Sic transit gloria mundi.
Gloria. No. Sic transit merda mundi. La strada verso casa è
sempre un tragitto periglioso. Dalla biblioteca a casa sono poche
centinaia di metri, ma un ingorgo esistenziale. Che cazzo di vita hai
vissuto, Dè? 58 anni di vita inutile. L’uomo senza qualità.
Musil.Trentacinque anni sepolto in un ufficio dell’anagrafe, tre metri
per tre. Da un loculo all’altro. Da una bara all’altra. Che cazzo ne
avevi della vita, Dè? Casa, lavoro e cucina. Mangiare. Sempre
mangiare. Carne. Povero cugino. Cancro al culo. Operazione,
complicazioni, boom. Sei mesi di borsa al fianco. Sei mesi di merda.
Una spina nel cuore. La merda nel cuore.
Sono rimasto io solo. No, mio figlio. Il vero, ultimo dei Mohicani.
A vigilare sulla mia storia. Che storia? Storia di una famiglia a cui ha
fatto tanto schifo il mondo nell’ultimo secolo da mettere pochi figli al
mondo, o nessuno, come te, o uno solo, come me, Dè. L’estinzione ce
la siamo meritata. Si estinguerà per sempre la stirpe miserabile dei
Bardana. Ci trasformeremo in polvere, vento. Come sarà il mondo
senza di noi? Sempre lo stesso. Non abbiamo dato amore al mondo ma
nemmeno odio. Eppure potevamo entrare prepotentemente nella
storia. Un’occasione unica, irripetibile. L’abbiamo sprecata. Uccidere
Garibaldi. Uccidere Umberto I. Uccidere Mussolini per la Nazione,
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per il tempo, per la storia. Se non fossero nati i Bardana, l’universo
non se ne sarebbe neanche accorto.
Fra qualche anno, quando anche mio figlio se ne sarà andato, che
cosa resterà dei Bardana? Solo un mucchietto di carte dell’anagrafe,
una tomba di famiglia dove nessuno andrà a pregare, a portare un
fiore. Solo qualche cagna famelica ululando nella notte. Il vento che
passa indifferente e se ne va. Minchia, che poesia! Però nessun cane
piscerà sulla tomba. Io starò in alto. Il piede profano del vulgo non
romperà i coglioni. Mio figlio starà dove cazzo vorrà stare. E quando
morirà mio figlio? Le cagne gireranno al largo, pisceranno al massimo
sulle mura della tomba. Nessuna polvere alle ortiche di deserta gleba.
Non ci sono alberi vicino alla tomba. Di fiori nessuna odorata arbore
amica consolerà le ceneri di molli ombre. Nessuna donna innamorata
pregherà, passeggero solitario udrà il respiro che dal tumulo a noi
manda Natura? Boh! La derelitta cagna almeno ramingando non
rasperà fra le macerie e i bronchi, non ci sono fosse, forse famelica
ululerà. L’ùpupa non svolazzerà su per le croci sparse per la funerea
campagna. Chi minchia la conosce l’ùpupa? Oh, i rai, non li accuserà i
rai l’immonda col luttuoso singulto, i rai di che son pie le stelle alle
obbliate sepolture. Questo meritano i Bardana. Però, che poesia!
Genio italico. Ahi! Sugli estinti non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.
Oh, selvaggio vento dell’Ovest, respiro dell’autunno, tu che
invisibile le foglie morte trascini, tu che i semi alati ai loro oscuri letti
dell’inverno sospingi, dove giacciono freddi e profondi, ognuno come
cadavere nella sua tomba, finché la primavera non ridesta e risuscita i
dolci germogli di vivaci colori e di profumi che si spandono nella
pianura e nella collina, tu dell’anno morente canto funebre, al quale
questa notte che sta finendo sarà la cupola di un sepolcro immenso, tu
che il Mediterraneo dai suoi sogni estivi risvegli, tu al cui passaggio la
potente superficie dell’Atlantico si squarcia in abissi, mentre giù nelle
profondità le inflorescenze marine e i boschi fangosi, che indossano le
foglie avvizzite dell’oceano, conoscono la tua voce, e si fanno
all’improvviso grigi di paura, fa’ di me il compagno dei tuoi
vagabondaggi nel cielo, ti prego, innalzami come un’onda, come una
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foglia, come una nuvola. Che tu sia il mio spirito impetuoso, guida i
miei morti pensieri per l’universo come foglie ingiallite per affrettarmi
una nascita nuova; e con l’incanto di questi miei versi, come da un
focolare non ancora spento, ceneri e faville spargi, le mie parole fra il
genere umano! Che tu sia attraverso le mie labbra, per una terra non
ancora desta, la tromba d’una profezia! Oh, vento, se viene l’inverno,
può essere lontana la primavera? Cazzo che poesia! Shelley, Foscolo.
E l’altro chi è? Boh! Minchia che testa che ho, una vita a leggere.
Oh, notte, profonda anima della vita, respiro del mondo
gigantesco delle insonni costellazioni, e nel suo azzurro flutto nuoti
danzando, respiro delle pietre e delle piante, degli animali multiformi,
respiro di me, triste viandante con gli occhi pieni di profondi sensi, col
passo leggero no, grave, e con le labbra chiuse.
Regina della natura terrestre che ogni forza chiami a mutamenti
innumerevoli, e annodi e sciogli vincoli infiniti, avvolgi ogni essere
terrestre con la tua immagine celeste. La tua sola presenza manifesta il
meraviglioso splendore dei reami del mondo. Oh notte, mi distolgo da
tutto e mi immergo in te, sacra, ineffabile, misteriosa notte. Perso in
un abisso profondo, lontano giace il mondo, la sua dimora è squallida
e deserta. Malinconia profonda fa vibrare le corde del mio petto.
Voglio precipitare in gocce di rugiada e mescolarmi con la cenere.
Lontananze della memoria, desideri di gioventù, sogni dell’infanzia,
brevi gioie e vane speranze di tutta la lunga vita vengono in vesti
grigie, come nebbie della sera quando il sole è tramontato. In altri
spazi piantò la luce le festose tende. Mai più ritornerà ai suoi figli che
l’attendono con fede d’innocenti? Che cosa a un tratto zampilla
grondante di presagi sotto il cuore e inghiottisce la molle brezza della
malinconia? Da noi derivi a tua volta piacere, o buia notte? Quale cosa
tu porti sotto il manto che con forza invisibile mi penetra nell’anima?
Delizioso balsamo stilla dalla tua mano, dal mazzo di papaveri. Le
gravi ali dell’anima tu innalzi. Noi ci sentiamo oscuramente e
ineffabilmente turbati - con gioioso spavento vedo un volto severo che
su di me dolce e devoto si china, e svela tra i riccioli senza fine
intrecciati la cara giovinezza della madre.
Come infantile e povera mi sembra ora la luce - come grato e
benedetto
160
l’addio del giorno. Solo perché la notte distoglie e allontana da te i
tuoi fedeli, tu seminasti per gli spazi immensi le sfere luminose, ad
annunziare l’onnipotenza tua - il tuo ritorno - nel tempo della tua
lontananza. Più divini delle stelle scintillanti ci sembrano gli occhi
infiniti che in noi la notte dischiude. Vedono oltre le più pallide
gemme di quelle schiere innumerevoli - non bisognosi di luce frugano
nel profondo di un’anima amante - voluttà ineffabile colma uno spazio
più alto. Lode alla regina del mondo, alta annunziatrice di mondi santi,
custode del beato amore, che a me ti manda - tenera amata - amabile
sole notturno… e ora come cazzo fa, che ho dimenticato? Ah, sì,
finisce così… la notte mi annunziasti come vita, uomo mi hai fatto,
consuma con l’ardore dell’anima il mio corpo, perché lieve nell’aria
con te più strettamente io mi congiunga e duri eterna la notte nuziale.
Oh, yes! Anzi, ja! Novalis.
Un loculo. Bello disteso, in alto. I vermi ti mangeranno, però poi
se ne andranno. Scolerai bene. Al fresco, il tuo loculo dà verso nord.
Almeno le ossa e la pelle ti resteranno. L’uomo di Almeda. Non verrà
nessun parente. Verranno a scopare nella tua tomba prostitute, amanti
disperati, giovani senza fissa dimora. Vedove povere. Amore fra le
tombe. Piacere fra le tombe. È una moda, ormai, Dè. Potevi regalare la
tomba ai poveri, Dè: a che cazzo ti serve una tomba?
Nessuno più va sotto terra. Camposanti. No, li dovrebbero
chiamare loculopoli santi. Il cemento ti sia lieve. Più vicini al cielo.
Gli uomini sono diventati più santi. A comu. Cadaveri grassi ben
conservati. Ma tu sei secco, Dè. Il tuo cadavere non concimerebbe la
terra lo stesso. Se vengono i giapponesi fanno alveari, cellette
oblunghe per conservare cassette coi cadaveri cremati. No, non ti
illudere, anche tu andrai in putrefazione. Decomposizione. Diventerai
grasso e nero, verde, rosa, un formaggio. Gorgonzola. Rinsecchito.
Ecco come finisce la Storia.
Ecco che cosa è stata la mia vita, la tua stessa vita, ecco che cosa
mi aspetta, la tua stessa morte. Chi si ricorderà di me? Ce ne
ricorderemo, di questo pianeta. Sciascia. Sì, ma prima di lui Villiers
de L’Isle-Adam. Ricordare. Questa frase ha a che fare col sogno.
Ricordare un sogno. Sognare un ricordo. Morire ma continuare a
161
ricordare il pianeta. La nostra storia. È un inno alla memoria. Negli
eterni cicli dell’eterno ritorno ricorderemo. Finché esisteremo, in
qualsiasi forma o natura. Solo la memoria ci fa esistere. Solo il
ricordare è esistere. Noi siamo memoria, sogno. Ricordare come
uomini. Ma non purificati, non riconciliati. È irrevocabile l’essere stati
terreni anche solo una volta. Rilke. Devo scrivere la mia storia, se no
nessuno si ricorderà di me. Se non lo faccio io, lo farà mio figlio.
Ricordare e sognare: la stessa cosa.
Un figlio. Un uomo che non si sposa per una delusione d’amore.
Banale. Ce ne sono milioni nel mondo. Milioni di milioni. Miliardi.
Io. Vedovo. Un semplice bibliotecario. Un uomo a contatto con mille
mondi e con nessuno. Un’infanzia difficile. La solita. Tanti sacrifici, i
soliti. Figlio rimasto ben presto unico. Storia di un uomo qualunque, la
chiamerò così. Anzi, storia di un uomo inutile. Storia di un uomo
ridicolo. No, perché un uomo ridicolo? L’uomo senza qualità. Già
scritto. Come si chiama? Ah, sì, Musil. Robert Musil. Una sterminata
solitudine. Una laurea in lettere. Non mi piaceva l’insegnamento. I
ragazzi. La vita. La vita o la morte? Tanti concorsi, beni culturali,
archivistici, biblioteche. Potevo finire dappertutto. Sono finito al sud.
Più iella di così. Nel proprio paese. Oh, la morte! Un destino. Fra un
po’ toccherà a me. È la vendetta della storia, la distruzione di una
famiglia senza senso. Ah, sì? Perché, altri miliardi di famiglie che
senso hanno? La vendetta di Dio. Una famiglia di atei. Di socialisti.
Di mangiabambini. E altri milioni di atei, di mangiabambini?
Sempre la solita vita. Vent’anni. No, trent’anni. No, di più.
Biblioteca, la strada per casa. Villa comunale, via Filippo Turati, via
Roma, casa. Il cane, il gatto, il cardellino. Meglio gli animali degli
uomini. Conosco il loro linguaggio. Il circolo del crepuscolo. Al
sabato. Il sabato del villaggio. L’attesa della domenica. Di sta
minchia. I soliti coglioni del circolo. Le solite chiacchiere inutili. Bla,
bla, la spesa, i pettegolezzi. Le corna. L’omo pa parola e u vo pi corna.
E chi minchia c’entra? Homo per verba, bos per cornua. E giunge la
domenica. La domenica mattina. La messa. Nel nome del Signore,
datevi un segno di pace. Bella la messa. Il rito. Tutti felici. Fa niente
se poi fuori ci scanniamo. A casa di nuovo. La perfezione del nulla.
162
No, il nulla no. Ascolto musica a casa. Tanta. Sempre. Mozart, Bach,
Beethoven. Gershwin. La passeggiata del pomeriggio in riva al mare
col cane. E quel testa di cazzo di mio figlio che continua a fare
esperimenti per trovare la formula della felicità. Sta diventando
vecchio, invecchierà.
Che ne sarà della mia vecchiaia? Prima o poi dovrò andare in
pensione, se non morirò dentro la biblioteca. Madre, dammi il tuo
respiro…
La chiesa.
Ecco, già la vedo la chiesa, Dè. Volevi funerali immortali, degni
di un principe. Anzi, di un re.
Bara. Corona di garofani rossi. Sì. A che cazzo ti serve tutto
questo socialismo, Dè? Il libro dell’Ecclesiaste sulla bara. La bara è su
un catafalco, lunghe candele bianche agli angoli. Fumi d’incenso.
Sembri un papa, Dè. Il coro si leva alto dalla cantorìa. Requiem per
l’anima tua. Sei nella casa del Padre, Dè. Chierichetti ti girano
intorno. Il paradiso si distende ai tuoi piedi, Dè. Paradisum. Preti,
secchielli di acqua benedetta. Acqua santa. Vade retro, Satana. Sei
salvo, Dè. Mangiavi molti fagioli, legumi, tanti, lenticchie, fave. Devi
avere molta aria, Dè. Ed elli avea del cul fatto trombetta. Non lo dire
che è Dante, lo sanno tutti. No, non scoreggiare, Dè. Ammazzeresti
tutti i chierichetti. E qualche prete. Un’esplosione gigantesca. Boom.
Io sono la resurrezione e la vita.
Bolgia, fumi, sudore, la bolgia della salvezza. Il paradiso o
l’inferno?
Ma chi se ne fotte. La tomba racchiude gli elementi peggiori della
vita.
Che cosa resterà di me su questa Terra? Tutta la materia vile nella
tomba, ossa, pelle, capelli, sono catene e tenebre per l’anima, dice
Seneca. Sic. Sarò in uno stato migliore. Sic. Sciolto da pesi estranei.
Pura anima. Puro spirito. Sì, la carne, le mani, i muscoli, il volto, sono
catene, l’anima ne è oppressa, soffocata, contaminata, allontanata
dalla verità che è il suo bene e cacciata nell’errore. Pensieri
bassi e volgari. Tutta la nostra lotta è contro la pesantezza della
carne, perché il suo peso non la trascini in basso: si sforza di
163
risalire da dove fu mandata giù. L’aspetta lì una pace eterna, la
visione di una luce limpida e pura, fuori della nostra atmosfera
torbida e opaca. Minchia, na potenza è stu Seneca.
Nel mio sepolcro giacerà il peggio di me, la lordura, la puzza, il
fetore, il mio spirito spazierà fra le anime beate. O Nirvana? Boh! Per
carità, lasciamo stare Buddha. Budda o Buddha? E che cambia? Pure
lui ci manca! Sì, dopo una breve sosta sopra di noi — il tempo di
purificarsi e di eliminare tutte le incrostazioni e le lordure della
vita mortale —, asceso in alto spazia fra le anime beate. Il mio
spirito. Mi accoglierà la santa schiera degli Scipioni e dei Catoni…
che cazzate! Poi loro non sono cristiani: no, la santa schiera di San
Francisco…
Sì, e da lì potrei abbassare lo sguardo sino al fondo dell’abisso
cosmico, la Terra: è bello guardare dall’alto tutto ciò che si è
lasciato. Vedrei le le orbite delle stelle vicine e osserverei i segreti
della natura. Che testa, Seneca! Però, che cultura che ho!
Godono di cose eterne, liberi di vagare per spazi senza
confini, né mari interposti li separano, o l’altitudine dei monti o
gole impervie o i bassifondi insidiosi delle Sirti: lì tutto è
piano, ed essi si muovono con facilità e leggerezza, si
compenetrano l’un l’altro e si mescolano alle stelle. Cazzo che
bello! Le Consolazioni. Sì, bisogna leggere le Consolazioni di
Seneca. Solo in cielo potremo sottrarci alle devastazioni della fortuna.
L’esistenza terrena è una merda, meglio morire giovani. Re sarebbero
stati fortunatissimi se al momento giusto la morte li avesse sottratti
alle imminenti sventure. Luigi XVI. Poveraccio. Fosse morto un
mese prima della Rivoluzione Francese. No, forse è stato meglio
così: chi si sarebbe ricordato di un uomo inutile come lui?
Nessuno. Generali romani la cui grandezza nulla perderà se gli
toglierai qualche anno. Pompeo. Ah, se fosse morto prima della
guerra civile contro Cesare! Il più grande di Roma. Uomini grandi e
famosi nell’avvilente atteggiamento di offrire curvati il collo alla
spada di un soldato. Cicerone. Ma chi cazzo glielo ha fatto fare
mettersi contro Antonio? Sto coglione! Non capiva una minchia di
politica!
164
Ci siamo tutti ricongiunti e, fuori della notte profonda,
vediamo che nulla c’è da voi, come credete, di desiderabile, di
splendido, di luminoso, ma tutto è greve, bassura, angoscia, solo un
barlume della nostra luce. Che dire? Qui non c’è il reciproco furore
delle armi, né il cozzare di flotta contro flotta, qui non ci sono né
trame o pensieri fratricidi, né strepito di liti nei fori dalla mattina
alla sera, qui non ci sono segreti, ma pensieri trasparenti e cuori
aperti, la vita sotto gli occhi di tutti, il panorama di tutti i tempi,
passati e futuri.
Mi compiacevo un tempo di scrivere la storia di un solo secolo,
di un pugno di uomini nel più sperduto angolo dell’universo. Ora
posso contemplare tanti secoli, la concatenazione di tante epoche, la
somma degli anni. Mi è possibile sin d’ora vedere i regni che
sorgeranno e cadranno, il crollo delle grandi città, i nuovi movimenti
del mare. Se poi può essere di conforto al tuo dolore il destino
comune, niente starà fermo nel luogo dove sta, tutte le cose il tempo
abbatterà e travolgerà. Esso non si prenderà gioco solo degli
uomini – che cos’è infatti questa piccola parte di un cieco dominio? -,
ma dei luoghi, dei paesi, delle parti dell’universo.
Spianerà intere montagne, tutte, e farà emergere altrove nuove
regioni; inghiottirà mari, devierà fiumi e, interrompendo le
comunicazioni fra i popoli, disgregherà il consorzio del genere
umano; altrove farà scomparire città in vaste voragini e le squasserà
coi terremoti, emetterà dal profondo esalazioni pestifere, coprirà
con le inondazioni ogni centro abitato, sommergerà il mondo
uccidendo ogni essere vivente, con vampe di fuoco brucerà e ridurrà
in cenere tutte le creature. E quando verrà tempo che l’universo si
estinguerà per rinnovarsi, le cose che vedi si autodistruggeranno, le
stelle cozzeranno con le stelle, tutta la materia prenderà fuoco e le
varie luci del firmamento divamperanno in un incendio solo. Anche
noi, anime beate e partecipi dell’eterno, quando a Dio piacerà di
iniziare un nuovo ciclo e sarà tutto in rovina, anche noi, allora,
torneremo a dissolverci negli elementi primordiali, noi, piccola goccia
nel marasma cosmico.
165
Cazzo che poesia! Scriveva così un uomo di duemila anni fa. Ho
sessantatré anni, ho vissuto abbastanza. Sono vedovo. Ho un figlio
pazzo che fa esperimenti pazzi. E io che pure mi sono prestato ai suoi
esperimenti. Una vita ormai inutile, la mia. Certo, poteva cambiare
quarantasei anni fa. Fa niente. Mi avvio al tramonto. Dopo mio figlio,
il vuoto. Scomparirà per sempre la mia famiglia. Tanto, sapessi che
perdita. A che cosa è servita tutta la mia cultura? A un cazzo.
Mi salverà un bel funerale. Sì, un bel funerale. Grande,
cattolico, barocco. Una bara in mezzo a demòni e profeti. La bolgia.
La bolgia della salvezza. Il Cattolicesimo, la salvezza sul peccato. La
danno a tutti. Anche a me. Ecco, vedo già il mio funerale. Sì. La
chiesa sfavilla come non mai di marmoreo decoro e di stucchi, di
ombre e di svolazzi barocchi, di demòni bizzarri e stravaganti, di santi
e di cherubini dallo sguardo rapito, di angeli ribelli che cadono dai
cieli. Oh, tutti questi patriarchi biblici imponenti, maestosi, con
tonnellate di tuniche, grandi camicioni, vesti immense, barbe bianche
lunghissime solenni, occhi di bragia, volto corrucciato sdegnato
risentito, indice minaccioso, affollano i soffitti, fuori dalla storia, fuori
dal tempo, ma a chi fanno paura? Quanti angeli e quanti santi coi loro
mantelli rossi e blu, che con lance e spade uccidono draghi e serpenti,
e chissà come fanno se non li guardano, se hanno gli occhi stravolti e
allucinati, visionari, esaltati, rapiti, abbagliati dal cielo. Tutti questi
angeli ribelli sbigottiti e sgomenti, avviliti, questi demòni grotteschi,
diavoli stravaganti che non fanno più paura a nessuno, oggi il male ha
aspetti più sottili, questi titani con gli occhi spalancati, sbarrati,
cadono dai cieli, cadono negli abissi, si chiedono perché tanta vendetta
di Dio, in fondo sono loro che hanno fatto trionfare il Cattolicesimo, si
chiedono perché tanto rancore.
Traboccano, dai tabernacoli dagli altari dalle cappelle, cristi
madonne santi di cera, grasse statue di gesso marmo rosso viola,
gelido decoro marmorea verità, traboccano dai soffitti e dai cornicioni
tutti, profeti patriarchi angeli santi diavoli maligni spiriti del male, si
trasformano in svolazzi ghirigori grovigli arabeschi, ardite volute
avvolgimenti e spire, arrotolamenti scioglimenti disgregamenti
dissolvimenti, giri rotoli arzigogoli grovigli, garbugli intrecci bizzarri,
nodi dedali intrichi labirinti, pasticcio ginepraio di ombre di colori di
166
imbrogli, la mescolanza e il caos, la confusione il disordine ampolloso
iperbolico, lasciano il barocco fastoso ridondante per entrare nel
capriccioso rococò, nello splendore trionfante esagerato e falso che
dilaga sulla desolata, avvilita, miserabile, disperata umanità.
Minchia che poesia! Sempre poesia! Ma dove ho letto questa
poesia? Boh! La mia vita è una poesia. Io penso e scrivo come i libri
che letto. Ma chi è questo che non mi ricordo il nome? Continuo lo
stesso. Deve essere uno che ha scritto sempre lo stesso libro. Ricordo
sempre cose di morte. Continuiamo. Io sono già nella bara. Tutta la
gloria e la pompa di decine di architetti e di pittori, tutto lo sfarzo di
secoli di Cattolicesimo è in questa chiesa, in queste volte e in queste
navate inondate
d’incenso, in queste perfette geometrie che
conducono a Dio, allo smarrimento e allo stordimento di Dio. È la
chiesa un tripudio di fiori, di orchidee rigogliose, di mazzi di garofani
rossi, di nastri d’oro e d’argento, fiori e fiori e mille colori che
addobbano le colonne. Ma la chiesa è ugualmente una bolgia
infernale, un’assemblea appiccicosa di coscienze disperate, di gente
sull’orlo dell’abisso. Agli altari minori laterali, ai tabernacoli ai
tempietti alle tribune ai cibori alle edicole, è un girone dantesco di
maledetti, si è come sospesi, in aria, l’aria, manca l’aria, ci si spinge ci
si lamenta si bestemmia davvero, bel rispetto per questo funerale.
Vedo volti allucinati storditi sconvolti frastornati confusi, intronati dal
caldo e dal tanfo, altro che fragranze di fiori e profumi olezzi effluvi
d’incenso, inusitate celestiali essenze, qui è un inferno di cattivi odori
e di miasmi, di sudore e di olezzi nauseabondi, di fetore di piedi di
puzza di piscio, di respiri affannosi ansimanti, di volti spregevoli e
repellenti, di camicie sporche e sudate, di capelli sudati, di barbe
incolte sudate, di mani callose e di unghie lunghe come artigli sudate
nere sporche, coppole nere sporche sudate.
I preti. Oh, i preti! Questi trasportatori di anime nel mondo
celeste! I preti aspergono le anime stordite dei presenti, frastornate da
piviali, manipoli e pianete, da questo tripudio di suoni fumi e messali,
da tutti questi chierici e sacrestani che con secchielli dell’acqua
benedetta, con turiboli e navicelle d’incenso, accompagnano i cori e i
167
sermoni, le prediche dei preti, le voci dei cantori, le omiletiche
parabole dei prelati.
Tacciono all’improvviso gli organi, dalle cantorìe si levano canti
e osanna, dai neri paramenti del pulpito fino al portale e alla cupola,
alle cappelle e agli altari minori, ai tabernacoli e alle menti sconvolte,
giunge - stentorea e potente - la voce del vescovo. Il vescovo? Ma non
è il prete che celebra il mio funerale? Ma che cazzo sto raccontando?
Il mio funerale o l’ordinazione di un sacerdote? Di un diacono, forse?
Un matrimonio? Comunque, vediamo che cazzo dice il vescovo.
Tanto, dicono sempre le stesse cazzate. Il vescovo parla dell’anima
sordida e sozza, malefica del Diavolo, che ha intorbidato gli animi e
traviato i sensi, portato il male ad Almeda. Ma, dice, il male è
presente in tutto il mondo, segno inequivocabile della corruttela dei
tempi e del pervertimento delle coscienze. E io che cazzo c’entro col
male? Boh! Continuiamo. L’uomo è stato tradito anche dalla stessa
natura che credeva di aver dominato, dice il vescovo, dai sistemi
economici e politici, dalla tecnologia con la quale pensava di potere
raggiungere la felicità. È un tempo di confusione e di smarrimento, ma
Dio non abbandona mai i suoi figli, i giusti e i puri di cuore, presto
ritorneranno il benessere e la pace. Soliti discorsi sulla fine del
mondo. Ne approfittano anche col mio funerale. La disonestà,
l’invidia, l’odio, la brama di possesso, il volere incondizionato, la
corruzione, la superstizione, hanno portato l’uomo alla rovina, per
questo proliferano i ciarlatani e i tentatori, ma già si intravedono i
segni del cambiamento. Uno di questi è il permanere della fede, la
fede che aveva Francisco Bardana. Io? E quando mai? A talè.
Io, autore di romanzi e opere storiche mastodontiche interrotte. Io,
un fallito.
Senso di fallimento. Delusioni amorose. Vita strozzata in amore,
ingorgo sentimentale, occasioni perdute. Un figlio inventore pazzo.
Vedovo. Ho amato veramente mia moglie? Emarginazione
intellettuale. Tentativi di suicidio. Sì. Delusioni professionali. Progetti
letterari e storici giganteschi mai realizzati. Senso di fallimento
professionale. Depressione. Medicine. E un figlio pazzo che vuole
trovare la formula della felicità. Sic transit gloria mundi. Meno male
168
che a casa mi immergo nelle musiche divine di Bach, Beethoven,
Mozart, Gershwin. Musica classica, sinfonie, la musica dell’universo.
Meno male che ho la passeggiata col mio cane. Solitaria. Vicino al
mare. O in campagna. Ormai parlo solo con lui.
Attendo qualcosa dal mio passato. Qualcosa accadrà. Non so che
cosa, ma qualcosa accadrà. Qualcosa o qualcuno. Strano: mi aspetto il
futuro dal passato. Il futuro è il mio passato. Forse qualcosa accadrà,
uscirà dal chiuso mondo dei libri e andrà in giro per il mondo.
Qualcosa mi salverà. Una fiducia nella vita o nel destino? Forse
questo folle di mio figlio inventerà qualcosa che mi salverà.
Potevo cambiare la storia. Ero piccolo, e potevo cambiarla. Mi
capiterà più un’altra occasione? Fallimento di una famiglia, di una
stirpe, di una storia. Bibliotecario. Sono a contatto con mille mondi e
con nessuno. Sono solo. Come si chiamava quello dei funerali? Ah,
Bardana forse.
169
Capitolo XX
Francisco Bardana e le donne
Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il
sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una
giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il
bibliotecario, nel 1983.
Solamente lei dovevo amare, Anna Maria Lisa. Lei doveva
riempire tutta la mia vita. Che cazzo di amore è questo di Pasifae per
il toro? Amori bestiali. Non dovevo leggere questo canto, oggi. Pure
perversioni. Cose greche. Incesti, amori bestiali. Edipo re e Giocasta.
Pasifae, moglie di Minosse figlio di Zeus e di Europa, sorella della
maga Circe, che si innamora di un toro inviato da Poseidone. Prega
Dedalo di costruire una vacca di legno. Lei si mette dentro e si fa
sfondare la fica dal toro. E nasce Minotauro. E Dante fa di quel
mostro del mito il custode del settimo cerchio dell’Inferno in cui sono
puniti i violenti. Cazzo! Passione animale. Ma Arianna e Fedra erano
figlie di chi? Dante, Purgatorio, canto XXVI, girone settimo,
lussuriosi. Fedra e il figliastro Ippolito. Passione bestiale, incestuosa.
Porci. Secondo il mito la donna, innamoratasi del giovane e da lui
respinta, l’avrebbe accusato di tentata violenza presso il padre Teseo,
provocando così il suo esilio da Atene.
“Ne la vacca entra Pasife,
perché ’l torello a sua lussuria corra”.
Beccati questo, Minosse. Così impari a sacrificare il toro bianco
che Poseidone aveva fatto emergere dalle acque, per farti accettare
come re di Creta. Invece di sacrificarne un altro. E Poseidone fa
innamorare tua moglie di un toro. La fa scopare da un toro. Il toro che
cazzo ha? Pasifae si mise col culo a pecora dentro la giovenca di
170
legno. Voglie carnali soddisfatte. Che dico? Due ore di scopata
bestiale.
Anna Maria Lisa. Desiderio struggente di incontrare la donna
della mia giovinezza. Oggi ho spulciato nei libri d’amore. Ho letto
storie d’amore.
Devo scrivere una storia d’amore sublime. Io che forse non ho
mai amato nessuno, potrei scriverla solo io, per il distacco che avrei
in questa storia. Mia moglie Angela non meritava un uomo come me.
Io volevo amare solo Anna Maria Lisa. Il mio primo amore. Ho
trasmesso questa malattia a mio figlio. Disperato per amore.
Amori disperati. Abelardo ed Eloisa, Paolo e Francesca, Achille e
Briseide, Leopardi e Fanny, Cesare e Cleopatra, Antonio e Cleopatra.
Sì, Cleopatra somiglia a quella Federica di… Però, via, era una gran
puttana. Cleopatra troia, si è fatta tutta Roma. Ma Cesare non era pure
frocio? Carlo Magno, Ermengarda… Oh Carlo, il re, il sire, la caccia:
ma vai a fare in culo, tu e Manzoni.
Carlo Magno. Le donne amanti di Capi di Stato, Pompidou,
Cleopatra, Didone. Dante, i lussuriosi. Mussolini, Hitler. Quello sì, un
gran trombatore. Hitler se ne fotteva delle donne. No, ha avuto pure
lui molte donne. Eva Braun, moglie per un giorno di Hitler. Però
Hitler era un depravato. Con sua nipote Geli, con Eva. Nel potere
non c’è vero amore. Mussolini, che maiale pure lui. Due mogli, dodici
figli tra legittimi e naturali, centinaia di amanti. Ma che cazzo aveva?
Un cannone, aveva. Che sparava sempre. Napoleone dicono che ce
l’aveva piccolo. Certo, era piccolo. No, non ce l’aveva piccolo.
Gliel’hanno tagliato quando era morto. Quando siamo morti, ce
l’abbiamo tutti piccolo. Garibaldi, Anita. Che donna! Stalin, questo
era un altro porco. Incestuoso. Che uomo! Lasciamo perdere i politici,
non ne usciamo più. E le attrici e gli attori. E i riccazzi. Più romantico
parlare degli amori dei poeti.
Le donne dei poeti, degli scrittori. Beatrice. O che schifo, lo
Stilnovismo! Dante, le seghe mentali si faceva. La dark lady di
Shakespeare: per me era frocio. Leopardi segaiolo. Sì, certo,
grandissimo poeta e filosofo, ma segaiolo: Silvia, la finestra, puah!
171
Nerina, e che cazzo! Manzoni, i matrimoni: come mio nonno che
voleva sempre sposarsi. Solo il matrimonio. Nevrotico, epilettico, solo
uno come lui poteva creare Renzo e Lucia. Renzo e Lucia, oh
Renzo…! Seee! Quello tutta vestita se la scopava. Perché, se la
scopava?
Mozart porco, maiale. Orazio che si guardava negli specchi
quando fotteva. Tutti porci, questi musicisti e scrittori. Seneca che
sposa Paolina, una fanciullina. Toh, pure la rima. Tutti porci gli
antichi. Greci, Romani. Grandi uomini, piccoli uomini. Catullo,
Lesbia. Tibullo, Properzio, Cinzia. Ovidio, altro grande porco.
Esiliato. Che ha visto? Nella dinastia Giulio-Claudia erano tutti
incestuosi. Caligola, Nerone che si scopa sua madre Agrippina,
Claudio e quella puttana di sua moglie Messalina. Che porci. Per
questo nascevano pazzi.
L’amore in Grecia, nella letteratura latina, Lesbia, Clodia, le
puttane, le meretrices. Quante puttane nelle commedie di Plauto,
quante puttane! Quante puttane in tutte le letterature mondiali… Sì,
perché tu, che cazzo hai avuto, Bardana? Solo puttane hai avuto!
Amore e Psiche, l’amore che si ricongiunge col Divino. L’asino.
Lucio che diventa asino, scicchigno. Ma che c’entra questo? Una
storia di scecchi dentro una storia sublime: Amore, un Dio che si
innamora di una donna terrena.
Dante, la donna-angelo, che salva l’uomo e lo conduce a Dio.
Beatrice, la teologia. Che però non salva. Minchia, c’è voluto San
Bernardo per fare vedere Dio a Dante. Che cazzate! Beatrice, creatura
incorporea, perfetta, irreale. Aveva la fica Beatrice? La Teologia, la
scienza di Dio, Beatrice, le virtù teologali che conducono alla
salvezza, alla perfetta felicità intellettuale e spirituale. Guinizzelli, la
donna- angelo mandata da Dio a salvare l’uomo, Cavalcanti l’amore
tormentato, l’angoscia. Cazzate. In sostanza, lo Stilnovo è una grande
cazzata. Meglio le puttane di Cecco Angiolieri. Becchina amor. Altro
che Beatrice, l’amore platonico. Qui si fotte. Laura. Laura è più vera.
172
Invecchia, pecca. Una storia vera, forte. La donna è donna veramente,
la carne. Oddio, per modo di dire. Erano i capei d’oro a l’aura sparsi…
Meglio Francesca, una sanguigna, che si fa sbattere da Pauliddu,
alla faccia di Gianciotto sciancato e brutto. Boccaccio, il Decameron.
Lì sì che ci sono le femmine. Vere. Adultere, puttane. Tutte. Le donne
sono protagoniste, emancipate. Moderne. Donne terrene e sensuali,
che si lasciano sedurre. Sì, mi piacciono. Non sono come Laura.
Donna superiore.
Ariosto. Lui sì che ha rivoluzionato la donna. Donne emancipate,
indipendenti. Che sanno quello che vogliono. Che sanno come
raggiungerlo. Che fanno impazzire gli uomini. Orlando tradito da
Angelica, che si fa sbattere dal musulmano Medoro. Orlando che si
strica in terra. Cu tuttu u pilu. Dopo che scanna mezza Francia e
mezza Africa. Bradamante, però con tutta la sua femminilità, che
cavalca vestita della sua armatura e sconfigge cavalieri e maghi,
mentre Angelica pensa, riflette, calcola il modo migliore per
raggiungere il suo scopo.
La donna a corte, la letteratura cortigiana. Chansons de Geste, la
donna, la vita cortigiana, la donna pura e angelica, il cavalier servente,
il cavalier vassallo, pronto a superare qualsiasi prova da lei stabilita o
qualunque sacrificio in sua difesa. Quante minchiate!
No, la storia di Carlo Magno non mi piace. Questo Orlando che
impazzisce per Angelica… Il vero amore è quello passionale, di
Lancillotto del Lago per Ginevra, e questo ruffiano di Galeaut…
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, da quel giorno più non vi
leggemmo avanti. Ah, Dante!
Donne che salvano gli uomini. Donne forti. Altro che Lucia.
Arrendevole. Debole. Oh, Renzo. Ha, ha. Mischina. Ma come poteva
avere desiderio, don Rodrigo, di scoparsi una come Lucia? Lucia:
donna passiva. Sogna il matrimonio, sogna i figli, ma non fa una
minchia per realizzare i propri sogni. Si affida a Dio. Seee! Fossero
tutte come lei… Gertrude sì, femmina sanguigna, peccatrice, donna di
questo mondo. Comunque, non c’è nemmeno una donna positiva nei
173
Promessi Sposi: tutte passive, Agnese, Lucia… Anche quella
Perpetua… Tutte donne che si affidano a Dio. Oppure sono
biasimevoli, sì, biasimevoli… E le donne di Svevo? Ada, donna
sicura, seria, donna moderna. Zeno l’inetto della vita, nevrosi, la
modernità. Ah, le donne! Augusta, la moglie ideale, casa e famiglia,
ma rifugiarsi nel presente è malattia, poiché non ci si rende neppure
conto di essere ammalati. Carla l’amante di Zeno.
O Romeo! O Giulietta! L’amore che non conosce limiti, l’amore
disperato, che nessuna forza potrà mai dividere. Anche Isotta, cazzo,
muore! Come Tristano! Minchia, ma perché queste storie finiscono
così tragicamente? Anche Orfeo e Euridice, e il disgraziato che si gira
a guardarla e la perde per sempre. Pierre Bezukhov e Natasha
Rostova. Guerra e pace. Tolstoj. La pace dopo la guerra. Cirano e
Rossana, l’amore impossibile che diventa possibile. La bellezza
interiore. La generosità. L’amore oltre la bellezza fisica. Questa cosa,
sì, mi piace. Via col vento, Rhett Butler e Rossella O’Hara… Quel
coglione di Alfonso Pirrera ha visto il film quarantacinque volte, che
palle! Però, bella storia, via! Storia turbolenta ma che lascia spazio
alla speranza di un nuovo incontro. Cime tempestose. Cazzo, sto
sconfinando nel cinema. Sto decadendo nel cinema. L’amore
distruttivo, tra Cathy e suo fratello adottivo Heathcliff. Marquèz,
Florentino che minchia, che se la fotte dopo cinquant’anni, la fica di
una di settant’anni… Questi amori incredibili. Il mondo moderno. Io
non capisco il mondo moderno, io non capisco l’amore moderno. Io
non capisco l’Occidente, meglio l’Oriente.
L’amore in India, il Kamasutra, lì sì che si ficcava, ah! O potenza
della fica! Rama e Sita, Ramayana. Sette libri d’amore, 24.000 versi.
L’amore totale. Un’epopea. L’Induismo. Rama, settima
reincarnazione del dio Vishnu, Sita, reincarnazione della dea Lakshmi.
L’amore che supera le tentazioni demoniache, l’amore che perviene
alla sua indissolubilità. L’amore divino. Il demonio Ravana che
rapisce Sita moglie di Rama, la sconfitta di Ravana, la liberazione di
Sita, il trionfo del bene, il congiungimento col Divino. Cazzo che
cultura! Le difficoltà, le prove prima di giungere al Divino.
174
Krishna che si scopa le pastorelle. Bello, le pastorelle sono le più
eccitanti, ma dove cazzo sono oggi le pastorelle?
Sì, l’amore sublime è quello indiano. L’ha descritto bene quello
strano scrittore, come si chiama? Ah, sì, Bellanca. No, Bardana.
Oh, Krishna, l’iniziato. Oh, divino fanciullo, figlio di Mahadéva,
mediterraneo Krishna dei mille volti sempre gioiosi… Tu che hai la
madre bella come una ninfa e una regina, giovane madre radiosa che
ha turbamenti misteriosi strane malinconie, e cerchi e trovi sotto le
palme il suo sguardo d’amore nel chiarore abbagliante del meriggio, e
lei ti prende fra le sue braccia, e col suo sorriso ineffabile ti stringe al
suo seno: non andare. Oh, malizioso giovane che suoni il flauto,
conquista ancora il cuore delle pastorelle, come potente eroe.
Tu che sei cresciuto fra armenti e mandriani in questa valle fresca
di montagna piena di pascoli, fra foreste di pini, fra distese di
mandorli e ulivi, e hai il volto radioso e con il tuo sorriso e i grandi
occhi diffondi la gioia. Tu che giochi con le caprette e con gli agnelli,
nei boschi, nei fiumi, nelle ombrose vallette, sdraiato sul prato, giochi
con gli animali, i bambini gli uomini, le donne i vecchi, e tutti ti
amano, e tutti tu ami. Tu che hai vagato per settimane sul monte Mèru,
e hai conosciuto un vecchio centenario anacoreta e saggio – oh sì,
maestoso di saggezza - che ti ha insegnato a cercare, tu che hai riunito
i tuoi compagni e hai trasformato i pastori in guerrieri per difendere i
buoni e distruggere i malvagi, con l’arco, frecce e spada; tu che hai
ucciso le belve feroci e i sovrani cattivi ma in cuor tuo volevi rivedere
tua madre che era sparita: non andare.
Le gopi, le pastorelle, le figlie e le mogli dei pastori escono
incantate dalle tue melodie, sono ammaliate, tu le conquisti col tuo
canto. Tu che all’ombra dei cedri profumati e dei grandi pini, nell’aria
luminosa del mezzodì sotto i raggi splendenti della luna, il cielo
infinito sogni, e le donne e le fanciulle, le maliziose pastorelle, ti
ascoltano rapite, oh che racconti appassionanti! Tu che insegni loro a
cantare e a mimare con gesti armoniosi le esaltanti imprese degli dèi,
le loro voci armoniose e ridenti si perdono lontano, tu che insegni i
175
canti e le danze sacre: ecco, non sparire, e lascia ancora dietro di te il
profumo del tuo essere.
Guarda le gopi innamorate e belle, giocano nel fiume, hanno le
vesti trasparenti le incantevoli pastorelle, guarda il loro sorriso la
bocca di rosa, giocano, con le dolci mani nude si buttano l’acqua
addosso, chiudono gli occhi luminosi, ecco, tu vedi i seni turgidi e
acerbi, profumano di miele, sono calici di nettare, coppe d’ambrosia,
guarda il movimento elegante dei loro fianchi, le agili dritte cosce, il
ventre teso, gocce che vi scivolano fino alla peluria – oh, sì, tu ardi di
desiderio, già le possiedi, sei dentro i loro corpi nudi, il tuo corpo
nudo è solo coperto di fiori, di ghirlande di fiori e di corone di lauro,
profuma di petali di rosa, di fiori di loto. Arrossiscono, tremano, sono
inebriate del tuo essere.
No, non andare, amato Krishna. Le pastorelle ti offrono il loro
ventre nudo e tremante, pregano, tu dici parole d’amore, le adagi su un
letto di foglie, profuma di gelsomino. Non abbandonare le tue
predilette, sono loro le tue regine, le pastorelle dai capelli fluttuanti
nel vento, chiudono gli occhi e si uniscono a te, aprono le cosce, il
segreto estremo della loro nudità, della loro verginità, ognuna ha un
sussurro diverso, un respiro diverso, un nome. Le voci che hai sempre
sognato, i corpi che hai sempre sognato. Tu sei con loro, dentro di
loro, ogni notte, tu sei il loro desiderio, tu sei il loro sposo, le riempi
del tuo essere. Solo l’amore conta, vano è l’uccidere, mai le frecce
raggiungeranno l’anima, la vittima sempre trionfa sull’assassino. No,
non andare, amato Krishna. Tu guardi oltre le frondi degli eucalipti, tu
guardi verso il mare. Sì, tu vuoi andare verso la storia, la
fiammeggiante storia. Perché? Tu sei sempre dentro la storia, amato
Krishna, la tua anima sale sempre negli spazi siderali, tu sei il padre, il
figlio, l’anima di tutte le cose create, un abisso ti separa sempre dal
mondo e dalle sue apparenze vuote. Perché andare?
Cazzo, questo sì che è amore! Che poesia! Ma perché non è
diventato famoso questo Bellanca? O Bardana?
Tu sogni un paradiso che non esiste. Svegliati, falso Krishna, ti
fanno sognare un paradiso che non è mai esistito. Tu hai letto
chiacchiere vuote, ti raccontano favole senza senso. Consegnati a me,
sono io la Storia, sono io il tuo Paradiso, io sono il tuo Destino. Il
176
Male ormai è dentro Almeda, è dentro di te, solo io posso salvarti.
Rivela il tuo segreto e consegnati al Destino, al mio Destino.
No, il Demonio mi rompe i coglioni. Non ci vuole, rompe la
poesia, caro Bardana!
No, io devo andare, risponde Krishna l’iniziato, ignorando le
parole dell’indiano, serafico felice sorridente all’ombra dell’acacia la
gigantesca acacia. È finito il tempo degli amori, ed io devo andare, io
devo agire.
Perché io sono Sri Krishna l’iniziato, la più grande, l’ottava
manifestazione di Visnu, dio solare dio blu dio splendente di gemme
dalle otto braccia, io sostengo e governo l’armonia e l’esistenza
dell’universo, io giaccio nella notte tra la creazione e la distruzione del
mondo e sogno le creature che sono stato perché possano tornare. Sì,
io sono il fanciullo divino, il malizioso giovane che suona il flauto e
conquista i cuori delle pastorelle, e ho creato l’universo per gioco, un
gioco bello e facile, un innocente gioco d’amore, e proteggo il bene
perché sono buono e dunque tutto ciò che faccio non può essere che
bene, e suono e danzo sui mondi che ho appena distrutto e liberato.
Ma io sono anche Shiva, oh sì, dio di vertigine, della oscura
profondità e della folgorante illuminazione, io sono il dio della morte
e della liberazione, io creo gli esseri e li distruggo alla fine di ogni
tempo, sono il principio e la fine dell’illusione e della liberazione di
tutte le forme dell’universo, io sono il fuoco che riscalda e che
distrugge, sono la calma freddezza della luna, sposo timido focoso
amante, io sono la morte ma uccido la morte, sono l’eterno al di là di
ogni tempo, ed insegno il silenzio, la musica, lo yoga, la sapienza
segreta, le arti, la scienza. Sì, io devo andare.
Perché io sono Brahma, il dio che crea, le eterne morti e le
rinascite dell’universo sono le mie morti e le mie rinascite. Sono
Shiva, il dio che distrugge, Visnu, il dio che in meditazione preserva
tutto l’ordine dell’infinito ciclo dell’universo, faccio sparire dalla mia
coscienza le forme transitorie e illusorie, io raccolgo e riconfondo
tutte le creature. Io racchiudo tutte le infinite forme del mondo, nel
tempo di ogni immane dissoluzione mi racchiudo nella profondità
della contemplazione e guido ogni forma a essere riassorbita da me.
177
Perciò anche voi alzatevi e combattete, non cedete all’inazione,
assolvete i vostri obblighi verso gli altri, oppure passerete alla storia
come codardi e paurosi e avrete onta e perpetuo disonore. Tutto ciò
che vedete è irreale e transitorio, anche i fondatori degli Stati, i
valorosi generali, i grandi comandanti, i grandi eserciti. In verità vi
dico che tutto ciò che deve accadere è già accaduto dentro di me.
Alzatevi e combattete, siate saggi, ciò che non è nato non può
morire, può morire il corpo, essere distrutto, non l’anima che passerà
ad un altro corpo e rivivrà in altre incarnazioni, e sperimenterà ancora
l’infanzia la giovinezza la virilità la vecchiezza, in questo mondo di
mutazioni e di illusioni, la vita e la morte sono cose superficiali.
Ma ndo vai, coglione di un Krishna, scopati le pastorelle. Questo
mondo non merita di essere salvato.
Chi si deve alzare, chi deve combattere? Scendi dai tuoi sogni, tu
non sei Krishna, tu non sei Shiva, tu non sei Brahma, tu non sei Visnu,
nessuno lotterà per te, nessuno si alzerà per te. Tu non hai avuto
amori, tu non crei né distruggi, tu sei l’illusione, tu sei il fumo del
mondo. Vieni con me, vano è l’agire senza un destino, io sono il
Destino. Non puoi più evitare il Destino, non puoi più evitare la
Storia. Consegnati a me, rivela il tuo segreto, ed io ti guiderò verso il
Destino.
Ma quale Destino, non ascoltare il Diavolo. Scopati le pastorelle.
Non fare lo sbruffone. Non fare il saggio. Fai l’amore con le
pastorelle.
Saggio è l’uomo che si libera delle catene del desiderio. L’uomo
che non è attaccato alle cose e agli oggetti, chi si libera della tempesta
dei desideri dei sensi, ricordate che l’attaccamento genera sempre
desiderio passione follia, perdita della memoria e della ragione, chi si
libera da questa affezione consegue la pace e poi la calma e infine la
saggezza. Saggio è l’uomo che cerca tutto ciò che è in armonia con la
propria natura, il desiderio la concupiscenza – oh, questo sozzo
abitante dell’anima - portano al peccato e all’errore. Sappiate che le
gioie e i piaceri dei sensi sono veramente le matrici del futuro dolore,
essi appartengono al mondo del principio e della fine. Saggio è colui
che non nutre malizia alcuna, che è amico di tutta la natura, che è
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misericordioso e privo di orgoglio, di vanità ed egoismo, che non è
turbato dal piacere e dal dolore, che sopporta i torti e perdona, che è
sempre felice e devoto e governa la mente i sensi e le passioni.
Ma lascia perdere! Ancora credi a queste minchiate? I tempi sono
cambiati.
Ah la liberazione dal desiderio! Dalla concupiscenza! Dalle
passioni! Tu ti contraddici! Così conquisterai il mondo? Senza la
vanità, senza l’orgoglio? Senza il piacere dei sensi, senza il desiderio
di gloria? Per che cosa si alzeranno i tuoi guerrieri, per che cosa
combatteranno? Tu predichi l’inazione. Guarda la storia che hai
lasciato dietro, guarda il tuo paradiso, l’India, un popolo di affamati,
di miserabili, di perdenti, preda di visioni! Fammi partecipe del tuo
segreto ed io ti porterò verso la fiammeggiante Storia, io ti farò
dominare sul mondo!
Il Diavolo tentatore! Bastardo!
Tutti si devono abbandonare in me. Saggio è chi si abbandona in
me, chi agisce per me. Ecco il cammino verso l’illuminazione e la
salvezza: l’azione, la conoscenza e la devozione, ogni essere vivente si
deve abbandonare a me, deve donarmi ogni azione. Ecco perché voi
dovete agire: voi dovete solo compiere il vostro destino. Alzatevi e
combattete, dunque, in tutte le regioni dell’universo non esiste
l’inazione, voi fate il vostro dovere senza attaccamento a ricompense,
non curatevi dell’esito finale. È l’azione libera e indipendente quella
che scaturisce dal dovere. Ed è sempre meglio compiere il proprio
dovere anche se umile che quello di un altro che può apparire più
nobile. Chi si astiene dall’azione, chi gode i frutti dell’azione e non
agisce, chi trascorre il tempo nell’ozio, vive una vita vergognosa e
vuota. Ognuno deve adempiere bene la propria parte nel mondo,
assolvere i compiti che incombono.
Agire per te! E per cosa? Il dovere! Quale dovere? Che senso ha
agire per compiere un destino già scritto? E il libero arbitrio? Chi
agisce per te ha già perduto. Non si può agire senza una meta! Guarda
il mondo creato, agire per mantenere questo caos?
Beh, forse qui il Demonio ha ragione. Agire per chi?
179
Vedete, io non sono obbligato a fare nulla né in questo mondo, né
in tutti gli altri mondi, perché essi mi appartengono. Io non ho nulla
da ottenere perché ho tutto. Eppure io agisco. Se io non agissi, non
cadrebbero tutti questi universi in rovina e non regnerebbe dappertutto
il caos? Perché io ho ricordo delle mie vite passate, voi no. Io sono al
di sopra delle nascite e delle rinascite ma io appaio sempre
nell’universo quando la virtù e la giustizia vengono meno nel mondo,
io allora vengo per distruggere il male e ristabilire la virtù e la
giustizia.
Ma fammi il piacere!
Pazzo! Tu sei un pazzo! Come distruggerai il Male? Come
ristabilirai la giustizia? Tu vendi fumo, tu vendi visioni! Ma forse tu
reciti una parte, questa è la verità, tu perdi tempo nell’attesa che si
compia qualcosa! Ma qualcosa è già accaduto ad Almeda, qualcosa è
accaduto in te, è arrivato il Male, questo è accaduto. Non
dimenticarlo. Vanitoso, hai perso l’incontro con la Storia! Ora parla,
continua a parlare, tanto nessuno ti crederà, parla pure della tua
smisurata vanità.
Così dicendo, l’indiano, ma qualcuno fra i presenti pensò pure che
potesse essere pakistano o del Bangladesh, o forse no perché non
sembrava musulmano, come aveva fatto il giorno prima l’altro
misterioso orientale, si alzò e si avviò con passo lento e pensieroso giù
verso il cancello d’ingresso. Lo superò, passò vicino al Burda, sembrò
confondersi con lui, con la moglie, con la figlia, con l’ulivo, con
l’ombra, infine scomparve nel tremolio incerto del vento e della calura
mattutina.
Ma chi cazzo è questo, è veramente il Demonio, questo?
I mondi e gli universi vanno e vengono, disse infine Krishna
l’iniziato guardando verso occidente, verso il mare, sotto lo sguardo
attento dei suoi tre solerti amici e dei suoi discepoli che attendevano la
parola definitiva, i giorni e le notti passano e ripassano, tutte le cose
visibili diventano invisibili, gli universi scompaiono e sono ricreati. Io
sono l’indistruttibile, eterno nella mia suprema dimora. Io sono il
180
sostegno di tutte le cose ma queste ultime non sono me, tutte le cose
sono di me ma io non sono di loro. Io sono la preghiera e
l’invocazione, il culto e il sacrificio, l’incenso e il fuoco, sono il santo,
sono il sentiero e il consolatore, il creatore il rifugio l’amico, l’origine
e la fine, la creazione e la distruzione, la morte e l’immortalità,
l’essere e il non essere, sono la fortuna e la memoria, la forza la
conoscenza, la mente la vita, il motore supremo, il saggio il
condottiero, il nome di Dio, la pazienza, la vittoria, la verità, io sono il
seme, la pioggia e il sole. Ogni cosa fluisce da me, io pervado
l’universo eppure rimango sempre me, le mie manifestazioni sono
senza fine. Se io distruggo, io distruggo per la salvezza. Ma voi, o
miei prediletti, voi, volete sapere che cosa realmente vedete in me?
Voi vedete le innumerevoli armate celesti degli angeli e degli
arcangeli, vedete tutti gli dèi planetari e i reggitori degli universi e dei
mondi, e milioni e miliardi di forme divine e umane e animali di ogni
specie genere e qualità, voi vedete tutte le cose animate e inanimate, le
innumerevoli forme di tutti gli esseri viventi, e milioni e milioni di
braccia e corpi e occhi, voi vedete me senza principio e senza fine e
senza centro, i miei occhi sono milioni miliardi di soli, io riempio i
cieli e la terra della mia luce. Voi vedete i mondi e gli universi, bilioni
di armate che mi guardano con timore e smarrimento, sono stupiti
delle mie meravigliose e potenti manifestazioni, voi vedete me
rilucere di glorioso splendore, i miei potenti raggi irradiano in tutto
l’universo, voi vedete tutte le armate e le legioni degli universi dei
mondi delle regioni dei piani che contemplano con stupore il mio
tremendo aspetto, ecco, ora li vedete i grandiosi e stupendi eserciti
celesti fuggire a me per rifugio e protezione, tutte le armate dei mondi,
in reverente atteggiamento, vedete anche i miei nemici, generali, capi
e grandi guerrieri, eserciti, come le correnti rigonfie dei fiumi si
riversano nel mare, così tumultuosamente nelle mie bocche
fiammeggianti essi si riversano in fretta come se desiderassero la loro
distruzione, ed io li azzanno, li riduco in polpa, in polvere, io divoro
tutti quanti gli uomini, da ogni parte e senza limiti. Oh, veramente io
divoro gli uomini, tutti gli esseri viventi, io consumo i mondi, io
Signore di tutto! Voi vi prostrate dinanzi a me, mi pregate con le
mani giunte. Mi chiedete come realmente mi vedete?
181
Voi vedete me come Tempo, pienamente maturo e completo, e
come creatore e distruttore del genere umano, perché io afferro e
consumo i mondi, tutti coloro che stanno dinanzi a me. Ora sapete,
dunque, che non uno dei vostri nemici, non uno di questi guerrieri così
orgogliosamente schierati in battaglia potrà sfuggire a me! Perciò
alzatevi, e combattete la vostra battaglia! Andante incontro al vostro
destino, affrontate i vostri nemici, non temete, perché se saranno
uccisi, essi saranno stati uccisi da me, e se saranno salvi, saranno stati
salvati da me! Ma ricordate, solo chi osa sarà salvato. Perciò fate il
vostro dovere, come guerrieri, o come capi! Conquistate fama in
battaglia, battete i vostri nemici ed entrate con gioia nel regno
conquistato! Combattete senza paura e distruggete i vostri nemici!
Giacché voi dovete sempre sapere che essi sono già stati sconfitti da
me, e voi siete solo lo strumento che esegue il decreto di ciò che gli
uomini chiamano Destino.
Bello, tanta poesia. Tanta verità. La Baghavad Gita. Però era
meglio se restavi a scoparti le pastorelle. Krishna. È vissuta gente,
come Leopardi, che non ne ha mai scopata una di pastorelle. Per me,
tutta la sua poesia nasce da questa frustrazione. Ingorgo sentimentale,
dice Benedetto Croce.
“Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle”.
Per me Giacomino era un maudit. Antesignano, un poeta
maledetto. Sì, certo non si drogava. No. Questo no. Poverino, pure
questo ci voleva. Però mi piace, amore e morte. Più morte che amore
in Leopardi, nessuna donna lo ha amato. Per me, Giacomino è morto
vergine. Anche se Antonio Ranieri vuol far intendere, nei suoi Sette
anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, che lui è andato a puttane.
Amore e morte. I romantici amavano l’amore e la morte.
Poeti maudits. Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Mallarmè?
L’autodistruzione. La malattia dello spirito. L’amore che diventa
182
eterno solo con la morte. Hemingway, Morte nel pomeriggio, “Se due
persone si amano non può esserci per loro una fine felice”. Minchia
che allegria! Meglio Lawrence, L’amante di Lady Chatterlay, l’amore
erotico. L’amore. Che scopate col guardiano! L’amore del Ventesimo
secolo. Per me, Lawrence anticipa il porno. È superiore al porno,
perché uno se lo immagina il porno con Lady Chatterlay. Scrittori
froci. Wilde. Pasolini. E questo che c’entra?
Ma l’amore più grande, l’amore più sublime è nella Bibbia.
Adamo ed Eva. No, Gesù e Maria Maddalena. No, non pensarlo. Gesù
e l’amore. Gesù amava le donne. No, non pensarlo, amore sacrilego.
Lasciamo perdere, ci hanno fatto tanti film, tanti libri inutili con
queste cazzate. Gesù era anche un uomo, poteva fare l’amore, che c’è
di strano?
183
Capitolo XXI
Il Cantico dei Cantici, l’amore
Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il
sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una
giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il
bibliotecario, nel 1983.
Il Cantico dei Cantici. È nella Bibbia il più bel canto d’amore.
Questo Bardana – Baldana o Bardana? - in un suo libro ne ha fatto un
bel riassunto. Un’ispirazione. Ispirato. Forse è più bello dello stesso
Cantico. No, forse esagero. Però, perché le grandi case editrici lo
snobbano? E certo, loro pubblicano solo polizieschi, gialli, horror,
spystory, porno. Porcherie.
Il Cantico dei Cantici. “Il mondo intero non vale il giorno in cui il
Cantico dei Cantici è stato donato a Israele”, dice Rabbi Aqiba, citato
in Mishnah Jadajim 3,5. Vero. Un amore totale. L’amore tra due
innamorati, tra un uomo e una donna, tra un popolo e il suo Dio, tra la
Chiesa e Cristo. La sensualità, la carnalità, lo spirito. L’amore, la
verità della vita. L’amore, la sorgente eterna della vita, l’orizzonte
ultimo della vita. L’unico libro della Bibbia scritto interamente in
forma di dialogo.
Il Cantico: solo l’amore spinge a parlare d’amore. Cantico di re
Salomone: per me, il cantico dell’amore e basta. Di tutti i popoli, di
tutte le razze, di tutti i tempi. Lo sposo e la sposa, l’amore coniugale.
L’amore. Per me lo ha scritto un anonimo. L’amore, la gioia, Dio.
Israele e la terra promessa. Il patto del monte Sinai, l’amore. Che
poesia! Il popolo d’Israele nel deserto. La resurrezione dei morti. Il
rapporto d’amore con Dio. Un amore lontano, le parole che
somigliano al silenzio, ai gradi più alti del silenzio, la musica cessata
in ogni suo suono che affiora come pura memoria. Parole senza
tempo. Pura poesia. Senza poesia non si può vivere e neppure amare.
Il Cantico, l’amore portato dalle parole. Si muove sulla soglia, in
184
quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la
morte è eguagliata solo dall’amore. La sera, la morte velata. Solo
l’amore capisce l’amore. Solo l’amore, solo chi è ferito dall’amore
comprende le profondità abissali del Cantico. L’amore è Dio.
Esperienza di Dio. Forte come la morte è l’amore, tenace come gli
inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma
del Signore! L’amore, come la morte, chiede tutto.
Amare vuol dire perdere la propria libertà, la propria vita, non
appartenere più a se stesso, appartenere all’altro. Perdersi, perdersi
nell’amore per ritrovarsi. Il Cantico: l’amore erotico, l’amore
voluttuoso, l’amore virtuoso, l’amore indissolubile, l’amore mistico.
L’amore divino. L’amore del giardino. È soprattutto la donna che
parla. La donna sorgente della vita. La centralità della donna. Che
evoca la presenza dell’amato, accende e alimenta la fiamma
dell’amore. L’amore è profumo. I tuoi amori sono più buoni del vino.
Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo
nome, per questo le giovinette ti amarono. L’amore è musica, il
ricordo dell’amato è musica. Ricorderemo i tuoi amori più del vino.
L’amore è il trionfo di tutti i sensi.
Certo, l’amato parla poco, però che parole! Lascia tutte le
certezze e vieni qui, ama, concediti all’amore. Tutto il mondo invita
ad amare. Parole stupende. Abbandona le tue sicurezze ed affronta il
nuovo. La primavera, il risveglio del mondo che spinge ad amare. Che
parole, che poesia!
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
185
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure
della roccia, nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro.
L’amore senza confini. L’amore che non tollera nessuna
lontananza, che sfida ogni separazione. L’amore è appartenenza, è
perdere se stessi nell’altro, annullarsi nell’altro. “Io sono del mio
amato e lui è mio”. L’amore è insomma esodo da sé di ciascuno dei
due per essere dell’altro. L’amore è un cammino verso la vita. Verso il
definitivo possesso. L’amore è un processo, è fatto a gradi. L’amore
ha bisogno di distacco, di ritorni, di incontri, di nuova lontananza, solo
così dura. L’amore che cerca, l’amore che trova, l’amore che vince,
l’amore che si perde e si ritrova. L’amore che si dona. L’amore
vittorioso, quando due non sono più due ma uno. E il ritrovarsi di
ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la
vita senza fine dell’amore.
Comunque, questo Baldana – no, Bardana - ha dato una rilettura
molto bella del Cantico dei Cantici. Bravo. Però, che sfortuna!
Diventerà un autore postumo. Come Kafka, Musil… Bah, lasciamo
perdere. Malafurtuna.
Una personale rilettura – una riscrittura – del Cantico dei Cantici
tratta da un suo libro, Il Protocollo di Almeda, immaginando il re
Salomone che lo scrive circondato dalla sua regina e dalle figlie
d’Israele. La sua poesia non è una traduzione dell’originale - il
Cantico dei Cantici, d’altra parte, è molto più lungo - né è una volgare
imitazione del famoso libro della Bibbia. La sua poesia è una libera
interpretazione dell’amore puro cantato in questo libro. Perché al
Cantico dei Cantici nei secoli è stata sempre data una interpretazione
mistica, quella – per esempio - del legame tra Dio e il popolo
d’Israele, o, per i cattolici, l’amore tra Cristo e la sua Chiesa. Il
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Cantico dei Cantici può essere tutto questo, è però anche la storia di
un amplesso tra due innamorati, è la storia di un incontro d’amore, ed
è soprattutto il più sublime dei Cantici, il più grande canto d’amore di
tutti i tempi.
O tu Salomone gran Re, che di vestiti sgargianti t’adorni
appariscenti, dai colori viola e blu, i colori ambigui del tempo, e di
corona e bracciali, e collane d’oro e d’argento, e d’oro e d’argento il
diadema regale, e tra fragranze di mirra e d’incenso su una lettiga di
porpora ti siedi, degno trono del più grande figlio di Sion.
O predilette figlie di Gerusalemme, dove siete voi, fior fiore
d’Israele, voi siete ai lati dell’alto seggio, come discepoli prodi
guerrieri, ma non impugnate il brando, non proteggete gli augusti
fianchi del Re potente, del trasportato dal vento. Il vento, le piume al
vento sul suo crine regal levate, sotto il salice di molli ombre,
quand’ecco un grido, eccola arriva, una donna incantevole arriva, la
sente il vento la porta.
O donna che giungi col vento, donna misteriosa del mattino ancor
presente, chi sei tu, donna che col tuo re di congiungi e poi ti dilegui
con la calura mattutina,
canto del canto più grande d’amore, o
Sulamite fra le braccia alla corte del gran Re?
Sei tu la sposa, vergine casta - orto chiuso, sorgente chiusa, fonte
sigillata, boschetto di melograni non colti, vivaio di frutti squisiti, di
fiori di cipro e di nardo, di croco e cannella, di cinnamomo. Sei tu la
sposa odorosa di mirra e di aloe, di balsami dei migliori profumi,
fontana di giardino, zampillo d’acque vive, o l’enigma del tempo, tu
silenziosa taciturna la prima di mille e mille mogli, che col sorriso
giungi, rimani in silenzio prima di sparire col vento con gli occhi
ridenti davanti al gran Re.
O tu gran Re sapiente, ricco, potente figlio di Davide e di
Betsabea di Saul primo Re d’Israel, generato dalla colpa, figlio del
peccato dell’amore, gran Re Signore degli spiriti jinn, Re profeta
fondatore del Tempio dell’Attesa, mago esorcista, Re poeta di cantici
sublimi assiso su trono d’argento, baldacchino d’oro puro, soglio di
porpora rossa d’ebano di pietre preziose.
Tu gran Re questa canzone cantasti per sempre, tu profeta
messianico l’eccezionale poeta, congiunzion tra Dio e Sion,
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restaurazion dell’Alleanza del postesilico tempo, ma l’amore l’amore
sensuale carnale spirituale nuziale eterno immortale cantasti, l’amore
il puro amore, di re e di regina, di pastore e pastorella, l’amore un urlo
un grido uno squassante canto d’amore che mai poeta più grande il più
grande canto d’amore di ogni tempo cantò.
Chi è costei che giunge col vento
e di profumi la campagna
inonda, balsami e incensi
e fragranze cosparge su le viti
in fiore, o cerbiatta saltellante
nella brezza mattutina, bellissima
fra le creature della primavera?
Chi è costei che a me giunge
danzando coi caprioli, che canta
con le tortorelle, lei candida
e pura come le colombe,
ora che glorioso il sole risplende,
balzando per le valli
e per i monti, risvegliando gli uccelli,
le gazzelle campestri?
È lei, la mia amata, il mio diletto,
la sua voce è soave, il suo viso
è leggiadro, lei danza ebbra di vita.
È lei, la mia amata, la mia vita
che passa e lascia dietro di sé l’inverno,
la pioggia lenta uggiosa.
Scorrono i ruscelli nelle selve,
tornano i fiori nei campi ormai di grano
gloriosi, torna il tempo del canto,
le voci degli uccelli delle tortorelle
si fanno sentire nella campagna.
I fichi danno i primi frutti
e le viti in fiore spandono fragranza
fra gli ulivi, fra i mandorli rosa.
È lei, la mia amata, lei viene e scende
188
giù dai monti, balza per le colline,
porta con sé la primavera odorosa.
Una voce! Un canto! Una danza!
Volgetevi a lei e ammiratela,
mentre danza coi caprioli!
Volgetevi a lei, bellissima fra le donne,
ella è l’unica di sua madre,
la preferita della sua genitrice,
saltella come una cerbiatta in amore!
L’hanno vista le giovani e l’hanno detta beata,
le regine e le altre spose
ne hanno intessuto le lodi.
Perché unica è la mia colomba la mia perfetta,
l’amore dell’anima mia,
profumo olezzante è il suo nome,
l’odore dei suoi profumi sorpassa tutti gli aromi,
e il profumo delle sue vesti
è come il profumo di tutto l’Oriente.
Chi è costei che dalla notte,
dal silenzio giunge, argentea sorge
come l’aurora, splendente
come il sole, bella come la candida luna,
più temibile di un esercito schierato in battaglia?
È lei, la mia amata, il mio diletto,
il suo corpo rassomiglia a una palma
alta magnifica e cedevole,
il suo aspetto è bello e possente
come un cedro del Libano.
Le sue chiome al vento sono riccioli
d’oro brunito, grappoli
di datteri gialli, o neri come il corvo.
Gli occhi suoi sono due ridenti
colombe che fuggono
su ruscelli di acqua.
Il suo naso è dritto, è una fortezza,
189
protegge un giardino fiorito
di pomi fragranti.
I suoi denti sono bagnati nel latte,
incastonati in un nastro di porpora
che sono le sue labbra,
stillano fluida mirra le sue labbra,
miele vergine, c’è miele e latte
sotto la sua lingua, dentro alla sua bocca
di rosa aulente che mille sensi
d’amore effonde, distilla nettare e miele,
vino soave, sorgente di aromi,
di frutti squisiti odorosi.
Le sue guance sono aiuole di balsami,
aiuole di erbe profumate,
spicchi di melagrana sono le gote.
È una torre d’avorio il suo collo,
s’innalza a guisa di fortezza.
Chi è costei che come una dea
nel mio giardino incede col suo sicuro,
elegante, possente passo di regina,
più temibile di un esercito schierato in battaglia?
È lei, la mia amata, il mio diletto,
lei non ha bisogno di oro
e di argento, di perle di diamanti,
già ha portamento regale,
lei non ha ombra e risplende
da ogni parte, nuda e innocente
come nelle favole belle, ha puri pensieri
leggeri, è fresca sorgente
di acqua viva, chiuso
giardino di ambrosia e di aromi.
I suoi seni sono due melagrane,
grappoli d’uva profumata e matura,
puledri imbizzarriti sulla pelle
bruna, come due cerbiatti,
190
come gemelli di una gazzella
che pascolano fra i gigli.
Il profumo del suo respiro
come di frutti odorosi sull’ombelico
discende, oh coppa rotonda piena
di vino d’essenze, sul ventre caldo,
oh mucchio di grano, campo di rose,
dove la sua chioma coi fianchi superbi
d’avorio la sua vigna protegge,
oh giglio candido, rosa purpurea,
fiore gelsomino, oh vigna
sempre custodita!
Le curve dei suoi fianchi sono come monili,
opera di mani d’artista.
Le sue gambe sono colonne di alabastro,
posate su basi d’oro puro,
belli i suoi piedi in sandali regali,
oh principessa, figlia di delizie!
Chi è costei che si avvicina nel mio giaciglio
e mi sorride e mi protegge
con le mani nude, mani carezzevoli?
Sei tu mia amata, il mio diletto!
Mi baci con i baci della tua bocca,
quanto sono soavi le tue carezze,
le tue mani con anelli d’oro distillano mirra,
sorella mia, madre mia, sposa mia,
quanto più deliziose del vino le tue carezze!
Giardino chiuso tu sei, mia amata,
sorella mia, madre mia, sposa mia,
giardino chiuso, fontana sigillata.
I tuoi germogli sono un giardino
di melagrane, con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo e zafferano,
cannella e cinnamòmo, mirra
191
e aloe con tutti i migliori aromi,
con ogni specie d’alberi d’incenso.
Tu sei fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive, ruscello
sgorgante dal Libano.
Sei tu, la mia amata, il mio diletto,
che cerco e trovo la notte nel mio giaciglio
d’amore, tu bella come la luna.
La tua vigna è bagnata di rugiada,
come il mio giglio, vessillo d’amore.
Il mio diletto è candido e vermiglio,
riconoscibile fra mille e mille.
Io entro nella mia vigna
e colgo i frutti più odorosi,
i mille profumi d’Oriente!
I miei sensi vengono meno
e si annullano in te, tu sposa,
madre, figlia, sorella, regina,
sposa la più bella tra mille e mille
delle figlie d’Israele,
colomba mia, perfetta mia,
mio diletto, mia amata.
Per questo nessuno gli pubblica i libri, a questo Bardana: chi
cazzo crederà mai oggi a un amore così?
192
PARTE QUARTA
L’AMORE
193
194
Capitolo XXII
Il sogno dei sogni, il sogno d’amore
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana entrò nella mente di
Francisco e incontrò il suo sogno d’amore, e insieme tornarono
indietro nel due giugno del 1936, quando per la prima volta
Francisco e Anna il suo primo amore si amarono, e poi si
addormentarono insieme e poi si congiunsero ancora coi loro sogni
nel sogno più puro nel sogno d’amore, e infine entrarono negli altri
sogni, e dal principio alla fine conobbero tutti i sogni dell’universo.
Ecco, chi sei tu, Anna? Sei poco più di una bambina, con gli occhi
verdi e i riccioli neri. Giungi con tuo papà nel giardino di mio padre
per raccogliere pesche ed albicocche.
È l’estate siciliana, l’aria tremolante, il fuoco, la luce che acceca e
dal cielo scende e nel gorgo delle spettrali falbe parvenze si inabissa,
brucia i campi gialli di grano. Anche l’aria diventa gialla, il mare
lontano celeste, è il torpore delirante del meriggio in cui i colori sono
indistinti, e l’ultimo approdo è sempre il miraggio dell’aria, il
risorgere
dell’estate vaporosa senza tempo, il destino del
raccoglimento, della solitudine dell’eterno.
L’estate siciliana è sempre follia. È il vaneggiamento del glorioso
mezzogiorno, lo splendore della baluginante campagna, l’illusione, il
sogno che s’inarca e si sgretola.
È la polvere e il profumo stordente, il misterioso fruscio nelle
sterpi, la calura che frastorna – l’ombre, l’allucinazione, il miraggio, la
visione, l’abbaglio.
L’estate siciliana è la solitudine che insegue le solitudini, le
ombre che inseguono le ombre, la luce che insegue la luce. L’estate
siciliana è il mistero della campagna siciliana, il sogno immacolato, la
mente allucinata, dove tutto si riempie di ricordi lontani e di assenza.
195
È l’opulenta nullità della tarda primavera, la visionaria grandezza, la
metafisica esistenza del vuoto.
Codesta è l’estate siciliana, è il sole, il mare, la musica, il vento, il
movimento dei campi di grano, il profumo, la nostalgia, la melanconia
della terra di Sicilia.
Codesta è l’estate siciliana, è la vita mirabolante della campagna,
l’apparire e scomparire di fantasmi, la mutevole sfuggente ora del
meriggio, la musica e la poesia, la vibrante visione, il labirintico
cammino del nulla.
Tu entri – in questa estate - annunciata dal sorriso radioso nel
giardino di fichidindia, dove ulivi e pini ai lati gettano ombre non
lunghe sulle vigne, sui frutti del pruno e dell’albicocco, del melograno
spaccato. Eucalipti alti col loro lieve fruscio accompagnano il lento
scorrere del ruscello fra i canneti. Giù e giù a valle le viti in fiore e gli
ulivi contorti maestosi, e, oltre le secche pietre del greto, gli orti e i
canneti, e le palme arcuate intorno alla casina. È il meriggio di Sicilia,
il tempo di prima estate, quando il profumo di zagara trasporta mille
altri profumi, quelli dell’albicocco, del pruno, del pesco, del pero, del
melo, del sorbo, dei limoni, degli aranci, del melograno, di garofani e
rose, di viole, delle mille erbe e dei mille fiori di Sicilia.
Il sole è caldo nel meriggio, tutto intorno è silenzio. Uccelli alti
nel cielo, grilli solitari, il tremolio della terra, del mare d’occidente,
delle messi già alte. Le gallinelle dormono nel pollaio, dormono i cani
e i gatti all’ombra di un carrubo. Ecco, tu scendi e sull’erba ti distendi.
Dai rami degli alberi scendono fiori, scendono sul tuo bel volto,
formano ghirlande sui tuoi capelli neri. Alcuni si posano lentamente
sul tuo grembo, alcuni sulla tua candida veste, altri sul tuo seno.
Formano corone di perle sul tuo sorriso, il tuo sorriso contiene tutte le
parole del mondo.
Ecco, ora giungo a te. Mi distendo accanto a te. Ora la mia mente
entra nella tua mente, il mio sogno si congiunge col tuo sogno, gli
sorride, lo accarezza, lo bacia pudico sulla fronte.
196
Il mio sogno si congiunge col tuo sogno, formiamo un unico
sogno. Usciamo abbracciati e corriamo per i campi biondi di grano,
per la vastità del mondo, questo il nostro sogno, il sogno più puro del
mondo. È il sogno che nasce dal sogno del sogno, dal sogno remoto.
Noi siamo sotto il pesco profumato, dormiamo e sogniamo. Tu dormi
coi miei sogni ed io riposo nel tuo sogno. Dal gorgo del tempo
sprofondo nella tua assenza, nella tua estrema lontananza. Corriamo
abbracciati candidi e puri, la purezza della vita che completa il sogno,
il mio sonno che completa il tuo sonno. Ci fermiamo in mezzo alle
onde bionde del campo, ci sommerge un mare giallo, rosso, blu, di
papaveri e grano, di vita silvestre pura e arcana.
La mia bocca tremante cerca la tua, esiste solo il siderale silenzio,
lo spazio profondo muto, rimane l’unico tempo formato dal tempo del
nostro bacio, l’unico tempo che si trasforma in destino, il solo che in
un universo sterminato ha conosciuto l’amore. Tutto diventa un
sospiro, un lamento, silenzio, pace, stordimento, annullamento. Il mio
corpo si incontra col tuo corpo, fin nelle viscere profonde, negli umori
più nascosti e segreti. Solo il vento disperde la durata smisurata del
nostro sogno, del bacio d’amore, del piacere che diventa estasi, oblio,
dimenticanza, desiderio senza fine, urlo infernale di felicità che sale
da mille esistenze siderali e squarcia la calma, il silenzio di un tempo
sterminato, di spazi senza confini di niente che solamente l’angoscia
comprende, prima che il tuo corpo abbandonato in me abbia l’ultimo
sussulto, l’ultimo sospiro che rapido discende negli abissi del cosmo,
per diventare pavone elegante disdegnoso dei miei baci e dei miei
sospiri, oh vento che disperde il sogno, fumo che si aggiunge a fumo,
cenere leggera, debole sussurro e poi silenzio, e infine si dissolve in
ombra, sogno, niente.
Ci abbandoniamo ancora fra le messi. Sogniamo ancora,
sogniamo un altro sogno. Io entro ancora nei tuoi sogni, in questo
meriggio in cui tu partecipi della vita dell’universo. Io entro nei sogni
di tutto l’universo. La purezza del mio sonno completa il tuo sonno. Io
entro dentro di te e insieme sogniamo il mondo. Ho conosciuto tutti i
sogni del mondo e ora torno a te, alla vastità, alla purezza dei tuoi
sogni.
197
Ecco, siamo sulle nuvole. Guardiamo il mondo sotto di noi, tutto
lo spazio, tutti i tempi passati, presenti e futuri. È il paradiso, è la
gioia. Ci culliamo sulle nuvole. Tocchiamo il sole, tocchiamo le stelle.
Scendono su di noi gli angeli. Gli angeli ci guardano. Ci amiamo sulle
nuvole, il puro piacere senza sesso, un piacere indescrivibile, non il
piacere sessuale degli uomini e delle donne. È il piacere degli angeli.
Il puro piacere. L’infinito, casto, puro, inenarrabile piacere degli
angeli.
Siamo un unico corpo, un’unica nuvola, un solo spirito. Noi
vediamo i nostri corpi nudi, si abbracciano, si stringono, si fondono. È
l’amore puro, innocente, casto, incontaminato degli angeli. È l’amore
di Dio. Un profumo indescrivibile, una musica celeste. Io vedo te,
amore, in tutte le espressioni della donna, tu sei madre, sorella,
compagna, moglie, amica, la padrona del focolare. Il sorriso celeste.
Sì, tu sei il sorriso di Dio.
Io sono il padrone dell’universo.
Sono entrato nei tuoi sogni, sono entrato in tutti i sogni degli
uomini. Io ho conosciuto tutti i sogni della storia e del tempo. Sono
tornato indietro nei sogni di tutti gli uomini passati, ho compreso tutto
ciò che è stato e tutto ciò che poteva essere e non è stato. Sono volato
di mente in mente, di pensiero in pensiero, di tempo in tempo, di
sogno in sogno, attraverso tutte le relazioni e tutti gli incroci,
attraverso tutti gli spazi e i tempi dell’universo. Ho conosciuto i sogni
di tutti i pianeti e di tutti i mondi, di tutti gli sterminati abissi del
cosmo, i sogni di miliardi di creature viventi che hanno popolato
costellazioni e galassie, sono tornato sempre più indietro nel tempo,
fino a entrare dentro il sogno primordiale, assoluto, dell’universo.
Ora so che i sogni muovono la storia, solo i sogni sono
rivoluzionari.
Ora so che ogni morte di stella è un sogno che vien meno.
L’intero universo è una moltitudine di sogni, è un sogno senza fine.
Forse l’universo finirà ma i sogni resteranno, forse l’intero universo
diventerà un solo sogno.
198
Oh, l’universo fatto di sogni! Solo nell’universo i sogni si
lasciano non per separarsi ma per andare ad attendersi altrove, solo
nell’universo anche le cose hanno dei sogni. I sogni hanno sospiri, i
sogni camminano, i sogni hanno la sola ricchezza di essere sogni, i
sogni non hanno patria, non hanno età. Sono i sogni che danno la vita
sotto la luna piena o nel vorticoso movimento delle folle - i sogni non
tradiscono mai perché, se anche danno dolore, i sogni sanno stare da
soli e alla fine bastano a se stessi perché sono sogni.
Sì, sono tornato indietro nel tempo, un tempo lunghissimo e
arcano, e sono giunto all’istante primordiale, sono entrato infine nella
mente di Dio.
Ora conosco il sogno di Dio.
Ho guardato l’universo come si dispiega, come un libro con tutti i
tempi passati presenti e futuri. Ho visto l’essenza dell’universo, un
volume in cui sono racchiusi ordinati sostanze e accidenti, tutte le cose
e tutti gli accadimenti.
Ho visto il sogno di Dio, tutti gli angeli, tutti i beati, tutti i santi,
tutti i popoli e tutti gli eventi. Ho guardato sempre più lontano negli
spazi e nei mondi, sono entrato nei sogni di tutti gli esseri viventi di
tutti i pianeti, di tutte le stelle, di tutte le costellazioni e le galassie,
sono entrato in tutti i sogni dell’universo.
Conosco il sogno della farfalla leggera ed elegante, succhiare il
nettare dai fiori e non tornare più bruco o crisalide, volare libera al
venticello di primavera nei giardini, non essere solo bella e fugace,
vincere la morte e inondare per l’eternità l’aria di profumi e
meravigliosi colori.
Sono stato il delfino sinuoso che rapido solca i mari e cavalca le
onde, nel vorticoso movimento della libertà dell’aria e del profondo
abisso. Sono stato il cavallo maestoso potente, che conquista imperi e
percorre con le chiome al vento le le steppe e le praterie vaste, signore
della battaglia, della guerra e della pace.
199
Conosco il sogno del ghepardo nella savana, il signore maculato,
che si sveglia la mattina e sa che la vita è sempre una affannosa corsa,
la prodigiosa velocità, la preda elegante, l’agguato, il morso alla gola
alla gazzella, la velocità e leggerezza, l’ampia falcata, la carne al sole
cocente, solo l’invidia della forza del leone, non lo scontro, la
solitudine, la dominanza, la tirannia del leone, il re più grande.
Conosco l’alterigia, la vista ampia dell’aquila reale, il potente
rapace agile imponente, la falcata, il terrore dei cieli degli spazi
immensi dei monti dei boschi, il predatore alto levato, il signore
dell’aria, di spazi sterminati del silenzio.
Sono stato l’occhio vigile della gallinella sulla via dopo il
temporale, la pettoruta superba gallina che nel breve andare della sua
vita ha il passo lento, orgoglioso, di regina. Sono stato la giovenca
umile e paziente che mai si lamenta, il suo sogno lieve della stalla
calda e del vento che soffia sui prati verdi. Sono stato il sogno della
cagna feroce che le orecchie tende e l’aria odora a procurarsi il pasto
del giorno, la formica previdente che le montagne scala e gli abissi
discende, sono stato la rondine che a stormi si distende ed elegante
torna sempre a primavera ad annunciare il nuovo tempo.
Sono stato tutte le creature del mondo, il sogno di tutte le creature
del mondo. Sono entrato nella loro mente, sono entrato nei loro sogni,
ho sognato tutti i sogni di tutte le creature dell’universo.
Sono volato come sogno da mente a mente, da creatura a creatura,
ho conosciuto tutti i sogni dell’universo, tutte le voci e i suoni degli
spazi stellari, la musica, il silenzio dell’universo.
Sono entrato nei sogni di mia madre, quando mi voleva concepire.
Ora so che il mondo non è come doveva essere. Ma rimangono i
sogni, rimane l’amore.
Ora so che tu sei il sogno che non assonna ma avvicina a Dio, ora
so che io entro nei tuoi sogni, nel sonno che non inganna e non vola
per sempre col vento.
200
Ora so che tu vieni da lontano, da molto lontano, amore. Ora so
che, dopo avere percorso tutti i tempi e tutti gli spazi dell’universo,
dovevo trovare te.
Tu sei il sogno che percorre gli spazi e va di mondo in mondo, di
pianeta in pianeta, di stella in stella. Tu sei il sogno che sempre viene
con l’aurora, viene da destini lontani, da tempi remoti, da lontananze
smisurate arcane - solo un’ombra muta dietro di te, il profumo
dell’anima che i mondi inonda.
Tu sei la dimenticanza estrema che il sogno dei mondi diventa,
l’ombra del cosmo che fluttua nei vuoti stellari e nel mare trascina – tu
sei il fantasma, l’angelo che le esistenze accompagna e consuma, il
sogno che imprigiona tutti gli altri sogni, la vita che popola la desolata
solitudine dei mondi.
Tu sei lo sguardo, il sorriso puro della incontaminata giovinezza.
Tu sei il sogno, tu sei lo sguardo che rimane quando la storia si
butta a capofitto e il tempo distrugge e rinnova, tu sei il sogno che i
mondi divora, tu sei la straripante brama dell’esistere che il tempo
provvisorio devasta, tu sei la durata eterna, il silenzioso infinito andare
del tempo.
Tu sei il tumulto che imprigiona e sospende le mie parole, il
muro che separa la lucida rimembranza dal tempo confuso del niente.
Tu sei la vita siderale che nella nostra esistenza piomba, tu sei
l’energia che entra come sogno nel nostro stesso sogno, tumulti e
fragori si attutiscono, e diventano silenzi o sospiri.
Tu sei il sogno dove nessuna cosa del mondo si perde e si dirada,
altri tempi, altri ricordi occupano la tua mente, tu sei il pensiero che
spazi e destini vince, tu sei la gloriosa vittoria contro la memoria e il
tempo.
Solo nel sogno vince l’amore.
Ecco, ti stringo le mani e respiro il tuo respiro, i tuoi pensieri sono
i miei pensieri, i tuoi sogni sono i miei sogni. Ti abbraccio, solo il mio
sogno frastorna la tua memoria, solo il tuo sogno dà respiro al mio
sogno. Il mio sogno si congiunge col tuo sogno. Il nostro sogno esce
dal tempo breve dell’uomo, si dilegua nella durata eterna astrale, nel
buio senza confini, nella fredda cenere siderale. Il nostro sogno non
dice parole vane, ci consegniamo all’addio dal mondo, alle ombre del
201
cosmo, alle solitudini stellari dove tutto declina e si dissolve, ci
consegniamo al viaggio periglioso e solitario, al viaggio lontano, nella
sostanza evidente della pura cosa, nell’unico volgimento dove tutto si
posa, la pura vita orrida e arcana, madre paziente di ogni esistenza,
che gli spazi percorre in forma di incubo tenace, oppure in forma di
candida rosa.
202
Capitolo XXIII
Sevim
Di quando il puro sogno di Filippo Bardana va in sogno da Sevim
suo primo amore ormai vecchia come lui e parla col suo puro sogno e
gli propone di andare via con lui, e di abbandonarsi ai suoi sogni, e di
diventare il puro sogno dell’universo.
- Sono venuta qui senza che tu me lo dicessi. Mi è giunta la
notizia clamorosa del tuo arrivo, dopo quarant’anni molti si sono
ricordati di te, molti sono invecchiati col tuo ricordo, col ricordo dei
tuoi occhi innamorati.
- Qui ci attendevamo tutte le ore, prima che altri spazi, altri tempi
occupassero i tuoi pensieri. Qui ogni cosa, ogni foglia o alito di vento,
ci sembrava puro elemento del delirio, di un superbo destino.
- Il tempo passa, Filippo. Me lo dicevi anche tu: non dobbiamo
essere attaccati alle cose, tutto passa, tutto è impermanente. Altrimenti
il dolore è insanabile.
- Sì. Eppure tutto qui sembra identico a 40 anni fa, Sevim. Il
fiume, i giardini, gli alberi, le panchine. La calura del sole di mezza
estate, e perfino quest’ombra lieve sotto questo tiglio.
- È tutto diverso, invece, Filippo, perché diversa è la percezione
che noi abbiamo delle cose. Avevamo vent’anni quando ci siamo
amati, qui, anche sulle rive di questo fiume. Amavi, vedo dai tuoi
occhi che lo ami ancora oggi… Mi dicevi che era il fiume di un
grande poeta che era diventato pazzo.
- Hoelderlin.
- Sì, questo. Che io non conoscevo. E non conosco nemmeno
adesso. Ti guardavo negli occhi e ridevo. Pensavo: questo diventerà
pazzo come questo poeta per me.
- Lo sono diventato veramente, pazzo, Sevim. Perché tu mi
amavi ma non hai voluto continuare a vivere con me.
- Avevamo due destini diversi. Forse ho sbagliato, ma allora
pensavo così. Io già lavoravo, mandavo un po’ di denaro alla mia
famiglia che era povera. Avevo una sorella piccola, due genitori
203
malati. Tu dovevi studiare. Mi parlavi dei tuoi progetti, volevi
diventare poeta, professore universitario. Le nostre strade dovevano
separarsi.
- Non potevo credere che il nostro destino dipendesse da un
residuo di caffè in una tazzina.
- Era un gioco, lo sapevi. Anche con le cose serie io volevo
giocare, era una mia abitudine, ti piaceva.
- Mi piaceva tutto di te. Anche quelle orribili polpette di carne di
pollo che cuocevi al forno con le foglie di fico. E la fagiolina con le
cipolle…
- Cibi poveri, di una ragazza povera, che somigliavano tanto alla
cucina siciliana. Poi ho dovuto imparare a cucinare alla tedesca, per
abituare mio marito anche alla cucina turca… Ma non credo di avere
migliorato molto le mie qualità di cuoca.
- Mi piaceva tutto di te. Tutto quello che dicevi. Ti ho portato il
quaderno con le tue parole, sono come tu le hai scritte. Ci sono i tuoi
pensieri, le tue frasi d’amore. Ben seni sevyorum, ti amo, quante volte
lo hai scritto.
- Volevi imparare il turco, ma avevi tempo solo per scrivere
lettere d’amore bellissime nella tua dolce lingua. Io non le capivo,
nemmeno tu riuscivi a farmele comprendere bene, né in tedesco né in
turco, ma sapevo che erano bellissime… Le ho capite meglio tanti
anni dopo, quando ho imparato l’italiano per leggerle. Non ho più
incontrato un uomo così innamorato come lo eri tu.
- Però hai sposato un uomo che non amavi.
- Sì. Non l’ho sposato per amore. Altrimenti avrei sposato te.
L’ho sposato per avere un futuro sereno, una vita tranquilla. Non ho
cercato altro, né avevo diritti per pretenderlo, poi. Lui sì, mi ha amata,
ha voluto due figli da me. Lui meritava una donna migliore, che lo
amasse veramente. Mi sono sentita sempre in colpa con lui. Io, io ho
vissuto la vita che volevo, e che forse meritavo. Con te avrei
conosciuto l’amore, ma mi chiedo ancora se l’ho mai cercato.
- Anch’io mi sono chiesto spesso se il tuo, verso di me, era
veramente amore. Quello che non ho mai capito è perché l’abbandono,
perché la resa se uno ama. L’amore si vince solo con l’amore.
- Chissà. Forse non ho mai amato. Forse era tutto illusione.
204
Questo pensiero forse mi ha aiutato a costruire un rapporto con mio
marito. Col tempo ho imparato a donarmi con complicità, con
amicizia se non con amore, all’uomo che mi ha sposata. Mi sono
abbandonata a un uomo tanto diverso da te. Io ho cercato in lui solo
un sostegno alla mia delusione, un riparo ai colpi della fortuna, lui
sapeva di noi ma mi aveva tanto desiderata. Lui sapeva che non
l’amavo, mi ha accettata così.
- Non lo hai mai tradito. Una donna come te non può tradire.
- Io e mio marito abbiamo sperimentato strane forme di
amore e di complicità, oltre il sesso senza amore. No, non l’ho mai
tradito. Non ho nemmeno pensato di tradirlo. Volevo dargli dei
figli, glieli ho dati, certo non ho mai meritato il suo amore –
soprattutto in questo io ho tanto peccato. Se io ho amato, ho amato
solo te. Tu, tu solo sei stato il mio unico grande amore. Altrimenti
non mi sarei abbandonata a te, questo pomeriggio, dopo
quarant’anni, come una ragazzina in calore, all’ombra di un albero
per nulla discreta.
- Forse non è stato amore, forse è stato un estremo abbandono
per recuperare il tempo perduto. Dopo che ti ho vista, non ho mai
pensato di fare l’amore con una vecchia. Ho dimenticato il tempo. Mi
sono immerso in un tempo senza fine. Ho sognato.
- Anche per me è stato così. Ma ci sono tempi che non si possono
più recuperare. Tu allora eri tu il mio adorato, io lavoravo, vivevo per
te. Tu eri la possente forza della passione, eri l’amore, con te
riscattavo il tempo di un’esistenza altrimenti senza senso, noiosa,
lenta, senza vita. Tu mi hai aperta al sogno.
- …
- Tu mi hai sollevato al di sopra di tutte le donne, di tutte le
fanciulle della mia età. In questo villaggio, ero io la regina di tutte
le ragazze, mi accompagnavo a uno studente colto e intelligente,
italiano, e non al solito turco.
- …
- Quando camminavo con te per le strade silenziose del
villaggio o per i viali accanto al fiume, tutte le ragazze correvano
per vederci, ci seguivano con lo sguardo, ci invidiavano, ma
205
desideravano soprattutto te, il tuo sorriso, i tuoi occhi profondi
che divoravano la vita.
- …
- Tutte le ragazze turche invidiavano il mio letto, la mia
verginità, la mia giovinezza, la mia bellezza, l’esplosione del mio
corpo donato a un uomo che mi prometteva una vita come un sogno,
un destino di principessa in Italia.
- …
- Il nome di Sevim era sulla bocca di tutti, cantato da te in
dolci poesie d’amore, anche se quelle parole bellissime della tua
lingua nessuno le capiva. Tu volevi immortalare così il nostro
amore, in questo modo bello e lieve, stravagante, tutte le fanciulle
turche l’invidia le infiammava. Ogni via, ogni piazza, ogni sentiero,
ogni luogo risuonava del mio nome – e di questo ero fiera.
- …
- Tu eri colto, bello, forte, intelligente, anche se lo sei di più
adesso che sei carico di anni e di sofferenza, di tanta umanità affranta,
e soprattutto perché sei convinto di avere trovato la formula della
felicità.
- …
- Tu giungevi con la fama di poeta, di scrittore sublime, in questa
piccola valle sperduta nel nulla. Ti lusingavano le dolci lodi per la
tua poesia, per la tua cultura, la profondità della tua anima. Ma sapevo
che non poteva durare, qui ti saresti perduto, dovevi partire. Io
dovevo lasciarti subito perché la lacerazione fosse più lieve. Il tuo era
un destino superiore, sapevo che non mi sarei più ricongiunta con te.
- …
- Per qualche tempo ho pensato che tu cercassi in me solo il
sesso, la mia verginità, la mia purezza. Ho pensato che io fossi per
te solo una debole preda del tuo desiderio, della tua superbia di
giovane intellettuale, ma c’erano mille altre bellezze germaniche che
mi erano superiori, anche se io avevo pure, lo dicevi sempre, fascino
bellezza sapienza, tutto ciò che più seduce gli innamorati. Compresi
così che il tuo era amore. Altre erano forse più belle di me ma non
avevano la mia forza, questo tu dicevi, non il mio sguardo intenso,
profondo, avido di vita, di amore, di conoscenza.
206
- …
- Tu eri il mio diletto, tutto ciò che ho fatto lo facevo per te,
per compiacerti. Facevo tutto per te. Non provavo vergogna perché la
mia anima non era in me ma in te, non era in nessun posto se non
con te, se non da te. Io non condividevo i piaceri sensuali con te, io
mi annullavo in te, tu eri il mio signore, il signore di me, della mia
anima, del mio corpo, del mio spirito, della mia vita. Anche quando
cercavi piaceri illegittimi o turpi, tu spingevi dentro di me non le tue
voluttà ma il tuo amore, ed io volevo essere solamente,
esclusivamente, tua.
- …
- Io desideravo solo te, non volevo ricchezze o matrimoni,
volevo solo il tuo amore, avere il nome di compagna, sorella,
madre, amica, amante, anche prostituta. Ti offrivo tutto ciò che
cercavi nella vita, e se di notte cercavi una puttana, ecco, io ero la
tua puttana, sì, io ero anche la tua follia.
- …
- Tu avevi riempito il mio vuoto, il mio deserto, tu eri il
fondatore della mia vita, di me lontana da tutto, dalla mia terra, dalla
mia famiglia. Ti sei fatto carico di tanta solitudine, di tanto disperato
destino.
- …
- Ci abbandonammo perdutamente al sesso, ma non era
sesso era amore, passione d’amore travolgente di baci ferini
disperati, di parole affannose, di mani che nella notte percorrevano
il buio, misuravano il vuoto. Gli occhi chiusi per non svegliarsi con
un’illusione, mani che cercavano il seno, il sesso turgido di sangue,
che spingeva forte forsennato, scavava dentro la carne viva, ed era il
desiderio, il furore, l’ira, l’amore.
- …
- Questa passione
travolse ogni
aspetto
dell’amore,
provammo ogni gioco anche la follia, tutto ciò che poteva darci
piacere, sprofondammo in ciò che poteva essere turpitudine viluppo
di vergogne, pantano di fango, brama indegna sporco desiderio dei
sensi, vergognosa voluttà smodata lussuria, e peccato, violenza
esercitata sulla mia fragilità, oscenità, volgarità, poteva essere
207
tutto questo, ed aveva invece il nome, il puro, incontaminato, nome
di amore.
- …
- Ci siamo amati in ogni luogo, in ogni ora di quell’estate,
anche se la mia educazione mi imponeva le gioie e i piaceri di un
amore furtivo. Non ho mai cancellato quei ricordi nemmeno quando
avrei dovuto donarmi completamente a un altro uomo che per
quarant’anni mi è stato accanto. Ogni giorno, ogni notte, ogni
momento avevo davanti te, il volto di mio marito era il tuo volto,
gemevo, godevo solo pensando a te, avendo davanti te, la tua
immagine, dentro di me. La stessa cosa pensavo che tu facessi con
me. Mai avrei immaginato che tu cercassi la compensazione nella
ricerca dei sogni. Che tu pagassi questo distacco con una devastante
solitudine, una lontananza smisurata.
- …
- Tu solo sei il fondatore di me come donna, il mio signore, tutto
ciò che è mio è una tua creazione. In un’estate hai forgiato un modello
perfetto, hai popolato un vuoto che era occupato solo da morti e da
assenze, qualsiasi cosa potessi tu fare era allora benedetta. Tu hai
cresciuto e innaffiato una giovane pianta, la tua grandezza non era
nella nostra piccolezza, era che avevi fatto innamorare me di un
amore senza limiti – smodato, trasformato in una incredibile follia.
Quasi tutto ci divideva, cultura, lingua, paese, abitudini, ma ci univa
la debordante forza dell’amore.
- Tutto questo non è bastato per abbandonarti al mio destino.
- Questo amore non è stato comunque vano: ha consegnato al
mondo la più compassionevole delle creature. Ogni vita, Filippo, si
riempie goccia a goccia. Quel poco che ho fatto, l’ho fatto con
impegno, con tanta pazienza, con tanti sacrifici. Non potevo
permettere che un soffio di vento potesse distruggere tutto.
- Le nostre vite sono dei mandala che rappresentano
l’impermanenza. Tutto è provvisorio.
- Lo so. Per questo ho imparato col tempo ad accettare gli altri.
Ho imparato col tempo anche a capire e a perdonare, perché
mantenere l’odio e il rancore lacerano l’anima. Solo se si perdona si è
liberi.
208
- …
- Ho governato la mia mente, le ho imposto potere sul cuore.
Altrimenti sarei scappata subito da te. Ho governato la mia follia. Così
ho raggiunto l’equilibrio, cercando di vedere negli altri le ragioni,
comprendendo gli altri. Ho capito che la pace e l’armonia vengono da
dentro non da fuori, devono essere dentro di te. Solo così si può
affrontare il lungo difficile viaggio della vita. E una volta iniziato un
cammino bisogna portarlo fino in fondo
- Io invece posso dire che il destino mi ha reso il più felice per
potermi rendere la più infelice di tutte le creature, mi ha portato a
tanta altezza con te per rendere più rovinosa la caduta, a tanta invidia
per rendere possibile lo strazio e la pena. Per questo ho cercato la
felicità nei sogni.
- …
- Vieni via con me, ti porterò in un sogno senza fine. Non
avremo più bisogno del mondo. Nulla ci farà più male. Se le nostre
vite non si possono più incontrare, facciamo in modo almeno che si
incontrino i nostri sogni.
- …
- Sogniamo insieme, Sevim. La mia follia sarà la tua follia, i miei
sogni entreranno nei tuoi sogni, la mia memoria nella tua memoria, la
mia mente nella tua mente. Sogniamo insieme. Entreremo in un
mondo incantato fatto di puri sogni, di albe tremolanti, di carezze sulla
fronte al mattino. Solo così potremo sconfiggere l’angosciosa brama
dell’esistere, annullandoci totalmente nei sogni. Entrerò nel tuo
respiro, nei tuoi sospiri d’amore e tu nei miei.
- …
- Voglio consegnarmi ancora alla tua storia. Vederti passeggiare
accanto al fiume. Svegliarmi al mattino e vedere te che silenziosa e
discreta nuda vai in cucina e prepari la colazione, come facevi allora.
Ascoltare i tuoi passi leggeri la sera, quando torni a casa. Penetrare
nella tua arcana, pura vita.
- Non è più possibile recuperare il tempo perduto, Filippo.
209
- Passeggiare qui, vicino al fiume, abbracciati, come facevamo
nelle calde giornate d’agosto. Raccogliere mele, fare l’amore sul
prato, all’ombra di questi alberi. Dormire, sognare.
- No.
- Ascolta. Accogli questa mia angoscia, Sevim. Abbandonati al
mio sogno, al nostro sogno. Moltiplicheremo i giorni per i giorni, le
ore per le ore. Trasformeremo questa ossa, questa angoscia, queste
solitudini, in un eterno sogno.
- …
- Io posso entrare nei tuoi sogni e tu nei miei. I nostri sogni
possono sognare insieme e volare nel cielo, tornare indietro nel tempo.
Possiamo trascorrere il resto dei nostri giorni in mezzo ai sogni.
- Nessuno crede più ai sogni. La gente non cerca sogni, oggi.
- Eppure solo i sogni restano. L’universo è un sogno.
- A che cosa serve tuffarsi nel passato? Dovremo dormire
insieme, per sempre, uno accanto all’altra? Vivere come vampiri e
tuffarci a capofitto nel passato? A volte serve dimenticare. Bisogna
dimenticare.
- Solo coi sogni è possibile recuperare il tempo. Tutto il resto è
fumo, ombra, niente.
- No. Solo con la possente forza dell’amore si recupera il tempo,
e io ho perduto per sempre l’amore. E poi i sogni appartengono ai
giovani. I vecchi non possono avere sogni. E poi tu sei comunque
ricco. Niente sarà vuoto per te, se la tua mente è piena, e tu sei
padrone dei sogni.
- Solo il sogno salva. Solo col sogno si può raggiungere la grande
calma, il distacco dalle emozioni. Col sogno ci si può spingere oltre la
gioia e il dolore, si possono vedere le cose dall’alto, si può
sperimentare la compassione per tutte le creature. Col sogno si può
giungere ai primordi dell’universo, vedere oltre l’universo. Ogni
movimento nell’universo è causato da un altro. Tutto è concatenato.
Tutto ciò che accade a uno succede agli altri.
- Sei un visionario, Filippo. Il mondo non crede più ai sogni. Non
esistono i sogni. Solo con l’amore sono possibili i sogni.
- Io sono il padrone dei sogni. Io mi sono trasformato in larva, in
fantasima astrale, e mi sono impadronito dei sogni.
210
- L’uomo dei sogni. Tu in fondo non sei cambiato. Sei rimasto un
pazzo, un cercatore di sogni. Solo tu potevi impadronirti dei sogni.
Non occorreva nemmeno che mi raccontassi tutta la tua vita, sapevo
come avresti vissuto.
- Che cosa siamo noi, Sevim? Siamo piccoli aggregati di atomi
nello sterminato oceano dell’universo. Siamo ectoplasmi vaporosi
inconsistenti che escono dal buio, larve, morti, sogni, vacue ombre del
cosme, fantasime astrali.
- …
- Occupiamo questo torbido, piccolo spazio, non possiamo
evitare lo scacco, piccoli destini devastati dalla storia. Non c’è nessun
riparo che ci salva, nessun anfratto, nessun nascondiglio dove potere
evitare lo scacco. Quasi sempre sprechiamo questa breve luce, e
pensiamo di avere un destino immortale.
- …
- Ti ho vista di nascosto, mentre venivi. Volevo aspettarti qui, nel
fiume dove ti ho amata. Dove immaginavo che si dovesse concludere
il mio destino. Sembravi giungere con la stessa aurora, sembravi la
stessa aurora. Sembravi un’onda, un campo di energia dell’universo.
Sembravi giungere da un tempo remoto, da lontananze smisurate
arcane, eppure eri così presente, fragile elemento che nemmeno il
tempo devastatore ha potuto consumare, nemmeno la dimenticanza
estrema.
- Anch’io ho sentito subito la tua presenza, il tuo profumo, il tuo
sospiro. O forse era il ricordo vivo di te che mi faceva sentire tutte
queste cose. L’unico uomo che ho veramente amato. Noi, due ragazzi
venuti dal sole e dal sud, dal mare: ma due diversi destini. Perché ci
siamo incontrati qui? In questa terra di brume e di furori?
- Eppure solo qui ho incontrato l’unica donna che ho veramente
amato. Tu imprigionavi i miei sogni coi tuoi sogni, e popolavi la mia
solitudine con la tua vita, oh, quanta vita, in quel tempo senza tempo
in cui le ore erano battute dai tuoi sorrisi e dai tuoi baci, dai tuoi
capelli rossi al vento!
- …
- Certo, il tempo devastatore ci ha trasformati, Sevim. Ma noi
possiamo vincere il tempo, perché noi abbiamo i sogni. Io ho
inventato il sogno eterno, solo così possiano tornare alla pura
211
incontaminta giovinezza, al mio sorriso che bacia il tuo sorriso, ai
miei sogni che accompagnano i tuoi sogni.
- Tutto è perduto, Filippo. Non possiamo più invecchiare
insieme.
- No, io posso, io devo tornare a capofitto negli abissi del tempo,
riconoscerti, amarti ancora, vincere il tempo.
- Ormai il tempo ha divorato quella nostra straripante brama
dell’esistere.
- No. Io ho percorso in un momento tutto questo tempo
provvisorio senza di te, immaginando la durata dei tuoi anni coi miei
anni, accompagnando i tuoi sogni coi miei sogni. Devo dare sostanza
a questo tempo vano. Ho sempre cercato in mezzo alla folla
indifferente o nel tempo confuso del niente l’ombra discreta della tua
anima cercando di superare il muro che separava il tuo amore dalla
mia follia. Ho cercato di capire perché mi hai allontanato dal tuo
destino.
- Forse fra mille e mille esistenze siderali ci incontreremo ancora,
forse avremo ancora l’ultima occasione di poterci amare in
congiunzione astrale coi nostri sogni, saranno benedette le tue mani
che si abbandoneranno nelle mie mani, le carezze che trascineranno
all’aurora i nostri sospiri. Solo questo possiamo sperare, nell’eterno
ritorno, di cui mi parlavi tanto allora.
- Noi che abbiamo abbracciato il silenzio della nostra anima, noi
che abbiamo ascoltato il vuoto degli abissi siderali, ora siamo soli,
dimenticati da tutti. Noi non abbiamo mai compreso i meandri tortuosi
della storia, e siamo stati stranieri in mezzo alle folle tumultuose,
perduti in un caos di fragori che non hanno alcuna voce.
- Ci rimane solo quest’ultima speranza, Filippo: potere un giorno
incontrarci ancora, noi abituati al tempo smisurato immenso che
sovrasta le ore brevi del tempo umano sulla Terra, solo così queste
parole non si spegneranno, né i nostri sguardi o le notti d’amore, nella
lontananza, nel ritmo debole senza durata in cui si diradano e si
perdono le cose del mondo.
- …
- Sì, Filippo. È questo l’unico sogno senza sogni. Nel marasma
cosmico in cui saranno seppelliti destini e tempi, giungerà sempre
212
un’alba di niente in cui in un momento stanco dell’eterno ritorno noi
ci risveglieremo da un affannoso sogno e ci incontreremo.
- …
- Me lo dicevi in quel tempo, ricordi? Tu allora ascolterai dalle
viscere dello spazio profondo un lamento, un urlo infernale. Sarà la
mia anima che grida nella notte il desiderio di te, della tua carne
vergine spogliata nel superstite istante, sarà la mia voce che squarcia il
silenzio di un tempo sterminato che non ha mai conosciuto l’amore.
- La mia anima ha imparato a navigare nelle tenebre delle
misteriose eterne ombre. Così ha potuto incontrare i sogni.
- Come è stato possibile, Filippo?
- Come la mente si trasferisce da corpo in corpo, ma rimane
sempre mente, così il sogno passa da mente a mente, fino al primo
istante di vita dell’universo. Morire e rinascere, e poi morire ancora:
questa è la nostra maledizione. Solo il sogno può eliminare questa
maledizione. Giungere alla prima mente, al primo sogno. Tornare al
nirvana.
- Questo è il nirvana, il primo sogno?
- Il nirvana è il luogo dove non ci saranno più occhi, orecchi,
naso, lingua, corpo, mente. Non più colore, suono, olfatto, gusto, tatto,
cose esistenti. Non più vecchiaia né morte, non più fine della
vecchiaia e della morte. Non più sofferenza, non più causa della
sofferenza o fine della sofferenza. Non è strada, non è saggezza, non è
vantaggio. Questo l’insegnamento del Buddha.
- Allora il nirvana è il vuoto, il nulla?
- La forma è vuoto e il vuoto è forma. Il nirvana è l’assenza di
desiderio, è il luogo e il tempo dove non esistono le sensazioni, il
nirvana è tante cose e la stessa cosa. È la fine della vita accessibile alla
coscienza e del passaggio a un'altra esistenza, inconsapevole, dopo la
morte. Niente interferenze, quindi niente paura, oltre ogni illusione:
questo è il nirvana. È l’interruzione della catena delle reincarnazioni.
È la totale estinzione, il completo annientamento, la pace e la gioia
assoluta, la beatitudine, la verità ultima, è la condizione in cui la realtà
viene sperimentata come vuoto.
- Dunque il mondo è illusione?
- Sì. Solo col nirvana si può vincere l’illusione cosmica delle
forme, delle pure apparenze. Questa è la realtà: la vacuità di tutti i
213
fenomeni, di tutte le sensazioni, della coscienza. Tutto è vacuo. Tutti i
fenomeni non nascono e non muoiono, non diminuiscono e non
crescono. Non esistono gli elementi visivi, né suoni, né odori, né
sapori, né elementi mentali. Non c'è ignoranza, né estinzione
dell’ignoranza, non esiste l’invecchiare né il morire, vecchi, né
l'estinzione della vecchiaia né della morte. Non vi è sofferenza, né
origine di tutte le sofferenze, né il cessare della sofferenza. Questo è il
nirvana. La mente è libera dalle ombre, da tutte le ombre, da tutte le
paure, da tutti i fantasmi, da tutte le larve astrali. È il puro,
incontaminato sogno.
- …
- Solo il sogno può entrare in questa illusione. Solo il sogno
consente di liberarsi definitivamente dell’illusione del mondo e di
sprofondare nel non-essere, non una vita moralmente ineccepibile o
una disciplina ascetica rigorosa. Non una retta condotta di vita, non
una vita proba e un retto pensiero, una disinteressata contemplazione
della realtà, no, questo non basta per salvare un uomo, per assicurargli
il nirvana. Non l’ascetismo estremo che non serve a salvare ma a
rafforzare l’egoismo, l’istinto di affermazione, a respingere a livelli
sempre più profondi di coscienza la brama. Non servono il sacrificio,
la punizione, l’autoannientamento. Il sogno è all’inizio e alla fine
dell’universo. Solo col sogno possiamo liberarci della vita e della
morte, della ruota della vita, di tutte le vite passate, solo col sogno
possiamo giungere oltre l’universo, vedere la fondamentale realtà di
tutte le cose, il principio di tutto, il puro momento, il puro,
incontaminato nulla.
- …
- Tutto è sofferenza nella vita, nascere, ammalarsi, invecchiare,
morire. Questa la verità fondamentale del mondo. Separarsi da ciò
che si ama, desiderare ciò che non si può avere, unirsi a ciò che non si
ama: ho provato tutte le sofferenze del mondo. Forse anche per questo
desiderio di esistere i miei volevano cambiare il mondo e non hanno
potuto, per questo sentimento del nulla.
- …
- Nulla esiste, nulla ha una sua propria sostanza, ogni cosa trae la
propria essenza da altre cose che ne sono la causa. Ogni movimento
nell’universo è un effetto determinato da una causa. Se io sono quel
214
che sono, questo lo devo al distacco da te. Avrei potuto essere mille
altre cose. Solo il sogno è unitario e immortale, è individuale, non è
una combinazione di impulsi diversi.
- …
- Sì. La compassione verso tutte le creature viventi, accogliere
dentro di sé la gioia e il dolore dell’altro, la letizia, lo sguardo gaio
verso tutte le cose della terra. Solo con la compassione si appartiene
veramente agli altri, si combattono il fanatismo e la guerra, si diffonde
lo spirito della fratellanza universale. Con la sola forza della
compassione si possono vincere eserciti di demòni. Ma anche questo
non salva.
- …
- Solo i sogni salvano. Ma per abbandonarsi al sogno serve
l’amore.
- Non inseguire più l’amore, Filippo, se vuoi liberarti del mondo.
Lo hai detto: l’amore è attaccamento alla vita, è la catena che tiene
legato l’uomo al suo dolore, all’ignoranza, alla ruota delle rinascite.
L’amore è come il piacere, è attaccamento a qualcosa di estraneo.
L’amore è la prigione che incatena l’uomo al mondo, è la sete di vita,
la forma primordiale della brama.
- Ci trasformeremo in sogno, nel puro sogno dell’universo. E poi
ci dilegueremo nel buio senza confini, o nella fredda cenere siderale.
- Oh, Filippo! Abbiamo parlato come vite, ma in realtà siamo
solo sogni.
215
Capitolo XXIV
Il vento
Una brezza leggera, fresca - il vento quel mattino si levò dal mare
ed entrò nella torre. Il sogno dei sogni si svegliò ed uscì dalla mente
dell’inventore di Almeda. La mente ancora stordita, pensò alle parole
di Sevim, Non inseguire più l’amore, Filippo, se vuoi liberarti del
mondo. Poi volò in alto, guardò fuori, oltre il balcone: il mare era
calmo, il giorno appariva sereno. Vide alla sua destra Francisco
Bardana sul letto: era immobile, vitreo, pallido. La sua fronte era
piatta, fredda. Non si muoveva più nulla nella sua mente. Solo
un’immagine era rimasta nei suoi occhi: era lui disteso dentro una
bara, sul catafalco in mezzo alla stanza. Il sogno era fermo, nessun
soffio vitale lo muoveva. Fu in quel momento che il sogno di Filippo
Bardana, il puro, incontaminato sogno, comprese che Francisco suo
padre era veramente morto: si era trasformato in un sogno.
Squillò il telefono. Il puro sogno lo prese. Era Rafael Cernada. Il
puro sogno rispose con la voce di Filippo Bardana. Rafael Cernada gli
disse che l’elisir era un’illusione. Che i sogni esistono solo se lo
desideriamo noi. Per questo lui, Filippo, aveva vissuto una notte
meravigliosa ricca di sogni. Lo aveva voluto. Il sogno dei sogni chiuse
il telefono. Sorrise. Sorrise anche il vento.
216
Indice
PARTE PRIMA - L’UOMO DEI SOGNI
Capitolo I - Il sogno di Dio
11
Capitolo II – L’inventore dei sogni
17
Capitolo III – L’elisir dei sogni
22
Capitolo IV – Francisco si trasforma in pipistrello 36
Capitolo V – L’uomo dei sogni
47
Capitolo VI – I sogni di Almeda
52
Capitolo VII – Fantasmi di Sicilia
58
Capitolo VIII – La solitudine del mondo
63
PARTE SECONDA - LA STORIA
Capitolo IX – Sogno di Francisco Bardana
e di Giuseppe Garibaldi - Parte prima
71
Capitolo X – Sogno di Francisco Bardana
e di Giuseppe Garibaldi- Parte seconda
83
Capitolo XI - Sogno di Francisco Bardana
e di Umberto I Re d’Italia – Parte prima
96
Capitolo XII - Sogno di Francisco Bardana
e di Umberto I Re d’Italia - Parte seconda
104
Capitolo XIII – Lettera anonima al Prefetto
113
Capitolo XIV – Il sogno del bordello
116
Capitolo XV – Mussolini
127
217
Capitolo XVI - Sì, era un sosia del Duce
– ribadì il barone Domenico Nasca
135
Capitolo XVII - Altra lettera anonima al Prefetto
139
Capitolo XVIII - Il prefetto convoca il Bardana
per parlare del tentato omicidio di Mussolini
140
PARTE TERZA - UNA GIORNATA PARTICOLARE
Capitolo XIX - Francisco Bardana e la storia - Sogno 157
di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
Capitolo XX - Francisco Bardana e le donne - Sogno 170
di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
Capitolo XXI - Il Cantico dei Cantici, l’amore - Sogno184
di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario
PARTE QUARTA – L’AMORE
Capitolo XXII - Il sogno dei sogni, il sogno d’amore 195
Capitolo XXIII – Sevim
203
Capitolo XXIV – Il vento
216
218
219
Finito di stampare nel mese di settembre 2014
per conto di
Lulu Enterprises Inc.
3131 Rdu Center Dr
Morrisville, NC 27560-7687
United States
presso 733 Rue Saint-Leonard
53100 Mayenne - France
220
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