1 Nella foto: Rosaria Mazza 2 Francesco Bellanti L’ U O M O D E I S O G N I Romanzo LULU EDIZIONI 3 4 L’UOMO DEI SOGNI A mia madre 5 6 L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese (9 settembre 1908 – 27 agosto 1950) Un giorno Chuang Tzu si addormentò e, mentre dormiva, sognò di essere una farfalla che volava in estasi. E quella farfalla non sapeva di essere Chuang Tzu che sognava. Poi Chuang Tzu si svegliò e, a giudicare dalle apparenze, era di nuovo se stesso, ma ora non sapeva se fosse un uomo che sognava di essere una farfalla o una farfalla che sognava di essere un uomo. Gli insegnamenti di Chuang Tzu. 7 8 PARTE PRIMA L’UOMO DEI SOGNI 9 10 Capitolo I Il sogno di Dio Del primo sogno di Francisco Bardana, come lo vide il puro sogno di suo figlio Filippo. Che pensò finalmente alla sua vita e a come era diventato un sogno. Quella notte Francisco Bardana sognò Dio. Un Dio garibaldino. Dio, infatti, aveva il volto e la postura dell’Eroe dei Due Mondi. Il sogno di Filippo, suo figlio, entrò nella sua mente di dormiente e vide che egli sognava Garibaldi-Dio. Il sogno di Filippo aveva finalmente imparato a riconoscere i sogni di suo padre. D’altra parte, era un sogno familiare, non era la prima volta che i Bardana sognavano Garibaldi, anche se quella notte Francisco si accorse subito che Garibaldi non era un Dio rassicurante. Garibaldi-Dio era a cavallo sotto il più alto degli eucalipti della piccola tenuta dei Bardana, aveva il moschetto nella mano sinistra e una lunga spada nella mano destra dentro un fodero di metallo nero, aveva alla cintola un pugnale e un revolver col manico d’osso bianco, stivali di cuoio nero, una stampella che aveva scritta sul manico la parola Aspromonte. La cavalla Marsala con le redini attaccate a un ramo dell’eucaliptus festosamente nitriva, consapevole di avere sulla groppa una soma immortale. Garibaldi-Dio aveva una folta e bellissima barba bionda, capelli lunghi e lisci, naturalmente biondi, occhi azzurri, luminosi e penetranti. Indossava una camicia, naturalmente rossa, e i pantaloni azzurri, una stella a sette punte sul petto, un fazzoletto blu intorno al collo che aveva disegnati i simboli della massoneria. Fumava un sigaro toscano che faceva ampi cerchi nell’aria. Un Dio che fumava. Ci fu un momento in cui Francisco stava scambiando Garibaldi-Dio per uno dei falsi profeti e ciarlatani che da sempre venivano ad Almeda, ma Garibaldi somigliava troppo a Dio per non essere Dio, Garibaldi era Dio. Era un Dio guerriero e patriota, che aveva sofferto ed aveva amato, che aveva combattuto, un Dio severo e austero. Così il mitico, leggendario, solenne, immortale, immenso eroe nazionale italiano si 11 identificava con Dio, quella notte, in sogno a Francisco, in una metastorica affinità. Certo, tutto sommato, anche Cesare, benché pagano, poteva contendergli la palma di eroe nazionale-Dio, ma Francisco non amava la storia antica, la storia per lui cominciava col Risorgimento e con Garibaldi, quella che lui aveva studiato ed amato, quella che i suoi avi gli avevano raccontato e avevano vissuto. All’improvviso, mentre il sogno di Francisco stava sprofondando nei meandri tortuosi dell’Impero Romano, l’Eroe dei Due Mondi-Dio sguainò la spada e scagliò su Francisco il tremendo monito di Dio. Voi, gli disse Garibaldi-Dio, siete una famiglia di merda. Tuo nonno Francisco nel 1860 voleva uccidere Garibaldi, voleva fermare l’Unità d’Italia, il progresso, la storia. Io non c’entro con questa storia, gli rispondeva Francisco, è passato tanto tempo. So solo che mio padre mi diceva che mio nonno Francisco nel 1860 era un giovanotto scapestrato, una testa calda, uno che si voleva fare avanti nella vita. Bel modo di farsi avanti, lo incalzava Garibaldi-Dio, uccidendo il fondatore dell’Italia moderna, Paese guida della civiltà del mondo. La verità è che voi Bardana siete stati sempre dalla parte sbagliata della storia. Ma era al servizio di un principe filoborbonico di Almeda, ribatteva Francisco, mio padre mi diceva che Francisco aveva avuto l’ordine di uccidere Garibaldi perché sotto i Borbone si stava bene, c’era il progresso. Progresso un cazzo, esplodeva Garibaldi-Dio, il Regno delle Due Sicilie era quanto di peggio potesse esserci allora in Europa. No, diceva Francisco risentito e più convinto delle sue opinioni, la storia è storia, e non la fai tu. Me lo diceva mio padre e l’ho studiata anch’io. Ferdinando II era un re progressista, ed amava il suo popolo. Abbassò le tasse, ridusse le spese pubbliche e quelle di corte, reinserì molti esuli nell’esercito e nelle funzioni pubbliche più importanti, diminuì le pene per i condannati politici e cercò di migliorare le condizioni dei detenuti e di recuperare i delinquenti. Ferdinando II, inoltre, avviò molte industrie, costruì la prima ferrovia nel 1939, la Napoli-Portici, e, sempre nello stesso anno, la prima illuminazione a gas d’Italia. Minchiate, si irritava Garibaldi-Dio, tutte minchiate! Dove le hai lette queste baggianate? Chi cazzo te le ha raccontate? Ah, sì?, ribatteva Francisco. E dove lo metti il primo osservatorio vulcanico e 12 sismologico del mondo, l’Osservatorio Vesuviano del 1841? E le strade, e gli edifici comunali, e le terme? E le scuole per sordomuti, e le scuole e gli asili per i poveri e gli orfanelli, e i manicomi, e i porti di Mazara, Marsala, Girgenti? Basta, gridava Garibaldi-Dio, non dire bestialità! Vuoi forse convincermi che Ferdinando II era un re progressista, un socialista, una specie di Marx ante litteram? Non parlare difficile con me, rispondeva Francisco, non te ne approfittare che sai il latino. Si vede che non hai argomenti da ribattere. La verità è che sotto i Borbone si costruirono molte industrie e università, accademie, collegi, licei. Si bonificarono paludi e si misero a coltura terre boscose, si costruirono ponti e strade. Le terre erano ricche di grano e i prezzi erano bassi, i mercati ricchi, c’era ricchezza dappertutto e la popolazione cresceva. Palermo era città capitale, e non c’era la leva obbligatoria. L’unica colpa di Ferdinando II fu di isolarsi in Europa, la Francia e l’Inghilterra lo scaricarono, solo così si poté fare l’Unità d’Italia. E col tradimento e la corruzione di molti generali, come Landi… Ora mi sono rotto i coglioni, gridò Garibaldi-Dio. Nel bene e nel male, l’Italia andava fatta, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla storia, schiacciata da potenze immani come l’Impero Austriaco, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Russia, l’Impero Ottomano. L’Italia oggi è una delle nazioni più ricche e industrializzate del mondo, faro di civiltà e di progresso. E voi Bardana, in questo paese di merda che è Almeda, avete perso sempre tutti i treni. Vi siete fatti fregare perfino da Bresci, quando volevate uccidere quel mezzo minchione di Umberto I. Voi, una famiglia di vigliacchi e di lavativi. Per esempio, tu, Francisco, perché non hai servito la patria nella Prima Guerra Mondiale? Veramente, precisò Francisco, nel 1915 non ero ancora nato. Ah, sì, scusa, m’ero distratto, disse crucciato GaribaldiDio. Ti ho confuso con altro dei tuoi. Fu tuo padre che non ci andò a combattere. Altro codardo. No, lo difendeva Francisco, aveva una famiglia da campare, ed era già grandetto, aveva trentadue anni. Solite scuse dei vigliacchi, diceva Garibaldi-Dio con un sorriso sarcastico. D’Annunzio partì volontario, ed aveva cinquantadue anni. Sì, ribatteva Francisco, ma lui non aveva famiglia. Fanculo, diceva Garibaldi-Dio, solite scuse puerili. Nella seconda, però, perché non ci 13 sei andato, ah? Dimmi, perché? Veramente, rispondeva Francisco, io non potevo andare a difendere gli interessi dei fascisti, io ero antifascista. I fascisti hanno perseguitato la mia famiglia, mio padre, i miei figli, me. Non mi hanno fatto studiare, come volevo io. Io ero intelligente, potevo diventare professore universitario… E infatti volevate uccidere pure Mussolini, lo interruppe Garibaldi-Dio. Perché, non era giusto uccidere un dittatore?, disse Francisco. No, gridò forte Garibaldi-Dio, voi non siete un cazzo per cambiare la storia. Mussolini non poteva essere ammazzato mentre scopava con una puttana. Mussolini doveva essere ammazzato dai partigiani, alla fine di una lunga, gloriosa, guerra di liberazione nazionale. Così aveva decretato il destino. E poi la Seconda Guerra Mondiale sarebbe scoppiata lo stesso, i fascisti avrebbero messo un altro al suo posto. La storia aveva preso ormai il suo corso, gli uomini erano solo degli strumenti. E voi non eravate un cazzo. Ho capito, gli rispondeva sconsolato Francisco, meglio cambiare argomento: in fatti di politica, Dio non può mai perdere. Parliamo del paradiso. Vediamo se sei veramente Dio, o se sei invece solo Garibaldi. Io sono Dio, gli rispondeva sdegnato Dio, diffidente nato, e il paradiso esiste. Il paradiso è un posto bellissimo, con freschi ruscelli e prati verdi, e fiumi di latte e di miele, e giardini di aranci e di palme. In paradiso ci sono frescura e ombra, e case all’ombra dei pini e degli ulivi, e fiori, fiori bellissimi e profumati, viali odorosi di rose e ville coi camini fumanti, tutto il contrario di Almeda, insomma, dove non c’è un cazzo. In paradiso si mangia, pure, continuava Garibaldi-Dio, e c’è il pane e c’è il vino, ci sono cibi prelibati, il paradiso è un luogo dove si mangia e si beve. Però non si fa l’amore, gli diceva provocatoriamente Francisco. Sì, si fa pure l’amore, soggiungeva Garibaldi-Dio facendo l’occhiolino a Francisco, lui le conosceva talune sue debolezze, in paradiso si fa pure l’amore, sì, perché l’amore non è peccato, è peccato il sesso consumato solo per il sesso, non per l’amore. Certo, questo Garibaldi-Dio lo riconosceva, su questa materia lui non era stato in verità molto chiaro, né nel Vecchio né nel Nuovo Testamento. I tempi non erano maturi, però nel Medioevo i teologi, chiaramente ispirati da lui, avevano detto una volta e per sempre che 14 Adamo ed Eva nel paradiso terrestre facevano l’amore, anche se non conoscevano l’eccitazione, che l’uomo era stato creato a immagine e somiglianza di Dio, che lo stesso Gesù Cristo suo figlio mangiava e beveva e defecava, e – come è scritto nei Vangeli - fece tutto. Anche se non era vero che si era sposato con Maria Maddalena ed aveva avuto figli: questo era una leggenda metropolitana, una stronzata dei vangeli apocrifi. Ad ogni modo, tagliò corto alla fine Garibaldi-Dio, difficilmente in paradiso ci andrà un Bardana. Per la verità, aggiunse, sarà anche difficile che vi accoglieranno all’inferno, perché siete stati troppo coglioni nella vostra vicenda terrena. A questo punto, Francisco si crucciava, e pensieroso domandava a Garibaldi-Dio – forse era il rimorso interiore – se c’era qualche speranza per lui di andare in paradiso, dopo la vita senza senso che aveva vissuto. Garibaldi-Dio gli rispondeva che, nonostante lui, Francisco, avesse condotto una vita inutile, qualche speranzella di andare in paradiso c’era ancora. Però doveva eliminare le sue bestiali abitudini culinarie. Francisco gli rispondeva che, sì, lui aveva ragione, ma nemmeno lui, Francisco, aveva torto, perché in trent’anni di vedovanza qualcosa doveva pur fare per non abbandonarsi alla depressione. No, gli diceva Garibaldi-Dio, sono scuse senza senso. Ci sono tanti modi per impiegare il proprio tempo. Tu, invece, per anni e anni, per decenni, dopo che hai lasciato la biblioteca comunale, ti sei strafogato, tu e quell’altro tavernaro di tuo figlio, di baccalà fritto e di olive nere rifritte con contorno di cipolla cruda, sanguinacci e trippe all’aglio e in tutte le salse, stigliole al peperoncino, piedi di porco e budella arrosto, spiedini e salsicce di maiale e capra, teste di pecora, calli di cavallo, spezzatini e involtini di milza di lumache e orecchie di coniglio, oche e tacchini ripieni, lumache allo spiedo e fegatini di gallo. Sfincioni e panini con la milza, arancini e panelle, crocchette e caponata, frattaglie e rascature. Uno schifo. E poi pentole di ceci e di fagioli e di lenticchie, polpettone di cuore di cavallo, polpette di manzo al pecorino speziato, all’aglio, pepe, cipolla, peperoncino piccante messicano che era una bomba atomica, e altre schifezze del genere, cioè tutte le schifezze della tua 15 famiglia. Dovrò rinunciare a tutto questo?, gli chiedeva agitato Francisco. Sì, gli rispondeva severo Garibaldi-Dio, ma poi, vedendo Francisco molto triste, compassionevole gli diceva, vabbè, ti consentirò di continuare l’alimentazione terrena, di mangiare queste schifezze insomma, ma solo tre volte la settimana, per non essere accusato di favoreggiamento. E qui si fermava, e Francisco ci restava lo stesso un po’ male, perché capiva che doveva proprio rassegnarsi a rinunciare in paradiso al suo piatto prediletto, che Garibaldi-Dio non nominava, non per eccessivo pudore ma forse perché lo riteneva troppo afrodisiaco – cioè i coglioni di toro al pepe, prezzemolo, aglio, cipolla, aceto e il solito peperoncino messicano atomico. Passato un momento di smarrimento, però, Francisco chiese a Garibaldi-Dio, vista la sua non più verde età, quanto gli restava da vivere, solo per prepararsi, mica per altro. Ma Garibaldi-Dio gli rispose che no, questo non era possibile, nessun mortale doveva conoscere il momento preciso del proprio trapasso, per ragioni tecniche, diciamo, che uno, poi, sapendo di dover morire in un giorno determinato, poteva combinare qualche grossa minchiata. Allora Francisco gli chiese di farlo morire di giorno almeno, in piena coscienza, per avere i sacramenti - lui, che non andava in chiesa da secoli! - e i parenti vicini, perché il terrore della morte non lo faceva dormire la notte, e lui dormiva di giorno, visto che non aveva un cazzo da fare, e quindi non dormiva mai la notte, e poi dormiva di giorno, e poi ancora non dormiva di notte, era una catena. Garibaldi-Dio, allora, pietoso e quasi con le lacrime agli occhi, provò infinita tenerezza per il povero vecchio, e - privilegio concesso a nessun altro mortale - gli promise che lo avrebbe fatto morire di giorno, anche se sapeva che Francisco era un furbastro e non si fidava lo stesso. Qui, GaribaldiDio sguainò la spada di Calatafimi e la puntò minacciosa verso Francisco, infine sparì fra le nuvole in groppa alla fedele Marsala. 16 Capitolo II L’inventore dei sogni Di come Filippo Bardana di Almeda inventò l’elisir dei sogni dopo una delusione d’amore. Filippo Bardana si era ricordato di Rafael Cernada, un mago di Malaga. Era l’ultimo di una moltitudine di maghi e ciarlatani che con straordinaria continuità passavano da Almeda e profittavano della millenaria ingenuità della popolazione per vendere le loro erbe miracolose e gli elisir di lunga vita, e fungevano così da collegamento tra l’ignoranza di Almeda e il resto del mondo. Vendevano erbe e decotti, strani medicinali per guarire epilettici o per curare le malattie più disparate, antidoti per fare uscire dall’oblio o dalla dimenticanza estrema, o per fare risuscitare i morti, in un tempo in cui la primaria incombenza del popolo di Almeda era non di dedicarsi alla scrittura o di cadere nella depressione, ma di evitare la fame. Un bel giorno, dopo centinaia di tentativi clamorosamente falliti per creare l’elisir dei sogni, Filippo Bardana cercò di far tornare alla memoria quella singolare medicina che molti anni prima il Cernada aveva fatto provare nella piazza principale del paese a uno straniero doveva essere un suo complice - che, caduto in catalessi per tre ore, alla fine disse di aver sognato la sua prima notte d’amore, stordendo ed eccitando l’ingenuo popolo di Almeda che assisteva all’esperimento. Il Cernada quel giorno fece un sacco di soldi vendendo centinaia di pozioni di quella medicina miracolosa, ma subito dopo sparì col suo socio, e degli effetti di quel prodigioso infuso nessuno ad Almeda parlò, segnale evidente e clamoroso che quasi sicuramente il mago malagueño aveva preso per il culo l’intero popolo di Almeda. Ad ogni modo, Filippo Bardana si ricordò in quei giorni di disperazione di quell’imbroglione spagnolo che andava vendendo per le terre sperdute di Sicilia quel misterioso infuso di erbe che, a suo dire, faceva uscire 17 dalle tempie un fumo che si materializzava in visioni oniriche e celestiali, facendo venire prima il sonno e poi facendo sognare quel che uno desiderava sognare. Riprese un quaderno dove aveva scritto appunti della chiacchierata che aveva avuto in quel tempo remoto col sedicente mago andaluso subito dopo l’esperimento, e cominciò a procurarsi gli ingredienti per sperimentare l’accozzaglia esoterica di erbe. Non fu una cosa facile. Per giorni e giorni, per settimane, Filippo Bardana comprò e si fece portare da ogni parte del mondo le erbe che il malagueño diceva di aver messo nell’infuso. Erano spesso erbe strane, che nessuno ad Almeda aveva mai visto. Filippo Bardana le macerava, le distillava e le mescolava in quantità precise al milligrammo, secondo quello che aveva scritto sul quaderno. Dopo tre mesi di lavoro e di cotture e di distillazioni, l’inventore di Almeda giunse, o credette di giungere, al miracoloso infuso. Fu una liberazione, soprattutto per suo padre Francisco, che in quei giorni camminava a casa sua stordito da tutti quei profumi e da quelle esalazioni che dal laboratorio del figlio si spandevano per la casa e inondavano perfino tutto il quartiere vicino. Era un miscuglio bestiale di valeriana, tiglio, camomilla, luppolo, belladonna, mandragola, biancospino, escolzia, melissa, assenzio, ephedra, mirra, stramonio, giusquiamo, incenso, hascisch, marjuana, erbe tibetane e indiane con grandi proprietà oniriche. C’erano tutti i trentotto fiori di Bach, un medico inglese che pare fosse un sensitivo, questi fiori di Bach si diceva che mettessero in contatto con Dio e l’essenza dell’universo. Erano agrimonia, centaurea minore, cicoria comune, eliantemo, genzianella autunnale, mimolo giallo, balsamina dell’Himalaya, piombaggine, fiorsecco,verbena, violetta d’acqua, clematide, acqua di fonte, forasacco maggiore, brugo, ginestrone, olivo, quercia, vite, agrifoglio, caprifoglio comune, carpino bianco, ippocastano bianco, castagno dolce, ippocastano rosso, faggio selvatico, gemma di ippocastano bianco, larice comune, melo selvatico, mirabolano, noce, olmo inglese, pino silvestre, pioppo tremulo, rosa canina, salice giallo, senape selvatica, ornitogalo. 18 Erano fiori contro la paura e la solitudine, contro lo sconforto e la disperazione, contro l’ansia e la debolezza di volontà, fiori contro il panico, il pessimismo e lo scoramento, la depressione, fiori contro la sfiducia di sé e l’insicurezza, fiori che favoriscono l’entusiasmo, fiori per chi vuole sognare ad occhi aperti e vuole fuggire dalla realtà, fiori per chi è infelice e insicuro su ciò che vuole fare nella vita. Fiori per chi odia la solitudine, fiori contro la fatica fisica e mentale, fiori per chi prova desiderio di dominio, fiori contro l’invidia e l’odio, fiori per chi ha nostalgia del passato e vuole ricordare solo le cose belle, fiori che fanno aumentare l’energia vitale, fiori contro i pensieri di suicidio, contro l’intolleranza e l’arroganza, fiori per chi teme di perdere la ragione, contro la rassegnazione e l’apatia, fiori contro il maleficio. C’erano erbe di tutti i generi, insomma. Petali di fiori non coltivati, fiori di piante spontanee. Erbe che avevano fama di piante magiche, afrodisiache, lassative, che avevano il potere di restituire l’armonia fisica e mentale, erbe allucinogene, narcotiche, erbe contro stati d’animo negativi. Stelle di Bethlem, genziana, papaveri di Sicilia, damiana, eleuterococco, muira puama, acanthea virilis Benth, ginseng, yohimbehe, equiseto, maca. Erano erbe e fiori che guarivano addirittura dall’asma, dalle ulcere. L’inventore di Almeda alla fine aromatizzò l’incredibile intruglio con essenza di arancio di Ribera, di cui i suoi concittadini erano ghiotti. Filippo Bardana ce l’aveva avuto fin da piccolo il pallino di voler cambiare il mondo con le sue invenzioni, anche quando era un brillante studente di lettere all’università, ma si dedicò del tutto alle invenzioni subito dopo la prima vera delusione d’amore, a ventun anni. Aveva fatto tanti esperimenti, ma per un motivo o per un altro erano tutti falliti. Aveva provocato anche parecchi incidenti. La sua casa aveva preso fuoco più volte. C’erano state ben due esplosioni nel suo laboratorio. Aveva fatto soprattutto esperimenti chimici. Frequentò saltuariamente scuole professionali, prima di approdare ad un liceo, solo per imparare tecnologie e apprendere nozioni fondamentali di chimica. I suoi compaesani non lo amavano, lo consideravano un pazzo, e pensavano addirittura che portasse sfortuna, a tal punto che, quando lo vedevano, si toccavano i coglioni. 19 Era un sentimento nobilmente ricambiato, e che spesso si manifestava in clamorose burle da parte di Filippo Bardana verso i suoi compaesani, con grande imbarazzo del padre, che si trovava sempre tra i piedi tanti curiosi. Una volta l’inventore di Almeda pubblicò un libretto arancione dove c’erano scritti consigli di filosofia di vita che secondo l’autore dovevano condurre alla felicità. Molti ci credettero, e il libro andò a ruba. Un’altra volta fece diffondere la voce che aveva inventato un filtro per guarire dal mal d’amore. Ci fu un gran rumore in paese, l’inventore di Almeda subì minacce, tentativi di furto di ampolle nascoste. Tra le sue fissazioni di gioventù ci fu anche quella di trovare la formula che consentisse la trasformazione del rame in oro; nel momento culminante di un esperimento, una notte prese fuoco il suo laboratorio. Il padre Francisco lo cacciò di casa, Filippo dormì per due mesi in un pagliaro, in un podere di famiglia non lontano da Almeda. Qui lo contattarono e lo picchiarono alcuni strani loschi figuri che erano venuti ad Almeda incuriositi dal bizzarro inventore. Un’altra volta pubblicò su un giornale locale la formula matematica che spiegava l’universo, ma di quella scoperta non gliene fregava niente a nessuno in quel tempo. Per le ricerche mediche non aveva gli strumenti adatti, visto che era un solitario, e lasciò perdere la cura del cancro. In tempi più recenti, si stava dedicando alla ricerca di un superviagra, ci stava provando con degli ormoni asinini tratti dallo sperma dei ciuchi almedini, che erano famosi in Sicilia per la dimensione del pene, affatto enorme. Poi si accorse che non poteva competere con gli americani e si diede a ricerche spirituali e religiose, ad elaborare filosofie e religioni che potessero dare felicità all’umanità, ma anche queste fallirono tutte miseramente. Quelle che c’erano bastavano ed avanzano, di filosofie e religioni, ed era risaputo che non avevano dato la felicità agli uomini. Poi gli venne la fissa di creare una musica sublime che potesse dare gioia e felicità all’umanità. Creò una specie di sinfonia, lui che si dilettava al pianoforte, una musica sincretica dove si potevano sentire echi di Beethoven, Gershwin, Mozart, Bach e Puccini. Era una cosa davvero sublime, a detta di alcuni stranieri di passaggio che l’udirono, ma solo gli animali erano attratti quando lui la suonava, venivano tutti davanti alla sua porta di casa, soprattutto galline ovaiole, cani e gatti. I suoi 20 concittadini non l’amarono forse anche perché erano appassionati solo di musica napoletana e di canti popolari siciliani. Ci fu un tempo in cui si dedicò con tutte le sue forze agli studi per trovare la formula dell’immortalità, ma gli mancarono alcuni esperimenti e strumenti operativi, e la sua indefessa attività di ricerca clamorosamente si arenò. Prima di inventare l’elisir dei sogni, Filippo Bardana diceva di avere inventato un misterioso decotto che consentiva di utilizzare la memoria come meglio uno desiderava, si poteva dimenticare o ricordare un tempo preciso del passato, ma non fu possibile verificare l’invenzione perché nessuno si sottopose all’esperimento, nessuno voleva dimenticare o ricordare tutto. L’esperimento, infatti, prevedeva che si potesse dimenticare o ricordare per sempre non un’azione singola ma un intero periodo del passato, e la gente non se la sentì di rischiare di dimenticare o di ricordare tutto, le azioni nefande o le azioni sublimi, perché la gente voleva ricordare le cose belle e dimenticare le cose spiacevoli, ma questo non era possibile farlo con quell’invenzione. L’arte del Bardana in quel tempo non era ancora perfetta, però stava giungendo alla meta finale, cioè la memoria governata, quella di ricordare o dimenticare un evento singolo, ma l’inventore di Almeda allora lasciò perdere tutto perché, cosa non desueta nel suo carattere, si era stancato. 21 Capitolo III L’elisir dei sogni Di quando Rafael Cernada disse a Filippo, dopo che questi aveva preparato la medicina, quello che doveva fare per trasformarsi in puro sogno ed entrare nei sogni degli altri, e conoscere la realtà dell’universo. Ovvero del tedio, della melanconia, di fantasmi e di gnomi, di vampiri e di spiriti notturni, di angeli e di diavoli, dei poeti dei sogni, della natura dei sogni e di altre cose misteriose ed arcane. - Sei rimasto un pazzo, Filippo – disse Cernada – Loco. Come cuando eri niño. Voglio portarti via con migo, in un mondo più bello, más hermoso. Lì tutto ciò che desideriamo se realiza. Sì, sei arrivato dove sono arrivato yo. La medicina è perfetta. La formula è quella. Ma non basta solo bere una poción miracolosa per fare questo, occorre anche uno sforzo de la voluntad. Tienes que creer. Bisogna credere. - … - Perché, Filippo, vuoi diventare el signore dei sogni? Eres un hombre triste. Anche se non sei mai stato allegro. - Io sono assalito dal tedio, maestro. La noia e l’accidia si sono impossessate della mia anima. Provo disgusto per la violenza e il male del mondo, l’uomo è marcio, e io mi sento un cuore puro smarrito nella sofferenza dell’essere. - Il tuo sufrimiento vien da lontano. Eri un bambino melanconico che inseguiva dei sogni. Forse la felicidad. - Per la felicità si può cadere nel baratro della follia, Rafael. Negli ultimi giorni ho visto, o mi è parso di vedere, come ombre, elfi o gnomi dei boschi saltellare di qua e di là nel mio giardino, davanti alla finestra. Ho visto diavoletti o silfi leggeri e capricciosi nel mio studio che rovesciavano libri e carte, nanetti e fate bizzarre che lanciavano stelline sul tetto e sui lampadari, genietti dispettosi che scorreggiavano e poi fuggivano. Ho visto folletti e spiritelli in piena notte volare come comete e girare intorno alla mia testa. Ho sognato troll, uldras, gnefri e leprecani, dèmoni mostruosi e streghe. Infine, ho visto licantropi e vampiri nei pleniluni saltare per i tetti e salire le 22 pareti, con ululati sordi e spaventosi. Ombre. Quante ombre ho visto! Ombre senza luce e fantasime astrali. - Sì, Filippo: ombre. Son sombras, infatti, proyecciones de la tua mente, del tuo io nascosto. Potremmo dire che son sueños. Anzi, senz’altro sono anch’essi dei sogni. - Chissà, forse anche tu sei un elfo, una larva, un fantasma. - Chissà. Forse sono un sogno. Forse anche tu sei un sogno. Somos dos sueños. Forse in questo momento nuestras palabras, i nostri sguardi sono già dei sogni. E noi siamo sueños que parlano dei sogni. Da un momento all’altro tutti possiamo trasformarci in sogni, todos podemos diventar sueños. - …. - O forse io sono la tua vera ombra, Filippo. Soy tu sombra vera. E tante altre cose. Se tu sei qui, un motivo ci sarà. Soy tu sueño, io sono il tuo sogno, lo spirito guida, tu ángel. Yo son todo per te. Yo soy la luz de Dios, come un faro che illumina il buio de la noche. Io sono il dèmone vicino alla tua alma, io sono la voce che hai sin da cuando eri un fanciullo. Yo soy la gracia de Dios. Io sono qui per accompagnarti e guidarti verso Dio. Io sono il tuo Genio familiare. Soy el inventor de sueños, io sono l’inventore dei sogni. Io sono l’uomo dei sogni. Yo soy el hombre de los sueños. - Io cerco la felicità, Rafael. Ho sempre cercato la felicità. Per un momento, ho creduto di averla trovata, ma quella ragazza mi ha lasciato. - Anche la felicidad è un sogno, Filippo. Es una criatura de nuestra mente. Ha pasado mucho tiempo, Felipe, 40 años. Forse tu hai solo sognato in questo tiempo. Que esiste la felicidad, que es una donna la felicidad. No. Che tra il sognare e il fantasticare se consuma la vida, con l’unico scopo di consumare el tiempo per niente, questo todavia io non lo penso. Porque tu crees como yo que il piacere consista solamente nei sogni, dunque debemos prepararnos, conviene que ci determiniamo a viver per sognare. O a sognare per vivere. Penso pure che il piacere sia solo un deseo, desiderio. Sperare di trovare un Genio tipo quello della lampada di Aladino, che te fa diventar prince e magari ti dà un tappeto mágico, volante, per raggiungere a tu amada. O encontrar la fórmula de la felicidad, trovare 23 la formula della felicità. Né credo che il rimedio alla noia siano l’oppio, il sonno, o el dolor. - … Rafael Cernada osservò Bardana che guardava il mare di Malaga attraverso la finestra, come se la felicità si trovasse tra i pesci, o nell’indistinto brodo primordiale. Poi pronunciò decine di nomi famosi, che non sempre ebbero a che fare con la felicità. - Napoleone, Cesare, Ottaviano Augusto, Nerone, Caligola, Davide e Saul, Nabucodonosor, Tutankamon, Gengis Khan, Alarico, Federico Barbarossa, Claudio, Gaio Gracco, Mario,Tiberio, Caracalla, Ottone I, Hitler, Stalin, Mussolini, Churchill, Robespierre, Carlo Magno, Alessandro Magno, Federico II di Svevia, Carlo V, Luigi XIV, Bismarck, Adamo, Federico II di Svevia, Enrico VIII, Carlo V, Filippo II, Abramo Lincoln, Toro Seduto, Innocenzo III, Alessandro VI, Pietro il Grande, Ivan il Terribile, Cavour, Mazzini, Crispi, Kennedy, Kruscev, Nenni. Lorenzo dei Medici, Annibale, Luigi XVI, Gregorio VII, Pericle, Filippo IV il Bello, Tito, Gugliemo Tell, Silvio Pellico, Custer, Carlo Alberto, Attila, Colombo, Diaz, Magellano, De Gama, Vespucci, Mao tze-tung, Abramo, Mosè, Elia, Isaia, Geremia, Ezechiele, Noè, Daniele, Zoroastro, Rama, Lao-tzu, Vardhamana Mahavira, Confucio, Milarepa, Shri Ramachandra, Ramakrishna Paramahansa, Vivekananda, Caitanya Mahaprabhu, Gandhi, Martin Luther King, Lutero, Calvino, Maometto. Bernardo di Chiaravalle, Francisco d’Assisi, Milarepa, Buddha, Confucio, Krishna, Orfeo, Pitagora. Qué dicono usted estos nombres, amigo? - Non saprei, señor – disse un po’ imbarazzato Filippo Bardana Sono nomi di re, imperatori, capi di Stato, faraoni, condottieri, dittatori pazzi, zar, capi di governo, papi, generali, rivoluzionari, riformatori religiosi, profeti, navigatori, presidenti, politici, navigatori, esploratori, santi, asceti, mistici, fondatori di religioni. - E estos nombres che te dicon, inventor de Sicilia? – continuò Rafael Cernada - Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Darwin, Curie, Einstein, Fermi, Majorana, Oppenheimer. Socrate, Platone, Aristotele, Bacone, Giordano Bruno, Kant, Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Croce, Nietzsche, Mozart, Beethoven, Bach, Verdi, 24 Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Tiziano, Giotto. - Sono grandi medici e scienziati – disse Bardana – Grandi filosofi, musicisti sublimi, geni cosmici, pittori, scultori. - Bien, y ahora me dice: Shakespeare, Gòngora, Goethe, Dante, Leopardi, Petrarca, Belli, Borges, Shelley, Cavalcanti, Hoelderlin, Manzoni, Tolstoij, Montale, Pascoli, D’Annunzio, Foscolo, Garcìa Lorca, Juan Ramón Jiménez, Metastasio, Cardarelli, Carducci, Neruda, Pavese, Rilke, Mann, Musil, Joyce, Proust, Cardarelli, Saba, Tagore, Byron, Keats, Boccaccio, John Donne, Coleridge Milton, Ungaretti, Verlaine, Rimbaud, Chaucer, Baudelaire,William Butler Yeats, Campana, Pindaro, Virgilio, Seneca, Tacito, Euripide, Orazio, Catullo, Tibullo, Ovidio. Chi son éstos? - Sono scrittori e poeti di smisurata grandezza – rispose un po’ infastidito Bardana – Ma che gioco è? - No te preocupes – disse Cernada – E ahora in ultimo dime: Pancho Villa, Emiliano Zapata, Lawrence d’Arabia, Rasputin, Nicola II zar, Trotzkij, Guglielmo II, Carlo I d’Asburgo, Benedetto XV, Mustafà Kemal Ataturk, Turati, Gramsci, Giolitti, Bonomi, Facta, Vittorio Emanuele III, Matteotti, Gobetti, Alessandro I Karageorgevic, Alfonso XIII, Primo de Rivera, Giorgio II di Grecia, Hindenburg, Zogu I, Chiang Kai-Shek, Sturzo, Ibn Saud, Hirohito, Zinoviev, Kamenev, Sandino, Bucharin, Chamberlain, Pio XI, Grandi, Farinacci, Starace, Ciano, Goering, Goebbels, Antonio Salazar de Oliveira, Hoover, Roosvelt, Pu-Yi, Himmler, Dollfuss, Giorgio V, Edoardo VII, Giorgio VI, Badoglio, Francisco Franco, Leon Blum, Faruk, Somoza, Pio XII, Von Ribbentrop, Daladier, Molotov, De Gaulle, Petain, Graziani, Rommel, Hailé Selassié, Hess, Togliatti, Tito, MacArthur, Montgomery, Eisenhower, von Paulus, Cavallero, Doenitz, Zukov, Patton, Clark, Alexander, Truman, Parri, De Gasperi, Saragat, Umberto II, De Nicola, Peròn, Ho Chi-Minh, Einaudi, Ben Gurion, Adenauer, Gomulka, Chou En-lai, Batista, Beria, Malenkov, Kruscev, Nagy, Reza Pahlavi, Nasser, Scelba, Gronchi, Segni, Eden, Diem, Duvalier, Fanfani, Giovanni XXIII, Faysal, Nenni, Moro, “Che” Guevara, Sihanouk, Tambroni, Mobutu, John Kennedy, Paolo VI, Johnson, Suharto, Bokassa, Brandt, Malcom X, Nerhu, Moshe Dayan, 25 Pompidou, Dubcek, Nixon, Husak, Golda Meir, Arafat, Saddam Hussein, Allende, Pinochet, Karamanlis, Ford, Amin Dada, Papà Doc, Sadat, Le Duc Tho, Van Thieu, Pol Pot, Videla, Berlinguer, Giovanni Paolo II, Khomeini, Breznev, Craxi, Pertini, Indira Gandhi, Reagan, Mitterand, Ceausescu, Rabin, Andreotti. Chi sono questi? - Mah – rispose Bardana rinfrancato: erano gli ultimi – Sempre uomini politici, rivoluzionari… Però, credo abbiano in comune il fatto di appartenere al XX secolo. - È così – disse Cernada – Pero todos los que io ho mencionado, nella tua opinione, lo que tienen en común? Filippo Bardana guardò il sorriso del novantenne Rafael Cernada. Il Mago di Malaga. Un piccolo Mago su una sedia a rotelle. Piccolo, pallido, con gli occhietti incavati. Osservò poi la sessantenne moglie siciliana Carmela ormai diventata Carmen che portava due caffè. Carmen sorrise al marito. Ma il Mago di Malaga guardava il mare. Uno strano incrocio di sguardi. Anche Bardana sorrise. In fondo, non era stato difficile trovare Cernada. Se passò da Almeda come il Mago di Malaga, doveva essere di Malaga, pensò. E prima o dopo, gli uomini ritornano – anche solo per morirvi – nel luogo dove sono nati. Così si recò in Andalusia, a Malaga. Temeva di trovarlo morto, in una tomba. Invece era vivo Rafael Cernada. E dopo due settimane lo trovò. - Mi sbaglierò – disse Bardana – Ma ho l’impressione che in comune hanno il fatto di essere tutti morti. Maestro. - Bravo el mi amigo – disse sorridente il vecchio – Sono tutti morti. Sono solo sogni. Ahora. Sueños. - Sogni - ripeté Bardana – Sì. Ora posso conoscere il segreto dei sogni. E anche il segreto della vita, se la vita e il sogno sono la stessa cosa. - Sì – disse Cernada - Io ho inventé el mismo medicamento con la cual potevo col mi sogno entrar en los sueños de los altri e così andare indietro nel tiempo, siempre più indietro, para descubrir come è nato l’universo. Mi diede la formula una vieja gitana, zingara, de Granada, Miranda se chiamava, ma era conosciuta come Viento del 26 Este, che l’aveva avuta da suo nonno, uno di Bagdad. Ho girato toda Europa e muchos paesi del mundo, ma nessuno, nada, nessun hombre ha voluto credere alla mia invención. Porque nessuno cree a los sueños. E mai alla possibilità che el mundo fue creado dai sogni. Solo tu ci hai creduto: meriti di entrare nel misterio de los sueños. - Chissà, Rafael. Forse avresti avuto più successo in Oriente. Lì la vita è fatta di sogni. In Occidente nessuno vuole i sogni, forse perché non li capisce. - Solamente tu ci hai creduto. Todavía te recuerdo, in quel paese desperado, dimenticado de Dios, che scrivevi la formula, che io te dictabo. Hace muchos años. - Ho percorso tutte le strade, maestro, – disse Bardana – e alla fine ho scelto i sogni. Mi sono ricordato di te. Sembrava impossibile che uno potesse fare uscire i sogni dalla propria mente e far vivere loro una vita autonoma, farli parlare con gli altri sogni, farli innamorare, farli diventare più vivi e reali della vita stessa. Accadrà questo, vero? - Sì – rispose felice il vecchio – La vita dei sogni è più bella. Io sono ormai muy viejo, fra un po’ me convertiré in puro sogno. - Tu, maestro, l’hai provata? - Sì – rispose Cernada guardando il porto - Ed è para este que yo ho vissuto tanto, ho compreso el secreto de la vida e dell’universo, de la felicidad. Ora posso morire felice. Yo descubrí el secreto del universo. Il sogno è un prodotto miles de millones de neuronas del cervello, ho scoperto che el alma, l’anima, è il cervello, e che il sogno è un prodotto dell’anima, se vuoi. Sono entrato en el misterio delle quattrocento miliardi di stelle que componen nuestra galaxia, en el misterio delle cento miliardi di galassie que componen lo universo. - Volevi fare partecipare l’umanità a questo mistero, ma l’umanità ti ha rifiutato. - Sì, è così, amigo. L’umanità non è andata oltre i sogni, dai quali è stata creata. Rassegnati: nadie vuole tu invención. La puoi usare per capire te, la tua familia, l’universo, questo sì. Los hombres no amano los sueños. - Dunque sono i sogni ad avere creato l’universo. Questo non avevo capito. 27 - Bisogna sempre andare fino in fondo al misterio – ripeté Cernada - Vai. Tuo padre no está muerto. Está vivo. Es un sueño. Entra en el sueño de tu padre. Solamente los sueños danno la felicidad. Solo i sogni liberano dalla paura, dall’angoscia, da la desesperación. Lo vedi hoy? Sono tutti un fallimento, todas las iglesias y las ideología. - Eppure, Rafael, – disse Bardana – per molto tempo ho pensato che i sogni avessero a che fare con la psicanalisi. Che rappresentassero solo i nostri desideri più nascosti, i ricordi che riaffiorano, le nostre speranze, le nostre ambizioni più profonde. - Los sueños sono diventati miti, – disse il vecchio sorridendo símbolos del subconsciente, porque sono stati abandonados da el hombre. L’uomo si deve riappropriare dei propri sogni, debe saber cómo gobernar. Senza sogni l’uomo decade en un desorden profundo, e da qui en la enfermedad. La malattia conduce al male e infine alla morte. - L’uomo, maestro, è dunque una unità di spirito, mente, corpo, e questa unità si realizza solo nel sogno. Possiamo dire che la felicità dei sogni è l’unica via possibile. Veramente democratica. - Sì. Porque senza felicidad non c’è amore, - disse il Mago di Malaga - senza sueños dunque non c’è amore, e senza amore nessuno si salva. Ma è pure vero, inventor de Almeda, che solamente nel sogno l’uomo ha potuto creare obras inmortales, musiche divine. Solo attraverso i sogni, los hombres han dado vida a sus aspiraciones, hanno creato inmensos imperi. - Quand’ero piccolo, maestro, confondevo i sogni con i fantasmi, o con i vampiri, e nelle fredde notti invernali ne avevo paura. Poi mi sono abituato a loro, a tal punto che ho creduto che fosse possibile attraverso di loro potere parlare con i defunti, con gli angeli, con i diavoli, con Dio. Chi sono i fantasmi, Rafael? - Los fantasmas non vengono dall’aldilà, sono anch’essi sueños. Sono dei sogni un po’ strani, la mala conciencia de los hombres. I vivi, invece, pensano que los fantasmas siano dei lenzuoli bianchi che camminano nella noche con due grossi buchi neri davanti, los ojos, gli occhi. - Di che natura sono fatti, allora, i fantasmi? Sono ectoplasmi, spiriti, aria, odorano di qualcosa? Che temperatura hanno, di che 28 sostanza sono fatti? Sono una sostanza viscida, morbida, solida, fluida o vaporosa, fredda, asciutta al tatto? Sono la materia dello spirito materializzato? Me lo sono sempre chiesto, Rafael, da piccolo, da grande. - I fantasmi, Felipe, sono fatti della natura dei sogni. Dunque i fantasmi esistono da siempre, sin dal principio stesso della creación. Los fantasmas vengono sempre dall’uomo, no son sólo imágenes che se vedono per pochi secondi in una specie di buco temporal. I fantasmi sono un fenomeno frutto della mente, anche del tipo autosugestión. - Non sono allora allucinazioni, folletti, o genietti famigliari, tipo quello che tormentava Torquato Tasso. - Diciamo che i fantasmi son sueños venuti male – precisò Cernada - Pero los fantasmas, Filippo, son de la naturaleza de los sueños, come dicevo, e proprio per questo popolano l’universo. Come un libro infinito che contiene muchas páginas, l’una simile all’altra, diversa solo per pochi elementi, ma tutte formano un unico testo con infinitas variaciones, così l’universo è composto da un número infinito de dimensiones. I fantasmi sono presenze che abitano la dimensione dei sogni, in todos los mundos. - Oh, questo universo sterminato! Quanti fantasmi, quante larve, quanti spettri, angeli o dèmoni con le loro lugubri ombre, con i loro misteri, popolano castelli e manieri, cimiteri, palazzi, squallidi tuguri, quante anime senza requie, senza pace, vagano di pianeta in pianeta, di stella in stella, di costellazione in costellazione! - Sono sogni, Filippo – disse il Mago di Malaga guardando in alto il tetto della camera - Son los hombres che popolano l’universo con i loro sogni. Durante la notte, in sogno, los hombres viaggiano attraverso tante di queste dimensiones, ma poi tornano al risveglio nel loro cuerpo mortal. L’anima, insomma, viaggia nello espacio ma anche nel tiempo di otras dimensiones, questo accade soprattutto quando facciamo sueños premonitorios, quelli che appunto noi chiamiamo sogni. Per questo il sogno è una experiencia maravillosa, perché è unica: quando si viaggia attraverso l’universo in un numero infinito di espacios, luoghi y tiempos, cioè di dimensiones, è impossibile percorrere due volte la stessa via. La vida, le azioni e i gesti, se puede repetir. Ma non i sogni. Los sueños non si ripetono 29 mai. La tragedia è che muoiono sempre all’alba. Bisognava trovare un modo per non farli morire mai. Io l’ho trovato. - Dunque, anche i fantasmi sono sogni. - Sì, Filippo. I fantasmi non sono almas de los difuntos, que vagan su la tierra in cerca di pace, né appaiono ai vivi dicendo quel che devono fare o no. Non sono almas malditas que hanno un fine malvagio, condurre gli uomini alla rovina, anime sporche d i peccato, almas pecadoras sucias, costrette a vagar su la tierra porque ancora attaccate ai vivi. I fantasmi non sono anime sospese, suspendidas, in una dimension sconosciuta, spiriti che portano sciagure, che si rifiutano di lasciare questo mundo, continuando a vivere le proprie abitudini. Per questo i medium engañar a los vivos cuando dicono che possono chiamare dall’aldilà las almas de los muertos. No hay nada de impalpable nell’universo se non los sueños. - Una cosa però è sicura, - disse sorridendo Bardana - Non credo che esistano i poltergeist che fanno rumore di catene e spostano mobili nella notte, o sbattono finestre e porte, o rovesciano bicchieri e bottiglie, e rompono piatti, rompono i coglioni ai vivi scorreggiando e ruttando. Non ho mai sperimentato nulla di simile. Quand’ero piccolo, credevo che questi poltergeist, o spiriti fracassoni come dici tu, fossero spiriti un po’ selvaggi e primitivi, spiriti di persone morte di morte violenta e improvvisa, spiriti della vita non compiuta che non ha realizzato la propria missione, il proprio naturale destino. In so mma , p e n sav o ch e i poltergeist fossero spiriti senza via d’uscita e senza pace, bloccati come veri spiriti, che spesso si manifestavano ai vivi in modo violento. Erano gli spiriti infelici che infestavano le case dei morti ammazzati, questo rimane nella mia memoria, quando ero fanciullo e mi raccontavano queste cose nelle notti d’estate davanti alla mia casa. -… - Quand’ero piccolo, quando moriva qualcuno in un incidente o quando una persona veniva uccisa, i miei nonni mi dicevano che nel posto dove era morta questa persona l’anima del morto sprigionava un’energia potente, che trovava sfogo esternamente ed andava ad impregnare l’ambiente, i luoghi, gli oggetti…. Erano questi i fantasmi della mia gioventù, Rafael. 30 - Que los fantasmas que tormentano i viventi – suspendidos nel tiempo e nello espacio - siano quelli che non vogliono entrare nella loro dimension – disse Cernada - abbandonare un mundo que non gli appartiene più, è bello pensarlo. Che i fantasmi non siano cambiadi, che siano sempre los mismos. Que los fantasmas popolino ancora manieri e castillos, dove sono state asesinade muchas personas. O case di impiccati, ahorcados, di suicidi, di morti violente, di historias dolorosas. Ma in realtà i fantasmi sono la coscienza sofferente dei vivi, Filippo, los fantasmas son sueños. - Deve essere come tu dici, Rafael. Quand’ero piccolo, c’erano momenti in cui mi sarebbe piaciuto essere un vecchio fantasma, con l’aspetto terribile, gli occhi rossi come carboni ardenti, con le vesti sporche e stracciate, coi capelli lunghi e bianchi, con l’alito pestifero, con i segni satanici, e terrorizzare con catene ululati nella notte, come faceva il fantasma di Canterville, per fare abbandonare castelli o vecchi manieri a chi vi abitava… - Anche a me sarebbe gustado diventare un fantasma, Felipe. Poi ho scoperto che solo i sogni esistono, solo i sogni restano, e quando l’universo terminará, avrà fine, solo i sogni resteranno, sólo los sueños son inmortales. I sogni non invecchiano mai, tu puede entrar en sueños, e giungere all’origine della creación. La loro natura è impalpabile, la loro sostanza è quella dell’etere, non diventano mai viejos o decrépitos. -… -… - Quante presenze popolano l’universo! Fantasmi, spiriti guida, immagini strane, angeli, genietti bizzarri, come folletti, elfi o gnomi dei boschi. Forse anche diavoletti o silfi leggeri e capricciosi. Vampiri. Angeli custodi. Diavoli. Anche questi sono sogni? - Oh, quanti spiriti irrequieti, atormentados, Filippo! Sono spiriti divorati da un dolor selvaggio, spiriti di defunti, espíritus de los muertos, spiriti travolti dalla storia. Anime vaganti senza requie nel marasma del mondo, almas abandonadas da ogni destino, o che non hanno mai incontrato un destino. - Legioni di angeli e di diavoli, eserciti, migliaia e migliaia, milioni, bilioni di angeli e di diavoli popolano il cosmo. Sì, Rafael. Perfino l’Apocalisse parla di miriadi di miriadi di migliaia di angeli 31 custodi e di diavoli, tutti presenti sin dall’inizio. Angeli dell’Apocalisse, puri spiriti perfetti, immortali come l’universo, che hanno il compito di distruggere il mondo, angeli con le ali nere e bianche, che nella mano sinistra tengono la spada senza lama, la spada che distruggerà il mondo. - Angeli, diavoli. E gli uomini? Ci sono mai stati los hombres? Forse sì, e forse no. Certo è che l’universo è un immane teatro popolato di ombre, sombras, spiriti e fantasmas, presenze fantastiche, un mundo di finzioni, ficciones. Ma in realtà, sai come la penso: son todos los sueños. - Forse noi, Rafael, siamo angeli e diavoli, che hanno abbandonato il paradiso perché annoiati e nauseati dalla monotonia della beatitudine celeste. Angeli e diavoli che hanno abbandonato il paradiso e sono scesi sulla Terra per vivere la loro vita come professori, impiegati, banchieri, artisti e così via. Meglio abbandonarsi all’angoscia, alla paura, all’ambizione, ai piaceri, alle passioni, al dolore, alla fatica del lavoro, alla speranza, alla disillusione, che cedere alla noia. Per questo forse sulla Terra noi siamo fatti della stessa natura dei sogni. - Mi sembra di aver sentito parlare di una cosa del genere, creo que es una obra, La rivolta degli Angeli, di Anatole France, francese. Tu vivi troppo di letteratura, Filippo. E di fantasia. Ma forse proprio per questo tu puoi impadronirti, para esto puede agarrar, del mondo dei sogni. - Sai che ti dico, Rafael? Tu hai ragione: solo i sogni possono salvare il mondo. Sì. Viviamo in un tempo povero, il tempo di un pianeta che corre rapido verso la fine. È il tempo in cui l’uomo si sta facendo distruggere dalla tecnica, il tempo in cui l’uomo ha perduto le grandi visioni del mondo che davano un senso alla storia. È il tempo gigantesco della tragica dissoluzione del mondo, il tempo straordinario in cui cataclismi immani proiettano la Terra verso i baratri del cosmo. Solo la straordinaria potenza visionaria dei sogni potrà salvarci. - Sì, il tempo dei sogni è il tempo al di sopra del tempo, di ogni tempo. Solo los sueños, solo lo sguardo dall’alto può dare questo tempo. Solo così si è sempre moderni. 32 - Questo è un tempo povero che mi fa rimpiangere un tempo migliore. Sì, ho nostalgia. Io voglio un tempo in cui non si deve rimpiangere un tempo migliore. Bisogna tornare alla natura. Sogno un mondo arcadico, pastorale, un tempo di memoria e non di perdita, un’età in cui si sogna anche per gli altri, per costruire un’epoca di pace, amore, felicità, progresso, uguaglianza, tolleranza e solidarietà universale, un’epoca di compassione e di carità, per una vita realizzata in pienezza di senso e di progetto. - Sei un romanticone, Filippo. Eres un nostálgico. Es un tiempo difícil para encontrar. Todavia, il tempo povero è il tempo dei profeti in delirio, o dei poeti del tempo della fine. Quelli che cantano la povertà del tempo. Che indicano la via. El tiempo de Rilke cantore de un’epica che tende ad accorciare la distancia tra la sterminata miseria quotidiana e los espacios incontaminati del mito. Es el tiempo dei poeti e degli scrittori come Tasso, Cervantes, Hoelderlin, Leopardi, Nietzsche, Kafka, Proust, Pirandello, García Márquez, Saramago. È il tiempo de los hombres che hanno i sogni. - Solo chi è padrone dei sogni può cantare il tempo. Solo chi è padrone dei sogni può amare. - Vedo che hai compreso, Felipe. Questo povero tempo ha ancora una esperanza. Buttati a capofitto nell’abisso dei sogni. Essi sono la muerte e sono la vida. …? - Sì, Filippo. I sogni sono la sola cosa che ci lega a la vida y a la muerte. Solamente nel sogno non esiste la evolución inexorable verso la muerte. Nel sogno el tiempo è immobile. È col giorno, con l’avvento de la luz che tornano i sintomi de la decadencia mortal verso la fine. Solo nei sogni si supera el límite entre los eventos de magia, entre la fantasía y la realidad, solo nei sogni il tempo si libera della sua circolarità, dell’eterno presente, e si vince el terror de la muerte, si supera l’angoscia della soledad. Solo coi sogni si esce dalla millenaria solitudine e dalla alienación, dalla frustrazione e dalla desesperación dell’uomo moderno. - … - … - Da piccolo, quando mi svegliavo, all’alba, Rafael, io sentivo il canto del gallo, ma non era un canto che annunciava funesti destini, io 33 non ricordavo fate che facevano incantesimi, o streghe che facevano fatture, o esercitavano malefici influssi. Mi svegliavo in un tempo santo e pieno di grazia. - Porque tu vivevi un tiempo mitico, magico, romantico, Filippo, e questo lo potevi fare solo por los sueños, per la loro forza. Noi estamos fatti de la misma materia que los sueños. Il sogno è la vera condición dell’uomo. - Sempre da piccolo, - continuò sognante Bardana - pensavo ai sogni come a qualcosa che aveva a che fare con la chiaroveggenza. Pensavo infatti ai veggenti, ai maghi, che potevano, attraverso i sogni, conoscere il futuro. Ora tu mi dici che gli eventi e l’ambiente sono una creazione della nostra mente, e che perciò è possibile fare durare questa fase fino al punto di potere manipolare e governare le cose e i fatti del nostro sogno. - Sì – disse il vecchio guardando verso la cucina, da dove stava tornando la moglie - Cuando comincerai lo experimento, vedrai. Noi dobbiamo avere la conciencia de trovarci in un sogno. La vida è un teatro in cui gioca un ruolo da protagonista il sogno. Anzi, è il sogno a essere un teatro, dove è la vida real que gioca un ruolo importante. Si deve entrare in un mundo fatto solo di sogni, dove solamente los sueños comunicano tra di loro. Vanno a braccetto tra di loro, volano en el aire, sono la realidad. - O sogno, pura vita del mondo, quando le immagini illusorie del giorno si afflosciano e sonnecchiano, mentre gli straordinari fantasmi della notte fanno il loro risveglio! – esclamò Bardana, guardando verso il mare. - Sì, Felipe – annuì il vecchio, prendendo una medicina portata da Carmen - Noi abbiamo inventato el tiempo in cui è stato eliminato l’abisso que separa los sueños del día da quelli della notte, con l’audacia del genio, con la magia. Abbiamo creato il tempo eterno e infinito. Porque i sogni sono la sola cosa che non muore con los hombres. Nel giorno in cui no existerà più un solo hombre sulla Terra, solamente los sueños continueranno a sopravvivere. La vida senza sueños è solo un problema meschino de la Tierra. L’universo intero è todo un sogno. L’universo è fatto della stessa sostanza dei sogni. I sogni viaggiano en el espacio interestelar, negli abissi del cosmo, e infine giungono al primer momento de la creación, quando el tiempo e 34 lo espacio erano la unica cosa. - E al principio tutto era silenzio. L’inventore di Almeda si alzò. Vide Carmen che veniva e spariva come un fantasma. Guardò il piccolo Cernada seduto. Rivide nei suoi piccoli grigi tutti i personaggi che aveva nominato all’inizio. Vide scorrere tutti i sogni che volevano rientrare nelle scene del mondo, riprendere un cammino interrotto, riconquistare un destino, fantasmi, larve abbattute da un’idea, da un progetto. Ciò che poteva essere e non era stato. Vide tutte le luci e le ombre. Si era scatenato l’inferno dei sogni. Vide il caos, il tumulto, il marasma cosmico. - In realtà, Felipe, tutto è stato e sarà siempre silencio – disse infine il Mago di Malaga, annunciando con un gesto il congedo - Nel silenzio assoluto del sogno trova la sua pace anche il clangore potente de la historia. El viento de l’Apocalisse un giorno spazzerà via ogni traccia de este país e dell’intero pianeta. La Tierra preda di un ingorgo senza senso di esperanzas e di desideri, di sentimenti vani, di ilusiones efímeras e di sueños incoerenti, di angosce e di rancori profundos, si perderà negli espacios sterminati dell’universo. In quel caos immane e in quella sconsolante solitudine, solamente i sogni resteranno, estrema testimonianza del silenzio che avvolge tutte le cose. 35 Capitolo IV Francisco si trasforma in pipistrello Come Francisco Bardana un giorno si addormentò e non si svegliò più, diventò un pipistrello e alla fine si trasformò in sogno. Un giorno Francisco Bardana si addormentò e non si svegliò più. A 92 anni, vedovo e in pensione da quasi trent’anni, dopo una vita trascorsa come impiegato nella biblioteca comunale di Almeda, tutti i fratelli morti nella sua prima giovinezza, Francisco ormai si avviava – anche se non proprio serenamente - ad accettare il naturale destino della morte. Viveva solitario in una torre accanto alla casa di famiglia, accudito solo da una inserviente romena che gli preparava da mangiare, gli lavava i panni e gli puliva la camera. Non si aspettava più nulla dal tempo, era ormai un uomo alla deriva della storia. Anche lui si considerava ormai un sopravvissuto. Non andava più al circolo da anni, non gli interessava più osservare distrattamente gli altri dilapidare la propria vita nel gioco, né passeggiare con abitudini selvagge per le vie semideserte del paese e sentirsi dire “Francisco, da quando non ti vedo! Vedo che stai bene”, come se volessero dirgli “Ancora sei vivo?”. Conduceva un’esistenza vuota, senza senso. Contribuiva in modo decisivo a questa sensazione di fallimento la difficoltosa comprensione del suo passato e della sua vita. E l’aberrazione del figlio con i suoi esperimenti alla ricerca della formula della felicità. Una mattina, Margareta, la cameriera romena, si recò nel laboratorio di Filippo e mise l’inventore di Almeda davanti all’evidenza ineluttabile che suo padre si era trasformato in pipistrello. Le ore di sonno del vecchio negli ultimi due mesi erano progressivamente aumentate fino ad arrivare a ventidue ore al giorno, riducendo così a soli centoventi minuti il tempo dedicato alla soddisfazione del nutrimento e dei bisogni fisiologici. La giovane badante aveva notato che il vegliardo si alzava puntualmente alle sette del mattino, andava in cucina, faceva colazione, andava in bagno per i 36 consueti bisogni fisiologici e quindi tornava a letto. Francisco faceva sempre le stesse cose - letto, cucina, bagno, letto. Tre volte al giorno, per pochi minuti. E poi si addormentava. Margareta disse che Francisco sognava, sognava, e continuava sempre a sognare. Lo capiva perché aveva sempre un’espressione felice in volto. Un’espressione gioiosa, uno sguardo fisso, come se guardasse un film divertente. Sembrava non volersi svegliare più. Due ore al giorno di veglia. Era un tempo estremo, che, tuttavia, alla fine bastò per le esigenze minime di Francisco, perché l’uomo ormai consumava pochissime energie, e perciò mangiava pochissimo, come un uccellino. Filippo si recò subito sulla torre con la domestica romena e si rese conto subito del fatto. Disse a Margareta di non parlare con nessuno del sonno del padre e di provvedere in silenzio alle sue esigenze. Si avvide che ogni giorno che passava, Francisco dormiva sempre di più e che i processi onirici del padre si stavano sostituendo alla vita stessa con una velocità e un accanimento che gli davano più di qualche pensiero. Filippo temeva che il padre stesse per decadere in una specie di animalità letargica, ciò che voleva dire un dipanarsi per anni e anni di felici sensazioni oniriche, ma anche una immobilità che gli avrebbe precluso altri piaceri della vita, come respirare l’aria fresca della sera, e soprattutto mangiare, e lui era ancora in buona salute, e – in veglia - aveva un appetito veramente bestiale. Francisco era ormai sprofondato in un sonno profondo, in una catalessi letargica senza fine. La sua era una vita assolutamente onirica, la realtà era stata assorbita completamente dal sonno. La sua vita reale e il suo sonno continuo non erano quelli dei comuni mortali. Francisco sembrava ormai scomparso dalla scena del mondo, immerso in una dimensione sconosciuta agli altri, una sterminata solitudine. L’inventore di Almeda, a un certo punto, cercò con la forza di trattenerlo alla vita diurna. Un mattino, dopo che il padre ebbe consumato la leggerissima colazione a cui ormai si era abituato, gli disse che era disdicevole per un Bardana coi coglioni d’acciaio come lui continuare a dormire, ma il padre non lo ascoltò, fece due gocce di pipì e andò a coricarsi. Allora Filippo, dopo che Francisco si fu 37 addormentato, si avvicinò al suo letto e cercò di svegliarlo. Lo toccò con una mano sulla fronte, di solito nella vita normale questo gesto bastava per svegliarlo, ma quella volta suo padre fu insensibile. Allora lo chiamò, prima a bassa voce poi ad alta voce, poi gli gridò, lo insultò, gli disse pure merda, quindi lo punse con un ago, lo schiaffeggiò, gli diede pugni, calci, gli buttò in testa anche una bacinella d’acqua gelata: fu tutto inutile. Gli disse pure, guarda, c’è Margareta, la cameriera romena, con la quale pare che Francisco avesse intrattenuto negli ultimi tempi un inconsueto sodalizio sentimentale. Niente, a Francisco non gliene fregava nulla nemmeno della romena. In preda alla disperazione, l’inventore di Almeda si vestì da profeta e Figlio di Dio e con le braccia aperte gli gridò, Francisco, alzati e cammina, ma fu tutto inutile: il vecchio non si svegliava. Infine, gli scagliò contro l’epiteto ingiurioso più terribile che un Bardana potesse sentirsi dire, coglione di Bergamo, ma non ci fu nulla da fare. Per un momento, Filippo pensò che l’esasperata attività onirica del padre fosse la conseguenza della pena di vivere e il preludio dell’abbandono dolce e lieve all’onda cosmica del nulla. Per verificare le condizioni fisiche del padre, l’inventore di Almeda chiamò allora in gran segreto don Antonino Mangiavillano, il medico di famiglia, del quale tuttavia prima non c’era mai stato bisogno, perché i Bardana avevano sempre goduto di ottima, devastante, bestiale salute. Filippo Bardana non aveva grande stima del suo medico di famiglia, ma era l’unico che ad Almeda sapeva mantenere il segreto. Don Antonino Mangiavillano, ormai ottuagenario e mezzo rincoglionito, viveva appartato in una casa di campagna e si era ormai dimenticato di Francisco Bardana. Don Antonino si presentò con Margareta e una misteriosa valigia da Filippo Bardana e gli disse di volere essere lasciato solo. Rimasto solo con Francisco, piuttosto eccitato perché finalmente aveva davanti un Bardana che forse si era ammalato, per svegliarlo sperimentò sul povero Francisco tutte le cure e le medicine che non aveva mai somministrato alla stirpe. Fu una vendetta biblica, accompagnata da rituali magici e risate sataniche. Don Antonino tirò fuori dalla valigia 38 tutti gli arnesi che aveva portato e torturò Francisco con salassi e scosse elettriche, gli diede pure tre pugnalate sul carpo, sul metacarpo e sull’avambraccio, gli infilò cerini accesi dentro le narici, gli mise una corona di spine in testa, gli diede colpi tremendi di accetta sulle ginocchia, invocò perfino la maledizione di Dio. Infine - lui che aveva sempre biasimato le orrende abitudini culinarie dei Bardana e che non si era mai spiegato perché, nonostante ciò, campassero tanto - gli fece un clistere gigantesco di quindici litri di acqua salata, ma anche questo fu un insuccesso clamoroso: Francisco riempì la stanza di merda, ma non si svegliò. Alla fine chiamò Filippo, non è un uomo, disse, Francisco è diventato un pipistrello, un vampiro. L’inventore di Almeda, visti tutti quegli efferati strumenti di tortura e tutto quel sangue, imbestialito, schiaffeggiò don Antonino, gli sputò in faccia, lo mandò a fare in culo, infine lo buttò dalla scala. Contattò allora, anche se c’era il rischio che potesse trapelare la notizia, il migliore scienziato di Sicilia, tale Traspadano Poidomani, chiamato Timbuctù, uno studioso che si occupava da quarant’anni delle malattie del sonno dell’America Latina e dell’Africa Equatoriale. Filippo Bardana fece visitare il padre una mattina presto, subito dopo la colazione, prima che Francisco ripiombasse nell’onirico, devastante, letargo. Timbuctù visitò per più di un’ora Francisco, gli tastò il polso, fece le analisi del sangue, fece ecografie e altri esami specialistici. Alla fine parlò. Disse che si trattava di encefalite letargica onirica, di sonno patologico profondo incoerente, di isterismo sonnolento deviante onirico, di accanimento di controllo del sogno, di tripanosomiasi africana, di tripanosomiasi sudamericana ossia di morbo di Chapas, di nagana e di surra, tutta roba, insomma, che riguardava soprattutto le bestie, cammelli, cavalli, buoi, e poi di altre rare forme tropicali di malattie del sonno – l’inventore di Almeda non ci capì un cazzo, tutto questo gli parve arabo, credette che Timbuctù volesse prenderlo per il culo. E, cosa ancora più grave, Francisco non si svegliava. Tuttavia, Timbuctù aveva parlato anche di sogni e di accanimento di controllo del sogno: qualcosa forse aveva capito, e questo, se non bilanciava il sentimento funesto della imminente perdita del padre, in 39 qualche modo incoraggiava l’inventore di Almeda a sperimentare l’efficacia della sua invenzione. Francisco, ad ogni modo, era diventato ormai un problema davvero imbarazzante. Filippo Bardana, allora, credette che fosse meglio rendere pubblico il lungo sonno del vecchio. In preda alla disperazione, dopo aver chiamato uno che si spacciava per mago e guaritore, tale Mago della Mancia (lui aveva grande stima dei maghi spagnoli), il cui intervento con una sfera magica si risolse in un clamoroso fallimento, pensò bene di mettere – come si suol dire – il ferro dietro la porta, e chiamò un prete per fargli dare la benedizione e l’estrema unzione, nel caso che Francisco dovesse all’improvviso tirare le cuoia. L’inventore di Almeda, insomma, un po’ per amore del padre, un po’ per pietà, un po’ anche perché la situazione stava diventando veramente imbarazzante, facendo credere che Francisco si voleva confessare, fece chiamare il vecchio prete della sua parrocchia, don Pasquale Alletto detto Ciavulazza, perché vestiva sempre di nero e pare anche che portasse sfortuna. La visita del prete portò un cambiamento radicale nel letargo di Francisco. Forse fu la paura, forse fu la sfortuna che il prete portava, forse fu il fatto che Francisco credette di essere morto, certo è che, dopo aver visto l’uomo vestito di nero, Francisco non si alzò più dal letto, né in quel momento né mai. Altro fatto sconvolgente fu che Francisco, appena vide il prete, quasi in stato comatoso, disse parrinu. Cioè, prete. O era un sogno in cui il prete era protagonista, oppure voleva veramente confessarsi. Anche Ciavulazza rimase sorpreso di questo ritorno religioso di un Bardana. Anzi, in un primo momento, si era rifiutato di andare dal vegliardo perché i Bardana, anche questo era noto, portavano sfortuna ai preti. Anche i trascorsi atei e materialisti della famiglia non deponevano a favore dei Bardana. Francisco, infatti, più di sessant’anni prima e non propriamente in possesso di sé, nel pieno di una sua fase atea e socialista, aveva schiaffeggiato in chiesa, davanti a tutti, l’allora giovanissimo Ciavulazza, nel giorno in cui il papa doveva passare da Almeda (e obiettivamente Francisco un po’ 40 vigliacco lo fu, perché se la prese col più debole fra i clericali del paese). Fu, quello, un colpo tremendo per il giovane prete di allora, che officiava la prima delle sue sessantamila messe, e che sarebbe stato poi perseguitato proprio per le sue idee liberali. Tuttavia, più che il rancore poté la pietà cristiana, e Ciavulazza, alla veneranda età di ottantotto anni, benché fuori servizio e ormai rimminchionito, si trovò davanti Francisco per confessarlo. Ignaro dello stato letargico del vecchio, il semiparalitico prete cominciò a chiedergli se si ricordava di lui; Francisco rispose parrinu. Il prete, incoraggiato, gli domandò allora se era consapevole di volersi confessare; Francisco rispondeva sempre con quelle tre sillabe che stavano diventando un sibilo, parrinu. Il vecchio prete, dopo un po’, non ritenne questo sufficiente per una confessione, e allora optò, col pieno consenso di Filippo, per l’estrema unzione, non prima di avere cristianamente rimesso i peccati di Francisco, che non erano certo pochi, e che egli non era in grado di confessare. Non l’avesse mai fatto, il povero Ciavulazza! Nel pieno di quel sacramento decisivo dell’esistenza terrena, che il reverendo prelato amministrava con intensa partecipazione emotiva, uno straordinario sputo catarroso accumulato in tante settimane di inattività polmonare uscì potentissimo ed in forma di proiettile dal profondo dei polmoni e delle viscere di Francisco, ed andò a colpire proprio gli occhialetti di Ciavulazza, il quale - dopo un attimo di esitazione - ebbe pure la forza di continuare e di portare a termine umilmente la sua funzione. Prima di andare via, poi, Ciavulazza chiese a Filippo se era sicuro che Francisco stesse per morire. - Non lo so, - rispose mortificato Filippo Bardana - però è la prima volta che dice parrinu. - Ed è la prima volta che si pulisce il gargarozzo? - domandò ancora Ciavulazza, che non diede la sensazione di attendere la risposta, perché fece subito cenno a Margareta di essere accompagnato alla porta. 41 Dopo l’incontro col prete, Francisco si trasformò definitivamente in un pipistrello. Un pipistrello sognante, che però non voleva saperne di morire. Era un grumo di carne e di ossa che faceva una sola attività, dormire e sognare. Passavano i giorni e le settimane, passavano i mesi, il suo letargo stava diventando sterminato. Filippo Bardana credette che suo padre volesse profittare del suo grande sonno per morire. D’altra parte, negli ultimi tempi Francisco aveva più volte confessato al figlio che egli sentiva l’approssimarsi della fine. Non era la prima volta che, intorno ai novantadue anni, i Bardana attraversavano qualche crisi esistenziale, ma Filippo Bardana non aveva memoria che qualcuno dei suoi avi fosse sprofondato nel rincoglionimento per lo sterminato letargo, o si fosse abbandonato a un destino di morte dopo un’esperienza onirica smisurata. Francisco Bardana era ormai il dimenticato dalla morte, il figlio di Morfeo, il dormiente, il letargico, il pipistrello, il grande sonno, l’eterno sognante, la sepoltura eterea, l’onirico perenne, la distrazione dei Cieli, il catalettico, il subumano relitto del tempo, il morto apparente, il vivo apparente, il morto vivente, il vivo morente, il sogno vivente, il morto sognante, il sopravvissuto, l’immortale - che però non voleva rendere l’anima a Dio. L’inventore di Almeda un giorno pensò che, anche in questa estrema situazione, fosse giusto dare degna sepoltura al padre. La situazione era diventata ormai eccessivamente imbarazzante, e il padre non voleva più svegliarsi, voleva morire, in conseguenza del suo male di vivere. Sì, rendere l’ultimo servizio cristiano al padre morente e dargli - dopo solenni funerali - degna sepoltura. Causa della morte: malinconia e noia di vivere. Era tutto a posto. Aspettava il momento opportuno per agire. La naturale cessazione delle funzioni biologiche. Che però non venne. Perché Francisco, dopo alcuni mesi, stabilizzò le sue condizioni biologiche e il suo processo letargico. Francisco il pipistrello fu praticamente abbandonato dal figlio al suo destino di dormiente, a parte qualche piccola, pressoché insignificante, disposizione di medicina generale. A sei mesi dal grande sonno, i battiti cardiaci del vecchio erano poco meno che regolari, cinquantacinque al minuto; poi scesero progressivamente fino a stabilizzarsi, alla fine del primo anno, 42 intorno a dodici al minuto, cioè un battito ogni cinque secondi, praticamente quanto bastava per non andare in decomposizione. Da ciò Filippo comprese che nutrire suo padre non era molto oneroso, né presentava serie difficoltà organizzative. Filippo Bardana, per dare sostentamento al padre, inventò una incredibile brodaglia di cavoli, fagioli, patate, aglio e peperoncino tritati insieme che gli faceva bere – solo una volta al giorno - con una speciale cannuccia a pressione, dentro la quale metteva anche una certa medicina che solo lui conosceva. La medicina in realtà era qualche goccia abbondante di cicuta che serviva per sterminare l’assalto di virus e di agenti esterni pericolosi. Francisco muoveva appena le labbra, respirava un po’ più profondamente, a causa dell’aumentata pressione, quindi, dopo aver bevuto la tiepida broda, tornava al suo immane torpore. Per il resto, altra storica incombenza di Filippo Bardana e della paziente Margareta era di cambiare ogni settimana da sotto il lettino del grande dormiente un vaso da notte, dove il perpetuo sognante - attraverso un buco fatto nel materassino orinava e defecava, ciò che per Francisco erano ormai la stessa cosa. Francisco conduceva ormai una esistenza vegetale, con quel disgustoso brodame, su un lettino di un metro per due, in una stanza buia e piccola. Giaceva, il pipistrello, pallido e freddo, ormai con l’esile corpo magro, secco come un chiodo, sotto una pesante coperta di lana, con la bocca socchiusa e le mani sul petto: insomma, sembrava morto. Ma morto non era. Dormiva e sognava. E tuttavia, che vita era quella? Da un anno, e chissà per quanto tempo ancora ormai, l’unica sua presenza nel mondo dei vivi era quella estrema immobilità di un metro per due: una tomba nell’aria, una sepoltura aerea. Un sogno nell’aria. Di svegliarsi, Francisco si svegliava, certo. Nel tardo mattino e nel pomeriggio, per una breve pausa, Francisco si svegliava dai suoi sogni, come per riprendere energie. Ma che cos’era il suo risveglio? Intanto, quando si svegliava, Filippo lo capiva non da un rumore, non da un movimento, non da un respiro, perché tutto intorno al dormiente era silenzio. C’era invece come un’onda magnetica, una percezione eterea, un flusso spirituale, un messaggio medianico, come un fischio impercettibile, un’aria, qualche cosa di strano che si avvertiva 43 dappertutto, era invisibile eppure arrivava lontano. Nella torre, il primo a sentire il risveglio del dimenticato dal tempo era un uccello, un passero solitario: cantava e faceva mille giri sotto il tetto, sopra il cadavere sognante. Francisco Bardana tornava alla vita. Vita. Ma che vita era quella? Francisco Bardana era più vivo quando dormiva e sognava che quando era sveglio. Apriva lentamente gli occhi ma i suoi occhi guardavano il buio, non solo perché le finestre restavano chiuse, ma perché Francisco era oramai quasi completamente cieco, poteva solo intravedere vagamente una debole luce azzurrina di là di una persiana che suo figlio lasciava aperta di un paio di centimetri per far penetrare uno spiraglio di aria, di tepore. Non riconosceva nessuno, nemmeno il figlio, percepiva solo con la mente l’ombra, non la carne, non la materia, non il corpo che gli si avvicinava. Era sordo, le parole e le voci erano un quasi impercettibile ronzio che proveniva dai confini del nulla. Ad ogni risveglio, con quella vocina fievole, debolissima, che sembrava uscire da un’assenza remota, chiedeva al vuoto degli spazi, chi annu è?, ma non dava mai la sensazione di aspettare la risposta, né se ne crucciava - aveva ormai perduto il senso del tempo, anzi, aveva perduto il tempo, i ricordi, la memoria, la storia. Per lui, il tempo era solamente il sonno. La storia, i ricordi erano solo i sogni, se pure aveva la forza di sognare, chissà. Se gli fosse accaduto di pensare, se con l’infinitesimale energia delle sue residue cellule cerebrali si fosse chiesto dove si trovava, sicuramente non avrebbe mai creduto di essere ancora sulla terra, ma forse neanche in paradiso, perché in paradiso, così aveva sempre pensato Francisco, non esiste il buio. Stava così, in quella posizione semicatalettica, per un’ora o due: con gli occhi aperti verso la luce azzurrina, i battiti cardiaci aumentati a sostenere una lievissima attività cerebrale, il lento movimento delle labbra, che muoveva come un pesce. Questo era il risveglio di Francisco. Poi, passato il precario tempo della veglia, chiudeva gli occhi e le labbra, e ripiombava negli sterminati abissi del sonno. Francisco, insomma, era diventato un vegetale. Certo, un vegetale che però forse sognava. Tuttavia, in quelle condizioni era meglio che Francisco morisse. In quelle condizioni, pensava sempre Filippo, tanto 44 valeva seppellirlo, magari in una grande cassa - con l’ossigeno che consumava non c’era pericolo che morisse soffocato, poteva stare sottoterra ancora mille anni. Ormai la gente sapeva che Francisco Bardana era caduto in catalessi a causa di una malattia misteriosa. Così si sarebbe levata quella vergogna di mezzo, ed egli avrebbe avuto di che rispondere quando gli domandavano (capitava, capitava) - Tuo padre? – È morto, - avrebbe finalmente risposto - è morto. Ma così, che cos’era? Non era né carne né pesce, né vivo né morto: era un sospeso. Francisco era solo un sonno. Un sonno sospeso nell’aria. Forse era anche un sogno. Ma anche i sogni, prima o poi, devono morire. Non pensava, Filippo, a cose materiali, meschine, come lo spazio aereo che suo padre occupava e che, in effetti, poteva servire a lui. No. Il suo era un problema morale, etico; non si è eterni, ed è giusto, naturale, che ad una certa età si muoia. C’è un tempo per vivere e c’è un tempo per morire, era scritto da qualche parte, e questo tempo di vivere Francisco lo aveva superato da un bel po’, e perciò era giusto che egli morisse e alla fine trovasse una sistemazione decorosa e dignitosa, non solo sottoterra, ma anche nella memoria degli altri. A parte il fatto, poi, che Filippo - lui non lo diceva, ma era così - prima di morire doveva pure piangere qualcuno, doveva avere una tomba dove andare a pregare, e quale tomba era più cara di quella del proprio padre? (Veramente, Filippo, una tomba dove andare a pregare l’aveva, quella di sua madre, ma in quei momenti non ci pensava). Francisco Bardana era oramai diventato un sonno. Un sonno che forse era popolato di sogni. Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno, dice il poeta (e gli aveva ricordato il Cernada). Francisco, chissà, sognava il tempo e metteva ordine al caos, preso sempre da nuovo sopore ricadeva nell’abisso letargico e trasformava in sogni la violenza o il torpore bestiale del tempo, ritrovava così - sprofondando sempre di più nell’oblio della storia - la via che dava senso alla sua vita e al disordine del passato. Davanti a quel rudere, a quel povero scheletro abbandonato anche dalla pietà, davanti a quella solitudine e a quel silenzio - una solitudine e un silenzio così abissali e lontani come 45 dovettero esistere solo prima della creazione dei tempi – l’inventore di Almeda alla fine si convinse di sperimentare la sua invenzione, quella che aveva cercato per tutta la vita, vedere in un lungo interminabile sogno tutti gli accadimenti dell’esistenza terrena di suo padre e della sua stirpe, le speranze e le attese, i pensieri e i sogni delle generazioni e dei popoli. In un uomo ormai rincoglionito e fiaccato dalla storia, sprofondato nel delirio totale di uno sogno senza confini, le spudorate menzogne non trovavano più posto – questo volle credere – perché nel sogno remoto di Francisco si dipanavano il destino dei secoli, le sterminate esistenze che attraversavano il tempo. 46 Capitolo V L’uomo dei sogni Di quando Filippo Bardana sperimentò su se stesso l’elisir dei sogni e vide il pandemonio dei sogni che pullulavano nella sua mente e nella mente di suo padre Francisco. Fatto l’elisir, e con l’incoraggiamento del mago Rafael Cerdana, Filippo Bardana avrebbe voluto pregare il padre di aiutarlo in quella che forse era la sua ultima prova come inventore. Filippo avrebbe voluto dire a suo padre che aveva creato una medicina con proprietà miracolose. Che avrebbe potuto sognare il paradiso, ricordare tutti i più piccoli eventi del suo passato, sognare rapporti amorosi o sessuali meglio di come se fossero reali. Francisco, che già era sdegnato della vita e non aveva nulla da perdere, avrebbe fatto felice il figlio e si sarebbe sottoposto volentieri all’esperimento. Negli ultimi quarant’anni non aveva fatto altro che vedere il figlio affannarsi inutilmente coi suoi ridicoli esperimenti, e questo spesso gli faceva pena. Tante volte gli aveva fatto da cavia. Perciò avrebbe accolto l’ultima disperata richiesta del suo unico figlio quasi con liberazione. Ma non fu necessario. Francisco Bardana era in catalessi letargica da più di un anno, e forse – come aveva detto Cernada – si era addirittura trasformato in sogno. Se anche il suo elisir fosse fallito, non avrebbe arrecato alcun danno a un corpo che si avviava lentamente verso la fine. Una sera di luna piena, Filippo Bardana, prima di bere l’elisìr dei sogni, si preparò una cena affatto maestosa, come gli aveva anche consigliato Cerdana. Stuzzichini di panelle, melanzane, salsicciotti, olive ascolane, prosciutti, formaggi, tartine con caviale e tante altre cose. Un antipasto di mare con polipi, gamberi, pescespada, tonno, cozze, vongole. Tre primi, pasta con sarde, tagliatelle con ragù e mortadella, orecchiette all’orto. Poi tre secondi, gamberoni, dentice, triglie e calamari, vitello con patate, cacciagione in umido. Insalate e 47 verdure a volontà. Frutta di stagione, pesche, albicocche, fichi. Torte varie. Vino bianco di Pantelleria e Nero d’Avola. Spumanti e Champagne in grande abbondanza. La cena durò circa due ore. Alla fine del glorioso pasto, Filippo avvertì pesantezza alla testa e un forte desiderio di riposare e di addormentarsi. C’erano le condizioni ideali per sperimentare l’elisir dei sogni. Perciò si spogliò, indossò il pigiama, bevve due bicchieri della agognata medicina e si distese su un lettino accanto a quello del vecchio padre. Si addormentò. Subito dopo il sogno di Filippo Bardana uscì dal suo corpo e volò nell’aria, si fermò sotto il tetto della stanza. Era il puro sogno, la pura immagine, la pura sostanza volatile ed eterea di Filippo Bardana non ancora contaminata da altri sogni. Il sogno di Filippo Bardana si compiacque di ciò e si meravigliò di vedere il suo corpo che dormiva immobile, vicino a quello di suo padre. Ancora non sapeva che cosa era, se un sogno o un’ombra, uno spirito o un fantasma, o un’anima vagabonda nel mare infinito dell’essere. Guardò Francisco Bardana nel suo sonno profondo che sorrideva e muoveva gli occhi sotto le palpebre. Si ricordò allora della sua vita e dei suoi esperimenti, dell’elisir dei sogni. Si catapultò nella mente di Francisco e solo allora scoprì di essere un sogno tra i sogni. La mente di Francisco Bardana era un caotico pandemonio di sogni che scorrazzavano di qua e di là in cerca di pace o di un approdo sicuro. Il sogno di Filippo Bardana vide come su una parete scorrere immagini di suo padre giovane che camminava per le vie di Almeda. Era un ragazzino, suo padre, poteva avere quattordici o quindici anni. Erano i primi anni Trenta ad Almeda. Non era, però ancora un vero e proprio sogno, ordinato, coerente. Una moltitudine sterminata di sogni pullulavano nella mente di Francisco Bardana. Incompleti, incoerenti, incompiuti. Il sogno di Filippo Bardana vide infinite immagini accavallarsi con altre, incontrare altre immagini, visioni interrompere visioni, sovrapporsi ad altre visioni. Francisco sognava tante cose. Il sogno di Filippo vide i sogni di Garibaldi-Dio, sogni di angeli e di diavoli, sogni di fantasmi, sogni d’amore, del primo amore di Francisco e della prima notte 48 d’amore con la moglie Marilena, del primo rapporto sessuale con una prostituta di Almeda, nei primi anni Trenta, al tempo del fascismo. Il sogno di Filippo vide i momenti belli e brutti della vita di Francisco, quelli relativi alla sua attività pluridecennale di bibliotecario, ma anche fatti oscuri e sconosciuti a suo figlio. Vide dialoghi quasi insignificanti avuti al circolo da Francisco e con persone da tempo scomparse e che avevano occupato un posto secondario nella sua esistenza, vide sogni di pensieri solitari, sogni di sogni perduti nella notte. Vide sogni d’amore e discussioni sui bordelli di Francisco e dei suoi avi, come li avevano raccontati a Filippo suo padre e suo nonno, o altre persone. Vide i sogni dei Bardana che volevano uccidere politici e governanti, mafiosi, vigliacchi. Vide i sogni di chi voleva cambiare la storia. Il sogno di Filippo, l’inventore di Almeda, non si meravigliava di ciò, i Bardana erano stati spesso delle mezze teste. Un’altra cosa che meravigliò molto, invece, il sogno di Filippo Bardana fu che i sogni parlavano e gridavano, ed erano voci stridule di bambini, voci accorate di donne innamorate, voci tronfie di re e governanti. Il sogno di Filippo Bardana comprese di essere sogno tra i sogni, anche se un sogno speciale, mentre l’universo sterminato dei sogni di Francisco si distendeva senza ordine e senza pace. Sogni importanti di tentati assassinii di re e dittatori si confondevano con sogni quasi senza senso, come quello in cui era stato protagonista Francisco, un giorno che aveva quasi ammazzato con due revolverate Giovanni Bugia perché era andato a raccontare ai militi che lui aveva rubato un carico di fave, oppure un altro in cui Donna Mara la puttana gliene fece fare tre con una lira a Francisco, perché gli era simpatico (e perché aveva bisogno, c’era la guerra, la fame), oppure ancora un altro quando Francisco e suo padre volevano tagliare i coglioni al segretario del Fascio di Almeda. In un turbinio di sovrapposizioni temporali, sogni lontani si mischiavano a sogni più recenti, sogni interrompevano sogni, sogni cominciavano una storia e altri sogni la finivano, il sogno di Filippo Bardana si sentì smarrito sogno tra i sogni, puro sogno nel cosmo sterminato dei sogni. 49 Il sogno di Filippo Bardana allora tornò nella mente di Filippo Bardana e comprese di essere il puro sogno. Vide infatti all’inizio un mondo caotico di sogni simile a quello di Francisco Bardana, mille e mille sogni, mille e mille, milioni di immagini in movimento, del presente e del passato, del futuro di Filippo Bardana. Vide i sogni di sua madre e di suo padre, vide i sogni dei suoi avi, vide i sogni della sua storia, degli accadimenti di tutto il tempo che aveva vissuto, di tutti i desideri, di tutti i pensieri. Vide i sogni già compiuti e sogni ancora larve, sogni indecisi sogni precari, sogni già assoluti proiettati nell’immenso mare dell’essere, nella vastità degli spazi interstellari. Vide i sogni della storia e i sogni dell’amore, i sogni del rancore e i sogni dell’amicizia. Si ricordò che anche nella mente di suo padre aveva visto sogni simili: avevano lo stesso colore e lo stesso odore, lo stesso modo di parlare e di camminare. Imparò ben presto a riconoscerli. Vide che i sogni incontravano gli altri sogni, parlavano con loro, li corteggiavano, si innamoravano di altri sogni. Anche se i sogni dell’amore preferivano stare con i sogni dell’amore, i sogni della storia con quelli della storia, e così via. Era un formicaio di sogni che correvano di qua e di là. Uscivano dalle loro tane, parlavano con altri sogni, li annusavano, e poi tornavano nei loro nascondigli. Vide sogni solitari e sogni orgogliosi, sogni verecondi e sogni lussuriosi, sogni traditori e sogni fedeli. Vide sogni colti e sogni ignoranti, sogni superbi e sogni umili. Gli parve di vedere l’intera umanità diventata una moltitudine sterminata di sogni. Non era possibile che gli uomini avessero le menti così piene di sogni. Li guardò dall’alto e da lontano, e fu così che capì di essere il puro incontaminato sogno mandato per conoscere gli altri sogni della sua mente e delle altre menti. Lui capì di essere il puro sogno, la coscienza, il pensiero, la mente, il fantasma, l’angelo, l’anima di Filippo Bardana, il puro sogno che sogna e incontra gli altri sogni, il puro sogno come può essere sognato dagli altri sogni, il puro sogno come può essere sognato da se 50 stesso. Ebbe terrore di quel mondo brulicante di sogni che volevano uscire, trovare un senso, un’esistenza propria. Si accorse che tutti i sogni della mente di Filippo Bardana volevano uscire, forse volevano incontrare gli altri sogni delle altre menti. Era quello che volevano fare anche i sogni di Francisco Bardana. Forse anche i sogni di tutte le persone del mondo in quel momento volevano fare la stessa cosa, uscire per le vie del mondo e incontrare gli altri sogni, amare gli altri sogni. E tutti i sogni del mondo forse volevano raccontare la vita di tutti gli uomini del mondo, anche di quelli che non avevano sogni. Ma non c’era il puro sogno che li ridestasse. I sogni di Filippo Bardana lo riconobbero, lo inseguirono, un immenso esercito di sogni si abbatté sulla solitudine del puro sogno. Il puro sogno dell’inventore di Almeda allora uscì di nuovo dalla mente piena di sogni di Filippo Bardana e piroettò nell’aria, osservò dall’alto i due corpi pieni di sogni di Francisco e Filippo Bardana. Pensò per un momento di andare via ma non poté farlo, lui era il puro sogno di Filippo Bardana. Il corpo di Filippo Bardana era la la sua vita e la sua prigione. Gli piacque, tuttavia, aver lasciato dietro di sé il caos primigenio, il clangore indistinto, il rumore del tempo, il frastuono animale, il fragore il silenzio di tutte le cose create. 51 Capitolo VI I sogni di Almeda Quando il sogno di Filippo Bardana uscì dalla torre e svegliò tutti i sogni di Almeda e tutti i sogni di Almeda uscirono per le strade e le piazze e le case e si impossessarono della città. Il sogno di Filippo Bardana fece mille giri sotto il tetto della stanza, poi attraversò velocemente la finestra e uscì dalla torre, si posò sul balcone. Osservò il paese muto. Poi cominciò a volare sopra i tetti, si inabissò infine nella notte rischiarata dalla luna ed entrò come un baleno in tutte le case di Almeda. Il sogno dell’inventore dei sogni attraversò i muri e le porte, le finestre, entrò nelle stanze, nei corpi, nelle menti dei dormienti, svegliò tutti gli altri sogni, poi tornò sul balcone. Uno spettacolo incomparabile apparve sotto di lui. Almeda quella notte si era trasformata in un sogno. Con meraviglia, il sogno dell’inventore di Almeda si accorse che poteva vedere gli altri sogni fuori dalle proprie menti. Era una cosa banale, non ci aveva fatto caso subito, ma se lui era uscito da un corpo, anche gli altri sogni potevano uscire dai loro corpi. Lui li aveva svegliati. Perché lui era un sogno speciale: lui era stato creato dall’elisir dei sogni di Filippo Bardana. Lui ora poteva mettere in movimento tutti i sogni dell’universo. Il primo sogno che vide fu quello dell’ingegnere Giovanni Aronica, che sognava di essere il Conte Vlad Dracula, Vlad l’impalatore Principe di Valacchia, novello Nosferatu che con in braccio la sua Lisa volava di balcone e in balcone e coi canini appuntiti mordeva l’aria e succhiava il sangue dal collo candido dell’amata per regalarle l’immortalità. Il vampiro con gli occhi rossi, avidi, alla fine tornò sulla finestra di Aronica, posò dolcemente Lisa sul letto ed uscì, osservò il vuoto sotto di sé. Guardò il buio della strada e le deboli luci delle case, il fumo dei camini. Viscido e repellente, pallido, bianco, come un geco cominciò a strisciare lungo 52 il muro della casa, poi scese velocemente verso il basso, sospeso sull’orrido abisso buio, mentre il mantello si apriva sul suo corpo, lo avvolgeva, formava due grandi ali distese. A metà percorso, il vampiro si fermò. La luce della luna improvvisamente illuminò il corpo del Conte, provocò strani inquietanti effetti, sinistre figure, ombre contorte. Il Conte digrignò i canini, annusò l’aria, respirò profondamente, sibilò. Ripartì. Le dita delle mani e dei piedi si avvinghiarono agli angoli delle pietre, il Conte scivolò come una lucertola verso il basso a grande velocità. Toccò la strada, guardò verso una pozzanghera sotto di sé, non vide la sua immagine; allora risalì vertiginosamente il muro, ritornò sulla finestra. Aprì il mantello e volò intorno alla casa, poi si trasformò in pipistrello, rapido percorse l’angusto spazio della casa, il piccolo disagevole tempo per un vampiro, tornò sulla finestra, si trasformò ancora in Nosferatu, Vlad l’impalatore Principe di Valacchia, Conte Vlad Dracula, che malediceva Dio per la morte dell’amata moglie, Conte Vlad che eternamente per le vie del mondo cercava la moglie. Guardò dentro, vide una donna nuda sul letto. La riconobbe, era Lisa, era sua moglie, tanto desiderata. Volò sopra di lei, l’avvolse col suo mantello, lei lo aspettava nuda, con le cosce aperte, il sesso desideroso, entrò col suo membro possente dentro di lei, l’amò. Se Giovanni Aronica – era nota la sua passione per la letteratura vampiresca – sognava felice di essere il Principe dei vampiri, in quello stesso istante Rosario Spina fu il grande Cesare. Il Questore, l’Edile, il Pretore, il Generale invincibile, il Propretore, il Console, il Proconsole, il Dittatore Perpetuo, il Pontefice Massimo, il Padre della Patria, il Divo Giulio. La Storia. Il sogno di Filippo Bardana vide la storia volare sulla casa dell’umile impiegato Rosario Spina. Vide un’immagine immensa, potente e turbinosa vorticare intorno alla casa di Spina, vide la travolgente corsa dei millenni, vide legioni avanzare dalle nuvole, vide l’ora fatale del tempo. L’uomo più inutile del mondo, Rosario Spina, era l’imperator, il più potente dei triumviri, l’indiscusso capo dei popolari, il conservatore e il rivoluzionario, l’invitto stratega, il geniale statista e condottiero, l’assoggettatore dei barbari; il conquistatore delle Gallie, il vincitore, lo sterminatore dei 53 Britanni e dei Germani, il glorioso trionfatore sui popoli, il supremo comandante dell’esercito più grande dell’antichità. L’uomo più insignificante della storia era l’avvocato e oratore splendido, magnifico, acuto ed elegante, il profondo grammatico analogista e il filologo, l’astronomo e il riformatore del calendario moderno; era il poeta, il tragediografo, lo scrittore e storico, era il creatore di una prosa letteraria insuperabile, unica e ineguagliabile per bellezza e semplicità, era l’immortale scrittore del De bello Gallico e del De bello civili. L’uomo senza qualità fu per qualche ora l’uomo del destino, il signore di Roma, l’uomo più grande della latinità, l’intelletto più vasto della stirpe, il fondatore dell’Impero, del più grande organismo politico dell’universo. Fu il duce clemente, spietato e generoso, rapido e sicuro, il travolgente dominatore della storia universale, l’uomo al cui cospetto la paura diventava forza e la morte vita, l’uomo che diede il suo nome ai re e agli imperatori del mondo, l’uomo che con il suo genio perfetto in quindici anni fece quel che nessuno fece mai, né Alessandro Magno, né Carlo Magno, né Gengis Khan, né Carlo V, né Napoleone Bonaparte. Sì, l’uomo che non ebbe mai bisogno di un epiteto o di un cognome fu, per una volta e per sempre, soltanto Cesare. L’uomo da nulla per una notte fu l’uomo che fondò la civiltà più duratura della storia, culla delle future civiltà del mondo, l’uomo dinanzi al quale si apriva solenne lo spazio e s’inchinavano i millenni, l’uomo di cui pure si disse che la maestà e la vastità del suo ingegno restarono sempre più in alto delle sue fortune. Fu l’uomo che trasformò un popolo di roncole e di poveracci morti di fame, di contadini miserrimi, in un formidabile esercito di conquistatori, l’uomo Gaio Giulio Cesare che ebbe troppa dignità per compiacersi di un obiettivo così scadente, quale doveva essere la difesa dei confini dell’impero. Fu l’uomo che fondò l’Europa moderna e conquistò il mondo intero, che diede un posto e un destino a tutti i popoli d’Europa, gli Elvezi nella Svizzera, i Belgi nel Belgio, i Germani di là dal Reno, gli Slavi ad est, i Britanni al nord; fu l’uomo che diede ordine all’Europa, e fece sì che tutti i popoli d’Europa restassero nel posto dove si trovavano e dove si trovano ancora oggi; fu l’uomo che 54 fondò l’antropologia, l’etnologia e la geografia, l’uomo che irradiò la lingua e la civiltà di Roma su tutto il mondo. Mentre dormiva, Rosario Spina fu l’uomo immenso che non parve veramente un uomo ma un dio, l’uomo che rese immortale la baia sperduta di Almeda perché per due giorni qui amò Cleopatra, regina d’Egitto e ultima discendente dell’immenso Alessandro e di un regno leggendario, inseguendola fra i boschi e le spiagge sotto lo sguardo attento dei legionari come un fanciulletto al suo primo amore. Era giunto qui, il grande Cesare, con sei navi da Lilibeo. Cantò questo amore solo Calpurnio Siculo. E forse proprio per questo la storia ben presto diventò leggenda. Ma quando la leggenda si mette in marcia diventa ancor di più storia e verità. Tanto bastò, perciò, perché questo amore diventasse eterno. Tanto bastò perché un uomo inutile vivesse questo immenso amore: il sogno dell’inventore di Almeda vide estasiato il sogno di Spina che sognava felice di amare Cleopatra. Quella notte, il paese fu assediato da tutti i sogni della storia. Tutti i sogni, tutti i desideri vennero fuori e volarono nel cielo di Almeda, il futuro non ebbe più confini e nemmeno il passato. Quella notte ad Almeda la storia cambiò percorso. La storia diventò un sogno. Il sogno dell’inventore di Almeda vide il sogno del giovane prete Alfredo Lauricella, il reverendo Martin Luther King che poco prima di essere ammazzato gridava Io non ho paura di nessuno perché i miei occhi vedono la gloria del Signore che arriva. L’arciprete Angelo Scopelliti invece sognò di essere Dio. Non il Garibaldi-Dio di Francisco Bardana, ma il vero Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento, alto, imponente, con la grande veste bianca. Per la verità, molti quella notte sognarono di essere Dio. Tanti Dio volarono sopra le case e le strade di Almeda. Una moltitudine, una infinità di Santi. E angeli, tanti, tantissimi angeli volarono sopra i tetti, da un tetto all’altro, candidi, leggeri, veloci. Nel profondo della notte, nella notte più buia, il sogno di Filippo Bardana vide poi tanti diavoli e tanti vampiri scontrarsi con gli angeli, con i Santi e con Dio. Il cielo si tinse di mille colori, di fuoco, di 55 fumo, di immagini spettrali, di visioni tenebrose, l’Apocalisse era piombata su Almeda. Il sogno di Filippo Bardana li conosceva tutti i sogni dei suoi compaesani, e quella notte ne ebbe piena consapevolezza. Lui aveva risvegliato tutti i sogni del paese. Non proprio tutti, perché quella sera aveva visto i sogni dominanti. Tutti i sonni, però, esplosero in mille e mille sogni senza fine. Il suo sogno quella notte fu come il lievito che fa crescere il pane, la fiammella che dà inizio a un incendio. Il sonno di Almeda si riempì di miriadi e miriadi di sogni. Il sogno di Filippo Bardana vide dall’alto che nelle case i sogni volavano da una casa all’altra, da una stanza all’altra e si materializzavano in immagini e visioni. Vide molti sogni d’amore, vide Paolo e Francesca che si tenevano per mano ed erano sbattuti da una bufera di vento, vide Lancillotto e Ginevra che si baciavano tremanti mentre leggevano il libro galeotto, vide Abelardo ed Eloisa che facevano l’amore e poi Abelardo alzarsi, col terrore di essere evirato. Ma i sogni erano davvero strani, volarono da una casa all’altra sogni di guerre mondiali e di storie d’amore inverosimili, Renzo e Lucia che scappavano inseguiti da Hitler ed Eva Braun, Romeo e Giulietta che chiacchieravano felici con Mussolini e Claretta Petacci. I sogni erano veramente stravaganti, a un certo momento, tutto diventò un caos, una confusione, un tumulto senza senso. I sogni degli uomini si incrociarono con tutti gli altri sogni in modo furibondo. A un certo punto, anche se conosceva i sogni dei suoi concittadini, e per questo dai sogni poteva risalire alla loro identità, il sogno di Filippo Bardana quella notte ebbe la rivelazione clamorosa di vedere come certi uomini potevano avere sogni che mai lui avrebbe immaginato. Vide, infatti, sogni davvero imbarazzanti. In alcune case vide sogni adulterini, sogni di mogli che tradivano i mariti e di mariti che tradivano le mogli, sogni di uomini e di donne che si trovavano in posti dove non dovevano essere. Tuttavia, tutti sembravano felici perché erano felici di vivere i loro sogni. Non c’era nessuno quella notte nelle strade perché i sogni si erano impossessati del paese, e Almeda era diventato un paese di dormienti. Alcuni poveri malcapitati che stavano rientrando tardi a casa furono nelle vie furono inseguiti, schiaffeggiati, derisi dai sogni. 56 Scappavano, perché ne ebbero paura, dovettero scambiarli per fantasmi. I sogni si erano impossessati delle case, delle strade, delle piazze, dei bar, dei ristoranti, dei locali notturni di Almeda. Gestivano essi stessi i locali al posto dei proprietari, sedevano insieme ai pochi avventori, bevevano e mangiavano, si divertivano. Per tutta la notte, il sogno di Filippo Bardana vide che molti si svegliavano, andavano a vedere dalle finestre e dai balconi i propri sogni e quelli degli altri volare di casa in casa, poi rientravano a casa e serravano tutte le finestre, chiudevano a chiave le porte, quindi si rinchiudevano nelle stanze, si mettevano a letto e continuavano a sognare. Almeda era diventato un paese di vampiri. Tutti dormivano su catafalchi vampireschi e sognavano. Tutti erano felici perché potevano sognare finalmente tuttò ciò che avevano sempre desiderato. Mentre stava per rientrare, il sogno di Filippo vide un sogno smarrito sotto il balcone della torre. Sorrideva. Gli sorrise anche lui. Gli si avvicinò. Lo riconobbe. Era il sogno di una bambina compagna di giochi della sua prima infanzia. Si chiamava Maria. Lo baciò sulla fronte, quindi tornò rapido nella torre e sul letto deserto di suo padre accanto a lui posò. 57 Capitolo VII Fantasmi di Sicilia Quando il sogno di Filippo uscì dalla torre e andò a svegliare con i sogni di Almeda tutti i sogni di Sicilia che apparvero dal mare in forma di moltitudini di genti e di fantasmi e di eserciti imponenti. Osservò il padre di Filippo che coi suoi sogni sprofondava ancor di più nel caos, nel torpore del suo secolo, quindi il sogno di Filippo uscì ancora dalla torre, ma questa volta non si fermò nelle case del paese. Il sogno di Filippo Bardana volò oltre i tetti di Almeda, al di là del mare, infine si inabissò oltre l’orizzonte, nei baratri sconfinati della notte, dove nulla poteva illuminarlo, né la luna piena, nemmeno la striscia allucinata argentea del mare. Scomparve il sogno in una specie di crepuscolo vermiglio, ma era ancora uno degli aspetti di quella notte profonda, e – come ridestati da un sonno profondo, come un fuoco d’artificio acceso da una miccia subito dopo apparvero sull’orizzonte del mare di Sicilia moltitudini di immagini e visioni. Il sogno dell’inventore di Almeda vide eserciti avanzare, ne ebbe inquietudine e sgomento. Lui li aveva risvegliati, ma vide anche i sogni di Almeda spuntare dal mare. Anche i sogni di Almeda erano andati a svegliare tutti i sogni di Sicilia. Guardò i due corpi immobili nella stanza, poi il sogno di Filippo si affacciò e così gridò alto nel cielo dalla collina. Ecco, vi vedo giungere da lontano, dal mare, eserciti possenti. Andate, ma dove andate? Oh, tutti venite a conquistare la gloriosa terra di Sicilia, terra di santi, poeti, viaggiatori, imperatori, re, scienziati, filosofi, matematici, terra di musicisti, di pittori. Terra di apostoli, di martiri, di eremiti. Tutti volete conquistare la Sicilia, sì, la terra da favola, la terra da conquistare, la Sicilia, il lontano paese delle meraviglie, la terra dei Greci e dei Romani, della poesia, dell’arte, della cultura. La terra delle mille e una notte. Oh, tutti desiderano questa terra, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Normanni, Svevi, 58 Spagnoli, Francesi, Tedeschi, Austriaci, e certo, è la terra circondata da mari incantati e da monti altissimi, da vulcani maestosi impennacchiati, e da fiumi che scendono da ghiacciai perenni. La terra di fiumi scoppiettanti di vita, limpidi e sonori, di boschi alti e folti da dove si scruta l’infinito, la terra dei pascoli verdi e delle mandrie feconde, delle distese di ulivi e di vigne, di limoni e di aranci, delle valli di pianure ubertose e feconde, e delle fiorenti splendide città sul mare, terra di sole. Terra al centro dei mari, al centro del mondo, di magnifiche e potenti città greche, meraviglia del mondo, culla di artisti, isola del sole, prima fra le province romane che sentì pronunciare, per bocca degli apostoli Pietro e Paolo, il nome di Cristo. Sì, vi vedo, giungete armate invincibili, i più grandi eserciti del mondo, sbarcate dal mare, scorrazzate sui campi come forze primigenie devastanti, cozzate tra di loro le armate, irrompono eserciti immensi, Romani, Greci, Bizantini, Arabi, Francesi, Saraceni, Spagnoli, Italici, Normanni, Svevi. Trombe squassanti squarciano il silenzio, si scontrano legioni, falangi, combattono, a v a n z a n o c o n do ttie ri, a v an z a n o g en e ra li su cavalli rutilanti, fendono la bruma, avanzano guerrieri immortali, avanzano cavalieri, eserciti poderosi forze immense, avanzano dalle caligini del tempo. Spade cozzano contro spade, spade lacerano la carne, fantasmi larve di sogni escono dalle tenebre della storia, hanno elmi abbaglianti, cavalcano cavalli bianchi coi brandi scintillanti, salgono su carri greci sfavillanti, divorano l’erba, divorano la vita. Ecco, poderosi eserciti cercate la battaglia, avanzano consoli e generali, rimbombano trombe e tamburi sul campo nella notte, nelle tenebre un tumulto si spande. Oh, orrore di sangue di cavalli scalpitanti sui guerrieri moribondi, di grida e di pianti e di urla nella notte, fumi vapori scintille fuochi, spiriti dannati fuggono nel silenzio immoto negli abissi profondi del mare, pire fumanti si stagliano nel campo, è la battaglia perduta, la sconfitta, lo scalpitare dei cavalli dissanguati, l’urlo il grido il pianto, la disperata fuga. Avanzate eserciti, è il galoppo rapido dei millenni. Ora avanzate eserciti ancora più possenti, moltitudini di navi, spuntano cannoni dalle pianure, carri armati devastanti, aerei scaraventano bombe, distruggono la città, è lo scontro cruento supremo, la battaglia finale, 59 la guerra il tumulto l’inferno, annichiliscono la vita, annichiliscono lo spazio, annichiliscono il tempo. Oh, ecco, finalmente il silenzio. Spiriti e fantasmi di Sicilia, superstiti larve, venite fuori, larve, spettri, fantasime del tempo, incubi, ombre della notte, parvenze, immagini, sogni, angoscia, fumo, vento che si disperde, niente. Levatevi carne e ossa, spiriti di Sicilia. Ecco vi vedo, riemergete dalla storia, vi catapultate nel tempo immortale, nello spazio vuoto, nel sogno, nella mente di Filippo Bardana. Fantasmi, larve di Trinacria, uscite dalle strade buie, inondate il mondo, spiriti di tutti i popoli e di tutte le razze, greci, ebrei, arabi, normanni, svevi, francesi, sogni di tutte le genti, inondate il tempo. Fenici audaci naviganti, esploratori, colonizzatori, mercanti, avventurieri; Greci fondatori del mondo, strateghi, tiranni, grandi condottieri e generali cartaginesi; consoli romani, governatori e prefetti, questori, legioni gloriose; barbari goti, corsari barbareschi e saraceni, turchi, turmarchi e protospatari generali arconti bizantini; imam, gran visir, consiglieri politici e religiosi, emiri e califfi dai colori sgargianti, dai paludamenti solenni regali, emiri aghlabidi, imam fatimidi mujāhidin mussulmani, sultani barbuti con turbanti blu, su tappeti volanti e residenze da mille e una notte, con lampade magiche di Aladino; soldati berberi e giurisperiti malikiti, emiri kalbiti, poeti geografi giuristi filosofi arabi, persiani; conti duchi e re normanni, cavalieri e avventurieri normanni, scribi e protonotari svevi, religiosi cristiani, preti cristiani; maestri ebrei, greco-ortodossi, ebrei, genti piemontesi e lombarde, logoteti e protonotari svevi; intellettuali e medici arabi, filosofi, astronomi, astrologi, scienziati, letterati, notai, ministri, burocrati, scrivani, matematici, musici; ballerine di straordinaria bellezza, odalische, eunuchi, saltimbanchi, poeti, avventurieri; guerrieri saraceni, catalani, castigliani, baroni e nobili angioini, infanti e re di Spagna, viceré fannulloni rapaci, feudatari e baroni spagnoli, generali austriaci, piemontesi, borboni; carbonari e rivoluzionari, briganti, garibaldini, statisti, scrittori, drammaturghi di Sicilia: uscite dal buio, uscite dalle tombe, tornate nel tempo. 60 Ecco, sì, vi vedo. Voi camminate, voi siete in marcia fantasmi di tutte le genti e di tutti i popoli, di tutte le razze e di tutte le religioni; uscite dai giardini di aranci e dai mercati, uscite dalle moschee e dalle sinagoghe, dalle cattedrali normanne, tra mosaici d’oro bizantini e colonne greche; uscite dalle tombe, uscite dalle case, dalle vie buie e tenebrose dela storia, uscite dalle menti, uscite dai sogni degli uomini ed inondate il mondo. Ecco, ora vi vedo. Sì, vi vedo, state occupando le piazze. Vi vedo, occupate le vie, vi vedo, morti, spiriti sepolti nell’abisso dei millenni, vi svegliate dal sonno profondo, uscite dalle bare, dalle tombe dai tumuli superbi, dai cimiteri, dalle chiese, dai catafalchi, uscite dal vuoto, dal nulla, riconquistate la luce, il respiro vitale, il vostro posto nella storia. Fantasmi senza pace, larve del passato, spiriti solitari, ombre, avanzate in marcia alla conquista del mondo; sogni spezzati, giungete, cantate l’inno della fine del mondo, coprite lo spazio vuoto, il deserto, insieme nella marcia funebre del mondo. Anime disperate, senza amore, anime sospese, uscite dalle nebbie, dagli antri nascosti della terra, dalla notte profonda; sogni interrotti, incubi paurosi, fantasmi senza passione, vi catapultate nel palcoscenico del mondo. Sogni, pure parvenze, destini inconclusi, andate alla ricerca disperata di amori perduti, sogni solitari preda della follia, andate, ma dove andate? Forse andate di inferno in inferno, di mondo in mondo nell’immane vagare delle pure parvenze, oh spiriti sbandati del cosmo, illusioni, voi andate in tutti gli abissi sperduti del tempo, ombre, nel fuoco dei pianeti, nel baratro del tempo. Sogni, pure parvenze, destini inconclusi, vi perdete nei mille e mille miliardi di pianeti dell’universo, per mondi lontani e sconosciuti, voi andate, ma dove andate? Voi andate per i pianeti e le stelle, per cento e cento miliardi di stelle, per cento e cento miliardi di galassie, e vi portate il profumo della terra di Sicilia, il desiderio di amori mai posseduti, nelle estreme solitudini dell’universo. Sogni, destini infranti, ombre vinte dalla ferocia della storia, larve abbattute da un sogno, da incubi paurosi, volete riprendere un 61 cammino interrotto; in un baleno riconquistare un destino, il silenzio altissimo e profondo, fuori dal caos, dal tumulto, dalla caduta del tempo. Spettri, sogni infranti, avanzate, vi fate largo nel caos, nelle folle sterminate, negli abissi dello spazio, dove si dissolvono e forse trovano pace l’angoscia e l’amore, il rancore, il caos e la pena, il tormento, il furore; spettri, sogni infranti, voi avanzate dove forse trovano finalmente riposo il male e l’odio, l’incubo e il terrore, l’ira, la ferocia, il disordine, e un silenzio altissimo e profondo si leva sul clamore, sul tumulto, sul caos della storia, e avvolge ogni cosa, il disfacimento, la rovina, lo sfacelo, il crollo rovinoso dei mondi, il lento decadere dello spazio, l’indolente morire del tutto. Oh, sogni del mondo, voi vi destate dal sopore della morte, dalle dimenticanze estreme, e andate nel sole, nella luce, sulla luna, dove finalmente la pace trovano i sogni, dove forse trova riposo la storia, il formidabile declinare del tempo nel marasma del cosmo. 62 Capitolo VIII La solitudine del mondo Di quando Filippo Bardana si innamorò ed ebbe la prima, definitiva, ultima, devastante delusione d’amore e decise di abbandonare il mondo e di dedicarsi alla ricerca della felicità. Le luci della Friedrichstrasse, quel 21 settembre del 1969, erano ancora accese quando Filippo Bardana si affacciò per l’ennesima volta alla finestra dopo una notte insonne. Contemplò l’alba di Volkach, l’ultima alba di Germania prima del suo ritorno in terra di Sicilia. Era un’alba piovigginosa, non rara in quel tempo di fine estate nella Bassa Franconia. Perlustrò tutta la Friedrichstrasse finché i suoi occhi non giunsero nella Piazza del Mercato. Qualcuno usciva dal Gasthof Kreuzer, non era un italiano, gli italiani non sono così mattinieri. Non era nemmeno un tedesco, quello non era un locale frequentato da tedeschi. Aveva un nome tedesco, ma quello era un locale frequentato da turchi. E da un italiano: lui, Filippo Bardana. C’era andato spesso in quei tre mesi, con la sua ragazza turca, lì l’aveva conosciuta. Si chiamava Sevim, la sera prima lo aveva lasciato. Guardò il mondo oltre la Friedrichstrasse, oltre la piazza, lontano, molto lontano. Vide - gli parve di vedere – aspri e angosciosi e desolati luoghi, prigioni orribili piene di fornaci immense e fiammeggianti, dove bruciavano tutti gli esseri viventi, fiamme dove nessuna luce usciva ma il buio, un buio trasparente, tenebre dentro le quali poteva scorgere fantasmi paurosi, visioni di sventura. Vide regioni senza speranza, paesi lontani senza pace, consumati dal dolore e dall’angoscia, che non troveranno mai requie o riposo. Vide paesi affollati dove mai nessuna luce o speranza penetra, ma solo sofferenze senza fine, e diluvi di pioggia e di fuoco, e delitti, e pene d’amore mai consunte. Chiuse gli occhi. 63 Vide guerre e legioni di demòni e di angeli che combattevano nei giorni del’Apocalisse, e la sua vita sbattuta come un piuma nel vento, una pagliuzza trasportata dalle correnti marine. Guardò oltre il fiume, al di là dei mari e degli oceani, e vide la sua esistenza come una nave senza rotta, scaraventata di qua e di là senza un approdo in vista. Vide delitti consumarsi anche fra gli esseri più puri, assassinii e tradimenti nelle famiglie più caste. Vide eserciti di angeli e di arcangeli cozzare contro armate di diavoli nei mondi e negli universi, i reggitori degli degli spazi e degli universi, gli dèi planetari e i reggitori dei mondi lottare contro i demòni e attraversare oceani di tempo, vide innumerevoli armate, bilioni e trilioni e miliardi di forme divine e umane e animali di ogni specie genere e qualità cozzare tra di loro, eserciti senza principio e senza fine e senza centro riempire i cieli di fuoco e di fumo, di bagliori stridenti, di mostri, di fantasime astrali. Guardò oltre i tetti della Friedrichstrasse, oltre i cieli, e vide tutte le legioni, le più potenti manifestazioni dei piani e dei mondi guardarsi con timore e smarrimento, i più grandiosi eserciti celesti rilucere di glorioso splendore e contemplare il loro tremendo aspetto prima della fine, generali e grandi guerrieri, tutti gli eserciti dei mondi come le correnti rigonfie dei fiumi che si riversano nel mare tumultuosamente cadere negli abissi degli spazi celesti, riversarsi veloci nelle bocche fiammeggianti del tempo come se desiderassero la loro distruzione, il tempo maturo e completo che azzanna e riduce in polpa tutte le sue creature, il tempo che consuma i mondi e divora tutti gli esseri viventi da ogni parte e senza limiti. L’amore, il suo primo vero amore, lo aveva abbandonato ed egli aveva visto in quell’alba di niente il suo destino. La sera prima, Sevim, dopo aver fatto per l’ultima volta l’amore con lui, gli aveva detto che le loro vite, i loro destini, non si sarebbero mai uniti per sempre. Si erano conosciuti a giugno, lui veniva dall’Italia per trascorrere tre mesi presso un suo parente, per lavorare e divertirsi. Lei lavorava in una fabbrichetta di quel paese. Si incontrarono una sera al Gasthof Kreuzer, si scrutarono, si piacquero, si amarono. Tre mesi meravigliosi di amore, di passeggiate nei boschi, nei giardini accanto al fiume, nelle piazze quasi deserte di Volkach. 64 Lei gli era entrata nel sangue, nell’anima. Il suo profumo, il suo sorriso, la sua dolcezza. Ben seni seviyorum, aveva imparato a parlare d’amore in turco. In inglese, in italiano, in tedesco, in tutte le lingue del mondo. Ora lei lo lasciava. Lo amava troppo, diceva, per potere sopportare la sofferenza di un distacco più brutale. Lei era musulmana, lui cattolico, lei doveva lavorare, lui doveva studiare ancora. E poi, come si sarebbero sposati, col rito cattolico o musulmano? Chi se ne frega del rito, lui le diceva. E i figli? Dovevano essere battezzati o no? Uno sì e uno no, lui scherzava. L’amore non si misura con le feste e i battesimi. È stata un’infatuazione, non vero amore. No, è vero amore, tutto comincia così. Amerai un’altra, una della tua terra. No, l’amore non ha confini. È stata solo un’avventura estiva, dimentica questi tre mesi. Dimenticherai, la memoria serve anche per dimenticare. No, tu sei la mia gioia, il mio profumo. Sei entrata dentro di me, nel mio respiro, nel mio sangue. Tu devi studiare, laurearti, diventare professore. Io sono venuta qui dalla Turchia per lavorare. Che cosa mi aspetta in Italia? Tu devi studiare, i nostri mondi non si incontreranno mai. Tu hai davanti un ambiente diverso dal mio. Mai ho amato una donna così come ho amato te. Mi piace tutto di te, come canti, come balli, come ridi, come parli. Mi uccido. Lascia perdere. Ritirati dal mondo, fu il pensiero caotico di Bardana, il mondo è l’inferno. Anzi, il mondo è peggio dell’inferno, perché è un inferno senza pena. Tutto è perduto. Il mondo non avrà nessun altro Bardana. Percepisco sentore di carname, di preda innumerevole, e gusto il sapore di morte che viene da tutte le cose viventi. John Milton, Paradiso Perduto. No, non esiste Satana. L’uomo è Satana. La natura ha creato qualcosa di marcio. E non esiste nemmeno Dio. Il tempo ha avuto inizio con l’universo stesso, dunque non esisteva un tempo prima dell’universo. Ecco perché non esiste un Dio che abbia creato l’universo, perché non esisteva un tempo senza l’universo, un tempo in cui Dio poteva aver pensato e creato l’universo. No, Dio non esiste perché gli uomini sono infelici. Punto e basta. 65 Ritirati dal mondo, Bardana. E impiega il tempo che ti rimane in solitudine a cercare la formula che possa dare la felicità a questo mondo infelice. Non viaggiare più, viaggiare significa soprattutto tornare, tornare sempre a casa, vivere e abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa, così dice il poeta. Così pensò Bardana. Tra questi pensieri, vide all’improvviso moltitudini sterminate avanzare verso il male, il male che si nutre del male. Vide il mondo come un immenso bordello pieno di puttane,una latrina gigantesca, una prigione libera piena di delinquenti, ladri, assassini, malavitosi, avventurieri, fraudolenti, qualunquisti, depravati, violenti, truffatori; vide visioni di morte, il degrado totale, lo sfacelo del tempo. Via, Bardana, via dal tumulto e dalle passioni del mondo, via dal peccato che trascina nel fondo dell’abisso. Un mondo che non accetta la purezza del tuo amore è un mondo peccaminoso. Questo è la caduta, il precipitare, il cadere sempre più in basso, il degradare, il decadere dall’umanità allo stato ferino, il disvalore assoluto del tempo. La tua vita, il torpore e il letargo della speranza, la disperazione della solitudine. Sì, altre visioni ingombrarono la sua mente. Vide in un istante i sogni perduti della sua giovinezza, le speranze, gli amori. Vide il tempo che travolgeva il caro immaginare e il tramonto della sua vita, il tempo rovinoso che distrugge tutte le cose, le nascite e le morti, e lo sterminato fluire delle esistenze, dove non sai mai se incontri pure presenze reali o parvenze o fantasmi, che vagano di secolo in secolo, di millennio in millennio, di mondo in mondo. Vide il caos tumultuoso della storia, vide il mondo come una fogna sterminata, una cloàca fetida, spaventosa, che contiene tutto il fetore dell’universo, una fogna gigantesca dove scorre tutto il puzzo più insopportabile delle galassie. Vide il mondo come un inferno abbagliante ma senza vera luce, il regno delle tenebre fosforescenti e vuote, tenebre che entrano nella pelle, nell’anima, che ottenebrano la mente, tenebre che non hanno 66 relazione con la luce, a tal punto che uno può credere di far parte delle stessa natura delle tenebre. Vide le tenebre che significano solitudine, la disperata solitudine dell’uomo in mezzo a una moltitudine che non ti capisce. Per allontanare per sempre da sé gli appetiti bestiali della carne, dell’incontinenza, della lussuria e della concupiscenza, della cupidigia, della gola, della frode e dell’inganno contro il prossimo, della violenza contro l’umano, della violenza contro Dio, Bardana pensò di entrare in vari monasteri, ma fu un momento, suo padre si sarebbe opposto a tale decisione. Meglio la morte che un Bardana socialista in monastero. Aprì di nuovo gli occhi. Osservò non lontano il sinuoso Meno scorrere placido, lento, verso le feconde pianure di Germania. Per la prima volta, aveva conosciuto l’amore in una terra lontana. Aveva perduto la castità in quel paese, con una donna straniera, pure lei casta, che veniva da una terra d’oriente, pure essa molto lontana. Veramente, Bardana era andato con donne, ma erano tutte puttane. Era la prima volta che faceva l’amore con una donna vera. Si era innamorato. No, non era una infatuazione passeggera. Sevim gli era entrata nell’anima. Ma ora lei aveva deciso. Dovevano separarsi, per sempre. Perché? Se lo chiese infinite volte quella notte. Lei – ne era sicuro – lo amava. Non era possibile che una ragazza di vent’anni potesse già decidere il proprio destino. Scese nel Gasthaus di sotto. Sedette, come sua abitudine, nel solito tavolo all’angolo, quasi nascosto, discreto. Appena lo vide, Heinz, il gestore, comprese che il giovane Bardana non stava bene. Gli preparò il solito disgustoso cappuccino all’italiana e due krapfen. Glieli portò. Il rubicondo Heinz gli fece un largo sorriso. “Capisco”, gli disse. “Tu devi tornare in Italia e la turchetta ti ha lasciato. Non te la prendere. Ha fatto bene. Non avevate un futuro comune. Il tempo non è maturo per una unione come la vostra. Dimentica. Un giorno capirai che la tua ragazza aveva ragione, magari quando si sarà fatta una famiglia con uno di qua, anche un tedesco, per dimenticare più in fretta la sua povertà. E se non lo capirai, ricordati di chi, come me, è sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ha servito un pazzo come 67 Hitler, si è fatta tutta la campagna di Russia, è tornato dopo dieci anni di prigionia in Siberia, ed è finito – la cosiddetta razza eletta - a fare lo sguattero di studentelli depressi come te e di turchi puzzolenti e ubriachi”. Bardana lo guardò indifferente. Heinz sorrise. Sorrise, tristemente, anche lui, Bardana. Sì. A dare sostanza e destino alle esistenze, ci doveva essere qualcosa di più forte, di più potente dell’amore. Forse era la formidabile preveggenza di una fanciulla che leggeva il futuro della gente nei residui di caffè nelle tazzine, forse era il calcolo spietato di una donna già matura, o forse era l’ineluttabile, irrazionale, caotico procedere della storia. All’improvviso, un vento leggero entrò nella torre. Il puro, incontaminato sogno di Filippo Bardana ebbe un sussulto, si girò, vide il volto felice di Francisco che muoveva le labbra, il sorriso di Filippo che levitava sul suo sonno, nel tempo in cui il sogno del ricordo svanisce e si ricorda di essere il puro sogno che vuole conoscere il mistero del tempo. Il puro sogno dell’inventore di Almeda allora entrò ancora nella mente di Francisco Bardana, si fece largo nei viluppi misteriosi dei sogni dell’universo e infine si trovò davanti non le vicende di un avvilente vicereame senza storia, non i tempi fulgidi di una Nazione fortunata, non vicende angosciose e ambigue di generali, governanti e re, ma accadimenti di uomini veri, ma il portento, la straordinaria forza visionaria del sogno della Storia. 68 PARTE SECONDA LA STORIA 69 70 Capitolo IX Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi Di quando il puro sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro nei sogni dei Bardana su Garibaldi e nel tentativo di omicidio di questi da parte di un suo avo. Quella volta l’Eroe dei Due Mondi non era Garibaldi-Dio ma solo Garibaldi, e il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, dell’Impresa dei Mille, del Risorgimento, del Regno delle Due Sicilie, dei Borbone, della massoneria, del socialismo, della storia, della verità e dei sogni. Parte prima Cinque maggio 2011. Tarda mattina. Cimitero di Palma di Montechiaro. Garibaldi davanti all’ingresso, seduto, pensieroso. Francisco. Ehilà, Generale! Che sorpresa! Che ci fate in questo paese dimenticato dalla storia? Garibaldi. Strano. Un turista di questo paese, in visita a Caprera, mi ha detto che in questo cimitero è sepolto un garibaldino, non citato nelle cronache. Io li conoscevo tutti, i miei garibaldini, ma in occasione delle celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, per scrupolo, sono venuto a vedere: nella storia possono accadere dimenticanze estreme. No, non ho trovato nessun garibaldino in questo cimitero. Ho chiesto anche in paese, è da due settimane che son qui, ma nessuno sa niente. Francisco. No, Generale, vi hanno fatto uno scherzo: non c’è stato nessun garibaldino in questo paese. E nessun picciotto. E, se devo essere sincero, ne sono fiero. L’Unità d’Italia è stata un fallimento, e queste celebrazioni sono retoriche e false. Garibaldi. Ma che cazzo stai dicendo? Chi sei? Francisco. Sono Francisco Bardana, professore e bibliotecario, nipote di quel Francisco Bardana mio nonno che nel 1860 voleva uccidervi. 71 Garibaldi. Ecco, adesso capisco. Ho preso informazioni su tutti gli abitanti di questo paese. Sì, questo tuo avo me lo ricordo. Era un giovanotto sui trent’anni. Poteva essere uno di quei picciotti che a migliaia lottarono con l’esercito garibaldino per edificare una grande nazione, invece era al servizio di un nobilotto filoborbonico dimenticato dalla storia, e venne a trovarmi in una villa nei pressi di Palermo con l’intenzione di uccidermi. Francisco. Ancora mi domando perché non l’ha fatto. Aveva un revolver sotto il panciotto, sei colpi pronti a uccidere l’Eroe dei Due Mondi. Era a un metro da voi. Garibaldi. Forse comprese, alla fine del nostro colloquio, che le ragioni che portavano all’unità erano superiori a quelle contrarie. Dirigeva le aziende agricole di quel principe, ma aveva buona cultura e modi affabili, disse che aveva studiato in seminario. Francisco. Sì. Ma i Bardana, allora, non avevano le forze né per allevare papalini né per creare controrivoluzionari. Forse per questo non vi uccise. Garibaldi. Mah, la storia! Si fece presentare come uno che, per conto di un nobile patriota, veniva ad offrire i servigi per la causa. E poi, quando fu davanti a me, mi fece un lungo discorso sul buon governo dei Borbone e sulle presunte nefandezze che erano alla base dell’impresa dei Mille. Alla fine mi puntò la pistola ma si fermò. Io gli dissi che un colpo di pistola non poteva cambiare la storia, e che l’Italia non poteva perdere quel treno. Ma non fu per questo che non mi uccise. Francisco. E che cosa fu? Garibaldi. Secondo me tuo nonno capì che Garibaldi aveva un destino e i Bardana no. Che i Bardana erano dalla parte sbagliata della storia. Francisco. Perciò anche i Bardana hanno fatto l’Italia. Garibaldi. In un modo o nell’altro, sì. Francisco. Questo mi rammarica molto. L’Italia non andava fatta, Generale. Voi avete consegnato una brutta Italia agli Italiani. Gli Italiani sono litigiosi, l’Italia è troppo lunga, contiene tante tradizioni, tante culture. Sarebbe stata meglio una federazione di Stati Italiani, tutti sovrani: magari sotto il patrocinio spirituale del Papa. 72 Garibaldi. Ma che minchia stai dicendo, figliolo? Tu, un socialista! I socialisti non devono essere così antipatriottici. Per questo voi Bardana sognate sempre Garibaldi: è la vostra cattiva coscienza. Volevate uccidere Garibaldi, volevate uccidere l’Italia. Francisco. Non sono antipatriottico: è che l’Italia non andava fatta. Noi Bardana sogniamo spesso Garibaldi forse perché non ci diamo pace per non aver compiuto un destino: il nostro. Saremmo passati alla storia per aver contribuito a fondare un grande Stato, l’Italia del Sud. Ah, l’Italia! l’Italia unificata da un tedesco! Non poteva che nascere male, questa Italia! Garibaldi. Tedesco? E chi cazzo sarebbe il tedesco? Io? Francisco. Sì. Voi. Voi avete origini tedesche, Generale. Il vostro cognome significa pronto alla battaglia e audace. E poi ho letto da qualche parte che eravate imparentato con il barone Teodoro Von Neuhof. Un vostro avo, Joseph Baptist Maria Garibaldi si unì in matrimonio con Katharina Amalie Von Neuhof… Garibaldi. Con tutto il rispetto per il popolo tedesco e per tutti i popoli - io fui e sono socialista e internazionalista - anche se Nizza allora era francese e io fui registrato come Joseph Marie Garibaldi, cittadino francese, io sono italiano dalla cima dei capelli fino ai coglioni, amico mio. Certo, con tutto il rispetto, se penso che sono stato registrato come cittadino francese, Joseph Marie Garibaldi, io, italianissimo figlio di italianissimi… Francisco. M’immagino. Vi sareste chiamato Garibaldì. Suona anche bene. Meglio di Joseph Von Garibald. E che cazzo! Garibaldi. Ehi, boy, che fa, pigli per il culo? Francisco. Non mi permetterei, Generale. È che sono sorte tante leggende sul vostro conto. Come questa dell’Unità d’Italia. Ma che, parlate inglese, Generale? Garibaldi. Io parlo tutte le lingue e tutti i dialetti dei Paesi che ho conosciuto. Una leggenda, dici. Vuoi spiegarmi perché? E sì che sei un siciliano. L’unico rispetto che ti porto è che sei siciliano. Ma non continuare a provocarmi. La scintilla politica e rivoluzionaria dell’Unità d’Italia scoccò dalla Sicilia. Francisco. Ora volete imbrogliarmi con la storiella che è stata la Sicilia a volere l’Unità d’Italia. 73 Garibaldi. Amorè, io ti dico la verità. Sono stati i Siciliani a spingermi a preparare la spedizione. Crispi, per esempio. E Rosolino Pilo. I Siciliani, del resto, sono famosi per questo: o non fanno un cazzo o fanno tutto. I Siciliani si erano rotti i coglioni del regime dispotico e poliziesco di Francesco II. Che voleva addirittura una Lega cattolica e un ritorno reazionario. Francisco. Su questo, io ci andrei piano. Garibaldi. L’insurrezione del quattro aprile del 1860 a Palermo, al convento della Gancia, con la fucilazione degli insorti, fu decisiva. L’incendio ormai era scoppiato, e anche al Nord i patrioti e i repubblicani mi chiedevano di intervenire in aiuto degli insorti siciliani. Francisco. Questa è una storiella che non si insegna più nemmeno nelle scuole elementari. Raccontatela a qualcun altro, Generale. Anche se riconosco che amavate la Sicilia. Garibaldi. Non è una storiella, mon ami, ed io ho amato la Sicilia. Sì, io ho amato la Sicilia. Due mesi prima di morire, ormai vecchio e quasi paralizzato, l’ultimo mio viaggio lo feci proprio in Sicilia. Era l’aprile del 1882. Ci andai, contro il parere di medici e amici, per le celebrazioni dei Vespri Siciliani. Ebbi la conferma che un intero popolo mi amava, i patrioti, i miei ex compagni e picciotti, le donne. Oh, la Sicilia! Terra meravigliosa di bellezza e di storia, di cultura! Terra di libertà, di coraggio, di indipendenza, di patria! Terra di leoni! Senza i Siciliani non avrei potuto sbaragliare uno dei più potenti eserciti d’Europa! Francisco. Che poesia! Vabbè che ne avete scritte tante, di poesie, ma questa è la più bella! A chi volete darla a bere? La verità è che molti, siciliani, meridionali, anche quelli del Nord, diciamo quasi tutti gli Italiani, si sono rotti i coglioni di questa Unificazione. Garibaldi. Chi sarebbero queste teste di cazzo che si sono rotti i coglioni dell’Unificazione? Francisco. Io per primo. E poi quelli del Nord, per esempio. Perché, secondo loro, avete portato il sottosviluppo all’Italia del Nord. Un peso, la mafia, la povertà, l’arretratezza. E poi quelli del Sud, che invece pensano che sotto i Borbone se la passavano meglio, e meglio ancora se la sarebbero passata sotto di loro. 74 Garibaldi. Minchia che casino che ho combinato allora, ‘mpari! Ma io non ci credo, a queste cazzate! E bene sta facendo il Presidente della Repubblica Italiana fare questo popò di celebrazioni. Me lo merito. E se lo meritano tutti quelli che, a modo loro, hanno contribuito a fare nascere questo Paese: Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, e soprattutto il fior fiore della gioventù italiana che ha dato il suo sangue per l’Italia. Il fior fiore dei Siciliani. Francisco. Soprattutto loro ce l’hanno con voi, Generale. Garibaldi. Ma dimmi perché, benedetto figliolo. Francisco. Ve lo dico subito. Vi siete proclamato Dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II e avete insediato un governo provvisorio siciliano e ne avete affidato la carica di Segretario di Stato a Francesco Crispi. Avete ordinato la leva di massa di tutti gli uomini dai diciassette ai cinquant’anni e con un altro decreto avete rimesso in vigore tutte le leggi precedenti la restaurazione borbonica del 1949. Con un altro colpo e un po’ di coraggio in più avreste proclamato l’indipendenza del Sud, Generale. Garibaldi. Ma fammi il piacere! L’Italia andava fatta così com’è. Uhè, guagliò, dammi ascolto: saremmo stati spazzati via dalla storia. Io non potevo perdere questo treno. Io ero dalla parte giusta della storia. L’Italia, tutta, doveva essere unita. Oggi l’Italia, con tutti i suoi problemi, è una della Nazioni-guida della storia universale. Francisco. Voi avete unificato l’Italia con la corruzione, con l’inganno, con l’ipocrisia, con il crimine. Avreste fatto meglio a fare il medico, o l’avvocato, o addirittura il sacerdote, come volevano i vostri genitori. Garibaldi. Ehi, piccirì! Modera le parole. Io sono Garibaldi e tu sei un pezzo di merda. Sei nessuno, vivi in un paese di merda: come cazzo puoi cambiare la storia tu? La storia d’Italia è già fatta: l’ho fatta io. Francisco. La storia! Quale storia, Generale? Voi siete stato la longa manus della massoneria londinese che voleva fare di Casa Savoia lo strumento per liquidare il Papato e gli Stati cattolici come l’Austria o la Santa Russia. Garibaldi. Non ti agitare, amico: vivi di fantasie. Che cazzo di libri hai letto? 75 Francisco. Su, via, Generale: è la verità. Ormai è passato tanto tempo, potete ammetterlo. Re Ferdinando aveva fatto tante cose buone. Era un re che si dedicava tutto al governo del Regno. Non pensava né a feste né al gioco, né ai divertimenti. Era un uomo semplice, laborioso. Frugale. Nel suo Stato c’era pace, sicurezza, tranquillità, libertà, ricchezza, prosperità. Il re aveva costruito tante strade, ospedali, prigioni, scuole, case termali, edifici comunali. Aveva costruito tanti asili e ospizi, case di riposo, per poveri e orfani, e rifiuti della società, manicomi e case varie per i folli. Re Ferdinando aveva costruito anche porti a Girgenti, Mazara, Marsala, Catania. Garibaldi. Garzoncello scherzoso, io tutto questo veramente non l’ho visto. Quando sono sbarcato in Sicilia, la prima cosa che mi colpì fu l’estrema povertà dei villaggi nelle campagne, la miseria dei contadini, la sporcizia nelle città. L’arretratezza. Francisco. Non siate bugiardo, Generale. Quelle erano un po’ dappertutto. La verità è che re Ferdinando costruì industrie, accademie, licei, collegi; istituì molte nuove cattedre nelle università, banche, società edilizie. Furono bonificate tante terre paludose, tanti boschi furono trasformati in terre da coltura, sotto di lui. La Puglia e la Sicilia stavano diventando le terre più ricche d’Europa. Garibaldi. Garçon, forse qualche tuo lontano parente filoborbonico ha tramandato qualche bella favola ai tuoi avi. Lasciami riposare, all’ombra di questo cipresso, ché oggi è na bella iurnata’e sole. Francisco. Generale, io non ho avuto parenti filoborbonici. I miei sono stati tutti di tradizione socialista. Il Regno del Sud non era il paradiso, ma per quei tempi era uno degli Stati più avanzati d’Europa. Napoli era la terza città d’Europa, dopo Londra e Parigi. Nel Regno delle Due Sicilie c’erano le migliori università e i migliori codici napoleonici, legislazioni e ordinamenti moderni, un’amministrazione efficiente, sia nella finanza che nella giustizia. Certo, Ferdinando I ci ha fatto uno sgarbo, a noi Siciliani, dopo seicento anni di indipendenza, quando ha unito le due corone di Napoli e di Sicilia, formando il Regno delle Due Sicilie. Anche questo abbiamo digerito. 76 Garibaldi. Uhè, guagliò, tu non parli da socialista. Io ho conosciuto fior di socialisti e repubblicani con l’amor di patria! E poi non annoiarmi ancora con tutta ‘sta prosopopea borbonica. Francisco. Obbedisco, Generale! Allora continuo col felice Regno di Ferdinando II e di Franceschiello. Nel Regno dei Borbone si sono avuti la prima ferrovia, l’Osservatorio Vesuviano, il primo osservatorio vulcanico e sismologico del mondo, la prima illuminazione a gas d’Italia, i primi esperimenti di illuminazione elettrica delle strade. È stata costruita la più meravigliosa Reggia d’Italia, forse inferiore solo a Versailles… Garibaldi. Devi aver letto qualche libraccio revisionista, amigo. Di qualche reazionario napoletano. Gli storici napoletani sono i peggiori. Non ti fa onore, a te, un professore di liceo. Francisco. No, Generale. Mentre voi ve ne stavate a godervi la gloria, bello tranquillo, nella vostra tomba di Caprera, io forse ho letto qualche libro di quelli che non si usano nelle scuole, perché sono un tipo curioso. E ho fatto qualche ricerchina. Per esempio, ho letto che re Ferdinando costruì molte fabbriche e molti ponti vicino ai fiumi, e che tutte le nuove invenzioni sono state attuate nel Sud, prima che nelle altre parti d’Italia. Ho letto anche che il Regno dei Borbone era all’avanguardia per la stipula di nuovi trattati di commercio, per l’istituzione di guardie civiche e guardie d’onore a cavallo. I Borbone avevano un esercito potente, una Marina tra le più poderose d’Europa. Garibaldi. E infatti si è visto come è finita. Francisco. Su questo torneremo fra un po’. Nelle città c’erano palazzi, ville straordinarie. Le terre erano ricche di messi, i mercati abbondanti, i prezzi bassi e buoni, il popolo viveva nell’agiatezza, rispetto ai parametri del tempo. La popolazione cresceva, come l’industria, così come tante altre cose buone. Gli abitanti vivevano in un tempo felice, e tempi ancora felicissimi li attendevano. Re Ferdinando è stato il primo a concedere la Costituzione nel ’48, purtroppo rimasta sulla carta perché travolto dalla storia. Grandi riforme liberali si stavano facendo, come quella affidata a Francisco De Sanctis sulla Pubblica Istruzione… Garibaldi. Sì, il Sud era l’Eden. Figliolo, tu farnetichi. Devi aver letto, lo ripeto, qualche libello propagandistico di qualche alto 77 funzionario filo-borbonico, qualche storico meridionale reazionario che ce l’ha con questi fessacchiotti del Nord. Francisco. Io dico la verità, Generale. Voi avete compiuto un crimine gravissimo. Garibaldi. E daje co ‘sti crimini. Quale crimine? Di che stai parlando, guagliò? Francisco. Ma dell’Unità d’Italia, Generale. Che cosa è stata l’Unità d’Italia? Un’aggressione internazionale contro due legittime istituzioni, la Chiesa e il Regno Borbonico. Una violazione gravissima contro il diritto internazionale, contro uno Stato riconosciuto sul piano europeo, internazionale, il Regno delle Due Sicilie. Garibaldi. Eh, che parolone! È stata una rivoluzione, ‘mpari. E come tutte le rivoluzioni di popolo, è normale, qualche escandescenza, qualche esagerazione, dico, può esserci stata! Francisco. No, Generale, non è stata una rivoluzione. I contadini siciliani e napoletani non sapevano che minchia era una rivoluzione, e nemmeno uno scontro, una guerra tra Italiani, una guerra civile, dico. L’Italia non esisteva, i Siciliani o i Napoletani non erano ancora Italiani. Il vostro è stato un attacco contro la cultura siciliana, napoletana, meridionale, contro i valori spirituali e culturali del Sud. Il Regno delle Due Sicilie è stato calunniato per lungo tempo, non era secondo a nessun Paese civile. Il Regno delle Due Sicilie aveva medici, maestri, avvocati, scienziati. Non è stata una rivoluzione, e nemmeno una liberazione. Garibaldi. Ah, no? E che cosa è stata allora, giovanotto? Francisco. È stata una annessione. Una spudorata annessione dei Piemontesi. Di stranieri. Vittorio Emanuele II e Cavour parlavano in francese e in dialetto piemontese, si scrivevano in francese. Questo Cavour, poi, che non era sceso oltre Firenze, non conosceva la storia della Sicilia, la sua ricchezza, la sua bellezza, i due raccolti all’anno, i suoi giardini, il giardino dell’Europa… I Piemontesi sono venuti al Sud a saccheggiare le case, a depredare, loro, i cosiddetti galantuomini. Voi, il liberatore dei popoli, uno che diceva di essere un eroe che aveva lottato per liberare gli oppressi. Voi vi siete prestato al gioco. I Savoia vi hanno usato, vi hanno fregato. Garibaldi. Ehi, ora mi sono scassato ‘o cazzo! Modera i termini, mezzasega! Pajetta della mia minchia! Nessuno ha potuto fregare in 78 quel secolo Giuseppe Garibaldi. Io sono l’Eroe puro, il liberatore dei popoli, un grande. Senza di me l’Italia sarebbe stata spazzata via dalla storia! Francisco. Ah, la storia! Lo vogliamo dire, caro Generale, perché avete vinto la guerra? Perché re Ferdinando aveva voluto restare indipendente. E questo lo ha rovinato. Non voleva farsi assoggettare dalla Francia, dall’Inghilterra. E queste gliel’hanno fatta pagare. Re Ferdinando ha pagato l’isolamento politico. Soprattutto non doveva inimicarsi gli Inglesi, cedendo il monopolio dello zolfo a una società francese privata. Garibaldi. Su questo non posso dargli torto, anche se Parlmerston era capace di bombardare Napoli: con lo zolfo gli Inglesi ci mangiavano, lo pagavano niente. Lo zolfo siciliano bastava e avanzava per tutto il mondo. Francisco. Senza zolfo, gli Inglesi erano fregati, non potevano far funzionare le loro industrie, soprattutto quelle che fabbricavano armi. L’Italia è nata, caro Generale, perché era una cosa che serviva alla Francia e all’Inghilterra, era come un bastone che doveva essere messo fra le ruote dell’Austria e della nascente Germania. Garibaldi. Chissà, pensandoci bene, forse questa guerra i Borbone non potevano proprio vincerla. Francisco II era un debole, succube della matrigna Maria Teresa, la Regina Santa, e della moglie Maria Sofia, sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, una donna forte, una tedesca. Timido, mite, rassegnato troppo religioso, fatalista, chissà, forse era un destino, ma Francesco II non aveva nemmeno il corpo di un re, visto che era magro e lungo, con il volto pallido, la schiena incurvata, le spalle cascanti. Tutti gli uomini di Stato e i capi militari erano vecchissimi. Questo un po’ mi ha aiutato, via. Vittorio Emanuele II, con un generale come me, non poteva non avere buon gioco sul suo debole cugino Franceschiello. Francisco. Fuori dall’ironia, però, caro Generale, questo re inutile, questo sovrano imbelle, aveva già concesso autonomie ai comuni, amnistie, aveva ridotto le tasse doganali, migliorato le condizioni dei carcerati, dimezzato l’imposta sul macinato, aveva comprato grano all’estero e lo aveva rivenduto sottocosto alla popolazione e agli indigenti, quello che non fece mai Vittorio Emanuele II. La guerra i Borbone l’hanno perduta per altre ragioni. 79 Garibaldi. Ah, sì? Quali? Francisco. Voi, caro Generale, siete stato uno strumento di forze più grandi e potenti. La vostra è stata una conquista coloniale anglopiemontese che ha utilizzato un corpo di almeno venticinquemila mercenari formato da ungheresi e zuavi, polacchi, indiani, e chissà quali altre genti, che avevano già combattuto al soldo dei Francesi in Algeria. C’erano anche soldati piemontesi in congedo e arruolati ancora una volta per la bisogna come volontari. C’erano soldati inglesi. Gli Inglesi vi appoggiavano perché volevano distruggere la più grande flotta mercantile del Mediterraneo, quella del Regno delle Due Sicilie, per liquidare il più pericoloso concorrente nei commerci con l’Oriente, visto che stava per essere aperto il Canale di Suez in Egitto. Garibaldi. Fantasie. Pure fantasie, caballero! La storia è un’altra cosa. Francisco. È stata una guerra sporca. Dietro di voi c’era un’altra bandiera. La storia poi ha raccontato un’altra storia, la storia dei vincitori. Come sempre, purtroppo. Voi avete corrotto col denaro i migliori generali borbonici, cioè i peggiori. I Piemontesi hanno finanziato una guerra sporca per svuotare le casse grasse e ricche delle banche del Regno delle Due Sicilie, per pagarsi i debiti fatti a Parigi e a Londra. I Savoia erano fortemente indebitati con i banchieri Rothschild di Francoforte. Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, e perfino la vostra massoneria, voleva controllare le più di quattrocento miniere di zolfo necessario per la sua flotta e il suo esercito, per l’industria britannica, per dominare il mondo. La Sicilia, la miniera del mondo. Gli Inglesi facevano sempre guerra a tutti i Paesi che volevano rendersi autonomi e applicavano pesanti dazi. Così hanno fatto guerra al Regno delle Due Sicilie, al Paraguay, agli Stati americani. La Francia voleva che nascesse un grande Stato tra sé e l’Austria. Ma i più intelligenti sono stati gli Inglesi, che sono riusciti ad ottenere che nascesse un grande Stato tra l’Austria e la Francia per dare più equilibrio all’Europa. Cioè per proprio vantaggio. Garibaldi. Tu farnetichi, figliolo. Seguro. Quando la storia si mette in marcia, non fa questi ragionamenti piccini, di bassa politica. La storia è come un fiume impetuoso che porta al mare le scorie inutili 80 ma anche la sua linfa vitale, è come un esercito che calpesta l’erba ma la trasforma in sentiero luminoso. Francisco. ‘Azz, che poesia! Via, Generale, voi non potete negare che è stata Londra a finanziare l’impresa. La massoneria inglese ha finanziato la guerra con milioni di piastre d’oro turche. I vostri libri contabili, i vostri registri, naturalmente poi li avete bruciati. Ma non vorrete negare che le navi militari inglesi hanno protetto il vostro sbarco a Marsala. O che vi hanno aiutato la mafia, i grandi proprietari che avete comprato a suon di lire. Non è vero che vi siete incontrato di nascosto il 14 maggio con i generali borbonici Landi e Anguissola per accordarvi sul tradimento? A bordo di una nave ammiraglia della marina inglese? Garibaldi. Ehi, guapo, non gettare fango sulla tua terra! Su un grande Paese! Ormai l’Unità d’Italia è consegnata alla storia. La storia è un sogno. Non si cura di questi particolari. La storia è una corsa travolgente verso un sogno. Francisco. Un sogno! In questo sogno dell’Unità d’Italia gli Inglesi ci avevano messo il becco già nel 1948. La rivolta del 1848 in Sicilia era guidata dagli Inglesi, che suggerirono al governo di Napoli di riconoscere l’indipendenza della Sicilia per appropriarsene. L’Inghilterra voleva unire l’Italia e separare il Regno delle Due Sicilie. Sempre per la storia dello zolfo che serviva per le loro acciaierie. Dopo l’occupazione francese dell’Algeria, gli Inglesi volevano controbilanciare l’accresciuta potenza navale francese nel Mediterraneo. Voi siete stato uno strumento dei massoni inglesi. Gli Inglesi poi si convinsero che senza una destabilizzazione interna, con la complicità di vertici militari e civili, nel Regno delle Due Sicilie mai ci sarebbe stata la conquista da parte del Piemonte. Garibaldi. E che minchia! E che erano il Demonio, ‘sti Inglesi! Francisco. Peggio. Gli Inglesi ce l’avevano coi Borbone anche per la loro eccessiva fede cattolica, perché erano troppo vicini al Papa, e perché si stavano avvicinando alla Russia, che voleva trovare uno sbocco sul Mediterraneo. Ce l’avevano coi Borbone per la persecuzione contro le sette massoniche, per la posizione strategica dei porti del Regno delle Due Sicilie in vista l’imminente apertura del Canale di Suez. Garibaldi. Minchia! Ce l’avevano col mondo intero, ‘sti Inglesi. Comunque, Inglesi o no, l’Italia si doveva fare, professù. 81 Francisco. No. Quella unione non si doveva fare, è stata una catastrofe per l’Italia. I Piemontesi volevano saccheggiare tutto l’oro e l’argento delle Due Sicilie, volevano rastrellare tutta la immensa massa monetaria circolante nel Regno e sostituirla con pezzi di carta inutile del Re savoiardo. Lo Stato italiano è nato con la corruzione, con l’inganno, l’ipocrisia. Garibaldi. Ahò, sì ‘na musica, guagliò! L’Italia si doveva fare anche così. Non c’era altra via. Troppo sangue era stato versato. Francisco. C’era un’altra via. Nel Parlamento del Regno di Sardegna, voi eravate stato eletto fra i democratici, Generale. Molti speravano in voi. Conoscevano il vostro sdegno per l’affare di Nizza. Quell’impresa potevate ancora salvarla. Potevate create una repubblica autonoma, indipendente dalla monarchia sabauda. Garibaldi. Quell’impresa la voleva un tuo conterraneo, giovanotto. Francesco Crispi. E non si poteva realizzare diversamente. Francisco. Crispi aveva caldeggiato quell’impresa, ma faceva il doppio gioco, incontrava voi e Mazzini ma era filo-monarchico: poi si è visto. Garibaldi. Io non potevo fare allora la guerra civile. Avrei avuto contro non solo gli Italiani e i monarchici, ma anche la Francia e l’Inghilterra. 82 Capitolo X Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi Di quando il puro sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro nei sogni dei Bardana su Garibaldi e nel tentativo di omicidio di questi da parte di un suo avo. Quella volta l’Eroe dei Due Mondi non era Garibaldi-Dio ma solo Garibaldi, e il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, dell’Impresa dei Mille, del Risorgimento, del Regno delle Due Sicilie, dei Borbone, della massoneria, del socialismo, della storia, della verità e dei sogni. Parte seconda Cinque maggio 2011. Tarda mattina. Cimitero di Palma di Montechiaro. Garibaldi davanti all’ingresso, seduto, pensieroso. Francisco. Don Peppì, voi dovevate fare una rivoluzione vera. Voi, un repubblicano. Un socialista. Il più intelligente si è dimostrato il Re Vittorio Emanuele II, che era considerato il più coglione. Vi ha mandato avanti, se perdevate, lui non avrebbe perso nulla, visto che non si era fatto coinvolgere; se aveste vinto, come poi è successo, avrebbe vinto pure lui. Come Cavour, l’altro furbacchione. Anche se lui si sentiva scavalcato e non voleva che voi partiste, palesemente o di nascosto, poi vi ha lasciato partire, ma non poteva compromerttersi apertamente contro una monarchia potente come quella dei Borbone. Cavour non vi ha mai stimato, e nemmeno il Re. Vittorio Emanuele II non vi stimava, vi ha solo usato. Vi considerava un modesto comandante e uno che si circondava di canaglie. Anche se voi con una lettera avete cercato di coprirlo… Ah, gli intrighi, gli ambigui accordi della rivoluzione italiana! Garibaldi. Uhè, guagliò, non farmi così ingenuo! Conoscevo i sentimenti del Re e di Cavour nei miei confronti. Non dimenticare mai che stai parlando con un grande della storia! Gli uomini che hanno 83 fatto l’Italia si odiavano un po’ tutti, ma avevano un obiettivo comune. Questo li ha resi grandi. Ricordalo. Francisco. Io ricordo anche che occorre smascherare l’impostura della storia. Stranamente, le navi borboniche avvistarono in ritardo le vostre navi, protette dagli Inglesi. Gli Inglesi non hanno fatto niente per impedire lo sbarco. Un Risorgimento di traditori, caro Garibaldi. A Marsala non pare che ci siano state scene d’esultanza della popolazione, tutti rimasero chiusi in casa o fuggirono nelle campagne. Solo gli Inglesi vi hanno accolto festosamente. Perché vi siete rifugiato nell’isola di Mozia? Temevate la reazione popolare? Garibaldi. Ehi, piccirì, io ho vinto battaglie epiche. Io sono un titano della storia. Sguazzati la bocca prima di pronunciare il nome di Garibaldi. Francisco. Sì, ancora vi fa male a guallara. Tutte le vostre battaglie vinte sono state una farsa militare. Garibaldi. Ehi, amico, ora hai proprio scassato ‘o cazzo. Tutta questa merda portatela a casa. Francisco. La vostra è stata una conquista, la conquista del Sud. Dove erano le masse, Generale? Quali masse vi seguivano, quali vi appoggiavano, in quali campagne avete veduto le insurrezioni di contadini? Guerriglia? Bande armate? Ma dove? La verità è che voi avete portato sofferenze e orrori alle nostre popolazioni, e vi siete appropriato del titolo di liberatore. Nel bene e nel male, Francesco II era il legittimo re dei Borbone e dei meridionali, mentre Vittorio Emanuele II era un sovrano sconosciuto e lontano. Garibaldi. Io sono un liberatore di popoli, grandi popoli mi hanno sempre seguito. Chi cazzo segue te? Francisco. Popolo? Quale popolo vi seguiva nell’impresa? Vi seguiva la feccia del popolo, briganti, uomini di malaffare, gente senza coscienza morale e civile, che aspettava solo il bordello per cavarci qualcosa, questi erano i vostri alleati. Avevate sparpagliato agenti e spie piemontesi per seminare odio fra la popolazione. Le persone perbene, invece, non avevano niente a che spartire con voi, non potevano intendersi con voi, parlavano lingue diverse da quelle che parlavano le vostre truppe. Questo era il vero popolo. Queste persone avevano leggi, istituzioni diverse. Moneta diversa. La loro moneta era di metallo sonante, prezioso, la vostra di carta. Avete 84 messo a ferro e a fuoco case, terre e paesi, messi. Uomini illustri di onesta e chiara fama, marescialli, generali, colonnelli innocenti ma contrari ai Savoia, questo il loro unico peccato, furono assaliti nelle loro case e incarcerati, arrestati, fucilati in massa, deportati chissà dove. L’aristocrazia che non era d’accordo coi Piemontesi venne cacciata via, mandata in esilio, i fuoriusciti di tutta Europa, i delinquenti, si sono impadroniti del Meridione. Il Regno delle Due Sicilie è stato invaso, occupato e conquistato. Altro che liberazione! Garibaldi. Lo Stato borbonico era arretrato e il popolo sottomesso e sfruttato. Questa era la condizione del tuo popolo, pezzo di merda! Francisco. No. Offendete pure. Io continuo a sostenere che il Regno delle Due Sicilie era uno Stato florido e potente, e Francesco II, come i suoi predecessori, aveva saputo dare al suo popolo ciò di cui aveva bisogno. Nel Regno c’erano città e capitali splendide, come Napoli e Palermo. C’erano un’industria e un commercio, un artigianato fiorenti. L’agricoltura era florida e ricca. C’erano l’esercito e la flotta più potenti della Penisola, ma purtroppo con i peggiori comandanti. Lo Stato borbonico era diventato il più grande, il più ricco, il più potente degli Stati d’Italia. Uno dei più potenti d’Europa. Garibaldi. I Borbone erano una casta di cattivi governanti, amigo. Reazionari, arretrati, cattolici integralisti e ipocriti. Francisco. Ferdinando II, Francesco II, erano ottimi principi. I Borbone non erano un’entità estranea, erano meridionali anch’essi. Avevano lo stesso sangue, gli stessi vizi e le stesse virtù dei meridionali, e se mancava una vera costituzione liberale, questo era una colpa dei liberali meridionali. La guerra non l’hanno persa i Borbone ma i giovani napoletani e siciliani, i molisani, gli abruzzesi, i pugliesi, i calabresi, i lucani. La guerra l’hanno perduta a causa del tradimento, molti sono morti dimenticati dalla storia nelle squallide prigioni sabaude. Hanno conosciuto la miseria, la barbarie, l’emigrazione, il sottosviluppo, la malavita, e tutto questo è stato il lascito dell’Unificazione. Garibaldi. La guerra, anche se aiutati dai picciotti e dal popolo, l’hanno vinta i Mille, gli eroici, epici, Mille! Francisco. I Mille! Chi erano questi Mille! I Mille scappavano da qualcosa. C’erano tra di loro militari inglesi, ufficiali ungheresi, polacchi, turchi. Dopo i Mille vennero fatti sbarcare altri 22.000 85 soldati piemontesi che erano stati fatti disertare. L’unica vera battaglia fu quella del Volturno, che i Borbone persero non per eroismo di Garibaldi ma per insipienza del comandante borbonico. In realtà, voi comandavate una teppaglia di canaglie. Garibaldi. Non erano canaglie gli illuminati liberali meridionali che hanno accolto con entusiasmo l’Unità. E questi non erano fessacchiotti come i contadini. Erano borghesi colti, come i Mille che sono venuti a liberare il Sud. Francisco. I liberali meridionali! Che destino! Voi siete responsabile del loro miserabile destino. Li avete convinti con false promesse a diventare schiavi della borghesia del Nord. Hanno fatto sparire fabbriche, macchinari, beni religiosi e demaniali; hanno commesso ruberie, assassinii, si sono dati ad arricchimenti facili. Sono diventati tutti collaborazionisti, tutti, grossi borghesi, massari arricchiti sulla pelle di nobilotti borbonici decaduti, quelli che hanno fatto carriera coi nuovi sfruttatori. Questi sono diventati i peggiori nemici del popolo siciliano. Sono diventati i nuovi parassiti, quelli che hanno venduto le nostre industrie al Nord. Nulla di nuovo sotto il sole, è stato sempre così coi nuovi dominatori della Sicilia, sin dal tempo dei Romani. E dopo la vittoria, con uno dei soliti falsi plebisciti, vi siete annessa mezza Italia con dieci milioni di Italiani. Garibaldi. Giovanotto, io non mi intendevo di economia e di politica, queste discipline un po’ le ho studiate e capite dopo l’Unità. Io, in quel momento, avevo una missione suprema da compiere, io dovevo creare una Nazione, un popolo, uno Stato. In un tempo in cui popoli di poco conto avevano già una patria, un grande Paese come l’Italia non poteva restare ai margini della grande storia. Nessuno poteva interrompere quella missione, quel destino. Francisco. Sono stati gli stranieri a compiere quel destino. Sono state le cancellerie inglesi, francesi e piemontesi a preparare lo scellerato disegno di fare conquistare il Regno delle Due Sicilie ai Savoia. I soldati garibaldini e piemontesi avevano fucili inglesi, molti agenti segreti piemontesi e inglesi furono trovati morti, evidentemente potevano dare fastidio. Militari e mafiosi li avete pagati con denaro inglese, milioni e milioni di lire. Vi siete lasciata dietro una scia infinita di chiese saccheggiate, fucilati, tra questi frati e preti, donne e bambini uccisi, migliaia di prigionieri e di arrestati. I Piemontesi, voi 86 coi vostri colori sgargianti, eravate come dei barbari, oppressori, conquistatori. Vi pentirete di questa unificazione, e delle promesse che non avete mantenuto, di dare una casa e un podere agli uomini che vi hanno sostenuto. Garibaldi. E daje! Sei una musica, giri sempre il solito disco. Io dovevo unire l’Italia, le colpe e le responsabilità – se ci sono – dei problemi creati dall’Unità non mi appartengono. Francisco. Va bene, cambiamo registro. Parliamo della vostra vita. Non mi pare che abbiate compiuto cose edificanti. Garibaldi. Che hai da dire ora sulla mia vita? Vuoi continuare ancora a gettare fango sulla mia vita? Io sono un liberatore dei popoli, e tu sei un calunniatore, mascalzone! Francisco. Da semplice mozzo a generale! Bella carriera, don Peppì. Garibaldi. Sì, e alla luce del sole. Certo, chi se lo sarebbe aspettato che dopo mille e mille viaggi per mari ed oceani come semplice mozzo mi sarei preso sulle spalle questo fardello! Non fu facile convincere mio padre, ma fin da piccolo capii che c’era il mare nel mio destino. Ho combattuto contro corsari e pirati, sono stato fermo ammalato in porti lontani e in terre sconosciute. Divenuto capitano, percorsi il Mediterraneo in lungo e largo, finché non conobbi a Costantinopoli le idee mazziniane… Francisco. Mazzini! Avete seguito ciecamente Mazzini, un terrorista sanguinario, che ha fatto saltare in aria vascelli, come la fregata Carlo III nel golfo di Napoli, uccidendo centinaia di persone innocenti. Che ha attentato alla vita di re, in particolare di Ferdinando II. Vogliamo parlare del fallimento di Pisacane e dello sterminio di centinaia di poveri disgraziati? O dell’attentato a Napoleone III dell’Orsini, otto morti e decine di feriti? Garibaldi. Non è come dici tu. Senza la visione di Mazzini, senza il suo sogno, l’Italia non si sarebbe fatta! Con lui compresi che l’Unificazione dell’Italia era il momento iniziale della redenzione dei popoli oppressi, guida luminosa per la liberazione dei popoli. Mazzini ha cambiato la mia vita. Io, che avevo adottato l’umanità come patria e mi ero fatto cosmopolita e avevo dato la mia spada e il mio sangue a tanti popoli per liberarli dalla tirannide, non potevo non andare fino in fondo a questo destino. 87 Francisco. Certo, condividete con il generale francese Gilbert du Motier de La Fayette, eroe della rivoluzione americana, il soprannome di eroe dei due mondi , però siete unico per molti aspetti. La vostra effigie è su tutti i francobolli del mondo, in tutti i musei d’Italia si possono trovare vostre testimonianze, tutte le piazze d’Italia vi ricordano con statue e lapidi, il vostro nome ha dato origine a un aggettivo audace e temerario. Moltitudini di storici, romanzieri, sono stati affascinati dalla vostra figura. Eppure io credo che ci sia un’esagerazione in tutto questo. In fondo, avete lottato per piccoli popoli, siete stato più un guerrigliero che un grande capo rivoluzionario come La Fayette. Garibaldi. Giovinò, forse i popoli che liberavo erano piccoli ma gli ideali grandi. Gli ideali mazziniani di libertà, uguaglianza, umanità sono scolpiti ancora oggi nelle bandiere e nelle leggi nelle terre dell’Uruguay, del Rio Grande do Sul. Io lottai senza respiro contro l’Impero del Brasile, contro tutti gli imperi. Francisco. In verità, molti allora vi consideravano un cospiratore pazzo, con poche idee. Garibaldi. Amigo, io, che ho subito l’infamia di essere considerato un cospiratore pazzo, un disertore e latitante per la causa mazziniana e per gloriose rivolte e insurrezioni popolari mai realizzate, io che riparavo presso fruttivendole e ostesse, io che viaggiavo sotto falso nome ed ero vittima di epidemie e di colera, io ho liberato migliaia di schiavi negri. Diventato colonnello della marina uruguayana, ho compiuto mille imprese per la liberazione dei popoli del Sudamerica, assedi, battaglie, spedizioni, per danneggiare il commercio marittimo, e altre azioni per portare la rivolta dei popoli oppressi all’attenzione dei grandi Stati europei. In Sudamerica ho propagandato le idee mazziniane, ho conosciuto la Giovine Italia e fui a capo della Legione italiana e non avevo neppure 28 anni. Francisco. Oh, commovente! In realtà, voi e Mazzini siete stati i sobillatori che hanno provocato la morte di tante persone innocenti. Episodi di rivolta irrealizzabili, solo per provocare i governi. Voi siete stato condannato a morte come cospiratore e come bandito, siete stato un marinaio della flotta piratesca di Hussen Bey, Signore di Tunisi. Garibaldi. Io non sono stato un bandito, io inseguivo le idee, la Giovine Italia, la carboneria… 88 Francisco. Voi siete stato un avventuriero che si celava sotto i nomi di Giovine Italia, carboneria, massoneria. Oh, la carboneria! Che cosa facevano i carbonari? Le sette carbonare, come la Società Nazionale con a capo Daniele Manin, avevano il preciso compito di organizzare azioni terroristiche e favorire la diffusione della stampa massonica che aveva il fine di influenzare l’opinione pubblica attraverso la pubblicazione di menzogne che screditavano i governi dell’Austria, dello Stato della Chiesa, del Regno delle Due Sicilie. Garibaldi. Non infangare il nome della carboneria, cosa inutile! Francisco. Va bene. Torniamo al Sudamerica. In Sudamerica, razziatore, pirata, avete assalito navi mercantili isolate, avete ucciso inermi marinai delle navi catturate, avete assalito villaggi di contadini, rubato oggetti, violentato le donne. Non vi facevate vedere l’orecchio destro, perché vi era stato staccato con un morso da una ragazza che volevate violentare, e per questo portavate i capelli lunghi. Garibaldi. Ora hai rotto i coglioni, nullità, rottame della storia! Francisco. Voi siete stato imprigionato per una efferata rapina durante la guerra tra Argentina e Uruguay, la guerra l’Argentina l’ha persa perché la flotta anglo-francese… Garibaldi. Basta, miserabile! Francisco. E poi Anita. Il marito di Anita, Duarte, è morto di crepacuore perché gliela avete rubato, Anita, e il Duarte lo avete ferito, malmenato. Questa è la verità della vostra vita. Quella nascosta. Garibaldi. Pulisciti la bocca quando parli di Anita, pezzente! Quando conobbi Anita, Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, aveva diciotto anni, era una ragazza meravigliosa. Capii che faceva parte del mio destino. Ma devo andare, con te non c’è nessuna possibilità di dialogo. Tu sai solo provocare ed offendere. Francisco. No, continuate la vostra epopea. Faremo i conti alla fine. Garibaldi. Non mi tiro certo indietro. Tornato nel 1848 per la guerra di Indipendenza contro l’Austria, le cocenti delusioni, con Mazzini, con Carlo Alberto, le incomprensioni, le sconfitte. Poi, la difesa della Repubblica Romana, la caduta di Roma, la sconfitta, la fuga, l’asilo a San Marino e la morte di Anita, sepolta come una cagna in un terreno isolato e incolto. Infine, Gibilterra, Tangeri, Liverpool, New York, la coabitazione con Meucci, la navigazione, i commerci, il 89 Perù, la Cina, le Filippine, l’Australia, Boston. E poi ancora l’Europa, sempre Mazzini, l’acquisto di Caprera, la fattoria, la produzione di olio d’oliva, le vigne, l’allevamento di bovini, polli, capre, maiali, asini. Insomma, divenni contadino e allevatore. Francisco. Meno male che c’era il problema dell’Unità d’Italia, altrimenti l’Italia avrebbe conosciuto un Garibaldi imprenditore. Altro che generale, patriota e condottiero. Uomo politico. Certo, una vita avventurosa. Garibaldi. Sono commosso per gli elogi, giovanotto. Ti stai sprecando. Poi l’incontro con Cavour nel 1858, i Cacciatori delle Alpi, la Guerra di Indipendenza del 1859, la gloria di Bezzecca, le epiche battaglie, le vittorie, la gloria. Sconfissi grandi comandanti austriaci, poi ancora umiliazioni: mi mandavano in scenari bellici di periferia, mi toglievano il comando, ma tutto sopportavo per amore dell’Italia. Figliolo, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II, il sogno, la mente, la forza, ciascuno a suo modo, furono uomini più grandi di me. Io però ebbi un’occasione unica, irripetibile, che non mi sarebbe capitata più nella vita, nessuno poteva fermare quel destino. Io ero l’uomo del destino. Francisco. Un destino glorioso, eppure Vittorio Emanuele II non si fidava di voi. Garibaldi. L’invidia della gloria. Ma l’Italia aspettava me. Solo gli armistizi poterono fermare la mia furia, io trasformavo eserciti di riserva e di volontari in potenti dispiegamenti di forza, come accadde nell’impresa di Digione durante la guerra franco-prussiana del 18701871. Io presi l’unica bandiera tedesca della guerra, la mia fu l’unica armata a dare gloria alla Francia. Solo io, lo disse anche Victor Hugo, sono intervenuto a difesa della Francia, io avevo capito allora dove avrebbe portato il militarismo prussiano, a Hitler! Francisco. Non vi scaldate, Generale. Restiamo nell’Ottocento, per carità. Garibaldi. La mia fama attraversò gli oceani. Mi vollero a capo dell’esercito nordista nella guerra civile americana. Io però volevo un impegno deciso per l’emancipazione degli schiavi negri, non mi diedero nessuna certezza, e allora rifiutai, era una guerra che non mi interessava. Poi fui accolto trionfalmente a Londra nel 1864 ed incontrai Henry John Temple, Terzo Visconte Palmerston, e Mazzini. 90 Francisco. Forse volevate essere nominato comandante in capo di tutto l’esercito nordista, per questo non vi diedero l’incarico. Per le vostre ambizioni, stavate perdendo la testa. Eravate una mezzatesta, Generale. La follia dell’Aspromonte del 1862, volevate marciare verso Roma contro i Francesi unici amici del Regno d’Italia, che cazzata! Tentativo velleitario, senza senso. Ancora morti. E poi l’altra follia del ’67, con il sacrificio inutile dei fratelli Cairoli e di altri che furono decapitati. Roma, una città che non conquistaste mai! L’onta di Mentana, e sempre l’arresto. Voi, un deputato del Regno, un eroe! Garibaldi. Fui tradito dai romani, che non sono stati mai capaci di una rivoluzione. Io ero un precursore, pochi mi capirono. Non fui un avventuriero. Io fui difensore dei diritti degli animali, fondai in Italia la prima società per la protezione degli animali e divenni vegetariano per questo. Gli animali e le piante hanno un’anima e noi dobbiamo rispettare la natura proprio per questo. Fui favorevole al suffragio universale e all’attuazione della piena democrazia, all’autodeterminazione dei popoli. Fui poeta e scrittore, storico. Mi battei per l’abolizione della pena di morte. Francisco. Siete stato anche un massone. Curioso che l’unificazione italiana sia opera del Gran Maestro del Grande Oriente di Palermo e d’Italia, col 33° grado del Rito scozzese. Garibaldi. Guagliò, mettiti il cuore in pace: il Risorgimento Italiano e gran parte della storia moderna sono opera della massoneria. Sì, è vero, fui massone, e raggiunsi i vertici della massoneria, ma allora la massoneria esprimeva valori che hanno fondato le Nazioni e la civiltà moderna. Francisco. Siete stato un anticlericale pervicace. Garibaldi. Fui anticlericale ma non anticattolico, ero contro i preti discendenti di Torquemada, nemici del genere umano e dell’Italia. Francisco. Non vorrete dirmi che eravate un fervente religioso? Garibaldi. Io non ero ateo. Io vedevo nella Chiesa il maggiore ostacolo all’Unità d’Italia. Ma io credevo in Dio. Francisco. Via, lo sanno tutti che avete frequentato società atee e razionaliste negli ultimi anni della vostra vita. Garibaldi. È vero, ma io ho sempre creduto in Dio e nell’immortalità dell’anima. 91 Giuseppe Garibaldi, checché se ne dicesse allora, cioè che ero corto di senso, aveva troppa ricchezza di spirito per escludere Dio dal suo orizzonte religioso e culturale. D’altra parte, non potevo dimenticare che preti e monaci avevano combattuto per me e per l’Unità d’Italia e la liberazione dei popoli oppressi. Francisco. Anche il vostro socialismo, per la verità, era un po’ confuso. Garibaldi. Io credevo nell’unico socialismo possibile, quello democratico. Democrazia socialista. Un socialismo umanitario, impregnato di principi etici e di valori cristiani. Ero contro il socialismo marxista e il collettivismo anarchico bakunista. Io che avevo combattuto per la libertà di tutti i popoli, che sentivo come mia la causa della libertà di tutte le Nazioni, avevo un grande spirito e una grande coscienza internazionalista. Io sognavo una società più giusta e più umana, fondata sulla classe dei lavoratori. Una società in cui lo Stato interviene nella vita sociale ma per garantire progresso e i diritti e i principi etici dei cittadini. Io ero per la solidarietà umana, l’emancipazione politica e sociale delle classi più povere e sfruttate, per l’affermazione dei valori della famiglia, della patria e della solidarietà umana e sociale. La repubblica è la sola forma di governo degna di un popolo libero, soltanto la democrazia può rimediare al flagello della guerra. Solo lo schiavo ha diritto di fare la guerra ai tiranni. La proprietà privata, come la cooperazione, o le varie forme di associazione, non sono altro che strumenti e mezzi del progresso sociale. Ti sembrano cattive idee queste? La storia mi ha dato ragione. Francisco. Non sono sicuro che fossero veramente queste le vostre idee. La vostra mente è parsa sempre un po’ confusionaria. Però, devo ammetterlo, su una cosa non avevate confusione. Voi, l’eroe nazionale degli Italiani, un titano della storia, uno dei personaggi storici più famosi al mondo, così debole! Garibaldi. Su che cosa fui debole? Francisco. Le donne. Quante donne, Generale! Vi piaceva la figa, ah! Garibaldi. Figliolo, non scendiamo troppo in basso! Sì, ho amato, ho tanto amato. Ma, in verità, io cercavo sempre Anita, perché ho amato solo Anita. Dalla nobile inglese Emma Roberts alla contessa Maria Martini della Torre, alla nipote di Gioacchino Murat, Paolina 92 Pepoli. E Maria Esperance von Schwartz, Battistina Ravello, la fedigrafa Giuseppina Raimondi, la mia terza moglie Francesca Armosino. In loro io vedevo sempre Anita. Francisco. Che varietà! Nobili, domestiche, puttane! Giuseppina Raimondi! Anche i grandi possono subire l’oltraggio delle corna! Garibaldi. Già. Ma è pure un modo per sentirsi mortali. È giusto che possa accadere l’oltraggio delle corna. Francisco. E quanti figli, Generale! Otto quelli ufficiali. Domenico Menotti, Rosa, Teresita, Ricciotti, da Anita. Un’altra Anita la aveste dalla Ravello. Clelia, Rosita, Manlio dalla Armosino. E quelli illegittimi, Generale? Vogliamo parlare di Giannina Repubblica Fadigati… Garibaldi. Figliolo, io ho avuto una vita gigantesca. In una tale vita si possono commettere anche errori. I miei amici Fadigati volevano allevare un figlio di sangue garibaldino, e accettai di fecondare la signora Fadigati più che per amor patrio per vanità. Lo ammetto: ho sbagliato. Non dovevo. I figli devono nascere dall’amore. Ma ora devo andare, amico mio. Sono stanco, centocinquanta anni di storia e di morte cominciano a farsi sentire. Francisco. Dovremmo parlare di Nizza, Generale. Vi accusano di aver fatto poco affinché Nizza tornasse italiana… Garibaldi. Nizza? Io lottai sempre disperatamente affinché Nizza tornasse italiana, anche come membro dell’ Assemblea Nazionale di Bordeaux. Dopo la proclamazione della Terza Repubblica francese, nel 1871, tentai inutilmente di far abrogare il Trattato di Torino del 1861, con il quale Vittorio Emanuele cedette Nizza a Napoleone III. Da qui i Vespri nizzardi, la repressione militare, le mie dimissioni dall'Assemblea Nazionale… non mi fare parlare, va. Francisco. Dove andate, Generale? Vi siete innervosito? Garibaldi. È che mi hai rotto i coglioni, oggi. Francisco. Perché, Generale, molte delle cose che ho detto non sono forse vere? Garibaldi. Amico mio, si potrebbero scrivere ancora migliaia di libri, la verità definitiva sull’Unità d’Italia non si saprebbe mai. In una rivoluzione, poi, non tutte le cose si possono controllare. La verità cammina, è sempre un passo più avanti della storia. La storia non dà mai verdetti definitivi. La storia procede spesso in modo tortuoso. 93 Possiede la storia solo chi possiede la verità. Ma la verità non sta sepolta nei libri o nelle memorie. La verità cammina. È come lo spirito del tempo. Le forze immani della storia e lo spirito del tempo in quegli anni avevano deciso che l’Italia, la Germania, andavano unificate. Così doveva essere e così è stato. La verità è come un sogno, che non si può fermare. Solo gli uomini che hanno un sogno fanno la storia. La verità la possiedono solo gli uomini che hanno un sogno. La verità è un sogno che vola alto sulle miserie umane. Francisco. E voi avevate questo sogno, l’Unità d’Italia. Garibaldi. Sì, Francisco. Questo era il mio sogno. Io ho creato l’Italia, il progresso, la storia. Io sono il fondatore dell’Italia moderna, Paese guida della civiltà del mondo. E l’altra verità è che tu invece sei dalla parte sbagliata della storia. Nel bene e nel male, l’Italia andava fatta, altrimenti sarebbe stata spazzata via dalla storia, schiacciata da forze immani come l’Impero Austriaco, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Russia, l’America. Francisco. Capirai che guadagno! Bella cosa oggi l’Italia di Dante, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Leopardi, Galilei, Verdi! Garibaldi. Mon ami, in centocinquanta anni ci sono state tre guerre coloniali, cinque emigrazioni di massa, l’assassino di un re, la dittatura fascista, due guerre mondiali, la caduta della monarchia, la perdita di tutte le colonie, la guerra civile, la Repubblica, il terrorismo, le stragi, il boom industriale, le crisi economiche, gli scandali, la mafia, la disoccupazione, le lotte per i diritti civili, almeno cinquanta governi inutili o criminali, e l’Italia ancora esiste. L’Italia oggi è una delle nazioni più ricche e industrializzate del mondo, faro di progresso e di civiltà nel mondo. E questa nazione l’ho creata io… Perché sorridi? Francisco. Ho voluto provocarvi, Generale. È stato tutto uno scherzo. Forse di cattivo gusto, lo riconosco, ma è stato uno scherzo. Avete ragione voi, la verità cammina. La verità è un sogno. E io credo nei sogni. Io questa notte ho sognato voi, Generale. Garibaldi. Davvero? Ancora? E come mi hai sognato, Francisco? Francisco. Sì. Vi ho sognato come un Garibaldi-Dio. O un Dio garibaldino. Ho sognato Garibaldi-Dio a cavallo sotto il più alto degli eucalipti della mia campagna, aveva il moschetto nella mano sinistra e 94 una lunga spada nella mano destra dentro un fodero di metallo nero, alla cintola un pugnale e un revolver col manico d’osso bianco, stivali di cuoio nero, una stampella che aveva scritta sul manico la parola Aspromonte. Cavalcava la cavalla Marsala, era con le redini attaccate a un ramo dell’eucaliptus e nitriva e recalcitrava, alzava la testa e guardava la soma immortale sulla groppa. Garibaldi-Dio aveva una fluente e folta, bellissima, barba bionda, capelli lunghi e lisci, pure essi biondi, occhi azzurri, luminosi e penetranti. Indossava una camicia, rossa, e i pantaloni azzurri, una stella a sette punte sul petto, un fazzoletto blu intorno al collo che aveva disegnati i simboli della massoneria. Fumava un sigaro toscano che faceva ampi cerchi nell’aria. Un Dio che fumava. Per un momento scambiai GaribaldiDio per uno dei falsi profeti e ciarlatani che da sempre si aggirano nel mio paese, ma questo Garibaldi somigliava troppo a Dio per non essere Dio, Dio era Garibaldi. Un Dio guerriero e patriota, mi diceva che aveva sofferto ed amato, che aveva combattuto, era un Dio severo e austero. Mi diceva che lui era il mitico, leggendario, solenne, immortale, immenso eroe nazionale italiano e che era anche Dio. Solo Cesare, diceva, poteva contendergli la palma di eroe nazionale-Dio, ma Cesare era un pagano e lui invece era un cristiano, era un Garibaldi-Dio del glorioso Ridorgimento. Garibaldi-Dio voleva l’Unità d’Italia. Alla fine Garibaldi-Dio ha sguainato la spada di Calatafimi, ha gridato “Qui si fa l’Italia o si muore!”, ha lanciato il tremendo monito di Dio, ha spronato la cavalla Marsala verso l’orizzonte, verso le campagne e le città, le immortali vestigia d’Italia, poi si è dileguato ed è salito sulle nuvole come un Dio. 95 Capitolo XI Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia Di quando il sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro nei sogni dei Bardana su Umberto I Savoia Re d’Italia e nel tentativo di omicidio di questi da parte di suo padre e suo nonno. Quella volta il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, del Risorgimento, del regicidio, della Monarchia dei Savoia, della storia del Novecento, del fascismo, della verità e dei sogni. Parte prima Umberto I. Ehi, tamarro, dunque tu sei figlio di quel giovanotto scalcagnato che con suo padre ormai vecchio e rincoglionito voleva spararmi sui coglioni? Francisco. Oh, Dio! Che baffoni enormi! Umberto I. Non sono Dio, coglione! E i baffi sono un segno regale. Sono il Re che tuo padre e tuo nonno volevano ammazzare. Tanti cercarono di uccidere me, tanti fallirono. Potevate riuscirci voi, ma non dovevate. Già tuo nonno ci aveva provato con Garibaldi, poi tu e tuo padre stavate per…. Francisco. Maestà, perdonate. Però, il fatto è che qualche peccatuccio lo avete commesso, voi e tutti i Savoia. Per questo anche noi volevamo uccidervi. Siete stati una dinastia di regnanti mediocri. Umberto I. Forse io fui un re mediocre, forse i Savoia furono mediocri, ma erano uno strumento di Dio. E voi Bardana non siete mai stati un cazzo. Francisco. Maestà, non dovete approfittare della vostra posizione per offendere. Voi Savoia non meritavate di governare l’Italia. Non siete nemmeno italiani, venite da lontano. Che cazzo di interesse avevano gente come voi ad amare l’Italia? L’unità d’Italia è stata un fallimento. Umberto I. Modera i termini, bifolco. Ho già sentito queste chiacchiere. La verità è che voi Bardana avete sempre voluto uccidere 96 l’Italia. Voi però siete stati dei vigliacchi, oppure siete sempre arrivati in ritardo, pigri, indolenti, sempre un passo più indietro della storia. E poi un Savoia non poteva farsi ammazzare da due terroni. Francisco. Noi saremo dei terroni, ma voi non siete nemmeno italiani, cazzo. Parlavate dialetto piemontese e francese quando è stata unificata l’Italia, non italiano. Umberto I. Perché voi che parlavate, tamarri che non siete altro? Solo dialetto siculo, ah? E da dove venite voi, ah? Dall’Africa? Voi, col vostro nome, e col vostro lignaggio, volevate passare alla storia uccidendo un re Savoia? Francisco. Perché, quel Bresci, che lignaggio aveva? Meritava di passare alla storia questo coglione di Bresci, un emigrato dandy, un donnaiolo, e forse anche garruso, e non un figlio della terra come i Bardana? Umberto I. Almeno non era terrone come voi. Francisco. E daje! Noi saremo terroni, ma voi che siete? Siete stati tutti incestuosi, per millenni non avete fatto altro che sposarvi tra voi, scopare tra voi, cugini che sposavano i cugini, e vedete che risultato. Re nani, re lunghi lunghi, alti, re froci, re minchia… Umberto I. Ehi, pirla, neh? Ora stai rompendo le palle. Francisco. Ma chi cazzo erano questi Savoia, di origine bastarda? Voi discendete dagli Asburgo, dai Lorena, dalle casate di Borbone, Sassonia-Curlandia, Lorena-Armagnac, von Corvin-Krasinska, AssiaRotenburg, Savoia-Carignano, altre casate di Polonia, Austria, Germania, Francia, che manco me lo ricordo tutte ora… Umberto I. Noi siamo italiani dalla testa fino all’ultimo pelo dei coglioni, bischero! Il nostro capostipite era Berengario II d’Ivrea, deposto nel 961 da Ottone I. E poi il conte Umberto I Biancamano che ottenne dall’imperatore Corrado II la contea… Francisco. Cazzate! Dopo che vi siete pappata l’Italia, alcuni cosiddetti studiosi vostri scagnozzi hanno cercato un’origine italiana. La vostra dinastia ha ascendenze lotaringie, viennesi e provenzali. Per la precisione discendete, per linea femminile, da Lotario II di Lotaringia… Umberto I. Ora hai cacato il cazzo, verme! I Savoia discendono, se vogliamo essere precisi, da Amedeo I detto il Coda e Oddone… 97 Francisco. Ehi, non offendere, Re! È la storia che vi ha fatto diventare grandi, a voi Savoia! Voi non eravate una minchia! Siete una dinastia che viene dalla Borgogna, dove avete ottenuto il feudo della Contea di Savoia, e poi con matrimoni ed eredità anche titoli e prebende. Eravate una dinastia minore che dipendeva dai francesi, poi avete capito che in Francia non potevate fare un cazzo – non è che ci voleva tanto a capirlo - e rivolgete gli appetiti verso l’Italia. E portate la capitale da Chambéry a Torino. Francesi! Anzi, Tedeschi! Che è anche peggio. Sì, perché le origini della vostra famiglia risalgono al sassone Vitichindo… Umberto I. Ehi, terun! Devo continuare ad ascoltare ancora le tue stronzate? Parlo ora io delle vostre origini? Per la verità, non saprei nemmeno da dove cominciare, non esiste un vostro albero genealogico, non avete contato mai un cazzo nella storia. Forse avete un’origene araba, berbera. Bar-dan, boh… Francisco. Maestà, lasciamo perdere, ché queste cose non interessano agli italiani, e nemmeno ai sogni. Però, che è stata la Sicilia a farvi diventare re, cazzo, questo lo riconoscerete, no? Umberto I. Noi eravamo già re! Noi avevamo la Corona di Cipro, Gerusalemme e Armenia, Avevamo ereditato questi domini… Francisco. Sì, con la minchia che eravate re! Titoli di carta! Umberto I. Beh, sì, dai. I Savoia ebbero effettiva dignità regia nel 1713, dopo la guerra di successione spagnola, ottenendo la corona del Regno di Sicilia. Questo te lo concedo, mangiamacco. Barattato poi con quello di Sardegna nel 1720. Ma i tempi erano maturi, i Savoia dovevano diventare re per fare l’Italia… Francisco. Capirai che bella cosa! L’Italia non andava fatta, caro Sire! L’Italia unita è una cosa contro il Sud. La conquista del Regno delle Due Sicilie è stata una aggressione internazionale favorita dagli inglesi… Umberto I. Eh, che lagna! I soliti disfattisti dei Bardana! Guarda che stai sognando Umberto I di Savoia, non Peppino Garibaldi. Basta! E che cazzo! Francisco. Va bene, cambiamo registro. Allora, ditemi: Voi Savoia, che minchia avete fatto per l’Italia, ah? 98 Umberto I. Beh, tante cose, misero te. Io personalmente ho cercato di dare equilibrio alla nascente democrazia, promuovendo riforme sociali a favore dei ceti meno abbienti. Ho cercato di combattere gli estremismi repubblicani e irredentistici, di rilanciare l’economia nazionale, di porre fine all’isolamento internazionale dell’Italia e di aumentare il suo prestigio in politica estera. Francisco. Bella politica estera! Avete fatto occupare nel 1881 la Tunisia ai Francesi senza fare una minchia, una politica estera debole, da pappamolla. Anche irrazionale. Vi siete alleato con l’Austria e la Germania, paesi imperialisti, militaristi. Avete realizzato la politica del ndo cojo cojo. Umberto I. Che dovevo fare, stronzo? Come potevo evitare l’isolamento internazionale dell’Italia? Tutti facevano alleanze, e l’Italia rischiava di rimanere isolata. Pure il papa Leone XIII rompeva i coglioni, macchinava coi ministri degli esteri stranieri per ripristinare il dominio dello Stato Pontificio. Avevo bisogno dell’appoggio dell’Austria, la nazione cattolica più prestigiosa. Così avrei disarmato il Papa. Anche l’alleanza con la conservatrice Germania era un deterrente contro i movimenti repubblicani di ispirazione francese e contro quelle potenze straniere che potevano avere qualche grillo per la testa in merito a un nuovo ristabilimento del potere temporale dei papi. Ma capisci di politica te, pirla? Francisco. Così però avete fatto gli interessi di Bismarck, che era un isolato. E dell’Austria, che così poteva calmare i moti irredentistici nei territori italiani in suo possesso. Ni capisciu puru iu di politica, Maistà! Umberto I. Prima o poi, questo delle terre irredente era un problema che andava risolto. D’altra parte, le stesse rivendicazioni noi potevamo pretenderle nei confronti della Francia e dell’Inghilterra per Nizza, la Corsica e Malta. Ma in quel momento il nazionalismo andava frenato. L’alleanza era un patto difensivo. Io facevo una politica moderna. Internazionalista. Io feci diventare l’Italia una grande potenza, le diedi prestigio internazionale. Occupai l’Eritrea e la Somalia… Francisco. Parliamo dell’eccidio di Dogali… 99 Umberto I. Disfattista! Vuoi parlare solo delle cose negative. Io accolsi i superstiti dell’eccidio come eroi del Risorgimento, anzi meglio, ma allora l’Italia non era pronta per l’epopea coloniale. Francisco. Lasciamo perdere l’Africa, e il Negus e Menelik, e i sultanati somali, la disfatta di Adua. Neanche in politica interna avete fatto cose edificanti. Umberto I. È in politica interna, invece, che raggiunsi i migliori risultati, gnurant! Fui molto solidale con le popolazioni colpite da calamità, verso i siciliani colpiti dall’Etna, i veneti devastati dalle piogge. Sono andato in soccorso dei napoletani massacrati dal Vesuvio, ho debellato l’epidemia di colera a Napoli. Francisco. Minchia, chi sforzo! Questo è il minimo che deve fare un re! Umberto I. Ah, sì? Ti sembra poco, allora, avere abolito col codice Zanardelli la pena di morte? E, per l’epoca, aver portato gli elettori da 650.000 a due milioni? Abbassando il censo da 40 a 19 lire annue e l’età da 25 a 21 anni? Io abolii la tassa sul macinato, il corso forzoso, e realizzai un vasto programma di riforme sociali. Io cercai sempre di fare rispettare e di rispettare io stesso le leggi. Francisco. Minchiate! Sotto il vostro regno ebbe inizio la spudorata pratica del trasformismo, con la Destra e la Sinistra mischiate in un unico calderone. Voi eravate un conservatore reazionario, un re autoritario, avete represso col sangue i moti di Milano, povera gente che era affamata, avete quasi raddoppiato il prezzo del pane, cazzo che liberale! Cento morti e cinquecento feriti! L’esercito contro i civili! Belle leggi! Scioglimento delle organizzazioni socialiste, cattoliche e radicali, dei partiti, delle leghe del lavoro, fu una svolta autoritaria, conarresti di esponenti politici, soprattutto socialisti, limitazione della libertà di stampa, stato d’assedio. Alla faccia dei diritti civili e della libertà! Umberto I. L’Italia in quel tempo era un bordello, amico! Insurrezioni, caos, rivolte, come quella della Lunigiana, i moti di Milano, i Fasci siciliani. E dovevo pure stare attento perché volevano farmi la pelle. Francisco. Voi giravate l’Italia per farvi pubblicità, e per conquistare donne, e certi facchini volevano farvi la pelle! Chi bastardi! 100 Umberto I. Lascia perdere questa stupida ironia, stronzetto! Nessun re fu così clemente verso i suoi attentatori come Umberto I. Perdonai tutti. Prima ci provò un tale Alberigo Altieri, ma nessuno si avvide del tentato omicidio. Il giorno dopo, l’anarchico Giovanni Passannante, che a Napoli, il 17 novembre 1878, mentre mi facevo largo tra la folla su una carrozza scoperta, si lanciò contro di me facendomi ferire con la mia stessa spada. Commutai la condanna a morte in carcere a vita. Perdonai anche Acciarito, che, armato di coltello, a Roma, all’ippodromo delle Capannelle, cercò di uccidermi, ma io non potevo morire accoltellato su una carrozza. Sarebbe stato disdicevole per un re, per un Savoia poi. Anche con lui, fui generoso, ebbe l’ergastolo ma non la pena di morte. Francisco. Oh, certamente. E come al solito, avete fatto la solita retata di socialisti, anarchici e repubblicani. E avete ammazzato quel Frezzi in carcere che aveva solo una foto dell’attentatore… Peccato che non avete potuto graziare Bresci. Umberto I. Stava a me scegliere il mio assassino. Un Savoia doveva immolarsi al tempo nuovo che avanzava. Quel 29 luglio del 1900 al concorso ginnico di Monza non indossai apposta la maglia protettiva sotto la camicia. Solo i grandi capiscono il loro destino, non gente come i Bardana. Francisco. Già. E voi sceglieste Gaetano Bresci. Perché? Umberto I. Per esclusione. Bresci era un anarchico, un uomo colto, anche se donnaiolo. Lo conoscevamo, era stato schedato come anarchico pericoloso, era stato relegato a Lampedusa. Lo seguivamo anche in America, dove andò nel 1896. Sapevamo della sua presenza a Milano qualche settimana prima dell’attentato, era qui per spiare i miei movimenti e le mie abitudini. Io dal 21 luglio ero in villeggiatura estiva nella Villa Reale di Monza. Come avvenne il regicidio è storia. Tre colpi di rivoltella al cuore, alla spalla, al polmone mentre in carrozza mi accingevo a tornare nella Villa Reale dopo avere assistito a un saggio ginnico. Alle 22.30 di quel giorno doveva concludersi la mia esistenza. Tre colpi di pistola sulla carrozza, in mezzo alla folla. Così muore un re. Anche lui fu graziato, da mio figlio Vittorio Emanuele II. Figliolo, i tempi erano maturi per il regicidio. Ma le capisci le cose, te? 101 Francisco. Graziato, ma morto in circostanze strane. L’arresto facile, la morte misteriosa, il finto suicidio. Mah, se aveste scelto mio padre e mio nonno forse non ci sarebbero stati tutto questo scalpore e questi misteri. Ma certo non stava bene che un re Savoia fosse ammazzato da due viddani meridionali. Umberto I. Vedo che sei duro di testa ma ogni tanto afferri qualcosa. Sapevo tutto anche di loro. La polizia me li segnalò. Vestivano con abiti neri, strani. Mangiavano soli, in luoghi isolati. Si muovevano male, si fecero notare. Alloggiavano in una pensioncina vicina a quella di Bresci. Me li feci portare nella Villa Reale di Monza. Dissero che erano padre e figlio. Non volevo crederci ma era vero: un padre di 70 anni e un figlio di 17. La polizia sequestrò loro un coltello e un vecchio revolver a cinque colpi, quasi identico a quello di Bresci. Davanti a me balbettavano, erano storditi: dal lusso, dal fatto di trovarsi davanti al re d’Italia. Si guardavano sbigottiti. Che cosa volevate fare con quella pistola, chiesi loro. Uccidervi, Maestà, dissero candidamente. E perché, domandai ancora. La Sicilia è alla fame, e voi siete contro il Sud, e avete represso i Fasci siciliani, mi dissero. Beh, dissi, comprendo le vostre ragioni. Però tornate a casa, avete famiglia. Le cose stanno cambiando. Mi ucciderà qualcun altro, lo so. Pagheranno altri. Francisco il padre mi confessò che nel 1860 voleva uccidere Garibaldi ma non lo fece. Allora non è destino, dissi io. Non è tempo che un Bardana uccida un re. I Bardana non meritano di cambiare la storia. Andate, dissi, questo non è il vostro secolo, imporrò il silenzio su tutta la vicenda. Si guardarono, annuirono, andarono. E io imposi il silenzio su tutta la vicenda. Francisco. Mio padre e mio nonno volevano uccidervi perché la Sicilia era nella merda, Maestà. Le terre dei baroni falliti le avevano comprate altri baroni e feudatari e gabelloti arricchiti, che così ingrandirono ancora di più i loro latifondi. Non si formò una classe di piccoli e medi proprietari. I contadini poi diventarono più poveri perché persero anche i diritti comuni e gli usi civici che la feudalità concedeva. Umberto I. Cazzate! Sono menzogne che ti hanno raccontato a scuola. Non mi fare lo storico adesso, Francisco. Francisco. È la storia che parla, non lo storico, Maestà. Chi è, vi scantate della storia, ah? Voi vi siete servito di quello impestato di 102 Crispi per reprimere i Fasci Siciliani e questo Crispi di merda è stato un esecutore spietato, si è scagliato contro la sua Sicilia, contro i Fasci, l’unico vero movimento democratico e socialista capace di sfidare la mafia dei gabelloti e la rassegnazione. Un movimento popolare formato da braccianti, proletariato urbano, operai, contadini, minatori, zolfatai, donne, intellettuali. Umberto I. Non si può protestare contro la proprietà, contro lo Stato, che rappresenta tutti, amigo. Francisco. Anche mio padre e mio nonno facevano parte di questo Stato, amigo. Essi non protestavano contro lo Stato, ma contro la mafia, contro la proprietà terriera protetta dalla mafia, contro uno Stato che proteggeva sia la classe benestante, sia la mafia, che la proteggeva a sua volta, questa classe. Nonostante l’abolizione del feudalesimo, in Sicilia le terre e le ricchezze erano ancora in mano a pochi. L’Italia era nata per tutti, invece aveva continuato a portare ingiustizie. Quelli come mio padre e mio nonno chiedevano solo riforme agrarie e fiscali, l’abolizione delle gabelle e la redistribuzione delle terre. 103 Capitolo XII Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia Di quando il sogno di Filippo Bardana volle vederci più chiaro nei sogni dei Bardana su Umberto I Savoia Re d’Italia e nel tentativo di omicidio di questi da parte di suo padre e suo nonno. Quella volta il sogno di Francisco parlò con lui dell’Unità d’Italia, del Risorgimento, del regicidio, della Monarchia dei Savoia, della storia del Novecento, del fascismo, della verità e dei sogni. Parte seconda Umberto I. Ehi, polpettino, non mi fare il sociologo, ora. La Sicilia in quel tempo era diventata un bordello. Nel 1893 non ci furono solo scioperi, ma anche un tentativo di insurrezione. C’erano violenti scontri sociali, vere e proprie occupazioni delle terre, i Fasci volevano anche dettare loro, per il rinnovo dei contratti, le condizioni alla proprietà terriera. Capisci te? Francisco. Capisco. C’era il caos. Ma i Fasci volevano solo giustizia, Maestà. E voi avete armato questo assassino di Crispi. Ah, già, tanto lui era albanese, non era italiano o siciliano, lui se ne fotteva dei siciliani. Ormai l’Unità d’Italia era stata fatta. Arresti, esecuzioni. Crispi, lo Stato che si allea con la mafia locale. Tredici ammazzati a Caltavuturo da soldati e carabinieri. Centinaia di dispersi. E poi, in seguito ad altre sommosse, migliaia di studenti e professionisti, contadini, inviati al confino senza processo. Arresti, eccidi, stato d’assedio, sospensione delle libertà individuali, dell’inviolabilità del domicilio, della libertà di stampa, del diritto di associazione. A parte i circoli dei nobili e i casini dei civili, si capisce. Questa è storia, non sociologia, Maestà. Umberto I. È vero, lo riconosco, fu un momento difficile. E in tali momenti non sempre i comportamenti di chi governa sono quelli giusti. Poi, però, nel 1895 concessi la clemenza a tutti i condannati, 104 con una amnistia a tutti i condannati dai tribunali di guerra per i fatti del ’93-’94. Francisco. Sì, però i Fasci del lavoratori non si dovevano più ricostituire. Non si attua così la pacificazione nazionale. Maestà, voi ancora fate finta di ignorare che il sistema economico in Sicilia, basato essenzialmente sui gabelloti, era sbagliato. Questi gabelloti bastardi avevano strozzato la mia famiglia e migliaia di famiglie come la mia. Mafiosi, non gabelloti, perché facevano parte della mafia e solo loro si prendevano in gabella le terre dei nobili, che andavano a sguazzarsi i coglioni a Palermo. Gabelloti coi loro soprastanti, loro uomini di fiducia, e i campieri, che erano la polizia privata del feudo. Questi bastardi di gabelloti, che strozzavano i contadini subaffittando le terre avute in gabella ad un prezzo molto superiore alla gabella che dovevano pagare ai proprietari. Uno di questi viddani era diventato mio nonno, che prima era al servizio di un nobilotto filoborbonico e poi non ne aveva approfittato ed era diventato povero. Loro, questi gabelloti, coi loro soprastanti e campieri, assoggettavano i viddani bisognosi con la violenza per non fare aumentare gli affitti delle terre, e si arricchirono così e si comprarono poi le terre dei nobili. Degli exfeudatari. E vincevano anche le aste dei beni ecclesiastici, impedendo la redistribuzione delle terre. E diventavano galantuomini, con diritto di voto, se non avevano il titolo nobiliare di barone. Umberto I. E bravo o guaglione! Il riformatore sociale che sa tutto. Francisco. Questa era la Sicilia di allora: c’erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti, i cosiddetti borghesi, i coloni e i braccianti agricoli. Mio nonno Francisco era un borghese, un piccolo proprietario terriero con qualche ettaro di terra che per le eccessive tasse ricorreva agli usurai e perciò prendeva in mezzadria altri terreni e così dipendeva dall’economia del latifondo. Insomma, era uno terrorizzato di diventare colono, se non bracciante che non possedeva nulla, che sperava la mattina di essere ingaggiato da un campiere per un tozzo di pane, e di finire una volta e per sempre nella merda. Questa era la Sicilia di allora, Maestà, e, cambiando nomi e mestieri, la Sicilia di adesso. Era un sistema che non andava. Anche le fabbriche siciliane se l’erano mangiate le fabbriche del Nord, e le miniere, anche nelle miniere di zolfo i carusi e i picconieri erano 105 sfruttati dai gabelloti delle miniere. Per questo, Francisco Bardana e mio padre Filippo volevano uccidervi. Umberto I. Basta! Che cazzo vuoi fare, dare una lezione di economia e di politica a un re? Figliolo, la Sicilia di allora sembrava un continente lontano. Non la capiva nessuno, e nemmeno i re. L’Italia intera ha delle colpe sul sottosviluppo del Sud. E purtroppo questo sottosviluppo ha generato la mafia. Francisco. Vi sbagliate, Maestà: è la mafia che genera sottosviluppo, dai campieri e gabelloti di allora ai mafiosi di oggi, perché sfrutta tutte le risorse e le potenzialità del territorio a proprio vantaggio impedendo che esse si traducano in sviluppo e progresso sociale ed economico. Sono stati sprovveduti mio padre e mio nonno: non dovevano farsi beccare. Dovevano uccidervi loro. Se vi avessero ucciso due viddani del Sud, il destino della Sicilia, del Meridione e forse dell’intera Italia sarebbe stati diverso. Perché questa Italia, così come è adesso, è stata un fallimento. Umberto I. E daje, sempre la stessa lagna. Sì, errori ne sono stati commessi, anche grandi, ma l’Italia andava fatta e la storia non poteva fermarsi. Oggi l’Italia è una nazione guida, faro di civiltà nel mondo. Francisco. Questa Italia non andava fatta. I Savoia non meritavano l’Italia. La Sicilia vi ha fatti diventare re. Vittorio Emanuele II, vostro padre, che cazzo ha fatto? Ha invaso e depredato un libero Stato florido e ricco violando ogni diritto internazionale e approfittando del favore della storia. Avete conquistato il Sud solo perché lo volevano la Francia e l’Inghilterra e grazie ai finanziamenti della stessa Inghilterra e delle logge massoniche, grazie alla mafia e agli ufficiali borbonici corrotti, e Francesco I Borbone era un isolato. È stata un’operazione militare di colonizzazione. I moti insurrezionali furono provocati da agenti inviati da voi Savoia, e i plebisciti furono fatti in modo illegale. Umberto I. Ehi, pischello! Ancora le solite chiacchiere revisionistiche. Le ho sentite anche da tuo nonno. Mio padre fu definito Re galantuomo per avere difeso le libertà costituzionali e per i suoi sentimenti patriottici. Vittorio Emanuele II è stato un titano del Risorgimento, ha creato l’Italia. Dopo l’annessione del Veneto ha fatto diventare Roma capitale concludendo la gloriosa pagina del Risorgimento, anche se mancavano le terre irredente di Trento e 106 Trieste. Mio padre ha dovuto affrontare i problemi dell’analfabetismo, del brigantaggio, del diritto di voto, dell’industrializzazione, della questione romana, con un papa che era una spina nel fianco del giovane Stato. Non mi fare ripercorrere tutte le gloriose tappe del processo di unificazione che lui ha guidato, nonostante i calcoli troppo sottili di Cavour, una testa calda come Garibaldi e uno sconsiderato rivoluzionario come Mazzini. C’erano problemi immensi dopo l’Unità, era molto alta la mortalità infantile, l’ottanta per cento circa della popolazione era analfabeta, l’igiene precaria e la malnutrizione causavano frequenti epidemie di colera, diffuse erano la malaria e la pellagra. Francisco. Oh, sicuro! Mischino! E per risolvere tutti questi problemi che cosa ha fatto? Come ha governato l’Italia? Facendo una politica contro il Sud. Per risolvere questi problemi, Vittorio Emanuele II pensò bene di mettere una tassa sul macinato e favorire l’emigrazione.Tutto è cominciato con il tradimento di Garibaldi. Il Risorgimento italiano è stato una rivoluzione mancata perché la partecipazione delle masse popolari è stata limitata e non ha risolto la questione contadina. Il Sud non è stato capito dal Nord, veniva considerato “arabo”, “africano”. I giovani del Nord non hanno coinvolto i contadini del Sud. Garibaldi non mantenne le promesse, tra queste quelle di abolire la tassa sul macinato e del dazio di entrata dei cereali, gli affitti e i canoni per le terre demaniali, e di volere procedere alla riforma del latifondo. Naturalmente, fu per questo motivi che i contadini invasero i demani comunali e i feudi dei baroni e dei latifondisti, e bruciarono gli archivi comunali dove erano custoditi i titoli del loro servaggio. E furono anche uccisi nobili e benestanti. Umberto I. Uhè, Francì. Ora mi sono stancato di tutta questa politica. I problemi allora erano così complessi che dopo quasi due secoli e migliaia di libri ancora nessuno li capisce. C’era da riorganizzare l’esercito, la marina, le leggi in tutto il territorio nazionale. Sotto il regno di mio padre, l’istruzione vide una importante riforma, con la legge Coppino fu resa obbligatoria e gratuita fino ai nove anni di età l’istruzione elementare. E fu anche efficace l’istituzione del sistema prefettizio. 107 Francisco. Maestà, lasciamo perdere, va. L’economia basata sul libero scambio, favorita dalla Destra, ha strozzato l’industria italiana, soprattutto quella meridionale, perché il capitalismo europeo era più forte, e anche l’estensione della legislazione piemontese, così come la coscrizione obbligatoria, su tutta la Penisola non è stata un bene. L’eccessivo fiscalismo, attraverso imposte dirette e indirette, ha ancora di più prosciugato e impoverito il Sud. Poi, voi e vostro figlio Vittorio Emanuele III avete portato a compimento la totale devastazione dello Stato liberale. Umberto I. Ahò, ora maggio rotto o cazzo, guagliò. Sotto Vittorio Emanuele III fu introdotto il suffragio universale maschile, furono approvate importanti riforme sociali. Lui era un democratico sincero ma fu costretto a dare spazio al fascismo dai tempi turbolenti. Portò a compimento l’epopea risorgimentale, il destino storico dell’Italia. Con Trento e Trieste. Si stava riavvicinando alla Francia, certo perché gli diede via libera per la conquista della Libia, e alla Russia, per via del matrimonio con la principessa Elena del Montenegro. Nei primi anni del suo regno lo chiamavano in molti paesi del mondo per ristabilire la pace e per arbitrati internazionali. Francisco. Mischino, infatti ha preso insegnamento quando si è imbattuto nel fascismo. Forse non poteva, era tarato di testa, era figlio di cugini primi. La rovina dei Savoia: i matrimoni tra consanguinei. Per questo sposò la principessa Elena, per dare nuovo sangue alla dinastia. Umberto I. Non fare il gradasso, buffone. Tu di chi cazzo sei figlio? Da qualche pirata berbero? Turco? Te lo ripeto: era, doveva essere, un buon re, ma si imbatté nel fascismo. E nel nazismo. Lui voleva la pace sociale, lo chiamavano infatti il Re socialista. Voleva migliorare le condizioni dei lavoratori, dal punto di vista intellettuale, morale, economico, assicurando l’istruzione completa a tutti i cittadini, maggiore equilibrio fra le classi. Approvò leggi sugli gl’infortuni sul lavoro e sull’obbligo del riposo settimanale, leggi che tutelavano gli emigranti, il lavoro delle donne e dei bambini, leggi a favore della maternità e della disoccupazione, approvò provvedimenti contro la malaria, istituì l’Ufficio del lavoro, l’edilizia popolare. 108 Francisco. Infatti, era così democratico che anche lui subì un attentato, dall’anarchico Antonio D’Alba, nel 1912. Ma questa volta i Bardana non c’entrano. Umberto I. Gli anarchici allora avevano la fissa di ammazzare i Savoia e basta. La verità è che mio figlio, più di Giolitti e di Mussolini, era per uno Stato laico e per la separazione fra Stato e Chiesa. I Patti Lateranensi furono un’invenzione di Mussolini, che si servì di essi per avere prestigio internazionale. La Legge delle guarentigie, anche a mio parere, era già sufficiente per regolare i rapporti tra Stato Italiano e Chiesa, questo la storia deve saperlo. Francisco. Le leggi, il popolo. Però era un imperialista… Umberto I. No, la conquista della Libia la chiedevano tutti, Francia, Russia, Inghilterra, per dare più equilibrio al Mediterraneo. Francisco. E anche le industrie italiane. Forse anche l’Impero Ottomano si tolse un peso, se con la pace di Losanna del 1912 gli vennero riconosciuti enormi compensi. La Libia fu una conquista inutile, come inutile fu la Prima guerra mondiale. Umberto I. La prima guerra mondiale era necessaria, si doveva completare il processo risorgimentale, e il Patto di Londra e l’ingresso in guerra a favore dell’Intesa - Francia, Gran Bretagna, Russia furono il naturale approdo della sua politica di riavvicinamento a queste nazioni. Francisco. Maestà, lo ripeto, visto quello che ha ottenuto dopo la guerra il Paese, sarebbe stato meglio non intervenire o accettare le concessioni territoriali dell’Austria-Ungheria. Umberto I. Lui sentiva questa guerra. Lo chiamarono infatti Re soldato. Francisco. Veramente lo chiamarono anche Re Peschiera, Re della Vittoria, Re Borghese, Sciaboletta, Re Tappo, Re bloccardo. Curtatone. Insomma, ebbe tante personalità… Umberto I. Facile fare ironie su Vittorio Emanuele III. Ti sei guardato allo specchio, arabo? Lui ogni mattina partiva in automobile per il fronte o per visitare le retrovie, con gli aiutanti da campo. Veniva informato sempre, ogni sera, sulla situazione militare da un un ufficiale di Stato Maggiore ed esprimeva i suoi pareri, senza scavalcare i compiti del Comando Supremo. 109 Francisco. E poi irruppe nella storia Mussolini. Maestà, siete certo che vostro figlio non ebbe colpe sulla presa del potere del fascismo? Umberto I. Sottovalutò il fascismo. Come quasi tutti. L’Italia in quel tempo era il caos, il bordello. Questa è storia. Il Re era consapevole della debolezza del governo Facta, il Duca d’Aosta e l’entourage monarchico erano filofascisti, i vertici militari incerti e deboli, c’era paura della guerra civile. Ma dobbiamo parlare del fascismo, adesso? Francisco. Sì, Maestà. Il fascismo. La vostra rovina. Il fascismo. L’occupazione del potere. La Monarchia si è compromessa col fascismo. Senza il compromesso con la Monarchia, il fascismo non sarebbe mai arrivato al potere. Umberto I. Molti ci hanno creduto al fascismo, allora. Giolitti, Croce, De Gasperi, Gronchi… Francisco. Ma tutti ci ripensarono, ben presto. Certo, l’opposizione era debole, anche se aveva la maggioranza dei deputati in Parlamento, le masse erano estranee alla democrazia, però… Le elezioni irregolari del 1924, l’assassinio di Matteotti, l’ignavia connivenza del Re, secondo le parole di Nitti, le testimonianze degli stessi squadristi contro Mussolini, la trasformazione dello Stato in senso autoritario e totalitario, la chiusura di circoli politici d’opposizione, l’arresto degli oppositori, le leggi fascistissime del 1925, lo scioglimento di tutti partiti politici, la censura sulla stampa, la modifica dello Statuto Albertino, l’istituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato e della polizia politica segreta, l’O.V.R.A., il confino di polizia per gli oppositori politici, la conquista - contro la storia - coloniale dell’Etiopia, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler e il nazismo, la guerra civile, la distruzione del Paese, la perdita delle colonie: Maestà, i Savoia non c’entrano niente con tutto questo? Umberto I. Bischero, i problemi erano così grandi che i Savoia non potevano non entrarci. Mio figlio era di formazione liberale e si oppose vigorosamente a queste disposizioni che ledevano i principi di non discriminazione sanciti dallo Statuto Albertino. Credeva che la svolta autoritaria fosse di breve durata. Temeva Mussolini. Mussolini avrebbe colto il momento opportuno per liquidare anche la Corona e instaurare un regime repubblicano, il Diario di Ciano è inequivocabile… Il Re era contro i tedeschi e Hitler, che del resto 110 voleva che Mussolini si sbarazzasse della Monarchia, ma la Monarchia aveva un ampio sostegno popolare, era forte, solo i brogli di un referendum poterono cancellarla dalla storia. Il Re era ostile alla retorica fascista, a tutte quelle buffonate, il saluto fascista, il voi… Francisco. Il Re era ostile a tutto, ma approvò tutto… vidi chi minchiati. Umberto I. Il Re non voleva entrare in guerra, odiava i nazisti, era filo-britannico, cercò di rovesciare Mussolini. Voleva solo la legalità formale, un voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo, cosa che desiderava del resto lo stesso Mussolini, che era stanco, e intendeva consegnarsi agli inglesi. Tutto aveva nella testa Mussolini, tranne quello di creare la Repubblica Sociale di Salò per Hitler. Il governo Badoglio era nell’aria da tre anni. L’armistizio si doveva fare subito, non si dovevano fare entrare i tedeschi in Italia. Ma molto rimane oscuro di quei mesi turbolenti. Francisco. Il voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo lo ottenne, ma tre anni dopo, a guerra perduta. Poi la vergognosa fuga da Roma. E lo sbando dell’esercito. E il 13 ottobre, dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, il vergognoso status di nazione cobelligerante. Alla nazione si poteva risparmiare quest’altra umiliazione. Umberto I. Non è così, guapo. Il Re lascia Roma per garantire la continuità formale dello Stato, e per gli Alleati la validità formale dell’armistizio, e questo evitava un duro regime di occupazione. Francisco. Forse sarebbe stato meglio per la Monarchia e per l’Italia che Vittorio Emanuele III abdicasse prima del 1946. Umberto I. Lo credo anch’io, anche se questo non avrebbe salvato la Monarchia. Morì in una umile casetta della campagna egiziana, ebbe funerali di Stato dal re d’Egitto Faruq, riposa nella Cattedrale di Alessandria d’Egitto. Donò alla Stato italiano una imponente collezione numismatica, la più bella del mondo. Francisco. Ma donò ai Savoia la Repubblica e all’Italia l’onta del fascismo. Umberto I. Ebbe però il coraggio di sbarazzarsi del fascismo e di fare arrestare il Duce. E così, con l’armistizio, di salvare l’Italia e Roma dalla distruzione. Nonostante venti anni di fascismo, aveva ancora il controllo della situazione. 111 Francisco. Forse il il migliore dei Savoia sarebbe stato Umberto II, sarebbe stato un ottimo re. Mi è stato sempre simpatico. Non lo avrei mai ucciso uno come lui. Nonostante i sospetti realistici di brogli elettorali, accettò da galantuomo il risultato del referendum. Umberto I. Molte cose furono illegali in quel referendum, l’Italia era ancora monarchica, ma ormai la storia aveva deciso. Peccato. Francisco. Se anche avesse vinto, la Monarchia ormai era finita. Lo disse anche Umberto II. La Repubblica si può reggere col 51 per cento, la Monarchia no. La Monarchia non è un partito. È un istituto mistico, irrazionale, capace di suscitare negli uomini incredibile volontà di sacrificio. Deve essere un simbolo caro o non è nulla. Umberto I. È così. A testa ti camina ogni tanto, guagliò. La Monarchia non doveva essere sottoposta a referendum. Bisognava dare l’ultima opportunità alla Monarchia. In fondo, avevano unito l’Italia, i Savoia. E Umberto II sarebbe stato un grande re, avrebbe riscattato i Savoia. Umberto II, detto il Re di Maggio, anche se di carattere introverso e riservato, perché cresciuto sotto un padre autoritario e una madre eccessivamente affettuosa, aveva dignità, modi garbati, signorilità. Credente, elegante nel portamento, contrariamente a mio figlio che era arido, riservato, diffidente, un complessato per l’inferiorità fisica, Umberto II era un uomo intelligente e colto, disprezzava Hitler e il nazismo, disprezzava il fascismo, come la moglie. Messo in disparte dal fascismo e tenuto sotto controllo dall’O.V.R.A. che alimentava calunnie sulla sua persona, ora per le innumerevoli avventure con donne di ogni ceto sociale, ora per comportamenti da omosessuale, egli sarebbe stato un re moderno, garante della Costituzione, perché avrebbe fatto tesoro degli errori commessi dalla Monarchia. Pensava di poter tornare per dare il suo contributo all’opera di ricostruzione e di pacificazione nazionale. Morì solo, assistito da una infermiera e gridando “Italia”, “Italia”. 112 Capitolo XIII Lettera anonima al prefetto Lettera anonima inviata al prefetto di Gandara, che rimase anonima solo un giorno, perché una spia della Prefettura la fece avere a Filippo Bardana il vecchio e che il puro sogno di Filippo Bardana l’inventore si trovò davanti nella mente di Francisco prima di parlare col sogno del ricordo di costui. Signor Prifetto, io non sugno fascista, manzannò l’avissi mannata al Federali di Gandara questa littra. Anzi, io littre anonimi non ni manno, ma sugno costritto dalla vita e dal tempo. Io sugno uno ca ha lavorato ni li propiità della famiglia Barresi, prima al servizio del papà dell’ingegneri, Filippo Barresi detto Pezzanculu, perché era un umili contadino che si ha fatto da se, ed è divinuto ricco di propiità ma sempri cortesi e gentili e di bono animo, non scurdannosi le sui origini operaie e contadini. Filippo Barresi ha faticato comu un mulo per tutta la vita e insignato boni virtù ai figli e li ha studiati li figli, Mariannina che è divinnuta maestra e Giosuè che è divintato ingegneri rispittato, ca ha stato costretto a pigliarisi la tessera fascista per lavorari e fari il proprio mestieri, ed è stato puro portato dal cognato Sovrintendente in Libia. Questa educazioni della famiglia ha stata afforzata poi da donna Assunta, donna santa e pia, moglieri dell’ingegneri. Signor Prifetto, questa famiglia Barresi ha avuto tanti offesi da li fascisti, anchi si ora ca ci siti Voi e il Potestà e ca l’ingegneri ha pigliato la tessere fascista, lui e più rispittato. La vita ca io o passato e ca haio stato in questa famiglia mi ha fatto capiri tanti cosi. E la prima è ca questi fascisti sunno dei bastardi compreso il loro capo Binito Musolino, ca è uno ca va all’avventura e ca pir chista avventura ci havi a portari alla catastrofi con chisto altro esartato di Hitlèr, como sento diri al circolo e alla radio. 113 Questi fascisti erano cosi inutili, figli di morti di fami, di viddani e di scassapagliara, ca vittiru passari stu trenu e ci acchianaro. Potivano addivintari sogialisti o libirali si chisti se ne ivano all’avventura. Però a verità è ca anno visto i patruna ca iero cu Mussolino e si iero iddi appresso. Pirché da suli non sunno capaci manco di cacari, sgusassi, signor Prifetto. Ma ora andiamo al dunqui, e parliamo del motivo ca vi ho scritto questa littra. C’è il figlio dell’ingegneri Barresi, Filippo, giovani abbocato intraprindenti, ca si misi in testa di volire prisintari una commedia di Mussolino, L’amanti del Cardinali, mi pari ca si chiama accossì, sempri ca e vero che la scritta Mussolino, si vide ca tanno non aviva na minchia di fari. Questo scapigliato di picciotto Filippo, si è innamorato di Giulia, la figlia del Podestà, ca voli fari l’attrici, e la voli accuntintari. Pari ca Sua Eccillenza il Potestà Carmazzo è d’accordo, e questa cosa seconno mia è una cosa sbagliata. Pirchè, vidisse Signor Prifetto, Almeda è un paisi particolari, ca pari tutto carmo e ammeci un ci voli nenti a sbampari. Pirchè mi pari ca parla chista commedia di un Cardinali ca avia un’amanti, perciò è una cosa contro la chiesa, e si è una cosa contro la chiesa non può portare che guai. Questo Mussolino, volenti o no, o per i suoi porci commodi, ha fatto paci con la chiesa tanto ca si po’ diri ca ora sunno cazzo e culo. E noi ora gli voliamo rompiri i coglioni, alla chiesa. E se si incuietano i parrini, penso ca chisto non piacirà allo stisso Mussolino, ca non voli aviri minchii coi parrini. Io penzo ca chisto e un poviro paisi senza senzo ca avi a ristari fora da storia, e chista commedia di parrini e di amanti forse eni troppo piricolosa, non sulo pi chisto paisi. La storia nun si fa ni li campagni e ni li paisi, ma ni li città e ni li capitali. A storia di chisto paisi devi filari diritta, ca ci sunno omini chiu importanti ca anno a fari la vera storia. Signor Prifetto, secunno mia è meglio ca ci tira l’orecchi puro al Potestà, ca, como si dici, si sta calanno li causi pi fari cuntenta alla figlia Giulia, senza pinzari a quello ca po’ succederi ni sto paisi. 114 Vero è puro ca tutti si stanno accrozzanno pi chista commedia ca portirà tutti alla ruvina. Facissi quarchi cosa Vostra Eccillenza, nun sulo pirchì ponno succediri cosi torti, ma puro pirchì po’ alla fini fanno cacari, scusassi, tutti i cosi o pisci grosso, e u pisci grosso ni chista pruvincia è Vossia. Ossegui Mi l’avia scordato. Vidisse, Signor prifetto, ca il Barresi è cazzo e culo con Filippo Bardana, ca è il vero capo dei sogialisti di chisto paisi. È uno ca, sgussassi Eccillenza, i cugliuna ci stricano in terra, e non si scanta di nuddu, anchi si a avuto tanti torti di fascisti. Il Potestà lo rispetta, pirchè è persona vera, un omo, comu dicemmo noi qua. Basta ca non comina minchiati. E forsi anchi voi lo canusciti, ca è canosciuto lui in provincia. Se succedi quarchi cosa al Barresi lui non sta a minarsela a casa, sgusati ancora Eccillenza. E Filippo Bardana, Eccillenza, forsi Vossia lo sapi, è la sola pirsona in questo cacatoio ca non ha preso la tessera fascista. E chisto è tutto. 115 Capitolo XIV Il sogno del bordello Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del ricordo di Francisco che contattò il sogno di suo padre Filippo il vecchio e si fece raccontare la serata che egli passò col Podestà di Almeda e con altre persone discutendo di bordelli e di altre cose non amene al tempo del Fascio. - Oh, il bordello! – tuonò il dannunziano Giuseppe Catanese detto Vuccazza - È la nostra prima radice il bordello! Roma era un bordello, l’Impero era un bordello! E Messalina, l’augusta meretrice, la moglie dell’imperatore Claudio, la più grande delle puttane! Quando Claudio si addormentava, il balbuziente, il claudicante, l’epilettico, il flatulente Claudio, dice il poeta Giovenale, la troia, accompagnata da una ancella, abbandonava il talamo imperiale per un’umile stuoia di lupanare (minchia che assonanza, Vuccà!). Qui, nascondendo i capelli scuri sotto una parrucca bionda, varcava la soglia di un postribolo tenuto caldo da un tendone malandato, dove, in una cella a lei riservata, col falso nome di Licisca, si prostituiva nuda, coi capezzoli dorati, offrendo il ventre che, un tempo, il generoso Britannico aveva portato. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il prezzo stabilito, e giacendo supina godeva dell’assalto d’ognuno. Poi, quando il magnaccia mandava via le sue puttane, lei usciva a malincuore, con la sola concessione di poter chiudere per ultima la cella, il sesso ancora in fiamme e desideroso di voglie. Sfiancata dagli uomini, ma non sazia ancora, se ne tornava a casa: il viso ammaccato di lividi, impregnata del fumo di lucerna, portava il lezzo del bordello sin nel letto imperiale. - Li me cojoni, che troia! – esclamò il segretario comunale Ettore Ceccarelli detto er Fregnetto, romano de Roma, da dieci anni ad Almeda perché sposato con una del posto. (Bona accumincià a sirata, pensò Filippo Bardana il vecchio. Troie, cazzi, puttane, bordelli e cugliuna). 116 - Io lo di’o da sempre che voi siete un grande poeta, ‘azzo! – disse il podestà Roberto Carmazzi, detto Cacafino, o pure impropriamente U checcu, il balbuziente, per il suo tosco eloquio Meritereste migliori fortune! - Oh, l’estrema libidine della prostituta imperiale! – proseguì ispirato il Vuccazza - Completamente depilata, i capezzoli dorati, gli occhi truccati con antimonio e nerofumo, si offriva a marinai e gladiatori in uno squallido bordello, anche se pure Claudio era un adultero e prediligeva l’alcova al talamo nuziale. Oh, vita torbida di augusta meretrice! Consumava la notte nei postriboli della Suburra, lo confermò anche Plinio il Vecchio, col nome d’arte di Licisca la donna-cagna, sfidò la più famosa puttana dell’epoca e vinse, con 25 rapporti in un solo giorno. - Minchia! – disse ancora er Fregnetto. E la minchia in bocca a lui aveva un che di epico. - A faccia do cazzo! – si liberò il napoletano Vincenzo Cacace detto o’ Guallara, ufficiale dello Stato civile di Almeda. (Ma chisti chi mangiano sempri cazzi!, pensò ancora il Bardana). - Che storia squallida! – continuava a declamare il Vuccazza, ormai in gloria, lisciandosi il pizzetto, gli occhi fissi sul camino acceso che crepitava - Ebbe relazioni incestuose coi fratelli, si fece dare dal marito i migliori pretoriani, fece orge con decine di attori e di amanti, consoli e governatori, si fece mezza Roma. Schiava di amplessi bestiali, col vizio sfrenato cercò di riempire una vita vuota e insoddisfatta, priva di amore. Imperatrice ragazzina, impubere ma già depravata, padrona del cuore dell’imperatore del mondo, l’immorale sgualdrina, l’assassina dissoluta e corrotta, meretrice dagli appetiti sessuali bestiali e insaziabili, malata, perseguitò, esiliò e uccise avversari, amanti e parenti, leggera e disinvolta anche in tempi così degenerati e corrotti. Poi si innamorò, e Gaio Silio patrizio intelligente e bellissimo fu ricolmo di doni imperiali e di meravigliosi giardini carpiti col sangue e con capricci regali per coronare il suo sogno d’amore. Voleva uccidere Claudio per governare da imperatrice col suo amante nella villa sul Pincio. Uccise tutti i rivali di suo figlio Britannico affinché questi diventasse imperatore; alla fine pagò non solamente con la vita tutti gli intrighi e gli assassinii commessi, e su di lei gravò la damnatio memoriae. 117 - Che bagascia! – disse finalmente la sua il suocero del Fregnetto, Sasà Canta detto Manuzza, per una menomazione alla mano destra. - ‘azzo che poesia, Vuccazza! – disse invece il podestà. E aggiunse un po’ di legna al camino. - Il bordello è quello che si addice all’Italia – proseguì più prosaico il Vuccazza - Da secoli, da millenni l’Italia è sempre stata un bordello: guerre civili, malgoverno, sfruttamento, anarchia, corruzione. Lo diceva anche Padre Dante: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Potremmo parlare di tutte le puttane della storia d’Italia, da quelle raccontate da Boccaccio nel suo Decameron alla cugina di Cavour, la Contessa di Castiglione, che per la Patria immolò la sua purezza e aprì le cosce a Napoleone III (Minchia chi curtura ca avi, pensò Manuzza. A sta funcia di minchia chi curtura, pensò pure il Bardana). - Purezza i miei cojoni! – sbottò er Fregnetto – Ho letto da quarche parte che la chiamavano la “fregna d’oro”, pardon, la “vulva d’oro”, quanno se scopava er francese. Ar marito, poveraccio, che l’adorava, fece le corna sempre ed ebbe addirittura quarantatré amanti (Minchia, ma comu li sannu tutti sti cosi?, pensava sempre il Manuzza. E parivanu ignoranti, pensò pure il Bardana). - Certo, – chiuse la risorgimentale parentesi il podestà – dopo l’armistizio di Villafranca nel 1859, la sua stella presso Napoleone III si oscurò, ma ormai l’Italia era fatta. - Anche in questo paese, me pare, – disse er Fregnetto guardando Filippo Bardana il vecchio, come a volere una conferma da un uomo che non poteva non sapere tutto del suo paese – c’è na “fregna d’oro”, anzi d’acciaio, visto che s’è scopata tutti li gerarchi de Sicilia. È una gran bella puttana raffinata, de grido. Che fa felice er Fascio e fa felice pure er marito guardone. - Chi merda, però, stu barone Nasca ca si fa futtiri a muglieri mentri iddu talìa! – disse il Manuzza sconsolato. - Già – confermò il genero – Er guardone che se fa scopà la moje dai fascisti. Vuoi vedere che ad agosto quando verrà qui er Duce de l’Impero… 118 - Oh, delirio! – intervenne dall’abisso dei suoi sogni il Vuccazza – Delirio orgasmatico d’avere nella fregna l’obelisco immortale poderoso potente del fascismo! - Oh, ‘azzo! – intervenne il Carmazzi – Non mischiamo sa’ro e profano. Non abbassiamoci al meschino pettegolezzo, ‘azzo. L’epo’a eroi’a del fascismo è superiore alle debolezze dell’uomo, il fascismo deve tirare dritto verso la meta gloriosa del destino della stirpe…. (Minchia, u podestà mancu cugliunia – pensò il Bardana guardando fisso il camino scoppiettante - Accussì però si fa sbintari). - Comunque io dico solo questo: - continuava per i cazzi suoi il Vuccazza, ormai spiritato - il bordello è l’unica istituzione che si confà allo spirito italiano. Quella dove l’italiano medio celebra la propria mascolinità, il proprio spirito vitale. Il bordello in Italia è come la fede cattolica, la patria, la famiglia (chistu si voli fari arrestari, pensava sempre Manuzza). - Adesso non fate il bischero, Vuccazza – disse il podestà Abbiamo ‘apito il bordello. Ma il bordello non è una ‘osa buona. Da quindici anni, da quando il Duce ha riportato l’ordine, si vive un po’ meglio, via. Si’uramente qual’osina da aggiustare c’è sempre: ma ‘ol bordello non si vive bene. (Giustu, pensò il Bardana. Però, ahi serva Italia!). - L’Italia vivrà almeno mille anni di pace. Il fascismo è l’espressione più pulita dell’anima italiana – sigillò il poeta – Il fascismo è il bordello organizzato. Come una casa chiusa. - Però, Eccillenza. – intervenne teso il Manuzza – Non è manco giusto, con rispetto parlando di bordelli, che qua, in questo paisi, ci sono tanti casini aperti. Ni bastassi sulo uno. (Veramenti, pensò il Bardana, tuttu u paisi è un unicu burdellu). - Mio suocero forse ha ragione, Eccellenza – disse er Fregnetto – Forse il bordello fa parte della natura degli italiani. Ma qui se sta a esagerà. - Le licenze per le ‘ase ‘hiuse sono ‘oncesse se’ondo la legge – disse il podestà – E poi, immaginate lo squallore delle prostitute nelle strade, senza ‘ure mediche, senza assistenza, preda della sporcizia, delle malattie, del fango… 119 - Mo, invece, nell’Italia fascista, nell’Italia der Fondatore dell’Impero, er meretricio fa parte di un progetto – disse ancora er Fregnetto. - Oh, l’affascinante mondo del bordello! – riesplose il Vuccazza – I bordelli soddisfano i biechi istinti degli italiani, la brama, la concupiscenza? No! Il bordello è poesia. O la poesia del lupanare, Tacito, i postriboli della Suburra… - Ah professò, e che ‘azzo – disse alzando la voce il podestà Mi’a siamo al bordello qui! Non ri’ominciamo! Può darsi che la storia d’Italia sia stata sempre un ‘asino, però… L’Italia ha sempre provveduto a regolamentare il meretricio. (Meretricio! E chi è?, pensò Manuzza. Mi piace sta parola, pensò invece il Bardana. Anchi si avi sempri a chi fari cu i buttani). - Sì! Il meretricio di Stato! – intervenne o’ Guallara - Si sono fatte più leggi sulle puttane che sul Meridione! Hihihi! 1859: decreto di Cavour sui bordelli di Lombardia, passati sotto il controllo dello Stato! Mannaggia quante leggi si sono cumbinate pe purchiacchie! (Purchiacchie, meditò il Bardana. Chi nomu minchia pi diri sticchiu!). - Bisognava adeguare i postriboli sabaudi alle maisons napoleoniche, no? – disse il podestà - E nel 1860 nascono le ‘ase di tolleranza. Certo, però, quante leggi! Nel Novecento si dispone che le ‘osiddette ‘ase di perdizione abbiano muri alti dieci metri e le finestre ‘hiuse, e una regolamentazione rigida, anche sui prezzi e sulle tariffe, sulle tabelle. - E nascono i luoghi moderni dei congressi carnali – intervenne ancora l’aèdo del bordello, il Vuccazza - Dove però le signorine fondano una cultura, le sacerdotesse del sesso che intrattengono i clienti sulle copule, o sui massimi sistemi del mondo! Per ingannare l’attesa, il tedio del mondo! (Minchia chi paroli!, pensò il Bardana. Chistu è veramenti un poeta. Poeta dello sticchio). - Oh, le marchette! – disse er Fregnetto – Certo che il prezzo e il tempo di un amplesso hanno misurato l’evoluzione de la società e pure er camino der progresso. Una lira, due lire, cinque lire per la scopata semplice. Ministri come Urbano Rattazzi e Giovanni Nicotera che fissano per decreto durata e prezzo della scopata! (Oh, yes, pure la 120 rima!, pensò). Case di lusso, case popolari, sconti per soldati, sottufficiali, bordelli per professionisti, bordelli per militari, bordelli per operai, per l’esercito, per la truppa… Cazzo che fantasia! E che mercato! (Minchia, vero, chi fantasia pi futtiri, cogitò il Bardana). - Sconti do cazzo quanno nu criature guadagnava tre lire al giorno – obiettò o’ Guallara. - Oh, le puttane! Che nomi fantasiosi! La Siciliana, la Marchigiana, la Rossa, la Sticchiuta…- recitava Vuccazza. - Almeda! Almeda tutta è una puttana – si sentì coinvolto il Manuzza - Ci sono più puttane in questo paisi ca in tutto il mondo! Mi scusassi, Voscienza! (Ora u capisti, cugliuni?, pensò il Bardana). - Beh, insomma, non esageriamo – disse il podestà. - Pare che il più grande frequentatore di puttane sia don Peppino Griolo, Eccillenza! – continuò invasato il Manuzza - Si è mangiato 30 salme di terreno a puttane! Da quaranta anni, si ni fa due ogni sera, questo si dice, e nel migliore casino di Almeda. Vi ricordo, Eccillenza, che oggi una puttana di lusso nel casino della Zia Rosa costa sette lire l’ora. - Minchia! Ma lui fotte sempre all’ora? – domandò o’ Guallara. - Sì, perché dice che se ne fa quattro all’ora. E risparmia – rispose Manuzza. - Ma quanto ‘azzo costa una puttana qui? – disse curioso il podestà – Vedo che siete informato, ‘aro ‘anta. - Sissi, Voscienza – ma io non ci ho mai andato – Però, mi hanno detto al circolo Carrettieri, una marchetta alla buona costa una lira e dieci centesimi, doppietta due lire, mezzora quattro lire e cinquanta. Minuti venti tre lire e sessanta, se non ricordo male. Due ore dodici lire. Compresi acqua e asciugamani. Saponetta normale centesimi cinque, acqua di Colonia centesimi venticinque. E ci sono agevolazioni per i giovanotti di primo pelo. E naturalmente per militari e truppa. E la direzione della Zia Rosa è molto tollerante sul tempo che le signorine devono restare coi signori clienti. (No ca un cia iuto, bastardo!, l’immediato pensiero di Filippo Bardana). 121 - ‘azzo ‘come siete informato, ‘anta! – disse il podestà, interpretando il pensiero di tutti, non solo del Bardana – E meno male che non ci siete andato. Ora lo ‘apisco perché il Griolo ha mandato tutto a puttane! - Non offendete mio suocero – disse er Fregnetto – Che io so che vita fa, Eccellenza: un monaco! - È pure malato, il Griolo – continuò Manuzza - Si è preso quattro sifilidi! Però soffre di pri… insomma, ce l’ha sempre tiso! Mischino! - ‘azzo! – esclamò il podestà. - Però sono controllati i casini ad Almeda! – intervenne ancora nell’amena discussione o’ Guallara - Ci va ‘o medico che visita le guaglione, soprattutto quelle che arrivano della quindicina. Tutte le signorine hanno ‘o libretto sanitario. Non è così, Eccellenza? - Libretto sanitario un cazzo! – disse er Fregnetto - Però se deve dì che er casino della Zia Rosa è pulito. A parte sto odore schifoso de lisoformio. (Quante parole strammi!, rifletté il Bardana. E che minchia è sto lissoformo?). - Ed è anche molto riservata – disse ancora Manuzza - Se uno non si vuole fare conoscere, chiede il “libero” alla tenutaria e tutti al suo arrivo se ne vanno. (Pi chissu è, a Zia Rosa vero riservata è, meditava sempre il Bardana). - Sapessi quanti gerarchi lo hanno fatto! E quanti preti! – disse finalmente Vuccazza, come destandosi da un lungo sonno – E quanti poeti! - Ehi – disse il podestà – Lasciamo perdere i gerarchi. - Comunque, per me, per motivi di pulizia, – disse Manuzza - i casini devono restare aperti, Voscienza! No che c’è quarchi coglione che li vuole chiudere, come sento dire da quarcuno! (Che sono io, uno di questi coglioni, bastardo!, ancora la mente del Bardana). - Ma come cazzo li chiudono! – disse o’ Guallara - Dicono che ci sono in Italia mille bordelli con seimila posti letto e cinquemila puttane! Anche se non tutti pagano le tasse… 122 - Quante storie, quanti racconti, quante testimonianze! – esclamò sognante Vuccazza - Un’intera letteratura! Quanta umanità si è consumata nei bordelli! Pianti, ricordi, memorie… - Ma io, amici, - lo interruppe il podestà, che intendeva chiudere la riflessione sui bordelli - non vi ho chiamati qui per parlare solo di bordelli. Un evento inaspettato è entrato nel destino della mi famiglia. Per farla breve, mia figlia Giulia e il suo fidanzato Filippo, benedetti figlioli, vogliono rappresentare una ‘ommedia, L’amante del cardinale. Claudia Particella, scritta in gioventù dal ‘apo del Governo, Sua Eccellenza Benito Mussolini, che forse, se avesse avuto meno impegni politici, sarebbe potuto diventare anche un grande scrittore… (Fussi stato meglio, pensò il Bardana guardando sorridente il podestà) Veramente, ancora deve diventare una ‘ommedia, perché mi’a è facile fare diventare ‘ommedia un grande romanzo, anche se giovanile, di sua Eccellenza Benito Mussolini… - Non conoscevamo questo spirito di artista di vostra figlia, Eccillenza – disse Manuzza. - Mah, che volete ‘aro ‘anta – disse il podestà – È un periodo, questo, in cui i giovani devono scoprire ancora se stessi, e perciò le provano tutte. Lei dovrebbe interpretare la parte dell’amante del ‘ardinale. Filippo, no, non partecipa, lui organizza, vuole organizzare l’evento. Sì, insomma, la rappresentazione della ‘ommedia. Volevo chiedervi ‘osa ne pensate. Se si può fare. Se crea dei problemi. - Certo che il figlio di Giosuè Barresi, detto u Principino… stava cominciando il Vuccazza. - Ah Vuccà, non c’è bisogno sempre di ricordarmi questa ’azzata del soprannome… - disse il podestà. - Eccellenza, mi’a volevo offenderlo… Volevo solo dire che il vostro futuro genero è un giovane avvo’ato intraprendente… (E chi minchia parla toscano puru iddu ora?, pensò correttamente il Bardana. Il Vuccazza, comunque, conosceva tutti i dialetti d’Italia). - Il figlio di Giosuè Barresi, stimato ingegnere di Almeda, è tale e quale il padre (spero, ‘azzo, però che non prenda la tessera fascista ‘ome il padre per potere lavorare, pensò). (Se non era pel cognato Sovrintendente, che gli ha fatto prendere la tessera fascista e se l’è portato in Libia, i miei cojoni che Giosuè Barresi inteso Pezzanculu lavorava, pensò er Fregnetto). 123 - Ma di che parla sta commedia? – domandò o’Guallara – Anzi, sto capolavoro che si deve trasformare in commedia? (Già, di chi parla, pensò il Bardana, che io tutta ssa minchia di pinzeri avia, quannu ma detti u podestà, di leggiri u libru di Musulinu). - Ve lo dico io di che parla, ignoranti – disse Vuccazza – È una storia di sesso e di veleni, di amore torbido e di passionale. “Pur di possederla avrebbe venduto l’anima a Satana e preferito alla gratitudine dei cieli i roghi infernali per tutta l’eternità. La passione in cui l’odio e l’amore si alternavano aveva finito per irrigidire l’animo di questo prete. Egli si era pietrificato, fossilizzato nel suo desiderio. Ed ora che la virilità accennava al tramonto, fiamme ossessionanti di libidine gli torcevano le carni”. Oh che parole immortali! Che sublimi termini di passione! - Ahò! Sempre a recità sta sto poetucolo der cazzo! – s’incazzò er Fregnetto - Ma di che cazzo parla sta comedia? (Parlati, pensò il Bardana, ca puro io mi staiu rumpennu la minchia). - L’amante del Cardinale. Claudia Particella – disse preciso il podestà, concentrandosi sul fuoco del camino - è un romanzo eroti’o anticlericale ispirato ad una storia vera del Seicento. Su richiesta di Cesare Battisti, fu pubbli’ato sul giornale trentino Il Popolo in 57 puntate, dal 20 gennaio all’11 maggio 1910. Insomma, un romanzo d’appendice, nemmeno scritto male, amici, nel tempo in cui il Duce si professava socialista rivoluzionario (ma s’intendeva sempre di sticchi, pensò il Bardana) e sapeva scrivere vicende e ‘ose di sartine. Il protagonista è il ‘ardinale ‘arlo Emanuele Madruzzo, il Principe Vescovo di Trento, che ama la bella ‘ortigiana ‘laudia e la vorrebbe sposare perché è perdutamente innamorato, rinunciando alla gloria, al potere, alla ricchezza. Ma lui è un debole e soggiace al potere della femmina e dei papi, in perenne abdicazione della sua virilità in un tempo in cui la Chiesa non accetta il matrimonio e tollera l’impudi’o ‘oncubinato. (Minchia chi belli paroli pi diri na minchiata!, commentò nella sua mente il Bardana). - È un romanzo fantastoricopolitico, insomma, di un giovane mangiapreti anticlericale – disse er Fregnetto. 124 - ‘arlo Emanuele ama la bella ‘laudia Particella, - continuò il podestà - ma, nonostante i suoi servigi alla Chiesa, le missioni diplomatiche per il Papa e gli Asburgo, non riesce ad ottenere la dispensa per potere sposare ‘laudia. Il ‘ardinale, che si invaghì della giovane popolana quando ancora non aveva preso la porpora ‘ardinalizia, si in’ontrava con la sua amata attraverso un passaggio sotterraneo tra la villa Madruzzo e ‘asa Particella… - E poi ragazzi, – intervenne il Vuccazza - storie di morti e di assassinii e di tradimenti, di sangue, e di fantasmi, quello della bella Claudia - ma questa forse è una leggenda - che appaiono in castelli. Un feuilleton… - Minchia che bordello! – disse Manuzza – Oh, scusassi, Eccillenza. - A sto cazzo che capolavoro! – disse o’ Guallara - Lasciamo stare i giudizi estetici – disse il podestà – Che qui, tranne il nostro poeta, siamo tutti ignoranti. Io, amici, vi ho ‘onvocati qui per un parere: se’ondo voi, posso dare il permesso per sigillare l’amore di questi du’ figlioli senza avere ‘asini? Perché, prima di parlare ‘ol prefetto, voi che ‘onoscete un po’ l’Italia fascista e anche Almeda, siete i migliori giudici. Sempre che si trovi uno che sia ‘apace di trasformare il romanzo in ‘ommedia. - Secondo me qualche casino potrebbe averlo dai preti, Eccillenza – disse il Manuzza - Soprattutto dall’arciprete Ziccaminchia, che è puro mafioso! - Secondo me potrebbero rompere i coglioni pure i fascisti – disse er Fregnetto - Non perché capiscano queste cose, la letteratura, il feuilleton etcetera, ma per non avere chiacchiere coi preti. Con questo coglione del segretario del fascio di Almeda, poi! Come lo chiamano? Ah, sì il Trummittuni. - Stiamo attenti ragazzi, quello non è pericoloso – disse il podestà - È pericoloso l’altro, il federale di Gandara. Quello ce l’ha ‘on tutti, ‘on me, ‘ol prefetto, ce l’ha perfino ‘on Dio! (Secondo me, disse fra sé la sua il Bardana, a tutti non ci nni futti na minchia di sta cazzata). - Piuttosto, voi, don Filippo – disse ancora il podestà, osservando il volto meditabondo del Bardana - Siete stato in silenzio questa sera. Non avete aperto bocca. 125 - E chi siti addivintato mutanghero? – aggiunse il Manuzza. (Puro con quest’altro minchia è cummattiri, pensò il Bardana). - Eccillenza – disse dopo un momento di silenzio Filippo Bardana – Io mi intendo poco di puttane e di troie, e di bordelli. Che volete che vi dica. Ci avrei fatto la figura del dilettante. Se fosse per me, io li chiuderei tutti questi casini, bastano quelli che abbiamo a casa. E anche le puttane, ce ne sono di più nelle cosiddette buone famiglie che nei bordelli. Bastano e avanzano. E alle signorine disoccupate darei un nuovo lavoro e una nuova dignità. Ma certo so che mi avete chiamato per questa commedia. - Sì, ma che pensate di questa ‘osa? – disse il podestà – Si può rappresentare questa ‘ommedia, di’o, in questo paese? Non è che può provo’are bordelli o ‘asini vari? Voi ‘onoscete tutto di tutti in questo paese… - Eccellenza – rispose sorridendo il Bardana – E io che ne capisco di queste commedie? Io, poi, non è che amo molto il teatro. Con tutti i teatri che abbiamo oggi… E che può fare poi una commedia, Eccellenza? Qui la gente è di bocca buona, ama divertirsi, se fa ridere, poi… E se anche non fa ridere, chi farebbe casini contro una commedia del Duce? Se era per il mio parere, Eccellenza, potevate non prendervi il disturbo di saperlo, perché lo sapete che io ho sempre apprezzato il vostro buon governo, il vostro equilibrio… 126 Capitolo XV Mussolini Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del ricordo di Francisco, che narrò di quando Francisco e suo padre Filippo con due compari andarono per uccidere Mussolini, ma poi se ne pentirono, perché un Duce che scopa con una nobildonna puttana non vale una minchia. Era la sera, una bellissima sera, del quindici di agosto del 1937. Una sera chiara, serena, tranquilla. Dolce. Senza vento. Il paese era deserto. Tutti erano alla marina per la festa della Madonna del Mare. Non c’era nessuno nelle strade. Le radio, le poche radio di Almeda, inondavano con echi lontani le vie e le piazze di discorsi del Duce. Il Duce aveva visitato quel giorno Gandara, il capoluogo di provincia a pochi chilometri da Almeda. Radiose giornate di Mussolini nel cuore dell’Isola. Molti erano felici quel giorno, erano tornati da Gandara ed avevano visto il Duce dell’Impero che scendeva dal treno che veniva da Enna, bello come un dio, col vestito bianco e la camicia nera, e il berretto sulla testa. Il Duce, il costruttore dei tempi nuovi, aveva inaugurato alcune opere pubbliche, il Monumento ai Caduti, l’Ospedale Psichiatrico. E, come sempre, aveva avuto un grande successo di folla. Il Duce. La necessità storica dei destini della stirpe. La gloriosa Beretta 34 nera in una tasca della giacca era appena una insignificante increspatura dello spazio possente liscio di Filippo Bardana. Sette cartucce per rivoluzionare il tempo. Incuranti di quelle radiose giornate di Sicilia, Filippo Bardana il vecchio e suo figlio Francisco, quella sera, dopo aver cenato con un chilo di baccalà fritto con le olive nere e due litri di vino, si avviarono per dare un destino alla loro storia personale e alla storia d’Italia. In un baleno, accompagnati dalle deboli ombre delle fioche luci dei lampioni, lasciarono la piazza di pietra piena di sterco di capre e di pecore di Sant’Angelo e, dopo duecento metri, giunsero davanti alla chiesa del Convento, così ancora oggi è chiamata la chiesa della Sacra 127 Famiglia, perché accanto a questa chiesa c’era un Convento di Padri Scolopi, l’ultimo libero istituto – anche se religioso - di cultura ad Almeda. Filippo Bardana si fermò davanti al grande portone d’ingresso di quello che era stato un Convento: si commosse, per la prima volta nella sua vita, si sentì nello stesso tempo vicino a Dio e al Socialismo. Il Convento era stato trasformato in un monumento fascista. Quarantaquattro anni prima era morto l’ultimo degli Scolopi. Tutti i frati Scolopi erano stati sepolti nella cripta della Chiesa della Sacra Famiglia, dove ben presto erano stati dimenticati. I quadri, i libri, tutto era stato rubato. Al silenzio dei frati si era sostituito il battere dei tacchi degli stivali fascisti sul selciato del Convento, al passaggio silenzioso dei monaci sotto il porticato il chiasso vuoto delle adunate del Fascio. Che pena, pensò Filippo Bardana il vecchio, accompagnato dallo sguardo complice di Francisco, il glorioso Convento trasformato nel Cinema Balilla! Il Convento, infatti, il più glorioso edificio di Almeda, era diventato sede del Fascio e due stanze a piano terreno erano state adattate a cinema del regime dove si proiettavano tutti i documentari e i film di propaganda del fascismo. Il Convento era diventato un monumento fascista. C’erano tutte le propaggini del fascismo lì, la sede del Fascio, la sede della Milizia, il cinema fascista, l’ambulatorio fascista per le vaccinazioni, il tribunale fascista. Quante volte aveva pensato di dare fuoco di notte a quell’edificio, ma, più che le forze, gli fece senso il rispetto – che mai gli venne meno – di Dio! Il rispetto di Dio non gli venne meno nemmeno quella sera, perché immprovvisamente apparvero da una via laterale Filippo Barraggello detto Occidicrasto, uno dei suoi più fidati contadini, e il falegname Gaetano Cucuni detto Tanu Panzadicaniglia. Un’occhiata d’intesa, un cenno. Così hanno inizio le più grandi imprese. Partirono. Camminando silenziosi accanto ai muri, attraversarono un paese deserto e muto. Attraversarono piazze deserte, vie deserte, case deserte. Chiese deserte e solitarie. Case abbandonate, androni, finestre, porte abbandonate. Una sera ogni anno il paese si trasferiva al 128 mare. No, oltre, oltre l’oceano. Forse voleva andare via dal tempo, dalla storia. Solo la luna vigilava, proiettando inquietanti ombre davanti e dietro i quattro di Almeda. La luna, forse, non voleva che accadesse quel che stava per accadere. Giunsero finalmente sul luogo dove doveva avere un nuovo corso la storia. La rivoluzione del tempo. Davanti a loro, ad appena trecento metri, debolmente illuminata ma visibile, grande, elegante, si stagliava la villa dell’impotente e depravato barone Domenico Nasca, detto il Pacifico Cornuto. Quella sera la sua bellissima e troissima moglie, la baronessa Felicina Scarrano detta Trecculi, la donna più bella e più puttana della provincia, doveva avere – davanti agli occhi del marito guardone e malato - un congiungimento carnale con un uomo molto importante, l’uomo che loro, Filippo Bardana e i suoi, dovevano uccidere. Filippo Bardana sotto un carrubo fece cenno ai suoi di fermarsi e pensò. Prima di avviarsi verso l’ultimo tratto che separava il suo miserabile tempo dal tempo glorioso della storia universale, pensò a tutti i luoghi e ai fatti, al piccolo spazio e alla piccola storia della sua vita. Gli erano morti giovanissimi due figli, per malattie banali, altri due erano stati massacrati nella guerra d’Etiopia, tra i pochi a morire per una guerra senza senso, per creare un Impero contro la storia. Forse, pensava spesso, e spesso lo diceva all’unico figlio superstite, Francisco, un mondo che fa schifo non merita più di un Bardana. Pensò alla sua vita, alla sua giovinezza vissuta fra conventi e chiese perché suo padre voleva farlo diventare prete, pensò ai suoi precettori privati filosofi e professori universitari antifascisti, pensò alla via del socialismo che intraprese agli albori del nuovo secolo. Filippo Bardana era rimasto socialista anche da facoltoso possidente e da credente, era lui il vero capo dei socialisti di Almeda. Era rispettato dal podestà socialistoide Carmazzi e dal prefetto liberale, che lo difendevano dai fascisti ma in cambio volevano che non accadessero casini gravi in paese. Lui, l’ultimo antifascista, l’ultimo socialista. Suo figlio Francisco esaurito e quasi pazzo per le angherie dei fascisti, il prefetto e il podestà che avevano i loro cazzi 129 per organizzare la visita del Duce e per fare rappresentare quella cazzata di commedia, L’amante del cardinale. Claudia Particella. Almeda era un paese senza fascisti veri e senza antifascisti veri. I fascisti erano solo quattro esaltati, quattro cose inutili, quattro militari, due o tre nobilotti, due impiegati coi pantaloni rattoppati. Il segretario del Fascio, Saro Patacca detto Trummittuni, era un povero coglione che aveva una passionaccia solo per le parate. Il vero pericolo era il federale di Gandara, il Patacca dipendeva da lui. Uno che voleva fare la primadonna, che voleva fare carriera. Il prefetto gli diceva di stare buono, a Filippo, soprattutto per non avere problemi col federale. Il federale era uno che, al prefetto, gli rompeva sempre i coglioni. Soprattutto per quanto riguarda le nomine di ufficiali e dirigenti, il federale voleva suoi uomini, mentre il prefetto cercava di fare svolgere regolarmente i concorsi. L’Ufficiale sanitario di Almeda, questa nomina poi il federale non l’aveva digerita. L’Ufficiale sanitario aveva denunciato tante trasgressioni di fascisti al podestà. E la richiesta assurda poi del segretario del Fascio di una specie di quartiere fascista dove sistemare Casa del Fascio, Casa del Balilla, il Comando della Milizia fascista, tutte le organizzazioni filofasciste, il dopolavoro, il campo sportivo, le camere dei commercianti, degli operai, dei contadini, e che cazzo, che era Roma? Lui, Filippo Bardana, l’unico che non si era piegato, non solo al fascismo di Almeda, ma anche al fascismo nazionale. Lui, l’unico, il vero, l’ultimo socialista, lui, l’ultimo uomo. Sarebbe diventato il più grande, ma doveva eliminare il rancore. Un paese inutile, Almeda, e proprio per questo pericoloso. I grandi gerarchi ne stavano alla larga anche, soprattutto per questo, perché il prefetto e il podestà non garantivano la sicurezza. Ah, i pensieri di Filippo Bardana! L’amante del cardinale. Claudia Particella. Mah! Che minchia di commedia! Se è di Mussolini, deve essere una gran minchiata. E questo figlio di Giosuè Barresi, Filippo, un ingegnere che si fa imprinari dalla figlia del podestà, Giulia, che vuole fare l’attrice, e per conquistarla lui, come lo chiamano?, ah il Principino, figlio di un socialista, lui, un avvocato figlio di un ingegnere, il grande Giosuè Pezzainculu, che si vende… ah, la forza del pilo! Però loro sono 130 socialisti borghesi, mica sono come me, che ho lavorato sempre in campagna, un contadino, un massaro, che ho ereditato una buona proprietà e l’ho ingrandita, ho creato un’azienda moderna con mandorle, ortaggi, pomidoro, ulivi. Una commedia di merda, sicuro! Però sono sempre le cose di merda che portano guai. Per questo, sicuro, il podestà è andato a trovare il prefetto. Comunque, ormai è fatta. Perfino il federale, questo malato, ha dato il suo benestare, la commedia si sta rappresentando alla marina… chissà che successo! Il federale ha fiuto, ha ormai capito che la commedia porterà acqua al suo mulino. Che strano! Questa commedia la vogliono tutti, fascisti e antifascisti, questi perché sono convinti che – essendo una commedia anticlericale - porterà discredito al fascismo e ai fascisti del luogo. Non è come quel coglione del segretario del Fascio… o come i preti… Il segretario del Fascio dice che la commedia può creare disordini. Si impegna a non farla rappresentare. È contro la Chiesa ed è contro il fascismo… ma che coglioni! Ci vuole ben altro per distruggere il fascismo! Anche Mussolini la vuole fare rappresentare… c’è qualcosa che non si capisce. Tutti la vogliono, massoni, mafiosi. Contadini, borghesi, nobili. Monache. Puttane. Tra questi pensieri, Filippo Bardana e i suoi giunsero a cento metri dalla meta. Occidicrasto e Panzadicaniglia con un cenno chiesero a Filippo Bardana che cosa dovevano fare. Filippo Bardana con un cenno pure lui fece capire che dovevano sedere e attendere. Senza fumare. Francisco era seduto in mezzo a Occidicrasto e a Panzadicaniglia. Erano nascosti a circa cinquanta metri dal cancello della villa. Sotto un ulivo. I tre non sapevano chi dovevano uccidere. Filippo Bardana non glielo aveva detto. Sapevano che dovevano uccidere uno importante. Francisco era lì perché lo aveva voluto il padre. Lui non doveva uccidere, lui doveva solo vedere uccidere, essere iniziato alla vita, capire quando finisce e comincia una storia. Filippo Bardana sapeva più di quello che sapevano gli altri. Per questo era il più tranquillo. Gli altri sapevano solo che dovevano uccidere un uomo, un uomo molto importante, e non dovevano fare domande. Dovevano solamente obbedire ai suoi ordini. Rimasero in silenzio sotto un ulivo per poco più di mezzora. La casa del barone 131 Nasca era silenziosa. Erano illuminate solo due camere del primo piano. Silenzio quasi assoluto. Solo qualche grillo solitario. Mentre Francisco con gli occhi sbarrati guardava il padre, una Balilla nera giunse quasi in silenzio. I quattro la riconobbero: era quella del barone, che doveva essere andata a prendere una persona veramente importante. Si fermò sullo spiazzo, davanti al cancello della villa. Scese un uomo: era l’autista, Peppe Giancone detto u Pirciato, per la faccia butterata. Aprì il cancello, tornò sulla Balilla ed entrò con l’automobile fino al portone d’ingresso della villa. Scese di nuovo u Pirciato, aprì lo sportello posteriore e scesero due uomini. Uno, molto alto, con lo stesso Pirciato tornò indietro per chiudere il cancello. Rimasero dietro il cancello, nella villa. L’altro, più tracagnotto, avanzò verso il portone d’ingresso, dove c’era il barone ad attenderlo. Aveva un cappotto nero e un cappello a falde larghe, pantaloni scuri. Entrarono. Filippo Bardana bisbigliò a suo figlio e ai suoi due complici di seguirlo. Lentamente e in silenzio girarono intorno alla villa finché non giunsero ad una porticina laterale, seminascosta da arbusti. Filippo Bardana conosceva bene la villa del barone. Era andato spesso lì perché aveva acquistato diversi appezzamenti di terreno dal barone. Aprì un piccolo cancello di legno. Disse agli altri di camminare sempre silenziosamente. Salirono per una stretta scala esterna che conduceva al primo piano. Si trovarono davanti a una porta chiusa. Filippo Bardana puntando l’indice della mano destra al naso fece cenno di fare silenzio. Si sentiva un chiacchiericcio dentro la casa. La moglie del barone depravato parlava. Ansimava. Si sentirono chiare le parole “Ancora, Duce, sono tutta vostra”. Occidicrasto guardava esterrefatto Panzadicaniglia. Chi cazzo era questo Duce? Che c’era il Duce dal barone malato? Francisco, anche lui, era sbigottito. Filippo Bardana sembrava invece sereno. Si poteva leggere un sorriso in volto. La baronessa intanto imperterrita continuava. “Duce dell’Impero, dammelo tutto, sfondami”. Panzadicaniglia e Occidicrasto erano increduli, si guardavano l’un l’altro, poi guardavano Francisco e infine Filippo. Attendevano ansiosi un suo cenno. Che arrivò. Filippo sussurrò che avrebbe pensato lui all’estraneo, e che loro, avrebbero 132 puntato le pistole sulla baronessa e sul barone, senza sparare però. Subito dopo cominciarono a diffondersi dei discorsi, discorsi del Duce. Quelli sulla fondazione dell’Impero. Dopo qualche minuto, Filippo Bardana diede ordine di entrare. Entrarono e videro una scena allucinante. Da un grammafono su un comò la voce del Duce si innalzava trionfale. La baronessa era sul letto nuda, con le cosce aperte, che gridava “Duce, Duce”. L’uomo che si scopava la baronessa con un balzo si scaraventò dall’altra parte del letto, e si nascose tra il letto e il guardaroba. Tremava, con la faccia rivolta verso il pavimento. La baronessa cominciò a gridare e cercò di coprirsi come meglio poteva, col lenzuolo. Il barone, che era seduto sul salotto di fronte al letto in atto di masturbarsi, scappò come una furia verso la porta per uscire ma fu fermato da Occidicrasto che gli puntò una pistola sulla tempia. Il barone si inginocchiò e disse “pietà”. Piangeva. Filippo Bardana guardava l’uomo che tremava accanto al letto. Sembrava il Duce. Era il Duce. Il Duce aveva una divisa militare nera e gli indumenti intimi su una sedia. Continuava a tremare e a coprirsi il pene con le mani. Gridava “È tutta una farsa, non mi uccidete”. “No, non mi uccidete, è mio marito che lo vuole”, la baronessa farfugliava. Intanto il Duce si alzò e tutto nudo fece il saluto romano, dicendo “Duce”, poi “Eja eja alalà”, probabilmente a se stesso. Era una scena sconvolgente. Il duce in piedi nudo col saluto romano, la baronessa depravata nuda sul letto che si copriva le parti intime con un pezzo di lenzuolo che tremava e piangeva, il barone in ginocchio che piangeva e implorava pietà con una pistola puntata sul cranio, Filippo Bardana con la pistola Beretta puntata sul Duce, Panzadicaniglia che puntava la sua pistola sulla baronessa, visto che non c’erano altri da puntare, e Francisco che non sapeva a chi cazzo puntarla e faceva girare pericolosamente la rivoltella da sinistra a destra e da destra a sinistra, con estremo terrore di tutti i presenti. Filippo Bardana a un certo punto, dopo qualche minuto di angosciosa attesa, guardò suo figlio, guardò di nuovo i suoi due amici, digrignò i denti, guardò il Duce, provò un senso di schifo. Disse “Con tre colpi di pistola mi libero della dittatura, delle puttane e dei 133 coglioni” e fece per sparare. Poi, all’improvviso, si fermò. Guardò suo figlio, guardò ancora i suoi due amici. Sputò su tutti e tre, sulla baronessa puttana, sul marito depravato, sul Duce. - Andiamo - disse infine - Si è fatto tardi. Francisco e i due si guardarono sbigottiti. - Perché, pà? – domandò incredulo Francisco – Non ammazziamo Mussolini? - Un Duce così – rispose Filippo Bardana - non merita nemmeno una cartuccia. Il Duce dell’Impero, che per una scopata, anche se con la donna più bella di Sicilia, si presta alle perversioni di un barone maniaco sessuale. E non sarà un siciliano, e tantomeno un Bardana, a passare alla storia. Comprese perché tutti volevano rappresentare la commedia del Duce. Tutto il paese doveva essere alla Marina affinché il fondatore dell’Impero si scopasse serenamente la baronessa puttana in paese. Infine, disse ai suoi, andiamo, e si avviò verso l’uscita come un grande della storia. All’autista e all’altro uomo che erano di guardia al cancello, che gli puntarono due pistole a lui e ai suoi, disse, andate a fare in culo, coglioni, e seguito dagli altri uscì. 134 Capitolo XVI Sì, era un sosia del Duce – ribadì il barone Domenico Nasca Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del ricordo di Francisco che narrò di quando da Francisco e da suo padre Filippo andarono il barone Nasca e il mafioso Lignutortu per mettere una pietra sopra sulla vicenda del Duce. - Sì, era un sosia del Duce – ribadì il barone Domenico Nasca – Uno vestito da Duce. Una farsa, don Filippo, come ce ne sono tante in questa terra. E io sono un uomo malato di questi divertimenti, come ce ne sono tanti in questa terra, purtroppo. - Mettiamoci una pietra sopra, don Filippo – disse Totò Cardone inteso Lignutortu - La vita deve pure continuare. E nessuno saprà di violazione della proprietà privata, di porto d’armi abusivo, e soprattutto di tentato omicidio. E di tante altre violazioni della legge. Si vive così serenamente in questo paese benedetto da Dio! Filippo Bardana osservò i due e provò ancora, cosa non desueta in lui in quel tempo, un senso di schifo. Domenico Nasca si era presentato in quel tardo mattino del sedici agosto, senza farsi avvisare, con Totò Cardone detto Lignutortu. Ufficialmente, capomafia di Almeda, tollerato dai fascisti perché controllava e teneva sott’occhio la piccola malavita locale, scassapagliari e similari. Al servizio degli agrari di Almeda. Uno che, senza la protezione dei fascisti e degli agrari, era meno di una pernacchia nel vento. Li osservò attentamente. Piccoli, moretti, coi baffetti, sembravano due gemelli, due facce identiche della stessa medaglia. Nello spiazzo davanti alla sua fattoria, poco distante dalla Balilla del barone, l’autista del barone, lo stesso della sera precedente, attendeva sotto un ulivo. - Ognuno a casa propria può fare quello che vuole – proseguì Lignutortu – Al barone e alla sua rispettabilissima signora piace fare questo gioco… 135 - Io ho già dimenticato la cosa, Totò – lo interruppe Filippo Bardana – Ho tanti altri pensieri adesso, a parte due figli morti per il fascismo. Sì, è un divertimento. E non sta nemmeno a me giudicare se è buono o se è sbagliato. Forse, nella mia ignoranza, io penso che è un omaggio al fascismo vedere la moglie in atto di unirsi con uomini vestiti da gerarchi o addirittura da Duce. Un omaggio alla virilità, alla forza, al destino di questa grande idea che è il fascismo. Filippo Bardana guardò i due. Sorridevano. Il sentimento di schifo continuava a rimanere sentimento di schifo. - Il Duce ha indovinato la ricetta giusta per gli italiani – disse Lo devo ammettere. Il Duce ha capito che in tutto ciò che gli italiani fanno c’è sempre qualcosa di buono. Non devono esistere i partiti, le politiche, le rivoluzioni. Io sono ignorante, ma, secondo me, ha ragione lui, per governare bene un paese bisogna prendere tutto il meglio che quel paese ha fatto in tutta la sua storia. Il fascismo sta avendo successo perché sta facendo proprio questo: sta prendendo il meglio della storia di questo paese. Forse veramente il fascismo e l’Italia sono una cosa sola. Lignutortu e Nasca guardavano rapiti e turbati Filippo Bardana. Il socialista si era ravveduto. - Patria, famiglia, Dio, ordine, disciplina, pace e concordia tra lavoratori e imprenditori, come nel Medioevo, l’amore per le donne – continuò il Bardana - L’impero, la gloria, il podestà che viene da fuori e mette ordine nei comuni che si scannano tra loro. Il potere che viene dato a tutti, anche ai meno fortunati. Le bonifiche a favore dei contadini, l’agricoltura. Mussolini ha la testa brillante, sì. Ci ho messo un po’ di tempo, ma alla fine l’ho capito. Ma anche il Duce ha faticato un po’ per trovare la sua strada, non vi pare? Da giovane è stato un po’ tutto, no? Lo ha detto lui stesso, no? Che all’inizio fu anarchico, poi socialista massimalista, giornalista e scrittore anticlericale, repubblicano, interventista, sindacalista rivoluzionario, radicale, ardito, insomma. Un po’ tutto. Come in amore. 136 Lignutortu e Nasca si guardavano, continuavano a non credere ai loro occhi. - Azione, la Nazione – continuava Bardana - Cazzo, ci ha messo tutto, un bel minestrone, forte, nutriente! Le idee buone, se non fanno parte della storia di un popolo, se non vi sono inserite, non lievitano, si rattrappiscono, muoiono. Non si può prendere, che so, una teoria, di un altro Paese e innestarla di sana pianta in un altro Paese. Come succede magari per le idee socialiste, o quelle liberali, capitaliste. E poi il Duce un po’ di politica socialista, anche se trasformata a modo suo, ce l’ha: lo vedo nell’economia, nelle fabbriche, nelle bonifiche. Ha vinto la battaglia del grano. Ha eliminato la malaria, la tubercolosi, la rabbia, la pellagra, il vaiolo, la peste del sangue italiano. Non è contro il socialismo, ma il socialismo non deve rompere i coglioni allo Stato. Insomma, un colpo agli agrari un colpo ai proletari. È molto abile, il Duce. Ci sa fare. È abile nell’oratoria, sfrutta bene la radio, il cinema, i giornali, l’anima fascista dell’Italia. Con i podestà fa funzionare i consigli comunali, sta facendo crescere una generazione italica forte, sia sul piano morale che fisico, con l’Opera Nazionale Balilla e poi con la Gioventù Italiana del Littorio, sta istituendo la previdenza sociale per i lavoratori. Favorisce la famiglia in tutti i modi. Ha dato un impero alle famiglie italiane. Il fascismo può e deve accogliere tutto, lo ha detto egli stesso, il Duce. C’è il patriottismo e il nazionalismo, l’espansionismo, cose giuste per un grande popolo come quello italiano, ci sono anche l’idea della rivoluzione sociale, del primato del lavoro, il principio del dovere e della gerarchia. Insomma, si deve pure traghettare la storia d’Italia verso i tempi moderni, uscire da questo tempo di mezzo. Gli italiani hanno bisogno di sogni, e qualcuno deve dare dei sogni. Ci ha pensato il Duce. Certo, manca un po’ di libertà. Ma, diciamocelo chiaro, a che cazzo serve la libertà se uno deve vivere nella merda? La libertà della fame? Della disoccupazione? E poi, qual era la libertà degli italiani, quella del dopoguerra, del bordello totale? Libertà. Nasca e Lignutortu si guardarono ancora. Sorrisero compiaciuti. Era accaduto un miracolo. Il Bardana continuava. 137 - Gli italiani, secondo me, non hanno mai conosciuto la vera libertà.Vera libertà è quella in cui l’uomo non ha bisogno della libertà. Vera libertà è quella di un mondo in cui l’uomo ha tutto ciò che gli serve per essere felice, l’amore, il lavoro, la gioia, l’amicizia, il buon cibo, la natura. Quella che ha dato il fascismo all’Italia. Il fascismo è il futuro dell’Italia, il fascismo è azione, virilità, forza, attivismo, giovinezza, religione laica, il primato assoluto della nazione, la famiglia, il fascismo è la storia, mito, per la creazione di un nuovo ordine, di una nuova civiltà, dell’uomo nuovo. E passi pure se qualche barone della lontana periferia della Sicilia si passa il capriccio di vedere la moglie scopata dal Duce, o se si sta stringendo amicizia con un pazzo tedesco che si chiama Hitler che ci porterà dritto alla guerra. Noi, noi siamo piccoli uomini, caro Totò, caro barone. Non potremo mai decidere i nostri destini. E se le cose dovessero andar male, il fascismo non avrà colpe. Giunge sempre su questa Terra ogni tanto un grande cataclisma che spazza via tutto, anche il bene, non solo il male. Purtroppo, spazzerà via anche quel bene che il fascismo sta facendo, e sommergerà tutto sotto una montagna di immondizia. 138 Capitolo XVII Altra lettera anonima al Prefetto Altra lettera anonima inviata al prefetto di Gandara, che rimase anonima solo un giorno, perché una spia della Prefettura la fece avere a Filippo Bardana il vecchio e che il puro sogno di Filippo Bardana l’inventore si trovò davanti nella mente di Francisco mentre parlava col sogno del ricordo di costui. Signor Prifetto, Saccio ca Filippo Bardana con suo figlio Francisco e due o tre accoliti è iuto pi ammazzari Musolino ni la villa del baroni Nasca, ca non sulo è minchia, ma ancha dipravato e porcu. Musolino si duviva fottiri la sua moglieri, e lui avia a taliari pirchì, comu dissi, è porco. Vinutulo a sapiri, Filippo Bardana ha pinzato di ammazzari Musolino, e lo stava facenno, però poi si è pentito e non lo ha fatto che ci faciva schifo ammazzari a Musolino porco e senza pantoloni nudo. Così mi disse uno ca c’era. Ah se lo faciva, ca così ci lo levavamo dai cugliuna. Doppo saccio ca lo ha chiamato il Podestà al Bardana, però non so che minchia gli ha detto. Comu pinzava, ca ci lo dicia ni la littra ca mannavo prima, sta commedia avia cosi ca un mi cummincivano. Forsi vulivano fari iri tutti a la festa pi fari chistu incontro cu Musolino, e Filippo Bardana lo sappi e circò di ammazzarilo. 139 Capitolo XVIII Il prefetto convoca il Bardana per parlare del tentato omicidio di Mussolini Di quando il puro sogno di Filippo Bardana parlò col sogno del ricordo di Francisco che contattò il sogno di suo padre Filippo, che narrò l’incontro che egli ebbe col prefetto che voleva sapere del tentato omicidio di Mussolini. - Voi Bardana avete il pallino di volere a tutti i costi entrare nella storia. Mi sono informato, un vostro antenato voleva uccidere Garibaldi. So anche che due altri Bardana andarono per uccidere Umberto I di Savoia Re d’Italia, ma furono anticipati dal Bresci. Uno di questi eravate voi, avevate 17 anni. Non voglio sapere da voi quello che volevate fare con vostro padre, né il modo. Quello che so mi basta. Io dico che nella storia si può entrare diversamente. Facendo cose egregie. E comunque non uccidendo governanti, re e capi di Stato. Questo vuol dire entrare nella storia dalla finestra o dalla porta di servizio: nella storia è meglio entrarci dal portone principale. - Nella storia, Eccellenza, uno fa quello che può – disse Filippo Bardana il vecchio - E se uno ci entra qualche volta dalla porta di servizio o dalla finestra, è perché magari trova il portone principale chiuso. - Parole sagge – ribatté il prefetto – Però, se uno non può, non è detto che nella storia deve entrarci per forza. Filippo Bardana osservò attentamente il prefetto Umberto Emanuele Cordero detto Occhialino o Palladivetro e sorrise. Nomi, cognome, ingiuria, era tutto a posto: un prefetto perfetto. Piemontese, liberale, e poteva essere mai un prefetto siciliano socialista o scassapagliara? Anche il fisico, alto, pizzetto, occhialini, l’età, sissantino. Buone maniere, la moglie Martina Boero detta Testagrossa, alta, impettita, austera, che saluta cortesemente e se ne va. Tutto a posto. Guardò oltre la finestra, vide i templi, vide il mare. Tutto a posto. Tornò a gurdare il prefetto. Gli fu subito simpatico, il prefetto. 140 Il podestà lo era già da tempo. Guardò anche lui, poco, perché subito il prefetto riprese fra le mani il destino del colloquio. - La vostra famiglia è stata sempre contro la patria, - proseguì il prefetto - contro la società, contro la storia. Garibaldi, Umberto I, il capo del Governo, Sua Eccellenza Benito Mussolini, che cosa rappresentano, secondo voi? Rappresentano lo Stato, il consorzio civile. - Però il Duce è anche il capo del fascismo – disse Bardana - E non c’è più libertà, e ci sono tante cose che non vanno. Io ho solo un poco di cultura, leggo, quel poco che si può leggere, ma certe cose le capisco. (A mia chisto un ma cunta bona, pensò. Dice e non dice, lui sì che rapprisenta lo Stato, ma non può offendere il fascismo, che ora è al governo). - Voi, Bardana, certe cose non dovete sforzarvi di capirle – disse il prefetto - Ci sono cose più grandi delle singole vicende personali. Il Capo del Governo è stato nominato da Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III e rappresenta lo Stato. Voi, pertanto, volevate uccidere lo Stato. - Sì – confermò il podestà - Forse voi volevate uccidere il Duce perché egli rappresenta lo Stato, non perché è il ‘apo del fascismo. - Sì – disse ancora il prefetto - Avete fatto bene a non ucciderlo, un Duce non si uccide così. La storia non può prendere questo corso. In genere, questi uomini vengono abbattuti dalle rivoluzioni, dalle guerre, da grandi cataclismi. - Don Filippo Bardana – disse il podestà – nell’in’ontro che ha avuto ‘on me ha detto di essersi pentito di ciò che ha fatto e di ciò che avrebbe voluto fare. Quella sera si erano ubria’ati, lui, il figlio e i suoi amici. A ciò aggiungiamo le tristi vicende personali, i figli morti in Etiopia, le vicissitudini familiari, i problemi sociali, economici, le tensioni nel paese, Eccellenza. Del resto è stata a’omodata la questione anche col barone Nasca… - Quello che dovevo dirvi, - disse il prefetto annuendo - per mezzo del podestà, ve lo ho già detto. Vi ho convocato qui perché volevo conoscervi di persona. Ho sentito parlare di voi come di persona degna di rispetto, uomo di equilibrio, anche se con idee che non sono propriamente in linea con quelle del fascismo… 141 - Il fascismo non è lo Stato. Lo Stato è il Re. Il Re è il Capo dello Stato – disse Bardana. (Sì, perché tu e il podestà, vi conoscono, al Duce gli tagliereste i coglioni). - In questo momento, vi piaccia o no, il fascismo è lo Stato, disse il prefetto - e lo Stato non può permettersi uno scandalo. Si stanno aprendo scenari giganteschi per la storia dell’umanità, se anche fossero veri, questi sono fatterelli insignificanti in eventi di portata epocale. La vita privata di ogni persona, e soprattutto quella del Duce, è sacra. Agli italiani interessano i destini della patria. - Eccellenza, io non ci capisco molto di politica, – disse Bardana – Però devo dire che in certe cose del governo non c’è logica. Insomma, secondo me il governo sta sbagliando politica. Ci stiamo avvicinando a questo pazzo tedesco per le sanzioni, ci avviciniamo alla Germania, che i tedeschi sono stati sempre nostri nemici, e ci allontaniamo dalla Francia e dall’Inghilterra, che senza di loro, altro che unità d’Italia. Gli italiani hanno in simpatia la Francia e l’Inghilterra, è la simpatia che ha le sue radici nel Risorgimento e nella prima guerra mondiale. Non c’è bisogno che glielo insegno io questo, Eccillenza. - Certo, certo – disse il prefetto. - Poi c’è questo impero africano che non ci servirà a niente, continuò Bardana - che è un paese povero l’Etiopia, e non ha una minchia, scusassi Eccillenza. - Non siete solo voi a non capire bene la politica del governo, Bardana – disse il prefetto – A volte sembra che dia un colpo a destra e uno a sinistra. Sembra una cosa complessa, il fascismo. Prassi, non dottrina, dice lo stesso Duce. Potere, regime, non ideologia. La conservazione del potere. Ordine, disciplina, quello che vuole la destra agraria e industriale, e la piccola borghesia senza più soldi e senza considerazione sociale… Libero mercato. Quando parla sembra un liberale, ma il suo libero mercato è controllato dallo Stato. Bel capitalismo! Certo, lui non si dichiara uomo di destra. Il popolo, i proletari, queste parole gli sono sempre in bocca… Questo Mussolini, insomma, che dà un colpo a destra e un colpo a sinistra… Sì, questo è Mussolini, il proletario che si vanta di venire dal popolo e si veste da maestro, uno che non ama la pulizia ma si profuma, anticlericale ma fa 142 battezzare i figli, idee politiche niente affatto ordinate, superficiali, un ardito che però dice che non bisogna forzare il destino… - Sì, Eccellenza – disse ancora Bardana - A me il fascismo sembra come un guscio vuoto che si riempie di cose sempre diverse, come un piatto dove vengono servite tante pietanze diverse, che sono patria, colonialismo, famiglia, proprietà… - Tutto il ‘ontrario del nazionalsocialismo di Hitler, ‘aro Bardana - intervenne il podestà – Che è una dottrina, perversa sì, ma dottrina… La razza ariana, l’odio ‘ontro gli ebrei, il nazionalismo, l’espansionismo, lo spazio vitale, ‘ancellazione delle ‘lausole del trattato di pace di Versailles, riarmo, rimilitarizzazione della Renania… - Sissignore – disse Bardana – Vedo che anche voi lo capite. A parte le parolone, ci aspettano tempi felici, Eccillenza. Per ora il Duce, il popolo lo ama per le glorie d’Etiopia, ma appena si vedrà che non ci prenderemo manco una fico secca e ci sarà la guerra… - Mah! – disse il prefetto – Forse noi siamo troppo piccoli per comprendere le idee geniali del Duce. Il Duce ha idee grandi. Vuole creare l’Impero del sud. Il tedesco vuole creare l’Impero del nord e lui quello del sud. Con l’aiuto del tedesco. Sì, il Duce vuole creare un grande Impero. Il Duce ha idee grandi. Vuole creare, per la gloria d’Italia, un Impero immenso che va dall’Europa mediterranea all’Oceano Indiano, più grande di ogni altro, di quello dei russi bolscevichi, della Francia, dell’Inghilterra, dell’America. (Minchia, pensava Filippo Bardana, chisto è pazzo. E con chi lo deve fare, questo Impero, con questi quattro scarsi?). Compresi pure l’Africa e il Medio Oriente. Dove potere diffondere la superba civiltà italica. Il Cancelliere Hitler si farà il suo Impero al nord, noi al sud. E insieme domineremo il mondo. La razza ariana e la razza mediterranea. Fascismo e religione cattolica, colonizzeremo il mondo. (Questo, pensò Bardana, sta prendendo per il culo tutto il fascismo, tanto sa chi sono io: uno che non lo dirà a nessuno. Non può tradirlo). Il prefetto si fece serio. Guardò fuori, verso il mare, verso i lidi africani. Due minuti di abissale silenzio. 143 - Ad ogni modo, - disse poi rivolgendosi a Bardana – poco fa io ho scherzato. E anche il podestà ha scherzato. Quello che voi stavate per uccidere non era il Duce, era un pagliaccio che si prestava a un gioco ignobile. Io volevo conoscervi solo personalmente. Non indagate su chi era e chi non era. Se ci sarà un giudice, sarà la storia. Sarà la storia a dire chi era. Il Capo del Governo ha visitato la Sicilia ma non è mai stato ad Almeda. Egli deve andare a concludere altrove la sua vicenda terrena e i destini della Patria. E il barone depravato Nasca e la sua lussuriosa moglie finiranno nell’oblio della storia. Quando la storia intraprende un percorso, lo deve concludere. La fatalità, il destino. Chiamatelo come volete. Sono in cantiere progetti che apriranno albe luminose. (Ho capito tutto ora, pensò il Bardana). - Oppure pozzi senza fondo – disse Filippo Bardana - Certo, la storia non può sterzare in questo paese di merda… Oh, scusate, Eccillenza. Noi che possiamo fare, Eccillenza? Solo osservare, possiamo fare… La storia la devono fare gli altri. E poi, il Capo del Fascismo ucciso con una puttana….Via… Chissà quante puttane avrà avuto il Duce, quanti figli illegittimi, e dovrebbe morire ammazzato con una puttana! - Nemmeno il minimo dubbio, il minimo sospetto ci deve essere che il Duce sia passato da questo paese – disse il prefetto Immaginiamo poi che si sia fermato. - E poi, ‘aro Bardana, - intervenne il podestà - che ‘osa volete ‘he sia una scopata davanti ai fulgidi destini della stirpe? (Già, pensò Bardana, pi na ficcata si può affunnari a storia?). - Questa storia è ‘ome un treno ‘he non si può fermare, o giunge alla meta, o ‘ade dal ponte – fu ancora lapidario il podestà – E poi dov’è l’opposizione? Non esiste un’opposizione organizzata, non c’è stato tempo per organizzarla. Forse la farà una guerra, l’opposizione… - E poi le rivoluzioni si fanno in città, non nei villaggi – disse il prefetto. - Mentre le puttane invece sono dappertutto… - disse Bardana Oh, scusate ancora, Eccellenza. - Vi capisco – disse il prefetto – Ma ricordate che il Duce fondatore dell’Impero è venuto in Sicilia in pieno agosto non per le puttane ma per inaugurare un nuovo tempo. (È un attore, pensò il Bardana. Sì, un grande attore). È stato a Siracusa, Enna, è stato ad 144 Agrigento, a Palermo. Ci sono state inaugurazioni, celebrazioni, feste. Ha tenuto discorsi bellissimi, appassionati, veri. I siciliani, ha detto, sono gente laboriosa, fiera. La Sicilia sarà al centro di un Impero latino, la Sicilia è il posto ideale per realizzare il fascismo in Italia. La Sicilia, terra magnifica, fiera e laboriosa, in cui la povertà sarà la sua ricchezza. Ha parlato del suo programma di costruzione di villaggi rurali con acqua e strade, della liquidazione della peste del latifondo e della cultura estensiva. La Sicilia diventerà una delle contrade più fertili della Terra, un paradiso, una terra felice. Un giardino dove prevarranno la piccola e media proprietà. La Sicilia, la terra degli oliveti e degli aranceti, delle vigne e delle messi, centro di valori sani, puri, quelli della famiglia laboriosa, centro geografico dell’Impero, luogo di pace, trionfo della politica fascista. La Sicilia, un’isola piena di passione, di poesia, di storia, di cultura. (Minchia, questo sì che è il fascismo, pensò Bardana. Un paradiso). - Ci hanno provato tanti – disse Bardana – a fare diventare un paradiso la Sicilia, e non ci sono riusciti. Anche un grande imperatore come Federico II non c’è riuscito, e ci vuole riuscire il Duce? - Federico II si è messo ‘ontro la ‘hiesa e contro i ‘omuni del nord – disse il podestà – Brutte bestie. Per questo non c’è riuscito. - Eh, sì – disse il prefetto – Il fascismo è diverso. Il fascismo ha unificato il paese, ha dalla sua parte la Chiesa. Dopo la conquista dell’Etiopia, la Sicilia diventerà un nodo strategico, non più la remota periferia dell’Impero, soprattutto dopo la distruzione della mafia. Così ha detto il Capo del Governo. (Sì, sta minchia avi a distruggere, pensò Bardana). - Eppure io credo, Eccillenza, - disse Bardana - che questa terra non sarà mai fascista perché questa terra sarà sempre contro lo Stato. Qui da noi abbiamo il particolarismo malefico, egoista, violento. E c’è la miseria pure. Per questo c’è la mafia. E ci sarà sempre. - Forse nelle parole del signor Bardana c’è ‘ualche verità, Eccellenza – disse il podestà. - Forse avete ragione voi – disse il prefetto - Eppure io sono convinto, caro Carmazzi, che l’anima italiana è un’anima fascista, e che questa persona sta realizzando un capolavoro politico. Parlando ora seriamente, non di gusci vuoti, l’Italia non crede nella democrazia ma nell’individuo che le risolve i problemi. Il fascismo sta prendendo 145 il meglio e il peggio della storia, della cultura e della tradizione d’Italia. Il fascismo è autoritario, dittatoriale, ma non è antidemocratico in economia, non è contro i lavoratori. È favorevole all’impresa privata purché essa non sia contro gli interessi della Nazione. Se non ci sarà un evento inaspettato, una guerra, un colpo di Stato, questo movimentro trasformerà definitivamente l’anima italiana. (Forse qua non si sbaglia, pensò Bardana). Il prefetto guardò il podestà, poi Bardana. Sorrise. Poi si fece serio. Continuò. - La lotta contro le plutocrazie e il capitalismo, contro le socialdemocrazie e le democrazie deboli e corrotte, l’uomo nuovo fascista, la passione superba della migliore gioventù italiana. La gente ci crede, a queste cose. (Minchia chi paruluna!, pensò il Bardana). Caro Bardana, dappertutto, in tutta Italia. Ve lo dice uno che, ve lo confido, perché il podestà lo sa, uno che gli hanno fatto cambiare cinque sedi in Italia. E che si è inimicato anche il Re per tenere qui il podestà di Almeda. Né io né voi, né il podestà, da soli possiamo cambiare il mondo. - Eppure, Eccillenza, – disse Bardana – mi sbaglierò, ma stavamo assaporando un poco di democrazia. Ma abbiamo vinto una guerra ed è come se l’avessimo perduta. Forse non c’è stato il tempo di fare lievitare le idee buone. - Forse, caro Bardana, chi lo sa?, stiamo vivendo un tempo di mezzo – disse il prefetto guardando fuori, verso i templi greci. Serio. Non era mai stato così serio quella mattina – Sì, un tempo di mezzo. Questo è un tempo di mezzo. Tempo precario. Il Duce a settembre andrà in Germania dal Führer, poi certamente Hitler ricambierà l’anno prossimo la visita. Si prospetta all’orizzonte un’alleanza di ferro, anzi d’acciaio. Ci stiamo facendo coinvolgere in un progetto che non è il nostro. Ci stiamo facendo trascinare nell’abisso. L’Etiopia, una conquista inutile, lo avete detto pure voi, ha dato alla testa a qualcuno. Il Trattato di Versailles è stato una cosa scellerata, dobbiamo dirlo, contro la Germania. Il Cancelliere tedesco darà ancora gomitate ad ovest e soprattutto a est, per conquistare il suo spazio vitale. Nessuno lo fermerà. L’Europa democratica e liberale è fragile. La Gran 146 Bretagna è un’isola, la Francia è un colosso d’argilla. Franco vincerà la guerra civile spagnola. A est, fra gli slavi cosiddetti sottosviluppati, c’è un certo Stalin che vorrà riprendersi i territori perduti dalla Russia nella prima guerra mondiale. E aspetta che si scannino gli europei per mangiarsi il continente (Minchia, ora sì ca mi piaci, rifletté Bardana. Forsi si scurdà ca ci sugnu iu ca dintra. Anche si un haio caputo quanno è serio e quanno cugliunia). - Tutti parlano di pace, Eccellenza, ma si preparano alla guerra – disse il Carmazzi - Tutti hanno un impero, la Francia, la Gran Bretagna, l’Ameri’a, la Russia, il Giappone, la Cina, perfino noi, l’Italia, un Paese fragile ‘ome la terra su ‘ui poggia, abbiamo un impero. La Germania ha ottanta milioni di abitanti, il doppio dell’Italia, Eccellenza, deve dar da mangiare a ‘uesto popolo sterminato. La Germania vorrà il suo impero. Il guaio è che lo vuole in Europa, e questo non glielo permetteranno. E se si scatena una guerra in Europa, l’America non starà a guardare. E in Asia c’è l’Impero del Sol Levante che è piuttosto irrequieto (Bravo, anche a chisto. Anchi si un saccio quanno, pure lui, quanno è serio e quanno cugliunia). - Dite bene, Carmazzi – disse il prefetto - Dovremmo invece stare al riparo, non dico però di stare a guardare, a farci le seghe, scusate, ma lavorare per la pace, questo dovremmo fare. Gli italiani, il Re, Ciano, Grandi, tutti dicono di essere antitedeschi, invece corrono verso questa funesta alleanza. - Vero è, Eccillenza – intervenne il Bardana - Pari invece una commedia in cui ognuno pensa di dovere recitare una parte, anche si succedi l’apocalisse. - E purtroppo questa non è una commedia, caro Bardana, - disse il prefetto - ma una tragedia. E a interpretare questa tragedia, c’è gente pericolosa, niente affatto sprovveduta. Alla fine della quale c’è il sangue, il lutto, il suicidio. Le dittature, detto fra noi che ci conosciamo e stimiamo, non hanno vita lunga. E conducono sempre allo sfascio. Vedo all’orizzonte tempeste apocalittiche - forze immani, cataclismi, guerre devastanti si stanno per abbattere sulla storia, e spazzeranno via ogni vestigio della civiltà. (Minchia, pensò ancora Bardana, è la fine del mondo). 147 - La dittatura è arrivata perché non c’era democrazia in Italia – disse il Bardana -Anche l’Italia di Giolitti, con tutto il rispetto, Eccillenza, non è che era democratica… - In Italia non c’è mai stata la democrazia, caro Bardana – disse il prefetto - Né forse ci sarà mai. Io sono un liberale vecchio stampo, austero, uno degli ultimi rappresentanti di un mondo al tramonto. Ma forse una vera politica liberale si deve ancora realizzare, forse il liberalismo è stato strozzato dalla guerra. - Anche il socialismo, Eccellenza, – disse il podestà simpatizzante socialista - probabilmente è stato strozzato dalla guerra, e la storia conosce solo quello della rivoluzione russa. I cosiddetti partiti di massa hanno abdicato prima di nascere nel 1922… Sì, forse avete ragione voi, forse questo non è tempo di niente, e questo è solo un tempo di mezzo. - Chissà che fra cinquant’anni o cento – disse il prefetto - non spariranno queste vecchie categorie dello spirito, e nuove ideologie appariranno, o forse nessuna ideologia governerà il mondo, ma solo interessi egoistici e di casta. - E mi viene anche il sospetto, - disse il podestà - che il fascismo in’arni veramente l’anima degli italiani, e ‘he esso possa ripresentarsi sempre, sotto altre forme, anche se adesso o fra mille anni dovesse sparire. - Strana comunanza di interessi, la nostra, caro Carmazzi – disse il prefetto - In questi tempi di dittatura, siamo accomunati dall’amore per la democrazia e per la libertà, in tempi di democrazia magari, come è già successo, ci scanneremmo per altre ragioni, economiche, politiche o per altro. Chissà che, se dovesse finire il fascismo, le nostre strade non si divideranno… Voi che ne pensate, Bardana? - Io, Eccillenza, – rispose il Bardana – nella mia ignoranza, penso che forse è stata la debolezza dei liberali e dei socialisti che ha fatto andare il fascismo al potere. E dei cattolici. Grandi partiti popolari, che si sono fatti fregare da quattro violenti e cose inutili (Minchia, ormai ci l’aviva a dire, pensò. Tanto l’ho capito che anche il prefetto, e non solo il podestà, è contro il fascismo). - Bene – disse il prefetto – Ora è il momento, caro Bardana, che potreste anche dirmi che paese è questo Almeda, anche se il podestà mi ha fatto sempre relazioni puntigliose e precise. Tanto per capire 148 che ne pensate voi. (Chisto voli sapiri no chi penso io, ma chi sugno io, pensò Bardana. Però gli arrifrisco la mente). - Come sicuramente l’ha informata sua Eccillenza il signor podestà, - disse subito Bardana – Almeda è un paese veramente strano, signor prefetto. Un paese dove tutto pare a posto ma niente è a posto, dove tutto può scoppiare come una bomba all’improvviso. Ci sono, Eccillenza, quattro nobili inutili che non fanno niente e si mangiano bruciano i guadagni delle proprietà nei circoli cittadini e se ne fottono del fascismo e del Duce, e al momento sono fascisti per convenienza. C’è poi un esercito di pretazzi ignoranti che pure se ne strafottono dell’educazione dei giovani e hanno lasciato questi ultimi al fascismo per il quieto vivere e per difendersi, a modo loro, si capisce, dai comunisti e dai socialisti. Ci sono tanti contadini ignoranti che credono ancora nella distribuzione delle terre e intanto molti di loro sono andati in Etiopia a rompere i coglioni al Negus… oh, mi perdoni Eccillenza. E quasi tutti vanno a mietere per un pane al giorno. Ufficialmente sono tutti fascisti, professionisti, impiegati, contadini, ma io penso, Eccellenza, che tutti lo sono per convenienza, e che se succede un quarantotto, tutti strappano subito le loro tessere e se la danno a gambe levate. - Ma allora, secondo voi, Bardana, – disse il prefetto quasi divertito – non ci sono antifascisti ad Almeda? Eppure me lo hanno descritto come un paese terribile, pieno di anarchici e bombaroli. Compresi voi Bardana. (Ora provoca, pensò Bardana. Ora gliele dico due). - Eccillenza, - disse Bardana – non c’è bisogno che ve lo dico io chi sono gli antifascisti ad Almeda. Le idee dei Bardana voi le conoscete. Io non sono uno infame, uno spione di polizia. C’è qualche proprietario che pensa che sua Eccellenza Mussolini è una specie di socialista mascherato. Mah! Poi, quelli che si intendono di politica sono pochi. - Va bene, ho capito – disse il prefetto – Non volete parlare. Vi aiuto io. Diciamo che i veri antifascisti, però persone a posto, per carità, sono l’ingegnere Giosuè Barresi e suo figlio Filippo, il fidanzato di Giulia, la figlia del qui presente podestà, e la famiglia del cognato Sovrintendente, che però hanno dovuto prendere la tessera non per paura o codardia ma per potere lavorare. Poi gli altri 149 antifascisti, forse i più veri, e non facciamo nomi, sono quelli che gravitano intorno alla vostra famiglia: il farmacista , il vostro medico, un maestro ex sindacalista, un falegname, un calzolaio, un minatore, e una mezza dozzina di contadini che lavorano alle vostre dipendenze. Non è così? - Tutto voi state facendo, Eccillenza – disse Bardana. (Sta minchia ca tu dico). - E i fascisti, diciamo veri, chi sarebbero? – lo incalzò il prefetto – Almeno questo potete dirmelo. - Questo ve lo dico, Eccillenza – disse Bardana (Tanto li conoscono tutti, e almeno mi faccio bello con voi, pensò) – Per me i più pericolosi, perché i più stupidi, sono quelli che dipendono dal segretario del fascio di Almeda, Saro Patacca detto Trummittuni, per questa passione che ha per le parate. Qualche nazionalista, due o tre che si fanno chiamare arditi, quattro militari, due nobili con le pezze al culo, scusassi Eccillenza, e quattro impiegatucci esaltati e morti di fame. E poi ci sono i quattro carabinieri che non contano un cazzo, Eccillenza, sempri scusate. E poi c’è questo federale di Gandara, Eccillenza, uno che vuole contare, e che se non mi sbaglio qualche grattacapo ve lo ha dato perché voi volete fare svolgere i concorsi in modo regolare. - Vedo ‘he il signor Bardana legge po’o ma è molto informato, – intervenne il podestà – e ‘ueste non sono certo notizie che gli do io. Sì. È un uomo esagitato, un ex squadrista, un violento. Il federale, di’o. - Sì - confermò il prefetto – Anche davanti a voi, Bardana, posso dirlo: il federale mi ha dato non pochi problemi. Io mi sono fatto in quattro per organizzare la visita del Capo del Governo, e lui voleva fare la primadonna, riunioni di qua, riunioni di là, direttive, manifesti… Non vuole accettare di essere un subordinato, come tra l’altro stabilisce la circolare del gennaio 1927. - Ce l’ha ‘on voi, Eccellenza, - disse il podestà - perché avete fatto svolgere in modo regolare tanti ‘oncorsi. Per non parlare della nomina dell’Ufficiale sanitario. voi, Eccellenza, avete sentito il parere del podestà, cioè del sottoscritto, e non del segretario del fascio cretino di Almeda… - Eh, sì – disse il prefetto - Si è indispettito perché la nomina non era di suo gradimento, e io non l’ho consultato. 150 - Ora arrabbiato lo è an’ora di più, - disse il podestà - perché ‘uesto Ufficiale sanitario ha denunciato al podestà, cioè a me, tante trasgressioni sanitarie di iscritti al fascio ad Almeda. Non parliamo poi di quel cretino del segretario del fascio di Almeda, che si lamenta sempre che la ‘asa del Fascio, la ‘aserma della milizia e la ‘asa del Balilla sono tutte nello stesso edificio… (Chi minchia mi ni fotti a mia di sti chiacchiere inutili, pensò Bardana). - Eh, sì – disse il prefetto - Tutti ammassati in un piccolo edificio davanti al campo sportivo. E vi accusa, caro Carmazzi, di ritardare, per mezzo dell’architetto Ravanà, che secondo lui sarebbe un vostro fedele, la presentazione del progetto voluto dai fascisti della provincia di Gandara… - Mentre voi sapete, Eccellenza, - disse il podestà – ‘uante volte io sono venuto da voi, anche ‘ol federale, per intercettare finanziamenti destinati a scuole per utilizzarli per la ‘ostruzione di ‘uesto enorme edificio, che dovrebbe servire anche per le scuole, si ‘apisce. Una ‘osa molto difficile. - Finanziamenti impossibili – disse il prefetto - per un edificio che dovrebbe contenere la sede politico-amministrativa del fascio con le sue organizzazioni giovanili e femminili, la sede del Comando della Milizia, le organizzazioni dopolavoristiche, il sindacato degli operai, le Unioni dei commercianti, degli agricoltori, degli industriali, il dopolavoro, il campo sportivo… - E che ‘azzo si crede il fascismo, la ‘asa di Dio? – disse il podestà - Oh, scusate, Eccellenza… (Sapissivu quanto me ne fotti a mia, pensò Bardana). - Eh, già – disse il prefetto – Però stiamo annoiando il nostro caro Bardana, Carmazzi. (Meno male che ve ne siete accorti, coglioni, pensò Bardana). Il prefetto guardò fisso Filippo Bardana il vecchio, poi il podestà. Infine parlò. - Sapete che cosa penso di voi, Bardana? - Spero che non vi siete fatti una cattiva idea, Eccillenza – disse il Bardana. 151 - No – disse il prefetto – Voi siete un contadino, un massaro rispettato. Siete anche colto, aspetto da non sottovalutare per niente. Voi siete l’unico che non si è mai piegato al fascismo ad Almeda. Il fascismo vi ha distrutto la famiglia, non vi sta facendo studiare l’ultimo figlio, che per questo dicono che sta diventando pazzo, e cammina su e giù per il corso principale del paese, l’unico che a molti di voi Bardana hanno consentito di frequentare. Una vita spezzata. Voi avete subito subito tante violenze, tanti soprusi. Vi hanno bruciato due case, vi hanno devastato le proprietà, distrutto vigne e uliveti. Voi siete un uomo che ha vissuto nell’odio per il fascismo. L’odio è diventato rancore. E il rancore, in questa terra, è qualcosa di più profondo dell’odio. Lo so che col rancore non si costruisce la nuova società, ma almeno si demolisce quella vecchia. - Filippo Bardana è l’ultimo socialista – disse il podestà. - No – disse il prefetto - L’ultimo uomo. - Io non so se sono l’ultimo uomo o il primo, - disse Bardana ma è in tempi come questo, in questi tempi di mezzo, come dite voi, Eccillenza, che o si diventa merda o si diventa uomini. E se non si è uomini, non si sarà mai socialisti o liberali o cattolici. O anche fascisti. E oggi l’uomo è marcio, Eccillenza. - Avete ragione, Bardana – disse il prefetto – Mi permetto solo di precisare che oggi l’uomo non è marcio: semplicemente, non è. Questo è un tempo di mezzo, e come tutti i tempi di mezzo bisogna fare in modo che passi velocemente, anche con violenza, affinché giunga presto alla fine. Non bisogna opporre resistenza, occorre lasciare che scorrano. Nessuno li vorrebbe mai, ma spesso giungono e bisogna accettarli. Sono tempi di attesa, che giungono quando c’è indecisione, quando la storia si racchiude in se stessa e chiede una pausa, non sa che via prendere. Lo si capisce subito per l’eccezionalità delle cose che accadono, delle persone che vi agiscono. Tutto sembra più veloce, più caotico, entrano in scena personaggi strani, stravaganti, straordinari. - ‘ome Mussolini, Hitler, Stalin: non è ‘osì, Eccellenza? – disse il podestà. - Sì – disse il prefetto – Solo alla fine dei tempi di mezzo, quando questi uomini non ci saranno più, verranno fuori i veri uomini. Forse verrà un tempo in cui questi uomini, questi anni, verranno considerati 152 come un’interruzione, una parentesi, come un baratro, un abisso, un incidente della storia, che riprenderà il suo corso normale. - Si potrebbe, Eccillenza, – disse Bardana – affrettare questi tempi, farli arrivare subito alla loro fine. - Affrettare gli eventi? – disse il prefetto con un sorriso - E verso dove? Verso la distruzione? No, caro Bardana. I tempi di mezzo corrono sempre verso la loro distruzione. Non ha senso affrettarli. Non vanno conclusi subito, potrebbero arrecare danni più gravi, irreparabili. - Ho capito, Eccillenza – disse Bardana – Per questo nei tempi di mezzo gente come Hitler, Mussolini o Stalin devono finire il loro tempo. E se si interrompe questo tempo loro possono diventare eroi. E allora il tempo di mezzo diventa più lungo, e può portare danni maggiori. - Avete compreso perfettamente – disse il prefetto – È nei tempi di mezzo che che si prepara il tempo definitivo, tutto il resto, anche l’aria che respiriamo, è una buffonata o una tragedia. - Ecco perché anche il Duce può essere ‘onsiderato un uomo provvisorio – disse il podestà. - Altro che uomo del destino… - chiuse Bardana. 153 154 PARTE TERZA UNA GIORNATA PARTICOLARE 155 156 Capitolo XIX Francisco Bardana e la storia Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il bibliotecario, nel 1983. Diego Gambino mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Sì, e pure uova fritte, prosciutti, lardo, burro, formaggi. Joyce. Ma soprattutto carne. Povero Diego Gambino! Sangue mio! Ti piacevano i coglioni di toro. Li mangiavi anche seduto sul cesso. Cancro al culo. Devastante. La vendetta della mucca. Anzi, del toro. Quanto mangiavi, Dè! Carne, sempre carne. Stigliola al forno, corata. Calia di agnello, fegato, rognone, uova sode, cipolla, aglio, prezzemolo, alloro, listarelle di lardo, budella di agnello, sale, pepe. Ah, le patate, spicchi di patate nella stigliola. Cuore, polmoni. E il fegato. Quanto fegato, Dè! Fritto, impanato, in umido con cipolle. Milza, panini con la meusa. Con la ricotta. Ti piacevano con la ricotta, i panini con la milza. Beh, anche col caciocavallo. Oh, il cavallo! Anche la carne di cavallo ti piaceva. Rossa, al sangue. Eri anemico, Dè. Per questo mangiavi tanta carne. Maiale. Porchetta, bistecche di maiale. Alla griglia. Costolette di agnello alla griglia. Pepe, sale, rosmarino. Roast beef. Roast beef al forno con patate e rosmarino. Carne rossa. Eri un vampiro, Dè, non eri un uomo. Castrato alla griglia. Salsiccia di maiale alla griglia. Carne rossa e carne bianca. Carne di vitellone a pezzi col sugo. Costata di manzo alla griglia. Coniglio alla cacciatora. Ali di pollo fritte con patate fritte. Pollo arrosto. Gozzi, colli di anatra e di tacchini. In brodo. Povero Diego. Avevi da sempre un piede nella tomba. Quanta carne! Altro che dieta mediterranea! 157 Povero Diego! Cancro al culo. Sei mesi di dolore. Poi la miglior vita. Asceso al cielo. Alla casa del Padre. Ti sia lieve la terra. Quale terra? Nemmeno la terra è lieve. Nemmeno il cielo. Ti sia lieve il loculo. Amen. Anche tu te ne sei andato. Marito e padre esemplare. Capirai, che consolazione. Quand’anche foste casti come il ghiaccio e puri come la neve, non sfuggirete per questo alla calunnia. Shakespeare. Questa notte si è spento serenamente Diego Gambino, assistito amorevolmente dai suoi. Dopo una breve malattia. Ne danno il triste annuncio i parenti tutti. Quali parenti? L’ultimo dei Mohicani. Era ormai solo come un cane. L’ultimo cugino. Cognome diverso ma stesso sangue. L’ultimo della stirpe. No, il penultimo: l’ultimo sono io. No, il terz’ultimo: c’è mio figlio. Altro disperato solitario. Senza discendenza. I funerali si svolgeranno domani, alle ore undici, nella Chiesa di Sant’Ignazio. Capirai, i funerali li fanno adesso la mattina. Sic transit gloria mundi. Gloria. No. Sic transit merda mundi. La strada verso casa è sempre un tragitto periglioso. Dalla biblioteca a casa sono poche centinaia di metri, ma un ingorgo esistenziale. Che cazzo di vita hai vissuto, Dè? 58 anni di vita inutile. L’uomo senza qualità. Musil.Trentacinque anni sepolto in un ufficio dell’anagrafe, tre metri per tre. Da un loculo all’altro. Da una bara all’altra. Che cazzo ne avevi della vita, Dè? Casa, lavoro e cucina. Mangiare. Sempre mangiare. Carne. Povero cugino. Cancro al culo. Operazione, complicazioni, boom. Sei mesi di borsa al fianco. Sei mesi di merda. Una spina nel cuore. La merda nel cuore. Sono rimasto io solo. No, mio figlio. Il vero, ultimo dei Mohicani. A vigilare sulla mia storia. Che storia? Storia di una famiglia a cui ha fatto tanto schifo il mondo nell’ultimo secolo da mettere pochi figli al mondo, o nessuno, come te, o uno solo, come me, Dè. L’estinzione ce la siamo meritata. Si estinguerà per sempre la stirpe miserabile dei Bardana. Ci trasformeremo in polvere, vento. Come sarà il mondo senza di noi? Sempre lo stesso. Non abbiamo dato amore al mondo ma nemmeno odio. Eppure potevamo entrare prepotentemente nella storia. Un’occasione unica, irripetibile. L’abbiamo sprecata. Uccidere Garibaldi. Uccidere Umberto I. Uccidere Mussolini per la Nazione, 158 per il tempo, per la storia. Se non fossero nati i Bardana, l’universo non se ne sarebbe neanche accorto. Fra qualche anno, quando anche mio figlio se ne sarà andato, che cosa resterà dei Bardana? Solo un mucchietto di carte dell’anagrafe, una tomba di famiglia dove nessuno andrà a pregare, a portare un fiore. Solo qualche cagna famelica ululando nella notte. Il vento che passa indifferente e se ne va. Minchia, che poesia! Però nessun cane piscerà sulla tomba. Io starò in alto. Il piede profano del vulgo non romperà i coglioni. Mio figlio starà dove cazzo vorrà stare. E quando morirà mio figlio? Le cagne gireranno al largo, pisceranno al massimo sulle mura della tomba. Nessuna polvere alle ortiche di deserta gleba. Non ci sono alberi vicino alla tomba. Di fiori nessuna odorata arbore amica consolerà le ceneri di molli ombre. Nessuna donna innamorata pregherà, passeggero solitario udrà il respiro che dal tumulo a noi manda Natura? Boh! La derelitta cagna almeno ramingando non rasperà fra le macerie e i bronchi, non ci sono fosse, forse famelica ululerà. L’ùpupa non svolazzerà su per le croci sparse per la funerea campagna. Chi minchia la conosce l’ùpupa? Oh, i rai, non li accuserà i rai l’immonda col luttuoso singulto, i rai di che son pie le stelle alle obbliate sepolture. Questo meritano i Bardana. Però, che poesia! Genio italico. Ahi! Sugli estinti non sorge fiore, ove non sia d’umane lodi onorato e d’amoroso pianto. Oh, selvaggio vento dell’Ovest, respiro dell’autunno, tu che invisibile le foglie morte trascini, tu che i semi alati ai loro oscuri letti dell’inverno sospingi, dove giacciono freddi e profondi, ognuno come cadavere nella sua tomba, finché la primavera non ridesta e risuscita i dolci germogli di vivaci colori e di profumi che si spandono nella pianura e nella collina, tu dell’anno morente canto funebre, al quale questa notte che sta finendo sarà la cupola di un sepolcro immenso, tu che il Mediterraneo dai suoi sogni estivi risvegli, tu al cui passaggio la potente superficie dell’Atlantico si squarcia in abissi, mentre giù nelle profondità le inflorescenze marine e i boschi fangosi, che indossano le foglie avvizzite dell’oceano, conoscono la tua voce, e si fanno all’improvviso grigi di paura, fa’ di me il compagno dei tuoi vagabondaggi nel cielo, ti prego, innalzami come un’onda, come una 159 foglia, come una nuvola. Che tu sia il mio spirito impetuoso, guida i miei morti pensieri per l’universo come foglie ingiallite per affrettarmi una nascita nuova; e con l’incanto di questi miei versi, come da un focolare non ancora spento, ceneri e faville spargi, le mie parole fra il genere umano! Che tu sia attraverso le mie labbra, per una terra non ancora desta, la tromba d’una profezia! Oh, vento, se viene l’inverno, può essere lontana la primavera? Cazzo che poesia! Shelley, Foscolo. E l’altro chi è? Boh! Minchia che testa che ho, una vita a leggere. Oh, notte, profonda anima della vita, respiro del mondo gigantesco delle insonni costellazioni, e nel suo azzurro flutto nuoti danzando, respiro delle pietre e delle piante, degli animali multiformi, respiro di me, triste viandante con gli occhi pieni di profondi sensi, col passo leggero no, grave, e con le labbra chiuse. Regina della natura terrestre che ogni forza chiami a mutamenti innumerevoli, e annodi e sciogli vincoli infiniti, avvolgi ogni essere terrestre con la tua immagine celeste. La tua sola presenza manifesta il meraviglioso splendore dei reami del mondo. Oh notte, mi distolgo da tutto e mi immergo in te, sacra, ineffabile, misteriosa notte. Perso in un abisso profondo, lontano giace il mondo, la sua dimora è squallida e deserta. Malinconia profonda fa vibrare le corde del mio petto. Voglio precipitare in gocce di rugiada e mescolarmi con la cenere. Lontananze della memoria, desideri di gioventù, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze di tutta la lunga vita vengono in vesti grigie, come nebbie della sera quando il sole è tramontato. In altri spazi piantò la luce le festose tende. Mai più ritornerà ai suoi figli che l’attendono con fede d’innocenti? Che cosa a un tratto zampilla grondante di presagi sotto il cuore e inghiottisce la molle brezza della malinconia? Da noi derivi a tua volta piacere, o buia notte? Quale cosa tu porti sotto il manto che con forza invisibile mi penetra nell’anima? Delizioso balsamo stilla dalla tua mano, dal mazzo di papaveri. Le gravi ali dell’anima tu innalzi. Noi ci sentiamo oscuramente e ineffabilmente turbati - con gioioso spavento vedo un volto severo che su di me dolce e devoto si china, e svela tra i riccioli senza fine intrecciati la cara giovinezza della madre. Come infantile e povera mi sembra ora la luce - come grato e benedetto 160 l’addio del giorno. Solo perché la notte distoglie e allontana da te i tuoi fedeli, tu seminasti per gli spazi immensi le sfere luminose, ad annunziare l’onnipotenza tua - il tuo ritorno - nel tempo della tua lontananza. Più divini delle stelle scintillanti ci sembrano gli occhi infiniti che in noi la notte dischiude. Vedono oltre le più pallide gemme di quelle schiere innumerevoli - non bisognosi di luce frugano nel profondo di un’anima amante - voluttà ineffabile colma uno spazio più alto. Lode alla regina del mondo, alta annunziatrice di mondi santi, custode del beato amore, che a me ti manda - tenera amata - amabile sole notturno… e ora come cazzo fa, che ho dimenticato? Ah, sì, finisce così… la notte mi annunziasti come vita, uomo mi hai fatto, consuma con l’ardore dell’anima il mio corpo, perché lieve nell’aria con te più strettamente io mi congiunga e duri eterna la notte nuziale. Oh, yes! Anzi, ja! Novalis. Un loculo. Bello disteso, in alto. I vermi ti mangeranno, però poi se ne andranno. Scolerai bene. Al fresco, il tuo loculo dà verso nord. Almeno le ossa e la pelle ti resteranno. L’uomo di Almeda. Non verrà nessun parente. Verranno a scopare nella tua tomba prostitute, amanti disperati, giovani senza fissa dimora. Vedove povere. Amore fra le tombe. Piacere fra le tombe. È una moda, ormai, Dè. Potevi regalare la tomba ai poveri, Dè: a che cazzo ti serve una tomba? Nessuno più va sotto terra. Camposanti. No, li dovrebbero chiamare loculopoli santi. Il cemento ti sia lieve. Più vicini al cielo. Gli uomini sono diventati più santi. A comu. Cadaveri grassi ben conservati. Ma tu sei secco, Dè. Il tuo cadavere non concimerebbe la terra lo stesso. Se vengono i giapponesi fanno alveari, cellette oblunghe per conservare cassette coi cadaveri cremati. No, non ti illudere, anche tu andrai in putrefazione. Decomposizione. Diventerai grasso e nero, verde, rosa, un formaggio. Gorgonzola. Rinsecchito. Ecco come finisce la Storia. Ecco che cosa è stata la mia vita, la tua stessa vita, ecco che cosa mi aspetta, la tua stessa morte. Chi si ricorderà di me? Ce ne ricorderemo, di questo pianeta. Sciascia. Sì, ma prima di lui Villiers de L’Isle-Adam. Ricordare. Questa frase ha a che fare col sogno. Ricordare un sogno. Sognare un ricordo. Morire ma continuare a 161 ricordare il pianeta. La nostra storia. È un inno alla memoria. Negli eterni cicli dell’eterno ritorno ricorderemo. Finché esisteremo, in qualsiasi forma o natura. Solo la memoria ci fa esistere. Solo il ricordare è esistere. Noi siamo memoria, sogno. Ricordare come uomini. Ma non purificati, non riconciliati. È irrevocabile l’essere stati terreni anche solo una volta. Rilke. Devo scrivere la mia storia, se no nessuno si ricorderà di me. Se non lo faccio io, lo farà mio figlio. Ricordare e sognare: la stessa cosa. Un figlio. Un uomo che non si sposa per una delusione d’amore. Banale. Ce ne sono milioni nel mondo. Milioni di milioni. Miliardi. Io. Vedovo. Un semplice bibliotecario. Un uomo a contatto con mille mondi e con nessuno. Un’infanzia difficile. La solita. Tanti sacrifici, i soliti. Figlio rimasto ben presto unico. Storia di un uomo qualunque, la chiamerò così. Anzi, storia di un uomo inutile. Storia di un uomo ridicolo. No, perché un uomo ridicolo? L’uomo senza qualità. Già scritto. Come si chiama? Ah, sì, Musil. Robert Musil. Una sterminata solitudine. Una laurea in lettere. Non mi piaceva l’insegnamento. I ragazzi. La vita. La vita o la morte? Tanti concorsi, beni culturali, archivistici, biblioteche. Potevo finire dappertutto. Sono finito al sud. Più iella di così. Nel proprio paese. Oh, la morte! Un destino. Fra un po’ toccherà a me. È la vendetta della storia, la distruzione di una famiglia senza senso. Ah, sì? Perché, altri miliardi di famiglie che senso hanno? La vendetta di Dio. Una famiglia di atei. Di socialisti. Di mangiabambini. E altri milioni di atei, di mangiabambini? Sempre la solita vita. Vent’anni. No, trent’anni. No, di più. Biblioteca, la strada per casa. Villa comunale, via Filippo Turati, via Roma, casa. Il cane, il gatto, il cardellino. Meglio gli animali degli uomini. Conosco il loro linguaggio. Il circolo del crepuscolo. Al sabato. Il sabato del villaggio. L’attesa della domenica. Di sta minchia. I soliti coglioni del circolo. Le solite chiacchiere inutili. Bla, bla, la spesa, i pettegolezzi. Le corna. L’omo pa parola e u vo pi corna. E chi minchia c’entra? Homo per verba, bos per cornua. E giunge la domenica. La domenica mattina. La messa. Nel nome del Signore, datevi un segno di pace. Bella la messa. Il rito. Tutti felici. Fa niente se poi fuori ci scanniamo. A casa di nuovo. La perfezione del nulla. 162 No, il nulla no. Ascolto musica a casa. Tanta. Sempre. Mozart, Bach, Beethoven. Gershwin. La passeggiata del pomeriggio in riva al mare col cane. E quel testa di cazzo di mio figlio che continua a fare esperimenti per trovare la formula della felicità. Sta diventando vecchio, invecchierà. Che ne sarà della mia vecchiaia? Prima o poi dovrò andare in pensione, se non morirò dentro la biblioteca. Madre, dammi il tuo respiro… La chiesa. Ecco, già la vedo la chiesa, Dè. Volevi funerali immortali, degni di un principe. Anzi, di un re. Bara. Corona di garofani rossi. Sì. A che cazzo ti serve tutto questo socialismo, Dè? Il libro dell’Ecclesiaste sulla bara. La bara è su un catafalco, lunghe candele bianche agli angoli. Fumi d’incenso. Sembri un papa, Dè. Il coro si leva alto dalla cantorìa. Requiem per l’anima tua. Sei nella casa del Padre, Dè. Chierichetti ti girano intorno. Il paradiso si distende ai tuoi piedi, Dè. Paradisum. Preti, secchielli di acqua benedetta. Acqua santa. Vade retro, Satana. Sei salvo, Dè. Mangiavi molti fagioli, legumi, tanti, lenticchie, fave. Devi avere molta aria, Dè. Ed elli avea del cul fatto trombetta. Non lo dire che è Dante, lo sanno tutti. No, non scoreggiare, Dè. Ammazzeresti tutti i chierichetti. E qualche prete. Un’esplosione gigantesca. Boom. Io sono la resurrezione e la vita. Bolgia, fumi, sudore, la bolgia della salvezza. Il paradiso o l’inferno? Ma chi se ne fotte. La tomba racchiude gli elementi peggiori della vita. Che cosa resterà di me su questa Terra? Tutta la materia vile nella tomba, ossa, pelle, capelli, sono catene e tenebre per l’anima, dice Seneca. Sic. Sarò in uno stato migliore. Sic. Sciolto da pesi estranei. Pura anima. Puro spirito. Sì, la carne, le mani, i muscoli, il volto, sono catene, l’anima ne è oppressa, soffocata, contaminata, allontanata dalla verità che è il suo bene e cacciata nell’errore. Pensieri bassi e volgari. Tutta la nostra lotta è contro la pesantezza della carne, perché il suo peso non la trascini in basso: si sforza di 163 risalire da dove fu mandata giù. L’aspetta lì una pace eterna, la visione di una luce limpida e pura, fuori della nostra atmosfera torbida e opaca. Minchia, na potenza è stu Seneca. Nel mio sepolcro giacerà il peggio di me, la lordura, la puzza, il fetore, il mio spirito spazierà fra le anime beate. O Nirvana? Boh! Per carità, lasciamo stare Buddha. Budda o Buddha? E che cambia? Pure lui ci manca! Sì, dopo una breve sosta sopra di noi — il tempo di purificarsi e di eliminare tutte le incrostazioni e le lordure della vita mortale —, asceso in alto spazia fra le anime beate. Il mio spirito. Mi accoglierà la santa schiera degli Scipioni e dei Catoni… che cazzate! Poi loro non sono cristiani: no, la santa schiera di San Francisco… Sì, e da lì potrei abbassare lo sguardo sino al fondo dell’abisso cosmico, la Terra: è bello guardare dall’alto tutto ciò che si è lasciato. Vedrei le le orbite delle stelle vicine e osserverei i segreti della natura. Che testa, Seneca! Però, che cultura che ho! Godono di cose eterne, liberi di vagare per spazi senza confini, né mari interposti li separano, o l’altitudine dei monti o gole impervie o i bassifondi insidiosi delle Sirti: lì tutto è piano, ed essi si muovono con facilità e leggerezza, si compenetrano l’un l’altro e si mescolano alle stelle. Cazzo che bello! Le Consolazioni. Sì, bisogna leggere le Consolazioni di Seneca. Solo in cielo potremo sottrarci alle devastazioni della fortuna. L’esistenza terrena è una merda, meglio morire giovani. Re sarebbero stati fortunatissimi se al momento giusto la morte li avesse sottratti alle imminenti sventure. Luigi XVI. Poveraccio. Fosse morto un mese prima della Rivoluzione Francese. No, forse è stato meglio così: chi si sarebbe ricordato di un uomo inutile come lui? Nessuno. Generali romani la cui grandezza nulla perderà se gli toglierai qualche anno. Pompeo. Ah, se fosse morto prima della guerra civile contro Cesare! Il più grande di Roma. Uomini grandi e famosi nell’avvilente atteggiamento di offrire curvati il collo alla spada di un soldato. Cicerone. Ma chi cazzo glielo ha fatto fare mettersi contro Antonio? Sto coglione! Non capiva una minchia di politica! 164 Ci siamo tutti ricongiunti e, fuori della notte profonda, vediamo che nulla c’è da voi, come credete, di desiderabile, di splendido, di luminoso, ma tutto è greve, bassura, angoscia, solo un barlume della nostra luce. Che dire? Qui non c’è il reciproco furore delle armi, né il cozzare di flotta contro flotta, qui non ci sono né trame o pensieri fratricidi, né strepito di liti nei fori dalla mattina alla sera, qui non ci sono segreti, ma pensieri trasparenti e cuori aperti, la vita sotto gli occhi di tutti, il panorama di tutti i tempi, passati e futuri. Mi compiacevo un tempo di scrivere la storia di un solo secolo, di un pugno di uomini nel più sperduto angolo dell’universo. Ora posso contemplare tanti secoli, la concatenazione di tante epoche, la somma degli anni. Mi è possibile sin d’ora vedere i regni che sorgeranno e cadranno, il crollo delle grandi città, i nuovi movimenti del mare. Se poi può essere di conforto al tuo dolore il destino comune, niente starà fermo nel luogo dove sta, tutte le cose il tempo abbatterà e travolgerà. Esso non si prenderà gioco solo degli uomini – che cos’è infatti questa piccola parte di un cieco dominio? -, ma dei luoghi, dei paesi, delle parti dell’universo. Spianerà intere montagne, tutte, e farà emergere altrove nuove regioni; inghiottirà mari, devierà fiumi e, interrompendo le comunicazioni fra i popoli, disgregherà il consorzio del genere umano; altrove farà scomparire città in vaste voragini e le squasserà coi terremoti, emetterà dal profondo esalazioni pestifere, coprirà con le inondazioni ogni centro abitato, sommergerà il mondo uccidendo ogni essere vivente, con vampe di fuoco brucerà e ridurrà in cenere tutte le creature. E quando verrà tempo che l’universo si estinguerà per rinnovarsi, le cose che vedi si autodistruggeranno, le stelle cozzeranno con le stelle, tutta la materia prenderà fuoco e le varie luci del firmamento divamperanno in un incendio solo. Anche noi, anime beate e partecipi dell’eterno, quando a Dio piacerà di iniziare un nuovo ciclo e sarà tutto in rovina, anche noi, allora, torneremo a dissolverci negli elementi primordiali, noi, piccola goccia nel marasma cosmico. 165 Cazzo che poesia! Scriveva così un uomo di duemila anni fa. Ho sessantatré anni, ho vissuto abbastanza. Sono vedovo. Ho un figlio pazzo che fa esperimenti pazzi. E io che pure mi sono prestato ai suoi esperimenti. Una vita ormai inutile, la mia. Certo, poteva cambiare quarantasei anni fa. Fa niente. Mi avvio al tramonto. Dopo mio figlio, il vuoto. Scomparirà per sempre la mia famiglia. Tanto, sapessi che perdita. A che cosa è servita tutta la mia cultura? A un cazzo. Mi salverà un bel funerale. Sì, un bel funerale. Grande, cattolico, barocco. Una bara in mezzo a demòni e profeti. La bolgia. La bolgia della salvezza. Il Cattolicesimo, la salvezza sul peccato. La danno a tutti. Anche a me. Ecco, vedo già il mio funerale. Sì. La chiesa sfavilla come non mai di marmoreo decoro e di stucchi, di ombre e di svolazzi barocchi, di demòni bizzarri e stravaganti, di santi e di cherubini dallo sguardo rapito, di angeli ribelli che cadono dai cieli. Oh, tutti questi patriarchi biblici imponenti, maestosi, con tonnellate di tuniche, grandi camicioni, vesti immense, barbe bianche lunghissime solenni, occhi di bragia, volto corrucciato sdegnato risentito, indice minaccioso, affollano i soffitti, fuori dalla storia, fuori dal tempo, ma a chi fanno paura? Quanti angeli e quanti santi coi loro mantelli rossi e blu, che con lance e spade uccidono draghi e serpenti, e chissà come fanno se non li guardano, se hanno gli occhi stravolti e allucinati, visionari, esaltati, rapiti, abbagliati dal cielo. Tutti questi angeli ribelli sbigottiti e sgomenti, avviliti, questi demòni grotteschi, diavoli stravaganti che non fanno più paura a nessuno, oggi il male ha aspetti più sottili, questi titani con gli occhi spalancati, sbarrati, cadono dai cieli, cadono negli abissi, si chiedono perché tanta vendetta di Dio, in fondo sono loro che hanno fatto trionfare il Cattolicesimo, si chiedono perché tanto rancore. Traboccano, dai tabernacoli dagli altari dalle cappelle, cristi madonne santi di cera, grasse statue di gesso marmo rosso viola, gelido decoro marmorea verità, traboccano dai soffitti e dai cornicioni tutti, profeti patriarchi angeli santi diavoli maligni spiriti del male, si trasformano in svolazzi ghirigori grovigli arabeschi, ardite volute avvolgimenti e spire, arrotolamenti scioglimenti disgregamenti dissolvimenti, giri rotoli arzigogoli grovigli, garbugli intrecci bizzarri, nodi dedali intrichi labirinti, pasticcio ginepraio di ombre di colori di 166 imbrogli, la mescolanza e il caos, la confusione il disordine ampolloso iperbolico, lasciano il barocco fastoso ridondante per entrare nel capriccioso rococò, nello splendore trionfante esagerato e falso che dilaga sulla desolata, avvilita, miserabile, disperata umanità. Minchia che poesia! Sempre poesia! Ma dove ho letto questa poesia? Boh! La mia vita è una poesia. Io penso e scrivo come i libri che letto. Ma chi è questo che non mi ricordo il nome? Continuo lo stesso. Deve essere uno che ha scritto sempre lo stesso libro. Ricordo sempre cose di morte. Continuiamo. Io sono già nella bara. Tutta la gloria e la pompa di decine di architetti e di pittori, tutto lo sfarzo di secoli di Cattolicesimo è in questa chiesa, in queste volte e in queste navate inondate d’incenso, in queste perfette geometrie che conducono a Dio, allo smarrimento e allo stordimento di Dio. È la chiesa un tripudio di fiori, di orchidee rigogliose, di mazzi di garofani rossi, di nastri d’oro e d’argento, fiori e fiori e mille colori che addobbano le colonne. Ma la chiesa è ugualmente una bolgia infernale, un’assemblea appiccicosa di coscienze disperate, di gente sull’orlo dell’abisso. Agli altari minori laterali, ai tabernacoli ai tempietti alle tribune ai cibori alle edicole, è un girone dantesco di maledetti, si è come sospesi, in aria, l’aria, manca l’aria, ci si spinge ci si lamenta si bestemmia davvero, bel rispetto per questo funerale. Vedo volti allucinati storditi sconvolti frastornati confusi, intronati dal caldo e dal tanfo, altro che fragranze di fiori e profumi olezzi effluvi d’incenso, inusitate celestiali essenze, qui è un inferno di cattivi odori e di miasmi, di sudore e di olezzi nauseabondi, di fetore di piedi di puzza di piscio, di respiri affannosi ansimanti, di volti spregevoli e repellenti, di camicie sporche e sudate, di capelli sudati, di barbe incolte sudate, di mani callose e di unghie lunghe come artigli sudate nere sporche, coppole nere sporche sudate. I preti. Oh, i preti! Questi trasportatori di anime nel mondo celeste! I preti aspergono le anime stordite dei presenti, frastornate da piviali, manipoli e pianete, da questo tripudio di suoni fumi e messali, da tutti questi chierici e sacrestani che con secchielli dell’acqua benedetta, con turiboli e navicelle d’incenso, accompagnano i cori e i 167 sermoni, le prediche dei preti, le voci dei cantori, le omiletiche parabole dei prelati. Tacciono all’improvviso gli organi, dalle cantorìe si levano canti e osanna, dai neri paramenti del pulpito fino al portale e alla cupola, alle cappelle e agli altari minori, ai tabernacoli e alle menti sconvolte, giunge - stentorea e potente - la voce del vescovo. Il vescovo? Ma non è il prete che celebra il mio funerale? Ma che cazzo sto raccontando? Il mio funerale o l’ordinazione di un sacerdote? Di un diacono, forse? Un matrimonio? Comunque, vediamo che cazzo dice il vescovo. Tanto, dicono sempre le stesse cazzate. Il vescovo parla dell’anima sordida e sozza, malefica del Diavolo, che ha intorbidato gli animi e traviato i sensi, portato il male ad Almeda. Ma, dice, il male è presente in tutto il mondo, segno inequivocabile della corruttela dei tempi e del pervertimento delle coscienze. E io che cazzo c’entro col male? Boh! Continuiamo. L’uomo è stato tradito anche dalla stessa natura che credeva di aver dominato, dice il vescovo, dai sistemi economici e politici, dalla tecnologia con la quale pensava di potere raggiungere la felicità. È un tempo di confusione e di smarrimento, ma Dio non abbandona mai i suoi figli, i giusti e i puri di cuore, presto ritorneranno il benessere e la pace. Soliti discorsi sulla fine del mondo. Ne approfittano anche col mio funerale. La disonestà, l’invidia, l’odio, la brama di possesso, il volere incondizionato, la corruzione, la superstizione, hanno portato l’uomo alla rovina, per questo proliferano i ciarlatani e i tentatori, ma già si intravedono i segni del cambiamento. Uno di questi è il permanere della fede, la fede che aveva Francisco Bardana. Io? E quando mai? A talè. Io, autore di romanzi e opere storiche mastodontiche interrotte. Io, un fallito. Senso di fallimento. Delusioni amorose. Vita strozzata in amore, ingorgo sentimentale, occasioni perdute. Un figlio inventore pazzo. Vedovo. Ho amato veramente mia moglie? Emarginazione intellettuale. Tentativi di suicidio. Sì. Delusioni professionali. Progetti letterari e storici giganteschi mai realizzati. Senso di fallimento professionale. Depressione. Medicine. E un figlio pazzo che vuole trovare la formula della felicità. Sic transit gloria mundi. Meno male 168 che a casa mi immergo nelle musiche divine di Bach, Beethoven, Mozart, Gershwin. Musica classica, sinfonie, la musica dell’universo. Meno male che ho la passeggiata col mio cane. Solitaria. Vicino al mare. O in campagna. Ormai parlo solo con lui. Attendo qualcosa dal mio passato. Qualcosa accadrà. Non so che cosa, ma qualcosa accadrà. Qualcosa o qualcuno. Strano: mi aspetto il futuro dal passato. Il futuro è il mio passato. Forse qualcosa accadrà, uscirà dal chiuso mondo dei libri e andrà in giro per il mondo. Qualcosa mi salverà. Una fiducia nella vita o nel destino? Forse questo folle di mio figlio inventerà qualcosa che mi salverà. Potevo cambiare la storia. Ero piccolo, e potevo cambiarla. Mi capiterà più un’altra occasione? Fallimento di una famiglia, di una stirpe, di una storia. Bibliotecario. Sono a contatto con mille mondi e con nessuno. Sono solo. Come si chiamava quello dei funerali? Ah, Bardana forse. 169 Capitolo XX Francisco Bardana e le donne Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il bibliotecario, nel 1983. Solamente lei dovevo amare, Anna Maria Lisa. Lei doveva riempire tutta la mia vita. Che cazzo di amore è questo di Pasifae per il toro? Amori bestiali. Non dovevo leggere questo canto, oggi. Pure perversioni. Cose greche. Incesti, amori bestiali. Edipo re e Giocasta. Pasifae, moglie di Minosse figlio di Zeus e di Europa, sorella della maga Circe, che si innamora di un toro inviato da Poseidone. Prega Dedalo di costruire una vacca di legno. Lei si mette dentro e si fa sfondare la fica dal toro. E nasce Minotauro. E Dante fa di quel mostro del mito il custode del settimo cerchio dell’Inferno in cui sono puniti i violenti. Cazzo! Passione animale. Ma Arianna e Fedra erano figlie di chi? Dante, Purgatorio, canto XXVI, girone settimo, lussuriosi. Fedra e il figliastro Ippolito. Passione bestiale, incestuosa. Porci. Secondo il mito la donna, innamoratasi del giovane e da lui respinta, l’avrebbe accusato di tentata violenza presso il padre Teseo, provocando così il suo esilio da Atene. “Ne la vacca entra Pasife, perché ’l torello a sua lussuria corra”. Beccati questo, Minosse. Così impari a sacrificare il toro bianco che Poseidone aveva fatto emergere dalle acque, per farti accettare come re di Creta. Invece di sacrificarne un altro. E Poseidone fa innamorare tua moglie di un toro. La fa scopare da un toro. Il toro che cazzo ha? Pasifae si mise col culo a pecora dentro la giovenca di 170 legno. Voglie carnali soddisfatte. Che dico? Due ore di scopata bestiale. Anna Maria Lisa. Desiderio struggente di incontrare la donna della mia giovinezza. Oggi ho spulciato nei libri d’amore. Ho letto storie d’amore. Devo scrivere una storia d’amore sublime. Io che forse non ho mai amato nessuno, potrei scriverla solo io, per il distacco che avrei in questa storia. Mia moglie Angela non meritava un uomo come me. Io volevo amare solo Anna Maria Lisa. Il mio primo amore. Ho trasmesso questa malattia a mio figlio. Disperato per amore. Amori disperati. Abelardo ed Eloisa, Paolo e Francesca, Achille e Briseide, Leopardi e Fanny, Cesare e Cleopatra, Antonio e Cleopatra. Sì, Cleopatra somiglia a quella Federica di… Però, via, era una gran puttana. Cleopatra troia, si è fatta tutta Roma. Ma Cesare non era pure frocio? Carlo Magno, Ermengarda… Oh Carlo, il re, il sire, la caccia: ma vai a fare in culo, tu e Manzoni. Carlo Magno. Le donne amanti di Capi di Stato, Pompidou, Cleopatra, Didone. Dante, i lussuriosi. Mussolini, Hitler. Quello sì, un gran trombatore. Hitler se ne fotteva delle donne. No, ha avuto pure lui molte donne. Eva Braun, moglie per un giorno di Hitler. Però Hitler era un depravato. Con sua nipote Geli, con Eva. Nel potere non c’è vero amore. Mussolini, che maiale pure lui. Due mogli, dodici figli tra legittimi e naturali, centinaia di amanti. Ma che cazzo aveva? Un cannone, aveva. Che sparava sempre. Napoleone dicono che ce l’aveva piccolo. Certo, era piccolo. No, non ce l’aveva piccolo. Gliel’hanno tagliato quando era morto. Quando siamo morti, ce l’abbiamo tutti piccolo. Garibaldi, Anita. Che donna! Stalin, questo era un altro porco. Incestuoso. Che uomo! Lasciamo perdere i politici, non ne usciamo più. E le attrici e gli attori. E i riccazzi. Più romantico parlare degli amori dei poeti. Le donne dei poeti, degli scrittori. Beatrice. O che schifo, lo Stilnovismo! Dante, le seghe mentali si faceva. La dark lady di Shakespeare: per me era frocio. Leopardi segaiolo. Sì, certo, grandissimo poeta e filosofo, ma segaiolo: Silvia, la finestra, puah! 171 Nerina, e che cazzo! Manzoni, i matrimoni: come mio nonno che voleva sempre sposarsi. Solo il matrimonio. Nevrotico, epilettico, solo uno come lui poteva creare Renzo e Lucia. Renzo e Lucia, oh Renzo…! Seee! Quello tutta vestita se la scopava. Perché, se la scopava? Mozart porco, maiale. Orazio che si guardava negli specchi quando fotteva. Tutti porci, questi musicisti e scrittori. Seneca che sposa Paolina, una fanciullina. Toh, pure la rima. Tutti porci gli antichi. Greci, Romani. Grandi uomini, piccoli uomini. Catullo, Lesbia. Tibullo, Properzio, Cinzia. Ovidio, altro grande porco. Esiliato. Che ha visto? Nella dinastia Giulio-Claudia erano tutti incestuosi. Caligola, Nerone che si scopa sua madre Agrippina, Claudio e quella puttana di sua moglie Messalina. Che porci. Per questo nascevano pazzi. L’amore in Grecia, nella letteratura latina, Lesbia, Clodia, le puttane, le meretrices. Quante puttane nelle commedie di Plauto, quante puttane! Quante puttane in tutte le letterature mondiali… Sì, perché tu, che cazzo hai avuto, Bardana? Solo puttane hai avuto! Amore e Psiche, l’amore che si ricongiunge col Divino. L’asino. Lucio che diventa asino, scicchigno. Ma che c’entra questo? Una storia di scecchi dentro una storia sublime: Amore, un Dio che si innamora di una donna terrena. Dante, la donna-angelo, che salva l’uomo e lo conduce a Dio. Beatrice, la teologia. Che però non salva. Minchia, c’è voluto San Bernardo per fare vedere Dio a Dante. Che cazzate! Beatrice, creatura incorporea, perfetta, irreale. Aveva la fica Beatrice? La Teologia, la scienza di Dio, Beatrice, le virtù teologali che conducono alla salvezza, alla perfetta felicità intellettuale e spirituale. Guinizzelli, la donna- angelo mandata da Dio a salvare l’uomo, Cavalcanti l’amore tormentato, l’angoscia. Cazzate. In sostanza, lo Stilnovo è una grande cazzata. Meglio le puttane di Cecco Angiolieri. Becchina amor. Altro che Beatrice, l’amore platonico. Qui si fotte. Laura. Laura è più vera. 172 Invecchia, pecca. Una storia vera, forte. La donna è donna veramente, la carne. Oddio, per modo di dire. Erano i capei d’oro a l’aura sparsi… Meglio Francesca, una sanguigna, che si fa sbattere da Pauliddu, alla faccia di Gianciotto sciancato e brutto. Boccaccio, il Decameron. Lì sì che ci sono le femmine. Vere. Adultere, puttane. Tutte. Le donne sono protagoniste, emancipate. Moderne. Donne terrene e sensuali, che si lasciano sedurre. Sì, mi piacciono. Non sono come Laura. Donna superiore. Ariosto. Lui sì che ha rivoluzionato la donna. Donne emancipate, indipendenti. Che sanno quello che vogliono. Che sanno come raggiungerlo. Che fanno impazzire gli uomini. Orlando tradito da Angelica, che si fa sbattere dal musulmano Medoro. Orlando che si strica in terra. Cu tuttu u pilu. Dopo che scanna mezza Francia e mezza Africa. Bradamante, però con tutta la sua femminilità, che cavalca vestita della sua armatura e sconfigge cavalieri e maghi, mentre Angelica pensa, riflette, calcola il modo migliore per raggiungere il suo scopo. La donna a corte, la letteratura cortigiana. Chansons de Geste, la donna, la vita cortigiana, la donna pura e angelica, il cavalier servente, il cavalier vassallo, pronto a superare qualsiasi prova da lei stabilita o qualunque sacrificio in sua difesa. Quante minchiate! No, la storia di Carlo Magno non mi piace. Questo Orlando che impazzisce per Angelica… Il vero amore è quello passionale, di Lancillotto del Lago per Ginevra, e questo ruffiano di Galeaut… Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, da quel giorno più non vi leggemmo avanti. Ah, Dante! Donne che salvano gli uomini. Donne forti. Altro che Lucia. Arrendevole. Debole. Oh, Renzo. Ha, ha. Mischina. Ma come poteva avere desiderio, don Rodrigo, di scoparsi una come Lucia? Lucia: donna passiva. Sogna il matrimonio, sogna i figli, ma non fa una minchia per realizzare i propri sogni. Si affida a Dio. Seee! Fossero tutte come lei… Gertrude sì, femmina sanguigna, peccatrice, donna di questo mondo. Comunque, non c’è nemmeno una donna positiva nei 173 Promessi Sposi: tutte passive, Agnese, Lucia… Anche quella Perpetua… Tutte donne che si affidano a Dio. Oppure sono biasimevoli, sì, biasimevoli… E le donne di Svevo? Ada, donna sicura, seria, donna moderna. Zeno l’inetto della vita, nevrosi, la modernità. Ah, le donne! Augusta, la moglie ideale, casa e famiglia, ma rifugiarsi nel presente è malattia, poiché non ci si rende neppure conto di essere ammalati. Carla l’amante di Zeno. O Romeo! O Giulietta! L’amore che non conosce limiti, l’amore disperato, che nessuna forza potrà mai dividere. Anche Isotta, cazzo, muore! Come Tristano! Minchia, ma perché queste storie finiscono così tragicamente? Anche Orfeo e Euridice, e il disgraziato che si gira a guardarla e la perde per sempre. Pierre Bezukhov e Natasha Rostova. Guerra e pace. Tolstoj. La pace dopo la guerra. Cirano e Rossana, l’amore impossibile che diventa possibile. La bellezza interiore. La generosità. L’amore oltre la bellezza fisica. Questa cosa, sì, mi piace. Via col vento, Rhett Butler e Rossella O’Hara… Quel coglione di Alfonso Pirrera ha visto il film quarantacinque volte, che palle! Però, bella storia, via! Storia turbolenta ma che lascia spazio alla speranza di un nuovo incontro. Cime tempestose. Cazzo, sto sconfinando nel cinema. Sto decadendo nel cinema. L’amore distruttivo, tra Cathy e suo fratello adottivo Heathcliff. Marquèz, Florentino che minchia, che se la fotte dopo cinquant’anni, la fica di una di settant’anni… Questi amori incredibili. Il mondo moderno. Io non capisco il mondo moderno, io non capisco l’amore moderno. Io non capisco l’Occidente, meglio l’Oriente. L’amore in India, il Kamasutra, lì sì che si ficcava, ah! O potenza della fica! Rama e Sita, Ramayana. Sette libri d’amore, 24.000 versi. L’amore totale. Un’epopea. L’Induismo. Rama, settima reincarnazione del dio Vishnu, Sita, reincarnazione della dea Lakshmi. L’amore che supera le tentazioni demoniache, l’amore che perviene alla sua indissolubilità. L’amore divino. Il demonio Ravana che rapisce Sita moglie di Rama, la sconfitta di Ravana, la liberazione di Sita, il trionfo del bene, il congiungimento col Divino. Cazzo che cultura! Le difficoltà, le prove prima di giungere al Divino. 174 Krishna che si scopa le pastorelle. Bello, le pastorelle sono le più eccitanti, ma dove cazzo sono oggi le pastorelle? Sì, l’amore sublime è quello indiano. L’ha descritto bene quello strano scrittore, come si chiama? Ah, sì, Bellanca. No, Bardana. Oh, Krishna, l’iniziato. Oh, divino fanciullo, figlio di Mahadéva, mediterraneo Krishna dei mille volti sempre gioiosi… Tu che hai la madre bella come una ninfa e una regina, giovane madre radiosa che ha turbamenti misteriosi strane malinconie, e cerchi e trovi sotto le palme il suo sguardo d’amore nel chiarore abbagliante del meriggio, e lei ti prende fra le sue braccia, e col suo sorriso ineffabile ti stringe al suo seno: non andare. Oh, malizioso giovane che suoni il flauto, conquista ancora il cuore delle pastorelle, come potente eroe. Tu che sei cresciuto fra armenti e mandriani in questa valle fresca di montagna piena di pascoli, fra foreste di pini, fra distese di mandorli e ulivi, e hai il volto radioso e con il tuo sorriso e i grandi occhi diffondi la gioia. Tu che giochi con le caprette e con gli agnelli, nei boschi, nei fiumi, nelle ombrose vallette, sdraiato sul prato, giochi con gli animali, i bambini gli uomini, le donne i vecchi, e tutti ti amano, e tutti tu ami. Tu che hai vagato per settimane sul monte Mèru, e hai conosciuto un vecchio centenario anacoreta e saggio – oh sì, maestoso di saggezza - che ti ha insegnato a cercare, tu che hai riunito i tuoi compagni e hai trasformato i pastori in guerrieri per difendere i buoni e distruggere i malvagi, con l’arco, frecce e spada; tu che hai ucciso le belve feroci e i sovrani cattivi ma in cuor tuo volevi rivedere tua madre che era sparita: non andare. Le gopi, le pastorelle, le figlie e le mogli dei pastori escono incantate dalle tue melodie, sono ammaliate, tu le conquisti col tuo canto. Tu che all’ombra dei cedri profumati e dei grandi pini, nell’aria luminosa del mezzodì sotto i raggi splendenti della luna, il cielo infinito sogni, e le donne e le fanciulle, le maliziose pastorelle, ti ascoltano rapite, oh che racconti appassionanti! Tu che insegni loro a cantare e a mimare con gesti armoniosi le esaltanti imprese degli dèi, le loro voci armoniose e ridenti si perdono lontano, tu che insegni i 175 canti e le danze sacre: ecco, non sparire, e lascia ancora dietro di te il profumo del tuo essere. Guarda le gopi innamorate e belle, giocano nel fiume, hanno le vesti trasparenti le incantevoli pastorelle, guarda il loro sorriso la bocca di rosa, giocano, con le dolci mani nude si buttano l’acqua addosso, chiudono gli occhi luminosi, ecco, tu vedi i seni turgidi e acerbi, profumano di miele, sono calici di nettare, coppe d’ambrosia, guarda il movimento elegante dei loro fianchi, le agili dritte cosce, il ventre teso, gocce che vi scivolano fino alla peluria – oh, sì, tu ardi di desiderio, già le possiedi, sei dentro i loro corpi nudi, il tuo corpo nudo è solo coperto di fiori, di ghirlande di fiori e di corone di lauro, profuma di petali di rosa, di fiori di loto. Arrossiscono, tremano, sono inebriate del tuo essere. No, non andare, amato Krishna. Le pastorelle ti offrono il loro ventre nudo e tremante, pregano, tu dici parole d’amore, le adagi su un letto di foglie, profuma di gelsomino. Non abbandonare le tue predilette, sono loro le tue regine, le pastorelle dai capelli fluttuanti nel vento, chiudono gli occhi e si uniscono a te, aprono le cosce, il segreto estremo della loro nudità, della loro verginità, ognuna ha un sussurro diverso, un respiro diverso, un nome. Le voci che hai sempre sognato, i corpi che hai sempre sognato. Tu sei con loro, dentro di loro, ogni notte, tu sei il loro desiderio, tu sei il loro sposo, le riempi del tuo essere. Solo l’amore conta, vano è l’uccidere, mai le frecce raggiungeranno l’anima, la vittima sempre trionfa sull’assassino. No, non andare, amato Krishna. Tu guardi oltre le frondi degli eucalipti, tu guardi verso il mare. Sì, tu vuoi andare verso la storia, la fiammeggiante storia. Perché? Tu sei sempre dentro la storia, amato Krishna, la tua anima sale sempre negli spazi siderali, tu sei il padre, il figlio, l’anima di tutte le cose create, un abisso ti separa sempre dal mondo e dalle sue apparenze vuote. Perché andare? Cazzo, questo sì che è amore! Che poesia! Ma perché non è diventato famoso questo Bellanca? O Bardana? Tu sogni un paradiso che non esiste. Svegliati, falso Krishna, ti fanno sognare un paradiso che non è mai esistito. Tu hai letto chiacchiere vuote, ti raccontano favole senza senso. Consegnati a me, sono io la Storia, sono io il tuo Paradiso, io sono il tuo Destino. Il 176 Male ormai è dentro Almeda, è dentro di te, solo io posso salvarti. Rivela il tuo segreto e consegnati al Destino, al mio Destino. No, il Demonio mi rompe i coglioni. Non ci vuole, rompe la poesia, caro Bardana! No, io devo andare, risponde Krishna l’iniziato, ignorando le parole dell’indiano, serafico felice sorridente all’ombra dell’acacia la gigantesca acacia. È finito il tempo degli amori, ed io devo andare, io devo agire. Perché io sono Sri Krishna l’iniziato, la più grande, l’ottava manifestazione di Visnu, dio solare dio blu dio splendente di gemme dalle otto braccia, io sostengo e governo l’armonia e l’esistenza dell’universo, io giaccio nella notte tra la creazione e la distruzione del mondo e sogno le creature che sono stato perché possano tornare. Sì, io sono il fanciullo divino, il malizioso giovane che suona il flauto e conquista i cuori delle pastorelle, e ho creato l’universo per gioco, un gioco bello e facile, un innocente gioco d’amore, e proteggo il bene perché sono buono e dunque tutto ciò che faccio non può essere che bene, e suono e danzo sui mondi che ho appena distrutto e liberato. Ma io sono anche Shiva, oh sì, dio di vertigine, della oscura profondità e della folgorante illuminazione, io sono il dio della morte e della liberazione, io creo gli esseri e li distruggo alla fine di ogni tempo, sono il principio e la fine dell’illusione e della liberazione di tutte le forme dell’universo, io sono il fuoco che riscalda e che distrugge, sono la calma freddezza della luna, sposo timido focoso amante, io sono la morte ma uccido la morte, sono l’eterno al di là di ogni tempo, ed insegno il silenzio, la musica, lo yoga, la sapienza segreta, le arti, la scienza. Sì, io devo andare. Perché io sono Brahma, il dio che crea, le eterne morti e le rinascite dell’universo sono le mie morti e le mie rinascite. Sono Shiva, il dio che distrugge, Visnu, il dio che in meditazione preserva tutto l’ordine dell’infinito ciclo dell’universo, faccio sparire dalla mia coscienza le forme transitorie e illusorie, io raccolgo e riconfondo tutte le creature. Io racchiudo tutte le infinite forme del mondo, nel tempo di ogni immane dissoluzione mi racchiudo nella profondità della contemplazione e guido ogni forma a essere riassorbita da me. 177 Perciò anche voi alzatevi e combattete, non cedete all’inazione, assolvete i vostri obblighi verso gli altri, oppure passerete alla storia come codardi e paurosi e avrete onta e perpetuo disonore. Tutto ciò che vedete è irreale e transitorio, anche i fondatori degli Stati, i valorosi generali, i grandi comandanti, i grandi eserciti. In verità vi dico che tutto ciò che deve accadere è già accaduto dentro di me. Alzatevi e combattete, siate saggi, ciò che non è nato non può morire, può morire il corpo, essere distrutto, non l’anima che passerà ad un altro corpo e rivivrà in altre incarnazioni, e sperimenterà ancora l’infanzia la giovinezza la virilità la vecchiezza, in questo mondo di mutazioni e di illusioni, la vita e la morte sono cose superficiali. Ma ndo vai, coglione di un Krishna, scopati le pastorelle. Questo mondo non merita di essere salvato. Chi si deve alzare, chi deve combattere? Scendi dai tuoi sogni, tu non sei Krishna, tu non sei Shiva, tu non sei Brahma, tu non sei Visnu, nessuno lotterà per te, nessuno si alzerà per te. Tu non hai avuto amori, tu non crei né distruggi, tu sei l’illusione, tu sei il fumo del mondo. Vieni con me, vano è l’agire senza un destino, io sono il Destino. Non puoi più evitare il Destino, non puoi più evitare la Storia. Consegnati a me, rivela il tuo segreto, ed io ti guiderò verso il Destino. Ma quale Destino, non ascoltare il Diavolo. Scopati le pastorelle. Non fare lo sbruffone. Non fare il saggio. Fai l’amore con le pastorelle. Saggio è l’uomo che si libera delle catene del desiderio. L’uomo che non è attaccato alle cose e agli oggetti, chi si libera della tempesta dei desideri dei sensi, ricordate che l’attaccamento genera sempre desiderio passione follia, perdita della memoria e della ragione, chi si libera da questa affezione consegue la pace e poi la calma e infine la saggezza. Saggio è l’uomo che cerca tutto ciò che è in armonia con la propria natura, il desiderio la concupiscenza – oh, questo sozzo abitante dell’anima - portano al peccato e all’errore. Sappiate che le gioie e i piaceri dei sensi sono veramente le matrici del futuro dolore, essi appartengono al mondo del principio e della fine. Saggio è colui che non nutre malizia alcuna, che è amico di tutta la natura, che è 178 misericordioso e privo di orgoglio, di vanità ed egoismo, che non è turbato dal piacere e dal dolore, che sopporta i torti e perdona, che è sempre felice e devoto e governa la mente i sensi e le passioni. Ma lascia perdere! Ancora credi a queste minchiate? I tempi sono cambiati. Ah la liberazione dal desiderio! Dalla concupiscenza! Dalle passioni! Tu ti contraddici! Così conquisterai il mondo? Senza la vanità, senza l’orgoglio? Senza il piacere dei sensi, senza il desiderio di gloria? Per che cosa si alzeranno i tuoi guerrieri, per che cosa combatteranno? Tu predichi l’inazione. Guarda la storia che hai lasciato dietro, guarda il tuo paradiso, l’India, un popolo di affamati, di miserabili, di perdenti, preda di visioni! Fammi partecipe del tuo segreto ed io ti porterò verso la fiammeggiante Storia, io ti farò dominare sul mondo! Il Diavolo tentatore! Bastardo! Tutti si devono abbandonare in me. Saggio è chi si abbandona in me, chi agisce per me. Ecco il cammino verso l’illuminazione e la salvezza: l’azione, la conoscenza e la devozione, ogni essere vivente si deve abbandonare a me, deve donarmi ogni azione. Ecco perché voi dovete agire: voi dovete solo compiere il vostro destino. Alzatevi e combattete, dunque, in tutte le regioni dell’universo non esiste l’inazione, voi fate il vostro dovere senza attaccamento a ricompense, non curatevi dell’esito finale. È l’azione libera e indipendente quella che scaturisce dal dovere. Ed è sempre meglio compiere il proprio dovere anche se umile che quello di un altro che può apparire più nobile. Chi si astiene dall’azione, chi gode i frutti dell’azione e non agisce, chi trascorre il tempo nell’ozio, vive una vita vergognosa e vuota. Ognuno deve adempiere bene la propria parte nel mondo, assolvere i compiti che incombono. Agire per te! E per cosa? Il dovere! Quale dovere? Che senso ha agire per compiere un destino già scritto? E il libero arbitrio? Chi agisce per te ha già perduto. Non si può agire senza una meta! Guarda il mondo creato, agire per mantenere questo caos? Beh, forse qui il Demonio ha ragione. Agire per chi? 179 Vedete, io non sono obbligato a fare nulla né in questo mondo, né in tutti gli altri mondi, perché essi mi appartengono. Io non ho nulla da ottenere perché ho tutto. Eppure io agisco. Se io non agissi, non cadrebbero tutti questi universi in rovina e non regnerebbe dappertutto il caos? Perché io ho ricordo delle mie vite passate, voi no. Io sono al di sopra delle nascite e delle rinascite ma io appaio sempre nell’universo quando la virtù e la giustizia vengono meno nel mondo, io allora vengo per distruggere il male e ristabilire la virtù e la giustizia. Ma fammi il piacere! Pazzo! Tu sei un pazzo! Come distruggerai il Male? Come ristabilirai la giustizia? Tu vendi fumo, tu vendi visioni! Ma forse tu reciti una parte, questa è la verità, tu perdi tempo nell’attesa che si compia qualcosa! Ma qualcosa è già accaduto ad Almeda, qualcosa è accaduto in te, è arrivato il Male, questo è accaduto. Non dimenticarlo. Vanitoso, hai perso l’incontro con la Storia! Ora parla, continua a parlare, tanto nessuno ti crederà, parla pure della tua smisurata vanità. Così dicendo, l’indiano, ma qualcuno fra i presenti pensò pure che potesse essere pakistano o del Bangladesh, o forse no perché non sembrava musulmano, come aveva fatto il giorno prima l’altro misterioso orientale, si alzò e si avviò con passo lento e pensieroso giù verso il cancello d’ingresso. Lo superò, passò vicino al Burda, sembrò confondersi con lui, con la moglie, con la figlia, con l’ulivo, con l’ombra, infine scomparve nel tremolio incerto del vento e della calura mattutina. Ma chi cazzo è questo, è veramente il Demonio, questo? I mondi e gli universi vanno e vengono, disse infine Krishna l’iniziato guardando verso occidente, verso il mare, sotto lo sguardo attento dei suoi tre solerti amici e dei suoi discepoli che attendevano la parola definitiva, i giorni e le notti passano e ripassano, tutte le cose visibili diventano invisibili, gli universi scompaiono e sono ricreati. Io sono l’indistruttibile, eterno nella mia suprema dimora. Io sono il 180 sostegno di tutte le cose ma queste ultime non sono me, tutte le cose sono di me ma io non sono di loro. Io sono la preghiera e l’invocazione, il culto e il sacrificio, l’incenso e il fuoco, sono il santo, sono il sentiero e il consolatore, il creatore il rifugio l’amico, l’origine e la fine, la creazione e la distruzione, la morte e l’immortalità, l’essere e il non essere, sono la fortuna e la memoria, la forza la conoscenza, la mente la vita, il motore supremo, il saggio il condottiero, il nome di Dio, la pazienza, la vittoria, la verità, io sono il seme, la pioggia e il sole. Ogni cosa fluisce da me, io pervado l’universo eppure rimango sempre me, le mie manifestazioni sono senza fine. Se io distruggo, io distruggo per la salvezza. Ma voi, o miei prediletti, voi, volete sapere che cosa realmente vedete in me? Voi vedete le innumerevoli armate celesti degli angeli e degli arcangeli, vedete tutti gli dèi planetari e i reggitori degli universi e dei mondi, e milioni e miliardi di forme divine e umane e animali di ogni specie genere e qualità, voi vedete tutte le cose animate e inanimate, le innumerevoli forme di tutti gli esseri viventi, e milioni e milioni di braccia e corpi e occhi, voi vedete me senza principio e senza fine e senza centro, i miei occhi sono milioni miliardi di soli, io riempio i cieli e la terra della mia luce. Voi vedete i mondi e gli universi, bilioni di armate che mi guardano con timore e smarrimento, sono stupiti delle mie meravigliose e potenti manifestazioni, voi vedete me rilucere di glorioso splendore, i miei potenti raggi irradiano in tutto l’universo, voi vedete tutte le armate e le legioni degli universi dei mondi delle regioni dei piani che contemplano con stupore il mio tremendo aspetto, ecco, ora li vedete i grandiosi e stupendi eserciti celesti fuggire a me per rifugio e protezione, tutte le armate dei mondi, in reverente atteggiamento, vedete anche i miei nemici, generali, capi e grandi guerrieri, eserciti, come le correnti rigonfie dei fiumi si riversano nel mare, così tumultuosamente nelle mie bocche fiammeggianti essi si riversano in fretta come se desiderassero la loro distruzione, ed io li azzanno, li riduco in polpa, in polvere, io divoro tutti quanti gli uomini, da ogni parte e senza limiti. Oh, veramente io divoro gli uomini, tutti gli esseri viventi, io consumo i mondi, io Signore di tutto! Voi vi prostrate dinanzi a me, mi pregate con le mani giunte. Mi chiedete come realmente mi vedete? 181 Voi vedete me come Tempo, pienamente maturo e completo, e come creatore e distruttore del genere umano, perché io afferro e consumo i mondi, tutti coloro che stanno dinanzi a me. Ora sapete, dunque, che non uno dei vostri nemici, non uno di questi guerrieri così orgogliosamente schierati in battaglia potrà sfuggire a me! Perciò alzatevi, e combattete la vostra battaglia! Andante incontro al vostro destino, affrontate i vostri nemici, non temete, perché se saranno uccisi, essi saranno stati uccisi da me, e se saranno salvi, saranno stati salvati da me! Ma ricordate, solo chi osa sarà salvato. Perciò fate il vostro dovere, come guerrieri, o come capi! Conquistate fama in battaglia, battete i vostri nemici ed entrate con gioia nel regno conquistato! Combattete senza paura e distruggete i vostri nemici! Giacché voi dovete sempre sapere che essi sono già stati sconfitti da me, e voi siete solo lo strumento che esegue il decreto di ciò che gli uomini chiamano Destino. Bello, tanta poesia. Tanta verità. La Baghavad Gita. Però era meglio se restavi a scoparti le pastorelle. Krishna. È vissuta gente, come Leopardi, che non ne ha mai scopata una di pastorelle. Per me, tutta la sua poesia nasce da questa frustrazione. Ingorgo sentimentale, dice Benedetto Croce. “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle”. Per me Giacomino era un maudit. Antesignano, un poeta maledetto. Sì, certo non si drogava. No. Questo no. Poverino, pure questo ci voleva. Però mi piace, amore e morte. Più morte che amore in Leopardi, nessuna donna lo ha amato. Per me, Giacomino è morto vergine. Anche se Antonio Ranieri vuol far intendere, nei suoi Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, che lui è andato a puttane. Amore e morte. I romantici amavano l’amore e la morte. Poeti maudits. Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Mallarmè? L’autodistruzione. La malattia dello spirito. L’amore che diventa 182 eterno solo con la morte. Hemingway, Morte nel pomeriggio, “Se due persone si amano non può esserci per loro una fine felice”. Minchia che allegria! Meglio Lawrence, L’amante di Lady Chatterlay, l’amore erotico. L’amore. Che scopate col guardiano! L’amore del Ventesimo secolo. Per me, Lawrence anticipa il porno. È superiore al porno, perché uno se lo immagina il porno con Lady Chatterlay. Scrittori froci. Wilde. Pasolini. E questo che c’entra? Ma l’amore più grande, l’amore più sublime è nella Bibbia. Adamo ed Eva. No, Gesù e Maria Maddalena. No, non pensarlo. Gesù e l’amore. Gesù amava le donne. No, non pensarlo, amore sacrilego. Lasciamo perdere, ci hanno fatto tanti film, tanti libri inutili con queste cazzate. Gesù era anche un uomo, poteva fare l’amore, che c’è di strano? 183 Capitolo XXI Il Cantico dei Cantici, l’amore Sogno di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario Di quando il puro sogno dell’inventore di Almeda contattò il sogno del ricordo di Francisco Bardana e insieme rivissero una giornata particolare di Francisco Bardana di quando faceva ancora il bibliotecario, nel 1983. Il Cantico dei Cantici. È nella Bibbia il più bel canto d’amore. Questo Bardana – Baldana o Bardana? - in un suo libro ne ha fatto un bel riassunto. Un’ispirazione. Ispirato. Forse è più bello dello stesso Cantico. No, forse esagero. Però, perché le grandi case editrici lo snobbano? E certo, loro pubblicano solo polizieschi, gialli, horror, spystory, porno. Porcherie. Il Cantico dei Cantici. “Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele”, dice Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5. Vero. Un amore totale. L’amore tra due innamorati, tra un uomo e una donna, tra un popolo e il suo Dio, tra la Chiesa e Cristo. La sensualità, la carnalità, lo spirito. L’amore, la verità della vita. L’amore, la sorgente eterna della vita, l’orizzonte ultimo della vita. L’unico libro della Bibbia scritto interamente in forma di dialogo. Il Cantico: solo l’amore spinge a parlare d’amore. Cantico di re Salomone: per me, il cantico dell’amore e basta. Di tutti i popoli, di tutte le razze, di tutti i tempi. Lo sposo e la sposa, l’amore coniugale. L’amore. Per me lo ha scritto un anonimo. L’amore, la gioia, Dio. Israele e la terra promessa. Il patto del monte Sinai, l’amore. Che poesia! Il popolo d’Israele nel deserto. La resurrezione dei morti. Il rapporto d’amore con Dio. Un amore lontano, le parole che somigliano al silenzio, ai gradi più alti del silenzio, la musica cessata in ogni suo suono che affiora come pura memoria. Parole senza tempo. Pura poesia. Senza poesia non si può vivere e neppure amare. Il Cantico, l’amore portato dalle parole. Si muove sulla soglia, in 184 quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la morte è eguagliata solo dall’amore. La sera, la morte velata. Solo l’amore capisce l’amore. Solo l’amore, solo chi è ferito dall’amore comprende le profondità abissali del Cantico. L’amore è Dio. Esperienza di Dio. Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! L’amore, come la morte, chiede tutto. Amare vuol dire perdere la propria libertà, la propria vita, non appartenere più a se stesso, appartenere all’altro. Perdersi, perdersi nell’amore per ritrovarsi. Il Cantico: l’amore erotico, l’amore voluttuoso, l’amore virtuoso, l’amore indissolubile, l’amore mistico. L’amore divino. L’amore del giardino. È soprattutto la donna che parla. La donna sorgente della vita. La centralità della donna. Che evoca la presenza dell’amato, accende e alimenta la fiamma dell’amore. L’amore è profumo. I tuoi amori sono più buoni del vino. Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo nome, per questo le giovinette ti amarono. L’amore è musica, il ricordo dell’amato è musica. Ricorderemo i tuoi amori più del vino. L’amore è il trionfo di tutti i sensi. Certo, l’amato parla poco, però che parole! Lascia tutte le certezze e vieni qui, ama, concediti all’amore. Tutto il mondo invita ad amare. Parole stupende. Abbandona le tue sicurezze ed affronta il nuovo. La primavera, il risveglio del mondo che spinge ad amare. Che parole, che poesia! Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. 185 Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro. L’amore senza confini. L’amore che non tollera nessuna lontananza, che sfida ogni separazione. L’amore è appartenenza, è perdere se stessi nell’altro, annullarsi nell’altro. “Io sono del mio amato e lui è mio”. L’amore è insomma esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro. L’amore è un cammino verso la vita. Verso il definitivo possesso. L’amore è un processo, è fatto a gradi. L’amore ha bisogno di distacco, di ritorni, di incontri, di nuova lontananza, solo così dura. L’amore che cerca, l’amore che trova, l’amore che vince, l’amore che si perde e si ritrova. L’amore che si dona. L’amore vittorioso, quando due non sono più due ma uno. E il ritrovarsi di ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la vita senza fine dell’amore. Comunque, questo Baldana – no, Bardana - ha dato una rilettura molto bella del Cantico dei Cantici. Bravo. Però, che sfortuna! Diventerà un autore postumo. Come Kafka, Musil… Bah, lasciamo perdere. Malafurtuna. Una personale rilettura – una riscrittura – del Cantico dei Cantici tratta da un suo libro, Il Protocollo di Almeda, immaginando il re Salomone che lo scrive circondato dalla sua regina e dalle figlie d’Israele. La sua poesia non è una traduzione dell’originale - il Cantico dei Cantici, d’altra parte, è molto più lungo - né è una volgare imitazione del famoso libro della Bibbia. La sua poesia è una libera interpretazione dell’amore puro cantato in questo libro. Perché al Cantico dei Cantici nei secoli è stata sempre data una interpretazione mistica, quella – per esempio - del legame tra Dio e il popolo d’Israele, o, per i cattolici, l’amore tra Cristo e la sua Chiesa. Il 186 Cantico dei Cantici può essere tutto questo, è però anche la storia di un amplesso tra due innamorati, è la storia di un incontro d’amore, ed è soprattutto il più sublime dei Cantici, il più grande canto d’amore di tutti i tempi. O tu Salomone gran Re, che di vestiti sgargianti t’adorni appariscenti, dai colori viola e blu, i colori ambigui del tempo, e di corona e bracciali, e collane d’oro e d’argento, e d’oro e d’argento il diadema regale, e tra fragranze di mirra e d’incenso su una lettiga di porpora ti siedi, degno trono del più grande figlio di Sion. O predilette figlie di Gerusalemme, dove siete voi, fior fiore d’Israele, voi siete ai lati dell’alto seggio, come discepoli prodi guerrieri, ma non impugnate il brando, non proteggete gli augusti fianchi del Re potente, del trasportato dal vento. Il vento, le piume al vento sul suo crine regal levate, sotto il salice di molli ombre, quand’ecco un grido, eccola arriva, una donna incantevole arriva, la sente il vento la porta. O donna che giungi col vento, donna misteriosa del mattino ancor presente, chi sei tu, donna che col tuo re di congiungi e poi ti dilegui con la calura mattutina, canto del canto più grande d’amore, o Sulamite fra le braccia alla corte del gran Re? Sei tu la sposa, vergine casta - orto chiuso, sorgente chiusa, fonte sigillata, boschetto di melograni non colti, vivaio di frutti squisiti, di fiori di cipro e di nardo, di croco e cannella, di cinnamomo. Sei tu la sposa odorosa di mirra e di aloe, di balsami dei migliori profumi, fontana di giardino, zampillo d’acque vive, o l’enigma del tempo, tu silenziosa taciturna la prima di mille e mille mogli, che col sorriso giungi, rimani in silenzio prima di sparire col vento con gli occhi ridenti davanti al gran Re. O tu gran Re sapiente, ricco, potente figlio di Davide e di Betsabea di Saul primo Re d’Israel, generato dalla colpa, figlio del peccato dell’amore, gran Re Signore degli spiriti jinn, Re profeta fondatore del Tempio dell’Attesa, mago esorcista, Re poeta di cantici sublimi assiso su trono d’argento, baldacchino d’oro puro, soglio di porpora rossa d’ebano di pietre preziose. Tu gran Re questa canzone cantasti per sempre, tu profeta messianico l’eccezionale poeta, congiunzion tra Dio e Sion, 187 restaurazion dell’Alleanza del postesilico tempo, ma l’amore l’amore sensuale carnale spirituale nuziale eterno immortale cantasti, l’amore il puro amore, di re e di regina, di pastore e pastorella, l’amore un urlo un grido uno squassante canto d’amore che mai poeta più grande il più grande canto d’amore di ogni tempo cantò. Chi è costei che giunge col vento e di profumi la campagna inonda, balsami e incensi e fragranze cosparge su le viti in fiore, o cerbiatta saltellante nella brezza mattutina, bellissima fra le creature della primavera? Chi è costei che a me giunge danzando coi caprioli, che canta con le tortorelle, lei candida e pura come le colombe, ora che glorioso il sole risplende, balzando per le valli e per i monti, risvegliando gli uccelli, le gazzelle campestri? È lei, la mia amata, il mio diletto, la sua voce è soave, il suo viso è leggiadro, lei danza ebbra di vita. È lei, la mia amata, la mia vita che passa e lascia dietro di sé l’inverno, la pioggia lenta uggiosa. Scorrono i ruscelli nelle selve, tornano i fiori nei campi ormai di grano gloriosi, torna il tempo del canto, le voci degli uccelli delle tortorelle si fanno sentire nella campagna. I fichi danno i primi frutti e le viti in fiore spandono fragranza fra gli ulivi, fra i mandorli rosa. È lei, la mia amata, lei viene e scende 188 giù dai monti, balza per le colline, porta con sé la primavera odorosa. Una voce! Un canto! Una danza! Volgetevi a lei e ammiratela, mentre danza coi caprioli! Volgetevi a lei, bellissima fra le donne, ella è l’unica di sua madre, la preferita della sua genitrice, saltella come una cerbiatta in amore! L’hanno vista le giovani e l’hanno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi. Perché unica è la mia colomba la mia perfetta, l’amore dell’anima mia, profumo olezzante è il suo nome, l’odore dei suoi profumi sorpassa tutti gli aromi, e il profumo delle sue vesti è come il profumo di tutto l’Oriente. Chi è costei che dalla notte, dal silenzio giunge, argentea sorge come l’aurora, splendente come il sole, bella come la candida luna, più temibile di un esercito schierato in battaglia? È lei, la mia amata, il mio diletto, il suo corpo rassomiglia a una palma alta magnifica e cedevole, il suo aspetto è bello e possente come un cedro del Libano. Le sue chiome al vento sono riccioli d’oro brunito, grappoli di datteri gialli, o neri come il corvo. Gli occhi suoi sono due ridenti colombe che fuggono su ruscelli di acqua. Il suo naso è dritto, è una fortezza, 189 protegge un giardino fiorito di pomi fragranti. I suoi denti sono bagnati nel latte, incastonati in un nastro di porpora che sono le sue labbra, stillano fluida mirra le sue labbra, miele vergine, c’è miele e latte sotto la sua lingua, dentro alla sua bocca di rosa aulente che mille sensi d’amore effonde, distilla nettare e miele, vino soave, sorgente di aromi, di frutti squisiti odorosi. Le sue guance sono aiuole di balsami, aiuole di erbe profumate, spicchi di melagrana sono le gote. È una torre d’avorio il suo collo, s’innalza a guisa di fortezza. Chi è costei che come una dea nel mio giardino incede col suo sicuro, elegante, possente passo di regina, più temibile di un esercito schierato in battaglia? È lei, la mia amata, il mio diletto, lei non ha bisogno di oro e di argento, di perle di diamanti, già ha portamento regale, lei non ha ombra e risplende da ogni parte, nuda e innocente come nelle favole belle, ha puri pensieri leggeri, è fresca sorgente di acqua viva, chiuso giardino di ambrosia e di aromi. I suoi seni sono due melagrane, grappoli d’uva profumata e matura, puledri imbizzarriti sulla pelle bruna, come due cerbiatti, 190 come gemelli di una gazzella che pascolano fra i gigli. Il profumo del suo respiro come di frutti odorosi sull’ombelico discende, oh coppa rotonda piena di vino d’essenze, sul ventre caldo, oh mucchio di grano, campo di rose, dove la sua chioma coi fianchi superbi d’avorio la sua vigna protegge, oh giglio candido, rosa purpurea, fiore gelsomino, oh vigna sempre custodita! Le curve dei suoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista. Le sue gambe sono colonne di alabastro, posate su basi d’oro puro, belli i suoi piedi in sandali regali, oh principessa, figlia di delizie! Chi è costei che si avvicina nel mio giaciglio e mi sorride e mi protegge con le mani nude, mani carezzevoli? Sei tu mia amata, il mio diletto! Mi baci con i baci della tua bocca, quanto sono soavi le tue carezze, le tue mani con anelli d’oro distillano mirra, sorella mia, madre mia, sposa mia, quanto più deliziose del vino le tue carezze! Giardino chiuso tu sei, mia amata, sorella mia, madre mia, sposa mia, giardino chiuso, fontana sigillata. I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo, mirra 191 e aloe con tutti i migliori aromi, con ogni specie d’alberi d’incenso. Tu sei fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive, ruscello sgorgante dal Libano. Sei tu, la mia amata, il mio diletto, che cerco e trovo la notte nel mio giaciglio d’amore, tu bella come la luna. La tua vigna è bagnata di rugiada, come il mio giglio, vessillo d’amore. Il mio diletto è candido e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille. Io entro nella mia vigna e colgo i frutti più odorosi, i mille profumi d’Oriente! I miei sensi vengono meno e si annullano in te, tu sposa, madre, figlia, sorella, regina, sposa la più bella tra mille e mille delle figlie d’Israele, colomba mia, perfetta mia, mio diletto, mia amata. Per questo nessuno gli pubblica i libri, a questo Bardana: chi cazzo crederà mai oggi a un amore così? 192 PARTE QUARTA L’AMORE 193 194 Capitolo XXII Il sogno dei sogni, il sogno d’amore Di quando il puro sogno di Filippo Bardana entrò nella mente di Francisco e incontrò il suo sogno d’amore, e insieme tornarono indietro nel due giugno del 1936, quando per la prima volta Francisco e Anna il suo primo amore si amarono, e poi si addormentarono insieme e poi si congiunsero ancora coi loro sogni nel sogno più puro nel sogno d’amore, e infine entrarono negli altri sogni, e dal principio alla fine conobbero tutti i sogni dell’universo. Ecco, chi sei tu, Anna? Sei poco più di una bambina, con gli occhi verdi e i riccioli neri. Giungi con tuo papà nel giardino di mio padre per raccogliere pesche ed albicocche. È l’estate siciliana, l’aria tremolante, il fuoco, la luce che acceca e dal cielo scende e nel gorgo delle spettrali falbe parvenze si inabissa, brucia i campi gialli di grano. Anche l’aria diventa gialla, il mare lontano celeste, è il torpore delirante del meriggio in cui i colori sono indistinti, e l’ultimo approdo è sempre il miraggio dell’aria, il risorgere dell’estate vaporosa senza tempo, il destino del raccoglimento, della solitudine dell’eterno. L’estate siciliana è sempre follia. È il vaneggiamento del glorioso mezzogiorno, lo splendore della baluginante campagna, l’illusione, il sogno che s’inarca e si sgretola. È la polvere e il profumo stordente, il misterioso fruscio nelle sterpi, la calura che frastorna – l’ombre, l’allucinazione, il miraggio, la visione, l’abbaglio. L’estate siciliana è la solitudine che insegue le solitudini, le ombre che inseguono le ombre, la luce che insegue la luce. L’estate siciliana è il mistero della campagna siciliana, il sogno immacolato, la mente allucinata, dove tutto si riempie di ricordi lontani e di assenza. 195 È l’opulenta nullità della tarda primavera, la visionaria grandezza, la metafisica esistenza del vuoto. Codesta è l’estate siciliana, è il sole, il mare, la musica, il vento, il movimento dei campi di grano, il profumo, la nostalgia, la melanconia della terra di Sicilia. Codesta è l’estate siciliana, è la vita mirabolante della campagna, l’apparire e scomparire di fantasmi, la mutevole sfuggente ora del meriggio, la musica e la poesia, la vibrante visione, il labirintico cammino del nulla. Tu entri – in questa estate - annunciata dal sorriso radioso nel giardino di fichidindia, dove ulivi e pini ai lati gettano ombre non lunghe sulle vigne, sui frutti del pruno e dell’albicocco, del melograno spaccato. Eucalipti alti col loro lieve fruscio accompagnano il lento scorrere del ruscello fra i canneti. Giù e giù a valle le viti in fiore e gli ulivi contorti maestosi, e, oltre le secche pietre del greto, gli orti e i canneti, e le palme arcuate intorno alla casina. È il meriggio di Sicilia, il tempo di prima estate, quando il profumo di zagara trasporta mille altri profumi, quelli dell’albicocco, del pruno, del pesco, del pero, del melo, del sorbo, dei limoni, degli aranci, del melograno, di garofani e rose, di viole, delle mille erbe e dei mille fiori di Sicilia. Il sole è caldo nel meriggio, tutto intorno è silenzio. Uccelli alti nel cielo, grilli solitari, il tremolio della terra, del mare d’occidente, delle messi già alte. Le gallinelle dormono nel pollaio, dormono i cani e i gatti all’ombra di un carrubo. Ecco, tu scendi e sull’erba ti distendi. Dai rami degli alberi scendono fiori, scendono sul tuo bel volto, formano ghirlande sui tuoi capelli neri. Alcuni si posano lentamente sul tuo grembo, alcuni sulla tua candida veste, altri sul tuo seno. Formano corone di perle sul tuo sorriso, il tuo sorriso contiene tutte le parole del mondo. Ecco, ora giungo a te. Mi distendo accanto a te. Ora la mia mente entra nella tua mente, il mio sogno si congiunge col tuo sogno, gli sorride, lo accarezza, lo bacia pudico sulla fronte. 196 Il mio sogno si congiunge col tuo sogno, formiamo un unico sogno. Usciamo abbracciati e corriamo per i campi biondi di grano, per la vastità del mondo, questo il nostro sogno, il sogno più puro del mondo. È il sogno che nasce dal sogno del sogno, dal sogno remoto. Noi siamo sotto il pesco profumato, dormiamo e sogniamo. Tu dormi coi miei sogni ed io riposo nel tuo sogno. Dal gorgo del tempo sprofondo nella tua assenza, nella tua estrema lontananza. Corriamo abbracciati candidi e puri, la purezza della vita che completa il sogno, il mio sonno che completa il tuo sonno. Ci fermiamo in mezzo alle onde bionde del campo, ci sommerge un mare giallo, rosso, blu, di papaveri e grano, di vita silvestre pura e arcana. La mia bocca tremante cerca la tua, esiste solo il siderale silenzio, lo spazio profondo muto, rimane l’unico tempo formato dal tempo del nostro bacio, l’unico tempo che si trasforma in destino, il solo che in un universo sterminato ha conosciuto l’amore. Tutto diventa un sospiro, un lamento, silenzio, pace, stordimento, annullamento. Il mio corpo si incontra col tuo corpo, fin nelle viscere profonde, negli umori più nascosti e segreti. Solo il vento disperde la durata smisurata del nostro sogno, del bacio d’amore, del piacere che diventa estasi, oblio, dimenticanza, desiderio senza fine, urlo infernale di felicità che sale da mille esistenze siderali e squarcia la calma, il silenzio di un tempo sterminato, di spazi senza confini di niente che solamente l’angoscia comprende, prima che il tuo corpo abbandonato in me abbia l’ultimo sussulto, l’ultimo sospiro che rapido discende negli abissi del cosmo, per diventare pavone elegante disdegnoso dei miei baci e dei miei sospiri, oh vento che disperde il sogno, fumo che si aggiunge a fumo, cenere leggera, debole sussurro e poi silenzio, e infine si dissolve in ombra, sogno, niente. Ci abbandoniamo ancora fra le messi. Sogniamo ancora, sogniamo un altro sogno. Io entro ancora nei tuoi sogni, in questo meriggio in cui tu partecipi della vita dell’universo. Io entro nei sogni di tutto l’universo. La purezza del mio sonno completa il tuo sonno. Io entro dentro di te e insieme sogniamo il mondo. Ho conosciuto tutti i sogni del mondo e ora torno a te, alla vastità, alla purezza dei tuoi sogni. 197 Ecco, siamo sulle nuvole. Guardiamo il mondo sotto di noi, tutto lo spazio, tutti i tempi passati, presenti e futuri. È il paradiso, è la gioia. Ci culliamo sulle nuvole. Tocchiamo il sole, tocchiamo le stelle. Scendono su di noi gli angeli. Gli angeli ci guardano. Ci amiamo sulle nuvole, il puro piacere senza sesso, un piacere indescrivibile, non il piacere sessuale degli uomini e delle donne. È il piacere degli angeli. Il puro piacere. L’infinito, casto, puro, inenarrabile piacere degli angeli. Siamo un unico corpo, un’unica nuvola, un solo spirito. Noi vediamo i nostri corpi nudi, si abbracciano, si stringono, si fondono. È l’amore puro, innocente, casto, incontaminato degli angeli. È l’amore di Dio. Un profumo indescrivibile, una musica celeste. Io vedo te, amore, in tutte le espressioni della donna, tu sei madre, sorella, compagna, moglie, amica, la padrona del focolare. Il sorriso celeste. Sì, tu sei il sorriso di Dio. Io sono il padrone dell’universo. Sono entrato nei tuoi sogni, sono entrato in tutti i sogni degli uomini. Io ho conosciuto tutti i sogni della storia e del tempo. Sono tornato indietro nei sogni di tutti gli uomini passati, ho compreso tutto ciò che è stato e tutto ciò che poteva essere e non è stato. Sono volato di mente in mente, di pensiero in pensiero, di tempo in tempo, di sogno in sogno, attraverso tutte le relazioni e tutti gli incroci, attraverso tutti gli spazi e i tempi dell’universo. Ho conosciuto i sogni di tutti i pianeti e di tutti i mondi, di tutti gli sterminati abissi del cosmo, i sogni di miliardi di creature viventi che hanno popolato costellazioni e galassie, sono tornato sempre più indietro nel tempo, fino a entrare dentro il sogno primordiale, assoluto, dell’universo. Ora so che i sogni muovono la storia, solo i sogni sono rivoluzionari. Ora so che ogni morte di stella è un sogno che vien meno. L’intero universo è una moltitudine di sogni, è un sogno senza fine. Forse l’universo finirà ma i sogni resteranno, forse l’intero universo diventerà un solo sogno. 198 Oh, l’universo fatto di sogni! Solo nell’universo i sogni si lasciano non per separarsi ma per andare ad attendersi altrove, solo nell’universo anche le cose hanno dei sogni. I sogni hanno sospiri, i sogni camminano, i sogni hanno la sola ricchezza di essere sogni, i sogni non hanno patria, non hanno età. Sono i sogni che danno la vita sotto la luna piena o nel vorticoso movimento delle folle - i sogni non tradiscono mai perché, se anche danno dolore, i sogni sanno stare da soli e alla fine bastano a se stessi perché sono sogni. Sì, sono tornato indietro nel tempo, un tempo lunghissimo e arcano, e sono giunto all’istante primordiale, sono entrato infine nella mente di Dio. Ora conosco il sogno di Dio. Ho guardato l’universo come si dispiega, come un libro con tutti i tempi passati presenti e futuri. Ho visto l’essenza dell’universo, un volume in cui sono racchiusi ordinati sostanze e accidenti, tutte le cose e tutti gli accadimenti. Ho visto il sogno di Dio, tutti gli angeli, tutti i beati, tutti i santi, tutti i popoli e tutti gli eventi. Ho guardato sempre più lontano negli spazi e nei mondi, sono entrato nei sogni di tutti gli esseri viventi di tutti i pianeti, di tutte le stelle, di tutte le costellazioni e le galassie, sono entrato in tutti i sogni dell’universo. Conosco il sogno della farfalla leggera ed elegante, succhiare il nettare dai fiori e non tornare più bruco o crisalide, volare libera al venticello di primavera nei giardini, non essere solo bella e fugace, vincere la morte e inondare per l’eternità l’aria di profumi e meravigliosi colori. Sono stato il delfino sinuoso che rapido solca i mari e cavalca le onde, nel vorticoso movimento della libertà dell’aria e del profondo abisso. Sono stato il cavallo maestoso potente, che conquista imperi e percorre con le chiome al vento le le steppe e le praterie vaste, signore della battaglia, della guerra e della pace. 199 Conosco il sogno del ghepardo nella savana, il signore maculato, che si sveglia la mattina e sa che la vita è sempre una affannosa corsa, la prodigiosa velocità, la preda elegante, l’agguato, il morso alla gola alla gazzella, la velocità e leggerezza, l’ampia falcata, la carne al sole cocente, solo l’invidia della forza del leone, non lo scontro, la solitudine, la dominanza, la tirannia del leone, il re più grande. Conosco l’alterigia, la vista ampia dell’aquila reale, il potente rapace agile imponente, la falcata, il terrore dei cieli degli spazi immensi dei monti dei boschi, il predatore alto levato, il signore dell’aria, di spazi sterminati del silenzio. Sono stato l’occhio vigile della gallinella sulla via dopo il temporale, la pettoruta superba gallina che nel breve andare della sua vita ha il passo lento, orgoglioso, di regina. Sono stato la giovenca umile e paziente che mai si lamenta, il suo sogno lieve della stalla calda e del vento che soffia sui prati verdi. Sono stato il sogno della cagna feroce che le orecchie tende e l’aria odora a procurarsi il pasto del giorno, la formica previdente che le montagne scala e gli abissi discende, sono stato la rondine che a stormi si distende ed elegante torna sempre a primavera ad annunciare il nuovo tempo. Sono stato tutte le creature del mondo, il sogno di tutte le creature del mondo. Sono entrato nella loro mente, sono entrato nei loro sogni, ho sognato tutti i sogni di tutte le creature dell’universo. Sono volato come sogno da mente a mente, da creatura a creatura, ho conosciuto tutti i sogni dell’universo, tutte le voci e i suoni degli spazi stellari, la musica, il silenzio dell’universo. Sono entrato nei sogni di mia madre, quando mi voleva concepire. Ora so che il mondo non è come doveva essere. Ma rimangono i sogni, rimane l’amore. Ora so che tu sei il sogno che non assonna ma avvicina a Dio, ora so che io entro nei tuoi sogni, nel sonno che non inganna e non vola per sempre col vento. 200 Ora so che tu vieni da lontano, da molto lontano, amore. Ora so che, dopo avere percorso tutti i tempi e tutti gli spazi dell’universo, dovevo trovare te. Tu sei il sogno che percorre gli spazi e va di mondo in mondo, di pianeta in pianeta, di stella in stella. Tu sei il sogno che sempre viene con l’aurora, viene da destini lontani, da tempi remoti, da lontananze smisurate arcane - solo un’ombra muta dietro di te, il profumo dell’anima che i mondi inonda. Tu sei la dimenticanza estrema che il sogno dei mondi diventa, l’ombra del cosmo che fluttua nei vuoti stellari e nel mare trascina – tu sei il fantasma, l’angelo che le esistenze accompagna e consuma, il sogno che imprigiona tutti gli altri sogni, la vita che popola la desolata solitudine dei mondi. Tu sei lo sguardo, il sorriso puro della incontaminata giovinezza. Tu sei il sogno, tu sei lo sguardo che rimane quando la storia si butta a capofitto e il tempo distrugge e rinnova, tu sei il sogno che i mondi divora, tu sei la straripante brama dell’esistere che il tempo provvisorio devasta, tu sei la durata eterna, il silenzioso infinito andare del tempo. Tu sei il tumulto che imprigiona e sospende le mie parole, il muro che separa la lucida rimembranza dal tempo confuso del niente. Tu sei la vita siderale che nella nostra esistenza piomba, tu sei l’energia che entra come sogno nel nostro stesso sogno, tumulti e fragori si attutiscono, e diventano silenzi o sospiri. Tu sei il sogno dove nessuna cosa del mondo si perde e si dirada, altri tempi, altri ricordi occupano la tua mente, tu sei il pensiero che spazi e destini vince, tu sei la gloriosa vittoria contro la memoria e il tempo. Solo nel sogno vince l’amore. Ecco, ti stringo le mani e respiro il tuo respiro, i tuoi pensieri sono i miei pensieri, i tuoi sogni sono i miei sogni. Ti abbraccio, solo il mio sogno frastorna la tua memoria, solo il tuo sogno dà respiro al mio sogno. Il mio sogno si congiunge col tuo sogno. Il nostro sogno esce dal tempo breve dell’uomo, si dilegua nella durata eterna astrale, nel buio senza confini, nella fredda cenere siderale. Il nostro sogno non dice parole vane, ci consegniamo all’addio dal mondo, alle ombre del 201 cosmo, alle solitudini stellari dove tutto declina e si dissolve, ci consegniamo al viaggio periglioso e solitario, al viaggio lontano, nella sostanza evidente della pura cosa, nell’unico volgimento dove tutto si posa, la pura vita orrida e arcana, madre paziente di ogni esistenza, che gli spazi percorre in forma di incubo tenace, oppure in forma di candida rosa. 202 Capitolo XXIII Sevim Di quando il puro sogno di Filippo Bardana va in sogno da Sevim suo primo amore ormai vecchia come lui e parla col suo puro sogno e gli propone di andare via con lui, e di abbandonarsi ai suoi sogni, e di diventare il puro sogno dell’universo. - Sono venuta qui senza che tu me lo dicessi. Mi è giunta la notizia clamorosa del tuo arrivo, dopo quarant’anni molti si sono ricordati di te, molti sono invecchiati col tuo ricordo, col ricordo dei tuoi occhi innamorati. - Qui ci attendevamo tutte le ore, prima che altri spazi, altri tempi occupassero i tuoi pensieri. Qui ogni cosa, ogni foglia o alito di vento, ci sembrava puro elemento del delirio, di un superbo destino. - Il tempo passa, Filippo. Me lo dicevi anche tu: non dobbiamo essere attaccati alle cose, tutto passa, tutto è impermanente. Altrimenti il dolore è insanabile. - Sì. Eppure tutto qui sembra identico a 40 anni fa, Sevim. Il fiume, i giardini, gli alberi, le panchine. La calura del sole di mezza estate, e perfino quest’ombra lieve sotto questo tiglio. - È tutto diverso, invece, Filippo, perché diversa è la percezione che noi abbiamo delle cose. Avevamo vent’anni quando ci siamo amati, qui, anche sulle rive di questo fiume. Amavi, vedo dai tuoi occhi che lo ami ancora oggi… Mi dicevi che era il fiume di un grande poeta che era diventato pazzo. - Hoelderlin. - Sì, questo. Che io non conoscevo. E non conosco nemmeno adesso. Ti guardavo negli occhi e ridevo. Pensavo: questo diventerà pazzo come questo poeta per me. - Lo sono diventato veramente, pazzo, Sevim. Perché tu mi amavi ma non hai voluto continuare a vivere con me. - Avevamo due destini diversi. Forse ho sbagliato, ma allora pensavo così. Io già lavoravo, mandavo un po’ di denaro alla mia famiglia che era povera. Avevo una sorella piccola, due genitori 203 malati. Tu dovevi studiare. Mi parlavi dei tuoi progetti, volevi diventare poeta, professore universitario. Le nostre strade dovevano separarsi. - Non potevo credere che il nostro destino dipendesse da un residuo di caffè in una tazzina. - Era un gioco, lo sapevi. Anche con le cose serie io volevo giocare, era una mia abitudine, ti piaceva. - Mi piaceva tutto di te. Anche quelle orribili polpette di carne di pollo che cuocevi al forno con le foglie di fico. E la fagiolina con le cipolle… - Cibi poveri, di una ragazza povera, che somigliavano tanto alla cucina siciliana. Poi ho dovuto imparare a cucinare alla tedesca, per abituare mio marito anche alla cucina turca… Ma non credo di avere migliorato molto le mie qualità di cuoca. - Mi piaceva tutto di te. Tutto quello che dicevi. Ti ho portato il quaderno con le tue parole, sono come tu le hai scritte. Ci sono i tuoi pensieri, le tue frasi d’amore. Ben seni sevyorum, ti amo, quante volte lo hai scritto. - Volevi imparare il turco, ma avevi tempo solo per scrivere lettere d’amore bellissime nella tua dolce lingua. Io non le capivo, nemmeno tu riuscivi a farmele comprendere bene, né in tedesco né in turco, ma sapevo che erano bellissime… Le ho capite meglio tanti anni dopo, quando ho imparato l’italiano per leggerle. Non ho più incontrato un uomo così innamorato come lo eri tu. - Però hai sposato un uomo che non amavi. - Sì. Non l’ho sposato per amore. Altrimenti avrei sposato te. L’ho sposato per avere un futuro sereno, una vita tranquilla. Non ho cercato altro, né avevo diritti per pretenderlo, poi. Lui sì, mi ha amata, ha voluto due figli da me. Lui meritava una donna migliore, che lo amasse veramente. Mi sono sentita sempre in colpa con lui. Io, io ho vissuto la vita che volevo, e che forse meritavo. Con te avrei conosciuto l’amore, ma mi chiedo ancora se l’ho mai cercato. - Anch’io mi sono chiesto spesso se il tuo, verso di me, era veramente amore. Quello che non ho mai capito è perché l’abbandono, perché la resa se uno ama. L’amore si vince solo con l’amore. - Chissà. Forse non ho mai amato. Forse era tutto illusione. 204 Questo pensiero forse mi ha aiutato a costruire un rapporto con mio marito. Col tempo ho imparato a donarmi con complicità, con amicizia se non con amore, all’uomo che mi ha sposata. Mi sono abbandonata a un uomo tanto diverso da te. Io ho cercato in lui solo un sostegno alla mia delusione, un riparo ai colpi della fortuna, lui sapeva di noi ma mi aveva tanto desiderata. Lui sapeva che non l’amavo, mi ha accettata così. - Non lo hai mai tradito. Una donna come te non può tradire. - Io e mio marito abbiamo sperimentato strane forme di amore e di complicità, oltre il sesso senza amore. No, non l’ho mai tradito. Non ho nemmeno pensato di tradirlo. Volevo dargli dei figli, glieli ho dati, certo non ho mai meritato il suo amore – soprattutto in questo io ho tanto peccato. Se io ho amato, ho amato solo te. Tu, tu solo sei stato il mio unico grande amore. Altrimenti non mi sarei abbandonata a te, questo pomeriggio, dopo quarant’anni, come una ragazzina in calore, all’ombra di un albero per nulla discreta. - Forse non è stato amore, forse è stato un estremo abbandono per recuperare il tempo perduto. Dopo che ti ho vista, non ho mai pensato di fare l’amore con una vecchia. Ho dimenticato il tempo. Mi sono immerso in un tempo senza fine. Ho sognato. - Anche per me è stato così. Ma ci sono tempi che non si possono più recuperare. Tu allora eri tu il mio adorato, io lavoravo, vivevo per te. Tu eri la possente forza della passione, eri l’amore, con te riscattavo il tempo di un’esistenza altrimenti senza senso, noiosa, lenta, senza vita. Tu mi hai aperta al sogno. - … - Tu mi hai sollevato al di sopra di tutte le donne, di tutte le fanciulle della mia età. In questo villaggio, ero io la regina di tutte le ragazze, mi accompagnavo a uno studente colto e intelligente, italiano, e non al solito turco. - … - Quando camminavo con te per le strade silenziose del villaggio o per i viali accanto al fiume, tutte le ragazze correvano per vederci, ci seguivano con lo sguardo, ci invidiavano, ma 205 desideravano soprattutto te, il tuo sorriso, i tuoi occhi profondi che divoravano la vita. - … - Tutte le ragazze turche invidiavano il mio letto, la mia verginità, la mia giovinezza, la mia bellezza, l’esplosione del mio corpo donato a un uomo che mi prometteva una vita come un sogno, un destino di principessa in Italia. - … - Il nome di Sevim era sulla bocca di tutti, cantato da te in dolci poesie d’amore, anche se quelle parole bellissime della tua lingua nessuno le capiva. Tu volevi immortalare così il nostro amore, in questo modo bello e lieve, stravagante, tutte le fanciulle turche l’invidia le infiammava. Ogni via, ogni piazza, ogni sentiero, ogni luogo risuonava del mio nome – e di questo ero fiera. - … - Tu eri colto, bello, forte, intelligente, anche se lo sei di più adesso che sei carico di anni e di sofferenza, di tanta umanità affranta, e soprattutto perché sei convinto di avere trovato la formula della felicità. - … - Tu giungevi con la fama di poeta, di scrittore sublime, in questa piccola valle sperduta nel nulla. Ti lusingavano le dolci lodi per la tua poesia, per la tua cultura, la profondità della tua anima. Ma sapevo che non poteva durare, qui ti saresti perduto, dovevi partire. Io dovevo lasciarti subito perché la lacerazione fosse più lieve. Il tuo era un destino superiore, sapevo che non mi sarei più ricongiunta con te. - … - Per qualche tempo ho pensato che tu cercassi in me solo il sesso, la mia verginità, la mia purezza. Ho pensato che io fossi per te solo una debole preda del tuo desiderio, della tua superbia di giovane intellettuale, ma c’erano mille altre bellezze germaniche che mi erano superiori, anche se io avevo pure, lo dicevi sempre, fascino bellezza sapienza, tutto ciò che più seduce gli innamorati. Compresi così che il tuo era amore. Altre erano forse più belle di me ma non avevano la mia forza, questo tu dicevi, non il mio sguardo intenso, profondo, avido di vita, di amore, di conoscenza. 206 - … - Tu eri il mio diletto, tutto ciò che ho fatto lo facevo per te, per compiacerti. Facevo tutto per te. Non provavo vergogna perché la mia anima non era in me ma in te, non era in nessun posto se non con te, se non da te. Io non condividevo i piaceri sensuali con te, io mi annullavo in te, tu eri il mio signore, il signore di me, della mia anima, del mio corpo, del mio spirito, della mia vita. Anche quando cercavi piaceri illegittimi o turpi, tu spingevi dentro di me non le tue voluttà ma il tuo amore, ed io volevo essere solamente, esclusivamente, tua. - … - Io desideravo solo te, non volevo ricchezze o matrimoni, volevo solo il tuo amore, avere il nome di compagna, sorella, madre, amica, amante, anche prostituta. Ti offrivo tutto ciò che cercavi nella vita, e se di notte cercavi una puttana, ecco, io ero la tua puttana, sì, io ero anche la tua follia. - … - Tu avevi riempito il mio vuoto, il mio deserto, tu eri il fondatore della mia vita, di me lontana da tutto, dalla mia terra, dalla mia famiglia. Ti sei fatto carico di tanta solitudine, di tanto disperato destino. - … - Ci abbandonammo perdutamente al sesso, ma non era sesso era amore, passione d’amore travolgente di baci ferini disperati, di parole affannose, di mani che nella notte percorrevano il buio, misuravano il vuoto. Gli occhi chiusi per non svegliarsi con un’illusione, mani che cercavano il seno, il sesso turgido di sangue, che spingeva forte forsennato, scavava dentro la carne viva, ed era il desiderio, il furore, l’ira, l’amore. - … - Questa passione travolse ogni aspetto dell’amore, provammo ogni gioco anche la follia, tutto ciò che poteva darci piacere, sprofondammo in ciò che poteva essere turpitudine viluppo di vergogne, pantano di fango, brama indegna sporco desiderio dei sensi, vergognosa voluttà smodata lussuria, e peccato, violenza esercitata sulla mia fragilità, oscenità, volgarità, poteva essere 207 tutto questo, ed aveva invece il nome, il puro, incontaminato, nome di amore. - … - Ci siamo amati in ogni luogo, in ogni ora di quell’estate, anche se la mia educazione mi imponeva le gioie e i piaceri di un amore furtivo. Non ho mai cancellato quei ricordi nemmeno quando avrei dovuto donarmi completamente a un altro uomo che per quarant’anni mi è stato accanto. Ogni giorno, ogni notte, ogni momento avevo davanti te, il volto di mio marito era il tuo volto, gemevo, godevo solo pensando a te, avendo davanti te, la tua immagine, dentro di me. La stessa cosa pensavo che tu facessi con me. Mai avrei immaginato che tu cercassi la compensazione nella ricerca dei sogni. Che tu pagassi questo distacco con una devastante solitudine, una lontananza smisurata. - … - Tu solo sei il fondatore di me come donna, il mio signore, tutto ciò che è mio è una tua creazione. In un’estate hai forgiato un modello perfetto, hai popolato un vuoto che era occupato solo da morti e da assenze, qualsiasi cosa potessi tu fare era allora benedetta. Tu hai cresciuto e innaffiato una giovane pianta, la tua grandezza non era nella nostra piccolezza, era che avevi fatto innamorare me di un amore senza limiti – smodato, trasformato in una incredibile follia. Quasi tutto ci divideva, cultura, lingua, paese, abitudini, ma ci univa la debordante forza dell’amore. - Tutto questo non è bastato per abbandonarti al mio destino. - Questo amore non è stato comunque vano: ha consegnato al mondo la più compassionevole delle creature. Ogni vita, Filippo, si riempie goccia a goccia. Quel poco che ho fatto, l’ho fatto con impegno, con tanta pazienza, con tanti sacrifici. Non potevo permettere che un soffio di vento potesse distruggere tutto. - Le nostre vite sono dei mandala che rappresentano l’impermanenza. Tutto è provvisorio. - Lo so. Per questo ho imparato col tempo ad accettare gli altri. Ho imparato col tempo anche a capire e a perdonare, perché mantenere l’odio e il rancore lacerano l’anima. Solo se si perdona si è liberi. 208 - … - Ho governato la mia mente, le ho imposto potere sul cuore. Altrimenti sarei scappata subito da te. Ho governato la mia follia. Così ho raggiunto l’equilibrio, cercando di vedere negli altri le ragioni, comprendendo gli altri. Ho capito che la pace e l’armonia vengono da dentro non da fuori, devono essere dentro di te. Solo così si può affrontare il lungo difficile viaggio della vita. E una volta iniziato un cammino bisogna portarlo fino in fondo - Io invece posso dire che il destino mi ha reso il più felice per potermi rendere la più infelice di tutte le creature, mi ha portato a tanta altezza con te per rendere più rovinosa la caduta, a tanta invidia per rendere possibile lo strazio e la pena. Per questo ho cercato la felicità nei sogni. - … - Vieni via con me, ti porterò in un sogno senza fine. Non avremo più bisogno del mondo. Nulla ci farà più male. Se le nostre vite non si possono più incontrare, facciamo in modo almeno che si incontrino i nostri sogni. - … - Sogniamo insieme, Sevim. La mia follia sarà la tua follia, i miei sogni entreranno nei tuoi sogni, la mia memoria nella tua memoria, la mia mente nella tua mente. Sogniamo insieme. Entreremo in un mondo incantato fatto di puri sogni, di albe tremolanti, di carezze sulla fronte al mattino. Solo così potremo sconfiggere l’angosciosa brama dell’esistere, annullandoci totalmente nei sogni. Entrerò nel tuo respiro, nei tuoi sospiri d’amore e tu nei miei. - … - Voglio consegnarmi ancora alla tua storia. Vederti passeggiare accanto al fiume. Svegliarmi al mattino e vedere te che silenziosa e discreta nuda vai in cucina e prepari la colazione, come facevi allora. Ascoltare i tuoi passi leggeri la sera, quando torni a casa. Penetrare nella tua arcana, pura vita. - Non è più possibile recuperare il tempo perduto, Filippo. 209 - Passeggiare qui, vicino al fiume, abbracciati, come facevamo nelle calde giornate d’agosto. Raccogliere mele, fare l’amore sul prato, all’ombra di questi alberi. Dormire, sognare. - No. - Ascolta. Accogli questa mia angoscia, Sevim. Abbandonati al mio sogno, al nostro sogno. Moltiplicheremo i giorni per i giorni, le ore per le ore. Trasformeremo questa ossa, questa angoscia, queste solitudini, in un eterno sogno. - … - Io posso entrare nei tuoi sogni e tu nei miei. I nostri sogni possono sognare insieme e volare nel cielo, tornare indietro nel tempo. Possiamo trascorrere il resto dei nostri giorni in mezzo ai sogni. - Nessuno crede più ai sogni. La gente non cerca sogni, oggi. - Eppure solo i sogni restano. L’universo è un sogno. - A che cosa serve tuffarsi nel passato? Dovremo dormire insieme, per sempre, uno accanto all’altra? Vivere come vampiri e tuffarci a capofitto nel passato? A volte serve dimenticare. Bisogna dimenticare. - Solo coi sogni è possibile recuperare il tempo. Tutto il resto è fumo, ombra, niente. - No. Solo con la possente forza dell’amore si recupera il tempo, e io ho perduto per sempre l’amore. E poi i sogni appartengono ai giovani. I vecchi non possono avere sogni. E poi tu sei comunque ricco. Niente sarà vuoto per te, se la tua mente è piena, e tu sei padrone dei sogni. - Solo il sogno salva. Solo col sogno si può raggiungere la grande calma, il distacco dalle emozioni. Col sogno ci si può spingere oltre la gioia e il dolore, si possono vedere le cose dall’alto, si può sperimentare la compassione per tutte le creature. Col sogno si può giungere ai primordi dell’universo, vedere oltre l’universo. Ogni movimento nell’universo è causato da un altro. Tutto è concatenato. Tutto ciò che accade a uno succede agli altri. - Sei un visionario, Filippo. Il mondo non crede più ai sogni. Non esistono i sogni. Solo con l’amore sono possibili i sogni. - Io sono il padrone dei sogni. Io mi sono trasformato in larva, in fantasima astrale, e mi sono impadronito dei sogni. 210 - L’uomo dei sogni. Tu in fondo non sei cambiato. Sei rimasto un pazzo, un cercatore di sogni. Solo tu potevi impadronirti dei sogni. Non occorreva nemmeno che mi raccontassi tutta la tua vita, sapevo come avresti vissuto. - Che cosa siamo noi, Sevim? Siamo piccoli aggregati di atomi nello sterminato oceano dell’universo. Siamo ectoplasmi vaporosi inconsistenti che escono dal buio, larve, morti, sogni, vacue ombre del cosme, fantasime astrali. - … - Occupiamo questo torbido, piccolo spazio, non possiamo evitare lo scacco, piccoli destini devastati dalla storia. Non c’è nessun riparo che ci salva, nessun anfratto, nessun nascondiglio dove potere evitare lo scacco. Quasi sempre sprechiamo questa breve luce, e pensiamo di avere un destino immortale. - … - Ti ho vista di nascosto, mentre venivi. Volevo aspettarti qui, nel fiume dove ti ho amata. Dove immaginavo che si dovesse concludere il mio destino. Sembravi giungere con la stessa aurora, sembravi la stessa aurora. Sembravi un’onda, un campo di energia dell’universo. Sembravi giungere da un tempo remoto, da lontananze smisurate arcane, eppure eri così presente, fragile elemento che nemmeno il tempo devastatore ha potuto consumare, nemmeno la dimenticanza estrema. - Anch’io ho sentito subito la tua presenza, il tuo profumo, il tuo sospiro. O forse era il ricordo vivo di te che mi faceva sentire tutte queste cose. L’unico uomo che ho veramente amato. Noi, due ragazzi venuti dal sole e dal sud, dal mare: ma due diversi destini. Perché ci siamo incontrati qui? In questa terra di brume e di furori? - Eppure solo qui ho incontrato l’unica donna che ho veramente amato. Tu imprigionavi i miei sogni coi tuoi sogni, e popolavi la mia solitudine con la tua vita, oh, quanta vita, in quel tempo senza tempo in cui le ore erano battute dai tuoi sorrisi e dai tuoi baci, dai tuoi capelli rossi al vento! - … - Certo, il tempo devastatore ci ha trasformati, Sevim. Ma noi possiamo vincere il tempo, perché noi abbiamo i sogni. Io ho inventato il sogno eterno, solo così possiano tornare alla pura 211 incontaminta giovinezza, al mio sorriso che bacia il tuo sorriso, ai miei sogni che accompagnano i tuoi sogni. - Tutto è perduto, Filippo. Non possiamo più invecchiare insieme. - No, io posso, io devo tornare a capofitto negli abissi del tempo, riconoscerti, amarti ancora, vincere il tempo. - Ormai il tempo ha divorato quella nostra straripante brama dell’esistere. - No. Io ho percorso in un momento tutto questo tempo provvisorio senza di te, immaginando la durata dei tuoi anni coi miei anni, accompagnando i tuoi sogni coi miei sogni. Devo dare sostanza a questo tempo vano. Ho sempre cercato in mezzo alla folla indifferente o nel tempo confuso del niente l’ombra discreta della tua anima cercando di superare il muro che separava il tuo amore dalla mia follia. Ho cercato di capire perché mi hai allontanato dal tuo destino. - Forse fra mille e mille esistenze siderali ci incontreremo ancora, forse avremo ancora l’ultima occasione di poterci amare in congiunzione astrale coi nostri sogni, saranno benedette le tue mani che si abbandoneranno nelle mie mani, le carezze che trascineranno all’aurora i nostri sospiri. Solo questo possiamo sperare, nell’eterno ritorno, di cui mi parlavi tanto allora. - Noi che abbiamo abbracciato il silenzio della nostra anima, noi che abbiamo ascoltato il vuoto degli abissi siderali, ora siamo soli, dimenticati da tutti. Noi non abbiamo mai compreso i meandri tortuosi della storia, e siamo stati stranieri in mezzo alle folle tumultuose, perduti in un caos di fragori che non hanno alcuna voce. - Ci rimane solo quest’ultima speranza, Filippo: potere un giorno incontrarci ancora, noi abituati al tempo smisurato immenso che sovrasta le ore brevi del tempo umano sulla Terra, solo così queste parole non si spegneranno, né i nostri sguardi o le notti d’amore, nella lontananza, nel ritmo debole senza durata in cui si diradano e si perdono le cose del mondo. - … - Sì, Filippo. È questo l’unico sogno senza sogni. Nel marasma cosmico in cui saranno seppelliti destini e tempi, giungerà sempre 212 un’alba di niente in cui in un momento stanco dell’eterno ritorno noi ci risveglieremo da un affannoso sogno e ci incontreremo. - … - Me lo dicevi in quel tempo, ricordi? Tu allora ascolterai dalle viscere dello spazio profondo un lamento, un urlo infernale. Sarà la mia anima che grida nella notte il desiderio di te, della tua carne vergine spogliata nel superstite istante, sarà la mia voce che squarcia il silenzio di un tempo sterminato che non ha mai conosciuto l’amore. - La mia anima ha imparato a navigare nelle tenebre delle misteriose eterne ombre. Così ha potuto incontrare i sogni. - Come è stato possibile, Filippo? - Come la mente si trasferisce da corpo in corpo, ma rimane sempre mente, così il sogno passa da mente a mente, fino al primo istante di vita dell’universo. Morire e rinascere, e poi morire ancora: questa è la nostra maledizione. Solo il sogno può eliminare questa maledizione. Giungere alla prima mente, al primo sogno. Tornare al nirvana. - Questo è il nirvana, il primo sogno? - Il nirvana è il luogo dove non ci saranno più occhi, orecchi, naso, lingua, corpo, mente. Non più colore, suono, olfatto, gusto, tatto, cose esistenti. Non più vecchiaia né morte, non più fine della vecchiaia e della morte. Non più sofferenza, non più causa della sofferenza o fine della sofferenza. Non è strada, non è saggezza, non è vantaggio. Questo l’insegnamento del Buddha. - Allora il nirvana è il vuoto, il nulla? - La forma è vuoto e il vuoto è forma. Il nirvana è l’assenza di desiderio, è il luogo e il tempo dove non esistono le sensazioni, il nirvana è tante cose e la stessa cosa. È la fine della vita accessibile alla coscienza e del passaggio a un'altra esistenza, inconsapevole, dopo la morte. Niente interferenze, quindi niente paura, oltre ogni illusione: questo è il nirvana. È l’interruzione della catena delle reincarnazioni. È la totale estinzione, il completo annientamento, la pace e la gioia assoluta, la beatitudine, la verità ultima, è la condizione in cui la realtà viene sperimentata come vuoto. - Dunque il mondo è illusione? - Sì. Solo col nirvana si può vincere l’illusione cosmica delle forme, delle pure apparenze. Questa è la realtà: la vacuità di tutti i 213 fenomeni, di tutte le sensazioni, della coscienza. Tutto è vacuo. Tutti i fenomeni non nascono e non muoiono, non diminuiscono e non crescono. Non esistono gli elementi visivi, né suoni, né odori, né sapori, né elementi mentali. Non c'è ignoranza, né estinzione dell’ignoranza, non esiste l’invecchiare né il morire, vecchi, né l'estinzione della vecchiaia né della morte. Non vi è sofferenza, né origine di tutte le sofferenze, né il cessare della sofferenza. Questo è il nirvana. La mente è libera dalle ombre, da tutte le ombre, da tutte le paure, da tutti i fantasmi, da tutte le larve astrali. È il puro, incontaminato sogno. - … - Solo il sogno può entrare in questa illusione. Solo il sogno consente di liberarsi definitivamente dell’illusione del mondo e di sprofondare nel non-essere, non una vita moralmente ineccepibile o una disciplina ascetica rigorosa. Non una retta condotta di vita, non una vita proba e un retto pensiero, una disinteressata contemplazione della realtà, no, questo non basta per salvare un uomo, per assicurargli il nirvana. Non l’ascetismo estremo che non serve a salvare ma a rafforzare l’egoismo, l’istinto di affermazione, a respingere a livelli sempre più profondi di coscienza la brama. Non servono il sacrificio, la punizione, l’autoannientamento. Il sogno è all’inizio e alla fine dell’universo. Solo col sogno possiamo liberarci della vita e della morte, della ruota della vita, di tutte le vite passate, solo col sogno possiamo giungere oltre l’universo, vedere la fondamentale realtà di tutte le cose, il principio di tutto, il puro momento, il puro, incontaminato nulla. - … - Tutto è sofferenza nella vita, nascere, ammalarsi, invecchiare, morire. Questa la verità fondamentale del mondo. Separarsi da ciò che si ama, desiderare ciò che non si può avere, unirsi a ciò che non si ama: ho provato tutte le sofferenze del mondo. Forse anche per questo desiderio di esistere i miei volevano cambiare il mondo e non hanno potuto, per questo sentimento del nulla. - … - Nulla esiste, nulla ha una sua propria sostanza, ogni cosa trae la propria essenza da altre cose che ne sono la causa. Ogni movimento nell’universo è un effetto determinato da una causa. Se io sono quel 214 che sono, questo lo devo al distacco da te. Avrei potuto essere mille altre cose. Solo il sogno è unitario e immortale, è individuale, non è una combinazione di impulsi diversi. - … - Sì. La compassione verso tutte le creature viventi, accogliere dentro di sé la gioia e il dolore dell’altro, la letizia, lo sguardo gaio verso tutte le cose della terra. Solo con la compassione si appartiene veramente agli altri, si combattono il fanatismo e la guerra, si diffonde lo spirito della fratellanza universale. Con la sola forza della compassione si possono vincere eserciti di demòni. Ma anche questo non salva. - … - Solo i sogni salvano. Ma per abbandonarsi al sogno serve l’amore. - Non inseguire più l’amore, Filippo, se vuoi liberarti del mondo. Lo hai detto: l’amore è attaccamento alla vita, è la catena che tiene legato l’uomo al suo dolore, all’ignoranza, alla ruota delle rinascite. L’amore è come il piacere, è attaccamento a qualcosa di estraneo. L’amore è la prigione che incatena l’uomo al mondo, è la sete di vita, la forma primordiale della brama. - Ci trasformeremo in sogno, nel puro sogno dell’universo. E poi ci dilegueremo nel buio senza confini, o nella fredda cenere siderale. - Oh, Filippo! Abbiamo parlato come vite, ma in realtà siamo solo sogni. 215 Capitolo XXIV Il vento Una brezza leggera, fresca - il vento quel mattino si levò dal mare ed entrò nella torre. Il sogno dei sogni si svegliò ed uscì dalla mente dell’inventore di Almeda. La mente ancora stordita, pensò alle parole di Sevim, Non inseguire più l’amore, Filippo, se vuoi liberarti del mondo. Poi volò in alto, guardò fuori, oltre il balcone: il mare era calmo, il giorno appariva sereno. Vide alla sua destra Francisco Bardana sul letto: era immobile, vitreo, pallido. La sua fronte era piatta, fredda. Non si muoveva più nulla nella sua mente. Solo un’immagine era rimasta nei suoi occhi: era lui disteso dentro una bara, sul catafalco in mezzo alla stanza. Il sogno era fermo, nessun soffio vitale lo muoveva. Fu in quel momento che il sogno di Filippo Bardana, il puro, incontaminato sogno, comprese che Francisco suo padre era veramente morto: si era trasformato in un sogno. Squillò il telefono. Il puro sogno lo prese. Era Rafael Cernada. Il puro sogno rispose con la voce di Filippo Bardana. Rafael Cernada gli disse che l’elisir era un’illusione. Che i sogni esistono solo se lo desideriamo noi. Per questo lui, Filippo, aveva vissuto una notte meravigliosa ricca di sogni. Lo aveva voluto. Il sogno dei sogni chiuse il telefono. Sorrise. Sorrise anche il vento. 216 Indice PARTE PRIMA - L’UOMO DEI SOGNI Capitolo I - Il sogno di Dio 11 Capitolo II – L’inventore dei sogni 17 Capitolo III – L’elisir dei sogni 22 Capitolo IV – Francisco si trasforma in pipistrello 36 Capitolo V – L’uomo dei sogni 47 Capitolo VI – I sogni di Almeda 52 Capitolo VII – Fantasmi di Sicilia 58 Capitolo VIII – La solitudine del mondo 63 PARTE SECONDA - LA STORIA Capitolo IX – Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi - Parte prima 71 Capitolo X – Sogno di Francisco Bardana e di Giuseppe Garibaldi- Parte seconda 83 Capitolo XI - Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia – Parte prima 96 Capitolo XII - Sogno di Francisco Bardana e di Umberto I Re d’Italia - Parte seconda 104 Capitolo XIII – Lettera anonima al Prefetto 113 Capitolo XIV – Il sogno del bordello 116 Capitolo XV – Mussolini 127 217 Capitolo XVI - Sì, era un sosia del Duce – ribadì il barone Domenico Nasca 135 Capitolo XVII - Altra lettera anonima al Prefetto 139 Capitolo XVIII - Il prefetto convoca il Bardana per parlare del tentato omicidio di Mussolini 140 PARTE TERZA - UNA GIORNATA PARTICOLARE Capitolo XIX - Francisco Bardana e la storia - Sogno 157 di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario Capitolo XX - Francisco Bardana e le donne - Sogno 170 di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario Capitolo XXI - Il Cantico dei Cantici, l’amore - Sogno184 di una giornata di Francisco Bardana il bibliotecario PARTE QUARTA – L’AMORE Capitolo XXII - Il sogno dei sogni, il sogno d’amore 195 Capitolo XXIII – Sevim 203 Capitolo XXIV – Il vento 216 218 219 Finito di stampare nel mese di settembre 2014 per conto di Lulu Enterprises Inc. 3131 Rdu Center Dr Morrisville, NC 27560-7687 United States presso 733 Rue Saint-Leonard 53100 Mayenne - France 220