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Santino mirabella
…e distillando sogni
L'alchimia dei cantautori
e la poetica di Stefano Rosso
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I edizione: novembre 2013
The Wind
di Claudio Lolli
Siamo alla fine, meravigliosa, dei Sessanta e si annunciano gli ancora più meravigliosi Settanta.
C’è del vento in giro e infatti arrivano dei dischi
carichi di vento. Donovan, Catch the wind: acchiappa il vento, non fartelo scappare. Bob: “The answer
is blowing in the wind”. Allora non può non venire in
mente la Ode to the west wind di P.B. Shelley e l’idea
romantica dell’arpa eolica, una specie di costruzione
materica che il vento fa suonare o risuonare (pochi
anni fa ho sperimentato personalmente presso Pinuccio
Sciola, scultore sardo, che mi ha fatto suonare delle
pietre con le mani).
Allora l’idea è questa: il mondo ha un suono, ha
una voce che bisogna ascoltare (anzi: è un piacere
ascoltarla) e a questa voce, a volte declinata in parole,
è meraviglioso unirsi, è meraviglioso far parte di essa.
Facciamo suonare il mondo, facciamo noi la funzione
dell’arpa eolica che lo fa risuonare e cantare. Romantico
finché volete, ma vero.
Poi si faceva notte a litigare coi professori, si faceva
notte a litigare coi genitori, si faceva notte nelle camere
di sicurezza della polizia perché c’era questa voglia di
interpretare il vento, che spesso ha, anzi meglio, fa il
suo giro.
5
Introduzione
“Camelopardi”, direbbe Guccini, ispirandosi al
Fisiologo, testo parascientifico e appena post-cristiano,
che definiva e descriveva animali inventati nei quali dovevano esplicitarsi le qualità etiche prescritte dai testi
sacri. Come “cantautori”, una specie strana e inventata
a soddisfare un bisogno di poesia (popolare) e anche
un sogno di poesia (tutti gli uomini ne hanno assoluto
bisogno) che non si riusciva più a trovare nella poesia
“alta”, ancora oggi troppo autoreferenziale.
Solo questo, inseguire il vento, cercando, dentro di
lui, di ricercare e ritrovare e riesprimere i desideri di
una generazione, di più generazioni, toccando il tasto
semplice del cuore, della vita reale e vissuta, con i suoi
amori e i suoi grandi dolori. Raccontarla, se spiegarla
è troppo.
Poi le voci circolano, è il rumore del mondo, il suo
fruscio, l’arpa eolica, e tutto questo è diventato meravigliosamente pubblico e condiviso.
Dei ragazzini ribelli che hanno imbracciato solo una
chitarra, non una pistola, e hanno raccontato delle storie di vita, appassionate disperate e felici.
I “camelopardi” per me sono questo.
6
Come nasce un cantautore
di Franco Battiato
Ho cominciato a lavorare negli anni Sessanta al
Cab64 di Milano di Tinin e Velia Mantegazza.
Il primo cabaret italiano, dove si esibivano tutti gli
artisti che sarebbero diventati famosi: Enzo Jannacci,
Bruno Lauzi, Cochi e Renato, Lino Toffolo, i Gufi, Herbert
Pagani ecc.
Al provino mi presentai con la mia chitarra e feci
ascoltare un paio di canzoni in siciliano, spacciandole
per musica barocca.
In realtà avevo musicato dei proverbi che mi avevano
insegnato i miei nonni.
Poi mi capitò l’occasione di conoscere Giorgio Gaber.
Una sera venne come spettatore.
Mi raggiunse nel camerino mi diede il suo indirizzo e
mi disse “vienimi a trovare”.
L’indomani, dopo lo spettacolo, andai a casa sua.
Giorgio andava a letto sempre intorno alle sette del
mattino.
Produsse il mio primo 45giri, e per qualche anno collaborai con lui, e divenni anche il chitarrista di Ombretta
Colli.
Mettemmo su un gruppo, suonavamo nelle balere del
Nord, e ci siamo divertiti parecchio.
Questo fu il mio inizio.
Una grande determinazione e pochi soldi in tasca.
7
Introduzione
8
Quale viatico migliore per un ragazzo di vent’anni che
veniva dal Sud?
Premessa
Anni Sessanta?
Anni Settanta?
Quando sono nati i cantautori?
E chi ha coniato questa parola, che per alcuni è oro
allo stato puro, per altri è riduttiva, per altri addirittura
incomprensibile?
In realtà l’espressione in sé è veramente neutra,
perché esprime (o meglio: dovrebbe letteralmente esprimere) solo la situazione di una persona che canta ciò
che ha scritto, cioè che propone direttamente – e musicalmente – le proprie “cose” senza affidarle a nessun
altro.
Questo non vuol significare per ciò stesso un giudizio di valore, perché – fino a prova contraria – uno
può scrivere anche stupidaggini e il fatto di cantarle
direttamente certo non le nobilita; così come può capitare di scrivere delle bellissime canzoni ma di non
saperle cantare (o per l’incapacità di essere un valido
interprete oppure, ancora, per semplice scelta, magari associata al timore di non essere adeguatamente
capace).
Molti componenti della categoria “storica” dei cantautori italiani di vecchio stampo nacquero proprio in
questo modo, anche, a volte, per la mancanza di coraggio da parte delle case discografiche (malgrado fossero
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Santino Mirabella
paradossalmente più audaci di adesso1).
Così molti dei nostri grandi cantautori “storici” vennero fuori dal guscio solo dopo aver dato in locazione
i loro brani, dopo, cioè, aver scritto canzoni per altri
interpreti.
Oppure dopo aver “solo” suonato accanto ad altri
artisti (o tra di loro) e aver così meditato con attenzione
e lungimiranza la propria futura strada.
Franco Battiato, per esempio, intraprese i primi passi
nel mondo della musica come chitarrista, scoperto e
aiutato da Giorgio Gaber – che a sua volta agli esordi
era stato il chitarrista del gruppo di Adriano Celentano,
i Rock Boys, dove suonava come pianista Enzo Jannacci
(e ore a suonare nelle cantine e nei garage di via Gluck
e via Frescobaldi di Milano…).
Roberto Vecchioni scrisse per I nuovi Angeli (Donna
Felicità è sua…) o per cantanti all’epoca in voga come
Giuliana Valci (vedi il successo del 1968 della canzone
Sera); di Roberto Vecchioni è addirittura la colonna sonora della saga televisiva dei Barbapapà.
Francesco Guccini scrisse per i Nomadi; Paolo Conte
scriveva per svariati interpreti (per esempio Azzurro di
Adriano Celentano nasce dalle sue note e dal suo pianoforte); Fabrizio De André vinse a fatica la ritrosia a
esporsi in prima persona e, mentre qualche suo pezzo
lo incideva direttamente, alcuni brani li affidava ad altri
interpreti (come, per esempio, i New Trolls).
Molti, però, vollero fin dall’inizio (anche se non necessariamente in forma esclusiva) cantare le proprie “cose”:
per esempio, Francesco De Gregori, Lucio Dalla (anche
se per i primi anni Lucio scriveva solo la musica), Claudio
Lolli, Edoardo Bennato (che inizialmente collaborò anche
1.
…e con modalità spesso originali, e oggi assolutamente impensabili, utilizzate
per veicolare la musica: per esempio, la rivista di enigmistica Nuova Enigmistica
Tascabile proponeva come allegati dischi di canzoni celebri interpretate da cantanti
poco conosciuti. Tra essi vi fu anche il giovanissimo Franco (all’epoca ancora Francesco)
Battiato, che incise un brano presentato al Festival di Sanremo 1965 da Beppe Cardile e
Anita Harris: L’amore è partito, e una canzone già portata al successo da Alain Barrière:
…e più ti amo (che molti anni dopo, nel 2008, lo stesso Battiato riproporrà nel disco di
cover Fleur 2).
10
…e distillando sogni
con Herbert Pagani2), Ivan della Mea (che aveva iniziato
nel Nuovo Canzoniere Italiano) e Luigi Tenco, anche se
caratterialmente e/o musicalmente spesso lontani anni
luce gli uni dagli altri (Dalla e Tenco, per esempio, erano amici, ma si fatica a immaginare due persone più
diverse, tra intrecci di funamboleria e riservatezza), con
assoluta dignità artistica decisero tutti fin da subito di
“metterci la faccia”.
Pian piano, come un inesorabile tsunami che spazzava via tante convenzioni e convinzioni, iniziava a modellarsi così una categoria a sé, che si caratterizzava
per qualcosa di più (di molto di più) che una semplice
e passeggera moda musicale, acquisendo tutti i requisiti anche culturali per permeare di sé un’intera generazione3, per modellarsi e apparire come una vera e
propria corrente di pensiero, come un’anticonformistica
rivoluzione.
A dispetto delle cerimoniosità o delle orchestrazioni
sviolinanti, ecco quindi entrare in scena qualcuno che si
accompagnava magari solo con la sua chitarra, con un
abbigliamento molto più informale di quel che il periodo
richiedeva4, e magari parlava… parlava… parlava…
Declamava forse, a volte (“lingue allenate a battere il
tamburo”, come canterà anni dopo Fabrizio De André).
Perché aveva tanto da raccontare e ci teneva a
raccontarlo a qualcuno che avesse veramente voglia di
ascoltarlo.
Quindi essere cantautori era “parlare molto” oltre che
suonare?
2.
Cin cin con gli occhiali, Ahi le Hawai tra le altre, nonché un brano scritto
sempre con Pagani per Bobby Solo: L’amore con la grande A, pubblicato solo in…
Giappone (?).
3.
“Fino a quando l’uomo resterà tale, ogni generazione troverà nella sua
musica una parola di conforto” sostiene del resto il Maestro Riccardo Muti.
4.
Nel libro La commedia dei cantautori italiani (Editrice Effequ), Guido Michelone
così commenta: “La cravatta (era) la metafora dei tanti ‘ismi’ nocivi per gli allora giovani
cantautori: perbenismo, conformismo, passatismo, tradizionalismo, sentimentalismo,
patriottismo eccetera eccetera. Tutti ‘ismi’ che i cantautori vogliono combattere a suon
di canzoni scravattate”.
11
Santino Mirabella
Affrontare discorsi diversi dai soliti, affrontare con
sguardo laico tante tematiche diverse?
Portare avanti un certo discorso (come si amava dire
in quegli anni)?
Bastava insomma questo, bastava scriversi le canzoni da soli e quindi, come irrideva Bruno Lauzi, far
risparmiare al discografico di turno la fatica (e i soldi) di trovare e mettere insieme il compositore e il
paroliere?
In realtà non si può dire qualcosa di definitivo, fare
punto e tornare a capo, convinti e contenti di avere
finalmente, in qualche modo, definito l’indefinibile.
Perché indefinibile fu veramente quel momento storico che creò, o almeno pose le basi per creare, un
fenomeno dai confini abbastanza chiari dentro la testa e il cuore del fruitore, ma difficili, assolutamente
difficili da delineare con parole altrettanto nette e
chiare.
Perché, all’epoca, si era creata un’alchimia che vide
ricomporsi, come un big bang, situazioni sociali, culturali
e musicali che non si sono ripetute e non si ripeteranno
mai più in quel modo, in quei contesti ormai inimmaginabili, con quelle dinamiche che sembravano magiche
e che oggi possiamo solo ricordare, o ricostruire, forse
con nostalgia ma non solo.
I giovani, anche se non solo i giovani5, scoprivano
che i loro pensieri, le loro insofferenze, le loro speranze venivano messe in versi e musica da persone che
le capivano perché le rivivevano in contemporanea, in
contestualità assoluta.
Quei cantautori certamente davano voce a tutti coloro che, citando Ungaretti, erano forse stanchi di “urlare senza voce”; offrivano versi alle emozioni, offrivano parole ponendosi come cartina di tornasole di una
pluralità di persone che non riuscivano a descriversi
altrettanto bene.
5.
12
Tutti gli “zingari felici”, per richiamarci alla felice immagine di Claudio Lolli.
…e distillando sogni
Ma è anche vero che questi artisti avevano veramente qualcosa di più, e qualcosa in più riuscivano
certamente a darla: non erano solo una “voce” o una
“emozione” che li precedeva e che loro mettevano in
scena e basta, essi riuscivano a porre e proporre quel
quid che permetteva di “vedere” le emozioni, leggerle
su parole che sembravano normali, universali, mentre
invece fuoriuscivano da un universo molto più ampio e
parallelo, permettendo di regalare vere e proprie forme
architettoniche ai pensieri stessi6.
Francesco Guccini anni dopo si definì “burattinaio
di parole”7; certo erano essenzialmente proprio l’uso e
l’attenzione per le parole a caratterizzare il fenomeno:
parole “prime”, che riuscivano a riprodursi in una diversa
veste mischiandosi tra loro, come i colori.
Un arcobaleno in versi.
E conseguenzialmente, non a caso, una delle accuse
più diffuse dell’epoca riguardava proprio il fatto che,
per molti, appariva eccessivamente trascurata la musica
a vantaggio delle parole stesse, in una sperequazione
inversa rispetto a quanto si era fino ad allora ritenuto;
nel 1982 era sempre Bruno Lauzi a scrivere (pur con il
suo gusto del paradosso provocatorio) che la presenza
onnipotente del fenomeno cantautorale – “divismo puro,
peggiore perché più organico” – avrebbe addirittura
compromesso la crescita di musicisti meno presuntuosi
e il dialogo culturale (?).
Ma, lasciando perdere le provocazioni di una persona
comunque intelligente come Bruno Lauzi – assolutamente
mai inquadrabile né nella categoria storica di cantautori
“puri” né in altre (e anche politicamente, oltre che musicalmente, la sua strada ondivaga non si inquadrò mai
in maniera consona agli altri suoi colleghi) –, bisogna
6.
Lucio Battisti e Pasquale Panella: “e poi il discorso prende una piega
architettonica / nell’aria con le mani, / si collega ai pianti rampicanti / all’euforia da
giardino / ai pensili eccitanti. / All’ornamentale destino” (A portata di mano, dall’lp
L’apparenza, 1988).
7.
Samantha, dall’lp Parnassius Guccini, 1993.
13
Santino Mirabella
riconoscere, e non viceversa disconoscere pur di fare il
bastian contrario, come solo con “loro” (almeno in Italia)
le parole delle canzoni iniziarono (o ripresero) a divenire
protagoniste assolute.
Prima si cantava (legittimamente, per carità) alla mamma cui si ritornava tanto felice, e l’unico problema era
inserire parole innocue dentro melodie estremamente
orecchiabili; poi iniziarono a scoppiare le bombe musicali:
dapprima vennero gli “urlatori” come Tony Dallara o il
Modugno di Volare, che in qualche modo cercarono di
spostare un po’ più in là l’asticella della rassicurazione
e di dare una sveglia. E Modugno fu un antesignano
fondamentale, basti pensare alla struttura del suo brano
Vecchio frack, scritto dopo aver letto su un giornale la
notizia del suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia.
Poi vennero loro: i cantautori8.
Cantautore: parole e musica, diverse, e diverse nella
loro commistione.
Parole non più corollario di un motivetto consolatorio.
Parole con un’anima propria, e con un cuore, una
testa, mille sogni.
L’importanza delle parole era una rivoluzione; parole
“sussurate, zitte e poi gridate”, come canterà nel 2003
la rimpianta Giuni Russo9, parole che però dovevano
essere accompagnate dalla musica, per creare metafisicamente qualcosa di più rispetto alla semplice associazione sonora.
8.
Anche se Umberto Eco pone il primo scalino altrove, ancora più a monte,
sostenendo che se non ci fosse stata l’esperienza dei cantacronache torinesi – come
Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Margot e Michele Straniero – la storia della canzone
italiana sarebbe stata diversa: “Poi, Michele non è stato famoso come De André
o Guccini, ma dietro questa rivoluzione c’è stata l’opera di Michele”. Quella fu una
breve esperienza torinese, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, con artisti che
recuperavano la tradizione della musica popolare italiana ma incidevano anche nuove
canzoni, in collaborazione anche con intellettuali come lo stesso Umberto Eco e Italo
Calvino, trattando tematiche che divenivano tristemente attuali, come le morti sul lavoro
(La zolfara) l’opposizione alla guerra (Dove vola l’avvoltoio) le lotte operaie (Per i morti
di Reggio Emilia). Da non dimenticare, poi, l’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano,
con Giovanna Marini e Ivan della Mea, con il loro “quasi” folk sindacale.
9.
Nel brano Morirò d’amore, presentato a Sanremo durante l’ultima apparizione
della già malata Giuni, purtroppo deceduta l’anno dopo.
14
…e distillando sogni
Ma parole anche protagoniste altere, come i refrain
surreali dell’immenso Enzo Jannacci, fotografie ma al
tempo stesso elementi propulsivi che diverranno un vero
e proprio patrimonio comune, nazionale o anche solo
locale.
E a tal proposito bisogna ricordare come si sia sempre parlato di “scuole” legate alle origini del gruppo
di cantautori. La scuola milanese produsse un gruppo
compatto di artisti-amici che, tra l’altro, non si limitò
alla sola musica d'Autore: così accanto a Enzo Jannacci,
Adriano Celentano, Giorgio Gaber e (la sua fidanzata di
allora) Maria Monti, ecco anche i vari Cochi e Renato
(con le loro stralunate incursioni anche musicali guidate
per lo più dallo stesso Jannacci), Massimo Boldi, Teo
Teocoli, Felice Andreasi. La consistente scuola genovese
era rappresentata da un altro gruppo di artisti-amici10 come Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André,
Umberto Bindi, Bruno Lauzi, ai quali si accostava il
non convenzionale Paolo Villaggio, presenza fondamentale per i primi passi di Fabrizio De André11. La scuola romana era caratterizzata ovviamente da Antonello
Venditti, Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio e
Ernesto Bassignano (i quattro ragazzi “con la chitarra e
un pianoforte sulla spalla” cantati dallo stesso Antonello
Venditti anni dopo nel brano Notte prima degli esami),
10. L’amicizia fu certamente un fattore propulsivo del fenomeno, perché spesso
fu proprio da un ambiente, da un locale (il Derby a Milano, il Folkstudio a Roma) o da
un gruppo i cui appartenenti si contaminavano a vicenda che nacquero vere scuole di
pensiero che colorirono in maniera determinate il nascente mondo cantautorale. Altre
volte, bisogna aggiungere, così come l’amicizia fu spunto trainante, il venir meno della
stessa creò divisioni anche artistiche spesso molto traumatiche: per rimanere ai periodi
di cui si parla, si può ricordare l’originale esperienza del Clan di Adriano Celentano, che
nacque ufficialmente il 19 dicembre 1961, con sede in via Zuretti a Milano e capitale
sociale di novecentomila lire. Celentano voleva svincolarsi dalla casa discografica Jolly
(che gli intentò una causa civile chiedendo quasi mezzo miliardo di lire) e chiamò a
raccolta amici e parenti: il nipote Gino Santercole, la fidanzata Milena Cantù, Miki Del
Prete, Ricky Gianco, Mariano Detto, Don Backy. La rottura, causata da vari motivi che
crearono insofferenze e aspre critiche verso il “boss” del Clan, portò con sé liti, scontri
di avvocati e odi perenni. Giorgio Gaber nel 1968 pubblicò anche una canzone riferita
a questa vicenda: C’era una volta il Clan.
11. C’era Paolo Villaggio nell’episodio reale che ispirò Via del Campo (malgrado
il pezzo sia poi stato scritto da Faber insieme a Enzo Jannacci) ed è ancora Paolo
Villaggio a scrivere il testo di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers.
15
Santino Mirabella
nonché Luigi Grechi (fratello di Francesco De Gregori),
Rino Gaetano, Mimmo Locasciulli, Edoardo De Angelis e,
ovviamente, Stefano Rosso (che però in seguito negherà
in radice che vi fosse qualcosa definibile come “scuola
romana”).
Fabrizio De André, nel corso del famoso concerto del
1975 alla Bussola di Sergio Bernardini, disse che i testi
non vanno separati dalla musica, nemmeno per inserirli
nelle antologie, perché “se uno sceglie di fare il cantautore sceglie di fare musica e parole insieme, che hanno
un senso se sentite e ascoltate insieme”12.
L’importanza delle parole diveniva una novità e un
vantaggio insieme, ma in fondo, per certi versi, addirittura un rischio perché, quando ufficialmente si mettevano
in primo piano le parole, esse stesse a quel punto dovevano sottostare a un’analisi esegetica molto maggiore
rispetto al passato, con dei giudici severissimi e pronti
a bocciare senza appello quello che poteva apparentemente spostarsi da una preoccupante necessaria approvabilità “a prescindere”.
Iniziarono a proliferare in maniera sempre più consistente i tribunali di “purezza”, con delle valutazioni che
via via posero storicamente in evidenza anche il ruolo
ben preciso che avevano e dovevano necessariamente
avere coloro che quelle parole le usavano.
Roberto Vecchioni, nella sua Vaudeville (dall’album
Samarcanda del 1977) aveva già capito il rischio:
12. E aggiungeva, schernendosi: “Se fossi stato un poeta avrei tirato al Nobel
intorno agli ottantasette anni e avrei continuato a scrivere poesie; se fossi stato un
musicista avrei scritto musiche per dei film tipo La cassuola, Ringo o roba del genere e
a quest’ora sarei anche ricco. Ero un cantautore! Eppure qualcuno ha detto che, tutto
sommato, le mie parole andavano bene anche da sole, mettendole in queste antologie
facendo un torto a me e, soprattutto, a questi bambini (che magari se le devono anche
studiare a memoria). Frustrando soprattutto così un tentativo di cercarmi un mestiere
che, oltre a divertire me, è stato anche un grosso colpo di fortuna”. Eppure, pur
comprendendo il punto di vista del grande Faber, devo dire che in fin dei conti, laddove
le parole “riescono” ad avere una loro vita autonoma rispetto anche alla loro mogliemusica (o viceversa), non possa e non debba ascriversi a errore legittimarne l’incursione
in altre dimensioni (come quando gli innamorati si scrivono frasi d’amore tratte dalle
canzoni: è un’emozione in più, non in meno, rispetto alla canzone). Un’ulteriore vita
parallela non ne uccide le dimensioni ma probabilmente le amplifica a raggiera.
16
…e distillando sogni
E spararono al cantautore
in una notte di gioventù,
gli spararono per amore
per non farlo cantare più;
gli spararono perché era bello
ricordarselo com’era prima,
alternativo, autoridotto,
fuori dall’ottica del sistema
Scemo, scemo.
Mentre cadeva giù dalle tasche
gli rotolavan di qua e di là
soldi di Giuda, bucce di pesche
e tante altre curiosità,
mentre cadeva, buono tra i buoni
e si annebbiava vieppiù la vista
fece di getto due o tre canzoni,
segno che era grande artista.
(…)
E con il mento fra le due assi,
steso sul palco con gli occhi blu,
sentì gridare dietro quei passi
“Se lo mangiamo siam come lui”.
I “veri” cantautori si resero presto conto del ruolo
assunto e delle aspettative presenti; ma da esse si sentivano via via restringere i muri della stanza della loro
creatività.
Fin da subito Edoardo Bennato, con l’ironia che sempre lo ha accompagnato fin dagli esordi, non a caso
rideva (e irrideva) della sua stessa “categoria”, e così,
parlando al “Cantautore”, lo avvolgeva con gli occhi
dell’“acritico” della prima ora:
Tu sei forte
tu sei bello
tu sei imbattibile
tu sei incorruttibile
tu sei un cantautore
tu sei saggio
tu porti la verità
tu non sei un comune mortale
a te non è concesso barare
tu sei un cantautore
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Santino Mirabella
tu sei un’anima eletta
tu non accetti compromessi
tu non puoi sbagliare
tu non devi lasciarti andare
tu sei un cantautore.
(…)
Tu sei buono
tu sei vero
tu sei onesto
tu sei modesto
tu sei un cantautore
tu sei semplice
tu sei sicuro
tu sei generoso
tu sei valoroso
tu sei un cantautore
tu sei senza macchia
tu sei senza peccato
tu sei intoccabile
tu sei inattaccabile
tu sei un cantautore.
E già immaginandosi come sarebbe andata a finire,
immedesimandosi nei “critici astiosi” (e invidiosi) della
seconda ora:
Ma non è giusto che tu hai tutto e noi invece no!
Tu sei perfetto tu non hai un difetto che rabbia che ci fa!
A tal proposito si può anche ricordare il giornalista di
Penna a sfera di Antonello Venditti, mandato a realizzare
un articolo scandalistico su un cantautore, ricercato nei
migliori alberghi “pensando che stesse bevendo ancora
una coppa di champagne”13.
Vi fu certamente chi acquisì (molto) più facilmente le
sembianze adatte a quel ruolo, e di certe raffigurazioni
13. Tra l’altro, a quanto dicono le cronache, il discorso non era solo generale,
ma anche particolare e specifico: infatti il brano sarebbe collegato a un’intervista che
Venditti e De Gregori avevano rilasciato a Enzo Caffarelli. Nel pezzo vi era una critica
verso i due cantautori, i quali, secondo il giornalista, da una parte professavano impegno
con le loro canzoni e dall’altra soggiornavano, durante la tournée, in alberghi di lusso
bevendo (appunto) champagne.
18
…e distillando sogni
incensanti magari iniziò a pensare di non poter fare a
meno (sempre il “Cantautore” di Edoardo Bennato: “Sì
è vero, sono io il più bravo / sì è vero, sono io il più
bravo, nessuno è bravo come me. / Sì è vero, sono io
il più saggio / sono io il più intelligente / e poi sentite
come canto beeeene”).
E a quello stesso stereotipo di cantautore si rivolge
in tono irridente Francesco Guccini nella sua celebre
Avvelenata:
Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla
sera per un po’ di milioni,
voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene
e non solo i coglioni…
Che cosa posso dirvi? Andate, fate…14
Ma molti non volevano essere classificati, ingabbiati;
Lucio Battisti, pur nel suo guscio di “corpo estraneo”,
imponeva un’orgogliosa presa di posizione a favore del
suo “canto libero” che volava
sulle accuse della gente
a tutti i suoi retaggi indifferente.
Paradossalmente (o non tanto) negli anni andò perdendosi molto più facilmente il primo tipo di cantautore
(quello che inseguiva il ruolo) piuttosto che il secondo…
E sempre il solito caustico Lauzi si spinse a profetizzare che la categoria rischiava di divenir presto monumento di se stessa, dimenticando che sui monumenti i
cani ci fanno la pipì…
Della loro capacità e decisione di incidere realmente
nella società si è molto parlato.
14. E ripeterà concetti simili – seppur parafrasando Rostand e seppur scagliandosi
non esclusivamente verso la “propria categoria” – nella meravigliosa Cyrano del 1996,
inserita nell’album D’amore, di morte e di altre sciocchezze: “Venite pure avanti poeti
sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, / buffoni che campate di versi senza
forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; / godetevi il successo, godete finché
dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura / e andate chissà dove per non
pagar le tasse col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe”.
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Santino Mirabella
Diversi anni dopo, ragionando sul potere culturale
che (volente o nolente) “quel” gruppo di cantautori –
promossi al ruolo di maître à penser – riuscì comunque ad avere (e forse a non saper, o voler, sfruttare),
Fabrizio De André regalò, nella sua La domenica delle
salme15, una lucida riflessione autocritica sull’inadeguatezza storica e politica nel creare o favorire non solo
semplici movimenti di pensiero ma vere e proprie “svolte” di pensiero:
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta
poi ci mandarono a cagare
voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo.
Ma, all’altezza o meno delle aspettative, consapevoli
o meno, di fatto quei cantautori riuscirono comunque a
segnare un’epoca e a incidere sulla maturazione di una
generazione (che forse avrà anche perso, come cantò
molti anni dopo – nel 2001 – Giorgio Gaber nell’lp omonimo, ma alla quale deve comunque riconoscersi l’onore
delle armi).
Quelle persone in tempo reale vivevano e (ri)cantavano le loro emozioni per certi versi assolutamente
tradizionali, da un lato, ma certo non convenzionali (per
l’approccio diverso) dall’altro, con l’apporto di una sensibilità innovativa anche nella sua stessa capacità descrittiva: basti pensare, per esempio, alla descrizione dello
15.Dall’lp: Le nuvole, 1990.
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…e distillando sogni
stato d’animo del protagonista del brano Son s’cioppàa
di Enzo Jannacci: “hai presente un canotto mordicchiato
da un dobermann?”.
Un’immagine perfetta e spiazzante insieme.
L’operazione fu esplicita, e non subliminale, a significare un vero e proprio svecchiamento, o quanto meno
rinnovamento, delle categorie di pensiero e del loro
modo di esprimerle.
E non solo di emozioni si parlava; o meglio, non solo
di emozioni private e/o sentimentali, perché era anche
una nuova coscienza sociale, e di massa, a risvegliarsi
bruscamente, ritrovando – o pretendendo di ritrovare –
in quelle canzoni (ufficialmente post-sessantottine) i suoi
slogan, la sua rabbia.
O quegli slogan e quella rabbia che quella generazione non sapeva di covare in maniera così forte; un po’
come cantava (seppur per altri e diversi contesti, ma
con parole che possono essere “prestate”) Fabrizio De
André ne La bomba in testa nel 197316:
…e io contavo i denti ai francobolli
dicevo “grazie a Dio” “buon Natale”
mi sentivo normale
eppure i miei trent’anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.
Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l’idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese.
E io ho la faccia usata dal buonsenso
ripeto “Non vogliamoci del male”
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro.
(…)
16.Dall’lp Storia di un impiegato, 1973.
21
Santino Mirabella
Chissà cosa si trova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni,
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni,
allontanarli in tempo
e prima di trovarsi solo
con la paura di non tornare al lavoro.
(…)
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco.
Ed ecco introdursi in parole e musica anche le
storie del sottobosco sociale, di prostitute, operai,
emarginati.
Ecco le storie dell’idroscalo e le scarpe da tennis
cantate da Jannacci, con i suoi protagonisti di tutti i
giorni, i suoi Armando, Vincenzina, Silvano, Mario.
Una nuova coscienza che partiva da altre prospettive
e da altre inquadrature. Perché era, insomma, il livello
di consapevolezza anche politica a lievitare, lo abbiamo
visto; in tal senso, per esempio, il troppo presto dimenticato Alfredo Bandelli scriveva canzoni di protesta, con
pochi accordi, firmando ogni sua canzone con la dicitura “Parole e musica del proletariato”.
Oppure, possiamo ancora ricordare il Gualtiero Bertelli
del Canzoniere Popolare Veneto; o Paolo Pietrangeli,
che, prima di divenire regista Mediaset, dava voce prepotente alla ribellione sociale e la sua Contessa divenne
un inno del Movimento.
La critica sociale e la presa di posizione convinta e
coerente trovavano il loro miglior domicilio permeando
anche la maggior parte della produzione (artisticamente
più completa e universale) di Claudio Lolli.
Queste dinamiche si sovrapponevano e alla consapevolezza politica si affiancava una presa di coscienza anche
individuale: ricordiamo infatti la tendenza ossessiva di ricondurre tutto a una valenza politica e sociale che permetteva – anzi obbligava quasi – di creare un’inscindibile
crasi tra “politico” e “personale”, tra “privato” e “pubblico”.
22
…e distillando sogni
Francesco Guccini all’epoca si scherniva dicendo che
le sue canzoni erano politiche solo perché tutto quello
che si fa è in un certo senso politico; ma nel frattempo le sue canzoni divenivano slogan… e tutti a cantare
“trionfi la giustizia proletaria”17.
Le canzoni di Claudio Lolli diventavano così una
boccata di aria liberatrice, una vera e propria bandiera dura e pura, da impugnare orgogliosamente contro
la “vecchia-e-piccola-borghesia” che tutti erano certi
che “il-vento-un-giorno” avrebbe “spazzato-via”18.
Tutti cantavano per strada l’operaio Pablo19, antesignano (dal punto di vista della presa di coscienza)
dei morti sul lavoro, ammazzati dall’indifferenza del
padrone (che magari non è “così cattivo”), ma sempre
vivi accanto a noi (il grido “Hanno ammazzato Pablo,
Pablo è vivo” iniziò a essere scritto sui muri delle
città).
Ed ecco ancora La locomotiva di Francesco Guccini,
che, come una cosa viva, viene lanciata a tutta velocità
contro le ingiustizie.
Ecco irrompere la scimmietta di Jodi20, del primo
Antonello Venditti, che uccideva il presidente e tirava
fuori i tesori del papa “rubati al cuore della gente”.
Ecco i nuovi-vecchi fascisti cantati da Francesco De
Gregori21, fascisti con “la faccia serena22 e la cravatta
17.La locomotiva, dall’lp Radici del 1972.
18. Borghesia, dall’lp Aspettando Godot del 1972; da notare che anni dopo, nei cd
Dalla parte del torto del 2000 e La terra, la luna e l’abbondanza (raccolta) del 2002, Lolli,
con caustica ironia, riprenderà la canzone aggiungendo un significativo “forse” (“Il vento
un giorno – forse – ti spazzerà via”). Lui stesso, in un’intervista rilasciata a Massimo Longo,
dichiarerà: “Certo, c’era una sorta di ottimismo, decisamente strano in me, rivelatosi poi
fallace. Ma no, non è stata assolutamente spazzata via, anzi. Ero sicuro che accadesse
all’epoca, sai, leggevo Marx, Hegel, e dicevo che non c’è futuro per questa classe sociale.
La prossima volta che scriverò una nuova Borghesia, starò più attento!”.
19.
Pablo, di Francesco De Gregori, dall’lp Rimmel del 1975.
20.
Jodi e la scimmietta, dall’lp Ullàlla del 1976.
21. Le storie di ieri, dall’lp Rimmel del 1975 e incisa anche da Fabrizio De André
nello stesso anno nell’lp Volume VIII.
22. Nel testo originario, scartato e censurato dalla casa discografica RCA, era
esplicitamente Almirante ad avere la faccia serena.
23
Santino Mirabella
intonata alla camicia” (e quindi mimetizzati dietro un
doppiopetto che non ne nobilita il petto).
La canzone, insomma, andava riappropriandosi come
un fatto normale del suo ruolo anche storicamente
sociale; si faceva, con forza e parole nuove, portatrice
di un sistema di valori che trovava uno sbocco quasi
improvviso in una breccia imprevista, condizionando in
maniera netta il contesto a cui si rivolgeva e chiudendo
così il cerchio.
Il rischio certamente fu quello di pretendere da questi
nuovi “poeti”23 che divenissero, per cooptazione obbligatoria, menestrelli di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria, anche
la più inebetita e acefala che passasse per la testa in
quel preciso momento, hic et nunc.
I cantautori dovevano allora, come già detto prima,
trasformarsi in “cantori” del Movimento, quasi obbligati a
non discostarsi da una qualche “linea” (dettata da chi?)
afferente alle esigenze di una lotta di classe che spesso,
pur nelle piene e reali necessità di fondo, confondeva i
sogni con i bisogni e perdeva di vista la dimensione e
l’ottica delle cose.
Se, insomma, bisognava essere “duri e puri”, se bisognava dare “voce solo alla voce di chi li voleva portavoce”, ecco allora che qualsiasi tentativo di divincolarsi
dai compartimenti stagni diveniva un gravissimo voltafaccia. Per cui Buonanotte Fiorellino24 di De Gregori venne da più parti vissuta veramente come un tradimento,
uno sforamento gravissimo dall’obbligo istituzionalizzato
dell’impegno, un cedimento al sentimentalismo, come se
i sentimenti non fossero degni e non potesse essere
rivoluzionario anche un amore.
Ecco allora che anche il capolavoro La buona novella di Fabrizio De André, uscito nel 1970 in piena lotta studentesca, sembrò a qualcuno un ulteriore
23. Che per De Gregori, nell’appena citata canzone Le storie di ieri, sono in realtà
delle “brutte creature: ogni volta che parlano è una truffa”.
24.
24
Dal riferito lp Rimmel.
…e distillando sogni
tradimento, l’abbandono delle tematiche “vere”, dimenticando, come raccontava nei suoi concerti Fabrizio
stesso, che Gesù fu veramente il primo vero rivoluzionario della storia25.
Questo gruppo di cantanti-intellettuali doveva essere
insomma “a servizio”: per cui ecco la fase storica delle irruzioni nei concerti, quando, al grido “la musica è
gratuita ed è nostra”, tutti dovevano limitarsi a cantare
gratis le cose che volevano alcuni (ricordiamo il famoso
processo-farsa subito da De Gregori il 3 aprile 1976 al
Palalido di Milano, a seguito del quale gli Autonomi lo
invitarono “affettuosamente” a suicidarsi26, oppure l’altra inquisizione subita nello stesso luogo qualche mese
dopo da Antonello Venditti; ricordiamo le contestazioni
degli Autonomi a Salerno contro Edoardo Bennato, che
nel 1987 inciderà27 la canzone Era una festa rievocando
proprio quei periodi e quelle situazioni paradossali28).
A pensarci, tutto si poteva risolvere facendo in modo
che gli autoriduttori dell’epoca si organizzassero i loro
25. De André: "Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno
attente – che poi sono sempre la maggioranza di noi –, compagni, amici, coetanei,
consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: ‘Cosa stai a raccontare
della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto
nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci
dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi’. Non avevano capito – almeno
la parte meno attenta di loro, la maggioranza – che La buona novella è un’allegoria.
Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del Movimento sessantottino, cui io
stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968
anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità si
era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo
universali”.
26. E il giornalista Salvo Taranto, nel suo articolo Nascita della canzone d’Autore
(su Gocce di inchiostro) ricorda come l’ex senatore sassarese Luigi Manconi, sotto lo
pseudonimo di Simone Dessì, scrivesse curiosamente: “Esiste, oggi, un movimento di
massa che non abbandona la cultura musicale a se stessa ma vi interviene attivamente
e ha la possibilità di esercitarvi la propria egemonia. [… ] Se la classe operaia, oggi, fa
cadere i governi e si prepara a dare l’assalto al cielo, perché non dovrebbe essere in
grado, attraverso molte e complesse mediazioni, di egemonizzare Francesco De Gregori?
[…] Il movimento di massa del proletariato giovanile, d’altra parte, vuole utilizzare
Francesco De Gregori per i propri fini. Mah!”.
27.Dall’album Ok Italia del 1987.
28. “Tutti al concerto, transenne per terra / e la musica non si farà!… / Niente
canzoni, stasera è di scena / un processo alla celebrità! / Chi sta sul palco è un
istrione o un poeta, / smascheriamo la sua vanità!”.
25
Santino Mirabella
concerti cantando loro stessi con la voce (e il cervello)
che si ritrovavano…
Scherzi a parte, ovviamente su queste basi tutto veniva riletto con un’ottica centripeta e claustrofobica, e
questo rischiò veramente di far perdere di vista il valore
culturale di quella generazione di poeti-in-musica.
Del resto, io ho sempre sostenuto che non bisognerebbe puntare sulla distinzione aprioristica tra “canzoni
impegnate” e “canzoni d’amore”, bensì distinguere tra
canzoni belle e canzoni brutte; ma l’orizzonte non dava
ampi segni e, per esempio, i tanti futuri ed entusiasti
cantori di Lucio Battisti, tra i quali possiamo anche annoverare l’attento e preparatissimo Gino Castaldo, all’epoca
lo bollavano spietatamente non perché scrivesse canzoni
brutte in sé, ma perché non era adeguatamente impegnato e, soprattutto, adeguatamente impegnato a sinistra29.
Ma allora abbiamo gli strumenti, dopo questa serie di
considerazioni, per definire chi era il cantautore?
Forse per cercare una definizione occorre posizionarsi da un’altra visuale: il principale punto di arrivo e
anche di partenza (chiudendo il famoso cerchio) deve
forse essere la canzone che veniva fuori e non tanto (o
non solo) “chi” la proponeva; quindi definire cantautore
colui che scriveva e cantava (scrive e canta) le “canzoni
d’Autore”.
Il termine “cantautore” sembrerebbe essere ufficialmente nato per opera di Ennio Melis e Vincenzo Micocci
nel 1959 in relazione a Gianni Meccia, nell’ambito della
casa discografica RCA; l’anno dopo un programma della
RAI venne intitolato Il cantautore e la parola iniziò a
girare sempre più.
Successivamente il termine proseguì a definirsi in
maniera sempre più completa. Il 13 dicembre 1969 un
29. Eppure, paradossalmente, possiamo ricordare come tra le poche cose
“borghesi” che vennero trovate in un covo delle Brigate Rosse, venne rinvenuta l’intera
collezione dei dischi di Lucio Battisti; e proprio Battisti fu l’unico cantante addirittura
direttamente citato in un comunicato ufficiale dei terroristi, allorquando indicarono la
necessità di effettuare “discese ardite e risalite”.
26
Canzone d’Autore, quindi, intendendo la parola autore nel senso di massima nobilitazione, con la A maiuscola31, e quindi la canzone come il frutto di un artista
consapevole di un proprio ruolo nell’arte (e non solo), e
che correlativamente lo mette in scena con la coscienza
e la volontà di “fare” qualcosa di importante, qualcosa
di “intelligente”32 attraverso la comunicazione immediata
che solo una canzone, nei suoi tre-quattro minuti può
dare.
Tre-quattro minuti?
Non a caso anche la durata stessa delle canzoni
venne via via rivoluzionata e si acconsentì a una dilatazione figlia della necessità di comunicare senza le barriere aprioristicamente imposte dalle case discografiche
(per le quali storicamente la canzone doveva entrare in
uno spazio predefinito, per essere trasmessa alla radio,
per un passaggio televisivo etc.).
E, sulla scia delle suite dei grandi gruppi rock33,
ecco allora gli audaci otto minuti de La locomotiva34 di
Francesco Guccini, gli otto minuti e mezzo de L’ultimo
…e distillando sogni
giovane giornalista, Enrico De Angelis, propose al giornale L’Arena di Verona, una rubrica sui cantautori e il
titolo del primo articolo fu: La canzone d’autore. Luigi
Tenco: un utile ritorno30.
30. E il già citato Salvo Taranto commenta: “Parlando di sofferenza e travaglio
interiore del cantautore, non può non essere ricordato Luigi Tenco. La sua morte,
avvenuta nel 1967, è un evento che rivoluziona la storia della canzone italiana. Un
lutto che, trasformandosi in un ‘trauma culturale’ collettivo, permise infatti alla canzone
d’autore di ricevere un riconoscimento di carattere sociale e intellettuale, di legittimarsi”.
31.
autore…
Perché in fondo, sottolineava Francesco Guccini, tutte le canzoni hanno un
32. E ricordiamo la meravigliosa autoirrisione di Enzo Jannacci nel brano
affidato a Cochi e Renato come sigla del programma Il poeta e il contadino: La
canzone intelligente; una presa in giro dell’intero sistema che poteva rischiare di divenire
autoreferenziale, un riferimento alla canzone “intelligente” che parli “un po’ di tutto e un
po’ di niente”, affinché la “casa discografica adiacente” possa prendere l’artista e, “come
un deficiente”, lanciarlo “nel mercato sottostante”.
33.
Come i Pink Floyd o i Genesis.
34.Dall’album Radici del 1972.
27
Santino Mirabella
spettacolo35 di Roberto Vecchioni, i quasi dieci minuti de
Lo stambecco ferito36 di Antonello Venditti e di Via della
Povertà37 di Fabrizio De André; i nove minuti e mezzo di
Morire di leva38 di Claudio Lolli e così via…
A sua volta, ecco le estemporanee incursioni di brani
brevissimi, di poco più di un minuto, come S’i’ fosse foco
di Fabrizio De André39, Vaudeville di Roberto Vecchioni40.
La canzone finalmente e definitivamente nobilitata
come mezzo espressivo di serie A, senza confini temporali o tematici, senza muri.
E Paolo Conte nel 1982 beffardamente scriverà che
“canzone d’autore e liceo classico vanno ancora a braccetto; questo vuol dire che il maneggio della lingua
italiana è ancora affidato al tecnico”.
Non a caso tuttora quando si legge un testo di
particolare pregio si dice che “è una poesia”, con
ciò intendendo ovviamente fare un complimento ma,
automaticamente, riconoscendo che comunque la forma espressiva canzone debba essere considerata pur
sempre alla stregua di una sorella minore che, per
essere nobilitata, deve essere rapportata alla sorella
maggiore.
E sempre il caustico Fabrizio De André ricordava
Benedetto Croce, che affermava che fino a diciotto anni
tutti scrivono poesie, mentre poi continuano solo due
categorie: i poeti e i cretini; per questo Faber preferiva
definirsi “prudenzialmente” un cantautore. [Però deve
qui ricordarsi lo struggente racconto che Paolo Villaggio
fece, nel corso di un suo intervento al Salone internazionale del libro di Torino nel 2010, relativamente al suo
35.Dall’album Samarcanda del 1977.
36.Dall’album Lilly del 1975.
37.Dall’album Canzoni del 1974.
38.Dall’album Un uomo in crisi. Canzoni di morte, canzoni di vita del 1973.
39.
1968.
Dall’omonimo sonetto di Cecco Angiolieri, inserito nell’album Volume III del
40.Dall’album Samarcanda del 1977.
28
…e distillando sogni
ultimo incontro con Fabrizio De André ormai morente:
Villaggio narra che Faber, dopo avergli detto di “smontare” la faccia di circostanza che Paolo aveva assunto,
gli aveva raccomandato che tutte le volte che in futuro
avrebbe parlato di lui in pubblico, doveva dire che lui
non era stato un semplice “menestrello” ma un grande
poeta41. Ecco che inaspettatamente Fabrizio, proprio in
punto di morte, volle riappropriarsi di un titolo e di un
significato che in quel momento sentiva finalmente suo,
senza i disincantati schermi che in vita gli avevano suggerito timida prudenza.]
Comunque, anche il bravo Gino Castaldo all’epoca
sosteneva che: “La canzone (…) vive di questo intreccio
profondo e indissolubile. Separare parole e testo di una
canzone sarebbe come separare le forme di un dipinto
dai suoi colori”.
Ma, ciò detto, era poi lo stesso Castaldo che parallelamente si domandava comunque se bisognasse
considerarli “poeti in musica” o “musicisti che usavano
le parole”; forse quindi, come detto, bisognerebbe veramente parlare di un tertium genus, di una metafisica
composizione per cui, come l’ossigeno e l’idrogeno riescono a formare l’acqua, così le parole (con una raffinata attenzione sia al contenuto che alla sonorità) e un
certo tipo di musica hanno prodotto quel che comunemente è considerato il cantautorato nostrano.
Infatti è certamente vero che molti testi – come
già osservato in precedenza – possono realmente prescindere dalla musica e pertanto essere letti
“anche” come vera e propria (e autonoma) poesia42,
ma è altrettanto vero che l’alchimia parole-musica
di cui si è detto doveva (e deve) avere la sua assoluta
dignità artistica autonoma.
41. Questo racconto struggente l’ho videoripreso io stesso e “postato” su
YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=Ih6Ae7iC_U0.
42. Consiglio di provare, per esempio, a leggere tutta La buona novella proprio
di Fabrizio De André senza ascoltare la musica; o centinaia di altri testi di De André, di
Vecchioni, di Lolli, di Battiato e così via…
29
Santino Mirabella
Francesco Guccini sosteneva, per esempio, che “le
canzoni non sono né poesia né musica, sono canzoni,
hanno cioè una loro specificità artistica e una loro precisa dignità”; e anche Francesco De Gregori sosteneva
di essere “sempre stato convinto che la musica non è
poesia, che le canzoni non sono poesie e che quindi
non vanno lette, bensì ascoltate”.
Eppure il valore “anche” letterario di quel tipo di canzoni ha trovato l’imprimatur delle candidature al Premio
Nobel per la Letteratura di Bob Dylan, Leonard Cohen
e, soprattutto – per quel che ci riguarda –, Roberto
Vecchioni nell’autunno del 2013, a riscontro del rilievo
che non solo ha ormai acquisito la “semplice” canzone,
ma la canzone d’Autore italiana in particolare.
E se su questo i nostri cantautori hanno avuto un
merito storico, bisogna ricordare che con loro, infatti, si
modificò finanche la costruzione stessa del brano: nella
fase precedente, come detto, la musica aveva le chiavi
di casa e sull’onda di un suono venivano cucite le parole43, mentre storicamente la maggior parte delle canzoni
dei cantautori nasceva da una suggestione soprattutto
poetica o, comunque, verbale. La musica, quindi, come
una calda coperta alle parole, come del resto avveniva
in passato nell’ambito della musica lirica, ove il “libretto”
precedeva totalmente la musica.
La distinzione di metodo e di significato viene ben
illustrata da una citazione che Andrea Camilleri riporta – ma senza indicarne l’autore – nell’introduzione al
video di Paolo Conte Parole e Musica44: “Il ritmo musicale obbedisce esclusivamente alle leggi della ritmica
sillabica, la melodia risponde strettamente alla struttura
poetica”.
Parlavo di merito storico, ma è pur vero che molti cantautori amavano (aristocraticamente?) schernirsi,
43. Come continuò a lavorare la coppia Mogol-Battisti, del resto, non a caso,
quasi corpo estraneo alla “storica” categoria dei cantautori.
44.
30
A cura di Vincenzo Mollica, per Einaudi, 2003.
…e distillando sogni
come le belle donne che dicono agli astanti attoniti di
non essere veramente belle perché hanno le doppie
punte nei capelli o simili.
Ed ecco allora che per Francesco De Gregori le canzoni erano solamente “una serie di parole su un’incastellatura armonica e ritmica adeguata”.
Per De André, invece, la canzone era sempre stata
una bellissima fidanzata con la quale passare ancora
tanto tempo45.
Francesco Guccini scriveva che una canzone “può
far pensare, non far decidere; può creare una base, un
fermento che può spingere a scelte più ragionate, più
mature. E allora uno si lascia alle spalle la canzone e
fa e cerca altre cose”.
Claudio Lolli raccontava che “le canzoni nascono
da allucinazioni” e aggiungeva: “difficilmente riesco a
spiegarmi quello che sta succedendo con gli strumenti
della razionalità, ma probabilmente il cuore è già oltre
l’ostacolo. E allora ciò che riesce almeno a intravederlo
da lontano è il gioco della parola. Le storie nella loro
libertà fantastica sono sempre un po’ più avanti”.
Per Edoardo Bennato, in fondo, “sono solo canzonette”.
Ma tutti lo sapevano benissimo che non erano solo
canzonette, e che come canzonette non sarebbero state
recepite.
Nella trasmissione di Fabio Fazio Quello che non ho
del 15 maggio 2012 Francesco Guccini, studiando una
definizione di cantautore (un intreccio di melodista-paroliere-cantante), disse che il cantautore non è uno
chansonnier (tradizione francese), non è un cantastorie
(cosa che forse sarebbe all’epoca suonata come un’offesa), non è un cantore (termine troppo aulico), ma un
ibrido: è un “cammellopardo”, come gli antichi romani,
non sapendo cosa fossero, chiamarono le giraffe, per il
corpo da cammello e i colori da leopardo.
45.
Anche se il tempo si stava già organizzando contro di lui…
31
Santino Mirabella
Illuminante.
Qualcosa che ti sta davanti, la vedi, la senti, la percepisci e non riesci a dar parole ai tuoi sensi.
E forse, ancora più di riferirsi agli chansonniers, potrebbe addirittura recuperarsi la romantica immagine dei
trovatori46, di origine ugualmente francese, i quali, poco
dopo l’anno mille, diedero uno scossone alla musica
profana. Furono certamente poeti d’amore che trasferivano (rivestivano) in musica i loro versi e andavano in
giro di corte in corte per cantarli e per dare visione ai
loro sogni non solo musicali.
Allora cos’è la canzone d'Autore?
Come ricorda ancora il già citato giornalista Salvo
Taranto, sulla rivista Musica e Dischi nel giugno del 1976,
in un manifesto programmatico intitolato Organizzare le
forme per promuovere la qualità il Comitato italiano per
la diffusione della canzone d'Autore così definiva la canzone d'Autore in questione: “genere musicale/letterario
in cui l’opera, per forma e contenuto, sia fruibile sotto
l’aspetto artistico, in contrapposizione ai prodotti, realizzati con intenti esclusivamente consumistici, che hanno
finora costituito la parte prevalente della produzione
fonografica”.
Ma, al di là di una caratterizzazione soprattutto in
termini politici e/o di scontro, Roberto Vecchioni sostiene invece che: “Pur partendo da due sistemi semantici
preesistenti (il linguaggio poetico e quello musicale), la
canzone d'Autore costituisce un’unità narrativa e metrica
inscindibile. Non è infatti possibile separare musica e testo, così come non si può prescindere dall’interpretazione, che diventa un terzo elemento semantico essenziale:
essa può dunque essere considerata una forma d’arte,
e più specificamente un genere nuovo e autonomo”.
46. Trovatori o trovieri, a seconda della zona in cui operavano: i primi nel Sud
della Francia (adoperando la lingua provenzale), i secondi nel Nord (utilizzando la lingua
d’oil, che poi diventerà il francese moderno). Si trattava comunque, in quel caso, di
nobili, feudatari, cavalieri e, in ogni caso, personaggi della corte che non facevano i
musicisti di mestiere ma componevano canzoni da cantare durante qualche festa.
32
•testo (attenzione al testo: significato; centralità – e a
volte anche predominio – delle parole; sonorità, assonanze e omofonie non scontate e non convenzionali;
metafore imprevedibili);
•musica assolutamente “non tradizionale” (almeno nelle
originarie forme in cui si manifestò il fenomeno cantautorale, cioè senza seguire moduli convenzionali per
strizzare l’occhio a un mercato che già era assuefatto
a un determinato tipo di prodotto; e inoltre, nei primi
anni: un arrangiamento spesso scarno – troppo? – ed
essenziale);
•esigenza artistica (che descrive in maniera evidente la
miccia che accese il fuoco: l’impellente necessità di
una generazione di “esprimersi” in maniera diversa47);
•interpretazione vocale (assolutamente innovativa: tonalità
spesso più basse e confidenziali, perché l’interprete
sta parlando “proprio a te”);
•contesto di riferimento (“quel” momento storico: nessun
altro avrebbe potuto produrre quel tipo di movimento
musicale e di pensiero assieme).
…e distillando sogni
È quindi “questa” canzone d’Autore a fare il cantautore?
Bisogna forse ipotizzare un mosaico vincente:
Ma, detto questo…
Un elenco, un’equazione, una catalogazione è certamente ciò che di più impensabile e inadeguato si possa
tentare per descrivere e raccontare un fenomeno culturale che parzialmente appartiene certo al passato ma
che non è passato ancora e le cui (anche indotte) conseguenze positive hanno lasciato un segno indelebile.
La matematica può (forse) essere (anche) un’arte, ma
certamente l’arte non può essere mera matematica, mai
un’equazione; non la si può spiegare, l’arte, né si può
spiegare un’emozione.
Non si può.
47. Anche se molti anni dopo Francesco De Gregori, intervistato ancora da Fabio
Fazio, ma per la trasmissione Che tempo che fa, dirà orgogliosamente: “Alice non l’ha
scritta la mia generazione, l’ho scritta io”.
33
Santino Mirabella
Semmai si può cercare di rendere partecipi gli altri di
quello che ci nasce dentro e ci emoziona.
Partecipare un’emozione, che possa fondersi in una
sua dimensione che dal particolare voli al generale (e
viceversa).
Nello stesso modo, non si possono spiegare i cantautori, ma ascoltarli e raccontarli, soprattutto con le loro
parole, con la loro musica.
Curiosamente il fenomeno fu essenzialmente “maschile”; nessuna donna riuscì mai a essere ritenuta degna
di assurgere all’Olimpo ricco di “padri” storici del cantautorato italiano, conseguenzialmente privo quindi di
“madri” storiche.
E non che manchino figure di valore nell’ambito femminile, anche con grandissime artiste, ma sempre vi
furono soprattutto grandi interpreti, come Mina (che
lanciò, come detto, La canzone di Marinella, divenendo
fondamentale nella carriera di Fabrizio De André), Milva
(interprete d’eccezione, da Brecht a Franco Battiato),
Ornella Vanoni (musa e interprete soprattutto, nella prima fase, di Gino Paoli), Patty Pravo, la meravigliosa Mia
Martini, Anna Identici, Gigliola Cinquetti, Nada…
Nada, per esempio, nacque artisticamente come una
“qualsiasi” brava e timida cantante, dall’affascinante e
intrigante voce nasale, ma soprattutto in seguito, e dopo
aver inciso anche composizioni di Paolo Conte e Piero
Ciampi, approderà certamente a una dimensione prettamente cantautorale, scrivendo da sé apprezzate e
apprezzabili canzoni.
Nessuna donna, però, come detto, è mai stata
inquadrata nella categoria (un po’ maschilista?) dei
cantautori.
Eppure vi sono state anche giganti, come Giovanna
Marini, essenzialmente inseribile però in altre tradizioni,
espressione soprattutto del canto popolare con valenza
prettamente politica.
34
…e distillando sogni
Nel 1976 Jenny Sorrenti48, dopo l’esperienza con il
rivoluzionario gruppo dei Saint Just (terzetto formato
da lei, Tony Verde e Robert Fix, e che aveva inciso gli
album: Saint Just e La casa del lago), incide un disco più che interessante, Suspiro, dove suonano alcuni
giovani promettenti: Pino Daniele, Lucio Fabbri e Peter
Kaukonen.
Le esperienze, però, quasi mai vanno oltre determinati ambiti, soprattutto temporali.
Altre artiste donne meritano di essere ricordate, come
la dolce Marisa Sannia, detta “la gazzella di Cagliari”,
nata artisticamente su palcoscenici nazional-popolari nel
senso più tradizionale e via via sempre più immersa in
un mondo cantautorale, da lei intrapreso soprattutto
nella sua lingua sarda; oppure, ancora, Donatella Bardi
(A puddara è un vulcano), Maria Monti (che, tra l’altro,
nel 1975 partecipa anche a un concerto inciso nello
storico, e raro, 33giri live Bologna 2 settembre 1974, con
Francesco De Gregori, Lucio Dalla e Antonello Venditti)
e Antonella Bottazzi (anche lei inizialmente destinata a
palcoscenici tradizionali, con il semplice nome Antonella,
e poi via via indirizzatasi verso interpretazioni di maggior
spessore, arrivando infine a scrivere bellissime canzoni
per i bambini – vedasi il suo Canzoni di muccalle, pecodrilli, cignatte, scimpechi, porchigli & C. del 1979).
Un posto particolare merita anche Roberta D’Angelo,
artista molto preparata (anche diplomata al conservatorio in pianoforte) che nel 1975 per la RCA incise insieme
a Silvia Draghi, Nicoletta Bauce e il duo Simo e Susi
un album intitolato Le cantautori – con una linguistica dimostrazione di come il patrimonio della canzone
d'Autore venisse ancora considerato in un’ottica propriamente maschile –. La D’Angelo all’epoca aveva solo lo
spazio di apertura dei concerti di Antonello Venditti e
Francesco De Gregori. Successivamente Roberta incise
48. Sorella del più noto Alan Sorrenti, che a sua volta, dopo alcuni dischi di
ricerca – Aria, Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, Sienteme, It’s
time to land – crollerà nel genere mieloso.
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Santino Mirabella
altri tre lp; il terzo, Casablanca, sorprese i suoi ammiratori in quanto lei, sempre particolarmente impegnata e
anche esteticamente sobria e non appariscente, adesso,
fin dalla copertina – così come nelle sue esibizioni dal
vivo o televisive – era travestita da vamp, con movenze
da oca tradizionalmente (e ironicamente) bamboleggianti. La sua prorompente carica ironica non venne capita
e la sua stessa carriera subì, anche per propria scelta,
una definitiva interruzione immeritata.
La musica d'Autore femminile è riuscita col tempo a ricavarsi ugualmente un suo spazio, seppur non
classificato.
Non può comunque non notarsi come, soprattutto
all’inizio di questa acquisizione di spazi, spesso dietro
a ognuna delle prime cantautrici della seconda epoca
continuasse ad agire un’ingombrante figura maschile già
affermata: per esempio, Franco Battiato collaborò ai
dischi di Alice e Giuni Russo (Capo Nord ed Energie),
Roberto Vecchioni collaborò con Gianna Nannini (che
negli anni diverrà una figura di primissimo piano del
cantautorato rosa, con bellissime composizioni a sua
firma e interpretazione) all’intera stesura (soprattutto
dei testi) di California, mentre Eugenio Bennato guidò
Teresa De Sio nei suoi primi passi che porteranno poi
alla pubblicazione del disco d’esordio Sulla Terra sulla
Luna.
Negli anni più recenti, infine, si affacceranno altre
artiste di valore come Noemi, mentre una delle più
grandi interpreti italiane, e cioè Fiorella Mannoia, sarà
essenzialmente la voce dei grandi cantautori, ma nulla
scriverà direttamente, fermandosi un momento prima del
passo decisivo in tal senso.
La musica d’Autore, senza etichette e senza distinzioni sociali e sessiste.
La musica d’Autore come Arte “alta”.
In questo ambito, ai grandi cantautori si affiancava
un grande musicista, un grande “poeta”, un grande
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…e distillando sogni
chitarrista, un grande performer che aveva anch’egli intrapreso la strada iniziale di cui si è detto, segnandola
anche per qualche anno e poi via via inspiegabilmente
(anche e soprattutto per sua scelta) ritiratosi in un’incongrua ombra; dalla quale però tutti potevano vederlo,
se avessero voluto.
Se lui stesso avesse forse voluto.
Insomma, in questo fenomeno del cantautorato italiano, come si colloca un certo Stefano Rossi, in arte
Stefano Rosso?
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