DISCIPLINE
Come leggere la poesia .4
Giochi illocutivi
Prima parte
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Prosegue la pubblicazione di «Come leggere la
poesia», una guida all’analisi, alla comprensione,
all’interpretazione del testo poetico. Questa
quarta puntata, assieme alle due che
seguiranno, riprende e sviluppa la problematica,
introdotta nel corso dell’analisi di «Nebbia»,
delle illocuzioni veicolate dai successivi
enunciati del testo poetico, dei loro rapporti, e
in generale dell’architettura “azionale” della
poesia. Ad una schematica proposta di tipologia
delle azioni del testo e nel testo segue qui uno
sviluppo sul fondamento grammaticale delle
azioni elementari – asserzioni, domande, ordini,
ecc. – e sulle loro potenzialità espressive. Il
denominatore comune delle tre puntate è
quello dei “giochi illocutivi”: di come la poesia
possa sfruttare ai propri fini le molteplici
modalità linguistiche dell’agire comunicativo.
i successivi enunciati di un testo poetico (ma in realtà di un
qualunque testo) realizzano ognuno delle particolari azioni
linguistiche interattive variamente classificabili come domande, come asserzioni, come richieste, e così via; azioni che si
concatenano a costruire l’architettura illocutiva – cioè, “relativa
alle azioni linguistiche interattive” – delle singole parti del
testo, e quindi la sua architettura illocutiva complessiva. In
«Nebbia» l’architettura illocutiva complessiva era relativamente semplice: una preghiera, ribadita, scandita, come s’è
visto, ad intervalli regolari. In altri testi l’architettura sarà,
come vedremo, più elaborata. In altri ancora essa sarà elementare: una sequenza d’asserzioni, nella maggior parte dei casi.
Fuori del testo, naturalmente, vi è il Poeta, il demiurgo di tutta
questa più o meno complessa messinscena interattiva.
Vogliamo ora riprendere in maniera un poco più sistematica, al di là della semplice associazione enunciato-atto linguistico, la poco studiata questione delle azioni linguistiche del
testo e nel testo, per concentrarci poi (nei limiti di queste
*
I paragrafi 1 e 2 sono apparsi sui numeri di gennaio (§§ 1.1-1.9), febbraio (§§ 2.12.4) e marzo (§§ 2.5-2.9).
Abstract
3. Giochi illocutivi nel testo poetico*
3.1. Un orientamento tra le azioni “del” testo
Nelle due puntate precedenti, la seconda e la terza di questa
serie, si era parlato, ragionando sopra un grande componimento pascoliano, «Nebbia», di una interazione verbale tra un
locutore interno al testo (l’Io lirico, l’Io poetico, o come lo si
vuole chiamare) e uno o più interlocutori anch’essi interni al
testo, i quali, se pure rimanevano silenziosi, almeno, nella fictio poetica, ascoltavano. Si era anche detto, più in generale, che
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Our guide to the linguistic analysis and (linguistically based)
interpretation of poetry goes on with the section, in three
successive instalments (starting from this one), about "actionality
in the text". The section is entirely devoted to the so-called
illocutionary structure of poetic texts and particularly to the
exploitation of this very structure for rhetorical, stylistic, expressive
effects. A sketchy typology of the various actions in the text
(speech act, macro-acts, text-constitutive acts, textual movements)
will be followed by a development on the impressive variety of
linguistic implementations of these actions and by a detailed
analysis and discussion of two relevant cases of illocutionary
games: a scene from a Da Ponte's-libretto for a Mozart's opera,
and a poem by Eugenio Montale).
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brevi puntate) sulle possibilità espressive che sono offerte al
poeta dalla loro scelta, natura e, soprattutto, combinatoria.
Esemplificheremo in chiusa la nostra démarche sopra una
compatta lirica del più alto Novecento.
3.2. Atti (linguistici) e macro-atti
Di azioni linguistiche relative ad un testo o in certo modo
interne al testo ne esistono molte, diverse per genere, livello, scopo, modalità e per altri parametri ancora. In quanto
azioni esse condividono tutte la stessa struttura concettuale
binaria (doppia): introducono qualcosa di nuovo nella realtà testuale, producendo una nuova unità o modificando quella
o quelle esistenti; lo fanno secondo un insieme gerarchicamente organizzato di intenzioni, di obiettivi da conseguire –
e in ciò sono rette da numerose condizioni, e danno luogo, se
giungono ad effetto, a conseguenze altrettanto numerose.
In primo luogo, come si era detto, eseguono azioni – cioè asseriscono, ordinano, chiedono, interrogano… – i successivi
enunciati che compaiono nello sviluppo lineare del testo: cioè,
tipicamente, le frasi (le principali1), ma anche a volte le unità
sintattiche inferiori. Queste azioni, in presa diretta sul livello
sintattico, e tutte di natura interattiva (esse si rivolgono, per
condurlo a fare qualcosa, all’interlocutore), sono elementari, e
in quanto unità minime costituiscono, secondo un’immagine
pre-tecnologica, i mattoni o le pietre della cosiddetta “architettura illocutiva”. Si parlerà specificamente per esse di atti linguistici. Così, nel piccolo gioiello “in erre”, «Su un’eco (stravolta) della Traviata», di Giorgio Caproni2, mini-testo composto
di otto brevi e brevissimi enunciati a struttura sintattica di
frase, si susseguono nell’ordine, affidate forse a due voci
diverse (ma chi dirà «Tremo»?), gli atti linguistici di richiesta
(tre volte), di asserzione (una volta), richiesta negativa (una
volta), e in fine, due volte, di asserzione – o, chi sa, di promessa. Una prima persona, un Io, si rivolge ad una seconda persona, un Tu, per chiedergli, per pregarlo di accompagnarlo, anzi
d’essergli guida, malgrado il timore-tremore (suo o dell’altro),
onde varcare assieme la prossima soglia del nulla. Testo effettivamente dialogico, se «Tremo» fosse davvero la replica iniziale del Tu, ma ad ogni modo totalmente interattivo:
Dammi la mano. Vieni.
Guida la tua guida. Tremo.
Non tremare. Insieme,
presto Ritorneremo
nel nostro nulla – nel nulla
(insieme) Rimoriremo.
Vi sono tuttavia accanto alle precedenti anche delle azioni
che, pur sempre interne al testo, sempre eseguite da uno dei
suoi personaggi, sono linguisticamente più elaborate, oltrepassando i confini e il supporto sintattico della frase. Azioni
cioè che vengono realizzate da interi blocchi di testo, vale a
dire congiuntamente dai loro elementi costitutivi, finalizzati, chi più chi meno direttamente, ad un unico obiettivo
superordinato – a volte, anzi, sarà il testo stesso, nella sua
interezza, ad eseguire un’unica azione composita. Daremo il
Giorgio Caproni in una fotografia degli anni Cinquanta, da
La valigia delle Indie e altre prose, a cura di Adele Dei, Via
del Vento edizioni, Pistoia 1998, p. 2.
nome di macro-atti a tali azioni di ordine superiore, fondate
su atti elementari organizzati in maniera gerarchica. L’idea,
in sé molto semplice, è la stessa che regge le comuni strategie interattive per cui, ad esempio, richieste e domande (Mi
dia una mano; oppure: Che ore sono?), anche se già di per sé
“ingentilite” (Può darmi una mano? – Mi può dire che ore
sono?), vengono di regola precedute e seguite, onde attenuarne l’impatto o favorirne la ricezione o accettazione, da
enunciati a funzione preparatoria (in particolare di contatto:
Senta..., Scusi..) o giustificativa (Non mi parte più la
macchina…). Insomma, un macro-atto è una successione di
enunciati ei ognuno dei quali effettua un particolare atto ai,
ma che globalmente sono rivolti ad effettuare un sola azione
a. Questa illocuzione a è in genere, ma non necessariamente,
la stessa di uno degli enunciati della successione, che assume così il ruolo di nucleo del macro-atto, di suo enunciato
principale, (pre)dominante. S’era già visto del resto come
1. Non, si badi, le subordinate – anche se a rigore occorrerebbe distinguere tra
subordinate non integrate (ad esempio “di quadro”) e subordinate integrate alla proposizione, che, come tali, ricadono sotto l’illocuzione assegnata alla proposizione e
ne possono, in certi casi, rappresentare il fuoco informativo.
2. Ne Il muro della terra (v. L’opera in versi. Edizione critica a cura di L. Zuliani,
Mondadori («I Meridiani»), Milano 1998, p. 335). “In erre”, perché dedicato in epigrafe ad una R.: la moglie Rina, e giocato sulle molte erre ed in particolare sulle eco
in ri (a volte con R maiuscola) dall’aria celebre della Traviata, «Parigi, o cara». La richiesta iniziale, «Dammi la mano», è naturalmente carica, al di là della Traviata, di molteplici risonanze letterarie e musicali: dal Don Giovanni di Da Ponte-Mozart (in due
scene cruciali) a momenti memorabili della poesia romantica europea: «Gib mir die
Hand» “dammi la mano” come allora in maggio, chiede all’amata scomparsa il Poeta
di Allerseelen (H. von Gilm zu Rosenegg) – un celebre Lied messo in musica tra gli
altri da Richard Strauss.
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3.3. Azioni di composizione testuale
certe strofe di «Nebbia» aggiungessero puntualmente forza
alla ripetuta preghiera giustificandone il contenuto; così
all’inizio di III:
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
dove all’imperativa era giustapposta coi due punti una
esclamativa: alla richiesta a1 la ragione a2 della richiesta – i
due atti costituendo dunque un macro-atto con la stesso tipo
d’illocuzione di a1. Sempre in Pascoli, l’incipit dell’Assiuolo –
una domanda con coda di causali coordinate introdotte da
ché – va inteso, surrogato l’implicito “me lo chiedo (perché)”, come un piccolo macro-atto di domanda, nel quale un
atto dominante, di domanda, certo, ma non troppo scontato
quanto alle sue ragioni, riceve il rinforzo di una giustificazione doppia:
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Ancora, il baudelairiano Invito al viaggio di Manlio
Sgalambro3 cerca di interpretare e riprodurre a suo modo,
in parte attenuandolo, il carattere di macro-atto d’invito
proprio all’originale Invitation au voyage 4 , la quale
possedeva oltretutto la singolarità di esplicitare solo nel
titolo l’illocuzione complessiva. La peculiarità illocutiva (a
prescindere da ogni giudizio di valore) di questa moderna
riscrittura è di stare in bilico, dopo la recisa dichiarazione
d’intenti (“questo è un invito!”) tra una descrizione funzionale della meta del viaggio, intesa a convincere, a rafforzare l’invito, e una sua descrizione autonoma secondo
il punto di vista dell’Io: tra un macro-atto d’invito
dunque, esteso sino al passato imperfettivo (j’écoutais)
della opinabile coda francese, e due macro-atti distinti, il
primo sempre d’invito, il secondo, magari, proprio “di
descrizione”:
Ti invito al viaggio
in quel paese che ti somiglia tanto.
I soli languidi dei suoi cieli annebbiati
hanno per il mio spirito l’incanto
dei tuoi occhi quando brillano offuscati.
Laggiù tutto è ordine e bellezza,
calma e voluttà.
Il mondo s’addormenta in una calda luce
di giacinto e d’oro.
Dormono pigramente i vascelli vagabondi
arrivati da ogni confine
per soddisfare i tuoi desideri.
Le matin j’écoutais
les sons du jardin
la langage des parfums
des fleurs.
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Oltre a queste due classi di azioni testuali interattive, gli atti
e i macro-atti, orientate verso gli interlocutori interni, vi è poi
la grande, per numero e importanza, classe delle azioni di
composizione testuale, il cui scopo essenziale è di costruire e
mettere in forma, o di modificare (riorganizzare, correggere
e via dicendo) il loro oggetto rispettivamente “effetto” o
“affetto”: la compagine del testo in fieri o già esistente. Esse
sono dunque azioni orientate in prima istanza verso il testo
stesso, e solo (molto) indirettamente verso gli interlocutori –
che sono ad ogni modo interlocutori esterni, lettori5. Chi stavolta agisce in prima persona, costruendo e trasformando, è
l’autore del macro-enunciato testuale della poesia: il poeta
insomma in quanto artigianalmente faber, a monte della sua
incarnazione nell’Io lirico. Così il poeta potrà decidere di
ripetere, ad un certo punto del testo, a modo di ritornello,
una precedente strofa; o di far seguire, secondo un movimento concettuale di particolarizzazione, ad un blocco di
carattere generale un altro blocco di carattere più concreto,
che contenga uno o più “casi” del precedente.
Un esempio paradigmatico, e relativamente noto nella variantistica novecentesca, di simili azioni di composizione testuale
è l’aggiunta di una seconda strofa tra parentesi al sesto mottetto (del ’37) delle Occasioni: «La speranza di pure rivederti»,
un’appendice a proposito della quale Montale ci ha lasciato in
una prosa d’auto-commento6 un’istruttiva testimonianza
genetica su cui vale la pena di riflettere un momento. Evocata
l’immagine di un vecchio in divisa gallonata che «trascina con
una catenella» sotto i portici di Modena «due riluttanti cuccioli color sciampagna» (come il pelame degli sciacalli), e constatato generalizzando che «fatti consimili si ripeterono spesso;
non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte
à surprise della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo,
menestrelli...»), ecco il racconto dell’improvvisa nascita del
testo, e di come in esso entri a far parte quasi immediatamente l’immagine, trasfigurata, dei cuccioli-sciacalli:
Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una
matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: «La speranza di
pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che
mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni
della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio».
S’arresto, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due
punti perché sentiva che occorreva un esempio che
fosse anche una conclusione. E terminò così: «(a
3. Composto per l’album Fleurs di F. Battiato.
4. «Mon enfant, ma sœur, | Songe à la douceur | D’aller là-bas vivre ensemble ! |
Aimer à loisir, | Aimer et mourir | Au pays qui te ressemble ! | Les soleils mouillés |
De ces ciels brouillés | Pour mon esprit ont les charmes | Si mystérieux | De tes traîtres yeux, | Brillant à travers leurs larmes. || Là, tout n’est qu’ordre et beauté, | Luxe,
calme et volupté», con quel che segue.
5. Non parliamo qui dei casi, non rari, in cui il lettore – ma allora un lettore astratto,
un lettore modello – viene introdotto nel testo come interlocutore.
6. Comparsa nel «Corriere della Sera» del 16 febbraio ’50 col titolo «Due sciacalli al
guinzaglio», e raccolta poi in Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, pp. 84-87.
continua a p. 63
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Modena, tra i portici, – un servo gallonato trascinava – due
sciacalli al guinzaglio)». Dove la parentesi voleva isolare
l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano.
Viene in questo modo per consapevole decisione-azione dell’autore, per un suo geniale atto compositivo, «allegato in
chiusa» (come ha detto un commentatore) il «referente, o
situazione» di un discorso poetico che sino a quel punto era
stato mantenuto su un piano molto più astratto.
3.4. Movimenti testuali
Entro le azioni di composizione testuale si potranno poi isolare quelle, certo di grande rilievo per il testo poetico7, che si collocano per così dire ai due estremi del processo compositivo,
intervenendo da una parte sulla genesi del testo, nello spazio
progettuale detto a volte avantesto8: ad esempio il pianificare,
lo schizzare, il provare (magari in prosa!) lo sviluppo di un
tema, ecc.; e dall’altra sul prodotto semi-lavorato, per ridistribuirne, sostituirne, sopprimerne le parti, per riformulare, per
correggere, ecc. Ma vogliamo qui piuttosto attirare
l’attenzione sopra le azioni di composizione in senso stretto,
quelle che mettono realmente “in opera” il testo, costruendolo e nel contempo organizzandolo, azioni che sussumiamo
sotto l’etichetta di movimenti (testuali) o semplicemente movimenti. Un tipico movimento testuale, nel mottetto esaminato
appena sopra, è il “passaggio al caso particolare” (o “esempio” che sia), che pone in essere ad un tempo un blocco strofico – il caso particolare stesso – e la relazione di particolarizzazione col blocco strofico precedente, e lo fa per una precisa
motivazione, per perseguire quegli obiettivi che si sono visti
(«… sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una
conclusione»). Un altro caratteristico movimento testuale,
spesso intrecciato col precedente, è quello della riformulazione,
del riprendere e ripetere variandolo un precedente enunciato
o blocco. Così in uno dei «Madrigali dell’Estate» di Alcyone9,
con procedimento non molto dissimile da quanto avevamo
riscontrato in «Nebbia», D’Annunzio nella seconda strofa
riformula e varia in positivo, una volta, due volte, tre volte!,
la preghiera in negativo che apriva la prima (e che già dal
canto suo era riformulata a contatto, e parte subjecti, nei vv. 23 della stessa prima strofa) – prima di concludere con la ulteriore trionfante e quasi identica (rispetto a quella che la precede immediatamente) riformulazione della terza strofa:
IMPLORAZIONE
Estate, Estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.
Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi10.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore.
Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin settembre, che non sia sì lesto.
Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.
segue da p. 58
I movimenti testuali sono dunque quelle particolari azioni
compositive11 che consistono nel (voler) realizzare un’unità
testuale grafico-semantica (semplice o composta) che sta con
una o più altre unità in un rapporto funzionale unitario – ad
esempio di riformulazione, di esemplificazione, di caso particolare, di giustificazione, di riserva, di opposizione, ecc.
L’etichetta metaforica di “movimenti” ha in sé il vantaggio
di concettualizzare lo spazio testuale come spazio dinamico
di operazioni mentali e concrete (il produrre versi e strofe,
frasi e periodi), di presentarlo come “spazio d’azioni” in cui
il poeta è libero d’agire a sua guisa, di muoversi in diverse
direzioni. Ogni nuovo passo fa concretamente avanzare la
costruzione del testo, annoda rispetto a quanto precede una
nuova maglia nella rete di relazioni logiche tra enunciati e
blocchi di enunciati, e soprattutto apre nuove possibilità, e
ne esclude altre, per i passi che seguiranno.
Pur fondandosi su (ad esempio) asserzioni di proposizioni,
un movimento compositivo è per sua natura funzionale al
testo e anzi specificamente relazionale; e dinamicamente
provvisto – quasi un “vettore” testuale – d’un proprio
orientamento entro il testo. Se ne riparlerà diffusamente
più avanti, nella sezione dedicata alla struttura relazionale
del testo poetico, a quella rete appunto di relazioni logiche
che i movimenti compositivi contribuiscono a creare.
3.5. Sulla “forma” linguistica
delle azioni elementari
La forma degli atti linguistici e dei macro-atti, la loro particolare modalità di realizzazione è in poesia, dove la forma è
significato, assolutamente capitale. Donde l’importanza di
riflettere, come ora faremo (limitandoci però ai semplici
atti), sul loro fondamento grammaticale, sintattico e lessicale, e sugli effetti semantici ed espressivi che ne conseguono.
Partiremo dall’osservazione elementare che ogni entità formale, vale a dire fonologica e morfo-sintattica, del tipo
7. Lo si era del resto espressamente sottolineato nella prima puntata di questa serie.
8. v. la voce relativa in M. Corti, Per una enciclopedia della comunicazione letteraria,
Bompiani, Milano 1997, pp. 3-13 e il § 5.3. di A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, il Mulino, Bologna 1994.
9. v. G. D’Annunzio, Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, con interpretazione e commento di E. Palmieri. Libro terzo: Alcyone, Zanichelli, Bologna 1955, pp.
309-10.
10. Gli oppi «ai quali la vite è sospesa. Oppio è “arbore assai grande il quale ha il legno
bello e bianco, quasi simigliante all’acero” (CRESC. V, 46, 1)» – così il cit. commento
di E. Palmieri. Il quale più oltre, a proposito del verso conclusivo, annota che il fabro
«è ancora Settembre così personificato, essendo il mese quando s’intessono i cesti
per la vendemmia e si preparano i tini per la pigiatura»: un Settembre ancora, come
certo paggio, giovane e snello (= fin) e di celere passo ( = lesto) nel subentrare
all’Estate.
11. E metonimicamente, con l’usuale estensione di significato, i loro risultati.
NUOVA SECONDARIA - N. 8 2010 - ANNO XXVII
63
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è oggetto di domanda offre un primo criterio per classificare le
interrogative. In un frammento poetico come il seguente17:
“frase”, quando sia usata come frase indipendente veicola
assieme ad un significato linguistico e contestuale anche un
significato pragmatico, un significato “d’azione”: ogni frase
(non subordinata) fornisce cioè delle indicazioni, più o
meno generiche, sull’azione che con essa si intende realizzare. Una buona parte di queste indicazioni, affidate ai cosiddetti indicatori di valore illocutivo12 (l’intonazione, il modo e il
tempo del verbo, la posizione dei clitici, la presenza di parole come chi, come, magari; ma anche di interiezioni quali ehi,
su, dai, ecc.), ricade nella categoria grammaticale che ha il
nome vulgato di tipo di frase.
Tipi di frase, dunque. Si usa distinguere, nelle correnti grammatiche scolastiche e descrittive, tra i tipi della: (i) frase
dichiarativa (o sinonimicamente enunciativa, assertiva, espositiva); (ii) frase interrogativa; (iii) frase imperativa (o iussiva, volitiva); (iv) frase esclamativa; e (v) frase ottativa (o desiderativa).
I tipi centrali, generalmente riconosciuti, sono i primi quattro. Al marginale tipo ottativo (quello ad esempio del montaliano «E tu seguissi le fragili architetture [...]» nelle
«Notizie dall’Amiata» delle Occasioni, v. 19), alcuni manuali
calcati sulla grammatica latina affiancavano i tipi, ancor più
marginali, della frase concessiva – «Sia pure in buona fede…»
– e suppositiva: «È in buona fede, poniamo».
Così frasi (poetiche) come le quattro qui sotto, che preleviamo dal Canzoniere di Saba13:
– Come hai potuto?
– Sai un’ora del giorno che più bella / sia della sera?
– Non provi un’accorata tenerezza?
– Perché arrossire?
frasi tutte in vario modo interrogative in forza dell’intonazione, della morfologia, della sintassi, del lessico14, sono evidentemente preordinate, programmate dal sistema grammaticale
ad effettuare una determinata azione, quella della Domanda.
Se ignoriamo per un momento il fatto ben noto che una frase
interrogativa può servire a far altra cosa che una Domanda
(ad esempio a lamentare come nel caso del topos dell’UBI
SUNT15 una scomparsa, cioè un dato di fatto – e del resto
l’ultimo esempio, Perché arrossire, conta nel suo contesto, cioè:
Perché arrossire? Io credo
pure alle tue bugie.
Hanno più religione delle mie
verità
come un “invito a non arrossire delle proprie bugie”), alla
categoria formale della interrogatività sul versante grammaticale corrisponde in prima approssimazione sul versante
interattivo la categoria d’azione della Domanda.
Comune a questa categoria di atti linguistici è una lacuna informativa di chi formula la domanda: che non sa qualcosa, che
vorrebbe sapere e ritiene l’interlocutore in grado di dare una
risposta adeguata16. La diversa estensione e natura di quel che
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Elio, è al tuo cor presente
quella bionda signora?
e nel sonno, o con gli occhi della mente,
la rivedi tu ancora?
viene interrogato dai due atti di domanda il sussistere di uno
stato di cose, che sarà nel primo caso il ricordo, marcato
d’affetto o d’amore (v. «al tuo cor»), della «bionda signora»,
e nel secondo, dato per scontato il sussistere del ricordo, il
manifestarsi onirico o mentale della donna. Simili domande,
dette totali o globali, lasciano all’interlocutore solo
l’alternativa, binaria, tra il sì e il no18. Il secondo tipo di
domande è detto parziale, o di costituente, in quanto a venire
interrogato non è più uno stato di cose nella sua globalità, la
cui esistenza è pacifica, ma l’identità o la particolare manifestazione di un suo elemento, introdotto attraverso specifiche
“parole interrogative” (pronomi, aggettivi, congiunzioni,
avverbi interrogativi). È il caso, rimanendo a Saba19, di
Chi t’ha insegnata la brutta parola?
o anche dello scambio dialogico:
Perché così m’affliggi?
Perché t’amo.
Nel primo caso ad essere interrogata è l’identità (chi) di un
“cattivo maestro”; nel secondo, si evoca piuttosto un insieme di stati di cose (comportamenti, stati d’animo, ecc.),
entro il quale andrà ricercata l’origine (perché) dell’afflizione.
Abbiamo indicato in una lacuna informativa ciò che nell’atto
di domanda spinge il locutore ad agire. È però evidente che
chi formula una domanda si può trovare in situazioni cognitive diverse rispetto alla o alle possibili risposte: ad esempio
a volte sarà del tutto incapace di anticiparle, a volte invece
avrà già in mente una sua idea precisa, a volte ancora vorrà
fare, anche magari in modo esplicito, delle ipotesi. Il meccanismo in gioco appare con evidenza nel frammento che
12. O di “forza” illocutiva, come anche si dice.
13. Rispettivamente da Trieste e una donna, «Nuovi versi alla Lina», 7, v. 4
(un’identica domanda è nella «Tessitrice» pascoliana dei Canti di Castelvecchio); «L’ora
nostra», v. 1-2; «La gatta», v. 4; «La bugiarda», v. 1.
14. Noteremo almeno, senza entrare in ulteriori dettagli, che l’intonazione di «Come
hai potuto?» e di «Perché arrossire?», introdotte dagli avverbi come e perché, differisce dalle intonazioni (a loro volta tra loro distinte) delle altre due frasi.
15. «Dove sono i bei momenti | di dolcezza e di piacer, | dove andaro i giuramenti | di
quel labbro menzogner?», canta la Contessa nelle Nozze mozartiane – e non di rado il
punto interrogativo viene sostituito nei libretti a stampa da un punto esclamativo.
16. In tal senso si noti come ciascun atto di domanda, e mutatis mutandis qualsiasi
altra illocuzione, offra una serie di informazioni sulla visione che il locutore ha del
mondo, di se stesso e del suo interlocutore.
17. Da Poesie dell’adolescenza e giovanili di U. Saba, «Lettera ad un amico pianista
studente al conservatorio di…», vv. 29-32.
18. Qui il controllo che l’interlocutore (= Elio) ha sull’esistenza o meno degli stati di cose
interrogati rende poco plausibili risposte del tipo di «Non so» o «Non ricordo», che
andrebbero ad intaccare una condizione dell’atto di domanda: la presupposizione che
l’interlocutore sia a conoscenza di quanto viene interrogato. In altri casi questa “terza via”
è perfettamente percorribile, e conduce al fallimento dell’atto di domanda.
19. Rispettivamente da «Nuovi versi alla Lina», 10, v. 5 e da Preludio e fughe,
«Seconda fuga (a 2 voci)», vv. 9-10.
DISCIPLINE
Copertina della prima
edizione einaudiana
(Roma 1945, in ottavo)
del Canzoniere.
che tutti dicevano : «È pazza».
È come te ragazza.
segue20; in esso, anzi, la domanda principale – “perché è successo questo?” – viene sostituita da una confessione di ignoranza, a cui seguono domande specifiche che esplorano, che
suggeriscono possibile risposte:
T’amavo io sì come nessuno al mondo,
e per te solo mi facevo bella;
ma tu stesso hai murata la tua cella,
ti sei spinto tu stesso nel profondo.
Perché non so. Fu orgoglio? gelosia
forse?
La previsione, l’attesa di una risposta può manifestarsi in
modo più o meno esplicito e in diverso grado nella formulazione stessa della domanda. Sono universalmente note le
cosiddette interrogative retoriche, una sorta di caso limite delle
domande, visto che il loro scopo principale non è l’ottenere
un’informazione, ma il richiedere, con enfasi, l’assenso dell’interlocutore ad una risposta già implicita nell’interrogativa21. Il carattere retorico può essere veicolato da espressioni o
elementi lessicali (ad esempio forse che22), ma può semplicemente risultare dal contenuto stesso della domanda, come in:
«E chi si stanca di felicità?»23.
Più sfumate, più connesse al loro sfondo di informazioni
implicite o contestuali, sono le interrogative orientate, ossia
quelle domande che contengono, con varia modalità, indicazioni destinate ad orientare l’interlocutore verso una risposta segnalata dal locutore come più plausibile o desiderata o
temuta. Ripresa da sopra l’interrogativa «Non provi
un’accorata tenerezza?», la si collochi ora nel suo contesto:
La tua gattina è diventata magra.
Altro male non è il suo che d’amore:
male che alle tue cure la consacra.
Non provi un’accorata tenerezza?
Non la senti vibrare come un cuore
sotto alla tua carezza?
Ai miei occhi è perfetta
come te questa tua selvaggia gatta,
ma come te ragazza
e innamorata, che sempre cercavi,
che senza pace qua e là t’aggiravi,
La presenza della negazione («Non provi…»), il contenuto
della domanda e più in generale il parallelismo insistito, anche
se temporalmente divaricato, tra la gatta e il tu femminile,
unito all’affetto che le lega24 concorrono ad un orientamento
decisamente positivo, verso il sì, della risposta25. Un’eventuale
indifferenza del tu selezionata da una risposta negativa («No,
non provo un’accorata tenerezza») verrebbe percepita dal
locutore non solo come ingiusta ma anche come strana, sorprendente. In modo analogo va letta anche la seconda interrogativa, con crescendo del grado di orientamento positivo
(prossimo ad un valore retorico alla domanda), visto che si
interroga la comune e scontata percezione delle fusa («Non la
senti vibrare come un cuore | sotto la tua carezza?»).
Analogamente a quanto visto per le interrogative, alla categoria sintattica della frase imperativa, come negli ulteriori
due esempi di Saba26:
– Or tu dunque rallegrati
– Lascia i saluti, anche sinceri, i troppi
pianti, i messaggi della tua fantesca,
corrisponderà la categoria d’azione della richiesta, che
andrebbe poi ulteriormente modulata in ulteriori sottotipi. E
così via per i rimanenti tipi di frase e tipi di azione linguistica
– con l’avvertenza che la frase dichiarativa, appunto perché
semplicemente espositiva, è in grado di veicolare al secondo
o terzo grado, al di là della semplice esposizione di uno stato
di cose, tutto un repertorio di azioni linguistiche. Ad esempio,
«La cena è pronta» può contare da richiesta, da invito, da rimprovero, ecc.; e le frasi dichiarative modalizzate di:
Non lacrime mi devi
di rimorso; ma andar diritta e forte,
ma il silenzio di te, ma la mia morte
nel tuo cuore27
verranno ovviamente intese grazie alla presenza del modale come richieste di comportamenti, da prima vitandi e poi,
dopo l’avversativa ma, positivi.
20. U. Saba, da «Nuovi versi alla Lina», 8, vv. 10-15.
21. In alcuni casi più che una risposta viene evocata l’impossibilità o inutilità di qualsivoglia risposta: v. ad esempio «La vita è così amara; | il vino così dolce. | Perché dunque
non bere?» (U. Saba, da Preludio e canzonette, «Canzonetta 3. Il vino», vv. 1-3).
22. Come in un passo gozzaniano dove sono affiancate conoscenza generale e particolare: «Forse che dallo speziale | non c’è benda e medicina? | Forse che nel casolare
| non c’è Ghina la vicina?» (da La via del rifugio, «L’ultima rinunzia», III, vv. 53-56).
23. U. Saba, da «Nuovi versi alla Lina», 14, v. 4.
24. Un riflesso di tale legame è forse da vedere nella corrispondenza fonica (e in
parte etimologica) della sequenza (tue) cure, accorata, cuore, (tua) carezza.
25. L’orientamento risulta in genere da una combinatoria di più elementi, e richiede
dunque una contestualizzazione più o meno ampia e complessa dell’atto di domanda.
26. Da Trieste e una donna; nell’ordine, da «La bugiarda», v. 21 e «Nuovi versi alla
Lina», 5, vv. 1-2.
27. Esempio ancora da «Nuovi versi alla Lina», 5, vv. 9-12.
NUOVA SECONDARIA - N. 8 2010 - ANNO XXVII
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DISCIPLINE
Il sistema grammaticale insomma codifica se pure in modo
alquanto rudimentale gli usi della lingua. Ora, proprio
questa “azionalità” associata all’impiego di frasi, o meglio
di singoli enunciati costruiti sintatticamente su frasi, consente di introdurre una definizione precisa della nozione di
atto linguistico, finora utilizzata in modo poco più che
intuitivo. Gli atti linguistici, una etichetta ormai vulgata,
che ricalca l’inglese speech acts, o, come si usa anche dire,
gli atti illocutivi (in senso stretto)28, sono quelle azioni linguistiche elementari che vengono effettuate mediante un
singolo enunciato, tipicamente costruito sopra una struttura di frase indipendente (eventualmente una frase ridotta,
ellittica di alcuni componenti), o su una struttura sintattica
ancora più ridotta (un sintagma, ad esempio avverbiale o
nominale)29. Vi saranno dunque azioni linguistiche (ad
esempio l’esemplificare) che non sono atti illocutivi –
appunto perché esse non sono realizzabili mediante una
struttura frasale (l’asserire «Vedremo ora alcuni esempi»
non effettua un atto illocutivo di esemplificazione, e la
serie di esempi che potrà seguire conterà globalmente
come “azione di esemplificazione”, ma non30 come atto
d’esemplificazione). Non sono atti illocutivi le azioni linguistiche complesse che abbiamo chiamato macro-atti,
anche se a volte il loro valore globale equivarrà a quello di
un singolo atto illocutivo (donde appunto il termine di
“macro-atti”): un invito può essere linguisticamente effettuato mediante una azione complessa (comprendente un
saluto, un momento esplorativo, ecc. ecc.) o semplicemente proferendo «Vi invito».
La categoria di tipo di frase media dunque tra il piano della lingua e il piano dell’agire. Un ulteriore legame tra i due piani è
stabilito nel lessico dall’esistenza di particolari verbi, come chiedere, salutare, invitare, che designano proprio la funzione illocutiva dell’atto, cosa che altri verbi non fanno, e non sono in
grado di fare. Nello scambio di battute qui sotto la risposta «Lo
sta invitando» individua il valore che le parole di qualcuno
hanno assunto (a prescindere dalle parole effettivamente
usate), cioè in sostanza il tipo di atto che si è eseguito; la risposta «Sta leggendo», invece, si limita a descrivere uno stato di
cose, non l’atto che con l’enunciato si è eseguito:
– Cosa fa?
– Lo sta invitando a cena | – Sta leggendo.
Per questa ragione verbi del tipo di invitare sono detti illocutivi; e verbi del tipo di leggere non illocutivi, o semplicemente descrittivi.
Caratteristica fondamentale dei verbi illocutivi è che essi, in
particolari impieghi (cioè tipicamente quando essi sono
usati alla prima persona (singolare) del presente indicativo
attivo non negativo, come in Vi invito a cena) diventano ipso
facto “esecutivi” dell’azione linguistica, o come anche si
dice, ricalcando pari pari il termine austiniano31, performati66 NUOVA SECONDARIA - N. 8 2010 - ANNO XXVII
vi. La differenza tra verbi illocutivi e non illocutivi appare
così con grande evidenza. In i) qui sotto il locutore esegue,
per il solo fatto di pronunciarla, l’azione espressa dalla proposizione veicolata dall’enunciato (in altri termini, l’azione
del locutore si risolve nella lingua). In ii), per contro, il locutore descrive l’azione extralinguistica che (se dice il vero) sta
facendo: ma non è il fatto di pronunciare ii) che lo fa leggere. In iii), infine, il verbo illocutivo alla terza persona del passato prossimo viene usato non per eseguire l’atto, ma per
descriverne il compimento nel passato.
i) Vi invito a cena
ii) Sto leggendo
iii) Lo ha invitato a cena.
Si noterà ancora che una parte dei verbi illocutivi esprime,
come promettere, “quel che fa” nei confronti di uno stato di cose
che compare come complemento proposizionale del verbo: «Ti
prometto di scriverle» (eventualmente pronominalizzato: «Te
lo prometto»). Altri invece, come salutare («Ti saluto»), offrire
(«Ti offro questo volume») e invitare, racchiudono già, o possono racchiudere (si pensi a «offrire» nelle costruzioni “offrire +
SN” e “offrire di + Frase”) nel loro significato la transazione in
questione, limitandosi ad esplicitare il contraente.
Questa era dunque una compatta esposizione delle “forme”
linguistiche e dei corrispondenti semantici dell’agire illocutivo, che si è qui voluta restringere per l’essenziale alle azioni
di domanda, ma che può ovviamente estendersi ad ogni altro
tipo d’atto. Se si è così fortemente insistito sul fondamento
linguistico degli atti è perché in poesia, come si era ricordato
a inizio di paragrafo, è la forma, sempre la forma, ad essere
decisiva. Il fatto che un particolare atto possa venir realizzato
linguisticamente in molti modi (la cui disponibilità dipende
naturalmente dal tipo di atto in questione, così come dalle
conseguenze che una data scelta comporta) fornisce così al
poeta, in aggiunta alle molte altre gamme di cui dispone,
un’ulteriore ricca tavolozza di alternative, di variazioni, di
“giochi” possibili e di corrispondenti effetti espressivi. A
come in un caso specifico – quello degli atti e macro-atti
d’invito – una simile benvenuta copia di mezzi formali possa
essere exploitée a fini artistici, nella fattispecie poetici, teatrali
e musicali, sarà dedicata tutta la prossima puntata.
Emilio Manzotti – Luciano Zampese
Università di Ginevra
28. Perché si restringe ad una accezione particolare il significato di “illocutivo”.
Questo termine, formato dal prefisso verbale illativo IN- + -locutivo) è stato introdotto (da J.L. Austin: è l’inglese illocutionary; in it. anche illocutorio) per designare quel
che si fa “in” loquendo, cioè “nel” dire qualcosa, e che in un certo senso, a norma
del valore illativo del prefisso, va “al di là” del dire. In generale “illocutivo” si applica,
secondo i dizionari contemporanei, agli aspetti pragmatici e interattivi, e non strettamente sintattico-semantici, di una espressione.
29. In altri termini, l’illocutività è una proprietà relativa in primo luogo all’impiego di frasi;
e quindi di unità sintattiche di dimensioni sotto-frasali, che spesso (ma non sempre:
caratteristico è il caso del vocativo) permettono la ricostruzione contestuale di una frase.
30. Anche se qualcuno (J.L. Austin ad esempio) ha potuto sostenere il contrario.
31. La scelta di performative in Austin si basava sul fatto che in inglese si dice, per
“eseguire una azione”, to perform an action (How to do things with words, Oxford
University Press, Oxford ecc. 1975 [1962], p. 6). L’impiego “performativo” di un
verbo illocutivo è insomma in chiaro e buon italiano un impiego “esecutivo”.
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Come leggere la poesia IV