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Elisabetta Modena
Il 74° libro
Trilog ia
“E quando questa lettera sarà stata letta da voi,
fate che venga letta
anche nella Chiesa dei Laodicesi,
e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”
( 1 Colossesi 4,16 )
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© 2007 Elisabetta Modena
progetto grafico: Francesco Tessarini
foto cartina Europa antica: Brian Samodra (www.sxc.hu)
Stampato per Lulu Press
dalle Publicaciones Digitales, S.A.
C/ San Florencio, 2
41018 Sevilla
Spain
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LIBRO PRIMO
La punta di diamante
Roma
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“In questo nostro tempo il mondo ha bisogno
più di testimoni che di maestri”
(Paolo VI)
“L’Europa sarà cristiana, o non sarà”
(Giovanni Paolo II)
“L'Europa sembra incamminata su una via
che potrebbe portarla al congedo dalla storia»
(Benedetto XVI)
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Premessa
Questo è un libro di “christian fiction” – come dire – è un
romanzo cristiano. La terminologia è anglosassone perché
negli USA questo genere è molto più diffuso che qui, cito a
titolo di esempio il best-seller cristiano di Michael O’Brien Il
Nemico, tradotto in Italia dalle Edizioni San Paolo, o l’ultimo
di Rino Cammilleri Immortale Odium (per i tipi della Rizzoli);
ma questo genere, si può dire, l’abbiamo inventato noi. Da
Dante, a Manzoni, a Bacchelli, agli scrittori cristiani del
Novecento (anche a livello europeo) gli elementi in gioco
sono sempre due: la creazione letteraria e l’ispirazione
cristiana.
Riproporre il romanzo cristiano è quanto mai attuale. Non
solo per rispetto di un pubblico che ha desiderio di immergersi
in questo tipo di letture, ma anche per rispetto verso le nostre
radici cristiane che affondano in duemila anni di storia.
Caro lettore, anche se non ti professi cristiano, non
spaventarti. Non sentirti escluso. Questo è un libro per te, per
tutti gli uomini, perché il Vangelo è sempre alla portata di
tutti.
Elisabetta Modena
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VENERDI’ 14 Marzo
I
Quel giorno era andato tutto storto ad Edoardo Righetti. A
cominciare dalla mattina.
L’autobus delle sette e trentadue l’aveva lasciato a piedi:
peccato fosse l’unico mezzo che lo portasse in orario a scuola.
Giustificati dall’assenza del loro prof, gli studenti si erano
ritenuti autorizzati a provare in classe i brani del concerto di
fine anno, col risultato di disturbare tutte le altre classi del
corridoio. Alle otto e quarantacinque in punto, il resoconto che
il Preside aveva servito ad un Righetti avvilito era stato così
meticoloso e pungente da non lasciare ombra di dubbio su
quel che ne pensava: un autentico disastro colposo. Il
professor Righetti aveva cominciato a spiegare al Preside che
nell’ora di punta, a Roma, era facilissimo perdere l’unica
coincidenza che lo collegava con la scuola. Ma ahimè, invano.
Non finiva qui. Tornando verso casa, appena sceso
dall’infausto autobus che quella mattina gli aveva procurato
così tante noie (e che all’uscita da scuola contava, invece, ben
12 minuti di ritardo), non trovò più parcheggiata la sua
automobile. Eppure rammentava di averla lasciata nel
parcheggio custodito come tutte le altre mattine, con tanto di
salato biglietto.
Si volse intorno per cercare il custode che, stranamente,
sembrava sparito nel nulla.
S’impose di non perdere la calma. Appoggiò la borsa dei
libri sulla nuda terra e si levò il cappotto, se non altro perché
era più facile pensare con un minor strato di abiti sotto il sole
sonnecchiante della città nell’ora di pranzo. Soprappensiero si
passò le dita tra la barba ben curata, uno dei pochi vezzi
rimastigli a lenire l’amara realtà che l’ora di religione non
dava grandi soddisfazioni personali, e si slacciò i polsini della
camicia per arrotolare le maniche sopra il maglione.
Mentre girava la testa a destra e a sinistra cercò di fare
mente locale: quella mattina era iniziata in modo identico ad
ogni altra. Guidava la macchina fino al parcheggio “Oasi”,
che a dispetto del nome era una colata d’asfalto surriscaldata
dal sole. Da lì prendeva l’autobus fino in centro. Era più
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comodo arrivare al liceo con mezzi pubblici, vista la spinosa
questione del posto macchina: la scuola era in pieno centro
storico, e il parcheggio per gli insegnanti consisteva in una
minuscola porzione di cortile, già dai primi minuti d’ingresso
presa d’assalto dalle biciclette e dai motorini degli studenti. Il
Preside, dopo non pochi tentativi andati regolarmente a vuoto,
aveva rinunciato a far rispettare l’ordine, anche perché il
personale ausiliario nonché il corpo docente che avevano
iniziato a montare la guardia, per difendere il proprio prezioso
posto auto, si erano ritrovati inspiegabilmente graffi sulla
carrozzeria delle automobili, ruote bucate, e simili altri atti di
vandalismo. Così, a malincuore, avevano smesso di fare la
ronda. E il parcheggio era diventato una landa di asfalto
battuta dalle orde degli studenti che vi stanziavano, come
ultimo avamposto in cui assaporare la loro libertà prima di
entrare in classe.
Intanto la macchina non saltava fuori. Il professor Righetti
setacciò il parcheggio in lungo e in largo nella timida speranza
che eventuali balordi, forzata la portiera ed intrufolatisi
dentro, per qualche strano, brutto scherzo gliel’avessero
spostata di qualche metro per poi lasciarla là. Ed il custode?
Beh, proprio in quel momento poteva essersi assentato per
bere un caffè o mangiare un panino: all’una passata era
naturale che anche i custodi mangiassero.
Oppure la sua macchina poteva essere stata rubata…
rubata.
Al solo pensiero che gli fosse capitata una simile disgrazia
iniziò a sudare freddo. Perché mai doveva succedere proprio a
lui? E alla sua auto, una vecchia utilitaria? Capitava sempre ad
altri… certo, lui non si era mai sforzato di pensare cosa
avrebbe provato se fosse toccato a lui.
Si mise a perlustrare attentamente ogni angolo del
parcheggio in cerca di tracce del furto di cui era sempre più
certo ogni minuto che passava. Se solo l’autobus non avesse
avuto quei 12 minuti di ritardo, si disperò tra sé, magari
sarebbe arrivato in tempo per cogliere i malviventi sul fatto e
dare l’allarme. O forse, nemmeno così ce l’avrebbe fatta.
“Devo fare qualcosa” decise.
Si avviò sconsolato verso la cabina del telefono pubblico.
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Camminava a passi lenti, perché meditava su come dirlo a
Laura, e maledicendo che il suo telefono cellulare si fosse
appena scaricato.
Prese in mano la cornetta del telefono e digitò i numeri:
“Pronto?” scandì una voce femminile.
“Sono io, Laura. Oggi tornerò a casa più tardi perché devo
passare in Questura” riferì alla moglie cercando di mantenere
la calma. “Ti chiamo per avvisarti”.
“Che è successo?” lo interrogò allarmata.
“Devo recarmi alla polizia per sporgere una denuncia,
credo ci abbiano rubato l’auto”.
“Oh santo cielo!”
“Tornato al parcheggio, dopo l’ultima ora di lezione, non
c’era più la macchina. Sparita, capisci?” seguitò Edoardo.
La reazione della moglie non si fece attendere.
“E il custode? Lui è il primo che bisognerebbe denunciare!
Uno paga 150 euro di parcheggio al mese fidandosi che non
succeda niente alla propria auto, e poi si ritrova lo stesso con il
ben servito. Ma che trattamento è?! Adesso scrivo subito una
lettera di protesta a Roma capitale perché i servizi privati di
questa città sono inefficienti. Voglio far diventare rosso dalla
vergogna quel dannato custode. Da domani più nessuno gli
affiderà le proprie auto. Ma tu gli hai parlato? Gli hai detto
che ti hanno rubato la macchina?”.
Edoardo avrebbe voluto controbattere che non sempre le
cose vanno storte per colpa altrui. Ma preferì sorvolare.
“Il bello è che non c’è nemmeno lui qui al parcheggio”
rispose.
“Ah, fantastico!” esclamò arrabbiata la moglie “sta sicuro
che quello non lo rivedremo mai più. Il guaio è che
l’assicurazione tenderà a darci il meno possibile per quel
catorcio. Se almeno avessimo dato retta all’agenzia! A Natale,
durante la promozione, ci aveva proposto di cambiare la
nostra vecchia auto con la nuovissima Sidera. Ricordi? Ma noi
avevamo da aggiustare la caldaia, accidenti…! Tutta colpa di
questa dannata recessione che l’Italia non riesce a scrollarsi di
dosso e, come sempre, sono le famiglie a reddito medio-basso
a farne le spese! E che strategie mette a punto lo Stato per noi
cittadini indebitati? Nessuna! E’ una vergogna che anziché
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salire i gradini della classifica dei paesi più ricchi, il nostro
paese li stia scendendo! In più adesso ci si mettono pure le
Stelle Spezzate… andiamo di male in peggio!”.
In quell’istante Edoardo sentì che suonavano alla porta di
casa. La moglie troncò bruscamente il nuovo monologo che
stava già intonando.
“Vado a vedere chi è” la sentì farfugliare.
Edoardo tirò un sospiro di sollievo al pensiero che per
qualche minuto la moglie sarebbe stata impegnata con il
postino, la vicina di casa o giù di lì. L’invettiva della moglie
contro lo stato dell’economia italiana però era del tutto lecita:
in termini musicali si sarebbe detto un de profundis. Edoardo
ricordava che era soltanto un ragazzo quando aveva fatto
scandalo la retrocessione economica dell'Italia dal 6° al 10°
posto della classifica dei paesi più ricchi, e come negli anni
successivi i governi non fossero riusciti a risollevare le sorti
del paese. D’altro canto, paesi che un tempo erano considerati
in via di sviluppo – Argentina, Turchia, Messico ed Egitto –
ora occupavano quei posti lasciati liberi dalla retrocessione
degli stati “poveri” dell’Unione (Italia in primis, ma anche
Portogallo, Grecia, Polonia). I primi erano cresciuti in termini
di P.I.L., possedevano un ottimo trend demografico, un
contenuto grado di disoccupazione, indicatori economici che
filavano a gonfie vele. La vecchia Unione Europea, invece,
era alle prese con l’invecchiamento della popolazione, con le
massicce ondate migratorie (dalla Russia, dal Medio Oriente e
dall’Africa) e i correlati problemi sempre più complicati di
integrazione sociale, con l’avvento del primo partito filomusulmano moderato, con lo smantellamento progressivo
dello stato sociale.
Come non bastasse, erano comparse le Stelle Spezzate, il
gruppo terroristico di punta, presente nel paese senza che
nessuno – magistratura compresa – riuscisse a chiarirsi le idee
su cosa fosse esattamente. Quel che era certo era che questi
nuovi terroristi puntavano a colpire il mercato finanziario.
“Una nuova strategia terroristica” commentavano i giornalisti;
una strategia che, intanto, minava il precario equilibrio del
sistema capitalistico italiano.
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Per non parlare dei tre colossi del mercato che stavano
incassando profitti faraonici una volta entrati nell’Olimpo del
libero mercato nel corso del XXI secolo: Cina, India e Brasile.
Intanto Edoardo percepì in sottofondo, attraverso la
cornetta, il brusio di voci maschili. Cominciò a preoccuparsi.
Laura tornò di lì a poco. La sua voce pareva leggermente
alterata, anche se non manifestava segni di allarmismo:
“Torna subito a casa. Qui ci sono due agenti in borghese
della polizia che vogliono parlare con te”.
Edoardo rimase per un attimo interdetto: che avessero di
già ritrovato la macchina? E in una città come Roma?
“Domanda loro cosa vogliono” rispose, vagamente
confuso, alla moglie. E aggiunse senza troppa convinzione:
“Magari si tratta della macchina. Lascio sempre dentro il
cruscotto una fotocopia del libretto di circolazione. Può essere
accaduto che da quella siano risaliti al mio nome e così mi
abbiano rintracciato a casa…”.
Ma non sembrava troppo sicuro di quello che stava
dicendo. In quel momento tentava solo di spiegarsi cosa ci
potessero fare due poliziotti a casa sua.
“Sì, intanto li faccio accomodare. Tu torna presto”.
“E tu accertati che siano due poliziotti e non due furfanti”.
“Sta tranquillo!”.
“Mah, sarà. Però non riesco a stare tranquillo. Lasciali
aspettare fuori finché non sarò tornato. Senza mandato di
perquisizione non possono entrare”.
“Guarda che so distinguere due delinquenti da due
poliziotti!” commentò infastidita la moglie. “Comunque
d’accordo. Faccio come hai detto. Tu pensa solo a tornare in
fretta”.
“Allora prendo un taxi e sono lì; l’autobus ci
impiegherebbe un’ora. Ci vediamo”.
“A tra poco”.
Edoardo riattaccò. Doveva sbrigarsi: non riusciva più a
tenere a freno l’immaginazione.
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II
“Qui è tutto un caos. Non si può lavorare in questo modo!
Per me è tempo di levare le tende!”.
Benjamin protestava, ma il tono di voce scherzoso tradiva
che non avrebbe mai messo in pratica il proposito. Per il
momento si limitava a dondolarsi sulla sua sedia di cronista
super-pagato nella sede milanese del più importante
quotidiano a diffusione nazionale, nonché di inviato speciale
in quei luoghi dove il contributo della sua penna fosse
risultato assolutamente indispensabile per rimpinguare le
casse del giornale. Ma ogni tanto inveiva contro quello che
definiva: “un sistema arcaico di fare giornalismo”.
“Non c’è un attimo di riposo. Sempre di corsa! Non si può
fare nessun vero scoop perché non c’è nemmeno il tempo di
leggere tutta la montagna di notizie che arrivano dalle agenzie
di stampa! E’ pazzesco! ”.
Benjamin era un trentottenne alto, bruno, con un viso dai
tratti simpatici e, soprattutto, era americano, il che aumentava
a dismisura il suo fascino. A dare retta alle voci femminili
della redazione, aveva già fatto gola ad un numero imprecisato
di giornaliste e non, le quali si erano lasciate felicemente
sedurre come api invischiate in un barattolo di miele.
“Da quando in qua un giornalista serio come te può
permettersi di riposare?”.
Dalla sua scrivania Grazia gli concesse appena un’occhiata
indagatrice, sollevando i suoi occhi color smeraldo che
brillavano su un viso incorniciato da capelli neri come
l’ebano.
“Da quando questo giornalista si chiama Tolosa ed è stato
in lizza per il premio Pulitzer nella categoria dei giornalisti”
bofonchiò un altro accanto alla scrivania di Grazia. “Chissà
quale sarà la sua prossima destinazione: Parigi, Londra,
Bruxelles… non vedi? È già stanco di stare qui!” commentò
acido.
“Se avessi vinto il premio Pulitzer, sicuramente adesso non
sarei qui a fare soltanto quello che mi ordinano di fare”
rispose energicamente Benjamin, che non aveva ancora
digerito (dopo otto anni) di essere entrato nella rosa dei
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finalisti e, mentre tutti lo davano per vincitore, di essersi visto
soffiare l’ambito riconoscimento da un collega, amico fin dai
tempi dell’università.
“La cronaca interna non mi ha mai attirato” aggiunse
Benjamin, solito a rispondere senza mezze misure. Parlava – e
scriveva – in modo chiaro e diretto. “Sono venuto in Europa
per fare del giornalismo serio, non per scrivere pezzi insulsi
solo perché a gente insulsa e mediocre piace leggerli!”.
Smise di parlare in modo che il concetto che aveva appena
espresso entrasse bene in testa al suo collega: il riferimento
era personale. Grazia dalla sua scrivania dischiuse le labbra in
un leggero sorriso che non sfuggì a Benjamin.
“E poi che male c’è ad andare in giro per il mondo?
Quando ne vale la pena, s’intende…”.
“E quand’è che ne vale la pena?” domandò Grazia senza
sollevare la testa dallo schermo del computer.
“Ma per conoscere donne come te” le rispose Benjamin
sfoderando un sorriso degno del miglior latin lover.
Lei scoppiò a ridere, pur continuando a non sollevare la
testa.
“Dicci un’altra cosa, allora, signor don Giovanni: non hai
mai avuto grane con le donne? Che so, qualche figlia segreta
…” ribatté il collega invidioso.
“No, perché io le scelgo con cura”.
Benjamin si portò una mano sulla fronte per tirarsi indietro
i folti capelli scuri che gli ricadevano sugli occhi. I due si
stavano scrutando con aria di sfida.
“Ah, giusto, dimenticavo” fece l’uomo scuotendo la testa
“Il signor Tolosa le vaglia come noi italiani facciamo con le
macchine: che siano solo di grossa cilindrata e con buona
tenuta di strada. Non vogliamo sorprese dai nostri gingilli,
noi”.
“Esagerato!”. Grazia si sentì in dovere di intervenire, era
risaputo da tutta la redazione che Benjamin era sì un
Casanova, ma lo faceva con stile. Non aveva mai mancato di
rispetto a nessuna delle sue conquiste.
Arrossì mentre prendeva le sue difese, si sentiva colta in
flagrante perché un po’ lui le piaceva, (come ad almeno altre
dieci sue colleghe), ma avrebbe fatto carte false pur di non
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farglielo capire, idem le sue dieci colleghe. Esperienza
comune, infatti, era che le storie fra colleghi non durassero più
di due o tre mesi, specialmente se ci si trovava solo a letto.
Però il collega bilioso non la smetteva di punzecchiare
pesantemente Benjamin.
Grazia, stufa di non riuscire più a concentrarsi sul lavoro
come voleva, per zittirlo andò giù pesante: “Guarda che
sappiamo che temi che Benjamin ti possa soffiare il posto di
capo-redattore. Non sarà per caso che se hanno intenzione di
assegnarlo a lui, è perché lo merita di più ?”. “Ecco, troppo
tardi. L’ho detto” pensò. “Adesso certamente me la farà
pagare cara”.
“Non ho bisogno delle tue lodi, Grazia” intervenne
Benjamin serio. “Lascia perdere: ti ringrazio, ma la proposta
non l’ho ancora ricevuta, e anche se la ricevessi, non è detto
che l’accetterei”. E rivolgendosi al collega: “Sono un uomo
che non si ferma mai a lungo nelle redazioni che gira, per
natura mi piace cambiare; preferisco viaggiare, conoscere
posti nuovi, situazioni e persone diverse. Ma senza
approfittarmene”. I suoi occhi chiarissimi brillarono
intensamente attraverso gli occhiali. “Spero di potermi
togliere da qui al più presto, per non darti più alcun fastidio”
aggiunse secco e pungente come carta vetrata.
“Vedremo, signor Tolosa…Vedremo, dunque, cosa
riserveranno le prossime settimane” rispose l’altro con uno
strano sorrisetto sulle labbra, e con gli occhi fissi sul monitor
lampeggiante.
In quel momento Benjamin notò un brulichio maggiore del
solito scuotere tutta quanta la redazione, ma pensò si trattasse
delle breaking news delle agenzie stampa. Per sicurezza lanciò
un’occhiata a Grazia: se ne stava china sullo schermo,
esattamente come poco prima. Tutto tranquillo.
Si alzò dalla sua scrivania e si avviò in direzione della
macchinetta del caffè, in fondo alla redazione.
“Italiani!” pensò Benjamin tra sé “Simpatici e allegri
finché si scherza insieme, ma voraci come lupi se fiutano di
perdere i diritti che ritengono spettino a loro! ”. E amareggiato
lasciò che il filo dei pensieri scorresse in caduta libera.
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“Cos’è dunque una promozione? È un riconoscimento di
valore che deve andare a chi lo merita davvero. È una
vergogna che uno diventi caporedattore solo per anzianità di
servizio e logica interna del giornale. Come si può pensare di
meritare un posto simile, con una responsabilità tutt’altro che
marginale, senza essersi sudati uno per uno i pezzi di cronaca
da inviato speciale; senza essersi misurati fino all’ossessione
con i logoranti reportage da ogni angolo della terra che
interessa all’opinione pubblica; senza aver plasmato il proprio
stile al punto da dare filo da torcere a chiunque si azzardi a
imitarlo anche solo da lontano…”. Stavano frullandogli per la
testa tutte queste considerazioni, quando all’improvviso gli si
materializzò davanti Grazia.
Gli si era avvicinata mentre lui stava sorseggiando il terzo
caffè di quella giornata, non si era accorto di nulla.
“E così vuoi andartene?”. Il tono di voce impersonale
mascherava il fatto che ciò la preoccupava.
Infilò la sua chiavetta personale nel distributore di bevande
e schiacciò per ottenere un decaffeinato, giusto perché non
sembrasse che lei gli stesse correndo dietro.
Benjamin si immaginò che Grazia sottintendesse dell’altro.
Si trattenne dal farle gli occhi dolci che pure gli sarebbero
venuti spontanei: “Non so. Ho il presentimento che Milano
non faccia più per me. È grigia anche quando c’è il sole, io
non sono abituato a vivere senza la luce”. Era così scuro in
volto mentre parlava, che Grazia pensò che stesse vivendo
esattamente quello che aveva appena descritto.
“Ma perché hai accettato di venire a lavorare qui, allora?
Perché non sei rimasto in Spagna?”. Per mascherare
l’imbarazzo del leggero tremolio nella voce s’affrettò a trarre
fuori dalla tasca della camicetta un pacchetto di sigarette light;
ne accese una immediatamente, l’aria tra i due si riempì di
impalpabili volute di fumo. Benjamin si accigliò, ma non le
chiese di spegnere la sigaretta.
“L’Italia mi è sempre piaciuta: speravo mi avrebbero
mandato su e giù per il paese a seguire gli avvenimenti
importanti di cronaca. Vedi, io ho un’ossessione che non mi
dà tregua” le spiegò con calore “lo scoop. Sia quando sono in
giro, sia quando sono qui in redazione, quest’idea è come un
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tarlo nella mia mente. La rode scendendo sempre più in
profondità dentro di me. E non è facile liquidarla dicendo che
è soltanto la proiezione della voglia di successo, di riscatto
personale. Vivo perennemente insoddisfatto perché mi pare di
non essere all’altezza del mio ruolo di giornalista. Continuo a
dirmi che se fossi veramente famoso, non dovrei stare qui a
prendere ordini da qualcuno che sta sopra di me; vorrei essere
io a scegliere cosa scrivere. Invece mi tengono incollato alla
mia sedia, e ora ci sarebbe in ballo nientemeno che la
promozione a caporedattore… tutto per manovrarmi meglio!”.
Benjamin era seriamente deluso. “A proposito” si soffermò un
attimo nel tentativo di cercare le parole più appropriate “ non è
fra i miei sport preferiti infilare conquiste femminili una dietro
l’altra. Brentani l’ha detto solo perché è invidioso!”. Così si
chiamava il collega malevolo.
“Lo so, non c’è bisogno che ti scusi per la performance di
poco fa”.
Grazia dischiuse le labbra e ne uscì una delicata spirale di
fumo. Distanziò la sigaretta mentre continuava a scrutarlo, ma
ora sul suo viso si era affacciato un timido sorriso, che a
Benjamin parve davvero spontaneo e genuino, la risposta
naturale alla sincerità con cui lui aveva parlato.
Lui respirò l’aria un po’ infastidito, rimanendo in silenzio.
Gettò un’occhiata sullo stanzone in cui si trovava: erano
disseminate ovunque scrivanie con telefoni che squillavano in
continuazione; la gente batteva freneticamente le mani sulle
tastiere dei computer senza staccare gli occhi dallo schermo.
Si chiese per quanto sarebbe resistito lì dentro, senza la
prospettiva di uscire a lavorare in mezzo alla gente. Senza la
possibilità di svolgere ricerche approfondite come gli piaceva
tanto fare. Gli uscirono parola amare dalla bocca:
“Mi sento comandato a bacchetta, come un animale da
circo. Ma ti dirò di più: anche se mi volessero rinchiudere
nella loro meravigliosa gabbia dorata, come fossi un uccello
esotico, dandomi la promozione e quant’altro hanno in
programma per me, sarebbe inutile. Non si può impedire ad un
usignolo di cantare: anche chiuso in gabbia, riuscirebbe
sempre a convincere qualcuno, col suo canto struggente, a
socchiudergli la porta”.
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“È questo che stai aspettando? Qualcuno che venga a
portarti via? Perché non mandi tutto all’aria allora, e te ne
torni in America? Un po’ di fama l’hai raggiunta. Non
dovrebbe essere così difficile rimediare una cattedra di
giornalismo in qualche Università. Insegneresti per un po’ di
mesi, conosceresti un sacco di giovani e potresti viaggiare per
tenere corsi e conferenze!”.
Benjamin scoppiò in un’allegra risata. “Lo sai che sei
davvero piena di idee?! Vedrai che prima o poi ti ascolterò!”.
Grazia sorrise, senza però riuscire a guardarlo negli occhi.
Non le usciva più niente di bocca al pensiero che lui potesse
andarsene davvero. Anche se solo un attimo prima aveva
scherzato su quell’eventualità, in cuor suo sapeva di aver fatto
centro.
Intanto la sigaretta era terminata: schiacciò la cicca nel
portasigarette e lo salutò con la scusa di dover tornare al
lavoro.
Benjamin la osservò dirigersi verso il computer della sua
scrivania; vista di spalle Grazia era davvero carina: un vitino
sottile dentro la camicetta bianca, pantaloni larghi e scarpe col
tacco alto. E poi quella cascata di ricci neri. Davvero niente
male. Il passaparola maschile (che esisteva al pari di quello
femminile) le attribuiva un flirt nientemeno che con il
direttore, risalente ancora a qualche anno addietro; il che
avrebbe spiegato, agli occhi dei più smaliziati – che di solito
sono proprio quelli che ci azzeccano – il perché una
giornalista come lei con un curriculum buono sì, ma non
eccessivamente brillante, sarebbe passata senza tanta gavetta
dalle pagine di cronaca milanese a quelle di politica interna
del paese.
La postazione di Grazia era perennemente fissa sulle
agenzie stampa che battevano le notizie da Montecitorio.
Adesso poi che si avvicinavano le elezioni politiche, era
scrupolosissima: non perdeva d’occhio neppure per un istante
gli sviluppi delle discussioni sui progetti di legge fermi in
Parlamento, approdati lì nel corso della quinquennale
legislatura.
Ma Benjamin, che sapeva leggere tra le righe dei
comportamenti dei suoi colleghi, aveva capito che la stella di
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Grazia era in declino. Il caporedattore la massacrava di lavoro,
i colleghi cercavano di farle le scarpe, non aveva amici fidati
su cui poter contare per sfogarsi un po’; era un anno che lei
stava resistendo dignitosamente, piena di buona volontà,
assediata dal nugolo di nuovi pupilli (e pupille) del direttore –
il quale ora la trattava al pari di tutti gli altri suoi collaboratori
– che miravano alla sua poltrona. Al momento di andare a
casa, la sera, la vedeva con un viso stanco, tirato, sotto il
trucco con cui mascherava il suo sfinimento. Impiegava tutte
le energie nel difendere il suo posto con le unghie e con i
denti. Benjamin si domandava per quanto tempo ancora la
forza di volontà, che indubbiamente Grazia possedeva in
somma misura, l’avrebbe sostenuta. Col passare degli anni
infatti si era fatto l’idea che il giornalismo smorzasse la
vivacità e l’entusiasmo degli esordi giovanili, e che questo
valesse un po’ per tutti. Grazia poi gli sembrava
particolarmente sensibile, quasi inadatta ad un mestiere dove
le poche firme che contavano si battevano a suon di editoriali.
Aveva stima di Grazia. Gli faceva persino tenerezza vederla
così magrolina, sepolta sotto la montagna di carte che si
ergeva minacciosa sul suo tavolo di lavoro. Indubbiamente era
uscito con donne più belle e affascinanti di lei, ma nessuna
che avesse la sua anima gentile.
Fin da subito si era reso conto che lei nutriva un debole per
lui. Un’avventura con Grazia non gli sarebbe dispiaciuta, già
in passato aveva avuto storie con donne che lavoravano nel
suo stesso campo ed erano durate più del previsto. Benjamin
piaceva alle donne: era bello, famoso, aveva soldi da spendere
ed era dotato di fascino. Quando valeva la pena lui non se le
faceva certo scappare, ma il fatto era che non gli accadeva di
innamorarsi veramente.
Ora, se avesse fatto la corte a Grazia, sentiva che la loro
storia sarebbe scorsa entro i soliti binari. Da un lato ne aveva
voglia, ma dall’altro qualcosa lo frenava. Stranamente, gli
dispiaceva poter farla soffrire. Di solito con le altre donne non
gliene sarebbe importato un granché: tanto peggio per loro,
dal momento che erano loro ad innamorarsi di lui. Ma Grazia
era intelligente e graziosa. Quando la scorgeva non riusciva a
scrollarsi di dosso l’immagine che gli suscitava dentro: il
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mazzo di girasoli di Van Gogh, e per questo non riusciva ad
acquietarsi. Era arrivato a sperare con tutto il cuore di
andarsene presto. Lei avrebbe sofferto un po’, ma poi
l’avrebbe dimenticato. Invece, ironia della sorte, le cose
sembravano progredire proprio per il verso contrario e,
quando al danno si aggiunge la beffa, lei aveva capito
benissimo le sue intenzioni.
Con questi pensieri per la testa non si accorse che era da
poco passato mezzogiorno e non aveva ancora messo nulla
sotto i denti. Tanto più che in quella giornata sembrava non
esserci nulla da fare, nemmeno il direttore si era ancora fatto
vedere in giro.
Decise di fare un salto a casa per finire la scatola di pizze
surgelate che gli era rimasta nel freezer – anche se era un
attentato alla sua dignità ridursi a mangiare pizze surgelate in
Italia – e perché doveva spedire un’e-mail dal computer
portatile del suo appartamento.
Fu attento a non farsi vedere da Grazia mentre sgusciava
via dalla redazione. In strada mise in moto la sua berlina e
puntò in direzione di viale Loreto.
Arrivato sotto casa per prima cosa raccolse la posta che
traboccava fuori dalla cassetta delle lettere. Quel giorno
spuntava anche un telegramma: dalle fattezze riconobbe che
era americano. Incuriosito gettò un occhio sul mittente, si
rassicurò nel vedere che si trattava di una persona che
conosceva bene. Ma la sorpresa più grossa venne aprendolo,
una volta entrato in casa: a parte il messaggio scarno, conciso
e oscuro, una grossa L blu acceso campeggiava sullo sfondo
del telegramma, circondata da ghirigori d’argento. Il testo
suonava strano e perentorio al tempo stesso:
“È urgente che ti rechi a Roma per un lavoro importante.
Garantisco che si tratta di una faccenda davvero seria.
L’indirizzo a cui ti devi presentare è: via dei Tigli, n°3. Entro
Domenica al massimo. Assoluta segretezza. Fammi sapere se
accetti. Frank”.
Benjamin era esterrefatto. Ma come poteva mollare tutto
per correre subito a Roma? E il giornale? Chissà se, a questo,
Frank aveva pensato. E perché avvisarlo di una faccenda così
importante con un banalissimo telegramma?
23
Si buttò sul letto a pensare con quale scusa avrebbe potuto
svincolarsi dagli impegni di lavoro per recarsi a Roma. Mah,
più ci pensava, più il progetto gli sembrava irrealizzabile. Ma
cosa si era inventato Frank?! Certo che se aveva inviato
d’urgenza un telegramma non c’era tempo da perdere e
bisognava trovare al più presto una soluzione. Se almeno
avesse dovuto occuparsi di un qualche fatto o personaggio di
Roma! E invece niente. Tutta cronaca milanese.
Nel frattempo accese il televisore e infilò nel microonde la
pizza surgelata, mise la tovaglietta americana sul tavolo
rotondo in mezzo alla stanza e aggiunse tovagliolo, bicchiere,
posate e Coca-Cola. Sintonizzò la tv sul canale dei
documentari storici della BBC, il telegiornale l’avrebbe
guardato dopo. Voleva rilassarsi un po’ con la sua materia
preferita, la storia. Si rilassò a tal punto che, dopo mangiato, si
distese sul divano sempre con l’intento di pensare alla
faccenda del telegramma, e s’addormentò.
Squillò il telefono. Benjamin si svegliò di soprassalto,
ricondotto alla realtà dal suono metallico del cordless che
lampeggiava come un mini luna-park. S’accorse in quel
momento che aveva fatto una gran bella dormita, perché
l’orologio a muro segnava le 15.30.
“Pronto?” rispose Benjamin seccato che l’avessero
disturbato nel bel mezzo della sua siesta.
“Sono Grazia, ciao”. Pausa. Poiché dall’altra parte
Benjamin rimaneva in silenzio, lei si fece coraggio e proseguì.
“Ti disturbo?” domandò fiduciosa.
“Stavo leggendo certi appunti…” rispose vago e
circospetto, perché Grazia non l’aveva mai chiamato a casa
prima d’allora.
“Sarò breve, allora. Devo farti una proposta”.
“Che tipo di proposta?”. Benjamin temette che volesse
invitarlo a cena o da qualche parte.
“Non c’è nulla di cui ti devi preoccupare” gli rispose
cercando di apparire convincente. “Si tratta di una proposta di
lavoro”.
“Oh, caspita!”. Benjamin cominciò a respirare meglio.
Grazia dall’altra parte della cornetta proseguì rincuorata:
“Senti, ti ricordi quando hai detto che volevi andartene da
24
Milano?” e prese tempo, affinché la sua proposta risultasse più
allettante: “Ti andrebbe di partire fra un paio d’ore alla volta
della capitale?”.
“Aspetta, non ho capito bene: vuoi dire che ci sarebbe la
possibilità di andare a Roma?”. Benjamin era esterrefatto.
D’improvviso cominciò a sperare che si potesse realizzare il
messaggio del telegramma. “E chi andrebbe a Roma?”.
“Io, naturalmente. Ti ricordo che stai parlando con
l’addetta alla pagina di politica interna. A Roma sta entrando
nel vivo l’indagine parlamentare a proposito degli onorevoli
coinvolti nello scandalo delle Stelle Spezzate. Lo sai anche tu
che da mesi non si discute d’altro. Potrei portarti con me, se
vuoi. Conosci il detto, no: due teste pensano meglio di una”.
Ecco, di nuovo Benjamin ricominciò a temere una possibile
avance. Non lo convinceva del tutto la proposta di Grazia.
“Ho capito. Devi andare ad impratichirti con l’arte del
cesello nel vasto campo della politica italiana, e ti serve la mia
sottile perizia: tessera dopo tessera ricostruire il puzzle dello
scandalo, prima che lo facciano i tuoi avversari, e
possibilmente meglio.” scherzò Benjamin che si sentiva
superiore a lei per l’esperienza fatta in patria nel reportage di
famosi scandali. “E cosa dirà il caporedattore? In fin dei conti
è ancora lui a dirigere il balletto dei movimenti di noi
giornalisti”.
“Qui ti sbagli. Appena sei andato via ti ha cercato come un
disperato l’ormai ex-caporedattore fresco di nomina a direttore
della nuova testata L’Italia che cambia; voleva andarsene al
più presto lasciandoti le consegne, peccato che tu fossi
introvabile...”.
“Ma diavolo, se ne va già via?! Questa proprio non ci
voleva!” esclamò seccato Benjamin, che dall'agitazione si
mise a camminare avanti e indietro per l'appartamento.
Teneva il cordless con una mano e il telegramma con l'altra; il
nervosismo crescente gli metteva addosso un sudore freddo
come raramente aveva provato. “Ma non può andarsene così,
su due piedi”.
“Perché, cosa ti saresti aspettato? Che tutti ti salutassero
con tanto di festicciola e aperitivi all'americana?”
“Non scherzare! E chi prenderà il suo posto allora? E poi
25
come sarebbe a dire che vuole mollare il giornale a me? Scusa
tanto, ma il nostro direttore si è per caso volatilizzato?”
“Come, ancora non lo sai?! Non guardi più i notiziari?! Ha
lasciato il giornale! E’ di questo primo pomeriggio la notizia
delle sue dimissioni. Ho in mano la lettera in cui tu vieni
nominato capo-redattore dal Consiglio di Redazione, proprio
come ti aspettavi.”
“Senti, lasciamo perdere la nomina, non so ancora se la
voglio” le rispose spazientito. “Sta succedendo tutto così in
fretta… Ma perché diavolo l’ha lasciata a te?” domandò
incuriosito.
“Perché sono io la nuova direttrice del giornale!” esplose
Grazia colma di gioia.
“COSA?!”. Appoggiò il telegramma fradicio per averlo
troppo tenuto in mano sul solito tavolo che gli faceva da
scrivania e da tavolo da pranzo insieme, e sprofondò sul
divano a riprendere fiato. “E perché il direttore se ne sarebbe
andato?”
“Benjamin, tutte le agenzie stampa alle dodici e trenta in
punto hanno battuto la notizia che il nostro direttore è stato
indagato per collusione con le Stelle Spezzate! Figurati il
polverone che è venuto fuori!
È emerso che i carabinieri, con regolare mandato rilasciato
dal GIP, all’alba gli sono piombati in casa per perquisire ogni
singolo centimetro quadrato, trovando un bel mucchio di
carte, documenti, relazioni dettagliate, nonché materiale
informatico, che lo collegava alle Stelle Spezzate. A tutt’ora è
in stato di fermo!
Così, dopo una bollentissima riunione del Consiglio di
Redazione in cui ti abbiamo cercato disperatamente ma tu non
rispondevi nemmeno sul cellulare, sono stata eletta io come
direttrice, alla quasi unanimità. Temporaneamente, a dire il
vero. Finché giungerà la nomina ufficiale decisa dal Consiglio
degli azionisti del giornale. Già stanotte il Consiglio dovrebbe
riunirsi, al massimo domattina. I capi al vertice devono ancora
scrivere il comunicato stampa di commento a quanto è appena
successo. Pensa, sarebbe troppo bello per essere vero…”
Grazia lasciò correre la fantasia, mettendo per un attimo da
parte il suo tono professionale “…potrebbero puntare sulle
26
mie credenziali e confermarmi direttrice: quale onore!
Dipende da quanto grosso diventerà lo scandalo e da quanto
bene lo saprò gestire…”.
“E da quanto realmente avranno bisogno di te” pensò
amaramente Benjamin.
Benjamin capì che Grazia, sotto l’apparente meticolosità
con cui gli stava riferendo tutte quelle notizie allarmanti,
anelava con tutte le sue forze all’ambíto avanzamento di
carriera. Dal canto suo era sempre più sbigottito: cominciava
davvero a pensare che gli italiani fossero tutti matti. Senza
contare che non c’era da essere tanto allegri per la nomina
come direttrice: poteva essere un’abile mossa per mettere
Grazia definitivamente da parte, la prima volta che lei avesse
fatto un passo falso.
Però finalmente le cose cominciavano ad assumere
contorni più chiari e distinti: “Ecco perché non riuscivamo a
metterci in contatto con il direttore stamani, e a casa sua e sul
suo cellulare non rispondeva nessuno!” rifletté Benjamin
pensieroso. “Ha tentato di nascondere lo scandalo fino
all’ultimo! Uhm, dovevamo immaginarlo che c’era sotto
qualcosa! Ed ecco perché questa mattina non si è tenuta la
consueta riunione del Consiglio di Redazione, quella in cui si
decide che linea tenere sulle principali notizie di pubblico
dominio. Mi è parso strano. Ma, davvero, non potevo certo
aspettarmi una simile causa!”.
Grazia continuò: “Inutile dire che dalle agenzie la notizia
dell’arresto del direttore è rimbalzata nel bel mezzo della
discussione in atto oggi alla Camera, poco dopo che il
Ministro dell’Economia aveva appena iniziato a leggere il suo
annuale resoconto finanziario. Ti lascio immaginare il
malumore che ha iniziato a serpeggiare di sottobanco tra le
fila dei deputati: il direttore del più grande quotidiano
nazionale appartenente alle Stelle Spezzate, il gruppo che ha
come obbiettivo principale la distruzione del sistema
capitalistico europeo!”
Benjamin s’immaginò la scena. Tremò al pensiero che le
Stelle Spezzate fossero in grado di arrivare a colpire così in
alto, personaggi così influenti ed illustri come uomini politici
di spicco ed intellettuali raffinati come il suo ex-direttore. La
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strategia la conosceva fin troppo bene, i giornali ne avevano
scritto all’infinito, in televisione si erano sprecati i talk-show
ed erano addirittura stati scritti molti saggi: tuttavia era ancora
inspiegabile come le stelle spezzate potessero far breccia in
persone altamente qualificate, che occupavano posti di enorme
rilievo finanziario, politico e sociale con l’unico fine
conclamato di destabilizzare l’economia nazionale. Da non
crederci!
Intanto Grazia continuava come se nulla fosse: “E la
bomba secondo me non è ancora esplosa del tutto. Per questo
voglio andare a Roma a sondare di persona che aria tira”.
“Lo hanno saputo le agenzie prima di noi?” s’informò
perplesso.
“Sì, è così. Ma non mi stupisco. Capita che siano le
agenzie, ormai, a comunicare le notizie ai diretti interessati,
anche quando sarebbe più logico che siano loro a saperle per
primi. Ormai il potere delle agenzie stampa è enorme”
commentò amareggiata Grazia. Riprese immediatamente:
“Comunque, com’era naturale e prevedibile, alle due infuriava
già la riunione di cui ti ho raccontato poco fa. Per fartela
breve, e ti garantisco che chi non c'era si è perso una battaglia
all'ultimo sangue, la maggioranza del Consiglio di Redazione
ha votato te come caporedattore temporaneo, finché non sarà
designato dall’assemblea degli azionisti quello nuovo. E
guarda bene che potrebbero benissimo riconfermarti. Sarebbe
la cosa più naturale del mondo. Quanto a me, invece, la scelta
ha a che fare con questioni di immagine: è parso intelligente
promuovere una figura giovane e non compromessa con la
politica come nuovo direttore, per salvare i nostri lettori da
pericolose migrazioni verso altre testate. Hai capito a cosa mi
riferisco?”.
“Sì, è tutto fin troppo chiaro. Però è presto per cantare
vittoria. Senti un po’, non mi sembra una mossa giusta
allontanarti dalla redazione proprio ora che hai il doppio
incarico; praticamente sei anche la direttrice: non vedo la
necessità di catapultarti a Roma per inseguire chissà quale
pista particolare che sveli per la prima volta i meccanismi
segreti delle Stelle Spezzate”.
Grazia tergiversava. Capiva le argomentazioni di
28
Benjamin, ma era sintonizzata su un’altra lunghezza d’onda,
che le faceva sembrare assurdo che un direttore di giornale
non si recasse là dove c’era la notizia. Benjamin proseguì nel
suo tentativo di farla rinsavire:
“Ma perché diavolo non mandi qualcun altro? Vado io, se
vuoi. E tu rimani tranquilla a Milano, seduta alla tua nuova,
grande scrivania, a sorvegliare che quelli che oggi ti hanno
votata, domani non ti si rivoltino contro e ti scippino il
giornale…”.
“Non saprei…”. Grazia era veramente indecisa.
“Ti fidi di me, vero? Mi era parso che noi due fossimo
sempre stati sinceri l’uno con l’altra”.
“Eppure non ci vedo nulla di male ad assentarmi” insistette.
Mentre Benjamin ragionava in termini di convenienza o meno
di un’azione, Grazia era impulsiva, prendeva di petto le
questioni e ragionava in termini di giusto o sbagliato. Per lei
era giusto recarsi a Roma per avere le informazioni che le
servivano. Anche perché se la sua “talpa” non trovava lei,
avrebbe spifferato a qualche altro giornalista le sue
informazioni, creandole così un grave danno professionale.
Perciò non mollò la presa: “Solo per stasera. Domani a
mezzogiorno sarò già di ritorno, tanto al giornale il direttore
arriva sempre intorno alle dieci: due ore in più non faranno poi
una così grande differenza… porterò con me delle
testimonianze così schiaccianti sull’operato delle Stelle
Spezzate che potrò sventolare il vessillo della vittoria davanti
agli allocchi del Consiglio di Amministrazione! E’ il mio
momento Benjamin, e non voglio lasciarmelo scappare. So
perfettamente i rischi che corro”. E poi in uno scatto
d’orgoglio: “Diamine, posso tacere alla mia redazione dove
passo la notte! Non trovi?”
“Se vuoi omettere che la passi con me, è tutto ok”
sdrammatizzò Benjamin. Grazia in sottofondo mugugnava.
Ma poi fattosi serio: “Ho paura per te. Se va storto qualcosa?
Lascia che sia io a correre il rischio. Se poi il tuo agente
segreto si rivela una fregatura? Finora nessuno ha mai
conosciuto qualcosa sulle Stelle Spezzate più di quanto loro
stesse abbiano deciso di far trapelare alle più grandi agenzie
stampa del mondo. E tu pensi di riuscire a scalfirle?
29
“Non io. Ma la mia fonte sì”.
Benjamin rifletté un istante. Dopo quella sfibrante, lunga
discussione, concluse che senza dubbio gli conveniva
accettare la proposta della sua nuova direttrice. Così si decise:
“Ti auguro solo di non sbagliarti. Allora, quand’è che si parte?
Naturalmente andiamo in incognito?” scherzò.
“Ah, ah”. Grazia scoppiò a ridere divertita: “Pensavo che
potremmo partire in macchina: i nostri spostamenti
passerebbero più inosservati. Ti aspetto a casa mia fra un paio
d'ore, il tempo di mettere qualcosa in borsa e prenotare
l'albergo”.
“A proposito” le domandò incerto Benjamin che, un po’
per prudenza, un po’ per opportunità, voleva mettere in chiaro
la situazione fra loro due: “Non è che con la storia
dell’indagare insieme daremmo ugualmente un po’ troppo
nell’occhio? Immagino già le chiacchiere: il famoso
giornalista Tolosa è stato visto aggirarsi per le strade di
Roma in compagnia nientemeno che della sua nuova
direttrice… chiunque potrebbe immaginare che fra di noi c’è
del tenero. E io non voglio. Mi capisci?”. Meglio essere duri
subito, pensò, piuttosto che raccogliere dopo i cocci di una
storia partita male e finita ancor peggio. Ne sapeva abbastanza
e non voleva commettere di nuovo gli errori fatti in
precedenza.
Per Grazia fu come ricevere una stoccata in pieno viso. Ma
seppe controllarsi. Rispose con tono distaccato:
“Che gli altri pensino quello che vogliono. La mia fonte
d’informazione è attendibilissima e mi ha messo in guardia
sulla gravità della situazione politica odierna. Cosa che, per
altro, chiunque è in grado di capire da solo. Perciò non ho
nulla in contrario al fatto che, in un momento così difficile, la
direttrice ed il capo-redattore di un giornale si occupino di
persona, recandosi sul posto, dell’evento gravissimo che oggi
sta maggiormente a cuore agli abitanti del nostro paese. Non
trovi anche tu? Ma naturalmente, se vuoi, puoi rimanere a
Milano e sarò ben felice lo stesso”.
“Mah, sarà come dici tu. Non mi hai convinto del tutto, ma
obbedisco. Dimmi l’indirizzo e sarò da te in un baleno”.
Grazia gli diede le coordinate per raggiungerla dove
30
abitava, ma appena Benjamin capì che avrebbe impiegato
un’ora solo per attraversare la città, ritrattò gli accordi appena
presi:
“Stai troppo lontano: ho da sbrigare delle faccende prima di
partire. Sarei da te con parecchio ritardo. Facciamo che fra
poco ti avvii e vieni tu a prendermi” e le spiegò velocemente
la strada. “Viaggeremo con la mia auto”.
“Sì, si può fare. Allora a dopo” concluse Grazia con piglio
deciso. E riagganciò.
Dopo una telefonata così estenuante la mente di Benjamin
era ancora più confusa. Già il telegramma lo aveva spiazzato,
ma ora proprio non si capacitava di come fosse potuto
succedere che in un solo pomeriggio il suo capo si fosse
dimesso, e che lui e Grazia fossero stati prescelti per guidare il
giornale.
Gli pareva di trovarsi su un'enorme scacchiera, in cui tutti
gli avvenimenti si mettevano in moto per farlo andare a Roma,
proprio come diceva il telegramma. Evidentemente era destino
che lui dovesse andare a Roma. In più, un certo gusto
dell'avventura non gli dispiaceva; anzi, chissà che non ci
venisse fuori anche un bello scoop.
31
III
Non è prassi consolidata che un nuovo direttore di
giornale, fresco di nomina, abbandoni il suo ufficio per recarsi
nel bel mezzo del ciclone – metaforicamente parlando.
Grazia se ne rendeva perfettamente conto e si aspettava
che la riunione degli azionisti di maggioranza del giornale si
occupasse del problema della direzione della testata con tutta
la serietà e la lungimiranza possibili. Se la poltrona della
dirigenza del giornale, infatti, non poteva dirsi vacante, perché
di fatto c’era lei a reggere una sorta di continuità con il
passato “pulito” del giornale, rimaneva però la difficoltà di
come colmare un posto di enorme responsabilità con una
figura che godesse della stima di tutti. A lei pareva di
possedere le doti che occorrevano per guidare un giornale:
equilibrio psico-attitudinale, ottima preparazione culturale,
intuito e tempistica perfetti, capacità di mediazione tra i
giornalisti della redazione, conoscenza dei processi di stampa.
Chissà se anche gli azionisti l’avrebbero pensata allo stesso
modo.
Ritta in piedi davanti all’armadio aperto, in accappatoio,
con i capelli ancora umidi profumati del suo bagnoschiuma
preferito, stava preparando la borsa da viaggio. Accatastava
ordinatamente tutto il vestiario sul letto, insieme a qualsiasi
altro oggetto di cui avesse avuto bisogno. Il pensiero corse
inevitabilmente al suo informatore segreto, c’era solo da
sperare che veramente avesse delle notizie importanti da
riferirle, altrimenti avrebbe avuto ragione Benjamin: che, cioè,
stava commettendo l’errore più grosso della sua vita.
Però su una cosa Benjamin aveva ragione: l’ex-direttore,
cadendo in disgrazia, aveva trascinato con sé una mezza
dozzina delle firme più illustri del giornale, tutti suoi
strettissimi collaboratori e tutti – a quanto pareva – invischiati
più o meno nello scandalo. Pertanto l’occhio vigile di Grazia
le diceva di stare attenta: aveva la netta sensazione di essere
stata scelta dal Consiglio di redazione solo perché la rosa di
papabili candidature era davvero esigua. Che questo suo
exploit trascorresse veloce come una meteora?
Si paralizzò di fronte ad un simile pensiero. Fece uno
32
sforzo notevole per scrollarselo di dosso. No. C’era anche
Benjamin dalla sua parte. Anche se di fatto non era stato
presente alla votazione, lui contava parecchio nella redazione
e l’avrebbe sicuramente difesa: avrebbe alzato la voce contro
quelli del Consiglio se ce ne fosse stato bisogno. Sì, avrebbe
dimostrato all’intera redazione ed al Consiglio di
Amministrazione il suo valore e la sua reale capacità di
dirigenza.
Decise di dare una vigorosa spallata a quei tristi pensieri, e
per distrarsi cominciò a ripercorrere gli eventi salienti della
giornata trascorsa, sforzandosi di far compiere alla sua mente
un passo a ritroso. Si concentrò sulle vicende accadute in
Parlamento, ripensando alle immagini viste in Internet quel
primo pomeriggio: un drappello di risoluti parlamentari aveva
cercato di boicottare la relazione che il Ministro delle
Politiche Economiche Comunitarie1 stava tentando di esporre
a gran voce.
Già dall’inizio della relazione, infatti, si erano levati alti
mormorii di disapprovazione per il modo in cui il Ministro
aveva condotto la bollentissima indagine dal titolo: “Politiche
europee per il sostegno e lo sviluppo economico dell’Italia”. E
poi come recitava il sottotitolo: “ Quali vantaggi offre il nuovo
assetto politico-culturale europeo in relazione allo stato di
recessione economica in Italia. Gli scenari possibili per la
difesa dello Stato dalle Stelle Spezzate”.
La relazione avrebbe dovuto spiegare due fatti
inammissibili: come era potuto accadere che esponenti politici
di rilievo (sia del governo che dell’opposizione)
appartenessero al più spaventoso gruppo eversivo degli ultimi
decenni, le Stelle Spezzate, e come mai in Parlamento nessuno
si fosse accorto di niente. Di che razza di copertura godevano?
Che in questo nuovo, spietato gruppo terroristico vi
1
Dalla seconda metà del XXI secolo il Ministro delle Finanze è stato
sostituito da quello delle Politiche Economiche Comunitarie [n.d.r.]; la
libertà di scelta del ministro in materia di provvedimenti fiscali da adottare
nel nostro paese si è andata sempre più assottigliando, fino a ridursi a
qualcosa di puramente rappresentativo. Tutte le decisioni importanti
vengono prese a Bruxelles, e il ministro è stato ridotto ad un mero
esecutore.
33
entrassero personaggi illustri dell’alta finanza italiana, questo
era emerso fin dall’inizio dell’inchiesta, iniziata un anno
prima. Ma che a questi si aggiungessero anche uomini politici,
tutto ciò suonava come un fatto di una gravità inaudita! In
breve tempo questo nuovo nucleo terroristico stava
richiamando sempre più l’attenzione dei media dell’Unione
Europea.
Gli infidi deputati in questione, quelli che avevano
venduto l’anima alle Stelle Spezzate, erano stati messi sotto
processo con l’accusa di aver ordito manovre occulte per
rallentare ed indebolire l’economia italiana, già di per sé
sufficientemente indietro rispetto ai parametri che le erano
stati imposti da Bruxelles. L’infrazione dei parametri era
considerata dalla Commissione Europea come materia grave.
Per questo si prevedevano imminenti e pesanti tagli dei fondi
europei destinati all’Italia, che avrebbero gettato il Paese
ancora di più sull’orlo del baratro; come se ad un moribondo
che ha freddo ed è già senza coperta, volessero togliere anche
il vestito per farlo morire più in fretta.
Oltre alla relazione del Ministro, il Governo aveva disposto
un’ulteriore indagine, parallela alla prima, che avrebbe dovuto
essere letta e discussa in Parlamento entro brevissimo tempo,
per fornire ai partiti coinvolti la possibilità di prendere atto
della situazione generale e “far pulizia” al loro interno
dell’insensato operato dei loro membri. La notizia
dell’indagine dell’apposita Commissione Parlamentare
(soprannominata prontamente dai giornali “la vendicatrice
spietata”) era caduta nell’aula di Montecitorio come la
ciliegina sulla torta: tutti gli onorevoli aspettavano i risultati
soltanto per vendicarsi gli uni degli altri.
Ma cos’era accaduto per arrivare fino a questo punto? Da
dove traeva origine la difficile congiuntura economica in cui
versava l’Italia? Da dove erano spuntate fuori queste Stelle
Spezzate?
Grazia immaginò di dover scrivere un articolo di fondo (il
suo primo articolo di fondo!) in cui porre tali domande e
fornire le sue risposte.
Un anno prima era entrata in vigore la Nuova Costituzione
Europea (per l’esattezza “Nuova e Riveduta Costituzione
34
Europea a ragione dell’allargamento a 27 degli Stati
Membri”), che in realtà era una semplice ritrascrizione di tutti
gli articoli con l’aggiunta di quelli che riguardavano la
Turchia come nuovo stato membro, e di poche altre cose
marginali.
In quel periodo in Italia era scoppiato il caso di alcuni
manager influenti che si erano dimostrati legati al nuovo
movimento culturale elitario delle Stelle Spezzate, una specie
di derivazione dell’antico movimento “no global” del secolo
precedente. A mano a mano che quest’ultimo andava
scomparendo (e ormai si poteva ben dire che non
rappresentasse altro che un’ombra del passato) prendeva
vigore questo nuovo, sconosciuto gruppo nato da una costola
sua.
Le Stelle Spezzate non si consideravano né un gruppo
terroristico, né un’associazione eversiva, né un partito; ma una
nuova realtà di tipo politico-culturale-sociologico. Alcuni
commentatori avevano azzardato delle analogie con la
Massoneria. Alcune sue priorità le aveva rese note il gruppo
stesso in un laconico comunicato stampa fatto pervenire nello
stesso giorno, alla stessa ora, alle redazioni dei principali
giornali europei. Così si sapeva che, oltre ad esistere, questa
nuova “associazione” perseguiva il fine di pugnalare l’Unione
Europea assestando colpi mortali al suo sviluppo economico:
un odio motivato dal desiderio di mettersi al servizio
dell’ascesa di altre economie mondiali, specialmente di quelle
dei paesi africani e, più in generale, del cosiddetto 4° e 5°
mondo. Una “motivazione giustizialista” l’avevano definita
subito gli analisti più esperti.
La cosa più sorprendente di tutte era che le Stelle Spezzate
consistevano in un raggruppamento massimamente eterogeneo
di persone, riunitosi segretamente da tutta l’Unione Europea
con l’unico intento di farla crollare, e i cui aderenti si
contavano tra le fasce più alte – per censo – della popolazione.
Su di loro si era messa ben presto ad indagare la Polizia
Finanziaria Europea, dal momento che i reati erano tutti
inerenti l’ambito dell’economia: speculazioni finanziarie,
frodi, scalate rocambolesche che si trasformavano in
precipitose frane di capitali, falsi in bilancio, corruzione,
35
aggiotaggio e via dicendo. E tutto ciò aveva cominciato ad
accadere in ogni stato dell’Unione Europea.
Era come se nel corpo del sistema economico si fosse
intrufolato un virus mortale, che non mirava solo ad
annientare l’intero organismo finanziario dei paesi più ricchi,
ma voleva la resa totale dei paesi stessi. E non ci si capacitava
di come potesse essere accaduto che un cancro simile potesse
essersi diffuso così capillarmente, fino ad aggredire l’intero
sistema, senza che nessuno si fosse accorto di nulla, se non
ormai troppo tardi.
Si trattava di reati motivati non dall’intento di corrompere
o dalla voglia di arricchirsi – come riferivano le brevi
rivendicazioni delle Stelle Spezzate – ma da un’idea diabolica
non ancora completatasi e nemmeno ben definita agli occhi
dei competenti organi di ricerca europei: qualcosa che doveva
avere a che fare con l’anarchia.
Infatti si era scoperto (tramite la pubblicazione del manuale
d’ingresso nel movimento, dopo che un “pentito” l’aveva
diffuso) che gli aderenti tramavano per la caduta dei governi
nazionali con ogni mezzo (delegittimazione, sabotaggio… fin
anche l’uso della forza), così da rendere instabile l’esistenza
stessa dell’Unione Europea. Se all’interno dei suoi stati,
infatti, avesse regnato l’anarchia, come avrebbe potuto
resistere nel tempo un’ Unione di Stati sovrani?
Così gli esponenti delle Stelle Spezzate erano ben presto
stati indagati per il reato di eversione “virtualmente armata”
(un velocissimo decreto-legge aveva tamponato l’assenza
normativa a riguardo) – e da notare che il processo aveva
cambiato ben tre procure in dieci mesi perché ogni volta
emergeva che qualcosa o qualcuno in quelle procure avrebbe
potuto inficiare il procedimento giudiziario.
A questo si era aggiunto che la concorrenza del dollaro,
dello yen e della Ren Min Bi2 aveva drasticamente limitato il
potere d’acquisto dell’euro, e i cittadini italiani come quelli di
tutta Europa erano davvero malcontenti, per non dire
furibondi, con i loro governi e con Bruxelles, perché nessuno
di loro si risolveva a prendere misure protezionistiche a
2
Moneta cinese (ovvero: Moneta del popolo).
36
salvaguardia degli interessi europei, fermando l’ascesa
inarrestabile dei prezzi. Anzi, pareva che le frenetiche riunioni
dei ministri dell’economia non portassero alcun frutto, ma
mostrassero un’Europa impelagata negli interessi delle singole
nazioni, in quelli delle potentissime lobby e dunque dilaniata
da spinte centrifughe autodistruttive.
“Eh sì” rimuginava Grazia tra sé “l’Europa, nata da un
secolo appena, rischia già di morire: proprio l’economia che
tanto ha contribuito a costruire l’Unione Europea ora sembra
rivoltarlesi contro e spaccarla a colpi di inflazione, perdita del
potere di acquisto dei salari, disoccupazione, smantellamento
del welfare”.
Pensieri di questo genere le frullavano per la testa e la
impensierivano non poco. Occorreva solo che li scrivesse nel
suo editoriale.
“Stiamo andando incontro ad una crisi epocale come quella
del 1929 per gli Stati Uniti” disse a sé stessa
malinconicamente ad alta voce. Lo spettro di quel passato
lontano aleggiava nell’aria.
37
IV
L’orologio appeso alla parete segnava le 13.45. Giulia
scoccò una rapida occhiata in quella direzione prima di
calcolare quanto tempo le restava per la pausa pranzo. Si
trovava all’interno del centro commerciale ubicato a poca
distanza dal luogo dove lavorava, stava contemplando con
occhi sognanti gli articoli della lista di nozze che – a detta del
biglietto promozionale – era la più strepitosa offerta di quel
genere da che gli uomini avevano contratto la solenne usanza
di sposarsi.
Sfiorandoli con le dita della mano, accarezzava
delicatamente i piatti di porcellana dipinti a mano, così
recitava il cartellino a fianco, e seguiva con lo sguardo le linee
arzigogolate del disegno in stile impero. Parevano perfetti per
un sontuoso banchetto imbandito al Palazzo d’Inverno dello
zar di Russia e, perché no, pensò Giulia, anche per la nuova
fiammante credenza che attendeva lei e Roberto al terzo piano
di un elegante caseggiato a schiera nuovo di zecca. Le sue dita
lunghe sfiorarono i calici di cristallo: vide riflesse le unghie
laccate di rosa confetto. Era appena uscita dalla beauty-farm
all’interno del centro commerciale e si compiaceva dello
splendido risultato ottenuto. Chissà cosa avrebbe detto
Roberto che l’aspettava per i panini ed il caffè al loro solito
bar; si chiese se gli sarebbe piaciuta.
Uscì dal negozio di articoli da cucina e attraversò il lungo
corridoio del centro commerciale, lasciandosi scivolare alle
spalle come vestiti smessi le vetrine dei negozi. Si diresse
verso il loro solito bar in fondo al piano, accanto alla libreria.
Lui era già là che l’aspettava, seduto comodamente ad un
tavolino: con una mano sfogliava il giornale, l’altra la teneva
affondata nella tasca della pesante giacca a vento blu scuro;
una grossa sciarpa rossa che pareva fatta a mano gli penzolava
dal collo.
Giulia nel salutarlo affettuosamente gli sfiorò la guancia
con un bacio; lui premurosamente si alzò per prendere i pacchi
che lei teneva in mano e sistemarli accanto al tavolino.
“Hai svaligiato qualche negozio per portarti dietro tutta
questa roba?” le chiese lui sorridendo. Quando Roberto
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sorrideva tutto il viso gli si illuminava lasciando trasparire un
animo dolce e sensibile, una delle prime caratteristiche di cui
Giulia si era innamorata.
“No, sono solo alcune cose di cucina che mi mancavano.
Anzi, che ci mancavano, dovrei dire ora – e lo scrutò dall’alto
con gli occhi che le brillavano e un sorriso malizioso. “Hai
visto che brava donna di casa hai? Mi sono procurata alcune
casseruole e padelle per prepararti deliziosi pranzetti!” gli
disse lei con un tono di voce gioviale.
“Non ho bisogno di prove. Ho già gustato alcuni dei tuoi
più succulenti manicaretti e ne sono stato molto soddisfatto.
Dì un po’, invece, vuoi assomigliare ad una delle attrici di
Hollywood che sei diventata tutta bionda?” le chiese
scherzando.
“Lo so, non ti piaccio, vero?” fu la sua risposta. Al che
corrugò la fronte, mentre insinuava una punta di dubbio nella
voce.
“Uhm… quasi quasi non vengo più a vivere con te: non ti
riconosco più!” la provocò lui.
“Oh, non ti preoccupare, ho già deciso. Non verrò più a
farmi i capelli qui” sentenziò Giulia “ho visto come lavorano e
non mi piace: mi hanno resa troppo appariscente; guarda il
trucco: sembro pronta per una cerimonia! E poi è troppo
caro”. Concluse il suo ragionamento sapendo di esagerare un
poco, perché in verità le era piaciuto come l’avevano truccata.
Ma quella del trucco era una questione che non le interessava
più di tanto, perché quello che le premeva di più era di
accondiscendere alle opinioni del suo ragazzo.
“Bene, così non ascolterai più i consigli delle tue amiche”.
“Ma Luciana si era trovata così bene qui…” pigolò Giulia
in tono sconsolato “E poi ficcano troppo il naso negli affari
dei clienti: la ragazza che lavorava alla mia acconciatura ha
voluto sapere tutto di noi: sul fatto che andiamo a vivere
insieme, perché anche lei ci starebbe pensando col suo
ragazzo…”
“E tu cosa le hai raccontato?” Roberto cominciò ad
incuriosirsi.
“Beh, che noi non vediamo l’ora! Le ho detto: sai,
l’emozione di avere una casa tutta per noi, con i nostri mobili!
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Le ho raccontato che è stata dura traslocare lì tutta la nostra
roba, dell’opposizione dei miei, della solita trafila di quando
due vanno a vivere insieme: spine da aggiustare, lampadari da
appendere, forniture di servizi da allacciare e così via”.
Mentre i due conversavano il barista si avvicinò al loro
tavolo per appuntarsi su di un bloc-notes le ordinazioni. Giulia
lo salutò allegramente e gli disse che quel giorno aveva voglia
di un toast integrale e di un succo all’ananas. Roberto invece
ordinò il solito cheesburger e coca-cola.
Appena il barista voltò le spalle per tornare dietro al
bancone, Giulia notò che Roberto aveva assunto un’aria
assorta e vagamente meditativa. “A cosa stai pensando?” gli
chiese.
“Voi donne avete l’incredibile capacità di parlare con
chiunque delle vostre cose private” dichiarò lui, a cui
evidentemente non era piaciuto che Giulia avesse spiattellato
alla prima ragazza conosciuta la loro decisione di andare a
vivere insieme.
“È solo perché tu sei più riservato di me” si difese lei.
“Mah, sarà. Comunque fra i miei amici l’ho detto solo a
Remo e a Giorgio. E poi naturalmente a Claudio”.
“E sul lavoro?”. Giulia cercò di mascherare il suo
irrigidimento accavallando le gambe. “Hai paura di fare brutta
figura con tutti i tuoi colleghi sposati?” lo arringò. A lei
pareva che in certi momenti lui si comportasse da vigliacco.
“Che c’è di strano? In fondo è sempre una scelta degna di
rispetto: si tratta di noi due che, dopo un anno che ci
frequentiamo, abbiamo convenuto di affittare l’appartamento
dei nostri sogni per andare ad abitarci. Se i tuoi cosiddetti
amici ti conoscessero davvero, dovrebbero stimarti e non dire
alcunché”.
“Devi sempre dare spiegazioni e fare ragionamenti tu,
vero?” Roberto cominciava a spazientirsi “è solo che dei fatti
miei parlo con chi voglio io”.
“Ehi, guarda che da domenica diventano fatti nostri”.
“Sì, e continuerò a parlarne con chi voglio io. Tu fa’ come
ti pare” esclamò seccato lui, e si sistemò meglio sulla sedia,
come a ribadire il concetto.
“Da me all’ospedale lo sanno già e non hanno fatto una
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piega”.
“Evidentemente l’ospedale è più evoluto di un semplice
ufficio” bofonchiò Roberto decisamente irritato. Si alzò per
andare a pagare entrambe le consumazioni, anche se era in
anticipo perché il barista non le aveva ancora portate.
A questo punto Giulia si rassegnò al vedere che la loro
querelle non accennava a sbloccarsi; e poi non voleva
infastidirlo troppo.
“Bèh, a me basta che sia sicuro tu di quello che vuoi fare. Il
resto non mi interessa” gli rispose in tono conciliante quando
lui tornò al tavolo. “Gli altri possono dire quello che vogliono.
Noi ci amiamo e questo mi basta”. Poi lo guardò negli occhi
sorridendogli, gli prese le mani e gli sussurrò: “Sono sicura
che domenica daremo inizio ad una storia bellissima di cui
non ci pentiremo mai! Io ti amo e voglio stare con te,
Roberto”.
“Sì, da domenica abiteremo sotto lo stesso tetto. È quello
che voglio anch’io” la rassicurò lui.
“Bene, sono felice di vedere che la pensi così anche tu”.
Giulia era decisamente più serena. Diede una veloce occhiata
all’orologio e s’accorse che era quasi giunta l’ora del suo
turno in ospedale. Inghiottì velocemente il toast ed ingollò il
succo. “Il caffè lo prenderò durante la pausa all’ospedale!”
spiegò a Roberto che la stava osservando mangiare tutta
trafelata.
“Non fare un’indigestione! Vabbé che quella roba
dovrebbe andare giù subito… non è pesante” commentò lui.
“Adesso devo correre in corsia altrimenti mi troverò una
nota di ritardo da parte della caposala. Ci vediamo stasera” si
chinò per dargli un altro bacio, riprese i sacchetti e si
allontanò soddisfatta del loro appuntamento.
Roberto era rimasto seduto da solo al tavolino. Era
trascorso un altro quarto d’ora in cui aveva finito di leggere il
giornale e aveva ordinato un caffè fatto come si deve, non
come quello che avrebbe bevuto Giulia al distributore
dell’ospedale. Ora di fronte gli rimanevano i resti del caffè che
aveva sorseggiato con calma e della lattina di coca-cola ormai
prosciugata. Il barista aveva già fatto piazza pulita del
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bicchiere e del piatto di Giulia.
Roberto contemplò la tazzina e il bicchiere vuoti, e percepì
dentro di sé la sensazione di qualcosa che finisce. Una fitta
acuta gli attraversò lo stomaco. Non era mai stato bravo nel
chiudere i capitoli della sua vita, e ora che si trattava di
abbandonare la condizione di single per abbracciare quella di
convivente di Giulia non si sentiva ancora del tutto pronto; per
fortuna lei non si era accorta delle sue titubanze, doveva
essere follemente innamorata, pensò Roberto. Eppure le
insistenze di Giulia anziché chiarirgli le idee ed entusiasmarlo
verso il “grande passo”, aumentavano in lui resistenze, dubbi,
confusione ed imbarazzo.
Non aveva genitori da lasciare per andare a vivere con
Giulia, perché li aveva già lasciati cinque anni prima per
spostarsi dall’Abruzzo a Roma in cerca di lavoro. L’unica
cosa da lasciare era il suo mini-appartamento, di cui per altro
stava scadendo il contratto d’affitto e per il quale non era
previsto un ulteriore rinnovo. Era stato questo, infatti, il
trampolino di lancio per maturare la loro decisione.
Nell’anno che aveva trascorso insieme a Giulia, Roberto
aveva imparato che lei era una donna che dei ragionamenti
faceva il suo punto di forza e affermava le sue convinzioni con
sicurezza granitica. L’idea di andare a vivere insieme le si era
affacciata quasi per caso nella mente; ma subito dopo,
trovandola perfetta per le loro esigenze, le si era installata
nella testa fino a non uscirne più.
Giulia possedeva inequivocabilmente l’idolo della
perfezione: non poteva permettersi di sbagliare; anzi, non
esisteva nemmeno la possibilità di fare qualcosa che le desse
la sensazione di perdere tempo o soldi. Le veniva da morire
all’idea che non tutto quadrasse esattamente come diceva lei.
Lo stesso valeva per il loro nuovo appartamento: Giulia
non vedeva l’utilità di continuare a vivere separati,
trascorrendo il tempo un po’ da uno, un po’ dall’altro,
sperperando denaro per tenere in piedi due case quando, con la
precaria congiuntura economica che stava attraversando
l’Italia, conveniva sicuramente riunire le forze e abitare sotto
lo stesso tetto. Quante più cose si sarebbero potuti concedere
con i soldi risparmiati! Eh sì, perché Giulia oltre che
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perfezionista era anche ambiziosa.
Roberto, dal canto suo, era l’opposto di Giulia: timido,
impacciato, insicuro. Mentre lei aveva la fortuna di avere un
lavoro di cui andava fiera, lui si era dovuto adattare ad un
impiego che non lo gratificava minimamente: il rivenditore di
computer. Aveva imparato a metterci serietà e professionalità,
ma non sprizzava scintille come Giulia. Non che non avesse
doti personali: possedeva un vero e proprio talento per la
programmazione informatica; ma il proprietario del negozio
non era interessato a permettergli di perfezionare le sue
conoscenze e abilità. Così l’unica cosa su cui Roberto poteva
contare era arrangiarsi a casa, da solo, di notte, davanti al suo
computer, scambiando informazioni con cervelloni informatici
conosciuti nelle chat, o scaricandosi corsi e programmi prepagati da Internet. Il suo lato pratico gli diceva che doveva
arrangiarsi alla meglio. Idem per la casa: a conti fatti –
contratto d’affitto scaduto, niente proroga, magro stipendio,
prezzi delle case schizzati alle stelle, e in sottofondo a tutto
ciò, uno Stato inesistente nel tutelare i cittadini più deboli,
anzi, sempre più in balia degli scandali, dei potentati e delle
lobby economiche – tanto valeva veramente unire le forze.
Già alcuni suoi amici vivevano insieme per dividersi le spese
dell’affitto o del mutuo di una casa, se volevano far avanzare i
soldi per fare la spesa, pagare gli altri mutui dell’auto e dei
mobili, le bollette, potersi permettere un viaggetto all’anno e
quant’altro era nella lista personale dei desideri di ciascuno.
Era un modo per sentirsi meno soli in un mondo che faceva
sempre più paura, nel quale lo spettro della povertà galoppava
a passi da gigante e bisognava mascherare l’ansia per il futuro.
Roberto continuava a contemplare sconsolato le sue
consumazioni, in quel venerdì di metà Marzo, in mezzo
all’andirivieni di gente sconosciuta e al chiacchiericcio
assordante. Non aveva fretta, solo continuava a martellargli in
testa l’idea che non poteva più tirarsi indietro con Giulia. E
finalmente capì: s’accorse che aveva paura. Non tanto che
andasse storto uno degli innumerevoli preparativi in cui si
trovavano affaccendati da due mesi a questa parte. Né delle
spese da dividere, delle rispettive abitudini da conciliare, del
loro tempo libero da gestire, degli amici da integrare nella loro
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nuova vita. No. Si trattava piuttosto di un senso di paura in
generale: paura di non essere all’altezza delle aspettative di
Giulia. Paura di essere fagocitato nel vortice impetuoso dei
suoi discorsi, dei suoi impegni. In ultima analisi: paura che
qualcosa andasse storto fra loro due, per colpa sua. Di
Roberto. Da qualche parte dentro di lui, una vocina gli diceva:
“Stai attento a quello che stai per fare!”.
Si alzò sentendosi appesantito, anche se aveva mangiato
solo il cheesburger più un frutto che si era portato da casa, e si
diresse stancamente verso il suo posto di lavoro. Ad ogni
passo la sua mente trovava da fantasticare su un’infinità di
cose: su tutte quelle di cui al momento non disponeva, ma che
avrebbe ardentemente voluto possedere. In certi casi la cura
migliore – sapeva – era pensare completamente ad altro.
Qualsiasi cosa, pur di non dover continuamente tornare col
pensiero a ciò che, lasciandogli spazio, avrebbe occupato da
solo tutta la testa.
L’aria che si respirava fuori dal centro commerciale era
mite e tiepida, come se il clima volesse far assaporare con
congruo anticipo il caldo tepore dei giorni più estivi.
Malgrado ciò, il cielo non risplendeva dell’azzurro intenso
tipico delle più belle giornate d’estate. Quel primo
pomeriggio, infatti, l’orizzonte era d’un grigio plumbeo,
tendente al cielo sbiadito di montagna quando sta per giungere
un acquazzone. Qualche folata di vento freddo s’infilava,
quasi per scherno, nel bel mezzo di quella giornata che
avrebbe potuto essere calda e primaverile.
Roberto si strinse nella sua giacca a vento, levando gli
occhi, ogni tanto, verso il manto cinereo del cielo. Un colpo di
vento lo colse di sorpresa e gli scompigliò malamente la
sciarpa.
Si avviò sempre lentamente, con l’aspetto sconsolato, verso
la grandiosa via Nomentana3. Il suo tragitto era più o meno
sempre lo stesso: doveva raggiungere, con le dovute
scorciatoie, la zona dell’Esquilino, a ridosso della stazione
ferroviaria di Roma Termini. Da lì infilava il lunghissimo
viale Pretoriano, lungo il quale sarebbe sbucato nel “Viale
3
Nel frattempo a Roma hanno fatto grandiose opere pubbliche, di cui la
ristrutturazione del Colosseo è la più celebre.
44
delle Scienze”, proprio nel cuore della Cittadella
Universitaria. Metà degli affari del suo negozio, infatti,
proveniva dagli studenti dell’Università. Gli piaceva lavorare
potendo contare, come clienti, sulle giovani promesse degli
studi umanistici e scientifici; non c’era da annoiarsi. Ma non
voleva neppure stare lì dentro in eterno.
Mentre si aggirava per il quartiere del Castro Pretorio (in
direzione del Tiburtino), e rimirava le splendide vestigia del
passato aureo di Roma disseminate ovunque gli capitava di
posare lo sguardo, coltivava nel suo cuore la speranza segreta
che, un giorno, avrebbe avuto anche lui un suo Mecenate che
l’avrebbe sollevato dalla squallida routine della vita di
negoziante.
D’un tratto si ricordò che quella mattina era giunto in
negozio un telegramma per lui. Il fatto era alquanto strano,
pensò. Ma non vi aveva dato peso: immaginò che si trattasse
di una qualche comunicazione dei suoi padroni di casa che
avevano mandato il telegramma al negozio, anziché al solito
indirizzo. Non aveva fatto in tempo ad aprirlo subito, e poi se
n’era dimenticato. Ma adesso gli venne in mente che poteva
essere di Claudio, il suo più caro amico d’infanzia. Era il solo,
infatti, a possedere l’indirizzo del negozio. Roberto si
rammentò di aver accennato al suo amico che di lì a poco
avrebbe cambiato appartamento. “Senza dubbio” disse tra se
“mi ha mandato una comunicazione urgente in negozio perché
ha paura che, nel caso io mi fossi già trasferito, il telegramma
potesse andare perso. Ma perché non mi ha telefonato,
allora?” rimuginava perplesso. “Non poteva domandarmi a
voce il nuovo indirizzo?”.
Fece qualche altro passo, frugando nelle tasche della giacca
a vento alla ricerca del telegramma. Strappò la busta e la aprì.
Quel che lesse lo lasciò a bocca aperta. Si fermò nel bel mezzo
del marciapiede, bloccando una comitiva di turisti dell’est
Europa, a giudicare dall’accento delle loro imprecazioni, che
procedeva ordinatamente in fila indiana dietro di lui.
Non aveva mai ricevuto un telegramma simile:
“Devi recarti in Viale dei Tigli, n. 3. Qui a Roma. Massimo
entro domenica. È una questione della massima importanza.
Segretezza assoluta, però. È in ballo una faccenda molto
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grossa. Fidati. Ciao, Claudio. Fammi sapere nel caso tu non
andassi.
P.S. Se mi cerchi sono a Mosca per questo week-end. Il mio
cellulare ce l’hai, anche se a volte non rispondo perché sono
tempestato di telefonate. Comunque vada, Auguri!”
Roberto era talmente sconcertato che si sedette a riflettere
su una panchina lì accanto, una di quelle panche di pietra lisce
e dure disseminate lungo i marciapiedi romani. Un sacco di
domande facevano a pugni nella sua testa per avere subito
risposta: “Cosa voleva dire Claudio con questo telegramma
incomprensibile? Perché non essere più chiari? Di che
faccenda si trattava?”
E poi su una cosa Claudio era stato limpidissimo: se
Roberto avesse provato a cercarlo, lui non si sarebbe fatto
trovare. Ma non aveva senso! Lui e Claudio erano come
fratelli: si erano sempre detti tutto. Roberto decise che se
qualcosa era in ballo, e Claudio voleva metterlo al corrente
seppure in quella maniera tanto astrusa, doveva essere
certamente qualcosa per cui il gioco valeva davvero la
candela. Roberto si fidava ciecamente del suo amico
carissimo. “È inutile pensarci su più di tanto” concluse tra sé,
“se Claudio sa qualcosa, è sicuramente qualcosa di bello, che
forse può giovarmi. Vedremo di che si tratta”.
Si alzò dalla panchina nel mentre arrivava l’autobus. Una
vecchietta credette che lui salisse, ma Roberto gli fece cenno
con la testa che non ne aveva l’intenzione. Si accomodò la
sciarpa che una bizzarra folata di vento gli aveva nuovamente
scompigliata, e si avviò spedito verso il negozio. Il
telegramma gli aveva riacceso la speranza di poter cambiare
lavoro. Si avviò leggero come una piuma trasportata veloce
dal vento.
46
V
Edoardo scese trafelato dal taxi.
Si era stupito di essere riuscito nell’ardua impresa di
attraversare senza intoppi il raccordo anulare e di aver trovato
tutti i semafori verdi sulla circonvallazione. Tutto ciò aveva
contribuito a risollevargli da terra il morale.
Saldato il conto con l’autista cacciò le chiavi nel
cancelletto di casa con trepidazione. La camicia che indossava
era tutta sudata per l’agitazione e la cravatta era diventata un
pezzo di stoffa sgualcita che gli pendeva dal collo.
Mentre girava la chiave nella serratura gli capitò di posare
l’occhio sull’auto scura che era parcheggiata qualche metro
più indietro sullo stesso lato del marciapiede. Si irrigidì tutto
d’un colpo; quasi gli mancò il respiro al vedere la targa
dell’auto. Poche lettere erano bastate a metterlo in agitazione,
un semplicissimo trigramma come SCV perché d’improvviso
sentisse quanto lui fosse fragile ed impotente. Non poteva
credere ai suoi occhi.
Aprì la porta di casa e in un attimo fu nello studio della
moglie. Laura stava dipingendo una natura morta. Appena lo
vide entrare posò i pennelli e si alzò per andargli incontro.
“Li hai visti? Sono lì fuori” gli domandò prendendogli
dalla mano la borsa con i libri di scuola ed il registro.
“Si, sì, li ho visti” rispose pensieroso. E si diresse in
cucina, dove la finestra dava sulla strada, a sbirciare da dietro
le tende.
“C’è qualcosa che non va?” lo rincorse Laura, accortasi
della faccia del marito.
Edoardo aveva assunto un’espressione strana. “A cosa stai
pensando?” gli chiese visibilmente preoccupata.
“Uhm, sto valutando una cosa…” di rimando lui, con l’aria
assorta.
“Guarda che ho fatto come hai detto tu. Ho tenuto i
poliziotti fuori di casa. Loro sono stati molto gentili e hanno
detto che avrebbero aspettato il tuo rientro per parlarti”. Laura
stava sforzandosi di interpretare l’atteggiamento scontroso di
suo marito, che da quando era entrato in casa era diventato
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irriconoscibile. “Ma cosa ti sta succedendo, Edoardo? Cosa
c’è da valutare?”
“No, niente. È che non dovremmo farli entrare. Perché non
mi hanno convocato direttamente in Questura se avevano
qualcosa da chiedermi, anziché venire loro qui? Non vedo il
motivo di tale disturbo: che dei poliziotti si accollino l’onere
di andare di persona a casa di un onesto cittadino per porgergli
delle domande. Non ha senso! Qualsiasi cosa sia, non trovi
che sia un po’ strano?” si girò verso la moglie che stava
seguendo attentamente ogni virgola del suo discorso. “Tanto
più che senza mandato di perquisizione non possono entrare!”.
“Ma cosa stai dicendo? Non ti capisco più! Perché non farli
entrare? Vuoi intralciare il corso di una ricerca non
rispondendo alle loro domande? Guarda di non metterti nei
guai rifiutando di collaborare con le forze dell’ordine” il tono
della moglie era diventato quasi supplichevole. “Non fare
nessuna pazzia, per favore!”.
Ma Edoardo perseverava nei suoi propositi, senza dar
troppo peso alle parole allarmate della moglie:
“Un piano, ecco cosa c’è da definire !” s’illuminò.
“Eh? Ma non hai nessun reato pendente, non sei andato
contro la legge, a cosa ti serve un piano?” arrancò Laura dietro
i ragionamenti del marito, sempre più stupita e incapace di
comprendere. “Non vorrai per caso mentire ai poliziotti, vero?
Non si può architettare una trama a proprio piacimento!”.
“No, non sto architettando niente; anche se lo farei se
potessi. Maledizione!” esclamò, con l’occhio indagatore
puntato sulla finestra per spiare le mosse di quegli ospiti
inattesi: “Non c’è più tempo, stanno già scendendo dalla
macchina!”.
“Sentiamo cosa hanno da dirci, almeno. Che male possono
farci?”
“Che male possono farci, dici ?!”.
Edoardo si voltò verso di lei, afferrandola per le spalle. Per
una frazione di secondo scrutò il viso angosciato della moglie,
che domandava ardentemente di capire, di essere messa al
corrente della motivazione di tutti quegli strani,
incomprensibili farfugliamenti del marito. Alla fine le sue
labbra si dischiusero nella spiegazione tanto sospirata:
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“Ascolta” disse con voce ferma e decisa “lascia sempre
parlare me. Quelli non sono due poliziotti. Sono due agenti in
borghese che vengono dal Vaticano e probabilmente hanno
qualche messaggio per me. Capisci adesso perché ero
preoccupato? Sono passati dieci anni. Ormai avevo
dimenticato tutto e mi ero messo il cuore in pace”.
Per Laura fu come ritornare con la memoria ad un passato
lontanissimo, che solo pochi istanti prima era sepolto nella sua
coscienza come fosse appartenuto ad una vita precedente.
Dopo tanti anni si sentiva estranea alle vicende della vita di
suo marito accadute prima che si sposassero, sebbene lei ne
fosse al corrente per intero, o almeno così pensava. In effetti
qualche volta le era venuto il sospetto che Edoardo non le
avesse raccontato proprio tutto; ma quei dubbi erano come dei
piccoli flash, lampi fugaci che si perdono nel buio della notte.
“Non temere. Vedrai che andrà tutto bene” disse Laura.
Dopodiché riuscì solo ad abbracciarlo forte.
In quel momento suonarono il campanello.
Edoardo diede di nuovo un’occhiata alla finestra della
cucina prima di dirigersi verso l’ingresso ed aprire. Capì che
non poteva tirarsi indietro. Aveva soppesato attentamente tutte
le possibilità a sua disposizione, ma le aveva pure scartate
tutte.
Fuori le nuvole si stavano addensando e il cielo stava
assumendo un aspetto minaccioso; di lì a poco avrebbe
piovuto.
Aprì la porta e una sferzata di aria fredda lo investì in pieno
viso. Due uomini in completo scuro si trovavano ora di fronte
a lui. Potevano avere su per giù trentacinque anni. Uno era
abbastanza stempiato, con occhiali dalla montatura dorata
finissima che gli conferivano un aspetto onesto e rispettabile.
L’altro era un tipo moro, alto, slanciato, con una valigetta blu
in mano; di primo acchito faceva pensare che fra i due lui era
la mente. Nemmeno lui, tuttavia, sembrava troppo pericoloso.
“Buongiorno. Lei è il signor Righetti?” disse quello dei due
con gli occhiali.
“Sì, sono io. Con chi ho il piacere di parlare?”
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“Mi chiamo Kreutz, e questo è il mio collega Wassen.
Penso che lei s’immagini chi siamo; ecco i nostri tesserini di
riconoscimento”.
L’uomo con gli occhiali allungò due documenti con
impresso lo stemma del Vaticano. Per Edoardo non ci sarebbe
stato nemmeno bisogno di aprirli talmente conosceva bene
quel tipo di documento. Ad ogni modo li prese e li aprì. I nomi
corrispondevano. Lesse che erano di nazionalità svizzera.
“Accomodatevi pure” fece segno Edoardo subito dopo aver
restituito i documenti. “È meglio non farci sorprendere
dall’acqua”, e fattili entrare li guidò lungo il corridoio
d’ingresso.
I Righetti abitavano in una vecchia villa di stile liberty
disposta su due piani. L’avevano ereditata dalla nonna di
Laura, una volta che lei era passata a miglior vita alla bellezza
di centouno anni. Avevano cominciato con le ristrutturazioni
più importanti, come rifare i due bagni e la cucina, e di anno
in anno avevano proseguito cercando di renderla il più
confortevole possibile. Visto che non avevano figli, Laura
aveva adibito quella che avrebbe dovuto fungere da stanza dei
bambini a studio personale, per il suo lavoro di pittrice. Aveva
raggiunto notorietà nell’ambiente romano, e non solo in
quello, visto che ora stava progettando una mostra a Milano e
aveva per le mani varie proposte di compratori stranieri.
Edoardo condusse i due ospiti nel salotto messo a nuovo
dopo la recente ritinteggiatura. I muri odoravano ancora di
vernice fresca.
Laura aveva insistito per cambiare la disposizione dei
mobili, in modo da rendere i suoi quadri maggiormente
visibili; ora nella stanza dominava una solida tela raffigurante
un paesaggio autunnale: con i suoi colori intensi e brillanti era
talmente suggestivo da dare l’impressione di essere stato posto
lì per dare il benvenuto agli ospiti.
I visitatori si sedettero sui due divani color crema disposti
ad angolo attorno ad un tavolino basso e trasparente su cui
erano posati vari soprammobili.
“Lei e sua moglie avete una bellissima casa” esordì l’uomo
con gli occhiali appena si fu seduto. “Accogliente e spaziosa. I
quadri poi sono splendidi. Vivi, direi. Se avessero voce
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persuaderebbero chi li contempla che queste pareti sono
illusorie, e che la natura con i suoi paesaggi d’incanto aspetta
e attira il visitatore dietro il sottile strato di muro”.
“Sì, mia moglie è un’ottima pittrice” rispose Edoardo
stringendo la mano di Laura, seduta al suo fianco. “Posso
offrirvi qualcosa?”
“No, grazie. Non vogliamo abusare del suo tempo e della
sua gentilezza, professore” continuò l’uomo. “Vengo subito al
dunque”. Si fece dare la valigetta dal suo collega e ne estrasse
una lettera che porse prontamente ad Edoardo. “Ecco,
dovrebbe fare la cortesia di leggere questa lettera,
innanzitutto”.
Edoardo si alzò per prendere la lettera dalla mano
dell’uomo che gliela porgeva, e fece qualche passo verso la
scrivania sull’altro lato della stanza per prendere il tagliacarte.
Osservò che proveniva dall’Ufficio Affari Esteri del Vaticano.
Una volta aperta, lesse ad alta voce lo scarno contenuto, a
prima vista redatto di pugno da una mano sapiente e delicata.
La calligrafia appariva uno snodarsi preciso e rassicurante di
lettere tracciate con una leggera inclinazione verso destra; nel
loro complesso i solchi delle lettere facevano pensare a dei
fiumi o a delle montagnette digradanti dolcemente nel mare,
perché la vocale finale della parola era tracciata sempre con
energia, prolungando la linea finale della parola.
“Egregio prof. Righetti,
è con la più viva e profonda fiducia nelle sue doti e
capacità, che per altro ha già avuto modo di dimostrare
ampiamente, che la preghiamo di rendersi disponibile per la
traduzione della “Lettera di San Paolo apostolo ai
Laodicesi”.
La Lettera in questione è frutto di una scoperta
recentissima: non serve che le dica il valore inestimabile di un
documento simile; anche se non è possibile parlare di testo
rivelato o ispirato, perché come lei ben sa l’elenco dei testi
sacri che rientrano nel Canone Ecclesiastico è stato definito
dal Concilio di Nicea, tuttavia siamo quasi certi nel riferirle
che ci troviamo di fronte ad un testo sicuramente “pio” o
“devozionale”, che rispecchia le caratteristiche della
predicazione paolina. Per i motivi che le verranno spiegati
51
“de visu” dai nostri inviati, non è stata ancora divulgata in
pubblico la notizia del ritrovamento. I nostri inviati sono
incaricati di fornirle, sempre a voce, ulteriori dettagli e
chiarimenti. Altre informazioni perverranno in seguito, nel
caso lei accetti di lavorare all’incarico offertole, offrendoci
così il regalo gradito della sua cortese e preziosa
collaborazione.
Joseph Card. Mac Collough, Ufficio Affari Esteri, Città del
Vaticano, addì 14 Marzo c.m.”.
Appena Edoardo ebbe finito di leggere la lettera,
intervenne l’uomo che fino a quel momento era rimasto in
silenzio: “Suppongo che lei desideri una spiegazione più
dettagliata, professore”.
Edoardo annuì stupito.
“La situazione è questa: circa un anno fa presso una chiesa
rupestre in Turchia è stato rinvenuto un antichissimo codice; a
detta degli archeologi che finora l’hanno preso in esame
risalirebbe ad un periodo databile prima del X secolo d.C.; con
ogni probabilità era indirizzato ad una delle prime comunità
cristiane.
Per il buono stato in cui si trova il manoscritto la portata
della scoperta è paragonabile a quanto avvenuto con i rotoli di
Qumran, pervenuti nelle grotte ubicate vicino al Mar Rosso il
secolo scorso. Sappiamo tutti che solo in presenza di un
ambiente assolutamente privo d’aria, ad esempio sotto la
sabbia, dentro grotte nascoste o in fessure praticate nella
roccia, la pergamena si mantiene quasi intatta.
Quello che è emerso, appena il manoscritto è stato tradotto
dal greco, è stato a dir poco strabiliante. Il manoscritto è
risultato essere una Lettera Apostolica, per la precisione la
Lettera di S. Paolo ai Laodicesi, che come lei saprà è stata
considerata perduta fin dai primi secoli della cristianità. Il
testo non lascia ombra di dubbio: nel saluto iniziale alla
comunità cristiana Paolo fa esplicita menzione del nome di
Laodicea, la città in cui si trovava questa prima comunità, alla
quale era indirizzata la Lettera. Anche la traduzione dell’intera
Lettera, poi, confermerebbe l’attribuzione che è stata fatta. Ci
sono altri precisi riferimenti al nome dell’antica città dell’Asia
Minore e ai suoi abitanti, e a ciò si aggiunge che vengono
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citate anche le comunità contemporanee di Tessalonica, Efeso
e Corinto. Mi creda, professore, questa Lettera è stata studiata
e ristudiata più volte. Una commissione composta da teologi
biblisti che vantano la più grande esperienza nel settore e da
archeologi specializzati in papirologia l’ha scrutata e
sviscerata centimetro per centimetro. E badi bene, si tratta di
due rotoli di pergamena. Quest’équipe è stata nominata
appositamente dalla Segreteria di Stato, con il beneplacito del
Santo Padre. Alla quasi unanimità la commissione ha ritenuto
che il manoscritto ritrovato si possa considerare autentico. Ha
qualche domanda, a questo punto, professore?”.
“Sì” disse Edoardo con calma. “Posso anche credere che il
ritrovamento sia autentico. In effetti la questione
dell’esistenza di un'ipotetica Lettera indirizzata ai Laodicesi è
una diatriba di vecchia data: nel capitolo 4° della Lettera di S.
Paolo ai Colossesi l’apostolo fa cenno4ad una lettera che lui
stesso avrebbe inviato alla comunità di Laodicea e che poi
sarebbe dovuta arrivare fino alla città di Colossi, perché anche
questa comunità cristiana ne trovasse edificazione spirituale.
Ma essa non è mai pervenuta fino a noi, perciò si è creduto
che fosse andata perduta, o che addirittura si trattasse, più
semplicemente, di una lettera giuntaci sotto un altro nome.
Eppure c’è una cosa che non capisco. A sentire il vostro
resoconto, va tutto bene. Allora, qual è il problema, se siete
venuti fin qui per domandare il mio aiuto?”. Scrutava i due
agenti del Vaticano come volesse leggere con gli occhi nei
loro cervelli.
“Lei ha ragione, professore. Un problema c’è” intervenne
l’altro dei due, quello più alto e moro. “Ci sono dei punti
oscuri nel testo. E questa è la questione più difficile:
interpretare certe frasi sibilline”.
“Frasi sibilline? Quando mai un apostolo ha usato frasi
sibilline per predicare ad una comunità cristiana?” obbiettò
Edoardo.
“Queste frasi sibilline, chiamiamole così, non sono nel
testo dell’apostolo. Sono note a margine della pergamena,
4
Colossesi 4, 16: “E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che
venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi, e anche voi leggete quella
inviata ai Laodicesi”.
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proprio sul bordo, come se qualcuno avesse voluto annotare
qualcosa. Noi abbiamo fatto l’ipotesi che queste note siano
state poste a margine dalla comunità stessa di Laodicea,
mentre la Lettera veniva letta e commentata all’interno di una
celebrazione eucaristica; magari sono note di qualche
presbitero o del Vescovo della città, appunti che si era fatto
per ricordare gli argomenti da trattare nell’omelia, insieme alle
ammonizioni da fornire, ai consigli da elargire e alle
disapprovazioni da distribuire. Poi nel viaggio di questa lettera
verso la città di Colossi, come aveva lasciato intendere di fare
l’apostolo Paolo, la Lettera è andata perduta”.
“E da quando in qua un Vescovo che deve fare un’omelia
si scrive a margine della Lettera da commentare delle note
assurde e incomprensibili? Stiamo parlando delle prime
comunità cristiane, perbacco! Della Chiesa! Dubito fortemente
che un ipotetico Vescovo del IV° o V° secolo d.C. scrivesse
delle note su un testo apostolico!”.
“È per questo che siamo venuti da lei” ammise a
malincuore. “La commissione di esperti ha valutato
l’autenticità della Lettera, ma non ha saputo risolvere la
questione delle note a margine. Ha azzardato anche un'altra
ipotesi, più realistica. È possibile che la Lettera sia giunta a
Colossi e che da lì, poi, sia andata perduta. Che qualcuno
l’abbia ritrovata dopo un certo tempo, magari quando già le
comunità cristiane in Asia Minore stavano sparendo, e usata
come pezzo di papiro per redigere degli appunti personali;
come è avvenuto all’incirca per l’assai noto manoscritto
custodito nella Biblioteca Civica di Verona: il cosiddetto
manoscritto dell’ “indovinello veronese”, che è alle
fondamenta della lingua italiana. Tutti gli studenti lo
conoscono. È un foglio di pergamena scritto in latino, un atto
notarile; ma sul cui bordo l’amanuense che redasse il
documento, chissà se per facezia o per noia, riportò dei segni
grafici, delle lettere, assolutamente di basso profilo, un
indovinello per l’appunto. Fu un colpo di genio: perché
l’autore ignoto ci lasciò, così facendo, le prime tracce della
formazione del “volgare”, la lingua italiana così come si
costituì staccandosi progressivamente dal latino”.
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Edoardo annuì. Era visibilmente eccitato dal mistero che si
apriva inaspettatamente davanti ai suoi occhi, ma provava un
misto di risentimento e insieme di rammarico al pensiero che
fossero venuti a cercarlo dopo tutti quegli anni. Non era un
sentimento ben definito: alla rabbia per il sentirsi di nuovo
“incastrato” si sommava il suo orgoglio personale che gli
insinuava di essere indispensabile per la missione; una punta
di nostalgia per i successi che aveva riscosso in gioventù
addolciva la tristezza del ricordo dei fatti che erano seguiti. E
da ultimo, anche se non meno importante, si aggiungeva il
fatto di essere sposato. Non se la sentiva di lasciare sola la
moglie per seguire le vicende di uno sbrindellato papiro che
l’avrebbe fatto stare lontano da casa forse per mesi.
“Cosa vi aspettate che faccia?” domandò Edoardo dibattuto
tra la voglia di rifiutare l’intera faccenda e il sincero desiderio
di saperne di più.
“Noi siamo venuti qui per spiegarle i risvolti del lavoro di
traduzione di queste strane note a fianco della Lettera ai
Laodicesi. Se lei accetta, dirigerà la nuova équipe di esperti
chiamati a studiare a fondo queste difficili note, che per ora
restano un enigma. Vede, a noi è stato dato l’incarico di
portarle con la massima segretezza e tempestività il
telegramma che ora tiene in mano. Le abbiamo riferito
fedelmente il quadro della situazione fino ad oggi. È evidente
che solo se accettasse di prendersi in carico la traduzione delle
note, insieme alle altre persone incaricate, sarebbe possibile
rivelarle di più. Ma allora, soltanto allora. Per il momento non
ci è consentito di esporle altro, eccetto il fedele resoconto del
ritrovamento che le abbiamo riportato”.
“Naturalmente, immagino non dovrò fare parola con
nessuno, sia che accetti sia che rifiuti l’incarico”.
“Mi duole dirlo, ma dovremo farle firmare un documento
in cui lei ammette di essere al corrente di informazioni
riservate, e con il quale si impegna a non rivelarle a nessuno,
eccetto i suoi colleghi di lavoro” rispose sempre lo stesso
uomo.
“Divertente! Potrei sapere quali sono gli altri componenti
dell’équipe?”
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“Saranno loro stessi a mettersi direttamente in contatto con
lei, tempo uno o due giorni al massimo”.
“Come credete che possa accettare un lavoro simile, senza
conoscere chi sono i miei collaboratori?”
“I collaboratori non la riguardano. Mi spiace, queste sono
le direttive. D’altronde l’équipe è stata scelta dal Cardinale
Mac Collough; lei deve solo svolgere la funzione di dirigerla.
Ma i membri sono già stati decisi”.
“E non potete dirmi nient’altro?”
“Nient’altro”.
“Loro sono a conoscenza della natura della missione? Di
tutte le informazioni che mi avete appena rivelato?”.
“No. Per ragioni di sicurezza queste informazioni vanno
mantenute il più possibile riservate. Perciò sarà lei a dover
introdurre la questione ai membri dell’equipe, la prima volta
che v’incontrerete”.
“Devo raccontare tutto quello che mi avete detto?”.
“Solo quello che riterrà opportuno. Come primo incontro,
immagino si tratterrà di un preliminare”.
“Torno a ripetere: come pretendete che vi possa offrire il
mio aiuto se mi fate conoscere a malapena le coordinate
iniziali di tutta questa storia?” insistette Edoardo.
“Senta, noi le abbiamo riferito tutto il possibile. Come vede
il Vaticano le offre fiducia, e nutre speranza nella sua
intelligenza, nella sua preparazione, nel suo spirito rigoroso.
Ma non è nostra intenzione convincerla a forza a collaborare
al progetto”.
“Diciamo che sono propenso ad accettare, allora”.
Guardò Laura che appariva tranquilla. Fece un cenno del
capo come per acconsentire alla decisione del marito.
“Datemi del tempo per decidere però. Questa è la mia unica
richiesta e la sola condizione che pongo. Voglio prima
conoscere i miei collaboratori. E devo anche discutere con mia
moglie di questo progetto. Voi mi capite, vero?”.
“Dovremo consultarci con il nostro superiore, in questo
caso” spiegò il funzionario del Vaticano, visibilmente
dispiaciuto del prolungarsi della discussione. “D’altronde mi
rendo perfettamente conto che lei ora, professore, ha una
famiglia; non può decidere così, su due piedi. Siamo stati un
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tantino ingenui nel pensare che avrebbe acconsentito subito
alle nostre richieste…”. Per la prima volta Wassen era
imbarazzato. Ma si riprese in un attimo: “Mi permette di fare
una telefonata?” chiese a Edoardo. Ed estrasse dalla valigetta
blu un cellulare.
Edoardo lo accompagnò in corridoio perché il funzionario
avesse più privacy. Nel frattempo l’altro dei due, quello con la
sottile montatura d’oro, Kreutz, rimase nel salotto a
conversare con i padroni di casa. Trascorsi cinque minuti, che
a Edoardo parvero interminabili, Wassen ricomparve in
salotto visibilmente soddisfatto. “Il Cardinale Mac Collough
acconsente ad una proroga di 72 ore. E’ un uomo veramente
gentile e disponibile. In effetti, non eravamo al corrente che
lei si fosse sposato, professore. Da quando ha lasciato
l’insegnamento all’Università, lei capisce, non abbiamo più
seguito le sue vicende personali. Siamo rammaricati di questa
“svista”. Ma ora siamo contenti che le cose si siano aggiustate
nel migliore dei modi” spiegò tranquillamente. “Allora,
ripasseremo lunedì alle 13.00. Le va bene?” domandò infine.
“Benissimo”. Edoardo sorrise compiaciuto. Era riuscito nel
suo intento.
A questo punto Kreutz si alzò con l’intenzione di
congerdarsi; si avvicinò a Wassen che era rimasto in piedi,
accanto alla porta.
“Ci rivediamo lunedì, professore. Spero che accetterà
l’invito del Cardinale Mac Collough a lavorare al progetto”
disse Kreutz. Aveva esordito lui con le presentazioni all’inizio
dell’incontro, adesso pareva voler essere sempre lui a porgere
il commiato. Fra Kreutz e Wassen però, Kreutz era proprio
quello che non mostrava troppa convinzione sul fatto che
Edoardo avrebbe accettato l’offerta di lavoro. Sembrava
mettere in conto un possibile diniego. Invece Wassen no: era
più rilassato e fiducioso. Costui strinse forte la mano ad
Edoardo, prima di lasciarsi. Mentre Kreutz, fatto appena un
cenno di saluto col capo, uscì nell’aria gelida mentre
goccioloni d’acqua cominciavano a bagnargli gli occhiali sul
viso.
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Tornato in salotto, Edoardo sprofondò su un cuscino del
divano con l’intenzione di concentrarsi ulteriormente su tutto
quello che le sue orecchie avevano sentito e i suoi occhi
avevano visto.
“Dunque siete in sette?” commentò Laura.
“Così hanno detto. E i primi dovrebbero già mettersi in
contatto con me questa sera o tutt’al più domani”. Edoardo
non si capacitava di come delle normalissime persone
potessero riuscire a lasciare casa, lavoro e famiglia per
imbarcarsi in un progetto che gli sembrava fare acqua da tutte
le parti. Non che non fosse interessante. Anzi, il progetto così
esposto era molto importante. L’esistenza o meno della
Lettera ai Laodicesi era un autentico rebus irrisolto per i
teologi fino a quel momento. Ma gli pareva che il progetto
non fosse condotto con il necessario rigore scientifico.
“Che ne dici? C’è da credere a quello che ci hanno
raccontato? Ti fidi di loro?” insistè lei dubbiosa.
“Uhm, il codice l’avranno scoperto sicuramente alcuni anni
fa. Non succede che degli archeologi o chi per essi trovino un
giorno un antichissimo reperto e così, di punto in bianco e in
pochissimo tempo, lo facciano arrivare allo studioso
competente perché ne esamini il valore” cominciò a riflettere
ad alta voce Edoardo. “Intanto c’è tutta la burocrazia vaticana:
un mare di uffici, protocolli, monsignori e vescovi per i quali
il suddetto reperto deve passare fino ad arrivare all’ufficio
competente. E poi c’è un altro problema: come si sono
comportate le autorità turche, visto che l’oggetto in questione
è stato rinvenuto in Turchia; insomma, bisognerebbe sapere
quanti giri ha fatto il nostro manoscritto”.
“Ma i due inviati del Vaticano non ti hanno detto che è
stato ritrovato solo un anno fa?” gli obbiettò Laura.
“Sì, le orecchie le ho anch’io, Laura. Ho sentito quello che
dicevano. Ma sai: “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”. Per
quel che ne so, è troppo poco un anno di tempo per eseguire
sul manoscritto un intero lavoro di traduzione del testo, di
pulitura e analisi biochimica del rotolo di papiro, insieme a
tutti gli altri esami che la prima commissione di lavoro avrà
ritenuto necessario effettuare”.
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“Senza contare, a dire il vero, che non ci hanno mostrato
nemmeno una foto di questi presunti importantissimi papiri.
Non ti sembra strano? Che ci sia qualcosa che non va?”
azzardò Laura.
“Sì, è vero. Anch’io me ne sono accorto. Penso sia dovuto
al fatto che non sapevano se avrei accettato di collaborare con
loro. Perché vedi, cara” e qui Edoardo si alzò dal divano e le si
mise davanti. “Perché qui si tratta di sapere, e questa è
veramente la cosa più importante, perché sono venuti da me,
ora” e scandì in modo solenne e perentorio le ultime due
parole.
“Come, pensi che prima di venire da te abbiano provato ad
interpellare qualcun altro?” gli domandò Laura, quasi offesa
per quello che il marito aveva inteso dire. Eh sì, perché
Edoardo Righetti – quarantasei anni compiuti – un tempo era
stato un brillantissimo e giovanissimo docente di Patristica
all’università Gregoriana di Roma. Era ormai acqua passata
per lui, e davvero tanta ne aveva lasciata scorrere via per
dimenticare quel periodo. Fatti accaduti in un remoto passato
che ora, nella nuova veste di professore di religione, si
sforzava di far passare in sordina. Non voleva che si sapesse
in giro che lui, tempo addietro, era stato un'altra persona. Che
studenti e docenti lo avevano rispettato alla stregua di un
luminare, lo avevano guardato dal basso in alto intimoriti, lo
avevano invitato ovunque c’era odore di dibattiti culturali
eruditi… Eppure dentro di lui il ricordo di quel periodo fin
troppo felice e ricco di ambiziosi progetti e di strepitose idee
era ancora vivo; a volte la nostalgia gli bruciava come una
ferita aperta bagnata dall’acqua salmastra del mare, allora
Edoardo proteggeva ancora di più quel ricordo, lo riponeva in
un cantuccio segretissimo del suo animo e stava lì, quieto ma
non addormentato, come la brace sotto la cenere.
Ora, a quarantasei anni, il suo passato era tornato
prepotentemente a bussare alla porta. Lo aspettava al varco
una decisione difficile da prendere.
“A volte dobbiamo fare i conti col nostro passato, anche se
di malavoglia” affermò a voce alta Edoardo di fronte alla
moglie che lo guardava attonita. “Capisci che ci deve essere
un motivo se sono venuti fin qui a cercarmi? Dopo tutti questi
59
anni, proprio ora si ricordano che esisto?!” sbottò spazientito.
“Ti ricordi perché mi fecero quelle enormi pressioni per
lasciare la cattedra di Patristica?”.
“Mi hai sempre detto che fu perché il progetto che stavi
portando avanti non venne più riconfermato dopo la nomina
del nuovo Rettore. Dicevi che non gli piacevano le tue
ricerche. In più” e qui Laura si addolcì al ricordo “ci
dovevamo sposare. Così il nuovo rettore ti chiese, in
mancanza di un finanziamento per mezzo del quale tu potessi
lavorare, di lasciare vacante la tua cattedra fin tanto che non si
fosse ripresentata la possibilità di reperire nuovi investimenti
per la ricerca universitaria che ti riguardava. Peccato che non
se ne fece più niente di quella specie di promessa, e tu venisti
praticamente messo da parte, liquidato come un ferro vecchio
che si butta via. Salvo poi, all’inizio del nuovo anno
accademico, quando tu ormai avevi già presento la tua lettera
di dimissioni e questa era già stata accettata dal Rettore,
trovare miracolosamente i fondi per coprire le spese della
ricerca. Purtroppo la cattedra venne affidata ad un pupillo di
fiducia del nuovo Rettore, che portava avanti per suo conto
altri studi giudicati più interessanti e maggiormente proficui
da promuovere”. Laura si accalorava ancora quando le
capitava di riassumere questi fatti.
“Già, l’unico rammarico a proposito di quegli anni è
l’essere stato troppo ingenuo. Troppo accondiscendente con il
Rettore e con il Senato accademico. Ero sicuro di essere ormai
arrivato ad una posizione di rilievo, sicura, stabile, che
nessuno avrebbe potuto togliermi o portarmi via. Mi ritenevo
una celebrità nel mio campo: chi mai si sarebbe sognato di
intralciarmi il lavoro?” sospirò amaramente Edoardo, “e ti
ricordi perché al Rettore non piacevano le mie ricerche?” la
incalzò. Negli occhi neri gli ardeva il guizzo di una segreta
intuizione, come due gemme di rubini rilucenti sul fosco
sfondo di una notte tempestosa.
Laura si sforzò di tornare con la mente a quel periodo in cui
lei e il marito si erano conosciuti e fidanzati: “Dunque…
fammi riflettere, avevano fatto scalpore alcune notizie sui
giornali…” all’improvviso le tornò la memoria di quei fatti
lontani, e la sua espressione si colorì di colpo “Sì, ora ricordo:
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vent’anni fa venne pubblicato un saggio filosofico di un tuo
conoscente, faceva lo scrittore se non sbaglio…”. Edoardo si
atteggiò in un’espressione di compiacimento mentre la moglie
continuava sull’onda dei ricordi: “Chissà per quale motivo
fosti tirato in ballo anche tu nelle diverse recensioni
dell’opera… l’abbinamento del tuo nome con quello dello
scrittore non piacque all’interno degli ambienti più formali
della Gregoriana, rigorosa e ortodossa fin nel midollo, e ciò
suscitò un vespaio di polemiche. Ma io so che cessarono, ad
un certo punto, tutte quelle dicerie pretestuose e antipatiche su
di te e sul tuo “amico”; a sentire le voci ingiuriose, avreste
scritto assieme il saggio, e così via… Non erano tutte un
mucchio di stupidaggini?”
“Lo erano. Ma valsero a mettere in guardia il nuovo
Rettore su di me, e a convincere il Senato accademico che un
insegnante troppo giovane, eccentrico, baciato dal successo
repentino della sua buona stella, non poteva meritare tutti gli
onori che, senza pensarci troppo, gli erano stati tributati. In
pratica: un insegnante ancora inesperto “di mondo”, che
poteva essere fuorviato anche dai suoi amici più fidati. Non
serve che ti dica che quell’insegnante, così bene tratteggiato
dai discorsi del rettore, ero io”.
“Perché adesso, allora, gli agenti del Vaticano sono tornati
per proporti di lavorare con loro? Non è sempre lo stesso
ambiente?” domandò Laura.
“La Gregoriana è una cosa, i Dicasteri Pontifici un’altra. La
prima è un’università, la quale è libera di gestirsi in piena
autonomia, secondo i propri organi decisionali interni. I
secondi, come l’Ufficio Affari Esteri ad esempio, fanno capo
più direttamente al Santo Padre, anche se con tutta un’
articolata rete burocratica. Questa volta è lo stretto entourage
del pontefice che mi sollecita a collaborare. Qualcuno si è
ricordato di me, anche se sono passati vent’anni”.
“Che vuoi fare?”.
“Se è davvero una cosa importante, lo capirò. Per il
momento non farò niente di niente. Lascio che le cose vadano
avanti da sole, come devono andare. Io aspetto. Aspetto chi
dovrà mettersi in contatto con me”.
61
VI
Giulia salì in fretta le scale che la conducevano al reparto
di terapia intensiva del Policlinico Umberto I dove lavorava.
Si era legata i capelli a coda di cavallo senza nemmeno
guardarsi allo specchio perché, come da due settimane a
quella parte le sue colleghe non dimenticavano di farle notare,
era perennemente in ritardo sull’orario di lavoro.
“Guarda che non ti posso coprire in eterno” la
rimproverava Maria, la sua fedelissima collega nonché
migliore amica, “prima o poi mi scopriranno e saranno guai
per tutte e due” le ripeteva in continuazione.
Giulia sapeva che la sua amica aveva paura che qualcuno
scoprisse il loro piccolo imbroglio: era Maria infatti a timbrare
il cartellino di Giulia ormai regolarmente da quindici giorni,
nonostante fosse fatto strettissimo divieto di timbrarsi i
cartellini a vicenda. Ma Giulia aveva trovato il modo di
nasconderlo nell’armadietto della sua amica, di cui possedeva
le chiavi, e nessuno si era accorto del loro segreto scambio. E
la fortuna le assisteva: per tutto il mese le due amiche
avrebbero osservato gli stessi turni di lavoro.
Giulia si domandava in che modo riusciva a non arrivare
mai puntuale sull’orario di lavoro. Se lo chiedeva ogni volta
che saliva di corsa le scale o prendeva l’ascensore per fare
ancora più in fretta, e pur tuttavia non riusciva a trovare una
risposta convincente. Per questo non si dava pace.
“Forse ho troppe cose a cui pensare” diceva fra sé,
amareggiata che tanto darsi pensiero per i suoi continui ritardi
non conducesse ad alcuna conclusione durevole. “Roberto ha
lasciato che organizzassi da sola tutte le faccende per la casa
nuova, così prima sono sempre stata trattenuta dalle agenzie
immobiliari per trovare l’appartamento in cui andare a vivere,
poi sono venute le corse ai vari mercatini dell’usato e ai centri
commerciali per arredarlo, e così via. Ora non ne posso
proprio più!” ammise sconsolata.
È vero che il suo ragazzo si era accollato la parte tecnica:
allacciamenti di luce, acqua e gas; poi la sistemazione di prese
elettriche, la tinteggiatura, l’attacco di mensole varie e dei
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lampadari. Giulia lo sapeva, ma li riteneva lavori da uomo che
– nella sua testa – era d’obbligo li realizzasse Roberto.
“Perdiana, il grosso l’ho fatto io, però!” pensava.
Considerò che tutta questa spesa energetica rubava un sacco di
tempo e di concentrazione alla sua normale routine di lavoro.
A volte le affiorava l’idea che Roberto non fosse poi così
convinto di andare a vivere con lei, ma scacciava
immediatamente questo pensiero perché non le sembrava
possibile. Lui non si era mai dimostrato contrario, anzi, la cosa
era tutta a suo vantaggio perché si sarebbe trovato ad abitare
di lì a poco in una casa più grande e più bella, con la garanzia
che avrebbero diviso equamente le spese. Lei si sarebbe
accollata l’affitto, lui cibo e bollette. Avevano fatto i conti più
di una volta e in modo molto meticoloso. Messe le cifre nero
su bianco, a lei era parsa l’idea migliore del mondo. E lui non
aveva trovato nulla da ridire.
Roberto era un uomo di poche parole: non si era perso in
elogi sperticati sulla laboriosità della sua ragazza. D’altro
canto lei aveva imparato dalle storie precedenti ad apprezzare
nei discorsi degli uomini la sostanza piuttosto che la forma, e
Roberto quasi ogni giorno dedicava le ore serali alla
sistemazione dell’appartamento e l’ultimo fine settimana
aveva tinteggiato tutte le pareti e grattato il vecchio comò da
mettere in camera. A conti fatti, per Giulia questo era segno
che lui ci teneva quanto lei alla loro nuova casa.
Arrivata in corsia considerò con una punta di rammarico
che il tempo per pensare era sempre meno di quello che si
sarebbe voluta concedere. Il lavoro l’attendeva puntuale come
un’incombenza impossibile da rimandare ulteriormente.
All’improvviso si sentì toccare la schiena. Giulia si girò di
scatto. Maria, la collega soccorritrice, le si era avvicinata.
Aveva la sua stessa anzianità di lavoro, dal momento che
erano entrate insieme cinque anni prima. Si erano conosciute
al corso di laurea per infermieri specializzati.
“Ciao Giulia, ben arrivata. Anche oggi ci attende la nostra
fatica quotidiana, vero?”.
“Grazie che non manchi di ricordarmelo, Maria” rispose.
Iniziò il suo giro. Quando varcò la soglia della prima
stanza, la numero trentuno, il paziente dormiva. “Accidenti” si
63
disse “dormono tutti a quest’ora! Dovrò svegliarlo per
prendergli la temperatura!”.
Non aveva tempo da perdere.
Stava per pronunciare ad alta voce la parola “sveglia!” e
battere le mani quando lesse sulla cartella clinica che il dottore
aveva prescritto proprio quella mattina di smettere il
trattamento con gli psicofarmaci. Non ne capiva il motivo. “È
troppo presto smettere adesso. Ripiomberà in una nuova crisi”
pensò. Guardò meglio la cartella, leggendo nel diario
giornaliero, e vide che, infatti, quella mattina non gli era stata
data nessuna pastiglia. L’unica cosa rimasta da fare era
prendergli la temperatura corporea.
Uscì velocemente dalla stanza e si diresse senza indugi
dalla sua collega. Maria si trovava in piedi, ferma al tavolo
della caposala. La condusse in disparte:
“Maria, senti. Lo sapevi che hanno tolto gli psicofarmaci al
numero trentuno? Eppure secondo me senza quelle medicine
ricadrà senz’altro nella forte depressione da diabete cronico,
quella in cui stava prima!”. Giulia ricordava che l’uomo era
già lì da tre settimane, ricoverato d’urgenza dopo essere stato
ad un passo dal coma diabetico. In più aveva avuto delle crisi
ipertensive, che i medici non sapevano del tutto spiegare:
arrivavano improvvise, a prima vista indipendentemente dal
diabete e dall’insulina che prendeva regolarmente per
prevenire la malattia. E per concludere si sapeva che era
affetto da una forte depressione. Lui stesso l’aveva spiegato al
dottore, una volta che lei era presente al turno di visita
mattutino.
“Sì, lo so. Penso che i medici vogliano valutare quanto sia
realmente depresso. Il suo stato d’animo ora viene alterato
dalle medicine che prende. Secondo me vogliono mandarlo a
casa, e devono sapere come resisterebbe ad una dose minore
di psicofarmaci”.
“Ma è presto per mandarlo a casa. Non hanno risolto il
problema della pressione. E non hanno fatto tutte le analisi che
dicevano di voler fare. Non capisco”.
“Se stessimo a protestare tutte le volte che dimettono un
paziente, non la finiremmo più! Lo sai anche tu quanto spesso
succede che i medici non risolvano mai del tutto le malattie
64
per cui uno viene ricoverato. Hai voglia, spiegare come
funziona il corpo umano!” esclamò la sua collega.
“Però rimango della mia idea. Non si butta fuori uno che è
stato ad un passo dal coma”.
La sua amica le si avvicinò, e a voce bassa le sussurrò:
“Lo ammetto. Anche per me non è del tutto chiaro. Ad ogni
modo ti posso dire che stamattina è stata qui la madre. Me
l’hanno raccontato. Ha parlato col dottore per quasi un’ora, e
poi mi è sembrato che fossero giunti ad un accordo. Alla fine
del loro colloquio, il dottore ha preso la cartella del numero
trentuno e ha levato gli psicofarmaci, come hai visto tu stessa.
Non riesco ad immaginare, però, cosa si siano detti”. Maria la
guardò allargando le braccia. Di più davvero non sapeva.
“Grazie, Maria. Vorrà dire che perderemo il paziente più
giovane e misterioso del reparto”.
Giulia si voltò per tornare a vedere se, nel frattempo, il
paziente della stanza numero trentuno si fosse svegliato.
Entrò nella stanza.
Era un giovane di circa trentacinque anni, di bell’aspetto,
che in quel momento stava continuando a dormire
placidamente; le mani erano distese lungo i fianchi e i ricci
biondi gli ricadevano sul cuscino. Non pareva assolutamente
ammalato. Lo osservò meglio e vide che indossava un
costosissimo pigiama di Valentino. Al polso aveva un
bracciale d’oro, e sempre d’oro era la collana che gli cingeva
dolcemente il collo. Dalla collana pendeva una medaglietta,
ma Giulia non vide cosa raffigurasse.
Sul comodino c’era un mazzo di fiori, una scatola di
cioccolatini e due romanzi di grido. “Le solite cose che hanno
tutti” pensò. Poi le cadde l’occhio sotto il cuscino: spuntava
un libriccino. Stette per un attimo a riflettere sul da farsi: si
sentiva spinta dalla curiosità a prenderlo per dargli
un’occhiata furtiva. D’altro canto qualcosa la tratteneva: una
sensazione di pericolo, come se si stesse intrufolando in
qualcosa a lei estraneo e vietato. Lo scrutò ancora una volta:
stava sempre dormendo, i tratti gentili del viso rilassati nel
sonno.
Alla fine prevalse la curiosità e si avvicinò pianissimo.
Sfilò il libriccino delicatamente da sotto il cuscino,
65
vergognandosi un poco per quello che stava facendo. Usò la
massima attenzione per non far alcun rumore. Lo prese e lo
sfogliò: era un libriccino piccolo, sottile e tutto sottolineato;
sembrava minuziosamente studiato. Poi guardò il titolo e
l’autore. Giulia rimase sorpresa, trattenne il fiato per una
frazione di secondo: l’autore era il paziente del letto numero
trentuno!
Ebbe subito un legittimo momento di smarrimento. Era
confusa. Contemplò nuovamente l’uomo che dormiva,
leggermente trasecolata. Dopodiché si rimise a sfogliarlo più
avidamente. Fu colpita dalla copertina: si trattava di una foto
scattata su qualche scogliera mediterranea. Il mare era
increspato e di un blu profondo; sopra le acque si stagliava un
cielo plumbeo. Da un lato una collina brulla e spoglia
digradava a strapiombo sul mare; l’unico elemento visibile era
una vecchia costruzione in mattoni abbandonata. Poteva
essere un’antica chiesa trasformata in un minareto, poi andato
in rovina, perché accanto alla consueta struttura che
somigliava ad un tempio classico col timpano – tipico delle
chiese cristiane – si ergeva accanto un’altra costruzione
cilindrica alta e sottile, proprio tipo una piccola torre.
Sempre più incuriosita e attratta dalla foto sulla copertina
rilesse il titolo: “Viaggio a Calcedonia” di Martin Fischer. In
copertina non c’era scritto nient’altro. E niente pure sul retro.
Sfogliò nuovamente le pagine, vergate con una difficile
calligrafia, minuta e stretta, che sembrava essere stata prodotta
da una penna stilografica. Si trattava di note a margine di ogni
pagina stampata. Non aveva ancora letto il testo, però. Giulia
pensò che si trattasse di un piccolo romanzetto, forse
autobiografico. Lo soppesò sulla mano e lo rigirò: non erano
nemmeno 100 pagine.
Lo aprì alla pagina iniziale e iniziò a leggere: “Per un
ebreo oggi è giunta l’ora del riscatto. Dopo i bui secoli in cui
il mio popolo ha vissuto relegato in oscuri ghetti per
l’orgoglioso disprezzo delle genti cristiane; dopo essere stato
emarginato e bollato ad imperitura memoria della più
infamante accusa possibile, quella di deicidio, questo popolo
fiero e coraggioso è risorto; è rinato più forte di prima. Si è
dedicato ai commerci e ai traffici, arricchendosi, pur senza
66
volerlo. I cristiani hanno lasciato che maneggiassimo noi il
tanto vituperato denaro: loro avevano troppa paura di
corrompersi e di dannarsi l’anima! Ma poi, quella stessa
gente arricchitasi grazie ai nostri commerci e alle nostre
banche, ci ha di nuovo sopraffatti. Nel XX secolo. La nuova
tragedia si è chiamata Olocausto, e seconda guerra mondiale.
Dovevamo morire tutti. Ma il Signore protegge il suo popolo e
l’ha salvato; così oggi esso è ancora vivo; anzi, combatte
vittorioso per rientrare in possesso della sua terra. Quella
terra che fin dalla notte dei tempi ci appartiene, a cominciare
dalle promesse fatte al nostro padre Abramo.
Io ebreo di Gerusalemme, rimasto orfano dei miei genitori
a causa della infame guerra dei palestinesi contro il mio
popolo, ho intrapreso questo viaggio verso le mie radici,
conscio che il mio è il popolo che per primo è stato benedetto
da Dio.
Ma è successo qualcosa che ha cambiato la storia. È
successo che ho scoperto che tutti i popoli sono stati benedetti
dallo stesso Dio…”
“Cosa sta leggendo?” l’uomo si era svegliato
all’improvviso e con un gesto brusco della mano aveva
strappato il libriccino a Giulia, mentre lei era ancora intenta
nella lettura.
Non si era accorta che lui aveva aperto gli occhi appena un
istante prima, e aveva allungato il braccio per riprendersi il
suo libro.
“Mi scusi, lo so che ho fatto una cosa che non dovevo fare.
Mi ha incuriosita la copertina… sono una grande lettrice di
romanzi, pensavo si trattasse di uno nuovo appena uscito nelle
librerie e che mi fosse sfuggito…”. Giulia cercò di imbastire
una scusa che suonasse credibile.
“La curiosità è femmina” sentenziò l’uomo con voce
severa, per nulla indulgente verso la spiegazione offerta
dall’infermiera. “Comunque non è un romanzo, non è mai
stato in libreria e non è leggibile da nessuno. Mi sono
spiegato?”.
“Sì, mi scusi tanto” ripeté Giulia arrossendo; si sentiva
colta in fallo. “In effetti aspettavo che lei si svegliasse per
prenderle la temperatura di oggi” cercò di cambiare
67
argomento e di riportare la conversazione sul piano
professionale.
“Naturalmente. Mi dia il termometro e poi esca di qui”.
L’uomo aveva sempre lo stesso tono di voce tra il seccato,
l’offeso e il burbero. Lei preferì non ribattere nulla: gli
consegnò il termometro e uscì dalla stanza. Una volta fuori,
tirò un sospiro di sollievo: non s’aspettava una freddezza
simile. D’accordo che un po’ matto e strano lo era, stando a
quello che le avevano riferito le sue colleghe, ma ora era
toccato proprio a lei sperimentare il caratteraccio di quello
strano tipo, e a ciò si aggiungeva quello che aveva letto.
Un senso di tristezza la colse inaspettatamente. Quel
Fischer tanto maleducato, che probabilmente aveva sofferto
non poco, e anzi, proprio a così tanto patire era imputabile il
suo pessimo comportamento, andava incontro ancora una
volta ad eventi sconfortanti. Appena fosse stato dimesso, con
ogni probabilità gli sarebbero sopraggiunte delle nuove crisi.
Lui non ne era a conoscenza, ma lei sì.
Scrollò la testa: l’intera situazione era più grande di lei.
Decise di non pensarci più perché non erano fatti suoi, e
mandò un’altra collega a prendere il termometro per la
registrazione della temperatura corporea.
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VII
La Mercedes di Benjamin era davvero confortevole. Da un
paio d’ore stavano viaggiando sull'autostrada diretti a Roma e
non avevano smesso un minuto di parlare. Grazia commentava
con dovizia di particolari tutti gli episodi del pomeriggio.
Benjamin, a sua volta, era un getto continuo di domande:
come l'avevano presa i colleghi, come se n'erano andati caporedattore e direttore, qual’era la nuova linea del giornale, quali
decisioni avrebbero dovuto prendere insieme e quali no.
“Ti trovo un tantino dispotica…” puntualizzò Benjamin,
fattosi serio perché Grazia era diventata più dura e pungente di
come la conosceva.
“Mi sento addosso una grande responsabilità, Benjamin. Tu
non hai le mie preoccupazioni: ti basta correre dietro a tutte le
idee che ti vengono in mente; e non stai certo a chiederti se
un’idea che piace a te, piacerà anche agli editori. No,
Benjamin, anche volessi non potrei mai comportarmi come te,
ora”.
“Tiri troppo in fretta le conclusioni. Né io né te sappiamo
come potrei comportarmi… non sono mai stato direttore!
Quando lo diventerò anch’io ti farò sapere. Allora vedremo se
ci hai visto giusto” ribattè ironico.
Ancora un po’ del tono acido di Grazia, e pure lui sarebbe
diventato secco e scontroso.
Ma Grazia non stette nemmeno ad ascoltarlo. Continuò
sull’onda dei pensieri: “Per giunta sono solo direttore
temporaneo”.
“Comunque direttore. A conti fatti sei tu che comandi,
no?”.
“Accidenti, penso di sì” sbuffò. “Però mi osservano! È
esasperante: ancora non so se ho già la loro fiducia, o se devo
conquistarmela. Vorrei tanto poter essere certa di azzeccare
sempre gli articoli e gli editoriali giusti per la linea del nostro
giornale…” ammise soprappensiero. “Speriamo di non star
facendo un’idiozia con questo viaggio a Roma”.
“Questa è bella! Ti sei dimenticata che me l’hai proposta tu
questa gita di lavoro?! Ti sei già pentita della decisione
presa?”
69
“No, certo che no. Non darmi retta, a volte penso ad alta
voce. A Roma otterremo informazioni fresche di prima mano,
vedrai” disse Grazia. Ma lo diceva più a sé stessa, come se
ammettere un buon esito del sopralluogo servisse più a
tranquillizzarla dalle sue paure, che a crederci veramente.
Quando furono le sette, si fermarono ad un autogrill nei
pressi di Bologna per mangiare.
Benjamin si allontanò dal tavolino su cui avevano
appoggiato le birre e i panini caldi con la scusa di andare alla
toilette. Ma appena uscito si precipitò alla cabina pubblica e
fece il numero del servizio informazioni gratuito del gestore
telefonico:
“Operatore numero 104. Buonasera”.
“Buonasera” rispose Benjamin. “Vorrei avere il numero di
telefono dell’abbonato che risiede all’indirizzo Via dei tigli, 3.
Roma” domandò con tono impassibile.
“Un attimo, attenda in linea” rispose l’operatore.
Benjamin sentiva che l’operatore stava battendo
velocemente i tasti sul suo terminale; ecco, adesso non gli
rimaneva che sperare di ricevere questo benedetto numero
telefonico, pensò.
Per fortuna l’operatore non si fece attendere troppo:
Benjamin annotò velocemente il numero sul suo taccuino in
pelle.
“Mi può dire il nome dell’abbonato?”.
“Attenda un altro attimo, per cortesia”.
Ci vollero pochi istanti di attesa questa volta perché subito
la voce disse:
“L’utente da lei cercato risponde al nome di Righetti
Edoardo”.
“Molte gra…”. Benjamin non fece in tempo a ringraziare
che l’operatore aveva già riagganciato.
Ottenuto ciò che si era prefissato, tornò dentro soddisfatto.
La mossa successiva sarebbe stata di arrivare in centro a
Roma entro le nove, anzi, possibilmente prima, perché così
avrebbe telefonato immediatamente a questo Edoardo
Righetti. Non voleva rimediare subito una magra figura
telefonandogli a sera inoltrata: poteva compromettere l’intero
compito cominciando così male. Del resto non poteva
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chiamare dal suo cellulare perché la telefonata sarebbe stata
registrata sulla scheda e non voleva lasciare nessuna traccia
che potesse far risalire al compito che Frank gli aveva
affidato. L’avrebbe chiamato da un telefono pubblico.
Ritornò da Grazia. Lei gli sorrise mentre lui si accingeva a
sorseggiare la birra:
“Hai qualche preferenza per l’albergo?” gli chiese.
Aveva per le mani la sua agendina su cui annotava tutti gli
alberghi in cui era stata; sfogliava le pagine alla ricerca di
qualche appunto su Roma.
“Dannazione, qui non trovo niente!” esclamò spazientita
mentre girava le pagine con una tale foga che quasi le staccava
“di solito è utile scrivere i posti dove mi fermo: serve a
rintracciarli subito in casi di emergenza come questo. Vuoi
vedere che ho sbagliato agendina, e ho lasciato a casa quella
giusta?”.
“Si vede che non è un caso di emergenza” la interruppe
Benjamin divertito.
“Non sto nemmeno ad ascoltarti” bofonchiò lei un po’
irritata “conosci qualche albergo in cui potremmo piazzarci?”
“Intendi un albergo che funga da nostro Quartier Generale
da dove annunciare un imminente colpo di stato da parte delle
frange ribelli del Parlamento?”
“Sì, esatto” e addentò un pezzo del suo panino con le
melanzane “e in cui tu fungerai da mio segretario, mentre io
scriverò un reportage da prima pagina”.
“Potremmo passare da un tipo che conosco molto bene”
fece Benjamin con nonchalance “forse potrebbe ospitarci lui
la prima notte e poi ci darebbe le indicazioni che ci servono
per un buon albergo; un’informazione da un romano è sempre
meglio di un appunto sulla tua agendina, tanto più che
un’agendina viola non mi ispira tanta fiducia”.
“E come si chiama questo tuo amico?” Grazia si
dimostrava interessata, mentre era occupata a mordere un altro
boccone del suo panino.
“Edoardo” le rispose cercando di stuzzicare la sua curiosità
“Edoardo Righetti. Non lo vedo da una vita, ma forse è
proprio l’uomo che ci serve. Mente fine, ha cultura, insomma
71
è un’intellettuale. Lui saprebbe farci una panoramica sulla
situazione politica attuale”.
Benjamin non poteva credere che fosse tutto così
enormemente semplice. Prima aveva scoperto la persona che
si celava dietro il misterioso telegramma di Frank, e ora stava
convincendo Grazia a presentarsi a casa sua. L’idea che gli era
venuta era proprio una buona trovata. Stabilì, in cuor suo, di
mettercela tutta per persuadere Grazia; anche a costo di
inscenare lì, su due piedi, qualsiasi cosa.
Finì il suo panino con la salsa messicana e si fece dare da
Grazia la piantina stradale di Roma per ripassare il percorso
più veloce fino a via dei Tigli, che era situata nella parte nordest della città.
“Mentre tu rispolveri la strada per arrivare dal tuo amico io
mi assento un attimo” gli disse Grazia che si avviò verso la
porta da cui prima era uscito Benjamin.
Grazia era confusamente eccitata. In quel momento
avrebbe dato chissà cosa per mantenere un ferreo controllo di
sé. Invece si sentiva frastornata da tutto quello che le era
successo in una sola giornata: la nomina a direttrice del
giornale, i complimenti dei suoi colleghi, i loro
incoraggiamenti e le promesse che l’avrebbero aiutata; ed ora
il viaggio a Roma – splendida città – con l’uomo più
affascinante della redazione.
Fece appello a tutto lo spirito pratico che possedeva per
costringersi a rimanere con i piedi ben ancorati a terra.
“Rigore e disciplina: ecco a cosa devi aggrapparti!”
rammentò a sé stessa “Ricordati quanto hai sudato prima di
arrivare dove sei adesso. Prudenza!”.
Entrò nella toilette per signore con questi pensieri nella
testa. La toilette era larga e spaziosa e non c’era nessuno
dentro oltre a lei. Appoggiò lo zaino sul marmo dei lavandini
e fece un po’ di ginnastica al collo e alle braccia per
distendersi e rilassarsi. Poi fece uscire l’acqua dal rubinetto e
si lavò accuratamente le mani e le tempie.
Era stanca, avrebbe voluto andare a dormire in quel
momento. Invece la aspettavano altre due ore di macchina.
Avrebbe schiacciato un pisolino sul sedile, pensò, accanto a
72
Benjamin. Il solo pensiero di essere accanto a lui bastava a
renderle più piacevole il viaggio.
Tirò fuori dallo zaino la spazzola e la passò sui lisci capelli
corvini che le arrivavano alle spalle. Li portava raccolti sulla
nuca da un fermaglio che toglieva solo in casa, quando non
aveva da lavorare, perché non riusciva a concentrarsi a
scrivere con i capelli sciolti sulle spalle, le davano una
sensazione di fastidio e di disordine.
Si spruzzò un tocco di essenza di lavanda e si guardò allo
specchio. Aveva trentacinque anni, ma come età dimostrava di
essere sotto la trentina. Aveva sempre cercato di curarsi e di
mantenersi carina, ma nonostante questo aveva avuto solo
storie brevi e scarsamente significative. Alla fine si era buttata
a capofitto sul lavoro e in breve tempo aveva fatto carriera.
Sola, in piedi davanti alla sua immagine riflessa nello
specchio, meditava. Si sentiva addosso la responsabilità del
nuovo incarico. Guardandosi dentro sapeva che in verità era
meglio dividerlo con qualcuno. E infatti apprezzava che il
consiglio di redazione avesse eletto quasi all’unanimità
Benjamin come suo collaboratore. Ma se lui avesse lasciato
l’incarico, non sarebbe stato certo facile trovare la persona
adatta a rimpiazzare Benjamin.
Scrollò la testa e respirò profondamente, come per ritornare
al punto dove era rimasta; guardò l’orologio: le sette e
quarantacinque. Era ora di ripartire, Benjamin probabilmente
la stava già aspettando. Chiuse lo zaino ed entrò velocemente
nel WC.
Prima di uscire dalla toilette si guardò allo specchio
un’ultima volta e ripromise a sé stessa che avrebbe tenuto gli
occhi bene aperti per svolgere al meglio il suo lavoro.
Le nove di sera. Benjamin e Grazia erano imbottigliati con
la macchina all'altezza di Fiano Romano, poco prima dello
svincolo per Roma Nord. Per giunta aveva cominciato a
piovere a dirotto. L’acqua che cadeva fitta impediva la visuale
delle corsie.
La fila di auto ferme formava una sinistra, lugubre
processione intervallata da centinaia di fari rossi accesi,
minacciosi; lanterne scarlatte danzanti nella pioggia. Aveva
73
tutta l'aria di una coda lunga almeno quattro, cinque
chilometri, perché erano fermi già da un po' senza che nessuno
si muovesse. Intanto il tergicristalli spazzava via con furia
ritmica l’acqua che a fiotti si riversava sul parabrezza.
“Questa proprio non ci voleva!” esclamò Benjamin
spazientito, che già contemplava svanire la sua brillante idea
di chiamare Edoardo Righetti direttamente da Roma.
“Trovami se alla radio stanno segnalando l'incidente” sbottò
rivolto a Grazia.
Forse si trattava di un incidente di poco conto, pensava
Benjamin; ancora un quarto d'ora, mezz'ora al massimo e una
volta sgombrate le corsie il traffico avrebbe ripreso a scorrere
regolarmente. Oppure no. D’altronde era in corso un violento
acquazzone. Avrebbero dovuto aspettare ore prima che le
forze dell'ordine sbloccassero la situazione. Magari sarebbero
dovuti intervenire anche i vigili del fuoco, chi poteva saperlo?
In effetti dalla sua posizione non vedeva altro che l'oscurità
della notte, punteggiata dai minuscoli fanalini rossi delle
automobili accese.
“Ma stai cercando le frequenze giuste o stai dormendo,
Grazia?!” sbraitò di nuovo, questa volta più accalorato.
Sentendo che il suo compagno di viaggio la chiamava per
nome, Grazia scattò seduta sul sedile dove si era
raggomitolata, dopo essere placidamente scivolata nel sonno.
“Eh, cosa c'è?” chiese a Benjamin sbadigliando e
stropicciandosi gli occhi “lo sai che stavo sognando? È
sbagliato svegliare qualcuno nel bel mezzo di un sogno: può
essergli di grave danno”. E dopo un altro sbadiglio, ed essersi
nel contempo guardata intorno fugacemente “Ma siamo tutti
fermi!” esclamò sbalordita. “Adesso cosa si fa?”.
“Per la terza volta, Grazia, cercami le frequenze alla radio
dove parlano dell'incidente!” rispose secco Benjamin. Era
diventato nervoso e aveva alzato notevolmente il tono di voce.
Senza dire una parola Grazia allungò subito la mano per
accendere la radio e sintonizzarla sulla frequenza giusta. “...E
infine segnaliamo sette chilometri di coda sulla A1, a sei
chilometri dall’uscita di Roma Nord... Il prossimo
aggiornamento fra trenta minuti". Pausa. E poi la speaker
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riprese con la consueta voce melodiosa “Lasciamo ora spazio
per un'altra canzone: una bellissima voce italiana...”
“Vuoi che spenga o che lasci acceso?” domandò a
Benjamin.
“Lascia pure acceso, basta che tieni basso il volume. In
questo momento sto pensando” le rispose in modo frettoloso,
senza guardarla. E poi aggiunse, come stesse pensando da solo
ad alta voce, non badando alla sua collega che invece lo stava
ascoltando: “Maledette strade italiane: mai che si decidano ad
allargarle. Il tratto appenninico, poi, andrebbe raso al suolo e
al suo posto dovrebbero costruire un viadotto a quattro, cinque
corsie! Come in America! Lì sì che sanno come si
costruiscono le strade! ”.
“E’ perché là avete tutto lo spazio che volete. Per questo
fate autostrade enormi” sbottò Grazia.
Sbirciò il suo compagno: si era tutto rabbuiato in volto; una
vena pulsava velocemente sulla fronte corrugata. Aveva tutta
l'aria di essersi indurito, come se qualcosa non andasse per il
verso giusto.
“Dopo tutto cos'era successo?” pensò Grazia, “un normale
incidente come ne capitano sempre sulle autostrade italiane”.
Lei non si stava certo agitando in quel modo. Per di più alla
radio non avevano menzionato feriti o peggio ancora vittime:
quindi la situazione si sarebbe certamente sbloccata. Ci
volevano solo un po’ di pazienza e di buon umore.
“Non prevedo niente di buono” sentenziò Benjamin
accigliato.
“Cosa intendi?” Grazia cominciava a spazientirsi del
carattere scontroso e irascibile del collega.
“Che arriveremo a Roma a notte inoltrata!” sibilò a denti
stretti.
“Anche se non pernottiamo dal tuo amico, ci sono pur
sempre gli alberghi. Quelli sono aperti tutta la notte” cercò di
essere il più ragionevole possibile, per non irritarlo di più.
Ma Benjamin sembrava non stare ad ascoltarla. “Accidenti,
Grazia, ma non capisci? Non potrò chiamare il mio amico!
Anche ammesso arrivassimo entro le dieci, non è certo l’ora di
disturbare qualcuno che potrebbe essere sul punto di andare a
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dormire!” proseguì sul punto di perdere la poca pazienza
rimastagli.
Per un attimo Grazia rimase di sasso. Calò il silenzio tra
loro.
La colonna di auto ferme non faceva nessun accenno a
muoversi. Ognuno di loro due guardava fuori dalla propria
parte di parabrezza e rifletteva. La musica della radio, in
sottofondo, era l’unica distrazione dai pensieri più cupi.
Il gelo forzato comunque durò poco, perché all’improvviso
Benjamin sembrò riscuotersi, come uscisse in quel momento
dallo stato malevolo di poco prima.
Tornato in sé, si rese conto di aver un po’ esagerato
irrigidendosi a quel modo. Per fortuna, Grazia aveva incassato
con dignità.
Si voltò verso Grazia con l’intenzione di riannodare il filo
interrotto del loro dialogo precedente: “Scusami. Ti faccio
preoccupare con questo mio caratteraccio, vero? Eppure
capisci cosa mi passa per la testa: succede così quando si
muore d'impazienza dalla voglia di vedere un vecchio amico,
o una persona cara. Non trovi? E tu quando pensi di sentire la
tua talpa?”.
“Gli telefonerò dall’albergo per metterci d’accordo” rispose
evasiva.
Per la prima volta Benjamin guardò con dolcezza la sua
collega. Voleva che Grazia non pensasse male di lui, anche se
tra colleghi giornalisti erano abituati a trattarsi senza i guanti
di velluto. “Non c’è tempo per i convenevoli e i modi
garbati”: quante volte aveva sentito gli altri giustificare a quel
modo la loro durezza. Lui stesso non ci faceva più caso se gli
capitava di essere sbrigativo, a volte persino maleducato.
Pazienza! Colpa del duro lavoro di giornalista. Ora però si
ritrovò ad ammettere tra sé che essere stato sgarbato con
Grazia gli dispiaceva. In fondo voleva che Grazia non stesse
in pensiero, né per la situazione in cui si erano imbattuti, né
tanto meno per lui.
“Allora, come ti senti adesso ?”. Le prese per un attimo la
mano.
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Colta alla sprovvista da quella piccola e innocua avance,
Grazia sentì che sarebbe diventata dello stesso colore di un
peperone se non si fosse data da fare a rispondere qualcosa.
“Tutto o.k.” riuscì a rispondere, e ritrasse in fretta la mano.
Respirò per prendere aria.
“Ma sei sempre così intrattabile con tutti, o sono io che ho
la capacità di farti uscire dai gangheri? Siamo appena partiti e
già ti arrabbi con me perché mi sono addormentata: santo
cielo, ma devo domandarti il permesso per chiudere gli occhi?
Perché poi non chiami col cellulare il tuo amico, se proprio ci
tieni così tanto?” tagliò corto.
A lui non rimase altro da fare che rimettere le mani sul
volante, guardando sconsolato le macchine davanti a sé. Tutto
stava fermo: un lunghissimo serpentone rosso in letargo.
La radio che nel frattempo era rimasta accesa, seppure a
volume basso, rilasciò proprio in quel momento le note
sofisticate e romantiche di una famosa canzone d’oltreoceano
di qualche anno prima. Grazia si stiracchiò per rilassarsi: non
valeva la pena di prendersela tanto. La musica era venuta a
distrarla: ogni nota che vibrava nell’aria assomigliava ad una
dolce compagna che alleggeriva la tensione tra lei e Benjamin.
“Oh, ecco un po’ di sana musica americana!” disse
Benjamin, per spezzare l’aria.
“È una delle mie canzoni preferite, questa!” aggiunse di
rimando Grazia. C'era un lievissimo fondo di piacere nel tono
della sua voce.
Senza che lei dicesse nulla, Benjamin alzò il volume per
ascoltare meglio, sperando di affievolire l’incomprensione che
si era creata. Il cuore appesantito di Grazia sussultò di una
piccola gioia.
Bastarono poche note diffuse nell'abitacolo dell'auto a
scemare il nervosismo tra loro due, lasciando il posto ad
un'atmosfera più distesa.
Grazia appoggiò la testa contro lo schienale morbido della
Mercedes, rilassandosi alla voce calda del cantante di colore.
Chiuse gli occhi. Come onde del mare che si infrangono sulla
spiaggia i suoi pensieri andavano e venivano dolcemente,
cullati dal rumore del motore acceso dell'auto in sottofondo.
“In fondo sono successe troppe cose, tutte in una volta. Facile
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che i nervi non reggano, sia i miei che i suoi…” pensò. In
realtà godeva della sensazione del tepore della mano di lui
sulla sua pelle. Aveva fatto in tempo a sentire la sua stretta
forte e sicura, anche se solo per un attimo.
Quando la canzone finì Grazia aprì gli occhi.
Benjamin la stava guardando. “Come va?” le domandò con
aria conciliante.
“Peccato che siamo ancora fermi!” gli rispose.
Intanto Benjamin era ancora lì che la guardava, in silenzio.
I suoi occhi chiarissimi la fissavano con naturalezza; non era
uno sguardo intenso, né preoccupato, né particolarmente
significativo. Semplicemente la guardava. Allora lei sentì
nascerle dal profondo una nuova fiducia in sé, e sentendosi a
suo agio propose:
“Senti, ricominciamo da capo. Sei d'accordo?”
“Penso sia la cosa migliore” le sorrise. Si strinsero le mani.
“Allora intesi. Cambiamo discorso. Raccontami di te e di
Edoardo: è da tanto che lo conosci? E come vi siete
incontrati?” Grazia aveva evidentemente voglia di portare la
conversazione su altri argomenti.
Benjamin fu colto alla sprovvista. Non aveva immaginato
di destare la curiosità della sua amica nominando Edoardo.
Questo nome doveva passare semplicemente come una notizia
tra le tante buttate lì, e ci sarebbe riuscito se non avesse
commesso l’errore di perdere la pazienza a causa della coda
che li aveva sorpresi in autostrada. Adesso non rimaneva che
rimediare a quell’imprudenza. Non poteva più tirarsi indietro.
Doveva raccontare una storia il più verosimile possibile,
sperando solo di non combinare altri guai.
“Siamo stati compagni di corso per un anno, quando sono
venuto a Roma dall’America per frequentare i corsi di Lingua
e Letteratura italiana alla Sapienza. Avevo una borsa di studio
dal mio college” fin qui Benjamin non aveva detto nulla di
falso perché era veramente venuto per un anno a studiare in
Italia “per la verità mi interessava unicamente approfondire la
lingua, perciò non seguivo proprio le lezioni all’Università.
Tenevo un programma di studi tutto mio: fermarmi nei bar a
parlare con chi trovavo sorseggiando amabilmente un caffè;
scrivere articoli per un settimanale mediocre, che mi avrà
78
pagato tre o quattro volte in tutto; frequentare regolarmente i
corsi di Storia Contemporanea, la mia passione… – anche
questo era tutto vero – Edoardo devo averlo incontrato una
delle rare volte che andavo a sentire le lezioni di italiano,
perché mi ricordo che lui era iscritto a Lettere …” speriamo di
avere inventato giusto, si augurò Benjamin.
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80
SABATO 15 Marzo
VIII
Il giorno successivo Giulia si ripromise di non pensare al
paziente della stanza numero trentuno, per concentrarsi solo
sull’appartamento.
Purtroppo quella mattina il lavoro di archiviazione degli
esami fatti dai pazienti durante i mesi precedenti si stava
rivelando di una noia mortale. Mentre sbrigava l’incombenza
la sua mente si trastullava col pensiero della rivista di cucito
che aveva appena comprato, per ricamare a punto croce su
tutti e quattro i cuscini del divano la scritta “home, sweet
home”.
Intanto sfilava uno dopo l’altro gli esami dalla loro busta e
controllava che il nominativo sul foglio corrispondesse
all’intestazione sulla busta; poi sigillava la busta e alla fine
riponeva pacchi di buste chiuse nell’armadietto con la scritta:
“Analisi di laboratorio: pazienti A-L, Luglio-Dicembre 2056”.
Nel frattempo il suo sguardo si posava con noncuranza
sulla stanza, tracciando un percorso che dalla finestra si
spostava sugli oggetti disposti qua e la sul tavolo, fino ad
adocchiare ogni tanto sulle buste il nome stravagante di
qualche paziente. Accanto a lei, su un mobiletto più basso, tre
enormi scatole di fogli l’aspettavano per essere ancora
inventariati.
Fu un attimo. Di sfuggita le cadde l’occhio su un nome:
Martin Fischer, e su una data: il 6 Agosto dello scorso anno.
“È già stato ricoverato qui sette mesi fa!” le balenò nella
mente.
D’un tratto il plico di fogli che teneva in mano divenne
preziosissimo. Le sfiorò la mente l’idea che, forse, doveva
riporlo nella busta attigua e farla finita. Morta lì. “Sta
diventando una persecuzione: me lo ritrovo anche adesso,
qui…” pensò. E si rammentò pure che lui l’aveva già
rimproverata per essersi impossessata di qualcosa di suo che
non le apparteneva. “La curiosità è femmina…” aveva
acidamente sentenziato.
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Ora si ripresentava la medesima situazione, a un solo
giorno di distanza. Valutò il da farsi, incapace di staccare le
dita da quei fogli. Pochi secondi le furono più che sufficienti
per decidere: alla fine abbandonò ogni remora e scorse
freneticamente ognuna delle facciate degli esami di Fischer.
“In fondo” rispose a sé stessa come per scusarsi “lo faccio
soltanto per capire cosa gli è successo e, se posso, poterlo
aiutare”.
Arrivò fino in fondo: era tutto a posto. Sembrava un
ricovero per un semplice accertamento clinico, esami di
routine per un check-up completo. Ricominciò a percorrere da
cima a fondo la lista una seconda volta: emocromo, glicemia,
urine… niente. Non riusciva a trovare niente che non andasse
bene. “Ma come, se adesso è qui debole come un uccellino…”
macinava dentro di sé. Allora di colpo capì. In realtà sei mesi
prima Fischer stava benissimo! Solo dopo di allora doveva
essergli successo qualcosa di grosso che l’aveva condotto ad
un passo dal coma diabetico e tutto il resto!
Si passò le mani tra i capelli e rimuginò pensierosa. Si alzò
per cercare nell’archivio altri eventuali ricoveri, ma non ne
trovò. Fece mente locale: è vero che aveva deciso di non
prestare più attenzione a quell’uomo, ma ora, dopo aver
scoperto una cosa così importante, vedeva quell’ammalato
sotto un’altra luce. Avrebbe voluto capire cos’era che l’aveva
condotto fino a quel punto.
Alzò la testa e guardò fuori dalla finestra per schiarirsi le
idee. La luce era soffice, dorata, segno che le fredde giornate
di Marzo ormai cominciavano a mitigarsi. Sbirciò veloce
l’orologio al polso: le dieci di mattina. Quell’orario le risuonò
in testa come un campanello d’allarme. Si levò in piedi
bruscamente e corse fuori dalla stanza: a quell’ora Fischer
avrebbe già potuto essersene andato! In fondo era dal giorno
prima che tirava aria di dimissioni per il paziente della stanza
numero trentuno. Giulia se lo rammentava bene. E se fosse
veramente già stato dimesso? Se non avesse più potuto
vederlo? Era frustrante aver scoperto quell’indizio, e non poter
fare più niente.
Si diresse a passo veloce verso la stanza numero trentuno,
ma si bloccò di colpo. Ritta sulla soglia della stanza emergeva
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una distinta signora impellicciata, all’apparenza poco più che
cinquantenne, che parlava col medico di turno. La sua figura
così addobbata nella lunga pelliccia si stagliava sul dottore in
camice bianco. Giulia vide che il medico di guardia quella
mattina era il dott. Albrigi, il braccio destro del Primario; a
quanto ne sapeva lei, era una brava persona.
La signora ascoltava attentamente, annuendo ogni tanto con
modi cortesi. Da costei emanava una sorta di placida
tranquillità. Per un attimo Giulia immaginò sua madre al posto
di quella donna facoltosa, e le si materializzò la scena davanti
agli occhi: sua madre tutta indaffarata a porre domande al
dottore, agitata ogni qualvolta lui avesse aperto bocca, in
apprensione al momento di congedarsi, spazientita una volta
rimasta sola per non averne saputo di più. Davvero sua madre,
un’instancabile pettegola, minuta come un topolino, riusciva
in modo infallibile a far perdere a chiunque le buone maniere.
Era quello uno dei principali motivi per cui aveva deciso di
andarsene dalla casa dei suoi genitori, causando loro un dolore
vivissimo, specialmente nel padre. Costui avrebbe voluto
vederla felicemente sistemata con una bella fede al dito,
invece lei l’aveva deluso dandogli la notizia – a lui solo – che
sarebbe andata a convivere con il suo ragazzo. Non c’era
nessun matrimonio in programma.
“Ah, se ne va a stare con quello?”. Giulia aveva sentito i
genitori scambiarsi le rispettive vedute in cucina, a porta
chiusa ma con un tono di voce che purtroppo passava i muri.
Sua madre pareva isterica: “Bè, che se ne vada pure e non
provi a tornare, perché nel qual caso dovrà passare sul mio
corpo…!”. “Ma Rebecca, ragiona, è tua figlia. E se poi si
accorge di essere stata troppo precipitosa? Se lui non fosse
l’uomo per lei? Se ci chiede di riaccoglierla in casa? Tu le
vuoi lasciare la porta chiusa?” martellava suo padre
addolorato. “Sì, sbarrata. Così impara che non è il modo di
vivere giusto, quello…” inveiva la madre. “Non ti riconosco
più, Rebecca. Mi dispiace, ma hai torto. Un genitore non può
mai comportarsi come se il figlio fosse solo un cane da
bastonare quando ne commette una delle sue. Bisogna capirli,
questi nostri figli, comprenderli, accettarli, amarli,
perdonarli…”continuava suo padre con commovente ardore.
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Ma la madre non era nemmeno stata ad ascoltare le ultime
parole che già era lì, pronta a rimbeccare: “Io non voglio che
lei se ne vada via in questo modo”, e poi gridando sempre più
forte “NON-LO-TOL-LE-RO! Che razza di scelta è, quella di
Giulia? Almeno andasse a vivere da sola! Quel ragazzo non
mi piace un bel niente. Le mangerà i soldi. Ecco perché non
dovrebbe andare a starci insieme”.
Giulia a questo punto non era più stata ad ascoltare, si era
rifugiata in camera sua e aveva acceso lo stereo. Certe frasi
era meglio non sentirle.
Scacciò dalla mente il ricordo di quella sera e della litigata
furibonda dei suoi genitori.
Ora si trovava in ospedale, e il suo turno non era ancora
terminato.
Aveva appena allontanato il ricordo di sua madre, quando
sentì il dott. Albrigi che la stava chiamando. “Giulia, la prego”
le stava dicendo in modo garbato “porti questa cartella clinica
nella sala della capo-reparto”. Giulia accorse. Poi il dottore si
voltò, e con il viso verso l’interno della camera, il braccio
levato in aria come per cingere la schiena del giovane e
accompagnarlo fuori: “Il nostro più giovane paziente ci lascia.
In effetti mi dispiace” disse rivolto a quella che doveva essere
la madre dell’uomo “sa, abbassava l’età media qui dentro.
Peccato, comunque meglio fuori che dentro. È naturale”. Il
giovane non mostrò la minima traccia di un sorriso. La signora
si limitò ad annuire col capo in una specie di approvazione. Fu
sul punto di porre una domanda, ma si trattenne. Giulia era lì
accanto a loro. Appena il dottore le mise in mano la cartella,
Giulia cercò con noncuranza di lanciare uno sguardo fugace
sulla voce “dimissione”, ma evidentemente il suo sguardo
dovette risultare troppo allusivo, perché il dottor Albrigi senza
preavviso le afferrò la cartelletta, togliendogliela
maldestramente di mano. Lui si avvide del gesto audace, e
come per scusarsi affermò, con la consueta cortesia: “Mi scusi
tanto, Giulia, mi ero dimenticato di aggiungere una cosa nel
compilare la scheda clinica. Capita a tutti di sbagliare, quando
ci sono troppe visite da svolgere…”.
E poi rivolto alla signora e all’uomo che ormai erano giunti
ad un palmo dalla porta pieghevole per uscire, disse: “Allora,
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vi auguro buon proseguimento. Per qualsiasi cosa io e il
primario siamo qui” e accomiatandosi allungò la mano per
stringere quella della signora impellicciata. Non toccò invece
l’uomo, ma si limitò ad un semplice: “Stia bene, Martin”. Si
girò e s’affrettò a passi rapidi e lunghi verso la sala della
caporeparto.
Giulia rimase lì davanti a loro a bocca aperta, con la
sensazione di essere stata colta in flagrante. Non sapeva cosa
fare. Scoccò un rapido sguardo alle due persone davanti a lei,
in procinto di partire. Le loro espressioni risultavano
indecifrabili. Ma ad un tratto la signora impellicciata si fece
avanti, e le chiese con voce suadente: “Mi scusi, signorina,
può dirmi qual è la prossima volta che è di turno il primario,
qui in reparto?”. Giulia notò che possedeva un accento
straniero. L’uomo accanto alla signora guardava Giulia di
traverso, con un mezzo sorriso più simile ad un ghigno, dava
sempre l’impressione di stare sulle sue. Giulia notò lo sguardo
fiero e altèro, la postura eretta, il contegno sprezzante.
Ricambiò il fare disgustoso dell’uomo ignorandolo, e fissò
invece la signora per la quale sfoderò un bellissimo sorriso,
rispondendole: “Il dott. Cespi, il primario, è qui solo il lunedì
mattina, tra le nove e le dieci. Vuole che gli riferisca
qualcosa?”.
“No, grazie…”. Ora la signora parve indugiare alquanto
perplessa, come stesse soppesando quali parole usare. “Ecco,
se non è troppo disturbo, può lasciare detto al dott. Cespi che
ci telefoni al più presto? Oppure mi metterò io in contatto con
lui, sempre che lo trovi, nel suo studio. È sempre via tra
convegni, riunioni e altro del genere…”. Guardò Giulia, la
quale a sua volta contraccambiò con uno sguardo
comprensivo, annuendo col capo perché era vero che il
primario era spesso irreperibile. Continuò apparentemente più
a suo agio: “Lui conosce bene la mia famiglia, e la mia,
ehm…situazione”. Il tono di voce aveva assunto una nota
d’ansia e d’imbarazzo. Nella mente di Giulia s’affacciò la
terribile ipotesi che, forse, la signora volesse alludere ad una
questione della massima importanza. Un’espressione attonita e
sbigottita le si dipinse in volto. Fissò con più attenzione la
signora, che pareva volesse dirle con la sola forza dello
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sguardo: “Mi aiuti, faccia presto, si tratta di una faccenda di
vita o di morte”. Ma che non fosse elucubrare un po’ troppo,
si chiese Giulia?
Impaziente l’uomo trasse un sospiro di fastidio, sbuffò e
guardò torvo la donna. Aprì bocca: “Oh, insomma, la vuoi
smettere, zia?!” esclamò spazientito. A Giulia parve di non
avere sentito bene. Ma allora quella non era sua madre?
Intanto l’uomo continuava a parlare: “Sto bene, fidati! Adesso
però andiamo. Non ti basta quello che ti ha appena detto il
dottore?”. E prese la valigia come per mettere fine a quella
che ai suoi occhi era sicuramente un’inutile discussione.
Fu come un lampo. La donna si spaventò, s’avvicinò a
Giulia fingendo di stringerle la mano per salutarla, ma le
farfugliò velocemente nell’orecchio: “ Per piacere, signorina,
dica al dott. Cespi di chiamare subito la signora Pollmann. Lo
faccia, la prego… vedrà che sarà ricompensata…!”. Poi senza
indugiare oltre, si voltò verso il giovane che aveva già aperto
la porta del reparto e l’attendeva dandole le spalle, pronto ad
andarsene. I due scomparirono dietro di essa.
Giulia rimase lì inebetita, davanti alla porta ormai richiusa.
Non aveva capito bene se doveva svolgere un semplice favore
o se aveva appena ricevuto un incarico di grande importanza.
“Sarà ricompensata!...” le rimbombava nelle orecchie,
mettendola sull’attenti. La cosa non le piaceva affatto. Si
voltò, tornando indietro sui suoi passi più perplessa che mai.
86
IX
I tavolini sotto il patio ricolmo di verde erano già tutti
apparecchiati per la colazione.
Si accedeva al patio attraverso un ampio salone, che
all’occorrenza fungeva anche da sala da pranzo, che collegava
la hall dell’albergo con il pergolato ombreggiato sul retro.
Quasi tutti i clienti che in quel momento soggiornavano
all’albergo “De Nevers” si trovavano nella veranda, a
sorseggiare le loro calde bevande della prima colazione.
Su un tavolone centrale, addobbato con una tovaglia bianca
di lino ricamata, pressoché identica a quelle più piccole che
ricoprivano gli altri tavolini, era stata appoggiata una quantità
considerevole di cibo. C’era una grande macchina per l’acqua
calda che erogava, a richiesta, tè, caffè, cappuccino, e vari
infusi. Bricchi di latte caldo fumante erano appoggiati lì
accanto, insieme a thermos di caffè, e a caraffe di succo
d’arancia e di pompelmo. Biscotti, fette biscottate, panini
soffici e freschi, miele e marmellate erano ordinatamente
disposti in bella fila, a destra della macchina elettrica. Alla
sinistra stavano tutti i dolci immaginabili: brioches, croissant,
torte di mele e di mandorle, crostate alla frutta, mignon alla
crema. Un’enorme cesto di frutta spuntava dietro la macchina
erogatrice delle bevande.
Un cameriere girava tra i tavoli a prendere le ordinazioni
dei clienti.
Il patio era tutto lastricato di cotto. Lungo il perimetro
erano disposte colonne di legno chiaro a cadenza regolare, alte
circa due metri e mezzo. Dalla sommità spiccavano un balzo
fino a congiungersi tutte in un unico punto centrale,
originando una specie di cupola i cui costoloni di legno
parevano i raggi di una stella. L’edera la ricopriva tutta per
intero. Sui tronchi di legno che svettavano fino alla volta
stavano attorcigliati rami di glicine. Infine nei quattro angoli
alle estremità vasi enormi di primule, viole e ciclamini
attiravano gli sguardi dei turisti, estasiati da tanta bellezza.
Grazia si era sistemata su un tavolo d’angolo, uno di quelli
con solo due sedie. A dispetto della meraviglia che emanava
da quell’ambiente, aveva un’aria seccata e scontrosa. Aveva
87
già fatto colazione, una semplice brioche con cappuccino, e il
cameriere aveva già provveduto con solerzia a sparecchiare il
tavolo. Lei era rimasta lì, a buttare giù appunti sul suo
notebook. La sua borsa era ordinatamente appoggiata
sull’altra sedia. Sul tavolo aveva disposto con precisione
meticolosa il suo telefono cellulare, la sua agendina viola e la
guida tascabile di Roma. Più in là, il consueto pacchetto di
sigarette e l’accendino con la scritta: “Roma, I love you”.
L’aveva appositamente prelevato dalla sua personale
collezione di accendini, prima di partire.
In quel momento aveva smesso di scrivere e il viso era
appoggiato sul palmo della mano, sollevato in direzione della
finestra più vicina. Fuori il cielo era sempre cupo, come quello
bigio lasciato a Milano il giorno precedente. Pesanti nuvoloni
lo fendevano, minacciando bufera. La spessa coltre sembrava
incombere sulle teste dei passanti che camminavano frettolosi
lungo la strada. Solo l’aria era più calda rispetto a quella del
nord Italia. Grazia se n’era resa conto subito la mattina appena
alzata, quando aveva aperto le finestre e aveva respirato l’aria
di Piazza di Spagna. Riusciva anche a scorgere il Tevere in
lontananza, in fondo alla stradina dell’albergo costeggiata su
ambo i lati da vecchi palazzi.
Seduta al tavolo, sempre con lo sguardo fisso alla finestra,
si concesse una pausa per accendersi una sigaretta. Ripensò al
suo risveglio: quella mattina si era alzata felice. Felice di
essere lì, felice che con lei ci fosse Benjamin.
Erano arrivati a notte fonda, spossati come non avessero
fatto altro che sollevare sacchi di piombo per tutta la giornata.
Erano riusciti a malapena ad accordarsi sull’orario di ritrovo
per la colazione; tra sbadigli vicendevoli e strofinii degli
occhi, a tutti e due era parso ovvio che non sarebbero
comparsi fuori dalle loro stanze prima delle nove.
Così appena alzata, Grazia si era fatta la doccia e lavata i
capelli. Aveva perso un po’ di tempo anche ad arricciarsi i
capelli, mentre li asciugava con dei grossi bigodini. Di modo
che una volta che li avesse raccolti come sempre sulla nuca,
avrebbe lasciato cadere ad arte alcune ciocche morbide qua e
là. Si era contemplata allo specchio felice del risultato, dopo
aver indossato un completo informale che metteva in risalto il
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viso olivastro e i lucenti capelli neri. Si era truccata con cura.
Non avrebbe potuto fare di meglio e più in fretta. Alle nove in
punto era giù nel patio che sorseggiava il suo cappuccino,
intenta a scrutare il salone su cui si avvicendavano avanti e
indietro i vari ospiti. Ma di Benjamin neppure l’ombra.
Fece colazione con calma, mentre le lancette dell’orologio
si spostavano verso le nove e un quarto, e poi verso le nove e
trenta. Ancora niente. Così non le era rimasto che concentrarsi
da sola sui più recenti avvenimenti del giorno. Si era collegata
attraverso il web alla redazione, e stava spulciando le varie
notizie, inviando e-mail ai suoi collaboratori; il telefono lo
riservava alle necessità più impellenti, mentre con la “talpa” si
era già accordata per vedersi di lì a poco. Si era fatta
consegnare anche svariati altri quotidiani, e ora, dopo averli
sfogliati senza dimostrare il benché minimo interesse,
guardava distrattamente il brutto tempo che incombeva fuori
dalla finestra. Il suo sguardo era spento, deluso, vuoto.
Lei e Benjamin erano letteralmente capitati in
quell’albergo, senza tanta premeditazione. Usciti al casello di
Roma Nord verso la mezzanotte precedente, sotto una pioggia
battente, non avevano la benché minima idea di dove
pernottare.
Mentre si lasciavano alle spalle il grande raccordo anulare
per imboccare la strada provinciale che li avrebbe inoltrati in
direzione di Roma città, Benjamin, sopraffatto dalla
stanchezza, decise che era giunto il momento di prendere in
mano la situazione. E seriamente. “Adesso facciamo come
dico io” affermò con un tono che non ammetteva repliche.
Grazia rimase in silenzio, più assonnata che sveglia,
aspettando ulteriori spiegazioni. Infatti Benjamin proseguì:
“Tempo fa ho dormito in un albergo in Piazza di Spagna. Un
posticino tranquillo e carino. Un po’ caro, ma ne vale
sicuramente la pena. E poi, soprattutto, è l’unico che conosco.
Non voglio girare ore e ore per la città, di notte, alla ricerca di
una pensioncina sgangherata, solo per risparmiare un po’ di
soldi. Quindi, non ci rimane altra scelta”.
Grazia bofonchiò un “ok”; avrebbe voluto chiedergli con
chi c’era stato, ma era troppo oppressa dal sonno. Si sforzò di
89
tenere a mente che gliel’avrebbe sicuramente domandato
l’indomani.
Un po’ di curiosità, però, man mano che la città cominciava
ad intravedersi, si affacciò nella mente di Grazia. “Come si
chiama quest’albergo?”.
“Hotel de Nevers” rispose lui. “Quando c’ero stato, ho
sentito i proprietari spiegare che avevano scelto quel nome
perché erano innamorati della Francia. Così hanno pensato
bene di assegnare al loro albergo un nome francese”.
“Forse speravano di catturare gli schizzinosi turisti
francesi. Va benissimo, comunque. Purché abbia un buon letto
e si mangi bene”.
“Vedrai, sarai soddisfatta”.
Dal Corso di Francia, nel frattempo, avevano imboccato il
Viale dei Parioli, e infine la via Pinciana, arrivando così a
ridosso del Campo Marzio. Ormai erano nel cuore della Città
Eterna. Si lasciarono alle spalle Trinità dei Monti – nel
mentre, sfilavano accanto alla famosa scalinata – e poi
Benjamin puntò diritto verso Piazza di Spagna. Ormai era
quasi l’una di notte. Anche se era ormai del tutto
addormentata, Grazia riuscì ad emettere un “Che beeella!”,
prima di piombare in un lieve dormiveglia. Proprio in quel
momento Benjamin voltò in uno dei tanti vialetti caratteristici
e spense il motore.
“Siamo arrivati” disse rivolto a Grazia. Ma poiché lei ormai
dormiva, la svegliò scuotendole vigorosamente il braccio e poi
la spalla. “Grazia, andiamo, su dai che ti aiuto a scendere.
Sembra che tu non dorma da una settimana!”.
Grazia aprì di malavoglia gli occhi e si guardò intorno. La
viuzza doveva essere molto frequentata di giorno, visto che si
trovava praticamente dietro una delle piazze più famose di
tutta Roma. Ma ora si sarebbe potuta certamente dire buia e
spoglia, se non per i pochi lampioni stile ottocento che la
illuminavano fiocamente. La facciata dell’albergo ricordava lo
stile anni venti, con rami di lillà che le crescevano intorno e si
arrampicavano su per i muri. La porta era un bel modello
restaurato di Art Nouveau. Una lampada Tiffany poggiava
pigramente sul bancone della reception.
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Anche all’interno erano disposti ad arte tocchi del passato.
Di fronte al bancone della reception s’intravvedeva un
prezioso orologio a pendolo, funzionante. Nell’altra stanza in
ombra si ergeva un bar in legno con un massiccio piano in
marmo. Nell’entrata c’era anche una fontanella di marmo
finta.
Il portiere prese le loro generalità e consegnò loro una
chiave d’ottone dalla foggia antiquata. “Che siano
autentiche?” pensò Grazia. Sentì la voce del portiere che
scandiva “Camere numero venti e ventuno, signori”. Dopo di
che, senza tanti convenevoli e morti di sonno, avevano infilato
la scalinata verso i piani superiori ed erano scomparsi dietro le
porte delle loro rispettive stanze.
Purtroppo Grazia aveva preso le ultime parole di Benjamin
alla stregua di quelle di un testamento autografo. Senza ombra
di dubbio era sicura che si sarebbero visti alle nove della
mattina successiva. Si ricordava solo, mentre si sfilava i jeans
per infilarsi senza indugio sotto le coperte, che aveva pensato:
“Chissà cosa direbbero al giornale, se sapessero che io e
Benjamin siamo qui…”. E poi il sonno aveva preso il
sopravvento.
Benjamin quel sabato mattina si era levato con un’ora di
anticipo sul loro appuntamento, perché voleva sgattaiolare
fuori dall’albergo per chiamare con comodo Righetti. Solo
che, mentre era lì che gironzolava per Piazza di Spagna con
l’intenzione di imboccare Via Condotti, diretto verso
“L’antico Caffè Greco” da dove erano passati un mucchio di
scrittori, musicisti e artisti stranieri, gli sovvenne che, forse,
non era il caso di disturbare un tranquillo signore così presto.
Si lasciò trasportare dalla folla di turisti che aveva già
cominciato ad invadere la Piazza e le sue vie adiacenti: un
fiume in piena che ogni tanto spandeva dei rivoli ora attorno
alla scalinata spagnola, ora sul sagrato delle chiese celebri, ora
all’interno delle vie più caratteristiche. Benjamin fu trascinato
dalla corrente fin davanti all’insegna del “Caffè Greco”. Il
locale aveva una saletta interna zeppa dei ritratti e dei busti
degli avventori più famosi. L’americano la rigirò in lungo e in
largo: i piccoli tavolini ovali abbelliti in cima da una sottile
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lastra di marmo erano già quasi tutti occupati, anche se erano
passate da poco le otto e trenta. Non gli rimase che
sorseggiare in piedi il suo caffè lungo, assaporandone l’aroma
forte ed intenso all’inizio di quella che gli pareva una
promettente giornata. Anche lui era rimasto colpito dalla
temperatura mite di cui si godeva in città, nonostante la coltre
color grigio fumo che incombeva sulla sua testa; ma era
troppo preso dall’idea di dover a tutti i costi mettersi in
contatto con Righetti. Per cui, senza far troppo caso al tempo
atmosferico, s’incamminò per il centro storico aspettando che
venissero almeno le dieci per telefonare. Si era completamente
dimenticato delle parole rivolte a Grazia quella notte. Per la
verità, gli sembrava di non aver detto proprio un bel niente.
Rammentava solo di aver aperto in tutta fretta la porta della
camera e di essere piombato a peso morto sul letto. Doveva
essersi svestito, però, perché la mattina si era ritrovato sotto le
coperte, in canottiera e boxer.
Ora era tranquillamente seduto su una panchina che
sfogliava avidamente il quotidiano per il quale lavorava. Ma
aveva gettato anche lì accanto quelli della concorrenza. Li
avrebbe letti più tardi. Indossava dei pratici jeans scuri ed un
golf verde chiaro dallo scollo a V, con sotto una camicia a
quadratini bianchi e blu. La giacca l’aveva lasciata in albergo
perché c’era troppo caldo per girare con quella.
Dopo aver passato in rassegna con avidità tutti i quotidiani,
dopo aver visto tutto quello che c’era da vedere, dopo aver
analizzato ogni bancarella di frutta e verdura presente sulla
piazza, venne il momento tanto atteso: l’orologio di Trinità dei
Monti batté dieci rintocchi.
Benjamin non poteva attendere più a lungo. Si alzò dalla
panchina e si avviò puntando dritto verso la cabina pubblica di
fronte alla chiesa. Non voleva che la sua telefonata risultasse
rintracciabile. Frank gli aveva detto di usare la massima
segretezza. Pensò che doveva trattarsi di un lavoro delicato,
forse riguardava alcune informazioni segrete di cui avrebbe
potuto entrare in possesso, forse era un bene anche l’attuale
situazione critica in cui versava il paese: le sue informazioni
sarebbero state pagate dal giornale a peso d’oro... Compose il
numero e aspettò.
92
“Pronto?” rispose Edoardo. Il sabato aveva lezione a fine
mattinata, per cui era ancora a casa.
“Parla Righetti?” domandò Benjamin.
“Sì. Io con chi parlo, invece?” domandò l’altro con voce
neutra.
“Mi chiamo Benjamin Tolosa. Sono un giornalista
americano. Lavoro da alcuni anni qui in Italia, come cronista
per uno dei maggiori quotidiani nazionali”.
“Sì, la conosco, di nome intendo dire. Leggo il suo giornale
tutti i giorni e vedo spesso i suoi pezzi siglati. Ha un bel modo
di scrivere. Mi piace”. Era un complimento sincero. Benjamin
lo avvertì subito, e si sentì enormemente più a suo agio. Parlò
più apertamente: “Senta, siamo tutti e due uomini impegnati,
almeno così presumo, quindi non voglio farle perdere tempo
prezioso”. Edoardo lo incoraggiò, mostrando di gradire:
“Vada pure avanti, signor Tolosa”.
L’altro dunque proseguì: “Vengo ora al punto: ho ricevuto
proprio ieri un telegramma in cui mi si fa viva richiesta di
farle visita per l’eventualità di una grossa cosa in ballo. Sa
dirmi se è vero?”.
“Eccome!” esclamò Edoardo. “Posso confermarle che si
tratta di un lavoro della massima importanza e, ehm, anche
della massima segretezza, per ora”.
Benjamin non credeva alle proprie orecchie. Era molto
soddisfatto. “Può dirmi se, secondo lei, si tratta di una cosa
che potrebbe riguardare più da vicino il mio lavoro di
giornalista?” domandò speranzoso. Aveva in mente che il
materiale segreto di cui disponeva Righetti potesse in qualche
modo comprendere anche delle informazioni sulle Stelle
Spezzate”, l’argomento in assoluto di maggiore interesse nel
paese. D’altronde i giornali non parlavano d’altro in quei
giorni. Benjamin diede per scontato che l’unico stimolo a
rivolgersi ad un giornale fosse dettato proprio dal motivo di
possedere notizie riservate sugli avvenimenti che
angustiavano così pesantemente l’Italia. Era probabile che
anche Frank fosse capitato, per puro caso, nel giro di questi
canali sotterranei di informazione.
“Certamente” rispose, “naturalmente una volta che sarà
possibile divulgarle. Le assicuro che lei farà un colpo da
93
maestro con queste rivelazioni. Senza dubbio avrà l’esclusiva.
Ma tutto ciò avverrà più avanti, non ora”. Edoardo stava
pensando alla risonanza mondiale della scoperta che il
Vaticano aveva per le mani, una volta che fosse stata resa di
dominio pubblico.
Benjamin, invece, che già si vedeva stringere tra le mani il
premio “Penna d’oro” per il miglior giornalista dell’anno, era
ormai praticamente certo che le notizie riservate possedute da
quell’uomo fossero di natura politica. Per scrupolo domandò
ancora: “Ha capito che sono un giornalista, vero? Mi
conferma che le informazioni che lei possiede potranno venire
utili al mio giornale? Che potrebbero avere a che fare,
diciamo, con il problema della sicurezza nazionale? Con il
bene supremo della nazione?”. Benjamin pensava che con
quelle talpe, fatte uscire al momento giusto in prima pagina,
forse l’Italia avrebbe potuto evitare il colpo di stato, o
qualsiasi altra cosa le Stelle Spezzate stessero tramando di
nascosto.
Edoardo per un attimo non capì cosa volesse intendere il
giornalista, perché proprio in quel momento sua moglie gli
urlò qualcosa dalla cucina. Riuscì solo a distinguere le parole
finali della frase: “…per il bene della nazione”. Pensò che il
giornalista volesse alludere all’effetto che avrebbe avuto la
scoperta, una volta diffusa attraverso le reti tv e la carta
stampata. Così rispose:
“Sicuramente. Si tratta di divulgare informazioni preziose
per il bene dell’umanità” asserì senza battere ciglio. Stava
pensando al valore assolutamente imperituro della Lettera ai
Laodicesi. Una scoperta importantissima quanto la stele di
Rosetta.
“Allora d’accordo. Non resta che vederci per parlarne di
persona. Quando possiamo incontraci?” domandò Benjamin
infervorato.
“Il prima possibile, direi”.
“Per me anche subito”. Benjamin era raggiante. Peccato
che Edoardo non lo potesse vedere in viso.
“No, ora no” rispose cortesemente Edoardo. “Devo andare
a scuola. Sono un insegnante. Potremmo vederci nel
pomeriggio. Può venire a casa mia, se le è possibile,
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naturalmente. Presumo che lei sia notevolmente più
impegnato di me”.
Benjamin si era aspettato che Edoardo fosse come minimo
una persona con entrature nella politica. Che facesse il sottosotto-segretario di qualche ministro, o almeno il vice-vicecapo sindacalista o qualcos’altro del genere, insomma. Poteva
anche lasciar correre che fosse un docente universitario o uno
scrittore, ma un semplice professore questo no, non se l’era
immaginato. Pensò che qualcosa non quadrasse. Ma
dopotutto, poteva essersi perso qualche passaggio al telefono.
Ridomandò: “Scusi, vorrei essere sicuro. Mi conferma che lei
è il referente di una specie di inchiesta segreta sulle condizioni
in cui versa oggi l’Italia?”.
Edoardo convenne. “In un certo senso, sì. Mettiamola così:
la conoscenza di un libro molto, molto importante per la storia
della nostra nazione sta per venire ridiscussa, ampliata, le cose
potrebbero cambiare… in meglio, naturalmente. Presto
l’italiano medio, che gode di una discreta cultura storica,
troverà delle novità su cui riflettere ed entusiasmarsi. Le
interessa?”.
Edoardo si riferiva evidentemente alla Bibbia; presto ogni
persona avrebbe saputo che una parte di questo millenario
libro era saltata fuori proprio ora. Non avrebbe potuto essere
integrata tra i libri canonici, ma che importava: bastava fosse
autentica, per giustificarne un simile valore. Benjamin al
contrario pensò subito ai libri della massoneria, o di qualche
setta o associazione segreta: era altamente probabile che
fossero stati adottati dalle Stelle Spezzate; quei classici testi
che, dati in pasto ad un pubblico famelico di notizie fresche,
da soli facevano tendenza, senza bisogno di pubblicità.
Era tutto perfetto, allora. Rimaneva solo da accordarsi sulle
modalità con cui si sarebbero visti:
“Va bene se la raggiungo io, oggi pomeriggio? Verso le
quattro e trenta, diciamo?”. Aspettò. Dall’altro capo del
telefono arrivò la conferma: “Va benissimo. Solo la devo
informare di una ultimissima cosa. Può darsi che, per oggi
pomeriggio, non saremo presenti tutti”. Benjamin sussultò.
Come, non erano lui e il Righetti i soli a sapere di quella
scoperta meravigliosa?
95
“Come tutti?” s’informò col cuore in gola. Voleva che lo
scoop fosse suo: solo suo.
“Ecco, vede, c’è un gruppo di persone che lavora
all’edizione definitiva di un documento così importante. Sa, è
veramente una cosa grossa. Lei e io, per quanto bravi
possiamo essere ognuno nei nostri rispettivi campi di sapere,
non siamo sufficienti ad interpretare correttamente un simile
ritrovamento”.
A Benjamin parve di cominciare a capire un po’ meglio.
Un grosso manoscritto della massoneria era stato ritrovato.
Lui avrebbe fatto parte dell’equipe di lavoro:
“Ma almeno avrò l’esclusiva, quando sarà ora di rendere
noti i risultati?” obbiettò.
“La conferenza stampa sarà presieduta nientemeno che da
lei in persona. Le va bene?”. Edoardo era tranquillo e sicuro di
sé. A Benjamin quelle parole sembrarono un sogno. Se fosse
stato un tantino meno ottuso e meno assorbito dai suoi
pensieri, si sarebbe ricordato di domandare chi fosse a
finanziare la ricerca di tale preziosissimo reperto. Perché se
avesse solo sentito che era il Vaticano ad aver avviato il
progetto, avrebbe sicuramente capito che di un testo massone
non si poteva certo trattare, e che quindi il lavoro in ballo non
c’entrava un bel niente con la politica. Ma, tant’è, il desiderio
di gloria rende ciechi. Benjamin era così immerso nel
contemplarsi già ricco e famoso, che si dimenticò di fare la
fatidica domanda. Dall’altro capo del filo Edoardo non disse
nient’altro. Cosicché Benjamin riagganciò con la certezza di
avere finalmente trovato la gallina dalle uova d’oro.
Fece un’altra telefonata dalla cabina pubblica per
accordarsi su ritrovo che avrebbe avuto quella sera, con
vecchie conoscenze risalenti ai tempi del suo primo soggiorno
a Roma. Preferì chiamare nuovamente dal posto pubblico per
risparmiare il credito sul suo telefono cellulare.
Tornò in albergo che era quasi mezzogiorno. Aveva anche
una discreta fame. Meditava già che non sarebbe stato niente
male farsi portare giusto qualche piatto gustoso ad uno di quei
carinissimi tavolini che aveva intravisto all’uscita
dall’albergo. Davvero quel patio meritava molto, pensò tra se.
E non c’era motivo per pranzare da solo. Avrebbe invitato
96
anche Grazia, cosicché si sarebbero scambiati i risultati delle
loro rispettive ricerche di quella mattina.
Bussò alla porta della collega. Nessuna risposta. Bussò di
nuovo, più energicamente. Di nuovo nulla. Dall’interno della
camera non proveniva nessun rumore. Alla terza volta batté
vigorosamente il pugno sul legno della porta, dicendo a gran
voce: “Grazia, ci sei?”. Questa volta un debole sibilo:
“Avanti”, fu tutto quello che ottenne.
Benjamin entrò nella stanza vagamente confuso e
accigliato. “Non mi hai sentito bussare?” domandò scocciato.
“Perché, avevi bussato?” gli rispose in un soffio Grazia. Gli
voltava le spalle, era china sulla scrivania, intenta a scrivere
sul suo notebook. Il fumo di una sigaretta si levava dalla sua
sagoma, librandosi in alto in disegni che si smorzavano in un
baleno. “Non ti avevo proprio sentito. È da tanto che sei lì
fuori?”. La voce un soffio sempre più gelido, con una punta di
sarcasmo.
Benjamin cercò di non fare troppo caso alla scontrosità
della sua collega. D’altro canto era anche la sua direttrice, in
quel momento, e voleva strapparle la conferma a poter
lavorare sulle vicende caotiche della situazione interna del
paese.
“Sì, era da un po’ che bussavo. Ma lasciamo perdere. Ho da
darti delle favolose notizie”. E rimase in attesa che lei si
voltasse.
Ma Grazia non lo fece. Continuò a battere sui tasti del
computer, come fosse quella la sua unica preoccupazione e
non ci fosse nessun altro nella stanza. Benjamin cominciò a
innervosirsi. Solo quando lui prese ad avvicinarsi, lei gli
rispose:
“Anch’io devo comunicarti qualcosa. Parto. Il consiglio di
amministrazione del giornale ha fissato una conferenza stampa
per oggi pomeriggio alle 16.00. E quegli idioti non mi hanno
nemmeno avvertito. Evidentemente pensano di poter fare a
meno di me. Che imbecilli! Ma il consiglio di redazione ha
minacciato ostruzionismo: mi hanno chiamato subito; e tutti i
colleghi mi vogliono là al più presto. Quindi finisco di spedire
queste e-mail e vado via col primo aereo. Ho già chiamato
97
l’aeroporto: ho prenotato un volo Fiumicino-Malpensa per le
ore 13.00”. Gli spiegò secca.
“Torniamo tutti e due?” chiese in un affranto bisbiglio
Benjamin, sapendo che stava sgonfiandosi come un pallone
bucato tutto il lavoro messo in piedi con tanta perizia.
“No. Tu devi restare. C’è un’altra conferenza stampa.
Sempre alle 16.00”.
“Cos’è, la replica in parallelo della tua, soltanto fatta qui a
Roma?”.
Lei si voltò: aveva un’espressione truce dipinta sul volto.
Benjamin domandò subito scusa. Grazia proseguì: “Il
portavoce del governo farà il punto della situazione davanti ai
giornalisti sullo scandalo che in Parlamento agita così tanto le
acque. Darà anche notizie degli onorevoli indagati e quantaltro
voi gli domandiate, suppongo”. Era sempre acida e fredda.
“Tirano brutte acque, eh?! Soprattutto per i politici. E mi
dispiace anche per come ti sta trattando quel branco di vecchi
idioti del consiglio di amministrazione” pronunciò Benjamin,
grattandosi il mento, segno che era preoccupato. Per spezzare
l’aria cupa provò a cambiare il tono del discorso. “Beh, non
vuoi stare a sentire le mie favolose novità, invece? Così ti tiri
un po’ su di morale!”.
Ma Grazia bofonchiò un “No. Ho da fare”. E gli girò
nuovamente le spalle.
“No!?” fece lui di rimando, incredulo.
“Hai sentito. No”.
“Come sarebbe a dire no? Ma non mi stai nemmeno a
sentire?”. E poi gridando: “E, per piacere, voltati!”
“Senti, Benjamin” gli rispose, facendo un mezzo giro con
la schiena “sinceramente non credo che tu abbia delle
informazioni utili, veramente utili intendo. Sarai andato a
bighellonare in giro per Roma, parlando con qualcuno che
conosci tu che ti avrà raccontato delle mezze frottole. Più o
meno la penso così”. E si voltò tornando allo schermo del
computer, aggiungendo: “non ho tempo da perdere, io”.
Benjamin fumava dalla rabbia. Stava per esplodere, ma si
trattenne. Aveva davanti il suo capo. Provò a scoprire le carte.
“Ti sbagli. Ho raccolto informazioni sulle Stelle Spezzate.
Ho parlato al telefono con Edoardo, il mio vecchio amico. Lui
98
può confermarmi l’esistenza di un progetto, per ora segreto e
portato avanti da un’associazione senza scopo di lucro il cui
nome non è ancora stato diffuso, per la divulgazione di uno fra
i più importanti testi delle Stelle Spezzate; cosi che tutti gli
italiani, leggendo quelle cialtronerie, capiscano quanto male
questo movimento sta provocando in tutto il paese”.
“Ah sì?”. Indifferente.
“Oggi andrò a trovare Edoardo a casa sua” concluse sicuro
di sé.
“Ne dubito. Oggi tu hai la conferenza stampa a
Montecitorio. Alle 16.00, ti ricordo. E poi devi inviarmi il tuo
articolo entro le 21.00, per andare in stampa domani mattina”
sentenziò lei irremovibile.
“Beh, vuol dire che da Edoardo andrò dopo” obiettò
Benjamin.
“Non credo proprio. A meno che tu non voglia farti invitare
per cena dal tuo amico. E magari farti raccontare di questo
libro tra una bistecca e una foglia d’insalata. A scrocco”.
Benjamin stava per sibilarle “vipera”, ma si trattenne
ripetendosi in continuazione che aveva di fronte la sua
direttrice. Però lui era il caporedattore, diamine! Prese
coraggio e disse:
“Puoi anche non credermi, ma almeno fammi provare. Lo
vedrò domani, allora, e poi proverò a buttare giù due righe che
spieghino come abbiamo rintracciato questa pista promettente.
Che ne dici?”.
“Per me ci faresti solo la figura dello scemo. Che prove
hai? Hai con te il libro, per caso?”
Lui non ne potè più.
“Ma cosa ti prende?” esclamò “Siamo venuti fin qui a
Roma per indagare sui fatti sinistri accaduti in Parlamento. Me
l’hai proposto tu stessa, o non ti ricordi più quello che mi hai
detto al telefono per convincermi a seguirti?! E adesso che
abbiamo dell’ottimo materiale, tu ci sputi sopra. Proprio non ti
capisco”.
A queste ultime parole Grazia sussultò.
“Finiamola qui o perderò l’aereo” troncò secca. “Per
piacere, esci di qui, Benjamin”.
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Ma lui continuò sullo stesso registro: “E poi c’è sempre da
vedere se ti riconfermano direttrice. In fondo la conferenza
stampa è oggi alle 16.00, come hai detto tu stessa. Sei
preoccupata per il giornale?” azzardò lui.
“Sì” sospirò. E poi: “E per qualcos’altro, anche”. Grazia
pensò alla sua talpa. Non si era fatta trovare. In realtà non
sapeva cosa fosse successo, poteva darsi che all’ultimo
momento fosse stata minacciata; sta di fatto che era la seconda
delusione che incassava quella mattina, non ne poteva più.
“Puoi dirmi di che si tratta?”.
“No” fu la risposta secca ed irremovibile.
Ad un tratto a Benjamin si accese una lampadina in testa.
Grazia era arrabbiata con lui. Come un lampo gli guizzò in
testa il ricordo che la sera prima si erano dati appuntamento
giù nell’atrio, in veranda, per la colazione. E lui non c’era
andato. Un sorriso piano piano spuntò ad incorniciargli il viso.
Grazia era sempre girata.
“Uhm,…allora lascia che ti dica, prima che tu parta, che
sono in debito con te” disse con fare enigmatico.
Grazia cadde nella trappola come una leonessa che
precipita in una buca scavata apposta in un terreno cedevole e
franoso.
“Cosa vuoi dire, Benjamin?” domandò con l’aria di non
fidarsi dell’amico.
“Solo questo. Che tu sei in credito”. Benjamin cominciava
ad assaporare di averla in pugno.
“Spiegati meglio, o levati di torno”.
“Ecco, volevo solo intendere, che tu sei in credito con
me… di una colazione!”
Grazia si voltò di scatto, scarlatta in viso.
“Io non ho bisogno di niente da te! Nemmeno di una
colazione!”sbraitò.
“Peccato, pensavo che ci tenessi, almeno un pochino” la
stuzzicò.
“Cosa vuoi insinuare, rammollito di un americano? Io non
accetto inviti al posto di quelli vecchi di cui ci si è
dimenticati!” ruggì.
100
“Ecco, vedi che ci tenevi?! Perfetto. Stai sicura che ti sei
giocata il mio invito a pranzo per domani, nel caso tu facessi
ritorno qui a Roma”.
“Non c’è bisogno che sprechi il tuo prezioso tempo a darmi
ordini! Se ritornerò o meno, lo deciderò io. Solo io. Ora
lasciami lavorare in pace, e non interferire nelle mie
decisioni”.
“Fai tanto la preziosa perché ti è rimasto sullo stomaco che
mi sono dimenticato l’invito che ti avevo fatto!” le buttò in
faccia Benjamin, carico d’ira.
“È solo che non voglio aggiungere il mio nome alla lista
delle tue conquiste in terra italiana” sibilò Grazia.
“Stai tranquilla, a me piacciono tutte le donne tranne quelle
in carriera!” ringhiò, e se ne andò sbattendo rumorosamente la
porta.
Non poteva sapere di star ferendo Grazia nel più efficace
dei modi.
101
X
Quando uscì dall’Ospedale, Giulia sbrigò alcune
commissioni urgenti ritardando il suo rientro a casa. Alla fine
arrivarono in un attimo le sei del pomeriggio.
Sebbene la sera si stesse avvicinando inesorabile, gettando
sulle cose le sue lunghe ombre nere, quel poco di luce che
ancora resisteva le faceva pensare che anche i momenti bui
della vita possono essere illuminati dal chiarore della
speranza; la speranza di capire, prima o poi.
“Perché Fischer si è sentito male?”. Per tutto il giorno
Giulia non era riuscita a levarsi di torno questa
considerazione.
Staccò gli occhi dal cielo che stava digradando verso un
malinconico blu e si appoggiò soprappensiero alla fermata
dell’autobus. Non poteva fare a meno di pensare che quel suo
viaggio a Calcedonia c’entrasse qualcosa. Ma il libricino degli
appunti di viaggio le era stato violentemente strappato di
mano: era evidente che Fischer voleva far passare tutto sotto
silenzio, forse aveva dei segreti. A pensarci bene, osservò
Giulia, quell’uomo era proprio il tipo di persona bella ed
enigmatica che poteva celare un sacco di misteri.
Nel frattempo arrivò l’autobus. Si ravviò i capelli nei pochi
secondi di attesa prima che il portellone per salire si
spalancasse. Salì i gradini, procedendo lungo il corridoio
centrale a passi svelti e sicuri; i tacchi alti degli stivaletti la
slanciavano, un uomo di mezza età che doveva scendere alla
fermata successiva le cedette cortesemente il posto. Giulia
sorrise per ringraziare e si sedette. Vide la propria immagine
riflessa nel vetro dell’autobus, mentre sullo sfondo si stagliava
l’imbrunire della sera.
Sospirò.
Quella sera stessa Giulia aveva deciso di raccontare per filo
e per segno a Roberto tutto ciò che riguardava il paziente della
stanza numero trentuno. Del mistero che avvolgeva il suo
ricovero in ospedale, dei suoi sintomi, della terapia
prescrittagli e delle ancora più strane ed inspiegabili
dimissioni. Riconosceva che quella dolce fantasticheria in cui
102
si trastullava era un misto di sollecitudine per lui, ma anche di
spaventosa attrazione. Però lei amava Roberto. Ne era
convinta. Si rifugiò nell’idea che sarebbe bastato parlargliene
per far svanire quell’ossessione, esattamente come una bolla
di sapone che si scioglie al sole.
Dunque, a parte un leggerissimo velo d’ombra che le
perdurava contro voglia sul volto, quella sera Giulia era
allegra. O almeno si sforzava di esserlo. Aspettava solo il
momento giusto per confidarsi con Roberto. Avviluppata nella
sua tuta rosa shocking tanto da sembrare appena uscita da un
cartone animato, con un’espressione giuliva sul volto, era
convinta che da quella domenica lei e Roberto avrebbero
condiviso insieme le loro vite e il loro tempo. La loro unione
sarebbe risultata fantastica, amabilmente invidiata da tutti.
Stavano sbrigando gli ultimi preparativi.
“È incredibile quanto c’è da lavorare per sistemare una
casa!” commentò Roberto, che stava trafficando dietro ad una
serie di prese in cucina.
“Però è diverso quando quella per cui ci si affatica tanto è
la propria” gli fece eco Giulia che stava disponendo
ordinatamente il frullatore e altri piccoli elettrodomestici in un
ripiano in basso. Armeggiava con grazia, al pari di una regina
occupata nell’ordinaria amministrazione del suo regno.
“Siamo solo in affitto: non dimenticarlo!”.
“Ma è pur sempre casa nostra, finché ci stiamo. E secondo
me, staremo qui un bel po’ di tempo. Tu che ne dici?”.
“Può darsi. Tutto è possibile”.
Mentre prendeva la scala per avvitare il bulbo del
lampadario al soffitto, proseguì:
“Tutta questa fatica però, non ti sembra un po’ sprecata?
Arredare ogni angolo di questa casa fin nei dettagli, per poi
magari dover andare via fra qualche anno. Speriamo che tutti i
mobili nuovi che abbiamo preso vadano ancora bene…”
mugugnò. Roberto era un uomo pratico: non poteva fare a
meno di fare simili considerazioni, solo che non erano per
nulla romantiche, né tanto meno rassicuranti.
“Parli come se dovessimo rimanere qui giusto un paio
d’anni. Cosa potrebbe spingerci ad andare via? Io non riesco
proprio ad immaginarmelo. Secondo me staremo benissimo
103
qui per un sacco di tempo”. Le si affacciò un dubbio nella
mente. “Non è che vuoi trasferirti al tuo paese, vero? Trovare
lavoro là…? Perché in questo caso come farei io a lasciare
l’ospedale? Dovrei chiedere il trasferimento con congruo
anticipo e non è detto che in qualche A.S.L. della zona, lì nel
tuo caro Abruzzo, ci sia un posto libero così in fretta… E non
sono nemmeno tanto sicura di volermi allontanare da Roma: ci
sono dei negozi così belli, qui! Come farei senza, laggiù ?”.
A Roberto quest’ultima affermazione parve assolutamente
fuori luogo. Comunque Giulia aveva centrato nel segno. Era
da qualche mese, esattamente da quando lei aveva cominciato
a tempestarlo di inviti per andare ad abitare insieme, che a lui
era venuta voglia di ritornare in Abruzzo; se non proprio nel
suo paesello, almeno lì nei dintorni. Ma quello era un sogno
nel cassetto. E in un cassetto chiuso rigorosamente a chiave
con tanti giri.
Tanto per rispondere qualcosa e mettere a tacere Giulia che
stava pericolosamente avventurandosi vicino al suo cassetto
segreto, buttò lì la prima cosa che gli venne in mente:
“Supponi che per sbaglio tu rimanga incinta. Ci servirà una
stanza anche per il pupo. Qui non ce l’abbiamo una camera da
letto in più”. In effetti gli piacevano proprio tanto i bambini, e
Giulia lo sapeva. Era una delle prime cose che lui le aveva
detto, all’inizio della loro relazione.
Giulia per una frazione di secondo lo squadrò: in quel
preciso momento era ritto sulla scala, con i suoi jeans sbiaditi
ed il vecchio maglione di lana blu, stava finendo di montare il
lampadario a pagoda, scelto proprio da lei in un negozio del
centro. Gli si leggeva sul viso la solita aria tra il riflessivo e il
divertito, anche se in quel momento aveva stampata sul volto
un’espressione un po’ sorniona. Evidentemente stava
pensando a come sarebbe stato bello avere lì, sotto la scala, in
una carrozzina dai disegni patchwork, un bimbo che dormiva
beato.
“Lo so che lo dici solo perché ti piacciono i bambini,
vero?”. E lo chiese con un tono di voce nient’affatto neutrale.
Roberto sospirò. Era un bene che quel cassetto rimanesse
chiuso a doppia mandata.
104
“Certo, non ti preoccupare. Anch’io starò attento a non
commettere imprudenze. Te lo prometto”. rispose a
malincuore. E da una parte remota della sua coscienza
qualcosa gli gridava che un bambino non poteva essere solo
un errore. In nessun caso. Ma chissà se anche Giulia la
pensava allo stesso modo. Pareva proprio di no.
Ora il lampadario-pagoda era stato avvitato. Roberto notò
che pendeva leggermente di lato perché il filo elettrico del
lampadario era più corto della catena che scendeva anch’essa
dal bulbo, alla quale era appesa la raffinata pagoda: purtroppo
il filo impediva alla catena di distendersi in tutta la sua
lunghezza. Non vi diede troppo peso.
Lanciò un’occhiata veloce attorno alla stanza. Era
soddisfatto. Non c’era nulla da ridire, in effetti, circa la
bravura di Giulia nel sistemare la loro cucina.
Pensò all’indomani. Non smetteva di ronzargli per la testa
il messaggio del telegramma ricevuto il giorno addietro, con
l’ingiunzione di recarsi in Via dei Tigli. Per questo motivo
quella sera era irrequieto. Per fortuna, si trattava di una via di
Roma. Andare in un’altra città sarebbe stato impensabile per
uno come lui, con una compagna che voleva sapere
ventiquattr’ore su ventiquattro dove lui si trovava.
“Vado a prendere piatti, bicchieri e posate dagli scatoloni!”
esclamò nel frattempo Giulia, che scomparve rapidamente
dietro la porta. Risuonavano i suoi passi, di corsa lungo il
corridoio dove erano accatastati gli scatoloni con le cose
imballate provenienti dalla casa di Roberto.
“Meno male che Giulia non mi legge nel pensiero” si
ritrovò a pensare Roberto un po’ cinicamente “altrimenti
chissà quale grana mi pianterebbe se si accorgesse dell’
insicurezza dei miei sentimenti verso di lei”.
Tutto ad un tratto una vocina esile esile, che gli parve
risalire da un recondito anfratto della sua coscienza, sbottò
all’improvviso: “Ma che cavolo stai facendo, Roberto? Sei
sicuro di voler vivere con lei? D’accordo che ti piace un
sacco, è la ragazza giusta per te, e via dicendo; ma desideri
veramente con tutte le tue forze abitare gomito a gomito con
lei? Sei sicuro di volere proprio questo?”.
105
“Che ti prende?!”. Un’altra voce, questa volta un po’ più
forte e virile, proveniente dalla testa, gli si parò davanti per
domare quella precedente. “Ci hai pensato e ripensato più
volte, e hai capito che tu vuoi stare proprio con lei. Ed è
naturale che due persone che si vogliono bene, ad un certo
punto decidano di andare ad abitare insieme. Rilassati,
Roberto, tanti lo fanno…”.
“Sì, ma di solito lo fanno avendo già l’intenzione di
sposarsi, dopo un pò di convivenza insieme”. Di rimando la
stessa vocina esile. “Pensa che bello, sposare la donna che
ami. Avere dei bambini! Concentrati su quello che desideri!”.
“Ma piantala di parlare di matrimonio! È roba da
matusalemme! Da secolo scorso! E poi Giulia non ha mai
tirato fuori nemmeno una volta, per sbaglio, la faccenda del
matrimonio! Impara da lei!” rispose subito, secca, l’altra voce.
Ad ogni intervento, diventava più decisa e robusta.
Ma anche quella più flebile non scherzava. “Eh, piano
Roberto, che a capire le donne non s’impara mai abbastanza!
Puoi dire di conoscere Giulia veramente a fondo? E se ti
capitasse qualcosa d’improvviso, una malattia, un rovescio
finanziario… come faresti? Avresti ancora l’appoggio di
Giulia?”. Anche quella vocina acquistava timbro e volume.
“Non cominciamo a fare la cornacchia. Roberto, stai solo
buttando lì delle supposizioni, senza conoscere veramente il
futuro. Attieniti rigorosamente ai fatti. E questi parlano fin
troppo chiaro: tu sei senza una casa, la tua ragazza – bontà sua
– ne trova una che va bene per tutti e due, decidete insieme di
andare a starci. Qui finisce tutta la storia”.
Nel mentre entrò Giulia che lo apostrofò con voce
squillante:
“A cosa stai pensando, amore? Sei così taciturno… È
perché sei troppo stanco, vero?” e si fermò davanti al tavolo
della cucina, dove lui si era seduto a contemplare la sua nuova
dimora. Purtroppo la postura che aveva assunto lasciava
trapelare il suo malumore: ingobbito sulla sedia, alquanto
meditabondo, aveva tutta l’aria di uno che è schiacciato da un
peso insopportabile. Giulia se ne avvide, anche se non trasse
subito le conseguenze peggiori. Si limitò a pensare che il
106
malessere del suo ragazzo fosse semplicemente dovuto
all’eccessiva stanchezza.
“Vittoria!” gli risuonò dentro la prima vocina, quella esile.
La sua coscienza lo ammonì: “Dille che non sei sicuro,
diglielo, diglielo, diglielo, su… ora…”. Ma la vocina si
smorzò in fretta, perduta nelle pieghe del suo animo. Senza
indugio le subentrò la voce razionale, che smorzò ogni
briciola di indecisione:
“Mi è venuto in mente che devo ancora dare il mio nuovo
indirizzo a tre o quattro vecchi amici, giù al mio paese.
Pensavo di farlo domani mattina. Telefonerò loro da casa mia,
prima di venire qui” s’inventò. Temporeggiare con se stesso
per lui era diventato un’abitudine. Conosceva bene le pecche
del suo carattere: insicurezza, mancanza di un vero senso di
intraprendenza, sfiducia di sé. L’unico motivo per cui aveva
avuto il coraggio di venire via dal suo paesino, era per imitare
il suo grande amico Claudio. Ma anche qui i diversi destini di
entrambi avevano ben presto scoperto le carte: uno squallido
lavoro per lui, una vita di successo per l’altro.
Nonostante tutto, ora Claudio era ricomparso nella vita di
Roberto, e con una proposta a dir poco strana. Eppure Roberto
si sentiva attirato. In fondo, anche se invidiava l’amico, non
per questo non gli voleva bene, o non si fidava di lui. Anzi,
l’affetto che nutriva per lui smorzava almeno in parte le fitte
d’invidia che lo prendevano quando pensava alla vita
magnifica che Claudio conduceva: sempre in giro per il
mondo, e con una provvista interminabile di denaro. Era certo
che la proposta dell’amico riguardasse un’opportunità di
lavoro: traspariva dal telegramma. Ma Claudio non aveva
pensato a Giulia. Roberto si rendeva perfettamente conto che
quella domenica non poteva piantarla in casa, da sola, il primo
giorno nella loro fiammante nuova casa, con la scusa di un
folle incarico arrivatogli via posta da un vecchio amico
d’infanzia, che non si faceva più vedere da anni!
I pensieri di Giulia, nel frattempo, dovevano essere stati del
tutto diversi, perché lei gli rispose perfettamente tranquilla:
“Certo, tesoro. Fai bene a chiamarli. Naturalmente è
d’obbligo festeggiare l’entrata nel nostro nuovo appartamento
con una splendida cenetta, che m’incarico personalmente di
107
preparare: sai, quelle cose a lume di candela, champagne e
tutto il resto”.
Roberto era pallido. Aveva a disposizione solo la mattina
per provare a rintracciare il tizio che abitava in Viale dei Tigli,
al numero tre. E se mentre era là da lui, la faccenda si fosse
protratta per parecchio tempo, come avrebbe fatto? Senza
contare che doveva trasferire ancora le ultime casse di vestiti,
e consegnare le vecchie chiavi di casa al legittimo
proprietario.
Giulia pareva non accorgersi dell’irrequietezza del suo
ragazzo.
A questo punto Roberto si alzò, ancora vagamente incerto
sul da farsi, ma deciso in ogni caso a far sì che Giulia non
s’accorgesse minimamente di quanto gli stava passando per la
testa in quel momento. La deliziosa cenetta della sera
successiva lo allettava parecchio: lei era bravissima in cucina
e lui sentiva già l’acquolina in bocca al pensiero delle
prelibatezze che lei gli avrebbe cucinato.
“Ehi, ma non l’hai montato bene!” sbuffò Giulia d’un
tratto. Si stava riferendo al lampadario che penzolava un po’
storto, dalla cima del soffitto. Si era rabbuiata alla vista di
quell’imperfezione. Emise un gemito di delusione.
“È perché il filo della corrente elettrica è troppo lungo,
rispetto a quello che tiene su la tua pagoda; se l’avessi lasciato
pendere diritto dal soffitto, ci sfiorerebbe senz’altro le teste” le
spiegò lui con pazienza.
“Ma mi prometti che lo sistemerai, domani, caro?” gli
domandò, con un fondo di caparbietà nella voce.
“Va bene: lo accorcerò. Promesso”.
“Allora, d’accordo”. Giulia gli sorrise radiosa. Roberto
l’attirò a sé e con un bacio appassionato la rassicurò più di
mille parole.
Fu a questo punto che Giulia sentì che era arrivato il
momento opportuno. Roberto era senza dubbio stanco, ma
teneramente ardente nei suoi confronti. Non gli avrebbe mai
parlato se si fosse dimostrato freddo o scontroso.
“Senti, caro, è da stamani che volevo confidarmi con te.
All’ospedale hanno fatto confusione con un tizio: una brutta
storia, sicuramente. Più ci penso, più mi dispiace per lui”.
108
“Cosa hanno fatto?” domandò Roberto. Era sempre
emaciato, ma attento.
“Te l’ho detto. Sono preoccupata. Hanno dimesso uno a
cuor leggero. Non era mai successo prima, almeno in questi
ultimi cinque anni, da quando sono arrivata. Il punto è che gli
hanno sospeso la terapia farmacologia che il primario aveva
appositamente messo in piedi per lui; ora vogliono lasciarlo
senza. Ma così ripiomberà nel male di cui soffriva prima!”
“Ma sono pazzi o che altro?” rispose energico e accorato
Roberto.
“Non lo so. È come se ci fosse un velo di mistero in tutta
questa vicenda. Stamani, per caso, ero presente alle dimissioni
di quell’uomo: le ha firmate il vice-primario, in assenza del
primario che era ad un convegno. Il fatto strano è che poi la
zia, che è venuta a prenderlo, sembrava voler parlare col
primario a tutti i costi. Mentre il vice, al contrario, pareva
essere d’accordo col paziente: che non c’era bisogno di
ulteriori pareri. Dovevi vedere quanto erano tranquilli!
L’uomo, in particolar modo, pareva contento di andarsene.
Non era affatto preoccupato per la sua salute! Non così la zia
che scalpitava allarmata, nonostante si desse un certo
contegno per dissimulare i suoi timori, e voleva sapere quando
trovare il primario per parlargli. Ha menzionato, tra le righe,
che sarebbe giunta persino a pagarmi, purchè io l’avessi messa
in contatto con il primario. Evidentemente pensava che suo
nipote e il vice-primario potessero essere in combutta, o giù di
lì”.
“Per sospendere i farmaci? Ma che malattia ha quell’uomo?
E perché diavolo è venuto a prenderlo la zia?” domandò
accigliandosi. Anche per lui qualcosa in quella pazzesca
vicenda cominciava davvero a non quadrare.
“E’ un uomo giovane, sui trantacinque anni, su per giù”.
Spiegò Giulia, ma vedendo che Roberto si accigliava ancora
di più, s’affrettò ad aggiungere: “Ma è molto, molto malato.
E’ stato ricoverato una settimana fa per una crisi diabetica,
aggravata da altri problemi di cui però non sono in grado di
riferirti, perché non ho mai visto la sua cartella clinica.
Proprio oggi il vice-primario me l’ha tolta di mano, quando
s’è accorto che ci avevo messo sopra gli occhi. Comunque
109
aveva sfiorato il coma, prima di entrare. Per giunta l’abbiamo
internato che prendeva dei forti psicofarmaci, in seguito ad un
brutto periodo depressivo in cui era scivolato. Ora il viceprimario gli ha sospeso quasi tutti i farmaci: gli rimangono
giusto i medicinali per abbassare la pressione e l’insulina,
naturalmente; ma via gli anticoagulanti, via gli psicofarmaci.”
“Come fai a sapere che soffre di depressione?”. Roberto era
perplesso.
“Ho sentito il vice-primario che parlava di questo paziente
con la capo-sala. Ma non ha aggiunto altro”.
“Uhm, e così tu ascolti le conversazioni dei tuoi diretti
superiori… lo fai sempre?” Roberto fiutava che Giulia gli
stava nascondendo qualcosa. Lei capì e decise di troncare la
conversazione confidenziale:
“Ascolta. E’ solo che volevo consigliarmi con te su cosa
devo fare. La zia mi ha fatto quella strana proposta: che forse
mi ricompenserebbe, se la mettessi subito in contatto col
primario. Lui conosce di cosa soffre l’uomo in questione.
Secondo te, dovrei cercare di reperire il dott. Albrigi, il
primario, ed esporgli i fatti?”
“Come faresti, scusa, a cercarlo?”
“Bèh, lui lascia sempre un recapito in ospedale, per le
urgenze. Ma lo sanno solo il suo vice e la caposala. Potrei
cercare di saperlo da uno dei due.
Roberto stette qualche secondo a riflettere.
“Lascia perdere tutto” concluse. Non disse altro,
considerando chiusa la questione.
Anche se laconico, a Giulia piacque il consiglio. Si rendeva
conto che avrebbe dovuto mettere sopra l’intera faccenda una
pietra tombale. E che avrebbe dovuto cercare di dimenticare
un nome, Martin.
110
XI
Quella sera in albergo Benjamin stava scrivendo la
relazione della conferenza stampa da inviare alla redazione del
giornale.
In camera regnava un’atmosfera ovattata, complice la
abatjour accesa sul tavolino e la finestra socchiusa dalla quale
spirava l’aria fresca della sera e la luce del lampione di fronte.
“Roma è veramente bellissima di sera” pensava Benjamin.
Soltanto le grida degli ultimi turisti che dovevano ancora
ritirarsi nei ristoranti per cenare e il chiasso di alcuni ragazzi
che stavano correndo nella via sottostante rompevano quel
magico incantesimo.
Nonostante i rumori che provenivano dalla finestra aperta,
Benjamin aveva quasi terminato l’articolo.
Lo turbava un velo di preoccupazione per il modo in cui si
era separato da Grazia. Cominciva anche a nutrire fondati
sospetti che l’incontro di Grazia con il suo informatore segreto
non avesse sortito gli effetti sperati, altrimenti lei non si
sarebbe comportata in modo così pungente con lui.
Tolse le mani dalla tastiera del computer e rilesse
soddisfatto la schermata video:
“Roma. Ore 16.00. La sala della conferenza stampa è
brulicante di giornalisti intervenuti per ascoltare il resoconto
dell’onorevole Felice – mai nome fu più appropriato. Ci
strattoniamo con i gomiti fra noi colleghi per accaparrarci i
posti più visibili, in modo che l’onorevole (chiunque si occupi
seriamente di politica interna sa che l’onorevole Felice è
miope come una talpa) si accorga senza troppa fatica delle
nostre mani alzate.
Il giornalista accanto a me (non faccio nomi per la legge
sulla privacy) ha un vistoso anello sulla mano destra, la
collega davanti a me ha un completino rosso fuoco
mozzafiato. Non vado oltre per rispetto alla categoria cui io
stesso appartengo. Per la verità avevo pensato di mettermi il
mio cappello da cow-boy, ma qualcuno me l’ha sconsigliato.
L’onorevole, che oltre ad essere cieco come una talpa è
anche assonnato come un tasso appena uscito dal letargo,
arriva incespicando un paio di volte. Si riaggiusta gli
111
occhiali. Ma ha per caso dormito mentre era in riunione? Ce
lo domandiamo tutti più o meno apertamente.
Ci aspetteremmo un comunicato stampa di circa un quarto
d’ora. Invece ci accorgiamo che il foglio dattiloscritto che
l’onorevole tiene ben stretto in mano è uno solo. Vuol dire che
lo leggerà tutto in tre minuti.
Infatti l’onorevole si limita a ben poche novità
sull’andamento dell’inchiesta: questa prosegue con la
massima discrezione e la massima accuratezza, per non
tralasciare nessun indizio. Ma non ci sono sostanziali novità.
Il neo-partito Fondazione Risorse Nuove (appena alla sua
seconda legislatura) sta operando con successo insieme agli
altri partiti per circoscrivere lo scandalo; in più sta
preparando un disegno di legge per togliere l’immunità ai
parlamentari indagati.
Noi rimaniamo delusi. Una giornalista con un ampio
decolté alza la mano e prova a sondare che aria tira: “Signor
onorevole, quanti partiti sono coinvolti nello scandalo?”.
L’onorevole Felice fa un cenno col capo: per ora è ancora
topsecret.
Altra domanda: “Sono aumentate le procure che stanno
indagando sulle Stelle Spezzate e sui parlamentari corrotti?”.
Di nuovo l’onorevole Felice fa un cenno col capo: questa
volta sembra che voglia alludere ad un no.
Ennesimo tentativo di domanda: “Onorevole Felice, a che
punto dell’inchiesta siamo secondo lei?”. A questo punto
l’onorevole si sistema la cravatta e abbozza un sorriso: “E’
presto per dirlo, troppo presto…”. Chi ha orecchi intenda.
Sono tentato di porre anch’io una domanda. Alzo la mano,
ma la collega con il completino rosso mozzafiato mi precede:
“Onorevole Felice, come si stanno comportando le Stelle
Spezzate in questo frangente?”. Tutti la guardiamo: nessuno
ha compreso bene la domanda. Infatti l’onorevole strabuzza
gli occhi e si avvicina al microfono: “Prego?”. “Sì, intendevo
dire” spiega la giornalista inbarazzatissima: “ora che le
Stelle Spezzate non possono più contare sul loro piano
d’azione segreto, che per nostra fortuna è venuto allo
scoperto, cosa crede che faranno per riguadagnare terreno?”.
112
L’onorevole la guarda un po’ stralunato e risponde: “Non
so mettermi nella testa di un gruppo eversivo”.
A me sembra che tutta la politica italiana in questo
momento stia impazzendo. Non c’è alcuna risposta seria delle
istituzioni alle Stelle Spezzate: al momento assistiamo
unicamente al travagliato lavoro della commissione
investigatrice dalla quale, però, non trapela alcuna
indiscrezione. E assoluto silenzio anche dalle questure che
stanno indagando.
Speriamo che almeno i cittadini onesti non rimangano in
silenzio, ma creino una coscienza civile sempre più coesa
contro questo gruppo eversivo che vuole soltanto dividere
l’Italia, e riversare odio, dubbio ed incertezza nel futuro del
paese.
Firmato: Benjamin Tolosa”.
Ecco, l’articolo poteva andare. Inviò immediatamente il file
dal suo portatile e attese di ricevere la risposta da Milano.
Quando comparve la solita lucetta verde della ricezione
avvenuta, si sentì più tranquillo. Ora sapeva che Grazia stava
leggendo il suo articolo, o l’avrebbe letto di lì a poco, e poi
l’avrebbe sicuramente chiamato per discuterne insieme.
Mentre attendeva si alzò in piedi e prese a passeggiare per
la camera. Dalla finestra intravvedeva le coppiette che
passeggiavano abbracciate lungo la strada sottostante.
Ripensò a Grazia: aveva preso l’aereo inutilmente.
All’ultimo momento la conferenza stampa di Milano era stata
rimandata al lunedì successivo, in tardo pomeriggio, per
l’indisposizione repentina di uno dei soci più importanti (e più
vecchi) del Consiglio di Amministrazione. Una raffica di mail
aveva avvisato del cambio di programma.
Doveva convincere Grazia a tornare a Roma il più presto
possibile: la pista-Righetti poteva davvero dimostrarsi
un’arma vincente.
Dopo soltanto cinque minuti squillò il suo cellulare: dal
numero riconobbe che era Grazia.
“Pronto?”. Benjamin era calmo e rilassato.
“Benjamin stammi a sentire. L’articolo fila via liscio, ma ci
sono alcune cose che devi correggere”.
113
“Mi stai dicendo che devo ritoccarlo?”
“Devi togliere le allusioni ai vestiti dei giornalisti, agli
accessori, ecc.. Non siamo Vogue”.
“Ma danno il tono della riunione. Anche perché notizie
vere e proprie non ce ne sono”.
“E allora si scrive che non trapelano notizie, non che la
tizia davanti a te ha la minigonna…”.
“Ma vuoi che la gente compri il nostro giornale oppure
no?”
“Sì, ma voglio che mantenga un certo stile! Lo so che a
volte il vecchio direttore ti concedeva qualche libertà
d’espressione, ma qui te ne sei presa davvero troppa. Ne hai
approfittato”.
“Voi italiani non capirete mai come si fa giornalismo”.
“Inventandosi le notizie?”
“Non intendevo dire che bisogna inventarle; basta saperle
pilotare con intelligenza…”
“Benjamin, ascolta: devo chiudere la conversazione.
Correggi l’articolo e mandamelo. Altrimenti lo farò
correggere qui a Milano da qualcuno altro”.
“D’accordo. Aspetta, un’altra cosa: puoi tornare qui,
diciamo domani?”
“A che scopo? Ci sei già tu lì!”.
“Sì, ma domani sera vado dal mio amico Righetti, e vorrei
che ci fossi anche tu. Ho la sensazione che scopriremo delle
cose interessantissime. E’ la tua occasione d’oro per
acapparrarti lo scoop del secolo.”
“Vedremo, intanto ci penso. Ti richiamo quando ho un po’
di calma.”
“A dopo, va bene. Ciao”.
Per Benjamin era fatta. Grazia sarebbe venuta. Non era
stata per nulla titubante. L’aveva solo sentita stanca. Lavorava
troppo. Ma d’altronde, era la direttrice. Con l’aereo, in un’ora
sarebbe stata lì.
Si disse che voleva proprio aiutarla. Se la talpa di Grazia
non aveva funzionato, adesso sarebbero stati più fortunati.
Telefonò a Righetti per spostare il loro appuntamento alla
domenica sera e scese per cena.
114
115
DOMENICA 16 Marzo
XII
Venne domenica. Arrivò con lo stesso inesorabile
procedere del tempo per il quale alla domenica sarebbe
seguito il lunedì.
La radiosveglia sul comodino di Roberto gracchiò come
una vecchia cornacchia che emette grida stridule per attirare
l’attenzione. Segnava le otto. Lui si rigirò nel letto, facendo
emergere dallo spesso strato di coperte quel tanto di braccio
che bastava per spegnerla, e si rificcò sotto la trapunta.
“Accidenti a quel trabiccolo! Devo buttarlo via” fu il suo
primo pensiero, che proseguì per suo conto: “Giulia non vorrà
nemmeno stare a sentire di tenere sul comodino una
radiosveglia vecchia di vent’anni” considerò Roberto, ancora
tra i fumi del sonno.
Rimase immobile, nel tepore delle lenzuola, a riflettere su
quello che aveva appena pensato: radiosveglia… Giulia…
Giulia fu il suo secondo pensiero. E poi, come per magia, gli
si materializzò subito il terzo: che per quel che ne sapeva lui,
entro qualche ora non avrebbe più abitato lì.
A quella durissima constatazione sentì scivolargli via il
sonno senza poter fare nulla per trattenerlo. Si alzò a
malincuore e si trascinò sotto la doccia per schiarirsi le idee.
Quando emerse – i pori della pelle dilatati per il getto d’acqua
bollente – si sentì un altro.
Passò per la casa ad alzare le tapparelle. Fiotti di luce
biancastra si sparsero per la casa. Roberto aveva già tolto le
tende: la vista dei vetri spogli gli mise addosso un pò di
malinconia. Notò che fuori il cielo era grigio e coperto di uno
spesso strato di nubi basse, fitte. Sembrava dovesse piovere a
momenti.
Fece un’abbondante colazione a base di caffelatte con
biscotti presi dal pacco rimastogli da finire. Una volta sazio e
corroborato, andò a prendere il telegramma che aveva
accuratamente nascosto dentro le pagine del manuale di un
nuovo programma multimediale appena uscito: era il posto più
sicuro dal momento che Giulia non sarebbe mai andata a
116
frugare dentro un libro simile. Quei libri non potevano
interessarle di meno: era attratta solo dai best-seller di grido e
dai rotocalchi.
Roberto lesse e rilesse il telegramma: tornò daccapo per
almeno cinque volte; sperava ogni volta che affiorassero da
quel piccolo e sottile foglietto delle parole, invisibili ad una
prima lettura, che gli facessero balenare nella mente il motivo
di quello scarno invito, indirizzato proprio a lui. Macché. Gli
sorgeva una sempre più palese irritazione per il tono
perentorio usato da Claudio.
Scoraggiato da una simile assenza di indizi, si decise a fare
l’unica cosa che gli era rimasta da fare: alzò la cornetta del
telefono per farsi dare dal servizio automatico il numero
telefonico dell’abbonato che corrispondeva a quelle generalità.
Riagganciò dopo aver annotato il nome e il numero di
telefono all’interno del telegramma. Forse la matassa poteva
cominciare a sbrogliarsi.
Stava per accingersi a soddisfare la sua curiosità, il dito
indice già puntato sulla prima cifra del numero telefonico
appena trovato, quand’ecco che squillò il campanello della
porta.
“Aspetto visite?” si chiese Roberto. Conosceva già la
risposta: no. Lasciando il foglietto del telegramma col
prezioso numero di telefono appuntato con un fermacarte sulla
scrivania, andò ad aprire. Fuori dalla porta c’era Giulia, in
mano un vassoio con due cappuccini coperti e una mezza
dozzina di paste.
“Sorpresa!”, cinguettò tutta euforica. “Sono le nove di
questa splendida domenica mattina! Ti ho portato la
colazione!” e gli ficcò in mano il vassoio. Visto che lui aveva
una faccia scura e non si scostava per lasciarla entrare,
aggiunse:
“Non so quanto ti fosse rimasto in casa da mangiare, sai,
con tutta la roba negli scatoloni. Ho pensato che potevi anche
morire di fame. Naturalmente non avrei mai potuto
permetterlo”. Lo squadrò, ritta sulle gambe, l’espressione
metà speranzosa e metà seccata, quasi aspettasse la sua
superflua approvazione.
117
“Ah, sì” cominciò lui, imbastendo qualcosa che
assomigliasse vagamente ad un ringraziamento: “grazie,
amore, ehm…, con questo tempaccio, correre fuori casa per
venire qui da me così presto, sì insomma…” e lanciò
un’occhiata di traverso al finestrone della cucina, che si
intravedeva dal corridoio, per accorgersi con un tuffo al cuore
che dei bei raggi di sole stavano bucando, trionfanti, lo spesso
strato di nubi. “Cioè…” disse rivolto a Giulia, scostandosi per
lasciarla entrare: “solo un’ora fa minacciava pioggia, e adesso
guarda che sole!”. E con un profondo sospiro aspettò che
varcasse la porta d’ingresso, per richiuderla un attimo dopo
alle sue spalle.
Ma non si sarebbe dato per vinto. No. Il suo amor proprio
ferito gli diceva di non lasciar correre.
“Senti, tesoro, non avevamo detto che ci saremmo visti
oggi pomeriggio? Per la precisione, l’avevi affermato proprio
tu ieri sera, tanto solennemente… ricordi?” E mimando il
modo di fare di Giulia, tirò fuori le sue parole della sera
prima: “ Ci vediamo per una cenetta con champagne, e tutti gli
ammennicoli vari…”. E la guardò sottintendendo: “Allora?”.
Lei si voltò con fare angelico.
“Oooh, sì, è vero…! Sai che me n’ero dimenticata? Scusa
tanto, è grave?”. E poi, sgranando i suoi occhi truccati alla
perfezione, lo circuì cinguettando come un usignolo: “Che
buffo! Me l’hai fatto ricordare tu il nostro appuntamento di
stasera!”. Ma a Roberto più che un suadente uccellino, parve
un uccello rapace pronto a ghermirlo con i suoi artigli. E poi
era semplicemente impossibile che lei si fosse dimenticata del
suo invito, con inclusa la magnifica cena che sicuramente era
ancora da preparare; ma poteva benissimo essere che avesse
già comprato tutto quanto le occorreva al centro commerciale,
e poi avesse chiuso il cibo in freezer. Sperò con tutto il cuore
che non fosse così.
Roberto si riprese in fretta dall’effetto sorpresa di cui si era
servita Giulia per piombargli in casa.
“Ho già fatto colazione. Da solo” sbottò risoluto.
“Nel qual caso mangerò tutto io” rispose, facendo finta di
niente. E cominciò a slegarsi la cintura del cappotto di
118
cachemere color cammello che l’avvolgeva dalla testa ai piedi.
Le conferiva una linea sinuosa da giovane gazzella.
“Accomodati pure” disse lui brusco, e indicò la cucina.
“Tu non mi fai compagnia?”.
“Adesso non ho tempo. Ho da fare, in salotto”. E si barricò
in un lampo nell’altra stanza. Gli venne la tentazione di
chiudere a chiave la porta, ma resistette.
Sentì attraverso il sottile muro che divideva i due locali che
nel frattempo lei si era accesa la radiolina portatile. Immaginò
senza tanta fatica che stesse inzuppando la brioche nel
cappuccino.
Si rigirò per un po’ il foglio del telegramma tra le mani,
non sapendo più se telefonare o meno. Aveva perso quella
grinta che soltanto pochi minuti prima gli aveva permesso di
sollevare senza sforzo la cornetta del telefono. In più ora non
era solo: temeva che Giulia si accorgesse del suo piccolo
segreto.
Alla fine prevalse un sano senso d’orgoglio: “Oh,
insomma, quante storie per comporre un numero di telefono!”.
E con un improvviso scatto in avanti digitò il numero,
premendo con forza sui tasti. Rimase in attesa.
Uno squillo. Due squilli.
Oh bella, era un numero di Roma: quanto ci metteva a
rispondere?
Tre squilli. Quattro squilli.
“Quasi quasi riaggancio”.
Cinque squilli. Al sesto una voce forte e sicura echeggiò
dall’altra parte della cornetta:
“Pronto?”
“Ehm, buongiorno. Mi chiamo Sperati. Roberto Sperati.
Lei non mi conosce. La chiamo per un telegramma che ho
ricevuto ieri l’altro, con l’invito di venire da lei; ecco, vede, io
non vorrei disturbare…insomma…” Roberto si accorse che
non riusciva a destreggiarsi molto bene con la spiegazione.
“Oh bene, lei è il terzo! Finalmente le cose cominciano a
girare per il verso giusto. Venga che l’aspettiamo!”. Era
sempre la stessa voce forte e sicura di poco prima, soltanto
con una nota di divertimento in aggiunta.
119
“Sì, ehm, allora quando posso venire?”. Roberto saggiò il
terreno.
“Anche subito, se vuole. Prima si comincia, meglio è”
rispose lo sconosciuto. “Cos’è, uno scherzo?” pensò Roberto
che non ci stava più capendo nulla.
“Subito non posso…Vede, oggi trasloco…” cercava di
temporeggiare.
“Le faccio i miei auguri, allora, per la sua nuova casa”
disse la voce, pacata e risoluta al tempo stesso “senta,
riuscirebbe a raggiungerci stasera? Noi qui aspetteremo…
tanto anche il suo collega arriverà per quell’ora. Sono io che
avrei voglia di conoscervi subito, ma aspetterò. D’accordo?”
Roberto si convinse che, in effetti, si poteva benissimo
trattare di un nuovo impiego nel vasto campo del software, la
sua specialità. E da quel che aveva capito, c’era anche la
possibilità che il tizio cercasse un gruppo di programmatori.
Capitolò in breve. “D’accordo” si arrese. “Alle nove?”
“Non può un po’ prima, diciamo verso le otto?”. Roberto
sospirò: c’era la cena di Giulia, nella loro nuova casa. La sua
nuova casa. “Accetta il lavoro e falla finita!” gli rimbombava
nella testa la voce virile.
“Vada per le otto, allora. D’accordo”. E riagganciò, bianco
come un cencio. Adesso sì che doveva vedersela con Giulia.
Cercò di scacciare quel cruccio assillante e pensò all’uomo
della telefonata. Dalla voce forte e sicura gli sembrava un tipo
a posto, un manager probabilmente. Non che avesse
abbandonato del tutto l’idea di uno scherzo, ma qualcosa gli
diceva di fidarsi. Claudio non si era mai preso gioco di lui!
Ma gli ritornò in mente la cena con Giulia ad una velocità
sorprendente: come avrebbe fatto a svignarsela, da casa sua,
alle otto di sera?
Conosceva Giulia: avrebbe voluto venire via insieme con
lui a tutti i costi. Stette cinque minuti a meditare su come
levarsi da quell’impiccio. Ritto davanti alla scrivania: una
mano che sventolava il telegramma, l’altra con cui si grattava
la testa. Si sbottonò il secondo bottone della camicia, per
pensare meglio.
Invitare anche lei? Era una possibilità… però c’era la
faccenda della segretezza. Escluso. Svignarsela di nascosto?
120
Con un segugio come la sua ragazza?! No: idea cancellata.
Inventare una scusa? Ma lui non era bravo a recitare
commedie, lei se ne sarebbe accorta subito. E avrebbero
litigato. Portarla al cinema e poi fingere un mal di pancia
atroce, crampi e tutto il resto per tornare a casa? Ma lei
sarebbe rimasta lì a guardare il film, con il suo uomo che si
sentiva male? No, impossibile. Anzi, avrebbe avuto anche da
ridire sulla sua salute cagionevole, perché non era possibile
che una meravigliosa cenetta preparata con tanto amore e
bravura finisse per procurargli un’indigestione… Che fare?
Dopo altri dieci minuti, era sempre daccapo. “Angelo
custode, aiutami tu!” pensò come ultima, estrema ratio.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì aveva deciso: avrebbe
portato con sé anche lei. Al diavolo la segretezza.
“Da oggi condividiamo il nostro tempo ed i nostri impegni”
considerò con fare pragmatico “è la soluzione migliore”.
Confortato da un simile pensiero, ritornò in cucina da
Giulia. Seduta sullo sgabello del tavolo a gambe accavallate,
stava leggendo l’ultimo romanzo rosa comprato in edicola.
Levò gli occhi dalla pagina quando sentì la porta che si apriva
e vide comparire la sagoma di lui sulla soglia della porta.
“Ciao” gli disse tranquilla. “A che punto sei con valige e
scatoloni?”
“Di là è tutto pronto” rispose. Meno male che aveva avuto
l’accortezza di finire tutti i vari imballaggi la sera precedente,
rimanendo sveglio fino a molto oltre la mezzanotte. Così
mentre lui pochi attimi prima era al telefono, lei aveva creduto
che stesse sistemando le ultime cose.
“C’è ancora un po’ di cibo per me?” domandò con accento
speranzoso.
“E’ rimasto solo il cappuccino, freddo ovviamente. Per le
brioches non mi hai chiesto di tenerti qualcosa da parte”.
Pronunciò la frase con aria ironicamente dispiaciuta, per fargli
capire che si trattava di una piccola vendetta per il modo in cui
era stata accolta. Roberto rabbrividì al pensiero che la sua
ragazza si era divorata per intero sei paste.
“Fa niente” commentò affabilmente Roberto, senza
raccogliere la sfida. “Cominciamo bene!” si ritrovò invece a
pensare. “Ti va di uscire?” le chiese.
121
“E’ proprio quello che volevo” esclamò felice. Appariva
sollevata. Era evidente che non aveva voglia di trascorrere la
restante domenica in casa, con un cielo multicolore trafitto da
meravigliosi squarci di sole. Chiuse di scatto il libro, seguendo
diligentemente Roberto fin sulla porta. In un attimo furono
entrambi pronti per uscire.
122
XIII
La domenica sera in cui Roberto aveva fissato
l’appuntamento “di lavoro” sarebbe rimasta impressa nei suoi
ricordi come qualcosa di memorabile.
Nel primo pomeriggio il cielo si era rabbuiato, non facendo
presagire nulla di buono. Verso sera aveva iniziato a piovere
come se si fossero aperte le cataratte del cielo. La
perturbazione annunciata dal TG Meteo era finalmente
arrivata, fin troppo impetuosa a giudicare dalla furia degli
elementi. Scrosci violenti si abbattevano sulle strade spazzate
dalla furia temporalesca e picchiavano senza tregua sui vetri
dell’auto di Roberto. Sembrava che di lì a poco il tergicristallo
sarebbe stato strappato via dai getti torrenziali d’acqua, o
afferrato dalle raffiche di vento impetuose che scuotevano le
fronde delle piante ai lati della strada. Il cielo era buio pesto. I
lampioni sulla strada parevano quasi spenti.
Giulia stava rannicchiata sul sedile anteriore, le sue gambe
sottili strette insieme, quasi incollate l’una all’altra, tremava
leggermente per il freddo anche se indossava il pesante
cappotto; le dita si muovevano convulsamente sulla borsetta di
pelle, lasciando ogni volta le impronte della sua frenetica
presa.
Non proferiva parola perché questo le pareva il modo più
efficace per investire silenziosamente Roberto di tutta la sua
collera. L’aveva strappata dal loro romantico tête-à-tête,
l’aveva trascinata fuori dal loro caldo nido, l’aveva rinchiusa
in macchina dopo un’affannosa corsa sotto un’acqua
torrenziale, e adesso era già mezz’ora che procedevano a
rilento lungo le vie allagate della città. Per le strade deserte
avevano incrociato solo qualche altra autovettura temeraria
che si avventurava sotto il diluvio al pari di loro. Più ci
pensava e più si convinceva che il motivo che lui le aveva
addotto per tutta quella fatica sovrumana suonava
semplicemente assurdo.
“Mi ero già accordato con questo signore per parlare di
lavoro” le aveva spiegato Roberto, senza tanti giri di parole.
“Col trambusto del trasloco mi ero dimenticato di dirtelo.
Purtroppo non c’è alternativa: devo vedere questo tale proprio
123
stasera, è uno sempre in viaggio… è difficilmente reperibile,
non voglio perdere la possibilità di un nuovo posto di lavoro”
aveva concluso laconico.
Lì per lì lei aveva accettato di accompagnarlo, ma ora si
stava pentendo amaramente della decisione presa. Avrebbe
dovuto lasciarlo andar via da solo. Ma certe cose, purtroppo,
non si possono prevedere in anticipo, magra consolazione.
Roberto invece non osava proferire parola per il timore
pienamente fondato che lei esplodesse di rabbia, lo investisse
di orripilanti improperi e gli mandasse a monte l’accordo
preso. Cercava di mantenersi rilassato, sfoderando una calma
al limite dell’innaturalezza e sforzandosi di apparire sicuro di
sé. Guidava con attenzione ed, in fondo, pensava che l’acqua
era fuori e loro erano dentro.
“Magari stasera avessi un colpo di fortuna per cambiare
lavoro!” rimuginava. Sapeva bene di aver raccontato una
frottola alla sua ragazza ma, come talvolta succede, aveva
finito in cuor suo per desiderare proprio che una simile
circostanza si avverasse. Nel pensare alla sua triste condizione
di sradicato dalla sua famiglia d’origine, una fitta di nostalgia
gli attraversò lo stomaco e risalì fino al cuore. Ripensò al suo
paesello sull’Appennino abruzzese da cui era partito molti
anni prima in cerca di fortuna, carico di speranze e di sogni
nel cassetto. A quei tempi era talmente giovane e baldanzoso
che non aveva riflettuto troppo nel voltarsi indietro per vedere
cosa lasciava; senza pensarci due volte era salito su un treno
ed era partito, e da quel giorno il paesello e la sua famiglia
erano rimasti soltanto dei bei ricordi del suo passato, da
rispolverare a Natale e a Pasqua.
Il lavoro l’aveva anche trovato, si può dire, e in fretta.
Anzi, si reputava fortunato perché non era mai stato senza
lavorare ma, come era accaduto ad altri suoi vecchi amici
d’infanzia, aveva fatto l’amara esperienza di partire con
l’entusiasmo dei diciotto anni, pieno di slanci, di passioni e di
desideri da realizzare, e di accorgersi, una volta giunto a
destinazione che – come dice il proverbio – l’erba del vicino è
sempre più verde. Sì: il paesello era rimasto lassù sui monti,
lontano, a guardare uno dei suoi figlioli levarsi in volo sulle
ali della felicità verso mete migliori. Ma a dare il benvenuto al
124
ragazzo nella grande città era stata una sottile e strisciante
solitudine, la quale, scoprì ben presto Roberto, lo avrebbe
accompagnato in tutte le sue giornate, in ogni cosa che faceva,
da quando apriva gli occhi la mattina, ancora disteso a letto, a
quando li chiudeva la sera. Se gliel’avessero predetto, non
avrebbe mai creduto che avrebbe provato una così intensa
nostalgia per la sua famiglia.
Dopo tutti gli anni trascorsi nella capitale, volendo tirare le
somme, non avrebbe saputo dire a sé stesso se ne fosse valsa
veramente la pena. Rivide sfilare mentalmente davanti a lui il
corso di programmatore frequentato di giorno, mentre la sera
lavorava come cameriere in una pizzeria del centro per
mantenersi. Poi le prime collaborazioni con i negozi di
software, quasi gratis. E sempre la stessa pizzeria di sera.
Dopo un paio d’anni finalmente i primi contratti, tutti a tempo
determinato. Solo dopo cinque lunghi anni il primo posto fisso
presso una squallida software house di un’ anonima catena in
franchising, una come cento altre. Aveva mollato la pizzeria,
ma non era ancora riuscito a mollare la software house per
saltare in meglio. Eppure lui sognava con tutte le sue forze il
colpo di fortuna: entrare in una grande azienda produttrice di
programmi per computer e da lì cominciare la scalata al
successo.
Mentre tali pensieri attraversavano la sua mente, il
temporale continuava ad infuriare. Lui si manteneva sempre
vigile, con gli occhi incollati alla strada; ecco, avevano appena
svoltato in via dei Tigli. Si ricordava che il telegramma
riportava come numero civico il numero tre, oltrepassarono un
grosso condominio a più piani con le tapparelle tutte
ermeticamente chiuse e poi parcheggiarono di fronte ad una
graziosa villetta in squisito stile liberty che pareva appena
uscita da un angolo di Parigi.
“Bella la casa del tuo prossimo datore di lavoro” commentò
acida Giulia.
“Come ti ho già spiegato, è un conoscente alla lontana che
mi ha proposto di scambiarci delle “vedute di lavoro”. Così le
ha definite. Cosa c’è che non va, scusa?”
“Come cosa c’è che non va?!” urlò lei furibonda
lanciandogli un’occhiataccia inceneritrice. Ormai era evidente
125
che non si tratteneva più “C’è tutto che non va! Ma perché
non annullare l’incontro visto il maltempo!?” gli chiese come
fosse la decisione più ovvia che avrebbe preso chiunque sano
di mente.
“Impossibile” s’impuntò lui duro. “Ti ho già spiegato che
questo è un tipo irreperibile, viaggia parecchio, un
appuntamento con lui è prezioso come l’oro. E poi c’è da dire
che è lui che mi ha dato questo orario per incontrarci. E se a
lui va bene, va benissimo anche per me”. Lo disse con un tono
che significava: “e la discussione finisce qui”.
Saltarono giù velocemente dalla macchina. Roberto provò
un attimo fugace di gioia quando la sentì sbuffare:
“Quasi quasi torno a casa”.
Ma ripiombò nella cruda realtà quando, un attimo dopo,
aprì bocca obiettando: “Però non posso guidare da sola per
tornare, con tutta questa acqua. Non me la sento”. Non gli
rimase altro da fare che suonare il campanello.
Fortuna voleva che l’ingresso avesse due piccole colonne ai
lati della porta che sorreggevano un piccolo timpano
sporgente, sotto il quale si ripararono in attesa che la porta si
aprisse. C’era anche una piccola lanterna appesa proprio sopra
l’entrata, la sua debole luce valeva per loro come il faro per i
marinai in una notte buia e tempestosa.
Non dovettero aspettare molto: pochi istanti appena ed un
uomo di circa quarant’anni si affacciò sulla soglia, facendosi
subito da parte per farli entrare.
“Oh eccovi, accomodatevi” li introdusse con garbo nel
foyer. “Siete stati molto coraggiosi ad avventurarvi per le
strade allagate da questo tempaccio! Venite a scaldarvi dentro,
davanti al caminetto: ve lo siete proprio meritato!”.
Giulia non degnò Roberto di uno sguardo e seguì l’uomo
lungo un sontuoso corridoio con appese alle pareti varie
raffigurazioni dell’antica Roma imperiale; seguivano poi
serigrafie degli scavi, e immagini di altri soggetti più
“religiosi” quali mosaici raffiguranti il buon pastore, simili a
quelli rinvenuti nelle prime catacombe cristiane. Giulia
sprizzava odio per Roberto dalla testa ai piedi, ma sembrava
intimorita dall’autorevolezza che emanava dal portamento del
126
padrone di casa e dalla raffinatezza dell’abitazione. Non aveva
mai visto niente del genere.
Roberto richiuse la porta, mise le mani nelle tasche della
giacca a vento e seguì i due davanti a lui. Ebbe la netta
sensazione che ormai non si poteva più tirare indietro.
Al termine del corridoio voltarono a destra in un ampio
salone rettangolare, con la stessa litania di quadri appesi alle
pareti. Roberto notò che non c’era nessuna porta a separare
l’ambiente dal resto della casa, ma si entrava in esso
semplicemente da un vano spazioso sormontato da un arco a
tutto tondo, con i mattoni in bella vista. A richiamare alla
memoria che quell’abitazione doveva aver conosciuto tempi
più austeri, un antico focolare domestico restaurato
integralmente catturava subito l’attenzione, sulla parete di
fronte. Due spesse colonne lo attorniavano, costituite da due
tronconi di granito scuro poggianti pesantemente sul
pavimento di cotto. Era acceso, qualche fiamma più lunga
delle altre emanava dei bagliori ramati.
La luce soffusa proveniente da una piantana alogena in un
angolo, i sofisticati abbellimenti come l’arco d’ingresso, la
cornice di stucco che correva lungo tutto il perimetro del
soffitto (e la cui foggia era ripresa da un elaborato ghirigoro al
centro di esso), qualche pianta negli angoli morti della sala, le
tende di broccato, tutto conferiva alla stanza un’aria di nobile
eleganza, che intimorì Roberto il quale osservava tutto con
occhi sgranati.
Aleggiava nell’aria un cocktail indefinito di odori: un misto
di tabacco, di colori ad olio e di legna bruciata. Si respirava
nell’aria una sensazione di cordialità, come se i convenuti
fossero stati tutti amici di lunga data che si ritrovavano per
commentare un anno trascorso lontano gli uni dagli altri. Né
Roberto, né Giulia avevano ancora proferito parola, ma gli
altri nella stanza parevano tutti perfettamente a loro agio.
Ben presto l’uomo si voltò verso i due nuovi arrivati per
presentarsi:
“Mi chiamo Edoardo Righetti” disse allungando una mano
per stringere prima quella di Giulia e poi quella di Roberto. “E
questa” proseguì indicando Laura che si alzò dal divano
andando loro incontro “è mia moglie Laura. Qui alla mia
127
destra abbiamo il signor Tolosa” continuò Edoardo nella
presentazione “che viene da Milano: lavora qui in Italia, ma è
americano… E’ accompagnato dalla sua collega, la signorina
Tommasoni. Sono giornalisti della più importante testata
nazionale”.
Benjamin e Grazia strinsero con calore la mano ai due
nuovi arrivati e scambiarono con loro sorrisi vicendevoli.
Benjamin indossava un maglione rosso di lana dal collo
alto. Era un capo informale, che in quella stanza però, col
camino acceso, gli faceva caldo. Ogni tanto si passava una
mano lungo il collo per allargarsi la dolcevita del maglione.
Grazia invece era in tenuta da lavoro: giacca di tweed con
maglietta aderente sotto, e jeans professionali. I capelli ribelli
acconciati con la solita molletta sulla nuca.
“Io sono Roberto Sperati e questa è la mia fidanzata Giulia
Bellocchio” farfugliò in fretta Roberto “e sono tecnico
programmatore in un’azienda di software. Sono qui per
quell’avviso di cui le ho accennato al telefono” snocciolò tutto
d’un fiato al padrone di casa. Agli altri due lanciò solo rapidi
sguardi sfuggenti.
Edoardo annuì, sorridendo.
Pregò gli ospiti di accomodarsi sui divani, poi esordì
dicendo:
“Innanzitutto vi ringrazio di essere qui. Visto che ci siamo
già presentati, passo subito a spiegare il motivo della riunione:
mi hanno offerto di coordinare un lavoro che ora io dovrei
esporvi nella veste di miei futuri collaboratori, se accetterete”.
Benjamin e Grazia si rimisero ad ascoltare con vivo
interesse.
Giulia invece era sorpresa e frastornata; continuava a
pensare che non era valsa la pena di venire fino lì per un
incontro così strano. Si consolò riflettendo che, prima o poi,
sarebbero dovuti tornare a casa.
Roberto, seduto accanto a lei sul divano, non si capacitava
di come Claudio fosse riuscito a venire a conoscenza di un
progetto di lavoro che sembrava combaciare perfettamente
con i suoi desideri di gloria più nascosti. E chissà come aveva
fatto a proporre a questo emerito sconosciuto il suo nome.
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“Se devo essere sincero” continuò Edoardo con tono piano
come stesse spiegando una noiosissima lezione “io nutro
alcuni dubbi a proposito di questo progetto, al contrario del
qui presente signor Tolosa che sprizza scintille” e scoccò
un’occhiata perplessa a Benjamin “mentre d’altro canto la sua
compagna si è dimostrata più prudente” continuò.
“Collega di lavoro” puntualizzò Grazia.
“Sì, mi scusi signorina” s’interruppe Edoardo “e comunque
ora che ci siamo quasi tutti proporrò per intero la questione e
valuteremo insieme il da farsi”.
“Come quasi tutti?” domandò curiosa Giulia. Roberto
trattenne a stento la stessa domanda. Benjamin saltellava per
l’eccitazione. Grazia era accigliata.
“Sì, certo” le rispose Edoardo garbatamente “non ve
l’avevo ancora detto, quindi non potevate saperlo. Il progetto
prevede che vi lavorino 7 persone. E noi qui ora siamo in
6…”. Lasciò in sospeso la frase perché fu colto da un dubbio
che esternò subito:
“Perché tutti, vero, avete ricevuto il telegramma che
parlava di quest’incontro?”.
Laura, seduta accanto al marito, seguiva in silenzio lo
svolgimento degli avvenimenti senza fare commenti. Gli altri
quattro si guardarono negli occhi senza dire una parola;
Benjamin e Grazia erano seduti accanto ai padroni di casa sul
divano più lungo, Roberto e Giulia si erano accomodati in
quello più corto a due posti.
Per una frazione di secondo Benjamin giurò di aver colto
un lampo di terrore nello sguardo di Roberto, ma decise di non
farci caso e tornò a concentrasi sulla sua situazione. Rifletté
velocemente. Grazia non poteva sapere niente del telegramma,
e non voleva che ne venisse a conoscenza proprio ora. Tanto
meno sapeva se, dell’altra coppia lì presente, entrambi
avessero ricevuto il telegramma, o solo uno dei due. Quindi
abbozzò l’espressione di uno che voleva sdrammatizzare un
po’ e disse con il tono di voce più spudorato possibile:
“Oh bella, sì che l’abbiamo ricevuto il telegramma io e
Grazia” mentì, abbozzando uno dei suoi magnifici sorrisi, e
poi rivolto a Grazia che si era girata di scatto incredula: “Sai, è
per quella faccenda del tuo nuovo incarico che non te ne
129
avevo ancora parlato”. E fece una pausa perché la sua collega
si ponesse in ascolto di quello che lui le avrebbe raccontato.
Riprese: “Ma l’altro ieri pomeriggio ho trovato un telegramma
nella posta, sì, ehm… e dentro, nel messaggio, compariva
anche il tuo nome. Conteneva la proposta di recarci qui a
Roma per un’importantissima dritta di lavoro… Siccome me
l’ha mandato…” e qui stava per dire Frank, ma si bloccò al
pensiero che poi avrebbe dovuto spiegare a tutti chi era Frank,
“Insomma, l’ho ricevuto e basta e siccome dentro eri nominata
anche tu…, e siccome quello stesso pomeriggio mi hai
chiamato per domandarmi di venire a Roma con te, ho fatto
mentalmente due più due: ho pensato che anche tu ne fossi
informata. Cioè, che anche tu avessi ricevuto la stessa soffiata
per mezzo telegramma. L’ho dato per scontato. Poi in
macchina abbiamo chiacchierato d’altro e mi sono dimenticato
di parlartene. Capita, no?”.
A questo punto Grazia avrebbe potuto rispondere “Ma io
non ho ricevuto nessun telegramma!” e tutto l’ingegnoso
palco di menzogne di Benjamin sarebbe miseramente crollato.
Senza contare che non aveva alcun senso, a rigor di logica,
ricevere una soffiata giornalistica attraverso un telegramma.
Ma, vuoi perché la mente delle donne segue vie
imperscrutabili dalla capacità di previsione maschile, vuoi per
qualche motivo a lui sconosciuto, Grazia aveva ascoltato con
precisione Benjamin e l’aveva trovato assolutamente
convincente; lei si limitò soltanto ad annuire col capo
esclamando:
“Beh, dopo fammi vedere il telegramma” e continuò a
guardarlo come in attesa di successive informazioni o
delucidazioni.
Benjamin si stupì della risposta della sua collega, innocente
ed al tempo stesso disarmante, ed in cuor suo cominciò a
dispiacergli di aver cacciato Grazia in quel pasticcio.
Roberto era rimasto in silenzio durante tutta la performance
dell’americano. Una volta che quest’ultimo aveva chiuso
brillantemente il suo racconto, pensò bene di imitare la
meravigliosa
spiegazione
offertagli
dal
giornalista
confermando che aveva ricevuto il telegramma a nome di
130
entrambi, ma non l’aveva riferito a Giulia, oberato dallo stress
del trasloco.
Giulia lo guardò attonita: solo ora veniva a sapere di una
cosa così importante come un telegramma. Rimase ad
ascoltare sulle spine il resto della storia, titubante su quello
che avrebbe potuto dire o fare il suo fidanzato. Le si
materializzò in mente alla velocità della luce che lei, però, non
avrebbe mai cambiato lavoro.
“Dunque, dov’ero rimasto?” ricapitolò Edoardo. “Ah sì, per
i telegrammi allora siamo a posto. La cosa si risolve così:
siamo stati tutti convocati per telegramma. Penserete che è un
mezzo un po’ antiquato, ma chi l’ha scelto voleva farci
percepire l’idea della serietà e della tempestività di questa
operazione, infatti mi sembra che tutti l’abbiate chiaro, se siete
venuti qui stasera”.
“Ne manca uno, caro” sottolineò Laura, rivolta al marito.
Lo disse piano, quasi per non disturbarlo mentre lui ragionava.
“Il settimo dovrebbe essere qui a momenti, sempre se ha
deciso di venire. Ormai è davvero tardi. D’altronde non ho
avuto in anticipo la lista dei nominativi scelti. Spero venga
anche l’ultimo, così saremo proprio tutti; solo mi toccherà
iniziare da capo un’altra volta… bah, speriamo arrivi presto…
Allora, signori e signore, è presto detto chi è l’artefice di
questo strano raduno” riprese Edoardo con calma “si tratta
nientemeno che del Vaticano”. E qui si bloccò perché tutti
digerissero il colpo.
In effetti la notizia li lasciò tutti e sei in un silenzio di
tomba. Edoardo rimase tranquillo, aspettando con interesse le
reazioni dei suoi ospiti.
Laura si sentiva un po’ imbarazzata per il contegno del
marito, che si stava chiaramente godendo l’effetto-shock che
aveva prodotto con quella rivelazione. Per questo aumentava
in lei il disagio, minuto dopo minuto. Gli altri quattro seduti
sui loro divani si guardavano gli uni gli altri, lanciandosi
vicendevolmente sguardi attoniti ed indagatori, come se in
quel momento fossero stati indiani che lanciavano segnali di
fumo in richiesta di aiuto.
“Oh, non c’è di che allarmarsi. Il Vaticano rappresenta qui
solo il committente del progetto” riprese Edoardo. “Si tratta di
131
allestire un’equipe di sette persone che dovrà lavorare allo
studio di un reperto archeologico importantissimo; vale a dire:
catalogazione del manufatto in questione che è un manoscritto
datato come anteriore al mille d.C., analisi della pergamena e
delle tracce di scrittura, traduzione della parte che ancora non
è stata tradotta – ammesso che ci riusciamo perché questo è
uno dei punti per i quali hanno chiesto la nostra preziosa
collaborazione –, confronto con altre pergamene dello stesso
periodo per individuare tracce di pollini, resine, fibre e simili,
stesura di un apparato critico a fianco della traduzione, e così
via. Edoardo sarebbe andato avanti tranquillamente
nell’esposizione, se contemporaneamente tutti non l’avessero
assalito con una miriade di domande.
L’esclamazione che tornava ad intervalli regolari, sulla
bocca di tutti, era:
“NON E’ POSSIBILE!!”
“Io non sono certo tra le persone più indicate per tradurre
un codice” ironizzò Roberto “sono un programmatore! Come
faccio ad esservi d’aiuto se non ho mai visto un codice in vita
mia?!”
“E io sono un giornalista!” Benjamin si contorceva sul
divano, non riuscendo a stare fermo. Muoveva freneticamente
gambe e braccia, in modo concitato.
“Sì, come mai hanno scelto noi?” intervenne Giulia. “Io
sono una semplice infermiera”.
“E io sono una giornalista come lui” sbottò Grazia
indicando Benjamin “in più oberata di lavoro perché dirigo il
quotidiano per cui lavoro”. Senza dubbio dimostrava di essere
la più risolutamente decisa a non prendere nemmeno in
considerazione l’ipotesi di avventurarsi in un’impresa simile.
Edoardo riprese la parola:
“Sì, lo so. Qui entro in gioco io. Sono un professore. Ora
insegno religione in un Liceo umanistico, ma per più di dieci
anni ho insegnato Patristica alla Gregoriana, l’Università dei
Gesuiti, famosa in tutto il mondo per il suo indiscusso rigore
scientifico. E’ per questo che dovrò coordinare io l’intera
equipe” spiegò.
Chissà per quale motivo, però, il fatto che avesse insegnato
in Università scivolò via dalle orecchie di tutti come l’ acqua
132
piovana. L’avevano sentito, sì, ma erano tutti uomini abituati a
guardare al presente: per loro contava soltanto il qui e l’ora.
Ragion per cui ad ognuno dei presenti si stampò in testa che
Edoardo, ora, era un comunissimo insegnante di religione. La
materia del curriculum scolastico più bistrattata e canzonata
dagli studenti. Quando tutti udirono che il loro presunto
coordinatore era un normalissimo professore di religione,
pensarono che di sicuro doveva esserci stato un motivo per
quella scivolata così in basso, e che questo motivo era da
imputarsi sicuramente a qualche passo falso di Edoardo. In
silenzio, cominciarono a guardarlo con altri occhi. Ognuno a
modo suo, infatti, provò un acuto senso di delusione che non
si sforzò di celare.
“Dunque lei è un prof.?” chiese divertito Benjamin, con
un’aria canzonatoria.
“Adesso sì” rispose freddo Edoardo. Stava perdendo il
controllo della situazione, e tutto ciò non gli piaceva affatto.
“Il Vaticano ha chiamato mio marito perché vent’anni fa
era un brillantissimo docente alla Gregoriana. Le sue ricerche
nel campo dei primissimi manoscritti cristiani non sono
ancora state superate. Pensate che all’Università utilizzano
ancora come manuale di patristica il libro scritto da lui”
aggiunse Laura per risollevare l’immagine del marito.
“Prima di venire messo da parte per contrasti di vedute col
Rettore, per l’esattezza” precisò Edoardo. “Da allora insegno
religione a scuola, e questo è tutto”.
“Ora il punto è” ed Edoardo cercò di essere il più
categorico e persuasivo possibile, visto il clima di sconforto
che si era repentinamente instaurato “perché hanno scelto noi?
Nessuno di noi ha neppure i requisiti minimi per un lavoro di
questo tipo. Io stesso sono fuori dall’ambiente da tanti anni, e
voi siete rappresentanti delle più svariate professioni. Però
siamo tutti sicuramente in gamba, nel nostro lavoro.
Dannatamente in gamba, ci scommetto. E questo in Vaticano
lo sanno. Potrei immaginare che lì in quegli uffici abbiano
pensato ad un programmatore” e guardò Roberto “volendo
usare il computer nella traduzione della pergamena: ci sono
programmi di traduzione simultanea e probabilmente lei,
signor Sperati, dovrà scriverne uno apposito al nostro caso. E’
133
molto frequente, per non dire che succede nella stragrande
maggioranza dei casi, che il manoscritto sia rovinato sui lati, e
che molte parole vadano ricostruite a senso logico perché sono
incomplete. Un programma informatico ci aiuterebbe a
scartare subito significati potenzialmente inutili dei frammenti
di scrittura, attraverso delle funzioni basate sul calcolo della
probabilità. Così si velocizzerebbe il lavoro”. Fece una pausa:
Roberto lo guardava colmo di meraviglia. Non si era mai
avventurato nel vasto campo dell’informatica applicata
all’archeologia, per questo non riusciva a farsi un’idea chiara
della posta in gioco. Edoardo proseguì, cercando di offrire una
presentazione a tinte vivide, per riuscire convincente e per
stuzzicare nel suo uditorio la voglia di mettersi all’opera.
“Potrebbero aver pensato poi ad un ufficio stampa per il
contatto con i media” e guardò i due giornalisti; “ed infine
potrebbero aver pensato ad un’infermiera perché” e qui fece
una grossa pausa, schiarendosi la voce, per creare più
suspance “Beh, ecco, perché il manoscritto è stato ritrovato in
Turchia, e bisognerà andare là per consultarlo. Suppongo che
in Vaticano abbiano pensato che qualcuno potrebbe anche
farsi del male: nel qual caso sarà lei ad intervenire in nostro
soccorso, signorina” concluse, rivolto a Giulia.
Di nuovo tutti aprirono bocca ma non ne uscì che aria.
Erano tutti ammutoliti dallo stupore.
“Io non vado da nessuna parte, tanto meno in Turchia. Non
ci sto capendo niente di tutta questa storia” scandì Giulia con
voce determinata.
“Sì, è ora di dare un taglio a quest’idiozia” le si affiancò
Grazia “ma che ci mandino i loro professori, laggiù”. Anche
lei era irritata e spazientita. “Come se avessimo tempo da
buttare via! Io dirigo un giornale, un’enorme responsabilità
poggia sulle mie spalle: anzi, i miei collaboratori mi staranno
già cercando. Stanotte usciamo in stampa e io ho gettato a
malapena un occhio sii menabò delle pagine più importanti”.
Si alzò, prendendo con sé notebook e cellulare “scusatemi, ma
devo comunicare con la redazione a Milano” esclamò. E in un
attimo uscì dalla stanza, rifugiandosi nello studio di pittura di
Laura.
134
Solo Benjamin non disse nulla. Meditava in silenzio.
Assorto. Lo sguardo perso nella danza delle fiamme del
focolare acceso.
“Un attimo di pazienza, signori. Non voglio che pensiate
che il card. Mac Collough, il diretto responsabile di questa
strana impresa, sia una persona senza la testa sulle spalle. E’ a
capo dell’Ufficio Affari Esteri del Vaticano, corrisponde
all’incirca al nostro ministro degli esteri, e per quel che mi
ricordo è una volpe, quanto ad intelligenza. Il fatto è,
purtroppo, che non sono stato messo al corrente di alcune altre
informazioni rilevanti, che però ci saranno fornite se
accettiamo il lavoro” disse Edoardo, accortosi che tutti
cominciavano a dubitare del buon senso della proposta del
Vaticano.
“Comunque nessuno di noi vuole andare in Turchia, questo
è certo” disse Roberto, facendosi portavoce di tutti.
“Neanch’io ci voglio andare, se è per questo” gli rispose
Edoardo. “Anzi, io sono stato fin da principio assai scettico
riguardo a questo progetto. Fin dalla prima volta, quando me
l’hanno presentato gli agenti del Vaticano”.
“Ma quanto ci pagherebbero, se ci andassimo?” esordì
Benjamin, dopo la sua lunga pausa di riflessione. Il tono di
voce era tornato quello scherzoso di sempre. “Se ho ben
capito, il manoscritto ritrovato riguarda un codice
preziosissimo, applicandoci al quale con metodo, rigore
scientifico e disciplina potremmo produrre notevoli risultati.
Pensateci bene: questo papiro ci farebbe diventare in un batter
d’occhio tutti ricchi e famosi!” proruppe con un’affermazione
gioiosa.
“COOSA !? Lei sarebbe disposto ad andare?” domandò
Giulia inorridita.
“Beh, cos’ho da perdere? A me è sempre piaciuto
viaggiare: posso fare l’inviato speciale ad Ankara, con
l’incarico di produrre tutta una documentazione per il giornale
su questa importantissima scoperta archeologica. Interviste,
descrizioni avvincenti per spiegare le tecniche usate per
l’approccio alla pergamena, e via dicendo” le rispose
regalandole il più ampio sorriso che poté.
135
“Ma è un progetto che non ha né capo né coda, è
semplicemente una pazzia” sentenziò di nuovo Giulia. Era
sconvolta: “Non andrei là nemmeno per tutto l’oro del mondo.
Non ho nemmeno capito che cosa dovremmo fare!”.
“Dovremmo cercare di decifrare quel pezzo di pergamena.
Prima lo facciamo, prima veniamo via. E se mi becco una
spina mentre cammino nel deserto, vengo da te per
togliermela” la provocò.
Roberto lo guardò assai male. Sembrava indeciso se aprire
bocca, o lasciar correre. Lasciò correre perché subito Giulia
sibilò:
“Non ti curerei MAI!”.
“Forse cambierai idea” le rispose con calma Benjamin.
“La faccia finita” gli disse Roberto “E’ solo capace di
pensare ai soldi?”
“Non so quanto ci pagherebbero” intervenne Edoardo
preoccupato per la tensione che stava surriscaldando gli animi
“non l’ho chiesto agli agenti del Vaticano, e non mi sarebbe
mai venuto in mente di domandarlo, comunque. Questo è solo
un incontro preliminare. Non ha senso parlare di denaro, ora.
E finiamola qui, per piacere” tagliò corto. Nel corso della
serata per la prima volta aveva perso la pazienza.
Benjmian se ne accorse e cercò di non urtarlo più.
“Allora, cosa decidete?” si rivolese Laura a tutti per tirare
le fila della discussione.
“Io non andrei mai” rispose dura e risoluta Giulia “se non
capisco una cosa, non ha senso che la faccia”. Le pareva di
aver appena pronunciato un’affermazione lapalissiana come il
teorema di Pitagora.
“Neppure io” si unì deciso Roberto.
“Io nooo!” urlò Grazia dalla stanza accanto. Evidentemente
doveva aver sentito anche lei, e si premurava di dare la sua
risposta.
“Neanche a me pare una cosa fattibile” sentenziò Edoardo.
“Eppure c’è qualcosa che non mi torna… Per come conosco
l’ambiente vaticano, non credo in uno sbaglio. Se vi hanno
mandato il telegramma con la proposta di lavoro, chiamiamola
così, un motivo c’è. Anche se per il momento sembra
sfuggirci.
136
Per me il motivo principale della validità di questo progetto
– e badate che io pure, la prima volta, l’ho criticato – sta nel
fatto che siete stati scelti: voi e me. Esattamente noi, e non
altri. Presumo sicuramente che in Vaticano ci forniranno altri
particolari che al momento ci sono ignoti, ma che potrebbero
spiegare questo mistero. C’è ancora tempo per decidere: fino a
domani alle tredici, quando torneranno qui gli agenti del
Vaticano. Potrebbe essere la nostra occasione d’oro: non
dobbiamo buttarla al vento solo perché vogliamo capire tutto
subito!”.
“Ben detto Righetti!” esclamò estremamente soddisfatto
Benjamin. “Sono perfettamente d’accordo. Credo di essere nel
giusto quando penso di essere l’unico che partirebbe anche
adesso. Voglio che lo sappiate: tutta questa avventura mi piace
un sacco!”.
Edoardo ringraziò con un cenno del capo per il calore
dimostrato nella risposta dall’americano, e proseguì nella sua
arringa:
“E poi parlo anche come credente” qui sapeva di mettersi
un po’ a nudo, ma decise di correre il rischio: “Non so voi, ma
io sono un cattolico praticante e credo nella figura e
nell’operato del Santo Padre. E’ vero che il Vaticano, con
tutto il suo apparato burocratico, può far pensare più al motore
di una prospera industria che ad un luogo dove vivono persone
che s’impegnano a vivere santamente, ma vi invito a non
fermarvi solo alla facciata, costituita – lo sappiamo – da uffici,
protocolli, manovre politiche, invidie e altre simili cose anche
meschine. Io guardo più in là, a quello che deve pensare e
volere il card. Mac Collough con i suoi collaboratori, in
comunione col Santo Padre. In fondo, il cardinale dipende
direttamente dal Papa: lui sarà sicuramente al corrente del
progetto”. Avrebbe voluto rivelare qualcosa di più sulla
Lettera ai Laodicesi, ad esempio dire che di questo si trattava:
di una lettera apostolica, ma qualcosa lo trattenne. “Per tutti
gli anni che ho frequentato dall’interno quell’ambiente vi
posso certamente dire che stanno facendo sul serio, credetemi.
Dall’esterno l’apparato vaticano può sembrare una fredda
macchina che esegue ordini, e anch’io non nego di essere stato
scottato… Vi potrete domandare perché, dopo essere stato
137
messo da parte così malamente, privato della docenza
universitaria venti anni fa, io ora voglia ancora lavorare in
quest’ambiente che mi ha tradito e mi ha lasciato a casa,
disoccupato, quando stavo per sposarmi. Ebbene vi dico che
non lo so. Non nego che nutro una certa serie di dubbi a
riguardo, tuttavia ne sono affascinato. Vi assicuro che
veramente il manoscritto in questione è importantissimo, mi
verrebbe da paragonarlo ai rotoli di Qumran ritrovati il secolo
scorso, che hanno rivoluzionato la storiografia del periodo in
cui nacque Cristo. Per me, non lo nego, sarebbe un po’ una
seconda possibilità di tornare ai miei vecchi studi ed interessi
universitari, e anche una seconda occasione di successo”
concluse.
“Anch’io sono cattolico” rispose Benjamin esternando un
sorriso della massima cordialità “Senta, mettiamo da parte i
formalismi. Posso chiamarla per nome, dandole del tu?”.
“Certo, Benjamin. Lo stesso vale per me, vero?” gli fece
eco Edoardo. “Sai, pensavo fossi protestante”.
“No, i miei genitori sono cattolici. Ho anche frequentato
scuole cattoliche. Siamo un gruppo forte in America!”.
“Ehi, basta con questo tête-à-tête” esclamò Giulia
spazientita. “Io non vado più in chiesa da una vita. Siete
contenti?” e lanciò loro un’occhiata inceneritrice.
“Per me non è un problema” disse Benjamin “ognuno è
libero di professare la fede che vuole, o la non-fede”.
“Stiamo andando troppo sul personale” commentò acida
Giulia. “Non mi piace”.
“Oh, che male c’è?” Roberto aveva preso la parola, non
senza un po’ di fatica, lasciando trapelare una certa
insicurezza nel tono di voce. Però ci teneva a dire la sua
perché continuò: “Io mi sono riavvicinato da poco tempo alla
chiesa. Ora vorrei continuare su questa strada” e guardò Giulia
sott’intendendo con lo sguardo un efficacissimo: “Hai
capito?”.
“Sono felice per te, Roberto” disse Edoardo, che
evidentemente era passato al tu anche con lui. Roberto si sentì
un po’ più a proprio agio. Benjamin si limitò a sorridergli.
“Posso domandarti come è successo?”.
138
“Ho incontrato delle persone; all’inizio ero scettico, non
volevo accettare la loro proposta di approfondimento del
significato e del valore dell’essere cristiani. Ma piano piano
mi sono accorto che gli incontri di preghiera, che mio
malgrado ho iniziato a frequentare insieme a loro, scendevano
come un balsamo dentro il mio cuore stanco e deluso. Adesso
posso dire di aver scoperto che la fede non è un’esperienza
solitaria, bensì da vivere insieme. C’è una Chiesa che mi
accompagna, ci sono dei fratelli. Non sono più solo. È tutta
un’altra cosa rispetto a quando ero ragazzo e andavo in chiesa
tanto per fare, solo per seguire le istruzioni dei genitori, per
ricevere i sacramenti. Quella è stata un’esperienza
adolescenziale, e devo ammettere che anche la mia fede era
rimasta ferma a quella stagione della mia vita”.
“Come per tutte le cose anche la fede deve diventare
adulta” intervenne Benjamin colpito da quella sincera
testimonianza.
Roberto gli sorrise e scosse affermativamente il capo.
“Che la fede sia un’esperienza comunitaria è un dato di
fatto, Roberto. Pensa alle nostre comunità parrocchiali, alle
associazioni, ai movimenti, ai conventi, agli ordini monastici e
claustrali… insomma, anche Gesù si è circondato degli
apostoli, non è rimasto da solo! Le esperienze solitarie
esistono, penso a certe forme del monachesimo, ma sono più
circostanziate e rare” disse Edoardo.
Giulia, che non ne poteva più di un così becero sodalizio
maschile, si alzò scrollando le spalle e disse:
“Bèh, se abbiamo finito gradirei tornare a casa!” e guardò
torva Roberto.
“Sì, sono le 10.45” lanciò una rapida occhiata al suo
orologio “è ora di andare” disse a malincuore.
“Proprio ora che ci stavamo conoscendo meglio: è un
peccato andare via adesso che non abbiamo ancora deciso
niente di definitivo” propose Benjamin, nel tentativo di venire
in soccorso di Roberto. Si rivolse anche a Giulia: “Lasciate
passare ancora dieci minuti, per vedere se arriva il settimo,
altrimenti andrete via”. Ormai in tutti il tono informale aveva
preso il sopravvento sul rigido formalismo dell’inizio.
“A quest’ora non arriverà più nessuno” troncò secca.
139
“Beh, aspettare non costa nulla” provò a buttare lì Edoardo,
“solo fino alle undici”.
“Roberto, andiamo a casa, per favore. Non stiamo più ad
ascoltare tutte queste assurdità!”. E allungò la mano per
afferrare la sua borsa appoggiata sul tavolo.
“Potresti accompagnarla a casa e poi tornare qui. Che ne
dici, Roberto? Così aspettiamo il settimo uomo misterioso e
discutiamo meglio”. Benjamin aveva parlato nel suo solito
tono scherzoso. Giulia lo guardò di traverso.
“Non si può. Io e Roberto abitiamo insieme” sibilò Giulia,
tagliente come il vetriolo. Pronunciò l’ultima parola
scandendo bene le lettere. Aveva l’espressione di una a cui
sarebbe bastata una goccia in più per far traboccare dalla
bocca improperi ed insulti.
Roberto si manteneva incerto sul da farsi, quando
all’improvviso si sentì scampanellare alla porta. Tutte le teste
si voltarono a guardare l’orologio appeso alla parete sopra il
divano: le ventidue e cinquantacinque.
Roberto emise un sospiro di sollievo, aveva dipinta in volto
l’espressione di un naufrago scampato alla tempesta, quando
le nubi si diradano e spunta un raggio di sole.
Benjamin esclamò a gran voce:
“Avevo proprio voglia di sapere chi sarebbe stato il
settimo. Magari non sono l’unico americano!”. La sua faccia
era l’emblema dell’entusiasmo.
140
XIV
Laura guardò il marito che – tutti aspettavano quel
momento – si alzò lentamente e si avviò verso la porta,
curioso di conoscere quale fosse l’ultimo componente del
gruppo.
Mentre Edoardo era di là in corridoio, fece capolino Grazia
dallo studio di Laura, esclamando:
“Fra cinque minuti sono da voi. Ho da aggiornarvi sui fatti
del giorno… Ci sono delle novità…” lasciò la frase in sospeso
e corse via.
Le lancette della pendola procedevano con il loro
inesorabile “tic-tac”. Scandivano il tempo come se dentro
l’antiquato oggetto fosse stato nascosto ed innescato il
dispositivo di una bomba ad orologeria. La tensione diventava
più palpabile di minuto in minuto.
Poi udirono distintamente due voci che si avvicinavano dal
corridoio.
Edoardo si fermò sotto la volta d’ingresso del salotto; la
sua espressione, però, lasciava trapelare un insolito disagio,
carico d’ una insofferenza che non riusciva a celare. Nessuno
ci fece caso, ma lui si sentiva come se gli fosse stato sottratto
da un ladro all’improvviso, senza il tempo di rendersene
conto, il suo abitudinario savoir-faire. Adottò una
presentazione dai toni formali e cortesi, sperando che gli altri
non si accorgessero del suo cambiamento d’umore.
“Sono lieto di farvi conoscere il settimo ed ultimo membro
di questo progetto di ricerca: un vecchio collega dei tempi
dell’università, il prof. Martin Fischer, tuttora noto archeologo
professionista”.
E in quel momento fece il suo ingresso nella stanza l’uomo
biondo che Giulia ricordava bene, per averlo visto solo il
giorno prima in ospedale. Tutti parvero felicemente sorpresi.
Tutti meno lei.
Laura gli andò incontro, dicendo semplicemente un: “
Martin, che piacere!”. Lui fece un cenno col capo in risposta
al suo saluto. Dopo di che fece lo stesso cenno in direzione
degli altri.
141
Benjamin era al settimo cielo. Si agitava sul divano,
accompagnando i gesti con le consuete esclamazioni sue
tipiche:
“Finalmente una persona adatta a portare avanti questo
dannato progetto! Magari potrà spiegarci qualcosa di più di
quanto sappiamo finora. Non che tu, Edoardo” disse in
direzione del padrone di casa, che lo scrutava rabbuiato “non
sia stato all’altezza, finora; tuttavia mi sembra che stiamo
ancora brancolando nel buio”.
Roberto pareva palesemente soddisfatto. Solo Giulia non
riusciva a staccare gli occhi di dosso dal nuovo venuto.
Troppo forte era la sorpresa e l’emozione di rivederlo lì tra
loro, in modo del tutto inaspettato. Cercava di darsi un
contegno, reprimendo sguardi troppo allusivi, ma suo
malgrado si ritrovava come ipnotizzata dalla presenza di
quell’uomo. Si ricordò che ne aveva parlato a Roberto soltanto
la sera prima. Per fortuna non gli aveva detto come si
chiamava. Altrimenti ora Roberto si sarebbe accorto che, tanto
per dirne una, quel paziente non era poi così tanto malato.
Giulia si era comportata come il suo ragazzo le aveva
consigliato: “Lascia perdere!”. Ed infatti non aveva informato
il primario, al contrario di quello che le era stato segretamente
richiesto dalla zia del paziente. Giulia non se l’era sentita di
fare una cosa simile. Provava una certa ripugnanza per il
modo in cui aveva agito la signora Pollmann verso di lei,
prospettandole una ricompensa; in più possedeva una buona
opinione del dott. Albrigi, il vice-primario, anche se non
capiva il perché di quelle dimissioni tanto frettolose. Sta di
fatto che ora, in casa di Edoardo Righetti, di fronte a Martin
Fischer, provava disagio al pensiero che lui sapeva della
richiesta che sua zia le aveva fatto, e quel disagio aumentava
al pensiero che, magari, Fischer potesse credere che lei avesse
agito di conseguenza, allettata dalla futura ricompensa. Si
sforzava di non pensarci, ma era come se avesse un mattone
sullo stomaco.
“Dio, fa che non mi parli!” pensò Giulia tra sé. E da quel
momento cercò di tenere gli occhi bassi, sperando che lui non
l’avesse riconosciuta.
142
Martin sfoggiava un soprabito elegante e molto costoso, a
giudicare dalla foggia e dalle rifiniture. Al momento, però, era
tutto fradicio di pioggia, e portava calcato sulla testa un
cappello a falde larghe, perfettamente combinato col
soprabito. Si levò il pesante soprabito e il cappello, zeppo
d’acqua anch’esso, per darli ad Edoardo.
“Vado ad appenderlo all’entrata, sperando ci sia posto!”
disse Edoardo. E scomparve di nuovo dietro l’arco, verso il
corridoio.
Martin, che sotto l’impermeabile indossava una giacca a
quadri scozzese con cravatta e dei pantaloni di lana finissima,
andò a scaldarsi vicino al caminetto. Passando davanti agli
altri, Roberto non poté fare a meno di notare l’estrema
ricercatezza dei suoi abiti e l’accuratezza con cui li indossava.
Si sarebbe potuto credere finanche che da giovane avesse fatto
l’indossatore. Il suo portamento era alto, fiero, pareva
possedere lo spirito di un guerriero mentre incedeva sicuro
verso il fuoco. I lineamenti del suo viso sembravano scolpiti
da una mano d’artista che nell’insieme pareva si fosse ispirato
ad uno dei personaggi dei quadri romantici: un viso
estremamente bello ma in ombra, un corpo slanciato, robusto,
armonioso, stagliato su uno sfondo temporalesco, la fronte
spaziosa, i capelli biondi, ricci, che gli ricadevano a ciocche
folte sugli orecchi, il naso aquilino leggermente a punta, la
bocca piccola e sensuale. Sembrava la statua di un Apollo
greco, mentre era fermo davanti al caminetto, girato, dando la
schiena agli altri del gruppo.
Roberto, che aveva osservato attentamente i lineamenti del
suo viso e il portamento generale mentre gli passava accanto,
tornò a guardare i suoi jeans consunti e le sue scarpe da
ginnastica ed avvertì nel suo animo un moto d’invidia. Non
fece nulla per dissimularlo. Per di più aveva notato
l’atteggiamento strano di Giulia, la quale aveva smesso
all’istante di fare l’isterica.
Benjamin era il solo che apparentemente era rimasto sé
stesso, ma Roberto aveva fatto in tempo ad osservare un
guizzo negli occhi dell’americano mentre Martin attraversava
la stanza.
143
Edoardo fece subito ritorno nel salotto. Rimasto in piedi
sotto l’arco, disse rivolto a Martin:
“Dì anche a loro quello che hai iniziato a dirmi prima,
nell’anticamera, quando sei arrivato”.
Martin si voltò, girando le spalle al camino, e con un tono
freddo ed accademico cominciò a raccontare:
“La pergamena di cui stavate parlando prima che arrivassi,
l’ho scoperta io in Cappadocia tre anni fa. Stavo lavorando nei
sotterranei di un antico monastero disabitato, rimasto però
fortunatamente in piedi e abbastanza intatto, quando vi ho
letteralmente sbattuto contro. Era accuratamente ripiegata e
nascosta in un angolo morto del sotterraneo, accanto ad una
colonna portante, un punto sempre al buio, sporco e ricoperto
di sabbia e detriti. Era arrotolata. Se non ci avessi messo per
caso gli occhi proprio sopra, non l’avrei mai vista. L’ho presa,
l’ho pulita e con la mia equipe di ricerca l’abbiamo portata al
museo della città, domandando di essere ricevuti dal direttore.
Lui ascoltò la storia, diede un’occhiata al ritrovamento, e ci
mandò all’istante dal sovrintendente alle belle arti di Ankara.
Nel frattempo avvertii la curia turca, la quale si mosse subito
in maniera esemplare, riuscendo a farsi assegnare dallo stato
la custodia del manoscritto, vergato in greco antico.
Per tutti questi motivi, insieme anche ad una certa
insistenza del Vescovo, la sovrintendenza lo lasciò
definitivamente alla Curia vescovile, la quale però me lo tolse
per un anno per mostrarlo ad altri studiosi. Quando s’accorse
che sorgevano sempre gli stessi interrogativi, tornarono da me.
Venerdì scorso, in tarda mattinata, sono stato nuovamente
ricontattato dal Vaticano: ho saputo che per il manoscritto era
stato allestito un vero e proprio gruppo di ricerca che ne
curasse la traduzione e l’apparato critico. C’è un ulteriore
complicazione dovuta al fatto che sulla pergamena in
questione sono presenti delle note a margine di cui non si
capisce il significato, come degli appunti incomprensibili. Il
lavoro più arduo è scoprire cosa significhino. Naturalmente il
fatto che compaiano queste note, secondo me, è un elemento
che gioca a favore della veridicità del testo, che risulta
databile tra il V° ed il X° secolo d.C.; dall’analisi
microscopica del materiale residuale imprigionato nelle fibre
144
della pergamena (pollini e quant’altro), questa sembra risalire
alla regione dove sorgeva l’antica città di Laodicea, e con tutta
probabilità si tratta di una Lettera dell’apostolo Paolo. La
Lettera di San Paolo ai Laodicesi. Era andata perduta: ora è
stata ritrovata.
Ho accettato il lavoro con riserve. Prima volevo
conoscervi, a parte te, naturalmente, Edoardo”.
Mentre parlava aveva usato un tono asciutto e distaccato,
con il risultato di rendersi maggiormente antipatico ogni
minuto che passava. Alla fine tutti lo stavano guardando con
un’aria vagamente disgustata.
Ma Martin non sembrò scomporsi. Con aria imperturbabile
iniziò a distribuire ai presenti alcune cartine della Turchia
antica per mostrare dove si trovassero la città di Laodicea ed il
luogo del ritrovamento della pergamena, il cui sito
archeologico – come aveva spiegato – era ubicato nella
regione della Cappadocia; al momento della distribuzione
cerchiò con un pennarello rosso il luogo doce sorgeva la
chiesa rupestre in cui era venuto alla luce il prezioso reperto.
145
Esaurita la spiegazione aspettò che si presentassero.
Benjamin batté tutti in velocità, intervenendo per primo
nelle presentazioni che erano rimaste da fare:
“Io sono Benjamin Tolosa. Sono un giornalista americano,
e lavoro nella redazione del maggiore quotidiano italiano
come reporter. Da quello che ho capito, dovrei mettermi a
disposizione per l’ufficio stampa in questo lavoro”. E gli tese
la mano.
Martin gliela strinse, accennando ad un lieve sorriso. Poi fu
la volta di Roberto:
“Roberto Sperati, tecnico programmatore” disse
porgendogli anche lui la mano. L’altro gliela strinse
rimanendo impassibile.
Giulia si limitò a dire il suo nome rimanendo seduta. Anche
con lei Martin rimase neutrale e distaccato, impenetrabile.
Benjamin riprese la parola dicendo:
“Di là c’è la mia direttrice, Grazia Tommasoni. Anche lei
fa parte del gruppo” mentì. “Come lei saprà dai giornali, è
stata eletta da poco direttrice dal consiglio di redazione, a
seguito delle precipitose dimissioni dell’ex-direttore,
invischiato nello scandalo delle Stelle Spezzate. Il Consiglio
di Amministrazione dovrebbe decidere a breve se revocarle la
nomina o confermargliela. Naturalmente tutti in redazione ci
auguriamo che Grazia venga confermata. E’ una validissima
giornalista, esperta nel suo settore. Ha letto tutto il polverone
che sta venendo sollevato dai giornali in questi giorni?”
Martin annuì col capo e intrecciò le mani dietro la schiena.
“Bene” disse “per me si può cominciare anche domani”.
“Martin, tu stai correndo troppo” intervenne Edoardo
allarmato, intendendo farsi portavoce del sentimento generale
del gruppo. “Spiegaci, secondo te, perché siamo stati scelti
proprio noi, con le nostre competenze certo non esaustive, per
questo importantissimo e delicatissimo progetto del Vaticano.
Mi risulta estremamente difficile da capire”.
“La cosa io la vedo così: occorrerà recarsi là per fare delle
ricerche. In Turchia voglio dire. Ogni ricerca archeologica va
fatta sul campo. Io e te, Edoardo, daremo una prima occhiata
da vicino. I colleghi giornalisti costituiranno l’ufficio stampa:
rilasceranno dispacci alle agenzie, interviste ed altro ancora.
146
Maggiore sarà la pubblicità, maggiore sarà la possibilità che si
facciano avanti potenziali sponsor interessati all’impresa,
desiderosi che il loro nome compaia tra i mecenati della
traduzione della Lettera ai Laodicesi. D’altronde essa è un
tesoro per tutta l’umanità: è naturale che anche altri, oltre al
Vaticano, vogliano partecipare alla gloria e agli utili che ne
deriveranno; provate solo a pensare ai suoi vari utilizzi:
esporla nei musei, effettuare riprese documentaristiche…
immaginate che giro di soldi si verrà a creare!”.
A Edoardo non piaceva molto che Martin parlasse così, in
termini di vile denaro, di una Lettera Apostolica. Era un po’
come ridurre una cosa pia, uno scritto di pugno di un qualche
santo, ad una mera fabbrica di soldi. Per la verità non gli
piaceva nemmeno come Martin non si fosse fatto alcun
problema a rivelare così precipitosamente, e senza tatto
alcuno, che il manoscritto in questione era nientemeno che
uno scritto di San Paolo. Tutta la faccenda gli dava sommo
fastidio, e non gli era certo sfuggita l’aria di arroganza e
superiorità che sprizzava dall’archeologo. Tuttavia non lo
interruppe. Si limitò a guardare verso dove era seduto
Benjamin: era curioso di osservare la reazione dell’americano
a tanta noiosa saccenteria. Ma lui stava ascoltando
attentamente, lo sguardo fisso su Martin che continuava a
raccontare in maniera pedante.
Martin proseguì nella sua accurata spiegazione. Il tono di
voce era sempre noiosamente formale: “Il collega
programmatore ci aiuterà a non perdere tempo prezioso. Una
nuova branca dell’archeologia moderna utilizza i mezzi
informatici per potenziare e velocizzare la ricerca, perché il
profitto che scaturirà dalle scoperte archeologiche sarà
direttamente proporzionale alla tempestività della ricerca. Una
ricerca proficua e veloce vale più di una lenta e dispersiva: sia
in termini di immagine, che in termini di sponsor. Ergo, il
dottor Sperati dovrà occuparsi di studiare i programmi di
traduzione simultanea e combinata, forse dovrà scriverne uno
apposito, e la licenza in tal caso ovviamente sarà sua. Potrebbe
farci un bel mucchio di soldi, quando la venderà a qualche
software house. Può darsi che dovremo incrociare il greco
antico con altre lingue dello stesso periodo, per decifrare le
147
spinose note a margine. Penso che di queste vi avrà già parlato
Edoardo”. I presenti annuirono. Soltanto Roberto alzò la testa
per prendere coraggio, dicendo:
“Io non sono laureato. Tuttavia farò del mio meglio”.
Roberto vedeva davanti a sé, in questo progetto, il riscatto
tanto agognato. Ma Martin gli scoccò uno sguardo di
commiserazione. Poi andò avanti: “Il computer ci serve. E’
indubitabile. Ci aiuterà con la prova delle combinazioni dei
frammenti di pergamena rimastici di quel periodo e di
quell’area geografica; alla fine tutto si riduce al solito calcolo
delle probabilità. La nostra pergamena, infatti, è
inframmezzata da alcuni buchi: si tratta pertanto di verificare
se tra i frammenti pervenutici da quello stesso periodo storico
e posizione geografica, non ce ne sia per caso qualcuno
corrispondente alle dimensioni e alla sagoma dei buchi sul
nostro reperto, ma di questo avrà modo di occuparsi in
dettaglio l’esperto del gruppo”. Stranamente non guardò
Roberto. Pareva sdegnarlo e non curarsi della sua presenza.
“Come ho già detto prima, bisognerà andare sul posto a
scoprire indizi. Una volta là, i nostri nomi conteranno
parecchio. Se riusciremo nell’intento, essi saranno pronunciati
con venerazione attraverso la risonanza mondiale dei media.
Che nel mezzo del deserto turco ci sia io o un mio collega di
Oxford, faremmo più o meno la stessa cosa, non trovate? Però
ci sono io. E ci siete voi. Non so perché abbiano scelto proprio
noi. Ma a me sta bene così. Anzi, mi reputo fortunato, perché
diventeremo tutti famosi”.
Più Roberto lo guardava e più lo trovava decisamente
insopportabile. A parte il fatto che Martin sembrava possedere
al massimo grado un’aria snob e aristocratica che gli conferiva
un’aura di austera misteriosità, trattava Edoardo e Benjamin
come suoi pari, mentre lui e Giulia venivano sistematicamente
ignorati, era troppo evidente. Arrivò anche a pensare che se
non fossero esistiti, sarebbe stata la stessa cosa per Martin.
Una voce forte e risoluta dentro di sé gli suggeriva:
“Fagliela pagare a quel fantoccio fanatico!”.
Però, di fronte all’atteggiamento sprezzante di Martin,
anche l’altra vocina, quella più esile, si era affacciata e ora gli
stava insinuando che, forse, non era il caso di mettersi contro
148
uno come Martin. “Stai alla larga da uno così…” gli
suggeriva. “Non è saggio che ti arrabbi con quello lì… è
evidente che si sente una specie di divinità nel suo campo di
lavoro; bè, tu lascia che lo pensi pure… e cavati al più presto
da questa situazione. Devi dire: mi dispiace, ma non posso
proprio impegnarmi. Arrivederci”.
Senza contare che Giulia era divenuta improvvisamente
taciturna, e lui non riusciva a spiegarsene il motivo.
“Probabilmente è arrabbiatissima con me” sospettò. Ma non
ne era del tutto convinto. Per non aggravare ancora di più la
situazione con la sua compagna, si alzò in piedi per
congedarsi. Prevalse dentro di lui la vocina flebile.
“Beh, mi pare che la situazione sia arrivata ad un punto
morto. Signori, io sinceramente non saprei come aiutarvi.
Quindi sono del parere di restarmene fuori da tutta questa
faccenda. Troverete qualche altro programmatore più bravo di
me” disse; ed aggiunse, con una leggera smorfia mista di
rammarico e di disincanto: “Non sarà poi così difficile,
vedrete”.
“Ma il telegramma l’hai ricevuto tu” protestò
energicamente Benjamin “non se ne parla nemmeno. Lassù in
alto vogliono te”. E guardò gli altri come per cercare
approvazione.
Martin non disse niente. Roberto era al limite della
sopportazione con quell’americano. Gli veniva da alzarsi e
prenderlo a pugni. Edoardo non sapeva che dire: gli si leggeva
in faccia che non sapeva che posizione assumere. Se
rincuorare Roberto, esortandolo a dare la sua disponibilità, o
lasciarlo stare rispettando la decisione appena presa. Roberto
pensò che l’indecisione di Edoardo fosse dovuta al fatto che
lui stesso non credeva più di tanto nel progetto. Lo osservò
meglio: probabilmente se fosse stato solo per lui, avrebbe
lasciato perdere. Ma era come se stesse affrontando un
combattimento interiore. Ora che era entrato in scena Martin,
ad Edoardo la cosa doveva apparire più seria e affascinante.
Alla fine prevalse nel padrone di casa un guizzo di
orgoglio, forse per prendere le distanze da Martin che si
comportava come se lui fosse stato il capo, e tutti gli altri i
suoi sottoposti.
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“Se devo essere sincero” rispose a Roberto allargando le
braccia, dando così l’impressione di accompagnare le parole
con un gesto di apertura nei suoi confronti “vorrei te, Roberto,
nella nostra equipe. Non sono ancora convinto del tutto di
accettare quest’offerta di lavoro, ma se accettassi di condurla”
e sottolineò il termine perché tutti capissero che il capo
potenziale era lui “io voglio te. Ti ho conosciuto e sono
soddisfatto. Anch’io propendo per ritenere che qualcuno ci ha
selezionati, in base a qualche motivo a noi sconosciuto, e non
dobbiamo tirarci indietro. O tutti o nessuno”.
“O tutti o nessuno, ben detto, Edoardo!” Benjamin era
raggiante. “Hai colto perfettamente lo spirito di questo lavoro.
Noi saremo uniti in un solo grande intento: restituire
all’umanità un testo di incalcolabile valore. Pensate: se questo
manoscritto è davvero così importante come sembra, finiremo
sui libri di testo delle scuole. Saremo citati sui manuali di
archeologia e di teologia. Noi sette: ci pensate!?”.
Giulia, per la prima volta dall’apparizione di Martin,
sorrise. Si voltò a guardare Roberto. Dai tratti del viso
appariva visibilmente più distesa e rilassata, come se l’idea
della celebrità le fosse pian piano entrata in testa, e le piacesse
molto. Abbozzò una mezza frase, sottovoce, più rivolta al suo
ragazzo che agli altri: “Io non butterei via questa occasione,
Roberto… mi sembra che ci potresti lavorare sopra. Nei ritagli
di tempo, insomma, voglio dire. Poi se la cosa dovesse
veramente prendere piede come si sta progettando, allora le
potresti dare più spazio. Deciderai in seguito se è possibile,
l’importante è che non ti lasci sfuggire questa possibilità. Cose
di questo tipo capitano una volta sola nella vita”.
“Sei attratta soltanto dall’idea del successo e della fama” le
rispose lui, che continuava a nutrire seri dubbi sul lavoro e
scarsa fiducia nelle sue capacità. “Ragiona: secondo me c’è
una possibilità su mille di riuscire a mettere in piedi qualcosa
di valido. Non ci conosciamo neanche tra di noi! Ma che razza
di lavoro potrebbe venirne fuori!? Quanto a me, poi, dovrei
cominciare a studiare da zero certi programmi di analisi dei
testi e di traduzione simultanea… Non so proprio dove trovare
il tempo, e la voglia”.
150
“Sono tutte scuse” ribatté lei. Cominciava a tirar fuori la
grinta. “E’ che non ti va perché questo lavoro non ti ispira.
Perché non ci credi!” trattenne a stento la voce, ma si vedeva
benissimo che avrebbe voluto gridarglielo in faccia.
“Beh sì. E se anche è così? Potrò avere dei dubbi, e scusa
tanto se li ho, ma mi sembra la cosa più normale del mondo”.
“Non è normale perdere un’occasione simile!” ringhiò lei.
“Tu non sei normale” le urlò lui perdendo la pazienza.
“Solo 20 minuti fa volevi andartene via a tutti i costi! Ora
dopo che il signor Fischer – Roberto pronunciò il suo nome a
denti strettissimi – ha dipinto un futuro dorato per chi riuscirà
nella difficile impresa di tradurre questo manoscritto, che per
inciso non so da cosa arguisce che ci riusciremo, ecco che tu
cambi idea e ci caschi come un’allocca! Per piacere: svegliati
e torna con i piedi per terra”.
Lei lo guardava torva. Sembrava tremasse di rabbia, ma lui
continuò sullo stesso tono: “Per me non ce la faremo. Non mi
sento a mio agio, non conosco nessuno del gruppo a
sufficienza per riuscire a lavorare serenamente. Credo proprio
che non ce la farò: per questo non me la sento di prendermi un
impegno simile”.
“Tu non ti senti all’altezza di prenderti un impegno
simile!” sibilò lei.
A queste parole Roberto si sentì trafitto dalla cruda verità.
Se ne accorse subito e si fece scurissimo in volto.
“Io vado a casa” disse senza guardarla. “Se vuoi andiamo.
Se decidi di restare, fatti accompagnare a casa da un taxi” e si
avviò verso la porta. Un attimo prima di oltrepassarla si
ricordò che nella stanza c’erano anche gli altri, che avevano
assistito sbigottiti a quella lite. Si fermò e si girò verso di loro:
erano tutti muti come statue di pietra.
“Scusatemi. La mia ragazza dice che sono un vigliacco.
Credete quello che vi pare. Io me ne torno a casa. Piacere di
avervi conosciuto”. Parlò stancamente, senza energia né
entusiasmo nella voce, come avesse perso ogni gioia di vivere.
Edoardo, che era rimasto impietrito come gli altri, si
riscosse velocemente e gli corse dietro. Si udivano i due
parlottare nel corridoio. Gli occhi degli altri erano tutti puntati
su Giulia. Martin girò le spalle al gruppo, e si mise a guardare
151
il caminetto. Forse voleva scaldarsi i piedi, o le gambe, dato
che i suoi stessi vestiti parevano ancora umidi. Comunque era
chiaro che voleva rimanere fuori da quella bega. Laura non
sapeva che fare o che dire, mentre il marito era di là, da solo, a
trattare con il primo membro del gruppo che dava segno di
resa completa e definitiva. Benjamin disapprovava la sfuriata,
ma gli faceva anche pena la fanciulla, per cui le disse in tono
amichevole:
“Ti prego, non lasciarlo andare via così triste e sfiduciato!
Abbi un po’ di comprensione per il tuo fidanzato!”.
“E’ lecito avere dei dubbi” intervenne Laura, che però non
se la sentì di usare lo stesso tono informale dell’americano:
“l’importante è risolverli insieme. Vada a parlargli”.
“Non lasciarlo da solo” tornò a esortare Benjamin.
Commossa dalle parole appena pronunciate appositamente
per lei, e un po’ vergognandosi di aver perso in così malo
modo la calma, Giulia uscì dalla stanza e raggiunse Roberto
ed Edoardo in corridoio. Roberto aveva già indossato la giacca
a vento e stava per andarsene. Quando la vide si arrestò e
attese. Quando gli fu davanti, lei gli sussurrò piano: “Scusami,
ho esagerato. Sentiamo solo il parere di tutti prima di andare
via. Ti chiedo soltanto questo, prima di andare via. Poi il
signor Righetti riferirà tutti i pareri, e sarà il Vaticano, allora,
a decidere”.
“Sì, giusto, ha detto bene, signorina” approvò Edoardo, al
quale parve un discorso saggio. E rivolgendosi a Roberto:
“Penso che farò proprio così: raccoglierò i pareri di tutti
quanti, e poi domani alle tredici, davanti agli inviati del
Vaticano, glieli riferirò con precisione, senza tralasciarne
alcuno. Ci penserà l’ufficio del Card. Mac Collough a
sbrigarsela e se tu cambi idea non devi fare altro che dirmelo
entro domani”.
Roberto capitolò, e tutti e tre tornarono in sala. Anche
Giulia nel frattempo aveva già indossato il cappotto, pronta
per andarsene; ad un primo colpo d’occhio sembrava aver
fatto pace con Roberto.
Edoardo spiegò che avrebbe sentito le opinioni di tutti e le
avrebbe riferite al suo diretto superiore, responsabile del
progetto.
152
Benjamin confermò entusiasta la sua adesione
incondizionata. Senza ombra di dubbio era il più idealista.
Martin si limitò a confermare un: “Io ci sto”, sottolineando io,
come se gli altri non gli interessassero. Giulia sorrise,
azzardando un: “Mi piacerebbe provarci. In effetti ho
cambiato idea. Prima ero spaventata dalla prospettiva del
viaggio in Turchia, ma adesso mi sembra che tutto sommato
siamo una buona squadra, mi sento più incoraggiata…”.
Accanto a lei Roberto non disse nulla. Edoardo lo prese per un
no, anche se il proverbio dice: “Chi tace acconsente”. Quanto
a sé stesso esclamò: “Vada per la maggioranza. Comunque io
ci rifletterò sù questa notte. Speriamo che il sonno porti
consiglio, come si suol dire”. Alla fine di tutto parve alquanto
sollevato. Laura gli sorrise, lasciando trapelare però un velo di
preoccupazione. “Farò tutto quello che posso per aiutarvi”
disse risoluta.
“Manca solo Grazia” esclamò Benjamin allegro, “vado a
chiamarla!” e si allontanò in un baleno. Altrettanto
velocemente li rividero comparire: questa volta però era lui ad
avere la faccia allarmata e gli era anche sparita la consueta
espressione gioviale dal volto. Grazia si piantò in mezzo alla
stanza, esclamando a voce alta: “In queste ore il Parlamento
deve votare la fiducia al governo. E’ un momento cruciale.
Sono stati scoperti altri tre esponenti del governo appartenenti
alle Stelle Spezzate. E’ un autentico stillicidio, non finisce più.
Sta succedendo il finimondo a Montecitorio: vi lascio
immaginare. Quelli dell’opposizione hanno paura che ancora
un poco e venga fuori che anche il Presidente del Consiglio e
le più alte cariche siano coinvolte. Naturalmente il governo
sdrammatizza e assicura che si tratta di casi isolati. Ma la
paura è fortissima. E’ in pericolo l’esistenza stessa delle nostre
istituzioni. Non so se mi spiego. Mi dispiace, ma non posso
mollare il giornale. Non se ne parla nemmeno. Ho già spedito
una e-mail per avvisare quelli della redazione che rientrerò a
Milano domani mattina prestissimo”.
“Quanto a te, Benjamin” e si voltò a guardare l’americano
“il tuo compito per ora è di fare un’ottima cronaca da qui.
Resta e facci sapere tutto quello che sta succedendo in questi
attimi cruciali. Ti consiglio di venire di là con me, nello
153
studio, e di dare un’occhiata tu stesso ai resoconti in tempo
reale delle agenzie stampa”. Parlava scandendo bene le parole,
ma era trafelata e spossata. Benjamin assunse un’espressione
di malavoglia sul viso e le rispose: “Agli ordini, capo”.
Tuttavia aggiunse: “Mi tengo comunque a disposizione per
questo progetto”. Edoardo gli fece cenno col capo che aveva
capito.
Grazia, che si sentiva completamente coinvolta nella
situazione di pericolo in cui versava il paese, continuò sullo
stesso tono: “E poi il Consiglio di Amministrazione del
giornale sta per nominare il nuovo direttore del giornale.
Dovrebbe riconfermarmi, forse, me lo auguro… sta di fatto
che devo fare del mio meglio. E vi assicuro che è mia
intenzione non deludere nessuno, né i lettori del giornale, né la
redazione, né tanto meno il consiglio di amministrazione.
Devo tenermi disponibile a qualsiasi nuovo ordine che potrei
ricevere” concluse.
A questo punto Benjamin, esasperato da così tanta miopia
sul progetto del Vaticano, si piazzò davanti alla sua collega,
come per persuaderla del contrario:
“Ma Grazia, usa la tua testa adesso e rispondimi. Non pensi
che potrebbe esserci un collegamento tra le Stelle Spezzate,
che sembrano perseguire la destabilizzazione del paese ad
ogni costo, ed il manoscritto? Lo so che la sto sparando
grossa, ma pensaci bene: tutti i personaggi affiliati al
movimento eversivo sono uomini di cultura, pensa solo al
nostro direttore e ai suoi collaboratori. Ora, in più, si
aggiungono anche un ministro e due sottosegretari, se ho ben
capito quello che ho letto mentre ero di là con te, come se
questo gruppo schifoso fiutasse per proprio conto una pista
segreta… e se stessero cercando qualcosa? Se volessero
appropriarsi loro della Lettera ai Laodicesi per venderla,
camuffarla, deriderla, distruggerla o che so io? Magari
contiene qualche informazione segreta…! C’è sempre il fatto
delle note a margine che anche per gli esperti del Vaticano
sono risultate incomprensibili: e se contenessero una qualche
spiegazione sul futuro prossimo della terra?!”
“Dai, Benjamin, non venire fuori con queste idiozie, per
favore. Il passato lascialo dov’è. E poi, da quanto ho capito,
154
questo manoscritto è già stato rivoltato come un calzino da
un’equipe di studiosi eccellenti. E tu adesso vorresti farmi
credere che voi sareste più esperti degli esperti?” ironizzò
Grazia con un mezzo sorriso.
“Saremo più fortunati, se il cielo ci aiuta” la redarguì
Benjamin. “Se andiamo d’accordo e ci aiutiamo come una
squadra affiatata vedrai che ci riusciremo. Tutti i normali
gruppi di ricerca finiscono per aggrovigliarsi in dispute
velenose tra i componenti, che si stimano tutti gran cervelloni.
Per cui uno non vuole conformarsi a quello che dice un altro,
anche se quest’altro ha ragione. E così facendo, il gruppo
naufraga”.
“E voi cosa avreste in più di un’equipe esperta e famosa?”
lo pungolò.
“Che non siamo esperti. Tanto meno ai massimi livelli. Per
questo dobbiamo aiutarci, veramente. Altrimenti tanto vale
rimanere a casa, e non cominciare nemmeno”.
“Hai ragione” disse Edoardo “Forse hanno pensato proprio
questo, nel convocarci qui, stasera”.
Grazia, sempre in piedi in mezzo alla stanza, scrutò
Benjamin. Non si era ancora spostato e rimaneva ben
posizionato di fronte a lei. Era come un nemico da superare, se
lei voleva ottenere che lui si sedesse o almeno si spostasse.
Ma l’americano era un osso duro. Aveva parlato buttando
fuori adrenalina da tutti i pori, ed era ancora carico di
tensione. Aveva tenuto il tono concitato di chi crede a tutto
quello che dice, e ci mette l’anima nel cercare di convincere
anche gli altri. Grazia doveva far sì che quella commedia
finisse, ed al più presto. Cambiò tattica:
“Benjamin, per favore, non farneticare. Io rischio il posto
se non scrivo i miei articoli ed eseguo il mio dovere di
direttrice. Ho il giornale da seguire, prima di tutto”.
“E’ un momento cruciale, però. L’hai detto tu stessa”
riprese. Sembrava animato da un fuoco interiore che lo
divorava “pensaci bene: devi accorgertene! Le due cose sono
sicuramente collegate. Diavolo: come fai a non rendertene
conto!?”
Edoardo cercò di mediare. Si alzò in piedi anche lui per
esprimere il proprio parere: “Ma se anche fosse, se cioè le due
155
cose fossero veramente intrecciate tra loro, la qui presente
direttrice dovrebbe comunque lavorare. Come farebbe a
seguirci?” obbiettò.
“Ma la farei io la rassegna stampa!” proruppe Benjamin,
come annunciasse la soluzione difficilissima di un rebus. E
poi rivolto a Grazia: “Tu mi affiancheresti ogni tanto, giusto
quando puoi…”.
“Ma sei pazzo?! Perderei la faccia inseguendo un progetto
di lavoro come il vostro! E poi, Benjamin, tu avrai da seguire i
tuoi filoni di inchiesta. Non ti potrei mai assegnare degli
articoli su qualcosa di ancora non ben definito. Hai un nome
importante da difendere. Che figura ci faresti?!” rispose
Grazia spazientita.
“Mi farò dare questa inchiesta. Che tu lo voglia o no. Non
ne voglio altre” sbuffò sicuro di sé.
“Ma non hai uno straccio di prova per convincere gli altri,
su al giornale, che quello che dici sia vero!”.
Benjamin la guardò per un attimo non sapendo cosa
replicare. Era stato davvero messo alle strette e con tutte le sue
forze cercava qualche appiglio per difendere ancora la sua
tesi, che però era difficilmente sostenibile perché gli
mancavano vere prove. All’improvviso sentì alle sue spalle
una voce pacata:
“In tal senso posso aiutarla, signor Tolosa”.
156
XV
Martin si era staccato dal fuoco ed aveva mosso qualche
passo verso il centro della stanza, accanto ai due giornalisti
che discutevano animatamente come due attori sul
palcoscenico. “Lei ha ragione, e mi congratulo per la sua
perspicacia. Le darò tutte le prove che vuole”.
Tutti lo guardarono esterrefatti. Prima ancora che Benjamin
potesse aprir bocca per dire qualcosa, Martin proseguì: “Sono
io il responsabile che ha fatto aprire l’inchiesta che sta
falcidiando così tanti nomi illustri. Io sono il cosiddetto
“pentito” di cui hanno parlato i giornali: colui che prima
faceva parte delle Stelle Spezzate, e ora non più”.
Cadde un silenzio irreale nella stanza. Grazia era senza
parole. Tutti gli altri ammutoliti. Da Edoardo trapelava
un’ombra di disapprovazione quando esclamò:
“Martin, eri dalla loro parte? Ma cosa ci stavi a fare?!”
Benjamin gongolava per la rivelazione appena ricevuta e
per l’enorme fiducia accordatagli da quello strano ed
enigmatico individuo. Si pavoneggiava in mezzo a tutti per
aver fatto centro in maniera così brillante. Roberto e Giulia
erano paralizzati dallo stupore. Dimenticarono in men che non
si dica che stavano per andare a casa, e rimasero piantati in
piedi insieme agli altri, infagottati nei loro cappotti. Nel
frattempo la disapprovazione di Edoardo si era tramutata in
aperto disgusto, e non si curava di celare il viso sempre più
ombroso ed incupito. Laura era bianca come un cencio.
A Grazia non rimase che cedere. “Mi arrendo” disse infine.
“Se riuscirai a convincere me e la redazione nel farti dare
l’inchiesta, fornendoci prove e fatti attendibili, ti appoggerò e
farò tutto il possibile per aiutarti”.
Tutti la applaudirono, tutti tranne Martin.
Senza dubbio la confessione di Martin aveva avuto l’effetto
di ricompattarli tutti, a sorpresa, e nello stesso momento.
La prima a muoversi fu Grazia, che corse di là perché
squillò il suo telefonino cellulare. Poi fu la volta di Edoardo
che, come padrone di casa, prese subito la parola:
“Martin, ma c’è un’inchiesta anche su di te, per caso?”.
157
“No” rispose. “Sono rimasto in mezzo a loro per sei mesi.
Mi avevano raggiunto con la scusa di scrivere un articolo per
la loro rivista, “Il crepuscolo dorato”. E quasi stavano per
riuscire ad incastrarmi. Sai, la loro è una rivista che arriva solo
per abbonamento, e devo dire che sono rimasto molto
impressionato dal numero di abbonati. Arriva anche a semplici
simpatizzanti,
insegnanti,
liberi
professionisti.
Apparentemente è una rivista di cultura, solo molto ricercata,
liberal e snob. E’ difficile, comunque, entrare nel suo circuito
di distribuzione. E’ una cosa molto esclusiva e bisogna essere
presentati da qualcuno che sia già abbonato per sottoscrivere a
propria volta l’abbonamento. Secondo me, tanti non hanno
nemmeno capito che è l’organo ufficiale di trasmissione delle
idee del movimento. Ma iniziando da quelle pagine patinate,
passi poi a leggere i loro scritti. I saggi degli articolisti di
punta, intendo; quelli che scrivono quasi tutte le volte sulla
rivista. Per inciso, è trimestrale. Cominci a frequentare i loro
salotti mondani, i circoli d’intrattenimento. Naturalmente devi
sempre essere presentato da uno che sia già inserito a sua
volta. E questo scatena nel neofita la ricerca spasmodica di
farsi agganciare dai personaggi in vista dell’entourage. E’ una
lotta all’ultimo sangue, e anche all’ultimo euro. Così facendo
non ci si accorge, intanto, di aver già iniziato a vedere le cose
in un certo modo… e il dado è tratto. Diventi dei loro, senza
accorgertene. E’ una metamorfosi seducente perché fa leva
sull’ambizione smisurata dell’uomo a raggiungere le fonti del
potere. Alletta e stuzzica l’intelligenza delle persone
attraverso lo sfoggio di un’erudizione non convenzionale,
cosicché si è convinti di sapere quello che gli altri comuni
mortali non sanno. Ma nel frattempo più si frequentano i loro
salotti e i loro ambienti, più viene iniettato un veleno malefico
che uccide l’interesse per le cose normali, quelle di tutti i
giorni, trovandole noiose, banalmente proletarie o borghesi,
sciatte. L’apatia si trasforma pian piano in disgusto, e il
disgusto in odio. Odio per la vita, per il prossimo. Per i
familiari, che magari non sono nemmeno a conoscenza dei
nostri interessi e di come li abbiamo approfonditi. Alla fine si
arriva, senza nemmeno sapere come e perché, a giudicare con
sprezzante alterigia e superiorità morale le vicende politiche e
158
mondane che ti circondano, gonfi solo di una cieca volontà di
dominio sugli animi deboli.
“Le Stelle Spezzate non vogliono cambiare il mondo, né
tanto meno salvarlo. Non vogliono redimerlo, come i cristiani.
Non vogliono conquistarlo come i musulmani. No: niente
proseliti, né con la predicazione, né con la forza bruta.
Vogliono solo sedurre con il nettare delle loro idee, per
mostrarne al mondo la forza. Per mostrare quanto gli altri,
quelli che non la pensano come loro e rimangono fuori dai
loro circuiti di comunicazione, siano degli stupidi, dei
superstiziosi, dei poveri trogloditi che ragionano come uomini
primitivi.
“Ma al posto della conoscenza del mondo così come la si
ottiene dai libri scolastici, non propongono nessuna nuova
visione della realtà e delle cose, al contrario di ciò che
accadeva, per esempio, per le ideologie del secolo scorso. Il
capitalismo insisteva sulla necessità del libero mercato in
modo che, esente da soffocanti leggi di regolamentazione,
facesse da motore per diffondere sempre più ricchezza tra i
popoli. Il comunismo sovietico e poi il socialismo europeo
hanno puntato invece sul bisogno di un’elevazione dei ceti più
bassi fino ad un livello dignitoso di reddito, uguale per tutti.
Solo che entrambi, così facendo, hanno fatto dilagare la piaga
della corruzione e del materialismo: sia i capitalisti, affamati
di ricchezza tanto da far diventare il mercato soltanto il luogo
dove vige la legge del più forte; tanto i socialisti, nel tentativo
di apparire i salvatori del mondo e i portatori della vera
giustizia: quella che distribuisce tutto a tutti.
“Aderendo alle Stelle Spezzate si riceve solo un odio
sviscerato per tutti i cittadini dell’Europa, e per l’Europa
stessa. Per il resto si rimane vuoti dentro, e presto questo
vuoto, questo non-senso, viene colmato dalla rabbia e
dall’orgoglio, dal disprezzo per la vita e da un odio feroce. E’
un circolo vizioso: il male che diventa sempre più male
assoluto.
“Non ne sarei mai uscito da solo. Ma è successo un
imprevisto: mi sono ammalato, gravemente… e in quei
momenti di sofferenza, mentre ero fermo a letto, mentre
ricevevo le cure amorevoli di persone che si sono dimostrate
159
veramente amiche, qualcosa dentro di me è cambiato. L’odio
instillatomi si è incrinato, come un vaso che si rompe in mille
pezzi. Il loro incantesimo si è spezzato”.
“Come hai fatto a lasciarli?” gli chiese Edoardo, con
interesse crescente. Anche gli altri non si erano persi una
sillaba del suo racconto e non gli staccavano gli occhi di
dosso.
“Il destino si è rivelato più forte delle loro malvagie trame.
Mentre mi trovavo in un posto a svolgere ricerche per conto
loro, in un bellissimo anfratto nella parete rocciosa a picco
sulla spiaggia, non so come sono precipitato. Qualcuno mi ha
raccolto da basso e mi ha portato all’ospedale per le prime
cure: penso si trattasse di uno o due pescatori del luogo.
Questo tale ha raccontato di avermi trovato svenuto sulla
spiaggia. Per fortuna in quel punto non c’erano scogli o sassi
aguzzi. Però ho fatto un volo di sei o sette metri e ho riportato
diverse contusioni e una frattura piuttosto grave alla gamba
destra. Sono rimasto in ospedale quasi due mesi, però mi è
servito: lontano dai miei familiari, con il loro stile di vita
dispendioso, e soprattutto lontano dai discorsi che si erano
impressi in me frequentando le Stelle Spezzate, ho ritrovato il
senno perduto. Il peggio è venuto dopo. Una volta fuori
dall’ospedale ho trascorso un periodo di convalescenza come
ospite di un tale che avevo conosciuto nel mio stesso reparto.
Aveva un piccolo negozio di rigattiere, una persona semplice
e di buon cuore. Ma soprattutto tanto saggio e con così tanto
spirito pratico che la sua presenza è stata per me benefica
come un balsamo. Gli ho raccontato tutto e lui mi ha invitato a
stare da lui quanto volevo. Tutto il tempo che mi sarebbe
servito per riprendermi da quei mesi d’inferno.
“Intanto le Stelle Spezzate hanno aspettato che fossi
arrivato da quel piccolo negoziante, per venire a cercarmi.
Quando hanno realizzato che non volevo più collaborare con
loro, sono passati alle minacce vere e proprie, finché hanno
tentato di screditarmi sul lavoro facendomi passare per matto.
I miei credono che io sia affetto da una fortissima depressione
con tendenze suicide: sapete, per via del tuffo dalla scogliera.
Ma di quella caduta io stesso non so ancora capacitarmi, so
solo che non mi sono buttato di proposito, anche se non ho la
160
benché minima idea di come sia potuto accadere. Forse ho
perso i sensi, a causa delle crisi di diabete che ultimamente mi
stanno capitando, sempre piuttosto forti”.
Giulia sobbalzò a sentire quelle parole. Le rivelazioni che
Martin stava inanellando una dopo l’altra a proposito della sua
vita privata confermavano l’intuizione iniziale che le era sorta
quando l’aveva conosciuto in ospedale. Era un uomo che
aveva bisogno di aiuto. E non era così malato come i suoi
familiari volevano far credere a lei e al Primario. Tutto
sommato, forse era stato un bene che Albrigi gli avesse fatto
cessare gli psicofarmaci.
“Non hai paura che attentino alla tua stessa vita?” gli chiese
Edoardo preoccupato. Per un momento aveva messo da parte
il torvo risentimento che prima aveva stampato in faccia.
“L’ho messo in conto, per questo voglio aiutare chi, come
il signor Tolosa, ha scelto di lavorare per stanare quelle
carogne scellerate e portarle al tribunale della Corte Europea.
Infatti serve un tribunale sovranazionale per giudicarli, perché
sono ramificati in tutta l’Unione, altrimenti ogni stato li
tratterebbe in maniera diversa se li giudicasse per proprio
conto, mentre sono tutti ugualmente colpevoli di cospirazione
eversiva, anche se di fatto non c’è l’uso delle armi”.
Laura espose i suoi dubbi a riguardo: “Ma come può un
tribunale sovranazionale come quello dell’Aja, specializzato
in crimini contro l’umanità, intervenire contro un movimento
che, per quanto abbia valori assai discutibili, dimostra di non
voler rovesciare gli stati con l’uso della forza? Ammesso sia
questo quello che voglia. In Europa c’è libertà di espressione.
Viviamo tutti in stati democratici. A me sembra che, senza che
li si trovi con le armi in mano, sia difficile incriminarli”.
“Il proverbio dice che si uccide più con la lingua che con la
spada” affermò Benjamin. “Signora, questo movimento è
eversivo fin nel suo midollo, perché si propone come scopo
finale la destabilizzazione dell’Unione Europea. Ha presente
gli scritti ritrovati in casa del mio ex-direttore? Ebbene, quelle
pagine, così come le ho potute leggere al momento della loro
pubblicazione, si prefiggono di smembrare l’Unione,
colpendola al cuore: nel suo mercato. Nei suoi processi
161
economici, nei suoi scambi commerciali, negli affari. E mi
duole dirlo: ma non ci potrebbe essere arma più potente”.
Laura sospirò e abbassò il capo, preoccupata.
“Il pericolo c’è ed incombe” riprese Martin con nervosismo
e apprensione visibili, agitando convulsamente le mani sudate
“le menti diaboliche che guidano l’organizzazione hanno
capito che quando si vuole distruggere un continente si fa più
presto se si lede la sua economia. Vogliono far diventare
l’Europa come era l’Africa il secolo scorso: un ammasso di
stati poveri, non più coesi tra di loro, indeboliti e bisognosi
continuamente di aiuto, in guerra perpetua tra loro e dentro di
loro. Gli europei ridotti alla fame, disoccupati, morenti.
Pensate che scenario!
Il loro progetto si è già in parte realizzato: dare vita, in ogni
stato dell’Unione, ad un piccolo gruppo che diffonda come un
virus letale queste idee, celate sotto forma di suadenti percorsi
culturali da proporre ad uomini ignari ma ambiziosi di
eccellere nel campo della formazione e del sapere. E ora è
iniziata anche la seconda parte del piano: infondere paura
nella popolazione dell’Unione, per dare alla situazione attuale
una concreta possibilità di destabilizzarsi a tutti i livelli:
politico, economico, sociale”.
“Stai parlando di un clima di paura come se fossimo in
guerra. Ma dove la vedi? Mi dispiace deluderti, ma non ti
seguo” rispose perplesso Edoardo.
“Mi dispiace invece deludere la tua indiscussa perspicacia,
ma siamo già di fatto in guerra, mio caro amico. Le Stelle
Spezzate corrompono l’ordine mondiale economico. Ciò
comporta instabilità, oscillazioni dei titoli in Borsa, crisi del
mercato finanziario, ristagno degli scambi commerciali,
perdita del potere di acquisto, inflazione, recessione. La storia
insegna che gli uomini sono sempre scesi in piazza per
difendere il prezzo del pane.
Ma destabilizzare l’ordine economico è solo l’antefatto, la
punta dell’iceberg. Il più è una guerra segreta, invisibile,
sconosciuta alla maggior parte della popolazione, e noi qui
presenti stasera siamo l’avanguardia di quelli che la
combatteranno. Ma per vincere un nemico così ben nascosto,
come un serpente che si cela in mezzo all’erba alta, è
162
necessario colpirlo alla testa e schiacciargliela”. E qui Martin
tacque un istante e fece come per raccogliere le forze per dire
qualcosa che gli riusciva difficile: “Bisogna colpire le menti
malvage a capo della cellula principale, la numero uno, quella
da cui tutte le altre sono nate. Le Stelle Spezzate la chiamano
“Dimora Originaria” e pochi, quasi nessuno, sa dove si trovi
esattamente”.
“Ci sono troppe cose che non capiamo” interruppe
Benjamin, “troppi punti oscuri. Dov’è dunque questa Dimora
Originaria? E dove sono questi segnali di guerra in atto? Quali
sono stati i segni premonitori e le avvisaglie di tutto questo? E
soprattutto, perché il Vaticano e non qualche altro organismo
nazionale starebbe preparando il contrattacco? Scusa, ma da
quando in qua la Chiesa è autorizzata a combattere contro un
movimento politico-culturale, per quanto fanatico e
pericoloso?! La Chiesa può combattere eresie, o esortare
contro certi modi falsi e sbagliati di pensare e di agire, come
ha fatto in passato. Come ha fatto, ad esempio, contro il
nazismo e il comunismo nel secolo scorso. Può emettere
Encicliche, Esortazioni Apostoliche, può radunare migliaia di
persone in piazza, può manifestare e protestare pacificamente,
può usare la sua Diplomazia, ma non può combattere con le
armi: oh bella, le crociate sono finite da un pezzo! ”.
Anche Edoardo mostrava di condividere le stesse idee e
disse rivolgendosi a Martin: “Il nostro collega americano ha
ragione. La Chiesa non può combattere nel senso di reprimere
con le armi o con qualcosa di simile. Le uniche armi della
Chiesa sono la preghiera, i sacrifici, la carità verso i poveri…
insomma, la Chiesa è vittoriosa quando è unita al suo Signore,
a Cristo, quando sale in croce con lui. Lo si è visto nelle
Chiese perseguitate dell’Est Europa, della Russia ad esempio,
durante i regimi comunisti del secolo scorso. Quelle Chiese
hanno patito feroci persecuzioni: sterminio di fedeli e
sacerdoti, divieto di celebrare, divieto di pregare, proibizione
persino di tenere in casa la Bibbia ed altro ancora. Eppure
quella sofferenza è servita a purificare la fede di quei popoli;
le persone che non hanno perso la fede, anche se in alcuni casi
è costato loro la vita, alla fine hanno visto la vittoria del
Signore: il comunismo è crollato. Dio è fedele con il suo
163
popolo. Se la Chiesa sta unita a Lui nelle persecuzioni, anche
nei momenti difficili o cruciali come quello odierno di cui tu
ci stai raccontando, Martin, allora il Signore si impegnerà
certamente a salvare la sua Chiesa. Io ne sono profondamente
convinto”.
Al sentire quelle parole il viso di Martin fu attraversato per
un attimo da una smorfia di cattiveria. Ma fu così rapida che
nessuno la notò. Riprese con calma:
“Non metto in dubbio che la Chiesa non possa combattere
come fanno le singole nazioni, cioè con l’uso della forza. E’
ovvio. Quello di cui l’umanità ha bisogno, ora, è di una chiara
indicazione di dove si trovi la verità e di dove si celi, invece,
l’inganno. E le Stelle Spezzate indubbiamente, pur
presentandosi come l’unica verità per gli uomini, di fatto sono
un colossale errore. Il problema è che i singoli stati, ormai,
sono troppo deboli. Non possono fare molto per convincere la
gente a non provare paura, odio, rancore, sete di vendetta,
voglia esasperata di giustizia contro questo potente ma
inafferrabile gruppo. Guardate l’Italia: al punto in cui siamo
arrivati non sappiamo se il governo riuscirà a durare un’altra
settimana; e anche fosse votata la sfiducia e si andasse a nuove
elezioni, nessuno andrebbe a votare senza la paura e
l’incertezza sul futuro. Un macigno pesa sulle nostre teste:
rendetevene conto. Non siamo più sicuri di nulla. Anche il
mio vicino di casa potrebbe far parte delle Stelle Spezzate.
Guardatevi attorno! Lei è un giornalista, signor Tolosa: queste
cose dovrebbe saperle meglio di me. L’Italia è in una fase di
recessione: la povertà sta dilagando tra le fasce deboli della
popolazione e lo stato non è in grado di arginarla, né tanto
meno di contrastarla. E’ marcio fin nelle ossa: ormai il virus è
arrivato fin dentro il Parlamento. Chi lo toglierà ora? O forse
lei pensa che, alla fine, tutto s’aggiusterà? E’ forse così
ingenuo, signor Tolosa?”.
Benjamin per la prima volta rimase in silenzio, figurandosi
mentalmente uno scenario da incubo. Martin proseguì. “Io,
insieme al Cardinale Mac Collough e al suo staff”, Edoardo
gli lanciò un’occhiataccia sentendo parlare con tanta
familiarità del capo della sua missione “pensiamo che le note
a margine della Lettera ai Laodicesi siano in realtà una specie
164
di messaggio cifrato. Di un periodo successivo naturalmente,
diciamo di circa cinquanta, ottanta anni dopo la sua stesura
originaria. Pensiamo che questo manoscritto appartenente alle
prime comunità cristiane contenga una visione o delle tracce
per interpretare i tempi in cui viviamo, una specie di seconda
Apocalisse. Voi tutti sapete che l’Apocalisse fu scritta durante
la terribile persecuzione di Domiziano per infondere coraggio
ai cristiani che venivano martirizzati come bestie da macello.
Ma la sua interpretazione va ben oltre i tempi in cui questo
testo è stato scritto, e si rivela valida anche per i giorni nostri:
la lotta tra il bene e il male, tra l’esercito del demonio – il
drago dell’Apocalisse – e le schiere angeliche capeggiate
dall’Arcangelo Michele. Ed infine colei che schiaccerà la testa
al male definitivamente… Ebbene, venendo alla Lettera ai
Laodicesi, lo staff del Cardinale Mac Collough, e lui per
primo, ritengono che questa lettera, ritrovata così
incredibilmente proprio in questi anni, sia una chiave
interpretativa vincente che la Provvidenza di Dio manda per
sconfiggere l’odierno pericolo che incombe sull’umanità.
Pensate se le Stelle Spezzate dilagassero fino a conquistare
l’intera Europa! Sarebbe la fine per tutti!”.
Fece una pausa per schiarirsi la voce, per dare a tutti il
tempo di rendersi conto della gravità del problema e perché
fossero in grado di elaborare a sufficienza quella mole enorme
di informazioni che Martin stava fornendo loro tutte in una
volta. Poi riprese, il tono di voce più pacato e narrativo, come
si accingesse a raccontare un fatto storico:
“Il manoscritto circolava nelle prime comunità cristiane. Vi
ho già spiegato che la precedente commissione di saggi ha
stabilito che per stile, contenuto e sintassi il testo è
potenzialmente attribuibile al cosiddetto “apostolo delle
genti”, a San Paolo. E io dico che lo è veramente. Dalla lettura
del testo, per quello che mi è stato riferito, si evince una
visione simile a quella dell’Apocalisse, anche se non è proprio
uguale perché S. Paolo non è S. Giovanni, i loro intenti sono
decisamente diversi, per non parlare poi dei loro stilemi…
però il messaggio che ne esce è simile: in questo caso una
comunità precisa (e non la Chiesa Universale come
nell’Apocalisse di S. Giovanni) è minacciata da un pericolo
165
concreto. La prospettiva è che questo pericolo dilaghi sempre
di più, per cui Paolo si dilunga nell’ammonire, nel correggere
e nel suggerire con insistenza la preghiera, l’assiduità nello
spezzare il pane (cioè la messa) e la pratica delle opere di
pietà e di misericordia. Poi, però, l’avvertimento dell’apostolo
si dimostra vano: i cristiani di Laodicea perdono la fede, la
comunità muore. La lettera rimane accantonata da qualche
parte, finché se ne perde persino la memoria. Le altre
comunità cristiane non sono a conoscenza del manoscritto,
perché nel periodo in cui la chiesa di Laodicea andava sempre
più corrompendosi, si è anche progressivamente isolata.
Oppure, più semplicemente, la lettera è andata perduta.
Poi essa ricompare nel XXI secolo con delle note a
margine.
Il Vaticano propende per datarle ad un periodo
sicuramente successivo alla stesura della lettera: in effetti
alcuni studi fatti sull’inchiostro, sui pollini e su tutto il resto
spostano quella sconosciuta calligrafia di un’ottantina d’anni
più avanti rispetto alla datazione della testo principale della
pergamena. Immaginiamo cosa sia potuto accadere: un uomo
che sa leggere e scrivere trova la pergamena, la legge e
capisce che si tratta di un vecchio scritto cristiano, ma ormai il
cristianesimo lì è morto, e così lui la usa per scriverci a fianco
le sue considerazioni. Ma già qui sorge un problema: se
l’ipotetico scriba non è minimamente interessato al contenuto
cristiano della lettera, perché non cancellarla del tutto,
raschiarla cioè, e scriverci sopra tutte le annotazioni che
voleva? Mac Collough mi ha risposto che, in linea ipotetica, al
nostro scrivano avrebbe potuto dispiacere cancellare un
prezioso documento come quello, per cui si è limitato a
scribacchiare qualcosa a margine, per mostrare il documento
in un secondo tempo, con il suo contenuto, ad una sede
vescovile e farsi pagare, in cambio del rilascio del
manoscritto. Ma io personalmente ho un’altra idea.
Naturalmente siamo nel campo delle libere supposizioni, ma
se l’apostolo Paolo, visitando quella comunità cristiana ormai
corrotta dal denaro, proprio come si verifica anche oggi,
avesse fatto a voce delle brevi catechesi che spiegavano ancor
meglio la lettera, e poi queste per qualche motivo sconosciuto
166
avessero cominciato a girare per le altre comunità cristiane…
capite: queste, le glosse, e non la lettera. Cominciano cioè a
far parte della tradizione orale della Chiesa. Poi la lettera va
perduta, o qualcosa di simile. Ma la sua spiegazione più
dettagliata rimane viva, tramandata di voce in voce. Due
secoli dopo il nostro scrivano di cui sopra trova la lettera e
capisce di cosa si tratta. Conosce anche l’aggiunta orale,
perché è uno dei pochi cristiani rimasti in Asia Minore,
cosicché la annota a margine. Sono frasi veloci,
apparentemente incomprensibili perché il suo scopo è quello
di sintetizzare in maniera svelta le catechesi dell’apostolo:
perché lui, che le conosce per esteso, e ne comprende il
significato da quei brevi cenni, le avrebbe usate come base per
ricostruire tutto il discorso. Improvvisamente lo scrivano
muore, o gli viene rubato il manoscritto. Anche la spiegazione
orale col tempo sparirà del tutto, non più tramandata dalle
comunità cristiane della Turchia che cominceranno ad
indebolirsi, fino a soccombere con l’avanzata dell’Islam.
Ora veniamo a noi e al nostro tempo: se Paolo, allo stesso
modo di Giovanni, su ispirazione dello Spirito Santo, avesse
fatto rivelazioni su qualcosa che era pericoloso allora come
adesso?
Le cose riguardanti lo spirito non mutano, e se duemila
anni fa si affermava che un certo vizio è mortale, lo è anche al
giorno d’oggi, per l’anima pura che vuole vivere alla luce di
Dio. Purtroppo su tante questioni morali oggi la mentalità è
cambiata, ma una fetta sostanziosa di gente ritiene che i
principi del Vangelo siano ancora assolutamente validi.
Quindi, lo ripeto un’ultima volta: se Paolo avesse parlato
esattamente del male che affliggeva Laodicea - e lo si evince
dalla lettura del passo - e se si considera che, guarda caso,
quel male si sta ripetendo oggi su scala mondiale, e se Paolo
avesse rivelato a voce anche l’antidoto… e l’antidoto fosse
scritto in quelle note…”.
“L’antidoto alle Stelle Spezzate?” domandò Benjamin che
nella sua testa aveva già fatto due più due. Anche Edoardo,
tuttavia, dallo strano brillio degli occhi lasciava trapelare che
era arrivato alla stessa conclusione.
167
“Esattamente. Se l’Apocalisse rivela l’importanza della
figura di Maria, ad esempio, nello sconfiggere il maligno, e
questo valeva ai tempi della persecuzione di Diocleziano, vale
per i nostri, e ancora più varrà proprio alla fine dei tempi,
nulla vieta che Paolo abbia potuto rivelare, sempre per divina
ispirazione, le caratteristiche della strada perversa di chi vuole
arricchirsi a tutti i costi, arrivando a distruggere il proprio
fratello, il proprio vicino e l’intera comunità. Guarda caso, ad
una lettura odierna, sembra tratteggiare in modo assai
convincente proprio le Stelle Spezzate. E se poi Paolo avesse
rivelato un qualche particolare… ad esempio un’altra città che
in futuro avrebbe potuto fare la stessa fine di Laodicea… una
città che ora, magari anche per puro caso – ma esiste mai il
caso in una visione di fede? – si fosse talmente corrotta da
ospitare la “Dimora Originaria”?!”.
Lo shock fu improvviso e completo. Per un lungo, infinito
attimo tutte le facce degli astanti scrutarono Martin incredule,
non sapendo se ritenerlo un genio o un esaltato visionario.
L’aveva sparata troppo grossa. Prima che qualcuno potesse
aprire bocca, lui continuò sullo stesso registro:
“Quando trovai il manoscritto, vidi anche la strana
calligrafia a margine, evidentemente diversa dalla mano che
aveva steso la parte centrale. Ma non ci pensai troppo su,
anche perché di lì a poco mi tolsero la pergamena per farla
studiare da una commissione appositamente creata. Passò il
tempo, e non detti troppo peso alla cosa. Nel frattempo avevo
perso ogni notizia circa il lavoro della commissione di esperti.
Pochi giorni fa, quando parlai con Mac Collough, e lui mi
spiegò all’incirca il contenuto della Lettera, mi balenò
improvvisa come un lampo l’associazione tra quella situazione
di malcontento e malvolere del passato, e l’analoga situazione
odierna. Parlai al Cardinale, il quale naturalmente mi ascoltò
con pazienza, e mi disse che era un’ipotesi, un po’ troppo
ingegnosa, ma pur sempre un’ipotesi. Però per me rimane
lampante il collegamento”.
“Sinceramente, Martin, un’ipotesi del genere mi pare
troppo debole. Vorresti farci credere che un improbabile
copista cristiano prima del Mille ha cominciato a mettere
mano a quella Lettera, scrivendo a fianco del testo i suoi
168
appunti personali, che in teoria sarebbero le catechesi orali
della visita di Paolo alla comunità di Laodicea? Quindi
avremmo la lettera e anche i sermoni aggiuntivi… ma poi
purtroppo il copista è prematuramente scomparso… Però in
quegli appunti, peraltro così incomprensibili da risultare quasi
cifrati, ci sarebbe il riferimento ad una città che, ieri come
oggi, era marcia e corrotta all’inverosimile… non la città di
Laodicea, ma un’altra che l’apostolo avrebbe portato come
esempio massimo di corruzione… quella stessa città che oggi,
involontariamente per chi l’ha deciso, è anche sede della
“cellula madre” delle Stelle Spezzate? Andiamo, Martin, mi
sembra una trama da racconto giallo! Non è per caso che vuoi
a tutti i costi rifarti del cattivo trattamento che hai subito ad
opera delle Stelle Spezzate? Scusa tanto se te lo dico, ma per
me tutto questo non ha senso”.
Tutti sembrarono per un momento convenire con
l’obiezione così evidente di Edoardo. Solo Martin rimase
imperturbabile. Anzi, non mostrava segni di cedimento nel
sostenere la sua versione dei fatti. L’impressione era quella
che fosse in atto un duello invisibile tra i due intellettuali.
Nessuno era in grado di prevedere chi dei due avrebbe vinto.
Martin riprese con le sue argomentazioni. Nonostante
fosse sudato, ormai, a forza di parlare, era impressionante il
suo ferreo autocontrollo:
“Edoardo, amico mio, è che sei miope nello scrutare i
segni dei tempi. Perché mai la Lettera è stata ritrovata proprio
ai giorni nostri, nell’epoca in cui stiamo vivendo, e proprio
adesso ci viene chiesto di studiarla con attenzione dai
rappresentanti della più grande autorità morale del mondo? Il
nostro è un periodo di crisi politica e sociale: la nostra cara
Italia non se la sta passando affatto bene col caos che sta
suscitando questo movimento fanatico… per non parlare
dell’Europa… ormai manca solo che perdiamo anche il
concetto di cittadini europei, oltre che le tradizioni delle nostre
singole patrie! Guardatevi tutti intorno e ditemi: quanti
immigrati stranieri provenienti dall’Asia e dall’Africa vedete
entrare nell’Unione Europea con l’idea di lavorare,
guadagnare i tanto desiderati soldi occidentali, ma avendo in
animo di non corrompersi affatto con la mentalità e le idee
169
della nostra società attuale!? Anzi, odiano tutto questo
pullulare di benessere, edonismo, velleità razionalistiche,
mollezza dei costumi che tutti siamo in grado di riconoscere
presenti nella nostra Europa, e anche in Italia. E ancora,
lasciatemi andare un po’ oltre con la visione delle realtà
future: quante di queste persone, magari di quelle che si
sistemeranno tra le fasce più agiate, credete che possano
confluire ad ingrossare il bacino di utenza delle Stelle
Spezzate? Non ci penserebbero due volte a fare qualcosa per il
loro tornaconto, anche a discapito dei paesi che danno loro il
pane da mangiare per sè e per le loro famiglie!
Credetemi, i tempi sono maturi: la storia si ripete, oggi
come ieri. Quelle note a margine della pergamena possono
benissimo parlare di una particolare situazione critica del
cristianesimo nell’Asia Minore dei primi due, tre secoli dopo
Cristo, nella quale imperversavano eresie, come anche di
un’analoga situazione critica oggi, nell’Europa quasi
altrettanto scristianizzata. La Lettera parlava sì della
situazione di allora, ma anche di noi qui ed ora. E’ urgente
che, sapendo come stanno veramente le cose, ci affrettiamo ad
intervenire prima che questo movimento degenere faccia così
tanti adepti da cancellare i valori del cristianesimo e della
democrazia stessa, e ci riduciamo ad un branco di primitivi in
cui vige la legge del taglione!”.
Edoardo rifletté per qualche attimo. Poi disse: “Tutto
quello che racconti è estremamente affascinante, Martin, non
lo nego. Ma suppone che la Chiesa si sia accorta di questo
pensiero negativo che sta fagocitando in così poco tempo una
miriade di vittime, dovrebbe cioè averne già riconosciuto le
avvisaglie, esattamente proprio come hai spiegato tu. Ma
perché non farne parola con i fedeli, allora? Perché non una
lettera pastorale, un’esortazione apostolica, un’enciclica o che
so io…?”.
“Ma non capite?!” esclamò Martin veramente allarmato
“gli stati si stanno progressivamente paralizzando: come in
Italia è scoppiata la crisi di governo e la situazione è così
critica, altrettanto starà scoppiando o scoppierà negli altri stati.
E speriamo che da tutto questo non nasca qualcosa di peggio,
per esempio una guerra civile europea! Non è da sottovalutare
170
questa eventualità, mi viene paura anche solo a pensarci! Ma il
pericolo c’è: le Stelle Spezzate iniettano l’odio per la vita,
l’apatia, il menefreghismo, l’accidia e il malcontento
cronicizzati. In chi prova tali distruttivi sentimenti è spontaneo
desiderare di togliere la vita a sé (senza rendersene conto,
naturalmente) e agli altri. Rammentate che un mese fa in
Francia hanno arrestato per “antifrancesità” il ministro della
cultura? Hanno cercato in tutti i modi di far passare la cosa
sotto silenzio… Ma il governo è già cambiato cinque volte in
un anno… E in Germania lo stesso… Spagna e Portogallo
stanno nascondendo al mondo i loro problemi interni con le
masse di immigrati.
“E quanto ai segni premonitori, non vi siete accorti di quel
che sta accadendo? E’ come se dalle massime gerarchie
scendendo ai Vescovi, e finanche ai parroci, tutti gli uomini di
Chiesa parlassero come un’unica voce che mette in guardia
dalla tentazione di pensare che nel nostro paese non va bene
niente, dalla tentazione di rigettare la colpa sugli altri, dalla
tentazione di dire sbuffando: “Ma sì, tanto non cambia
niente!” e anche dalla tentazione più estrema, quella di chi
odia talmente gli altri che è capace di finire col fare del male a
sé stesso… Siete tutti a conoscenza del fatto che l’emulazione
dei suicidi può provocare un vero e proprio flagello!
Martin non aveva più fiato, ma continuò: “Solo la Chiesa
ha l’autorità morale e i mezzi sufficienti per sconfiggere
questa nuova specie di eresia del XXI secolo. O altrimenti
sarà la sconfitta della Chiesa, anche se personalmente ritengo
che lo Spirito la protegga e la assicuri vincente. Io stesso sono
sicuro di essere vivo per miracolo, dopo tutto quello che mi è
successo. Credetemi: le Stelle Spezzate vogliono la Lettera ai
Laodicesi prima che ci arriviamo noi, per proteggere
l’ubicazione della Dimora Originaria”.
Martin tacque. Fu come se un fiume di parole avesse
inondato gli altri sei. Le loro facce parevano stregate: tutte
inebetite e attonite, che guardavano in direzione di Martin. Un
misto di stupore, incredulità, paura, scetticismo si rincorreva
su loro volti, lasciando intravedere la lotta che sicuramente
avveniva dentro quei cuori. Sulle facce i sentimenti si
rincorrevano.
171
Ognuno di loro però aveva mostrato un vivo interesse.
Aveva fatto impressione il racconto di come l’archeologo
fosse sopravvissuto alla caduta dalla scogliera, l’avevano
ascoltato tutto d’un fiato, attentissimi. E questo sincero
desiderio di sapere manifestava che qualcosa, nel suo racconto
così accorato, li aveva colpiti. Che poi credessero veramente a
tutta la sua congettura, questo era un’ altra questione. Ma
qualcosa di autentico doveva pur esserci, sembravano pensare
tutti. Avevano sentito risuonare una nota di verità nelle parole
dell’archeologo ed ora quella nota vibrava dentro di loro come
qualcosa di profondo, vero, autentico. Non c’era da scherzare,
né da pensarci troppo: quel giovane uomo, pallido ed
emaciato, dall’apparenza rude e solitaria, aveva ragione: era in
gioco il futuro dei loro paesi, fors’anche il destino stesso delle
loro vite.
Edoardo prese la parola, interpretando il sentimento di
tutti:
“Martin, è evidente che tu sai più cose di tutti noi messi
insieme. A questo punto credo che non ci rimanga che
accettare la proposta e aspettare di ricevere informazioni più
sicure e dettagliate dal Vaticano. Pensi che potremo essere
ricevuti tutti in udienza dal Cardinale Mac Collough per
ottenere maggiori dettagli?”.
“Sicuramente” rispose. “Se ho capito bene, domani entro
le tredici devi dare la risposta. Ritengo che, avendo tutti
accettato di collaborare al progetto, puoi richiedere subito un
incontro”.
172
XVI
Quando Martin terminò di parlare, la pendola segnava le
due di notte. Dopo la sua lunghissima spiegazione a tutti era
parso chiaro che non c’era più nulla da aggiungere, perciò
Martin, Giulia e Roberto se ne andarono via alla spicciolata,
senza ulteriori commenti, con la percezione di un’oscura
minaccia incombente sulle loro teste.
Benjamin e Grazia consultarono internet per cercare un
volo per Milano alle prime luci del mattino. Benjamin non si
capacitava di come la sua direttrice fosse perfettamente lucida
e sveglia, mentre la sua testa ciondolava pesantemente da una
parte e dall’altra e sentiva gli occhi chiudersi, pesanti come
due macigni.
Scoprirono che era programmato un volo dell’Alitalia alle
7.15: Grazia non avrebbe potuto chiedere di meglio; quanto a
Benjamin, lei accettò la sua richiesta di arrivare in redazione
con più calma, nel corso della giornata.
Edoardo si offrì di ospitarli.
“Entrambi i divani in questa stanza sono divani letto, potete
usarne uno ciascuno per riposare. Queste sono le ore cruciali
della notte, un buon sonno ristoratore dopo tutte queste notizie
cupe sono certo che farà bene a tutti”. E chiese a Laura che
portasse giù dal piano di sopra delle coperte e dei pigiami.
“I letti sono già fatti con lenzuola fresche e pulite”
aggiunse come a voler rendere l’offerta più gradita “sono
sempre pronti caso mai trascorresse qui la notte qualche nostro
parente. Non abbiamo figli, ma abbiamo un gran numero di
persone che frequentano questa casa” spiegò lasciandosi
sfuggire uno sbadiglio. “Usate pure il bagno e la cucina con
tutta la tranquillità che volete, se desiderate farvi una doccia o
prepararvi un caffè domani mattina”. E ciò detto, uscì dalla
stanza dopo aver augurato loro ancora una volta la buona
notte.
Laura fece capolino poco dopo reggendo due pesanti plaid
di lana. “Dovreste avere caldo a sufficienza” disse.
Una debole fiamma perdurava nel camino.
Aprì i due divani letto con l’aiuto di Benjamin, mente
Grazia si profondeva in mille ringraziamenti. Benjamin
173
invece, da buon americano, abituato a fare di necessità virtù e
avvezzo ad un sano senso pratico, non perse tempo in
convenevoli vari, ma aiutò Laura a sistemare le coperte e a
tirare giù le tapparelle; poi la seguì per un rapido giro di
ispezione della casa.
Grazia invece andò a spegnere la piantana alogena
nell’angolo, poi si decise a chiudere con aria rattristata il suo
note-book.
“Ora sono completamente irrintracciabile” commentò
scherzando quando vide ricomparire Benjamin da sotto l’arco.
“Ho spento tutti i miei strumenti di potere. Del resto ci vuole
un po’ di stacco. Ti ricordi che anche al giornale verso le due
di notte si spengono le ultime luci sul nostro piano?”.
“Sì, sì” rispose lui sottovoce sedendosi sul divano più
grande e cominciando a sciogliersi i cordoni delle sue
Timberland. “Uhm, però conoscendoti un po’, avrai
sicuramente con te il cercapersone. E’ per quello che sei
relativamente tranquilla. Guarda me, invece: nulla di nulla”
disse alzando le braccia. “Tutto rigorosamente spento. E sono
orgoglioso di non aver mai portato con me un cercapersone. A
proposito” e pronunciò le parole con una leggera punta di
ironia “nulla in contrario se mi prendo il divano
matrimoniale?”
“Fai pure” gli rispose imitando il suo stesso tono “tanto sei
abituato a fare quello che vuoi. Per non parlare della mania di
grandezza di voi americani… Per caso hai intenzione di
spogliarti qui davanti a me?” aggiunse con un garbato accento
malizioso visto che Benjamin aveva cominciato a sfilarsi il
pesante maglione rosso e a slacciarsi i pantaloni.
“Senza dubbio l’atmosfera mi eccita” ammise. “Comunque
sono a pezzi. Ho troppo sonno. Voglio infilarmi sotto le
coperte e spegnere il cervello il prima possibile”.
Grazia divenne rossa tutt’a un tratto, intravedendo
Benjamin armeggiare con i vestiti e rimanere in t-shirt e
boxer. Per fortuna lui non se ne avvide perché la stanza era
illuminata solo dal debole lume delle ultime fiamme che già
accennavano a spegnersi. Nell’aria vibrava ogni tanto il
leggero schiocco delle braci. Cercò di rimanere impassibile e
con lo stesso tono scherzoso di prima gli disse:
174
“Allora non mi rimane che augurarti la buonanotte; io me
ne vado in bagno invece” gli rispose in un soffio, e afferrato il
suo beauty-case gli passò accanto per uscire dalla stanza. Ma
dovette ammettere con sé stessa, una volta fuori, che la sua era
una dignitosa fuga nelle retrovie piuttosto che la risposta di
una donna che sa tenere testa ad un uomo piacente, di cui
forse è innamorata. Si trincerò in bagno con il fiatone,
nonostante il bagno distasse solo due metri dal salotto. Si lavò
i denti e fece con comodo tutte le consuete operazioni
notturne: tanto non aveva sonno. Si truccò, si sciolse i lunghi,
morbidi capelli e li spazzolò con calma, poi stese sul viso il
sottile velo di crema che metteva sempre. Per ultimo infilò il
pigiama.
Il suo pensiero correva inevitabilmente alla stanza al di là
del corridoio: al solo rammentare che di là l’aspettava lui, alla
debole chiarore di poche braci in tutto, provava un tremito
lungo tutta la schiena ed il rossore di poco prima le saliva al
viso e quasi glielo incendiava. Non riusciva a guardarsi allo
specchio senza darsi della stupida e della ragazzina.
Si sforzò di essere seria e di pensare che nel giro di poche
ore tutto sarebbe finito: basta con il loro romantico tête-à-tête,
basta con la loro confidenziale conversazione, basta con
quell’intimità fra di loro tanto temuta e desiderata insieme.
Avrebbe preso un taxi e poi un aereo con destinazione lo scalo
sicuro della sua Milano.
Ritornata nel salotto in penombra trovò Benjamin che stava
russando sotto le coperte del suo divano letto. Lo vide
distintamente perché il fuoco non si era ancora spento, ma
arrivava appena, come intensità, alla fiamma di due o tre
candele messe insieme.
Lo squadrò con calma, rilassandosi al vedere che dormiva
di già, felice almeno di potersi prendere quella piccola
soddisfazione di contemplare l’uomo da cui era attratta senza
che lui se ne accorgesse.
Notò che si era sistemato non in mezzo al letto
matrimoniale, ma che dormiva alla destra della testata e ne fu
sorpresa. Se solo l’avesse saputo, gli avrebbe chiesto di fare
cambio, perchè lei al contrario non prendeva mai sonno subito
e trascorreva anche un paio d’ore ad avvoltolarsi nel letto.
175
Benjamin dormiva beato come un bambino: i capelli folti e
arruffati poggiavano sul cuscino; la testa leggermente reclinata
di lato, un braccio sfuggiva fuori dal lenzuolo e gli cingeva il
petto, la mano nerboruta e delicata insieme si alzava e si
abbassava sul torace, secondo il ritmo del respiro.
Le parve bello come uno dei suoi attori preferiti. Solo gli
occhiali erano del tutto fuori posto su quel viso così ben
scolpito. Pensò che si doveva essere addormentato di sasso,
dimenticandosi di levarli. Stette a guardarlo per due o tre
minuti come ipnotizzata. Ad un certo punto, quando nella sua
mente realizzò che quegli occhiali indosso proprio stonavano,
sentì una spinta irrefrenabile ad accostarglisi vicino per
toglierglieli.
“In fondo gli faccio solo un piacere” si disse “lo sanno tutti
che con gli occhiali intorno si dorme male”.
Il desiderio che la spingeva verso di lui fu più forte delle
innumerevoli remore che la sua testa perspicace formulò assai
prontamente.
Si avvicinò chinandosi leggermente su di lui e allungò una
mano per sfilargli gli occhiali, ma inaspettatamente lui aprì gli
occhi. Lei si paralizzò all’istante con la mano accanto al suo
naso, davanti due occhi azzurri che la guardavano sospettosi.
Ci fu un attimo di silenzio che le parve lunghissimo e
interminabile. Alla fine si decise:
“Volevo
solo
toglierti
gli
occhiali”
borbottò
imbarazatissima “nient’altro”.
“È un pensiero gentile, grazie” e lasciò che lei allora glieli
togliesse.
Grazia si rialzò subito di scatto. Era imbarazatissima e
provava una crescente dose di vergogna, acuita dalla
consapevolezza di essere stata ferita nell’amor proprio.
Immaginò come sarebbe dovuta apparire la scena ai suoi
occhi. E di fatti Benjamin le chiese subito dopo:
“Perché volevi togliermi gli occhiali?” il suo tono
comunque era calmo e gentile.
“Pensavo potessero darti fastidio” si limitò a dire facendo
uno sforzo sovrumano per mantenere un’aria serena e
distaccata. “Come hai fatto a capire che mi sono avvicinata?”
gli chiese.
176
“Ho percepito qualcosa che si muoveva attorno a me” le
rispose. Lei si allarmò. Poi lui scoppiò a ridere:
“Ma no, non preoccuparti. Non ho nessun potere extrasensoriale!” esclamò ridendo di gusto. “Mi è giunta una scia
del tuo profumo: l’ho riconosciuto. Ma non chiedermi come
ho fatto a riconoscerlo” le spiegò. Sembrava quasi divertito di
averle fatto prendere così tanta paura.
Grazia si rabbuiò. Le si leggeva sul volto che ci era rimasta
male e non osava aprire bocca. La sua espressione era più
loquace di un’intera spiegazione. Rimase ferma immobile, ma
non potè fare a meno di continuare a guardarlo.
Allora Benjamin si sollevò sulla schiena e si mise a sedere
sulla sponda del letto, prendendola per il braccio la costrinse
ad inginocchiarsi accanto a lui. Un moto irrefrenabile di
tenerezza lo spinse, senza pensarci troppo, ad allungare il
braccio e sfiorarle delicatamente con la mano i neri capelli
lisci che le ricadevano sulle spalle. Era la prima volta che
glieli vedeva sciolti.
Grazia lo lasciò fare, era come se avesse intuito che lui
desiderava dirle qualcosa. Infatti un attimo dopo Benjamin
sembrò commuoversi, come stesse mettendo da parte per un
momento quella scorza di uomo duro e un po’ spaccone che
era attaccata a lui come la sua stessa ombra. Le disse:
“Hai un animo sensibile, che ti permette di accorgerti di
cose piccole come questa: che avevo ancora gli occhiali
intorno. Lo accetti un complimento sincero?”
“Naturalmente”.
“In questo momento mi ricordi le fatine buone delle favole
che vengono a togliere dai guai il protagonista coraggioso ma
altrettanto maldestro” le sussurrò. Poi si chinò su di lei e le
diede un bacio sulla guancia, sempre accarezzandole i capelli.
“Ti ho detto delle fate perché ricordo che, da piccolo, i miei
genitori mi mettevano a letto raccontandomi le fiabe, ed io
volevo sempre quelle in cui c’era qualche fatina buona che
veniva pazientemente in soccorso dell’eroe capace il più delle
volte di combinare soltanto guai. Quello della fatina era il
personaggio che in assoluto più preferivo. Forse perché sono
un idealista, uno che crede ancora adesso nei propri sogni.
177
Te lo dico perché credo di essermi già messo
abbondantemente nei guai accettando questo strano progetto
del Vaticano. Mi stuzzica, per questo ho accettato, anche se
per ora mi sembra totalmente senza criterio. Ho la netta
sensazione che non so dove ci porterà. Mi credi?”.
“Non hai dato quest’impressione quando parlavi con gli
altri”.
“Indossiamo tutti una maschera per non fare brutta figura
quando ci troviamo con gli altri, e anche perché loro non ci
leggano dentro”.
“Ma sei sincero con me, adesso?”.
“Assolutamente sì”.
“Perché?”.
“Te l’ho detto: perché mi ricordi la fatina delle mie favole”.
“Tu saresti l’eroe che si mette nei guai?” gli chiese Grazia,
stupita di quella inaspettata confidenza.
“Proprio così. Hai afferrato il concetto”.
“E io sarei la tua buona fatina azzurra?” riprese.
“Sì, che mi viene a salvare”.
“Lo sai che il complesso di Cenerentola Freud l’ha già
spiegato da un bel po’ di tempo?”
“Ma Freud è anche tramontato da un bel po’ di tempo”.
“Ma io non ti devo salvare proprio da un bel niente, in
questo momento” gli rispose caparbiamente. “Anzi, ti ho già
rovinato il poco tempo che ancora ti resta per dormire”.
“Eppure io ho la netta sensazione che mi salverai da
qualcosa. Non so da cosa di preciso, ma sarai molto preziosa,
a suo tempo”.
“Oh, Benjamin, piantala! Lo so che mi stai tirando ancora
fuori la storia della Turchia! Guarda che lì ci vai da solo, se
proprio vuoi andarci”.
“Chissà, staremo a vedere. Io non ne sarei così tanto
sicuro”.
“Non m’interessa. Per adesso sono qui e faccio la
giornalista. Non voglio occuparmi di nient’altro che del mio
lavoro”.
Le sovvenne però un’idea bizzarra. “Però una magia posso
farla, se proprio lo desideri” gli disse con aria divertita.
178
Allungò la mano per afferrare una matita riposta insieme a
numerose altre penne in un piccolo vaso trasparente sul
tavolino in mezzo ai divani, e disse agitandola in alto a guisa
di bacchetta magica: “Adesso chiudi gli occhi e dormi fino a
domattina!” e gli toccò la fronte con la bacchetta mentre le sue
labbra si schiudevano in un bellissimo sorriso. Sapeva di aver
appena fatto una sciocchezza, ma adesso non aveva più paura
di fare brutta figura.
Benjamin le sorrise, poi si voltò e chiuse gli occhi.
179
LUNEDI’ 17 Marzo
XVII
Alle prime luci dell’alba di lunedì un totale silenzio
avvolgeva la casa di Edoardo. Nessuno si accorse di una
macchina che sostava davanti all’ingresso della villa
aspettando qualcuno, per poi allontanarsi pochi minuti dopo
con al suo interno uno dei partecipanti alla riunione.
L’unico rumore nella casa rimaneva la pendola nel
corridoio che batteva regolarmente ad ogni ora.
Quando essa batté otto rintocchi, si accese il ronzio di una
radio dalla cucina; fu allora che Benjamin aprì svogliatamente
gli occhi. Filtrava già la luce dalle tapparelle abbassate.
Una tenue vocina dentro di lui gli fece notare che aveva
dormito un po’ troppo. Però era contento di aver potuto
riposare così saporitamente.
A disturbare quella sensazione di beato risveglio venne
prontamente un fastidiosissimo pensiero, che gli si
materializzò nella mente con la stessa precisione di un
orologio svizzero: a quell’ora Grazia doveva essere già partita.
Si girò verso il tavolino per afferrare l’orologio: le 8.05.
Percepì distintamente un nodo alla gola per il dispiacere di
aver dormito così a lungo e di non essersi accorto che Grazia
si era alzata, lavata, vestita, aveva raccolto le sue cose ed era
uscita di casa. Doveva essersi mossa leggera come una
farfalla, accidenti!
Poi un altro pensiero fulmineo venne a scacciare il
precedente: diamine, non era certo un reato dormire un po’! E
poi era stata lei a decidere di non svegliarlo, che colpa ne
aveva lui!? Aveva tutto il diritto di dormire quanto voleva
dopo l’ interminabile discussione della sera precedente!
E da ultimo gli si affacciò anche il pensiero più audace e
temerario che avesse concepito, man mano che la
ragionevolezza aumentava e la lucidità prendeva il
sopravvento sui ricordi: che cioè, tutto sommato, quella notte
non era successo niente, niente di definitivo e irreparabile con
Grazia. Sì, si era mostrato tenero ed affettuoso, ma non gli
180
pareva di aver compiuto mosse false come farle credere che
lui provasse qualcosa per lei.
Si alzò dunque dal divano-letto canticchiando My way,
cercando di riprodurre con la voce la cadenza armoniosa di
Frank Sinatra, e si avviò verso il bagno. Una volta uscito,
dopo circa una mezz’ora, incrociò Edoardo che stava
scendendo le scale per dirigersi in cucina a prepararsi la
colazione.
L’orologio appeso in cucina segnava le 8.45 quando
Benjamin, vestito di tutto punto, se ne stava comodamente
seduto a tavola a chiacchierare col padrone di casa. Edoardo
indossava dei comodi jeans ed una felpa da ginnastica.
Benjamin scoprì che il lunedì era il giorno libero di Edoardo.
Fecero colazione insieme concedendosi un bel po’ di
tempo, loro due soli. Laura era ancora di sopra a prepararsi.
Edoardo aveva servito in tavola un enorme vassoio di legno
intagliato e dipinto a mano contenente la caffettiera ancora
fumante, il bricco del latte, vari tipi di brioches e biscotti,
nonché una confezione ancora da aprire di fette biscottate con
due vasetti di marmellata. Tutte leccornie che per l’americano
valevano comunque niente rispetto alla bontà del caffè
italiano, ormai conosciuto e apprezzato come uno dei migliori
prodotti del paese. Sapeva bene che era una delle cose che
avrebbe rimpianto quando avrebbe deciso di lasciare la
penisola. D’altronde come privarsi di quell’attimo fugace di
piacere intenso quando la miscela scura riempie gorgogliando
la tazzina, mentre l’aroma forte e deciso si libra in alto fino a
stuzzicare le narici?
Dall’espressione di Benjamin Edoardo lesse quello che
stava passandogli per la testa, e gli domandò a bruciapelo:
“Hai intenzione di vivere qui per un tempo
ragionevolmente lungo, vero?”.
Il giornalista scoppiò a ridere, ma Edoardo proseguì
imperturbabile: “L’Italia è il paese più bello del mondo!
Bellezze di ogni tipo: naturalistiche, storiche, archeologiche,
artistiche, culturali, enogastronomiche… potrei andare avanti
per un’ora intera a enumerarle senza fermarmi! A dir la verità
è un vero peccato che il nostro manoscritto sia stato trovato in
Turchia. Questo depone a suo sfavore, non trovi? Avrei
181
preferito lavorare su un reperto italiano” ragionò Edoardo
immerso nelle sue riflessioni, come se stesse inseguendo il filo
di un qualche pensiero che doveva esserglisi affacciato in quel
preciso momento nella testa. Poi cambiò subito espressione e
riprese la conversazione con lo stesso tono amabile di un
attimo prima.
Parlarono del più e del meno per una buona mezz’ora,
avendo molta cura di spazzolare tutto il cibo. Stavano
affrontando il tema dello scandalo in Parlamento quando
Benjamin ebbe come una folgorazione improvvisa e cambiò
discorso: “Posso fare una piccola ricerca dal tuo computer?”
domandò. “Vorrei accedere alla banca dati della Biblioteca
Nazionale Digitale per trovare informazioni sul partito più
forte del momento, Fondazione Risorse Nuove. Per come ne
sta parlando la stampa, sembra che esso rappresenti la sola via
d’uscita che il paese ha per salvarsi dallo scandalo delle Stelle
Spezzate; la Fondazione, infatti, sta tessendo una preziosa
opera di mediazione con le altre componenti politiche”.
“Sì, ed è una cosa strana: è una delle obiezioni che ieri sera
volevo rivolgere a Martin. Lui si è dilungato a spiegare come
le Stelle Spezzate siano un pericolo imminente. Invece a me
sembra che i fatti dimostrino quanto meno il contrario: la
commissione parlamentare sta indagando egregiamente,
magistrati integerrimi e politici onesti continuano a lavorare
per il bene del paese, Fondazione Risorse Nuove è il partito
che più si sta impegnando a vasto raggio per arginare la crisi
di governo. Meglio di così!
Proprio non mi spiego la divergenza tra quello che ha
raccontato Martin ieri sera, per il quale stiamo precipitando
nel baratro, e quanto apprendiamo invece dagli organi
d’informazione, secondo cui l’Italia sta lentamente risalendo
la china. Martin si difende dicendo che è la sua versione dei
fatti quella che conta. Tuttavia non so davvero cosa pensare.
Ma torniamo a noi. Hai tempo di fermarti qui? A che ora
devi partire?”.
“Se sei d’accordo ripartirei dopo aver conosciuto gli agenti
del Vaticano; stamattina passeranno di qui, giusto?”. Edoardo
non si mostrò entusiasta dell’idea, ma non disse nulla. Si
limitò ad annuire in segno di approvazione.
182
“Bene, così saremo in due a trattare con loro” rispose
Benjamin, come al solito ottimista e palesemente soddisfatto.
Visto che non c’è niente di meglio che unire le forze
davanti ad un obiettivo condiviso quando si scoprono interessi
comuni e affinità caratteriali, Benjamin ed Edoardo si misero
di buona lena davanti allo schermo polifunzionale nello studio
personale di Edoardo.
L’americano ebbe modo di osservare, con suo grande
compiacimento, che il professore possedeva un buon modello
di Digital Box, il dispositivo digitale che collegava insieme
televisione, radio, computer e quanti elettrodomestici di casa
si fossero voluti installare al pannello di controllo.
Davanti al computer Benjamin aveva assunto un’aria
professionale: sembrava quasi aver subito una trasformazione,
tale era la sua velocità nel muoversi dentro la rete. Edoardo si
era sistemato accanto a lui spinto dalla curiosità di osservare
cosa avrebbe scoperto d’interessante.
Benjamin sfrecciava come un fulmine all’interno dei vari
reparti della Biblioteca Nazionale Digitale, come fiutasse una
pista che solo nella sua mente si stava dipanando con
sufficiente chiarezza. Dopo un breve percorso dal reparto
iniziale di Storia a quello di Storia d’Italia, e poi a quello di
Storia dei Partiti politici italiani, diede istruzione al computer
perché gli rendesse disponibile Storia dei partiti politici
italiani del XXI secolo, e allorquando gli comparve l’elenco di
tutti i partiti esistenti o che erano esistiti negli anni addietro,
scelse la riga che conteneva il nome che stava cercando:
Fondazione Risorse Nuove. Gli apparvero allora le varie
opzioni che poteva scegliere. Aveva davanti una sconfinata
quantità di materiale a sua disposizione, una raccolta davvero
esaustiva (aggiornata di settimana in settimana, come recitava
il messaggio pubblicitario che compariva sul fondo dello
schermo ogni 2 minuti) in grado di soddisfare ogni tipo di
informazioni che avesse desiderato sul partito. Contò
mentalmente che sul monitor lampeggiavano a colori otto
diversi itinerari percorribili.
“Non so cosa scegliere: ci sono troppe opzioni
potenzialmente interessanti” sbottò infastidito.
183
“Lo sai che la Biblioteca Nazionale Digitale è immensa!
Milioni e milioni di pagine di libri digitalizzate!” abbozzò
Edoardo, nel tentativo di calmare il suo ospite. Rimase per un
istante soprappensiero come gli stesse sorgendo un dubbio,
perché gli chiese subito dopo: “Ma non è meglio cercare
informazioni sulla Fondazione Europea, quella che ha sede nel
Parlamento a Bruxelles? In fondo è lì che bisogna andare se si
vogliono trovare spunti sufficientemente chiari per
comprendere le sue finalità, i suoi obiettivi, le sua
caratteristiche meno visibili e meno note… Non credi?”.
“Hai ragione! Come ho fatto a non pensarci prima?!”
esclamò Benjamin, dispiaciuto che l’idea non fosse venuta a
lui.
Uscì velocemente dalla schermata che aveva davanti per
tuffarsi nuovamente nello scaffale iniziale della Biblioteca
Digitale. Da Storia passò a Storia dell’Unione Europea, da lì
ancora a Storia dei Partiti Dell’Unione Europea.
“È una caratteristica assolutamente inedita di questo partito
risultare diffuso capillarmente in ogni stato dell’Unione
Europea, compreso il Parlamento Europeo a Strasburgo”
riflettè ad alta voce Benjamin. “Vediamo cosa troviamo”
suggerì.
“Secondo me fra un’ora saremo zeppi di materiale” gli
rispose Edoardo.
Dopo una manciata di secondi di attesa apparì davanti ai
loro occhi la successiva schermata. Conteneva l’elenco di tutti
i partiti presenti a Strasburgo in quel momento, con l’aggiunta
di quelli che lo furono in passato e che ora semplicemente o
non c’erano più, o avevano dato vita ad aggregazioni nuove.
Benjamin diede l’o.k. al computer per vedere New Resources
Foundation.
“Diamine, credo che ci abbia visto giusto, Righetti” disse
Benjamin leggermente sorpreso.
“La fortuna aiuta gli audaci” commentò Edoardo
rallegrandosi con l’americano per la rapidità e la precisione
con cui stava conducendo la ricerca.
La schermata era cambiata e ora si dipartivano sul monitor
le possibili opzioni percorribili, tutte perfettamente allineate
una sotto l’altra fino a formare una lunga colonna. Benjamin
184
ed Edoardo si stavano convincendo ogni minuto che passava
che si stavano cimentando in un’ardua impresa per la
complessità del materiale a disposizione, ma erano decisi ad
andare fino in fondo nel cercare di scoprire qualche novità
significativa sulla Fondazione. Al momento le strade che si
profilavano loro davanti risultavano tutte allettanti al pari di
meravigliosi luoghi inesplorati.
“Proviamo il loro Statuto, mi sembra la scelta migliore per
cominciare. Voglio proprio leggere cosa contiene. Chissà a
quali valori si ispira e che obbiettivi si propone” suggerì
Edoardo. “Non mi sono mai occupato di questo partito, non
sono entusiasta di quello che propone”.
Benjamin dunque eseguì prontamente, trovandosi anche lui
d’accordo. Pochi istanti e comparve la schermata che
aspettavano impazientemente.
“C’è veramente di che rimanere stupiti!” fu il primo
commento a caldo di Benjamin “ma lei aveva idea di una cosa
simile?!”. Edoardo, anch’egli fortemente impressionato,
mormorò:
“Sembra più il manifesto programmatico di un movimento
culturale, piuttosto che il programma di un partito politico”.
“Evidentemente è tutt’ e due” dedusse Benjamin dalla
lettura.
“Non c’è altra spiegazione. È la prima volta che lo vedo.
M’ impressiona davvero. Senza contare che la Fondazione
Europea rappresenta il centro, il cuore propulsore di tutte le
altre Fondazioni nazionali. Esse si rifanno al partito
transnazionale nel prendere posizione sui vari fatti che
accadono nei singoli paesi. È sempre stato così: la Fondazione
italiana, ad esempio, è attentissima a seguire le direttive che le
arrivano da Bruxelles, dove ha sede la Fondazione Europea.
Non avevo mai pensato di cercare notizie sulla Fondazione,
anche perché per quel che mi riguarda” e si voltò per guardare
l’americano in volto “beh, ecco, non ho mai votato questo
partito durante le elezioni. Per questo non mi è mai venuta
l’idea di informarmi sui suoi statuti e sulle sue caratteristiche”.
“Quanto ha preso alle ultime elezioni?” domandò perplesso
Benjamin.
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“Si è attestato intorno all’otto, nove percento di voti. Come
lei sa è al governo con gli altri partiti che hanno vinto le
elezioni. Hanno avuto letteralmente un colpo di genio
firmando tutti il Manifesto dei Partiti che promuovono la pace
nel mondo come impegno stabile e duraturo nel tempo. Non
che anche l’opposizione non volesse sottoscrivere la pace,
naturalmente, secondo le condizioni e le regole che sappiamo
si prefigge, ma tant’è che gli altri l’hanno battuta sul tempo
organizzandosi per stampare e diffondere tra la gente il
Manifesto. Io stesso sono rimasto di sasso”.
Mentre il padrone di casa raccontava, Benjamin annuiva
con la testa. Si ricordò di aver letto come erano andate le cose
dai giornali spagnoli, perché in quel momento si trovava in
Spagna per vacanza. In più qualcosa gli era stato riferito dagli
amici spagnoli di lunga data.
Edoardo continuò: “ L’opposizione non sapeva cosa
controbattere. Anche perché era divisa sulla linea da seguire
per arginare in tempo l’ascesa di consenso nei sondaggi dei
partiti del Manifesto. E con la sua indecisione si è giocata le
elezioni!”
“Davvero una bella pensata! La cosa in assoluto più
particolare è che la Fondazione è un partito che non si dichiara
né di destra, né di sinistra; in effetti, è ormai tramontata la
distinzione che solo cinquan’anni fa divideva i partiti tra quelli
di destra, di centro e di sinistra. Senza dubbio è ormai passata
ai libri di storia e lì rimarrà”.
“Ah, quella!? Sì, ormai è sparita nel senso che la
intendevano i nostri progenitori del secolo scorso. Non ha più
senso parlare di destra e sinistra come le si pensava allora.
Una volta serviva a distinguere differenti visioni del mondo: a
seconda che si fosse dell’una o dell’altra parte, di destra o di
sinistra cioè, si dava una precisa lettura dei fatti che
accadevano. Prospettive indubbiamente diverse tra loro, ma
entrambe assai sostenibili. Oggi non ha più senso una
distinzione simile: nuovi sono i problemi da risolvere e nuove
le soluzioni da approntare. Senza contare che il criterio
ideologico che era a monte della distinzione è tramontato, e
quello economico – vale a dire il dare spazio ad un’economia
più o meno liberista – oggi non è più un criterio sufficiente per
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fare distinzioni tra una parte e l’altra. Eh sì, i tempi sono
proprio cambiati, persino il vecchio sistema del welfare di
matrice socialista è scomparso dall’Europa”.
Benjamin annuì, dopodiché i due uomini rimasero in
silenzio leggendo ciascuno le pagine che sfilavano davanti ai
loro occhi. Benjamin le faceva scorrere man mano che
Edoardo faceva un cenno di assenso con la testa.
Quando ebbero letto quello che interessava loro, si
guardarono l’un l’altro perplessi. Edoardo pareva vagamente
accigliato e ombroso. Benjamin rifletteva assorto.
Poi Edoardo commentò ad alta voce: “Nemmeno qui in
Italia la Fondazione ha un programma così esteso e
particolareggiato. Certi punti che qui vengono nominati non li
ho mai sentiti dire dai suoi deputati, quando questi vengono
intervistati. Davvero non so che dire”.
“Bé, diamo una bella stampata a tutte queste pagine e poi
torneremo indietro per guardare la pagina italiana della
Fondazione, magari. Quella in cui ero entrato prima”.
“Sono d’accordo” gli fece eco Edoardo. E la stampante
cominciò a ronzare buttando fuori i fogli.
“Senti, devo chiederti un favore” esordì Edoardo dopo che
Benjamin ebbe raccolto i fogli stampati e li ebbe sistemati in
una cartellina che infilò prontamente nella sua ventiquattrore.
Sopra la cartellina vi aveva scritto NRF (New Resources
Foundation) con un pennarello preso in prestito dalla scrivania
di Edoardo. Benjamin lo guardò aspettando che il professore
si spiegasse.
“Non dire nulla di questa nostra piccola ricerca a Martin”
continuò allora Edoardo “Sento che è importante procedere in
questo modo”.
Benjamin gli lanciò un occhiata indagatrice, come per
ricavare qualcosa di più dal viso di Edoardo. Ma l’espressione
del professore restò indecifrabile. Con una battuta cercò di
sdrammatizzare.
“D’accordo. Allora, acqua in bocca!” gli rispose.
Ma Edoardo sentì il bisogno di fornirgli ulteriori dettagli
perché aggiunse: “È che non mi fido di Martin. Mi spiace, ma
di più non posso dirti”.
187
In quel momento la pendola del corridoio batté le 12.00.
Benjamin guardò prima Edoardo, seduto accanto a lui. Poi
alzò gli occhi sopra la testa dell’uomo che in quel momento lo
stava ospitando, con una calma che sentì quasi innaturale
dentro di lui, e posò lo sguardo sulla finestra posta esattamente
dietro il professore. Dopo il temporale pazzesco della notte
precedente, fuori splendeva il sole. Lo contemplava stagliarsi
nitidamente in alto, contro un cielo terso, di un azzurro pulito
e immacolato che in quel momento gli rammentò lo stesso
cielo di casa sua, quello su cui si gonfiavano al vento i panni
freschi di bucato che sua madre stendeva ad asciugare nel
prato di casa.
Avvertì dentro di sé una specie di cortocircuito. Fuori il
sole che risplendeva: la luce, la chiarezza. Dentro quella casa
qualcuno che gli insinuava il dubbio, che gli diceva di non
fidarsi di Martin; e poi tutte quelle pagine appena lette sulla
Fondazione di cui non capiva la portata, gli parevano
difficilmente comprensibili, ma che intuiva potevano
nascondere qualcosa di grosso.
“Che impressione mi ha fatto Martin Fischer?” si chiese.
Riandò ai ricordi di quella notte, rammentò le parole ascoltate
e quelle che lui stesso aveva proferito; ebbe la netta
sensazione che Martin non gli suscitasse nulla di sgradevole.
Ci ripensò ancora una volta, ma non ricavò nulla, anzi,
cominciò a percepire dentro di sé tutta l’enorme distanza che
lo separava da quel professore di religione, tutta l’estraneità
del suo essere americano rispetto alla gente e al paese che lo
ospitavano, tutta la differenza di un suolo che non era il suo,
aperto, multiforme, multiculturale.
Si affrettò a rispondere a Edoardo:
“Forse stai correndo un po’ troppo, insomma, mi sembra
un’esagerazione!”. L’accento e il tono rivelavano una nota
d’indifferenza.
Ma Edoardo non mollò la presa:
“Hai notato l’espressione di Giulia quando Martin ha fatto
la sua comparsa in salotto?”
Benjamin si ricordava benissimo di Giulia. Come non
ricordarsene? Era davvero bella. Ma non ricordava affatto che
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espressione avesse assunto il suo viso quando Martin era
entrato nella stanza la notte precedente.
“Era terrorizzata” riprese Edoardo. E scandì bene la parola
lettera per lettera una seconda volta “ter-ro-riz-za-ta!”.
“Non ci ho fatto caso” ripeté Benjamin strabiliato.
“Bé, non pensiamoci più, per ora” concluse Edoardo. Si
alzò per stringergli la mano: “Devo andare a prepararmi le
lezioni di scuola per questa settimana. Ci vediamo più tardi”.
Quando fu sulla soglia della porta, prima di svoltare in
corridoio, si girò e gli disse col tono affabile di sempre:
“Chiedi pure qualunque cosa di cui avessi bisogno, a me o a
mia moglie. Saremo felici di poterti essere utili”.
E scomparve alla sua vista dopo essere uscito dalla stanza.
189
XVIII
Rimasto solo, Benjamin scoprì di essere esausto. Si sentiva
stanco e spossato come se avesse praticato due ore di jogging,
o come se avesse corso la celeberrima maratona di New York
a cui ogni anno cercava di partecipare, impegni di lavoro
permettendo. E pensare che era semplicemente rimasto seduto
tutta la mattinata. Decise che era giunto il momento di
distrarsi.
Si alzò dirigendosi verso la finestra di fronte alla scrivania:
in due rapide falcate aveva già raggiunto i vetri e osservava di
mala voglia la gente che passava fuori. “Appaiono tutti
immersi nelle loro faccende” pensò, notando l’andirivieni
frettoloso dei passanti e lo sfrecciare delle macchine lungo la
strada. “Così, a prima vista, la vita della gente sembra scorrere
normale: il giorno seguente simile a quello trascorso”. La
Fondazione con il suo strano programma, fin troppo bello – gli
pareva – per essere vero, gli sembrava una cosa lontana,
inverosimile.
Sentì l’impulso di uscire. Aveva poco tempo, però, a sua
disposizione, prima che arrivassero gli emissari del Vaticano.
Decise che avrebbe passeggiato quel tanto che bastava per
chiamare Grazia sul cellulare, mentre si sgranchiva le gambe.
L’idea gli piacque, avvisò Edoardo che usciva, e in meno di
cinque minuti si ritrovò fuori per strada, sullo stesso
marciapiede che poco prima aveva sbirciato dalla finestra.
L’idea di chiamare Grazia e di raccontarle le ultime novità
lo solleticava. Si fermò all’edicola all’angolo della strada per
comprare un po’ di giornali. Si rammentò che non si era più
tenuto informato della situazione politica italiana così
incandescente e instabile. “E se avessero già nominato il
nuovo direttore del giornale ?” si chiese.
I suoi timori svanirono allorquando vide che il governo non
era ancora caduto – segno che non era stata votata la sfiducia
– e che la poltrona del principale quotidiano nazionale era
ancora vacante. Come ebbe modo di leggere dalla prima
pagina di quello stesso giornale, infatti, il sottotitolo recitava
“Presidenza ricoperta ad interim dalla dott.ssa Tommasoni,
già responsabile della cronaca di politica interna”. Benjamin
190
diede una scorsa veloce all’articolo: il verdetto sulla nuova
nomina, ad opera del consiglio di maggioranza degli azionisti
del giornale, slittava di poco; si sarebbe dovuto sciogliere
entro le successive 24 ore.
“Ho ancora tempo perché Grazia mi affidi il caso che ha a
che fare con la Fondazione…” rimuginò infilandosi i giornali
sottobraccio. “Poi il nuovo direttore dovrebbe solo
riconfermarlo. Sì, devo insistere con lei perché si decida ad
assegnarmelo” si disse risoluto.
Intanto aveva svoltato sulla strada principale e costeggiava
il lunghissimo viale, lasciandosi alle spalle uno dopo l’altro i
platani che dietro di lui andavano a formare una scia
interminabile. Era una giornata piacevolmente calda, il sole di
primavera diffondeva placidamente i suoi morbidi e vellutati
raggi, nell’ora del meriggio.
Inforcò gli occhiali da sole e si sbottonò il giubbotto in
pelle. L’aria tiepida gli accarezzava il volto spettinandogli i
capelli neri lucenti. Notò che la strada era affollata, era il
traffico dell’ora di punta, di tanto in tanto incrociava qualche
giovane ragazza che si lasciava sfuggire un fugace sguardo
d’interesse per lui; non ne era affatto sorpreso.
Così, tra gli slalom per non andare a sbattere contro la
gente sul marciapiede e le occhiate garbate delle sue giovani
ammiratrici, tirò fuori di tasca il telefono cellulare e digitò il
numero della redazione. Si fece passare l’ufficio del direttore.
“Pronto?” la voce di Grazia suonava già stanca e vuota alle
12.30 di quella bellissima mattinata di primavera.
“Indovina chi sono?” scherzò Benjamin con voce acuta e
squillante. Grazia dovette scostare il ricevitore dall’orecchio.
“Dove sei?” domandò. Aveva capito al volo chi era.
“Sono all’aperto, sotto un sole splendente, nel pieno di una
radiosa giornata di primavera. E non c’è nemmeno freddo!”
“Non ho tempo di giocare a Sherlock Holmes, Benjamin”
disse Grazia leggermente spazientita “dimmi dove ti trovi. Sei
ancora a Roma?”.
“Yes, of course”.
“Come stanno andando le cose, lì?” e mentre parlava si
appoggiò allo schienale della sedia. Con una mano teneva il
ricevitore, con l’altra tamburellava sui tasti del computer
191
accanto a lei. Era in procinto di terminare l’articolo di politica
interna che sarebbe dovuto comparire il giorno seguente sul
giornale. “Accidenti, Benjamin, sei ancora a Roma!” pensò
irritandosi.
“Vorrei essere lì per parlarti di persona. Proprio adesso
sono uscito in strada a fare due passi perché ero stanco di
rimanere in casa dei Righetti. Stamattina ho fatto una piccola
ricerca, collegandomi alla Biblioteca Nazionale Digitale per
ottenere informazioni sul partito del momento: Fondazione
Risorse Nuove, e quello che ho scoperto è a dir poco
sconcertante. Strabiliante, oserei dire”.
“Non tenermi sulle spine…” cominciò a dire Grazia
impaziente. Proprio in quel momento però qualcuno bussò alla
porta, per cui Grazia dovette con un orecchio ascoltare
Benjamin e con l’altro rispondere al collega che si era
presentato nel suo ufficio.
“Allora, tieniti salda perché sto per spararla grossa” le
rispose Benjamin eccitato. “La Fondazione centrale a
Bruxelles, insieme a tutte le sue succursali – chiamiamole così
– ha un doppio scopo. Apparentemente il suo statuto non
lascia ombra di dubbio: s’impegna a fini benefici per la
promozione di scopi umanitari. Realizza il dialogo tra i partiti
sulle questioni politiche più spinose come su quelle più
semplici, evita con una vigilanza senza eguali di dare spazio
agli interessi personali dei suoi singoli membri, per dedicarsi
completamente al raggiungimento del bene comune, della
pace e della sicurezza. Per l’Italia come per L’Europa. Ma
stando a quello che ho intuito, leggendo tra le righe e
aggiungendo poi alle informazioni raccolte il racconto di
Martin di ieri sera, ho concluso che la Fondazione trama alle
spalle delle nazioni un fine molto più subdolo. È come se
volesse plagiare le persone… è in atto il tentativo di creare
una nuova visione dell’uomo… dovresti leggere anche tu che
razza di discorsi!”.
Grazia lo interruppe. Non aveva capito bene. “Benjamin,
aspetta un momento: mi sono persa le tue parole iniziali e ho
sentito solo la fine del tuo discorso. Ma mi sembra che ti stia
confondendo! Volevi dire che hai cercato del materiale sulle
Stelle Spezzate, vero? E hai trovato che plagiano le persone e
192
via dicendo…” lo corresse. Grazia cercava di trovare una
logica in quello che lui le aveva appena raccontato.
Benjamin rimase in silenzio per qualche secondo, tanto che
Grazia cominciava a temere che fosse caduta la linea
telefonica. Poi sentì Benjamin esclamare a gran voce: “Ma
certo! Grazia sei fantastica! Ora ho capito… che stupido,
pensare che avevo il collegamento proprio sotto gli occhi, e
non lo vedevo…! E’ tutto merito tuo. Brava! Questo sì che
spiegherebbe molte cose… mi viene in mente proprio adesso
che ci penso…”. Benjamin sarebbe andato avanti per altri
dieci buoni minuti nello stesso modo, con frasi sconclusionate,
se Grazia dall’altra parte, a corto di tempo per chiacchierare,
non avesse troncato senza pietà le mezze frasi del collega,
domandando:
“Cos’hai capito che a me sfugge ancora, di grazia?”.
“Ma è evidente: finora pensavo che le Stelle Spezzate e
Fondazione Risorse Nuove operassero come due entità
distinte. Perciò ti stavo dicendo che, letto lo statuto del partito,
semplicemente non mi era piaciuto un bel niente. In più mi
hanno colpito i fatti tremendi raccontati da Martin ieri sera…
e pensavo che nessun partito, neppure con le più belle
intenzioni del mondo, potrebbe tirare fuori un uomo dalla
tristezza in cui lo possono gettare i fatti più paurosi e terribili
della sua vita. Poi tu mi hai fatto scattare qualcosa nel
cervello: dicendo che mi ero sbagliato, mi hai dato invece la
chiave giusta per capire! Grazia, in qualche modo le Stelle
Spezzate e Fondazione Risorse Nuove sono collegate! Non
capisco come, ma ne sono certo: c’è un collegamento tra di
loro!”.
Grazia lo interruppe di nuovo. “Ci risiamo, Benjamin! Io
non ti seguo. Cosa c’entra la Fondazione con quanto ha detto
Fischer ieri sera? Lui ha parlato delle Stelle Spezzate, per quel
che vi ho seguiti stando di là nello studio della signora
Righetti. Non ha mai parlato della Fondazione. Per quel che
ne so, è un partito come tutti gli altri. Solo con degli obbiettivi
più vasti perché si propone una visione completa dell’uomo:
filosofica, sociologica, politica e antropologica. In questo
senso è un partito unico nel suo genere, il primo che sia mai
esistito. Ma da qui a dire che plagia le persone col suo
193
statuto… Benjamin, ce ne vuole di fantasia! Sei sicuro di
quello che dici?”.
“Certo! Mi sto accorgendo del collegamento tra le Stelle
Spezzate e la Fondazione proprio adesso che te ne parlo!
Questo spiegherebbe molte cose… sì! Il guaio è che tu non
c’eri quando Martin ha fatto il suo resoconto. Non hai
ascoltato la sua esperienza e i fatti che gli sono accaduti. Fatti
terribili, credimi. Ha parlato delle Stelle Spezzate come si
trattasse di una enorme, malvagia piovra che ha tentacoli
lunghissimi, e uno di questi potrebbe persino arrivare fino
nelle aule della politica, magari con un partito, o una parte di
esso…”.
“Ricominciamo” sbuffò. “Sono solo parole, Benjamin. Io
devo avere fatti per credere. Anche tu dovresti andarci piano
con i sospetti. Solo perché ieri sera ti è andata bene intuendo
che le Stelle Spezzate vorrebbero impossessarsi della Lettera
di San Paolo, non significa adesso che qualsiasi supposizione
tu faccia, debba essere per forza vera!”.
“Se solo potessi…” riprese lui.
“Benjamin, tu sei lontano. Se ancora lì a Roma e sei tutto
preso dalla discussione di ieri sera. Ma se solo tu fossi qui a
Milano, respireresti un altro clima, ti accorgeresti che nessuno
muove un cronista dandogli come pista da seguire solo una
mera supposizione… Occorrono fatti Benjamin, fatti, che sono
proprio ciò che tu non hai. Mi dispiace, Benjamin. Ma non
posso fare nulla per te”.
“I fatti ce li hai davanti agli occhi e non li vedi: il nostro
giornale è nella bufera dello scandalo, il governo rischia la
sfiducia da un momento all’altro, nel paese si respira un’aria
di malcontento generale che rasenta una vera e propria
sfumatura di odio per chi non è schierato dalla propria parte
politica Fiuto nell’aria qualcosa di grosso, basterebbe una
scintilla perché la miccia della rivolta nelle piazze si accenda.
Manifesterebbero tutti gli uni contro gli altri. Tu sei direttrice
ancora per poco. Diamine, non ti bastano questi fatti?! Cosa
vuoi di più?!” le rispose concitato Benjamin, cercando di farla
ragionare. Doveva stare attento però a non alzare troppo la
voce, perché già la gente cominciava a voltarsi curiosa verso
di lui, per guardare chi è che stava quasi urlando al telefonino.
194
Senza aspettare che lei gli rispondesse, continuò: “Grazia,
ascoltami, ti prego. Devi lasciarmi tentare. Iniziare. Lancerò lo
scoop sul giornale. Del tipo: “Quanto sappiamo veramente del
partito del momento: Fondazione Risorse Nuove? E’ davvero
meritevole dei nostri elogi per lo sforzo di mettere d’accordo
tutte le forze politiche in modo da superare questa angosciosa
situazione, o c’è sotto dell’altro?”. Voglio che in giro se ne
parli; voglio far conoscere all’opinione pubblica tutto quello
che so”.
“Non so se è una buona idea”.
“Io ci credo. Sento che non sto sbagliando nel seguire
questa pista”.
“Mi servono prove. E che siano significative, molto
significative”.
“Ti mando un’intervista a tre colonne con Martin Fischer.
Potremmo uscire con quella, domattina in terza pagina”.
“Cosa vuoi che ne sappia Fischer della Fondazione! Lui
faceva parte delle Stelle Spezzate!” gli urlò Grazia incollerita.
Ma si scusò subito con lui, cercando di darsi un contegno:
“Uffa” sbottò. “È attendibile uno come Fischer? Io non so
davvero cosa pensare!”. La voce di Grazia adesso arrivava
affranta. Benjamin non se ne curò. Tirò diritto come se lei non
avesse avanzato obiezioni.
“Questo è il momento opportuno: finché tu sei direttrice.
Un altro direttore probabilmente vorrà mettere tutto a tacere.
O adesso o mai più. E una volta aperto il tappo alle notizie, la
loro corsa non potrà più essere fermata”.
“Benjamin, io mi gioco il lavoro. Come fai a non capire?
Non dico la poltrona di direttrice, quella so già che non sarà
mai mia. L’aria che si respira qui non è delle migliori. Ma se
mi licenziano? La prima cosa che farà il nuovo Consiglio di
redazione del giornale sarà di smentire questa nostra linea e di
infangarci. Ci butteranno addosso ogni sorta di veleni e di
nefandezze”. La sua voce giungeva spezzata, incrinata
dall’emozione e dai dubbi. Era delusa di come stavano
procedendo le cose, circolavano già le voci su una sua
probabile sostituzione.
“No, fidati di me. Se cadiamo, cadremo insieme”.
195
“Bella consolazione! Tanto tu, poi, puoi tornare in
America!”.
“Non ti lascerei mai da sola con una situazione simile che
incombe sulle nostre teste. Starei al tuo fianco”.
“Benjamin, non ti rendi conto di quello che dici. Che
lavoro faremo se ci dovesse andare male?”
“Fonderemo un giornale nostro!”.
“Oh insomma, basta!” gridò Grazia. E la sua voce risuonò
acuta attraverso il telefono e fece fare a Benjamin un leggero
balzo con la testa.
“Se non mi dai l’o.k. propongo la storia ad un altro
giornale, e vedrai che mi daranno carta bianca” disse risoluto.
“Non puoi farlo. Il tuo contratto è vincolato a questo
giornale” gli ricordò allarmata.
“No, se mi licenzio” rispose lui, indurendosi sulla sua
posizione.
“Sei solo testardo e caparbio” replicò arrabbiata.
Grazia non sapeva più cosa obbiettargli. Cominciò a temere
veramente che lui dicesse sul serio. Se ne sarebbe andato. E
anche da lei, forse.
“Benjamin, ti parlo come collega e soprattutto come amica.
Se almeno mi consideri tale, ti prego, ascoltami: pensa bene a
quello che stai facendo. Non seguire solo il tuo istinto. Pensa
anche a noi, che siamo qui a Milano, in redazione, che
facciamo il nostro onesto lavoro. Ti stimiamo tutti. Se te ne
vai, e per giunta in questo modo, è come se ci tradissi! Siamo
un'unica squadra. Potremo vincere solo se staremo insieme, se
rimarremo uniti”. Gli parlava col cuore in mano. Benjamin
ascoltava attento, in silenzio. Grazia continuò: “Dammi
qualche ora per sondare che aria tira qui a Milano, per
domandare il parere dei consiglieri di redazione, per
investigare l’opinione di qualche mia conoscenza esperta nel
campo. Voglio formarmi un quadro attendibile della
situazione, e poi valutare bene il da farsi. L’Italia non è
l’America: dove avete fatto dimettere il Presidente Nixon,
ottanta anni fa, ai tempi dello scandalo Watergate… Ma se ci
sta il giornale, io sono con te”.
Benjamin parve soddisfatto della proposta, perché le
rispose: “D’accordo, aspetterò fino a stasera. Può darsi che
196
domani tu sia ancora direttrice. Dì a tutti, però, che se il
responso sarà sfavorevole, mi licenzierò”.
“Sì, riferirò ogni tua parola”.
“Dì a tutti che non ho niente con nessuno. È una questione
di principio: di seguire una cosa in cui credo. Mi capisci?”.
“Sì che ti capisco, Benjamin” Grazia era affranta da una
simile prospettiva. Sentiva che le veniva gettato addosso un
peso insostenibile. Aveva voglia di piangere: l’ombra di due
grossi lacrimoni fece capolino, inavvertitamente.
Benjamin si accorse della voce incrinata della sua amica.
“Stai bene?” le chiese.
“Non proprio” gli rispose.
“Senti, lasciamo da parte il fatto che sei la direttrice del
giornale. Tu mi credi?” le domandò accorato.
Pausa. Grazia non sapeva cosa rispondere. Emise un timido
“Ecco…” cercando di abbozzare un qualche discorso, ma non
le uscivano le parole di bocca.
“Grazia, per amor del cielo, che idea te ne sei fatta? Eri da
Edoardo anche tu ieri sera! Hai conosciuto tutti quelli ospitati
a casa sua. Ci credi forse tutti matti?”.
Lei avrebbe voluto rispondere “Sì”, ma sapeva che non
poteva. Benjamin le parlava ora in tono concitato: se fosse
stato presente lì con loro una terza persona, un perfetto
sconosciuto all’oscuro di tutti i precedenti, anch’essa avrebbe
capito quanto Benjamin tenesse alla sua idea. Tuttavia Grazia
non voleva nemmeno tradire la fiducia dell’amico dandogli
un’immagine di sé falsa, acconsentendo a cedere al suo punto
di vista.
“Se vuoi il mio parere, tutta questa storia del nostro exdirettore e dei parlamentari coinvolti nelle Stelle Spezzate mi
sembra una grossa montatura, magari fatta ad arte”. Tuttavia
pronunciò le parole facendo uno sforzo enorme per essere
convinta di quello che diceva.
“Ah sì!? Questi scandali sarebbero finti, secondo te?” la
incalzò.
“Qualcuno che vuole incastrare quei poveri malcapitati
sotto tiro… ed usa le Stelle Spezzate per depistare le indagini”
azzardò.
197
“Qualcuno che volontariamente vuol far fuori un
avversario?”.
“Potrebbe essere”. Capì amaramente che lui si era troppo
intestardito, ed aveva sposato la versione delle Stelle Spezzate
come il male assoluto.
“Allora è evidente che abbiamo due visioni completamente
differenti delle cose che stanno succedendo in questo paese.
Non posso che augurarti che abbia ragione tu, lo spero per te.
Ma io non cambio idea. Secondo me il paese versa in un grave
pericolo, peccato che nessun italiano sia serio a tal punto da
accorgersene!”.
Grazia era sull’orlo di mettersi a pregarlo per telefono di
scusarla e di dimenticare tutto quello che lei gli aveva appena
detto, ma una parte di sé non riusciva in nessun modo a
credere che quanto affermato con tanta sicurezza da Benjamin
potesse essere vero. Sentì che le sue parole risuonarono
beffarde: “Vuoi dire che le Stelle Spezzate potrebbero
manovrare una parte di Fondazione Risorse Nuove? E’
proprio questa la tua idea? Proprio non ti sembra un tantino
azzardata? Che so… la sceneggiatura di un libro americano di
fanta-politica?”
“I libri seri lasciali scrivere a noi, per piacere. Voi italiani
limitatevi a scrivere i libri di cucina e di giardinaggio”.
“Li abbiamo già scritti, e con successo. Siete voi che vedete
scandali ovunque, e non essendo in grado di scrivere che
quelli, giungete al punto di inventarveli!”.
“Non inventiamo niente. Se li vediamo è perché ci sono. E
peggio per voi: non venite a chiamarci quando sarete arrivati
con l’acqua alla gola! Io non ci sarò più, allora. E tanto meno
nessun americano verrà a salvare questo paese”.
Grazia per un momento ebbe paura. Risentì le lacrime
affiorarle di nuovo. “Benjamin, che vuoi dire? Cosa hai in
mente di fare?”. La voce ridotta ad un esile filo, già strozzato
sul nascere.
“Tu pensa al tuo giornale. Buona fortuna!” tagliò corto. E
riagganciò.
Dall’altra parte Grazia scoppiò a piangere, battendo un
pugno sul tavolo. “Stupido e testardo d’un americano!” sbottò
con gli occhi rigati di lacrime.
198
XIX
Giulia aveva appena terminato di sistemare le tende alla
finestra della camera da letto ed era contenta di sè. Vi aveva
lavorando tutta la mattina. Aveva sfogliato una notevole
quantità di riviste di arredamento durante il mese precedente,
informandosi sui vari tipi di tende, poi si era persino fatta un
book ritagliando le fotografie che più le piacevano. Alla fine si
era fatta un’idea sufficientemente buona di quello che voleva
per la sua camera, e così aveva provveduto a comprare tessuto
e ganci. Naturalmente il palo su cui aveva issato il pesante
tendaggio l’aveva fatto montare a Roberto.
Visto che nessuno dei due poteva contare su di una
ragguardevole disponibilità di denaro sui rispettivi conti in
banca, si erano dovuti arrangiare alla meglio nello scegliere i
mobili con cui arredare la casa.
Per la cucina avevano optato per una soluzione pratica: un
mobilio essenziale che si snodava lungo tutta la parete dove si
trovavano gli agganci di acqua, gas ed elettricità. Dal punto di
vista estetico, Giulia aveva insistito per una composizione
semplice e lineare, in betulla con il piano di lavoro in marmo
rosa. Tutte le ante superiori erano leggermente intagliate con
un bel ghirigoro, che ricordava gli intagli ornamentali delle
cucine tirolesi.
La cucina prevedeva anche un tavolino con due sedie. Al
momento non prevedevano ospiti a cena, né amici per un
drink o un party, dato che la casa – a sentire quello che andava
dicendo Giulia – era ancora troppo spoglia.
Avevano sistemato in salotto un divano, nuovo di zecca
anche quello. Giulia si era innamorata di un magnifico
modello a tre posti, color rosso rubino, e aveva insistito
tantissimo per acquistare proprio quello. Vuoi perché la stanza
era quasi del tutto spoglia, vuoi per la tonalità accesa del
divano, era la prima cosa che si notava appena entrati
nell’appartamento. Il resto della sala consisteva in un tavolo
rotondo con sopra una vecchissima TV, chiaramente di
seconda mano, che Roberto spacciava come un super affarone,
ma che era il cruccio di Giulia. Secondo lei era del tutto fuori
posto in quella sala, un ferro vecchio in mezzo a oggetti nuovi
199
splendenti, e per questo la considerava ancora meno che
antiquariato. Ma Roberto continuava ad essere orgoglioso del
suo acquisto fatto tramite il giornale alla rubrica: “Compro
tutto, Vendo tutto”.
L’orgoglio di Giulia, invece, era la loro camera da letto.
Insieme alle tende che aveva scelto con una cura maniacale. E
ora ammirava con l’animo traboccante di gioia il risultato che
si era prefissata per tempo, e che ora aveva puntualmente
raggiunto.
Era in piedi. Alle sue spalle la sponda del letto, di fronte la
porta-finestra che dava su di un terrazzino.
Ora Roberto era fuori al lavoro, e lei aveva appena
terminato gli ultimi ritocchi della loro camera, tende
comprese. Si sedette sul letto a riflettere. Rimirò la camera per
accertarsi che nulla fosse fuori posto. Era una maniaca dei
particolari: lo sapeva, e lo stesso non riusciva a farne a meno.
Voltò la testa a destra, e vide l’enorme armadio color
avorio, con le ante scorrevoli e le maniglie che davano
l’impressione di sottili bastoncini incollati sopra.
Si alzò dal letto e si girò di spalle: passò in rassegna il letto
matrimoniale. Si erano trovati subito d’accordo su quel
modello a prima vista un po’ antiquato, ma che a loro piaceva
moltissimo. Sulla testiera in ferro battuto era riprodotta una
rappresentazione stilizzata, solo vagamente abbozzata;
somigliava all’incirca ad uno stemma araldico, con in mezzo
due tortore che dormivano, quietamente accovacciate l’una
accanto all’altra. Anche se Roberto gradiva quel modello di
letto, l’aveva quasi lasciata secca commentando: “Puoi
pensare a tutto, vedendo le tortore, meno che a noi due che
tubiamo vicini”. Ogni volta che si rammentava di quella
considerazione così poco poetica, la scacciava subito via dalla
memoria inorridita.
Poi Giulia voltò di nuovo la testa, questa volta a sinistra, e
i suoi occhi si posarono beati sul comò in vecchio stile
custodito gelosamente prima nella sua vecchia camera, ed ora
nella loro stanza, dopo un considerevole sforzo di Roberto per
trasportarlo da casa dei genitori a casa loro. Con lavoro da
certosino lui l’aveva prima raschiato, poi ridipinto ed infine
200
completamente riverniciato di un colore simile al frassino, e
collocato accanto al letto.
Giulia si vide riflessa nello specchio ovale, fissato sopra il
comò. Era pronta per uscire e recarsi al lavoro. Il suo turno
iniziava di lì a poco, alle 14.00 di quel fresco pomeriggio di
primavera. Vide il suo pullover di cachemere rosa, il tubino, il
foulard a quadri. Esaminò l’acconciatura: era a posto. Si
guardò le mani: avrebbe tanto desiderato che Roberto le
avesse regalato l’anello di fidanzamento come regalo
d’ingresso nella loro nuova casa. Non che si volesse sposare
subito. Né aveva alcunché da recriminare al suo ragazzo, dato
che in realtà non avevano mai parlato di matrimonio. Ma lei
era imbevuta fino all’inverosimile di film romantici dove il lui
di turno a sorpresa scopre le carte con la sua lei, rivelandole il
desiderio di sposarla e regalandole, ovviamente, un fantastico
anello.
Ma lei era altrettanto sicura del sentimento che provava per
il suo uomo? Avrebbe accettato un eventuale anello come
proposta di matrimonio?
Solo per un attimo si pose la domanda che non aveva il
coraggio di farsi: amava Roberto? E quanto lo amava? Sì,
provava una forte attrazione per lui, si sentiva protetta e
compresa. Lui si era sempre dimostrato pronto a esaudirla in
qualsiasi desiderio, cosa che per lei equivaleva ad una
dichiarazione scritta di amore e fedeltà. Ma, nonostante tutto
ciò, non riusciva ad ammettere con se stessa, in ultima analisi,
di essere sicura di quello che c’era fra lei e Roberto.
Provò a immaginarsi con l’anello al dito: sentì che
sicuramente lo voleva. Anzi, con una certa freddezza, che un
po’ la sorprese, si ritrovò a pensare che l’avrebbe voluto in
ogni caso, anche se poi le cose fossero andate male tra di loro.
Ma poi si dispiacque di un pensiero così orribile. Possibile che
bastasse solo l’attaccamento ad un gioiello per renderla felice?
Era davvero così cinica?
In realtà non sarebbe stata maldisposta a sposare Roberto,
dopo un po’ di convivenza. Di nuovo, però, aveva la
sensazione che la sua mente si difendesse, con un simile
ragionamento, da ben altre cose, sepolte dentro di lei. Paure
ancestrali, desideri repressi, catene da cui nemmeno sapeva di
201
essere avviluppata né quanto fossero pesanti. Le tornò in
mente l’esame di psicologia sostenuto per laurearsi in scienze
infermieristiche: tutto il corso universitario di allora era stato
incentrato su un argomento che non era più riuscita a scrollarsi
di dosso: il lato ombra, il lato segreto che ciascuno porta
dentro di sé, e che di solito pochi conoscono. Esso è temuto
per quanto nasconde della nostra personalità, dei nostri
desideri, dei nostri bisogni; il lato ombra si aggira in silenzio
dentro di noi, come uno spettro, per anni e anni. Salvo poi
affiorare nei momenti più imprevisti, nelle decisioni difficili
da prendere, facendo leva sulle nostre paure e sulle nostre
debolezze. Che stesse emergendo, ora, il suo lato segreto?
Sospirò ripensando alla notte precedente. La loro prima
notte nella nuova casa. Purtroppo erano tornati così tardi e
così sfiniti che poco ci mancava si addormentassero vestiti sul
letto. Non era certo quello che si era immaginata. Ma
d’altronde, rifletté con calma, chi poteva prevedere in anticipo
che quella sera sarebbero stati attesi e ospitati a casa della
famiglia Righetti?
E poi, all’improvviso, senza volerlo, il pensiero corse
subito a Martin Fischer. L’uomo ricoverato soltanto qualche
giorno prima nel suo reparto d’ospedale. L’uomo che l’aveva
spiazzata come una stupida ragazzina: affascinata da
quell’individuo, si era ridotta a osservarlo di nascosto mentre
lui dormiva, a sfilargli il libro da sotto il cuscino col desiderio
inconfessabile di scoprire informazioni su di lui.
Ora quasi stentava a credere di averlo ritrovato. Così presto
e così inaspettatamente. Eppure si vergognava di provare
simili pensieri per un uomo che non fosse il suo Roberto.
Cominciò a venirle paura. Si era per caso innamorata di
Martin? No. Anzi, in fondo aveva timore di lui. E perché,
allora, rischiava di pensarci in ogni momento? Percepiva
dentro di sé come due forze opposte, che quasi si
combattevano. Da un lato il sentimento dolce e affettuoso per
Roberto, che la tranquillizzava. Dall’altro una specie di
richiamo fatale per Martin, al cui solo pensiero rabbrividiva.
Si rese conto che per quell’uomo provava un misto di paura e
tenerezza insieme. Paura perché lui riusciva senza sforzo a
metterla a disagio. Tenerezza perché lo trovava solo, indifeso,
202
vulnerabile. Come una calamita si sentiva attratta verso di lui
dalla sua aura di mistero.
Scacciò questi pensieri dalla testa e si alzò. Decise che non
avrebbe più pensato a quell’uomo: per causa sua troppi
turbamenti inquietavano la sua anima. Prese con sé la borsetta
appoggiata per terra, e si diresse verso l’entrata. Staccò con
cura il cappotto appeso all’attaccapanni e lo infilò, stando
attenta a chiudersi bene tutti i bottoni. Diede una rapida
occhiata agli stivali per vedere se erano ben lucidati, inforcò
gli occhiali da sole e uscì.
Roberto era ritto in piedi, di fronte al bancone del negozio.
L’uomo dietro al bancone gli stava impacchettando un costoso
soprammobile in vetro di murano scelto appositamente per
Giulia.
Già da un po’ di tempo aveva capito che lei si aspettava un
regalo da lui: una specie di benvenuto d’ingresso nella loro
nuova casa. Così era entrato nel negozio di liste nozze e
articoli da regalo, quello davanti al quale passava tutti i giorno
durante la pausa pranzo, e le aveva comprato un delizioso
vaso da fiori affusolato, creato appositamente per i mazzi di
rose, di gigli, di calle, di orchidee, insomma, per tutti i fiori
dal gambo lungo, specialmente quelli costosi. Naturalmente di
lì a poco avrebbe provveduto anche ai fiori: il fiorista sarebbe
stato la sua seconda tappa, una volta fuori dal negozio di liste
nozze.
Erano le 13.45: Roberto era in piena pausa pranzo. Si era
concesso una piccolissima digressione dal suo abituale giro
del dopopranzo, decidendo di passare da quei due negozi per i
suoi acquisti.
Quel giorno aveva deciso di dedicare quella preziosa
quindicina di minuti al regalo per Giulia. Per fortuna il
negozio di liste-nozze faceva orario continuato. Vi era entrato
senza una precisa idea di quello che voleva regalarle, e infatti
era stato subito assalito da una commessa velocissima che gli
aveva fatto vedere in soli cinque minuti più cose di quante lui
riuscisse a ricordare. Gli era passata di fronte una caraffa di
Christian Dior dal manico d’argento, un set di posate
arabesche eccezionali per una cena in stile turco, cornici
203
d’argento di tutti i gusti, chincaglierie varie assolutamente
imperdibili tutte rigorosamente di cristallo Swarosky,
addirittura un’ interminabile collezione di tazzine di
porcellana dipinte in stile barocco che la commessa voleva
affibbiargli mentre lui si dava da fare a spiegarle che la sua
ragazza non si trastullava con tazze e piattini. Alla fine la
commessa, esausta, chiamò il padrone che riuscì in pochi
minuti a tirare fuori da un luogo non meglio precisato lo
straordinario vaso di Murano.
“E’ soddisfatto dell’acquisto?” gli domandò il negoziante
in tono confidenziale.
“Altroché. Quel vaso starà benissimo in salotto” e le dirò di
più: “mi piacerebbe che non mancassero mai fiori freschi in
casa: la abbelliscono moltissimo”.
“Ha ragione, sa! Mia moglie li compra freschi al mercato
tutte le settimane. E’ proprio bello entrare in casa, ed essere
accolti per prima cosa dalla bellezza di un vaso di fiori veri”.
Roberto era felice di trovare un tale che, una volta tanto,
fosse d’accordo con lui, e uscì dal negozio soddisfatto del
regalo.
Giulia fece il suo ingresso puntuale in reparto. Corse di
filato all’armadietto, dove infilò il camice bianco e la cuffia in
testa. Poi cominciò il consueto giro di visite per la corsia. In
quel momento erano ricoverati pochi pazienti. Fece due rapidi
conti: se la sarebbe cavata in venti minuti.
La caposala la salutò con la consueta cortesia con cui era
solita salutare tutte le infermiere di quel reparto. Era una
donna slanciata, con un corpo armonioso e snello, tuttavia dal
carattere asciutto. Poco propensa alle chiacchiere, precisa e
metodica. Trattava tutte le colleghe con garbo e gentilezza, ma
esigeva puntualità, cura nel lavoro e non ammetteva l’ozio nei
tempi morti. Trovava sempre qualcosa da far fare alle sue
subalterne, anche di notte. Con affabilità e discrezione
dispensava ordini e accoglieva richieste.
Quel pomeriggio pareva abbastanza taciturna. Giulia notò
che lo era particolarmente con lei. Si domandò se, quella
mattina, la caposala avesse riferito al primario che Fischer se
n’era andato. E se il primario si fosse per caso arrabbiato. Era
204
accaduto proprio durante il suo turno dello scorso venerdì.
Ma, in fondo, lei non poteva averne colpa. Cosa rimproverare
ad una semplice infermiera? Non era certo lei a prendere
l’iniziativa di mandare a casa la gente.
Dunque, lei non poteva farci niente. Se la caposala era
taciturna con lei, pazienza. Magari era una sensazione
temporanea. Un momento di passaggio. O magari si sbagliava.
Quindi tanto valeva aspettare e vedere cosa sarebbe
successo. Stava rimuginando tutte queste cose, quando la
caposala le venne incontro.
“Buon pomeriggio, Giulia”.
“Salve, Olga”. Era prassi normale darsi del tu. Tuttavia
Giulia sentiva un certo imbarazzo.
“Stai tranquilla, va tutto bene” la calmò la caposala, che a
quanto pareva si era accorta di un’ombra di malessere passata
sul viso di Giulia. “E’ solo che hai una visita. Una persona.
L’ho fatta passare perché c’è poca gente oggi, in reparto. Però
fai presto, cinque minuti, non di più. Intesi?”.
Giulia annuì, senza capire. Pensò fosse Roberto che si era
dimenticato le chiavi di casa, o qualcosa del genere.
Si avviò incuriosita verso l’ingresso del reparto, dove erano
posizionate delle panchine per i visitatori dei pazienti. Erano
sempre piene durante gli orari di visita. Ma alle due e trenta di
quel lunedì di Marzo non c’era nessuno. Eccetto un uomo
giovane, di bell’aspetto, con fulvi capelli biondi che si
annodavano in ricci all’altezza delle orecchie.
Le infermiere che avevano occasione di passare lì davanti
gli gettavano occhiate di apprezzamento. Il viso del giovane
non era chiaramente visibile perché era chino, intento a
leggere qualcosa. Sembrava uno studente universitario, solo
un po’ avanti negli anni. Tuttavia non lasciava trasparire
alcunché di strano o pericoloso. Per un attimo Giulia non lo
riconobbe. Poi ebbe un tuffo al cuore.
In quello stesso istante Martin alzò gli occhi e la guardò.
Incredibilmente le sorrise. Pareva un altro. Non aveva nulla
dell’aspetto distaccato, aristocratico e snob della sera
precedente. Aveva invece movenze dolci, morbide,
disarmanti. Lei aveva deciso di non avere più a che fare con
l’uomo spregiudicato che fino ad allora l’aveva disprezzata,
205
almeno così lei pensava. Ma adesso si trovava davanti un viso
nuovo, era come se lo scorgesse soltanto ora, veramente, per
la prima volta. Sentì che la sua bocca si schiudeva in un
sorriso di risposta.
Imbarazzata gli andò incontro.
Martin si alzò a sua volta. Era tranquillo, continuava a
sorriderle. Pareva aspettarla per dirle qualcosa. Nell’uscire dal
reparto insieme a lei, le cinse le spalle in un gesto di cavalleria
che lasciò Giulia frastornata. La sua dolcezza era disarmante.
Quando dopo dieci minuti Giulia rientrò al lavoro, capì che
nella sua vita nulla sarebbe stato più come prima.
206
XX
In confronto allo stupore che aveva provato la prima volta
che aveva aperto la porta di casa agli agenti del Vaticano, e la
cui visita aveva suscitato in lui un’ondata di sentimenti
contrastanti, la seconda volta Edoardo fu più preparato a
riceverli.
Accanto ad Edoardo ora non sedeva più Laura, ma
Benjamin. Esattamente dirimpetto a loro, anche Kreutz e
Wassen apparivano più a loro agio. Una bella differenza
rispetto al contegno rigido e legnoso che avevano dimostrato
la prima volta. Benjamin era rientrato appena in tempo per
incrociarli sulla porta d’ingresso: con le loro giacche
inamidate, i cappotti lunghi un po’ funerei e la loro valigetta
ventiquattrore davano l’impressione di una coppia di esseri
strani, che si aggiravano per la città assolata come due
avvoltoi. Alla loro vista Benjamin ne fu alquanto intimorito,
ma per fortuna Edoardo aveva ormai imparato a conoscerli, ed
ora si manteneva davanti a loro relativamente tranquillo. Per
non essere da meno, Benjamin adottò subito la serena
pacatezza di Edoardo.
Fatte le rispettive presentazioni e dopo i primi convenevoli
di rito, Edoardo attaccò senza perdere altro tempo:
«Veniamo subito al dunque, egregi signori. Io ed il mio
collega americano, anch’egli come me nell’equipe di lavoro, a
nome di tutti i componenti del gruppo abbiamo intenzione di
accettare l’incarico offertoci dal Vaticano». I due agenti
manifestarono piacere e si congratularono con loro. Edoardo
proseguì: “Ci mettiamo dunque a vostra disposizione,
naturalmente nei tempi e nei modi che ad ognuno di noi sono
consentiti dagli impegni personali e di lavoro. Però ci sono
alcune cose preliminari che vorrei chiarire con voi.
Innanzitutto ho bisogno di sapere almeno in generale il
contenuto della Lettera ai Laodicesi. E, in secondo luogo, se si
può veramente ritenere autentica”.
Benjamin, che lo stava ascoltando, pensò che volesse
accertarsi se quello che aveva riferito loro Martin la sera
precedente combaciasse con le informazioni degli inviati del
207
Vaticano. “Quanto è furbo!” pensò “non si fida di quello che
ci ha raccontato l’archeologo”.
Edoardo riprese: “E poi c’è un’altra questione serissima”. E
qui fece una pausa per scandire bene le parole: “Non ho
nessuna intenzione di lavorare con Martin Fischer”. Il suo
tono non ammetteva repliche. Benjamin lo guardò stupito, al
limite della meraviglia. Anche i due agenti sgranarono gli
occhi, rimanendo alquanto interdetti.
“Sia chiaro” disse “l’equipe è garantita. Hanno tutti
accettato, chi più entusiasticamente, chi meno. Solo un
membro” Benjamin capì che si stava riferendo a Grazia “ha
escluso del tutto il suo apporto. Ma, questo è il punto, per quel
che mi riguarda è evidente che tra me e Martin c’è uno di
troppo: o uno, o l’altro”.
Wassen, quello dei due con la sottile montatura d’oro,
cercò di riprendersi in breve dallo stato di impasse provocato
dalle amare parole di Edoardo.
“Professor Righetti” rispose “una cosa per volta:
risolviamo intanto la prima questione. I nostri esperti, alla
presenza del Card. Mac Collough e di altri prelati molto
competenti, hanno visionato a lungo la lettera e non hanno
trovato nulla da ridire. Con tutta probabilità è autentica, e per
questo si può considerarla nel genere delle lettere pie. Anche
se, a rigore, non può entrare a far parte degli scritti canonici,
ossia dei testi sacri ispirati direttamente da Dio. Pertanto è
probabile che tutto ciò che la lettera contiene sia edificante,
credibile, ma certamente da non ritenersi oggetto di fede. Un
po’ come per le rivelazioni private: sono raccomandabili, ma
non aggiungono nulla alla rivelazione pubblica fatta con i
Vangeli”.
Di tanto in tanto Edoardo annuiva con la testa. Anche
Benjamin mostrava vivo interesse, soprattutto era
meravigliato, come fosse la prima volta che ascoltava simili
discorsi.
“Inizia con il solito saluto alla comunità di Laodicea. Poi
prosegue con gli ammonimenti: imitare il messaggio di Gesù
Cristo, essere veri seguaci del Cristo, nei fatti e non solo a
parole. Esorta poi la comunità con alcuni consigli pratici,
perché li rimprovera di un eccessivo attaccamento ai beni.
208
Stanno diventando troppo tiepidi, insulsi, “né caldi né freddi”.
Termina con un’invocazione allo spirito, per altro molto bella.
Nell’insieme non è assolutamente in contrasto con l’immagine
della Chiesa di Laodicea che si trova nell’Apocalisse: una
chiesa per la quale il pericolo veniva dalla mollezza di
costumi e dalla vita condotta agiatamente, nel benessere”.
“Fin qua mi sta bene. Tutto concorda… anche Martin ha
tratteggiato un’immagine simile di Laodicea. Eppure per
Martin Fischer quelle note sono essenziali: ce l’ha spiegato
stanotte. Lui ha tutt’altra visione dei fatti; perciò, come la
mettiamo? E perché l’avete inserito nell’equipe, anche se la
pensa in maniera così diversa da voi?” chiese Edoardo.
“Solo il Cardinale potrebbe risponderle. Noi non lo
sappiamo” risposero concordemente.
Edoardo sospirò. “Presumo che il testo me lo farete vedere
solo nel caso io accetti, giusto?”. I due uomini annuirono.
“Mac Collough le consegnerebbe la copia della traduzione, ed
una anche a tutti i suoi colleghi, così come è stata preparata
fino ad ora”.
“Ma quello che mi sta più a cuore” riattaccò Edoardo per
nulla turbato “è la presenza o meno di Martin Fischer. Ho
avuto dei trascorsi infelici, in parte per causa sua. Conservo
dei brutti ricordi. Davvero, non potrei occuparmi di quella
lettera, stando fianco a fianco con Fischer” spiegò perentorio.
“Penso di capire a cosa allude, professore” prese la parola
Wassen. “Quando il Cardinale vide la lista per la prima volta,
obiettò subito che voi due non potevate lavorare insieme. Fu
così che la lista venne abbandonata sul suo tavolo, nella vaga
speranza di escogitare una soluzione. Giacque lì per alcune
settimane; apparentemente il Cardinale sembrava essersene
dimenticato. Un giorno, all’improvviso, ci chiamò: aveva la
lista in mano. Lì per lì, fummo sorpresi. Ci disse che non c’era
soluzione se non tenere tutti e sette i nomi. Nessuno poteva
essere cancellato. Questa era la sua decisione definitiva”.
“Cioè, lui non se la sentì di cancellarne nessuno” corresse
Edoardo. “Lasciò sia il mio nome che quello di Fischer: che ce
la sbrigassimo noi! Bella trovata! Davvero formidabile la
diplomazia vaticana!” esclamò Edoardo.
“Adesso lei sta presumendo troppo, professore”.
209
“Ah sì?”.
Benjamin si azzardò a sussurrare un: “Non è che sta
lavorando un po’ troppo di fantasia, Edoardo?”, ma ammutolì
vedendo l’espressione truce con cui lo ricambiò
immediatamente il professore.
Kreutz proseguì: “Le consiglio di essere meno precipitoso
nel trarre le sue conclusioni. Le assicuro che il Cardinale ha
sempre sperato, e spera tuttora, che accettiate entrambi. E
devo dire, per la verità, che il signor Fischer non ha fatto alcun
problema”.
“Bella scoperta! L’ha trovato lui il papiro!” sbottò
Edoardo. Wassen e Kreutz lo guardarono stralunati, colti alla
sprovvista dal sincero rimbrotto. Sollevarono le braccia,
sconsolati. Era la verità. Ma cosa replicare? A tanta
disarmante evidenza anche Benjamin non sapeva cosa
obbiettare. Intanto Edoardo si era infervorato ed aveva anche
alzato il tono di voce: “E poi perché diavolo affidare a me la
direzione dei lavori, quando a tutti è parso chiaro, ieri sera,
che lui ne sapeva più di tutti quanti noi messi insieme!? Va
bene l’umiltà, la mitezza e la carità cristiana, non dico che
queste virtù io non le debba praticare, ma quando è troppo è
troppo! Non stiamo qui a prenderci in giro, signori: di fatto è
lui che ci ha spiegato per filo e per segno un sacco di cose
stanotte, più di quante ne abbiate spiegate voi due a me. Anzi,
mi sono fatto un quadro della situazione solo grazie a lui!
Allora, se è chiaro che comanda lui, dicevo, perché mai dovrei
dirigerla io questa baracca? Ma per chi mi avete preso? Per il
benefattore dell’umanità, che guida l’equipe di gloriosi
ricercatori nelle lontane steppe turche? Beh, no. Grazie tante,
ma io sono di troppo” concluse secco.
Ci furono un paio di minuti di silenzio in cui nessuno osò
aprire bocca. Alla fine Benjamin, se non altro per pura
curiosità, buttò lì la domanda che aveva in animo fin da tutta
la mattina, quando Edoardo l’aveva messo in guardia da
Martin.
“Scusa Edoardo, ma perché ce l’hai tanto con Martin
Fischer?” azzardò. Ricevette in un battibaleno un’occhiata
sprezzante dal padrone di casa. Benjamin si pentì di quello che
aveva appena chiesto. Edoardo continuava a non rispondere.
210
Benjamin guardò prima dalla sua parte, poi voltò la testa
dall’altra parte, tornando a scrutare gli uomini del Vaticano.
Ma quelli tenevano le labbra sigillate.
“Andiamo, avete perso tutti quanti la parola?”. Benjamin
stava allarmandosi. Nessuna delle bocche degli altri si era
ancora mossa. I due agenti del Vaticano tenevano gli occhi
incollati su Edoardo, ed Edoardo li teneva fissi su di loro.
Benjamin non capiva se Edoardo aspettava che parlassero, o
se li stava minacciando in silenzio affinché tenessero le loro
bocche ben cucite.
A quel punto entrò Laura. A giudicare dall’espressione del
volto, aveva sentito gli ultimi scambi di battute. Si avvicinò a
Benjamin, mettendogli le mano sulle spalle. Lui intuì che
stava per rivelare qualcosa. Qualcosa di importante. Infatti con
voce esile, addolorata come se fosse stato doloroso il ricordo
che si accingeva a richiamare alla memoria, cominciò a
raccontare:
“Anni fa mio marito era docente alla Gregoriana.
Insegnava patristica, ed era molto stimato e rispettato da tutti.
Dovevamo ancora conoscerci, o meglio, ci saremmo
conosciuti di lì a poco. Lui sarebbe stato il mio insegnante. Ad
un certo punto fu eletto un nuovo rettore, che entrò ben presto
in attrito con Edoardo. Questi gli sospese la cattedra, senza
alcun valido motivo e abusando del suo potere, per darla a
Martin Fischer, che a quel tempo era il pupillo del rettore. Da
quel momento mio marito non ha messo più piede in
università, perché la cattedra non gli è stata più restituita. Né
gli è stato offerto nessun altro incarico”.
“Grazie. Laconica, ma indubbiamente esaustiva” concluse
Edoardo.
“Non immaginavo una cosa simile… davvero… altrimenti
non avrei mai osato domandare spiegazioni, cioè… se avessi
saputo di mettere il dito nella ferita aperta… scusami,
Edoardo” farfugliò Benjamin imbarazzatissimo. “Non
immaginavo che le cose stessero così, adesso capisco… mi
dispiace davvero tanto”.
Laura si avvicinò al marito, e questa volta, parlò con
serietà, come per convincerlo: “Sono passati più di vent’anni,
Edoardo. Nel frattempo anche Fischer ha fatto dell’altro. E’
211
rimasto lì ad occupare la tua ex-cattedra solo per due anni, poi
ha lasciato il campo libero. Sappiamo che se ne è andato a fare
delle ricerche per proprio conto… Per quel che ne sappiamo,
caro, potrebbe essere stato “usato” a sua volta. Il rettore
potrebbe averlo costretto a prendere il tuo posto, e lui ha
subito le pressioni del suo superiore, salvo poi partire appena
ne ha avuto la possibilità. Per questo ti dico: metti da parte il
tuo legittimo risentimento, è davvero ora, sono io che te lo
chiedo, tua moglie”. Laura era dolce, ma decisa allo stesso
tempo. Mentre parlava Edoardo teneva la testa bassa, come
stesse seguendo il corso dei suoi pensieri che gli si
materializzavano davanti come ombre cinesi. Dopo poco
l’alzò e disse:
“Non prometto niente. Lui è l’uomo che mi ha rovinato la
carriera, l’insegnamento, la passione che sentivo crescere
dentro di me per la mia materia di studio… non so se sarò dei
vostri. E’ troppo difficile per me stare con Fischer. Davvero.
Non so se ci riuscirò, è più forte di me”.
Laura chinò il capo. Sentiva di non riuscire ad incrinare la
visione granitica che il marito aveva davanti agli occhi. Si
riscosse solo quando sentì Edoardo continuare:
“Tuttavia vi darò la lista di tutti quelli che si sono messi in
contatto con me per il progetto della Lettera. Credo che ci
saranno delle sorprese. Io mi voglio riservare un tempo
ulteriore per decidere se prendervi parte, o lasciar perdere
definitivamente. In fondo io non sapevo che lui fosse uno dei
componenti…” disse rivolto a Wassen e a Kreutz,
sottintendendo che avessero fatto apposta a tralasciare
quell’informazione essenziale, “me lo sono ritrovato in casa
stanotte… è stato un autentico shock. Per educazione ho
recitato la parte del perfetto padrone di casa che accoglie i
suoi ospiti, ma, signori, lo potete capire da soli… è inutile che
giriamo in tondo, io non lo posso soffrire. Per me è stata una
tortura averlo in casa”.
Wassen e Kreutz fecero un cenno col capo, per dimostrare
che capivano perfettamente. Wassen gli rispose: “Professor
Righetti, lei non ha bisogno di giustificarsi in alcun modo. E’
tutto comprensibilissimo. C’è solo una cosa che vorremmo lei
tenesse in considerazione, ed è la seguente: anche se è vero
212
che la scoperta della Lettera è del sig. Fischer, lui
comportandosi da suo subalterno ammette esplicitamente che
vuole lei come capo dell’equipe. E’ lei l’autorità nel gruppo,
di fatto, non Fischer. La prego di capire: è come se il sig.
Fischer volesse riparare al gesto compiuto tanti anni fa,
quando le ha portato via la cattedra – volente o nolente, non lo
sappiamo – e ora accettando di obbedire ai suoi ordini, fa un
chiaro segno di ammenda. E’ un segno che va colto. In ultima
analisi, può essere una richiesta di scusa”.
Edoardo alzò gli occhi verso l’inviato del Vaticano, che in
quel momento aveva appena terminato di parlare. Traspariva
dagli occhi dell’insegnante una accesa lotta interiore per
decidere. Il suo sguardo era concentrato in un punto
imprecisato sulla mensola del camino. Sudava leggermente.
Dopo un lunghissimo minuto di silenzio che parve
interminabile: “E va bene” disse infine. Tutti intorno erano
muti, ma si trattava di un silenzio carico di gioia; non di
timore come quello che era calato poco prima, quando
Benjamin si era azzardato a chiedere a Edoardo il motivo
dell’astio per Martin.
“Ma badate bene, è a me che do una seconda possibilità;
non a Martin Fischer” annunciò perentorio Edoardo.
Tutti i presenti in sala si sentirono sollevati da una
situazione incresciosa. Si congratularono con lui per la scelta
coraggiosa: perché mostrava di mettere da parte il rancore
personale per collaborare ad un progetto grandioso, più
importante delle singole diatribe personali.
Edoardo lasciò che i presenti sprecassero con lui le solite
parole di circostanza. Ma strette le mani e svolti i convenevoli
di rito, stanco e col cuore pesante, accomiatò tutti
conducendoli alla porta. Compreso Benjamin.
213
XXI
Aveva suonato il campanello inutilmente. Si era ricordato
in ritardo che Giulia non poteva essere arrivata a casa, perché
il suo turno di lavoro quella sera terminava alle nove di sera.
Roberto gettò uno sguardo fugace al suo orologio da polso:
le otto meno un quarto. Svogliatamente cercò nella tasca della
giacca a vento le chiavi di casa, e con quelle si accinse a
varcare il portone d’ingresso. Dopo essersi richiuso i pesanti
battenti di ferro alle spalle, s’incamminò con passi lenti e
strascicati verso la ringhiera che accompagnava la tromba
delle scale. Un gradino dopo l’altro, a fatica. Pensava che
avrebbe dovuto cenare da solo. La prospettiva non lo rendeva
felice. Sperò che Giulia gli avesse preparato qualcosa nel
frigo, qualcosa di pronto da scaldare nel forno a microonde.
Ma di solito doveva arrangiarsi, perché Giulia – pur essendo
una bravissima cuoca – cucinava solo quando ne aveva voglia.
Il che non capitava troppo spesso. Così alla fine di quella
giornata, la prima trascorsa dal termine dell’estenuante
incontro a casa di Edoardo, era stanchissimo; ragione per cui
accarezzava l’idea di mangiare qualcosa di veloce per poi
rilassarsi, magari davanti ad una buona lettura.
Sotto braccio portava come trofeo il pacco-regalo,
l’acquisto del pomeriggio, dalla cui confezione si stagliava un
faraonico fiocco rosso. Ma non era finita. Sotto l’altro braccio
reggeva un mazzo di rose rosse – una dozzina – incartato con
un foglio di carta trasparente su cui erano appuntati finti
diamanti. Emergevano qua e là come perle. Un simile
ornamento senza alcun dubbio era di sicuro effetto. In più la
dozzina di rose era legata lungo i gambi da un nastro di raso
color oro.
Se non altro per il regalo, pensò Roberto, una bella cenetta
proprio se la sarebbe meritata.
Passò i consueti giri di chiave nella serratura e la porta si
aprì allo scatto dell’ultimo giro. In casa tutto buio. Solo i
lampioni accesi fuori dalla finestra emettevano una fioca luce,
che però si perdeva quasi del tutto prima di oltrepassare le
tende delle finestre dell’appartamento.
214
A tentoni – preferì non accendere luci per mantenere
quell’atmosfera ovattata – si diresse verso la camera. Lì era
buio pesto. Il doppio strato di tende di Giulia svolgeva
egregiamente la sua funzione. Imprecò dovendo accendere la
luce (un lampadario che sembrava un calice di cristallo
rovesciato): varie volte aveva discusso con Giulia sul fatto che
lui avrebbe preferito due buone abat-jour in camera, piuttosto
che puntare tutto sul lampadario di cristallo penzolante dal
soffitto che gli ricordava una lunga e stretta campana, per
nulla aggraziata. Di sera amava la compagnia delle luci tenui,
discrete, soffuse. Non di una lampadina da 100 watt del calice
gigante di cristallo che gli pendeva sopra la testa; ma se
voleva cambiarsi d’abito, non poteva rischiare di infilare per
sbaglio il pigiama al posto della tuta da ginnastica.
Passò dal bagno per lavarsi le mani e darsi una pettinata ai
capelli. Dopodiché raccolse il pacco-regalo che aveva lasciato
sul divano, e lo sistemò per bene accanto ai cuscini.
Naturalmente su un divano rosso, un fiocco gigante sempre
rosso faceva del suo meglio per non risaltare. L’effetto non era
granché. Quel che appariva, comunque, era la grandezza del
pacco. Se non altro per la mole di quella confezione così ben
incartato Giulia avrebbe dovuto essere fiera di quel regalo.
Infine per terra, facendo in modo che si appoggiassero al
divano per restare in piedi, mise le rose incartate con quella
bellissima carta lucente. Fece qualche passo indietro per
rimirare l’effetto d’insieme dei due regali: era davvero
splendido. Non c’era che dire. Un trionfo.
Soddisfatto dalla sala si portò in cucina; lì non c’era niente
che lo attendesse. Non un piatto di minestra, né una fetta di
polpettone o una terrina di verdure miste. Roberto si arrese
all’evidenza. Anche questa volta avrebbe preparato lui
qualcosa per entrambi. Già gli sembrò di sentire la voce
armoniosa di Giulia che gli diceva:
“Tesoro, tu torni a casa prima di me, la sera. Lo sai! Puoi
benissimo preparare tu un piatto di pastasciutta per tutti e
due…io lavoro fino alle nove di sera! Come faccio? Lo sai
anche tu che il mio lavoro ha questi inconvenienti…”. E sentì
anche la sua risposta, scontata: “D’accordo, vada per due bei
piatti di pasta alle acciughe”. Infatti tolse le acciughe dal frigo
215
e cominciò a farle sfrigolare nella padella, dopo avervi versato
un filo d’olio d’oliva. Nel frattempo mise a scaldare sul
fornello più grande la pentola dell’acqua calda per la pasta, e
iniziò anche ad apparecchiare la tavola.
Alle otto e quaranta aveva già mangiato comodamente,
ascoltato il radiogiornale della serata – la notizia principale era
che il governo non era ancora caduto – e preparato nel forno a
microonde il piatto di pasta per Giulia. Pronto appositamente
per essere riscaldato.
Andò a sedersi sul divano, mentre aspettava la sua ragazza.
Aprì distrattamente una rivista di computer che era ancora
avvolta nel cellophan, e si mise a sfogliarla pur avendo la testa
da tutt’altra parte. Ma non dovette attendere molto perché di lì
a poco sentì le chiavi girare nella toppa della porta.
Giulia spuntò in mezzo alla luce della stanza risaltando
nitidamente,
come
una
silouette
scura
spicca
meravigliosamente su uno sfondo chiaro: il suo cappotto
lungo era di color nero, stretto in vita da una cintura. Era
avvolta in uno stupendo scialle turchese. I biondi capelli
scomposti sulle spalle, cosicché lo scialle li metteva ancor più
in risalto. Roberto le sorrise compiaciuto:
“Sei bellissima, anche dopo il lavoro; anche quando sei
stanca”.
Giulia lo ringraziò del complimento, ma adocchiò in un
lampo il regalo enorme posto con cura sul divano. E il mazzo
di rose magnifico. Gli corse incontro. Appoggiò la borsetta sul
divano, e si sfilò velocemente il cappotto con lo scialle,
buttandoli lì in qualche maniera.
“Oh, Roberto, hai capito che desideravo tanto un regalo per
la nostra nuova casa…! E me ne hai fatti due…!”. E tutta in
estasi lo abbracciò a lungo. Poi gli si sedette accanto per aprire
il pacco. Prima staccò con cura il fiocco dalla confezione,
commentando che l’avrebbe messo da parte per addobbare i
regali di Natale; poi cominciò a scartare i fogli in cui era
avvolto il regalo. Quando tirò fuori dalla scatola il prezioso
vaso di vetro di Murano, i cui colori alla luce della lampada
riverberavano da un fuxia acceso, fino al rosa tenue e poi
all’indaco, Giulia aveva dipinta in faccia una autentica
commozione. Gli occhi le si erano fatti lucidi.
216
“Roberto, è bellissimo…” disse sinceramente, mostrando di
apprezzare il regalo. “E pensare che io volevo l’anello…sì, mi
ero intestardita su quello, ma anche questo è bellissimo; va
bene, altroché. Hai avuto troppo buon gusto, caro,
veramente…e le rose, poi…sono splendide…” disse
prendendo il cellophan con le rose, e senza finire la frase corse
precipitosamente in cucina a mettere i fiori nel vaso. Anche
perché stava cominciando a piangere dalla commozione.
Roberto notò sconcertato la strana reazione di Giulia. Sì, i
regali le erano piaciuti. Ma l’uscita di scena così tempestiva
l’aveva spiazzato. Assomigliava ad una fuga in extremis.
Roberto sapeva che Giulia aveva delle reazioni inaspettate o
improvvise; ma da lì a piangere per aver ricevuto in dono un
vaso di fiori con tanto di rose fresche annesse, e a
volatilizzarsi un secondo dopo in cucina senza dire una parola,
sinceramente non ne capiva il motivo.
Pensò che anche lei fosse esausta dopo una dura giornata di
lavoro, in cui però doveva aver trovato lo stesso il tempo di
recriminargli – nelle sue fantasticherie romantiche – che lui
non le aveva ancora fatto un vero regalo con la R maiuscola
(peccato che lei volesse l’anello però; ci avrebbe pensato più
in là nel tempo…) per la loro nuova casa. Quindi ora lui
l’aveva colta di sorpresa. Lei si era pentita di aver pensato
male di lui, e le si si era scatenata improvvisa ed inarrestabile
la reazione di pianto.
Gli venne in mente che potesse aver bisogno di un
fazzoletto per asciugarsi le lacrime, perciò aprì la borsetta e vi
frugò dentro. Quel che vi trovò lo raggelò.
Quando Giulia tornò Roberto era lì che l’aspettava. Seduto
nella stessa identica posizione di quando lei era uscita dalla
stanza. Con la borsetta aperta sulle ginocchia. Con due occhi
incendiari su di lei.
Giulia capì al volo, e si mise ancora di più a singhiozzare.
Roberto la squadrò da cima a fondo prima di attaccare:
“Perché tieni il libro di quello stronzo di Fischer nella tua
borsetta?” le domandò. Ma più che come una domanda,
suonava come un interrogatorio.
217
Giulia cominciò a balbettare: “Me l’ha dato lui…” e si fece
di tutti i colori. Era sempre in piedi, in mezzo alla stanza, con
il vaso di rose in mano. Incollata al pavimento.
Roberto divenne incandescente: “E perché mai te l’avrebbe
dato?”. Sembrava una belva sul punto di divorare la preda.
“Non lo so…” gli rispose Giulia. Tanto più lui aumentava
il tono di voce, tanto più lei lo diminuiva.
“Mi sembra fin troppo evidente che tu lo conoscevi già
quel manichino bellimbusto, se avevi il suo libro in borsa! Dì
la verità!” ruggì con la forza di un leone.
“E’ stata una pura fatalità. Una coincidenza” sussurrò. “E’
stato ricoverato in reparto per alcuni giorni, ma poi è stato
dimesso sabato mattina…; sì, è vero: l’ho rivisto poi domenica
sera da Righetti, ma hai visto tu stesso che Martin non si è
ricordato di me…” farfugliò in un soffio.
“Non pronunciare il suo nome in casa mia!” urlò.
“Casa nostra, volevi dire” sottolineò, per mettere in risalto
quella che era un’evidenza. Ma poi tornò subito all’argomento
principale: “Non ti preoccupare. Farò tutto quello che vuoi,
d’accordo. Solo, per piacere, calmati. Non ti ho mai visto così
arrabbiato!”
“Mi calmerò quando sarò sicuro che quell’essere
abominevole sarà uscito dalla mia vita. E dalla tua” urlò.
“Sì, Roberto. Adesso basta, calmati”. Le parole le venivano
fuori in mezzo al pianto. Ma Roberto non aveva l’aria di
volersi calmare tanto facilmente. Tornò alla carica, tuonando
furioso come un uragano impazzito:
“Ma che bisogno c’era di venire a portarti questo maledetto
libro, se non si ricordava di te? Te lo dico io quel che ha fatto
quel disgraziato: ha finto di non averti mai visto prima, la sera
da Righetti. In realtà era ben felice di averti rincontrata!”. E
tenne il libro in alto stretto nel pugno della mano, mentre
urlava dalla rabbia, per poi gettarlo con disprezzo sul tavolo
della TV. Il libro si piegò a metà, sul costolone della copertina
era chiaramente visibile il titolo: “Viaggio a Calcedonia”.
Giulia sapeva che quello era il libro che Martin le aveva
visto sfogliare il venerdì precedente, di nascosto mentre lui
dormiva. Si era assopito in modo così tranquillo e beato, che
lei non si era preoccupata del rimprovero che avrebbe potuto
218
ricevere a leggere una cosa personale del paziente, se Martin
si fosse risvegliato di colpo e l’avesse pescata a sfogliare le
pagine senza il suo permesso.
“Non lo so…” sussurrò di nuovo. Non poteva stargli a
raccontare tutta la storia; certo non mentre lui era in preda a
quell’attacco di gelosia.
“E’ ora che cominci a dirmi la verità, Giulia” la apostrofò.
“Allora, sentiamo. Ti ho chiesto perché hai un suo libro. Te
l’ha dato oggi?”.
Giulia annuì. Riuscì ad aggiungere in un bisbiglio: “E’
venuto all’ospedale…”.
Roberto trasalì. In un balzo fu da a lei e ringhiò senza
controllarsi: “E cosa ti ha detto quel figlio di…?!”. Aveva
afferrato Giulia per le spalle. Lei lottava con se stessa per lo
sforzo di farsi venire le parole da dire: “Voleva che avessimo
questo libretto. Tutti noi del gruppo di Righetti. Ha detto che è
importante che l’avessimo, nel caso che le Stelle Spezzate lo
facciano fuori all’improvviso. E’ venuto da me perché era già
in ospedale per conto suo: prima aveva parlato col primario,
per problemi personali di salute… ti giuro che si è fermato due
minuti. Non ha aggiunto altro e se ne è andato”. In quel
momento Giulia si era levata un macigno enorme dalla
coscienza.
Roberto continuava a stringerla alle spalle. Era furibondo.
Odiava Fischer per il disgusto e il disprezzo con cui era stato
trattato da lui domenica sera. In più ora veniva a sapere che
quel bastardo aveva fatto visita alla sua ragazza. Per Roberto
tutto ciò suonava nella sua testa come cento campanelli
d’allarme messi assieme. Non ci vedeva più dalla rabbia. Se
avesse avuto davanti Fischer l’avrebbe preso a pugni.
Giulia si lamentò della presa: “Mi stai facendo male,
Roberto”.
Roberto parve rinvenire e la lasciò subito scusandosi. Ma la
sua faccia continuava ad essere fredda come il marmo. “E’
tutto qui?”.
“Sì”.
“Non è accaduto nient’altro?”.
“Nient’altro. Te lo giuro” rispose Giulia con voce strozzata.
In mano sempre il vaso di fiori. Ma sapeva di aver appena
219
mentito. Per caso guardò le spine delle rose, proprio davanti ai
suoi occhi.
“Mi dirai se ti gira ancora intorno, non è vero?” le
domandò ombroso e accigliato.
“Certo. Come vuoi tu”.
“Sì, perché nel qual caso lo ammazzo di persona”.
Giulia trasalì. “Vedrai che è stato un puro caso, non verrà
più in ospedale. Non ce n’è motivo”.
“Va bene. Scusa la mia reazione brutale, ma odio Fischer.
Spero di non rivederlo mai più in vita mia”.
Ma Giulia non si era dimenticata che lei e Roberto si erano
impegnati a far parte dell’equipe di ricerca di Righetti, in cui
purtroppo era presente anche Fischer. Osò domandargli:
“Come farai a lavorare con lui, allora?”
Roberto la incenerì con uno sguardo fulmineo. “Non hai
ancora capito che io non voglio entrare a far parte di quella
gabbia di matti!? Un americano borioso, un professore che è
stato silurato a suo tempo, un ebreo strafottente che sa solo
rubare la donna di un altro…! E tu hai il coraggio di chiamarli
un’equipe di ricerca? Ma se sono solo un’insieme di
spazzatura! Io non voglio avere a che fare con tutta quella
gentaglia indigesta!”
Fu Giulia questa volta a raggelarsi. Aveva dato per
scontato che Roberto, magari premendo un pochino, alla fine
avrebbe ceduto e avrebbe acconsentito a lavorare nel gruppo.
Adesso vedeva tutto il suo castello di idee crollare. Non
sapeva cosa pensare, e soprattutto cosa rispondergli. Una parte
di lei avrebbe voluto gridare che voleva i soldi, la fama, e che
era disposta anche fare un viaggio fino in Turchia, per questo.
Anche con Martin. Anzi, l’idea le piaceva. La parte di lei più
saggia e razionale, invece, le suggeriva che doveva a tutti i
costi allentare la tensione nel suo ragazzo. Doveva calmarlo.
Perciò riprese, sforzandosi di rimanere tranquilla:
“Scusa. Non avevo capito. Pensavo che alla fine avresti
accettato. Ma farò anch’io quello che tu ritieni meglio. E’ vero
che tutto il progetto mi sembra alquanto azzardato e
impraticabile”.
“Spiegati meglio”.
220
Lei appoggiò finalmente il vaso di rose sul tavolo. Poi
disse: “Certo, lo farei per i soldi. Se si trattasse di stare via
solamente due o tre settimane. Sarebbero un po’ le nostre
ferie, d’estate. Ma sta tranquillo che non piace nemmeno a me
quel Fischer. E’ troppo saccente, dispotico. Una vera sciagura
per tutta l’equipe. Secondo me, anche provassimo a iniziare,
torneremmo indietro a mani vuote, con uno come lui al nostro
fianco. Sei d’accordo? ”. Parlò più per convincere lui, però,
mentre dentro di lei si faceva sempre più strada la certezza di
voler partecipare alle ricerche. E con Martin Fischer, non
senza di lui.
Roberto era sempre di pessimo umore. Scrollò la testa:
“Questo lavoro è un’autentica pazzia. Io e te non andremo.
Specialmente con Fischer nell’elenco. Basta: ho deciso. Si
farà così”.
Parlò secco e con un tono di voce che risultava
assolutamente inamovibile. A Giulia crollò tutto: ebbe un
sussulto. Roberto vide balenare un lampo di disperazione nei
suoi occhi, mentre esponeva la decisione appena presa. Allora
tutto gli fu chiaro: lei voleva andare via, lei voleva partire con
Martin! L’aveva anche detto un minuto prima: sarebbe stato
bello fare una vacanza in Turchia! Seguire ogni tanto, giusto
una volta al giorno, i risultati dei professionisti: di Edoardo, di
Martin, dell’americano. Loro avrebbero lavorato in prima
linea. Lei – con Roberto – se ne sarebbe stata all’indietro,
protetta da quegli altri.
“Hai fatto male i conti, mia cara!” esplose impetuoso
Roberto. “Tu non vai da nessuna parte! Adesso abiti qui con
me!” la minacciò.
“Cosa vorresti dire?” domandò Giulia, che stava trovando
un po’ di coraggio alla prospettiva che Roberto, veramente, le
impedisse di provare a partecipare all’impresa.
“Che io e te adesso viviamo insieme. Conta anche quello
che decido io, adesso. E io non voglio che tu parta soltanto per
inseguire un malato di mente come quel Fischer…”
“Ah si, eh?” strillò Giulia. Riacquistava sempre di più la
voce. “Non sei padrone delle mie azioni. E per fortuna non
sono incatenata a te: non ti ho sposato, per fortuna!”
221
“Per amor del cielo, lascia perdere che non siamo sposati.
Per me è come se lo fossimo, sì, insomma…viviamo insieme.
Non ti basta? Condividiamo tutto… e nonostante questo, tu
dici che io non conto un fico secco?”. Si stava arrabbiando di
nuovo.
“Non sto dicendo che non sono contenta di te e di noi. Ma
che sei troppo opprimente. Mettiamo che io parta…beh, dopo
tornerei qui. Da te. Non va bene?”.
“NO! No che non va bene!” le urlò incollerito. “Come
potrebbe andare bene? E magari, nel frattempo, cadi tra le
braccia di Fischer! Ma non capisci che è pericoloso?!”. Senza
accorgersene batté un bugno sul tavolo con tale foga che il
tavolo tremò, e il vaso di rose sobbalzò pericolosamente.
“Mi stai dando della donna che va a letto col primo uomo
che trova? Perché se è così, tu sei uno stronzo, allora!”
“Non parlarmi in questo modo!”
“Nemmeno tu! Stai solo facendo un mucchio di
insinuazioni malevoli e calunniose sul mio conto!”
“Saresti capace!”
“Bugiardo!”
“Ma dai, dimmi la verità: l’ho capito che ti piace
Martin…!” tuonò furioso. Era la stoccata peggiore che potesse
darle. Giulia lo disintegrò con lo sguardo. Ma non fu capace di
dirgli di no. Che non era vero.
A quel punto Roberto preso da una furia incontenibile e
con un gesto della mano rovesciò il vaso di rose sul
pavimento. “Sai quello che ti dico, allora? Vattene pure via
con quel demonio!” le urlò dietro.
Giulia scappò in camera impaurita, chiudendosi dentro a
chiave. Si gettò sul letto a piangere disperata.
Roberto cominciò a raccogliere i pezzi di vetro del vaso.
Mai regalo era durato così poco. E per colpa sua. Li
ammucchiò in un angolo, sotto il tavolo della TV. Poi andò in
bagno a prendere lo straccio per asciugare l’acqua che era
caduta per terra. Raccolse le rose – almeno quelle erano
ancora riutilizzabili – e le mise in una caraffa di ceramica, che
andò a prendere in cucina. Lavorare lo faceva sentire meglio.
222
Almeno per qualche minuto non pensava con ogni atomo del
suo cervello a Giulia e a Martin insieme.
Quando ebbe finito, il pavimento era perfettamente pulito.
Le rose di nuovo sul tavolo. Aveva scopato per terra e gettato i
pezzi di vetro nella pattumiera. “Ecco la gloriosa fine del
regalo per la casa nuova” pensò, mentre chiudeva il sacchetto
con le schegge di vetro e lo sporco.
Scese in strada a portare via la spazzatura: aveva bisogno di
prendere aria. Mentre era ancora in casa, aveva udito i
singhiozzi di Giulia dalla camera da letto. La sua solita vocina
esile gli aveva suggerito: “Sta piangendo perché l’hai ferita.
Non è vero che ti lascerebbe per Martin. Le hai fatto una
scenata di gelosia bella e buona. Adesso ti calmi, poi vai di là
e le chiedi scusa”.
Ma la voce più autoritaria non si fece attendere: “Piange
perché sa di aver sbagliato. Una donna sa sempre perché
piange. E lei piange perché si sente in colpa. Anche solo con
la mente, ma ti ha tradito”. A quella considerazione la faccia
di Roberto divenne di nuovo paonazza. Per fortuna che già da
un po’ stava passeggiando fuori, lungo il marciapiede, in
direzione del bar aperto più vicino. Aveva incrociato qualche
passante frettoloso che gli aveva lanciato occhiate smarrite.
Chissà che espressione devo avere, pensò. Forse metto paura.
Però era impossibile fare a meno di notare gli sguardi
allarmati delle persone che lo oltrepassavano.
La vocina esile non si diede per vinta: “Adesso sei fuori
casa. E’ meglio, così ti rilassi. Ti bevi qualcosa di caldo, poi
magari le compri una scatola di dolci o cioccolatini come
richiesta di scuse, torni a casa e fate la pace. Vuoi passare
fuori tutta la notte? Dove andresti a dormire?”.
“Roberto, è una questione di principio” riaffiorò la voce
potente. “Lei ha sbagliato. Non ti ama, è chiaro. Fatti un giro,
poi torni a casa e dormi sul divano. Domani mattina le dici che
te ne vai. Te l’ha fatta troppo grossa. E poi non sei mai stato
convinto di questo esperimento di convivenza…”.
La vocina esile tornò con tutta la forza che potè: “Non
gettare via questa storia in un modo così palesemente stupido!
Tu le vuoi bene. Altrimenti non avresti reagito in quel modo.
E lei pure, è innamorata di te. Altrimenti adesso non sarebbe
223
là che piange, da sola, in camera. Se proprio devi arrabbiarti
con qualcuno, prenditela con Martin! E’ lui il colpevole di
tutta questa odiosa faccenda! E’ lui che come una serpe ha
avvicinato Giulia senza che lei se ne rendesse conto!”.
“Taglia con tutti e due, Roberto. Con Giulia e con Martin.
O lei ti tradirà per davvero”. La voce più robusta aveva
scacciato nuovamente quella debole.
Intanto era arrivato al bar. Si chiamava “L’attimo di follia”:
gli venne in mente, oltrepassando la soglia, che prima, durante
il burrascoso litigio con Giulia, potesse essere stato colto da
un raptus di pura follia. Scosse la testa per riaversi da tutto
quell’incubo che attanagliava ogni centimetro quadro del suo
corpo. Tremava a scatti, gli era comparso un doloroso mal di
testa che non accennava ad andarsene. Capì che, con tutta
probabilità, gli si era fermata la digestione. Di fatti, poco
dopo, spuntò anche un fastidioso mal di stomaco. Persino con
le mani non riusciva a stare fermo, perché gesticolava di
continuo. “Non controllo nemmeno una parte del mio corpo,
accidenti!” pensò. “Tutta colpa di quell’imbecille di Fischer…
se lo trovo lo tolgo dalla faccia della terra! Non faccio altro
che un piacere all’umanità!”.
Con simili pensieri si avvicinò al bancone, per ordinare da
bere. Lo stomaco gli bruciava forte, il dolore era aumentato.
Disse al barista che voleva un amaro digestivo, possibilmente
alle erbe. L’uomo dietro al banco, uno spilungone alto,
tarchiato e che aveva dei modi di fare sbrigativi, gli chiese se
un Unicum poteva andargli bene. Roberto scosse
affermativamente la testa, soprapensiero. Gli chiese poi di
portarglielo al tavolo. Dopo che il barista grugnì come
conferma, Roberto si diresse mollemente verso il primo tavolo
libero, dotato di postazione telematica incorporata. Da quando
era diventato d’uso comune per ogni bar dotarsi di tavoli con
annessi gli schermi telematici per l’uso del computer, della
rete informatica e dei giochi, a Roberto piaceva molto venire
al bar. Ci stava anche per un’ora intera. Naturalmente la
regola era che, dopo la prima mezz’ora gratis (il cui prezzo
ricadeva in realtà nella consumazione), ciascuno avrebbe
dovuto pagare il servizio offerto dalla postazione telematica. E
dal momento che non si trattava di una cifra irrisoria, ciò era
224
sufficiente a tenere a freno la smania dei clienti di restare
collegati al video per ore.
Si sedette svogliatamente e allungò la mano sul tasto
apposito per collegarsi alla schermata iniziale del video. Gli
apparve la solita pubblicità, insieme alle varie opzioni
possibili da scegliere. Poteva accedere alle funzioni del
computer, oppure inviare o scaricare mail, navigare nella rete,
sprofondare nei giochi telematici a tre dimensioni, farsi una
chiacchierata con chi volesse, e altre possibilità del genere.
Roberto era indeciso. Voleva distrarsi, perché la testa era
sempre sintonizzata su Giulia e Martin insieme. Pensò di
mandare una mail a Claudio, il suo amico più caro,
insultandolo – però – per averlo mandato a cercare lavoro in
mezzo a gente da cui era meglio stare alla larga, sotto ogni
aspetto. Si accinse quindi a cliccare sull’opzione mail, ma
sbagliò rigo. Imprecò di nuovo, perché invece era finito dentro
la rete. Avrebbe potuto navigare, ma non era certo che fosse la
cosa giusta. Fu attratto però dalle varie opzioni in cui poteva
calarsi per navigare nella rete: c’erano tantissime strade.
Pagine gialle per la ricerca di servizi, Pagine Bianche per la
ricerca delle imprese, Pagine Rosse per sciogliere dubbi e
ricevere consigli utili; e poi ancora: Pagine marroni: tutto
quello che c’è da sapere nelle ultime ventiquattro ore, con la
sotto-opzione in Italia e all’Estero. Lesse anche che poteva
scegliere tra: Pagine rosa: sfoglia i più recenti pettegolezzi, e
Pagine grigie: tutto lo sport minuto per minuto. Ma scartò
quelle due possibilità perché non era interessato né a l’una, né
all’altra. Infine notò: Pagine nere: la cronaca aggiornata
all’ultima ora, Pagine blu: le previsioni meteorologiche,
Pagine Viola: gli ultimi necrologi dei personaggi famosi, e
infine Pagine Verdi: tutta la musica che vuoi ascoltare.
Chissà per quale motivo – non se lo sapeva spiegare nemmeno
lui – mentre leggeva le varie strade percorribili, gli venne
voglia di sapere qualcosa di più sulla situazione politica
attuale. Al radiogiornale delle venti lo speaker aveva
annunciato, con voce concitata, che nel governo era in atto
una fittissima discussione per decidere le linee guida da
mantenere nella situazione caotica del momento, con lo
scandalo dei parlamentari indagati. Il governo era in piena
225
bufera, ma tant’è che doveva cercare di non venire sepolto
dalle mozioni di sfiducia che partivano come cannonate
dall’opposizione.
Ciccò su Pagine marroni, e aspettò qualche secondo. La
nuova schermata era suddivisa in tanti riquadri. Poteva
scegliere tra le notizie delle varie testate giornalistiche
nazionali, tra le reti televisive telematiche, tra il telegiornale
multimediale, tra le posizioni dei singoli partiti e altro ancora.
Scelse i giornali: forse inconsciamente era rimasto colpito dal
fatto che nell’eventuale equipe di ricerca di Righetti ci fossero
due giornalisti della più importante testata italiana. Gli si
snocciolarono una serie infinita di titoli di quotidiani, su un
lato quelli che possedevano l’edizione anche cartacea,
sull’altro solo quelli telematici. Lesse senza passione i vari
titoli, facendoli scorrere uno dopo l’altro, tutti noiosamente
simili. Poi si fermò. C’era un titolo nuovo tra i giornali
telematici che lo incuriosiva, destando il suo interesse: “L’eco
americano”. Ci cliccò sopra e poi lesse tutto d’un fiato:
“Potrebbe una tromba d’aria spazzare via il governo
italiano? E’ quello che si augura in questo momento il
portavoce del principale partito italiano dell’opposizione.
Ecco quello che il vostro fedele reporter sente pronunciare
alle 20.45 di questa sera: “Ci vorrebbe altro che una tromba
d’aria per ripulire il Parlamento da quei vermi viscidi del
governo che hanno fatto combutta con le frange eversive del
paese!”. Io gli domando: “Intende le Stelle Spezzate,
Onorevole?”. A pronunciare quel nome il portavoce
dell’opposizione quasi sviene. Io lo raccolgo subito e cerco di
rianimarlo: “Onorevole, mi perdoni, e cosa mi sa dire dei
vermi viscidi trovati dalla vostra parte? Farete venire
appositamente un uragano anche per loro?”. Il portavoce mi
regala lo sguardo più gelido che gli riesce, e poi mi dice:
“Quelli non sono vermi. Sono poveri ingenui caduti nel
tranello di quell’ odioso gruppo eversivo. A quelli ci pensiamo
noi. Andranno un anno intero in una comunità di recupero per
parlamentari che hanno perso di vista il perseguimento degli
obiettivi del loro partito.
L’Onorevole si congeda con una certa fretta e mi lascia
impensierito. Sono davanti a Montecitorio e osservo
226
l’andirivieni impazzito degli altri onorevoli: altro che lo
scatenarsi di una tempesta tropicale! Qui sembra che tutte le
forze della natura si stiano dando convegno: gelo artico nei
partiti del governo, preoccupatissimi di vedere andare in fumo
tutta la paziente tela di leggi e leggine che hanno intessuto
finora, mentre onde alte dieci metri soffiano dall’opposizione
e si riversano sul malcapitato governo per seppellirlo
definitivamente. Qualche raggio di luce spunta dall’opera
instancabile dell’unico partito esente da questo scandalo,
Fondazione Risorse Nuove. Si erge alto e possente come un
faro nella tempesta, il porto assolato per il naufrago quasi
senza vita, l’unica ancora di salvezza in un mare di partiti
corrotti e abominevoli. Che sia vero quanto appare?
Il vostro inviato americano non ne è del tutto sicuro. Da
queste pagine on-line lancio un appello e me ne prendo pure
la responsabilità: chi sa parli. Ho delle informazioni private,
che divulgherò in stretto giro di posta, a proposito della
Fondazione. E a me risulta che anche l’inossidabile, l’
indefettibile, l’ innocentissima Fondazione ha i suoi scheletri
nell’armadio. So quello che dico. Soprattutto ho fatti concreti
che lo dimostrano. Ripeto: chi sa parli. Io ho i miei nomi, ma
per ora voglio tenerli ancora protetti da eventuali ritorsioni
che si potrebbero scatenare su di loro, se questi facessero una
esplicita intervista al sottoscritto. Perciò lo ripeto ancora una
volta: finiamola con un’omertà perfettamente in malafede. La
verità venga allo scoperto, o l’Italia precipiterà nel buio”.
Firmato: Benjamin Tolosa.
Roberto rimase di sasso al resoconto di Benjamin. Si
domandò perché uno come Benjamin, che aveva conosciuto di
persona la sera prima, scrivesse su un giornale telematico e
non sul solito quotidiano per il quale aveva detto di lavorare,
quando si erano trovati a casa di Righetti.
C’era un altro articolo di Benjamin. Forse lì avrebbe
trovato la risposta. Lo scelse, e aspettò i soliti cinque secondi
perché il video visualizzasse l’articolo. Roberto fu ancora più
elettrizzato che dall’articolo precedente:
“Mi chiamo Benjamin Tolosa. Sono nato a New York. Mio
padre è spagnolo, mia madre americana. Sono venuto per
lavoro qui in Italia cinque anni fa. Oggi lascio definitivamente
227
il mio precedente impiego presso il maggior quotidiano
nazionale, perché sono al corrente di fatti terribili, che
riguardano anche il mio ex-giornale. Sono un libero cittadino.
Non voglio diventare suddito di uomini malvagi e corrotti che
vogliono manovrare di nascosto il mio – adesso – ed il vostro
paese.
Perciò ho deciso di fondare questo nuovo giornale
telematico: “L’eco americano”. Spero, col vostro aiuto di
lettori, che prediligendolo ogni giorno alle altre testate
telematiche, e spargendone la voce ed il gradimento ai vostri
amici e conoscenti, questo giornale s’ingrandisca sempre di
più, fino a diventare la voce libera e responsabile dell’Italia.
Sono americano, ma sono anche italiano. Ora. Concludo con
un augurio sincero: Buona Fortuna, Italia!”. Firmato sempre:
Benjamin Tolosa. E poi era allegata la sua personale mail per
mandare o ricevere qualsiasi commento politico, domanda,
informazione.
Roberto era strabiliato. Ripensò a quanto Fischer aveva
raccontato la sera precedente, al disegno eversivo delle Stelle
Spezzate, e collegò immediatamente quanto aveva sentito con
quello che Benjamin aveva appena scritto.
Cliccò sulla mail di Benjamin, e gli scrisse: “Sono Roberto
Sperati. Ho appena letto i tuoi articoli tratti dall’Eco
americano. Sono molto impressionato. Cosa vuoi dire,
esattamente? C’entra quello che ci ha raccontato Fischer ieri
sera? E come hai fatto a mettere in piedi dall’oggi al domani
un giornale telematico? Non è complicato? Scusa tutto questo
incalzare di domande, ma sono davvero molto confuso per
tutto quanto sta succedendo in Italia, oltrechè nel gruppo che
tu sai. Insomma, so che capisci sicuramente a cosa alludo.
Tienimi al corrente dello svolgimento dei fatti, se ci sono
novità significative”.
Con grande stupore di Roberto, Benjamin evidentemente
era collegato col suo computer alla rete telematica, perché gli
rispose nel giro di pochi minuti.
“Ciao, Roberto. Sono molto felice di scriverti. Potermi
mettere in comunicazione con te è per me un fatto
importantissimo. Stavo lavorando da casa al mio nuovo
228
giornale telematico che hai avuto modo di conoscere proprio
ora.
Stavo raccogliendo della pubblicità on-line, perché è
l’unico modo di tenere aperto in rete il mio giornale (oltre che
pagando la salata tassa di iscrizione mensile al provider che
gestisce il servizio della pubblicazione di questi quotidiani).
Naturalmente non ti nascondo che, se non mi chiamavo
Tolosa, quelli del provider non mi avrebbero mai dato il
permesso di aprire la mia pagina di informazione quotidiana.
In effetti già altre volte prima d’ ora avevo provato a prendere
contatti con diversi provider per aprire un giornale tutto mio.
Adesso ho firmato un contratto secondo cui più visitatori
cliccano la mia pagina d’informazione ogni giorno, più il mio
lavoro diventa stabile, sicuro e remunerativo: con la
prospettiva abbastanza certa di avere un vero futuro in rete.
Altrimenti dovrò chiudere “ baracca e burattini”, come dite
voi.
Quello che sta succedendo nel nostro paese è grave.
Martin ne sa più di quanto ci ha raccontato ieri sera. Bisogna
che, accettando di lavorare con Edoardo, Martin si senta a
suo agio per parlare più a lungo con noi di quello che sa…
Devi renderti conto che siamo davvero fortunati ad aver
conosciuto uno come Martin. E’ senza dubbio un uomo di
grandissimo valore. E’ riuscito a venire fuori dalle Stelle
Spezzate. Solo per questo bisognerebbe conferirgli la
medaglia d’oro. Ci ha riferito a che punto è il disegno
nascosto eversivo nel nostro paese; ma l’ha fatto fin dove è
riuscito ad arrivare, senza paura di venir fatto fuori…
Evidentemente ci ha raccontato solo quanto poteva. Ma c’è
dell’altro che non ci ha detto. Ma che si intuisce. Perciò
dobbiamo convincerlo, standogli vicino in questo nuovo
importantissimo progetto di lavoro, a rivelarci ciò che sa in
più. Sicuramente potremmo fermare la miccia già innescata
della bomba che rappresentano le Stelle Spezzate. Potremo
riportare fiducia in un paese martoriato dalla paura e dagli
odi velenosi tra i vari partiti. Potremo rivitalizzare il mercato,
ridare spinta alla ripresa economica. Adesso le cose vanno
sempre peggio, a livello di salari, voglio dire. Lo vedi anche
tu che il potere d’acquisto dei salari è sempre più basso, e i
229
prezzi invece schizzano in alto come stelle. Fra un po’ ci
toccherà mangiare il riso cinese e la pizza sudamericana,
anziché i prodotti nostrani. Rispondimi in fretta. Grazie. Benj.
”.
Ecco, ora aveva capito. Benjamin aveva abbandonato il suo
ex-giornale perché – a suo dire – era manovrato dalle Stelle
Spezzate. E pareva anche che Martin fosse l’unico in grado di
contrastarle. A Roberto non piacque che Benjamin parlasse
così bene di Fischer. Anzi, gli dava sullo stomaco. Adesso
erano in due che stravedevano per lui. Pensò che, se non altro,
almeno Edoardo si era dimostrato poco condiscendente verso
Fischer.
Invece fu colpito dalla descrizione della situazione politica
fatta dall’americano. Si rammentò che Fischer aveva detto che
loro erano la punta di diamante che era stata scelta per
combattere le Stelle Spezzate. Possibile? In fondo, chi erano
loro per ricoprire un ruolo così strategico ed essenziale per il
paese intero? Non si capacitava di come potesse essere vero
tutto quello che aveva udito la sera precedente da Righetti.
Però gli vennero in mente le parole di Benjamin: proprio
perché loro costituivano un gruppo anomalo, forse avrebbero
avuto delle chance di vittoria. Non formavano la solita equipe
di cervelloni tutto sapere e burocrazia, che si sarebbero arenati
al primo contrasto serio di vedute.
Qualcosa dentro di lui gli diceva che doveva fidarsi della
capacità di guida di Edoardo e del progetto del Vaticano.
Provava una specie di urgenza nei riguardi dell’intera
faccenda. Sentì in quel momento di avere una responsabilità
morale, a nome di tutto il popolo italiano. Sentì che doveva
prendere parte al progetto. Sentì, a malincuore, che Giulia
aveva ragione. Ci si sarebbero dedicati durante le vacanze.
Sospirò profondamente. Ora che la sua mente si era
dischiusa alla visione della verità, e che il suo cuore gli diceva
che era giusto così, non scorgeva altra via d’uscita che quella.
Non poteva tirarsi indietro. Però qualcosa morì dentro di lui,
quella sera, mentre prendeva quella decisione. Capì che non
sarebbe più riuscito a guardare Benjamin e Giulia nello stesso
modo in cui li guardava prima. Dentro di lui era come se loro
fossero già passati dalla parte del nemico.
230
Si alzò lentamente, lasciando lo schermo del computer
acceso sulla pagina web che aveva appena letto. Non si degnò
nemmeno di rispondere a Benjamin.
Venne il gestore del bar, l’uomo tarchiato che stava dietro
al banco delle ordinazioni, a spegnere lo schermo del
computer da tavolo.
Pagata la consumazione, Roberto uscì nell’aria fredda della
sera. Il mal di stomaco gli si era attenuato, ma la testa
continuava a pulsargli fortemente. S’incamminò triste verso
casa. Non era ancora in grado di prevedere se avrebbe chiesto
scusa a Giulia. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a
parlarle, l’indomani. Provava ancora troppa rabbia, per lei e
per Martin.
Anche se col passare della serata si era convinto che la
colpa di quanto successo fosse più di Fischer che di Giulia,
ormai si era incrinata la fiducia nella sua ragazza. L’unica
cosa di cui era certo era che avrebbe dormito sul divano.
231
XXII
La redazione del giornale era in piena e frenetica attività
alle 22.30 di quel lunghissimo lunedì. Grazia era ancora
seduta alla scrivania del suo ufficio, quasi nella stessa posa di
quando Benjamin le aveva telefonato quel giorno. Si era alzata
pochissime volte: per lei il tempo era come fosse diventato un
inferno. Un lungo, vuoto, disperato fluire di minuti senza
senso. I fatti le scorrevano accanto, uno dopo l’altro, ma li
vedeva come se facessero parte di un fiume lontanto, che
procedeva lento ed ingombrante, e di cui soprattutto non
conosceva la mèta. E tra lei ed il fiume, a peggiorare la
situazione, stava una zona melmosa, un acquitrino pregno di
insetti molesti e odori malsani in cui si sentiva in trappola.
Aveva paura. Pensava al suo destino al giornale. A
Benjamin. E si sentiva sopraffatta dagli eventi. Era come se
questi le sfuggissero al controllo e lei non riuscisse a staccarsi
da quella maledetta palude in cui era già immersa con tutti e
due i piedi: il fiume restava sempre troppo lontano dalla sua
portata, per raggiungerlo con la sola forza delle sue gambe.
Non afferrava più gli eventi.
Il venerdì precedente, quando aveva proposto a Benjamin il
viaggio a Roma, si sentiva forte, sicura di sé, risoluta.
Addirittura con una punta di scaltrezza, non priva di malizia
femminile, aveva invitato il suo collega a Roma; lei sperava
che ciò servisse ad aumentare la confidenza tra di loro, lo
desiderava con tutte le sue forze.
Invece quegli stessi eventi le si erano rivoltati contro: per
un motivo inspiegabile avevano assunto una loro piega; e ora
la situazione pareva precipitare sempre più. Si chiese quale
fosse la ragione di così tanta confusione. Forse l’ebbrezza del
nuovo incarico le aveva giocato un brutto tiro, quell’incarico a
cui stava aggrappata con tutta sé stessa; nonostante la
responsabilità che gravava ora su di lei, però, non era riuscita
a rimanere fredda e distaccata nella conduzione del giornale
come avrebbe voluto.
E non voleva perdere Benjamin. Cosa fare? Accettare o
meno un’eventuale nomina che la riconfermasse alla
direzione? Oppure tenere la sua pagina di politica interna?
232
Quali condizioni porre, e quali garanzie chiedere? Che peso
dare ai discorsi di Benjamin? Aveva fatto qualche tentativo di
sondare la fondatezza delle parole dell’amico con qualche
telefonata ai suoi informatori, ma non ci aveva cavato un
ragno dal buco: tutti cadevano dalle nuvole. Così più cercava
di realizzare qualcosa, più brancolava nel buio.
Un leggero picchiettare alla porta la riportò alla realtà dei
fatti. Grazia avrebbe potuto rispondere semplicemente
“Avanti!” rimanendo seduta dietro la scrivania, ma dando
sfogo alla tensione crescente, si alzò ed andò ad aprire.
Davanti a sé trovò un distinto vecchietto in Loden e cappello a
falde. Dal Loden sbottonato pendeva una sciarpa bianca e
sotto s’intravedeva un completo color sabbia e una cravatta a
righe. Le scarpe marroni erano tirate a lucido. Grazia l’aveva
visto poche volte, ma lo riconobbe subito. Era uno dei più
anziani azionisti del giornale.
“Buonasera, dottor Verri” disse Grazia porgendogli la
mano.
“Buonasera a lei, dottoressa” le rispose compito l’ospite,
stringendole saldamente la mano.
“Bastava una vostra telefonata” proseguì Grazia che si
trovava impreparata dinanzi ad un simile inaspettata
circostanza “voglio dire, bastava una telefonata per dirmi cosa
avete deciso. Non serviva che lei si scomodasse a venire fino
qui, così, adesso, di notte…” farfugliava. Era imbarazzata.
“Oh, sciocchezze, dottoressa. Venire qui da lei è un vero
piacere. Sono io che devo chiederle di sopportare un vecchio
barbagianni come me. Mi è solo un tantino brigoso muovermi
per via dell’artrite, che non mi dà pace, ma ho qui il mio
fedele compagno su cui contare” e alzò il bastone dando
qualche colpetto al pavimento, come per ribadire quello che
aveva appena detto.
Grazia indicò la comoda sedia imbottita accanto alla
scrivania, e aiutò il Verri a sedervisi. “Anche se sono un
vecchio ultra ottantenne zoppicante” continuò l’azionista del
giornale “posso sempre muovermi per venire a fare una visita
importante”.
“Allora, mi dica tutto; l’ascolto” attaccò Grazia decisa. E
tornò a sedersi dietro la scrivania.
233
“Bene, dottoressa, ha capito subito che non mi piace
parlare a vanvera, facendo giri vuoti di parole. Mi creda, sono
davvero lusingato di essere venuto io, di persona, qui, a
parlarle questa sera. Naturalmente a nome di tutto il Consiglio
di amministrazione” esordì compito il vecchio.
“Sì, certo. La ringrazio” rispose Grazia.
“Per cominciare, siamo tutti convinti della professionalità
del suo operato e della responsabilità con cui ha condotto il
giornale in questi tre giorni. Sono pochi, sicuramente; ma per
la difficile situazione creatasi a seguito dello scandalo, so che
sono stati giorni difficili da gestire. Non posso che ribadire
che a lei va tutta la nostra stima per come ha guidato le cose
finora. Sono tempi duri questi, signorina, mi creda”. Grazia si
limitava ad annuire col capo, mostrando la massima
attenzione.
“Lo sa che le vendite non sono affatto calate, anche se
siamo stati investiti da tutte queste calamità?” Il tono del
vecchio si era fatto più acceso, i tratti del volto brillanti.
Evidentemente, però, non considerava che Grazia potesse
intervenire col fare domande, perché continuò indisturbato:
“Anzi, proprio oggi abbiamo registrato il picco di consensi,
battendo per copie vendute il nostro diretto concorrente. Lei sa
a quale giornale mi riferisco”. Grazia ebbe solo il tempo di
annuire col capo, dal momento che l’altro non accennava
minimamente a lasciarle spazio. Cominciava ad impazientirsi.
“Questo ci ha fatto riflettere: vuol dire che la nomina in
ballo è attesa non solo da voi, dall’intera redazione voglio
dire, ma anche dagli italiani. Da tutti gli italiani. Quindi non
bisogna deluderli. Ma c’è un’altra questione importante che si
è posta con urgenza davanti a noi: sappiamo che la gente
aspetta il nome del nuovo direttore più per curiosità, che
perché s’intenda realmente di come vanno le cose in questo
mestiere. La gente ha semplicemente voglia del cambiamento
come un fattore rigenerante dopo tutti questi scandali, noi
dobbiamo tenerne conto. Quindi, crediamo che il nome da
proporre debba riuscire a destare consensi tra la gente, debba
infondere ottimismo, fiducia, voglia di ricominciare.
Purtroppo so bene che la gente non si immagina certo tutta la
fatica che c’è dietro il lavoro di giornalista: la ricerca delle
234
informazioni, le fonti da vagliare e valutare, i pezzi da
scrivere, la linea politica – a volte tocca – da seguire… Non
voglio dilungarmi con lei su queste cose. Le sa meglio di me.
Dunque: noi abbiamo cercato un nome che raccogliesse
preferibilmente il massimo accordo possibile tra la gente e sa,
abbiamo fatto segretamente dei sondaggi: è la cosa di cui vado
più orgoglioso. Dopo le farò vedere, se vuole” mentre parlava
il Verri sprizzava una freschezza e una vivacità che stupirono
Grazia “quindi il nome, dicevamo… Capisco che sarà ansiosa
di sapere, ma la prego di avere ancora qualche minuto di
pazienza. Dunque, occorreva che il nome che cercavamo fosse
gradito al pubblico di lettori, ma che allo stesso tempo
mostrasse anche delle garanzie e delle credenziali per
salvaguardare l’integrità, l’onestà, la laboriosità del mestiere
di giornalista, e del ruolo che sarebbe andato a ricoprire. Ecco,
le faccio vedere i sondaggi”. E tirò fuori dalla tasca interna del
cappotto un foglio piegato in quattro. Lo distese
meticolosamente sul tavolo affinché lei potesse leggerlo con
chiarezza.
“Come può vedere lei stessa dai grafici, ogni giorno
abbiamo commissionato all’agenzia incaricata dell’appalto
l’incarico di rilevare l’andamento delle vendite del giornale,
con in più l’accordo di sottoporre ai lettori e alla gente
comune un elenco di possibili direttori “papabili” e valutare
così i loro giudizi. Per una maggiore correttezza abbiamo
consultato sia la gente comune, sia una cospicua
rappresentanza di parlamentari, di tutti gli schieramenti. E
ogni giorno cambiavamo persone, così da avere il più vasto
raggio di opinioni. I nomi più gettonati, per così dire, sono il
suo stimatissimo collega Brentani (Grazia si ricordò
immediatamente di quando il venerdì mattina precedente lui
avesse preso in giro lei e Benjamin)” intanto con l’indice della
mano destra faceva scorrere i grafici “e l’amministratore
delegato della TV di stato, che potrebbe anch’egli ricoprire
tranquillamente l’incarico in questione, proposta che viene sia
dal governo sia dall’opposizione”.
Mentre il vecchio parlava, Grazia si sentì mancare la terra
sotto i piedi. Il suo nome non era scritto da nessuna parte. Non
era nemmeno stato contemplato tra i “papabili”. Si sforzò di
235
rimanere calma e di continuare ad ascoltare, controllando in
modo ferreo il suo stato d’animo esacerbato. Anche se,
potendolo, avrebbe benissimo appallottolato i grafici e gettati
nel cestino della carta straccia.
“Come lei stessa noterà, man mano che sono trascorsi i
giorni, tra i papabili sono aumentate in percentuale
significativa le “quotazioni” del suo collega tra la gente, e
dell’amministratore delegato tra i parlamentari. La scelta, a
questo punto, si poneva necessariamente tra questi due. Ora,
veniamo a stasera, quando il Consiglio di amministrazione si è
riunito, certo lei vorrà sapere…” il vecchio la guardò “cosa
abbiamo deciso”. Pausa. I suoi occhi erano astuti e scintillanti
come quelli di una vecchia volpe. Grazia si preparò al colpo.
“Vogliamo dar prova di una lungimiranza di vedute, così
abbiamo deciso di affidare la nomina vacante al più giovane
dei due concorrenti. Ci auguriamo che egli sappia realizzare e
condurre a buon fine uno scrupoloso progetto di lavoro, sappia
mettere insieme una squadra affiatata, sappia prevedere certe
linee di tendenza che potrebbero emergere proprio ora, con
questa situazione confusa nel nostro paese e che va certamente
districata…”. Il vecchio parlava e nello stesso tempo teneva
Grazia sotto controllo, come un predatore tiene stretta la preda
che ha appena cacciato. “Quindi sono onorato di dirle che il
nuovo direttore del giornale è il signor Brentani. Devo solo
aggiungere che abbiamo già provveduto ad informarlo di
persona”.
Grazia diventò impassibile.
“Mi risulta che in questo momento non sia qui” rispose
asciutta.
“Sì, in effetti l’abbiamo rintracciato a casa. Naturalmente
ha accettato. Devo dire che siamo tutti estremamente
soddisfatti. È d’accordo anche lei?” i suoi occhi scintillarono
di nuovo.
“D’accordissimo” mentì.
“C’è qualcos’altro che volete dirmi?” proseguì Grazia
facendosi animo. “In fondo lei è venuto fin qui di persona solo
per dirmi che devo farmi da parte. Per questo non c’è
nessunissimo problema. Ma non bastava una semplice
236
telefonata per sollevarmi dall’incarico? L’avrei accettata
altrettanto volentieri quanto la sua visita”.
“Lei mostra un’acuta intelligenza, dottoressa, frequentare
certi ambienti le ha giovato, direi”. Il vecchio assunse
un’espressione enigmatica.
“Quali ambienti, mi scusi?”. Grazia era nervosa.
“Ma quelli del suo vecchio direttore, signorina”.
“Non capisco”. Si allarmò.
“Lei forse tralascia il fatto che è stato proprio lui, il suo
vecchio direttore, a nominarla direttrice; e con che tempismo,
poi! Ci ha letteralmente scalzati di mano. Si era già dimesso
prima di essere arrestato, avendo annusato la brutta aria che
tirava intorno al lui. E prima che il Consiglio di
Amministrazione prendesse in mano la situazione, ha fatto
pervenire al Consiglio di Redazione una nota in cui auspicava
vivamente che fosse lei a prendere il suo posto. Che bel
giochetto, non trova?”.
“È stata una nomina temporanea, soltanto finché non foste
intervenuti voi” si difese Grazia. “È stato per non lasciare il
giornale nel caos. Perché potesse uscire lo stesso tutte le
mattine in edicola. Altrimenti c’era il rischio reale che il
giornale non andasse più in stampa: senza un direttore che
organizzasse e gestisse il lavoro da fare. E poi lo prevede
anche lo statuto del nostro giornale. È un evento rarissimo, ma
è previsto, e noi giornalisti abbiamo firmato lo statuto al
momento della nostra assunzione”. Questa volta era il Verri
che non parlava, e dunque Grazia continuò: “Io ero presente.
Guardi che si sbaglia. La mia nomina è emersa insieme ad
altre 2 o 3 candidature, e il Consiglio ha valutato la più
opportuna. Tutto è accaduto alla luce del sole”.
“Mi permetta di farle notare che so anch’io come sono
andate le cose”.
“Lei non era presente” lo incalzò Grazia.
“Ma ho chi mi può confermare, e parlo di più di una
persona, che l’ex-direttore pur senza essere presente ha ordito
dietro le quinte affinchè il Consiglio votasse come voleva lui”.
“Aveva stima di me, sì, questo non lo nego. Tutt’oggi non
riesco a capacitarmi di come potesse essere coinvolto nello
237
scandalo. Comunque, non ho nulla a che fare con lui e con gli
ambienti pericolosi che può aver frequentato”.
“Oh via, sappiamo tutti che tra voi due c’era qualcosa” e un
sorriso malizioso affiorò sul volto.
Grazia era sconvolta. Sia arrabbiò furiosamente. “Ma non è
vero!” urlò. “Io c’ero, quel pomeriggio: i colleghi hanno
espresso la loro personale convinzione che avevo le carte in
regola per meritarmi il posto. Mi hanno elogiato, pur
riservando parole di riguardo anche per gli altri. Persino
Brentani era ben disposto nei miei riguardi. Poi il Consiglio ha
votato, in piena libertà. Lo scritto di cui lei parla io non l’ho
mai visto girare”. Le mani e il volto le sudavano. La
sensazione di pericolo la sovrastava, imminente come una
condanna a morte. Fece una pausa, respirò e disse in tono
pacato: “Lei mi sta calunniando. O forse devo dire voi…”.
“Guardi che ho io il coltello dalla parte del manico. So
bene come sono andate le cose. Lei ora è troppo emozionata e
concitata: non può ricordarsi tutto per filo e per segno. Deve
capire, lei tralascia qualcosa…”.
Grazia di scatto si bloccò; “Lei tralascia qualcosa…” le
ronzava in mente. Alla fine le parole le echeggiarono come la
molla di una serratura a scatto, che si apre all’improvviso una
volta infilata la chiave giusta. Quel pomeriggio lei si era
assentata cinque minuti per andare a cercare Benjamin,
quando aveva poi scoperto che aveva già lasciato la redazione.
Cosa era accaduto in quei cinque minuti? I suoi colleghi
avevano litigato tra loro? L’avevano calunniata? Era apparsa
volutamente, estratta ad arte da qualcuno, la fatidica carta
vergata proprio dalla mano del direttore? Al suo rientro si
ricordava che avevano discusso tutti insieme un altro po’,
apparentemente senza concludere niente. Infine proprio
Brentani (che ora avrebbe dovuto prendere il suo posto) con
una cortesia che non era da lui – Grazia lo sapeva bene –
propose che tutti votassero lei per l’incarico, affidandoglielo
temporaneamente. Le era parso uno dei momenti più belli di
tutta la sua vita. Quanto le sembrava distante, ora!
Grazia s’irrigidì e chiese a denti stretti:
“Cosa è successo mentre io ero fuori?”.
238
“Oh, brava, dottoressa. La sua memoria comincia a
tornare”. Il sorriso beffardo sempre più grande.
“La smetta di prendermi in giro!”.
“Mi spiace, ma sono terribilmente serio”.
“Allora, cosa è stato detto?”.
“Me lo dica lei”.
“Non lo so. Non riesco ad immaginarmelo”.
“Allora verrò in suo aiuto: Brentani ha mostrato la lettera
scritta di pugno dal vostro ex-direttore in cui lui esortava i
giornalisti a esprimere per lei la loro preferenza”.
“Ecco il Giuda!” pensò Grazia in quel momento. “Non è
vera una sola parola di quello che dice. Lei sa che sono tutte
balle!” si sfogò. Tremava di rabbia.
“Suvvia dottoressa, si calmi, la prego. Non sono qui per
farle la morale. Non m’interessa sapere se l’ex-direttore ha
scelto lei perché credeva nella sua bravura o solo perchè voi
due avevate una storia… e comunque non sarò certo io a
ficcare il naso nei vostri affari privati…”.
“Ma non esiste nulla! Niente di niente! Come faccio a
farglielo capire?! I miei colleghi non mi hanno accennato
minimamente a quello che lei mi ha detto” si difese con tutto
il coraggio che possedeva in corpo.
“Non ne avevano il tempo e così hanno tagliato corto. E poi
dovevano anche essere esterrefatti di quanto stava
succedendo”. Il vecchio pareva prenderci gusto nell’affondare
glia artigli sempre più a fondo. Grazia si sentiva ormai senza
scampo.
“E poi che senso avrebbe avuto offrire a me l’incarico solo
perché l’aveva chiesto il nostro ex-direttore? Non gli abbiamo
certo giurato fedeltà assoluta, tanto meno in sua assenza… e
per un motivo così assurdo, meschino…” ragionò.
“Ho parlato con Brentani: mi ha rivelato che avevano paura
di ritorsioni da parte delle Stelle Spezzate, così lui e i colleghi
hanno pensato, sul momento, di accettare la proposta così
come era stato chiesto loro. Una nomina temporanea:
un’ottima idea! Salvo poi passare la patata bollente al
Consiglio di Amministrazione appena possibile, tempo
qualche giorno. Una splendida mossa, direi. Mi sono
complimentato con lui” spiegò orgoglioso.
239
“È cinque anni che lavoro correttamente e onestamente!
Qui tutti lo possono confermare”.
“Mi permetta, scusi. In cinque anni lei ha fatto una ascesa
rapidissima, che fa davvero pensare… dubitare, le va meglio
il termine?”.
“Voi volete mettermi fuori gioco!”.
“Dottoressa, lei è perspicace. Comunque non c’è nessuna
volontà da parte nostra di essere crudeli, purtroppo è solo il
triste gioco delle parti”.
“Non avete prove. Secondo me quella lettera è una
pagliacciata bella e buona. Solo che sono io ad andarci di
mezzo”.
“Oh, finiamola qui, per piacere. Abbiamo le testimonianze
dei suoi colleghi. Parli con loro, se vuole. Ora, la prego,
raccolga le sue cose e lasci libero l’ufficio. Spero per lei che il
suo nome non venga fuori in tutta questa brutta faccenda. Da
parte nostra, le assicuro che non apriremo bocca. In fondo,
come vede, le vogliamo bene, vogliamo proteggerla”.
Si alzò, senza porgerle la mano. “Sono certo che non avrà
difficoltà a trovare un nuovo giornale per cui scrivere. Lei ha
tutta la mia stima. Tantissimi auguri”. Le sorrise, poi si girò e
uscì dalla stanza. A Grazia parve che il Verri fosse trionfante
come stesse raccogliendo gli applausi da un palcoscenico.
Guardò l’orologio da polso: mezzanotte passata.
Per qualche istante sentì il toc-toc del bastone che
accompagnava i passi del vecchio. Poi più niente.
“Mi hanno licenziata” ripetè a sé stessa sottovoce. E
sprofondò annichilita nella poltrona. Indugiò col pensiero su
quelle tre parole, come per farsele bene entrare in testa.
Dentro si sentiva vuota, spenta, delusa.
Sia alzò lentamente, cominciò a raccogliere le sue cose. La
mente era rimasta lucida, ma si comportava come un automa:
non sentiva più battere il cuore. Ci mise cinque minuti ad
accatastare alla rinfusa tutta la sua roba sul tavolo. Attorno
non toccò nulla, lasciò il disordine consueto. Spense il
computer della scrivania. Ficcò tutto nella sua borsa, infilò
sciarpa e cappotto, si mise a tracolla il suo computer portatile
e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle tutto quello che
finora era stato il suo mondo.
240
XXIII
Gettò maldestramente la borsa in macchina, si sedette alla
guida sbattendo rumorosamente le porta dell’automobile. Ogni
minuto che passava, cominciava a montarle la rabbia. Le
sembrava che un destino crudele giocasse ai dadi con lei,
vincendo solo per prenderla in giro; uno scherzo amarissimo.
Le vennero improvvisamente in mente i ricordi della sua
infanzia: quando i suoi compagni di giochi si spassavano un
mondo a tagliare la coda alle lucertole. “Tanto poi ricrescerà
loro” dicevano a lei scandalizzata per una azione così orribile.
O come quando li vedeva andare a caccia di lumache, con
l’unico scopo di portarle a casa perché venissero cucinate.
Rabbrividì al pensiero delle lumache cucinate nel piatto.
Proprio come allora, anche in questo momento non poteva
farci niente: era il più forte che calpesta ingiustamente il più
debole.
Accese il motore e s’infilò a velocità sostenuta lungo i viali
della Milano notturna. Il riquadro fosforescente dell’orologio
segnava le 12.20. Non aveva voglia di andare a casa, né tanto
meno di dormire. Ma non era nemmeno abituata a girovagare
da sola in macchina, a zonzo per le strade semivuote, nel
cuore della notte.
Guidò svogliatamente, la testa perfettamente altrove
rispetto alla prudenza che solitamente occorre sulla strada. Le
si affollavano alla mente i più disparati pensieri, come se la
sua testa fosse stata simile ad un mercato pullulante di gente,
carico di banchi con ogni genere di mercanzie. Le pareva di
passare da un banco all’altro, colpita dalla bellezza di
ciascuno, salvo poi accorgersi che, una volta allontanatasi da
uno, non si ricordava più cosa contenesse. Altrettanto
puntualmente le scivolavano via le più diverse idee, e non
riusciva a tenerle fisse davanti a sé per più di una manciata di
secondi. Solo un’idea, da quando aveva infilato la chiave nel
motore e aveva imboccato la strada, aveva tallonato la sua
mente, perseverante come un segugio e al tempo stesso
discreta come un gatto sornione che sta accucciato a fare le
fusa.
241
Dopo 10 minuti, infatti, accostò al marciapiede e
parcheggiò al lato della strada. Si era fermata accanto ad un
moderno condominio dalle rifiniture signorili, elegante nel suo
insieme. Quasi tutte le tapparelle delle finestre erano
abbassate. Solo qua e là spuntava ancora qualche luce.
Il bar sotto il condominio, al livello della strada, era ancora
aperto. Non ci pensò due volte. Uscì dall’auto, risoluta, ed
entrò nel locale. Si accorse subito che all’interno pulsava una
discreta vita notturna. “Meno male” pensò “che non sono
capitata in uno squallido bar con solo due o tre persone
dentro”. Si guardò intorno: il posto le piaceva, era carino.
L’arredamento rammentava volutamente i saloon western, con
tavoloni lunghi e panche su cui stavano appollaiati gruppi di
amici a bere birra, bibite e alcolici. Lungo le pareti scorreva
un rivestimento di legno, con appese in cima, a cadenza
regolare, delle lanterne dalla luce fioca. Grazia si domandò se
dentro vi bruciassero delle candele vere. Qua e là quadri di
cavalli, praterie e soldati con i loro reggimenti.
“È molto affollato per essere un lunedì sera” considerò,
mentre si dirigeva con qualche sforzo verso il bancone delle
ordinazioni. In alcuni punti, infatti, il passaggio tra i tavoli si
faceva stretto e dovette farsi largo con qualche spintone delle
braccia. Arrivata, notò che qualche sgabello sotto il banco era
libero, così ne scelse uno e ci si sedette sopra. Si tolse il
cappotto, che appoggiò sulle gambe accavallate, e ordinò un
cocktail. Adorava l’Alexander, ma optò per un Desperados.
Aveva bisogno di qualcosa di forte, pur senza volersi
ubriacare. Lanciò una rapida occhiata indagatrice d’intorno,
quasi nessuno l’aveva notata o seguita con lo sguardo. Alla
sua destra e alla sua sinistra emergevano dai tavoli gruppetti di
amici, coppie di fidanzati o conoscenti occasionali, vere e
proprie compagnie di veterani avventori dei locali notturni.
Si tranquillizzò, respirò profondamente e aspettò il suo
Desperados, che arrivò di lì a pochi minuti. Voleva rilassarsi,
senza il pericolo di fare brutti incontri: non era venuta a
rimorchiare e cercò di non darlo assolutamente a pensare.
Assunse un contegno serio e dignitoso, come di una che aveva
tutto il diritto di gustarsi in santa pace un drink, e che magari
242
aspettava visite. In quel momento desiderò tantissimo avere un
appuntamento. Invece era sola.
Gustò lentamente il Desperados e tirò fuori dalla borsa il
telefonino. Era acceso. Nessuna chiamata ricevuta, nessuna
persa; evidentemente proprio nessuno l’aveva cercata. Tanto
meno Benjamin. “Sei un’idiota” si disse. “Venire sotto casa
sua, sperando che lui capisca, non si sa come, che tu sei qui
sotto”. E scrollò il capo. Il brusco movimento della testa le
fece cadere il fermaglio con cui teneva avvolti i lunghi, ribelli
capelli neri. Se lo tolse rapidamente, lasciando che le ciocche
le ricadessero morbide, sciolte lungo la schiena.
Qualche ragazzo dai tavoli accanto cominciò ad
adocchiarla. Lei teneva stretto il suo cocktail e tamburellava
con le dita sul bicchiere. Soppesava se telefonare o meno a
Benjamin, per raccontargli quanto era accaduto quella serata.
E per dirgli, eventualmente, che si trovava lì sotto, nel bar. Le
pareva che una delle poche finestre da cui proveniva luce nel
palazzo potesse essere la sua, almeno a giudicare da come si
ricordava la disposizione dei campanelli sul citofono, quando
il venerdì precedente era passata a prendere l’amico per partire
alla volta di Roma. Aveva lasciato parcheggiata in strada la
sua auto (Benjamin le aveva assicurato che il posto era al
sicuro da furti d’auto e dai piccoli vandalismi notturni) ed
erano partiti con la macchina di lui, più veloce e confortevole.
Nel frattempo non si era accorta che uno dei ragazzi che
l’avevano osservata dal tavolo vicino si era alzato, e stava
venendo verso di lei. Gli altri ridacchiavano e borbottavano
concitatamente fra loro. Il ragazzo le si parò dinanzi e senza
tanti giri di parole le chiese:
“È sola, signorina?”.
Grazia lo guardò sorpresa, arrossendo in volto. “Accidenti,
proprio quello che temevo e non volevo accadesse” pensò tra
sé. Prese tempo sorridendogli. Nel mentre lo squadrò da cima
a fondo: sembrava a posto. Era un ragazzo normale, sulla
trentina, né bello né brutto.
“Si e no” rispose.
“Che risposta è?” le domandò l’altro incuriosito. E accennò
ad una leggera risata. Il giovanotto non sembrava affatto
intimidito, anzi, ci prendeva gusto.
243
Si sedette sullo sgabello accanto che si era appena liberato.
“Posso offrirle qualcosa?”.
“Non so se ho ancora tempo di fermarmi. Fra poco vado”.
Si accorse con orrore che le piaceva stare al gioco, tenendolo
sulle spine.
“Mi chiamo Giorgio. Sono qui con i miei amici” e fece un
cenno con la testa indicando dove stavano seduti loro. E poi a
bruciapelo: “Ma perché una bella ragazza come te è sola?”. La
guardò per un istante, poi aggiunse: “Scusami, posso darti del
tu?”.
“Ho fatto una scommessa. Sto aspettando di vedere se
vinco” rispose enigmatica. Poi allungò la mano: “Grazia”,
disse, stringendo quella dell’altro.
“Allora, posso offrirti qualcosa nel caso tu vinca?”.
“È meglio di no” sorrise divertita. “Perché se vinco, è
perché arriva qui il mio ragazzo” mentì. Ma poi si rabbuiò,
pensare a Benjamin la faceva arrabbiare. “Ma forse è meglio
se la perdo, così mi offri da bere…”.
“E fra quanto dovrebbe arrivare, lui?”.
“Dovrebbe essere già stato qui, in effetti” concluse
laconica.
“Vorrei poterti sollevare d’animo, sei diventata triste. È
importante che lui venga? O forse è meglio che tolga il
disturbo: magari ti sono d’impiccio…”. Sembrava naturale,
rifletté Grazia. Però si disse di stare in guardia, perché per
quel poco che aveva conosciuto gli uomini, erano tutti
bravissimi a farle credere cose eccezionali, salvo poi scoprire
da sola che nella realtà le cose stavano ben diversamente.
“Per la verità un motivo ci sarebbe per brindare…” rispose
con calma. “Però accetto solo spumante”.
“E quale sarebbe il motivo?”.
“Sono stata licenziata, circa mezz’ora fa. Sono una
giornalista.”
Il ragazzo rimase sinceramente colpito. “Certo non te
l’aspettavi, vero, bello mio?” pensò fra sé Grazia. E stette ad
aspettare la reazione del giovanotto, la quale non si fece
attendere, segno che poi tanto inesperto con le donne non era.
Le si avvicinò un poco, quel tanto che bastava, come per
244
rispondere con un gesto all’intimità della rivelazione, e le
sussurrò dolcemente:
“Allora, vada per lo spumante; brindiamo ad un futuro
migliore e più promettente, e magari anche ad incontri più
fortunati. Ti va?”.
Grazia gli sorrise. La mano di lui era già terribilmente
prossima a quella di lei; Grazia stava già cominciando a
pensare che, tutto sommato, forse poteva fidarsi di quel
giovanotto. E aveva una voglia matta di prendergli la sua
mano robusta, sicura, da uomo, per stringerla. Stringergliela
forte, perché dentro si sentiva distrutta. Stava quasi per
allungare la sua mano quando sentì sulla sua spalla una stretta
di mano decisa, persino troppo brusca, e una voce familiare
che diceva al giovanotto: “Spiacente, ragazzo, ma la signorina
stasera è già occupata”. Allora il ragazzo guardò Grazia come
per ricevere ordini, ma lei tenne la testa bassa,
imbarazatissima. Il giovane incassò il colpo, si scusò e filò via
di corsa, leggermente dispiaciuto per la sortita finale
improvvisa e inaspettata. Al tavolo gli amici ridacchiavano.
Poi Benjamin si parò di fronte a Grazia, scurissimo in
volto, e l’apostrofò secco:
“Si può sapere cosa diavolo volevi fare? Ti ho vista, sai,
appena sei entrata”.
Grazia rimase turbata al sentire che per tutto il tempo che
lei era rimasta nel locale, Benjamin l’aveva osservata. E ora,
per giunta, la rimproverava. Senz’altro in cuor suo la stava
anche giudicando.
“Pensi male di me?” gli chiese.
“Non so cosa pensare. Dimmelo tu”.
“Ma tu cosa ci facevi, qui, a quest’ora?”.
“La stessa domanda potrei farla io a te. Comunque, sono
sceso a prendere delle lattine di Coca e di birra. Stavo
andandomene quando ti ho vista entrare. Mi sono fermato e ti
ho guardato. Non è un locale per signore sole, questo. E tu lo
sai. Cosa sei venuta a fare qui?”.
Grazia sospirò. “Cercavo te” disse, sollevando la testa e
guardandolo. Lo fissò con due occhi tristi come quelli di una
cane addolorato. Poi aggiunse con un filo di voce: “Sono stata
licenziata, appena adesso”.
245
Benjamin rimase di sasso. La sua solita gioia gli scomparve
dal volto, su cui si stampò invece un misto di sollecitudine e
dolore.
“Mi dispiace, davvero” riuscì a dire. Il suo contegno era
serio ed asciutto. Stava sempre ritto in piedi davanti a lei.
Rifletteva. “A quanto pare non hanno perso tempo a toglierti
di mezzo. Ma a che gioco stanno giocando?”. Pareva più
colpito dal brutto torto che Grazia aveva subito, piuttosto che
intento a consolare l’amica.
“È curioso. Mi domandi la stessa cosa che loro hanno
chiesto a me; o meglio, che il Verri, quell’essere spregevole,
mi ha chiesto”. Grazia era affranta e sconsolata, tuttavia non
sembrava accorgersi dello spirito da paladino vendicatore
dell’amico.
“Ma almeno ti rendi conto che ti hanno a bella posta messo
da parte? Non vogliono che lavori per loro perché hanno già
fiutato che non sei più dalla loro parte. Secondo me la
Fondazione ha la longa manus nel Consiglio di
amministrazione…”. Il suo animo esacerbato si scaldava ad
ogni parola che pronunciava. Grazia lo guardò confusa.
“Non capisco, Benjamin. Stai dicendo che la Fondazione
possa centrare qualcosa in tutto questo? Mi sembra incredibile
solo a pensarlo”.
“Ma è così, credimi”.
“Benjamin, siamo alle solite: ti dico che ti sbagli. E non
voglio litigare di nuovo con te, per favore”.
Grazia stava diventando isterica.
Benjamin se ne accorse e tentò un diverso approccio al
discorso, meno insidioso e sdrucciolevole di quello con cui era
partito a spron battuto. Si sedette sullo sgabello su cui fino a
poco prima era sistemato il giovanotto allontanato in malo
modo da lui stesso:
“Grazia, so che sei piena di rabbia e di dolore. Te lo si
legge in faccia, e per quel poco che ti conosco, credo di poter
affermare che stai veramente male. Io ora sono qui, con te.
Vedi, per miracolo ci siamo incontrati. Tu volevi cercarmi e
sei venuta qui, fidandoti della tua ispirazione interiore. Io, non
so nemmeno perché, sono sceso da casa. Avevo sete, e non
c’era nulla in frigo e la dispensa era vuota. Potevo bere solo
246
l’acqua del rubinetto. Quando ti ho visto mi sono stupito, e ti
ho seguito con lo sguardo. Ho notato che eri sola, inerme;
qualcosa, forse, ti doleva, perché avevi un’aria assorta, triste.
Ho pensato che potevi essere arrabbiata con me per la
telefonata di questa mattina: quindi, se eri in collera con me,
era meglio che mi togliessi di torno. Però qualcosa mi
impediva di andarmene: avevo come i piedi incollati al
pavimento. Hai ordinato da bere, e nel frattempo mi dicevo:
“Basta, con tutta probabilità sta aspettando qualcuno.
Andiamocene!”. Mi ero finalmente scollato, quando ho notato
con la coda dell’occhio il gruppetto di amici che stavano a
poca distanza da te, e ho sentito distintamente il giovane che ti
si è avvicinato, pronunciare prima agli altri: “Ci provo io!
Scommetto 50 euro che accetta da bere e mi dà il suo numero
di telefono!”. Gli altri si infervorarono tutti, cominciando a
raccogliere i soldi della scommessa. Quanto a me, mi è
divampato dentro un fuoco d’ira, per cui mi sono fermato in
un angolo, appoggiato al muro, e vi guardavo. Chi mi ha
notato, avrà pensato che fossi un maniaco! Ma non
m’interessava certo quello che potessero pensare di me gli
altri, in quel momento! Il resto della storia lo sai da te, come è
andata a finire, intendo dire. Adesso che sono qui, però, voglio
dirti tutto”.
Grazia gli fece cenno di andare avanti. Benjamin si
avvicinò di più a lei, un braccio appoggiato sul bancone, su
cui aveva posato il sacchetto delle lattine, l’altro braccio che
muoveva e gesticolava come per dare più tono ed effetto a
quello che diceva.
“È probabile che la Fondazione, attraverso i suoi scopi
culturali, sia giunta a controllare anche il Consiglio di
amministrazione del giornale. Secondo me, prima hanno fatto
fuori l’ex-direttore perché non dava più loro le garanzie che si
aspettavano, e ora hanno fatto fuori te perché si sono accorti
che avrebbero commesso lo stesso errore, se ti avessero
lasciata fare quello che volevi”. E allargò le braccia con aria
sconsolata.
Grazia riusciva solo a pensare che avrebbe voluto buttarcisi
dentro quelle braccia, ma Benjamin mostrava di non cedere ad
abbracci e carezze consolatrici.
247
“Anche il Verri ha detto che non posso offrire loro garanzie
soddisfacenti…”. A questo punto si arrabbiò e lo investì delle
sue accuse, scostandosi da lui: “Sei anche tu dei loro, che mi
esprimi le tue convinzioni con una precisione e una sicurezza
tali del miglior matematico? Tutta questa faccenda per te è
riducibile ad un facilissimo teorema: La Fondazione controlla
il giornale, ma purtroppo è perfida e cattiva. Prima caccia il
povero ex-direttore, che pure l’aveva in simpatia. Ora caccia
me, che non mi ha mai avuto in simpatia. Conclusione: la
Fondazione si dimostra perfida e cattiva. C.V.D. Allora, sei
contento del tuo perfetto sillogismo?” gli gridò Grazia dritto in
faccia. E poi aggiunse: “Non siamo dentro un film americano,
dove voi sgominate i criminali con una facilità incredibile. E
non mi sono nemmeno mai piaciuti i vostri kolossal!”.
Benjamin si sentì come investito da un secchio di acqua
gelata. Non disse niente. Grazia lo guardava sempre torva.
“Lasciami in pace, ti prego” gli intimò.
“Ti aveva offerto da bere, prima, quello?”. E indicò con un
cenno del capo il capannello di amici che si erano ritirati
ancora più in disparte.
“Gli avevo chiesto dello spumante, per brindare al mio
licenziamento. È stato gentile con me, sai, per me voleva solo
provare a rasserenarmi un poco. Non mi interessa se poi aveva
altre intenzioni” e in tono più secco “Non voleva certo
espormi la sua visione completa e granitica degli eventi”.
“Mi dispiace. Avrei dovuto offrirti io da bere, e subito.
Prima di farti tutti questi sproloqui”.
“Magari senza fare tutti questi sproloqui”.
“Mi chiedi troppo: la volpe perde il pelo, ma non il vizio”.
Grazia si ammorbidì in una risata distensiva. Gli domandò:
“A proposito, quand’è che sei arrivato qui a Milano?”. In
effetti l’ultima volta che l’aveva sentito risaliva alla tarda
mattinata di quel giorno, e si trovava ancora a Roma. Ora pur
venendo a cercarlo proprio sotto casa sua, non era così tanto
sicura che lui fosse già tornato.
“Poco fa. Il tempo di salire in casa, aprire il frigorifero e
constatare che non c’era niente da bere. Ho viaggiato di notte
per fare prima: volevo essere a Milano entro mezzanotte;
domani mi aspetta una nuova giornata di lavoro”. Grazia lo
248
guardò storta. Lui aggiunse prontamente: “Nel senso che devo
procuramelo il lavoro. Ma torniamo a noi: ho parlato troppo, e
forse in modo un po’ sconsiderato. Adesso vieni su con me, in
casa, e mi racconti la conversazione che hai avuto col Verri.
Voglio un resoconto preciso, tutto: per filo e per segno. Ti
prometto che lascerò parlare te e io ti ascolterò in silenzio. Lo
giuro!”. E alzò la mano destra come per giurare sulla Bibbia,
durante i processi americani.
“Hai dello spumante in frigorifero?”.
“Ho di meglio: ho dello champagne”.
“Ma non avevi detto che non avevi nulla da bere?”.
“E ti pare che mi metto a bere champagne di notte, per
giunta da solo?”.
“Non è un po’ tardi per parlare?” disse guardando
l’orologio. Un po’ temeva la proposta di Benjamin, per lei
alquanto ardita.
“Guarda che è quasi l’una e il locale chiude. Io voglio
sapere come si sono svolti i fatti. E poi, scusa, tanto siamo
stati licenziati tutte e due, no? Dormiremo domani mattina!”.
“Vada per il sì, allora” rispose Grazia felice. Gli sorrise,
porgendogli sciarpa e cappotto. Lui l’aiutò ad infilarseli, pagò
al barista la consumazione; poi la prese sottobraccio e uscì
insieme a lei nella notte.
L’appartamento di Benjamin fu per Grazia un’autentica
sorpresa. Si era immaginata una visione d’insieme quale
appariva dalle riviste patinate di Arredare Country, rivista che
ogni tanto spulciava quando andava a fare visita ai suoi
genitori, o per lo meno qualcosa di simile ai meravigliosi
interni dei palazzi residenziali ultra-chic filmati dalle
produzioni cinematografiche hollywoodiane. Una disposizione
delle cose accuratamente disordinata, morbidi divani e tende
dai colori abbinati, raffinati tappeti orientali sul pavimento di
maiolica, e stampe di pregio appese alle pareti. Insomma, un
mobilio che trasudava comodità, praticità e voglia di vivere,
unite ad una certa mollezza dei costumi e agiatezza dello stile
di vita.
Invece il primo colpo d’occhio fu terrificante. Tutto era
all’insegna della provvisorietà, al limite di una sobria
249
frugalità. Non che mancassero i mobili: quelli c’erano. E non
che Benjamin non disponesse di denaro, rimuginò Grazia tra
sé nel contemplare tanta disarmante parsimoniosità.
La porta d’ingresso si apriva su una grande sala da giorno,
pulita e ordinata, ma alquanto formale e poco attraente. Su
uno dei due lati perpendicolari alla porta d’ingresso era
incastonata la cucina: una fila lungo tutta la parete di pezzi
combinati con elettrodomestici ad incasso; il tutto di un colore
poco gradevole: marrone laccato. Lungo la parete opposta si
trovava un normalissimo divano a tre posti di cotone, blu,
esattamente sotto la finestra senza tende. Di fronte all’ingresso
la rimanente parete ospitava una di quelle librerie nordiche
dall’aspetto poco azzeccato, con incastrato dentro un unico,
enorme componente che fungeva da nuovissimo computer
multifunzionale. Attorno vi erano stipati una notevole quantità
di libri, pile di giornali e di riviste.
Grazia pensò che se ci fosse stato bisogno di traslocare,
metà della fatica sarebbe stata già fatta: infatti non ci sarebbe
stato che da prendere le pile di libri e inscatolarle. Rimaneva
poi da smontare il computer e, probabilmente, impacchettare
qualche piatto e bicchiere.
In mezzo alla stanza si ergeva possente come un platano un
tavolone rotondo, che poggiava su di un tappeto ricamato. Il
tappeto era l’unico elemento che dava un tocco di calore
all’intero arredamento. Grazia notò un vaso di fiori freschi sul
tavolo e si stupì. Lo soppesò furtivamente con lo sguardo e poi
guardò Benjamin di traverso, pensierosa. Cercò di non dare a
vedere la sensazione di disagio che aumentava
esponenzialmente man mano che rimaneva in piedi sulla porta
d’ingresso, incerta sul da farsi.
“Così abiti qui?” disse alla fine, lasciando trapelare
qualcosa del suo stato d’animo stupito e un po’ smarrito.
“Non ti piace?” le domandò lui, mentre chiudeva la porta
alle loro spalle.
“Me l’aspettavo diversa…”. Grazia si stava ancora
guardano intorno. Era in piedi, in mezzo alla stanza. Davanti a
lei il vaso di gerbere, rose, lilium e gigli profumatissimi.
Appoggiò la borsa sul tavolo, accanto ai fiori. Di fronte a lei
vide il computer acceso, e una considerevole mole di fogli
250
sparsi sulla doppia mensola sporgente che fungeva da scrittoio
inglobato alla libreria norvegese.
Benjamin si tolse la giacca e la gettò sul divano. Poi
appoggiò il sacchetto di lattine sul bancone della cucina e
cominciò ad armeggiare con le ante dei pensili, tirando fuori
un vassoio, due bicchieri e un sacchetto di patatine che
dispose su un piatto di plastica.
“Ti aspettavi un appartamento più accogliente,
m’immagino…” le disse Benjamin, voltandole la schiena
perché trafficava con i bicchieri puliti e accantonava alla
rinfusa nel secchiaio i piatti sporchi. “Però l’hai detto tu stessa
che io non sono capace di stare fermo in un posto. Ti
ricordi?”. Intanto versò la Coca- Cola nei bicchieri e andò da
lei tenendo il vassoio su una mano. Lo appoggiò sul tavolo e
le porse uno dei bicchieri. “Venerdì mattina scorso, rammenti,
al giornale, mentre sorseggiavamo il caffè durante la pausa
delle 11…”.
Grazia gli sorrise. Ricordava perfettamente. Poi guardò il
bicchiere che lui le porgeva:
“Ma non è champagne!” si lamentò.
“Per quello c’è tempo più tardi. Adesso accomodati, prendi
fiato e poi raccontami quanto è successo al giornale. Voglio
sapere cosa ti ha detto quello spregevole del Verri, tutta la
conversazione che hai avuto con lui. Dopo anch’io devo farti
degli aggiornamenti per quanto riguarda il progetto del
Vaticano”.
“Oh, insomma, ancora quello!” sbuffò Grazia. Si era tolta
sciarpa e cappotto, appoggiandoli con delicatezza sul divano,
e si era seduta sulla sedia, accavallando le gambe. Era
nervosa.
“Quello è il mio e il tuo futuro” insistette lui. Era in piedi di
fronte a lei.
“Oh, che ne puoi sapere tu del futuro? E del futuro nostro
per giunta? Sei per caso un indovino?” rispose stizzita.
“Vedo più in là di te” rispose con calma Benjamin. “Vedo
che sia io che te siamo senza lavoro, per il momento. Io mi
sono licenziato mentre tu sei stata licenziata. E vedo che
abbiamo sotto il naso un’opportunità da non gettare alle
ortiche, come vorresti fare tu, purtroppo”.
251
“Sei un vulcano di idee e di progetti, Benjamin: io non ce
la faccio a stare dietro a quello che dici. Non ne ho né la forza,
né tanto meno la voglia” rispose piena d’amarezza. Il dolore
parve riaffacciarsi acuto nel suo animo, le parole le erano
uscite di bocca lente, pesanti. Sospirò, e appoggiò la testa,
reclinata leggermente, sul palmo della mano.
“Ti ripeto che non sei da sola. Dai, inizia a raccontarmi…”
la incalzò Benjamin, mettendole una mano sulla spalla.
“Non so se mi farebbe bene” rispose piano Grazia. E poi in
uno scatto d’orgoglio: “Anzi, penso proprio che non dovrei
dirti un bel niente, che non avrei dovuto salire da te…”. Ma
lui non colse il tacito rimprovero a sé stessa sotto quelle
parole.
Benjamin la guardò in silenzio. Si era limitato ad
appoggiare il suo bicchiere sul tavolo e ad accomodarsi su di
una sedia accanto a lei.
Grazia continuò, senza sollevare la testa, tradendo
l’accento di ira nella voce: “Da un lato vorrei aprirmi con te,
parlarti, dirti tutto…Dall’altro, però, ho paura a riversare su di
te tutta questa fiducia, ad appoggiarmi su di te così tanto,
perché so che ad un certo punto accadrà che tu dovrai
andartene, e io…” non riuscì a finire la frase. Si vergognava
troppo di ammettere “e io non sopporterei di rimanere qui da
sola, senza di te”.
Ma Benjamin, questa volta, capì al volo. Appoggiò
anch’egli le braccia sulla tavola, come per inchinarsi verso di
lei, e le disse con dolcezza:
“Ho sperato che non arrivasse mai un momento come
questo. Invece era destino che prima o poi capitasse; è ora di
parlare di noi: hai ragione. Devo ammettere comunque che hai
già capito tutto di me, senza che io non dicessi nemmeno una
parola. Saresti stata davvero brava come direttrice del
giornale”.
Grazia spinta dalle parole dell’amico, proseguì titubante,
consapevole che si stava giocando il tutto per tutto. Ma ormai
non voleva più tirarsi indietro. Gli parlò in tutta sincerità, solo
il tremolio nella voce tradiva l’intima palpitazione del cuore,
acceso da una punta di risentimento per il fatto che non aveva
252
ancora capito se anche Benjamin fosse attratto da lei, o se la
considerasse soltanto una grande amica:
“Io mi sento vuota e delusa, Benjamin. Raccontarti del
colloquio avuto col Verri, al giornale, mi farebbe bene solo se
potessi riversare questo fiume di parole e pensieri vorticosi in
una persona che mi sostiene, mi incoraggia…insomma che mi
vuole bene. Vicino a me ho bisogno di qualcuno di più di un
amico, in questo momento. Ho pensato che forse avresti
potuto essere tu, questa persona… Quando sei comparso
inaspettatamente giù di sotto al bar, e poi quando mi hai
invitato a salire qui, ho cominciato a sperare che forse, dopo
tutto, non mi ero sbagliata; che anche tu potevi provare
qualcosa per me… Invece mi sono sbagliata, vero?”. E sollevò
la testa, lo sguardo intenso, penetrante poggiava su di lui.
Benjamin prese le mani di Grazia e le serrò intorno alle
sue; sostenne lo sguardo dritto nei suoi occhi verde smeraldo.
Per un attimo si vide riflesso e si sentì mancare il coraggio.
Per questo fece un ulteriore sforzo di volontà.
“Ascoltami” le parlò “forse sono io che dovevo parlare con
te, questa sera. Non tu con me. Come ben sai, sono qui in
Italia da cinque anni, ormai. Ma lo sai perché me ne sono
venuto via dall’America?”.
Grazia scosse il capo per dire di no. Si sentiva puntato
addosso lo sguardo di lui, intenso, quasi le trapanava l’anima,
ed il respiro.
Benjamin continuò, in tono più accorato, alzando la voce
ed aumentando la stretta delle mani: “Sono scappato. Sì, mi
ero innamorato di una mia collega, purtroppo non ricambiato,
e non sopportavo l’idea che la donna che amavo non potesse
stare con me! E il lui fortunato lo conoscevo, per giunta! Così
ho tagliato la corda. Io non sono capace di accettare uno
smacco, un rifiuto. Piuttosto sparisco. Se stasera fossi stato al
tuo posto, ad esempio, e avessi subodorato aria di
licenziamento, non avrei perso tempo a redigere da me stesso
la lettera di dimissioni e a scomparire alla velocità della luce.
Sono fatto così, credimi. Anche adesso: tu sei qui, davanti a
me, che mi dici che da me vorresti un impegno stabile,
durevole, su cui poter contare… eppure io non mi sento
pronto. Non ce la faccio: non sono sicuro di quello che provo
253
per te. È la verità! Oddio Grazia, mi dispiace
immensamente… vedo che ti sto ferendo… desidero stare con
te, credimi, ma se poi non funzionasse tra noi due, me ne
pentirei amaramente; mi sentirei responsabile del fallimento,
mi sentirei terribilmente in colpa…”.
Grazia aveva chinato nuovamente il capo per tutto il tempo
in cui Benjamin aveva parlato. Due sentimenti lottavano con
tenacia nel suo animo: la rabbia di fronte all’impotenza in cui
versava Benjamin nel prendere una decisione sulla loro storia,
e nello stesso tempo la pietà per lui, una pietà però che non era
semplice commiserazione, ma piuttosto la resa serena, sincera
e amorevole di fronte alla verità ormai emersa alla luce.
Capiva che lei, da sola, non aveva il potere di far sì che lui
l’amasse, che ricambiasse almeno in parte i suoi sentimenti.
Per il momento era così: aveva solo da accettare il fatto. Si
sarebbe arrabbiata più tardi, e prevedibilmente molto.
Raccolse tutta la forza che aveva, e si sforzò di mettere
insieme una risposta, senza sapere bene cosa gli avrebbe detto,
imponendosi un ferreo autocontrollo per non scoppiare in un
pianto dirotto davanti a lui:
“Ti ringrazio che ti preoccupi per me. In un angolo del mio
cuore l’ho sempre saputo che prima o poi avrei rischiato
anch’io di perdere di nuovo la testa per un collega
giornalista…l’ho già fatto un'altra volta. Peccato come a volte
l’esperienza non insegna nulla” e alzò su di lui gli occhi lucidi
e commossi, da cui traspariva un sorriso che si stava
schiudendo per incorniciare tutto il suo viso. “Anche la mia
testolina intelligente mi ammoniva: “Stai attenta a quello lì!”.
E nonostante questo, mi sono lasciata coinvolgere troppo da
quello che provo per te”.
Questa volta fu Benjamin ad imbarazzarsi. Era anche
curioso di sapere per quale uomo Grazia avesse perso la testa
prima di lui. Ma non osava chiederglielo.
Intanto Grazia, che ormai aveva iniziato a parlare e voleva
arrivare sino in fondo, si alzò in piedi: “Rimarrei qui solo se
anche tu fossi innamorato di me. Lo so che è chiedere
troppo…”.
“Non dire così. Mi fai sentire inutile” le rispose.
“Non dire sciocchezze”.
254
“Almeno tieni presente tutto quello che ti ho appena detto”.
“Lo serberò nel mio cuore, te lo prometto. Ma, vedi,
sarebbe stato meno doloroso se fin dall’inizio non ci fosse
stata nessuna confidenza tra noi due. Invece ci siamo
conosciuti, la relazione si è approfondita, ed ora è tempo di
tirare le somme: non mi è sufficiente sapere che l’amore che
provo per te è corrisposto solo da bei discorsi, per quanto per
te siano pieni di significato a me non servono un bel niente.
Non mi consolano di una virgola. A me basterebbe un tuo sì; o
un bel no motivato. Non una spiegazione per un non so,
seppure detta nel più dolce dei modi. È la logica dell’amore,
Benjamin: o rispondi, ricambiando anche tu a quell’amore con
cui tu sei amato a tua volta; o si spegnerà anche quel poco di
amore che provi per me. Non è colpa mia”.
“Ma parli come se fosse colpa mia, che non riesco a volerti
bene. Eppure un po’ te ne voglio”.
“È troppo poco, per iniziare una storia seria tra noi due. Lo
sai anche tu.”
“Ma come si fa ad amare di più una persona?”.
“Non è a me che lo devi chiedere.” E dentro di sé pensò:
“Io l’ho già fatta la mia parte. Adesso tocca a te capire che
sentimenti nutri veramente per me”.
Benjamin rimase in silenzio.
Grazia raccolse le sue cose dal divano, fermandosi a
guardare i fiori sul tavolo un ultima volta: “L’inverno è ormai
agli sgoccioli” disse infilandosi il cappotto. I fiori le avevano
suggerito l’immagine della bella stagione alle porte. Si stupì
lei stessa dell’augurio spontaneo che gli fece: “Chissà che con
la primavera imminente tu non senta nascere qualcosa di
nuovo, dentro di te. In generale, naturalmente, intendo dire.
Davvero. Ti auguro di tutto cuore di provare un giorno, per
una donna, quello stesso sentimento che hai provato tanto
tempo fa, nel tuo paese. Ecco, vedi, ora sono io ad augurarti
buona fortuna! Senza rancore”. L’ultima cosa che desiderava
era lasciarlo in malo modo, dando libero sfogo da parte sua –
pur senza volerlo del tutto – alle reazioni più disparate ed
incontrollabili. Non voleva mostrare che pendeva dalle sue
labbra. Voleva uscire da quella casa a testa alta, magari con
una stretta di mano; ma Benjamin era rimasto seduto davanti
255
al suo bicchiere di Coca-Cola ancora intatto. Lo sguardo
spento, fisso nel vuoto. Era l’immagine dello sconforto e
dell’apatia.
“Cosa vuoi fare per il progetto del Vaticano?” si ricordò di
domandarle Benjamin. Il tono di voce deluso e indispettito.
“Considerami tolta. Tanto io non sono mai stata
menzionata in quel telegramma” rispose con una punta
d’orgoglio nella voce.
“L’avevi capito?” domandò stupito. Alzò la testa per
guardarla.
“Sì, fin da subito, quella sera a casa di Edoardo. Ma non
volevo farti fare una magra figura. Per quello sono stata al
gioco”.
“Grazie”.
“Grazie a te”.
Chiuse la porta con un tonfo. Benjamin la guardò uscire;
sentì che dentro qualcosa gli faceva male, ma non sapeva
dargli un nome. Che strano destino, pensò, per uno che delle
parole fa il suo mestiere!
In un attimo Grazia si ritrovò nuovamente in mezzo all’aria
fresca e pungente della notte. Era fuori dal condominio, e
nello stesso tempo – considerò con una vena di nostalgia –
fuori dalla vita di Benjamin. E anche fuori dal suo lavoro. Per
un attimo le parve di essere fuori da tutto, fuori dal mondo.
Ma scoprì pure che era in pace con sé stessa. Respirò a pieni
polmoni l’aria salubre della notte, e fu contenta della
sensazione di fresco respiro che provò in quel momento.
Quando alla fine salì in macchina, Grazia si rallegrò al
vedere che anche il proprietario del bar, proprio quello che le
aveva servito il Desperados, stava chiudendo la saracinesca
del locale per tornare a casa. “È proprio ora che torni anch’io a
casa”, pensò. E avviò in fretta il motore.
256
257
MARTEDI’ 18 Marzo
XXIV
Il martedì ebbe inizio con un messaggio a reti unificate del
Presidente del Consiglio – alle nove di mattina – che
annunciava che la crisi di governo era in atto. La nottata non
aveva partorito nessun accordo soddisfacente tra i partiti della
maggioranza, pertanto si sarebbero dovuti rimettere nelle mani
della massima carica dello Stato, il Presidente della
Repubblica, qualora fosse stata approvata la triplice mozione
di sfiducia presentata dai partiti dell’opposizione. La
votazione era prevista per le ore 17.30 di quella giornata. 5Nel
corso della nottata, mentre i partiti di maggioranza non
avevano siglato nessun patto per salvare il salvabile, quelli
dell’opposizione si erano accordati su un’unica, articolata
mozione di sfiducia da presentare alle due Camere del
Parlamento, e c’era la reale possibilità che tale manovra
riuscisse.
Il capo del governo era un uomo alto e dignitoso, sulla
settantina, con un fisico prestante, ancora in forze. A dispetto
dell’età, aveva conservato un aspetto piacente: le tempie
spaziose si distendevano come un campo assolato sul suo viso
di uomo maturo; le attraversava un rivolo profondo, una
specie di scanalatura che poteva sembrare un solco indelicato,
segno dell’avanzare dell’età. Lo sguardo era penetrante, i
capelli brizzolati, il naso signorile ed adunco. Non portava gli
occhiali, anche se quella mattina gli sarebbero serviti per
evitare il contatto diretto sullo schermo televisivo delle sue
pupille troppo dilatate. Anche al più innocuo dei telespettatori
sarebbe venuto il ragionevolissimo sospetto che, forse, il
Presidente non era poi tanto sicuro di quello che diceva. La
calma che dimostrava era solo apparente. Quei suoi occhi
troppo dilatati tradivano un’angoscia segreta.
5
Il capo dello Stato ha il potere di sfiduciare il presidente del consiglio,
quando si verifichi che questi non è più in grado di governare, cioè di
avere una maggioranza. Tutto ciò secondo la nuova costituzione italiana
258
Dagli schermi della TV il Presidente appariva per nulla
invidiabile: nonostante la sofisticata perizia dei truccatori e
l’accortezza del sarto personale che gli aveva fatto indossare
un completo informale per non allarmare gli italiani già
sufficientemente impauriti sul futuro del paese, le telecamere
non mentivano. La consueta espressione dell’uomo capace e
sicuro di sé alla guida del paese già da cinque anni non era
perfetta come sempre; non riusciva a mascherare un velo di
preoccupazione negli occhi marroni, appesantiti dalla nottata
insonne. Quegli occhi che di solito assomigliavano a quelli di
un levriero, appuntiti ed intelligenti, ma quel giorno avevano il
gonfiore smorto di uno spinone.
Proclamò con tono serio, sofferto e grave che in quella
giornata si sarebbero giocate le sorti del paese. E che se la
mozione di sfiducia fosse passata, il Presidente della
Repubblica si sarebbe accollato il tempo necessario per
verificare la possibilità di un governo provvisorio, avviando la
consultazione di prammatica dei partiti presenti nel
Parlamento italiano. Ma per il momento restava da provare la
strada della votazione della triplice mozione, che sarebbe
avvenuta a scrutinio segreto, prima di passare a sondare altri
percorsi più o meno tortuosi (tutti capirono che sottintendeva
anche il peggio del peggio: le elezioni anticipate).
Disse anche che la “Vendicatrice Spietata”, l’apposita
commissione parlamentare che stava indagando sullo scandalo
degli onorevoli appartenenti alle Stelle Spezzate, sarebbe
passata di competenza dal governo al CSM, trasformandosi
così in una commissione extra-parlamentare. Tutto ciò al fine
di rassicurare maggioranza e opposizione dell’assoluta
neutralità della magistratura nello svolgimento delle indagini.
E poiché erano salite a sei le magistrature che indagavano
sulle Stelle Spezzate, il Presidente annunciò che le avrebbe
riunite in una sola, tramite decreto-legge, naturalmente dopo
essersi consultato con il Presidente della Repubblica, con
l’opposizione, e con il CSM.
Infine domandò al Paese che s’impegnasse a mantenere un
clima di pace, imperniato sul rispetto reciproco tra cittadini e
sul senso civico di ognuno fin tanto che – nel caso che la
mozione di sfiducia venisse confermata – il Presidente della
259
Repubblica non avesse sciolto il riserbo di rito sugli eventuali
partiti che sarebbero entrati a far parte della nuova
maggioranza, e sul nome dell’ incaricato di apprestare il
nuovo esecutivo.
La cosa che più gli premeva – disse con tono accorato,
portandosi una mano sul petto – era che il paese rimanesse
calmo, e che ci si trattenesse dal fare speculazioni finanziarie
ora che la nazione era in un momento di estrema debolezza.
Non serviva certo un economista, infatti – continuò sempre
sulla stessa riga, un po’ scherzando ma non troppo – per
spiegare agli italiani che i titoli della borsa stavano oscillando
paurosamente, in concomitanza all’incerto panorama
economico e politico. La necessità più urgente era che il
mercato azionistico italiano non affondasse ancora di più: era
già di per sé sufficientemente precario ed instabile.
Dopodiché salutò il popolo italiano e si congedò. Il
discorso non durò più di dieci minuti. Ma, naturalmente,
appena le telecamere furono spente su Palazzo Chigi, ogni rete
televisiva e ogni testata giornalistica si gettarono a capofitto
nel tentativo di indovinare quali sarebbero stati i nuovi
componenti del governo post-scandalo Stelle Spezzate, dando
già per spacciata la fine dell’attuale governo. E già si
cominciava a chiamare il nuovo esecutivo con il soprannome
scaramantico di “governo giustiziere”. Di fatto, come appariva
chiaro dalle interviste fatte ai passanti per strada da solerti
giornalisti messisi immediatamente ad indagare, gli italiani
non aspettavano altro se non di far giustizia. Se la sarebbero
fatta anche da soli.
260
XXV
Bussarono alla porta.
“Avanti!” rispose il Cardinale.
Kreutz e Wassen entrarono nello studio spazioso, messo
ancor più in risalto dall’arredamento spartano. Si erano ormai
abituati ad avere a che fare con il loro superiore, un irlandese
dai modi burberi e dal carattere forte come una quercia
secolare. All’epoca della nomina a responsabile della
segreteria per gli affari esteri del Vaticano, il Cardinale era il
primate d’Irlanda. Stupendo tutti per l’assoluta mancanza di
spirito di adeguazione al suo nuovo incarico, arrivò a Roma
esternando un muso lungo ed imbronciato: chiaramente non
aveva gradito l’avanzamento di ruolo. Tuttavia si mise al
lavoro manifestando il carattere di fondo tipico della sua
gente: contadini testardi, abituati ad avere a che fare con una
terra dura ed ostile. A tutti quelli che gli domandavano se non
volesse far ritorno in Irlanda, lui rispondeva che quello era il
suo nuovo posto, da cui nulla l’avrebbe distolto. Se a Dio
andava bene così, andava bene pure a lui. Non si era portato
molto dal Vescovado di Dublino, cosicché all’inizio l’ufficio
pareva ai suoi due sottosegretari alquanto sobrio, per non dire
povero. Le uniche due cose che possedeva erano la foto dei
genitori che teneva in una cornice d’argento sulla scrivania, e
un dipinto della brughiera irlandese appeso alle spalle.
L’aveva appeso appositamente dietro le spalle perché – come
diceva a tutti quelli che gli chiedevano spiegazione – a forza
di guardarlo avrebbe cominciato a provare troppa nostalgia
per la sua terra natia, e quest’ultima avrebbe potuto
compromettere il suo onesto lavoro.
In breve, la sua faccia spigolosa ed ossuta cominciò a
circolare per giornali e reti televisive, ricevendo elogi da chi lo
amava e spregi da chi lo trovava sgradevolmente antipatico.
Ma lui continuava imperterrito a svolgere le sue funzioni e a
portare avanti il suo ministero. Era uno dei capi della
Diplomazia Vaticana, rappresentava il Ministro degli Esteri
del Vaticano.
Era giunto a Roma come “rimpiazzo temporaneo” soleva
scherzare amabilmente, soltanto cioè finché non avessero
261
trovato uno più adatto di lui. Invece era rimasto lì, suo
malgrado. Non di rado lo si sentiva dire che quell’incarico era
troppo gravoso per uno come lui avvezzo all’austerità, a
trattare rudemente le persone, a vivere in semplicità e
parsimonia. Gli mancava il lavoro pastorale di cui andava
orgoglioso quando stava a Dublino, e che per lui era il fiore
all’occhiello della sua diocesi; gli mancava la verde campagna
irlandese, con le bestie al pascolo ed il cielo tempestoso; gli
mancava la preghiera mattutina e serale quieta e silenziosa nel
suo Vescovado. Ora così tanto lavoro diplomatico era per lui
estenuante. Ad ogni modo cercava di lamentarsi il meno
possibile.
Quella mattina il Cardinale stava scrivendo una lettera:
chino sui fogli, la penna vergava la pagina a fatica – capitava
sovente di sentirlo lamentarsi che le cose scritte non gli
riuscivano bene –, infatti accanto a lui, sulla scrivania, c’erano
diversi fogli appallottolati ed altri erano stati gettati alla
rinfusa nel cestino.
Portava gli occhiali, ma solo per la sua presbiopia da
vecchiaia: aveva già settant’anni sulle spalle, e li dimostrava
tutti. Era ingobbito dal peso degli anni e delle fatiche. Aveva
la fronte tutta coperta di rughe. In mezzo al viso appuntito,
attraversato da pochi capelli bianchissimi che un tempo
dovevano essere biondi, due occhietti vispi e azzurri.
Nell’insieme la testa era piccola, non tanto bella, scolpita
come un oggetto di seconda mano o un modello che serva solo
da prova, per cui non gli si dà tanta cura al momento di rifinire
i particolari. Così altrettanto quel viso sembrava portare con sé
qualcosa d’incompiuto, di male aggraziato, di rustico e
sbrigativo. La testa piccola poggiava su una figura alta e
slanciata: si sarebbe detto uno stecchino d’uomo su cui non
c’era niente di buono da scommettere.
Ad un carattere così schietto e rude, quasi da montanaro,
corrispondeva una stringatezza altrettanto singolare delle
abitudini. Il suo carattere era la diretta conseguenza di quella
parvenza: un animo di gigante imprigionato in un carattere
legnoso, ispido, rude e poco propenso alla chiacchiera. Un
uomo di poche parole e di gesti asciutti, ma non per questo
meno sentiti.
262
“Ecco la lista che ci ha fornito il professor Righetti” esordì
Wassen, che si era fatto avanti dalla porta rimasta aperta.
Il Cardinale alzò gli occhi azzurri quasi trasparenti
sull’aiutante, per poi rimetterli subito dopo sulla lettera che
stava scrivendo.
“Me la porti qui” pronunciò accigliato.
Wassen si avvicinò, mentre Kreutz rimase in piedi, fermo
sulla soglia, la porta sempre socchiusa. Wassen fece scivolare
la lista redatta personalmente dalla mano di Edoardo sulla
scrivania del Cardinale.
Il Cardinale non la degnò minimamente di uno sguardo.
Wassen rimase in piedi davanti alla scrivania per dieci minuti,
aspettando che il Cardinale desse una occhiata fugace alla lista
e impartisse loro nuovi ordini. Era abituato a questi tempi
morti, e stava in piedi a gambe leggermente allargate per
sentirsi meglio piantato sul pavimento, le braccia conserte sul
petto o distese lungo i fianchi. Anche Kreutz aveva assunto la
medesima postura, e aspettava con un’ espressione
indecifrabile sul volto.
Alla fine il Cardinale si decise a mettere mano alla lista:
l’afferrò con la mano sottile e ossuta e la portò sotto gli
occhiali. La studiò attentamente per altri dieci minuti, in
silenzio, socchiudendo gli occhi ogni tanto come se stesse
meditando o pregando. I due sottosegretari lo lasciarono fare
senza interromperlo, conservando sempre la medesima postura
del corpo, accompagnata da una faccia neutra ed impassibile.
“La lista non è corretta” sbottò irritato il Cardinale alla
fine. “Ma che diavolo è successo in questo gruppo?”.
I due sottosegretari lo scrutarono palesemente sconcertati.
Non avevano previsto una simile eventualità. Wassen prese la
parola:
“Eminenza, cosa intende dire? Lo sa anche lei che non
abbiamo mai potuto prendere visione della lista che lei ha
redatto personalmente. I telegrammi non sono partiti da noi.
Per cui non mi so spiegare che cosa sia successo nel
frattempo”. Kreutz si limitò a chiudere la porta e ad allinearsi
al suo collega. Ora parevano due scolaretti in punizione
davanti al maestro.
263
“Oh, è molto semplice, Sigmund. I nomi che il professor
Righetti ha compilato non sono quelli che avevo scritto io. O
meglio, lo sono solo in parte. Due sono diversi”.
“Cosa può significare, Eminenza?”
“Secondo te cosa significa?” lo rimbrottò il Cardinale.
“Ecco… che due persone che si sono presentate dal
professor Righetti domenica sera non erano quelle che lei ha
scelto. E’ così?”
“Precisamente. Vedo che non sei ancora una testa di rapa,
Sigmund. E tu cosa dici, Frederich?”
“Mi chiedo se il professor Righetti abbia subodorato
qualcosa, cioè che due elementi del gruppo erano fasulli… che
se ne sia accorto?” espose pensoso Kreutz, più che altro con
l’intenzione di venire in soccorso del collega.
“In effetti il professor Righetti, mentre ci congedava
durante l’ultima visita, ci ha detto che troveremo delle
sorprese: che volesse intendere proprio questo? E anche fosse,
come faceva a saperlo?” si affrettò a domandare Wassen, che
non aveva dimenticato quella strana annotazione di Edoardo.
“Perché lui è intelligente, molto intelligente, miei cari
ragazzi. Deve avere intuito da solo che qualcosa nel gruppo,
così come se l’è visto piombare a casa sua, non funzionava
bene… o forse ha capito qualcos’altro. Chissà. Comunque,
bisogna risolvere questa faccenda” avvertì imbronciato il
Cardinale.
“Chi sono le persone in più?” interrogarono in coro gli altri
due.
“Le due donne. Io non le avevo inserite”.
“La giornalista e l’infermiera?” domandarono come un sol
eco, stupiti.
“Proprio loro. Io avevo suggerito una coppia sposata al loro
posto, due ottimi esperti di papiri. Non capisco che fine ha
fatto il telegramma che doveva raggiungerli… sarà andato
perso… bah, chissà”.
“O loro non hanno voluto saperne…” espose Wassen.
“O l’hanno cestinato, pensando che fosse uno scherzo, o un
errore…” buttò lì Kreutz.
“O voi siete due zucconi… non capite che c’è stato un
contrattempo? Sicuramente è accaduto qualcosa del genere,
264
perché non è possibile che non abbiano nemmeno risposto al
telegramma attraverso una lettera con cui respingere – se non
altro – la proposta che abbiamo fatto loro. Non si resta
indifferenti ad un telegramma simile. Anche se non l’abbiamo
fatto spedire noi, so benissimo chi l’ha fatto, e vi posso
assicurare che una qualsiasi risposta era scontato attendersela.
Se quella coppia non l’ha fatto, è perché è successo qualcosa”.
“Allora, Eminenza, che si può fare?”
Il Cardinale abbassò gli occhi sulla lista e rimase in
silenzio. Con le dita ossute tamburellava sul foglio che stava
vergando a mano prima che i suoi due sottosegretari
entrassero nello studio. Dopo alcuni minuti di riflessione,
annunciò risoluto:
“Direi che se queste due donne sono finite nella lista, è un
segno preciso ed inconfutabile della Divina Provvidenza, e
dunque noi dobbiamo lasciarcele. Vuolsi così colà dove si
puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”6 recitò, citando
Dante. “Ora: spedite a tutti i nominativi redatti dal professor
Righetti il telegramma per convocarli qui, domani. Lo so che
c’è solo un giorno di preavviso, ma non si può fare altrimenti.
Il tempo scorre implacabile e non dobbiamo lasciarcelo
sfuggire. Domani è festa nazionale. Tutti sono a casa dal
lavoro, per la festività di San Giuseppe. Mi auguro che non si
siano presi precedenti impegni e che possano essere ricevuti
tutti qui, in udienza da me. Io esporrò loro l’intero progetto
che li riguarda da vicino, così che possano conoscerlo e
decidere di prendervi parte, una volta per tutte.”
“Benissimo, allora procediamo” disse Wassen.
“Un attimo” interruppe Kreutz. Le teste di Wassen e del
Cardinale si girarono di scatto su di lui. “Mi ricordo proprio
ora che il professor Righetti ha accennato che la signorina
Tommasoni non avrebbe intenzione di prendere parte al
progetto. Cosa facciamo dunque?”
Il Cardinale si accigliò. “Ah, davvero? Bravo, Sigmund.
Meno male che te ne sei ricordato”. E poi rivolto a Wassen:
“Tu stai più attento, la prossima volta! Non devi lasciarti
sfuggire una cosa importante come questa! L’intero lavoro che
6
Inferno III, 95-96
265
aspetta il gruppo del professor Righetti potrebbe venirne
danneggiato. Questa donna potrebbe giocare un ruolo
importante nell’intera vicenda, un ruolo che va al di là delle
nostre capacità previsionali e delle nostre aspettative. E’
necessario che vi prenda parte!”
“Ma come fare? Lei non ne vuole sapere!”
“Avete capito per quale motivo rifiuterebbe?” li interrogò il
Cardinale.
“Beh, lei ha detto che era troppo indaffarata con il suo
giornale, che non poteva muoversi dalla redazione di Milano;
l’altroieri era ancora la direttrice.” rispose Kreutz. “Certo, ora
che è stata sollevata dall’incarico forse potrebbe cambiare
idea… mi dispiace davvero tanto per lei, chissà come si
sentirà ora che l’hanno messa completamente da parte”
aggiunse pensoso.
“Questo mondo è pieno di falsità e di menzogne, dovreste
già saperlo. Nostro Signore l’hanno messo in croce per aver
detto la Verità!” esclamò stizzito il Cardinale. “La signorina
Tommasoni sperava nell’integrità professionale e morale del
Consiglio di Amministrazione del suo giornale. E magari lei
aveva anche le carte in regola per essere una brava giornalista.
Ma il mondo, con le sue regole per la sopravvivenza dei più
forti, mette il bastone tra le ruote alle persone semplici ed
oneste. Anche lei ne ha fatto le spese, purtroppo” finì di dire il
Cardinale con amarezza.
“Ma Lei crede che forse, ora, accetterebbe? Insomma, visto
che non ha più quella responsabilità così gravosa sulle sue
spalle”.
“Può darsi di sì, può darsi di no. Capire cosa si cela dietro
la singola scelta di una persona… magari potessimo! Invece è
un tentativo alquanto arduo. Troppe volte il mio acume ha
subito degli smacchi. Mi sono arreso all’evidenza: in
settant’anni di vita non sono ancora riuscito a capire secondo
quali parametri l’uomo faccia uso della sua libertà. Comunque
ci penserò io. Pregherò e troverò la soluzione giusta, e poi vi
darò istruzioni in merito”.
“E poi c’è anche un altra faccenda importante” si
rammentò sempre Kreutz. “Il professor Righetti ha dimostrato
266
insofferenza per il suo collega Fischer. Non voleva nemmeno
lavorare con lui, all’inizio. E’ stata sua moglie a convincerlo”.
Il Cardinale questa volta sospirò profondamente. “Sì, me lo
aspettavo. Fischer è quello che è: meravigliosamente
indisponente. Per non parlare di quello che ha fatto a
Righetti… ma nessuno comunque mi può levare dalla testa il
pensiero che per il gruppo lui costituisca una vera e propria
presenza indispensabile. Capiranno più avanti in che modo”.
Pausa. Poi riprese: “Tuttavia lo devo ammettere: Fischer è un
dono di Dio, ed insieme anche una croce, è luce e tenebra
insieme. Mi auguro che il gruppo non si spacchi a causa sua”.
A pronunciare quelle ultime parole si fece serio. Poi abbassò
la testa, come per concentrarsi a pensare.
I due sottosegretari rimasero in attesa di venire congedati.
Ma il Cardinale aveva già abbassato la testa sul foglio che già
da prima aveva lasciato in sospeso. I due sottosegretari allora
uscirono dall’ufficio senza far rumore e senza aggiungere
altro.
267
XXVI
Grazia stava innaffiando le viole sul terrazzo. Il quotidiano
di quella mattina (il suo ex-giornale ormai) era gettato in malo
modo su una poltrona di vimini, sull’altra erano accantonate
alla rinfusa vecchie cassette di legno da spaccare e buttare via,
insieme ad una pianta morta durante l’inverno. Per terra la
bacinella con il bucato da stendere.
Sul tavolo rotondo di vimini che faceva pendant con le
sedie, le tracce di un tentativo abortito di lettera, accanto a tre
tazzine di caffè, ad un pacco di biscotti integrali e una
coppetta di frutta secca, e all’immancabile pacchetto di
sigarette, questa volta quasi vuoto.
Grazia appoggiò per terra l’annaffiatoio e tornò al suo
tavolo da lavoro. Da quasi una settimana aveva trascurato il
piccolo giardino personale che aveva fatto crescere con
orgoglio sul terrazzo e per il quale serbava grande cura e
dedizione. Quelle piante si erano rivelate per lei una continua
miniera di nuove scoperte. Si era resa conto di possedere il
pollice verde. Senza fatica, infatti, aveva accumulato sul suo
balcone – protetto dai muri spioventi del tetto del condominio
– una discreta quantità di piante, sia da interno sia officinali.
Era di queste, in particolar modo, che andava fiera. Aveva
imparato a prepararsi da sola decotti e tisane per i malesseri di
stagione, e ne ricavava sempre un notevole giovamento.
Quella mattina era già vestita di tutto punto. Si sentiva
stranamente corroborata, sebbene la notte non avesse chiuso
occhio. Aveva spinto sedie e tavolo del terrazzo quasi in
prossimità del cornicione, sotto la luce del sole, e mentre
annaffiava le sua piante godeva beata di quel tepore: la palla
infuocata le accarezzava la pelle come se i suoi raggi fossero
dita delicate e rassicuranti, e stava lì ad assaporare quel
morbido e prolungato abbraccio.
Si guardò intorno: le ultime gocce di brina risplendevano
sulle foglie illuminate dal sole, i colori delle piante
sembravano più vivi e i raggi dorati facevano brillare gli
oggetti su cui si posavano come cristalli d’ambra luccicanti.
L’aria era pulita, frizzante. Il cielo perfettamente terso. Si
268
respirava nell’aria una fresca fragranza di agrumi, nonostante
fosse solo Marzo.
Pensò che era strano che si sentisse così sveglia.
Probabilmente era tutta la tensione nervosa accumulata in quei
giorni a procurarle quell’effetto – ipotizzò volendo trovare un
motivo a cui addossare il motivo di quella frenesia in corpo –
perché non era normale che se ne stesse lì, quasi tranquilla e
piena di energie, a sbrigare faccende quando soltanto il giorno
prima aveva perso in un sol colpo il lavoro e l’uomo su cui
aveva riposto i suoi sogni.
Non riusciva ancora a provare rabbia verso Benjamin: la
ferita era troppo fresca. Si erano lasciati troppo
“cortesemente” la sera prima, e ciò ritardava l’eventuale
collera nei suoi confronti, perché non era possibile per una
stessa persona – cioè per Grazia – dire addio serenamente ad
un uomo e abbandonare subito dopo tanta educata cortesia per
inveire come un cinghiale feroce contro di lui.
Già: perché non si era arrabbiata subito con lui, allora?
Perché non gli aveva mollato in faccia un bel ceffone? Perché
non gli aveva urlato che si era comportato male, che tutte
quelle meravigliose chiacchierate fatte insieme l’avevano
illusa che fra loro potesse esserci del tenero, e che lui volesse
fare seriamente con lei? Avrebbe risparmiato il tempo e la
fatica occorsi per corrergli dietro.
Sì: doveva confessare la verità a sé stessa, la verità che le
faceva male e che dunque non voleva ammettere: che cioè,
anche dopo essere stata scaricata da Benjamin, – almeno così
le sembrava –, non era capace di fare una sfuriata davanti
all’uomo che amava. Così era lì che vegetava, come le sue
piante, aspettando che, dal nulla, in maniera imprecisata,
sorgesse a riscattarla il momento in cui si sarebbe scrollata di
dosso quella cappa anormale di buon umore, per mettersi
finalmente a piangere, gridare, battere pugni e imprecare.
Eppure sentiva dentro di sé che il momento liberatorio era
vicino: sapeva perfettamente che quello strano stato d’animo
inspiegabilmente arzillo le sarebbe durato ancora per poco.
Forse era appunto per questo che aveva cominciato a staccare
velocemente delle bacche di calendula: stava preparandosi una
tisana rilassante, voleva giocare d’anticipo sul momento in cui
269
sarebbe stata scossa dal brusco cambiamento d’umore e si
sarebbe lasciata andare a violente sferzate di collera contro il
suo destino cieco e crudele. In cucina si era già sistemata
l’ultimo libro della sua scrittrice preferita, comprato a Natale
ma che per impegni di lavoro non era ancora riuscita
nemmeno ad aprire. Un bel plaid caldo ed avvolgente era
pronto sul divano, nel caso volesse sprofondare nella lettura
adagiata su morbidi cuscini. Leggere, per non pensare a
nient’altro. Evadere, da tutto e da tutti.
Qualche segnale dell’imminente cambiamento d’umore in
effetti c’era già stato: quella notte non aveva chiuso occhio;
appena levatasi in piedi aveva bevuto solo caffè e fumato
quasi un intero pacchetto di sigarette, benché non fossero
ancora le nove di mattina. E soprattutto non riusciva a
scrivere. La verità era che stava scrivendo a Benjamin per
scrivere a sé stessa. Iniziava le frasi, ma non riusciva a finirle.
E il non poter padroneggiare come voleva il suo migliore
mezzo espressivo la irritava.
Rilesse quanto aveva scritto finora:
Caro Benjamin,
vorrei accomiatarmi definitivamente dalla tua vita
lasciandoti un ricordo di me. Lo so che tutto ciò può sembrare
sciocco o vanitoso, ma è più forte di me. Abbi pazienza. E’ che
hai lasciato un’impronta nella mia anima, sicuramente tuo
malgrado, e di questo te ne sono grata. Perciò voglio
dedicarti il mio ultimo articolo da direttrice del nostro exgiornale. Ormai entrambi siamo disoccupati. O meglio, io
sono disoccupata. Quanto a te ho visto il tuo nuovo giornale
on-line: naturalmente ti auguro con tutto il cuore che le cose
procedano bene e che l’idea funzioni. Ti sei esposto davvero
tanto: ma è inutile che te lo dica. Lo sai già tu per primo.
Quest’articolo che ti accludo non l’hanno pubblicato,
dunque si può dire – a ragione – che è un inedito. Se vuoi,
puoi pubblicarlo, te ne cedo i diritti. Praticamente te lo
regalo. Spero di potermi considerare sempre una tua amica,
non solo una tua collega.
Grazia.
La lettera le sembrò buona: né particolarmente mielosa, né
fredda e distaccata. Prese una busta, vi infilò dentro lettera ed
270
articolo e vergò sul frontespizio il suo recapito. Poi sigillò i
lembi, la girò e scrisse sul retro l’indirizzo di Benjamin,
cercando di scrivere la busta con una calligrafia soddisfacente.
Non voleva spedirgli una mail perché in una delle prime
confidenze che si erano scambiati si erano detti che entrambi
amavano scrivere le bozze a mano. Ora voleva
dimostrarglielo.
In quel momento squillò il telefono. Grazia sobbalzò: il
pensiero in un sol attimo corse ad un'unica persona. Si
precipitò dentro ad alzare la cornetta:
“Pronto?” la voce tremante.
“Buon giorno. Qui parla il Cardinale Mac Collough, sono il
responsabile dell’Ufficio Affari Esteri del Vaticano. Penso che
il mio nome non le risulti sconosciuto, dico bene?”. Poiché
Grazia gli rispose affermativamente, continuò: “Intanto mi
scuso se la disturbo così di buon mattino, non sono ancora le
nove. Si starà domandando il motivo di questa telefonata:
vengo subito al punto. Ecco, vede: mi risulta che lei ha preso
parte alla riunione per coordinare un lavoro di ricerca
promosso dal mio dicastero a casa del professor Righetti la
scorsa domenica sera. Naturalmente questa mia telefonata non
vuole allarmarla in alcun modo, dottoressa. E’ soltanto,
chiamiamola così, una telefonata “prudenziale”, che vuole far
restare la faccenda entro termini assolutamente non ufficiali…
mi sto accertando di persona di come si siano svolte le cose
quella sera. ”
Grazia tagliò corto: “Sì, è vero. Vi ho partecipato” rispose
con voce glaciale. Non capiva perché un rappresentante della
Curia Pontificia l’avesse chiamata. Per questo era sospettosa.
“Vorrei che si sentisse a suo agio, dottoressa. Non le voglio
fare alcuna rimostranza. Se si sta domandando perché io in
persona le sto telefonando, ecco, vede…” proseguì Mac
Collough. Ma Grazia lo interruppe cogliendo subito la palla al
balzo: “Esatto, mi stavo proprio domandando il motivo di
questa telefonata”.
Mac Collough non si scompose. “Allora, dove eravamo
rimasti? Ah sì, beh, riprendiamo il filo dei discorsi: che lei
abbia preso parte alla riunione va benissimo, dottoressa. In
271
realtà ne sono molto soddisfatto, anche se la sua presenza non
era prevista. Ma tanto lei lo sa già, non è vero?”
“Sì, lo so già. Me l’ero immaginata”.
“Posso sapere chi l’ha invitata?”
“Sono stata invitata da Benjamin Tolosa. Mi aveva detto
che quella sera potevamo concludere un’importante intervista
di lavoro, ad un certo Edoardo Righetti, un suo conoscente; e
che poi, forse, c’era anche dell’altro lavoro da fare. Io pensavo
si trattasse di raccogliere informazioni e materiale vario per il
giornale, lui invece aveva in mente ben altro: il telegramma,
intendo… Comunque, a sentir lui, questo Righetti avrebbe
dovuto essere un intellettuale romano molto addentro la
politica, proprio quello che ci serviva in quel momento per il
giornale”. Grazia si sorprese a sbottonarsi così tanto.
Mac Collough le domandò: “Continui a raccontarmi della
faccenda del telegramma, per favore. E’ qui che c’è stato
l’equivoco, vero? Cioè lei ha creduto che il sig. Tolosa le
avesse raccontato la verità”.
Grazia si stupì ancora che il Cardinale le leggesse fin
dentro il pensiero. In effetti stava pensando proprio alla bugia
di Benjamin del telegramma inviato a nome di entrambi. Di
nuovo, suo malgrado, si ritrovò a rivelargli: “In realtà è stato il
mio collega ad aver ricevuto il telegramma. Lui mentì dicendo
che l’aveva ricevuto a nome di entrambi. Io, lì per lì, gli
credetti, ma poi, quando mi resi conto che quello di cui si
discuteva quella sera da Righetti non centrava di una virgola
col nostro giornale, mi spostai in un'altra stanza per collegarmi
alla redazione. Sentii tuttavia che loro continuavano a
discutere sulla Lettera ritrovata, ma le parole mi giungevano
solo a tratti. Solo più tardi ho scoperto l’amara verità: che cioè
Benjamin mi aveva usata per recarsi a Roma da quel
Righetti”. Era la prima volta che le usciva di bocca quel
ragionamento, e a malincuore si accorse che le cose erano
andate proprio così. In quel preciso istante sentì esploderle
dentro tutta la rabbia repressa per Benjamin. Ora sapeva che
lui l’aveva usata! Cominciò a tremare dalla rabbia, e senza
accorgersene trovò nel Cardinale un alleato per sapere la
verità, e per sputare in faccia a Benjamin e a tutta quella
272
stupida equipe di ricerca. Solo si tratteneva nell’ esprimere
tutto il suo disgusto per quel lavoro davanti al Cardinale.
“Quindi il signor Tolosa l’ha invitata a titolo personale, non
a nome del Vaticano?” domandò Mac Collough.
“Esatto. Il telegramma l’aveva ricevuto solo lui, e mi ha
fatto credere che fosse anche per me. Mi dispiace per questo
equivoco, comunque penso di aver fatto una buona cosa a
levarmi di mezzo il più presto possibile. Praticamente subito:
fin dall’inizio ho detto a tutti i convenuti che non volevo in
alcun modo prendere parte al progetto di ricerca. Non
m’interessa”. E poi si stupì nuovamente di quanto le uscì di
bocca, sebbene razionalmente sapesse di essere
arrabbiatissima per l’intera faccenda, di avercela a morte per
lo sgarbo fattole ad arte da Benjamin: “Anche se adesso, lei
certo lo saprà già, sono praticamente disoccupata…”.
Aveva l’impressione che una parte di sé, assolutamente
incontrollabile, stesse dicendo al Cardinale che adesso era
libera per accettare un nuovo incarico di lavoro.
“Mi rincresce, sì. Ho letto tutta la storia sui giornali e sono
mortificato per lei. Mi aspettavo che la riconfermassero. Per la
verità ho letto anche gli articoli sul nuovo quotidiano on-line
del sig. Tolosa. Veramente interessanti:… uhm, originali,
direi”.
Grazia sussultò. Provò un impeto di antipatia per il
Cardinale.
“Ma veniamo a noi: mi creda, per noi non c’è nessuna
difficoltà se ha preso parte alla riunione degli interessati. Il
mio dicastero, che sponsorizza il lavoro dell’equipe, non ha
mosso obiezione. Anzi, le dirò di più: sono rimasto
profondamente colpito dalla piega che hanno assunto gli
eventi: una piega per così dire, inaspettata… anche se non c’è
nulla di inaspettato per un uomo di fede. Giusto?”.
Grazia fu colpita dal commento del Cardinale. Per non
parlare del fatto, poi, che stava intrattenendosi al telefono
nientemeno che con il capo della Diplomazia Estera Vaticana.
Provava un misto di timore, imbarazzo, piacere nonché nello
stesso tempo risentimento: perché lo stupore per quell’insolita
telefonata si accompagnava all’idea – sempre più consistente
col passare dei minuti – che dal Vaticano la volessero in
273
qualche modo raggirare. Ciò che non ci si sa spiegare mette
paura. Tale era il sentimento che stava provando Grazia in
quel preciso momento.
“Cosa vuol dire?”. Non capiva cosa c’era di inaspettato.
Il Cardinale percepì la diffidenza nel tono di voce della
donna, e provò a usare ancora più tatto:
“Non voglio metterle paura, signorina”. Decise che era
meglio abbandonare il termine dottoressa, che rendeva la
donna distante e diffidente. “Mi sono messo personalmente in
contatto con lei perché ho valutato attentamente la situazione,
e sono giunto alla conclusione, dopo quanto è successo, che
sarebbe meglio che anche lei facesse parte del gruppo di
ricerca. E’ un invito ufficiale. Che ne dice: se la sente di
accettare?”.
Finalmente Grazia capì: volevano proprio incastrarla di
nuovo in quell’odioso gruppo di ricerca.
“Assolutamente no” rispose convinta. “E non cerchi di
farmi cambiare idea, Eminenza”. Ora che aveva capito cosa
voleva il Cardinale, non aveva alcun problema a chiamarlo
secondo la prassi usuale. Anzi, stava cominciando a divertirsi.
Questa volta si stupì il Cardinale, ma si riprese
immediatamente e tornò a affondare un altro colpo con
incalzante maestria:
“Pensavo che la sua presenza nel gruppo di ricerca fosse un
elemento prezioso per tutti”.
“Io penso il contrario” rispose stizzita. Poi le venne in
mente un sospetto: “Non è che mi volete dei vostri perché
ormai so già parecchie cose su questa presunta Lettera di San
Paolo?”
Sentì il Cardinale che rideva, dall’altra parte della cornetta.
Nessuno dei due si dava per vinto.
“No, signorina. Non è questo il motivo. Vuole sapere la
verità?”
“Certo, ammesso che possa dirmela”.
“E’ la pura verità, glielo garantisco”.
“Bene, allora la voglio sentire”.
“Le cose stanno così: che lei mi creda o no, io vedo le cose
da un punto di vista particolare, del tutto personale. Sono un
uomo di Chiesa, perciò vedo i fatti che accadono secondo una
274
precisa logica: cioè quella divina. Certo, non posso pretendere
che anche gli altri vedano le cose allo stesso modo in cui le
vedo io. Ma non importa. Ora, è vero che la lista in questione
inizialmente non prevedeva il suo nome, ma poi è successo
dell’altro: una specie di errore; il signor Tolosa l’ha invitata.
Mi dica lei: è stato uno sbaglio, una perdita di tempo come
sostiene lei, od un’interessante novità?”. Ma la domanda era
retorica, perché proseguì senza dare alla giornalista il tempo di
rispondere. “E’ vero: il suo collega ha commesso una
scorrettezza nei suoi riguardi, assumendosi una libertà
indebita. Ma io credo che lui abbia agito secondo retta
coscienza – badi che questo è molto importante, è il nocciolo
di quanto le sto dicendo – pertanto, mosso da quello che io,
uomo di Chiesa, chiamo lo Spirito Santo. Vedendo tutto
questo, sono giunto alla conclusione che il mio capo voglia
anche lei nell’equipe”.
“Il suo capo?” lo interrogò Grazia stupita.
“E chi altri, sennò?”
Grazia soppesava parola per parola quanto le aveva
spiegato il Cardinale. Poi si decise: “ La ringrazio. E’ tutto
perfettamente chiaro. Sta di fatto che io continuo a vedere le
cose a modo mio, e non m’interessa affatto la sua offerta di
lavoro”.
“La mia è più di un’offerta di lavoro: è una visione di vita”.
“Qualunque cosa sia non la voglio. Vuole che le mandi una
rinuncia per iscritto?”
“No, no, non ce n’è bisogno. Non è questo che intendevo.
A quanto pare lei è irremovibile”.
“Praticamente sì”.
Entrambi avevano la sensazione che il duello fra loro fosse
all’epilogo: ora si sarebbe visto chi sarebbe stato il vincitore e
chi il perdente.
Il Cardinale cambiò schema tattico:
“Allora un lavoro non lo vuole. E’ così? Che altro vorrebbe
cercare? Vuole continuare a fare la giornalista? Dopo quanto è
accaduto credo che non sia tanto difficile supporre che
nessuno più la prenderebbe. Scusi se sono un tantino duro, ma
a questo punto diciamoci le cose in faccia, ne conviene?”.
275
“Non aspetto altro. Per me va benissimo. Comunque è
ovvio: voglio restare nel mio campo, a livello lavorativo”
commentò scontrosa.
“Ma chi le darebbe nuovamente fiducia? Chi le darebbe un
nuovo incarico? Ormai è sulla bocca di tutti che lei era una
simpatizzante del suo precedente ex-direttore. E’ più facile
credere questo per la gente, che credere alle sue parole di
discolpa”.
“E lei a chi crede? A quello che riportano i giornali, o a
me? E mi scusi tanto, ma come può farsi un’idea di come sono
andate veramente le cose, se non ha nemmeno mai sentito la
mia personale versione dei fatti…”
“Il quotidiano del Vaticano è l’unico che non le ha sputato
in faccia. Anzi, riporta una fedelissima presentazione del suo
profilo di giornalista e della sua schietta professionalità. Mi
basta aver letto quest’articolo. E poi, comunque, ho le mie
attendibili fonti d’informazione… ho svolto anch’io le mie
ricerche per ottenere referenze su di lei…” lasciò la frase in
sospeso, ma era chiarissimo a cosa si riferiva. A Grazia non
sfuggì la sottile precisazione.
“La ringrazio della fiducia accordatami. Mi fa davvero
piacere. Comunque non cambio la mia posizione. Non
m’interessa affatto la sua proposta di lavoro”.
“Ma lo sa anche lei che è un’utopia per ora restare nel
giornalismo, con l’aria che tira! Io le offro l’unico modo per
fare quello che lei vuole: cioè fare giornalismo serio, senza
scendere a compromessi con le testate nazionali. A lei serve
un lavoro vero, come quello che io le sto offrendo, che la
riabiliti agli occhi degli italiani sfiduciati da come stanno
andando le cose in Italia, impauriti dal clima di ferocia che si
sta diffondendo tra la gente. Mi dispiace dover tirare fuori
queste cose nella nostra conversazione, ma lo sa anche lei che,
per quanto lei si ritenga vittima innocente di un enorme
angheria, tantissimi italiani stanno credendo più a quanto
riportano le chiacchiere di salotto, piuttosto che ascoltare le
giuste parole di difesa di un innocente. Occupandosi
dell’ufficio stampa della scoperta della Lettera ai Laodicesi,
lei potrebbe dimostrare agli italiani quanto è brava ed onesta
nel suo lavoro, e che quanto hanno riportato i giornali sul suo
276
conto sono solo infami calunnie. Ascolti: io e lei siamo simili.
Diciamo tutti e due la verità. E lei questo l’ha capito, non è
vero?”.
Grazia sentì che era vero. Qualcosa dentro di lei cominciò a
sgelarsi. Gli rispose:
“Sì, lei mi sembra sincero. Ci tengo a dirle, però, che io
non sono credente. Ammettiamo per assurdo, s’intende” ci
tenne a precisare “che io vi prenda parte, beh, come farei a
lavorare in un gruppo che si occupa di una Lettera Apostolica
così impregnata di fede e di valori cristiani? E come farei a
sopportare della gente così diversa da me? Io non vado in
Chiesa come loro, almeno mi pare che loro siano praticanti,
così mi è sembrato”.
“Non importa affatto. Lei rimane quello che è, e vedrà che
non troverà nessun problema di convivenza. Anche gli altri
membri dell’equipe non sono certo tutti santi!”.
“Io non parteciperei nemmeno per tutto l’oro del mondo ad
alcuna messa o altro del genere… quelle cose lì, insomma; lei
mi intende, vero?”.
“Limpido e cristallino”.
Grazia sospirò. Mac Collough era di una schiettezza
disarmante. Era come infliggersi una punizione. In più, se non
stava attenta, rischiava per finire di accettare pur di levarsi di
torno quella telefonata, pur di scrollarsi di dosso quella
presenza così insistente ed inquietante del Cardinale. Anche se
lo sentiva solo per telefono, cominciava a percepirne l’enorme
tempra interiore. Aggiunse con aria vagamente colpevole:
“Ma io non posso lavorare con voi… non ora”.
“Mia cara ragazza” Mac Collough passò all’atteggiamento
paterno, accortosi favorevolmente dei primi segnali di
cedimento: “Io ne ho di anni sulle spalle. Mi dia retta: questo
lavoro è stato preparato appositamente per lei”.
Grazia non si arrese nemmeno questa volta. Voleva finirla:
“Tanto vale che glielo dica, allora: è Benjamin che non posso
vedere. Ho intenzione di non avere più alcunché da spartire
con lui”. Dall’altro lato del telefono il Cardinale rimase in
silenzio, così Grazia proseguì, titubante: “C’è stata una specie
di storia, fra noi due, che però ora è finita… se così si può
dire… sì, diciamo che è stato un flirt che si è spento ancora
277
prima di poter sbocciare” disse per dare l’idea della
situazione. Si rendeva conto di stare dicendo la verità al
Cardinale. Proseguì: “Ed ora non me la sento affatto di
vederlo. Anzi, se potessi lo cancellerei dalla mia vita”.
Il Cardinale continuava a rimanere in silenzio.
“Eminenza, è lì?”
“Sì, certo”.
“Allora, ha capito?”
“Certo che ho capito”.
“Quindi vede anche lei che io non posso lavorare con
loro…cioè con Benjamin” si affrettò a correggere. Ogni volta
che pronunciava il suo nome, lo stomaco le si contorceva.
“Oh, io non mi preoccuperei: a tutto c’è una soluzione”.
“Cosa vuol dire?”
“Che le propongo di fare a modo mio… non si dimentichi
che io sono un grezzo irlandese, con una discreta pratica delle
cose della vita… Ascolti: tra un tipo di strada ed il suo
opposto, in realtà c’è sempre una terza via”.
“Quale via intende?”
“La via che ha stabilito il Signore… basta scorgerla”.
“Ho smesso di andare in chiesa da un bel po’ di tempo,
eccellenza. Non capisco dove vuole arrivare”.
“Ma, suo malgrado, il Signore non ha mai smesso di starle
appresso. E Lui sa benissimo dove vuole arrivare”.
“Avanti, sia più chiaro: cosa intende?”.
“Ho in serbo una proposta che sembra fatta appositamente
su misura per lei”.
Grazia sospirò: “Cominci con l’indicarmela, allora, sono
curiosa”.
E il Cardinale le spiegò per un buon quarto d’ora tutto
quello che c’era da sapere.
278
XXVII
Il Palazzo di residenza dei Fischer consisteva in una villa
tardo-rinascimentale ristrutturata dopo l’Unità d’Italia. Si
ergeva possente e maestosa sui colli del lago di Bracciano, tra
densi uliveti, macchie verde scuro di pini marittimi e chiazze
turchesi dei laghetti artificiali che, tutt’intorno al grande lago,
fornivano vivai per l’allevamento di anguille pregiate.
Era una casa enorme, con sontuose stanze ricche di mobilio
d’antiquariato e arredate con lusso. Possedevano una
collezione privata di dipinti dei pittori fiamminghi del
Rinascimento, una serie impressionante di porcellane dal 1600
al 1800 perfettamente conservate, due auto d’epoca, una Rolls
Royce e una Maserati, insieme ad alcuni arazzi in perfetto
stato ereditati dagli antenati.
Tanto spazio e tanto sfarzo erano divisi però tra un esiguo
numero di componenti della famiglia.
Il giovane signor Fischer – come lo chiamavano i domestici
– occupava da solo l’intero piano superiore (quello con
l’enorme terrazza). Dato che aveva perso entrambi i genitori
quando era ancora un bimbo in fasce, viveva con i parenti
rimasti. La zia, vale a dire la sorella di suo padre, lo degnava
di amorevoli premure, condite purtroppo con l’idea che il
giovane e bel nipote fosse in qualche modo “malato”. Non si
spiegava altrimenti il carattere ombroso del ragazzo, le sue
prolungate assenze (per lavoro, diceva il rampollo Fischer, ma
che fosse vero?), le sue pochissime parole, il suo riserbo al
limite della scontrosità, come se lui le tenesse nascosto
qualcosa volutamente. Perciò era più che naturale che
sospettasse che il giovanotto avesse qualche tara mentale, e si
comportava in modo tale che Martin aveva perfettamente
capito cosa le passava per il cervello.
I nonni erano più di là che di qua – come si suole dire – e il
rapporto tra loro ed il giovane nipote mutava drasticamente a
seconda che seguisse l’asse nonno-nipote, oppure nonnanipote: nel primo caso c’era una specie di guerra aperta perché
i due non si potevano soffrire; mentre nel secondo caso c’era
un’alleanza pressoché inscindibile dovuta ad affinità di
carattere e di vedute. Poi c’era una sorella che viveva in casa
279
con un bambino di dieci anni, dopo che era stata lasciata dal
marito quando lei era rimasta incinta. Non si era mai capito se
il marito l’avesse lasciata perché il bambino non era suo, o se
fosse perché – più semplicemente – non voleva mocciosi fra i
piedi. Sta di fatto che la poverina (si chiamava Lia) viveva
quasi sempre chiusa nelle sue stanze al pian terreno, incollata
spasmodicamente al suo figliolo come l’edera sta avvinghiata
al muro che la sorregge. Non si capiva se era il figlio a
sorreggere la madre, o piuttosto viceversa.
Attorno alla villa padronale sfilavano ettari ed ettari di
vigne e di oliveti, coltivazioni di tabacco e vari appezzamenti
di alberi da frutta: nell’insieme tutti questi terreni rendevano
così bene che i loro proventi bastavano a coprire le spese di
una villa così enorme. Come ciò non bastasse, la villa veniva
affittata per cerimonie, mostre, spot pubblicitari, riprese
cinematografiche ed altro del genere, ed in più una parte era
anche aperta al pubblico, cosicché i proventi di tanta lucrosa
amministrazione finivano nelle tasche dei Fischer; o meglio, si
tramutavano in copiosi depositi bancari i cui movimenti erano
controllati rigorosamente dall’ufficio-contabilità della
famiglia, il quale era situato in una stanza al primo piano della
villa ed era vigilato dal giovane Fischer in persona.
Infine c’erano i laghetti per la coltivazione di trote, uova di
salmone e anguille. E quei proventi finivano dritti a
sponsorizzare le ricerche archeologiche sempre del giovane.
Zia e sorella si limitavano a mandare aventi l’enorme casa, a
gestire – per quel che potevano – il patrimonio (mobiliare ed
immobiliare), e soprattutto a spiare di nascosto le mosse del
primo erede maschio in ordine di grado di parentela, cercando
di capire quel che gli frullava per la testa. E a proteggere il
pronipote, il figlio di Lia, sperando – un giorno – che questi
potesse rimpiazzare il debole, malaticcio, depresso, stralunato
nipote.
Martin si trovava al primo piano della villa, seduto alla
scrivania in stile ottocento del suo studio. Le pesanti tende di
velluto color porpora erano fermate ai lati da grosse fasce di
seta, per permettere al sole di mezzogiorno di entrare nella
stanza e di spandersi tutt’intorno.
280
Quella mattina si era alzato più presto del solito, facendo
prendere un bello spavento a zia e sorella che stavano facendo
colazione nella sala grande, quando se lo videro comparire
vestito di tutto punto in mezzo a loro, così repentinamente che
non osarono domandargli se dovesse andare da qualche parte,
o dovesse sbrigare non si sa quale incombenza. Solo suo
nipote lo salutò allegramente con un gioviale: “Ben svegliato,
zio Martin!”.
“Buongiorno, David” sorrise Martin scompigliando i
capelli al nipote. C’era intesa tra di loro.
Poi la vista di zia e sorella lo fecero ripiombare nella sua
abituale apatia.
Martin bevve del succo d’arancia e scelse una fetta di torta
di mele dal carrello dei dolci, poi trangugiò uno yogurt magro
ed infine un frutto.
Quando fu pronto uscì. Le due donne lo scrutarono per
capire se quella mattina stesse più male del solito, ma lui non
badò a loro, ricambiò i saluti di suo nipote e s’incamminò
verso l’ingresso. Naturalmente sapeva benissimo di non essere
malato, anzi, di non avere assolutamente niente di spaventoso,
orrendo o impronunciabile. Ma era talmente difficile spiegarlo
alle due donne, e soprattutto convincerle, che da un pezzo vi
aveva rinunciato e lasciava che pensassero quello che
volevano. Anche perché in questo modo – si era reso conto –
s’intromettevano di meno nella gestione dei beni di famiglia.
Probabilmente lo lasciavano fare, aspettando che gli capitasse
il fatidico crollo psichico e che venisse internato in qualche
ospedale psichiatrico, così da lasciare a loro il controllo
sull’intero patrimonio. Ma tanto lui sapeva che quel giorno
non sarebbe mai arrivato.
Ora, comodamente intronizzato nel suo ufficio, stava
controllando alcune fatture che avrebbe dovuto consegnare
all’ufficio contabilità, che consisteva in un unico dipendente
nella stanza accanto ed il cui compito era quello di catalogare,
archiviare, registrare e via dicendo l’innumerevole mole di
pratiche derivanti dalla gestione dei beni della famiglia
Fischer.
All’improvviso fece irruzione il nipote gridando a gran
voce:
281
“Zio, zio, accendi subito la TV: stanno assaltando la Borsa,
lo ha detto il nonno!”. Dietro di lui, infatti, arrancò un vecchio
stanco – che a onor del vero era il bisnonno del bambino – che
aveva tutta l’aria di un fantasma talmente era magro e
malridotto. Tuttavia conservava nei modi di fare un po’ di
quella irruenza che doveva avere avuto in passato, perché
appena entrato nella stanza rimbrottò il nipote adulto:
“Martin, sbrigati ad accendere. Il paese è nel caos: hanno
appena preso d’assalto la Borsa Valori a Milano. Potremmo
perdere una gran fetta di soldi nel giro di mezzo minuto! Le
azioni staranno precipitando a livelli mai visti da un secolo a
questa parte!”, disse tutto d’un fiato, e poi sprofondò nella
poltrona di chinz di fronte alla scrivania di Martin, aspettando
di guardare lo schermo gigante che campeggiava sulla parete a
fianco. Sulla faccia era stampata un’espressione peggio che da
funerale. Il nipotino si sedette anche lui sull’altra poltrona che
era in coppia con quella su cui stava il bisnonno, e tutti e due
puntarono gli occhi su Martin.
Lui digitò immediatamente una serie di comandi sul video
del computer, e lo schermo ultrapiatto sulla parete vicina prese
a mandare immagini di una piazza invasa da centinaia di
persone inferocite che cercavano di entrare nell’immenso
edificio della Borsa Valori di Milano. Martin non aveva detto
una parola nel frattempo, stava guardando anche lui il
resoconto del telegiornale speciale trasmesso in diretta sul
primo canale delle reti televisive di stato. Il suo viso si era
fatto d’un tratto serio e cupo, come se non fosse preoccupato
tanto per i soldi della famiglia che in quel momento potevano
stare sfumando alla velocità della luce, quanto per qualcosa
d’altro. Infatti disse:
“Nonno, stai calmo per favore. E’ un fatto grave, senza
ombra di dubbio. Ma da qui ad allarmarsi così tanto come stai
facendo tu… del resto non hai mai capito come funzionano le
leggi del mercato. Mi domando come avresti fatto a fare
fortuna se non avessi avuto la nonna accanto a te che ti diceva
come investire, mossa per mossa! Comunque fidati di me e
non perderemo un centesimo, anzi…” e una smorfia crudele
apparve sul suo bel viso riposato, quel martedì mattina che era
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già stato ribattezzato dallo speaker della TV il “martedì nero”
d’Italia.
Intanto le immagini continuavano a fluire sul grande
schermo dello studio. Ben presto anche il responsabile
dell’ufficio contabilità che stava nell’altra stanza accorse di lì,
richiamato dalle notizie ad alto volume che aveva sentito
attraverso la parete.
“Ho sentito… è terribile, signor Fischer… quello che sta
succedendo… non capisco come può essere avvenuto…”.
L’uomo parlava al vecchio senza guardare il Fischer giovane,
ma poi si voltò dalla parte di quest’ultimo, che non era poi
così tanto preoccupato, e riprese: “E anche per lei, mi
dispiace… un altro pensiero gravissimo si aggiunge a quelli
che ha già… questo proprio non ci voleva, chissà come può
essere avvenuto, insomma, ma nessuno se lo aspettava,
diavolo mondo?”.
Martin non si curò di tutto quell’allarmismo, e in segno di
risposta non si premurò d’altro che di muovere il braccio
destro in un gesto scocciato, come quando si cerca di uccidere
una mosca. Il bambino sorrise all’esclamazione colorita
dell’uomo della contabilità, anche se respirava la crescente
tensione nell’aria. Tutti rimasero incollati al teleschermo a
sentire le informazioni preoccupanti dalla diretta del reporter.
Una logo campeggiava sulla sinistra dello schermo,
raffigurante l’edificio della Borsa Valori con sopra la scritta:
“Martedì nero”, ed una striscia in basso in sovrimpressione
compariva continuamente, aggiornando le notizie. In quel
momento si poteva leggere: “Ore 11.58: assalto alla Borsa.
Lo scenario è impressionante: finora le stime parlano di 15
feriti gravi e un numero imprecisato di contusi. Ma le cifre
cambiano in continuazione”, e la voce concitata e frettolosa
dello speaker che riportava i fatti: “Poco prima di
Mezzogiorno un gruppo di giovani uomini – probabilmente
disoccupati da lunga data – ha sfondato in segno di protesta
la porta a vetri della sede della Borsa di Milano. Quella che
doveva essere, però, solo un’azione dimostrativa – e di questo
ne siamo sicuri – si è trasformata invece in una ressa caotica
e impetuosa, aggravata dall’insorgere all’improvviso in aiuto
dei dimostranti di centinaia di persone malcontente a causa
283
della crisi economica che imperversa nel nostro paese:
lavoratori che sbarcano a fatica il lunario, padri e madri di
famiglia, giovani disoccupati, immigrati, clandestini, donne
sbucati fuori letteralmente dal nulla e che si sono lanciati
dentro il palazzo a distruggere tutto. La polizia sta cercando
di frenare l’ondata distruttiva di questi pazzi scatenati con il
lancio di lacrimogeni e con gli idranti, ma è incredibile come
alla scia di gente che cade a terra colpita dalle manovre della
polizia, si aggiunga subito un numero ancora maggiore di
manifestanti. E così facendo cresce di minuto in minuto
l’oceano di folla che si sta spingendo dentro la borsa. Ormai
è tutto un tumulto in cui si faticano a distinguere i ribelli dagli
agenti; letteralmente impossibile svolgere qualsiasi attività
dentro l’edificio: al piano terreno – lo si capisce dai rumori,
dalle urla della gente e dal passaparola dei rivoltosi –
moltissimi computer vengono gettati a terra con foga inaudita
e distrutti. Gli operatori di borsa vengono picchiati, i monitor
colpiti con ferocia bestiale, il cartellone gigante che
campeggiava nel mezzo del palazzo è stato ripetutamente
sventrato con una serie di spari da armi da fuoco rubate alla
polizia.
Il cronista che vi parla in questo momento è al di fuori del
palazzo, protetto da un cordone di poliziotti che difende tutti
gli addetti-stampa presenti qui a riferire dell’attacco
sconvolgente ed imprevisto. C’è costernazione e paura nella
gente tutt’intorno: i milanesi corrono in aiuto dei poliziotti,
per incoraggiarli, sostenerli, mettersi in mezzo a loro e
difenderli; purtroppo arrivano anche a picchiare i
manifestanti, e questo certo non aiuta alla cessazione delle
ostilità. Intanto sono arrivati precipitosamente anche
Carabinieri e Guardia di finanza in aggiunta al già
tempestivo intervento della polizia. Eppure altra gente
intemerata corre all’attacco, schierandosi con i rivoltosi: è
incredibile! Sembra che non abbiano paura di venir arrestati
dagli agenti che sono sul posto: anzi, si divincolano, urlano, e
purtroppo piombano su di loro soverchiandoli. Ci duole dirlo
ma è così: purtroppo c’è pericolo per i poliziotti; la calca
disumana si sta moltiplicando con ritmo impressionante: la
proporzione è di tre o quattro ribelli per agente, è difficile
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fermarli anche usando i getti degli idranti, i gas lacrimogeni
ed i manganelli. Alcuni facinorosi riescono a impossessarsi
delle armi da fuoco dei poliziotti e le portano all’interno o se
le passano tra loro. Ecco, mi dicono dalla regia che a Palazzo
Chigi il governo si sta consultando febbrilmente col capo
dello Stato – che ricordiamo è anche il capo delle Forze
Armate Italiane - per decidere se mandare sul posto anche
l’Esercito, oppure no. Al Quirinale, nel frattempo, si fa sapere
che è meglio che gli italiani stiano al sicuro nelle proprie case
e che non scendano in strada a sostenere le forze dell’ordine
che sono già ben equipaggiate; naturalmente il Presidente è
in stretto contatto con il primo ministro e si sono messi in
video-collegamento permanente sulla linea apposita.
Ma, ecco, un attimo: dall’interno dell’edificio provengono
anche spari, adesso. Tutti noi cronisti siamo incollati alle
finestre che stanno andando in frantumi per cercare di
captare qualche urlo disperato, qualche grido che serva per
farci capire cosa sta succedendo all’interno. Intanto è difficile
anche per noi perché piovono schegge dall’alto, e i poliziotti
ci avvertono di tenerci bassi per evitare pallottole impazzite.
E’ difficile capire cosa stia succedendo e stia avendo la
meglio, se i rivoltosi o gli agenti dello Stato. Se soltanto
mezz’ora fa qualcuno avesse prospettato lo scatenarsi di tutto
questo inferno, vi giuro non gli avrei creduto. Nessuno di noi
capisce quale sia stata la molla che ha fatto sì che normali
cittadini – o tutt’al più tranquilli irregolari – in un attimo di
follia (o lucidità per loro?) si siano trasformati in belve
scatenate e si siano scaraventati con una furia impressionante
su un edificio che, in effetti, può rappresentare
simbolicamente il centro di quel sistema economico che li
affama. E’ vero che l’economia sta andando male in questo
frangente, è vero che le stelle spezzate stanno portando caos e
scompiglio nel nostro paese, è vero che il governo che era
praticamente caduto si è rimesso all’opera soltanto per questa
emergenza. Ma da qui a scatenare questo inferno ci vuole una
vera e propria volontà distruttiva, un odio feroce per le
istituzioni, un malcontento che rasenta il disprezzo degli altri
e la follia. Italia: dove stiamo andando?...”
285
Martin spense lo schermo. Di scatto tutti gli altri tre
presenti nella stanza si voltarono verso di lui stupiti.
“Che cosa ti è saltato in mente? Accendi subito!” gli urlò il
nonno incollerito. Era pallido e cadaverico come un cencio,
tutto tremante. Era evidente che la notizia dell’assalto gli
aveva messo in corpo una tale paura che, gli pareva, poco
mancava che potessero piombare in casa a portare via i suoi
averi.
Anche il nipotino gli scoccò un’occhiata significativa, e il
contabile si limitò a sgranare gli occhi incredulo, ma non disse
nulla. Come già le due donne di casa, anche lui aveva paura
del signorino Fischer. Nel frattempo anche la zia e Lia si
erano unite al gruppetto in salotto, ansiose fino alla punta dei
capelli, e stavano guardando anche loro le terribili immagini
in diretta.
Martin replicò calmo: “E’ tutto a posto. State tutti calmi. E’
solo una rivolta; terribile sì, e paurosa: come dire di no?! Ma
al giorno d’oggi tutto il mercato finanziario è collegato in rete.
Non serve a niente entrare nella Borsa di un paese e sfasciarla,
quando le azioni di quel paese non si trovano fisicamente in
quel posto, ma nei computer di tutto il mondo, prodotte dalle
imprese e dai servizi fornitori di tali ricchezze. Quella gente
consiste solo in un branco di stupidi imbecilli. Certo che ci sta
facendo un favore enorme…”. E poi rivolto al suo contabile:
“Compra immediatamente un bel po’ di azioni di queste
imprese che adesso ti dirò”. E si chinò immediatamente a
redigere una non breve lista di nomi.
Al vecchio Fischer ci vollero alcuni minuti di tempo per
capire le mosse del nipote, ma quando tutto gli fu chiaro e gli
si materializzò in testa l’idea di cosa aveva intenzione di fare
Martin, si buttò d’impeto sulla scrivania per prendergli la lista.
Ma Martin si tirò indietro velocemente e lasciò che il vecchio
sbattesse contro il mobile.
“Io non ti do il permesso di fare una simile infamia!” tuonò
incollerito il vecchio. “Adesso che è un momento
estremamente difficile e precario per il nostro paese, tu… tu
fai una simile porcheria!” e batté il pugno sul tavolo. Ma
Martin si era già alzato e stava continuando ad allungare la
lista, scrivendo in piedi appoggiandosi al vetro della finestra.
286
Tutti gli altri erano sbigottiti. Il contabile aveva capito, ma
non osava interferire. Zia e sorella erano impietrite, incollate
alla parete come fossero dei soprammobili. Il nipotino non
capiva e guardava ora il bisnonno, ora lo zio.
“Calmati, nonno” rispose naturale Martin. “Parli proprio tu
che mi hai sempre detto che questo non è il nostro paese, e che
mi hai fatto promettere di accrescere il capitale di famiglia.
Che fai, ora: ti tiri indietro? Vuoi davvero che le nostre azioni
precipitino sempre più in basso, insieme a quelle di questo
paese le cui ricchezze sono solo il sole, la terra da coltivare, e
un sacco di vecchi ruderi? Eh, allora, non è sempre quello che
andavi dicendo tu stesso? O adesso cambi bandiera, solo
perché ti fa comodo?”
“La mia terra è Israele. Lo so. Ma io vivo in Italia e mi
considero anche italiano. Sei tu che stai disonorando la nostra
famiglia, volendo comprare azioni che adesso valgono poco,
solo per rivenderle dopo ed arricchirti. Vuoi speculare sulla
debolezza del paese! Ma in questo modo stai ammazzando
anche tu l’Italia! Sei come quei farabutti che sono entrati nella
Borsa per farla a pezzi…! Non te lo permetterò!” gridò, e così
facendo attraversò la scrivania da un lato e si gettò sul nipote
per afferrargli la lista. Ma Martin fu ancora una volta più
veloce: spinse il contabile da un lato, mettendogli in mano la
lista, e gli intimò sottovoce: “Fai come ti dico, o sei finito! Col
vecchio me la vedo io”. Quello si levò di torno in un
battibaleno.
Il vecchio cadde male su un piede e lanciò un grido. Lia gli
si avvicinò biascicando un “Nonno, stai bene?”, e cercò di
sostenerlo. Ma quello non si diede per vinto, si attaccò con
una mano al pesante tavolo da lavoro di suo nipote e con
respiro affannoso continuò l’accesa discussione:
“E’ così che ti ho insegnato, per caso? Eh? Rispondimi,
sciagurato!”
Martin lo guardò di traverso con un sorriso beffardo: “Ah,
mi hai insegnato qualcosa, forse? Perché non ricordo: mi
pareva che fossi troppo impegnato in politica per starmi
dietro… mi pareva ci fosse la nonna con me tutti i pomeriggi,
quando tornavo da scuola. E sai chi mi correggeva i compiti e
mi faceva lezioni di algebra, ragioneria e contabilità? Ma
287
guarda un po’: sempre la nonna… e chi mi preparava da
mangiare? Aspetta, non ricordo: era la nonna, per caso? E
dov’erano mio padre e mia madre, se non con te, quando li hai
convinti a venirti dietro in Palestina e lì sono saltati in aria su
quella mina! Oh, so già quello che stai per dirmi: c’era la
guerra: loro sapevano di mettersi in una situazione
pericolosa… beh, non m’importa un fico secco! Chi di noi due
ha commesso più del male allora? Io che sto comprando delle
azioni per poi rivenderle, o tu che hai permesso che i miei
genitori morissero in quella dannata terra che non conosce
pace?!”. Martin aveva gli occhi iniettati di veleno e le mani
strette a pugno chiuso. Sua sorella pensò che stesse per
mollare un pugno al nonno, e gli si piazzò ancora più vicino
per proteggere il vecchio.
Quegli lo guardò per un attimo in silenzio, debole per la
sua vecchiaia, ma perfettamente lucido di spirito, e parlò di
nuovo con autorità:
“Tu mi accusi di una colpa che non ho. I vostri genitori
sono mancati in un terribile incidente, che nessuno poteva
prevedere. Neppure ai servizi segreti israeliani era giunta
notizia di quel pericolo. Vedi: continui a darmi la colpa di un
fatto che ci ha segnato tutti in famiglia, è inutile negarlo…
eppure io ne soffro quanto te. E’ mio figlio che è morto, il mio
unico figlio. E anche tua sorella è rimasta senza i suoi genitori,
e non l’ho mai sentita lamentarsi come te… Per quanto
riguarda le azioni che ti accingi a comprare ad una cifra
ridicola per poi rivenderle sicuramente non allo stesso prezzo,
tuo padre non ne sarebbe per niente fiero… lui si batteva per
riportare la giustizia e l’ordine nella sua amata terra, a
Gerusalemme. Possedeva un animo retto e nobile, che non si
macchiava certo di azioni immorali come quella che tu stai
facendo adesso, in questo momento”.
“Non tiriamo in ballo i sentimenti, per favore!” tuonò
Martin con una furia tale da sembrare impazzito. “Tu non puoi
farci niente se ora, di fatto, il patrimonio lo controllo io; e ogni
volta continui a volerti intromettere! Quand’è che la smetterai,
una buona volta?! Ma guarda un po’, forse hai bisogno che ti
vengano rinfrescati i fatti: allora, la storia comincia così: il
Fischer patriarca emigra in Italia e sposa una ricca ereditiera,
288
anch’essa ebrea. Visto che il patrimonio di famiglia continua
ad amministrarlo lei, lui si ributta negli stessi ideali patriottici
a causa dei quali i palestinesi volevano ammazzarlo e che lo
hanno costretto all’esilio… poi gli nasce un figlio: mai e poi
mai qualcuno avrebbe potuto prevedere che il sangue
dell’unico figlio maschio sarebbe stato versato al posto di
quello del vecchio padre, una volta che il figlio e la nuora si
fossero inventati di seguire il vecchio che faceva ritorno a
Gerusalemme, andando incontro ad una fine dolorosamente
imprevista… i due genitori avevano a loro volta due bimbi
piccoli, poverini, rimasti prematuramente orfani. Il vecchio,
dilaniato dai sensi di colpa, non ha il coraggio di crescere i
due piccini, e li demanda alla gestione inossidabile della
moglie, che fino a quel momento ha dimostrato una spiccata
capacità di gestire ed accrescere i beni della famiglia. Ma io e
mia sorella non siamo precisamente dei “beni”, non trovi? Lei
fa quel che può, certo, ma è da sola… E infine veniamo alla
gestione del glorioso patrimonio, che ha permesso al vecchio
di oziare dietro ai suoi interessi politici. Quando venne il
tempo stabilito, la nonna passò tutte le carte nelle mani del suo
unico nipote maschio maggiorenne, che sarei io.
Ecco, vedi: i soldi vanno verso di me, non tornano da
te…!”.
“Tua nonna non si sarebbe mai inventata una clausola
simile, se solo avesse saputo come l’avresti usata!” inveì il
vecchio.
“Invece peccato che la nonna si fidi di me e che io sia il
vostro solo primogenito rimasto, vero nonno?! E mi pare di
aver capito che gli ebrei hanno un debole per i figli
primogeniti…” sibilò velenoso come un cobra. “Anche se in
questo caso dovrei dire nipote primogenito”.
Il vecchio si infuriò ancora di più, e tremando di rabbia
rispose: “Tu non sai cosa stai dicendo…”, ma la frase gli morì
sulle labbra. Troppo era il dolore che stava provando.
“Adesso basta, nonno. Mi hai stufato. Mi stai facendo
sprecare tempo prezioso…” disse Martin sbuffando.
Il vecchio gli scoccò un’occhiata profonda, poi disse a voce
bassa, ma in modo che il giovane nipote potesse ancora
sentirlo: “Fai attenzione! Io dal canto mio prego il Santo e
289
l’Onnipotente che non abbia mai a maledirti. Ma stai in
guardia: anche se io non leverò un dito contro di te, guarda
che non accada che sia invece l’Onnipotente ad abbandonarti.
Quella è la peggior disgrazia che possa capitarti!”.
“Stai tranquillo, a questo ci penso io” rispose secco e
annoiato. Il vecchio per un attimo gli gettò uno sguardo di
commiserazione, ma poi trasalì, si scrollò nelle spalle e guardò
il giovane nipote come sempre. Poi disse a Lia:
“Accompagnami in camera mia, voglio seguire con i miei
occhi i fatti di Milano. Qui non c’è posto per me”. E aiutato
dalla nipote, uscì con passo incerto dalla stanza senza mai
voltarsi indietro. Nemmeno Martin lo degnò di una sguardo.
Martin tornò a sedersi dietro la sua scrivania e riaccese
svogliatamente lo schermo gigante: “Senza dubbio abbiamo
sottovalutato il malcontento della gente, ed ora che il governo
non può fare niente, l’angoscia attanaglia ancora di più gli
italiani; non ci resta che confidare nelle consultazioni del
Presidente…” lo speaker stava intervistando il solito politico
di turno. Martin distolse disgustato lo sguardo dallo schermo e
si voltò verso la zia che era rimasta ancora lì, paralizzata sul
fondo della parete, a fissarlo:
“Puoi andare anche tu, zia” le intimò. “Qui è tutto finito.
Non c’è altro da fare”. Quella si scostò dalla parete e cominciò
ad incamminarsi verso la porta in tutta fretta, quando giunta
sulla soglia il nipote la richiamò a voce alta: “Un attimo, zia”.
Quella si bloccò. Lui le parlò di nuovo, sempre guardandola di
traverso, col solito sorriso beffardo sulle labbra: “Sai niente se
il tuo meraviglioso primario mi ha fissato un nuovo
appuntamento?”.
“Il dottor Cespi, vuoi dire?”
“E chi altri, sennò? Per Albrigi io non ho assolutamente
nulla, ma tu dai ascolto soltanto a quell’altro…”.
“No, Martin. Il dottor Cespi non ha più chiamato da un
mese”. E detto questo, uscì dalla stanza, chiudendosi la porta
alle spalle. Martin continuò a fissare la porta chiusa con l’aria
soddisfatta.
290
XXVIII
Il giorno stesso della presa della Borsa Valori si scatenò il
panico in Italia. Tutti ebbero la netta sensazione che nulla
sarebbe più stato come prima. Si cominciò a definire quanto
era accaduto con perifrasi tipo l’ “assalto alla Bastiglia
italiana”, immagine che gli italiani capivano benissimo dato
che tutti nelle scuole avevano studiato la Rivoluzione
francese; e che cioè la gloriosa prigione d’oltralpe costruita
per rinchiudere i più malfamati galeotti e criminali francesi,
nell’Italia del XXII° secolo aveva assunto le fattezze
marmoree della Borsa Valori. Solo che i nuovi disgraziati e
disperati erano gli italiani stessi, quelli appartenenti alle fasce
più deboli e precarie della società, che si sentivano
letteralmente prigionieri del sistema bancario e delle regole
dell’economia, entrambi imposti da Bruxelles. Anziani
pensionati, famiglie povere costituite sia da italiani che da
immigrati, giovani che andavano avanti con lavori saltuari e
che non vedevano vie d’uscita alla loro misera condizione,
padri di famiglia disoccupati che non riuscivano più ad
inserirsi nel circuito lavorativo, giovani madri e padri
divorziati che stentavano ad arrivare a fine mese, stranieri
clandestini (e non) che vivevano alla giornata, con magri
lavoretti o con piccoli espedienti più o meno illegali.
Le scene della folla urlante, imbestialita che con spranghe,
bastoni e coltelli premeva per entrare dentro l’edificio e che
poi fracassava, spaccava ogni cosa che le capitava a tiro
avevano fatto il giro del mondo. Radio e reti televisive si
erano immediatamente sintonizzate per trasmettere notizie su
ciò che si stava compiendo sotto gli occhi inermi di milioni di
italiani che, incollati al teleschermo dal luogo dove si
trovavano, chi in casa, chi nei posti di lavoro, chi negli
ospedali e nelle case di degenza, chi nei grandi centri
commerciali, chi nelle scuole, stavano contemplando con
profondo sgomento quelle scene che mai avrebbero
immaginato di vedere. In effetti tutti i commentatori di radio e
televisioni non riuscivano a spiegarsi come una cosa simile si
fosse potuta scatenare. Se qualcuno l’avesse predetta anche
solo il giorno prima, nessuno vi avrebbe creduto. In un paese
291
così civile come l’Italia, si diceva in continuazione, che
vantava una lunga storia di democrazia alle spalle, che sì,
adesso versava in una grave congiuntura politico-economica a
causa della disoccupazione al 25 percento e delle nuove regole
dell’economia e dello stato sociale imposte da Bruxelles… sì,
il malcontento delle fasce povere della popolazione era
comprensibile; ma da qui ad arrivare ad una simile rivolta di
massa, che – le notizie si accavallavano una dietro l’altra – era
stata sicuramente orchestrata dietro le quinte da qualcuno a cui
tutto ciò giovava molto, ebbene la cosa destava viva
preoccupazione. Per tutti: per le forze dell’ordine coinvolte nel
sedare gli insorti, per il governo e i partiti del Parlamento tutti
unanimi nel dissociarsi da quei pazzi scatenati; per la gente
normale colta alla sprovvista, minacciata nel suo più
sacrosanto diritto alla sicurezza.
Si sa che l’odio genera altro odio. Di fatti la reazione dell’
ingente fetta di società sana non si fece attendere. Nonostante i
vari, molteplici richiami delle più alte autorità civili e militari
a non intervenire, per non interferire con il lavoro già di per sé
difficilissimo delle forze dell’ordine e dell’esercito, gli italiani
che non si sentivano dalla parte “defraudata” della società,
passarono subito al contrattacco; come reazione immediata
alla brutale ferocia dei dimostranti si scatenò la reazione delle
persone lì intorno che uscirono dalle proprie case, dai posti di
lavoro, dai negozi e da ogni dove per aiutare donne innocenti
cadute a terra, bambini atterriti in preda al panico, anziani in
difficoltà; e soprattutto per andare a impartire una lezione a
quella specie di bestie (tali erano considerati i vandali) che
avevano incominciato tutto ciò.
Dopo le immagini dei poveracci in abiti semplici, dismessi
che assaltavano la Borsa con spranghe e con pezzi di vetro
raccolti da terra, le televisioni proposero le immagini di gente
in giacca e cravatta, donne con i tacchi e distinti sessantenni in
loden che linciavano gli insorti, tanto che i dimostranti ad un
certo punto cominciarono a difendersi proprio rimanendo
all’interno dell’edificio; da lì riuscivano a proteggersi meglio.
Le forze dell’ordine sostenute dall’esercito avevano il loro bel
da fare a distogliere dalla furibonda battaglia i dimostranti
accecati dall’odio e i passanti infuriati dalla sete di giustizia e
292
di vendetta. Sta di fatto che fu il pomeriggio più lungo che la
storia d’Italia avesse mai annoverato dalla fine delle seconda
guerra mondiale.
Chi tra i cronisti aveva un po’ più di memoria (certo
nessuno poteva ricordarlo in prima persona, a meno di non
avere centotrentanni) cominciò a paragonare quanto stava
succedendo agli scontri tra le frange della Resistenza e quelle
del Fascismo durante la guerra, appunto. Ma erano paragoni
che non era buona cosa portare avanti. Per cui dalle direzioni
di radio e televisioni arrivarono ai giornalisti calde esortazioni
a non fare certe associazioni di idee nei loro commenti,
nemmeno per sbaglio.
Certo, qualche voce indipendente per fortuna era rimasta in
Italia. Qualche voce coraggiosamente fuori dal coro. Una di
queste commentava con trepidazione:
“Amici lettori, fratelli italiani, con sgomento sento il
dovere morale di annunciarvi che se non poniamo rimedio –
ora e ognuno nelle proprie possibilità – al clima violento di
odio che si respira nella nostra società, il futuro prossimo
potrebbe riservarci la guerra civile.
E’ successo in Spagna e nella ex-Iugloslavia il secolo
scorso, è successo nella mia patria nel lontano 1775, ed è
durata otto anni. Può succedere anche qui. E’ inutile che ci
nascondiamo dietro la famosa foglia di fico, chiudendo gli
occhi davanti a quanto sta succedendo. L’abbiamo quasi
scampata più di cento anni fa, alla fine della seconda guerra
mondiale. Perché ricascarci proprio adesso? Possibile che la
storia non abbia niente da insegnarci? Possibile che gli
scontri per il dannato pezzo di pane si protrarranno fino a
quando sulla faccia della terra resterà l’ultimo uomo vivente?
E’ possibile che tutti noi, anche il più tranquillo e rispettabile
lavoratore con il suo completino lindo e la cravatta intonata
sia capace di trasformarsi in un perfetto Caino per difendere
la pagnotta che giustamente spetterebbe a lui? Perché non si
può dividerla a metà?
Quanto succede è tremendo. La guerra civile è una
punizione da cui tutti dovremmo pregare che Dio ci scampi.
Ormai solo un dio ci può salvare. Ognuno preghi che colui
che dall’alto guarda la scena passeggera di questo mondo
293
abbia pietà e faccia scampare questa bella patria da una
simile evenienza.
Perché quel che ho visto oggi è anche peggio di quanto
desiderassi vedere: è facile dire che da una parte ci sono i
diseredati, i senza lavoro, i nullafacenti, gli stranieri e altra
marmaglia simile, e che dall’altra si schierano in bella mostra
gli onesti cittadini volonterosi di lavorare anche 12 ore al
giorno, con due lavori sulle spalle e tre mutui in banca. La
realtà non è così. Le radio e le televisioni vogliono farci
credere allo scontro tra ricchi e poveri, ma io c’ero. Ero in
quella piazza, sebbene un po’ protetto al lato di un edificio. E
ho visto. Ho potuto osservare con i miei occhi che giovani
scanzonati, universitari a vita mantenuti da genitori
benestanti, donne irritate dal precariato endemico, o
immigrati costretti a lavorare in nero c’erano da tutte e due le
parti. Uomini in giacca e cravatta c’erano da tutte e due le
parti. Donne con la loro borsa firmata (regolarmente
scippata, o strattonata, o persa nella mischia), il loro
bell’abito, trucco e pettinatura c’erano da ambedue le parti.
Sessantenni calvi, onesti cittadini con quel tanto di pancetta
che sa di sana italianità c’erano da tutte e due le parti.
Insomma, i mezzi di comunicazione di massa ci vogliono
chiudere gli occhi davanti alla realtà. E che cioè il paese è
perfettamente spaccato a metà; dove lo spartiacque però non
è tra ricchezza e povertà, ma tra chi pensa “rosso” e chi
pensa “blu”; sono le idee che definiscono la linea di confine;
da che mondo e mondo è sempre stato così: quando le idee
passano davanti alle persone, quando hanno la precedenza
sul prossimo, di qualunque “fazione” sia, è allora che un
paese scivola verso la guerra civile.
C’è troppa rabbia tra le parti avverse, troppi rancori,
troppi giudizi avvelenati; c’è un clima di odio troppo
maldestramente celato. Chissà perché, l’Italia non è capace di
scrollarsi di dosso una volta per tutte l’antichissimo retaggio
del conflitto tra guelfi e ghibellini: da una parte i buoni,
dall’altra i cattivi. Basta rinchiudere i cattivi in prigione
perché le cose si mettano a posto da sole. Quale insensata
stoltezza!
294
Il virus dell’odio è tra noi. E’ già stato immesso nell’aria.
Basta sentire come chi è di destra sputerebbe letteralmente in
faccia a chi è di sinistra. Dove è qui l’italiano medio, quello
in giacca e cravatta? Da che parte si colloca la madre di
famiglia? Dove i nostri anziani? La realtà è che sono da tutte
e due le parti. Solo che ognuna delle parti ritiene fermamente
che la causa di tutti i mali sia da imputare alla parte avversa.
E’ questo che fa scatenare una guerra civile. E’ questo che è
successo stamani a mezzogiorno.
E ancora: chi assolviamo? Gli sfaticati che hanno dato
fuoco alle auto parcheggiate ai lati della piazza perché erano
stufi di lavorare in nero, o gli onesti cittadini che quelle
macchine le hanno sì comprate con il loro sudato lavoro, ma
hanno picchiato a sangue i rivoltosi? Di questi chi è quello
che vota destra e quello che vota sinistra? O che vota i nuovi
partiti emergenti, la Lega Araba e Fondazione Risorse
Nuove?
Di fronte al male siamo tutti uguali. Non abbiamo motivi
validi che ci permettano di scusarci, di dire alla nostra
coscienza: “tanto io non c’entro”. L’antidoto alla guerra
civile è il rispetto per l’altro. Il credere che c’è qualcosa di
buono anche in chi non la pensa come me”.
Firmato Benjamin Tolosa dall’Eco
Americano
Edoardo aveva appena terminato di leggere sul computer la
pagina on-line di Benjamin, e si stava passando le mani sui
capelli sinceramente preoccupato. Si trovava in uno stato di
prostrazione generale a causa dell’idea che progressivamente
si era fatta strada nel suo cervello: aveva appena assistito allo
scatenarsi di forze palesemente oscure e minacciose per
l’incolumità stessa del paese. Anche se quest’idea non aveva
assunto le fattezze ed i contorni ben precisi della guerra civile
dipinta da Benjamin, che pure aveva conferito all’articolo
dell’americano una così vibrante intensità, pure si dibattevano
nel suo cuore sentimenti contrastanti, ugualmente violenti.
Rabbia per quanti si erano serviti della forza per proclamare i
loro giusti diritti, pietà per i feriti, i morti ed i familiari delle
vittime, incredulità che uno scontro simile potesse essere
295
accaduto in un paese civile come l’Italia. Ricordava che i
telegiornali mesi prima avevano trasmesso altre scene di
violenza simili, da altri stati dell’Unione Europea. Ma di solito
si trattava di scontri tra i disadattati, gli emarginati, gli ultimi
della società e la polizia. Invece qui la novità, se così si poteva
definire, consisteva nel fatto che altra gente era intervenuta a
linciare i primi che avevano iniziato. Davvero questa era una
situazione nuova, dagli esiti imprevedibili.
In cuor suo Edoardo non era così fermamente convinto
come l’americano che il paese stesse scivolando verso la
terribile direzione tracciata da Benjamin; ma qualche dubbio
da fugare rimaneva sempre. E l’analisi di Benjamin era
precisa, puntuale, meticolosa, realistica. Sicuramente più delle
televisioni che sembravano tutte essersi messe d’accordo su
cosa dire, dato che ogni canale era la fotocopia dell’altro.
Alla sera i morti accidentali erano arrivati a cinque, i feriti
ancora un numero incalcolato, si stimava una cifra intorno ad
una cinquantina di persone. Numeri ancora in via di
definizione.
Il capo dello Stato aveva proclamato il lutto nazionale per il
sabato successivo; per quel giorno le autorità contavano di
conoscere con esattezza il numero dei morti e dei feriti così,
avute le tristi stime dei danni, si sarebbe proceduto ad una
solenne commemorazione prima all’Altare della Patria a
Roma, poi in piazza del Campidoglio alla presenza delle
massime autorità della Repubblica. I funerali invece erano
previsti per il sabato pomeriggio nel Duomo di Milano e nella
Moschea di viale Omar, in entrambi i luoghi alla stessa ora.
Naturalmente tutto sarebbe stato trasmesso in diretta televisiva
per l’intera durata della lunga serie di eventi.
Approntare un bilancio preciso era pressoché impossibile:
la Borsa Valori ridotta ad un cumulo di macerie, il gigantesco
gota degli affari della finanza sventrato per sempre; la
pavimentazione dell’edificio e delle strade tutt’intorno
devastata dalle schegge dei vetri rotti come mine vaganti finite
da tutte le parti, comprese le vie laterali; mattoni sparsi un po’
ovunque, insieme a calcinacci e pezzi di mura crollate; i
computer rotti, lasciati in giro per le strade, raccolti
precipitosamente dalla gente nel tentativo di aggiustarli e
296
tenerli per sé. Le vie intorno alla piazza sembravano vie di
guerra con i soliti sciacalli in azione: lo scoppio di bombecarta aveva incendiato macchine, edicole, rotto vetrine di
negozi. Erano stati razziati i negozi stessi, prese d’assalto le
banche e i supermercati. Alla sera si poteva assistere ancora al
viavai continuo di uomini e donne che passavano di lì per
controllare se ci fosse ancora qualcosa da sottrarre.
Il Capo del Consiglio annunciò di voler prendere in
considerazione l’idea del coprifuoco, almeno per un po’ di
tempo. In modo che non succedessero altri episodi simili di
guerriglia urbana. Fu subito rinforzato l’esercito e dato un
maggior potere alla polizia e ai carabinieri. Venne creato
appositamente un disegno di legge per ammodernare ed
ingrandire tre carceri italiane, in previsione degli innumerevoli
arresti che sarebbero seguiti.
“Benjamin non ha tutti i torti” commentò Edoardo mentre
lui e la moglie, che nel frattempo gli si era avvicinata,
leggevano insieme le pagine on-line degli altri quotidiani. “E’
vero che il paese è spaccato e, quel che è peggio, che i politici
non sembrano tenerne conto; va bene, la cosa è scappata di
mano… ma in fin dei conti è tutta colpa di Bruxelles, diranno
per esimersi da ogni responsabilità”.
Laura sorrise. “Sfuggita di mano…” ripeté ironicamente. E
guardò di sottecchi il marito, che continuò: “Sta di fatto che
per gli stessi reati di pestaggio, linciaggio, furto, etc. ognuna
delle due parti vorrà esentare sé stessa dal reato commesso,
chiedendo che sia punita solo la parte avversaria. Vedrai che
baraonda verrà fuori al momento dei processi! Ognuno dei due
schieramenti tirerà in ballo la Convenzione dei diritti
dell’uomo, la Carta della Costituzione Europea, il SuperCodice di diritto civile stilato a Bruxelles e così via. Ci sono
talmente tante scappatoie che i giudici avranno il loro bel da
fare ad emettere il verdetto di colpevolezza per entrambe le
parti. E senza contare tutte le pressioni intimidatorie che
riceveranno, perché si dimostrino clementi in massimo grado”.
Laura chinò il capo pensierosa. “Sì, credo tu abbia ragione”
affermò. “E allora, cosa possiamo fare noi, semplici cittadini
che non facciamo direttamente politica, se non eleggendo i
297
nostri rappresentanti e partecipando alla vita del paese?” si
chiese demoralizzata. Ma non ebbe risposta.
Per tutto il tempo che seguì rimasero in silenzio, cupi,
intenti a leggere le varie notizie e commenti che via via
giungevano dalla rete televisiva satellitare. Ognuno
sprofondato nei suoi tristi, brutti presentimenti. Avrebbero
fatto carte false pur di pensare qualcosa di positivo. Così passò
la serata.
A chilometri di distanza, dentro altri muri, anche Roberto
stava seguendo intensamente in televisione il resoconto
dettagliato dei fatti del giorno. Era il momento conclusivo
della giornata, l’ora serale capace di riscaldare con la sola
intimità degli affetti il cuore affaticato dal lavoro; ma non era
il caso di Roberto. La tavola era apparecchiata per due, il
televisore sintonizzato su uno dei tanti telegiornali tutti
perfettamente equivalenti tra di loro. Lui e Giulia
consumavano la cena in silenzio, il ticchettio dell’orologio a
muro e il mesto rumorio delle posate era inframmezzato solo
da qualche scarno commento ogni tanto. Entrambi avevano
facce buie e un’espressione truce dipinta sul volto.
Altro palazzo. Questa volta più suntuoso, praticamente
magnifico. Altro televisore acceso, in camera da letto. Il
cordless di vetro di Murano sul comodino squillò.
“Pronto?” rispose Martin.
“Hai visto?” una voce.
“Intendi dire se ho visto quanto è accaduto oggi a Milano?”
“E che altro, sennò?”
Sospiro. “Certo che ho visto”.
“Tu credi quello che credo io?”
“Più o meno…sì, credo di sì”.
“Secondo te fra quanto tempo?”
“Dipende da più fattori, e da come essi si innesteranno
insieme. Diciamo che potrebbe succedere tra poco più di un
anno…”.
“In prossimità delle elezioni nazionali?”
“Secondo me appena poco dopo. Ammesso che vengano
allo scoperto. Tu sai cosa intendo, a cosa voglio alludere…”.
298
“Sì, ho capito benissimo. Allora intesi, può andare bene
così. Ah, un’ultima cosa: l’americano. Non può andare
sbandierando sulla rete certe cose…”.
“Sì, ho letto l’articolo. Provvederò anche a lui, in effetti
anch’io ho pensato la stessa cosa”.
“Per il momento arrivederci, signor Fischer”.
“Arrivederci”.
Martin riagganciò con una espressione strana dipinta sul
viso. A metà strada tra il disgusto, il tormento e la
commiserazione di sé. Scrutò la sua immagine riflessa nello
specchio barocco che troneggiava proprio di fronte a lui,
lascito di suo padre. Perché quella era la camera di suo padre
da ragazzo, prima che si sposasse e passasse nell’altra ala del
Palazzo. “Tu cosa avresti fatto, papà …” si ritrovò a pensare,
suo malgrado, mentre fissava i contorni nitidi della sua figura
riprodotta fedelmente allo specchio. Contemplò sulla parete
opposta le fattezze riflesse di un uomo di bell’aspetto, ma il
cui sguardo cupo e profondo tradiva rammarico, incertezza.
Forse paura. “Nessuno può mai liberarsi del tutto dei propri
fantasmi… li può accuratamente nascondere nell’anfratto più
remoto della propria coscienza, ma essi non taceranno mai”
gli rispose la figura allo specchio.
Altre mura, questa volta le volte gotiche, svettanti di una
chiesetta all’interno del Palazzo Apostolico.
Il Cardinale era inginocchiato davanti ad una icona della
Madonna con bambino, una raffigurazione prodotta dai
monaci del Monte Athos che aveva comprato personalmente
quando si era recato a visitare la Grecia e le Meteore
moltissimi anni prima; appena l’aveva vista gli era piaciuta
subito, era stato amore a prima vista. Ora contemplava l’icona
immerso nella preghiera. I suoi occhi azzurri brillavano, tutto
il suo essere manifestava l’intima certezza che in quelle mura
adorne di storia e di ardenti intercessioni levate al cielo erano
veramente due le persone presenti, che si parlavano tra loro.
Il Cardinale rimase così assorto fino a notte fonda.
299
MERCOLEDI’ 19 Marzo
XXIX
L’appuntamento in Vaticano nel giorno della festa di S.
Giuseppe era stato fissato alle 15.30, presso la segreteria del
Palazzo Apostolico. Nel telegramma veniva annunciato che le
guardie vaticane avrebbero scortato la comitiva fino all’ufficio
del Cardinale Mac Collough, al primo piano del grande
edificio.
Il primo ad arrivare in piazza San Pietro fu Benjamin, che
questa volta aveva preso l’aereo per fare in fretta. Una volta
arrivato sul luogo del ritrovo, si era guardato intorno e
alquanto amareggiato aveva constatato che degli altri non
c’era traccia, così aveva adocchiato il basamento di una
colonna per appollaiarvisi sopra.
Il secondo ad arrivare, alle 14.40, fu Edoardo
accompagnato dalla moglie. Mentre Benjamin indossava un
capo assolutamente informale, anzi, piuttosto comodo anche
se inadatto ad una visita in Vaticano (giubbotto senza maniche
imbottito, camicia rosa e jeans neri), Edoardo indossava un
elegante completo grigio perla, con sopra un impermeabile
che sembrava nuovo di zecca. Laura, invece, aveva una
pelliccia che la fasciava morbidamente.
Si salutarono cortesemente, cominciando subito a discutere
della situazione politica. Edoardo si congratulò con
l’americano per il coraggio dimostrato aprendo un giornale
on-line assolutamente fuori dagli schemi rispetto a qualsiasi
altro quotidiano nazionale, e lo assicurò che tutto questo non
poteva che giovare al bene della nazione. “Speriamo che
l’Italia si svegli, allora!” gli restituì il commento Benjamin,
con l’aria speranzosa di uno che sta cercando di fare del suo
meglio.
Laura non disse nulla, solo ogni tanto guardava l’orologio.
Alle tre meno un quarto sbucò da una via laterale Roberto,
che questa volta per l’occasione aveva lasciato a casa la sua
pesante giacca a vento blu, per presentarsi invece con una
giacca di lana (un po’ antiquata per la verità) indossata su una
300
maglia dal collo alto. Per il resto calzava dei pratici pantaloni
di velluto scuri. Stranamente Giulia non era con lui.
Si avvicinò al terzetto che nel frattempo si era riunito nei
pressi del portone d’ingresso del Palazzo Apostolico, e fece
loro i consueti saluti di rito. Spiegò senza scendere tanto nei
dettagli che quel giorno la sua ragazza era di turno
all’ospedale, e che quindi non poteva essere presente alla
riunione. Mentre Edoardo e Laura mostrarono vivo
rincrescimento, Benjamin con la consueta espressione giuliva
sul volto gli fece notare che dalla sua faccia non si capiva se
questo gli dispiacesse, o se invece ne fosse felice. Roberto gli
avrebbe dato volentieri un cazzotto in bocca, ma si trattenne.
Si limitò a dire: “Giulia ci sarà la prossima volta”.
Poi Edoardo domandò all’americano se la sua ex-collega –
ormai si poteva definire così – si sarebbe fatta vedere. Era una
domanda più di rito che di sostanza, dato che il professore ne
prevedeva già la risposta. Infatti Benjamin prese a spiegare,
come Edoardo si era immaginato, che Grazia era un’ottima
giornalista, assolutamente scrupolosa, onesta, dedita al suo
lavoro anche se sfortunata per la sorte che in questo momento
le era toccata, che non provava alcun interesse per il progetto
della Lettera ai Laodicesi. Edoardo accennava di comprendere
scuotendo il capo su e giù mentre l’altro parlava, rivelando di
espletare quella che per lui era una pura formalità, peraltro
piuttosto tediosa.
Edoardo però gli lanciò una domanda imprevista: “Le
dispiace che non ci sia la signorina Tommasoni?”. Benjamin
lo stette a guardare per un momento incerto su cosa
rispondere: era ovvio che un po’ di rammarico lo provava, ma
che intendesse solo quello il professore? Alla fine Benjamin
aprì le braccia in segno di resa e aggiunse: “Non ho potuto
farci niente. E’ andata così”. Ma per lui quella risposta
possedeva anche altri significati.
Alle tre meno cinque comparve Martin dall’interno del
Palazzo Apostolico, lasciando tutti di stucco per come si era
materializzato in mezzo a loro. Edoardo, che era troppo
stupito – nonché infastidito – per domandare come mai lui si
trovasse già all’interno del Palazzo, preferì mantenere un
dignitoso silenzio. Roberto gli lanciò uno sguardo di puro
301
disprezzo, mentre fu solo Benjamin che osò domandargli:
“Cosa ci fai già dentro il Palazzo? Sei venuto a scortarci fin
dentro lo studio del Cardinale?”.
Martin gli sorrise compiaciuto, e rispose loro che non c’era
nessuna intenzione di scavalcarli, facendosi trovare già
all’interno del luogo prefissato per l’appuntamento. Spiegò
che era semplicemente andato a fare visita ad una vecchia
conoscenza della curia. Ma che tale visita l’aveva ben presto
terminata per rispettare l’accordo preso col gruppo.
Edoardo non disse una parola, Laura si limitò a sorridergli
e a dirgli: “Riesci sempre a farci prendere un bello spavento,
Martin! Tu sì che sai davvero stupirci tutti quanti”. Roberto
mostrò di non credergli in alcun modo, conservando il
medesimo sguardo di puro odio nei suoi riguardi.
Martin non diede troppo peso alle reazioni dei suoi futuri
compagni di équipe e voltando loro le spalle suggerì ad alta
voce: “Seguitemi, vi porto dai due sottosegretari del
Cardinale. Saranno loro a condurci da lui”. Ma prima di
proseguire domandò: “Siamo tutti qui?”, guardando con la
punta degli occhi dalla parte di Roberto. Lui se ne accorse
benissimo, perché gli lanciò in risposta un durissimo: “Mi
sembra evidente”.
Martin scrollò le spalle e disse: “Bene, allora andiamo”. E
la comitiva varcò il portone d’ingresso, col beneplacito delle
guardie vaticane.
Mentre tutti seguivano Martin, notarono con un certo astio
che il giovane sapeva destreggiarsi perfettamente all’interno
dei corridoi tortuosi del Palazzo Apostolico. Infatti Edoardo
convenne ad alta voce “Ma quante volte sei già stato qui,
Martin?”. Lui si limitò ad annuire col capo: “Qualcuna”
rispose evasivo. Dava l’impressione di voler stare sulla sue,
per questo aveva assunto un atteggiamento riservato e parco di
parole.
Li condusse in cima per una possente scalinata di pietra,
costeggiata ai lati da uno corrimano di marmo sorretto da una
serie di colonnine flessuose. Lungo la scalinata in più punti
stazionavano guardie svizzere perfettamente sull’attenti.
Giunti in alto scorsero un ufficio con la porta aperta, e
immediatamente ne uscirono Kreutz e Wassen. Sembrava che
302
stessero aspettando il gruppo. Essi si diressero a salutare i
signori Righetti e Benjamin Tolosa, che già avevano avuto
modo di conoscere, mentre fecero un semplicissimo cenno di
intesa a Martin Fischer, come lo conoscessero già fin troppo
bene. Poi si presentarono anche all’unico del gruppo che
rimaneva da conoscere, e che a onore del vero se ne stava un
po’ in disparte. Entrambi strinsero la mano a Roberto Sperati,
con tutta la cortesia e l’affabilità loro possibili.
“Bene, è ora. Sono le 15.30: è meglio che vi conduciamo
dal Cardinale, ormai vi starà aspettando” esordì Kreutz,
sbrigati quei pochi, semplici convenevoli.
Lo studio del Cardinale era situato in fondo al corridoio,
riconoscibile anche dalla targa appesa a fianco della grande
porta di quercia scura che recitava: “Responsabile Ufficio
Affari Esteri – Card. Joseph Mac Collough”. Solo in quel
momento Edoardo si ricordò che la targa sull’ufficio di Kreutz
e Wassen riportava invece la scritta: “Segreteria Generale
Affari Esteri – incaricati Sigmund Kreutz e Frederich
Wassen”.
I due sottosegretari bussarono alla porta, poi senza
attendere risposta l’aprirono e fecero accomodare il gruppo
nello studio. Pareva che fossero già d’accordo con il Cardinale
riguardo alla procedura da adottare in quella circostanza.
Infatti fecero disporre tutti su delle sedie preparate
appositamente per loro e raggruppate attorno alla scrivania
dell’alto prelato, mentre i due sottosegretari si posizionarono
impalati come statue dietro i nuovi venuti.
Agli ospiti non rimase da fare altro che fissare lo sguardo
sul viso scarno e appuntito che li stava osservando dal
momento in cui avevano varcato la soglia della porta, mentre
costui se ne stava seduto comodamente al di là della pesante
scrivania.
Il Cardinale si alzò in piedi e fece il giro del tavolone
ingombrante per andare a salutarli tutti cordialmente,
presentandosi e stringendo loro la mano. Tutti ne furono
gradevolmente stupiti, e ciò contribuì a metterli a loro agio.
Poi il Cardinale tornò a mettersi dietro la scrivania, e attaccò
subito il discorso, senza tanti fronzoli:
303
“E’ inutile che vi dica quanto sono felice di vedervi tutti
riuniti attorno al mio tavolo. In cuor mio ne sono davvero lieto
e vi ringrazio della premura che avete dimostrato per la
Chiesa, offrendovi di partecipare a quest’incontro, pur
essendone stati informati con pochissimo anticipo. Vengo
subito al dunque perché non mi piacciono i discorsi troppo
lunghi e voglio rubarvi il minor tempo possibile: ebbene,
come già sapete siete stati scelti per una specie di missione,
per tradurre come meglio potrete – e ci tengo a precisare che
ho la massima fiducia nelle vostre capacità, in quelle di tutti
quanti” e guardò dalla parte di Roberto come già sapesse che
tra tutti loro Roberto era il più titubante, “dicevo, per portare a
buon fine la traduzione di una delle più clamorose scoperte
religiose di questo secolo.
Avete intuito che sto riferendomi alla Lettera di San Paolo
Apostolo ai Laodicesi. Indubbiamente è una grandissima
scoperta non solo religiosa, ma anche archeologica, letteraria,
storica ecc. ecc. E’ anche fin troppo ovvio affermare che, se la
cosa andrà felicemente in porto, voi potreste essere senza
dubbio citati nei libri di storia tra gli scopritori ed interpreti di
un grandissimo manoscritto della storia dell’umanità. E’
inutile che nascondiamo dietro un perbenismo ipocrita il
risvolto sociale di questo progetto: se accetterete, vi troverete
con una grossa responsabilità sulle spalle; lo fareste non solo
per fare un piacere a me, ma soprattutto perché è un lavoro di
altissimo significato e dalle conseguenze remunerative, sotto
molteplici aspetti intendo, non soltanto per quanto concerne il
lato economico”.
Fece una pausa per far spaziare lo sguardo sui convenuti:
erano tutti intenti ad ascoltare con attenzione. Quindi si schiarì
la gola, e proseguì di nuovo: “Quello che ora ho da dirvi,
accrescerà solo di poco quello che già sapete. Ma è talmente
importante che mi meraviglierei se non faceste un salto sulle
sedie per lo stupore. Starà a voi, alla fine di quanto vi
annuncerò, decidere definitivamente se lavorare per il mio
ufficio o lasciar perdere. Siete ancora in tempo per prendere la
decisione definitiva, anche se sarei veramente rammaricato se
decideste di lasciare tutto.
304
Allora, innanzitutto ci tengo a sottolineare che non siete
stati scelti da me in persona, ma io a mia volta ho fatto parte di
un’equipe un po’ strana, certamente non convenzionale, dalla
quale sono usciti i vostri nomi. Io poi ho semplicemente
messo il mio placet sulla lista che l’ équipe ha stilato. Ebbene,
non vi immaginate chi vi ha scelti?”
La domanda li colse impreparati. Tutti rimasero in silenzio,
non sapendo cosa rispondere. Edoardo scrutava attentamente
il viso spigoloso del Cardinale, concentrandosi su ogni
muscolo della sua faccia ossuta ed incanutita. Laura pareva
tranquilla a prima vista, ma ad un più attento esame teneva le
gambe accavallate e ciondolava ritmicamente una gamba,
segno della tensione nervosa. Benjamin incredibilmente
prendeva appunti, probabilmente per deformazione
professionale. Roberto, che purtroppo sedeva accanto a Martin
e ciò lo rendeva inquieto, faceva di tutto per evitare di
guardare anche solo di traverso il suo compagno, mentre
anche Martin pareva vagamente allarmato, come non riuscisse
ad avere tutta la situazione sotto controllo.
Il Cardinale proseguì, dopo aver preso in mano la lista:
“Vedo che non ci siete tutti…”. Si alzò dal suo posto e si
diresse verso la finestra, dal quale si intravedeva una grande
croce che campeggiava fuori nei giardini vaticani. Per un
attimo rimase in silenzio, assorto, guardandola. Sul suo viso
comparve un’ombra di tristezza. Poi si rianimò e scandì a voce
alta e sicura: “So che siete tutti battezzati, anche il professor
Fischer che è ebreo”. Poi si voltò dalla parte di Martin quasi
per ricevere conferma di quanto aveva appena detto, e Martin
gli fece un cenno di assenso. Tutti gli altri presero a guardare
stupiti nella direzione di Martin, perché avevano dato
chiaramente per assodato che non ci fosse ombra di dubbio
che tutti i membri del gruppo fossero cristiani. Invece ora
saltava fuori che uno era sia ebreo (per nascita), sia battezzato
(per fede). Incurante di tutte quelle teste girate, il Cardinale
proseguì:
“La Chiesa vanta più di duemila anni di storia: se ci
pensate bene nessuna istituzione è mai durata così a lungo; e
sta durando tuttora, bisogna aggiungere, ad onor del vero.
Forse solo qualche antico impero del passato si è spinto oltre i
305
duemila anni di storia: penso a quello egizio, o a quello
cinese… e via dicendo, voi mi capite.
In tutti questi duemila anni di storia in cui la Chiesa ha
vissuto e ha operato per diffondere il messaggio di Gesù
Cristo, il suo fondatore vivo ancora oggi, più di una volta è
accaduto che la verità su un fatto importante, spesso una verità
di fede (cioè un dogma), nascesse inizialmente nel popolo dei
fedeli, vale a dire alla base della piramide – per così dire – per
poi salire via via nei presbiteri, nei vescovi e infine venire
codificato nei concili e nei documenti pontifici. Ad esempio
quando si trattò di definire se Gesù Cristo fosse o un uomo, o
un dio, o tutte e due, perché in seno alla Chiesa era sorta la
disputa sulla effettiva natura di Cristo, fu soprattutto il popolo
dei battezzati a difendere la verità storica che Gesù Cristo era
vero uomo e vero Dio, un popolo fatto per la stragrande
maggioranza di gente semplice, umile ed ignorante. Al
contrario occorre ricordare che gran parte della Chiesa tutta
(quella ufficiale dei sacerdoti e dei vescovi ) cadde sotto
l’influenza dell’eresia di Ario, finendo per professare tesi
eretiche. Ebbene, fu proprio da quella gente semplice e
finanche troppo ignorante (ma non in materia di fede) che ad
un certo punto si eressero come colonne a baluardo della vera
fede grandi vescovi che riuscirono a debellare l’eresia ariana
attraverso le dispute teologiche culminate nel Concilio di
Nicea, del 325 d.C.
Ma sto facendo troppa teologia, non è vero? Beh, lasciamo
perdere… Ora, la faccenda è la seguente: bisogna stabilire il
valore effettivo della Lettera che è stata ritrovata. Intanto un
primo passo è accertarsi se sia vera o falsa, e in questo senso
l’apposita commissione che ha già lavorato prima di voi si
sarebbe espressa per l’autenticità. E anch’io, sinceramente, la
ritengo autentica.
In secondo luogo si tratta di redarre la traduzione integrale
del testo: e qui entrate in campo voi con le vostre competenze
specifiche, ma non solo con quelle. Mi spiego meglio: poiché
abbiamo probabilmente a che fare con un testo pio, per
accertarsi dell’autenticità di un simile testo occorrono delle
qualità naturali – la predisposizione allo studio
dell’archeologia, della teologia, della papirologia, all’uso
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ottimale dei mezzi informatici e via dicendo – ma anche delle
qualità soprannaturali che sono soltanto dono della grazia
divina, la quale è stata infusa nell’animo del cristiano il giorno
del suo battesimo. Come voi già sapete il battesimo è il
sacramento più importante che si possa ricevere, più ancora
dell’eucaristia o della riconciliazione, perché infonde per la
prima volta e in modo irremovibile nell’animo di chi lo riceve
quel germe di vita eterna che, sviluppato piano piano, è in
grado di trasformare radicalmente una persona: di farla
diventare testimone di Cristo, capace cioè di vivere non
secondo le regole del mondo, ma secondo quelle dell’unico
vero maestro di vita che è Gesù Cristo.
La precedente commissione di esperti era arrivata ad un
punto morto: come già vi è stato spiegato dai miei abili
espositori” e qui il Cardinale scoccò uno sguardo significativo
a Wassen e a Kreutz “tale commissione si è arenata su una
parte pur minima di testo – per l’esattezza alcune note a
margine del papiro, posizionate proprio sul bordo – risultate
incomprensibili. Ciò ha sviluppato un’accesa discussione sul
significato del testo e sulla sua autenticità: se veramente è una
lettera di Paolo, perché un pezzo di essa risulta indecifrabile?
Non se ne capisce il motivo: perché non c’è solo il testo della
lettera…? Ma d’altronde se fosse soltanto una copia
egregiamente fatta, non si spiegano le qualità del papiro che si
è dimostrato risalire a prima del Mille e perfettamente
collocabile in Asia Minore, più o meno dove era situata la
comunità cristiana di Laodicea. Insomma: qual è l’anamnesi di
questo pezzo di papiro? Cosa gli è successo?
E qua veniamo alla mia idea. Visto che l’equipe di esperti
teologi e scienziati non si metteva d’accordo, ho pensato di
congelarla – per il momento – provando a percorrere un'altra
strada. Ho presentato la mia idea a chi di dovere, e ho ricevuto
il consenso a sperimentarla. Anzi, ho ricevuto anche gli elogi
e gli auguri” ridacchiò contento. “Certo non vi nego che un
po’ di remore le ho avute anch’io, ma alla fine ho pensato che,
nonostante tutto, era meglio provare. Dunque, ciò che mi ha
fornito l’idea è stato il ragionamento seguente: se su verità di
fede così importanti come quelle sancite dai dogmi, il fior
fiore dei sacerdoti e vescovi non era riuscito a mettersi
307
d’accordo (in passato mi riferisco), e soltanto la trasmissione
di queste verità in seno alla gente semplice e povera ne ha
salvaguardato intatta l’esistenza, perché non applicare lo
stesso metodo mille anni dopo, per un fatto che altrettanto
genera opposte interpretazioni ? E’ vero che questa Lettera ai
Laodicesi non è paragonabile – per importanza – alla
discussione che si è sviluppata in seno alla Chiesa riguardo la
vera natura di Gesù Cristo, come vi dicevo prima, o ad altre
discussioni simili per importanza ed effetto storico, ma il
metodo è pur sempre lo stesso. Prendere ciò che fa problema e
farlo vivere in una comunità cristiana: dai frutti si riconoscerà
l’albero, ha detto una volta il nostro maestro. Se la Lettera è
autentica, genererà in mezzo alla comunità cristiana frutti
spirituali buoni (mitezza, mansuetudine, timore di Dio, spirito
di lode e di servizio, carità…). Se non lo è, cresceranno solo
frutti cattivi (maldicenza, aggressioni, violenze e ogni genere
di sopruso).
Non voglio che vi sentiate delle “cavie” per il mio
esperimento. Voi siete dei cristiani autentici. Non tanto perché
fate delle cose grandi, o perché fate bene il vostro lavoro, o
siete bravi e cose del genere… Ma in quanto avete ricevuto lo
spirito di Gesù Cristo che dentro di voi grida che siete Figli di
Dio. Ecco, dunque mi serve una piccola fetta di uomini di
buona volontà che riproduca in miniatura e sotto ogni aspetto
la natura umana redenta da Cristo, così come appare visibile
agli occhi del mondo.
Non devo riprodurre nel vostro gruppo una miniatura della
Chiesa pensata in quanto istituzione, vale a dire la chiesa dei
sacramenti… cioè, mi serve anche questo tipo di realtà. Ma
unita all’esperienza dell’uomo comune, quello che si sente
fragile, debole, costantemente tentato dai fatti della sua vita e
della storia in cui è immerso. Insomma, intendo dire
l’esperienza dell’uomo che ha paura della morte e che
sperimenta che solo Dio lo salva dai suoi problemi.
Voi rappresentate una briciola del mare dell’umanità: tutti
voi avete fatto esperienza che in certe cose da soli non ce la
fate. Che certi pesi da portare sono più grandi di voi”.
E qui il Cardinale si bloccò, guardandoli. “Ad esempio, …”
disse rivolto a Roberto Sperati: “lei capisce cosa intendo
308
dire?”. Poiché Roberto annuì con la testa, il Cardinale non
perse tempo e lo esortò con fare paterno: “Le viene in mente
qualcosa, anche un fatto piccolo, che qui tra noi si può dire…”
e lo fissò con amorevolezza affinchè parlasse.
Roberto divenne paonazzo fino alla punta dei capelli,
cercando qualcosa di appropriato con cui rispondere
all’appello del Cardinale. Si stupì di quello che disse quando
aprì bocca: “Mi mette paura pensare al mio futuro incerto, ho
paura di quello che è successo ieri a Milano e temo di perdere
il mio posto di lavoro”. Lo disse con calma, contento in cuor
suo di vedere in quel momento la sua vita con quella
disarmante chiarezza.
Poi il Cardinale fissò Martin, che parlò tranquillamente:
“Mi sono battezzato di nascosto. Nessuno dei miei familiari lo
sa. E ho fatto giurare ai miei padrini che neppure a loro sfugga
qualcosa davanti ai miei parenti… non so se è una cosa che si
può fare questa, o se invalidi il sacramento; in effetti questo
pensiero è un’ossessione per me: vorrei dirlo ai miei, ma non
ci riesco”. La sua considerazione li stupì tutti. Era come se
fino a quel momento non si fossero per nulla conosciuti, e solo
allora emergesse un aspetto vero di ognuno di loro.
Quando il Cardinale guardò Benjamin, l’americano rivelò a
sua volta: “Io penso di aver fatto male a qualcuno… me ne
dispiace. A volte so essere perfidamente crudele”. Roberto
pensò in cuor suo che quella definizione calzasse a pennello
per Fischer, ma evidentemente l’americano doveva pur
conoscersi meglio di quanto lo conoscesse lui, invece.
Benjamin in quel momento stava pensando a Grazia, e per la
prima volta cominciò a desiderare seriamente che anche lei
fosse lì con loro.
Quelle reciproche rivelazioni, generate sicuramente dal
clima fraterno che il Cardinale era riuscito ad instaurare fra di
loro, costituirono per tutti una gradita sorpresa.
Infine il Cardinale guardò Edoardo e Laura, e Edoardo
parlò a nome di entrambi, con serena pacatezza: “Noi non
possiamo avere figli… è la nostra croce. Ogni giorno
preghiamo che Dio faccia un miracolo, ma è da dodici anni
che siamo sposati e non succede niente”.
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Edoardo sospirò e chinò il capo, i suoi modi tradivano un
misto di rassegnazione e amarezza.
A tutti parve la rivelazione più sofferta; in un muto
abbraccio consolatorio presero a fissare la coppia di coniugi in
un modo diverso da prima, provando nel cuore una delicata
commozione per loro, ma senza che affiorasse dai loro
atteggiamenti il solito trito di melassa compassionevole e di
stucchevole compatimento. Laura si sentì di aggiungere: “Non
è colpa di nessuno dei due. Semplicemente l’embrione non si
annida nell’utero, almeno questo è quello che ci hanno detto i
medici”.
Quando tutti ebbero finito di parlare, anche il Cardinale
volle intervenire: “Anch’io ho le mie difficoltà, sapete ? Ad
esempio provo una intensissima nostalgia della mia terra
almeno dieci volte al giorno!”. Anche se lo disse scherzando, i
suoi occhi lasciavano trasparire che era vero, e che
effettivamente ogni giorno in lui ci fosse un combattimento
per non domandare al Santo Padre di essere ritrasferito in
Irlanda. Poi continuò: “Ecco, avete visto? Siamo un piccolo
campionario dell’umanità: ognuno con delle paure più grandi
di lui. Per vivere nella pace, cercando di non dare spazio a
questi timori, l’uomo di tutte le generazioni, passate, presenti
e future, ha cercato e cercherà Dio.
Ebbene io ho trovato Cristo, o meglio: è lui che mi è
venuto incontro, come probabilmente l’hanno trovato anche
alcuni di voi. E con Cristo avete conosciuto la Chiesa… Non
serve che mi diciate che non esiste solo Gesù Cristo. Lo so
benissimo anch’io. E so anche benissimo che ci sono persone
che non credono affatto nel cristianesimo. Beh, vi basti sapere
che sono libere di credere in quello che vogliono. Per me però
è importante che noi conosciamo chi ci libera dalle nostre
paure, e che lo conosciamo bene. Il resto verrà da sé.
Bene, torniamo alla lettera. Se la lettera è vera, sarete voi
stessi a capirlo perché al momento difficile lei vi aiuterà,
rivelando in mezzo a voi i segni della presenza dello Spirito
Santo. Sarete voi a stabilirlo, e non la precedente commissione
di esperti teologi e scienziati, perché voi avete in più, dalla
vostra parte, l’arma delle qualità soprannaturali che possono
emergere in pienezza se non prevalgono le altre qualità umane
310
che pur possedete. Cioè: vedete anche voi che non ho
compilato una lista fatta dal più bravo programmatore, dal più
bravo biblista, dal più bravo archeologo e così via. Il loro
orgoglio, ad un certo punto, potrebbe accecarli. Ho preso voi
che siete bravi nel vostro campo, anche se non i migliori,
sperando che le qualità soprannaturali della grazia vi verranno
in aiuto al momento del bisogno. E per essere sicuro di questo,
ho dato una spintarella alla Provvidenza, Dio non me ne
voglia: ho preso delle persone già esperte nel riconoscere i
segni abbondanti della grazia che lo Spirito Santo elargisce a
piene mani. Voi non riuscite a immaginarvi, vero…?”.
Tutti lo guardarono attoniti.
Il Cardinale riprese: “Ora io leggerò l’elenco e voi capirete
subito tutto quanto”.
Si staccò dalla finestra alla quale era rimasto vicino fino a
quel momento, e allungò una mano scheletrica quanto un osso
verso la scrivania per afferrare il pezzo di carta che poggiava
sullo scrittoio. Con l’altra mano parimenti ossuta infilò gli
occhiali da vista, che gli pendevano dal collo insieme al
cordone scarlatto che reggeva la croce, e fermatosi
esattamente di fronte a loro iniziò a proclamare con solennità,
come si accingesse a tenere un’omelia:
“In giorno 2 Febbraio del corrente anno si rende noto che i
rappresentanti dei maggiori movimenti regolarmente
riconosciuti all’interno della Chiesa si sono riuniti di comune
accordo in riferimento all’ordine del giorno fatto pervenire
alle segreterie di ciascun movimento dal Card. Mac Collough;
dopo aver vagliato a ragione e con dovizia di particolari
l’argomento presentato dal suddetto responsabile del
progetto, ossia il Card. Mac Collough, e dopo aver discusso a
lungo circa tutte le piste percorribili onde risolvere l’annosa
questione di una traduzione sincera e fedele al testo, i
responsabili hanno stabilito all’unanimità di contattare
personalmente le seguenti persone, al fine di sottoporre loro
l’incarico della traduzione completa, accurata e definitiva
della Lettera di San Paolo apostolo ai Laodicesi. Ogni
responsabile di movimento avvertirà di sua iniziativa
l’incaricato prescelto dal collegio giudicante per proporgli –
attraverso un telegramma in forma concisa e senza troppi
311
dettagli – il progetto di cui rientrerebbe a fare parte. Ecco la
lista di nomi scelti direttamente dalla rosa di candidature a
disposizione:
Per Comunione e Liberazione: professor Edoardo Righetti.
Per il Cammino Neocatecumenale: signor Benjamin
Tolosa.
Per il Rinnovamento dello spirito: signor Roberto Sperati.
Per l’Opus Dei: professor Martin Fischer.
Per i Focolarini: professori Gaetano e Serena Lumini.
Coordinatore: professor Righetti.
Presidente del gruppo: Card. Joseph Mac Collough”.
Il Cardinale fece una breve pausa e staccò gli occhi dalla
pagina stampata per sincerarsi che i presenti fossero ancora
tutti attenti. Quando puntò loro gli occhi addosso, s’accorse
immediatamente che avevano già cominciato ad agitarsi sulle
loro poltrone, irrequieti come api imprigionate in un barattolo
di vetro, perché evidentemente ognuno di loro voleva dire la
sua in proposito. Li zittì invece con uno sguardo severo, che
sembrava voler loro dire: un attimo ancora, per cortesia, non
ho terminato.
A tutti indistintamente si smorzò la parola che si era
formata sulla punta delle labbra, e non rimase loro altro da
fare che costringersi ad un’innaturale e forzata calma.
Ripresero ad appoggiarsi allo schienale delle sedie, chi
sbuffando, chi esprimendo sconcerto sul volto, chi esprimendo
scopertamente nei modi una mal celata ribellione.
Si erano finalmente riuniti tutti insieme credendo di dover
mettere la loro competenza a servizio di una complessa opera
di traduzione di un documento, e invece ora scoprivano che
quella era una verità solo parziale, e che non erano stati scelti
per le loro qualità professionali, ma per il fatto che ciascuno di
loro apparteneva ad un movimento religioso. Che
significava?! Sulla loro faccia era stampata un’unica,
incredibile considerazione: ma quello, che diavolo di criterio
era?!
Il Cardinale riabbassò gli occhi e seguitò a leggere, questa
volta tradendo una leggera eccitazione nel tono di voce:
312
“Seguono le firme dei rappresentanti dei movimenti:
adesso non sto qui a leggerle tutte perché sono tante… se
conserverete intatta ancora una briciola di pazienza sarete voi
a guardarle, fra breve infatti intendo darvi una copia del foglio
che sto leggendo, così che possiate esaminarlo di persona.
Bene, alcune considerazioni: come vedete il settimo
membro sarei io; mentre, se non erro, i coniugi Lumini non si
sono presentati all’appello, né a casa di Righetti domenica
sera, né qui ora. Ma ho qui un fax da parte loro che spiega
l’inghippo. Ve lo leggo immediatamente”.
E sollevò il primo foglio rivelandone un altro dietro. Prese
a leggere ad alta voce:
“ Istanbul, 19 Marzo c.a.
Siamo spiacenti dovervi comunicare che il telegramma
riguardante la proposta di partecipare alla traduzione della
suddetta Lettera non è mai arrivato. Probabilmente è andato
perduto. Dopo che ieri Lei, Cardinale, ci ha contattato
personalmente e ci ha spiegato l’intera questione, io e mia
moglie abbiamo sentito i responsabili nazionali del
movimento di cui facciamo parte, e questi ci hanno riferito
che effettivamente il telegramma ci era stato regolarmente
inviato. Motivo per cui crediamo che sia andato
verosimilmente perduto.
Siamo lieti di accettare con viva gratitudine la proposta di
questa opera di traduzione. Nel frattempo vi porgiamo i nostri
più sentiti saluti, con la speranza che accettiate tutti di
prendere parte a questa prestigiosa traduzione. Pensiamo che
più che un dovere di studiosi verso un documento storico, sia
prima di tutto un servizio d’amore verso la Chiesa. Speriamo
che anche voi lo crediate.
Gaetano e Serena Lumini, professori di papirologia al
Museo Archeologico di Istanbul”.
A questo punto il Cardinale depose tutti e due i fogli sulla
scrivania, e guardò incuriosito le reazioni degli astanti, già
313
paventando quanto avrebbero potuto dire. Benjamin colse la
palla al balzo e domandò immediatamente:
“Ma chi sono quei due che ci aspetterebbero a braccia
aperte in Turchia?! Va bene che loro avranno sicuramente
visto la Lettera di persona visto che sono due esperti nel
campo… ma non mi piace che considerino con eccessiva
facilità l’idea che noi ci avventureremo fino là solo per una
lettera scritta da San Paolo…! Non sono certo un santo io, che
prendo e parto come un missionario verso un altro paese, così,
su due piedi…! Se le cose stanno veramente così, io non so
più se andare. Cosa c’entra se faccio un cammino di fede? E’
un’esperienza che vivo per conto mio… perché bisogna tirarla
fuori qui, davanti a tutti?”.
Benjamin era furioso. Per la prima volta in vita sua vedeva
affidarglisi un incarico in cui l’essere gionalista non valeva
poi molto.
Edoardo avrebbe voluto rispondergli che era proprio lui
quello che aveva sempre detto di essere pronto a partire in
qualsiasi momento, ma si tenne per sé quel pensiero poco
garbato e gli rispose: “Non è solo questione di svolgere un
lavoro a noi professionalmente adeguato, vedi, ma si tratta
anche del fatto di costituire quella specie di piccola comunità
cristiana di cui prima ha parlato il Cardinale, per vedere se
l’esegesi della Lettera così come risulterà all’interno del
nostro gruppo, porterà frutti di amore e di pace – e dunque si
potrà considerare autentica – oppure non ne caveremo un bel
niente – e allora potremo anche lasciarla lì ai turchi. Nessun
altro gruppo di ricerca potrebbe avere simili caratteristiche; o
meglio, potresti obbiettare che si potrebbero mettere insieme
altre persone degli stessi movimenti, ma secondo me non
sarebbe lo stesso”.
“Ben detto, professor Righetti” disse Mac Collough. “Certo
se voi rifiutaste, subentrerebbero i nomi di altre persone
all’interno dei movimenti di cui fate parte, presenti in origine
nella rosa delle candidature… ma voi sareste il top: tutti
insieme, s’intende” spiegò il Cardinale.
“Io comunque continuo a non capire questa storia dei frutti
spirituali che dovrebbero nascere all’interno di questa equipe”
bofonchiò Benjamin.
314
“Anche per me è difficile da capire…” annunciò
timidamente Roberto.
Edoardo venne nuovamente in aiuto del Cardinale, poco
intimorito dalla scontrosità dei due uomini: “E’ più semplice
da mettere in pratica che da capire, in realtà. Provate a
riflettere: la precedente commissione di esperti non è riuscita a
dare un parere all’unanimità. Si sono spaccati in dispute
teologiche: è autentico, non lo è…, è dei primi secoli d. C., è
solo una copia fatta ad arte… capite?! Ma se la Lettera venisse
applicata concretamente dal punto di vista spirituale, invece
che studiare se sia autentica o no, solo allora troveremmo la
risposta che cerchiamo, perché andremmo a studiarla dalla
giusta prospettiva. Non dico che non sia importante il lavoro
che è stato svolto finora, ma è fuor di ogni dubbio che non è
più sufficiente. Serve un apporto in più, direttamente dal
soffio dello Spirito…”.
“E poi è da un decennio che in tutti i seminari si studia la
“Pastorale dei Movimenti”, ovvero lo studio della storia dei
movimenti: come sono nati, come si sono sviluppati, il loro
apporto alla trasmissione orale della fede… Ormai se uno fa
parte di un movimento – e al giorno d’oggi ne fanno parte
moltissime persone – non lo si può più ritenere un fatto
puramente privato. Ognuno, in ultima analisi, fa parte della
Chiesa. E ora è la Chiesa che sta chiedendo il nostro aiuto.”
Martin intervenne per la prima volta nel dibattito.
Benjamin lo ascoltò senza battere ciglio, ma sulla faccia gli
si leggeva esattamente quello che pensava. E cioè che
quell’idea gli sembrava assurda.
Allora Roberto domandò: “E la mia fidanzata? Può
prendervi parte? Io ho dato per scontato che anche lei potesse
lavorare al progetto…” tentò di spiegare per nascondere il
fatto che in realtà Giulia non era stata minimamente accennata
nel telegramma che Roberto aveva ricevuto, mentre lui
l’aveva presentata a casa di Righetti come se facesse parte a
tutti gli effetti dell’equipe.
Benjamin fissò attentamente il Cardinale, perché da quello
che avrebbe risposto, avrebbe avuto riscontro anche per il caso
di Grazia.
315
“Stiamo vedendo se è il caso” rispose cortesemente il
Cardinale. “In fondo lei non era stata inserita nel progetto
originale”, tutti scoccarono a Roberto sguardi tremendamente
indagatori. Il Cardinale se ne avvide, ma proseguì
apparentemente assorto nella spiegazione che stava fornendo:
“penso presumibilmente di sì, comunque, sia perché verrebbe
utile un componente infermieristico nel gruppo – noi non ci
avevamo pensato – sia perché il suo apporto si potrebbe
rivelare indispensabile. Anche se non è un elemento rilevante
dal punto di vista strettamente esegetico, e né farebbe parte
dell’ufficio stampa, il suo ruolo potrebbe chiarirsi durante la
permanenza in Turchia. Di più anch’io non so dirvi”.
Roberto fece un cenno d’assenso.
Mac Collough continuò sempre concentrato su quel
problema: “Quindi l’unico vero problema è sincerarsi che il
profilo della sua fidanzata risulti professionalmente
auspicabile, vista la pubblicità stessa alla quale l’equipe andrà
incontro. Credo che già vi rendiate conto che potreste
ritrovarvi, a vostra insaputa, sotto gli occhi dei riflettori, anche
se noi naturalmente cercheremo di tenere la faccenda top
secret. Ma se le cose volgessero a buon esito, allora è facile
che i media si lancino a briglia sciolte sulle notizie che vi
riguardano, e capite bene che meno appigli trovano per
montare scandali su di voi, meglio è”.
Poiché Martin stava già per intervenire, il Cardinale lo
prese d’anticipo: “Lo so già, signor Fischer: nel suo caso
cercheremo di non far trapelare anche il suo nome. Sappiate”
disse rivolto a tutti “che questa è l’unica condizione che ha
posto il signor Fischer per lavorare con noi: che cioè lui non
risulti dei nostri, di modo che le Stelle Spezzate lo lascino in
pace. Questo perché il signor Fischer corre seri pericoli di
venire coinvolto ancora una volta, contro la sua stessa volontà,
negli ambienti delle Stelle Spezzate, ed è fin troppo
comprensibile come la cosa migliore per lui sia tenersi lontano
da qualsiasi mezzo di informazione: non rilasciare interviste,
non partecipare a convegni… almeno per il momento”.
“Esatto. Per ora sono proprio tagliato fuori dalla società
civile: sono reo di aver fatto parte di questo gruppo
innominabile. La gente mi crede un mostro, anche se ne sono
316
uscito” commentò acido. “Per me prima ci muoviamo, prima
esco da un paese che pensa male di me”.
“La volpe perde il pelo ma non il vizio” pensò a
malincuore Roberto, mentre ascoltava il dibattito in corso.
Non gliene importava proprio un bel niente che Fischer fosse
uscito dalle Stelle Spezzate, che si fosse pentito con tanto di
dolorosi mea culpa professati quella domenica sera da
Righetti, perché ai suoi occhi continuava a rimanere un essere
spregevole. E poi nessuno gli levava di mente che Fischer
pareva comportarsi come chi ha l’aria di voler tagliare la
corda quanto prima: che avesse combinato dell’altro, si
domandò Roberto?
Quanto a lui non sapeva ancora che pesci pigliare: se fosse
il caso di partire per la spedizione archeologica, o lasciar
perdere definitivamente.
“E poi c’è anche un altro motivo per cui è indispensabile la
segretezza della partecipazione del signor Fischer: costui ha
una personale teoria su quelle note a margine…” disse infine
Mac Collough.
A quelle parole calò un silenzio innaturale sulla piccola
assemblea lì riunita. Tutti ricordavano benissimo la
spiegazione dettagliata e al tempo stesso tremenda che Fischer
aveva fornito loro a proposito di quelle note, ed essa sembrava
valere tanto più ora – alla luce dei fatti della Borsa risalenti al
giorno prima – come un punto di non ritorno. Era difficile
credere, infatti, che le Stelle Spezzate non avessero in qualche
modo manovrato in modo occulto per fomentare quel tentativo
di rivolta civile che aveva paralizzato l’Italia soltanto il giorno
prima; era anche impossibile, a questo punto, non credere che
le Stelle Spezzate perseguissero l’obiettivo dichiarato di
portare la divisione nel paese, soffiando sui moti di protesta
popolari per le palesi ingiustizie presenti nel paese e per il
malcontento dilagante tra la gente comune. Tutto ciò che era
accaduto combaciava perfettamente con quanto predetto da
Martin Fischer: come non pensare che lui ne sapesse
veramente più di loro per quanto riguardava le Stelle
Spezzate? E come non prendere almeno per una volta in
considerazione l’ipotesi fantastica – è vero – ma
assolutamente verosimile, che le Stelle Spezzate volessero
317
anche loro la Lettera ai Laodicesi? E se la volevano, perché
non sarebbe potuta esistere veramente la città europea sede
della Dimora Originaria? Anche solo a immaginare tutte
queste cose, ognuno dei presenti era preso da un vortice
tumultuoso di pensieri e sensazioni, tra le più strane mai
provate prima.
Tutti di sottecchi lanciarono sguardi curiosi verso Fischer,
che se ne stava seduto con le gambe accavallate, il capo
leggermente reclinato poggiante su una mano e un’espressione
stanca sul volto.
Il Cardinale proseguì: “Io non ritengo che le note che vi
accingete a tradurre abbiano un qualche significato oltre
quello di rappresentare un’eventuale barzelletta bizantina
dell’ottavo, nono secolo d.C.… presumibilmente! Ma questa è
solo la mia impressione, peraltro suffragata da una visione del
testo purtroppo non lunga a sufficienza per farmi un’idea
precisa. Ammetto infatti che non ho potuto tenere la prima
bozza di traduzione abbastanza a lungo per le mani, al punto
da trarre una conoscenza realistica e ben fondata. Per questo vi
do la mia assoluta garanzia che avrete la più ampia e totale
possibilità di avanzare tutte le ipotesi interpretative che vi
affioreranno nella mente, tutte quelle che vi parranno le più
opportune al fine di risolvere il mistero della traduzione”.
Quando il Cardinale ebbe finito di parlare, Martin aveva
abbozzato sulla faccia un mezzo sorriso, come fosse contento
al pensiero che la sua pista di interpretazione del papiro
cominciasse finalmente a concretizzarsi.
Benjamin meditava tra sé, spostando in continuazione lo
sguardo da un oggetto all’altro dello studio. Nello stesso
tempo faceva roteare la penna sul suo taccuino di pelle,
disegnando un’infinità di ghirigori. Qua e là sembravano
sbucare fuori da tutti quegli scarabocchi i contorni delle lettere
che formavano il nome di Grazia. Guardava dappertutto
fuorché in direzione del Cardinale. S’accorse ad un certo
punto che una porticina in un angolo era socchiusa, e questo
gli parve strano. Ma poi girò la testa e non vi diede più bado.
Roberto, invece, fissava dritto in faccia il Cardinale ed era
sempre più deciso a fare un tentativo, se non altro per
proteggere Giulia che l’aveva presa come una vacanza e
318
voleva a tutti i costi recarsi in Turchia. Però l’amara
constatazione di prendervi parte in quel modo, più per dovere
che per un’effettiva libera scelta, lo gettava in una
costernazione profonda ed il suo atteggiamento lo dimostrava:
stava sprofondando nella poltrona come una calza floscia.
Edoardo conservava la sua postura con dignità, rivelando
un forte senso di responsabilità. Si sentiva chiamato a
prendere parte al progetto anche a nome degli altri componenti
del gruppo. Il tronco eretto, il viso in tensione intento a
soppesare ogni singola parola che usciva dalla bocca del
Cardinale, gli occhi ridotti a due fessure per la concentrazione.
Stava anche pensando a come portare Laura con sé, per questo
domandò:
“Mia moglie verrebbe con me ?”.
“Sì. Può essere una soluzione. Non c’è alcun problema. In
fondo si tratterebbe di rimanere in Turchia per un mese al
massimo, il tempo di esaminare attentamente il manoscritto e
di dare la vostra opinione. Mi rendo conto che di più non è
possibile, ognuno di voi ha i propri impegni ed io stesso non
ho avuto il placet per un’operazione a tempo indeterminato:
diciamo che potremmo definirla una “operazione lampo” ad
Istanbul. Una specie di blitz. Là il professor Lumini e sua
moglie stanno già lavorando sopra il manoscritto: voi dovreste
affiancarli, nella fiducia che la sinergia che gli offrireste faccia
il resto, vi aiuti cioè a capire se si tratta di un reperto autentico
o di qualcos’altro. Consideratelo il vostro periodo di ferie, per
di più pagate”. Roberto ebbe un sobbalzo quando sentì che il
Cardinale aveva appena fatto l’identico ragionamento di
Giulia.
Le domande si esaurirono in fretta, così dopo alcune
ulteriori spiegazioni del Cardinale egli si accertò che tutti i
componenti dell’equipe intendessero prendere parte
all’iniziativa. Scherzandoci su la chiamava: la “vacanza di
lavoro”. Tutti mostrarono interesse e diedero la propria
adesione, ferie permettendolo. Soltanto Benjamin continuava
a mostrare diffidenza, e aveva assunto un cipiglio scontroso.
“Verrebbero con noi anche i suoi scagnozzi?” domandò
Benjamin accigliato.
319
Wassen e Kreutz si guardarono l’un l’altro stupiti e
pensierosi. Evidentemente non avevano mai soppesato una
simile eventualità.
Il Cardinale mostrò di pensarci su per un momento, alla
fine parlò soppesando parola per parola:
“Se ce ne sarà bisogno vi raggiungeranno”. E con quella
risposta enigmatica mostrò di considerare terminato il
colloquio.
320
XXX
Il gruppo non aveva voglia di congedarsi come se, dopo
una simile valanga di informazioni così strabilianti, nessuno
avesse voglia di tornare a casa troppo in fretta.
Wassen e Kreutz colsero immediatamente l’atmosfera
d’ansia che regnava tra i presenti, perciò si dimostrarono
molto disponibili rimanendo a loro disposizione, oltre il tempo
previsto, per rispondere a tutte le domande suscitate
dall’incontro. Dal momento che ognuno sembrava interessato
alla data prevista per la partenza, i due sottosegretari
rivelarono in maniera ufficiosa che, con ogni probabilità, si
sarebbe trattato di partire tra la fine di Maggio e gli inizi di
Luglio. Quello era l’unico periodo possibile per il viaggio,
dato che dovevano essere ottemperate due condizioni
fondamentali: che tale periodo coincidesse all’incirca con i
mesi in cui gli italiani erano soliti prendersi le ferie (più che
altro per chi ne aveva la possibilità), e che in Turchia la
temperatura fosse ancora sopportabile. Wassen e Kreutz
spiegarono con precisione che già dalla seconda quindicina di
Luglio, infatti, il caldo della penisola anatolica non avrebbe
permesso nessun viaggio turistico. Né tanto meno un viaggio
che per metà era di lavoro.
Benjamin non riusciva a scrollarsi di dosso il ricordo della
porticina socchiusa che aveva intravisto nello studio del
Cardinale. Quel particolare non gli piaceva per niente così,
mentre i suoi colleghi stavano discutendo animatamente, lui
era tutto intento a studiare un piano per sincerarsi che
dall’ufficio dal quale erano appena usciti non ne venisse fuori,
appunto, qualche altra sorpresa di cui erano stati tenuti
all’oscuro.
Quando il gruppo decise che ormai era tempo di sciogliersi,
Benjamin seguì tranquillamente i suoi compagni che si
dirigevano alla scalinata per scendere. Wassen e Kreutz
scortavano il gruppetto aprendo la strada. Ad un certo punto,
con la scusa di aver dimenticato la sua preziosa penna
Winchester, una stilografica americana doc, domandò ai due
sottosegretari il permesso di poter tornare indietro. I due
sottosegretari si stupirono di una simile richiesta, ma poiché
321
non vi trovarono nulla di strano lo assecondarono gentilmente
invitandolo a domandare aiuto, per qualsiasi necessità gli si
fosse presentata, alle guardie svizzere disposte lungo il
corridoio. E soprattutto lo ammonirono che tenesse bene in
mostra la targhetta appuntata sulla giacca su cui campeggiava
il logo del progetto di cui era a capo il Card. Mac Collough.
Radioso in volto per il buon esito della sua idea, Benjamin
volò in un baleno in cima alle scale, infilò il corridoio e poi
cominciò a rallentare il passo, esaminando attentamente ogni
singolo palmo delle pareti alla ricerca di un posto dove
nascondersi. Il suo scopo era di sincerarsi se dallo studio del
Cardinale sarebbe uscito solo quest’ultimo (ammesso che
uscisse proprio da lì), oppure uscissero più persone insieme.
Pensò che poteva appiattirsi dietro qualche statua fingendo
di prendere appunti sul suo taccuino, nella speranza che di lì a
poco passasse il Cardinale accompagnato da qualcuno e che
riuscisse a cogliere di sfuggita qualche parola di quello che si
dicevano, ma poi si disse anche che il Cardinale l’avrebbe
visto sicuramente, e che magari gli sarebbe andato incontro
per chiedere spiegazioni. E così pure se avesse finto di essersi
attardato rispetto agli altri per rispondere ad una telefonata
urgente sul suo cellulare.
Poiché una guardia svizzera lo scrutava insistentemente, lui
mostrò di chinarsi leggermente per terra, spiegando con un
mezzo sorriso: “Ho perso la mia penna stilografica, mi deve
essere scivolata per terra… penso che si trovi qui in giro, sa, è
una penna stilografica americana autentica, una Winchester…
costa un sacco di soldi!” accennò confidenzialmente, con una
punta d’orgoglio.
Proprio mentre era chinato per terra nell’inscenare la
disperata ricerca della sua penna stilografica, notò con la coda
dell’occhio una porta socchiusa ad appena un metro da lui,
quasi di fronte allo studio del Cardinale. Gli bastò qualche
frazione di secondo per scivolare lungo il muro, sempre
chinato con la schiena, e infilarsi dentro la stanza. La guardia
svizzera in quel momento stava puntando gli occhi da un’altra
parte e non si accorse di nulla.
Appena entrato Benjamin emise un respirò di sollievo al
vedere che l’ufficio era vuoto. Meno male, pensò: poteva
322
trattarsi dello studio privato di un qualche diplomatico che
stava svolgendo pacificamente il suo lavoro, nel qual caso
aveva già in mente le scuse pronte per levarsi di torno alla
velocità della luce. Invece quella stanza era piccola, non aveva
l’aria di un ufficio; sembrava piuttosto un salotto per
intrattenersi in una conversazione privata. Due porte-finestre
si ergevano sulla parete opposta, coperte da un fitto tendaggio
color verde smeraldo che gettava la stanza nella penombra;
anche per quel motivo sicuramente non c’era nessuno, pensò
subito Benjamin: qualsiasi persona normale avrebbe lavorato
lì dentro scostando le tende e facendo entrare la calda luce
pomeridiana. C’era nell’aria un’impressione di intimità: al
posto di una robusta scrivania di legno, come ci si poteva
aspettare, c’erano quattro divani stile inizio secolo disposti a
quadrato nel mezzo della stanza. Sulle restanti pareti erano
appesi ritratti e due massicce librerie in mogano erano ricolme
di pesanti volumi.
Benjamin si appiattì dietro la porta ed aspettò che l’uscio
dello studio del Cardinale si aprisse, ponendo la massima
attenzione a gettare il viso fuori dalla visuale della porta per
quei pochi centimetri che bastavano a sbirciare di fronte a lui.
Tanto meticoloso ardire fu ben presto ripagato: una decina
di minuti più tardi udì nel corridoio delle voci. Due persone
stavano discutendo amichevolmente proprio a mezzo metro da
lui. Una era la voce del Cardinale, l’altra gli parve vagamente
familiare, ma non riusciva a capire a chi appartenesse. Quel
che era certo era che apparteneva ad una donna.
Benjamin si sforzò di gettare fuori la testa quel tanto che
bastava a far svolgere un giro di perlustrazione ai suoi occhi
lungo il corridoio, con l’idea di fare subito dopo marcia
indietro per tornare a nascondersi. Quello che vide gli accese
il batticuore.
Accanto al Cardinale, perfettamente a suo agio parlava
Grazia. Benjamin non riusciva a distinguere quello che i due si
dicevano, perché parlavano a bassa voce, come due vecchi
amici. Era incredibile la confidenza che c’era tra di loro. Per
di più se non l’avesse vista con i suoi occhi, non l’avrebbe
riconosciuta: aveva i capelli lisci che le ricadevano
meravigliosamente sulle spalle, e tutto l’abbigliamento era
323
come più casual. Benjamin pensò che era una Grazia che non
aveva mai visto. Lui conosceva la giornalista perfettamente
pettinata e truccata, inamidata nei tailleur e nei completi
costosi. Davanti a lui, per quella manciata di secondi che era
riuscito ad intravedere, stava una donna normalissima, in
maglia e pantaloni, dimessa e bella al tempo stesso.
Purtroppo Benjamin non ebbe neppure il tempo di
riprendersi da quello che aveva appena visto, che le due figure
si allontanarono da lui. Gli sembrò di capire che il Cardinale
stesse accompagnando Grazia all’ingresso, per congedarla
personalmente o quasi. Benjamin si appoggiò scoraggiato alla
porta, sbuffando desolatamente. Gli si affacciò nella mente il
pensiero che forse era meglio che non avesse mai visto quello
che aveva appena scorto. Si passò una mano nei capelli sudati,
mentre un senso d’inquietudine crescente cominciò a
paralizzargli le gambe.
Dopo alcuni interminabili minuti in cui la sua mente passò
in rassegna tutte le ipotesi che riuscì a immaginare per darsi
una spiegazione di quello che aveva appena visto, decise per il
momento di soprassedere. Si staccò dalla porta ed uscì allo
scoperto nel corridoio. In mano la sua penna stilografica che
doveva servirgli da lasciapassare e che ovviamente non aveva
mai perso: era sempre rimasta al sicuro nella tasca della sua
giacca.
Il passaggio lungo il corridoio sembrava sgombro, in giro
non s’intravedeva nessuno e le guardie svizzere parevano
immobili quanto statue di marmo. Tenendo bene in evidenza
nella mano la stilografica, che nella sua messinscena doveva
essere stata appena ritrovata, Benjamin cominciò ad
incamminarsi lentamente verso l’uscita. Stava finalmente
raggiungendo le scale, quando spuntò all’improvviso
dall’angolo della balaustra il Cardinale.
In quello stesso momento gli venne il fondato sospetto che
l’alto prelato avesse scortato Grazia solo fino alla scalinata,
per poi lasciarla procedere da sola, mentre lui imboccava la
direzione perpendicolare a quella del corridoio e della
scalinata.
“Vedo che non capita solo a me di tornare indietro, a volte”
lo stuzzicò amabilmente il Cardinale.
324
“Mi era scivolata di tasca la mia stilografica” provò a
spiegare Benjamin evidentemente confuso dallo strano acume
del Cardinale. “Ci sono molto affezionato. Così sono tornato
indietro per recuperarla” abbozzò ancora più titubante. Aveva
paura che l’alto prelato non avesse affatto mangiato la foglia.
I due si guardarono negli occhi per trenta secondi. Anche
se i tratti del viso del Cardinale erano spianati, nonostante le
rughe gli ricoprissero il volto come su un campo ben arato
spunta l’erbaccia, i suoi occhi tradivano un pensiero, gli
parevano due squarci profondi, illuminati da un paio di vivide
fiammelle celesti. Benjamin capì al volo che quell’uomo stava
meditando qualcosa, così tentò di stornare il discorso,
azzardando: “E quanto a lei, mi è lecito domandare per qual
motivo è dovuto tornare sui suoi passi ?”
Il Cardinale sembrò per un attimo valutare se rispondere.
Poi disse: “Le posso confidare che si è trattato di
un’intuizione, direi.” La risposta era venuta, ma Benjamin
dovette pagare cara quella rivelazione. Era pronto a saggiare
le capacità dell’americano di intendere veramente quello che
lui avrebbe soltanto rivelato tra le righe. I tratti del viso prima
distesi si fecero di colpo taglienti. La faccia spigolosa sembrò
all’improvviso scavata nella nuda roccia.
“Cosa vuole dire, Eccellenza?”.
Benjamin provò ad assumere un tono di voce ossequioso,
per vedere se le cose andavano meglio.
“Ah, ah, ragazzo, mi prende in giro?” rispose senza mezzi
termini l’altro.
Benjamin era esterrefatto.
“Mi scusi, non capisco”. Non pensava nemmeno
lontanamente che il Cardinale stesse saggiando la sua
intelligenza.
“Allora adesso le chiarisco io le idee: si dà il caso che abbia
appena accompagnato un mio caro ospite qui alla scalinata.
Dopo esserci salutati, lui è sceso, mentre io ho ripreso a
camminare lungo il corridoio, proprio nella direzione
perpendicolare alla scalinata. A metà corridoio, una vocina
nella mia testa mi ha detto: “Girati!”. Sa, io mi fido sempre
del mio istinto: è infallibile; mi fa fare delle scoperte che mai
avrei immaginato. Non capita anche a lei di avere, come dire,
325
delle sensazioni…? Così mi sono girato e l’ho vista.
Naturalmente l’ho voluta raggiungere subito”. Benjamin era
sempre più sbigottito. Pensò che il Cardinale lo stesse
prendendo in giro.
“Sono senza parole, mi creda, eccellenza. Lei è davvero
formidabile!” fu l’unica cosa che riuscì a balbettare.
“Allora, come mai è tornato sui suoi passi?”
“Come le ho già detto, avevo perso la mia penna
stilografica e volevo ritrovarla”.
“Ah sì?”.
Il Cardinale lo squadrò come il maestro che sta per mettere
in punizione l’allievo indisciplinato.
“E’ così. E’ la verità” riaffermò Benjamin con più forza,
facendo appello a tutta la sincerità possibile che in quel
momento gli riusciva di trovare.
“Ragazzo: lei è in errore. Ma non importa. Mi dica: come
fa una penna stilografica a cadere da un taschino, quando il
sottoscritto ha osservato distintamente che lei la riponeva con
la massima cura all’interno della sua giacca, alla fine del
nostro colloquio nel mio studio? Sono vecchio, ma non
rimbambito. E da lontano ci vedo benissimo”. Benjamin si
sentì colto con le mani nel sacco. Sprofondò dalla vergogna. Il
Cardinale riprese: “Mi dica anche: ha visto l’ospite con il
quale mi sono intrattenuto?”. E gli lanciò un’occhiata che lo
fece raggelare. Benjamin riuscì a malapena a scuotere il capo
in maniera affermativa.
Sulle labbra del Cardinale si schiuse un debole ed
enigmatico sorriso. “Bene, non tutto il male viene per nuocere,
ragazzo”. E cominciò a scendere le scale. Poiché l’americano
era rimasto impietrito in cima, il presule gli intimò rudemente:
“Non resti lì imbambolato, per favore. Mi segua!”.
Benjamin prese a scendere le scale, stando dietro al
Cardinale come una pecorella smarrita sta dietro il cane da
guardia.
“La prego di non rivelare a nessuno che ha visto la
signorina Tommasoni parlare con me” gli intimò.
Benjamin, che non si era distinto per eccessive doti di
intelligenza, ma era coraggioso, si fece animo e riprese: “Per
caso, ha accettato di collaborare con lei, Eccellenza?”
326
“Ah, ah. Le piacerebbe saperlo, eh! Posso dirle che per ora
ci sono dei contatti, ma non come se li può immaginare lei”.
Poi si fermò e si girò verso l’americano che pareva stupito.
Erano arrivati in fondo alla scalinata.
“Le domando scusa se l’ho trattata un po’ rudemente, sì,
insomma, non sono un uomo che va per il sottile, purtroppo
non è un pregio per uno come me che lavora nella diplomazia
vaticana. L’ho torchiata bel bene e penso anche che lei se ne
sia accorto”. Benjamin annuì. L’altro riprese: “Lei è un uomo
onesto e sincero, nonostante la piccola bugia che mi ha voluto
rifilare. Ma per questo non la biasimo e non penso male di lei.
Anzi, mi auguro che alla fine decida di prendere parte alla
spedizione in Turchia; si è dimostrato il più ritroso a prendere
in considerazione questa idea: ci pensi su e prenda la
decisione giusta. Lei ha dalla sua parte un sacco di coraggio:
lo sfrutti bene”. Benjamin avrebbe voluto domandargli qual
era la decisione giusta da prendere, e soprattutto se Grazia
sarebbe venuta con loro. Ma capì che il tempo a sua
disposizione era terminato. Si strinsero la mano.
Poi il Cardinale proseguì verso un altro corridoio, mentre a
Benjamin non rimase altro da fare che infilare la via d’uscita.
Fuori, degli altri non c’era più nessuno. Erano già tutti
andati via. Per un momento Benjamin si rattristò: chissà se si
erano detti qualcos’altro, o se si erano accordati per ritrovarsi
insieme a casa di Edoardo, o al ristornate, o in qualche altro
luogo per conoscersi meglio prima di partire. In quel caso,
sperò che lo avvisassero. In fondo Edoardo aveva gli indirizzi
di tutto il gruppo. Lo avrebbero avvisato sicuramente di una
simile eventualità. Tuttavia si disse che doveva chiamare
Righetti per rassicurarlo che avrebbe partecipato alla
spedizione, caso mai i suoi colleghi nutrissero qualche
ragionevole dubbio in proposito.
Guardò in alto: il cielo era sempre pulito e cristallino,
identico a quando era arrivato quel primo pomeriggio. Chissà
come, scrutando quel cielo perfettamente terso, era pervaso
dalla netta sensazione che il tempo si fosse fermato. Gettò uno
sguardo all’orologio: erano appena le cinque. L’aereo per
Milano si sarebbe levato in volo di lì a due ore. Gli rimaneva
ancora del tempo libero. Gli venne voglia di comprarsi un
327
gelato prima di fare rientro a casa e riprendere a scrivere sul
suo giornale on-line. Il primo gelato della nuova stagione: “Sì,
concediamocelo!” approvò. In fondo la giornata non era
ancora terminata. E forse nemmeno la sua avventura con
Grazia poteva dire con certezza che fosse definitivamente
conclusa.
Con quel pensiero che gli frullava in testa s’incamminò
felice per le strade di Roma.
328
EPILOGO
VENERDI’ 20 Marzo
“Sono tempi cupi quelli verso cui l’Italia si sta
incamminando a passi da gigante. Ieri notte il Presidente
della Repubblica ha dato ufficialmente al segretario di
Fondazione Risorse Nuove onorevole Eugenio Augusto Lanza
l’incarico di formare il nuovo governo. Solo in caso non vi
riuscisse si andrebbe ad elezioni anticipate. Ma l’onorevole
Lanza ha assicurato che ha già nel cassetto una bozza di
alleanza con alcuni partiti del centro-destra e con il partito
più grande del centro-sinistra per dare vita ad un grande
governo di coalizione. Tale nuovo, forte esecutivo dovrebbe
finalmente condurre il paese fuori dall’inchiesta sulle Stelle
Spezzate, oltreché ricondurlo sui binari già segnati
dall’Unione Europea.
L’unica incognita, per il momento, è rappresentata dal
Partito della Lega Araba che non ha ancora confermato se
entrerà o meno nella grande coalizione. E’ una concomitanza
davvero singolare che proprio ora, in questo difficile
frangente, il partito della Lega Araba abbia deciso di
scendere in campo prendendo apertamente posizione, dopo
due decenni almeno di onesto, quieto ed incessante lavorio
dietro le quinte di Palazzo Montecitorio. Nato in sordina, nel
panorama politico di questi ultimi anni in effetti non ha mai
figurato attivamente; non se ne è mai parlato molto perché è
rimasto buono buono all’opposizione, lontano dai giochi di
palazzo; ma ora sembra proprio deciso ad alzare la testa e a
rivendicare alcune prerogative a tutto vantaggio dei suoi
iscritti, forte del fatto che si presenta come un partito
“pulito”.
Con una metafora non proprio felice, il nuovo Presidente
del Consiglio ha voluto definire la sua prossima, probabile
coalizione come la “Coalizione dalle grandi mani”. L’intento
sarebbe quello di sottolineare la vasta apertura della
coalizione, che radunando partiti dalla destra alla sinistra
prometterebbe veramente di porsi al servizio del paese. Ma i
329
malevoli l’hanno già ribattezzata “dagli artigli lunghi”.
Staremo a vedere.
Il Partito della Lega Araba, notoriamente la voce dei
musulmani “moderati” in Italia, ha espresso l’intenzione di
riunire nell’immediato i suoi più alti esponenti (imam e
quant’altri), e allo stesso tempo i suoi più fedeli collaboratori
per definire la linea da seguire. Si è dichiarato disposto ad
entrare nell’esecutivo qualora il Presidente del Consiglio
assicurasse una maggior presenza di italiani musulmani nel
governo; basterebbe solo una poltrona ministeriale – ha detto
– a titolo simbolico (cioè un ministero marginale), per
mostrare agli italiani come anche i musulmani siano parte
integrante del paese e non cittadini di serie B. Ha chiesto
anche di aumentare il numero delle moschee, insieme a più
vantaggi fiscali in favore dei nuclei familiari numerosi.
Qualora invece nella coalizione si manifestassero delle
incomprensioni o dei diktat, la Lega Araba non potrebbe
concedere la sua percentuale di voti.
Voci che ho raccolto personalmente a Palazzo Madama,
comunque, mi hanno assicurato che la Lega Araba è tenuta in
grande conto, perché alle prossime elezioni si attesterà
sicuramente su un buon otto o nove percento; più o meno
come Fondazione Risorse Nuove. Mettendo insieme i due
risultati (ammesso che i due partiti possano pensare ad
un’alleanza elettorale, fondata su un comune programma;
cosa che non è del tutto fuori luogo presumere) si arriverebbe
a quasi quel venti percento che darebbe sicuramente filo da
torcere ai partiti storici del centro-destra e del centro-sinistra.
Ma la fine della legislatura, nel caso essa durasse
naturalmente fino al suo compimento, è prevista per il 15
Maggio del 2058. Quindi abbiamo ancora quattordici mesi
davanti a noi. Un tempo sufficiente perché il nuovo esecutivo
possa lavorare tranquillamente, con la fiducia del popolo
italiano.
Resta da vedere, dunque, cosa farà l’onorevole Lanza. A
lui il nostro più cordiale augurio di servire con degno spirito
di abnegazione il paese e di lavorare per il vero bene del
popolo italiano”.
Benjamin Tolosa, dall’Eco Americano.
330
APPENDICE7
Fondazione Risorse Nuove
Carta Fondamentale dei Principi e Linee Guida
Ispiratrici
Premessa introduttiva
“Tempo fa un giornalista di una importante testata mi
chiese quale fosse il motivo per cui avevo dato vita ad una
nuova aggregazione politica. “Con tutte quelle che ci sono
già…”obiettò ostentando una certa indifferenza che
accentuava il ghigno malevolo della sua espressione “Che
bisogno c’è di averne un’altra? In questo modo lei frammenta
ulteriormente la scena politica già sufficientemente divisa e
impaludata nelle beghe di governo”.
Lasciai che lui esternasse tutte le sue critiche e poi gli
risposi che, lungi dal voler portare divisione e discordia sulla
scena politica rubando il voto ad altri partiti, io non avevo
fatto altro che rispondere ad un’autentica “chiamata”
interiore.
Per capire il senso profondo del mio operato occorre
risalire indietro di cinque anni, ad una folgorazione
improvvisa che una notte attraversò la mia mente e il mio
cuore, squarciandoli come un lampo luminosissimo. Quello
che provai subito dopo fu per me altrettanto certo e sicuro
come sono certo della mia stessa vita. Sentii che dovevo
orientare tutto il mio agire alla luce di quell’intuizione e
applicarmi ad essa come si trattasse di una regola di vita,
chiara e luminosa.
Riflettei a lungo su quella notte e sull’illuminazione che
avevo avuto.
Prima di allora, avevo accettato di collaborare con la mia
casa editrice ad un ambizioso progetto. Riguardava la stesura
7
Questa parte si trovava originariamente nel romanzo (a pagina 170). In
vista della pubblicazione l’ho tagliata perché, a mio parere, appesantisce
l’opera; essendo però una parte essenziale (in vista dell’intera trilogia) ho
creduto opportuno inserirla in appendice.
331
di un testo che ripercorresse le principali tappe del cammino
della storia dell’Unione Europea, dai suoi inizi ad oggi. Era
una profonda convinzione mia e del mio editore, infatti, che
dopo le tre8 guerre mondiali e i cambiamenti epocali che ne
seguirono, l’Europa non fosse più rappresentata
coerentemente dai suoi schieramenti politici. Il mio libro
doveva diventare un caso editoriale - nell’intenzione del mio
editore e dei suoi consiglieri - così da creare un acceso e
infuocato dibattito sulle radici dell’Europa e sul suo prossimo
destino. Naturalmente era previsto il lancio pubblicitario in
grande stile e ogni altra diavoleria possibile per
incrementarne la diffusione.
A me sarebbe bastato che il mio saggio contribuisse a
creare una nuova coscienza europea, affinché qualcuno dei
partiti già esistenti si accollasse il rinnovamento urgente della
situazione politica, culturale e sociale in cui già da tempo
versava la nostra amata Europa.
Dopo quella mirabile notte, pertanto, stetti a pensare e
ripensare; capii che non c’era alternativa possibile: non
dovevo fare un resoconto della storia passata, che servisse a
qualcun altro. Dovevo contribuire a scrivere ex-novo quella
presente. Decisi che avrei messo a frutto la mia opera e il mio
lavoro non per uno dei partiti già esistenti, ma per uno nuovo
che avrei fondato io stesso.
E feci con me stesso una scommessa: dal mio piccolo
studiolo di scrittore famoso e conosciuto in tutta Europa,
avrei usato il tempo a disposizione da questo momento fino
alle prossime elezioni, per dar voce, corpo ed anima, ad
un’organizzazione, politica e culturale insieme, che avrei
chiamato Fondazione Risorse Nuove. Grazie agli amici di
lunga data che accettarono subito e senza riserve il mio
progetto, per fortuna sparsi nei principali stati europei, avrei
fatto in modo che presto il partito fosse presente in tutte le
singole nazioni d’Europa, oltre che nel Parlamento stesso a
Bruxelles, a beneficio e a servizio dei popoli dell’Unione
Europea.
8
1914-1918/ 1939-1945/ guerra fredda: 1946-1989.
332
Quel tempo che mi ero preso fu più che sufficiente. Gli
eventi successivi mi dettero ragione. Vinsi la scommessa. Alle
prime elezioni europee la Fondazione, che si presentava per
Strasburgo, prese il dieci percento dei voti. Di lì a poco, allo
scadere delle singole elezioni nazionali, anche ciascuna delle
altre Fondazioni si sarebbe attestata intorno a quel risultato.
Alla luce dei fatti che avvennero e che ho testé raccontato,
posso dire, a ragione, che la storia mi aveva chiamato, e io le
avevo risposto. In questo modo ero diventato una parte viva di
essa”.
(dai discorsi del Fondatore: “L’alba di una
nuova era”, Ch.mo prof. Lucio Sapienza)
Statuto
Comma 1 (premessa generale): La Fondazione Risorse
Nuove ha la sua sede-madre a Bruxelles. Come partito politico
regolarmente eletto dai popoli dell’Unione Europea è presente
anche nel Parlamento Europeo a Strasburgo. In più, opera
all’unisono con ciascuna delle singole Fondazioni Nazionali.
In questo modo, operando cioè su questi due livelli, si
prefigge di fornire ad ogni uomo i mezzi e gli strumenti idonei
che gli consentono di entrare a far parte in senso pieno del
secolo in corso.
Il secolo unanimemente definito Il secolo breve9 è ormai
alle nostre spalle, dopo aver attraversato prove così tremende
quali, è lecito sperare, non se ne vedranno mai più. Ora si è
entrati a far parte del secolo dell’umanità rappacificata e
compito principale di chi ha veramente a cuore le sorti
dell’Unione Europea è di permettere che ogni uomo entri a
pieno titolo e diritto nel terzo millennio, con tutte le
potenzilità di lavoro, di benessere, di vita sociale, di
educazione, di tutela personale che lo sviluppo odierno
permette.
9
1914-1989
333
Comma 2: Due sono gli scopi primari della Fondazione
Risorse Nuove. La prima parte dello statuto tratta del primo
scopo; la parte immediatamente successiva sviluppa il
secondo. Il primo scopo è propedeutico al secondo. Ossia, per
realizzare il secondo scopo, è necessario porre in atto il primo.
Parte prima
Comma 3: Il primo scopo, quello più urgente, riguarda la
promozione dell’integrità politica dell’Unione Europea,
salvaguardandone ad un tempo i profondi valori ispiratori e i
bisogni nuovi più impellenti. A tal fine F.R.N. si prefigge il
dovere di collaborare attivamente con le altre formazioni
politiche, favorendo ed alimentando il dialogo reciproco.
Favorire il dialogo fra i vari partiti è la caratteristica che
rende assolutamente unica nel suo genere e nel suo raggio
d’azione la Fondazione: nessun altro partito esistente si
prefigge questo scopo. Essa pertanto si presta ad eliminare
ogni ostacolo possibile dal percorso di avvicinamento comune
che vede protagonisti tutti gli schieramenti politici. Infatti
qualora si verifichi un dissenso, un’incomprensione o una
divergenza anche molto grave tra i partiti, F.R.N. ha il preciso
compito di arginare, nella misura possibile, la divisione testé
apportata dagli accadimenti storici.
“A lungo termine l’intesa paga di più della contesa. La
prima costruisce il futuro; la seconda lo demolisce”
(Considerazioni pratiche in vista del prossimo secolo, prof.
L. Sapienza)
Comma 4: Dal momento che la giusta sede per trattare i
nuovi bisogni emergenti (c.ma 3) è prima di tutto ogni singolo
Parlamento nazionale, F.R.N. si è subito preoccupata di essere
presente sul territorio europeo tramite una ramificazione stato
per stato, così che ogni problema possa essere vagliato,
discusso ed affrontato là dove esso sorge.
Solo qualora si rivelasse impraticabile risolvere il problema
a livello nazionale, allora è auspicabile e al tempo stesso
334
conveniente passare il problema ad un livello di competenza
superiore: vale a dire al Parlamento Europeo.
“Un buon metodo di lavoro è quello di cercare la soluzione
di un problema là dove questo è nato. Non serve a molto,
infatti, portare il problema fuori da dove è sorto,
decontestualizzarlo, quando la soluzione il più delle volte è
letteralmente sotto gli occhi”
( Il metodo politico, prof. L. Sapienza)
Comma 5: Come si sviluppa l’azione di F.R.N. ? Dove sia
possibile, e dove ciò avvenga in base a condizioni ragionevoli,
essa agisce in concordia con gli alleati di governo (o con
quelli dell’opposizione se è all’opposizione), cercando di
favorire l’unità e la collaborazione dei partiti fra di loro. Il suo
obbiettivo è quello di creare le premesse affinché ci sia il
maggior numero possibile di questioni su cui i partiti si
ritrovano d’accordo, usando gli opportuni mezzi a
disposizione nell’agone politico: trattative svolte con
discrezione e diplomazia, consultazioni, proposte di legge che
trovino il consenso anche dell’opinione pubblica.
F.R.N. non farà mai uso di mezzi illeciti nel condurre le sue
trattative politiche: vale a dire non ricorrerà mai ad accordi
segreti, a violazioni della costituzione o del diritto pubblico o
penale, o ad un comportamento trasformistico.
Naturalmente F.R.N. opera all’interno dei partiti che
concorrono a formare la maggioranza di governo (o all’interno
di quelli dell’opposizione) in base ai risultati elettorali così
come sono stati espressi dalla volontà della popolazione
europea (o dei singoli stati nazionali).
“I momenti migliori che la storia dell’umanità ha
conosciuto si sono verificati allorquando poche idee forti sono
state sostenute e attuate dal maggior numero di persone al
potere”
(Ripercorrere la storia europea alla luce della Fondazione,
prof. L. Sapienza)
Comma 6: In virtù del fatto che F.R.N. promuove il
dialogo tra i partiti, onde scoprire e mettere in evidenza i punti
comuni su posizioni divergenti, la Fondazione si pone dunque
335
a servizio dell’homo europeus10, senza distinguere a quale
schieramento politico appartenga.
Pertanto la Fondazione non si colloca mai, una volta per
tutte, né a destra, né al centro, né a sinistra. Ma di volta in
volta, in base agli accordi elettorali assunti, si prefiggerà di
promuovere l’unità e il dialogo tra i partiti in cui si è inserita.
Tale prassi è un’autentica rivoluzione copernicana nel
sistema di governo delle nazioni e dei popoli. Ma risulta
indispensabile se ci si vuole porre al servizio vero dell’uomo e
non dei singoli interessi di partito. Cioè non è l’elettore che si
colloca da una parte o dall’altra degli schieramenti politici
aderendo col suo voto ad una preciso partito e al suo
programma politico, ma è il partito (F.R.N. in tal caso) che si
colloca di volta in volta al centro, a destra o a sinistra –
operando alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti i cittadini –
per servire la pace, lo sviluppo, la promozione della vita
dell’uomo.
Pertanto in qualsiasi momento della vita del cittadino
europeo, in relazione agli avvenimenti storici contingenti, se
F.R.N. garantisce meglio di altri schieramenti politici
soluzioni efficienti, stabili e durature nel tempo, l’homo
europeus per sua precisa e libera scelta elettorale può, con il
suo voto, esprimere il proprio consenso a favore della
Fondazione, anziché del consueto schieramento politico. E
questo può accadere tutte le volte che la sensibilità
dell’elettore converga con quella della Fondazione.
“Oggi accade che un uomo voti un partito in base
all’accordo (nel migliore dei casi) tra le sue idee politiche e la
concezione di pensiero del partito prescelto. In questo modo
ogni partito riflette il pensiero politico di chi l’ha votato, ma
non solo; perché la visione globale della realtà che il partito
propone per risolvere i problemi può non soddisfare appieno
un elettore scrupoloso e attento. Non così accade per la
Fondazione”
(La Fondazione come
metapartito, prof. L. Sapienza)
10
Dall’homo romanus all’homo europeus: più di 2000 anni di storia (prof.
L. Sapienza), pag. 128
336
Comma 7: La Fondazione prende posizione volta per volta
(con riferimento in modo speciale ai momenti di campagna
elettorale) sulle questioni più spinose e sui principali temi in
discussione o che, secondo lei, andrebbero discussi. Una volta
poi assunto un preciso orientamento di fondo, essa non può
ricambiarlo se non per gravissimi motivi. Lungi però dal voler
apparire schiava dell’opinione pubblica (o della stampa…)
nello scegliere le priorità da trattare, esiste un elenco del grado
di urgenza di un problema, e della relativa presa di posizione
della Fondazione e, conseguentemente, del suo operato.
SCALA DI PRIORITA’:
-Affari di politica estera
-Affari di politica interna legati al corretto funzionamento
delle istituzioni
-Affari di politica interna legati al mantenimento
dell’ordine pubblico
-Affari di politica interna legati al riconoscimento dei diritti
dell’individuo
-Affari di politica interna legati alla promozione di
politiche sociali
-Affari di politica interna legati alla tutela dell’ambiente
-Affari di politica interna legati allo sport e tempo libero
-Affari di politica interna legati allo spettacolo11
“Riassumendo: cos’è dunque la
Fondazione?
Essa è un’aggregazione politica (ma non solo), di fatto al
governo o all’opposizione nell’Unione Europea12, e allo
stesso modo in ogni singolo stato. Si trova al governo o
all’opposizione non per una sua precisa collocazione
ideologica, come per tutti gli altri partiti, ma per l’ “opzione
orientativa fondamentale” che avviene ogni volta prima delle
elezioni. Accade dunque che la Fondazione prenda posizione
sulle questioni più importanti e urgenti attraverso il Consiglio
11
L’intero elenco è disponibile e consultabile presso ogni sede di
Fondazione Risorse Nuove.
17 Le singole Fondazioni nazionali, sebbene devono seguire di diritto le
direttive generali scelte dalla linea europea (comma ), per casi eccezionali
è previsto che possano trovarsi nella necessità di una posizione diversa da
quella della Fondazione europea.
337
di Fondazione, e al tempo stesso, operi una sorta di
mediazione tra tutti i partiti “in lizza”, onde dar vita a
posizioni di largo accordo e consenso, per la migliore intesa
reciproca. Dopo aver ottenuto i maggiori frutti possibili da
questo operato, e anche in base ad esso, il Consiglio valuta se
schierarsi con gli uni o con gli altri, e in questo modo
presentarsi agli elettori. Sarà il singolo cittadino, poi, a dar
voce, peso e visibilità, col suo voto, alla Fondazione. Ogni
voto per la Fondazione è un voto a favore della pace”.
(Tutta la Fondazione in 100 pagine, prof. L. Sapienza)
Comma 8: Il Consiglio di Fondazione decide la necessità o
meno dei problemi che si presentano per essere risolti, nonché
l’ordine con cui intervenire e trattarli secondo la scala di
priorità di cui sopra.
Il Consiglio è formato dal Presidente, dal Segretario e dal
Tesoriere della Fondazione, coadiuvati da 10 Consiglieri.
Questi ultimi sono eletti dai membri-coordinatori della
Fondazione, presenti in percentuale variabile stato per stato,
ed eletti in base al numero totale degli iscritti ad ogni singola
Fondazione. I membri-coordinatori sono eletti da tutti gli
iscritti. A loro volta i Consiglieri officiano all’assegnazione –
per scrutinio segreto – delle tre più alte cariche
dell’organizzazione; in ordine di valore crescente: Tesoriere,
Segretario e Presidente.
La durata di ogni incarico è di tre anni. Solo nel caso delle
tre più alte cariche è previsto che queste possano venire
riconfermate per più volte consecutive per la durata massima
di nove anni (tre incarichi).13
Comma 9: Tutte le scelte politiche di F.R.N. devono
rispettare gli oneri e le precise responsabilità e impegni che la
Fondazione ha assunto con i suoi elettori. L’operato della
Fondazione prevede la massima trasparenza possibile delle
sue scelte e delle sue azioni,
“pena il calo di consenso degli elettori”
13
Per consultare in dettaglio i poteri del Tesoriere, del Segretario e del
Presidente, è opportuno disporre del manuale “Potere e poteri: il confronto
che unisce”, prof. L. Sapienza.
338
(Briciole amare: aneddoti sull’infausto operato di alcuni
Presidenti deludenti, prof. L. Sapienza)
Parte seconda
Comma 10: Il secondo scopo, quello più a lungo termine
(ma altrettanto importante e che aspetta d’essere compiuto),
riguarda la promozione del bene comune dei popoli europei.
Una volta che abbia cominciato a prendere forma, moto e
attività, infatti, la componente basilare politica di F.R.N.,
proprio questa deve favorire la formazione di una larga intesa
tra le parti di un popolo, così da gettare le basi per la
realizzazione, entro uno stato, di una vera pace e di un
incremento del benessere. Il clima di dialogo tra i vari partiti,
pertanto, e più in generale, una situazione di tolleranza civile,
di mutuo e rispettoso scambio di vedute tra le molteplici
componenti di un popolo deve giovare, in ultima analisi, ad
una vita migliore per ogni cittadino europeo.
La volontà di F.R.N. è quella, dunque, di favorire e poi
mantenere una condizione stabile di benessere e armonia nella
vita dell’homo europeus, così da apportare una maggior
serenità e felicità nella vita quotidiana di tutte le popolazioni
membra dell’Unione. Al fine ultimo di garantire pace,
ricchezza e sicurezza all’Unione stessa.
“Ora l’umanità è libera di guardare avanti, al futuro, e di
progettarlo senza più limite alcuno. Tutto le è permesso, tutto
le è possibile per incrementare il bene comune, a vantaggio di
una vita migliore per tutti gli uomini.
Chi si intestardisce nel voler apparire a tutti i costi fuori
dal mondo, inseguendo idee o sentimenti di lotta, aggressività,
vendetta, odio, intolleranza o altro del genere, verrà
sicuramente messo da parte dal corso stesso della storia”.
(“Per una nuova antropologia”, prof. Lucio Sapienza)
Comma 11: Ogni uomo ha diritto al riconoscimento della
dignità che gli spetta come rappresentante unico e irripetibile
339
del genere umano. Questo è lo scopo ultimo che si prefigge
l’operato della Fondazione: mettere ciascun essere umano
vivente sulla Terra (o che vivrà ) nella condizione a lui più
adatta di essere consapevole al massimo grado di tutte le sue
potenzialità inespresse, di tutte le sue doti e capacità, di tutti i
progetti che può realizzare, perché attui pienamente il disegno
di felicità scritto per lui e che gli spetta di diritto dal momento
in cui è venuto alla luce.
“Il secolo XXI° sarà ricordato per un nuovo approccio
all’antropologia, cioè alla disciplina che si occupa di
descrivere l’uomo. Esso è stato definito “persona”(
soprattutto nei secoli a cavallo tra il primo e il secondo
millennio14): vale a dire un essere che sa porsi naturalmente
in tensione dialogica con altri esseri simili a lui. Si voleva
sottolineare, con questa caratteristica, il tratto di apertura
alla comunicazione, che è tipico dell’essere umano.
Dalla metà del secondo millennio fin quasi all’inizio del
terzo si è preferito parlare di uomo come “individuo”: come
essere unico, irripetibile e inviolabile. Libero di esprimere al
meglio se stesso e di agire secondo i propri fini di felicità.
Ma soprattutto ora, all’inizio del terzo millennio, è giunto
il momento di guardare all’uomo in una maniera più semplice
e più profonda al tempo stesso. L’uomo è prima di tutto e
soprattutto il vivente: colui che ha in sé la vita. Una vita
intelligente, certo, che per questo si differenzia da qualsiasi
altro genere di esseri viventi.
Si può dire di più: l’uomo è un ponte gettato tra più stadi
della sua vita. La giovinezza si trasforma in età adulta, e
questa ancora diventa vecchiaia. Così l’uomo è sempre
proteso da un lato verso il suo passato (ciò che è stato e già
non è più) e dall’altro verso il suo futuro (ciò che non è
ancora ma che già lo attende). D’altronde il suo stesso
14
Tralascio di commentare la concezione di uomo nel primo millennio per
problemi di brevità. Comunque i primi secoli vedono lo sviluppo delle
correnti filosofiche ellenistiche, legate ad una visione materiale dell’uomo
(scetticismo, epicureismo…), o solo genericamente portatore di un soffio
divino di spirito (stoicismo, neoplatonismo). E’ il medioevo cristiano che
rispolvera la grande figura di Aristotele e mostra l’uomo come unità di
corpo e spirito, di materia e forma.
340
aspetto fisico, con la perfetta simmetria tra le parti del corpo,
attesta anche solo visivamente questa caratteristica. È come
se con una mano e un piede fosse ancora nel tempo che è
appena trascorso, e con l’altra mano e l’alto piede già si
protendesse verso l’avvenire.
E poi l’uomo, l’ essere vivente fatto di terra e di cielo, è
anche icona di un’altra immagine: quella dell’arco. Come la
terra tocca il cielo all’orizzonte, o come quando quasi lo
tocca con l’arcobaleno, così l’uomo è un arco: con
un’estremità sta sulla terra e con l’altra quasi tocca il cielo.
Terra e cielo sono il suo passato e il suo futuro. In una parola
sola: la sua vita”.
(“Per una nuova antropologia”, prof. Lucio Sapienza)
Comma 12: La Fondazione promuove il dialogo con tutte
le altre correnti di pensiero o con tutte le religioni che si
trovano in un paese, per cercare un punto in comune, se
possibile (qualora esista). Dove ciò dovesse risultare
impossibile, perché la parte in causa con cui la Fondazione sta
trattando rifiuta una eventuale soluzione comune o un
eventuale accordo, si consiglia ai membri della Fondazione di
abbandonare il conseguimento di una seppur minima intesa e
lasciare la parte in causa al suo destino.
341
342
Ogni riferimento a fatti, cose
o persone è puramente casuale.
Tutti i nomi sono frutto di fantasia.
343
344
Ringraziamenti
Questo primo volume ha significato per me anni di tenace e
paziente lavoro. L’ho concepito poco alla volta, è maturato
dentro di me man mano che scrivevo.
L’idea centrale del romanzo mi è venuta frequentando
l’Università: è stato allora (dieci anni fa ormai) che ho
iniziato a scrivere i primi capitoli; poi la vita con le sue
alterne vicende mi ha condotto ad interrompere l’opera, mio
malgrado. Con la nascita del secondogenito, Benedetto, sono
riuscita a riprenderne la stesura.
Da lì in avanti non ho più smesso di scrivere. A tutt’oggi
cerco di scrivere tutti i giorni.
Ringrazio il Signore che mi ha dato il dono di scrivere.
Un sentito grazie a mio marito Francesco per l’estenuante
precisione con cui ha corretto le mie prime bozze e per lo
stimolo continuo a migliorare nella scrittura.
Un altro grazie alla mia cara amica Chiara senza la quale
non avrei avuto le conoscenze adeguate per parlare della
Lettera ai Laodicesi di San Paolo apostolo, effettivamente
esistita e andata perduta.
Un cordiale grazie a tutti gli amici che, nel corso di questi
anni, mi hanno aiutato ad editare il romanzo, specialmente
allo scrittore Guido Pagliarino.
Uno speciale grazie agli scrittori che sono entrati a far parte
del gruppo “scrittori cristiani” su Lulu.com. ed intendono
portare avanti lo spirito cristiano nella letteratura.
Ed infine un grazie sincero a tutti coloro che leggeranno
questo libro e che, nella speranza che esso incontri il loro
favore, lo faranno circolare.
Elisabetta Modena
345
L’Angolo di Elisabetta su Lulu’s Store:
(http://stores.lulu.com/store.php?fAcctID=1209624)
Racconti d’amore
(contiene il racconto di christian fiction: Miracolo di
Natale)
Carlino, l’albero di Natale e la palla magica
(fiaba per bambini e adulti)
Prossimamente il secondo libro della trilogia:
Il crollo dell’Unione
e
il romanzo di fantascienza umanistica
Il marchio di Caino
Per qualsiasi informazione potete contattare l’autrice
sul suo blog principale:
http://www.elisabettam.splinder.com
346
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Elisabetta Modena Il 74° libro Trilogia