Verso l’infinito, ma con calma
zar
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8 novembre 2008
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Indice
1 le relazioni
1
2 le funzioni
3
3 contare
7
4 classi di equivalenza
11
5 i numeri cardinali
15
6 crisi dei fondamenti
19
7 i numeri naturali e i loro assiomi
21
8 i numeri naturali e il vuoto
25
9 numeri transfiniti
27
10 alef
29
11 i paradossi dell’infinito
31
12 operazioni con gli alef
33
13 cominciamo dal basso
37
14 l’insieme delle parti
41
15 la cardinalità dell’insieme delle parti
43
16 esistono cardinalità grandi
47
17 infinite lampadine
51
iii
iv
INDICE
18 i numeri reali
55
19 lampadine e numeri reali
59
20 immersioni di lampadine
61
21 facciamo ordine
63
22 rette e segmenti
67
23 le dimensioni non contano
71
24 l’ipotesi del continuo
75
25 numeri ordinali
77
26 omega
81
27 ordinali in ordine
83
28 somme di ordinali
87
29 somme non commutative
91
30 Telegraph Road
93
31 torri di potenze
97
32 forma normale di Cantor
101
33 così tanto da dire, così poco per dire
103
34 epilogo
107
A Come farebbe il maestro
111
Capitolo 1
le relazioni
Tutto comincia dalle relazioni.
Se domandate a un matematico cosa sia una relazione, lui vi risponderà che una
relazione tra due insiemi A e B è un sottoinsieme del prodotto cartesiano A×B.
Con questo il matematico se la cava, il non matematico non capisce niente.
In questi casi non bisogna partire da una definizione rigorosa, ma da qualcosa
di molto più intuitivo: potremmo dire che una relazione tra due insiemi è una
legge che lega gli elementi del primo insieme a quelli del secondo. Una cosa così,
per esempio:
Questa è una relazione: il primo elemento dell’insieme A è legato al primo dell’insieme B, il secondo dell’insieme A è legato al secondo e al terzo dell’insieme
B e così via. In questo modo dovrebbe essere più chiaro. Potremmo anche
prendere il concetto di relazione come concetto primitivo , e finirla qua (in matematica i concetti primitivi sono quelli che non si possono definire a partire
da altri concetti più semplici: sono cioè i mattoni con cui si costruisce tutto il
resto).
I Veri Matematici , però, basano tutto sul concetto di insieme, e quindi anche
la relazione è definita a partire dagli insiemi. Dire sottoinsieme del prodotto
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CAPITOLO 1. LE RELAZIONI
cartesiano è un modo pomposo per dire insieme di coppie ordinate composte
da un elemento di A e uno di B (anche il concetto di coppia ordinata non è
primitivo, ma può essere definito utilizzando esclusivamente gli insiemi; i Veri
Matematici danno per scontato che tutti lo sappiano e fanno finta di niente).
Esempietto: abbiamo gli insiemi A = {1, 2, 3} e B = {a, b, c, d}.
Ecco una relazione: R = {(1, a), (1, b), (2, a), (2, c)}.
“Ehi, ma a 3 non è associato niente!”.
“Non importa”.
“E come la mettiamo col fatto che a 1 sono associati due elementi?”.
“Va bene, non c’è problema”.
“E il prodotto cartesiano cosa sarebbe?”.
“L’insieme di tutte le possibili coppie ordinate . Nel nostro esempio quante ce
ne sono?”.
“Dodici?”.
“Esatto”.
“Ok. E come fai a definire una coppia ordinata (a, b) utilizzando solo il concetto
di insieme?”.
“Faccio così: (a, b) è, per definizione, l’insieme {{a}, {a, b}}”.
“Ma è una cosa orribile!”.
“Già. E non sto a dirti come si definisce una terna (a, b, c). È per questo che i
Veri Matematici fanno finta di niente”.
Capitolo 2
le funzioni
Tutti, a scuola, hanno sentito parlare di funzioni. Anche gli studenti.
Ma se domandi: “allora, che cosa è esattamente una funzione?”, tutti mostrano
di essere intensamente impegnati a fare altro.
Bene, una volta capito cosa sia una relazione, è molto semplice passare alle
funzioni: infatti una funzione è un particolare tipo di relazione. Una funzione
è una relazione per la quale ad ogni elemento del primo insieme corrisponde un
unico elemento del secondo insieme. La differenza è tutta qua, nel sottolineare
che il corrispondente deve essere uno solo.
In pratica, non ci sono elementi del primo insieme dai quali possano partire due
o più frecce: da ogni elemento ne parte una sola.
Ecco un disegnino:
Come si vede, da ogni elemento di A parte una sola freccia, mentre non esiste
nessuna regola che riguarda gli elementi di B: ci sono elementi sui quali arriva
una sola freccia, elementi sui quali ne arrivano due, elementi sui quali non ne
arriva nemmeno una.
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CAPITOLO 2. LE FUNZIONI
“E non vogliamo specificare niente sugli elementi di B? Ai matematici va bene
tutto?”.
“Certo che no. I matematici fanno alcune distinzioni. Per esempio, osserva
questo disegno”.
“Ah, vedo che qua non ci sono elementi di B sui quali arrivano due o più frecce”.
“Bene, giusto. Anche se esistono elementi di B sui quali non arriva nulla, cioè
elementi che non hanno un corrispondente in A”.
“Vedo. Diciamo che al massimo arriva una freccia. Queste funzioni hanno un
nome particolare?”.
“Sì. Si chiamano funzioni iniettive”.
“Ok. E una funzione fatta così, ha un nome anche lei?”.
“Vuoi dire una funzione che ricopre tutto il secondo insieme? Cioè una funzione
tale che su ogni elemento di B arriva almeno una freccia?”.
“Esatto. Prima hai fatto l’esempio delle funzioni con al massimo una freccia
su ogni elemento di B, pensavo che magari potesse esistere una definizione per
funzioni con al minimo una freccia su ogni elemento di B”.
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“Sì, in questo caso si parla di funzione suriettiva”.
“E magari si possono combinare le due richieste? Al massimo una freccia e al
minimo una freccia? So che i matematici dicono una e una sola freccia”.
“Esattamente. Una funzione che è sia iniettiva che suriettiva si dice biunivoca
(o anche biiettiva, qualcuno addirittura scrive bijettiva). Ecco un disegnino”.
“Ok, ho capito. Delle corrispondenze biunivoche me ne avevano parlato anche
alle elementari. Ma i matematici parlano davvero di frecce?”.
“Beh, no, quasi mai. Invece di dire che la funzione f collega con una freccia
l’elemento a con l’elemento b, scrivono semplicemente f (a) = b”.
“Questo mi ricorda qualcosa. . . ”.
“Già. Tieni presente che spesso si dimentica che per definire una funzione non
serve solo la legge (cioè il modo in cui le frecce collegano gli elementi), ma serve
anche conoscere quali sono gli insiemi A e B”.
“Perché?”.
“Prendi per esempio la funzione f (x) = x2 , cioè la funzione che prende un
elemento e lo eleva al quadrato. È chiara la legge? Sapresti trovare il corrispondente di un qualunque numero?”.
“Direi di sì, non è difficile”.
“Bene. Allora, questa funzione è iniettiva?”.
“Mh, direi di sì. Sì. Se per esempio elevo 3 al quadrato, ottengo 9. Se elevo un
altro numero al quadrato non ottengo 9”.
“Che mi dici di -3 al quadrato?”.
“Oh oh, non avevo pensato ai numeri negativi”.
“Vedi dunque l’importanza di conoscere l’insieme A. Se A contiene solo numeri
maggiori o uguali a zero, la funzione è iniettiva. Se A contiene anche numeri
negativi, allora non lo è”.
“Ho capito. E per quanto riguarda l’insieme B?”.
“Dimmi tu. La funzione che eleva al quadrato è suriettiva? Cioè, ricopre tutto
l’insieme di arrivo?”.
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CAPITOLO 2. LE FUNZIONI
“Ah, ho capito! Dipende da come è fatto l’insieme di arrivo! Se contiene solo
numeri maggiori o uguali a zero, la funzione lo ricopre tutto. Se contiene anche
i numeri negativi, no. Non esiste nessun numero che elevato al quadrato mi dia
-4, per esempio”.
“Se non prendiamo numeri immaginari nell’insieme di partenza, è vero”.
“Numeri immaginari?”.
“Vabbè, questa è un’altra storia”.
Capitolo 3
contare
Anche l’atto del contare quanti sono ha una definizione matematica. Ora, ci si
potrebbe domandare se c’è proprio bisogno di dare una definizione a un’attività
che si impara intorno ai due anni, ma i Veri Matematici son tipi molto precisi.
Quindi, cosa significa contare? Dice il De Mauro: numerare progressivamente
persone, animali o cose per determinarne la quantità. Numerare. Cioè segnare
con numeri progressivi.
Eccoci al punto: per contare si associano dei numeri progressivi agli oggetti. E
siamo anche in grado di formalizzare questa frase in termini matematici.
“E come si fa?”.
“Beh, abbiamo già parlato di oggetti che permettono di fare associazioni, cioè
permettono di mettere in relazione elementi appartenenti a due diversi insiemi”.
“Ah, certo, le relazioni, appunto”.
“Sì. Però una relazione non va bene, in generale, per contare. Immagina di
avere un insieme composto da quattro elementi. Per esempio, le prime quattro
lettere dell’alfabeto: {a, b, c, d}”.
“Ok. Ora serve una relazione che leghi dei numeri a queste quattro lettere”.
“Sì. Te ne propongo una: 1 7→ a, 2 7→ b, 1 7→ c”.
“Cosa significa?”.
“Ho associato 1 alla a. Poi 2 alla b, e di nuovo 1 alla c”.
“Non mi sembra un gran bel modo di contare, questo”.
“No, infatti. Riesci a scoprire quali sono i problemi?”.
“Vediamo. . . Prima di tutto, hai ripetuto 1 due volte. Non si può contare in
questo modo. A 1 deve corrispondere un solo elemento”.
“Giusto. Ma una relazione mi permette di associare 1 a quanti elementi voglio”.
“Ho capito! Non va bene usare una relazione. Serve una funzione”.
“Perfetto. Poi, noti altri problemi?”.
“Sì. Non hai associato nessun numero a d”.
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CAPITOLO 3. CONTARE
“Esattamente. Ma è possibile che una funzione non prenda in considerazione
tutti gli elementi dell’insieme di arrivo”.
“Ok, ci sono: serve una funzione suriettiva”.
“Bene. Nient’altro? Può, questa funzione, non essere iniettiva?”.
“Mh, vediamo. Basta provare, forse. Una funzione non iniettiva ma suriettiva
potrebbe essere 1 7→ a, 2 7→ b, 3 7→ a, 4 7→ c, 5 7→ d. No, non va bene: Ho
contato a due volte. Ok, ci sono. Per contare serve una funzione sia iniettiva
che suriettiva, cioè biunivoca!”.
“Molto bene. Contare, allora, significa mettere in corrispondenza biunivoca un
insieme numerico con l’insieme di cui vogliamo contare gli elementi”.
“Ho capito. Eh, però bisogna essere precisi”.
“Vedo che stai entrando nella mentalità del Vero Matematico. Cosa dovremmo
precisare?”.
“Qual è l’insieme numerico”.
“Bravo. Non possiamo contare un insieme di tre elementi partendo, che so, dal
cinque. Se al primo elemento associamo 5, al secondo 6 e al terzo 7, arriveremmo
a concludere che l’insieme è composto da 7 elementi”.
“Dobbiamo dire, allora, che l’insieme numerico è quello dei primi n numeri
naturali. Si parte da 1, e si va avanti fino a che ci sono elementi nell’altro
insieme”.
“Ottimo”.
“I Veri Matematici fanno proprio così?”.
“Ehm”.
“Cosa, ehm?”.
“Non proprio”.
“Ma come? Prima mi spieghi tutte queste cose, dici che bisogna contare, che
non si può partire da cinque, io dico che bisogna partire da uno, tu dici ottimo,
e poi dici che i matematici fanno in un altro modo? E come fanno, di grazia?”.
“Ecco, hai presente quell’insieme che abbiamo preso come esempio all’inizio?”.
“Quale? L’insieme {a, b, c, d}?”.
“Quello. I Veri Matematici contano così: zero, uno, due, tre”.
“. . . ”.
“Il numero di elementi dell’insieme è il primo numero non nominato, cioè quattro”.
“Sono Pazzi Questi Matematici”.
“E non è tutto qua”.
“Cosa c’è ancora?”.
“Eh, in effetti ci sono due modi di contare, anche nella vita normale”.
“Hai fatto bene a dire normale, vedo che qua si stanno complicando a dismisura
cose semplici, non mi sembra mica tanto normale questa cosa. Quali sarebbero
questi due modi?”.
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“Allora, se io ti dico che l’insieme {a, b, c, d} ha quattro elementi, intendo
descrivere una proprietà dell’insieme che potremmo chiamare grandezza”.
“Non oso chiedere come la chiamano i Veri Matematici”.
“Cardinalità. Questo è il primo modo di contare”.
“Ok, pensavo peggio”.
“I numeri usati per contare in questo modo li chiamo numeri cardinali”.
“E l’altro modo?”
“Ecco, con l’altro modo voglio anche tener conto dell’ordine con cui compaiono
gli elementi che sto contando. Non mi accontento di dire che {a, b, c, d} ha
quattro elementi, ma li conto e li ordino uno per uno. In questo caso, dico che
sto utilizzando dei numeri ordinali”.
“Credo di aver capito. In pratica diresti che a è il primo elemento, b il secondo,
c il terzo, e d il quarto?”.
“Ecco, quasi”.
“Uffa. Cosa ho sbagliato?”.
“Direi che a è il zeresimo elemento, b il primo, c il secondo, d il terzo. Totale,
quattro elementi”.
“Roba da matti. E poi non esiste la parola zeresimo”.
“Invece sì”.
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CAPITOLO 3. CONTARE
Capitolo 4
classi di equivalenza
Di nuovo si mise a insegnare alla cattedra, e si riunì intorno a lui una folla di
studenti.
C’era un uomo, disse loro, che aveva un figlio. Al figlio piaceva molto giocare con
i Lego, che teneva tutti raccolti in una valigetta. L’uomo entrò nella camera del
figlio, e vide che sul pavimento della stanza erano sparse centinaia di mattoncini,
di ogni forma e colore.
Il figlio era disperato. “Perché piangi?”, gli domandò il padre. “Perché sto
diventando matto a trovare i pezzi che mi servono, sono tutti mescolati! Per
costruire questo piccolo pezzo di muro ho sprecato tutto il pomeriggio!”. Nella
valigetta il figlio teneva tutti i suoi Lego: ne aveva veramente tanti, e sarebbe
stato impensabile conservare tutte le scatole originali. Al figlio, poi, piaceva
anche inventare nuove costruzioni, prendendo a prestito dei pezzi dalle varie
scatole.
“Ti aiuto”, gli disse il padre, e, dopo essersi procurato alcuni piccoli contenitori,
si inginocchiò vicino a lui. Rovesciò la valigetta sul pavimento e iniziò a catalogare i piccoli pezzi colorati. In un contenitore ripose tutti i pezzi da uno, di
qualunque colore. In un altro, quelli di dimensione 2 × 1, poi quelli quadrati, e
così via.
Non importava la loro provenienza: alcuni pezzi erano, in origine, nella scatola
della casetta, altri in quella dell’aereo, altri ancora facevano parte della Ferrari,
o del Nottetempo di Harry Potter. Alcuni erano bianchi, altri rossi, blu, grigi,
viola: non faceva differenza. Ciò che contava, per la catalogazione, era soltanto
la forma.
Alla fine, della montagna di pezzi colorati rimase un piccolo gruppo di scatolette.
Il figlio sorrise, felice.
“Noto evidenti segni di megalomania”.
“Perché?”.
“Non so, fare lezione per parabole
indexparabola?”.
“Ehm”.
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CAPITOLO 4. CLASSI DI EQUIVALENZA
“Non stavi per fare una battuta sul prof di matematica che racconta parabole,
vero?”.
“Assolutamente no!”.
“Mh. E cosa vorrebbe dire, questa parabola?”.
“In verità ti dico. . . ”.
“Allora ho ragione!”.
“Ok, scherzavo. L’esempio dei mattoncini dei Lego divisi per forma mi serve
per parlare di classi di equivalenza”.
“Un’altra roba per Veri Matematici?”.
“Eh, sì. Ricordi le relazioni?”.
“Certo. Associazioni di coppie di elementi”.
“Bene. Gli elementi delle coppie venivano da due diversi insiemi, giusto?”.
“Sì, avevamo un insieme di partenza, che avevi chiamato A, e uno di arrivo, che
avevi chiamato B”.
“Perfetto. Questa volta invece abbiamo un insieme solo”.
“E come facciamo ad accoppiare gli elementi? Da dove li prendiamo?”.
“Da due copie dello stesso insieme”.
“Oh mamma. Vorrei un esempio”.
“Eccolo qua: prendi l’insieme {a, b, c}. Ora associa gli elementi in questo modo:
(a, a), (a, b), (b, c). Si dice anche, relativamente alla prima coppia, che a è in
relazione con a. Per la seconda, che a è in relazione con b. Per la terza, che b è
in relazione con c”.
“Comincio a capire. In effetti, hai definito una relazione. Avevi detto che una
relazione è un insieme di coppie”.
“E infatti quello che ti ho elencato è un insieme di coppie. Solo che gli elementi
provengono dallo stesso insieme. In effetti, non avevamo mai detto che A e B
dovessero essere diversi”.
“Mh, sottigliezze da Vero Matematico. E adesso cosa ce ne facciamo di questa
roba?”.
“Ci sono delle relazioni speciali che si chiamano relazioni di equivalenza”.
“Se dici che sono speciali, vorrà dire che hanno delle particolari caratteristiche”.
“Sì. Soddisfano a tre proprietà. Te le elenco?”.
“Vai”.
“La prima si chiama proprietà riflessiva. Dice che ogni elemento è in relazione
con sé stesso”.
“Ok. Vorrebbe dire, per esempio, che esiste la coppia (a, a) dentro alla relazione.
In effetti, nell’esempio che hai fatto c’è. Però mancano le coppie (b, b) e (c, c)”.
“Esatto. La seconda proprietà si chiama proprietà simmetrica. Dice che se un
elemento a è in relazione con b, allora anche b deve essere in relazione con a”.
“Traducendo nel linguaggio delle coppie dovrebbe essere così: se la relazione
contiene la coppia (a, b), allora deve contenere anche la coppia (b, a)”.
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“Benissimo. La terza proprietà si chiama proprietà transitiva. Dice che se a è
in relazione con b, e se b è in relazione con c, allora a è in relazione con c. Prova
a tradurre questa”.
“Dunque: se (a, b) e (b, c) fanno parte della relazione, allora ne fa parte anche
(a, c)”.
“Bene”.
“E cosa c’entrano i Lego?”.
“Allora: l’insieme A sul quale costruiamo la nostra relazione è la valigetta contenente tutti i pezzi. La relazione che consideriamo è definita così: due pezzi
sono in relazione se si possono incastrare perfettamente uno sull’altro, senza
lasciare buchi vuoti”.
“Ok. Dici che è una relazione di equivalenza?”.
“Prova tu a vedere se sono soddisfatte le tre proprietà. La prima è vera?”.
“Un elemento è in relazione con sé stesso, cioè un pezzo di Lego si può incastrare
su sé stesso. Forse è meglio dire su un altro pezzo identico. Sì, è giusto”.
“La seconda?”.
“Se un pezzo a si può incastrare con b, anche b si può incastrare con a. Certo,
è vero”.
“La terza?”.
“Se posso incastrare a con b, e se posso incastrare b con c, allora posso incastrare
a con c direttamente. Certo, hanno la stessa forma”.
“Bravo, hai colto il punto”.
“Quale?”.
“La forma.
insieme”.
Tutti gli elementi aventi la stessa forma si possono incastrare
“E quindi sono tutti in relazione tra di loro, ho capito!”.
“E li mettiamo tutti nella stessa scatola. Le scatole rappresentano una proprietà
comune a tutti i pezzi contenuti, in questo caso la loro forma. Ogni volta che ti
trovi di fronte a una relazione di equivalenza, riesci a mettere in evidenza una
particolare proprietà. E riesci a suddividere l’insieme in scatole”.
“Ho capito. E quindi i matematici fanno queste scatole di equivalenza”.
“Già. Naturalmente non le chiamano così”.
“Capirai. Come si chiamano?”.
“Classi di equivalenza”.
“Ah, l’avevi detto all’inizio. E a cosa ci servono?”.
“Stai pronto, con le lampade accese, e attendi”.
“Argh!”.
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CAPITOLO 4. CLASSI DI EQUIVALENZA
Capitolo 5
i numeri cardinali
Abbiamo detto che contare gli elementi di un insieme significa creare una corrispondenza biunivoca tra un insieme di numeri e l’insieme dato. Abbiamo anche
detto che la logica vorrebbe cominciare a contare partendo da 1, mentre i Veri
Matematici partono da 0.
Poi abbiamo accennato velocemente al concetto di cardinalità. Riprendiamolo,
perché è importante. Si dice che due insiemi hanno la stessa cardinalità se
esiste una corrispondenza biunivoca tra i due insiemi. Non è importante sapere
quale sia questa corrispondenza: può essere una qualunque funzione, purché sia
biunivoca.
La definizione è sottile: non dico quanto vale la cardinalità di un insieme, dico
solo che due insiemi hanno la stessa cardinalità, ma non specifico quanto sia.
Esempio: gli insiemi {a, b, c} e {Pippo, Pluto, Paperino} hanno la stessa cardinalità. Per dimostrarlo mi serve far vedere che esiste una funzione biunivoca
tra i due. Eccola qua: a 7→ Pippo, b 7→ Pluto, c 7→ Paperino. Facile. Notate che
non ho mai detto che gli insiemi hanno 3 elementi.
Per parlare di numero cardinale, e quindi per associare un valore alla cardinalità,
entrano in ballo le classi di equivalenza. E qui possono succedere Cose Brutte.
“Quanto brutte?”.
“Eh, molto”.
“Paradossi?”.
“Peggio”.
“Buchi neri super. . . ”.
“Non dirlo, ti prego”.
“Va bene. Cosa, allora?”.
“Antinomie”.
“Wow! Racconta”.
“Ricordi la parabola dei Lego?”.
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CAPITOLO 5. I NUMERI CARDINALI
“Come potrei dimenticarla? Avevi spiegato che le relazioni di equivalenza estraggono, in qualche modo, una proprietà da un insieme di oggetti, e ci permettono
di raggruppare quegli oggetti in base alla proprietà”.
“Bene, nell’esempio fatto, la proprietà era la forma dei Lego. Ogni scatolina
conteneva un certo tipo di mattoncino, c’era la scatolina dei pezzi da uno, quella
dei quadrati, eccetera. Ogni scatolina è una classe di equivalenza”.
“Bene, e adesso, con la cardinalità, come facciamo?”.
“Possiamo fare anche qui una relazione di equivalenza. Anzi, la relazione è
proprio quella che abbiamo già definito: due insiemi sono in relazione se hanno
la stessa cardinalità, cioè se esiste una corrispondenza biunivoca tra di loro”.
“E questa è una relazione di equivalenza?”.
“Certo. Prova a verificare le tre proprietà. Quella riflessiva è valida?”.
“Dunque, dovrebbe essere questa: un insieme ha la stessa cardinalità di sé stesso.
Mi sembra stupida”.
“Se vuoi, possiamo dire che esiste una corrispondenza biunivoca tra un insieme
e sé stesso”.
Bè, è vero. La corrispondenza è facile da trovare: ad ogni elemento associo sé
stesso“”.
“Giusto. Vediamo la seconda proprietà, quella simmetrica”.
“Se esiste una corrispondenza biunivoca tra A e B, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra B e A. Facile, è vero. Basta invertire il senso delle
frecce”.
“Bene. E la proprietà transitiva?”.
“Se posso costruire una corrispondenza biunivoca tra A e B, e una seconda
corrispondenza biunivoca tra B e C, allora ne posso fare una direttamente tra
A e C. Vero anche questo, ci sarà una freccia che parte da un elemento di A e
va a finire su un elemento di B, da cui parte una seconda freccia che parte da
lì e va su un elemento di C. Mi basta collegare le due frecce e sono a posto”.
“Perfetto. Hai fatto un’operazione che i Veri Matematici chiamano composizione
di funzioni”.
“Va bene. E adesso?”.
“Adesso abbiamo delle classi di equivalenza, che raggruppano tra di loro gli
insiemi aventi la stessa cardinalità. Per esempio, assieme a {a, b, c} ci sarà
{Pippo, Pluto, Paperino}, ma anche {Emy, Ely, Evy}, oppure {Spennacchiotto,
Filo Sganga, Dinamite Bla}”.
“Certo che potevi usare degli esempi migliori. . . ”.
“Allora ti dico che ci sarà anche l’insieme {0, 1, 2}”.
“Ho capito! Se come rappresentante della classe di equivalenza prendo {Pippo,
Pluto, Paperino}, ottengo poco. Ma se prendo {0, 1, 2} posso parlare di numeri
associati alla cardinalità”.
“Esatto. La cardinalità di {Pippo, Pluto, Paperino} è 3 perché quell’insieme si
trova nella stessa classe di equivalenza di {0, 1, 2}”.
“Bene, mi sembra tutto a posto. Dove salta fuori l’antinomia?”.
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“Eh, salta fuori proprio qua. Ricordi la scatola dei Lego?”.
“Certo. Era il nostro insieme da suddividere in classi”.
“E adesso qual è il nostro insieme?”.
“Eh. Ehm. La cardinalità si calcola su un insieme, quindi devo avere un
contenitore di insiemi”.
“Sì. Un insieme di insiemi. Quali insiemi?”.
“Boh, non hai detto nulla sul tipo di insiemi sui quali si può calcolare la
cardinalità, quindi direi tutti”.
“Perfetto: l’insieme di tutti gli insiemi”.
“Cosa c’è che non va nell’insieme di tutti gli insiemi?”.
“Il solo nominarlo fa crollare le basi di tutta la matematica”.
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CAPITOLO 5. I NUMERI CARDINALI
Capitolo 6
crisi dei fondamenti
L’ultima frase di questo capitolo è falsa.
Cosa succede a considerare l’insieme di tutti gli insiemi? Un tale insieme contiene tutti gli insiemi, nessuno escluso. Quindi contiene anche sé stesso. Non
tutti gli insiemi hanno questa caratteristica: per esempio, {a, b, c} non contiene
sé stesso, ma solo i tre elementi a, b e c. Avremo quindi due categorie di insiemi:
quelli che contengono sé stessi e quelli che non contengono sé stessi. Raggruppiamoli, costruendo due insiemi: A è l’insieme degli insiemi che non contengono sé
stessi, mentre B è l’insieme degli insiemi che contengono sé stessi. La domanda
è: in quale dei due insiemi sta A?
Bisogna capire se A contiene o no sé stesso; visto che ci sono solo due possibilità,
l’analisi sembra semplice.
Primo caso, se A contiene sé stesso, cadremmo in contraddizione, perché A
contiene solo insiemi che non contengono sé stessi. Bene, quindi il primo caso è
impossibile.
Rimane il secondo caso: A non contiene sé stesso. Ma allora, essendo un insieme
che non contiene sé stesso, dovrebbe appartenere ad A. Quindi A conterrebbe
sé stesso, e questa è una contraddizione.
“E quindi?”.
“Quindi c’è una contraddizione irrisolvibile”.
“E questo è grave?”.
“Direi. Vuol dire che c’è una contraddizione nel concetto di insieme. Se pensiamo che il concetto di insieme è ciò che sta alla base di tutta la matematica,
questo significa che la matematica è basata su concetti sbagliati”.
“Gulp. Bisogna dire però che la formulazione di questo problema è un po’
complicata”.
“Ne vuoi una più semplice? Eccola: non apparterrò mai a un club che mi accetta
tra i suoi membri, Groucho Marx”.
“Ah, è una battuta che conosco. Non avevo mai pensato che fosse un paradosso”.
“In effetti viene spesso chiamata paradosso, ma è una antinomia, cioè una vera
contraddizione”.
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CAPITOLO 6. CRISI DEI FONDAMENTI
“Ma quindi è proprio una Cosa Brutta, come avevi detto”.
“Già. Ci sono anche altre formulazioni, da quella semplice come questa frase è
falsa, a quelle più complicate come il paradosso del barbiere”.
“Che sarebbe?”.
“Questa: in un paese il barbiere fa la barba solo alle persone che non se la fanno
da sé”.
“E allora?”.
“Il barbiere è rasato. Chi gli fa la barba?”.
“Eh, se la fa da solo. No, non può, perché la fa solo a quelli che non se la fanno
da soli. Gliela farà qualcun altro? No, non è possibile, è il barbiere che fa la
barba a quelli che non se la fanno da soli. Ho capito! C’è una contraddizione
anche qui”.
“Qui, in effetti, ci sarebbe una soluzione: il barbiere è una donna”.
“Ah, ma non vale!”.
“In realtà è quello che fanno i Veri Matematici per risolvere i problemi creati
dall’idea di insieme di tutti gli insiemi. Usano due tipi diversi di insiemi, quelli
normali, e quelli che chiamano classi proprie. Le classi proprie non possono
essere a loro volta elementi. L’insieme di tutti gli insiemi è una classe propria,
non può contenere sé stesso, e il problema è sistemato. Spesso si riferiscono a
questi strategemmi denominandoli Trucchi Ignobili”.
“Uhm, mi pare che questo metodo di risolvere il problema si possa tradurre con:
facciamo finta di niente”.
“Già. Ma è così: una volta visto che la costruzione delle basi della matematica
non è una cosa così semplice, molti matematici vanno avanti e lasciano ad altri
il compito di creare le definizioni giuste”.
“E quindi possono continuare a parlare di numeri cardinali senza preoccuparsi
dell’insieme di tutti gli insiemi”.
“Esatto. Ora, per farti ragionare ancora un po’ sui problemi degli enti che si
riferiscono a sé stessi, ti lascio con un paio di esercizi”.
“Uh, va bene”.
“Due frasi da analizzare. La prima è questa: se questa frase è vera, allora Babbo
Natale esiste”.
“Oh mamma. E la seconda?”.
“Questa frase non è un teorema dimostrabile dell’aritmetica”.
La prima frase di questo capitolo è vera.
Capitolo 7
i numeri naturali e i loro
assiomi
Abbiamo citato e usato più volte i numeri naturali, ma non ci siamo mai fermati
un momento per definirli. Qualunque persona normale non avrebbe bisogno di
definire un concetto che usa da quando aveva due anni, ma i Veri Matematici
vogliono essere molto precisi, e vogliono anche risparmiare sulle fondamenta:
meno concetti primitivi esistono, meglio è.
Un primo modo per definire i naturali consiste nel proporre un elenco di assiomi:
in pratica non ti dico cosa sono i numeri, ma ti dico quali proprietà devono avere.
Lo so, non è onesto.
Gli assiomi in questione si chiamano assiomi di Peano. Eccoli qua:
Primo: esiste un numero naturale, 0 (oppure 1).
“Ma dai, già col primo assioma ci sono degli oppure?”.
“Hai ragione, ma il fatto è che quando si parla di numeri naturali non si capisce
mai se si deve partire da zero oppure da uno”.
“E su una cosa così semplice i matematici non sono ancora riusciti a mettersi
d’accordo?”.
“No, non si mettono d’accordo perché a volte è conveniente avere a disposizione
lo zero, altre volte no”.
“E quindi ogni volta che un Vero Matematico usa i numeri naturali, deve dire
se ha intenzione di considerare lo zero?”.
“Sì. Oppure parla di numeri interi positivi, se vuole partire da uno”.
“E se vuole partire da zero?”.
“Numeri interi non negativi”.
“L’avevo già detto che questi matematici sono pazzi?”.
“Eh, sì. Comunque questo primo assioma serve per avere un punto di partenza.
Dentro all’insieme dei numeri naturali c’è un elemento, chiamiamolo zero, uno,
Pippo, non importa”.
“Va bene, andiamo avanti”.
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CAPITOLO 7. I NUMERI NATURALI E I LORO ASSIOMI
Secondo: ogni numero naturale n ha un numero naturale successore, che
chiamiamo S(n).
“Quindi se c’è zero, c’è anche uno”.
“Giusto. Da nessuna parte sta scritto che il successore di zero si chiama uno,
però”.
“E come si chiama?”.
“Semplicemente S(0)”.
“E se c’è uno, c’è anche due”.
“Che sarebbe, poi S(S(0))”.
“E possiamo andare avanti quanto vogliamo con questa delirante sequenza di S
una dentro all’altra”.
Terzo: numeri diversi hanno successori diversi.
“Va bene, è vero, ma è proprio necessario sottolinearlo?”.
“Eh sì. Pensa all’insieme {Pippo, Pluto}, in cui S(Pippo) = Pluto e S(Pluto) =
Pluto”.
“Uhm, non assomiglia molto ai numeri naturali. Sarebbe come se io mi mettessi
a contare in questo modo: zero, uno, uno, uno, eccetera. Non vado molto
avanti”.
Quarto: 0 (oppure 1) non è successore di nessun numero naturale.
“Sarebbe come dire che 0 è il primo elemento?
nessuno?”.
Che prima di lui non c’è
“Perfetto”.
Quinto: ogni insieme di numeri naturali che contenga lo zero (o l’uno) e il
successore di ogni proprio elemento coincide con l’insieme dei numeri naturali.
“Eeh?”.
“Questo è difficile. Significa che ti puoi immaginare i numeri naturali in un solo
modo, non ci sono interpretazioni differenti. Ti basta una sorta di seme iniziale
e la regola del successore per averli tutti”.
“Ed è importante?”.
“Sì, ma un modo migliore per capire questo assioma è questa seconda formulazione:”.
Quinto: indichiamo con P (x) una proprietà valida per il numero x. Se P è
vera per 0 (oppure 1) e se la verità di P (n) implica la verità di P (n + 1), allora
P è vera per tutti i numeri naturali.
“Continua a rimanere oscuro”.
“Ti faccio un esempio. Osserva questa serie di pezzi di domino.
“Bella!”.
“Ora la proprietà P : P (n) significa che il pezzo n cade. Naturalmente immaginiamo di identificare ogni pezzo in modo unico. Inoltre, con n + 1 indicherò il
pezzo successivo a n nella catena”.
“Ok, tutto chiaro”.
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“Ora voglio dimostrare che tutti i pezzi cadranno. Prima di tutto, sei d’accordo
sul fatto che se è vero P (n) allora è vero anche P (n + 1)? Prova a tradurre
questa mia affermazione”.
“Vediamo... significa che se il pezzo n cade, allora anche il pezzo n + 1 cade.
Mi pare giusto, il pezzo n cade sopra al pezzo n + 1, e lo spinge”.
“Ottimo. Ora ti dico che tra un attimo anche P (0) sarà vera”.
“Stai per dare una spinta al primo pezzo?”.
“Sì. Ti ho fornito due ipotesi: è vera P (0), ed è vero che P (n) implica P (n + 1).
Cosa puoi dedurre?”.
“Beh, che cadranno tutti i pezzi”.
“Giusto. Infatti il primo pezzo, anzi, il pezzo numero 0 cade, quindi P (0) è
vera. Se è vera P (0), allora è vera anche P (0 + 1) = P (1). Quindi cade anche il
pezzo numero 1. Ma se è vero P (1), allora è vero anche P (1 + 1) = P (2), quindi
cade anche il pezzo numero 2. Ma se è vero P (2). . . ”.
“Ho capito, ho capito. Cadranno tutti. Hai dimostrato tutto in una volta,
utilizzando l’effetto domino”.
“Sarebbe un bel nome per questo metodo di dimostrazione. I Veri Matematici
dicono che hanno usato il principio di induzione”.
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CAPITOLO 7. I NUMERI NATURALI E I LORO ASSIOMI
Capitolo 8
i numeri naturali e il vuoto
Esiste un modo molto suggestivo di definire i numeri naturali, e questa volta si
tratta di una vera definizione, non di un insieme di assiomi.
Tutto è basato su un concetto, quello di insieme vuoto. L’esistenza di un insieme
che non contiene nulla può far parlare i filosofi per ore — noi diamo per scontato
che esista e non ci pensiamo più. Diciamo che è un concetto primitivo, e andiamo
avanti.
Indichiamo con {} l’insieme vuoto (spesso si usa anche il simbolo ∅).
Definiamo lo zero: 0 è l’insieme vuoto; in formule 0 = {}.
Ora costruiamo il numero uno: 1 è l’insieme che contiene 0; in formule 1 =
{0} = {{}}.
Proseguiamo: 2 = {0, 1} = {0, {0}} = {{}, {{}}}.
E così via: 3 = {0, 1, 2} = {0, {0}, {0, {0}}} = {{}, {{}}, {{}, {{}}}}.
“Sembra una specie di effetto domino: ogni numero è l’insieme dei numeri
precedenti”.
“Sì, in pratica il principio di induzione è contenuto in questa definizione. Si può
anche vedere che il successore di un numero S(n) è uguale all’unione di n con
{n}”.
“Sembra che la funzione successore sia molto importante”.
“È così. Con l’induzione puoi definire anche la somma di due numeri”.
“Immagino che sia una cosa incomprensibile”.
“Abbastanza. Come punto di partenza, si stabilisce che a + 0 = a”.
“E fin qua ci siamo”.
“Poi si definisce a + S(b) = S(a + b)”.
“Non riesco davvero a capire se questa è davvero la somma di due numeri”.
“Anche qua c’è un effetto domino. Vogliamo calcolare, per esempio, 3+2”.
“Ok. a = 3, quindi”.
“E S(b) = 2”.
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CAPITOLO 8. I NUMERI NATURALI E IL VUOTO
“Quindi, se il successivo di b è 2, allora b = 1”.
“Bene, quindi 3+2 diventa 3+S(1), cioè, secondo la definizione, S(3 + 1)”.
“E 3 + 1 fa 4”.
“No, ancora non lo sai, devi calcolarlo”.
“Uffa. Allora 3 + 1 = 3 + S(0) = S(3 + 0)”.
“Bene”.
“E adesso devo calcolare 3 + 0?”.
“Sì, ma secondo la definizione questo puoi calcolarlo subito. È il tuo punto di
partenza”.
“Ah, è vero, 3 + 0 = 3”.
“Quindi, tornando indietro, 3 + 1 = S(3 + 0) = S(3) = 4”.
“Ho capito. Adesso posso calcolare 3 + 2 = 3 + S(1) = S(3 + 1) = S(4) = 5.
Finalmente! Mi pare un procedimento complicato”.
“Complicato nei calcoli, ma essenziale nella definizione. Come vedi, puoi definire
la somma a partire da concetti già noti. I Veri Matematici dicono che questo
modo di procedere è molto elegante”.
“E cosa dicono riguardo al fatto che tutta la loro matematica è basata sul
vuoto?”.
“Su quello fanno finta di niente”.
Capitolo 9
numeri transfiniti
Torniamo a parlare di cardinalità, ma questa volta di insiemi un pochino più
grossi.
Così come esiste la classe di equivalenza che contiene i soliti {a, b, c} e {Pippo,
Pluto, Paperino}, e che raggruppa tutti gli insiemi che hanno cardinalità uguale
a 3, esisterà anche una classe che contiene l’insieme dei numeri naturali.
Il fatto è che l’insieme dei numeri naturali non contiene un numero finito di
elementi, e quindi il numero cardinale corrispondente non sarà un numero normale (qualunque cosa ciò significhi, tanto i Veri Matematici sanno bene che non
esistono numeri normali).
Bene, Georg Ferdinand Ludwig Phillip Cantor non si spaventò di fronte alla grandezza dell’insieme dei numeri naturali, e sviluppò una teoria dedicata
proprio ai numeri grossi.
“Ma non li avrà chiamati grossi, spero?”.
“No, certo. Si narra un aneddoto, forse leggendario, a riguardo. Cantor non
voleva utilizzare il termine infinito, che per lui aveva anche una connotazione
religiosa. Chiese consiglio a un cardinale, il quale lo tranquillizzò, ma gli consigliò comunque di utilizzare un termine equivalente. Cantor, allora, scelse il
termine transfinito”.
“Quindi ora parliamo di numeri cardinali transfiniti?”.
“Proprio così”.
“Sembra bello. Ma il fatto che si chiamino cardinali ha qualcosa a che fare col
cardinale di Cantor?”.
“Probabilmente no, ma chissà? Comunque, nel numero 62 della rivista Rudi
Mathematici è celebrato il compleanno di Cantor, ti consiglio di leggerlo”.
“Uh, va bene. Mi sembra un po’ lungo, però”.
“Lungo, impegnativo, ma interessante. Anzi, per permetterti di leggerlo, non
andrò avanti oggi a parlare di cardinali”.
“Ok, lo farò. Ma, stavo pensando, questo mese il Carnevale della Matematica è
ospitato proprio dai Rudi Mathematici. Il fatto che ora tu li citi e che, poi, loro
citeranno te, mi ricorda uno di quei paradossi di cui hai parlato poco tempo fa”.
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CAPITOLO 9. NUMERI TRANSFINITI
“Fai finta di niente, e speriamo che nessuno clicchi due volte”.
Capitolo 10
alef
E finalmente arriviamo a parlare di infinito. Qual è la cardinalità dell’insieme
dei numeri naturali? Dato che questo insieme è infinito, la sua cardinalità non
sarà un numero, quindi non esiste, fine della storia.
Per fortuna le cose non sono andate così: Cantor è andato avanti, definendo
(scoprendo?) nuovi numeri. Alla cardinalità dei numeri naturali ha associato il
cardinale transfinito ℵ0 (si legge alef zero, e a volte si trova scritto aleph. Per
rendere le cose semplici Cantor ha scelto la prima lettera dell’alfabeto ebraico).
Insomma, tutti gli elementi in corrispondenza biunivoca coi numeri naturali
hanno cardinalità uguale a ℵ0 : sono cioè infiniti.
“Ma possiamo confrontare questo alef zero con gli altri numeri? Voglio dire,
quando si parla di infinito si vorrebbe intendere qualcosa di più grande di tutto
il resto. Possiamo dire che alef zero è maggiore di 42, per dire?”.
“Certo che si può: tra i cardinali (di tutti i tipi) si possono fare confronti”.
“Come si fa?”.
“Qui saltano fuori di nuovo le funzioni. Ricordi che avere la stessa cardinalità
significa essere in corrispondenza biunivoca?”.
“Sì, una freccia per ogni elemento, nessuno escluso”.
“Perfetto. Ora pensa a una funzione iniettiva da A a B. Iniettiva, ma non
suriettiva”.
“Mh, vediamo. Da ogni elemento di A parte una sola freccia”.
“Bene, poi?”.
“Frecce diverse vanno a finire su elementi diversi di B, non si possono congiungere”.
“Ok”.
“Ma non tutti gli elementi di B sono raggiunti”.
“Benissimo. Intuitivamente, B ha più elementi di A”.
“Ok, certo. Tutti gli elementi di A sono associati a B, ma in B ne avanza
qualcuno”.
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CAPITOLO 10. ALEF
“Bene, questa è la nostra definizione: diciamo che la cardinalità di A è minore
della cardinalità di B se esiste una funzione iniettiva ma non suriettiva che va
da A a B. In pratica possiamo immergere A dentro a B”.
“Tutto chiaro, bene”.
“Se, poi, sappiamo che la funzione è certamente iniettiva, ma non sappiamo se
è anche suriettiva, allora diciamo che la cardinalità di A è minore o uguale a
quella di B”.
“D’accordo, se non abbiamo la certezza che avanzino dei termini in B, dobbiamo
usare questa formulazione debole”.
“Un modo alternativo per dire che la cardinalità di A è minore di quella di
B è questo: le due cardinalità devono essere diverse, e l’insieme A deve essere
strettamente contenuto in B”.
“Ma è necessario specificare che le due cardinalità devono essere diverse? Se A è
strettamente contenuto in B, allora la cardinalità di A sarà certamente diversa
da quella di B”.
“Ecco, ehm, no”.
“No? Ma come è possibile?”.
“Ecco, ci sono concetti che, quando si ha a che fare con l’infinito, sono un po’
diversi da quelli che ci aspetteremmo”.
“Paradossi?”.
“Paradossi. Questa volta sono veri paradossi, non antinomie. Se li nominiamo
non succede nulla”.
(Esercizio: dimostrare che 42 è minore di ℵ0 )
Capitolo 11
i paradossi dell’infinito
L’albergo Hilbert è un albergo molto particolare: ha infinite stanze, tutte belle,
arieggiate, con bagno e con un’ottima vista. Siamo all’inizio dell’alta stagione,
e le stanze sono già tutte occupate.
Un giorno arriva un turista, parcheggia la sua auto nell’ampio parcheggio a
fianco dell’albergo, e domanda una stanza. Il portiere controlla per un momento
il suo registro, poi attiva il microfono che gli permette di parlare con tutte le
stanze, e dice:
“Avvertiamo i nostri gentili ospiti che è necessario un cambio di stanza. Chi si
trova nella stanza numero n dovrà spostarsi nella numero n + 1”.
Poi, rivolgendosi al nuovo cliente, continua:
“Ecco a lei, signore, la chiave della sua stanza. È la numero 0”.
Il giorno dopo arriva, in corriera, una comitiva numerosa. Il capo gita scende
velocemente e va dall’albergatore, per chiedere se c’è posto per tutti.
“Quanti siete?”.
“Infiniti”.
“Ah, però. Un momento solo“, e, parlando di nuovo al microfono, si rivolge ai
suoi clienti: “si comunica ai gentili ospiti che è necessario un cambio di stanza.
Chi si trova alla stanza numero n deve recarsi alla numero 2n, grazie”. Poi,
rivolto al capo gita: “Ecco a lei, queste sono le chiavi delle stanze dispari, le
può distribuire come crede ai suoi”.
“Molte grazie, avreste ancora un po’ di posto per altri ospiti? Dovrebbero
arrivare la prossima settimana”.
“Non c’è problema”.
Dopo una settimana, infatti, arriva una lunga serie di corriere. Il responsabile
della comitiva scende e va a parlare col portiere, un po’ preoccupato alla vista
di tanta gente.
“Buongiorno, avete posto per un po’ di persone?”.
“Quanti siete?”.
“Bè, in ogni corriera ci sono infinite persone”.
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CAPITOLO 11. I PARADOSSI DELL’INFINITO
“E quante corriere avete?”.
“Infinite”.
“Pensavo peggio. Certo, certo, c’è posto. Un attimo solo che devo comunicare
qualche cambiamento di stanza”. E, nuovamente parlando al microfono: “Ci
scusiamo con i gentili ospiti, ma è necessario un cambio di stanza. Chi si trova
alla stanza numero n deve recarsi alla numero 2n, grazie”. Poi, consegnando
un piccolo visore con alcuni bottoni al responsabile della comitiva: “ecco a
lei, tenga. Questo è un generatore di numeri primi. Gli occupanti della prima
corriera andranno alle stanze del tipo 3n , quelli della seconda corriera alle stanze
del tipo 5n , poi 7n , e così via. Mi raccomando non si sbagli, controlli sempre sul
generatore. Una volta è venuta una gita sociale della facoltà di ingegneria e mi
hanno occupato tutte le 9n , non le dico le discussioni che ci sono state dopo”.
Capitolo 12
operazioni con gli alef
Il paradosso dell’albergo di Hilbert ci fa capire che il senso comune non ci aiuta
più, quando si tratta di fare operazioni che coinvolgono i cardinali transfiniti.
Nel primo esempio (l’albergo è pieno, arriva un nuovo ospite) abbiamo praticamente visto che ℵ0 + 1 = ℵ0 . Non è difficile generalizzare al caso in cui arriva
un numero finito n di ospiti. Otterremo sempre che
ℵ0 + n = ℵ0 .
Nel caso dell’unico nuovo arrivato, abbiamo messo in corrispondenza biunivoca
l’insieme degli infiniti ospiti (cioè i numeri naturali) con l’insieme degli infiniti
ospiti più uno (cioè i naturali con l’aggiunta di un nuovo elemento). La funzione
biunivoca è f (n) = n + 1. Esercizio facile: scrivere la funzione biunivoca nel
caso in cui arrivi un numero x finito di ospiti.
E fin qua il senso comune potrebbe essere ancora d’accordo: dire che infinito
più uno è uguale a infinito non è sconvolgente più di tanto.
Quando arrivano infiniti nuovi ospiti le cose sembrano complicarsi, in realtà
l’albergatore se l’è cavata con poco: ha utilizzato la funzione f (n) = 2n per
liberare infiniti posti. Esercizio facile: scrivere la funzione biunivoca che mette
in corrispondenza i due insiemi. In questo caso, allora, abbiamo verificato la
formula:
ℵ0 + ℵ0 = ℵ0 .
Nell’ultimo caso arriva un’infinità di infiniti, ma l’albergatore trova posto per
tutti (lasciando anche qualche posto vuoto, per eventuali nuovi ospiti. Esercizio:
trovare qualche posto vuoto). Abbiamo visto dunque che
ℵ0 · ℵ0 = ℵ0 .
“Insomma, con l’infinito puoi farci quello che vuoi, ma rimane sempre infinito”.
“Eh, no. Non è così, Cantor ha scoperto che ci sono diversi livelli di infinito”.
“Ah. E come ha fatto?”.
“Ha cominciato a mettere in corrispondenza biunivoca insiemi diversi, e ha
iniziato a capire come stavano le cose. Per esempio, ha visto che i numeri
naturali e i numeri interi sono in corrispondenza biunivoca”.
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CAPITOLO 12. OPERAZIONI CON GLI ALEF
“Uhm, com’è possibile?”.
“Si può fare così: ai numeri pari puoi associare n/2, ai numeri dispari invece
−(n + 1)/2”.
“Mh, devo provare. Allora, a 0 associo 0, e fin qua siamo a posto. A 1, che
è dispari, associo −1. A 2 associo 1. A 3 associo −2. Ah, vedo. È come se
elencassi i numeri interi in questo modo: 0, −1, 1, −2, 2, −3, 3, e così via”.
“Proprio così. Cantor ha visto che i numeri interi, pur sembrando il doppio dei
numeri naturali, in realtà sono caratterizzati dallo stesso tipo di infinito”.
“Allora avrà preso i numeri razionali e si sarà accorto che quelli sono di più,
giusto?”.
“No, ti sbagli. I numeri razionali, cioè le frazioni, possono essere messi in
corrispondenza biunivoca con i naturali”.
“Anche loro? Non riesco a capire come”.
“Cantor ha usato un procedimento ingegnoso. Prima di tutto, ha scritto i
razionali come coppie di numeri: numeratore/denominatore. Ha considerato
solo quelle positive, ma non è difficile estendere il procedimento anche a quelle
negative. Si può sempre usare il metodo dell’albergatore, che ha spostato tutti
gli ospiti nelle camere pari”.
“Ok”.
“Poi le ha messe in un tabella, in questo modo”.
1/1 1/2 1/3 . . .
2/1 2/2 2/3 . . .
3/1 3/2 3/3 . . .
..
..
..
..
.
.
.
.
“In questo modo ci sono alcuni numeri che si ripetono, però: 1/2 è uguale a 2/2,
a 3/3, eccetera”.
“Non importa, perché questi numeri sono di più delle frazioni, e Cantor ha
dimostrato che comunque la loro cardinalità è ℵ0 ”.
“Ah, va bene. Come ha fatto, allora, a dimostrarlo?”.
“Ha fatto vedere un modo per contare le frazioni. Eccolo qua”.
“Geniale! Ha seguito le diagonali! Ma, allora, esistono insiemi con cardinalità
maggiore di quella dei numeri naturali?”.
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“Questo dubbio è venuto anche a Cantor, in effetti. Si può salire, creando una
sorta di graduatoria di numeri transfiniti?”.
“E si può?”.
“Sì, finché vuoi.
scendere?”.
Ma c’è un’altra domanda non meno importante: si può
“Intendi dire se esistono infiniti, anzi, transfiniti, più piccoli di ℵ0 ?”.
“Esattamente, ma in questo caso la risposta è no”.
“Oh, bene, una certezza”.
“Se consideri valido l’assioma della scelta”.
“Come?”.
“Niente, niente”.
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CAPITOLO 12. OPERAZIONI CON GLI ALEF
Capitolo 13
cominciamo dal basso
Abbiamo capito che ℵ0 è il cardinale associato ai numeri naturali. Ora la
domanda è questa: esistono cardinali transfiniti più piccoli?
Prendiamo un insieme A, infinito. Da esso scegliamo un elemento, e associamolo
al numero 1. Poi ne prendiamo un secondo, e lo associamo al numero 2. Poi
un terzo, che associamo a 3, un quarto, e così via. Non c’è mai il pericolo di
non trovare un altro elemento, perché A è infinito, e quindi possiamo procedere
quanto vogliamo.
In pratica abbiamo costruito una funzione che immerge tutti i numeri naturali
all’interno del nostro insieme A (facciamo attenzione perché a una prima lettura
potrebbe sembrare il contrario: tutti i numeri naturali vengono associati a infiniti elementi di A, ma non è detto che tutti gli elementi di A vengano presi in
considerazione): questo significa che la cardinalità di A sarà maggiore o uguale
alla cardinalità dei numeri naturali.
Dunque ℵ0 è il più piccolo cardinale transfinito.
“Bè, questa mi sembra semplice, l’ho capita subito”.
“Purtroppo non è così semplice”.
“Ma come? Una volta che avevo capito!”.
“Il grosso problema è la frase da esso scegliamo un elemento”.
“Oh bella, e perché?”.
“Perché scegliere un elemento tra infiniti non è immediato”.
“Ma va? Ce ne sono tanti, potrò pur sceglierne uno!”.
“Mettiamola così: scegliere un elemento tra tanti significa definire una funzione
che i Veri Matematici chiamano funzione di scelta. Dato un insieme, la funzione
mi dice quale elemento estrarre”.
“Va bene, se ti vuoi complicare la vita, ok”.
“Il problema è che questa funzione non sempre puoi definirla, magari puoi dire
che esiste, ma se io ti domando come funziona, quale elemento restituisce, tu
non puoi saperlo”.
“Boh?”.
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CAPITOLO 13. COMINCIAMO DAL BASSO
“Ti faccio un esempio: hai presente la corriera con infiniti posti che è arrivata
all’albergo di Hilbert?”.
“Sì, me la ricordo”.
“Ok. I passeggeri, stanchi per il viaggio, si sono tolti le scarpe”.
“Che puzza!”.
“E le calze. E hanno appoggiato tutto sopra al loro seggiolino”.
“Bleah”.
“Ora tu devi fare una corsa sulla corriera e portarmi una scarpa per ogni
passeggero. Ce la fai?”.
“Mah, sì, tempo permettendo. Ci sono due scarpe, ne prendo una”.
“Quale prendi? Serve una regola”.
“No so, prendo la destra, va bene?”.
“Va bene, avresti potuto prendere la sinistra, oppure stabilire una regola più
complicata. Che so, nei seggiolini di posto pari prendo la destra, in quelli di
posto dispari la sinistra. Va bene qualunque regola”.
“Mah. Quindi la scelta posso farla”.
“Certo. Ora devi fare un altro giro e prendere una calza per ogni passeggero.
Ricordati che le calze possono essere indifferentemente portate nel piede destro
oppure nel piede sinistro”.
“Vabbè, ne prendo una”.
“Ma quale?”.
“Ma non lo so, una delle due! Ce ne sono due, una a caso. Sarò ben capace di
prenderne una?”.
“Sarai anche capace, ma non sei capace di dirmi una regola. Se non sei capace
di fare una scelta esplicita, come faccio io a sapere che hai ottenuto tutte le
calze che dovevi raccogliere?”.
“Uhm, questi mi sembrano sofismi da filosofi”.
“Allora ti propongo un patto: io mi fido di te, e dico che tu in un qualche
modo che non conosco riuscirai a prendere una calza per ogni persona, e tu mi
permetti di esplicitare questa possibilità mediante un assioma. Voglio che sia
chiaro che hai bisogno di questo assioma (chiamiamolo atto di fiducia) per poter
fare la tua scelta”.
“Va bene”.
“Ecco l’assioma, che i Veri Matematici chiamano assioma della scelta: data una famiglia di scatole, ognuna delle quali contenenti almeno un oggetto, è
possibile selezionare esattamente un oggetto da ogni scatola, anche se le scatole
sono infinite e non esiste nessuna regola per selezionare gli oggetti”.
“Mah, evidentemente i Veri Matematici ci tengono a sottolineare l’ovvio. Mi
pare una cosa inutile”.
“Quindi tu lo prenderesti per vero senza pensarci un momento”.
“Certo”.
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“Senti, allora che mi dici di quest’altro, che i veri matematici chiamano principio del buon ordinamento: ogni insieme è ordinabile in modo tale che ogni
suo sottoinsieme abbia minimo”.
“Mh, non è chiaro”.
“Pensa ai numeri naturali ordinati. Prendi un qualunque sottoinsieme, uno
qualsiasi”.
“Boh, vediamo: {5, 42, 314, 2718}”.
“Perfetto. È vero che ha minimo?”.
“Certo, è 5”.
“Bene, hai capito. Questa operazione la puoi fare sempre: prendi un insieme qualunque, lo riordini opportunamente, e ottieni questa proprietà. Ogni
sottoinsieme ha minimo. Ti pare un teorema accettabile?”.
“Certo che no. Se prendo i numeri reali, come faccio a riordinarli in modo tale
che ogni sottoinsieme abbia minimo?”.
“Devo dire che hai scelto un ottimo esempio. Nessuno, finora, è riuscito a trovare
un ordinamento dei numeri reali con quella proprietà”.
“Dunque il tuo principio del buon ordinamento è falso!”.
“Invece no, è vero”.
“Eh?”.
“Anzi, si dimostra che è equivalente all’assioma della scelta, quello che tu
consideravi tanto ovvio”.
“Equivalente?”.
“Sì, se è vero uno, è vero l’altro. Se è falso uno, è falso l’altro. Vanno via in
parallelo”.
“Ohi ohi”.
“Oppure prendi quest’altro esempio: è possibile prendere una sfera piena, spezzettarla in piccole parti e poi ricomporle fino ad ottenere due copie identiche
della sfera iniziale”.
“Ma va, via, non è possibile”.
“Si chiama paradosso di Banach-Tarski, è tutto vero, e dipende anche questo
dal tuo assioma della scelta”.
“Mi gira la testa. . . Ma i Veri Matematici come prendono queste cose paradossali?”.
“Dipende. Alcuni prima cercano conseguenze dell’assioma della scelta, o enunciati equivalenti tipo il lemma di Zorn, che non sto nemmeno a raccontarti
perché dice cose abbastanza incomprensibili”.
“E poi?”.
“Poi ci scherzano sopra, con frasi del tipo l’assioma della scelta è ovviamente
vero, il principio del buon ordinamento è ovviamente falso e, circa il lemma di
Zorn, chi è capace di capirci qualcosa? Oppure fanno battute sul fatto che tre
enunciati equivalenti sono chiamati uno assioma, il secondo principio, il terzo
lemma”.
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CAPITOLO 13. COMINCIAMO DAL BASSO
“Carini. E gli altri matematici cosa fanno?”.
“Devo proprio dirtelo?”.
“Ah, ok, ho capito”.
Capitolo 14
l’insieme delle parti
Per salire verso cardinalità sempre più grandi dobbiamo introdurre un nuovo
oggetto: l’insieme delle parti. La definizione è semplice: si chiama insieme delle
parti di un insieme A l’insieme che contiene tutti i sottoinsiemi di A. Il suo
simbolo è P(A) .
“Facciamo qualche esempio?”.
“Ok, partiamo dall’insieme più semplice: l’insieme vuoto. L’insieme delle parti
è. . . ”.
“Vuoto pure lui”.
“No. L’insieme delle parti contiene un elemento, l’insieme vuoto”.
“Eeeh?”.
“Prova a pensare a cosa significa sottoinsieme”.
“Un sottoinsieme S di A contiene alcuni elementi dell’insieme A”.
“Circa. La definizione corretta è: se x appartiene a S, allora x appartiene anche
ad A”.
“Va bene. Possiamo dire che tutti gli elementi di S sono contenuti in A?”.
“Certo. Allora vedi che l’insieme vuoto è sottoinsieme dell’insieme vuoto”.
“Veramente non vedo un bel niente”.
“È vero o no che tutti gli elementi dell’insieme vuoto sono contenuti nell’insieme
vuoto, o in qualunque altro insieme?”.
“Ma l’insieme vuoto non ha elementi!”.
“Appunto. Esiste forse qualche elemento dell’insieme vuoto che non è contenuto
in qualche insieme?”.
“No, certo, non esistono proprio elementi”.
“Dunque è vero il contrario, tutti gli elementi dell’insieme vuoto sono contenuti
in qualunque insieme”.
“Mamma mia, che sofismi. Va bene, ho capito: se A = ∅, allora P(A) = {∅}”.
“Perfetto. Parlando di cardinalità, Card(∅) = 0, Card(P(∅)) = 1”.
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CAPITOLO 14. L’INSIEME DELLE PARTI
“Ok. Possiamo prendere un insieme un pochino più grosso?”.
“Prendiamo A = {a}. Quali sono i suoi sottoinsiemi?”.
“Allora, ho capito che c’è l’insieme vuoto, quello è dappertutto”.
“Poi?”.
“Ce ne sono ancora?”.
“Sì”.
“Forse A stesso?”.
“Molto bene: ogni insieme è sottoinsieme di sé stesso. È un concetto analogo a quello di essere minore o uguale tra due numeri. Accettiamo anche
l’uguaglianza”.
“Ho capito. Quindi, se A = {a}, P(A) = {∅, {a}}”.
“Parlando di cardinalità: Card(A) = 1, Card(P(A)) = 2”.
“Ok, ora provo con un insieme di due elementi: A = {a, b}. Se non sbaglio,
P(A) = {∅, {a}, {b}, {a, b}}. Card(A) = 2, Card(P(A)) = 4”.
“Bene. Facciamo un ultimo esempio con tre elementi: A = {a, b, c}. L’insieme
delle parti è fatto in questo modo:
P(A) = {∅, {a}, {b}, {c}, {a, b}, {a, c}, {b, c}, {a, b, c}}.
Quindi Card(A) = 3, mentre Card(P(A)) = 8”.
“Uhm, mi pare che ci sia una regola sotto”.
“Quale?”.
“Se la cardinalità di A è uguale a n, la cardinalità di P(A) è uguale a 2n ”.
“È vero”.
“E si dimostra?”.
“Certo. Per gli insiemi finiti è semplice, per quelli infiniti più complicato, ma la
formula vale sempre”.
“Cioè, mi stai dicendo che si può calcolare 2ℵ0 ?”.
“Già”.
“E immagino che faccia sempre ℵ0 ?”.
“No. Questa volta fa di più”.
“Ah, quanto?”.
“c gotico”.
“Eh?”.
“I Veri Matematici scrivono una lettera c minuscola in caratteri gotici”.
“Cioè, mi stai dicendo che prima vanno a scomodare l’alfabeto ebraico, prendono
la prima lettera e ci aggiungono un indice, come a dire state a vedere quanti
numeri tiriamo fuori, poi per un po’ temono che quella sia l’unica lettera che mai
useranno, e alla fine, quando scoprono che ne possono usare un’altra, scrivono
c gotico?”.
“Ehm”.
Capitolo 15
la cardinalità dell’insieme
delle parti
Ora andiamo sul difficile, vogliamo dimostrare che se la cardinalità di un insieme
A è uguale a α, allora la cardinalità del suo insieme delle parti P(A) è uguale a
2α .
La dimostrazione segue questa strada: si vuole far vedere che l’insieme delle
funzioni che vanno da A nell’insieme {0, 1} è in corrispondenza biunivoca con
P(A).
“Insieme di funzioni? Ma le funzioni sono particolari relazioni, cioè a loro volta
sono insiemi. Mi sa che stiamo astraendo troppo”.
“L’avevo detto che era difficile. Proviamo a ragionare con un esempio: immagina
di avere davanti a te tutti gli oggetti che fanno parte di A”.
“Va bene. Finiti o infiniti?”.
“Per adesso non importa. Per comodità, pensa che siano finiti, ma non è
indispensabile”.
“Ok. Ora che faccio?”.
“Ora immagina che a ogni oggetto sia associata una lampadina, che tu puoi
accendere o spegnere a tuo piacimento”.
“Bene, fin qua è facile”.
“Ora pensa di accendere qualche lampadina, quelle che vuoi tu, come vuoi tu”.
“Fatto”.
“Perfetto. Hai associato a ogni elemento di A una lampadina, accesa o spenta”.
“Vero”.
“Se la lampadina accesa rappresenta un 1, e la lampadina spenta rappresenta
uno 0, hai associato a ogni elemento di A uno 0 oppure un 1”.
“Ho capito! Ho costruito una funzione che va da A all’insieme {0, 1}”.
“Bene. Ora ascolta: in quanti modi puoi creare una sequenza di lampadine
accese o spente associate agli elementi di A? Supponiamo per ora che A sia
finito”.
43
44
CAPITOLO 15. LA CARDINALITÀ DELL’INSIEME DELLE PARTI
“Questa è difficile”.
“No, ragiona in questo modo: per quanto riguarda la prima lampadina, quante
possibilità hai?”.
“Beh, 2, o è accesa o spenta”.
“Per quanto riguarda la seconda?”.
“Ancora 2”.
“Quindi, se metti insieme la prima e la seconda lampadina, hai 2 possibilità per
la prima, e per ognuna di queste 2 possibilità ne hai altre 2 per la seconda”.
“Totale 4?”.
“Certo. Se vuoi te le elenco: 00, 01, 10, 11”.
“Mh, mi ricorda la numerazione binaria. Se aggiungo una terza lampadina,
allora, potrei avere uno 0 da associare a queste quattro possibilità, oppure un
1. Otterrei 000, 001, 010, 011 e poi 100, 101, 110, 111. Totale 8. Ogni volta che
aggiungo una lampadina moltiplico per 2!”.
“Bene, quindi se in A ci sono α elementi, hai 2α modi di accendere le lampadine.
E cioè, hai 2α funzioni che vanno da A a {0, 1}”.
“Ok, ho capito, detto così non è difficile”.
“La matematica non è mai difficile quando la capisci”.
“Permettimi di non commentare e andiamo avanti”.
“Ora vogliamo dimostrare che questo insieme di funzioni è in corrispondenza
biunivoca con P(A)”.
“E come facciamo?”.
“Facciamo così: ad ogni successione di lampadine (cioè ad ogni funzione) associamo l’insieme che contiene solo gli elementi per le quali le lampadine sono
accese”.
“Credo di aver capito, ma se ci fosse un esempio sarebbe meglio”.
“Va bene. Prendiamo un insieme facile: {a, b}. Ora costruisci tu tutte le funzioni
che vanno da questo insieme a {0, 1}”.
“Allora, posso associare a a 0 e b a 0. Oppure a a 0 e b a 1. Forse è meglio se
faccio uno schema. Eccolo qua, ho numerato le quattro funzioni”.
f1 =
f3 =
a 7→ 0
b 7→ 0
a 7→ 1
b 7→ 0
a 7→ 0
b 7→ 1
a 7→ 1
b 7→ 1
f2 =
f4 =
“Perfetto. Ora scegline una”.
“La numero 2. Era il voto preferito del mio prof di matematica”.
“Va bene. La funzione f2 accende solo una lampadina, quella di b. Quindi ad
essa associamo l’insieme {b}”.
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“Mh. Forse ho capito. La funzione f1 è associata all’insieme vuoto, perché non
accende lampadine?”.
“Giusto. Provi a fare uno schema anche per questa corrispondenza tra funzioni
e insiemi?”.
“Ok, ecco qua:”.
f1 7→ {}
f2 →
7 {b}
f3 →
7 {a}
f4 7→ {a, b}
“Molto bene. Hai notato che hai elencato tutti i sottoinsiemi dell’insieme da cui
siamo partiti, cioé {a, b}?”.
“Vedo. Ma siamo sicuri che non sia un caso?”.
“No, è vero in generale: se prendi due modi diversi di accendere le lampadine,
troverai certamente due insiemi diversi. Viceversa, se prendi due insiemi diversi,
essi ti daranno modi diversi di accendere le lampadine. Insomma, le lampadine accese corrispondono agli elementi: stesse lampadine, stessi elementi; stessi
elementi, stesse lampadine”.
“Va bene”.
“E tieni presente che questa dimostrazione vale anche per il caso infinito. Cioè,
puoi mettere in corrispondenza biunivoca i due insiemi delle funzioni da A in
{0, 1} e P(A) anche se A è infinito. Chiaramente non potrai calcolare 2α in
questo caso. Però si può dimostrare che il cardinale transfinito α è minore del
cardinale transfinito 2α ”.
“Non me lo lasci come esercizio, vero?”.
“No, questo è difficile. Lo vediamo la prossima volta”.
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CAPITOLO 15. LA CARDINALITÀ DELL’INSIEME DELLE PARTI
Capitolo 16
esistono cardinalità grandi
So che qui perderò la metà dei miei 102 lettori, perché questa dimostrazione è
difficile. Ma se uno prova a seguirla, magari con carta, matita, gomma, troverà
che è affascinante. Chiaramente, affascinante per un Vero Matematico.
Abbiamo visto che se la cardinalità dell’insieme A è α allora la cardinalità
dell’insieme delle parti P(A) è 2α . Nel caso in cui α sia transfinito, la scrittura
2α è soltanto un simbolo. Ora vogliamo dimostrare che 2α è effettivamente
maggiore di α anche nel caso transfinito.
Supponiamo per assurdo che esista una funzione biunivoca µ tra A e P(A).
“Ehm, per assurdo?”.
“Sì, è una tecnica di dimostrazione”.
“Uhm”.
“Funziona così: tu supponi che quello che vuoi dimostrare non sia vero, e provi
a vedere cosa succede. Se arrivi a una contraddizione, vuol dire che la tua
supposizione iniziale è sbagliata, e quindi quello che vuoi dimostrare è proprio
vero”.
“Ah. Un metodo un po’ strano, ma credo di aver capito. Prova ad andare
avanti”.
“Allora, questa fantomatica corrispondenza biunivoca µ dovrebbe far corrispondere elementi di A a sottoinsiemi di A”.
“Giusto: parte da A (che contiene elementi di A, evidentemente) e arriva a P(A)
(che contiene sottoinsiemi di A)”.
“Allora, prendiamo un generico elemento di A e chiamiamolo (con grande fantasia) a”.
“I Veri Matematici sono noti per la loro fantasia”.
“È vero. Un mio prof all’università un giorno ci fece una dimostrazione in cui
si mise a usare un sacco di lettere strane. Scoprimmo solo alla fine che voleva
arrivare a usare la variabile ηβ ”.
“Mi avvalgo della facoltà di non commentare”.
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CAPITOLO 16. ESISTONO CARDINALITÀ GRANDI
“Comunque dicevamo dell’elemento a. Questo corrisponderà a un sottoinsieme
di A”.
“Sì, certo”.
“Questo sottoinsieme di A potrebbe contenere l’elemento a oppure no”.
“Uhm. Ok. Magari, un esempietto?”.
“Immagina che l’insieme A sia {Pippo, Pluto, Paperino}, e prendiamo un elemento di questo insieme, per esempio Pippo. A questo elemento corrisponde un
sottoinsieme di A, diciamo che sia {Pluto, Paperino}”.
“Ok. In questo caso a non appartiene al corrispondente insieme”.
“Esatto. Se invece prendo Pluto, e immagino che sia associato a {Pippo, Pluto},
allora vedo che a appartiene al corrispondente insieme”.
“Ok, ci sono, ho capito. Tutti gli elementi di A saranno associati a insiemi, e
abbiamo due possibilità: o questi insiemi contengono i corrispondenti elementi,
oppure non li contengono”.
“Perfetto. Allora possiamo considerare l’insieme di tutti gli elementi di A
che non appartengono al corrispondente insieme, come il Pippo dell’esempio
precedente”.
“Ok. Immagino che un Vero Matematico lo chiamerebbe B”.
“Vedo che sei sulla buona strada. Ora, attento: anche B è un sottoinsieme di
A, vero?”.
“Certo. Contiene solo elementi di A”.
“E quindi questo B, nella nostra fantomatica corrispondenza biunivoca, proviene
da un qualche elemento di A”.
“Sì, se immaginiamo che questa corrispondenza biunivoca esista, come hai detto
tu, allora B proviene da. . . possiamo chiamarlo b?”.
“Certo, un’ottima scelta. L’elemento b è associato a B. Ora arriva la domanda:
b appartiene a B?”.
“Vediamo: B contiene solo elementi che non appartengono all’insieme al quale
corrispondono. Siccome b corrisponde a B, b non può stare in B. Perfetto, ho
la risposta: b non appartiene a B”.
“Ma l’insieme B non dovrebbe contenere tutti gli elementi che non appartengono
all’insieme a cui sono associati?”.
“Certo”.
“E b non è associato a B?”.
“Certo”.
“Allora b appartiene a B”.
“Certo. No, un momento, ho appena detto che b non appartiene a B. Ora tu
mi dici che proprio perché b non appartiene a B allora deve appartenere a B!
Mi sembra il paradosso del barbiere”.
“È lui. Osserva che puoi anche partire dalla supposizione contraria: se b appartiene a B significa che b non appartiene all’insieme a cui corrisponde, che è
sempre B. Da qualunque parte tu la guardi, è una contraddizione. Se supponi
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che esista una corrispondenza biunivoca tra A e P(A) arrivi al paradosso, anzi,
all’antinomia, del barbiere. E questo non può succedere”.
“Quindi?”.
“Quindi la nostra fantomatica µ non esiste”.
“Wow”.
“E quindi A e P(A) non hanno la stessa cardinalità”.
“Vero”.
“E siccome P(A) contiene A, la cardinalità di P(A) è maggiore di quella di A”.
“Come dicono i giovani d’oggi, il barbiere spakka”.
“Guai a te se scrivi un’altra volta con le k”.
“Ehm”.
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CAPITOLO 16. ESISTONO CARDINALITÀ GRANDI
Capitolo 17
infinite lampadine
Una successione è una funzione che ha, come insieme di partenza, l’insieme dei
numeri naturali. In altre parole, è uno strumento che conta. Ogni volta che
contiamo un insieme di oggetti associamo un numero naturale a ogni oggetto,
in ordine: in pratica stiamo costruendo una successione; con la differenza che
noi, a un certo punto, ci fermiamo, mentre le successioni matematiche vanno
avanti sempre.
Bene, ora consideriamo una successione per la quale l’insieme di arrivo sia 0, 1.
Come è fatta?
Ad ogni numero naturale sarà associato uno 0 oppure un 1, non ci sono altre
possibilità. Ecco un esempio:
0 7→ 0
1 7→ 1
2 7→ 0
3 7→ 1
4 7→ 0
5 7→ 1
..
.
In questa successione 0 è associato a 0, 1 a 1, poi 2 è associato nuovamente a 0,
3 a 1, e così via. Siccome l’insieme di partenza di ogni successione è prefissato,
possiamo anche ometterlo (tanto sappiamo contare, basta che teniamo in mente
che partiamo da zero). In questo caso, la successione di prima diventa più
semplice da scrivere:
01010101 . . .
Si tratta di una stringa infinita composta solo da cifre 0 e 1: la chiamiamo
successione binaria (infinita).
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CAPITOLO 17. INFINITE LAMPADINE
Se utilizziamo l’esempio delle lampadine accese e spente, una successione binaria
infinita diventa una fila infinita di lampadine, ognuna delle quali può essere
accesa o spenta.
Ora, di queste successioni binarie ce ne sono tante.
“Quante?”.
“Tante quanti sono gli elementi di P (N)”.
“L’insieme dei sottoinsiemi dei numeri naturali?”.
“Giusto”.
“Quindi dovrebbe essere 2ℵ0 , dato che abbiamo visto che la cardinalità dell’insieme dei naturali è ℵ0 , e che se la cardinalità di un insieme è α, allora la
cardinalità dell’insieme delle parti è 2α . Giusto?”.
“Proprio così”.
“Ed è difficile da dimostrare?”.
“No, è abbastanza semplice. Usiamo la tecnica che abbiamo già usato per dimostrare che la cardinalità dell’insieme delle parti di un insieme dato è maggiore
di quella dell’insieme”.
“Anche allora avevamo parlato di lampadine, se ben ricordo”.
“Infatti è così. Le nostre successioni binarie associano i numeri naturali a 0
oppure a 1, cioè a una lampadina spenta oppure accesa. Bene, allora a una data
successione associamo il sottoinsieme dei numeri naturali che contiene tutti i
numeri per i quali sono accese le lampadine”.
“Uhm. Un esempio?”.
“Prendi la successione 01010101 . . . ”.
“Ok. A 0 è associato il primo numero, che è 0, quindi lampadina spenta. Non
ci interessa. A 1 è associato 1, lampadina accesa, bene. A 2 è associato 0. Ho
capito, questa successione accende lampadine solo per i numeri dispari”.
“E quindi ad essa sarà associato l’insieme di tutti i numeri dispari, sottoinsieme
di N”.
“Ok, chiaro, ho capito”.
“Prova a scrivere la successione che sarà associata ai numeri pari”.
“Facile: 10101010 . . . ”.
“Quindi a ogni successione è associato un sottoinsieme, e se due successioni sono
diverse, sarà diverso anche l’insieme corrispondente”.
“Ok”.
“Ora vediamo il contrario: a ogni sottoinsieme A di N è associata una successione binaria”.
“Ah, sì, è facile anche questo: basta cominciare a contare da 0 e accendere una
lampadina quando si incontra un numero che sta in A”.
“Molto bene. Per esempio, quale successione è associata a {1, 2, 3}?”.
“Dovrebbe essere 111”.
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“No, non va bene, ricordati che i Veri Matematici non cominciano a contare da
1”.
“Ah, già, si parte da 0. Allora è questa: 0111”.
“Quasi. Questa, in effetti, non è una successione infinita”.
“Ah. Ma dopo non ci sono più numeri, mi hai dato un insieme finito. . . Bé,
posso continuare con una successione di 0”.
“E quindi, quale successione è associata a {1, 2, 3}?”.
“Questa: 011100000 . . . ”.
“Ottimo. Riassumendo: esiste una corrispondenza biunivoca tra le successioni
binarie (infinite) e l’insieme delle parti dei numeri naturali”.
“E quindi i due insiemi hanno la stessa cardinalità, che è maggiore di quella dei
numeri naturali e che abbiamo indicato con 2ℵ0 . Ma perché abbiamo dimostrato
questo teorema?”.
“Perché ci sarà utile nello studio della cardinalità dei numeri reali”.
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CAPITOLO 17. INFINITE LAMPADINE
Capitolo 18
i numeri reali
Siamo arrivati al punto in cui ci tocca parlare dei numeri reali, cosa che ogni
Vero Matematico preferirebbe non fare, perché la loro definizione è complicata
e tutti comunque li conoscono.
Per prima cosa, i numeri reali possono essere costruiti o definiti. Il vantaggio del
primo approccio è la sua intrinseca eleganza: i reali si costruiscono a partire dai
razionali, i razionali dagli interi, gli interi dai naturali, i naturali dall’insieme
vuoto. Basta quindi il solo concetto di insieme vuoto per ottenere tutto. Lo
svantaggio è che la costruzione è strana e complicata. Anzi, di costruzioni ce ne
sono più di una.
Si possono usare le successioni di Cauchy, che sono successioni i cui termini si
avvicinano sempre di più fra loro. Parlando molto a braccio e intuitivamente, i
numeri reali sono l’insieme in cui tutte le successioni di Cauchy convergono. Nell’insieme dei numeri razionali potrebbero esserci invece problemi di convergenza.
Prendiamo per esempio la seguente successione:
1, 1.4, 1.41, 1.414, 1.4142, 1.41421, 1.414213, . . .
Essa è composta solo da frazioni, è di Cauchy, ma non converge a una frazione
(perché converge a radice di due, che non è razionale).
Oppure si potrebbero usare le sezioni di Dedekind, che sono un concetto ancora
più complicato da descrivere. Parlando in maniera sempre meno rigorosa, le sezioni di Dedekind ci fanno capire che l’insieme dei numeri razionali, pur essendo
denso, ha dei buchi. Denso significa che comunque scelgo due numeri, tra di
essi ne trovo almeno un altro. I buchi corrispondono ai numeri irrazionali. Per
esempio, se consideriamo i due seguenti insiemi:
A = {1, 1.4, 1.41, 1.414, 1.4142, 1.41421, 1.414213, . . . }
B = {2, 1.5, 1.42, 1.415, 1.4143, 1.41422, 1.414214, . . . }
ci accorgiamo che gli elementi contenuti in essi si avvicinano sempre di più tra
loro e si addensano attorno a un buco: il posto occupato dalla radice di due.
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CAPITOLO 18. I NUMERI REALI
Se noi allora chiamiamo numeri reali tutti gli oggetti individuati dalle sezioni di Dedekind, in un certo senso riempiamo i buchi sulla retta dei numeri e
completiamo l’insieme dei numeri razionali, ottenendo i reali.
I numeri reali possono anche essere definiti come numeri decimali (illimitati
oppure no). Dopodiché si definiscono le operazioni in modo formale, e da lì ci si
ricollega agli altri numeri, mostrando che questa definizione comprende anche i
numeri naturali, interi e razionali.
Oppure si può partire dai numeri iperrazionali (che sarebbero i razionali dell’analisi non standard). Oppure ancora dai numeri surreali (e questa è la parte che
mi affascina di più, che mi piacerebbe approfondire e sulla quale vorrei scrivere
qualcosa).
Insomma, le costruzioni dei numeri reali sono tante, tutte complicate. Complicate anche dal fatto che non solo occorre definire i numeri, ma poi è necessario
fare vedere come funzionano le operazioni tra di essi, e mostrare che queste
nuove definizioni sono in accordo con le vecchie. Perciò è necessario fare vedere
che uno più uno fa ancora due. Ecco perché i matematici preferirebbero non
costruire i numeri reali.
Esiste un’altra strada, alternativa a quella delle costruzioni: è la strada della
assiomatizzazione. Cioè, noi non costruiamo niente, ma diciamo semplicemente
che i numeri reali sono l’unico campo ordinato archimedeo completo.
“Ah, certo, semplicemente”.
“Eh, hai ragione, non è semplice nemmeno questo”.
“Anche se, in fondo, ci sono solo quattro parole che mi devi spiegare”.
“Sì, e tieni presente che queste quattro parole implicano una serie di proprietà
sovrabbondanti, nel senso che alcune dipendono da altre. Le si potrebbe restringere ulteriormente, come ha fatto Tarski, ma si perde un po’ in chiarezza.
Non posso però fare a meno di citarti l’ultimo assioma di Tarski”.
“Perché? È incomprensibile? Complicato? Astruso?”.
“Giudica tu. Dice che 1 è minore di 1+1”.
“Forse è meglio se torniamo a quelle quattro parole da spiegare: cominciamo da
campo?”.
“Ok. Campo è una struttura algebrica composta da un insieme e due operazioni”.
“Va bene. Suppongo che l’insieme sia quello dei numeri, e le due operazioni
siano operazioni su quei numeri?”.
“Certamente. La prima operazione la indichiamo con + e la seconda con ·”.
“Va bene. Tutto qua?”.
“No, le operazioni devono soddisfare a certe proprietà. L’operazione +, che
chiamiamo somma, deve essere associativa e commutativa. Poi deve esistere
l’elemento neutro, che indichiamo con 0, e deve esistere l’inverso”.
“Va bene, questi sono concetti che si imparano anche alle elementari. Ci sono
proprietà anche per il · (posso chiamarlo prodotto)?”.
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“Sì, il prodotto deve essere associativo, commutativo, deve esistere l’elemento
neutro che indichiamo con 1, e ogni elemento diverso dallo 0 deve possedere il
reciproco”.
“Stai ripetendo le proprietà della somma e del prodotto delle normali operazioni,
in effetti”.
“Certo. Attento però che sto assiomatizzando, cioè non sto dicendo che un
certo insieme e una certa operazione godono di certe proprietà, ma sto facendo
il contrario: sto caratterizzando un insieme dicendoti quali sono le proprietà che
deve avere”.
“In pratica tu mi dai le proprietà, e io devo immaginarmi l’insieme”.
“Sì, esatto. I filosofi si divertono molto su questo punto, perché ora non stiamo
parlando di una cosa in sé, di cui studiamo le proprietà, ma di un oggetto che
esiste solo in quanto possiede certe proprietà. Ti dirò anche che personalmente
questo secondo aspetto mi piace di meno”.
“Cioè per te gli oggetti matematici esistono, in un qualche modo?”.
“Eh, sì”.
“Sei proprio un Vero Matematico”.
“Grazie”.
“. . . ”.
“O forse non intendevi farmi un complimento?”.
“Ehm, dicevamo delle proprietà dei numeri reali?”.
“Eh, andiamo avanti che è meglio, va. . . Dunque, deve essere anche vera la proprietà distributiva del prodotto rispetto alla somma. E con queste proprietà
abbiamo definito il concetto di campo”.
“Ok, passiamo alla prossima parola: ordinato”.
“Ordinato è facile: esiste un ordine tra tutti gli elementi. Cioè, comunque tu
scegli due elementi, puoi dire se sono uguali o se uno è minore (o maggiore)
dell’altro”.
“Va bene. Archimedeo?”.
“Archimedeo significa che non ci sono numeri piccoli e numeri grandi in assoluto.
Non puoi fare una cosa come scegliere un numero talmente grande e uno talmente
piccolo che, moltiplicando il piccolo tante volte quante vuoi, non riesci mai a
superare il grande. Lo spiega bene .mau. quando dice che 0.(9) è uguale a
1. E mostra anche un esempio di insieme numerico in cui manca la proprietà
archimedea, quando dice che 0.(9) non è uguale a 1”.
“Ah, questo è più complicato rispetto alle altre proprietà. Comunque ho capito,
non esistono quelle cose strane come gli infinitesimi”.
“Perfetto. Completo invece significa che ogni sottoinsieme non vuoto e superiormente limitato ammette estremo superiore”.
“Questo è meno chiaro”.
“Significa questo: prendi un sottoinsieme dei numeri, che non sia l’insieme
vuoto”.
58
CAPITOLO 18. I NUMERI REALI
“Ok”.
“Questo insieme deve essere superiormente limitato, cioè tutti i suoi elementi
devono essere più piccoli di un qualche elemento prefissato”.
“Bene”.
“Ti faccio notare che se, per esempio, tutti gli elementi sono minori di 10, essi
sono minori anche di 15, di 20, oppure di 42”.
“Certo, è chiaro. Se non vado oltre un certo ostacolo, non vado nemmeno oltre
un ostacolo più grande”.
“Bene. Questi ostacoli si chiamano maggioranti. Prendi il più piccolo di tutti
gli ostacoli: questo si chiama estremo superiore”.
“E secondo la tua definizione, l’estremo superiore deve appartenere all’insieme?”.
“Sì”.
“E non appartiene sempre all’insieme?”.
“Solo se l’insieme è quello dei numeri reali.
conoscenza:”.
Prendi questa nostra vecchia
{1, 1.4, 1.41, 1.414, 1.4142, 1.41421, 1.414213, . . . }
“Ah, sempre lui! Ho capito: gli elementi non superano mai radice di due, ma
radice di due non appartiene all’insieme perché non è una frazione. E quindi
lascia un buco”.
“Certo. Il concetto di completezza è proprio legato a questa faccenda dei buchi”.
“Insomma, alla fine l’assiomatizzazione non è così complicata”.
“Ecco, vedi, tu avevi detto che c’erano quattro parole da spiegare”.
“Campo. Ordinato. Archimedeo. Completo. Non sono quattro?”.
“Hai dimenticato unico”.
“Ohi ohi.”.
“Si tratterebbe di dimostrare che questa serie di assiomi ha un unico modello”.
“Ed è difficile?”.
“Sì”.
“Lungo?”.
“Sì”.
“Lo facciamo?”.
“No. A noi dei reali interessa solo questa piccola cosa: sono numeri decimali
finiti oppure infiniti”.
“E non potevi dirlo subito?”.
“Per risparmiarti quel senso di frustrazione che hanno i Veri Matematici tutte
le volte che devono definire i numeri reali? No, la strada per diventare un Vero
Matematico è lunga e piena di ostacoli”.
Capitolo 19
lampadine e numeri reali
Abbiamo detto che dei numeri reali ci interessa una sola cosa: possono essere
espressi come numeri decimali finiti oppure infiniti. Ora prendiamo solo una
parte dei numeri reali, l’intervallo [0, 1). In pratica, stiamo considerando tutti i
numeri che si possono scrivere come zero virgola qualcosa.
“Come mai prendi solo un intervallo, invece di prendere tutti i numeri reali?”.
“Per comodità, tanto poi si dimostra che un intervallo e l’intera retta hanno la
stessa cardinalità”.
“Ma come è possibile? Un altro paradosso dell’infinito?”.
“Già. Però lo vediamo più avanti. Adesso ci concentriamo sull’intervallo [0, 1)
e le successioni binarie infinite”.
“Ah, torniamo a parlare di lampadine?”.
“Sì, però questa volta consideriamo soltanto le successioni binarie che non sono
definitivamente uguali a 1”.
“Eh?”.
“Definitivamente significa da un certo punto in poi. Insomma, non vogliamo le
successioni binarie che terminano con infinite cifre uguali a 1”.
“Ah, ok. Non capisco però il perché di questa limitazione”.
“Te lo spiego tra un attimo. Prima ti dico che le successioni binarie infinite
possono essere interpretate come la parte dopo la virgola di un numero compreso
tra 0 e 1, purché lo trasformiamo in binario”.
“Ah! La numerazione binaria. Ma si possono trasformare in binario anche
numeri decimali?”.
“Certo, così come 0.110 significa 10−1 , 0.12 significa 2−1 ”.
“Bene, ogni giorno si impara una cosa nuova”.
“Ora si spiega anche il motivo per cui non prendiamo le successioni definitivamente uguali a 1. Così come in base 10 non esiste il periodo 9, in base 2 non
esiste il periodo 1”.
“Va bene. Cosa vogliamo dimostrare, allora?”.
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CAPITOLO 19. LAMPADINE E NUMERI REALI
“Praticamente l’abbiamo già fatto: esiste una corrispondenza biunivoca tra le
successioni binarie infinite non definitivamente uguali a 1 e i numeri appartenenti
all’intervallo [0, 1)”.
“Ah, già, è vero”.
“E quindi, se indichiamo con c (che sarebbe poi il famoso c gotico) la cardinalità
di [0, 1), abbiamo che c è minore o uguale di 2ℵ0 ”.
“Com’è che dici minore o uguale?”.
“Perché le successioni binarie non definitivamente uguali a 1 sono un sottoinsieme di tutte le successioni binarie, che hanno cardinalità 2ℵ0 ”.
“E allora, visto che sono di meno, non dovresti dire minore invece di minore o
uguale?”.
“Dimentichi l’albergo di Hilbert ”.
“Uhm, cosa c’entra?”.
“Era un paradosso che ti faceva capire che un insieme infinito e un suo sottoinsieme proprio possono avere la stessa cardinalità”.
“Ah, è vero! Avevi spostato gli infiniti ospiti nelle camere pari”.
“Dimostrando che l’insieme dei numeri pari e quello dei numeri naturali hanno
la stessa cardinalità”.
“Ecco spiegato il minore o uguale: è possibile che le successioni binarie e il sottoinsieme di quelle non definitivamente uguali a 1 abbiano la stessa cardinalità”.
“Proprio così”.
“E come facciamo a sapere se è vero il minore oppure l’uguale?”.
“Non è semplice: servono un’altra funzione e un teorema dal nome altisonante”.
Capitolo 20
immersioni di lampadine
Abbiamo visto che esiste una corrispondenza biunivoca tra le successioni binarie
infinite non definitivamente uguali e 1 e i numeri appartenenti all’intervallo [0, 1).
Siccome queste successioni binarie costituiscono un sottoinsieme dell’insieme di
tutte le successioni binarie (che ha cardinalità 2ℵ0 ), abbiamo concluso che c è
minore o uguale di 2ℵ0 .
Ora facciamo il contrario, cioè immergiamo l’insieme di tutte le successioni
binarie nell’insieme delle successioni binarie non definitivamente uguali a zero.
“Ma come, prima dici che un insieme è contenuto in un altro, e poi dici che il
secondo è contenuto nel primo?”.
“Non ho proprio detto così. Ho detto che immergiamo un insieme grande dentro
a un insieme piccolo. Cioè facciamo vedere che esiste una funzione iniettiva che
va da uno all’altro. Così come esiste una funzione iniettiva che va dall’insieme
dei numeri naturali a quello dei numeri pari”.
“Uffa, un altro dei soliti paradossi?”.
“Un altro, o forse sempre lo stesso visto da punti di vista differenti”.
“Va bene, ormai mi ci hai abituato. Vediamo come si fa”.
“È molto semplice, questa volta. Si fa come ha fatto l’albergatore dell’albergo
di Hilbert”.
“Sposti la gente?”.
“In un certo senso, sì. Supponi di avere una successione binaria qualunque,
come questa: a0 , a1 , a2 , . . . ”.
“Ok. Immagino che tutti i vari ai possano essere 0 oppure 1, senza alcuna
limitazione?”.
“Proprio così. Per costruire la corrispondenza, facciamo così. Ad ogni successione binaria come quella di prima associamo questa successione:”.
a0 , 0, a1 , 0, a2 , 0, . . .
“Geniale! Assomiglia proprio all’albergo di Hilbert. Queste successioni non sono
definitivamente uguali a 1, perché hai alternato tutti gli elementi con uno zero!”.
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CAPITOLO 20. IMMERSIONI DI LAMPADINE
“Quindi abbiamo definito una corrispondenza iniettiva tra tutte le successioni
binarie e un loro sottoinsieme proprio”.
“È vero. Parlando di cardinalità, cosa abbiamo ottenuto?”.
“Che 2ℵ0 è minore o uguale di c”.
“Ma avevamo appena ottenuto un risultato contrario!”.
“Bè, non proprio contrario. Avevamo detto che c è minore o uguale a 2ℵ0 ”.
“Ah, già, c’è l’uguale che ci salva. Quindi possiamo concludere subito che c e
2ℵ0 sono uguali”.
“Ecco, non è così ovvio”.
“A me pare ovvio, scusa. Se prima dici che un numero è minore uguale di un
secondo numero, poi dici che il secondo è minore o uguale del primo, allora i
due numeri sono uguali, no?”.
“I due numeri, sì. I due cardinali transfiniti sono forse numeri?”.
“Ehm, non sono proprio numeri naturali, no”.
“E dunque bisogna dimostrare la tua affermazione”.
“Uffa”.
“Che si chiama proprietà di tricotomia”.
“L’arte di tagliare il capello? Mi sembra un nome molto azzeccato, deve essere
stato uno dei tuoi Veri Matematici Spiritosi a trovarlo. Certo, io avrei usato
tetratricotomia”.
“Ehm, no, sarebbe semplicemente il verificarsi di una sola proprietà tra tre
esistenti”.
Capitolo 21
facciamo ordine
Una relazione d’ordine è una relazione che gode di tre proprietà:
riflessiva ogni elemento è in relazione con sé stesso, cioè a ≤ a
antisimmetrica se a è in relazione con b e b in relazione con a, allora a è
uguale a b; in formule: se a ≤ b e b ≤ a, allora a = b
transitiva se a è in relazione con b e b in relazione con c, allora a è in relazione
con c; in formule: se a ≤ b e b ≤ c, allora a ≤ c
Se esistesse una relazione d’ordine anche tra i numeri cardinali, allora da c ≤ 2ℵ0
e 2ℵ0 ≤ c potremmo dedurre che c = 2ℵ0 .
La relazione d’ordine, effettivamente, esiste, ed è definita così: Card(A) è minore
o uguale di Card(B) se esiste una funzione iniettiva da A verso B.
Dimostrare la proprietà riflessiva è semplice: esiste certamente una funzione
iniettiva da A verso A, è l’identità (cioè la funzione che a ogni elemento associa
sé stesso. Funzione che è biunivoca, quindi certamente iniettiva).
Anche per quanto riguarda la proprietà transitiva non ci sono problemi: se
esistono una funzione f iniettiva da A verso B e una g iniettiva da B verso C,
ne esiste una da A direttamente verso C, basta comporre le due.
È la proprietà antisimmetrica quella che dà più problemi. Per dimostrarla
immaginiamo una partita di ping pong.
“Ping pong?”.
“Lo so che si dice tennis tavolo, ma mi piaceva di più dire ping pong”.
“Vabbè, ma cosa c’entra il ping pong?”.
“Le nostre ipotesi sono queste: esiste una funzione f iniettiva da A a B, ed
esiste una funzione g iniettiva da B a A”.
“Ok, e la tesi è che esiste una funzione biunivoca da A a B. Ma il ping pong?”.
“Un momento che arrivo. Immagina di prendere un elemento di A qualsiasi”.
“Bene. Lo chiamiamo a?”.
“Chiamiamolo pallina”.
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CAPITOLO 21. FACCIAMO ORDINE
“Non starai esagerando con i nomi esotici?”.
“Questa pallina viene mandata da f in B, giusto?”.
“Giusto. Volendo, potremmo anche dire che viene rimandata da g in A”.
“Perfetto, ecco la tua partita di ping pong. La pallina si trova in A, poi con
f (pallina) la mandiamo in B, poi con g(f (pallina)) di nuovo in A, e così via”.
“Non cade mai questa pallina?”.
“Mai”.
“La partita allora è un po’ noiosa”.
“Già. Ma invece di seguire la pallina in avanti, vediamo il suo percorso all’indietro”.
“In che senso?”.
“Nel senso che se la pallina ora si trova in A, può darsi che prima si trovasse in
B”.
“Come può darsi? Certamente viene da B, no?”.
“Non è detto. Chi l’avrebbe mandata da B verso A?”.
“La funzione g”.
“Vuoi dire che ogni elemento che si trova in A proviene da qualche elemento di
B tramite la funzione g?”.
“Eh, sì”.
“Quindi vuoi dire che la funzione g è suriettiva”.
“Sì. Ah, non l’abbiamo detto nelle ipotesi. Abbiamo detto solo che g è iniettiva”.
“Dunque tutti gli elementi di B sono mandati in A, ma non è detto che ogni
elemento di A provenga da qualche elemento di B”.
“Ho capito. Immagino che questo valga anche per la funzione f ?”.
“Certo. Tornando alla nostra pallina, e seguendo il suo percorso all’indietro,
potremmo dire che è partita dall’insieme A, oppure che è partita da B, oppure
che non ha avuto un punto di partenza”.
“Quest’ultimo caso non mi è chiaro”.
“Vuol dire che, andando all’indietro, potresti non trovare mai un’origine. La
pallina è sempre stata in gioco. Cioè puoi sempre andare indietro nella catena
di funzioni f e g”.
“Uhm, una partita eterna”.
“Non solo: una partita eterna senza inizio, mentre gli altri due tipi un inizio ce
l’avevano”.
“Va bene”.
“Allora abbiamo diviso l’insieme A in tre parti: A0 è l’insieme degli elementi che
fanno parte di una partita senza inizio, AA è l’insieme degli elementi che fanno
parte di una partita che ha avuto inizio in A, e analogamente AB è l’insieme
degli elementi che fanno parte di una partita che ha avuto inizio in B”.
“Mamma mia. Credo di esserci: tre tipi di partite, tre parti di un insieme”.
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“Sì. E osserva che sono tre parti che non hanno nulla in comune: un elemento
può appartenere solo a una delle tre”.
“Ok, se fai parte di una partita che è iniziata in A non puoi far parte anche di
una partita senza inizio o con inizio in B”.
“Bene. Ora suddividiamo allo stesso modo anche B, ottenendo i tre insiemi B 0 ,
BA e BB ”.
“Perfetto. Mi pare infatti che non ci sia un ruolo privilegiato tra A e B,
dovrebbero essere interscambiabili”.
“Giusto. Infatti la proprietà che stiamo dimostrando, pur chiamandosi antisimmetrica, è simmetrica”.
“E non potevamo chiamarla simmetrica?”.
“No, la proprietà simmetrica è un’altra, ricordi le relazioni di equivalenza”.
“Va bene. Ora cosa facciamo con questi insiemi divisi in tre?”.
“Ora definiamo la corrispondenza biunivoca tra i due. E lo facciamo in tre passi,
uno per ogni parte in cui abbiamo diviso i due insiemi”.
“Va bene. Cominciamo da A0 ?”.
“Sì. Diamo anche un nome alla corrispondenza biunivoca che stiamo definendo:
la chiamiamo φ. Allora, se a è un elemento di A, definiamo φ(a) = f (a)”.
“Cioè la nuova funzione biunivoca è uguale alla vecchia f , che era iniettiva?”.
“Sull’insieme A0 , è così. L’elemento a appartiene a una partita senza inizio, e
viene mandato in B 0 , che contiene elementi che fanno anch’essi parte di una
partita senza inizio. Siccome non c’è inizio, si può sempre tornare indietro
partendo da B 0 , e quindi in questo insieme la funzione f è biunivoca”.
“Va bene, quindi un pezzo è fatto, hai definito una funzione biunivoca tra A0 e
B 0 ”.
“Ora prendiamo un elemento a appartenente a AA ”.
“Quindi un elemento che fa parte di una partita che ha avuto inizio in A”.
“Sì. Anche in questo caso φ(a) = f (a)”.
“Come prima?”.
“Già. Mediante f (a) lo mandiamo in B, anzi, in BA , dato che la sua partita è
iniziata in A, e invertendo f possiamo riportarlo indietro. Non c’è il pericolo
che da B non si possa tornare indietro, dato che le partite di tutti gli elementi
che fanno parte di BA sono iniziate in A”.
“Ho capito, se da BA possiamo sempre tornare indietro, allora f è biunivoca
anche qui”.
“Sì, quindi la funzione φ che stiamo definendo è biunivoca anche tra AA e BA ”.
“Immagino che il problema salti fuori con AB e BB ”.
“Sì, perché in questo caso da BB non è detto che si possa tornare indietro:
qualche suo elemento potrebbe costituire l’inizio di una nuova partita”.
“E allora come facciamo?”.
“In questo caso ribaltiamo il problema: se prima abbiamo usato f per andare
da A verso B, ora usiamo g”.
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CAPITOLO 21. FACCIAMO ORDINE
“Uhm, in che modo?”.
“Per quanto riguarda l’insieme AB , definiamo φ(a) = g −1 (a)”.
“Cosa intendi con quell’esponente −1?”.
“Intendo la funzione inversa di g: se g va da B verso A, g −1 va da A verso B”.
“Ehi, però non sappiamo se g è biunivoca. Anzi, se lo fosse il teorema sarebbe
già dimostrato”.
“Giustissimo, infatti non è detto che sia biunivoca. Ma tieni presente che ora
stiamo ragionando solo sugli insiemi AB e BB . In questo caso calcolare g −1 (a)
significa prendere un elemento a di AB e tornare indietro verso BB , e questo si
può sempre fare perché la partita di cui fa parte a ha avuto origine in B”.
“Ah! E quindi non c’è pericolo che a si blocchi in AB ”.
“Esattamente. Se noti, c’è una simmetria in questa dimostrazione: uso f per
AA e BA , uso g per AB e BB . Per A0 e B 0 ho usato ancora f , ma avrei potuto
usare indifferentemente anche g, dato che in questo caso non c’è mai pericolo di
non tornare indietro”.
“Ah, bello. Comincio a capire il concetto di eleganza in matematica”.
“E alla fine abbiamo dimostrato anche la proprietà antisimmetrica”.
“Era questo il teorema dal nome altisonante di cui mi avevi parlato?”.
“Sì, si chiama teorema di Cantor-Bernstein-Schröder. Inizialmente Cantor ne
aveva data una dimostrazione che faceva uso dell’assioma della scelta, e che
aveva anche una tesi più forte”.
“In che senso?”.
“Nel senso che dimostrava anche qualcosa di più, e cioè che l’ordinamento tra i
cardinali è totale. Significa che due cardinali sono sempre confrontabili, cosa che
ora non abbiamo invece dimostrato. Sarebbe la famosa proprietà di tricotomia”.
“Che a me sembrava tanto ovvia”.
“E che invece è equivalente all’assioma della scelta. Se è ovvia quella, allora è
ovvio anche il paradosso di Banach-Tarski”.
“Povero me. Penso che farò come fanno i Veri Matematici”.
“Già. A volte far finta di niente è comodo”.
Capitolo 22
rette e segmenti
“Cos’è ’sta roba?”.
“Una costruzione geometrica”.
“E cosa costruisce?”.
“Una corrispondenza biunivoca”.
“Cominciamo da capo?”.
“Ok. In rosso c’è il segmento AB, sul quale è stato scelto un punto a caso, P ”.
“Bene, fin qua ci sono”.
“Poi ho costruito la perpendicolare al segmento AB passante per P ”.
“Bene. Vedo che passa per un punto che hai chiamato E, che sta su una
semicirconferenza”.
“Esatto. La semicirconferenza è costruita in modo tale da essere tangente al
segmento AB nel punto medio”.
“Ok. Immagino che C sia il centro, giusto?”.
“Giusto. Dal centro parte una semiretta che passa per E e continua fino ad
incontrare la retta che contiene AB”.
“E questa semiretta incontra la retta che contiene AB in D”.
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CAPITOLO 22. RETTE E SEGMENTI
“Perfetto, questa è la costruzione”.
“E la corrispondenza biunivoca qual è?”.
“Il procedimento che abbiamo appena enunciato è la corrispondenza biunivoca.
Mette in corrispondenza i punti del segmento AB ai punti della retta”.
“Ah. Immagino che sia uno dei soliti paradossi dell’infinito?”.
“Già. Ogni punto del segmento può essere portato sulla semicirconferenza, e
da lì sulla retta. Viceversa, ogni punto della retta può essere portato sulla
semicirconferenza e, da lì, sul segmento”.
“Uhm, e per quanto riguarda i punti A e B?”.
“Niente, quelli li lasciamo da parte. La corrispondenza biunivoca è tra i punti
interni a AB e la retta”.
“Ok”.
“Quindi il segmento AB e la retta, visti ora come insiemi di numeri, hanno la
stessa cardinalità”.
“Ah, ok. Ho capito dove vuoi arrivare: avevi analizzato la cardinalità di [0, 1),
e ora vuoi dire che ha la stessa cardinalità della retta”.
“Esatto”.
“Ma [0, 1) contiene lo zero, mentre nel tuo esempio gli estremi non sono contenuti”.
“Sì, è vero. Per questo dobbiamo fare qualche passaggio in più. Abbiamo
appena detto che (0, 1) è in corrispondenza biunivoca con i numeri reali, quindi
(0, 1) e R hanno la stessa cardinalità”.
“E fin qua siamo d’accordo”.
“Ora, puoi immergere facilmente (0, 1) in [0, 1)”.
“Sì, è ovvio, a ogni elemento di (0, 1) associo sé stesso, e sono a posto. Ho
costruito una funzione iniettiva, ma non suriettiva, perché nel secondo insieme
lo 0 rimane fuori”.
“E altrettanto facilmente puoi immergere [0, 1) nella retta”.
“Certo. Ah, ho capito. La cardinalità di (0, 1) è minore o uguale di quella di
[0, 1), che è minore o uguale di quella della retta, che è uguale a quella di (0, 1)”.
“E mettendo insieme queste disuguaglianze col teorema di Cantor-BernsteinSchröder cosa puoi concludere?”.
“Che le cardinalità sono tutte uguali! E sono uguali al tuo famoso c gotico”.
“Esatto. Quindi, ricapitolando tutto, 2ℵ0 = c”.
“Fiuu. Finalmente ci siamo arrivati. Immagino che poi prenderai il piano, e
dirai che ha cardinalità maggiore di c, poi lo spazio che avrà cardinalità ancora più grande, poi ti divertirai ad aumentare le dimensioni come fanno i Veri
Matematici”.
“No”.
“No? Perché”.
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“Ti mostrerò che il piano ha la stessa cardinalità della retta. E dalla dimostrazione capirai che anche lo spazio ha la stessa cardinalità, così come tutti quegli
spazi a n dimensioni che non ti piacciono tanto”.
“Oh, no, ancora paradossi”.
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CAPITOLO 22. RETTE E SEGMENTI
Capitolo 23
le dimensioni non contano
Abbiamo chiamato con c (c gotico) la cardinalità dell’insieme dei numeri reali, e
abbiamo visto che è maggiore di quella dei numeri naturali. Dato che i numeri
reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta, che ha dimensione uguale a 1, si potrebbe pensare che la cardinalità del piano sia maggiore
di c, visto che il piano ha dimensione 2. E invece no.
“Puoi naturalmente dimostrare questa affermazione, vero?”.
“Certo”.
“E sarà una cosa complicatissima”.
“No, questa è facile. Per prima cosa, invece di confrontare la retta con il piano,
confrontiamo il segmento [0, 1) con il quadrato [0, 1) × [0, 1)”.
“Quello sarebbe un quadrato?”.
“I Veri Matematici lo chiamano prodotto cartesiano, ma è semplice: è l’insieme
delle coppie i cui elementi appartengono a [0, 1). In pratica è un quadrato, i cui
punti hanno coordinate comprese tra 0 e 1, 0 incluso e 1 no”.
“Va bene. Ora costruirai una corrispondenza biunivoca tra il segmento e il
quadrato?”.
“No, prima costruisco una funzione iniettiva che immerge il segmento nel quadrato, poi un’altra funzione iniettiva che immerge il quadrato nel segmento”.
“Ok. Il primo caso è semplice, non è difficile immergere un segmento in un
quadrato”.
“Bene, come faresti?”.
“Ad ogni punto del segmento associo un punto sulla base del quadrato, per
esempio”.
“Bravo. A x associ (x, 0), ed è fatta. La funzione è iniettiva, a due x diversi
corrispondono due coppie diverse”.
“Sì. Non riesco invece a immaginare come fare per l’operazione contraria”.
“Si fa così: prendi un punto del quadrato, e indicalo con (x, y)”.
“Bene, sia x che y sono compresi tra 0 e 1, 0 incluso e 1 no”.
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CAPITOLO 23. LE DIMENSIONI NON CONTANO
“Ora scrivili sotto forma di numeri decimali, così:”.
x = 0.x1 x2 x3 . . .
y = 0.y1 y2 y3 . . .
“Uhm, e se i numeri sono decimali finiti?”.
“Vorrà dire che da un certo punto in poi la successione delle cifre decimali sarà
sempre uguale a 0”.
“Va bene. Accettiamo il periodo 9?”.
“No, quello no”.
“Ci sono. Ora che facciamo?”.
“Ora costruiamo questo numero: 0.x1 y1 x2 y2 x3 y3 . . . ”.
“Alterni le cifre decimali?”.
“Già. Hai visto che abbiamo ottenuto un punto del segmento [0, 1)?”.
“Vedo. Mi pare di aver capito, però, che la funzione debba essere iniettiva,
altrimenti non funziona”.
“Giusto. Hai capito perché non funziona?”.
“Perché se non uso una funzione iniettiva, potrei far corrispondere a tutti i punti
del quadrato anche un solo punto, chessò, 42”.
“Bravo. La funzione f (x, y) = 42 comprime il quadrato in un punto, ma non è
iniettiva e non può essere usata per i calcoli di cardinalità, naturalmente”.
“Ho capito. E questa funzione che alterna le cifre decimali è iniettiva?”.
“Sì, perché se prendi due punti diversi nel piano questi differiranno in almeno
una coordinata, e quindi almeno una delle due espansioni decimali cambierà”.
“Ah, giusto, e allora cambierà anche il numero che otterrai alternando le cifre
decimali. Quindi la tua funzione è iniettiva dal quadrato al segmento”.
“Sì, addirittura qualche punto del segmento viene lasciato fuori”.
“Uh? Quali punti?”.
“Per esempio, il punto che corrisponde a 0.190919091909 . . . ”.
“Fammi capire, questo punto sarebbe generato da 0.101010 . . . e da 0.999999 . . . .
Ah, ho capito, avevamo detto di non considerare il periodo 9. Bè, ancora meglio,
siamo riusciti a immergere il quadrato in un sottoinsieme del segmento”.
“Proprio così. Allora, applicando il teorema di Cantor-Bernstein-Schröder, possiamo dire che quadrato e segmento hanno la stessa cardinalità. E quindi anche
retta e piano, naturalmente”.
“Bello. E quindi esistono solo due cardinalità, ℵ0 e c?”.
“Oh, no. Ricordati che abbiamo dimostrato che 2α è sempre maggiore di α, e
dunque puoi costruire una sequenza di cardinali sempre più grandi così come
abbiamo fatto quando siamo passati da ℵ0 a 2ℵ0 ”.
“Facendo l’insieme delle parti, quindi?”.
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“Certo. Se consideri l’insieme delle parti dei numeri reali, questo avrà cardinalità
ℵ0
2c , cioè 22 ”.
“Ah, quindi possiamo salire sempre di più, quanto vogliamo”.
“Già”.
“Un po’ come contare gli infiniti con i numeri naturali”.
“Ecco. . . ”.
“Un momento!”.
“Ahia”.
“E se non fosse come con i numeri naturali?”.
“Ahi ahi”.
“Magari c’è qualcosa in mezzo tra ℵ0 e 2ℵ0 ”.
“Ohi ohi”.
“Ti sei fatto male?”.
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CAPITOLO 23. LE DIMENSIONI NON CONTANO
Capitolo 24
l’ipotesi del continuo
Esistono insiemi più infiniti dei numeri naturali e meno infiniti dei numeri reali?
Usando termini un po’ più rigorosi, esistono cardinali maggiori di ℵ0 e minori
di 2ℵ0 ? Cantor era convinto che la risposta fosse no, ma non riuscì a dimostrare
questa sua affermazione, che diventò nota con il nome di ipotesi del continuo.
Il giorno 8 agosto 1900 il matematico David Hilbert tenne una conferenza al
congresso internazionale dei matematici, svoltasi quell’anno a Parigi. In quel
suo discorso di inizio secolo, Hilbert propose alla comunità matematica una lista
di problemi che riteneva fondamentali.
Il primo della lista era l’ipotesi del continuo.
“E dopo tutto questo tempo è stato risolto?”.
“Ecco, non esattamente”.
“Quindi non si sa ancora se l’ipotesi del continuo è vera oppure no?”.
“No, no, si sa tutto, ma la risposta non risolve il problema”.
“Come è possibile?”.
“Il primo ad occuparsi della dimostrazione fu Kurt Gödel, che nel 1940 riuscì a
dimostrare che non si può dimostrare che l’ipotesi del continuo sia falsa”.
“Oh povero me. Ha dimostrato che non si può fare una dimostrazione?”.
“Sì, Gödel era un maestro della metamatematica”.
“Mamma mia. Quindi se non si può dimostrare che è falsa, sarà vera?”.
“Eh, no. Il fatto che non si possa dimostrare che l’ipotesi del continuo sia
falsa significa che gli assiomi della teoria degli insiemi sono compatibili con essa.
Immaginare che sia vera non produce contraddizioni, ma ancora non abbiamo
dimostrato che lo è davvero”.
“Va bene. Ma visto che una affermazione può essere vera o falsa, se non è falsa
allora è vera”.
“Ecco, il fatto è che nel 1963 Paul Cohen dimostrò che non si può dimostrare
nemmeno che l’ipotesi del continuo sia vera”.
“Eh?”.
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CAPITOLO 24. L’IPOTESI DEL CONTINUO
“Sì, hai capito bene. Se immagini che sia vera, non hai contraddizioni. Se
immagini che sia falsa, non hai contraddizioni”.
“Quindi può essere sia vera che falsa? Non ha senso!”.
“Invece un senso c’è. Queste due dimostrazioni fanno vedere che l’ipotesi del
continuo è indecidibile, cioè gli assiomi non sono sufficienti per dimostrarla o
per negarla”.
“E quindi gli assiomi sono incompleti?”.
“Esattamente. Puoi farti una teoria degli insiemi in cui l’ipotesi del continuo è
vera, e un’altra teoria in cui è falsa. Tutte e due stanno in piedi”.
“Ma ce ne sarà una più giusta dell’altra”.
“Questa volta sono io che mi avvalgo della facoltà di non rispondere”.
“Perché?”.
“Cantor pensava che fosse vera, provò a dimostrarla ma non ci riuscì. Gödel era
convinto che fosse falsa, invece”.
“E però avevano ragione tutti e due”.
“Sì, ma Gödel era una testa dura, e pensava che l’impossibilità di dimostrare la
sua tesi fosse colpa soltanto del sistema di assiomi, che non era stato scelto in
modo corretto”.
“Bella forza! Modifichi le regole e poi dimostri quello che vuoi”.
“Bè, non puoi proprio dimostrare quello che vuoi, perché le regole devono essere comunque consistenti. Comunque Gödel credeva nell’esistenza degli oggetti
matematici in modo indipendente dalla loro dimostrazione. Insomma, l’ipotesi
del continuo per lui era falsa perché secondo lui la matematica è fatta così. Se
non è riuscito a dimostrarlo vuol dire che non ha usato gli strumenti giusti per
osservare una realtà che comunque è lì ed esiste, prima ancora che tu la scopra”.
“Wow, ma questa è matematica o teologia?”.
“C’è chi dice che, a questi livelli, non ci sia molta differenza”.
“Comincio a rendermene conto. . . ”.
“C’è una frase emblematica a riguardo, pronunciata da Hilbert. Dice: Nessuno
potrà cacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato”.
“Bella”.
“Nello stesso periodo Leopold Kronecker, un matematico al quale non piacevano
le idee di Cantor, pronunciò questa: Dio fece i numeri naturali; tutto il resto è
opera dell’uomo”.
“Ah, ma litigavano pure?”.
“Eh sì. E, per concludere, ti ricordi dell’insieme di tutti gli insiemi?”.
“Quello innominabile?”.
“Quello. Cantor lo chiamava Infinito Assoluto”.
“E allora?”.
“Bé, per lui l’Infinito Assoluto era Dio”.
Capitolo 25
numeri ordinali
Avevamo accennato a due modi di contare: i numeri cardinali tengono conto
della grandezza di un insieme, mentre i numeri ordinali tengono conto dell’ordine
con cui compaiono gli elementi che voglio contare.
La cardinalità, abbiamo visto, è una proprietà degli insiemi. Con i numeri
ordinali, invece, vogliamo tenere conto anche delle relazioni d’ordine che sono
definite sugli insiemi che stiamo considerando.
È necessaria, ed importante, una prima definizione: un insieme si dice bene
ordinato se ogni suo sottoinsieme ammette un primo elemento.
“Cominciamo con gli esempi?”.
“Ok. Prendi l’insieme dei numeri naturali, con l’ordinamento usuale”.
“Bene. Poi?”.
“Poi prendi un qualunque suo sottoinsieme, finito o infinito, non importa”.
“Ok. Prendiamo {42, 272, 314}”.
“Domanda: è vero che ammette un primo elemento? Cioè, è vero che ha
minimo?”.
“Certo: 42”.
“Ed è vero che questa proprietà è valida per ogni sottoinsieme, anche se infinito?”.
“Direi di sì, se è infinito contiene elementi sempre più grandi, ma un minimo
c’è”.
“Perfetto. Quindi diciamo che l’insieme dei numeri naturali, dotato dell’ordinamento usuale, è bene ordinato”.
“Ok. E se cambio insieme?”.
“Se ricordi, ne avevamo già parlato. Se ammettiamo come vero l’assioma della
scelta, ogni insieme è bene ordinabile”.
“Mh, è vero. Avevi anche detto che nessuno è riuscito a trovare un buon
ordinamento per i numeri reali”.
“Esatto”.
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CAPITOLO 25. NUMERI ORDINALI
“Però nemmeno i numeri interi sono bene ordinabili. Se prendo un insieme che
contiene infiniti numeri negativi, questo non ha minimo”.
“Vero, ma questo non significa che gli interi non sono bene ordinabili, ma solo
che l’ordinamento che stai considerando non è un buon ordinamento”.
“In che senso? Potrei cambiarlo?”.
“Certo. Prova a considerare questo nuovo ordinamento degli interi:”
{0, 1, −1, 2, −2, 3, −3, . . . }
.
“Ah! Vedo, questo è un buon ordinamento, a sinistra mi fermo”.
“Perfetto. Ora facciamo un passo avanti. Ricordi le funzioni biunivoche?”.
“Certo, allora la matematica mi sembrava più semplice”.
“Bene, quando parliamo di insiemi ordinati, potremmo desiderare che una funzione biunivoca tra due insiemi preservi l’ordine”.
“Uhm, servirebbe un altro esempio”.
“Prendiamo due insiemi ordinati, per esempio 1, 2, 3 e {Qua, Paperino, Paperone}”.
“Ehm, capisco l’ordinamento del primo insieme, ma non capisco bene quello del
secondo. . . ”.
“Diciamo che è quello dell’età. I tre personaggi sono ordinati in base alla loro
età”.
“Va bene. Secondo quanto ho imparato, sono due insiemi di cardinalità 3, ed
esiste una corrispondenza biunivoca tra uno e l’altro”.
“Ottimo. Ora ti propongo questa corrispondenza:”.
1 7→ Qua
2 7→ Paperone
3 7→ Paperino
“Certamente è biunivoca”.
“Infatti. Però non preserva l’ordine. Puoi vedere che 2 è minore di 3, ma f (2),
cioè Paperone, non è minore di f (3), cioè Paperino”.
“Ho capito, ora è chiaro. Se vuoi fare una corrispondenza biunivoca che conserva
l’ordine devi scrivere questo:”.
1 7→ Qua
2 7→ Paperino
3 7→ Paperone
“Bene. Ora, se ricordi, avevamo definito i numeri cardinali con le relazioni di
equivalenza”.
79
“È vero. In un delirio di onnipotenza avevi anche raccontato la parabola dei
Lego, per spiegare il concetto di classe di equivalenza”.
“Perfetto. Ora facciamo la stessa cosa: definiamo numero ordinale una classe di
equivalenza di una relazione molto simile a quella usata per i numeri cardinali”.
“Allora avevamo detto che due insiemi erano in relazione se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro”.
“Giusto. Ora modifichiamo la relazione leggermente: due insiemi bene ordinati
sono in relazione se esiste una corrispondenza biunivoca che conserva l’ordine
tra loro”.
“Ah. Quindi abbiamo una informazione in più, l’ordinamento tra gli elementi
di un insieme. Anzi, ne avremmo due in più: gli insiemi devono essere anche
bene ordinati”.
“Sì, ma ammettendo l’assioma della scelta, tutti lo sono”.
“E quindi, ora abbiamo preso gli insiemi bene ordinati e li abbiamo raggruppati
secondo il loro ordinamento?”.
“No, li abbiamo raggruppati secondo la loro cardinalità e il loro ordinamento”.
“Ah, già, devono avere la stessa cardinalità, perché comunque abbiamo una
funzione biunivoca tra uno e l’altro”.
“Esattamente. Ora, ogni classe di equivalenza contiene infiniti insiemi: sarebbe
bene trovare un modo per scegliere, in maniera standard, un rappresentante”.
“E questo modo esiste?”.
“Certo, e l’abbiamo anche già visto, quando abbiamo definito i numeri naturali
a partire dall’insieme vuoto”.
“Uhm, come funzionerebbe?”.
“L’insieme vuoto è il rappresentante della classe degli insiemi con zero elementi (l’unica classe che contiene solo un elemento, cioè l’insieme vuoto stesso).
Insomma, di insiemi vuoti ce n’è uno solo”.
“D’accordo”.
“Diciamo allora che l’insieme vuoto è l’ordinale che chiamiamo zero: {} = 0”.
“Ah, ora ricordo qualcosa”.
“Il secondo ordinale, quello che corrisponde agli insiemi con un elemento, è
l’insieme che contiene l’insieme vuoto, cioè l’insieme che contiene lo zero. Lo
chiamiamo 1: {{}} = {0} = 1”.
“Ho capito. Poi indichiamo con 2 l’insieme che contiene 0 e 1: {0, 1} = 2”.
“Sì, volendo espandere tutti i simboli dovremmo scrivere così:”.
{{}, {{}}} = {0, {0}} = {0, 1} = 2.
“Va bene, ho capito. In pratica ogni nuovo numero è l’insieme di tutti i vecchi
numeri”.
“Giustissimo, è proprio così”.
“Ma quindi tutti i numeri naturali sono ordinali?”.
80
CAPITOLO 25. NUMERI ORDINALI
“Già”.
“E sono anche cardinali, però”.
“Vero”.
“Quindi, se non c’è differenza tra ordinali e cardinali, perché li abbiamo definiti?”.
“Perché la differenza ci sarà, ma più avanti”.
“Quanto più avanti?”.
“Tanto”.
Capitolo 26
omega
Ogni ordinale è dunque l’insieme che contiene tutti gli ordinali minori di esso,
e questo insieme è bene ordinato. Inoltre gli ordinali finiti corrispondono ai
numeri naturali. Poi ci sono gli ordinali transfiniti.
“Esistono anche quelli?”.
“Certo. Dato che esistono insiemi infiniti e dato che ogni insieme è bene ordinabile, a ogni insieme dotato di ordinamento puoi associare un ordinale, così come
abbiamo fatto con i cardinali”.
“Ah. E quindi anche in questo caso dovremo usare simboli che non sono
numeri?”.
“Eh sì. Ora definiamo un ordinale transfinito, il più semplice.
all’insieme infinito più semplice, quello dei numeri naturali”.
Associato
“Sono pronto”.
“Ricorderai questa serie di definizioni:”.
0 = {}
1 = {0}
2 = {0, 1}
3 = {0, 1, 2}
..
.
“Sì, certo. Ogni ordinale è l’insieme di tutti gli ordinali che lo precedono”.
“Bene. Ora, l’insieme dei numeri naturali può essere visto come un insieme di
ordinali”.
“Sì, direi l’insieme di tutti gli ordinali finiti”.
“Ok. Allora definiamo l’ordinale ω in questo modo: ω = {0, 1, 2, 3, . . . }”.
“Bé, mi pare di capire che questo ordinale sia l’insieme dei numeri naturali”.
“È così, come l’ordinale 4 è l’insieme {0, 1, 2, 3}”.
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82
CAPITOLO 26. OMEGA
“Va bene, ma non lo avevamo chiamato ℵ0 ?”.
“Oh, no. Con ℵ0 avevamo indicato solo la cardinalità dell’insieme dei naturali,
non abbiamo mai parlato dell’ordinamento. Esistono insiemi di cardinalità ℵ0
che però corrispondono a un ordinale diverso da ω”.
“Uh? Vorrei un esempio”.
“Va bene, ma prima ti farò un esempio di un insieme diverso da quello dei
naturali che corrisponde sempre allo stesso numero ordinale”.
“Va bene, vai”.
“Considera questo insieme: {Piccolino, 0, 1, 2, . . . }”.
“Carino, è l’insieme dei numeri naturali ai quali hai aggiunto Piccolino. Ma ha
sempre cardinalità ℵ0 , come insegna il paradosso dell’albergo di Hilbert”.
“Giusto. Devi però osservare che ho aggiunto un elemento all’interno di un
insieme ordinato, e quindi ho specificato anche come funziona l’ordinamento per
questo nuovo elemento: in pratica, Piccolino è minore di tutti gli altri numeri”.
“Va bene, avresti potuto chiamarlo −1, però”.
“Certo, ma preferisco così per analogia con l’esempio che ti farò dopo”.
“Allora ok, chiamiamolo Piccolino”.
“Questo insieme, allora, è in corrispondenza biunivoca con quello dei naturali?”.
“Sì, certo, come con l’albergo di Hilbert. Basta spostare tutti i numeri di
una posizione per fare posto a Piccolino. In questo modo mantengo anche
l’ordinamento”.
“E quindi, anche questo insieme corrisponde al numero ordinale ω”
“Sì, giusto”.
“Ora considera quest’altro insieme: {0, 1, 2, . . . , Gigante}”.
“Uhm, cosa c’è al posto di quei puntini?”.
“L’elenco di tutti i numeri naturali. Prevengo la tua obiezione: avere scritto
Gigante dopo infiniti numeri significa che Gigante, nell’ordinamento dei naturali,
è maggiore di qualunque altro numero”.
“Uhm, mi pare di capire. Anche questo insieme ha cardinalità ℵ0 , però. . . ”.
“Però?”.
“Però non riesco più a fare una corrispondenza biunivoca che mantiene l’ordine”.
“Perché no?”.
“Perché non so dove sistemare quel Gigante. Se devo mantenere l’ordine, dovrei
farlo corrispondere con un numero naturale maggiore di tutti gli altri. Solo che
questo numero non esiste”.
“Bravo. Hai capito che questo insieme non corrisponde all’ordinale ω”.
“E a quale ordinale corrisponde?”.
“Te lo dico dopo che avremo imparato a fare le operazioni”.
Capitolo 27
ordinali in ordine
Sembra un gioco di parole, ma è possibile stabilire un ordinamento tra gli ordinali. Per farlo, occorre una definizione preliminare: dato un insieme bene
ordinato A, si chiama segmento iniziale di un elemento x appartenente ad A
l’insieme di tutti gli elementi che precedono x nell’ordinamento stabilito su A,
e lo si indica con s(x).
Per esempio, se A è l’insieme dei numeri naturali, s(3) = {0, 1, 2}.
A questo punto possiamo definire l’ordinamento tra gli ordinali. Dati i due
ordinali α e β, se esiste una corrispondenza biunivoca che conserva l’ordine tra
α e un segmento iniziale di β, diciamo che α è minore di β. Viceversa, se esiste
una corrispondenza biunivoca che conserva l’ordine tra un segmento iniziale di
α e β, allora diciamo che β è minore di α. Se poi esiste una corrispondenza
biunivoca che conserva l’ordine tra α e β, allora α è uguale a β.
“Non ci ho mica capito molto, sai?”.
“Esempio facile: sono dati i due ordinali 3 e 5. Ricordi che sono insiemi, vero?”.
“Sì, 3 è uguale a {0, 1, 2} mentre 5 è uguale a {0, 1, 2, 3, 4}”.
“Ottimo. È vero che esiste una corrispondenza biunivoca tra i due?”.
“No”.
“Ed è vero che puoi mettere in corrispondenza biunivoca uno dei due con un
segmento dell’altro?”.
“Sì: in pratica il primo insieme è un segmento del secondo. Metto in corrispondenza lo 0 del primo insieme con lo 0 del secondo, poi 1 del primo insieme con
1 del secondo, poi 2 del primo col 2 del secondo. Rimangono fuori, dal secondo,
3 e 4”.
“Bene, secondo la definizione allora 3 è minore di 5”.
“Ah, certo. Non è che prima non lo sapessi, eh”.
“Lo so, ma questo era un esempio semplice, per capire. Ora prendi questi due
insiemi:”.
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CAPITOLO 27. ORDINALI IN ORDINE
{0, 1, 2, . . . }
{0, 1, 2, . . . , Gigante}
“Ah, me li ricordo. Avevamo detto che non si riesce a metterli in corrispondenza
biunivoca se si vuole mantenere l’ordine”.
“Esatto. Ma prova a considerare questo segmento iniziale del secondo insieme:
s(Gigante)”.
“Uhm, è formato da tutti gli elementi minori di Gigante”.
“Giusto, quindi?”.
“Quindi è l’insieme dei naturali. Ah! Ci sono: esiste una corrispondenza
biunivoca che mantiene l’ordine tra il primo insieme e un segmento del secondo”.
“Allora, se li vediamo come ordinali, il primo è minore del secondo”.
“Il primo l’abbiamo chiamato ω, ma il secondo?”.
“Daremo un nome al secondo quando impareremo a fare le operazioni”.
“Uffa”.
“Per adesso, ragiona su questo tipo di ordinamento”.
“Che ragionamenti devo fare?”.
“Per prima cosa, dato un ordinale, possiamo dire che esiste sempre il successivo”.
“Uhm, con i numeri naturali è ovvio, ma con gli ordinali transfiniti come si fa?”.
“Devi tener presente che ogni ordinale è l’insieme di tutti gli ordinali che lo
precedono. Ad esempio, 4 = {0, 1, 2, 3}. Ma il successivo di 4 è 5, e 5 è uguale
a {0, 1, 2, 3, 4}. Dunque potresti scrivere che 5 = 4 ∪ {4}”.
“Aspetta, aspetta: qui stai facendo operazioni tra insiemi?”.
“Esatto, non pensare a 4 come a un numero, ma come all’insieme {0, 1, 2, 3}”.
“Ah, allora vuoi dire che 5 è uguale all’unione di {0, 1, 2, 3} con {4}. Ok, così
torna”.
“Bene, allora per ogni numero ordinale possiamo fare questo giochetto: il successivo di α è α ∪ {α}”.
“Mh, allora il successivo di ω cosa sarebbe? ω unito con {ω}?”.
“Esatto. Il successivo di ω è uguale a ω ∪ {ω}, cioè {0, 1, 2, . . . , ω}”.
“Questo mi ricorda l’insieme di prima, {0, 1, 2, . . . , Gigante}”.
“Effettivamente è lui. Ma prima che ti torni in mente di chiedermi come si
chiama, ti faccio notare che sebbene ogni ordinale ammetta un successore, non
è vero il contrario”.
“Cioè?”.
“Cioè non tutti gli ordinali sono successori di qualche altro ordinale”.
“Non è possibile! Se il successore di 4 è 5, allora 5 è successore di 4, no?”.
“Senza dubbio. Ma puoi dirmi di quale ordinale è successore ω?”.
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“. . . ”.
“Di nessuno, vero?”.
“Già”.
“E allora lo chiamiamo ordinale limite. Vedi, gli ordinali sono insiemi bene
ordinati, e quindi hanno sempre un minimo. Ma non è detto che abbiano un
massimo. Se ce l’hanno, allora sono successori di qualche ordinale. Per esempio,
4 = {0, 1, 2, 3}. Il massimo è 3, dunque 4 è successore di 3. Ma ω = {0, 1, 2, . . . }
non ha massimo, e quindi non è successore di nessun ordinale”.
“Ok, va bene. Mi è venuto in mente che anche 0 non è successore di nessun
ordinale”.
“Giusto, però lo escludiamo dalla definizione di ordinale limite. L’insieme vuoto
è sempre un po’ speciale”.
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CAPITOLO 27. ORDINALI IN ORDINE
Capitolo 28
somme di ordinali
Per poter parlare di somme di ordinali serve una semplice definizione: diciamo
che C è il concatenamento dei due insiemi bene ordinati A e B se C è ottenuto
unendo A e B in modo tale che all’interno di A e di B sia mantenuto l’ordinamento che già avevano prima, che tutti gli elementi di A siano minori di tutti
gli elementi di B, e che gli elementi di A e di B vengano considerati distinti.
“Mamma mia, questa è una definizione da Vero Matematico”.
“Ma no, è semplice, con un esempio si capisce subito”.
“Sarà. Vediamo l’esempio”.
“Cominciamo da due insiemi finiti: A = {1, 2, 3} e B = {a, b, c, d}. L’insieme C
è semplicemente {1, 2, 3, a, b, c, d}”.
“Tutto qua?”.
“Ti avevo pur detto che è semplice. Nota che tutti gli elementi di A e di B
hanno mantenuto il loro ordine iniziale, in più ogni elemento di A è minore di
ogni elemento di B”.
“Va bene, è facile. Noi però vogliamo parlare di somme di ordinali”.
“Vero. Prendiamo allora due ordinali finiti, per esempio 3 = {0, 1, 2} e 4 =
{0, 1, 2, 3}”.
“Mh, questa volta se facciamo l’unione otteniamo {0, 1, 2, 0, 1, 2, 3}, che però
sarebbe uguale a {0, 1, 2, 3}”.
“Infatti così non va bene. Devi ragionare immaginando un’operazione preliminare: bisogna cambiare nome agli elementi di B, anche solo mettendo un
segno ad ognuno. Per esempio, prova con questi due insiemi: 3 = {0, 1, 2} e
4 = {00 , 10 , 20 , 30 }”.
“Ah, ok, in questo modo ottengo {0, 1, 2, 00 , 10 , 20 , 30 }. Assomiglia all’esempio
che hai fatto prima con {1, 2, 3} e {a, b, c, d}”.
“Infatti è lo stesso esempio, in cui abbiamo cambiato nome agli elementi dell’insieme. Noterai anche che l’insieme che abbiamo ottenuto è bene ordinato, ed è
quindi in corrispondenza con un ordinale”.
“Ma i Veri Matematici fanno così? Perché non mi sembra una definizione da
Vero Matematico, questa”.
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CAPITOLO 28. SOMME DI ORDINALI
“Bé, non fanno proprio così. Volendo essere più rigorosi, invece di rinominare gli
elementi del secondo insieme quando sono uguali a quelli del primo, considerano
due nuovi insiemi: il primo formato da coppie del tipo (a, 0), dove a è un
elemento di A. Il secondo formato da coppie del tipo (b, 1), dove b è in B. In
questo modo tutti gli elementi del primo tipo sono certamente diversi da quelli
del secondo tipo”.
“Ho capito. In questo caso otterremmo un insieme fatto così:
{(0, 0), (1, 0), (2, 0), (0, 1), (1, 1), (2, 1), (3, 1)}.
È vero che è bene ordinato, come dicevi prima, ma non è un ordinale nella sua
forma standard”.
“Puoi convertirlo nella forma standard rinominando i suoi elementi ancora una
volta, partendo da 0 e andando avanti. In questo modo ottieni {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6}”.
“Che sarebbe l’ordinale 7”.
“Perfetto, questa è la somma: hai dimostrato che 3 + 4 = 7”.
“Va bene, ma questi giochini funzionano con gli ordinali finiti. Se invece li
prendiamo infiniti?”.
“Se invece li prendiamo infiniti le cose si complicano un po”’.
“Capirai”.
“Per esempio, proviamo a calcolare 1 + ω. Concordiamo di non rinominare gli
elementi, in questo modo la scrittura è più semplice, va bene?”.
“Ok, se vedo qualche numero che si ripete so che va considerato come un
elemento diverso dai precedenti”.
“Bene. Allora, 1 = {0}, mentre ω = {0, 1, 2, . . . }. Quindi come risulterebbe
l’insieme somma?”.
“Facile: {0, 0, 1, 2, . . . }”.
“Bene. Con quale insieme è in corrispondenza biunivoca? Attenzione che deve
essere una corrispondenza che conserva l’ordine”.
“Facile anche questo, perché è l’esempio dell’albergo di Hilbert. Se riconto tutto,
è in corrispondenza con {0, 1, 2, . . . }”.
“Perfetto. Dunque 1 + ω = ω”.
“Come con i cardinali?”.
“Esatto: 1 + ℵ0 = ℵ0 . Ma prova ora a calcolare ω + 1”.
“Non l’abbiamo appena fatto?”.
“No, abbiamo fatto 1 + ω, e sai che i Veri Matematici sono molto pignoli su
queste cose. Se c’è scritto ω + 1, calcola ω + 1 secondo la definizione”.
“Vabbé, anche se non capisco l’utilità. Mi risulta {0, 1, 2, . . . , 0}. Uhm. . . ”.
“Cominci a capire?”.
“Già. Mi ricorda l’esempio che avevi fatto con {0, 1, 2, . . . , Gigante}”.
“Esatto. Ricordi che non si riesce a fare una corrispondenza biunivoca tra
quell’insieme e {0, 1, 2, . . . }? O meglio, non si riesce a fare una corrispondenza
biunivoca che conserva l’ordine”.
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“È vero. Il secondo 0 dovrebbe essere un elemento maggiore di tutti gli altri,
ma non riesco a metterlo in corrispondenza biunivoca con nessun elemento di
{0, 1, 2, . . . }, perché quest’ultimo insieme non contiene un elemento con quella
caratteristica”.
“E dunque ω + 1 è diverso da ω”.
“Già”.
“Volendo essere più precisi, ω + 1 è maggiore di ω: lo avevamo notato quando
abbiamo parlato dell’ordinamento degli ordinali”.
“Giusto. E quindi. . . oh oh”.
“Che succede?”.
“Stavo pensando. . . ma allora possiamo fare anche ω + 2, ω + 3, e possiamo
andare avanti sempre. . . ”.
“Vedo che ti si è accesa una lampadina”.
“E allora potremmo anche scrivere ω + ω!”.
“Fattoriale?”.
“No, stupore!”.
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CAPITOLO 28. SOMME DI ORDINALI
Capitolo 29
somme non commutative
Con i numeri ordinali la proprietà commutativa non vale più. Abbiamo visto che
1 + ω è uguale ancora a ω, mentre ω + 1 è un numero diverso. Più precisamente,
ω + 1 è il successore di ω: avevamo infatti detto che ogni ordinale è l’insieme di
tutti gli ordinali che lo precedono, e che quindi il successore di ogni ordinale α
è α ∪ {α}. Come 3 è uguale a 2 ∪ {2}, cioè {0, 1} ∪ {2} = {0, 1, 2}, così ω + 1 è
uguale a ω ∪ {ω}, cioè {1, 2, . . . , ω}.
“Ma allora come dobbiamo fare se vogliamo calcolare una somma un po’ più
complicata di ω + 1?”.
“Ci aiutiamo con le parentesi, e stiamo attenti all’ordine. Per esempio, supponiamo di voler calcolare la somma tra ω + ω + 1 e ω + 4”.
“Ok. La facciamo nei due modi possibili?”.
“Sì. Cominciamo da (ω + ω + 1) + (ω + 4)”.
“Va bene. Allora, io scriverei una cosa del genere:”.
{0, 1, . . . , 0, 1, . . . , 0} + {0, 1, . . . , 0, 1, 2, 3}
“E quanto fa?”.
“Boh? Come faccio a saperlo?”.
“Devi ricontare tutto, per vedere se puoi semplificare qualcosa”.
“Allora forse è meglio se prima metto tutto in fila, togliendo le parentesi intermedie”.
{0, 1, . . . , 0, 1, . . . , 0, 0, 1, . . . , 0, 1, 2, 3}
“Perfetto. Ricordati che i simboli uguali devono essere sempre considerati
diversi, e che al posto dei puntini ci sono infiniti numeri. Ora prova a ricontare”.
“Dunque, vediamo: il primo pezzo 0, 1, . . . corrisponde a ω”.
“Giusto”.
“Anche il secondo pezzo 0, 1, . . . corrisponde a un altro ω”.
“Bene”.
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CAPITOLO 29. SOMME NON COMMUTATIVE
“Poi c’è 0, 0, 1, . . . . Però, se riconto, anche questo corrisponde a ω. È analogo
all’albergo di Hilbert: ho aggiunto un elemento all’inizio, spostando di un posto
tutti gli altri”.
“Perfetto”.
“Rimane 0, 1, 2, 3. Bé, questo è facile, è uguale a 4”.
“Giusto. Riassumendo?”.
“Riassumendo: (ω + ω + 1) + (ω + 4) = ω + ω + ω + 4”.
“Ottimo. Ora prova a calcolare (ω + 4) + (ω + ω + 1)”.
“Ok, vado. Il risultato si dovrebbe scrivere così”.
{1, 2, . . . , 0, 1, 2, 3, 0, 1, . . . , 0, 1, . . . , 0}
“Giusto. Ricontando come diventa?”.
“Allora, abbiamo un ω all’inizio, poi la sequenza 0, 1, 2, 3, 0, 1, . . . è un altro ω,
poi un terzo ω e infine un 1. Se ho fatto bene i conti, risulta ω + ω + ω + 1.
Diverso dal risultato precedente”.
“Proprio così. In generale, due numeri ordinali possono essere sommati in due
modi diversi”.
“Ho capito. Tre ordinali potranno essere sommati in sei modi diversi, quattro
in ventiquattro, eccetera”.
“Invece no”.
“Ho sbagliato i calcoli? Eppure, non mi sembra. . . ”.
“No, i calcoli in sé vanno bene. Il fatto è che con gli ordinali alcuni risultati
coincidono. Per esempio, quando sommi tre ordinali non hai sei possibilità, ma
solo cinque, perché due di queste possibilità coincideranno sempre”.
“Uhm”.
“La dimostrazione del caso generale è complicata, sta in un articolo di 13 pagine
pubblicato dalla rivista scientifica Fundamenta Mathematicæ”.
“Wow. Cosa dice il caso generale?”.
“Dice che il numero più grande possibile di somme distinte di n numeri ordinali,
per n che va da 1 in poi, segue questa successione:”.
1, 2,
81, 193,
2
81 , 81 × 193,
813 , 812 × 193,
5, 13,
33,
2
33 × 81,
2
33 × 812 ,
449, 33 ,
2
193 , 33 × 81,
81 × 1932 , 1933 ,
33 × 813 ,
e da qui in poi moltiplichi per 81 la riga precedente:
814 , 813 × 193,
812 × 1932 , 81 × 1933 ,
...
“Posso permettermi un commento?”.
“Lo so, è una schifezza”.
33 × 814 ,
Capitolo 30
Telegraph Road
Come moltiplicare i numeri ordinali? Partiamo da ordinali finiti: che significa
la scrittura 3 × 2? Dobbiamo leggerla in questo modo: tre per due volte. E cioè,
dobbiamo mettere due copie di 3 una di fianco all’altra:
{0, 1, 2} + {0, 1, 2} = {0, 1, 2, 0, 1, 2}.
Se ricontiamo, otteniamo {0, 1, 2, 3, 4, 5}, cioè 6.
Se invece calcoliamo 2×3, dobbiamo mettere tre copie di 2 una di fianco all’altra:
{0, 1} + {0, 1} + {0, 1} = {0, 1, 0, 1, 0, 1}.
Anche in questo caso, dopo aver ricontato, si ottiene 6.
“Sembra commutativa”.
“Certo, con gli ordinali finiti tutto è normale.”.
“Vuoi dire che con quelli infiniti le cose cambiano?”.
“Sì. Prova a calcolare 2 × ω”.
“Uhm, 2 per ω volte. Vediamo, dovrei scrivere una cosa del genere:”.
{0, 1, 0, 1, 0, 1, . . . }
“Giusto. Se riconti, ti accorgi subito che ottieni ω”.
“È vero. Dici che se provo a calcolare ω × 2 ottengo un risultato diverso?”.
“Prova”.
“Allora, in questo caso ho due copie di ω, quindi posso scrivere così:”.
{0, 1, 2, . . . , 0, 1, 2, . . . }
“Giusto. Ti sembra ancora uguale a ω?”.
“Eh, no, qui ci sono due numeri che non sono successori di nessun numero, cioè
i due zeri. Questo è ω + ω”.
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CAPITOLO 30. TELEGRAPH ROAD
“Ottimo. Quindi ω × 2 = ω + ω”.
“Ho capito. Allora potrei calcolare anche ω × 3, poi ω × 4, e così via. Posso
calcolare anche ω × ω?”.
“Sì. Prova a scriverlo”.
“Uh, qui servono tanti puntini. Vediamo, posso scrivere così:”.
{0, 1, 2, . . . , 0, 1, 2, . . . , 0, 1, 2, . . . , . . . }
“Non sono tanto belli quei puntini finali”.
“Lo so, ma se non li scrivo non si capisce che l’insieme è diverso da ω × 3”.
“Hai ragione. Ti mostro un sistema alternativo per rappresentare questo numero:”.
“Wow, ma che roba è?”.
“Immagina che il primo segmento verticale sia lo 0 iniziale”.
“Bene”.
“Il secondo è il primo 1”.
“Vedo che è un po’ più corto del primo”.
“Sì, è una specie di rappresentazione in prospettiva. Se noti, ogni segmento è
più corto del precedente. I vari segmenti si rimpiccioliscono e si infittiscono,
come se andassero verso l’infinito”.
“Ah, ora vedo! Come i pali del telegrafo che corrono a fianco di una strada”.
“Proprio così. E in questa figura sono rappresentate ω linee del telegrafo, sempre
più lontane. Questo è ω × ω, cioè ω 2 ”.
“E dopo avremo anche ω 3 , suppongo?”.
“Supponi bene. Poi ω 4 , ω 5 , e così via”.
“Fino a ω ω ?”.
“Fino a quello, e oltre”.
“Fermiamoci un attimo a quello, che mi sembra già abbastanza grande. Come
potremmo rappresentarlo?”.
“È ancora più difficile, perché comprende troppi livelli di infinito per poterlo
rappresentare ancora come un insieme di pali del telegrafo. Un modo è quello
95
di rappresentare una spirale. Ad ogni giro hai una potenza di ω, quindi ad ogni
giro i segmenti si avvicinano sempre più in fretta”.
“Mamma mia”.
“Sì, fa girare la testa. . . ω ω si ottiene affiancando tutti gli schemi per 1, ω, ω 2 ,
ω 3 , . . . ”.
“Basta, basta, fa girare la testa davvero. Mi piacerebbe vedere la figura”.
“Eccola”.
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CAPITOLO 30. TELEGRAPH ROAD
Capitolo 31
torri di potenze
Abbiamo visto un esempio di potenza tra numeri ordinali: ω ω . In generale
la potenza di numeri ordinali può essere definita per induzione, ma dobbiamo
ricordarci che si sta parlando di induzione transfinita, cioè di un procedimento
tra numeri ordinali, e non “semplici” naturali.
“Poveri naturali, ridotti al rango di numeri semplici. . . ”.
“Hai ragione, anche se la struttura degli ordinali è certamente più ricca e
complessa”.
“Anche questo è vero. Ma cosa sarebbe questa induzione transfinita?”.
“Ricordi che abbiamo già parlato dell’induzione?”.
“Sì. Dicevamo che se una proprietà è vera per 0, e che se l’essere vera per un
certo n implica che sia vera anche per n + 1, allora la proprietà è vera sempre.
Una specie di effetto domino”.
“Proprio così. Si basava sul concetto di successore di un numero: la proprietà
valida per n si trasferisce su n + 1, e così via. Possiamo formulare una proprietà
analoga per gli ordinali”.
“Sì, in effetti anche per gli ordinali abbiamo il concetto di successore”.
“Giusto, ma ricordati che non tutti gli ordinali sono successori di qualche ordinale”.
“Ah, è vero. Mi avevi già fatto l’esempio di ω: non è successore di nessun
numero”.
“Bravo. L’avevamo chiamato ordinale limite”.
“E come facciamo in questo caso?”.
“Dobbiamo formulare il principio di induzione in modo un po’ diverso: per ogni
ordinale b, se la proprietà P (a) vale per tutti gli ordinali a minori di b, allora
vale anche P (b)”.
“Uhm”.
“Pensa a ω. Ricordi che ω è uguale a {0, 1, 2, . . . }?”.
“Sì, è la definizione”.
97
98
CAPITOLO 31. TORRI DI POTENZE
“E quali sono tutti gli ordinali minori di ω?”.
“Sono tutti i numeri naturali”.
“Bene. Dunque, se dimostri che una certa proprietà è vera per tutti i naturali,
allora puoi dire che è vera anche per ω. Poi puoi continuare normalmente con
ω + 1, ω + 2, e così via. Ogni volta che vuoi passare a un ordinale limite, devi
considerare tutti gli ordinali minori”.
“Ok, ho capito”.
“Bene, ora possiamo parlare della definizione di potenza.
diciamo che α0 = 1”.
Prima di tutto,
“Ok, questo mi pare ragionevole”.
“Poi, sistemiamo tutti i successori: αβ+1 = αβ α”.
“Ok. Per quanto riguarda i numeri naturali, questa è la solita regola”.
“Giusto. Ora il passo riguardante gli ordinali limite: se δ è un ordinale limite,
allora αδ è l’ordinale limite che si ottiene prendendo tutti gli αβ per tutti i β
minori di δ”.
“Credo di aver capito. Come diventa, nel caso di ω ω ?”.
“Siccome ω è un ordinale limite, devi considerare tutti gli ω β per tutti i β minori
di ω, cioè per tutti i β naturali”.
“E quindi dovrei considerare l’ordinale limite che si ottiene prendendo tutte le
potenze di ω una dopo l’altra?”.
“Sì: ω ω = 1 + ω + ω 2 + ω 3 + . . . ”.
“Ah, ora capisco meglio quella figura a spirale che mi hai fatto vedere. E adesso
che abbiamo definito la potenza, possiamo naturalmente andare avanti quanto
vogliamo?”.
“Certo. Ormai dovresti aver capito che con gli ordinali si può sempre andare
avanti. Ecco una prima sequenza di ordinali:”.
ω ω + 1, ω ω + 2, ω ω + 3, . . . , ω ω + ω.
“Ah, l’ultimo è un nuovo ordinale limite”.
“Poi saliamo ancora:”.
ω ω + ω × 2, ω ω + ω × 3, . . . , ω ω + ω 2 .
“Hai passato un altro limite”.
“E poi ancora:”.
ω ω + ω 2 + 1, . . . , ω ω + ω 2 + ω.
“Sempre più grande”.
“Ora vado un po’ più in fretta:”.
99
ω ω + ω 3 , . . . , ω ω + ω ω = ω ω × 2,
ω ω × 2 + 1, . . . , ω ω × 3, . . . , ω ω × 4, . . . , ω ω × ω = ω ω+1 .
“Wow, sei andato decisamente in fretta”.
“E poi ancora:”.
ω ω+1 + 1, . . . , ω ω+1 + ω, . . . ω ω+1 + ω 2 , . . . , ω ω+1 + ω ω , . . . ,
2
ω ω+2 , . . . , ω ω+3 , . . . , ω ω×2 , . . . , ω ω×3 , . . . , ω ω .
“Anche le doppie potenze?”.
“Non solo doppie:”.
2
3
4
ω
ωω , . . . , ωω , . . . , ωω , . . . , ωω , . . . , ωω
ω+1
, . . . , ωω
ωω
, . . . , ωω
ωω
ω
“Mamma mia, e io che pensavo che ω fosse già abbastanza grande. . . ”.
.
100
CAPITOLO 31. TORRI DI POTENZE
Capitolo 32
forma normale di Cantor
Le operazioni di somma, prodotto e potenza di ordinali ci permettono di costruire numeri sempre più grandi. Esiste un modo standard per esprimerli, che
potremmo considerare come una specie di numerazione posizionale in base ω.
“Eh?”.
“Sai cos’è un sistema di numerazione posizionale?”.
“Ehm. . . ”.
“Allora prova a calcolare XXIII × XLII”.
“Roba da matti, adesso scrivi in numeri romani. Questi li conosco, sai? Devo
calcolare 23 × 42. Posso usare la calcolatrice?”.
“Non se ne parla neanche. Non puoi usare la calcolatrice, puoi usare carta e
penna, non puoi usare cifre arabe”.
“Come sarebbe? E allora come faccio?”.
“Preferiresti usare le cifre arabe?”.
“Certo”.
“Perché?”.
“Perché se non mi lasci usare la calcolatrice mi metto a fare i conti a mano. Le
moltiplicazioni in colonna dovrei ricordarmele ancora”.
“E non puoi usare i numeri romani?”.
“Eh, no. Non funziona, non si riesce a incolonnare, non si fanno i riporti”.
“Perfetto. Per incolonnare e fare i riporti serve un sistema di numerazione
posizionale”.
“Mmh. . . ”.
“Un sistema che ti permetta di usare pochi simboli (noi ne usiamo dieci), di
distinguere tra unità, decine, centinaia, e così via. E di fare quindi i riporti”.
“Ah, ho capito”.
“Quando noi scriviamo 42 intendiamo 4 decine e 2 unità. Cioè 4 × 10 + 2”.
101
102
CAPITOLO 32. FORMA NORMALE DI CANTOR
“Ah, ok, questo lo sapevo. Avevamo parlato anche della numerazione binaria,
tempo fa. In quel caso è tutto basato sulle potenze di 2. Bene, ora ricordo tutto.
E con gli ordinali dici che si fa un sistema in base ω?”.
“Sì. Se ripensi a tutti i calcoli che abbiamo fatto, noterai che un numero ordinale
può contenere una parte finita, poi una parte che contiene ω, una parte che
contiene ω 2 , e così via. Puoi andare avanti quanto vuoi e costruire una torre di
potenze di ω. Eccoti un esempio di un numero ordinale abbastanza complicato
da scrivere:”.
ωω
ω×7+42
×272+ω 3 +84
ω
× 4 + ω ω × 6 + 3141.
“Ok, ci sono. Sommando, moltiplicando e facendo potenze possiamo ottenere
tutti gli ordinali, e li possiamo scrivere in questo modo”.
“No, non è così, non tutti gli ordinali”.
“No? Eppure. . . se facendo qualunque operazione otteniamo un ordinale di quel
tipo, cosa non riusciamo a scrivere?”.
“Noi riusciamo a scrivere in quel modo, che si chiama forma normale di Cantor,
solo gli ordinali che si ottengono facendo un numero finito di somme, prodotti
e potenze”.
“Ah, perché, possiamo farne anche un numero infinito?”.
“Stiamo o non stiamo parlando di infinito?”.
Capitolo 33
così tanto da dire, così poco
per dire
Utilizzando un numero finito di somme, moltiplicazioni e potenze di ordinali,
possiamo esprimere “solo” ordinali nella forma normale di Cantor. La potenza,
che è l’operazione che ci permette di esprimere in modo conciso gli ordinali più
grandi, ci ha condotti alla scrittura di una torre di potenze di ω:
ω
ω, ω ω , ω ω , ω ω
ωω
, . . . , ωω
ωω
...
.
Ora la domanda è: possiamo continuare all’infinito? E, se sì (ed è certamente
sì, i passaggi all’infinito ormai non ci spaventano più), cosa otteniamo?
Partiamo dall’inizio, definendo una successione di potenze:
a1 = 1,
an+1 = ω an .
“Uhm, vediamo. . . a2 dovrebbe essere ω, giusto?”.
“Giusto”.
“Poi a3 dovrebbe essere ω ω ”.
“Giusto anche questo”.
“Ok, ci sono, ogni volta che aumenta n aumenta di un piano la torre di potenze”.
“Perfetto. Ora indichiamo con x l’estremo superiore dell’insieme di tutti gli ai .
In formule: x = sup{ai i < ω}”.
“Ok, fin qua ci sono, ma non esagerare con le formule”.
“Va bene, ormai ci siamo. Ora calcoliamo ω x ”.
“Uhm, come si fa?”.
“Ricordi la definizione? Dobbiamo prendere ω α per tutti gli ordinali α minori
di x”.
103
104
CAPITOLO 33. COSÌ TANTO DA DIRE, COSÌ POCO PER DIRE
“Quindi dovrei prendere. . . un momento! Tutti gli ordinali minori di x sono tutti
quelli che abbiamo considerato finora, perché x è l’estremo superiore dell’insieme
che contiene tutte le potenze di base ω. In pratica dobbiamo prendere di nuovo
x”.
“Giusto. Detto in termini poco rigorosi ma più chiari, se hai una torre infinita
di potenze di ω e aggiungi un altro esponente ω, non cambia nulla”.
“E quindi cosa abbiamo ottenuto?”.
“Abbiamo ottenuto un x tanto grande che ω x = x”.
“Sembra un’equazione”.
“È un’equazione. Noi abbiamo ottenuto il più piccolo x che la soddisfa, che
Cantor ha chiamato 0 . Oltre a indicarlo con una torre di potenze infinita,
possiamo anche indicarlo in questo modo:”.
ω
0 = 1 + ω + ω ω + ω ω + · · ·
“Ohi ohi”.
“Che c’è?”.
“Quell’indice 0. . . ”.
“Sì?”.
“Vuol forse dire che ce ne sono altri?”.
“Naturalmente. Sempre soluzioni di ω x = x. Il prossimo si chiama 1 ”.
“Ci avrei scommesso”.
“Eccolo qua:”.
1 = (0 + 1) + ω 0 +1 + ω ω
0 +1
+ ···
“Gulp”.
“Poi ci sono 2 , 3 , . . . , ω ”.
“Argh”.
“Poi ω2 , . . . , ωω ”.
“Ma no, si ricomincia!”.
“E guarda questa sequenza:”.
0 , 0 , . . . , ... .
“Ma non si finisce mai!”.
“Mai. Osserva che l’ultimo numero è la prima soluzione di x = x”.
“Non oso pensare a quello che viene dopo”.
“Il fatto è che possiamo giusto solo pensarci”.
“Perché?”.
“Perché possiamo andare avanti quanto vogliamo, all’infinito, e definire nuovi
numeri. Ma non avremo mai abbastanza parole per farlo”.
105
“In che senso?”.
“Nel senso che con le lettere dell’alfabeto possiamo formare soltanto un insieme
finito di parole. Al limite possiamo immaginare un dizionario infinito di parole,
anche se non potremo mai leggerle tutte. Ma se anche le usassimo tutte per
dare un nome ai nuovi numeri che definiremo, avremo comunque un’infinità
numerabile di nomi a disposizione. Cioè ne avremo ℵ0 ”.
“Ah”.
“Mentre di ordinali ne possiamo definire molti di più. Ma anche se ci limitiamo
ai soli numeri reali, non avremo mai parole a sufficienza per dare un nome ad
ognuno. Figuriamoci dare un nome a tutti gli ordinali”.
“E quindi?”.
“E quindi ci fermiamo qui, immaginando tutto il resto solo con il pensiero, senza
usare altre parole”.
“Peccato, mi dispiace che il cammino verso l’infinito finisca qua. Avrei però
un’ultima domanda”.
“Quale?”.
“Il fatto che questo post venga pubblicato l’otto ottobre duemilaeotto alle otto
e otto è un caso?”.
“Questo te lo lascio come esercizio”.
106
CAPITOLO 33. COSÌ TANTO DA DIRE, COSÌ POCO PER DIRE
Capitolo 34
epilogo
È finita, eh. Grazie per essere arrivati fino in fondo. . .
Questa saga è nata grazie a vari stimoli che ho ricevuto nel corso dei miei studi
matematici, che pian piano si sono accumulati in un angolino della mia testa e
hanno prodotto tutto ciò.
La prima volta in cui ho sentito parlare di cardinali transfiniti è stata durante
il primo anno di matematica, nel corso di algebra. Il prof (buonanima) era
un vero barone universitario, uno che prima di ogni lezione si faceva lavare
dai bidelli la lavagna (cosa che piacerebbe tantissimo anche a me — ma se lo
chiedo ai bidelli della mia scuola come minimo mi sparano), uno che scriveva
una formula ogni cinque minuti, e per il resto del tempo parlava, e noi dovevamo
arrangiarci con gli appunti. Uno che una volta si è fermato nel mezzo di una
lezione per sgridare una ragazza che era di fianco a me perché aveva sbadigliato
senza mettersi la mano davanti alla bocca, per dire. Uno sul quale si narravano
leggende metropolitane, come quella che raccontava che lui scrivesse anche i
voti minori di 18 sul libretto. Nonostante il terrore misto a odio che provavo nei
suoi confronti e nei confronti dell’algebra, sono rimasto affascinato dai numeri
cardinali.
Lo stile a dialogo è nato un po’ per caso. Inizialmente avevo pensato di inserire
qualche dialogo qua e là, ma poi ho visto che quella forma mi permetteva di
capire meglio gli argomenti di cui parlavo. . . e quindi l’ho adottata. Gran parte
delle definizioni e dei teoremi di cui ho scritto mi sono diventati più chiari
mentre cercavo di far sì che il Vero Matematico rispondesse in modo semplice.
Tanti grandi scrittori hanno usato questo stile, ma l’ispirazione maggiore mi è
venuta dai dialoghi del professor Apotema: si trovano sul mensile il Leonardo,
pubblicato dall’ITI Vinci di Carpi, leggeteli perché sono bellissimi (può darsi che
il link cambi nel tempo, comunque dalla home page del sito ci si arriva sempre).
Invece di due interlocutori, in quei dialoghi c’è una classe intera.
Poi c’è la parte sugli ordinali. Avrete visto che è meno rigorosa, senza teoremi.
Quella non l’ho studiata per l’esame di algebra, e non ho nemmeno un libro
di testo con le dimostrazioni. Me la sono guardata per conto mio, utilizzando
libri più o meno divulgativi sull’argomento, e traducendo dall’inglese l’omonima
pagina di wikipedia. . .
107
108
CAPITOLO 34. EPILOGO
Tutto questo è rimasto a lievitare in silenzio per un po’ di tempo, fino a quando
un amico (un filosofo appassionato di Cantor) non mi ha chiesto: “ma come si
dimostra che la cardinalità dei reali è maggiore di ℵ0 ?”. La risposta che diedi a
lui stava su due o tre pagine. Qui ho ampliato un po’. . .
109
*
110
CAPITOLO 34. EPILOGO
Appendice A
Come farebbe il maestro
Parecchi lettori hanno scritto per chiedere se fosse disponibile una raccolta di
tutti i post della saga Verso l’infinito, ma con calma: eccola qua. Ho cercato
di mantenere tutti i link presenti nella versione on-line, e ho aggiunto anche un
indice analitico.
Il signor .mau., da Milano, ha scritto domandando un esempio di ordinale di
cardinalità diversa da ℵ0 . Lo accontento subito: si tratta dell’insieme di tutti
gli ordinali numerabili.
“Uhm, non ho capito bene”.
“Ma sei ancora qua?”.
“Certo, anche io sono curioso di leggere l’appendice”.
“Mh. Devo spiegare di più, allora?”.
“Sarebbe meglio”.
“Va bene. Prendiamo l’insieme che contiene tutti gli ordinali numerabili”.
“Mi sfugge il senso della frase. Che significa ordinale numerabile?”.
“Ricordi che gli ordinali sono insiemi bene ordinati, vero?”.
“Sì, certo”.
“E ricordi cosa è la cardinalità di un insieme”.
“Naturalmente. Ah, ora capisco: un ordinale numerabile è un ordinale che,
considerato come insieme, ha cardinalità ℵ0 ”.
“Bene. Allora raggruppiamo tutti gli ordinali numerabili, e supponiamo per
assurdo che la cardinalità dell’insieme che abbiamo ottenuto sia ancora ℵ0 ”.
“Ok, ci sono. Immaginiamo che quell’insieme sia in corrispondenza biunivoca
con i naturali, giusto?”.
“Esatto. Questo significa che possiamo costruire una successione degli ordinali
numerabili. Immaginiamo che sia fatta così:”.
γ1 , γ2 , . . . , γν , . . .
“Va bene, per ora ci sono. Abbiamo messo in ordine questi ordinali”.
111
112
APPENDICE A. COME FAREBBE IL MAESTRO
“Sì, anche se non abbiamo detto come deve essere fatto questo ordine: non ci
interessa. Probabilmente non sarà quello esistente tra gli ordinali. Comunque
ci basta che esista una corrispondenza biunivoca tra N e questo insieme”.
“Ok. Poi che si fa?”.
“Ora si fa questo: consideriamo il primo ordinale, γ1 . Poi andiamo a cercare,
nella successione, il primo ordinale maggiore di γ1 , e lo chiamiamo γρ2 ”.
“Uhm, ok. Strana notazione, però”.
“Eh, hai ragione, ma ci serve tra poco”.
“Va bene, andiamo avanti.
“Ora consideriamo γρ2 e andiamo a cercare, nella successione di ordinali, il
primo ordinale maggiore di γρ2 . Questo lo chiamiamo γρ3 . Andiamo avanti
così, e otteniamo una nuova successione:”.
γ1 , γρ2 , γρ3 , . . . , γρν , . . .
“Va bene, ci sono, abbiamo riordinato in un modo un po’ strano”.
“Molto bene. Ora ti riassumo quello che abbiamo ottenuto. Prima di tutto, una
successione di indici:
1 < ρ2 < ρ3 . . . < ρν < ρν+1 < . . . ,
poi una successione di ordinali:
γ1 < γρ2 < γρ3 < . . . < γρν < γρν+1 ,
con la proprietà che γν ≤ γρν ”.
“Ecco, se potessimo fare un esempietto. . . ”.
“Ok, facciamolo con ordinali finiti, per semplificare le cose, giusto per capire il
procedimento”.
“Va bene, mi piace semplificare”.
“Allora prendiamo questa lista di ordinali:
3, 1, 2, 5, 7, 4, 9, 10, . . .
Quale sarà γ1 ?”.
“Vabbé, questo è facile, il primo elemento! Il punto di partenza l’avevo capito:
γ1 = 3”.
“Bene. Ora scorriamo la lista fino a che non troviamo il primo numero maggiore
di γ1 ”.
“Ok. Scartiamo 1, scartiamo 2, troviamo 5. Questo è il primo numero maggiore
di 3”.
“Giusto. Lo chiamiamo γρ2 . Quindi γρ2 = γ4 = 5”.
“Ho capito. Ora cerco, nella lista, il primo ordinale maggiore di 5. Questo non
si troverà prima di 5, perché i numeri che precedono 5 sono minori dell’ordinale
113
precedente, che era 3. E infatti il primo ordinale maggiore di 5 è 7, che si trova
nella quinta posizione”.
“Bravo. Quindi γρ3 = γ5 = 7”.
“Andando avanti, trovo γρ4 = γ7 = 9. . . ”.
“Giusto”.
“Poi γρ5 = γ8 = 10”.
“Molto bene. Ora ci fermiamo perché non conosciamo i prossimi elementi della
lista, ma in realtà si può andare avanti quanto si vuole. Hai notato che la sequenza degli indici è 1, 4, 5, 7, 8, crescente, e la sequenza degli ordinali è 3, 5, 7, 9, 10,
crescente pure questa. Inoltre vale anche la terza relazione”.
“Vedo. Ok, e adesso?”.
“Adesso prendiamo l’ordinale limite della successione dei γρν , chiamiamolo δ”.
“Va bene, ricordo gli ordinali limite. Sono maggiori di tutti gli ordinali della
successione”.
“Bravo. Quindi dovremmo avere che δ > γν per ogni ν”.
“Giusto. Qual è il problema?”.
“Prova a pensare a cosa è δ. É un ordinale pure lui, è un ordinale limite, e
quindi ha la stessa cardinalità degli ordinali precedenti, cioè ℵ0 ”.
“Va bene, è successo così anche per tutti gli altri ordinali che abbiamo considerato, non vedo dove sia l’assurdo”.
“Se δ è un ordinale numerabile, appartiene anche lui alla successione dei γν ?”.
“Eh? Ah, sì, quella successione era quella di tutti gli ordinali numerabili”.
“E quindi δ è uguale a un qualche γν ”.
“Già”.
“Però abbiamo detto che δ è maggiore di tutti i γν ”.
“Già”.
“E quindi?”.
“E quindi non va bene, abbiamo una contraddizione”.
“Bene, quindi l’insieme di tutti gli ordinali numerabili è un ordinale non numerabile”.
E qui, a meno di nuove richieste da parte dei lettori, ci fermiamo davvero.
Indice analitico
0, 79
2, 44
2ℵ0 , 52, 53, 60
42, 29, 30, 72
frasi celebri, 44
funzione, 3, 5, 7, 29, 43
biunivoca, 5, 8, 15, 33
iniettiva, 4, 5, 8, 30
suriettiva, 5, 8, 30
albergo di Hilbert, 31, 33, 38, 60, 61,
82, 92
ℵ0 , 29, 30, 33, 34, 37, 82
analisi non standard, 56
antinomia, vedi Cosa Brutta
assioma
della scelta, 35, 38, 66, 77
di Tarski, 56
assiomi di Peano, 21
buon ordinamento, 77, 83
c, 42, 60, 61, 63, 68, 71
campo, 56
Cantor, Georg Ferdinand Ludwig Phillip, 27
cardinalità, 9, 15, 16, 27, 29, 30, 77
classe di equivalenza, 13, 16, 27
classe propria, 20
Cohen, Paul, 75
completezza, 56
concatenamento, 87
concetto primitivo, 1, 21
contare, 7, 8, 15
coppia ordinata, 2
Cosa Brutta, 15, 16, 19, 20, 30
dimostrazione per assurdo, 47
domino, 22
eleganza, 26
0 , 104
estremo superiore, 58
Eta Beta, 47
Ferrari, 11
forma normale di Cantor, 102, 103
Gödel, Kurt, 75
Hilbert, David, 75
problemi di, 75
infinitesimo, 57
Infinito Assoluto, 76
ingegneri, 32
insieme, 19
delle parti, 41, 42, 52, 72
cardinalità, 43, 44, 47, 49
denso, 55
vuoto, 25, 79, 85
proprietà, 41
insieme di tutti gli insiemi, 17, 19, 20
ipotesi del continuo, 73, 75
Kronecker, Leopold, 76
lampadine, 43–45, 52, 59
Lego, 11, 13, 15, 79
lemma di Zorn, 39
maggiorante, 58
Marx, Groucho, 19
.mau., 57, 111
metamatematica, 75
niente, far finta di, 2, 20, 40, 66
Nottetempo, 11
numerazione posizionale, 101
numero
binario, 44, 59, 102
cardinale, 9, 20, 29
immaginario, 6
intero, 21, 33, 56
114
INDICE ANALITICO
non negativo, 21
iperrazionale, 56
naturale, 8, 21, 25, 27, 29, 33, 51,
56, 77, 79, 82, 97
normale, 27
ordinale, 9, 77, 81
razionale, 34, 55, 56
reale, 53, 55, 56, 105
assiomatizzazione di Tarski, 56
cardinalità, 59
romano, 101
surreale, 56
transfinito, 27
ω, 81, 82, 84, 88
ordinale
limite, 85, 97
numerabile, 111
successore, 84
ordinamento, 56
parabola, 11
paradosso
del barbiere, 20, 48
di Banach-Tarski, 39, 66
pensiero laterale, 20
ping pong, 63
platonismo, 57, 76
Potter, Harry, 11
principio
del buon ordinamento, 39, 77
di induzione, 22, 23, 25
transfinita, 97
procedimento diagonale di Cantor, 34
prodotto cartesiano, 1, 2, 71
professor Apotema, 107
proprietà archimedea, 56, 57
relazione, 1, 3, 7, 12, 43
d’ordine, 63, 77
di equivalenza, 12, 13, 16, 78
proprietà riflessiva, 12
proprietà simmetrica, 12
proprietà transitiva, 13
schifezza, 92
segmento iniziale, 83
sezione di Dedekind, 55
somme di ordinali, 92
sottoinsieme, 41
115
stupore, 89
successione, 51
binaria, 51, 52, 59, 61
di Cauchy, 55
successore, 22, 25
telegrafo, 94
teorema
di Cantor-Bernstein-Schröder, 66,
68, 72
di Gödel, 20
tetratricotomia, 62
torri di potenze, 99, 102, 103
tricotomia, 62, 66
trucco ignobile, 20
Vero Matematico, 1, 7, 8, 12, 15, 16,
20, 21, 26, 42, 47, 48, 53, 55,
57, 58, 66, 71, 87
zeresimo, 9
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Verso l`infinito, ma con calma