Atel i er
Vi l la g e
per la valorizzazione
di Valgrisenche e dei
suoi percorsi turistici
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Progetto Atelier Village
Iniziativa inserita nel Progetto “Atelier Village - Tutela e riqualificazione
del patrimonio rurale e creazione di un’immagine coordinata della Valgrisenche”.
Attività realizzata nell’ambito del progetto del Gal alta Valle d’Aosta
PSR 2007/2013 della Regione autonoma Valle d’Aosta e cofinanziata dal Fondo Europeo Agricolo
per lo Sviluppo Rurale – L’Europa investe nelle zone rurali.
ideazione
A.V.I. Presse Srl
coordinamento
Laura Agostino
testi
Stefania Tagliaferri
impaginazione
Stefano Massetto
disegni
Enrico Massetto
traduzioni
Studio Melchior
stampa
Tipografia Testolin
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ringraziamo per la messa a
disposizione delle loro foto
d’archivio:
la Regione autonoma Valle
d’Aosta, Archivi
dell’Assessorato Istruzione
e Cultura
e l’Istituto storico della
Resistenza e della Socieetà
contemporanea in Valle
d’Aosta
ringraziamo per il tempo che ci
hanno regalato:
Teresio Barrel
Marian Benchea
Bruno Béthaz
Camillo Béthaz
Marina Béthaz
Vincent Béthaz
Luigi Bois
Luigino Bois
Delfina Maria Bois
Saverio Bois
Marino Denarier
Anna Maria Frassy
Irene Frassy
Corrado Garin
maria Melania Garin
Ernesto Gerbelle
Emy Maguet
Gemma Moulin
Maria Zita Moulin
Angelo Pellissier
Sergio Togni
Luana Usel
Carlo Viérin
Franco Vuillermin
Progetto Atelier Village per la valorizzazione
di Valgrisenche e dei suoi percorsi turistici
La Valgrisenche è una vallata ricca dal punto di vista paesaggistico, territoriale, sociale;
Valgrisenche è un comune ricco di risorse
che offre, a turisti e residenti, itinerari ed
esperienze straordinari.
Da un lato, brevi passeggiate, lunghe escursioni, ascensioni, free climbing.
Dall’altro, le tracce di un passato indissolubilmente legato alla posizione geografica
strategica, al confine con la Val d’Isère. E ancora, le tradizioni: il drap, l’enogastronomia,
l’agricoltura, l’architettura, l’allevamento...
E poi lo sci e l’heliski.
Ai fini della tutela e della riqualificazione
del patrimonio rurale, occorre concepire
Valgrisenche secondo un pensiero unico e
coerente, in modo da avere strumenti coordinati di lavoro, di comunicazione, di promozione e di attività condivisi con tutti gli
operatori locali.
A tal scopo è nato il progetto Atelier Village
- Tutela e riqualificazione del patrimonio rurale
e creazione di un’immagine coordinata della
Valgrisenche, finanziato in parte con fondi
europei del Programma di Sviluppo rurale
2007-2013. Un progetto volto alla valorizzazione di tutto il patrimonio immateriale
(tradizioni, costumi, savoir-faire, prodotti locali tipici, leggendario, storia locale...) e degli aspetti significativi del paesaggio rurale.
Si è partiti con la definizione di un’immagine coordinata per la promozione della Valgrisenche: un nuovo logo e una mascotte,
battezzata Drapotte. Si è continuato con
l’allestimento di un’esposizione che, attraverso i volti e la parole dei Vagrezèn, raccontasse Valgrisenche.
Ma soprattutto si è inteso valorizzare alcuni
percorsi, che conducono alla scoperta del
territorio e ne narrano le caratteristiche e
le storie. Sono stati individuati sei itinerari, percorribili in estate e, alcuni, anche in
inverno. Sono percorsi tematici, dedicati
all’allevamento (bovino, ovino e caprino),
alla diga (e al modo in cui la sua realizzazione ha inciso sulla comunità), al drap (il
tessuto tipico di lana delle pecore Rosset),
alla guerra (più che ai combattimenti, al
passaggio e al soggiorno delle truppe), alla
religiosità (cappelle, chiese, cimiteri ma anche processioni, riti e feste).
Il progetto si è completato con la creazione
di una sezione del sito internet www.comune.valgrisenche.ao.it e di una pubblicazione (questa che avete in mano) dedicati a
raccontare e approfondire tutti i contenuti
che questi percorsi offrono ai visitatori.
Sì, va bene,
sono una bambola.
Una tra le centinaia di migliaia
di bambole che popolano il pianeta.
E poi magari a te neanche piacciono le bambole,
paffutine, così un po’ romantiche, di una volta.
Ecco. La bambola è un giocattolo di una volta,
starai pensando. D’accordo, va bene, se ti senti
già grande puoi voltare pagina e leggere con
attenzione tutte quelle informazioni noiose
che riempiono questo libretto.
Altrimenti… puoi restare con me
e fare il mio percorso,
scovare tesori preziosi senza rinunciare a rotolarti
sui prati e ad arrampicarti sulle rocce.
Io non avrei dubbi: vorrei proprio fare parte
della mia squadra. E tu, ci stai?
Divertimento assicurato,
parola di montanara!
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Élevage : nourriture et affection
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BONNE
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MONDANGES
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capoluogo
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GERBELLE
DARBELLEY
planté
chez carral
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Un tempo costante, quello dell’allevamento. L’itinerario tocca e narra i principali
appuntamenti della vita dell’allevatore, ripercorrendo quella che una volta era
la principale occupazione di ogni Vagrezèn. La montagna che emerge da questa
passeggiata è quella più quotidiana, quella delle sveglie all’alba per la mungitura,
del pascolo, della produzione di burro e di formaggi, delle coltivazioni stagionali,
ma anche delle fondamentali corvée per il mantenimento del territorio.
Un quadro di lavoro che lascia però spazio anche alle emozioni per i risultati
raggiunti, all’affetto per i propri animali, alla soddisfazioni per una bella vittoria
durante le batailles de reines.
Si fa l’allevamento
per il mantenimento del territorio.
I veri giardinieri della natura
sono gli agricoltori:
con le loro mandrie,
che mantengono il verde.
Marino Denarier
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Latte che si beve.
Latte che si mangia.
Uscire dalla stalla
sospesi nella foschia.
Uomini fieri,
i primi macchinari,
l’avvento di un tempo nuovo.
Ogni giorno si munge due
volte, a intervalli regolari che
scandiscono la giornata dell’allevatore. Prima che le mungitrici velocizzassero il lavoro,
dagli anni Sessanta, in alpeggio la sveglia suonava in piena
notte: la prima presa del latte
si svolgeva tra le 2:30 e le 6 del
mattino; poi si pulivano gli attrezzi e si faceva colazione. Verso le otto ci si divideva fra chi
andava al pascolo e chi si dedicava alla lavorazione del latte.
Dal latte si ricavavano fontina, formaggio magro e burro.
Quest’ultimo, durante gli anni
Cinquanta, era il prodotto più
richiesto e remunerato, mentre
oggi è stato rimpiazzato dalla
fontina, formaggio valdostano
a denominazione di origine
protetta.
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Sono in costante diminuzione
le persone che riescono a dedicarsi all’allevamento, facendone la propria fonte esclusiva di
reddito.
In passato si trattava invece
della principale attività di sussistenza nella Valgrisenche: quasi ogni casa, in ogni villaggio,
aveva una stalla. Le famiglie
che possedevano cinque o sei
mucche in inverno e una ventina in estate erano considerate abbienti. L’animale forniva
calore, carne e latte. I Vagrezèn
vivevano con i loro animali, li
conoscevano, se ne occupavano e, parallelamente, curavano
il paesaggio attraverso il mantenimento dei pascoli e il contrasto al rimboschimento.
Allevatori e agricoltori
con piccole mandrie,
con campi di cavoli e di porri,
come giardinieri del re
curano il territorio.
Conservano la montagna,
danno futuro al passato.
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Custodi del pascolo,
aiutanti dei grandi,
i piccoli responsabili
vegliano.
Un po’ di tempo per giocare
con il cane e con il legno,
inventano forme e storie.
Contemplano la loro natura.
E lassù cosa c’è…
una mucca grigia?
I bambini hanno sempre aiutato la famiglia nella gestione
della stalla e nell’allevamento,
per lo più con il compito di
vegliare la mandria al pascolo
insieme ai fedeli cani, capaci di
governare le mucche più indisciplinate.
Quanto entusiasmo quando si
trascorreva la notte svegli ad
aspettare nella stalla la nascita
del vitello! Per i piccoli di casa,
il parto era un momento di
scoperta; per gli adulti era ricchezza, poiché rappresentava
la possibilità di aumentare il
numero dei capi nella propria
stalla, da destinare alla produzione di latte o carne.
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L’allevamento ovino è praticato a Valgrisenche senza grandi
mutamenti rispetto ai secoli
passati. Le pecore trascorrono
l’inverno nella stalla a stabulazione libera: devono partorire
l’agnello ed è necessario che
siano al riparo dai predatori,
oltre che dal freddo. In estate
pascolano libere e tornano dagli allevatori solo per rifocillarsi
di sale e pane, dei quali sono
ghiotte.
A inizio novembre, il gregge
autonomamente scende alla
stalla: è il momento della tosatura, pratica ripetuta in primavera per proteggere i capi dal
calore estivo.
La razza autoctona è la pecora
Rosset, la cui lana è utilizzata
per la produzione del drap.
Delicato equilibrio
tra uomo e paesaggio.
Vivere insieme,
ascoltare le differenze,
rispettare il ritmo
che detta la montagna.
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Entusiasmo della gara,
desiderio di vittoria.
Orgoglio dell’allevamento.
La competizione
accende l’animo
dei più giovani
e la tradizione continua.
Le batailles de reines sono un
comportamento spontaneo
all’interno delle mandrie, che
devono designare la propria
regina.
Prima ancora che si organizzasse il Concorso regionale, a
Valgrisenche gli allevatori avevano l’abitudine di radunare
le proprie regine in paese per
vedere quale fosse la più forte.
Alla fine degli anni Cinquanta
sono cominciate le eliminatorie regionali, che si svolgono
nell’arena di Mondanges tutti
gli anni, a inizio settembre, in
un’atmosfera di festa che richiama tifosi e curiosi.
La passione per le batailles aiuta
i giovani a non abbandonare
l’allevamento, nonostante i
sacrifici che questa attività richiede.
Perché l’alpeggio funzionasse,
ognuno doveva rispettare il
proprio ruolo.
Il lavoro era condiviso fra adulti
esperti e giovani apprendisti, i
lapaboura, mandati dai genitori
del fondo valle per guadagnare
uno stipendio e contribuire alle
spese familiari o per mettere da
parte i soldi per proseguire gli
studi.
La sera era un momento conviviale: dopo cena, gli arpian
si riunivano nella casera e si
raccontavano le proprie esperienze, in attesa che arrivasse il
giorno della dësarpa, il ritorno
a casa.
I rigori di una stagione
di lavoro incessante.
I volti e gli oggetti raccontano
la fatica e l’amicizia
nate dalla condivisione
di un pezzo di vita.
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Per andare avanti devi farmi una promessa: dimenticati dei
supermercati! Drogherie, negozietti, vendita al minuto: tutto
inesistente. È fondamentale per comprendere il passato della
Valgrisenche e dei popoli di montagna. Una volta bisognava essere
autosufficienti, per questo i miei antenati Vagrezèn dovevano produrre
sul territorio quasi tutto ciò di cui avevano bisogno
Secondo te come facevano a vivere?
Ho preparato un piccolo cruciverba che ci può essere di aiuto per raccontare com’era la vita a
Valgrisenche una volta e fino a non molto tempo fa, più o meno la metà del Novecento.
ORIZZONTALI
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è una manifestazione simile al mercato,
ma si svolge meno sovente
Il più fedele amico dell 'uomo
Qui si trasferiscono allevatori e mandria
durante l 'estate
Quello del vicino è sempre più verde
Lavoro svolto per tutta la comunità
Tu di sicuro le ordini sempre fritte
quando mangi al ristorante
Macchinario che ha trasformato la presa
del latte
Verdura che probabilmente non ti piace
e che nomini per esprimere
un'esclamazione
Fiume molto piccolo
Formaggio tipico valdostano
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VERTICALI
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Il primo animale a svegliarsi
la mattina.
Le fanno le mucche quando devono
decidere chi è la più forte, la regina.
Offre la materia prima per realizzare
il drap!
Lo usano anche gli arbitri durante
le partite per farsi sentire dalle squadre
e dai tifosi
Posso essere nera, marrone, pezzata...
Nome di un famoso poeta italiano
dell 'Ottocento.
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Avrai capito che bisognava rimboccarsi le maniche: nessuno viveva
nell’agio.
Tutti erano sia allevatori sia agricoltori; non possedevano molto: qualche mucca, le galline, alcune pecore. I lavori da fare erano tanti. Ogni casa aveva una stalla che, durante l’inverno, permetteva vivere al calduccio, grazie al calore degli animali (proprio come nella stalla di Betlemme!).
Le mucche vanno munte due volte al giorno e pensa che in alpeggio bisogna svegliarsi alle 2.30
di mattina per la mungitura!
I prati per il pascolo andavano mantenuti e curati, bisognava pulire i ru, i canali che conducevano l’acqua per irrigare i terreni e anche fare i fieni. Con tutto questo gran da fare, la comunità era
sempre impegnata. Dimenticavo, si coltivava anche la terra e si facevano gli orti, che secondo
me sono bellissimi! Si seminava l’orzo che è molto nutriente, poi la segale, le patate, i cavoli, i
porri… Con il latte si producevano burro e formaggi. In autunno si macellava una mucca, una
pecora o un maiale e doveva bastare per tutto l’anno. Non c’era molta carne e per questo si
mangiava anche quella di marmotta (ora non più, è una specie protetta) e… pare che fosse
molto buona!
Per la festa di San Martino, i primi di novembre, c’erano le fiere. Allora si scendeva a Valle e si
scambiava o si vendeva qualcosa per acquistare i prodotti che non si potevano produrre in montagna: in questo modo si avevano le provviste necessarie per affrontare l’inverno.
Scegli tra questi prodotti quelli che secondo te sono della montagna
e quelli che sono della piana e scrivimi la lista della spesa che devo
portarmi a casa: aiutami a procurarmi ciò che mi serve per superare
l’isolamento invernale!
Castagne
Fontina
Sale
Utensili intagliati
in legno
Farina di mais
Riso
Burro
Noci
Orzo
Drap
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Un drap pour réchauffer
le corps et l 'âme
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capoluogo
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planté
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PRARIOND
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Valgrisenche è custode di una lunga tradizione di tessitura della lana e della
canapa che dà vita al drap, un tessuto caldo e resistente, le cui fibre raccontano
le asperità della vita in alta montagna. Grazie alla determinazione dei Vagrezèn,
questo mestiere è stato tramandato nel corso dei secoli, giungendo sino ai giorni
nostri. Nel corso della passeggiata, si ha la possibilità di scoprire le peculiarità del
drap, di conoscere i luoghi deputati alla creazione di questa stoffa, di vedere telai
antichi e moderni, di andare indietro nel tempo visitando una mostra e anche di
acquistare un capo in drap, bussando alla porta della cooperativa Les Tisserands
dove, con cura e passione, ogni giorno è dato un presente a questo mestiere del
passato.
Il telaio più grande misura
due metri e settanta
e si usa per le coperte matrimoniali.
Se si è imparato a lavorare su quello,
gli altri telai sono tutti molto semplici!
Emy Maguet
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Curare la pecora:
sale, pane, erba,
un po’ di libertà.
Chiedere la lana di troppo.
Lei ringrazia
più leggera.
Tosare
la massa,
la matassa,
un filo.
Unire storie.
La tradizione della tessitura
del drap affonda le radici in un
passato lontano: da sempre la
Valgrisenche è nota come valle
dei tisserand.
Già nel XVIII secolo esisteva una
diploma per poter praticare il
mestiere! Il drap è un tessuto
di lana molto robusto e caldo
utilizzato per realizzare coperte,
tende e capi di abbigliamento.
Il drap nasce al telaio, che un
tempo era collocato nella stalla,
l’ambiente della casa più spazioso, caldo e umido. Tutti contribuivano alla lavorazione del
tessuto: uomini, donne e anche
i bambini che, prima di andare
a scuola, erano incaricati di preparare le spoline.
A metà Novecento si corse il
rischio di perdere per sempre
il sapere plurisecolare della
tessitura dei drap come conseguenza allo spopolamento
della montagna successivo al
secondo conflitto mondiale e
alla costruzione della diga. Alla
morte dell’ultimo tisserand il
figlio, Sulpice Frassy, si impegnò per dare futuro alla tradizione del drap: con il sostegno
dell’Amministrazione regionale
organizzò alcuni corsi cui presero parte molte donne di Valgrisenche, felici di poter contribuire a mantenere vivo l’antico
mestiere. Per lavorare furono
restaurati i vecchi telai che si
trovavano nelle stalle e ne furono costruiti di nuovi sui modelli
originali. Nel 1969 fu fondata
una cooperativa, oggi chiamata
Les Tisserands, che ogni giorno
si impegna a garantire un posto
al drap nella produzione tessile
del XXI secolo.
Intrecciare
orizzontale e verticale.
Immaginare un disegno,
seguire un pensiero,
ripetere un gesto.
Inventare un nuovo percorso.
E scommettere.
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Centouno, centodue,
centotré pecore bianche.
Una
pecora nera.
Zero pecore blu.
Il mosto e gli occhi fissi sul telaio.
I colori dell’autunno.
A decretare il colore del drap, in
origine, era il filo di lana grezza
dal quale era ricavato.
Il tessuto poteva essere dunque bianco, grigio o nero.
Esistevano però anche altre
due colorazioni: una brunorossastra chiamata tanet, che si
otteneva dal mallo di noce; una
blu molto utilizzata tra Otto e
Novecento per gli abiti, che si
otteneva con la bollitura in succo di mirtillo.
Oggi il drap, che come al tempo è realizzato dalla lana delle
pecore Rosset, è conosciuto
in molte altre tinte, rinnovato
nelle colorazioni e anche nei
disegni.
Le fontane erano il luogo deputato all’infeltrimento del drap.
Nei secoli scorsi, infatti, il drap
subiva questo trattamento volto a renderlo impermeabile,
robusto e quindi più duraturo.
Il tessuto era immerso in acqua
saponata fredda e poi sbattuto
violentemente con bastoni e
spazzole di legno. Attraverso
questo lavaggio, la fibra si induriva, si compattava e acquisiva
quelle caratteristiche di resistenza all’acqua, alle macchie
e all’usura che rendevano il
tessuto tanto speciale. Da questa abitudine traeva però anche
origine l’aspetto ruvido e grezzo con cui era noto il drap. Per
tale ragione oggi l’infeltrimento
si svolge meccanicamente, con
una pratica che mantiene il materiale più morbido, più piacevole al tatto e più confortevole
nella realizzazione di capi di
abbigliamento.
Resisti al freddo?
Lana annodata,
tessuta,
nel calore della stalla.
Infeltrita,
nel gelo della fontana.
Più solida, resiste
all’acqua.
Resisti al freddo.
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Mettiamo subito le cose in chiaro: io non sono una bambola come
le altre! Guarda i miei capelli… no, non il colore, che è marrone,
piuttosto comune in effetti. Il materiale.
Secondo te i miei capelli sono fatti:
di cheratina
di lana
di cioccolato
Sono fatti di lana! E la lana è fatta con il vello della pecora. Forse è meglio cominciare dall’inizio.
Devi sapere che a Valgrisenche c’è una tradizione secolare, la tradizione della tessitura. Alcuni
dicono che si tesse da sempre, altri parlano del 1600. Non so a chi dare ragione, ma è senz’altro
un mestiere antico, che affonda le radici in un tempo lontano. Un po’ come quelle storie che
cominciano con c’era una volta.
C’era una volta un tisserand, potremmo dire.
I telai erano fatti di legno e conservati nelle stalle, dove faceva più caldo. In origine si lavorava la
canapa, che si comprava a Valle, perché era impossibile coltivarla a 1664 metri di altezza, poi il
cotone e la canapa insieme e finalmente la lana delle pecore Rosset, più pregiata e calda, come
quella dei miei capelli!
La pecora ha bisogno di essere tosata, altrimenti muore di caldo, il pelo diventa rasta e pesa troppo!
Regole per tosare una pecora:
1 prendi una pecora
2 falle un sorriso
3 scegli il momento giusto, di solito la primavera
4 tienila a digiuno per un giorno (sì, è esattamente per il motivo a cui stai pensando)
5 prendi un rasoio tosapecore elettrico
6 no, non puoi tosare una pecora: sei troppo piccolo. Era uno scherzo.
Aspetta qualche anno oppure chiama un tosatore esperto!
Recuperata la materia prima dalla pecora, la lana va cardata, per togliere le impurità dal pelo e
per riordinare le fibre tessili, e filata. A questo punto si può cominciare a lavorare sul telaio. Bisogna preparare l’ordito, non è per niente facile. Poi lavori, lavori, lavori, lavori. Quando è pronto
vai alla fontana e sbatti il tessuto con dei bastoni nell’acqua fredda saponata per farlo infeltrire e
renderlo impermeabile. Alla fine nasce il Drap, il tessuto tipico della Valgrisenche, quello con cui
è fatto il mio vestito! Un tessuto caldo e resistente, il mio preferito. Infine… con gli avanzi della
lana, nasco io: Drapotte!
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Oggi il Drap esiste di tutti i colori, perché si può tingere artificialmente. Ma una volta non era
così. I Vagrezèn hanno dovuto sperimentare diversi metodi di tintura per scoprire nuove tonalità.
Oltre ai colori della lana grezza, quindi bianco, grigio e nero, esistevano il marrone, chiamato
tanet, ottenuto dal mallo di noce che è quello strato polposo che avvolge il guscio della noce
quando è sull’albero, è verde, ma se fatto fermentare produce il marrone. Che misteri! E poi
esisteva anche il blu.
Tu come ricaveresti il blu?
mosto d 'uva
con il sangue della famiglia reale
succo di mirtillo
Una volta tutti tessevano, oggi invece non è più così, ma ci sono dei miei amici che proseguono
la tradizione in un posto che sia chiama Les Tisserands, se vuoi puoi andare a visitarlo e farti
raccontare ancora tante curiosità da loro!
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Avant et après
le barrage
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Camminare sulle tracce dei ricordi. Incontrare, nella montagna più amena, un
importante esempio di archeologia industriale del secolo scorso. Tra gli eventi
che segnano maggiormente la storia e il paesaggio di Valgrisenche si inserisce la
costruzione della Diga di Beauregard: un imponente muro di 132 metri terminato
con l’aprirsi degli anni Sessanta ma oggi abbassato di 110 metri. Una passeggiata
che unisce, in un unico racconto, lo slancio industriale e il desiderio di progresso
che animarono l’Italia dell’epoca e le microstorie dei Vagrezèn, che hanno dovuto
abbandonare i loro villaggi prima del riempimento della diga, o dei numerosi
operai immigrati per lavorare nel cantiere. Fino ad arrivare alla moderna ottimizzazione delle risorse e alla tutela dell’ambiente.
Lasciare la casa per via
della costruzione della diga
fu tristissimo per mia nonna,
che ha vissuto quel momento
come se fosse l’ultimo della sua vita.
Saverio Bois
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C’era una volta la diga.
E prima ancora
c’era una vallata inviolata.
Convivono ora
qualcosa dell’una e dell’altra.
Pensiero e panorama
mutano velocemente,
come il cielo in montagna.
La Società Idroelettrica Piemonte (SIP) manifestò interesse nei confronti delle risorse
idriche e del bacino imbrifero
di Valgrisenche già negli anni
Venti del Novecento.
Il progetto e la costruzione della diga di Beauregard furono
avviati nel secondo dopoguerra, in un momento di ripresa
economica e di grande fiducia
nei confronti del progresso,
quando l’elettrificazione del
Paese era strategica per lo sviluppo dell’Italia. Tra il ’48 e il ’49
si svolsero gli studi preliminari
e giunsero a Valgrisenche, con
le rispettive famiglie, i primi
operai incaricati di aprire il
cantiere.
La costruzione richiese una decina di anni.
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La diga di Beauregard raggiungeva l’altezza di 132 metri,
sviluppandosi dai 1.640 m slm
della base sino ai 1.772 m del
piano di coronamento che, lungo 400 metri, collegava i due
versanti della vallata. In Valle
d’Aosta, era la seconda diga per
grandezza, superata in seguito
da quella di Place-Moulin, in
Valpelline. Il calcestruzzo con il
quale è stata realizzata era ricavato da inerti estratti dalla piana
di Beauregard. L’opera aveva
uno spessore massimo di circa
45 metri nel punto più basso e
si assottigliava verso l’alto sino a
uno spessore di 5 metri. Era uno
sbarramento ad arco di gravità, a
doppia curvatura, con struttura
simmetrica e fermava le acque
della Dora di Valgrisenche in località Marioulaz.
Crescita e cambiamento
hanno radici nel terreno,
profonde fondamenta.
Una quinta grigia
tesa verso l’alto.
Opera sovrumana,
imponente architettura,
fascino della creazione.
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Cose lasciate,
ricordi nell’acqua
di cose passate,
perdute,
momenti sommersi.
Spinta e spostamento.
Vite vicine
proseguono altrove.
Il territorio investito dalla diga
non era disabitato, come può
sembrare ora. Nonostante le
proteste, le battaglie e le resistenze degli abitanti, prima
dell’inizio dei lavori furono
evacuati cinque villaggi secolari, piuttosto popolosi e abitati tutto l’anno: Beauregard (che
diede il nome all’impianto),
Sevey, Supleun, Fornet e Chappuis. Sfollate anche due frazioni non sommerse, Usellières
e Surier, che sarebbero altrimenti rimaste isolate dal resto
della vallata. Qualcuno partiva,
qualcuno arrivava: i figli degli
operai del cantiere andavano
a scuola in paese e stringevano
amicizia con i Vagrezèn.
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La diga è collegata alla centrale
di Avise, ultimata nel 1954, ed
era pensata per una capacità
di 70 milioni di metri cubi, che
corrispondevano a una quota di massimo invaso di circa
1.770 m, pochi metri sotto il
coronamento, e a una potenziale produzione dell’impianto
di 286,410 GWh. Tale livello fu
raggiunto sperimentalmente
soltanto tra il 1960 e il 1963.
Dopo la tragedia del Vayont e
a seguito del rilevamento delle
critiche condizioni della sponda sinistra, il livello dell’acqua
fu abbassato di oltre 60 metri, riducendo a un decimo
la capacità reale della diga.
Per garantire la stabilità dello
sbarramento furono realizzate
importanti opere di consolidamento.
Acqua orizzontale,
cemento verticale.
Strapiombo e materia.
Poi le montagne
create dai ghiacci
segnano l’obliquo.
Un lago troppo profondo
per essere vero.
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Salire, scalare.
Tornare indietro.
Riconoscere i segni
nelle pareti,
i tagli nei tronchi.
L’erba cresce in fretta,
la vita continua.
Sono le rocce a conservare
memoria.
Il controverso argomento della diga nata sotto cattiva stella trovò soluzione definitiva
nell’ottobre 2011, quando iniziarono i lavori di adeguamento, volti ad abbassare l’altezza
del muro di 52 metri, riducendo così l’impatto ambientale
ma mantenendo in attività
l’impianto.
Dalla metà degli anni Novanta,
la parete era stata reimpiegata
dalle guide alpine di Valgrisenche come palestra di arrampicata.
L’attività di demolizione, a cura
della Compagnia Valdostana
delle Acque (CVA), si è conclusa nel 2014: ha richiesto 112
esplosioni e ha portato il muro
a un’altezza di 22 metri.
Una volta Fornet era il villaggio
più popolato della Valgrisenche:
prima della Seconda Guerra Mondiale contava 45 abitanti. Qui non
è mai arrivata la corrente elettrica,
che si fermava a Beauregard, e si
viveva nelle condizioni dei secoli
precedenti. Il villaggio possedeva
tutto l’essenziale per un’economia autarchica e per questo era
detto Repubblica de Fornet. Aveva
la rettoria, la chiesetta sorta nel XII
secolo (ancora prima della parrocchia di Valgrisenche), la scuola
sussidiata, il mulino consorziale,
la latteria turnaria, i forni. Si viveva
dei prodotti della terra, dell’agricoltura e del bestiame. Le famiglie
si spostavano stagionalmente,
poiché spesso erano proprietarie
sia di una casa a valle sia di un alpeggio in quota, e potevano così
seguire l’intero ciclo di produzione legato all’allevamento.
Il tempo,
liquida storia
inflitta alle pietre,
si ferma a volte.
Ti fermi?
Tracce esili e potenti
i muri sgretolati
voluti dagli uomini
resistono agli uomini.
Spiragli mostrano
qualcosa di là.
6
19
Test dello spirito di avventura!
1 Andresti un week-end
in montagna con i tuoi
amici in una baita senza
corrente elettrica e senza
acqua?
a
b
c
neanche per sogno!
ho già preparato batterie
autonome, cisterne, torce,
candele, bibite gassate
e shampoo in polvere e
alcuni manuali di fisica
quando si parte?
2 Se fossi nominato cuoco
3 Il cellulare si è scaricato,
niente internet, niente
tv… che facciamo?
a
panini, patatine e cioccolato per tutti!
b in cantina c'è il fornellino
da campeggio dello zio e
ho letto di un metodo di
cottura dei cibi al sole con
una lente di ingrandimento
c cosa credi? Io so accendere il fuoco.
a
Maggioranza di b :
Montagna, mare, campagna…
poco importa quale sia il paesaggio, ogni occasione è buona per metterti alla prova! Idee
strampalate e innovativi modi
per fare le cose costellano le tue
giornate: così rendi frizzante la
tua vita e quella dei tuoi amici.
La tua natura è quella dell’inventore!
Maggioranza di c :
Questo è l’animo dell’esploratore, che sa valutare il pericolo e
la sfida, che respira la natura a
pieni polmoni e la rispetta, che
sa quando partire e quando
fermarsi, che vorrebbe correre,
cavalcare, sciare, lanciarsi con
il paracadute e poi, e poi… ehi
Indiana Jones, guarda che devi
andare a scuola anche tu! E
solo quando hai finito i compiti
puoi uscire di nuovo!
della comitiva, come ti
comporteresti?
Risultati
Maggioranza di a :
L’avventura nella natura non
fa per te, meglio una vacanza
tranquilla, con una valigia ben
studiata, compagni di viaggio
noti e una buona guida con
tutti i consigli per scegliere le
tappe percorso: ma sono sicura
che hai già il biglietto dell’aereo
per raggiungere la tua città preferita!
andiamo a dormire, ho
freddo, non mi posso truccare e qui ci si annoia
b invento un generatore di
energia che trasforma lo
sforzo fisico in corrente
elettrica, obbligo tutti i
miei dieci amici a correre
per due ore e ricarico i
cellulari!
c giochiamo a nascondino al
chiaro di luna e cantiamo
canzoni sdraiati nei sacchi
a pelo guardando le stelle
Che non c’è sempre stata la corrente elettrica, sicuramente lo sai già. E saprai anche che ancora
non c’è in tutti i paesi del mondo. Puoi immaginare che la vita senza corrente elettrica fosse molto diversa: niente frigoriferi, niente interruttori della luce, niente televisione. Simile alla vacanza
in baita che ti stavo raccontando.
Insomma una mattina, dopo numerosi esperimenti, alcuni signori intelligentissimi e con una
buona fantasia sono riusciti a produrre la corrente. Per portarla in tutte le case avevano però
bisogno di grandi fonti di energia.
Secondo te oggi come si produce l’energia elettrica?
con l 'acqua
con gli alberi
20
con la sabbia
con gli atomi
con il vento con lo zucchero
con la luce del sole
Uno fra i metodi più sfruttati, nel pieno del Novecento, era l’energia idroelettrica, prodotta
grazie all’acqua contenuta in grandi bacini artificiali. L’acqua era indirizzata alle
turbine di speciali centrali in cui la sua
potenza veniva, e viene ancora, trasformata in energia. Per ottenere la corrente
bisognava costruire le centrali, le turbine, i canali e anche delle barriere artificiali per raccogliere grandi quantitativi di
acqua. Queste erano le dighe! L’energia non
serviva soltanto per le case private, era indispensabile per lo sviluppo della società e dei paesi,
era fondamentale per l’industria e per il lavoro.
Questo ha spinto ad accettare di costruire molte dighe in Italia. Una, molto grande, era proprio a Valgrisenche. La diga di Beauregard. Fu costruito un muro
di cemento altissimo, ben 132 metri!
Quanto sei alto? Quanti bambini alti come te si dovrebbero
mettere uno sulle spalle dell’altro per arrivare in cima al muro?
Richiamati dal cantiere, arrivarono circa mille operai da tutta l’Italia e i loro bambini andavano a scuola con i miei amici Vagrezèn. Furono fatti molti sacrifici per questa grande opera. Si decise, per esempio, che si sarebbero sommersi alcuni villaggi abitati e quindi numerose famiglie avrebbero dovuto
lasciare la loro casa. Se tu dovessi partire, quale immagine, quale oggetto o quale ricordo del posto
in cui vivi porteresti sempre nel cuore?
Lo puoi scrivere o disegnare qui!
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___________________
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___________________
Però la storia è strana, sai? Dopo un po’ di tempo si scoprì che era meglio non riempire di acqua tutta
la diga, perché sarebbe stato troppo pericoloso. E così i ruderi delle case riemersero (puoi andare a
vederli ancora oggi!). Tanto per non sprecarlo, dei bravi scalatori utilizzarono l’alto muro come palestra di arrampicata e infine, nel 2011, si decise di abbassare il muro usando gli esplosivi.
Secondo te oggi quanto è alto ?
70 metri
22 metri
10 metri
Vai a vedere!
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22
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Une foi qui se fait art
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3
2
1
1
Superare l’inverno, la peste, il cattivo raccolto, un
incendio… Quante grazie da chiedere alla Madonna,
ai santi. Tante quante le cappelle che i Vagrezèn
hanno eretto nei loro villaggi. Ecco perché questo
paesaggio montano si presenta costellato di croci,
oratori, piccole chiese: tutti segni di profonda fede e
viva devozione. Edifici costruiti per lo più nel Seicento, poi ripetutamente restaurati, che ospitano a loro
volta icone, sculture, affreschi, preziose testimonianze
della spiritualità del territorio.
Lungo il percorso si contano gli
esempi principali di questo
processo, scoprendo nel
racconto i riti e le feste
più sentite, le tradizioni
religiose, le abitudine
legate ai battesimi, ai
matrimoni e ai funerali.
La passeggiata è lunga
e ricca di sorprese.
È consigliabile calcolare una sosta più lunga al
Capoluogo, per scoprire le
particolarità del cimitero e le
bellezze conservate nel Museo di
Arte Sacra della chiesa parrocchiale.
Un orrido, un ponte
e più su una chiesa.
Dimora a Revers dal 1906
la Madonna del Rosario.
E chi curioso volesse sbirciare
la tela coi santi sull’altare,
c’è un San Pietro
tra gli abitanti di queste case:
in ogni frazione, della chiesa,
qualcuno custodisce la chiave.
Tra le cappelle che costellano
il territorio di Valgrisenche,
fondate per devozione degli
abitanti delle frazioni, quella di
Revers è la più recente.
L’edificio, consacrato nel 1906,
è dedicato alla Madonna del
Rosario. Questi luoghi di culto
sono strettamente legati alla
vita di coloro che nel corso dei
secoli li hanno voluti, mantenuti, restaurati e spesso integralmente ricostruiti.
A testimoniare il perdurare di
questo rapporto vi è una tradizione che vuole che in ogni
frazione ci sia un detentore
della chiave della cappella: chi,
nel corso della passeggiata,
volesse visitare l’interno degli
edifici o pregare il santo titolare, dovrà trovare chi può aprire
la serratura!
È normale per i montanari
questa sensibilità per le cose belle.
Io me ne sono innamorato, naturalmente.
Sì d’accordo, come prete,
ma come semplice persona
che ammira le bellezze del creato.
Don Angelo Pellissier
23
3
Fino al secondo Dopoguerra, si
andava a Messa a piedi.
I primi fedeli partivano dai
villaggi più alti o più bassi e
il gruppo diventava vieppiù
numeroso avvicinandosi alla
Chiesa parrocchiale. Si ritrovavano amici e parenti e ci si
ragguagliava sugli accadimenti della settimana. Le giovani
madri portavano i bambini in
spalla, senza spostarli dalle
loro culle, nelle quali continuavano a dormire gli uni accanto
agli altri, in fondo alla chiesa,
durante la funzione.
A rotazione, una famiglia preparava il pane che il parroco
benediva e distribuiva a tutti
i fedeli alla fine della celebrazione. Un’usanza chiamata
tseretà.
Domenica.
Donne percorrono il sentiero,
la vita segnata
dal grembiule ricamato.
Una giovane con la culla
e il bambino in spalla.
Risate e canti
animano le persone in festa.
Ragazzine vezzose
e giovanotti da cui farsi notare.
I bambini invece corrono:
portano il pane al parroco!
2
24
Misteri della vita,
della morte.
Spariscono persone e saperi.
L’abbraccio dall’alto resta,
i Santi, la Vergine, Gesù
la paura sanno placare.
L’origine secentesca di molte
cappelle di villaggio trova spiegazione nella grande peste che
si diffuse in Europa nel 1630.
A Valgrisenche, il morbo contò
circa 300 morti soltanto nelle
due frazioni più basse della
parrocchia, ridusse di due terzi
l’intera popolazione della Valle
d’Aosta e scatenò il panico.
Terminato il contagio, nella
chiesa del Capoluogo fu fondata una cappella dedicata a
San Rocco, protettore contro la
peste, e diversi Vagrezèn si impegnarono a costruire opere
sacre, quali erano le cappelle,
a difesa del villaggio, dei suoi
abitanti, dei loro animali e dei
loro terreni.
Ogni cappella è dedicata ad
almeno un santo o a speciali
titoli mariani. Solitamente era
colui che aveva voluto e finanziato la costruzione a scegliere
la titolazione. L’usanza era di
ricordare un familiare con lo
stesso nome o di individuare
una protezione della quale
aveva bisogno l’abitato. La
cappella di Ceré, ad esempio,
nasce da un ex-voto di Sulpice
Moret e Cathérine Bethaz, sopravvissuti a un incendio, nel
1627. Il figlio, François Moret,
divenuto parroco del paese, la
fece erigere intorno al 1640,
grazie al contributo di Philibert
Grillon, Vagrezèn trasferitosi ad
Aosta. Per questo la cappella è
dedicata a Santa Barbara, riconoscibile nella pala dell’altare
grazie all’attributo della torre,
santa ancora oggi invocata in
caso di incendio e protettrice
dei vigili del fuoco.
Una schiera
di esili tronchi
e tra i tetti un campanile.
Santa Barbara preservi
la nostra famiglia
da morte improvvisa.
Non fuoco che distrugge,
ma fiamme che scaldano
il cuore del fedele.
Santa Barbara protegga
il nostro focolare.
4
5
Ritrovare i volti
di sempre.
Occhi luminosi,
sguardi sorridenti.
Un giorno l’anno,
ringraziare e festeggiare,
curare le radici.
Le cappelle di villaggio raccoglievano i fedeli per la devozione privata, per la recita del
rosario o per celebrazioni particolari; il rito domenicale aveva luogo invece al Capoluogo.
Ogni anno era organizzata
però una grande Messa per
venerare il santo titolare dell’edificio, nel giorno del calendario a lui dedicato: era, ed è
tutt’oggi, la festa del patrono.
La cappella è aperta e addobbata di tutto punto. La celebrazione della Messa, per opera
dal parroco di Valgrisenche, è
il fulcro della giornata, che prosegue con pranzo e musica. Il
giorno del patrono è il ritrovo,
l’unione, la festa. Il filo sicuro
che ancora lega chi non abita
più nella frazione con i suoi avi
e con chi invece è rimasto.
7
Fino agli anni Settanta del
Novecento, a Valgrisenche si
svolgevano, nei giorni antecedenti la Pentecoste, le tradizionali processioni rogatorie per
propiziare il raccolto: culti misterici antichissimi, dapprima
pagani poi inglobati nel rito
cristiano. La partecipazione a
queste devozioni era grande:
una calamità naturale o una
malattia delle piante avrebbero ridotto interi nuclei familiari alla fame, al contrario un
raccolto abbondante avrebbe
garantito la sopravvivenza per
il resto dell’anno.
Contro
i flagelli della natura
i fulmini
i terremoti
la peste
le grandinate
un rito antico,
perché i buoni semi
trovino pace
nella terra nera.
E rinascano mutati
in frutti nuovi.
Solchi leggeri
punteggiati di croci
tra i fiori devoti.
E per ogni nome un ricordo.
La vita non inosservata,
raccontata.
Visi dietro i nomi,
dietro i nomi storie.
Ascoltali, riposano in pace.
La fama e il fascino del cimitero
di Valgrisenche hanno origine
dal canonico Édouard-Clément
Bérard. Parroco di Valgrisenche
a cavallo fra Otto e Novecento,
aveva l’abitudine di comporre
poetici epitaffi a suggellare la
vita dei parrocchiani. Le qualità e i difetti di una comunità
sono immortalate in questi
versi pieni di vita. Nasce così
il camposanto di Valgrisenche:
raro luogo di preghiera e testimonianza di viva fede. A ricordare i morti parole precise, fiori
di montagna, fotografie sbiadite e semplici croci. che ogni
inverno sono spostate, perché
non restino sepolte e danneggiate dalla neve.
Tutto qui è segno di ciò che è
stato e compromesso con la
natura.
6
25
9
La tradizione vorrebbe che la peculiare forma bombata della guglia del campanile parrocchiale
di Valgrisenche rappresenti una
tiara papale, omaggio dei Vagrezèn all’antipapa Clemente
VII che autorizzò la fondazione
della parrocchia nel 1392, rendendo Valgrisenche autonoma
da Avise e Arvier.
Testimonianza della fede nel
corso dei secoli sono le preziose opere d’arte conservate nel
Museo di Arte Sacra, nato per
valorizzare il patrimonio artistico locale e per preservare gli
arredi liturgici delle cappelle
rurali da furti sacrileghi.
Foulard e cappelli
sul sagrato gremito.
Sguardi, sorrisi,
un ritrovarsi cordiale.
La forza della chiesa,
le parole, i muri, le opere d’arte,
ancora radunano la comunità.
Insieme nella celebrazione,
unita nella vita quotidiana.
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26
Finestre slanciate
di moda neogotica
e una competizione.
Nell’azzurro stellato della volta
e del manto della Madonna
sicuro è San Giuseppe patrono di Mondanges.
Suggestivo immaginare la
strada antistante la cappella di
Mondanges coperta di petali
colorati: una volta, durante la
processione del Giovedì Santo,
ai bambini era chiesto di spargere fiori lungo il percorso, per
partecipare attivamente al momento di preghiera.
Grandi e piccoli si preparavano
all’anno liturgico frequentando il catechismo la domenica
pomeriggio nella chiesa parrocchiale.
Nel 1907 fu aperto, nel Capoluogo, vicino alla chiesa,
un collegio per 24 bambini e
bambine, affidato alla gestione
delle Suore di San Giuseppe.
L’opera fu fortemente voluta
dall’allora parroco ÉdouardClément Bérard con lo scopo
di assicurare ai bambini la possibilità di frequentare le lezioni
anche durante l’inverno, senza
che dovessero affrontare tutti i
giorni il percorso innevato dal
proprio villaggio alla scuola,
garantendo loro, parallelamente, una buona educazione
cristiana. Nel 1965, lo stabile
fu distrutto da un incendio ma
poco dopo ricostruito. In questa occasione il nome cambiò
da Pensionato Béthaz a Oratorio San Grato. Le suore restarono nella struttura sino al 1977,
anno della chiusura.
Studiare,
imparare a scrivere,
parlare, contare.
Imparare un alfabeto
per conoscere
la natura,
la storia,
fuori e dentro di sé.
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Maria accudisce
chi a lei si vota
nella vallata grigia o graia.
Una cappella tra le baite
e i prati
per i pastori
per i loro figli
per chi ha cuore
di fermarsi a salutare.
La Messa domenicale non si
svolgeva nelle singole chiese di
villaggio bensì nella sola chiesa
del Capoluogo. Non era soltanto un momento di preghiera e
di affidamento a Dio: si trattava
dell’occasione migliore per incontrare l’intera comunità. Qui
i giovani, abbandonati gli abiti
da lavoro e indossato il capo
della festa, potevano scambiarsi qualche sguardo malizioso,
benché seduti in banchi separati. All’uscita, sul sagrato, potevano parlare qualche istante e
gettare le basi di rapporto che
un giorno si sarebbe potuto
trasformare in matrimonio. Le
spose non indossavano l’abito bianco, ma l’abituale cotta, confezionata unendo una
gonna e un corsetto in drap
con gancetti, abbellita da un
grembiule e da qualche nastro
di seta o di velluto e da bottoni.
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La cappella di Châtelet è un
memento delle vicende legate
alla costruzione della diga.
L’edificio fu eretto dalla SIP
nel 1959, quando le chiese
di Fornet, di Beauregard e di
Usellières erano state coperte dall’acqua. Per tale ragione
ospita molti fra gli arredi provenienti dagli edifici scomparsi, come l’altare ereditato da
Fornet o la statua di Sant’Orso
di Giovanni Comoletti, originariamente nella cappella di
Beauregard.
Anche le campane suonano la
loro precedente storia, quella
grande giunge da Fornet e le
tre piccole da Surier, da Chappuy e da Beauregard.
Quattro quinte
di montagne
affondano nell’acqua.
Una campana da Fornet,
un sant’Orso
da Beauregard,
un saint-Leger da Usellières
ricordano ciò che la diga
ha sommerso
e poi restituito.
Di tempo e di storia
parla il silenzio
di queste rovine.
Di partenze e di ritorni,
di fede e di sussurri:
che tutto vada per il meglio,
che la montagna sia buona,
che la vita non sia
troppo dura.
Santo protettore di Valgrisenche è San Grato, patrono anche
della Valle d’Aosta. Secondo
una leggenda, le reliquie del
Santo furono trafugate dalla
Cattedrale di Aosta nel 1380,
portate in Savoia e ricondotte
nel luogo originario da alcuni muratori di Fontainemore
che attraversarono il Colle del
Lago, in territorio di Valgrisenche. Da questo passaggio, il
lago fu battezzato lago San
Grato. Alcuni sostengono dal
XV secolo, altri dal XIX, il luogo
è meta della processione dedicata alla Madonna delle nevi,
che si svolge ogni 5 agosto. Si
partiva dal Capoluogo alle 4 di
mattina, alle Baite Grand’Alpe
si celebrava la Messa e giunti
al lago, se ne benedicevano le
acque.
12
27
Hai mai pensato di un tuo compagno di classe che è un orso o che
sembra un montanaro?
Molti pensano che noi di montagna siamo persone di poche parole. A parte me, che non sto
quasi mai zitta, mi sa che è vero. Parliamo poco e contempliamo molto. Magari è per questo che
siamo in armonia con la preghiera e con la poesia.
Vorrei raccontarti di un prete molto particolare, un certo Édouard-Clément Bérard, che guidò la
nostra parrocchia per tantissimi anni tra l’Otto e il Novecento. Per scoprire chi era questo personaggio e per conoscere i miei avi dovresti andare al Cimitero, vicino al Chiesa di Capoluogo.
Come? Hai paura? Non dovresti!
Il nostro cimitero è uno fra i più belli che esistano!
Fidati. È un luogo speciale, fatto di semplici croci e di tanti fiori. Qui il canonico Bérard, quello che
ti dicevo prima, scritto dei versi per ognuno dei suoi fedeli. Li puoi trovare facilmente, sono scritti
in corsivo sotto a ogni foto. Io a volte vengo qui e mi perdo a pensare alle vite di tutte queste persone, a immaginarmi che corpo c’era sotto quei volti, che storia c’era dietro a quei versi. A volte mi
distraggo tanto che si fa l’ora di cena e devo tornare a casa di corsa!
In che periodo storico avresti voluto nascere?
Disegna il tuo ritratto nell’ovale qui sotto!
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Ormai è da un po’ che cammini, volti pagine, guardi le mie montagne preferite e respiri
il profumo del bosco. Credo di potermi fidarmi di te… Sei capace a mantenere un segreto?
Prima di tutto devi dirmi se ti sei accorto delle chiesette che ci sono ai piedi delle montagne,
nei vari villaggi. Se non le hai viste, torna indietro e ricomincia tutto da capo: ti manca spirito
di osservazione. Se invece te ne sei accorto… non hai vinto niente, però possiamo andare
avanti. Nei secoli passati i Vagrezèn, hanno costruito numerosi edifici religiosi con il desiderio
di esprimere la loro fede.
Buoni motivi per costruire una cappella votiva:
1 per non rimanere bocciato a scuola
2 perché ci si è salvati da una disgrazia, come un incendio o una valanga
3 perché i raccolti siano buoni
4 per fare colpo sulla vicina di banco
5 per diventare ricco
6 per superare una malattia o un'epidemia, come la peste
7 per vincere una gara
8 perché la vita sia bella
9 altro ___________________
Molte fra queste risposte sono valide ed è stato così che sono sorte tante piccole cappelle
volute dagli stessi abitanti della Valgrisenche. Lo so che non ti ho ancora detto il segreto… ma è
prezioso quindi te lo devi guadagnare superando le prossime prove. Puoi farti aiutare dai grandi
e puoi anche cercare sui libri o su internet (le stelline corrispondono al grado di difficoltà)!
Prima prova *
Come ti chiami?
___________________
Seconda prova **
Come si chiama il tuo santo onomastico e
in quale giorno del calendario si festeggia?
Quarta prova ****
Scrivi e disegna il suo attributo (per esempio
per Pietro sono le Chiavi, per Paolo la Spada, per
Caterina la ruota, per Stefano i sassi, per Lucia gli
occhi…)
___________________
Terza prova ***
Sai dire di chi è protettore (per esempio Barbara
dei pompieri, Giuseppe da Copertino degli studenti, Sant’Alberto di Lovanio dei fornai)?
___________________
Ho pensato a questo gioco perché ogni cappella è dedicata a un santo, quello più importante è il
patrono del villaggio e si ricorda nel giorno della festa patronale, però ce ne sono anche altri, magari ricordati nei dipinti e nelle sculture conservate all’interno degli edifici. Guardando gli oggetti
che li caratterizzano li puoi riconoscere e puoi riuscire a immaginare il motivo per cui è stata dedicata loro una cappella. Ora tu mi dirai: ma io ho provato a entrare in una chiesetta ed era chiusa!
Pronti per il mio segreto? In ogni villaggio c’è qualcuno che della cappella custodisce la chiave.
Prova a guardarti intorno e a cercare, a chiedere e a bussare, se con
educazione e col sorriso domanderai, sicuramente la porta e il cuore
aprirai!
29
La guerre,
puis la paix
5
PLAN DOU BRÉ
4
ARP VIEILLE
3
ALPETTAZ
2
BONNE
1
Capoluogo
30
Il Col du Mont è una facile via di comunicazione con la Francia. Via di scambi
pacifici e commerci ma, in periodo di guerra, valico strategico per l’attacco e la
difesa. Conseguentemente, il territorio di Valgrisenche è stato oggetto di interesse militare nel corso dei secoli: base strategica per controllare i vicini rivali e via
privilegiata per raggiungere l’Italia dall’altro versante. Quella che proponiamo,
più impegnativa e in alta quota delle altre, è un’escursione che si sviluppa lungo
il tracciato dell’antica mulattiera (opera di grande precisione tecnica ben conservata), attraversa la pietraia e raggiunge la caserma del Plan du Bré. La narrazione
introduce i principali avvenimenti bellici vissuti da Valgrisenche e il modo in cui
la popolazione si è adattata o ha reagito ad essi.
Io non mi sono mai trovato
in uno scontro a fuoco,
facevo la staffetta: portare le armi
da Valgrisenche, trenta chili,
non era facile.
E non avevamo bisogno
di uomini in più,
avevamo bisogno di armi
e di avere da mangiare.
Ernesto Gerbelle
31
3
1
Mura di pietra
finestre feritoie.
Il fortino agli occhi
nasconde armi, strategie.
Destini ignoti
dormono insieme
e aspettano.
Foggia e nome del Vieux Quartier
segnano il paesaggio e la toponomastica di Valgrisenche, rendendo
manifesto un elemento costitutivo
della storia di queste montagne:
gli avvenimenti bellici. Il Vieux
Quartier è una caserma costruita
dai soldati del Regno d’Italia a partire dal 1889 come base strategica,
con lo scopo di ospitare truppe per
attaccare la vicina Francia, nel caso
fosse scoppiata una guerra. La
struttura non fu immediatamente
utilizzata ma divenne appoggio
per le milizie durante entrambe le
guerre mondiali, in particolare la
seconda. Ai tempi della costruzione della diga, Lo quartier, come lo
chiamavano i Vagrezèn, fu impiegato per alloggiare le maestranze
coinvolte nel cantiere. In seguito
la proprietà dallo Stato passò alla
Regione, secondo le linee indicate
dallo Statuto dell’autonomia, e infine dalla Regione al Comune, che
lo ha trasformato in una struttura
turistico-ricettiva, con sale museali
e spazi a uso della comunità.
A rendere Valgrisenche oggetto
di interesse militare nel corso
dei secoli è stata la posizione
strategica: il Col du Mont rappresenta infatti un facile accesso alla Francia. Già Annibale,
nel 218 a.C., avrebbe lasciato
traccia del proprio passaggio
secondo quanto testimonia il
pianoro nominato Cimitero degli Elefanti nei pressi del Rifugio
Bezzi. Il Col du Mont, punto di
accesso ai territori Oltralpe insieme al Piccolo e al Gran San
Bernardo, fu ripetutamente valicato in entrambe le direzioni.
Era impensabile che gli eserciti
sfruttassero un solo passaggio:
i generali selezionavano dunque percorsi diversi, per riunire infine le truppe in pianura,
come fece anche Napoleone
Bonaparte quando, nel 1800,
attraversò la Valle d’Aosta con
40 mila uomini per sorprendere l’esercito austro-ungarico
nemico.
Memoria salda.
Insaziabile
memoria di elefante.
Storie sepolte,
passaggi,
leggendarie traversate.
Ricordi consegnati alla terra
e al suo nome.
2
32
Non fermarsi.
Se la stanchezza
non fermarsi.
Se la paura
non fermarsi. Se la strada è da costruire,
non fermarti.
Le caserme di diversa datazione, i ricoveri sotterranei e la
mulattiera costruita dai soldati
per raggiungere le fortificazioni
di epoca napoleonica di Maison
Forte e i ricoveri militari della
Becca dei Quattro Denti sono
un segno forte, nel paesaggio,
della storia militare di questo
territorio. Oltre a raccontare l’evoluzione del pensiero strategico, queste vestigia manifestano
la sapienza ingegneristica e la
precisione costruttiva di chi le
realizzate. In campo militare
era possibile, d’altra parte, investire ingenti somme senza
risparmiare sulla mano d’opera: se ritenuto necessario, dal
quartier generale bisognava
rendere accessibile all’esercito e
ai muli da montagna, ancorché
dell’esercito, anche i cammini
più impervi.
5
Nel 1792, tremila soldati piemontesi erano registrati a Valgrisenche, inviati nel timore che
i francesi, in piena Rivoluzione,
guardassero al territorio con finalità annessionistiche.
Nel 1940, erano circa quattromila i militari accampati. Nel 1944,
giunsero i tedeschi.
A ondate, dunque, soldati italiani e stranieri sono passati e
hanno stanziato a Valgrisenche,
talvolta addirittura per anni. Le
truppe andavano mantenute. In
questa emergenza le provviste
erano destinate a consumarsi in
fretta: uomini e animali avevano
bisogno di viveri e, in alcuni casi,
anche di ospitalità. Alle conseguenze materiali, vanno aggiunte le ricadute psicologiche
e sociali: l’angoscia provata dai
Vagrezèn, consapevoli della possibilità costante di essere invasi
dalle milizie, va presa in considerazione per comprendere l’unità
e il coeso senso di appartenenza
che caratterizza questa comunità di confine.
Attraversare un segno.
Difenderlo.
Confini che disegnano,
separano, spostano.
Confini di chi abita,
decisi da altri.
Confini dove si deve stare.
Da imparare.
Contro l’insensatezza
resistere.
Dare un altro corso
alla storia.
Cambiare, la lotta più grande.
A ogni costo con fiducia
la nostra giustizia.
Nuova e migliore,
la nostra terra.
I fatti che segnarono più profondamente Valgrisenche nel
corso del secondo conflitto
mondiale si verificarono in seguito alla dichiarazione di armistizio dell’8 settembre 1943.
Ad Aosta, si costituì un coordinamento della lotta clandestina guidato da Émile Chanoux
e a Valgrisenche molti giovani,
delusi dalla guerra e dalla politica dei precedenti decenni,
accolsero con fiducia questa
possibilità di opporsi al fascismo e al nazismo attraverso la
lotta partigiana.
I Tedeschi intanto controllavano la valle e il confine. Si
formò una banda, in contatto
con quella di Saint-Nicolas, che
s’installò prima a Plan-Singin,
poi a La Plontaz.
Si organizzarono staffette per
portare cibo, armi ma soprattutto informazioni, vitali per
gli esiti della lotta di liberazione della Valle d’Aosta, che
proprio in questi mesi stava
maturando i fondamenti ideologici che avrebbero portato
la popolazione a chiedere l’autonomia. È in una missione da
Valgrisenche a Saint-Nicolas
che muore il partigiano Leone
Frassy, all’età di ventuno anni.
Riparato in una casa durante
un attacco tedesco, decide di
uscire e affrontare gli avversari
piuttosto che compromettere
la vita dell’intera famiglia che
era disposta a nasconderlo.
4
33
Tutto comincia dalla mappa.
Osservando una cartina della Valgrisenche vedrai che confina con la Francia e magari questa non ti
sembra una novità: che la Valle d’Aosta sia collocata tra la Francia, la Svizzera e l’Italia è cosa nota. Devi
però sapere che c’è un colle, che si chiama Col du Mont, che è facilmente percorribile e che collega i due
territori. Difficile dire se questa sia stata una fortuna o una sfortuna per la mia gente… I colli uniscono
o dividono?
Una volta per chi viveva a Fornet era addirittura più semplice e veloce raggiungere la Francia piuttosto
che Aosta. Si commerciava con chi abitava dall’altra parte, che era considerato un amico.
Il colle quindi è un’apertura, un varco per raggiungere una meta. Ma a volte questa meta è un territorio
da conquistare. Succede durante la guerra. Già nel 218 a.C., parte delle truppe di Annibale sarebbero
passate per il Col du Mont, insieme ai loro elefanti, per raggiungere Roma.
Come faccio a saperlo?
a
esiste un pianoro vicino al Rifugio Bezzi che si chiama “Cimitero degli Elefanti”
me lo ha raccontato il nonno del nonno del nonno del nonno del nonno del nonno
del sindaco
c l 'ho studiato sul libro di storia
b
La prima risposta è quella vera! Però è meglio se non sali lassù alla ricerca di ossa di elefante, perché
in tanti già hanno provato e per ora nessuno ha trovato nulla… Nel corso dei secoli, tanti eserciti
hanno attraversato la Valgrisenche per raggiungere la Francia o, al contrario, l’Italia. I soldati dovevano essere molto coraggiosi per affrontare le missioni che erano loro affidate, senza sapere se
avrebbero mai fatto ritorno alla loro casa. Però anche alle popolazioni che li dovevano accogliere
era chiesto molto coraggio e molta fede.
Nella seconda metà dell’Ottocento è stato costruito il Quartiere militare, come base strategica, alcuni
soldati dormivano lì, altri negli accampamenti di tende e altri ancora occupavano le case. I Vagrezèn
dovevano sfamarli: in alcuni casi erano migliaia di uomini e le provviste finivano in fretta!
Le memorie più dolorose dei miei avi riguardano l’occupazione tedesca durante la seconda
Guerra mondiale, quando a Valgrisenche si erano stanziati i nazisti per controllare proprio il Col
du Mont e quindi il passaggio della frontiera.
Ma, ormai lo sai, noi della montagna siamo forti e quindi abbiamo superato le difficoltà che ci sono
capitate nel corso dei secoli e siamo qui, uniti alle nostre montagne, a cantare la loro bellezza.
C’è qualcosa che per te è molto importante, che difenderesti a ogni costo? Potresti dedicare
qualche verso, scrivere una piccola poesia per il tuo tesoro prezioso?
Ho lasciato questo spazio per la tua sperimentazione poetica… È bianco, ma se ti piace di più
lo puoi colorare!
34
Consigli per scrivere una breve poesia:
1 scegliere l 'argomento (per esempio “la mia stanza”, “il mio giocattolo preferito”,
“la nonna”, “il torrente dietro casa”, “il gatto”, “la mia vicina di banco”…)
2 descriverlo con al massimo tre aggettivi che significhino cose diverse
3 abbinare un colore che ti sembra rappresentativo
4 essere sinceri
5 trovare un pensiero bello che vorresti condividere con un'altra persona
Se vuoi, puoi anche provare a disegnare l’oggetto protagonista
della tua poesia utilizzando i versi che hai scritto.
Sei bravissimo: questi componimenti si chiamano calligrammi!
Coincya richeri
Sbuco dalle rocce,
fiera mi tendo verso il cielo
e irriverente al sole chiedo il suo colore:
Prestami un po’ di giallo,
o Sole per favore,
donami un po’ del tuo calore!
35
Un sentier qui se fait verglas
capoluogo
GERBELLE
6
1
DARBELLEY
5
4
chez carral
36
planté
3
2
L’inverno è la stagione più dura, in montagna. Per percorrere questo sentiero
è sufficiente munirsi di ciaspole e bastoncini ma l’ingrediente fondamentale
per renderlo totalmente suggestivo è la fantasia. Bisogna infatti immaginare
un mondo nel quale gli spartineve non esistevano, come pure il riscaldamento
centralizzato e lo scaldabagno. Un mondo nel quale i bambini erano ospitati in
collegio per poter seguire le lezioni e in cui le scarse ore di luce permettevano di
svolgere poche attività. La modernità ha cancellato tutto questo, che comunque
non deve essere letto come sofferenza, bensì nella ricerca di tutte le soluzioni
ingegnose che erano messe in campo per far fronte alle avversità.
L’inverno era lungo e freddo,
c’era neve. E il problema
del forno era trovare la legna: tutti i giorni
bisognava andarla
a cercare, portarla con la slitta
e se era bagnata farla asciugare.
Vincent Bethaz
37
1
Cambia il ritmo
con la neve.
I passi lenti
cercano nuovi appoggi.
Pioniere del sentiero,
buon viaggio.
Respira l’aria dell’inverno e ascolta.
Il rumore della neve
non è silenzio.
Durante l’inverno, il ritmo quotidiano rallentava.
Adulti e bambini trascorrevano molto tempo, nelle stalle,
a tessere o a produrre oggetti
agricoli e artigianali. In autunno, si cuoceva il pane fatto con
la farina di segale coltivata in
loco. Doveva durare per tutto
l’anno.
Ogni villaggio aveva il proprio
forno e le famiglie si organizzavano in turni per sfruttare al
meglio l’accensione del fuoco.
Alla fine degli anni Quaranta,
la famiglia Bethaz decise di
dedicarsi alla panificazione
professionale: non avevano
un negozio e consegnavano il
pane bianco quotidianamente
agli acquirenti, trasportandolo
sul carretto o sulla slitta.
3
Le scorte alimentari per affrontare l’inverno si creavano prima
dell’autunno.
Si mettevano da parte le patate (coltivate in abbondanza in
specie a Fornet), i cavoli, i porri e le cipolle che ancora oggi
popolano gli orti delle frazioni.
L’allevamento garantiva latte,
burro e formaggi. Il surplus era
barattato, in novembre, con gli
abitanti dei comuni a valle che
offrivano in cambio riso, farina
di mais e castagne. La frutta
scarseggiava. Una volta l’anno
si macellava un grosso capo di
bestiame: un vitello, un maiale… Parte della carne andava
sotto sale, con il resto si insaccavano salsicce e budini. Non
c’era il frigorifero, un locale accanto alla casa era allora destinato a ghiacciaia e permetteva
di conservare il cibo.
Linee spezzate,
conducono lo sguardo,
i tetti del villaggio,
le vette contro il cielo.
Il fumo dalle stufe.
Cambia il sapore
con la neve.
2
38
Ore nella stalla
a gustare il tepore,
le guance rosse
Il pane dell’autunno.
Storie,
fili da tessere,
fiato che protegge.
Cambia il battito
con la neve.
In inverno si viveva nelle stalle,
dove gli animali riscaldavano
l’ambiente.
La sera, la famiglia saliva al
piano superiore, nel péillo: una
stanza spesso ma non sempre
riscaldata da una stufa, dalla quale l’ambiente prende il
nome. Per combattere il freddo, la notte, si utilizzavano gli
scaldaletti, riempiti con la brace del focolare e più persone
condividevano il medesimo
letto.
Il nucleo familiare era allargato
e le generazioni si mescolavano: i bambini vivevano con i
genitori ma anche con i nonni,
gli zii. Ogni casa era una piccola comunità.
5
Non tutti gli animali entrano
in letargo, in inverno: caprioli,
cervi e volpi restano in attività
grazie al grasso accumulato in
estate e all’infoltimento della
pelliccia.
Durante una passeggiata invernale, si possono avvistare
lepri, ermellini e pernici bianche, il cui colore favorisce il mimetismo. Alzando lo sguardo,
con un po’ di fortuna, vedrete
la maestosa aquila reale. E se
gli abitanti del bosco si nascondono agli occhi dei bambini, si
può provare a riconoscere le
orme che hanno lasciato sulla
neve!
Che colore ha la neve
se la illumina la luna?
L’aria di ghiaccio,
le stelle accese
amano gli ermellini,
misteriosi e schivi
abitanti della notte.
Cambia il passo
con la neve.
4
Da tempo immemore
affrontare il cammino.
La neve acconsente:
si lascia attraversare.
I chiodi frenano
le suole.
La via più breve
fra due punti innevati.
A Valgrisenche l’inverno era
lungo, la neve era abbondante
e la temperatura raggiungeva
i 18 gradi sotto lo zero. Il territorio era particolarmente soggetto a slavine e restava talora
isolato, anche per giorni o settimane.
Prima della costruzione della
diga, esisteva a fondo valle una
strada che collegava Fornet al
Capoluogo: il percorso aggirava le valanghe, passando da un
versante all’altro. Chi doveva
spostarsi e camminare a lungo,
per recarsi alla latteria turnaria
ad esempio, faceva tappa nelle
stalle lungo la via per riscaldarsi e ristorarsi.
In estate come in inverno, i muli
erano deputati al trasporto di
prodotti e di persone. Per aprire
un varco nella neve e rendere
percorribile una strada si legava all’animale un tronco, o un
triangolo. Il mulo, procedendo
nella neve, tracciava la via. Così
il percorso per andare a scuola,
a Messa o per spostarsi in caso
di emergenza, era battuto. Il resto era affidato all’attenzione,
all’equilibrio e ai chiodi sotto la
suola dei sabot. E quando non
era possibile mandare in avanscoperta i muli si rimaneva a
casa oppure si attraversava la
neve fresca.
Scivolare, correre,
lasciarsi andare.
Immaginare forme,
scoprire altre velocità.
Conoscere il peso,
scavare passaggi,
coltivare amori.
Cambiano i giochi
con la neve.
6
39
L’inverno non era affatto uno scherzo, qui a Valgrisenche. Nevicava.
Come nevicava in tutti gli altri villaggi di alta montagna, dirai tu.
Certo che era così. Come dalle altre parti. O forse un po’ di più. I
nostri vecchi raccontano che una volta nevicava più di oggi. E io credo
ai nostri anziani, sono loro i testimoni del mio passato!
Lo vedi questo spazio bianco? No… non è un errore, non ci siamo dimenticati di scrivere. Quello
è il mio villaggio sommerso dalla neve e dalla valanga che è caduta su alcune case… per questo
ora non si vede più.
Mi aiuti a riportarlo alla luce? Nella vita vera ci sarebbe bisogno di tanto sole e di molte pale, ma
in questo gioco ti basterà unire i puntini tra loro per scoprire dove abito!
Hai mai notato che cambiano i suoni con la neve? Tutto sembra più ovattato! Se hai la fortuna di
svegliarti una mattina presto dopo la nevicata, prova a uscire e a chiudere gli occhi, che cosa senti?
Scrivi qui tre aggettivi per descrivere questo spazio quasi magico!
___________________
___________________
Torniamo al passato di Valgrisenche.
___________________
Ti ricordi la promessa che mi avevi fatto prima, di dimenticare negozietti e market? Ecco, adesso
devi dimenticare anche le macchine e le strade asfaltate.
Già, non esistevano queste comodità e così Valgrisenche rimaneva isolata per alcuni mesi, tra dicembre e febbraio, a seconda di quanta neve cadeva e di quanto tempo ci metteva a sciogliersi.
40
Tu come avresti affrontato questo periodo dell’anno?
a
b
c
trasferendoti al mare
inventando un macchinario per sciogliere la neve
mettendo da parte tutte le provviste di cibo e di legna per superare i mesi più duri
Questa è una risposta facile, hai già ottenuto alcuni suggerimenti dal percorso sull’allevamento.
Ecco ora puoi capire perché era necessario essere previdenti: era bene non farsi cogliere impreparati all’arrivo dell’inverno, era proprio questione di vita o di morte.
Nei mesi invernali si tesseva il drap e s’intagliava il legno. I bambini andavano a scuola e, per
loro, era stato aperto un collegio nel Capoluogo. Non devi pensare che si restasse chiusi in casa
o nella stalla: si andava alla fontana a lavare i panni, quando c’era il sole. Si andava a Messa, la
domenica. Si giocava a palle di neve. Si portava il latte alla latteria turnaria. Per questo era necessario pulire i sentieri e le strade per unire i villaggi tra loro e a Capoluogo. Sotto le suole delle
scarpe si mettevano dei chiodi, per non scivolare. E poi…
COSA TI SERVE PER BATTERE UN SENTIERO
• 1/2 muli
• 1 triangolo di assi di legno, si intenda triangolo equilatero di lato almeno un metro
• 20 pietre o più
• 1 grande sacco
• Corde quanto basta
Ahimè anche questo è un gioco che non puoi fare da solo!
Quindi si costruiva un triangolo con le assi, se possibile si fissava anche una lamiera nel lato della
base, si mettevano le pietre in un sacco e il sacco nel triangolo. Il vertice era legato grazie a delle
corde al mulo che, da bravo mulo, tirava e faceva tutto il lavoro! Tu vorresti un mulo come animale domestico? Non sto scherzando, ti sembrerà una scelta buffa, ma un tempo chi possedeva un
mulo era fortunato… i muli erano utilizzati per il trasporto, per arare la terra, per battere i sentieri
e hai già letto fra queste pagine che facevano parte persino dell’esercito!
Lo sci e gli sport
invernali arrivano in
un’epoca successiva,
invece…
Mi hanno raccontato
che, nella nostra
vallata, il primo uomo
a possedere un paio
di sci abitava a Surier
e se li era costruiti di
legno, copiando dalle
fotografie pubblicate
nel bollettino del Club
Alpino Italiano.
41
In copertina
Photo d'ouverture
Carte postale, 1934
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Domaine
Élevage :
nourriture et
affection
Un drap pour
réchauffer
le corps et l 'âme
1.
Octave Bérard, 1961
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
1.
Octave Bérard, 1954
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
2.
Octave Bérard, 1950
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
2.
René Willien, 1970
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
3.
Octave Bérard, 1950
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
4.
René Willien, 1965
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
5.
Octave Bérard, 1950
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
6.
Octave Bérard, 1961
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
3.
René Willien, 1970
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
4.
Jules Brocherel, 1930
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Brocherel-Broggi
Avant et après
le barrage
1.
Octave Bérard, 1956
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
2.
René Willien, 1960
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Willien
3.
Octave Bérard, 1958
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
4.
Carte postale, 1961
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Domaine
5.
Octave Bérard, 1959
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Bérard
6.
Jules Brocherel, 1920
Région Autonome
Vallée d’Aoste
Archives de l’Assessorat
de l’éducation et de la
culture
Fonds Brocherel-Broggi
Une foi qui se
fait art
1.
Carte postale, 1928
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Domaine
2.
Margherita Angeli, Anna
Gerbelle, Valgrisenche,
45e Concours Scolaire
Patois «Abbé JeanBaptiste Cerlogne»,
Aoste, ITLA, 2007, p. 34
3.
René Willien, 1970
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
4.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
5.
Carte postale, 1940
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Baccoli
6.
Giuseppe Lucca, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Lucca
7.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
8.
Carte postale, 1939
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Domaine
9.
Octave Bérard, 1948
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
10.
Octave Bérard, 1948
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard 11.
Octave Bérard, 1952
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
12.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
13.
Octave Bérard, 1949
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
La guerre,
puis la paix
Un sentier qui se
fait verglas
1.
Valgrisenche,
vers 1880
Archives Institut
d’histoire de la
Résistance et de la
société contemporaine
en Vallée d’Aoste,
AIHRVdA, Aoste
1.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
2. Valgrisenche,
vers 1880
Archives Institut
d’histoire de la
Résistance et de la
société contemporaine
en Vallée d’Aoste,
AIHRVdA, Aoste
2.
Octave Bérard, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
3. Haut du Valgrisenche,
d’après la fin de la
Seconde Guerre
Archives Institut
d’histoire de la
Résistance et de la
société contemporaine
en Vallée d’Aoste,
AIHRVdA, Aoste
Fonds Andrea Pautasso
« Bert »
4. Haut du Valgrisenche,
1944
Archives Institut
d’histoire de la
Résistance et de la
société contemporaine
en Vallée d’Aoste,
AIHRVdA, Aoste
Fonds Andrea Pautasso
« Bert »
5. Fornet, 1944
Archives Institut
d’histoire de la
Résistance et de la
société contemporaine
en Vallée d’Aoste,
AIHRVdA, Aoste
Fonds Andrea Pautasso
« Bert » 3.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
4.
René Willien, 1960
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Willien
(Centre d’Etudes
Francoprovençales)
5.
Octave Bérard, 1954
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
6.
Octave Bérard, 1948
Région Autonome Vallée
d’Aoste
Archives de l’Assessorat de
l’éducation et de la culture
Fonds Bérard
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