La missione dell’università
Salvatore Claudio Sgroi
U
n “libretto” impegnato,
“militante” (si sarebbe
detto un tempo), questo
di Giovanni Ruffino, non meno
che di scrittura “creativa”, che si
legge decisamente d’un fiato (ma
che va anche ripercorso, meditando sui problemi posti). I 19
pezzi che lo compongono, apparsi per lo più sul quotidiano
“La Repubblica”, vertono tutti su
temi centrali della società, della
scuola, dell’università (siciliana e
italiana), variamente intrecciati,
analizzati e passibili di soluzione
per l’Autore solo in prospettiva
politica.
Un testo che ho iniziato a
scoprire dall’ultimo “pezzo”, che
dà il titolo al volumetto: Il paese
degli specchi. Seguito da un sottotitolo eloquente: “Una fiaba*
per i bimbi di oggidì”. (Nella premessa si precisa che la fiaba fu
scritta “all’inizio dell’infezione
berlusconiana”). L’asterisco rinvia a sua volta a una nota:
“Gierre dedica questa fiaba ai
nipotini del grande fratello (o, se
si preferisce, all’illustre cerretano)”. Cerretano, si chiarisce (per
“i bimbi”?) in prospettiva storicoetimologica in una finale dotta
“Nota linguistica”, “è la forma
antica (e antiquata) di ciarlatano,
parola ricostruita per etimologia
popolare su ciarla ‘discorso vano, chiacchiericcio’”, ulteriormente illustrata per oltre due
pagine all’interno del campo
semantico, indicato con neologismo derivazionale, dell’“imbro-
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glioneria”. Quanto all’identificazione del cerretano, del ciarlatano, dell’imbroglione, ogni riferimento alla attuale (o appena trascorsa) stagione storico-politicoculturale non sembra casuale,
ma come è proprio del genere
letterario (e fiabesco) è lasciato
all’intelligenza del lettore. (Ai
“cerretani attualmente imperversanti nelle nostre contrade” l’A.
ritorna nel “pezzo” dedicato a
“Gli animali e la giustizia loro
dovuta”).
Come ogni “fiaba” degna di
questo nome, il racconto inizia
con “C’era una volta”, e si colloca in un luogo e un tempo astorici. La voce narrante (che alterna in seconda e in terza persona)
avverte che ci troviamo a “Speculònia” (altro neologismo derivazionale con suffisso -ia particolarmente produttivo in epoca
fascista) ovvero “paese di specchi”. A Speculònia gli abitanti
“praticavano una speciale forma
di Speculazione” in cui cioè la
comunicazione aveva luogo “solamente attraverso le immagini
riflesse”, presumendo così “di
eliminare l’angoscia generata
dalla conoscenza di sé”. A Speculònia “la coscienza” è stata
bandita. L’espressione “mettersi
una mano nella coscienza” o
“passarsi la mano sulla coscienza” non aveva lì insomma alcun
senso. Personaggi della fiaba
sono: Loki “entità crudele e malvagia” e “vanìdico ingannatore”
che ha soggiogato la comunità,
Endàch ed Endache “esseri non
malefici” che si amano, ovvero
“Romeo e Italia”, Iel “fanciulla di
rara bellezza” e uno “straordinario vegliardo”. L’incantesimo è
rotto da Iel che libera la comunità dalla “più folle alienazione”
e “totale sottomissione”. Speculònia si trasforma quindi in
Oculònia, in cui cioè ci si specchia guardandosi dritto negli
occhi.
Se questa è la scatola vuota
ma fantastica del volumetto, gli
specifici contenuti, legati alle
vicende storico-culturali della
Sicilia e dell’Italia di questi ultimi anni, si ritrovano nei precedenti brevi capitoli, nati in occasioni diverse. L’“Indice dei nomi”
consente di ritrovare puntualmente i personaggi (a volte purtroppo) noti o (a volte immeritatamente) meno noti, di volta in
volta ricordati.
Un intervento centrale dal
nostro punto di vista è quello su
Università degli Studi e spot televisivi, tanto più in quanto proviene da un docente con responsabilità di gestione come preside
della facoltà di Lingue dell’università di Palermo, oltre che ben
noto dialettologo ideatore del
grande Atlante linguistico della
Sicilia. Una volta prese le distanze dalla concezione idealistica
dell’università come luogo astratto della ricerca senz’alcun collegamento con quanto avviene nel
mondo, e d’accordo con pensatori quali Ortega y Gasset e
libri e dintorni
Edgar Morin, secondo cui l’università deve trovare un punto di
raccordo con la società, G. Ruffino mette in guardia dall’idea di
una “Università come soggetto
prevalentemente economico” e
quindi da “una concezione marcatamente professionalizzante
dei percorsi formativi”.
Gli obiettivi della riforma universitaria in sé accettabili sono
lungi dall’essere stati raggiunti,
così per quanto riguarda (i) “la
maggiore autonomia nelle scelte
didattiche”, (ii) “l’ampliamento e
flessibilità dell’offerta formativa”,
diventata spesso “ipertrofica e
velleitaria”, (iii) “la riduzione dei
tempi per il conseguimento dei
titoli, con ancora troppi fuoricorso”, (iv) “l’incremento dei laureati”, tutto da vedere.
Il “parziale insuccesso della
riforma” è ricondotto da G. Ruffino a cause diverse: (i) di ordine
politico-finanziario: “scarso sostegno finanziario all’università
statale”, che – possiamo aggiungere – sembra piuttosto oggetto
di un sottile e profondo smantellamento, favorito da “una politica dissennata e mortificante dell’attuale governo”, e (ii) di ordine
culturale: debole collegamento
fra didattica e ricerca, prevalenza di corporativismi accademici.
La terapia per G. Ruffino
dovrebbe essere quella di eliminare tali disfunzioni, nella fattispecie (i) riducendo i “troppi
corsi di laurea” a favore degli
accorpamenti, (ii) restringendo il
numero delle “troppe discipline
e i troppi esami” paradossalmente cresciuti con la riduzione
della durata degli studi, la modularizzazione rivelatasi micidiale,
almeno per certe discipline umanistiche, (iii) correggendo “la
troppa compressione delle attività e delle verifiche” con 3-4
discipline a semestre; (iv) limitando il numero delle sessioni di
esami, ormai a ritmo incalzante,
che hanno potenziato l’immagine dell’università-esamificio, (v)
contenendo la “troppa competitività” tra le varie università, di
cui un aspetto appariscente è la
sponsorizzazione attraverso la
TV: la corsa all’accaparramento
degli studenti non può essere la
preoccupazione dominante delle
università, delle facoltà, dei corsi
di laurea, dei dipartimenti, dei
singoli docenti. Una “mentalità
mercantile” rischia seriamente di
compromettere la pianificazione
della vita culturale, soggetta
come è a mode effimere. E pur
tuttavia G. Ruffino è ben consapevole che gli sforzi di un singolo ateneo necessitano per una
buona riuscita di un quadro politico nazionale stabile e ben
orientato.
La scuola e l’università devono dare non solo informazioni
ma formazione ai futuri cittadini
sviluppando in loro una coscienza critica. È questa l’idea al centro dell’intervento Responsabili
di ciò che accadrà. Dinanzi alla
richiesta di un bravo studente di
avere lezioni senza “alcuna contaminazione” con le vicende del
Paese, nella fattispecie, con il
problema della guerra, Ruffino
rivendica, con Ortega y Gasset,
intellettuale non certamente di
sinistra, quale missione dell’università, quello di “essere aperta
anche alla piena attualità, [...] di
stare in mezzo ad essa, immersa
in essa”. Più in generale, G.
Ruffino rivendica il dovere in
“una Università della esperienza
e della conoscenza – laica e
aperta [...] di inciampare nelle
cose ‘pesanti’”. Con Goethe,
ricorda che “‘tutto nel tutto s’intesse’: la dittatura mediatica, la
violenta incomprensione delle
dinamiche multiculturali, e [...] il
programmato tentativo di mortificare la Università pubblica e la
ricerca”. In conclusione, “noi,
ora, siamo responsabili di ciò
che accadrà”.
Ne L’ideologia del portfolio,
gli immigrati e la lingua, come
efficacia politica linguistica G.
Ruffino propone a una classe
dirigente degna di questo nome
(non “piazzisti della politica”) 4
misure: (i) rafforzare gli istituti
italiani di cultura all’estero, (ii)
sostenere le cattedre di lingua
italiana all’estero, (iii) avallare
politiche di sostegno a livello
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libri e dintorni
regionale, (iv) favorire l’insegnamento dell’italiano agli stranieri,
così massicciamente presenti
nella società italiana (circa
250mila sono gli studenti stranieri iscritti nelle nostre scuole). E
che l’università si ponga come
obiettivo la formazione di docenti di Italiano L-2 appare quindi un obiettivo scientifico di tutto
rispetto, non meno che di grande
impegno culturale, sociale e
politico.
In Calderoli e l’Università di
Bengasi Ruffino ha quindi buon
gioco nel ridicolizzare recenti e
pericolose provocazioni dell’exministro leghista, o certe alleanze siculo-leghiste, e nel sottolineare la rilevanza politico-culturale di corsi di laurea in italianistica in università straniere, come quello recentemente creato
dall’università di Palermo con
l’università di Bengasi.
Ne La bandiera e la lingua,
contro il grottesco leghismo bossiano dialettofilo anti-italiano,
l’autore ricorda la grande tradizione Ascoli - Gramsci - don
Milani - De Mauro sulla formazione della lingua nazionale: dinamico strumento aperto alle
molteplici tradizioni locali.
Non meno significativi sono i
due interventi centrati sui giovani,
l’uno Dedicato a Marco Ferreri,
brillante studente di lettere che
inaspettatamente “volle chiudere
le porte alla vita”, l’altro relativo
ai Call Center sul lavoro giovanile
instabile e precario di laureati e
non, precarizzazione dovuta alla
ristrutturazione produttiva e favorita dall’assenza di una vera classe dirigente.
Non meno coinvolgenti sono
altri interventi relativi a vicende
di collusione tra mafia e politica
e Chiesa: (i) Dedicato a ‘Ntoni
Sapienza, maestro-contadino e
consigliere comunale, associato
a Peppino Maniaci e Peppino
Impastato, vittime della mafia; —
(ii) Cave e mafia: incredibile cronistoria di una vicenda ammini-
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strativo-giudiziaria per la chiusura di una “coltivazione di cave”
alla fine boicottata in barba alle
pur vigenti leggi; – (iii) Cantalamessa e la conversione del
mafioso: in occasione del pentimento di E. S. Brusca e del suo
confessore R. Cantalamessa, e
del funerale di un mafioso.
Particolarmente istruttiva è la
Cronaca di un Consiglio Comunale di Terrasini nel resoconto
fatto da uno studente di scuola
media, testimone con la classe di
una seduta comunale, fedelmente riportato dall’autore. Un
“tema” nel tipico italiano popolar-regionale della Sicilia, pieno
cioè di usi marcati (“erroracci” in
un’ottica puristica in quanto usi
diversi dall’italiano formale) a
livello testuale, di macro- e
microsintassi, di morfologia, di
ortografia e di lessico. Ma un
testo di grande efficacia comunicativa, a volte perfino ironico, e
di intelligenza critica del suo
estensore. (Un modello che potremmo consigliare al tranquillamente “dimenticabile” Camilleri). Solo qualche es.: “[I conziglieri: ma il soggetto è endofasicamente omesso ed è menzionato solo successivamente] Erano
tutti movimentati che pareva che
avevano i morroiti”; “Clemente
[...] che era sinnaco [...] mentre
parlava si vedeva che si sforzava
di piangere ma non ci arrinisceva e allato a lui ce nera un’altro
[...], però mi parve più serio perchè non si sforzava di piangere”.
Una denuncia indiretta della
insufficienza della nostra scuola,
che non ha certamente fatto
passi avanti grazie anche alla
politica scolastica (e universitaria) di quest’ultimo lustro.
Degli altri interventi ci limitiamo qui a riportare rapidamente i titoli: (i) Confini: sul contrasto
tra Cinisi e Terrasini (prov. di
Palermo) per la definizione di
limiti amministrativi ovvero delle
“aree di confini”, scambiate per
“aree di frontiera”, quasi “una
guerra”!; (ii) Cala Rossa a proposito di vari scempi paesaggistici;
(iii) Il sentimento dei luoghi: su
un testo di storia locale e cultura
popolare di Terrasini, autore Ino
Cardinale, volto a ravvivare braudelianamente “il sentimento della propria identità collettiva” grazie alla memoria dei luoghi,
delle cose, del proprio dialetto.
Un compito che G. Ruffino, giustamente rivendica alla scuola;
(iv) La Sicilia secondo Renée
Rochefort, autrice di un pionieristico testo su Le travail en Sicile.
Etude de géographie sociale
(1961) tradotto con un ritardo di
oltre quarant’anni.
Per un “battezzato non credente”, quale si definisce G. Ruffino, il lettore sarà colpito dalla
presenza di interventi quali: (i)
Da Carlo Maria Martini a Matteo
Brigandì sul problema dei noncredenti, degli islamici, dei diversi (e in genere dei seguaci
delle altre religioni) per il Cristianesimo; e ancora una volta il
ruolo della scuola; (ii) Gli animali e la giustizia loro dovuta: “il
cristianesimo – evidenzia G.
Ruffino – ha sviluppato una concezione antropocentrica, in forte
contrasto con il paganesimo antico e con le religioni dell’Asia,
ponendo una divisione netta e
invalicabile tra l’uomo e l’insieme della natura”, ovvero “Distruggendo l’animismo pagano,
si è di fatto reso giustificabile lo
sfruttamento della natura in un
clima di indifferenza”. Ruffino si
pone quindi da “non credente” il
problema dell’amore: “ammesso
che gli uomini non possano vivere senza amore, è possibile vivere una vita di amore senza viverla nella consapevolezza di una
realtà trascendente [...]?”.
Pietre che scrosciano è infine
un affascinante capitolo sulla
nozione di pietra e silenzio in
un’ottica linguistica, antropologica, mitologica, biblica e politica, alla cui lettura rinviamo chi
sia curioso.
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