bollettino
d’informazione
sui farmaci
SPED. IN ABB. POST. ART. 2, COMMA 20/C,
LEGGE 662/96 - FILIALE DI ROMA
PROTOCOLLO DI MONITORAGGIO
DEI PIANI DI TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
PER LA MALATTIA DI ALZHEIMER
bollettino
d’informazione
sui farmaci
ANNO VII - N. 3 MAGGIO-GIUGNO 2000
Ministero della Sanità
Dipartimento per la valutazione
dei medicinali e la farmacovigilanza
Medicina basata sulle evidenze (EBM)
e pratica clinica
30
DALLA CUF
30
3
5
ACE-Inibitori e nefroprotezione
Variazioni e/o integrazioni di alcune
Note-Cuf
Programma di revisione per il biennio
2000-2001 di medicinali registrati da più
di 10 anni
6
Si informa che è a disposizione di tutti gli
interessati il nuovo sito internet:
8
➣ Progetto CRONOS
➣ Documentazione sulla malattia
di Alzheimer
➣ Forum medici e soggetti coinvolti
nella gestione della malattia (caregiver)
➣ Dialogo informativo in rete
➣ Media Center
ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO
19
26
27
28
29
Cisapride: limitate le indicazioni
terapeutiche e prescrizione riservata ai
centri ospedalieri
Prodotti a base di Iperico (Hypericum
perforatum): rischio di interazioni con
altri medicinali
DALLA SPERIMENTAZIONE
ALLA PRATICA CLINICA
32
AGGIORNAMENTI
www.alzheimer-cronos.org
dedicato all’assistenza socio-terapeutica dei
malati di Alzheimer; in sito offre:
FARMACOVIGILANZA
EDITORIALE
1
Helicobacter pylori e dispepsia non
ulcerosa
ABC DEGLI STUDI CLINICI
Ribavirina–Interferone: una terapia per
l’epatite cronica C
La resistenza agli antimicrobici oggi:
momenti e prospettive di intervento
38
40
Gli end point surrogati
Prescrivere in base ai numeri
DALLA LETTERATURA
42
Informazione sui farmaci ed educazione
sanitaria: le iniziative editoriali
44
La spesa farmaceutica nel 2000:
andamento nel primo quadrimestre e
proiezione a fine anno
Quale ruolo può avere l’acido
acetilsalicilico nella profilassi della
trombosi venosa profonda?
Rischi correlati ad ipertensione sistolica
isolata nell’anziano: il trattamento
antipertensivo appare giustificato
Ipertensione e terapia antipertensiva, fattori
di rischio di diabete mellito di tipo 2?
La somministrazione perioperatoria di
ossigeno riduce l’incidenza di infezione
delle ferite chirurgiche
MINISTERO DELLA SANITÀ
DIPARTIMENTO PER LA VALUTAZIONE
DEI MEDICINALI E LA FARMACOVIGILANZA
NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO
FARMACOUTILIZZAZIONE
BOLLETTINO D’INFORMAZIONE SUI FARMACI
Bimestrale del Ministero della Sanità
Direttore scientifico:
Dott. Luigi Bozzini
Comitato scientifico:
Prof. Dino Amadori
Dott. Marco Bobbio
Dott.ssa Franca De Lazzari
Dott. Marino Massotti
Prof. Nicola Montanaro
Dott. Michele Olivetti
Prof. Luigi Pagliaro
Prof. Paolo Preziosi
Dott. Alessandro Rosselli
Prof. Alessandro Tagliamonte
Redattore capo:
GLOSSARIO
EER (Experimental Event Rate)
Numero percentuale di eventi osservato nel gruppo randomizzato al trattamento in sperimentazione.
CER (Control Event Rate)
Numero percentuale di eventi osservato nel gruppo di controllo.
IC 95% (Intervallo di confidenza 95%)
Il concetto di base è che gli studi (RCTs, meta-analisi)
informano su un risultato valido per il campione di pazienti
preso in esame, e non per l’intera popolazione; l’intervallo
di confidenza al 95% può essere definito (con qualche imprecisione) come il range di valori entro cui è contenuto,
con una probabilità del 95%, il valore reale, valido per l’intera popolazione di pazienti.
Dott. Filippo Castiglia
Indicatori di riduzione del rischio di eventi sfavorevoli
Redazione:
Dott. Renato Bertini Malgarini
Dott.ssa Emanuela De Jacobis
Dott.ssa Francesca Tosolini
ARR (Absolute Risk Reduction)
Riduzione assoluta del rischio di un evento sfavorevole nei
pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto a quelli di controllo. Corrisponde alla formula:
[CER - EER]
NNT (Number Needed to Treat)
Numero di pazienti che devono essere trattati per prevenire
un evento. Corrisponde alla formula:
[1/ARR]
arrotondando per eccesso al numero intero.
RRR (Relative Risk Reduction)
Riduzione relativa del rischio di un evento sfavorevole nei
pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. Corrisponde alla formula:
[CER – EER]/CER
OR (Odds Ratio)
Rapporto fra la probabilità di un evento nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione e la probabilità
nei pazienti di controllo. E’ un altro indice di riduzione relativa del rischio di un evento nei pazienti randomizzati al
trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli, e corrisponde alla formula:
[EER / 1 - EER] / [CER / 1 - CER]
OR è approssimativamente uguale a RRR se il rischio di
base nei controlli è basso (<10%); se il rischio di base è
alto, OR tende a valori costantemente più lontani dall’unità
rispetto a RRR.
Per varie ragioni, compresa la scarsa comprensione dei clinici, l’uso di OR dovrebbe essere abbandonato, e difatti OR
non è più riportata nel glossario di Best Evidence (BMJ) e di
ACP Journal Club (Ann Intern Med).
Indicatori di aumento della probabilità di eventi
favorevoli
ABI (Absolute Benefit Increase)
Aumento assoluto del beneficio terapeutico nei pazienti randomizzati al trattamento sperimentale rispetto ai controlli.
Corrisponde alla formula:
[EER - CER]
NNT (Number Needed to Treat)
Numero di pazienti da trattare per ottenere un beneficio terapeutico in un paziente. Corrisponde alla formula:
[100 / ABI]
RBI (Relative Benefit Increase)
Aumento relativo del beneficio terapeutico nei pazienti randomizzati al trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. RBI corrisponde alla formula:
[EER – CER] / CER
Indicatori di aumento del rischio di eventi sfavorevoli
ARI (Absolute Risk Increase)
Aumento assoluto del rischio di una reazione avversa nei
pazienti che ricevono il trattamento sperimentale rispetto ai
controlli. ARI corrisponde alla formula:
[EER – CER]
NNH (Number Needed to Harm)
Numero di pazienti che devono sottoporsi al trattamento
perchè si manifesti una reazione avversa. Corrisponde alla
formula:
[100 / ARI]
RRI (Relative Risk Increase)
Aumento relativo del rischio di una reazione avversa nei pazienti che ricevono il trattamento in sperimentazione rispetto ai controlli. Corrisponde alla formula:
[EER – CER ]/ CER
EDITORIALE
Medicina basata sulle evidenze (EBM)
e pratica clinica
La mente umana come il paracadute: funziona al meglio quando è aperta
(Charlie Chan)
Per secoli l’arte medica è stata autoreferenziata. Fino
all’inizio del XX secolo, nonostante i progressi scientifici, la classe medica non era matura per recepire la
potenzialità della sperimentazione che metteva in discussione il sapere insegnato nelle scuole di Medicina,
l’autorità dei professori e il potere della corporazione.
Era buon medico chi, forte di una buona conoscenza fisiopatologica e di una grande esperienza, ipotizzava l’efficacia di un provvedimento terapeutico. Spesso
era la sua autorità che ne garantiva l’efficacia.
Il secolo XX, segnato da due grandi protagonisti scienza e democrazia - ha assistito al passaggio da una
medicina basata sull’autorità a una medicina basata
sulle prove di efficacia.
Con la comparsa e la diffusione dei trial clinici si è
richiesto ai vari momenti diagnostici e terapeutici della
medicina una conferma oggettiva della loro validità. La
rigorosa metodologia alla base dei trial clinici randomizzati ha garantito la comparabilità dei trattamenti e
ha sancito l’utilità di certi farmaci o completamente
affossato altri che fino ad allora erano considerati efficaci.
Con l’esplosione tecnologica e della ricerca farmacologica e nel contempo con l’accresciuta consapevolezza della limitatezza delle risorse, le autorità sanitarie
dei vari paesi hanno maturato la necessità di selezionare gli interventi più validi, in modo da ottimizzare il
rapporto costo/beneficio.
È su queste basi generali, in sintesi, che è nata e si è
sviluppata la medicina basata sulle evidenze. C’è chi, a
questo proposito, ha entusiasticamente affermato: “La
libertà clinica è morta e nessuno si rammarica della perdita” (1).
Purtroppo la realtà non è, e non può essere, così semplice. La medicina basata sulle evidenze ha offerto ai
medici un sicuro strumento di lavoro perché ha offerto
la possibilità di selezionare i presidi e i rimedi più validi fra i tanti che vengono proposti. I medici hanno
cominciato ad orientarsi in mezzo a termini come riduzione del rischio assoluto e relativo, intervallo di confidenza, numero di pazienti che devono essere trattati per
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
prevenire un evento, ecc., vincendo antiche consuetudini e reticenze, fondate soprattutto sulla convinzione,
a lungo tramandata, che l’arte medica poggia solo sulle
conoscenze e sull’ esperienza del singolo medico e
qualsiasi “suggerimento esterno” è una coercizione
che limita la libertà di agire nell’interesse del paziente.
Oggi, sia pure faticosamente e fra molte contraddizioni, si sta affermando una pratica che cerca nelle prove
scientifiche una legittimazione.
Il medico quindi si può trovare in aree della pratica
diagnostica e terapeutica che hanno chiare indicazioni
in senso positivo o negativo derivanti dai trial clinici.
Queste costituiscono la base delle sue decisioni. Molte
altre situazioni cliniche, purtroppo, non dispongono di
tali indicazioni e le decisioni devono pertanto maturare in un’area di incertezze scientifiche (“zona grigia”).
Inoltre, e non ultimo, sono ben noti i limiti che i trial
hanno di fronte alla medicina del singolo. Ad esempio,
un trial ci dimostra che su cento pazienti trattati con un
determinato farmaco, dieci trarranno un beneficio concreto; gli altri novanta, trattati quindi senza ottenere
beneficio, saranno però esposti agli eventuali effetti
avversi che gran parte dei farmaci efficaci induce. Il
medico, al momento della prescrizione, di fronte a quel
determinato paziente, non sa se esso fa parte dei dieci
che beneficeranno del trattamento. Si evidenzia così
una delle contraddizioni fondamentali fra medicina di
popolazione e medicina del singolo, contraddizione che
non deve però indurre a due opposte tentazioni, egualmente squilibrate: un minimalismo pratico da una
parte, un interventismo spinto dall’altra.
In linea di massima, un’ applicazione coscienziosa
delle prove di efficacia esalterà, invece che mortificare,
la necessità di una buona arte medica. Abbiamo bisogno del ragionamento clinico, dell’esperienza, della
capacità di estrapolazione per attraversare le tante zone
grigie della pratica. Si dovrà sempre più sviluppare la
capacità di comunicazione con il paziente al quale dobbiamo trasmettere anche la possibilità di convivere con
ciò che non conosciamo. Non dimentichiamo che anche
con una medicina basata su prove di efficacia possia-
1
EDITORIALE
2
questa comunità fa parte integrante. Risulta pertanto, in
ultima analisi, che l’atto clinico è un atto complesso che
deve comprendere: la somma delle prove di efficacia, le
attese dei pazienti, i limiti imposti dalla normativa o dall’organizzazione sanitaria. Diventa indispensabile inserire quindi l’atto clinico nel contesto di un sistema
sanitario non parcellizzato ma comunicante, perché un
atto clinico di per sé appropriato, si vanifica in un percorso diagnostico-terapeutico non lineare.
La medicina basata sulle evidenze, per il suo sviluppo e per la sua implementazione diffusa, dovrà sempre
più includere, e non ignorare, la realtà clinica con le sue
difficoltà intrinseche, realtà che è a sua volta inserita in
un contesto organizzativo sanitario articolato e complesso. Come è stato brillantemente sintetizzato le evidenze basate sulla medicina sono il prerequisito per una
Medicina basata sulle evidenze (3).
Bibliografia
mo condurre una cattiva pratica se la applichiamo in
modo irriflessivo e senza sensibilità.
La medicina basata sulle evidenze impone anche una
maturazione completa del rapporto medico-paziente.
Il paziente deve diventare soggetto attivo, informato,
consapevole, co-protagonista di scelte importanti per la
sua salute. Si obietta che questo tipo di rapporto cancellerebbe l’aura magica intorno al medico che il paziente
ancora ricerca e che, se non trovata, lo spingerebbe
verso pratiche di medicina alternativa la cui efficacia è,
nella migliore delle ipotesi, tutta da dimostrare. L’informazione e il dialogo sono l’antidoto alla irrazionalità
che nel campo della salute può portare a scelte sbagliate. Il dialogo deve occupare particolarmente la zona grigia dell’attuale medicina che spesso viene riempita da
prescrizioni di esami diagnostici o di farmaci più o
meno rassicuranti e inutilmente costosi.
Se la medicina basata sulle evidenze è stata giustamente definita come “il coscienzioso esplicito giudizioso uso delle migliori informazioni nel prendere decisioni per curare un paziente” (2), questa esalterà la libertà
e l’esperienza del singolo medico perché il compito
della medicina, per quanto scientifico, rimane pienamente etico. L’obiettivo della comunità (fornire le cure
migliori tenendo conto delle limitate risorse economiche) non è in contrasto con le finalità del medico, che di
1.
Hampton JR. The end of clinical freedom. BMJ
1983;287:1237-8.
2.
Sackett DL. Evidence Based Medicine: how to practice
and teach EBM. New York, Churcill Livingstone 1997.
3.
Knottnerus JA, Dinant GJ. Medicine based evidence, a
prerequisite
for
evidence
based
medicine.
BMJ
1997;315:1109-10.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA CUF
EDITORIALE
ACE-inibitori e nefroprotezione
Nell’ultimo anno la CUF si è interessata della valutazione delle prove di efficacia di tre ACE-inibitori
(benazepril, lisinopril e ramipril) nel proteggere il rene
dalla progressione verso l’uremia terminale.
Nelle fasi iniziali della nefropatia, la riduzione del
filtrato glomerulare viene compensata da un aumento
della pressione idraulica all’interno dei capillari. In tal
modo, viene mantenuto un adeguato tasso di filtrazione
glomerulare per compensare la riduzione di unità
nefrologiche funzionanti. L’aumento della pressione
provoca dei danni alla parete glomerulare, che diventa
sempre più permeabile alle macromolecole circolanti,
dando origine a proteinuria. La patologia spesso evolve
in modo progressivo, anche quando la causa iniziale del
danno renale è stata eliminata.
Si ritiene che l’effetto protettivo degli ACE-inibitori
nella riduzione della progressione della nefropatia derivi da un’azione diretta anti-proteinurica, non mediata
dalla riduzione della pressione arteriosa (1) e che,
quindi, la loro efficacia possa essere superiore a quella
di tutti gli altri antipertensivi. Per tale motivo si è sviluppato un ampio filone di ricerche per stabilire il vantaggio del trattamento con ACE-inibitori nei pazienti
nefropatici.
Sono state condotte numerose ricerche con ACE-inibitori, utilizzando diversi criteri per valutare l’efficacia
della terapia; alcuni, come l’inizio della dialisi, l’esecuzione di un trapianto renale o la morte, vengono considerati criteri forti, in quanto la dimostrazione di una
riduzione di tali eventi evidenzia la reale efficacia del
farmaco. Altri effetti, come la riduzione della proteinuria o il raddoppio del valore della creatininemia, vengono considerati end point surrogati perché si riferiscono a
indici di gravità della malattia il cui miglioramento non
è stato correlato alla riduzione di eventi realmente
importanti nella storia naturale di questi pazienti.
Le ricerche
Alla luce di queste considerazioni metodologiche
sono stati letti i risultati delle ricerche cliniche prodotte con ciascun principio attivo e sono state autorizzate
le nuove indicazioni cliniche.
Benazepril
I dati a sostegno dell’effetto del benazepril sulla
nefroprotezione si basano su una ricerca condotta su
583 pazienti affetti da insufficienza renale di varia origine (clearance creatininica inferiore a 60 ml/min)
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
seguiti per tre anni (2). Alla fine della ricerca 31 pazienti (10%) trattati con benazepril e 57 (20%) trattati con
placebo hanno avuto un raddoppio della creatininemia.
Il vantaggio è stato maggiore tra quelli con insufficienza renale moderata rispetto a quelli con insufficienza
renale lieve. Soltanto due pazienti hanno dovuto sottoporsi alla dialisi. Durante la ricerca sono stati riscontrati otto decessi tra i pazienti trattati con benazepril e uno
nel gruppo placebo (p=0,04). Visto questo risultato
inatteso della maggiore mortalità tra i pazienti trattati, i
pazienti sono stati seguiti per altri tre anni, lasciando
liberi i medici di prescrivere un ACE-inibitore (3). Alla
fine dell’osservazione della coorte iniziale i decessi
sono stati sovrapponibili (25 nel gruppo trattato inizialmente con benazepril e 23 nel gruppo trattato inizialmente con placebo) e parallelamente si è riscontrata
una minor percentuale di pazienti che hanno dovuto
sottoporsi alla dialisi, a trapianto renale o sono deceduti per causa renale (26% vs 36%; p=0,013).
Lisinopril
Il lisinopril è stato studiato in due ricerche (i cui dati
non sono stati pubblicati) condotte con un lungo follow
up. Nella prima sono stati studiati pazienti normotesi
con diabete insulino-dipendente (IDDM) con normo- o
microalbuminuria; dopo 24 mesi la media geometrica
dell’escrezione di albumina è passata da 8 a 7,4 mg/min
nei pazienti trattati con lisinopril e da 8 a 9,5 mg/min
nei pazienti trattati con placebo. La differenza non è
statisticamente significativa. La percentuale di pazienti
che sono passati dalla categoria di normoalbuminurici
a quella di micro- o macroalbuminurici è stata dell’8%
per il gruppo trattato con lisinopril e del 6% di quelli
trattati con placebo. Nella seconda ricerca sono stati
studiati pazienti ipertesi con diabete non insulinodipendente (NIDDM) e microalbuminuria trattati con
lisinopril o nifedipina; anche in questo caso l’obiettivo
primario era quello di verificare la variazione del tasso
di escrezione urinaria di albumina. Il valore mediano è
passato da 65,5 a 39,0 mg/min nei pazienti trattati con
lisinopril e da 63 a 58 mg/min in quelli trattati con nifedipina. Nei 123 pazienti in cui è stato possibile ottenere sia il valore basale sia quello a 12 mesi si è riscontrata una riduzione del tasso di escrezione di albumina
di 17 mg/min e in quelli trattati con nifedipina di 2
mg/min (p=0,0006). La clearance creatininica è aumentata nel gruppo lisinopril (da 101 a 104 ml/min) e nel
gruppo nifedipina (da 99 a 105 ml/min), a parità di riduzione della pressione arteriosa sistolica e diastolica con
i due trattamenti.
3
DALLA CUF
Ramipril
L’efficacia del ramipril in pazienti con nefropatia iniziale (caratterizzata da una microalbuminuria (20-200
mg/min)) è stata studiata per 24 mesi in due ricerche
con un piccolo numero di pazienti normotesi con diabete di tipo I, rispetto a due dosaggi (placebo vs ramipril 1,25 mg e vs ramipril 5 mg [ATLANTIS (4), PRIMA
(studio non pubblicato)]. Nella prima si è dimostrata
una riduzione dell’albuminuria nel gruppo trattato con
5 mg di ramipril rispetto al placebo e nella seconda no.
In una terza ricerca [TRAIMAD (5)] 122 pazienti normotesi e ipertesi con diabete di tipo II sono stati trattati con 1,25 mg di ramipril vs placebo per 24 mesi. La
riduzione dell’albuminuria nei pazienti trattati con
ramipril (si è avuto un aumento dell’albuminuria in
quelli trattati con placebo) era indipendente dalla riduzione della pressione arteriosa. I dati più consistenti
sono stati ottenuti dallo studio GISEN (6) nel quale
erano stati arruolati 352 pazienti con nefropatia cronica
non diabetica e proteinuria persistente. I pazienti erano
stati suddivisi in due gruppi in base al livello di proteinuria giornaliera (tra 1 e 3 g e >3 g/die) e randomizzati
al trattamento con ramipril o placebo. Nel sottogruppo
di pazienti con proteinuria >3 g/die la ricerca venne
interrotta per eccesso di eventi combinati di scompenso renale terminale e raddoppio del valore basale di
creatinina nel gruppo placebo: 45% rispetto a 23% nel
gruppo trattato con ramipril (p=0,02). Tale differenza
era da ascrivere principalmente al raddoppio del valore
basale di creatinina, in quanto la differenza di scompenso renale terminale era meno importante: 33% nel
gruppo placebo e 21% nel gruppo ramipril (p=0,20). La
ricerca è stata in seguito proseguita in aperto (7) in 17
pazienti del gruppo placebo e in 26 di quelli inizialmente trattati con ramipril; in questa fase sono stati
riscontrati altri 14 casi di scompenso renale tra i primi
e 6 tra i secondi. Dunque, alla fine della ricerca e della
sua estensione, ha avuto bisogno di dialisi o di trapianto, il 40% dei pazienti trattati inizialmente con placebo
e il 24% di quelli trattati inizialmente con ramipril; il
rischio di scompenso renale terminale è risultato pari a
1,71 (IC 95%: 0,86 ÷ 3,42) nella prima fase, e alla fine
del periodo di estensione è salito a 2,95 (IC 95%: 1,13
÷ 7,68). Dopo un periodo di osservazione più prolungato (32 mesi) anche nei pazienti con proteinuria
<3g/die si è ottenuta una riduzione degli eventi dal 21%
al 9%, con rischio pari a 2,72 (IC 95%: 1,22 ÷ 6,08) (8).
Da un’analisi complessiva dei dati di tutti i 352 pazienti, l’incidenza di dialisi è stata pari al 30% nei pazienti
che ricevevano il placebo e al 16% in quelli trattati con
ramipril.
ritardi l’incidenza di insufficienza renale o di eventi
cardiovascolari. Infatti il razionale per iniziare un trattamento con ACE-inibitori nei pazienti diabetici con
riduzione della clearance o con microalbuminuria non
è solo quello di migliorare il filtrato glomerulare o di
ridurre l’escrezione di albumina, ma quello di ridurre il
rischio di scompenso renale e di morte cardiovascolare.
I dati riguardanti l’efficacia del benazepril non sono
stati considerati sufficienti per concedere l’estensione
dell’indicazione perché basati esclusivamente sul tasso
di pazienti a cui è stato riscontrato il raddoppio della
creatininemia.
Per il lisinopril è stata autorizzata la seguente nuova
indicazione1:
“Complicazioni renali e retiniche da diabete mellito:
in pazienti ipertesi affetti da diabete mellito non insulino-dipendente con microalbuminuria il lisinopril riduce
il tasso di escrezione urinaria di albumina. Il lisinopril
riduce il rischio di retinopatia in pazienti normotesi
affetti da diabete mellito insulino-dipendente”.
È stata inoltre autorizzata l’aggiunta nella scheda
tecnica, sotto la voce 5.2 Proprietà farmacologiche, il
seguente commento:
“In pazienti ipertesi con microalbuminuria e
NIDDM, il lisinopril ha dimostrato di ridurre il tasso di
escrezione urinaria di albumina in misura maggiore
rispetto alla nifedipina. Nei pazienti non ipertesi con
IDDM il lisinopril non ha dimostrato di ridurre il tasso
di escrezione urinaria di albumina nell’arco di 24 mesi
rispetto al placebo. In questi pazienti si è notata invece
una riduzione della progressione della retinopatia, in
quanto la progressione della retinopatia oltre ai due
livelli considerati patologici si è dimostrata in 2
pazienti (1%) trattati con lisinopril e in 11 (7%) trattati con placebo (p=0,03)”.
Per il ramipril sono state autorizzate le seguenti
nuove indicazioni:
“Complicazioni renali da diabete mellito: in pazienti affetti da diabete mellito con microalbuminuria, il
ramipril riduce il tasso di escrezione urinaria di albumina.
Nefropatia conclamata in soggetti non diabetici: il
ramipril rallenta la velocità di progressione dell’insufficienza renale e lo sviluppo di insufficienza renale terminale che necessita di dialisi e di trapianto renale”
Le nuove indicazioni
Il raddoppio della creatininemia e la riduzione della
microalbuminuria possono essere considerati end point
surrogati, dal momento che l’aumento di tali parametri
è un indice di aggravamento della malattia, ma non ci
sono prove secondo cui la riduzione di tali parametri
4
1 Tale indicazione è stata concessa solo alla specialità Zestril,
poiché gli studi sono stati condotti dall’Azienda titolare dell’autorizzazione all’immissione in commercio di tale specialità e che non
risulta abbia concesso alle altre ditte licenziatarie l’estensione dell’indicazione. Si sottolinea infatti che le indicazioni vengono autorizzate sulla base di una richiesta specifica, supportata da documentazione scientifica adeguata, di una determinata Azienda.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
E’ stata inoltre autorizzata l’aggiunta del seguente
commento nella scheda tecnica, nella sezione 5.2 Proprietà farmacologiche:
“In pazienti non diabetici con nefropatia conclamata il trattamento con ramipril rallenta la velocità
di progressione dell’insufficienza renale e lo sviluppo di insufficienza renale terminale, con conseguente
diminuzione della necessità di dialisi o di trapianto
renale.
In pazienti diabetici con microalbuminuria il ramipril ha dimostrato di ridurre il tasso di escrezione
urinaria di albumina nell’arco di 24 mesi, in misura
maggiore rispetto al placebo e all’atenololo”.
A titolo di confronto con le indicazioni autorizzate
in un altro Stato della Comunità Europea, ci riferiamo
al Regno Unito, dove il benazepril non è in commercio, il lisinopril è autorizzato per la “nefropatia diabetica in pazienti normotesi con diabete insulinodipendente e ipertesi con diabete non insulino-dipendente,” e il ramipril non è autorizzato per la nefroprotezione.
Bibliografia
DALLA CUF
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
Lewis EJ et al. The effect of angiotensin-convertingenzyme inhibition on diabetic nephropathy. The Collaborative Study Group. N Engl J Med 1993;329:1456-62.
Maschio G et al. Effect of the angiotensin-convertingenzyme inhibitor benazepril on the progression of chronic renal insufficiency. The Angiotensin-ConvertingEnzyme Inhibition in Progressive Renal Insufficiency
Study Group. N Engl J Med 1996;334:939-45.
Locatelli F et al. Long-term progression of chronic
renal insufficiency in the AIPRI extension study. The
Angiotensin-Converting-Enzyme Inhibition in Progressive Renal Insufficiency Study Group. Kidney Int
1997;52 (suppl.63):S63–S66.
O’Hare JP et al. Ramipril reduces albumin excretion rate
in normotensive IDDM patients with microalbuminuria.
Diabetologia 1998;41:abs 1095.
Trevisan R, Tiengo A. Effect of low-dose ramipril on
microalbuminuria in normotensive or mild hypertensive noninsulin-dependent diabetic patients. AJH 1995;8:876-83.
The GISEN Group. Randomised placebo-controlled trial
of effect of ramipril on decline in glomerula filtration rate
and risk of terminale renal failure in proteinuric, no-diabetic nephropathy. Lancet 1997;349:1857-63.
Ruggenenti P et al. Renal function and requirement for
dialysis in chronic nephropahty patients on long-term
ramipril: REIN follow-up trial. Lancet 1998;352:1252-6.
Ruggenenti P et al. Renoprotective properties of ACEinhibition in non-diabetic nephropathies with nonnephrotic proteinuria. Lancet 1999;354:359-64.
Variazioni e/o integrazioni di alcune Note-CUF
Recentemente sono state introdotte alcune variazioni e/o integrazioni al testo delle note 51, 56, 65 e al regime di dispensazione dei farmaci soggetti a piano terapeutico di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano (v. GG UU n. 127 del 02/06/2000 e n. 170 del 22/07/2000).
Di seguito si riporta il testo aggiornato evidenziando in neretto le parti aggiunte e barrando le parti eliminate.
Nota 51
Nota 65
Al testo della nota 51 (v. BIF 1/2000, pagg. 5-7),
limitatamente alle indicazioni “endometriosi” e “fibromi uterini non operabili” è stata aggiunta, in entrambi i
casi, la specialità Zoladex “10,8” sc 1 Sir. Depot 10,8
mg a base di Goserelina.
Il resto della nota rimane invariato.
Classe A, limitatamente alla indicazione: sclerosi
multipla relapsing-remitting (recidivante-remittente)
nei pazienti con punteggio di invalidità compreso tra 1
e 5,5 all’EDSS di Kurtzke.
Principi attivi: Interferone beta-1a ricombinante;
Interferone beta-1b ricombinante
Prescrizione e dispensazione riservata ai centri autorizzati, con compilazione delle schede di cui all’allegato
3 al decreto ministeriale 5 febbraio 1996.
Nota 56
Classe A limitatamente a: trattamento prescritto in
ambiente ospedaliero solo su diagnosi e piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano. a trattamento su diagnosi e piano terapeutico prescritto in ambiente ospedaliero.
Registro USL
Principi attivi: Aztreonam, Imipenem + Cilastatina,
Meropenem, Rifabutina, Teicoplanina
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
Classe A, limitatamente all’indicazione: pazienti con
sclerosi multipla secondariamente progressiva – forma
clinica caratterizzata da iniziale decorso remittente
seguito da progressione con o senza ricadute – che
abbiano un punteggio di invalidità compreso tra 3 e
6,5 all’EDSS di Kurtzke e almeno 2 ricadute o 1 punto
di incremento all’EDSS nei due anni precedenti.
Principio attivo: Interferone beta-1b ricombinante
Prescrizione e dispensazione riservata ai centri autorizzati, con compilazione delle schede di cui all’allegato 3 al decreto ministeriale 5 febbraio 1996, opportunamente modificate a livello regionale.
5
DALLA CUF
Farmaci soggetti a “diagnosi e piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle Aziende sanitarie, individuati
dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e Bolzano”
La dispensazione di tutti i farmaci, per i quali la
prescrizione è possibile anche nel territorio da parte
del medico di famiglia sulla base di una “diagnosi e
piano terapeutico (posologia e durata del trattamento) di centri specializzati, Universitari o delle
Aziende sanitarie, individuati dalle Regioni e dalle
Province autonome di Trento e Bolzano”, segue il
regime previsto dalla nota 37 con la duplice via di
distribuzione.
Tali farmaci sono quelli contenenti i principi attivi
sottoelencati e previsti nelle note sotto distinte.
Conseguentemente a quanto previsto dal comma precedente, nel testo delle note indicate nel medesimo articolo
le parole “con erogazione sia da parte delle strutture che
hanno predisposto il piano terapeutico sia da parte delle
farmacie aperte al pubblico” sono sostituite da: “con erogazione sia da parte delle strutture pubbliche e accreditate sia da parte delle farmacie aperte al pubblico”.
Nota
Principio attivo
12
30
32
36
39
40
51
52
56
61
71
71 bis
72
74
Epoietina alfa e beta
Filgrastim, Lenograstim e Molgramostim
Interferone alfa-2a e alfa-2b ricombinanti, Interferone alfacon-1
Fluoximesterone, Metiltestosterone e Testosterone
Somatropina
Lanreotide, Octreotide
Buserelina, Goserelina, Leuprorelina e Triptorelina
Interferone alfa naturale (linfoblastoide n1)
Aztreonam, Imipenem + Cilastatina, Meropenem, Rifabutina, Teicoplanina
Interferone alfa naturale (leucocitario n 3)
Clozapina, Fattore VIII e IX di coagulazione da DNA ricombinante
Risperidone, Olanzapina
Dornase alfa
Urofollitropina, Follitropina alfa e beta ricombinanti
Programma di revisione per il biennio 2000-2001
di medicinali registrati da più di 10 anni
La Legge 362/99 ha dato avvio, con nuove norme,
alla procedura di revisione da parte della CUF dei farmaci presenti da oltre dieci anni sul mercato italiano,
reimpostando con metodologia più appropriata una
materia nata con il comunicato del Ministero della
Sanità pubblicato nella GU n. 113 del 17/5/93. In tale
comunicato venivano indicate 14 categorie terapeutiche da sottoporre a revisione con i rispettivi principi
attivi. Nel febbraio 1998 la CUF ha approvato gli
elenchi predisposti dalla Sottocommissione Farmacovigilanza e Revisione, contenenti il censimento dei
prodotti rientranti nelle 14 categorie ritenute di dubbia
efficacia. Questi elenchi sono stati ulteriormente
aggiornati per la revisione programmata per il biennio
2000-2001 in base all’anno di prima registrazione dei
principi attivi, ed abbinando a ciascuna delle categorie considerate i gruppi ATC ritenuti pertinenti.
I principi attivi e le associazioni inclusi nell’attuale
programma di revisione sono circa 270 e si trovano tutti
in fascia C, a totale carico del cittadino. Ad ogni specialità è stata associata una codifica specifica: le sigle
adottate sono A, B e C (v. Tabella 1).
6
A = specialità medicinali per le quali si richiede una verifica dell’adeguatezza complessiva dei dati di efficacia alla luce delle conoscenze oggi disponibili;
B = specialità medicinali per le quali si richiede un
riesame delle indicazioni terapeutiche alla luce
delle attuali conoscenze;
C = specialità medicinali a più componenti per le quali
si richiede una verifica della congruità della formulazione alla luce delle attuali conoscenze.
Non tutti i farmaci presenti sul mercato da più di
dieci anni sono stati inclusi nella revisione programmata del biennio 2000-2001, ma questa esclusione, come
indicato con chiarezza nel documento esplicativo redatto dalla CUF, non va intesa come riconoscimento assoluto della loro efficacia clinica e razionalità di composizione, ma derivata soltanto da una valutazione di non
priorità ai fini della costruzione del programma di revisione del presente biennio.
Per questo motivo, la revisione riguarderà tutti i farmaci inseriti in sette categorie specifiche, ossia coadiuvanti cerebrovascolari e neurotrofici, cardiometabolici,
terapia epatica e biliare, vasodilatatori periferici, anaBIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA CUF
stesse. In mancanza di questa dichiarazione, l’autorizzazione risulterà automaticamente ed irreversibilmente
decaduta a partire dal giugno 2003. Entro 18 mesi dalla
pubblicazione del decreto, inoltre, le aziende interessate dovranno fornire gli elementi necessari per dimostrare l’efficacia dei medicinali e l’appropriatezza delle
indicazioni. Il materiale documentario ritenuto idoneo
a sostenere tale dimostrazione è costituito da:
a. risultati di studi clinici di tipo controllato e randomizzato e meta-analisi pubblicati su riviste internazionalmente qualificate dotate di comitato di referee;
b. rassegne su riviste internazionalmente qualificate
che facciano totalmente o in gran parte riferimento al
farmaco oggetto di revisione;
c. precisa indicazione di un’efficacia clinica in fonti
internazionalmente accreditate;
d. risultati di studi clinici di tipo controllato e randomizzato condotti dalla ditta e non ancora pubblicati.
Nella Tabella 1 sono riportate le categorie di farmaci
in revisione, con il corrispettivo numero di principi attivi e/o associazioni, il numero di specialità medicinali e
corrispondente codifica di revisione. Il numero totale di
specialità supera le 1.100 unità, distribuendosi in
maniera consistente tra quattro principali categorie,
ossia la numero 5 (vasodilatatori periferici) con 220
specialità, la numero 1 (coadiuvanti cerebrovascolari e
neurotrofici), con 217 specialità, e le categorie 9 e 4
(vasoprotettori; terapia epatica e biliare) con 127 e 115
specialità rispettivamente. 991 farmaci sottoposti a
revisione su 1110 totali (pari all’89% delle specialità)
sono contrassegnati dalla codifica A, il che testimonia
la priorità attribuita dalla CUF alla revisione di farmaci di cui risulti dubbia l’adeguatezza complessiva dei
dati di efficacia.
bolizzanti sistemici, antitrombotici eparinosimili e antidepressivi su base metabolica. Nell’ambito delle altre
sette categorie, invece, sono state individuate delle
priorità di valutazione. Per la categoria 3 (immunomodulanti) vengono esclusi il metisoprinolo per via sistemica e il levamisolo. Per quanto riguarda la categoria
7-8*, la revisione dei prodotti vitaminici, ematopoietici
e sali minerali non è stata ritenuta prioritaria, salvo per
quelle formulazioni che presentano problemi di riesame del rapporto rischio/beneficio, mentre sono stati
inclusi i “farmaci che postulano effetti terapeutici su
basi biochimiche o metaboliche”, per il tipo di indicazioni terapeutiche vantate; dal gruppo dei vasoprotettori (categoria 9) vengono escluse le preparazioni antiemorroidarie, salvo un prodotto a base di vaccino colibacillare. Per quanto riguarda il gruppo n. 11 (preparati contro la tosse e malattie da raffreddamento), l’inclusione nel programma di revisione coinvolge solo le preparazioni contenenti più di tre sostanze, per incongruità di formulazione, nonché quelle con presenza di antibiotici o di broncodilatatori adrenergici. Dei preparati
dermatologici (categoria 12) sono inclusi i prodotti per
i quali è opportuna una revisione del rapporto
rischio/beneficio, nonché associazioni chemioterapiche di cui va giustificata la razionalità di formulazione.
Per la categoria 13 (derivati biologici), infine, si è data
la priorità alle sostanze destinate all’uso sistemico e
vaginale.
Il decreto ministeriale è stato pubblicato sul S.O.
della GU n. 125 del 31/5/2000; entro il 30 giugno 2000
le aziende titolari della registrazione delle specialità
medicinali incluse nel programma di revisione hanno
dovuto manifestare l’intenzione di sostenere l’autorizzazione all’immissione in commercio delle specialità
*Alla categoria è stato assegnato un numero doppio perché in
alcuni documenti ministeriali il gruppo era suddiviso in due.
Tabella 1. Categorie di farmaci sottoposte a revisione per il biennio 2000-2001, con i relativi principi attivi e
specialità suddivise in base alla codifica di revisione
Categoria
1234567-8 -
910 11 12 13 14 -
N. di principi
attivi e/o
associazioni
N. di specialità e corrispendente codifica
di revisione
A
B
C
N. Totale specialità
Coadiuvanti cerebrovascolari e neurotrofici
Cardiometabolici
Immunomodulanti
Terapia epatica e biliare
Vasodilatatori periferici
Anabolizzanti sistemici
Vitaminici, ematopoietici, sali minerali
e farmaci che postulano effetti terapeutici su basi
biochimiche o metaboliche
Vasoprotettori
Antitrombotici eparinosimili
Preparati contro tosse e malattie da raffreddamento
Dermatologici
Derivati biologici
Antidepressivi su base metabolica
17
15
12
50
40
5
217
93
38
115
220
/
/
46
/
42
6
6
/
/
/
1
/
/
217
139
38
158
226
6
34
40
/
7
47
55
6
9
12
9
3
127
67
2
14
30
28
/
/
/
/
/
/
/
/
10
1
/
/
127
67
12
15
30
28
TOTALE
267
991
100
19
1110
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
7
AGGIORNAMENTI
EDITORIALE
1. Prevalenza ed incidenza dell’epatite cronica C
L’epatite cronica C rappresenta uno dei maggiori problemi di salute pubblica. Si calcola che la prevalenza
globale di tale patologia oscilli intorno al 3% (variando
dallo 0,1 al 5% nei vari paesi), tanto da contare nel
mondo circa 150 milioni di portatori cronici di virus dell’epatite C (HCV), di cui 4 milioni negli USA e 5 milioni nell’Europa Occidentale (1). Nei paesi industrializzati, l’HCV è responsabile di circa il 20% dei casi di epatite acuta, del 70% delle epatiti croniche, del 40% delle
cirrosi in fase finale, del 60% dei casi di carcinoma epatocellulare e del 30% dei trapianti di fegato (1).
È stato stimato che l’incidenza di nuove infezioni
sintomatiche sia di 1-3 casi/100.000 persone all’anno.
L’incidenza reale di nuove infezioni, anche se sta declinando, è ovviamente molto maggiore, trattandosi frequentemente di infezioni asintomatiche (1).
In Italia, da metà a due terzi delle cirrosi sono
dovute all’evoluzione di epatiti croniche da virus C.
Mentre è in decremento l’incidenza di nuove infezioni da virus C, esiste un serbatoio di soggetti infettatisi in passato che alimenterà lo sviluppo di cirrosi
ancora per diversi anni. La cirrosi del fegato causa in
Italia una mortalità pari a circa 13.000 unità/anno;
poiché la durata media della malattia è di circa 10
anni, di cui gli ultimi 2-3 richiedono ripetuti ricoveri
ospedalieri e terapie complesse, la cirrosi ha anche
una pesante incidenza in termini di morbosità. È ipotizzabile che l’arresto dell’evoluzione delle epatiti
croniche da virus C possa ridurre l’incidenza della
morbosità e mortalità per cirrosi.
8
1.
EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61.
2. Storia naturale dell’epatite cronica C
La storia naturale dell’epatite cronica C può essere
sintetizzata in tre fasi:
1. Epatite cronica propriamente detta, con un grado
variabile di attività necroinfiammatoria e di fibrosi,
della durata media di uno o due decenni, modestamente asintomatica o con sintomi non specifici (1, 2).
2. Cirrosi compensata, con fibrosi estesa e distorsione
della struttura del fegato, che si sviluppa nel 30% dei
casi di epatite cronica (2) e che dal punto di vista dei
sintomi è assai simile alla prima; da questa fase il 510% dei pazienti/anno sviluppa complicanze della
cirrosi (3-5), la cui comparsa segna il passaggio alla
terza fase.
3. Cirrosi con complicanze (che includono il carcinoma
epatocellulare (HCC)), caratterizzata da una grave
compromissione della qualità di vita e conclusa dall’exitus dopo una durata media (in assenza di trapianto) di circa 2 anni (4).
Alcuni cofattori giocano un ruolo importante nello
sviluppo della cirrosi (6). Tra di essi:
a. età al momento dell’infezione (i pazienti colpiti in
età avanzata presentano, in media, una progressione
della malattia molto più rapida rispetto ai soggetti più
giovani);
b. alcoolismo (tutti gli studi concordano che l’alcool è
un cofattore assai importante nella progressione dell’epatite cronica a cirrosi);
c. coinfezione con HIV;
d. coinfezione con virus dell’epatite B.
L’incidenza di carcinoma epatocellulare in pazienti
con cirrosi è dell’1-4% per anno. Tale forma tumorale
insorge raramente in pazienti con epatite cronica C ma
senza cirrosi (6).
Bibliografia
La terapia tradizionale dell’epatite cronica C prevede la somministrazione sottocutanea di interferone alfa
alla dose di 3 milioni di unità (MU) tre volte alla settimana per un anno, con controllo dei valori di transaminasi e di HCV-RNA a tre mesi, al fine di consentire una
precoce interruzione del trattamento in pazienti che non
rispondono. A fronte dei successi piuttosto limitati di
tale tipo di intervento, vengono da tempo perseguiti
nuovi tentativi terapeutici per migliorare la percentuale
di successo a lungo termine, caratterizzato e definito
dalla negativizzazione della viremia e dalla persistente
normalizzazione delle transaminasi. Uno degli approcci più interessanti è costituito dalla combinazione della
terapia con interferone con altri farmaci ad azione
sinergica e/o complementare.
Bibliografia
Ribavirina–Interferone: una terapia per l’epatite
cronica C
1.
2.
3.
Niederau C et al. Prognosis of chronic hepatitis C: results
of a large, prospective cohort study. Hepatology
1998;28:1687-95.
Pagliaro L et al. Natural history of chronic hepatitis C. Ital
J Gastroenterol Hepatol 1999;31:28-44.
Fattovich G et al. Morbidity and mortality in compensated
cirrhosis type C: a retrospective follow-up study of 384
patients. Gastroenterology 1997;112:463-72.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
Bibliografia
AGGIORNAMENTI
4.
5.
6.
D’amico G et al. Survival and prognostic indicators in
compensated and decompensated cirrhosis. Dig Dis Sci
1986;31:468-75.
Ginès P et al. Compensated cirrhosis: natural history and
prognostic factors. Hepatology 1987;7:122-8.
EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Consensus Statement. J Hepatol 1999;30:956-61.
3. Trattamento dell’epatite cronica C con solo interferone
Fino a poco tempo fa, il trattamento di prima linea
dei pazienti con epatite cronica C ha previsto l’impiego di interferone alfa-2a, alfa-2b o interferone
alfacon-1, farmaci dotati di efficacia pressoché simile (vedi nota CUF 32). Degli interferoni alternativi
all’interferone alfa, l’interferone beta – naturale e
ricombinante – è stato usato in Giappone, Spagna ed
Italia in casistiche limitate. I più promettenti interferoni alternativi appaiono, al momento, il Consensus
interferone e l’interferone peghilato.
In diversi studi, i risultati della monoterapia con
interferone sono stati valutati in rapporto a criteri
intermedi e, in particolare, a normalizzazione delle
transaminasi, assenza di viremia e modificazioni istologiche del fegato. Un trattamento di sei mesi con
interferone alfa determina, di norma, una normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi nel 40-50% dei
pazienti con epatite cronica C e una scomparsa dell’HCV-RNA nel siero nel 30-40% dei soggetti trattati.
Tuttavia, nella maggioranza dei casi, questa risposta è
transitoria: a sei mesi dalla fine del trattamento, una
normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi permane nel 15-20% dei pazienti mentre una risposta
virologica sostenuta, cioè persistente a tempo indefinito, si mantiene nel 6-12% ed è seguita, molto più
lentamente, da normalizzazione o spiccato miglioramento delle lesioni istologiche (1-3). Molto meno frequente e di incerto beneficio clinico è la risposta favorevole all’interferone alfa nella cirrosi compensata,
mentre gli effetti sfavorevoli del farmaco escludono la
prospettiva di trattamento nella terza fase (4).
Un trattamento della durata di 12 mesi porta a
risultati simili, con la differenza che dopo sei mesi
dal termine del trattamento la percentuale di pazienti
con normalizzazione delle transaminasi sale al 2030% e quella priva di HCV-RNA arriva al 13-19% (v.
Box 1).
BOX 1
Nuovi protocolli di monoterapia con interferone
Studi mirati a verificare l’impatto di dosi crescenti e quotidiane di interferone sulla cinetica virale hanno suscitato interesse clinico per l’accelerazione sulla clearance virale operata da questi approcci, denominati “terapie di induzione” (1,2).
Sotto attacco con interferone, la riduzione dell’HCV sierico nelle 24-48 ore che seguono una singola dose di interferone
di 3 e 5 MU è rispettivamente del 41% e del 64%, ma è d’oltre l’85% dopo una dose di 10 MU (3-5). Sulla base di questi risultati sono state proposte terapie basate sulla somministrazione giornaliera, per 2-4 settimane, di interferone a 10
MU, a scalare in somministrazione di 5 MU per altre 4-6 settimane e di 3 MU fino a completare 24 settimane di terapia
giornaliera; a quest’ultima seguono altri 6 mesi di terapia standard discontinua.
Il fondamento logico di questo approccio è l’inibizione immediata e quanto più totale dell’emissione dell’HCV degli epatociti (nella fase di induzione), seguita da una fase di mantenimento della terapia necessariamente prolungata per permettere il turn-over degli epatociti che erano infetti al momento dell’inizio della terapia.
Tuttavia, malgrado i precipitosi cali della viremia verificati negli studi clinici in corso, la terapia di induzione
non ha finora sortito risultati più consistenti dei protocolli convenzionali per quanto riguarda la risposta a lungo termine (6,7).
1. Tassopoulos NC et al. Comparative efficacy of a high or low dose of interferon alpha 2b in chronic hepatitis C: a randomized controlled trial. Am J Gastroenterol 1996;91:1734-8.
2. Stewart et al. A randomized controlled trial of daily versus three times weekly interferon alfa-2a in
patients with chronic HCV and either elevated or persistently normal ALT (abstract). Gastroenterology 1998;114:1345.
3. Lam NP et al. Dose-dependent acute clearance of hepatitis C genotype 1 virus with interferon alfa. Hepatology 1997;26:226-31.
4. Neumann AU et al. Hepatitis C viral dynamics in vivo and the antiviral efficacy of interferon-alpha therapy. Science 1998;282:103-7.
5. Zeuzem S et al. Quantification of the initial decline of serum hepatitis C virus RNA and response to interferon alfa. Hepatology
1998;27:1149-56.
6. Lindsay et al. Response to higher doses of interferon alfa-2b in patients with chronic hepatitis C: a randomized multicenter trial.
Hepatitis Interventional Therapy Group. Hepatology 1996;24:1034-40.
7. Ouzan D et al. Comparison of high initial and fixed-dose regimens of interferon-alpha2a in chronic hepatitis C: a randomized controlled trial. French Multicenter Interferon Study Group. J Viral Hepat 1998;5:53-9.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
9
AGGIORNAMENTI
Bibliografia
Questi dati dimostrano la transitorietà dell’efficacia
del solo interferone nella maggioranza dei pazienti con
epatite C e suggeriscono che la negativizzazione dopo
trattamento della viremia, sostenuta per almeno 6 mesi,
è un convincente end point surrogato della progressione in cirrosi dell’epatite cronica C. A sua volta la progressione in cirrosi è sicuramente il passaggio decisivo
nella storia naturale dell’epatite cronica C, non più
reversibile e predittivo di complicanze gravi ed exitus,
che di fatto non si manifestano in assenza di cirrosi (5).
La monoterapia con interferone può mantenere un
ruolo dove sia controindicata la ribavirina.
1.
2.
3.
4.
5.
Reichard O et al. Two-year biochemical, virological and
histological follow-up in patients with chronic hepatitis C
responding in a sustained fashion to interferon alfa–2b
treatment. Hepatology 1995;21:918-22.
Lau DTY et al. 10-year follow-up after interferon-alfa therapy for chronic hepatitis C. Hepatology 1998;28:1121-7.
Marcellin P et al. Long-term histologic improvement and
loss of detectable intrahepatic HCV RNA in patients with
chronic hepatitis C and sustained response to interferon
alfa therapy. Ann Intern Med 1997;127:875-81.
EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Consensus Statement. J Hepatol 1999;30:956-61.
Pagliaro L et al. Natural history of chronic hepatitis C. Ital
J Gastroenterol Hepatol 1999;31:28-44.
4. Terapie di combinazione: interferone più ribavirina
Delle terapie di combinazione proposte, quella
con acido ursodesossicolico, con acetilcisteina e
con ketoprofene non hanno dimostrato alcun vantaggio rispetto all’interferone da solo. La combinazione con corticosteroidi è potenzialmente dannosa in quanto tali sostanze aumentano il tasso di
replicazione dell’HCV (1). Altresì detrimente
sembra la combinazione con la colchicina, che in
uno studio (2) ha diminuito la risposta terapeutica
rispetto all’interferone da solo. Ancora sperimentale è la combinazione interferone più timosina
alfa 1.
Dati più concreti derivano dalla terapia di combinazione che utilizza interferone associato a ribavirina.
La ribavirina è un nucleoside purinico sintetico, con
un largo spettro di attività contro i virus a RNA e a
DNA, largamente sperimentata nella terapia dell’epatite cronica C. Somministrata per via orale, la sua biodisponibilità è di circa il 40%. Si accumula soprattutto
negli eritrociti.
In monoterapia non riduce il livello di HCV-RNA in
circolo, mentre abbassa moderatamente le transaminasi e le lesioni istologiche, effetti che però si esauriscono alla sospensione del farmaco in quasi tutti i pazienti
(3,4). Per queste ragioni non è raccomandata per il trattamento dell’epatite cronica C.
Dopo valutazione da parte della European Medicines
Evaluation Agency (EMEA), la ribavirina ha invece
ottenuto l’autorizzazione al commercio nell’Unione
Europea per il trattamento dell’epatite cronica C, in
associazione a interferone alfa-2b (v. Box 2).
BOX 2
Indicazioni e posologia della ribavirina approvate dall’EMEA (specialità medicinale Rebetol)
La ribavirina deve esserre utilizzata solo in associazione con l’interferone alfa-2b.
Indicazioni
- Trattamento di pazienti adulti affetti da epatite cronica C, che in precedenza hanno risposto alla terapia con interferone alfa
(con normalizzazione delle transaminasi alla fine del trattamento) ma che successivamente hanno avuto una recidiva.
- Trattamento di pazienti adulti affetti da epatite cronica C comprovata istologicamente, non trattati in precedenza, senza
scompenso epatico, con transaminasi elevate, presenza di HCV-RNA sierico e fibrosi o elevata attività infiammatoria.
I pazienti con sola fibrosi portale (fibrosi iniziale) devono avere un punteggio infiammatorio elevato.
L’autorizzazione della ribavirina a livello europeo si
è basata su dossier di studi clinici in cui il farmaco è
stato sperimentato con interferone alfa-2b, per cui è
diventato d’obbligo, da parte dei vari Paesi della
Comunità, l’adeguamento a tale decisione centralizzata. È probabile che la ribavirina associata ad altri tipi di
interferone possa essere altrettanto efficace, ma la certezza potrà essere raggiunta solamente alla conclusione
di studi predisposti ad hoc che, a quanto risulta, sono
attualmente in corso.
10
Bibliografia
Posologia e modalità di somministrazione
Le capsule di ribavirina sono somministrate per os alla dose di 1.000 mg (pazienti ≤ 75 Kg) o 1.200 mg al giorno (pazienti > 75 Kg), in due dosi suddivise, con gli alimenti (mattino e sera), in combinazione con interferone alfa-2b somministrato per via sottocutanea alla dose di 3 MU tre volte alla settimana (a giorni alterni).
1.
2.
3.
4.
Magrin S et al. Hepatitis C viremia in chronic liver disease:
relationship to interferon-alpha or corticosteroid treatment.
Hepatology 1994;19:273-9.
Angelico M et al. Colchicine worsens the efficacy of interferon-alfa in patients with chronic hepatitis. Interimin report
of a randomized pilot study. Hepatology 1998;28:pt 2 A478.
Di Bisceglie AM et al. Ribavirin as therapy for chronic
hepatitis C. A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Ann Intern Med 1995;123:897-903.
Dusheiko G et al. Ribavirin treatment for patients with chronic hepatitis C: results of a placebo-controlled study. J
Hepatol 1996;25:291-8.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
- la valutazione degli esiti è stata attuata alla fine del
trattamento, ma anche sei mesi dopo la fine dello
stesso (risposta “sostenuta”); quest’ultima è la risposta che maggiormente interessa e pertanto è quella
riportata nelle tabelle;
- l’end point principale è sempre stato l’assenza di
viremia persistente sei mesi dopo la fine del trattamento;
- sono stati utilizzati altri criteri di valutazione, quali la
persistenza di transaminasi normali dopo sei mesi
dall’interruzione del trattamento;
- quando rientrava nello studio, la biopsia è
stata valutata utilizzando l’indice infiammatorio
di Knodell e la scala di fibrosi secondo il sistema
Metavir.
4.1. Gli studi clinici
Il dossier per la valutazione dell’associazione ribavirina più interferone alfa-2b dispone di tre gruppi di
studi controllati e randomizzati:
- studi in pazienti non ancora trattati per la loro epatite
C (naif);
- studi in pazienti che avevano risposto favorevolmente ad un primo trattamento con interferone alfa in
monoterapia, ma che poi avevano presentato ricadute (relapsers);
- studi in pazienti resistenti all’interferone alfa (non
responders).
Questi studi hanno in comune numerosi punti metodologici:
- la ribavirina è stata somministrata per via orale alla
dose di 1.000 o 1.200 mg/die, a seconda che il peso dei
pazienti fosse rispettivamente inferiore o superiore a 75
Kg;
- l’interferone alfa-2b è stato, di norma, somministrato
alla dose di 3 MU tre volte alla settimana (4,5 MU di
interferone alfa-2a tre volte la settimana nello studio
di Bell et al. e 6 MU di interferone alfa-2b tre volte la
settimana nel trial di Barbaro et al.; entrambi questi
studi erano condotti in relapsers e non responders);
4.1.1. Studi clinici in pazienti non ancora trattati per la
loro epatite C (naif)
La Tabella 1 riporta le caratteristiche e i principali
risultati di cinque studi clinici controllati e randomizzati (RCT) (1-5), che hanno testato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b in confronto a una monoterapia con interferone alfa-2b.
Tabella 1. Studi clinici di interferone più ribavirina vs interferone alfa-2b da solo in pazienti naif: percentuale di risposta virologica e biochimica sostenuta
TRIAL
Follow up
% HCV-RNA negativo
% ALT normale
IFN alfa-2b
post-trattamento
IFN alfa-2b IFN alfa-2b
IFNalfa-2b IFN alfa-2b
+RIBA
(mesi)
15
15
6
7
47
13
47
Poynard (2)
Trattamento per:
- 24 settimane
- 48 settimane
---278
277
227
6
6
--19
35
43
--24
39
50
Mc Hutchison (3)
Trattamento per:
- 24 settimane
- 48 settimane
231
225
228
228
6
6
6
13
31
38
11
16
32
36
Reichard (4)
50
50
12
18
36
24
44
Lai (5)
19
21
24
6
43
11
43
1° autore (rif. biblio.)
Chemello (1)
n. di pazienti
IFN alfa-2b
In base ai risultati, si è osservato che, in pazienti mai
trattati, la combinazione ribavirina più interferone alfa2b determina percentuali di risposta virologica sostenuta, con normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi e miglioramento dell’attività necroinfiammatoria
istologica, da 2 a 5 volte più elevate rispetto ai pazienti trattati con interferone alfa-2b da solo.
Nei due trial maggiori (2,3), in pazienti naif, sono
stati identificati con analisi multivariata i fattori predittivi della probabilità di risposta terapeutica di cui i principali sono, in ordine di significatività statistica:
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
+RIBA
+RIBA
- genotipo diverso dal genotipo 1 (di gran lunga quello
a maggior prevalenza in Italia);
- viremia uguale o inferiore a 2 milioni di copie/ml;
- assenza di cirrosi o di fibrosi intralobulare.
Nei pazienti con predittori sfavorevoli (genotipo 1,
viremia superiore a 2 milioni di copie, presenza di fibrosi), le percentuali di risposta sono più elevate se il trattamento non si ferma a 24 settimane ed è protratto per 48
(v. Tabelle 2 e 3 tratte dall’European Public Assessment
Report (EPAR) dell’EMEA per la specialità Rebetol) (6).
11
AGGIORNAMENTI
Tabella 2. Risposta virologica sostenuta al trattamento in base al genotipo HCV e alla carica virale (valutazione a 4 settimane dalla conclusione del trattamento in pazienti mai trattati)
Rebetol +IFN alfa-2b
IFN alfa-2b
Rebetol +IFN alfa-2b
IFN alfa-2b
24 settimane
24 settimane
48 settimane
48 settimane
Genotipo HCV 1
e ≤ 2 milioni copie/ml
32
4
33
25
Genotipo HCV 1
e > 2 milioni copie/ml
10
0,9
27
3
Genotipo HCV 2/3
e ≤ 2 milioni copie/ml
67
22
68
38
Genotipo HCV 2/3
e > 2 milioni copie/ml
67
11
63
27
Rebetol: denominazione della specialità medicinale a base di ribavirina
Tabella 3. Risposta sostenuta in base alla fibrosi epatica (Metavir)
(valutazione a 4 settimane dalla conclusione del trattamento in pazienti mai trattati)
Rebetol +IFN alfa-2b
IFN alfa-2b
Rebetol +IFN alfa-2b
IFN alfa-2b
24 settimane
24 settimane
48 settimane
48 settimane
Genotipo HCV 1
F 0/1/2
F 3/4
18%
6%
2%
0%
31%
13%
10%
2%
Genotipo HCV 2/3
F 0/1/2
F 3/4
71%
31%
9%
17%
66%
68%
34%
24%
Contrariamente a quanto si è osservato con
la monoterapia con interferone alfa-2b, una riduzione
precoce della carica virale all’inizio del trattamento non
sembra essere un fattore che consente di prevedere la persistenza di una risposta virale sostenuta alla conclusione
della terapia. Malgrado una risposta virale tardiva (12 settimane o più), certi pazienti hanno presentato assenza di
viremia sostenuta almeno sei mesi dopo l’interruzione del
trattamento.
Se tuttavia dopo 24 settimane di trattamento in
pazienti naif non si osserva alcuna riduzione della carica virale, appare inutile continuare (6).
Sul piano istologico, i dati disponibili tratti dai due
studi maggiori (2,3), mostrano che l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b è più efficace della monoterapia nel ridurre le lesioni infiammatorie, almeno durante il
semestre successivo all’interruzione del trattamento.
L’associazione non ha permesso invece di ridurre le lesioni di fibrosi già esistenti.
12
Bibliografia
Fibrosi Metavir
(F)
1. Chemello L et al. The effect of interferon alfa and ribavirin
combination therapy in naive patients with chronic hepatitis C. J Hepatol 1995;23:8-12.
2. Poynard T et al. Randomised trial of interferon a-2b plus
ribavirin for 48 weeks or for 24 weeks vs interferon a-2b
plus placebo for treatment of chronic infection with hepatitis C virus. Lancet 1998;352:1426-32.
3. McHutchison JG et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin as initial treatment for chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1485-92.
4. Reichard O et al. Randomised, double-blind, placebo-controlled trial of interferon a-2b with and without ribavirin for
chronic hepatitis C. Lancet 1998;351:83-7.
5. Lai MY et al. Long-term efficacy of ribavirin plus interferon alfa in the treatment of chronic hepatitis C. Gastroenterology 1996;111:1307-12.
6. The European Medicines Evaluation Agency (EMEA) –
Committee for Proprietary Medicinal Products “European
Public Assessment Report (EPAR) – Rebetol” 7 May 1999;
www.eudra.org/humandocs/humans/EPAR/Rebetol/Rebetol.htm
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
4.1.2. Studi clinici in pazienti relapsers o resistenti alla
monoterapia con interferone alfa
Uno studio eseguito su 345 pazienti relapsers (1)
(Tabella 4), cioè con ricomparsa della viremia e di
iper-ALT dopo risposta favorevole a un trattamento
con interferone alfa, ha testato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b (173 pazienti) confrontandola con una monoterapia con interferone alfa-2b
(172 pazienti). I risultati evidenziano che la combinazione ribavirina più interferone alfa-2b ha aumentato
il tasso di risposta virologica sostenuta al 48%
(84/173), cioè 10 volte di più rispetto alla monoterapia (8/172 = 4,7%); il 63% dei soggetti trattati con la
combinazione e il 41% dei pazienti trattati in monoterapia hanno dimostrato miglioramento istologico.
Alla fine del follow up post-terapia, il 52% dei
pazienti trattati con la combinazione presentava normalizzazione dei livelli sierici di transaminasi rispetto al 15% dei soggetti trattati con interferone da solo.
Anche nei pazienti relapsers di questa indagine (1)
una valutazione non multivariata segnalava come fattori predittivi di risposta il genotipo non-1 e la viremia
inferiore a 2 milioni di copie/ml. Simile è il risultato di
un altro trial (2), mentre in un terzo trial, molto piccolo, la risposta fra interferone da solo o associato a ribavirina non era differente (3).
Nei pazienti non responders a un primo trattamento
con interferone alfa (Tabella 4), la risposta a un nuovo
trattamento con o senza ribavirina è raramente positiva
(da 0 a 15% con il trattamento combinato) (2-4).
Tabella 4. Studi clinici di interferone alfa-2b più ribavirina vs interferone alfa-2b da solo in pazienti relapsers
o resistenti alla monoterapia: percentuale di risposta virologica e biochimica sostenuta
TRIAL
1° autore (rif. biblio.)
n. di pazienti
IFN
IFN +
RIBA
% HCV-RNA negativo
IFN
IFN +
RIBA
% ALT normale
IFN
IFN +
RIBA
Relapsers:
Davis (1)
Bell (2)
Barbaro (3)
172
13
100
173
14
100
5
38
9#
49
28
39#
5
NR
49
NR
Non responders:
Andreone (4)
Bell (2)
Barbaro (3)
24
13
100
26
13
100
0
7
1#
0
15
14#
0
NR
0
NR
La posizione espressa dalla EASL International Consensus Conference on Hepatitis C è la seguente: “there are
no clear data to indicate that retreatment [with interferon
plus ribavirin] will be beneficial [in non responders]” (non
esistono dati certi per indicare che il trattamento con interferone alfa-2b più ribavirina sarà di beneficio nei pazienti
resistenti alla monoterapia con interferone alfa) (5).
Inoltre, rimane ancora incerto il ruolo della terapia di
combinazione nei cirrotici ed in varie altre situazioni.
Negli studi clinici finora condotti la percentuale di
pazienti con cirrosi era minima (< 5%) e si trattava
comunque di forme ben compensate. Altresì sono ancora incerti il ruolo e il rischio della terapia di combinazione nei soggetti dializzati, in quelli immunocompromessi, con reattività autoimmuni concomitanti, nei linfomi e nella crioglobulinemia.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
Bibliografia
Note: In tutti questi trial la durata del trattamento era di 6 mesi e la risposta sostenuta era valutata dopo 6 mesi dalla sospensione del trattamento.
L’interferone (IFN) usato era l’alfa-2b, ad eccezione del trial di Bell et al. dove veniva utilizzato l’alfa-2a, alla dose di 4,5 MU tre volte la settimana.
Nel trial di Barbaro et al. la dose di interferone era di 6 MU tre volte la settimana, negli altri era pari a 3 MU tre volte la settimana.
NR: dato non riportato. #: la valutazione include le risposte virologica e biochimica, non separate.
1. Davis GL et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin for the treatment of relapse of chronic hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1493-9.
2. Bell H et al. Treatment with interferon alpha-2a alone
or interferon alpha-2a plus ribavirin in patients with
chronic hepatitis C previously treated with interferon
alpha-2a. Scand J Gastroenterol 1999;34:194-8.
3. Barbaro G et al. Interferon alpha-2b and ribavirin in
combination for patients with chronic hepatitis C who
failed to respond, or relapsed, after interferon alpha therapy: a randomized trial. Am J Med 1999;107:112-8.
4. Andreone P et al. Interferon-a plus ribavirin in chronic
hepatitis C resistant to previous interferon-a course:
results of a randomized multicenter trial. J Hepatol
1999;30:788-93.
5. EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Paris 26-28 February 1999 J Hepatol 1999;30:956-61.
13
AGGIORNAMENTI
È noto che i principali effetti indesiderati dell’interferone alfa sono rappresentati da sintomi similinfluenzali (febbre, brividi, cefalea, mialgie, nausea e
diarrea, che tendono a ridursi con la prosecuzione
della terapia e con la somministrazione di paracetamolo), da tireopatie e da manifestazioni psichiatriche,
in particolare di tipo depressivo. Altri effetti sono:
astenia, alopecia, rash cutaneo, emorragie retiniche.
Negli studi clinici che hanno valutato l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b, eventi indesiderati gravi si sono manifestati in circa il 6,5% dei
relapsers e nell’11% dei soggetti precedentemente
non trattati per la loro epatite C (1). I disturbi più frequenti sono stati quelli a carico della sfera emotiva,
probabilmente dovuti all’interferone alfa-2b: depressione, stato d’ansia e idee suicide sono stati la causa
più frequente di interruzione del trattamento.
L’effetto sfavorevole più preoccupante in corso di
trattamento con l’associazione ribavirina più interferone alfa-2b è l’insorgenza di anemia emolitica, dovuta
ad iperemolisi e ad inibizione degli stadi finali di
maturazione eritrocitaria. Negli studi comparativi in
precedenza citati, il 74% dei pazienti trattati con l’associazione ha presentato una diminuzione del tasso di
emoglobina superiore a 2 g/dl, versus il 9% dei soggetti trattati con interferone alfa-2b in monoterapia (1).
La scheda tecnica del Rebetol, nome commerciale
della ribavirina, raccomanda di non iniziare il trattamento se il valore di emoglobina è inferiore a 12 g/dl.
Si raccomanda un controllo dell’emoglobinemia due
e quattro settimane dopo l’inizio del trattamento e
successivamente ad intervalli regolari. La ribavirina
quasi invariabilmente causa emolisi ed anemia: solitamente il calo dell’emoglobina di 1-2 g osservato
durante la terapia, è ben tollerato e reversibile alla
sospensione del farmaco. Una diminuzione maggiore
del valore di emoglobina può comportare una riduzione del dosaggio della ribavirina o anche la sospensione della terapia. L’anemia emolitica può determinare un aumento dell’uricemia (rischio di gotta nei
malati predisposti).
La terapia di combinazione con ribavirina va usata
con prudenza nei soggetti con discrasie ematiche e nei
soggetti in cui un calo rapido dell’emoglobina può
causare problemi di ipoperfusione d’organo (ad esempio nei coronaropatici a rischio di infarto miocardico).
L’uso della ribavirina è da evitare nelle donne in
gravidanza.
La percentuale di pazienti che devono sospendere o
ridurre le dosi dell’uno o dell’altro farmaco è maggiore
per il trattamento combinato rispetto a quanto si verifica con interferone in monoterapia.
Nella Tabella 5 è riportata la percentuale di sospensione del trattamento per reazioni avverse osservata
negli studi clinici comparativi tra terapia combinata e
14
monoterapia (2-5). Si osserva che, quando la terapia
di associazione viene proseguita per 48 settimane, il
numero di pazienti che la abbandona oscilla intorno
al 20%.
Tabella 5. Percentuale di sospensione del trattamento per reazioni avverse negli studi
clinici con campione di dimensione uguale o superiore a 100 pazienti
TRIAL
1° autore (rif. biblio.)
IFN
IFN + RIBA
Poynard (2)
Trattamento:
- 24 settimane
- 48 settimane
13
8
19
Mc Hutchison (3)
Trattamento:
- 24 settimane
- 48 settimane
9
14
8
21
12
32
3
6
Reichard (4)
(Sospensione o riduzione
di dosaggio)
Davis (5)
Bibliografia
5. Effetti collaterali della terapia con interferone
alfa-2b e ribavirina
1. EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61.
2. Poynard T et al. Randomised trial of interferon a-2b plus
ribavirin for 48 weeks or for 24 weeks vs interferon a-2b
plus placebo for treatment of chronic infection with hepatitis C virus. Lancet 1998;352:1426-32.
3. McHutchison JG et al. Interferon alfa-2b alone or in combination with ribavirin as initial treatment for chronic
hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1485-92.
4. Reichard O et al. Randomised, double-blind, placebocontrolled trial of interferon a-2b with and without ribavirin for chronic hepatitis C. Lancet 1998;351:83-7.
5. Davis GL et al. Interferon alfa-2b alone or in combination
with ribavirin for the treatment of relapse of chronic
hepatitis C. N Engl J Med 1998;339:1493-9.
6. Quali pazienti trattare e non trattare?
In base a quanto previsto da EASL Consensus Statement (1) (v. Box 3), la decisione di iniziare un trattamento dell’epatite cronica C con terapia combinata
ribavirina più interferone alfa-2b è un problema piuttosto complesso, che dovrebbe tenere in considerazione
numerose variabili: età dei pazienti, condizioni generali di salute, rischio di cirrosi, probabilità di risposta e
altre condizioni cliniche che possono ridurre la durata
della vita o controindicano l’impiego di interferone o di
ribavirina. Di seguito sono riportati i principali quesiti
posti agli esperti della EASL e le risposte da essi formulate.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
BOX 3
European Association for the Study of the Liver (EASL): International Consensus Conference on
Hepatitis C (Parigi 26-28 febbraio 1999)
Membri del Comitato Organizzatore
P Marcellin (Presidente) (Parigi), A Alberti (Padova), G Dusheiko (Londra), R Esteban (Barcellona), M Manns (Hannover), D Shouval (Gerusalemme), O Weiland (Huddinge), R Williams (Londra)
Membri del Consensus Panel
JP Benhamou (Presidente) (Parigi), J Rodes (Vice-Presidente) (Barcellona), H Alter (Bethesda), H Bismuth (Parigi), V
Desmet (Lovanio), J Guardia (Barcellona), J Heathcote (Toronto), A Lok (Ann Arbor), WC Maddrey (Dallas), KH Meyer
Zum Buschenfelde (Mainz), L Pagliaro (Palermo), G Paumgartner (Monaco), S Sherlock (Londra)
Lista di Esperti
S Abrignani (Siena), A Alberti (Padova), M Alter (Atlanta), F Bonino (Pisa), F Bortolotti (Padova), C Bréchot (Parigi),
M Carneiro de Moura (Lisbona), V Carreno (Madrid), M Colombo (Milano), A Craxi (Palermo), G Davis (Gainesville),
R De Francesco (Roma), F Degos (Parigi), A Di Bisceglie (Saint-Louis), H Dienes (Colonia), G Dusheiko (Londra), J
Esteban (Barcellona), R Esteban (Barcellona), P Farci (Cagliari), C Ferrari (Parma), G Foster (Londra), S Hadziyannis
(Atene), J Hoofnagle (Bethesda), R Koff (Framingham), D Lavanchy (Ginevra), K Lindsay (Los Angeles), F Lunel
(Angers), M Manns (Hannover), P Marcellin (Parigi), M Mondelli (Pavia), B Nalpas (Parigi), N Naoumov (Londra), JM
Pawlotsky (Créteil), S Pol (Parigi), P Pontisso (Padova), T Poynard (Parigi), J Prieto (Pamplona), M Rizzetto (Torino),
M Roggendorf (Essen), M Ruiz Moreno (Madrid), D Samuel (Parigi), J Sanchez-Tapias (Barcellona), S Schalm (Rotterdam), D Shouval (Gerusalemme), P Simmonds (Edinburgo), V Soriano (Madrid), N Tassopoulos (Atene), H Thomas
(Londra), C Trépo (Lione), CL Van der Poel (Amsterdam), W Vogel (Innsbruck), O Weiland (Huddinge), R Wejstal (Goteborg), R Williams (Londra), T Wright (San Francisco), A Zanetti (Milano), JP Zarski (Grenoble), S Zeuzem (Francoforte), F Zoulim (Lione)
La decisione di trattare dipende dalle lesioni istologiche?
Prima di iniziare la terapia, è appropriato e importante eseguire una biopsia epatica. Tale indagine fornisce l’opportunità di graduare la gravità della necroinfiammazione e lo stadio della progressione della
fibrosi, che possono essere poi considerati in rapporto
alla presunta durata della malattia, allo stato clinico e
alle anormalità biochimiche, al fine di assumere le
decisioni terapeutiche. La biopsia fornisce inoltre la
linea basale dei singoli pazienti. Esiste l’accordo che i
pazienti con necroinfiammazione moderata/grave e/o
fibrosi dovrebbero essere trattati.
La decisione di trattare dipende dall’età del paziente?
L’età fisiologica del paziente è più importante di
quella cronologica. Fattori da considerare nei pazienti
più anziani comprendono lo stato di salute generale,
con una speciale attenzione al sistema cardiovascolare,
al fine di determinare il potenziale rischio di una diminuzione del livello di emoglobina se si pensa di iniziare il trattamento con ribavirina.
La decisione di trattare dipende dalle manifestazioni
cliniche?
Nelle fasi iniziali, in assenza di cirrosi avanzata, esiste
una scarsa correlazione tra manifestazioni cliniche e
lesioni istologiche della malattia. Lo stato clinico nel suo
complesso può influenzare la decisione di trattare con
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
riguardo alla qualità di vita. Alcuni studi hanno evidenziato l’abbattimento dei sintomi in pazienti in cui il trattamento aveva indotto sostenute riduzioni di HCV-RNA.
La decisione di trattare dipende dal livello di viremia?
Solo i pazienti che presentano manifesti livelli sierici di HCV-RNA sono candidati alla terapia. E’ ampiamente riconosciuto che i pazienti con più alti livelli di
viremia (più di 2 milioni di copie/ml) presentano probabilità relativamente minori di rispondere alla terapia.
Tuttavia, il livello di viremia non dovrebbe essere considerato un motivo per negare il trattamento.
La decisione di trattare dipende dal genotipo del virus?
Anche se è ben dimostrato che i pazienti con genotipo 1 rispondono alla terapia in modo meno efficace dei
pazienti con genotipo 2 o 3, il genotipo non dovrebbe
essere considerato un motivo per negare il trattamento.
I bambini dovrebbero essere sottoposti a terapia?
Non esistono studi di ampie dimensioni sul trattamento dell’epatite cronica C nei bambini. I dati disponibili suggeriscono che i bambini presentano percentuali di risposta alla monoterapia con interferone simili
agli adulti. Non esistono dati sulla terapia combinata
interferone più ribavirina nei bambini. La decisione di
trattare un bambino dovrebbe tenere in considerazione
gli stessi fattori degli adulti. Possono esistere fattori
aggiuntivi specifici per i bambini più piccoli, in parti-
15
AGGIORNAMENTI
I pazienti con infezione da HIV dovrebbero essere sottoposti a terapia?
L’epatite cronica C è di frequente diagnosticata in
soggetti con infezione da HIV. E’ stato accertato che la
progressione dell’epatite cronica C è accelerata in
pazienti coinfettati. Il trattamento dell’epatite C può
essere indicato in quei pazienti in cui la terapia ha stabilizzato l’infezione HIV. Quando si trattano tali
pazienti, dovrebbero essere anche considerate le possibili interazioni tra farmaci e le anormalità ematiche
aggiuntive.
I pazienti con cirrosi compensata dovrebbero essere
trattati?
I pazienti con cirrosi compensata possono essere
trattati. Alcuni benefici potenziali, quali la riduzione
dello sviluppo di carcinoma epatocellulare e la decompensazione, non sono stati provati e dovrebbero essere
valutati in futuri studi controllati.
I pazienti con transaminasi in persistenza normali
dovrebbero essere trattati?
I pazienti HCV-RNA positivi e con valori normali
persistenti di transaminasi, generalmente presentano
una malattia di lieve entità e una risposta incerta alla
terapia. Al presente, non si raccomanda a questi pazienti di sottoporsi a trattamento, ma dovrebbero essere
attentamente controllati ogni 4-6 mesi o inclusi in studi
clinici.
I pazienti con condizioni extraepatiche correlate
all’HCV dovrebbero essere trattati?
Il trattamento di condizioni extraepatiche correlate
all’HCV, quali, ad esempio, crioglobulinemia sintomatica, glomerulonefrite o vasculite, va opportunamente
valutato. Una remissione sostenuta è comunque improbabile e può essere richiesta una terapia di mantenimento a lungo termine con interferone. L’efficacia di
una terapia combinata interferone più ribavirina deve
essere provata.
I pazienti con epatite acuta C dovrebbero essere trattati?
La maggior parte degli esperti è favorevole al trattamento di pazienti con epatite acuta C. Inizio e durata del trattamento non sono stati chiaramente stabiliti. I pazienti con epatite acuta C vanno informati che
hanno un 15% di probabilità di guarigione spontanea
e un 85% di sviluppare epatite cronica C; inoltre è
bene che siano informati sugli effetti indesiderati
della terapia. Le decisioni concernenti il trattamento
dovrebbero essere formulate su base individuale e,
idealmente, i pazienti dovrebbero essere inclusi in
uno studio sperimentale. La terapia combinata non è
stata valutata.
16
Quali pazienti non si dovrebbero trattare?
Data l’efficacia relativamente bassa e la frequenza
delle reazioni avverse della terapia attuale dell’epatite C, il trattamento non è conveniente per molti
pazienti con virus dell’epatite C. In particolare non
sono candidati al trattamento i pazienti con abuso
attivo di alcool, in quanto l’alcool aumenta sfavorevolmente la viremia ed interferisce con la risposta
terapeutica. Non dovrebbero essere sottoposti a trattamento i soggetti che fanno uso di droghe iniettabili
endovena a causa dell’alto rischio di nuove infezioni.
L’adesione al trattamento è tra l’altro scarsa in
pazienti in cui l’alcoolismo non è stato interrotto o
che sono tossicodipendenti. La terapia appare potenzialmente dannosa e non esiste dimostrazione di utilità in pazienti con cirrosi scompensata. Dubbio è
altresì il vantaggio terapeutico del trattamento nei
pazienti con malattia istologicamente lieve, specie se
anziani e con patologia associata.
Con riferimento all’età, si fa rilevare che l’età media
dei pazienti inclusi nei trial in precedenza ricordati (v.
4.1.1. e 4.1.2.) va da 39 a 45 anni, con deviazioni standard di 8-11 anni, il che implica che il 95% aveva meno
di 60 anni. Siccome la storia naturale dell’epatite cronica C è molto lunga, sviluppandosi nell’arco in media
di almeno un decennio, in pazienti anziani diventano
probabili altre cause di morbosità e mortalità, che riducono o annullano il peso prognostico sfavorevole dell’epatite.
Bibliografia
colare l’effetto dell’interferone sulla crescita, che
richiedono ulteriori studi.
1.
EASL International Consensus Conference on Hepatitis
C. Paris 26-28 February 1999. J Hepatol 1999;30:956-61.
7. Modalità di attuazione della terapia
Si rimanda al Decreto 19 novembre 1999 “Modalità di impiego di specialità a base di ribavirina”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 2 dicembre 1999 Serie
generale n. 283.
8. Conclusioni
Allo stato attuale delle conoscenze e della significatività dei dati disponibili è logico ritenere che la
combinazione interferone alfa-2b più ribavirina rappresenti la terapia di prima scelta in differenti popolazioni di soggetti affetti da epatite cronica C. Tuttavia è indubbio che numerosi quesiti restano ancora
insoluti e/o necessitano di ulteriori conferme, specie
quelli relativi alle condizioni di trasferimento e di
attuazione di questo intervento nella pratica clinica
reale e quelli di follow up della terapia. A partire da
quest’ottica, l’erogazione della ribavirina a carico del
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
SSN, in una prospettiva d’impiego su un’ampia
popolazione di pazienti, ha offerto la concreta possibilità di dar luogo a un vero e proprio sistema di
monitoraggio del suo utilizzo sotto il profilo sia dell’appropriatezza terapeutica sia della sua efficacia nel
tempo. In altri termini, il nuovo intervento terapeutico ha offerto l’occasione per avviare un sistema di
“rimborsabilità controllata”, in cui l’attenzione e l’interesse delle Istituzioni (CUF, Dipartimento per la
Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza,
Istituto Superiore di Sanità, Assessorati Regionali
alla Sanità) non si sono limitati agli aspetti finanziari
collegati all’erogazione, ma indirizzati soprattutto
alla conoscenza e alla diffusione dei risultati dell’utilizzo del farmaco.
Per una comprensione più dettagliata di questo
particolare aspetto della terapia ribavirina - interferone, si rimanda il lettore all’articolo, di seguito riportato, relativo all’indagine multicentrica sul profilo
d’uso della ribavirina.
IMPROVE
Indagine multicentrica sul profilo d’uso della ribavirina: un osservatorio per la valutazione degli esiti
La logica e gli obiettivi dello studio
A seguito di una procedura centralizzata europea,
la commercializzazione della ribavirina è stata autorizzata anche in Italia e il farmaco è stato ammesso
alla rimborsabilità nella fascia H del Prontuario Terapeutico Nazionale.
Le indicazioni terapeutiche, approvate dalla Commissione Europea sulla base dei risultati ottenuti
nelle sperimentazioni cliniche, prevedono l’uso di
ribavirina in associazione con l’interferone alfa-2b
per il trattamento dell’epatite cronica C in pazienti
adulti che abbiano risposto in precedenza alla terapia
con interferone, ma che abbiano avuto una recidiva, e
in pazienti non trattati in precedenza, senza scompenso epatico, con transaminasi elevate e con presenza di
HCV-RNA sierico (con fibrosi portale o elevata attività infiammatoria).
L’immissione in commercio di ribavirina ha indotto il Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e
la Farmacovigilanza del Ministero della Sanità e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ad attuare un programma multicentrico di farmacoepidemiologia in
grado di fornire informazioni sull’uso routinario del
farmaco.
Dopo l’immissione in commercio i farmaci sono
soggetti ad un uso allargato sia in termini quantitativi che qualitativi. Diventa pertanto particolarmente
importante, soprattutto per molecole di elevato interesse clinico, continuare lo studio del profilo di beneficio/rischio nella popolazione naturalmente esposta
alla terapia e nelle condizioni di uso che riflettono la
realtà prescrittiva.
È questa un’esigenza di carattere generale in quanto, a fronte di un’accelerazione dei tempi per l’approvazione e la commercializzazione dei farmaci, legata
anche alla centralizzazione delle procedure a livello
europeo, occorre valutare più attentamente l’effettiva
trasferibilità nella pratica clinica delle conoscenze
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
originate nelle fasi pre-registrative dei farmaci (sperimentazioni cliniche controllate o RCT). Tale impostazione, sempre più evidente anche nel dibattito
scientifico internazionale, non ha come finalità la
ridiscussione dei risultati eventualmente ottenuti nell’ambito degli RCT, ma quella di completare il quadro conoscitivo complessivamente disponibile per un
farmaco.
Nel caso della ribavirina deve essere sottolineato che
gli studi sperimentali di riferimento, pubblicati su riviste di indubbio prestigio, mostrano un’eterogeneità di
risposta alla terapia da parte dei diversi sottogruppi di
pazienti con particolari quadri clinici e virologici di
epatite C. Tuttavia, come sottolineato da numerose
associazioni scientifiche, è indubbio che una molecola
quale la ribavirina meriti ulteriori verifiche soprattutto
in termini di condizioni reali d’impiego.
Secondo quanto riportato in un recente editoriale
del British Medical Journal (1), la valutazione dell’utilità dei trattamenti dovrebbe avvenire in tre fasi:
a) in uno o più trial randomizzati (“can it work?”
La risposta a questa domanda definisce la efficacy del
trattamento nelle condizioni ideali e, per molti versi,
artificiali di un trial);
b) nell’applicazione post-marketing, più ampia ed
eterogenea (“does it work?” La risposta a questa
domanda definisce la effectiveness del trattamento);
c) infine, dovrebbe essere valutata la convenienza
di applicazione del trattamento in termini non solo di
salute preservata o restituita ma anche economici (“is
it worth it?” La risposta a questa domanda definisce
la efficiency, o cost/effectiveness del trattamento in
confronto ad altri possibili interventi sanitari).
Gli obiettivi principali dell’indagine sono la valutazione degli effetti terapeutici e della tollerabilità
del trattamento dell’epatite cronica C con interferone
alfa-2b più ribavirina al di fuori del disegno di un trial
randomizzato. Gli effetti terapeutici vengono valutati in base ai due end point surrogati generalmente
17
AGGIORNAMENTI
Bibliografia
accettati: transaminasi e viremia a 6 mesi dal completamento del trattamento. Sarà inoltre esplorata la
possibilità di un follow up a distanza dei pazienti trattati per una valutazione delle complicanze della cirrosi e della sopravvivenza.
1.
Haynes B. Can it work? Does it work? Is it worth it? The
testing of healthcare interventions is evolving. BMJ
1999;319:652-3.
L’organizzazione dello studio
L’indagine prevede il coinvolgimento dei centri
ospedalieri che prescrivono la terapia con ribavirina. I
centri partecipanti saranno coordinati, all’interno di
ogni Regione, da un referente che avrà l’incarico di
coordinare tutti i flussi informativi necessari al corretto andamento dell’indagine. In particolare, il referente regionale dovrà ricevere a cadenza periodica copia
delle schede di raccolta dei dati compilate dai centri,
operando una prima verifica della completezza delle
informazioni. Con cadenza mensile, il referente regionale invierà copia di tutte le schede ricevute e, eventualmente, i dati già registrati, al Centro presso l’ISS.
Presso l’ISS tutte le informazioni saranno registrate in un database centralizzato dove saranno effettuate tutte le operazioni di verifica di correttezza. Il Centro presso l’ISS produrrà con cadenza trimestrale dei
rapporti di sintesi sull’andamento dello studio, che
saranno sottoposti alla valutazione del Comitato
Scientifico. Tali rapporti saranno successivamente
inviati ai referenti regionali perché vengano resi disponibili a tutti i partecipanti allo studio.
Al termine della durata prevista dello studio (circa
2 anni) sarà stilata, a cura del Comitato Scientifico,
una relazione finale con tutte le valutazioni relative
all’uso della ribavirina più interferone nella terapia
dell’epatite C. Tale relazione finale sarà inviata per le
opportune decisioni alla CUF.
Alcune riflessioni conclusive
La procedura di registrazione della ribavirina, atto
di per sé puramente regolatorio, ha consentito di creare un’occasione che, grazie al coinvolgimento dei
diversi livelli istituzionali (Ministero della Sanità,
CUF, Istituto Superiore di Sanità, Regioni) e delle
diverse componenti della ricerca clinica, ha portato
alla predisposizione di un possibile “modello” di
intervento utilizzabile anche in altre future occasioni.
Indagini di questo tipo, mirate all’identificazione dei
profili d’uso in relazione a possibili indicatori d’esito, possono consentire di avere a disposizione significativi osservatori clinici per una valutazione nel
tempo del reale impatto dei farmaci sulla storia naturale delle malattie per le quali sono stati sviluppati e
sperimentati.
Comitato Scientifico: L. Pagliaro, A. Alberti, M.
Levrero, M. Maggini, N. Martini, A. Mele, R.
Raschetti, M. Rizzetto, T. Stroffolini, P. Viale.
News
Geni virali e cronicizzazione dell’epatite C
Nella maggior parte degli individui colpiti dal virus dell’epatite C (HCV), all’infezione acuta fa seguito la
cronicizzazione della malattia; in una minoranza fortunata di pazienti, all’incirca il 15%, si osserva invece
una completa guarigione.
Uno studio recente, pubblicato il 14 aprile 2000 su Science (1), segnala che sono gli eventi che si verificano subito dopo l’infezione primaria a determinare se i pazienti riescono ad eradicare il virus dall’organismo,
o se invece mantengono l’infezione cronicamente. La ricerca a cui ci si riferisce, condotta da ricercatori dei
National Institutes of Health degli Stati Uniti, dell’Università di Cagliari e di altre istituzioni, ha analizzato
come i geni virali che codificano le proteine che rivestono la superficie dei virus si evolvono nei pazienti con
infezione post-trasfusionale da HCV. Le modificazioni delle proteine di superficie consentono ai virus di eludere gli attacchi del sistema immunitario.
I ricercatori hanno evidenziato che, nei pazienti in grado di eliminare con successo l’HCV, i geni delle proteine di superficie restano relativamente inalterati dopo la risposta immunitaria iniziale. Viceversa, nei
pazienti che sviluppano un’epatite C cronica, i geni delle proteine di superficie evolvono rapidamente e
mostrano una diversità genetica ben più evidente.
Le nuove evidenze permettono di spiegare come l’HCV persista nell’organismo e suggeriscono che l’analisi delle modificazioni della sequenza virale nella fase precoce dell’infezione può aiutare i medici a meglio
pronosticare quali pazienti svilupperanno un’epatite C cronica.
1. Farci P et al. The outcome of acute hepatitis C predicted by the evolution of the viral quasispecies. Science 2000;288:339-44.
18
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
La resistenza agli antimicrobici oggi: momenti
e prospettive di intervento
Uno degli aspetti della farmacoterapia più degni di
considerazione ai nostri giorni è indubbiamente la resistenza batterica agli antibiotici ed ai chemioterapici,
termini che si preferisce unificare in quello di “antimicrobici”.
Definizione di resistenza e dati documentari
La resistenza agli antibiotici, per la quale esistono
documentazioni di preesistenza all’impiego degli antimicrobici (1), può esser considerata come la capacità
dei microrganismi di alcune specie di sopravvivere, o
anche moltiplicarsi, in presenza di concentrazioni di
antimicrobici di regola sufficienti per inibire o uccidere microrganismi della stessa specie.
La resistenza agli antimicrobici, riconosciuta in clinica negli anni ‘50 (penicillina e stafilococchi; sulfamidici e gonococchi), è un fenomeno che si è andato
accentuando nell’ultimo decennio ed investe l’intera
popolazione rappresentando un problema globale prioritario di salute pubblica, che riguarda Paesi sviluppati
ed in via di sviluppo, con pesanti risvolti economici.
Germi responsabili di infezioni anche assai gravi e
pericolose per la vita, quali Pseudomonas, Klebsiella,
Acinobacter baumanii ed altri Gram-negativi, enterococchi, stafilococchi, pneumococchi, hanno frequentemente raggiunto in diversi ambienti un tale grado di
multiresistenza da diventare intrattabili anche con i più
recenti antimicrobici (2). Problemi di primo piano sono
posti dagli enterococcchi resistenti alla vancomicina
(VRE), dagli stafilococchi meticillino-resistenti
(MRSA), dai bacilli Gram-negativi che elaborano ßlattamasi ad ampio spettro, da pneumococchi penicillino- ed eritromicino-resistenti, senza parlare delle serie
preoccupazioni connesse alla multiresistenza del
Mycobacterium tuberculosis.
Lo sviluppo di resistenza è stato molto veloce negli
ultimi anni; in ospedali statunitensi, la percentuale di
VRE è salita da 0,3% nel 1989 a valori tra 4,9 e 10% nel
1993 (segnalazioni di 9,1% nel 1994) (3) e nelle unità
di terapia intensiva dallo 0,4% (nel 1989) al 13,6% nel
1993 (4); in grossi ospedali universitari statunitensi, la
percentuale di MRSA tra ceppi di Staph. aureus è salita dall’ 8% nel 1986 al 40% nel 1992; in New York City
la percentuale è del 50%; dati ottenuti da 17 Paesi europei danno recentemente un valore di circa il 60% (5).
Pericoloso, anche se non quantificato, si profila il passaggio della resistenza alla vancomicina da enterococchi (VRE) a stafilococchi, per il largo impiego dell’antibiotico in pazienti con infezioni da MRSA (6,7). Relativamente a microrganismi responsabili di infezioni da
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
comunità, la percentuale di Strep. pneumoniae multiresistenti è salita dal 3,6% nel 1987 al 14,5% nel 1994 ed
al 23,6% (da aggiungere un altro 14,1% con ridotta sensibilità) nel 1995 (3); dati più recenti danno la resistenza a circa il 46%. Si tenga presente che negli USA
(~250 milioni di abitanti) lo Strep. pneumoniae è
responsabile di 7.000.000 di casi di otite media,
500.000 casi di polmonite, 50.000 casi di sepsi, 3.000
casi di meningite all’anno, un numero imprecisato di
bronchiti, endocarditi ed artrite settica (4).
Fra le infezioni una volta sensibili ed ora resistenti
agli antibiotici vanno ancora segnalate dissenteria da
Shigella dysenteriae multiresistente, tifo da Salmonella
typhi multiresistente, gonorrea da Neisseria gonorrhoeae resistente a penicilline e tetracicline (8).
Come i batteri divengono resistenti
Come è noto, i batteri diventano resistenti in vario
modo: alcuni ereditano geni di resistenza; altri li acquisiscono a seguito di mutazioni spontanee o come rafforzamento di un carattere genetico preesistente. Altri
(ad es., stafilococchi) acquisiscono il gene della resistenza agli antimicrobici da una cellula batterica vicina
(es. enterococchi) per mezzo di plasmidi, sottili anelli
di DNA che veicolano geni da una cellula batterica ad
un’altra. La resistenza può essere anche trasferita da
virus capaci di captare un gene di resistenza da un batterio ed inocularlo in un altro. Infine, quando batteri
morti si disintegrano, altri possono acquisire il materiale genetico conferente resistenza appena reso disponibile (9).
La resistenza: un fenomeno di ecologia genetica globale
È oggi dato ben acquisito che il trasferimento di geni
batterici di resistenza si verifica in tutta la biosfera, specialmente in siti ricchi di nutrienti come sistemi acquatici, sedimenti, suoli, aree vicine a radici delle piante, e
nel liquame dei sistemi di trattamento biologico dei
rifiuti (10-12). Batteri resistenti sono stati identificati in
tutti questi siti. La resistenza può anche diffondersi da
piante o vegetali trattati con antimicrobici o fertilizzati
con concimi contenenti residui animali o umani. Si
pensi che con un’insalata di pomodori, lattuga e cocomero vengono ingeriti all’incirca 109 batteri (13)!
Pertanto, la resistenza dovrebbe essere considerata
come un fenomeno di ecologia genetica globale. Gli
antimicrobici, i batteri ed i geni che codificano per la
19
AGGIORNAMENTI
resistenza sono fattori comuni tra i quattro compartimenti ecologici (uomo, animali, piante e acque al
suolo). I geni si muovono tra i batteri in ciascun compartimento ed i batteri possono muoversi tra i compartimenti.
Il momento unitario della resistenza
Pur nella sua globalità trasversale, la selezione di
microrganismi resistenti e quindi la resistenza agli antimicrobici ha un suo fondamentale momento unitario:
l’uso di antimicrobici su larga scala nell’uomo e negli
animali.
Per una valutazione quantitativa del problema si
tenga presente che negli USA sono prodotte circa
23.000 tonnellate di antibiotici all’anno (15.700 tonnellate nel 1980) (14), la metà per impiego terapeutico nell’uomo (solo per la metà ritenuto appropriato) (15) e
l’altra metà per la promozione della crescita di animali
e per il trattamento con aerosol di alberi da frutto.
Su 10.493 tonnellate di antibiotici consumati in
Europa nel 1997, circa il 52% è stato utilizzato per uso
umano, il 33% in medicina veterinaria ed il 15% come
additivo per la produzione animale (16).
I momenti di acquisizione della resistenza
Analizzando i grandi settori di utilizzo indicati si
rileva che, prescindendo dall’impiego terapeutico (giustificato o meno) in molteplici affezioni ad eziologia
batterica dell’uomo, altri due momenti sono essenziali
nella determinazione della resistenza agli antimicrobici: il trattamento su larga scala con questi di animali
destinati ad entrare nella catena alimentare umana, con
il diretto trasferimento di patogeni all’uomo (17,18), la
possibilità di diffusione di determinanti della resistenza
tra patogeni animali ed umani, e l’impiego di taluni
antimicrobici come promotori della crescita della produzione animale, capaci di interessare la flora intestinale e la digeribilità del materiale edibile. I due
momenti detti spesso si confondono perché, nell’intento di evitare infezioni a rapida diffusione in allevamenti intensivi con un gran numero di giovani animali
ristretti in aree limitate, piuttosto che migliorare le condizioni igieniche di allevamento si procede ad impiego
massiccio di antimicrobici che esercitano una pressione di selezione per lo sviluppo di patogeni resistenti e
batteri commensali.
Batteri resistenti ad antimicrobici possono esser presenti nel tratto gastrointestinale di una gran parte di
animali destinati all’alimentazione (19-21). Poiché è
difficile prevenire la contaminazione di carcasse durante la macellazione e le successive tappe, batteri resistenti derivati dal tratto intestinale di animali produttori di alimenti possono essere trasmessi all’uomo attraverso questi ultimi. Ad es., gli enterococchi negli animali da allevamento portano geni di resistenza ad antibatterici usati in medicina umana, ed il potenziale
20
impatto di questo pool di geni di resistenza sulla salute
umana ha causato di recente molti problemi. È interessante rilevare che l’emergenza e la diffusione di resistenza ad antimicrobici, ad es. Salmonella e Campylobacter, resistenti ai fluorochinoloni negli allevamenti, è
un fenomeno che va di pari passo con i medesimi fenomeni rilevati negli ospedali, e antimicrobici simili sono
utilizzati in ambedue gli ambienti.
L’uso veterinario di antimicrobici può costituire un
pericolo per la salute umana, ma l’impatto della resistenza tra i batteri zoonotici ed il rischio di trasferimento di determinanti della resistenza fra batteri animali resistenti e patogeni umani resta ancora un pericolo non quantificato.
Situazioni di resistenza pericolose si sono verificate
per impiego di antibiotici ai fini di controllare la crescita batterica e fungina in orticoltura: ad es. Burkholderia cepacia, usata per le sue proprietà antifungine per
il trattamento delle discariche, per l’aumento di raccolti e per impedire il deterioramento di frutta e vegetali,
può esser responsabile, come patogeno, di gravi infezioni in pazienti con fibrosi cistica ed essere resistente
a tutti gli antibiotici (3).
Per la protezione di verdure e alberi da frutto, in
alcune aree, ai convenzionali pesticidi chimici (vietati in Italia dal 1971) si preferisce l’uso di antimicrobici che agiscono su microrganismi simili a pericolosi patogeni umani, come Pseudomonas e Burkholderia; nel nostro Paese, comunque, non sussistono problemi di trasferimento della resistenza
legati all’utilizzo di tali antimicrobici. Invece, è
vivo al presente il dibattito circa il possibile impatto sulla salute dell’uomo di organismi geneticamente modificati utilizzati come alimenti per l’uomo e
per animali destinati alla catena alimentare umana.
In realtà, un aumento della resistenza batterica non
sembra possa derivare da tecniche di bioingegneria
che permettano di ottenere organismi (piante e vegetali inclusi) geneticamente modificati (GMO,
GMP)* e nei quali sono incorporati indicatori per
valutare se la modificazione genetica ha avuto successo (3,22-24). Questi indicatori sono rappresentati da geni di resistenza per gli antibiotici, ad es. marker di resistenza contro kanamicina e neomicina
(npt II)* e ß-lattamasi per l’ampicillina (61a
TEM1)*; la preoccupazione che ne è derivata è la
possibilità di trasferimento, nell’intestino, di tali
geni di resistenza dai GMO o GMP a microrganismi,
con conseguenti possibili rischi per la salute dell’uomo.
Gli interrogativi che sono stati posti a riguardo (ed ai
quali al presente è stata data risposta negativa) sono se
l’enzima possa agire direttamente sugli antibiotici e se
la resistenza possa essere trasferita a microrganismi da
GMO o GMP.
* Per il significato delle sigle si veda glossario in calce all’articolo.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
L’eventuale trasferimento di geni da vegetali geneticamente modificati a microrganismi può in effetti solo
verificarsi in tempi assai lunghi e deve esser considerato solo nei casi in cui l’antibiotico è somministrato per
via orale e vi è una pressione di selezione (23,25,26).
Antimicrobici escreti dall’uomo e dagli animali così
largamente esposti ad essi, sfuggendo alla biotrasformazione, si ritrovano immodificati nelle acque di scolo
e possono lentamente degradarsi, esercitando una continua pressione di selezione. Così, gli antimicrobici
impiegati per la protezione delle piante possono riversarsi al suolo e passare nelle acque sotterranee, dove si
possono selezionare batteri resistenti. Nell’ambiente la
maggior parte dei geni di resistenza è ristretta a batteri
Gram-negativi che spesso hanno geni derivati da plasmidi localizzati su trasposoni codificanti per enzimi
modificatori degli aminoglicosidi.
La resistenza antimicrobica tra patogeni implicati
in infezioni ospedaliere e acquisite in comunità è,
come già rilevato, crescente e per molteplici motivi:
sovraffollamento, aumento della popolazione anziana, mobilità della popolazione, uso aumentato ed
inappropriato di antibiotici, disponibilità (in alcuni
paesi) di antimicrobici come prodotti da banco, mancanza di aderenza al trattamento, minori risorse per
l’educazione sanitaria e per il controllo di infezioni,
riduzione dei mezzi a disposizione per la salute pubblica. Non è possibile al presente quantificare in
modo scientifico l’importanza di tali fattori. In realtà,
sebbene ospedale e comunità possano apparire come
ambienti separati, vi è un considerevole potenziale di
trasferimento di patogeni resistenti da e per entrambe
le direzioni.
L’impatto della resistenza
La resistenza antimicrobica, che alcuni considerano
una vera e propria azione sfavorevole dei farmaci antimicrobici da valutare in farmacovigilanza (5), ha un
profondo impatto sulla salute della popolazione che
deve esser considerato sotto diversi punti di vista:
a) il trattamento di infezioni;
b) la diffusione di infezioni;
c) l’impedimento di interventi terapeutici di rilievo;
d) il problema della resistenza nei paesi in via di sviluppo;
e) il controverso impegno dell’industria per nuovi antimicrobici;
f) i costi.
a) Il trattamento di infezioni
La resistenza antimicrobica aumenta la gravità e la
durata di infezioni (14,27), sofferenze, periodi di ospedalizzazione, fallimenti di interventi chirurgici anche
delicati, sequele (ad es. sordità per otite media da pneumococchi multiresistenti) (4), e crea la necessità di
indagini aggiuntive. Si tenga presente che, dato che i
test di sensibilità antibatterica richiedono ore o giorni
per la scelta di un antibiotico mirato, possono verificarsi, in caso di resistenza dell’organismo infettante ad una
terapia antimicrobica generalmente accettata, serie
conseguenze per mancata cura della malattia (caso di
soggetti trattati con cloramfenicolo per infezioni da
Salmonella typhi) (28).
La possibile maggiore virulenza di ceppi batterici
resistenti è un problema largamente dibattuto (2,15); in
ogni caso, morbilità e mortalità da malattie causate da
Alcune azioni del medico e del paziente per limitare la resistenza (2)
Medico
• Lavarsi a fondo le mani dopo ogni visita.
• Non soddisfare la richiesta dei pazienti per antibiotici non necessari.
• Evitare l’uso di antimicrobici ad ampio spettro non necessari e comunque le prescrizioni di antimicrobici per
infezioni autolimitantisi ad eziologia non batterica (ad es. infezioni virali dell’albero respiratorio).
• Quando possibile, effettuare una prescrizione di antimicrobici mirata.
• In ospedale, isolare pazienti con infezioni resistenti a molti antimicrobici.
• Familiarizzare con i dati locali circa le resistenze agli antibiotici.
Paziente
• Non richiedere antimicrobici.
• Assumere gli antimicrobici come prescritto, completare il ciclo di trattamento, non conservare compresse o
capsule per uso futuro.
• Lavare a fondo frutta e vegetali, evitare uova crude e carne poco cotta, specie in forma macinata.
• Usare saponi e altri prodotti con antibatterici chimici soltanto per proteggere una persona ammalata le cui difese sono indebolite.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
21
AGGIORNAMENTI
microrganismi resistenti risultano aumentate per il
ritardo o l’impossibilità di una terapia efficace per infezioni specifiche, ad es. da VRE, Mycobacterium tubercolosis (29) o pneumococchi. In pazienti con meningiti da pneumococchi altamente resistenti o elaboratori di
penicillinasi, la scarsa penetrazione di penicilline nel
liquor rende impossibile raggiungere in questo le elevate concentrazioni necessarie (8-10 volte le concentrazioni minime battericide per il germe infettante non
resistente) per una terapia efficace consentita dalla
buona tollerabilità del farmaco, con necessità di ricorrere a più costosi antibiotici a largo spettro (6).
Il fenomeno dell’aumentata morbilità e mortalità è
particolarmente rilevante nei paesi in via di sviluppo, in
cui la maggioranza della popolazione non ha i mezzi
per utilizzare antibiotici alternativi e facilmente somministrabili.
b) La diffusione di infezioni
Una delle conseguenze più importanti della resistenza antimicrobica è rappresentata da periodi più prolungati di infettività, con possibile aumento della diffusione dell’infezione da ceppi resistenti tra la popolazione,
ospedaliera e non (8,27,30). Ciò si verifica soprattutto
quando il trattamento di soggetti infetti o portatori è
un’importante strategia per la prevenzione di ulteriori
casi di malattia: si pensi alla diffusione, da parte di portatori di infezione tubercolare ovvero di gonorrea multiresistenti, dei rispettivi microrganismi nell’ambiente.
Conseguenze sfavorevoli nel senso detto possono
anche verificarsi quando soggetti portatori di microrganismi potenzialmente infettanti o colonizzanti ricevono
l’antimicrobico cui questi microrganismi sono già resistenti. In tal caso l’antimicrobico può distruggere microrganismi competitivi a quelli resistenti, conferendogli una
potente pressione di selezione con persistenza nell’ospite
per più lungo periodo, maggiore possibilità di diffusione
della malattia o anche comparsa di questa (situazioni del
genere possono ad es. riguardare Salmonellae).
c) L’impedimento di interventi terapeutici di rilievo
Un impatto particolarmente preoccupante della resistenza antibatterica deriva dal fatto che essa viene
pesantemente, e negativamente, ad interferire - fino ad
impedirli - con progressi terapeutici resi finora possibili proprio da un rilevante numero di antimicrobici efficaci (4). È il caso di lunghe e complicate procedure chirurgiche (ad es., in campo cardiologico) spesso eseguite in pazienti immunosoppressi, anziani o gravemente
ammalati, trapianti d’organo, impiego di strumentazioni invasive complesse, chemioterapia antiblastica.
Questo aspetto potrebbe vanificare decenni di strepitosi successi della biomedicina.
d) Il problema della resistenza nei paesi in via di sviluppo
Nei paesi in via di sviluppo, la disponibilità e l’impiego di antibiotici sono scarsamente controllati.
Ciò ha portato ad un elevato grado di resistenza,
soprattutto agli antibiotici più vecchi (31). Il fatto
22
preoccupante è che questi paesi vengono ogni anno
visitati da un elevato numero di turisti provenienti da
ogni parte del mondo, il che implica una probabile globalizzazione dei geni di resistenza (12). Sono diversi i
motivi per cui l’impatto della resistenza antimicrobica
nei paesi in via di sviluppo è particolarmente devastante (32). L’aumentata morbilità e mortalità, associate
alla resistenza batterica sono più difficili da controllare
in questi paesi, dove i più recenti antibiotici alternativi
sono assai costosi (8,33,34). Inoltre, molti di questi
antibiotici vengono somministrati per via iniettiva, il
che comporta spese addizionali per siringhe, attrezzature per l’infusione endovenosa, assistenza infermieristica, ecc. (5).
e) Il controverso impegno dell’industria per nuovi antimicrobici
L’ultima nuova classe di farmaci antimicrobici, con
un nuovo target, risale al lontano 1971. Nel contempo
i clinici, nella universale tendenza all’impiego dell’ultimo antimicrobico posto sul mercato, anche se sostanzialmente poco differente da altri già esistenti, sono
stati sempre largamente fiduciosi che l’immissione di
nuovi farmaci attivi da parte dell’industria non finisse
mai (35). In realtà negli anni ‘80 gli investimenti industriali per nuovi antimicrobici sono stati relativamente
pochi (36). I motivi di questo interesse relativamente
scarso possono essere identificati nel continuo aumento dei costi per la scoperta, sperimentazione e sviluppo
di nuovi antimicrobici (calcolati da 100 a 350 milioni
di dollari) (6), i tempi (6 - 7 anni almeno) per la commercializzazione (27,37) e, successivamente, il pericolo di azioni sfavorevoli inattese e possibilità di insuccesso nel diffuso impiego clinico. La possibile e rapida insorgenza di resistenza, associata alla breve durata
di vita di un nuovo farmaco molto costoso, ha rappresentato un disincentivo all’impegno dell’industria in
questo settore, dovuto anche ad un insufficiente ritorno economico (35). E’ indubbio che oggi l’industria
non è più al passo con la resistenza agli antimicrobici
ed è questo un altro impatto negativo della resistenza
antimicrobica stessa.
La situazione peraltro sembra stia mutando (3,38):
la resistenza antimicrobica dilagante comincia a rappresentare una pressione di mercato e, d’altro canto,
l’esplosione di informazioni derivanti dalla genetica
batterica apre altre vie a farmaci con nuovi meccanismi di azione, eventualmente capaci di non dare resistenza, di revertirla ovvero ancora di potenziare antimicrobici divenuti poco o per nulla attivi. Si è tuttavia rilevato che anche il sequenziamento del genoma
(raggiunto per il Mycobacterium tubercolosis) non
significa trovare nel breve periodo farmaci attivi su
di esso.
f) I costi
I costi derivanti dalla resistenza antimicrobica
sono considerati assai elevati in rapporto ai prolungati tempi di ospedalizzazione, con conseguente riduzione del turnover dei pazienti, indagini di laboratoBIF Mag-Giu 2000 - N. 3
AGGIORNAMENTI
rio addizionali, necessità di farmaci costosi alternativi, complicazioni e sequele invalidanti. Negli USA, i
costi per una setticemia da VRE sono stati calcolati in
18.000 $/ospedalizzazione; in Europa, i costi per trattare un’infezione di microrganismi resistenti in terapia intensiva per una settimana ammontano a circa
12.000 $ (5).
Per risolvere l’infezione si adoperano abitualmente
antimicrobici iniettivi fra i più potenti (imipenem e
consimili, fluorochinoloni, cefalosporine di III e IV
generazione, aminoglicosidi ed associazioni) il cui
impiego comporta ulteriori costi per siringhe, linee per
somministrazione endovenosa, personale infermieristico.
Nei paesi in via di sviluppo questi costi impediscono
l’impiego, per infezioni da microrganismi multiresistenti, di pochi antimicrobici ancora efficaci, di regola
iniettabili, costosi e non disponibili per la maggioranza
della popolazione.
I costi precedentemente esposti sono considerati
diretti. Costi indiretti di infezioni da microrganismi
resistenti sono il tempo maggiore trascorso lontano
dalla famiglia e l’eventuale riduzione o perdita di entrate economiche.
In terminologia economica, la resistenza antimicrobica è considerata una “esternalità” negativa nel trattamento delle infezioni, per le conseguenze sfavorevoli
sull’intera società (40,41). Ciò significa che è improbabile che gli effetti dell’impiego di antimicrobici in termini di resistenza siano sentiti direttamente dal consumatore o dal fornitore del trattamento (che non hanno
incentivi per ridurre l’uso di antimicrobici), ma si ripercuotono sul benessere globale della comunità.
E’ chiaro che l’esternalità non è associata di per sé
con la produzione di antimicrobici, ma con il loro consumo (come parte della produzione di salute) ed è negativa perchè comporta azioni sfavorevoli per l’intera
società. Il solo modo per combatterla è, al presente, una
riduzione dell’impiego di antibiotici, perseguibile con
varie strategie.
Si può contrastare la resistenza? (1,34,35,39,42,43)
Tutti i problemi inerenti alla resistenza cui si è fatto
cenno trovano un unico momento comune: l’entità del
consumo di antimicrobici. Difatti l’uso esteso di antimicrobici nell’uomo e negli animali (e nei vegetali) è
un fattore di primo piano nel determinare la selezione
di microrganismi resistenti. Paesi con le più alte percentuali di resistenza antibatterica tra patogeni umani, e
con il più elevato consumo pro capite di antibiotici
(44), hanno documentato che vi è un livello critico di
consumo di farmaci antimicrobici oltre il quale si scatena l’emergenza di resistenza.
Lo scopo fondamentale degli interventi che da oggi
possono essere attuati è impedire che la resistenza agli
antimicrobici divenga un problema di dimensioni ancora
maggiori e conservare l’utilità degli antimicrobici oggi
disponibili. Va inoltre tenuto presente che, nell’ultimo
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
decennio, non è stato introdotto alcun antibatterico con
nuovo meccanismo d’azione, sebbene ve ne siano alcuni
di recente o prossima commercializzazione per scopi
selettivi in terapia, come everninomicine e ossazolidoni.
Bisognerebbe pertanto intraprendere azioni capaci di
ridurre l’uso degli antimicrobici in tutti i settori di
impiego: medicina umana e veterinaria, produzione
animale e protezione di piante. La restrizione nell’uso
degli antimicrobici esistenti in tutti gli attuali settori di
applicazione dovrebbe portare al controllo ed al contenimento della resistenza.
L’uso di antimicrobici in produzione animale dovrebbe essere totalmente abbandonato e, comunque, al più
presto sostituito con quello di composti che non abbiano
alcuna possibile relazione con antimicrobici impiegati in
medicina umana e veterinaria, per evitare il rischio di
selezionare microrganismi con resistenza crociata ai farmaci usati per trattare le infezioni batteriche.
Le condizioni di stabulazione degli animali destinati
all’alimentazione umana dovrebbero essere migliorate
in modo da evitare il diffondersi di epidemie e il conseguente ricorso ad antimicrobici di impiego anche in
medicina umana.
Gli antimicrobici usati in terapia e quelli che possono presentare resistenza, anche crociata, con questi non
dovrebbero essere utilizzati in GMO. I geni marcatori
di resistenza agli antimicrobici dovrebbero essere
rimossi dai vegetali transgenici prima della commercializzazione.
Nell’uomo dovrebbe essere evitato l’uso di antimicrobici a largo spettro non necessari (ad es. nelle infezioni urinarie). Inoltre, l’uso di antimicrobici in molte
infezioni dell’albero respiratorio non dovute a batteri
può influenzare il decorso della malattia, eccetto in
pazienti che abbiano o nei quali siano possibili superinfezioni batteriche.
Ridotte permanenze ospedaliere, trattamento domiciliare (ove possibile) di pazienti con malattie serie o
complicate, aumentato trasferimento ad ospedali per
acuti ovvero a strutture per degenze prolungate, intensificazione degli schemi di pulizia e ricorso a stanze
singole, sono tutti fattori che possono ridurre in assoluto l’insorgenza ed il trasferimento di resistenze in ospedale e nel rapporto ospedale-territorio.
Negli ospedali americani si tenta di tener separati
pazienti con VRE o MRSA per evitare che, per scambio
di materiale genetico, si passi da un ceppo di Staph.
aureus a resistenza intermedia alla vancomicina ad un
ceppo pienamente resistente a tale antibiotico (42).
È necessario poi cercare di ottimizzare l’approccio
prescrittivo abituale degli antimicrobici. Ciò può esser
ottenuto in diversi modi: nel medio periodo, migliorando
e rendendo più sensibili e con risultati più rapidi possibili i test diagnostici per le malattie infettive, onde instaurare in tempi brevi una terapia con antimicrobici mirati;
nel lungo periodo, rivisitando totalmente con inventiva
gli schemi terapeutici finora adottati per i trattamenti con
antimicrobici di malattie infettive, senza seguire soltanto
quelli derivanti dai trial clinici finanziati dalle industrie
produttrici per soddisfare le autorità regolatorie.
23
AGGIORNAMENTI
Potrebbero derivarne utili indicazioni per ottimizzare le dosi, l’intervallo tra queste e la durata del trattamento.
Infine, dovrebbero essere adottate note di indirizzo e
guide terapeutiche che tendano a razionalizzare il più
possibile l’impiego almeno dei più importanti antimicrobici nel trattamento di malattie dell’uomo e degli
animali e a scoraggiare la pratica di prescrivere antimicrobici inutili o superflui per infezioni autolimitantisi
ad eziologia non batterica.
Si dovrebbero poi identificare nuove vie per controllare e contenere la resistenza e valutare quanto velocemente, e con quale intensità, la resistenza sia reversibile quando l’uso dell’antimicrobico si riduce.
DA RICORDARE
➢ L’entità del consumo di antimicrobici è strettamente correlata alla resistenza batterica.
➢ La restrizione nell’uso degli antimicrobici (in medicina umana e veterinaria, nella produzione animale e nella
protezione delle piante) è un fattore essenziale per il contenimento della resistenza batterica.
➢ L’uso di antibiotici in produzione animale dovrebbe essere totalmente abbandonato e sostituito con composti
senza alcuna relazione con antimicrobici usati in medicina umana e veterinaria.
➢ Le condizioni di stabulazione negli allevamenti degli animali destinati all’alimentazione umana dovrebbero
essere migliorate in modo da evitare il diffondersi di epidemie trattate su larga scala con antimicrobici corrispondenti o strettamente correlati a quelli di impiego in campo umano o veterinario.
➢ I geni marcatori di resistenza agli antimicrobici dovrebbero essere rimossi dai vegetali transgenici prima della
commercializzazione.
➢ È necessario adottare note di indirizzo e guide terapeutiche che tendano a razionalizzare il più possibile l’impiego almeno dei più importanti antimicrobici nel trattamento di malattie dell’uomo e degli animali.
Piccolo glossario
Antimicrobico:
qualsiasi composto che, a basse concentrazioni, esercita un’azione contro microrganismi
patogeni e mostra tossicità selettiva verso essi
Antibiotico:
una sostanza prodotta o derivata da un microrganismo che distrugge selettivamente altri
microrganismi o inibisce la loro crescita
Batterio:
un microrganismo che è più semplice e di regola più piccolo dei protozoi, con un singolo cromosoma rappresentato da DNA circolare a doppia elica
b1a TEM1:
gene di resistenza alle betalattamasi per l’antibiotico ampicillina
Commensale:
un membro della normale flora batterica
Gene:
parte del DNA, è l’unità di base del materiale genetico; a ciascun gene è legata una determinata funzione
GMO:
organismo modificato geneticamente
GMP:
piante modificate geneticamente
Npt II:
neomicinfosfotrasferasi II; gene che codifica la resistenza nei riguardi di antibiotici amiglicosidici quali kanamicina e neomicina
Plasmide:
un pezzo di materiale genetico (DNA) che si ritrova spesso nei batteri indipendente da
cromosoma
Transposone:
un pezzo di DNA (spesso contenente geni per la resistenza) che può muovere da una
molecola di DNA ad un’altra
24
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AGGIORNAMENTI
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25
DALLA LETTERATURA
EDITORIALE
Quale ruolo può avere l’acido acetilsalicilico nella
profilassi della trombosi venosa profonda?
Pulmonary Embolism Prevention (PEP) trial Collaborative Group. Prevention of pulmonary embolism and deep
vein thrombosis with low dose aspirin: PEP trial. Lancet 2000;355:1295-302.
Sors H and Meyer G. Place of aspirin in prophylaxis of venous thromboembolism. Lancet 2000;355:1288-9.
Se non si esegue una profilassi
antitrombotica dopo un intervento
ortopedico all’anca, il rischio di
trombosi venosa profonda di solito
supera il 50% e quello di embolia
polmonare varia dal 4 al 23%.
Quest’ultima rappresenta altresì
una causa frequente di mortalità,
essendo del 4% la percentuale di
embolia letale.
A partire da questi dati, è stato
raggiunto un ampio accordo sull’opportunità di sottoporre i pazienti operati all’anca a profilassi mirata contro la tromboembolia venosa.
È stato pure dimostrato che la somministrazione sottocute di eparina,
non frazionata o a basso peso molecolare, è in grado di ridurre di almeno il 50% il rischio relativo di tromboembolia fintanto che il trattamento è attuato. Tuttavia, per ragioni
pratiche, la profilassi eparinica (o
con metodi di compressione meccanica) è generalmente interrotta
prima delle dimissioni dei pazienti
dall’ospedale, pur se il rischio di
tromboembolia può persistere per
alcune settimane o qualche mese.
La profilassi con un antiaggregante
piastrinico orale, ad esempio acido
acetilsalicilico (ASA) a basse dosi,
semplice da attuare, potrebbe rappresentare un facile trattamento nel
periodo in cui il rischio tromboembolico è più alto. Anche se è stato
inequivocabilmente dimostrato che
la terapia antiaggregante riduce il
rischio di infarto del miocardio, di
ictus ischemico e di altri eventi
arteriosi occlusivi maggiori, fino ad
ora non è stata generalmente raccomandata o utilizzata per la prevenzione della tromboembolia venosa.
Ciò può dipendere in larga misura
dal fatto che non sono stati condotti, in passato, studi clinici rando-
26
mizzati sufficientemente ampi da
fornire una documentazione attendibile sull’efficacia degli antiaggreganti nella prevenzione della tromboembolia venosa. Una meta-analisi di tutti questi studi, che ha analizzato i dati riguardanti circa 8.000
pazienti ad alto rischio per interventi di chirurgia ortopedica o di altro
tipo, ha evidenziato che poche settimane di terapia antiaggregante
riducono la frequenza di trombosi
venosa profonda di circa due quinti
e di embolia polmonare di circa due
terzi, con riduzioni proporzionali
similari in ciascuna delle differenti
popolazioni di pazienti studiate.
Lo studio PEP è stato progettato
per valutare se l’ASA a bassi dosaggi, somministrato a pazienti ad alto
rischio di tromboembolia venosa
dopo chirurgia ortopedica maggiore, fosse in grado di confermare o
meno il beneficio evidenziato con
la meta-analisi.
Dal 1992 al 1998, 17.444 pazienti
(di cui 13.356 sottoposti a chirurgia
per frattura del femore e 4.088 operati per artoplastica elettiva) sono stati
assegnati per randomizzazione a due
gruppi, uno trattato con ASA 160
mg/die, l’altro con placebo, iniziando prima e continuando per 35 giorni
dopo l’intervento. I pazienti ricevevano altri regimi profilattici ritenuti
necessari.
Nei 13.356 pazienti con frattura
del femore, il trattamento con ASA
ha determinato una riduzione relativa del rischio di embolia polmonare del 43% (IC 95%: 18% ÷ 60%) e
di trombosi venosa profonda del
29% (IC 95%: 3% ÷ 48%). Embolia
polmonare e trombosi venosa profonda sono state confermate in 105
pazienti su 6.679 (1,6%) assegnati
ad ASA rispetto a 165 su 6.677
(2,5%) assegnati a placebo, con una
riduzione relativa complessiva del
rischio di questi due eventi pari al
36% (IC 95%: 9% ÷ 50%) e riduzione assoluta dello 0,9% (o di 9
pazienti ogni 1.000 trattati). Effetti
proporzionalmente simili sono stati
osservati in tutti i maggiori sottogruppi di pazienti, compresi quelli
trattati con eparina per via sottocutanea. L’ASA ha prevenuto 4 embolie polmonari fatali su 1.000
pazienti trattati (18 decessi nel
gruppo ASA vs 43 nel gruppo placebo), il che rappresenta una riduzione proporzionale del 58% (IC
95%: 27% ÷ 76%), senza alcun
effetto manifesto sulla mortalità per
ogni altra causa vascolare o non
vascolare. Pochi sono stati i decessi
per emorragia (13 nel gruppo ASA
e 15 nel gruppo placebo), mentre i
sanguinamenti post-operatori che
hanno reso necessaria una trasfusione si sono verificati nel 2,9% dei
pazienti trattati con ASA e nel 2,4%
dei pazienti sottoposti a placebo,
con un eccesso di 6 sanguinamenti
su 1.000 pazienti trattati nel gruppo
ASA. La maggior parte di tali sanguinamenti in eccesso si è osservata in pazienti in trattamento anche
con eparina per via sottocutanea.
Nei pazienti sottoposti ad artoplastica elettiva, l’incidenza di
tromboembolia venosa è risultata
più bassa, ma gli effetti dell’ASA
erano proporzionalmente comparabili con quelli osservati nei pazienti
con frattura del femore.
I risultati dello studio, di ampie
dimensioni e ben condotto, forniscono una forte ed inequivocabile dimostrazione che l’ASA riduce il rischio
di embolia polmonare (compresa
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA LETTERATURA
quella fatale) e di trombosi venosa
profonda nel periodo critico successivo a chirurgia ortopedica maggiore.
In conclusione, secondo gli autori del PEP, esiste ora una convincente dimostrazione per considerare l’ASA come farmaco da usare di
routine in un’ampia popolazione di
pazienti ad alto rischio di tromboembolia venosa.
Secondo Sors e Meyer, autori di
un commentary che appare nello
stesso numero di Lancet, sebbene lo
studio abbia la sua validità, non può
essere esente da critiche e solleva
alcuni dubbi e perplessità. Innanzitutto, anche se l’obiettivo che la
ricerca si poneva non era quello di
confrontare il trattamento a base di
ASA con altri regimi farmacologici,
nel sottogruppo di 3.424 pazienti
trattati anche con eparine a basso
peso molecolare, la frequenza di
embolia polmonare o di tromboembolia venosa profonda sintomatiche
non è risultata statisticamente differente nel gruppo trattato con ASA
(1,4%) rispetto al gruppo trattato
con placebo (1,8%). Inoltre, il
beneficio della profilassi con ASA è
apparso evidente soprattutto dopo
la prima settimana, cioè quando i
pazienti, in maggioranza, erano
stati dimessi e non erano sottoposti
ad alcun altro tipo di intervento di
prevenzione. Quest’ultimo punto
solleva il problema di come i
pazienti, sottoposti a chirurgia dell’anca, dovrebbero essere trattati
una volta dimessi.
Nonostante la schiacciante dimostrazione dell’efficacia di alcuni farmaci nella profilassi della tromboembolia venosa post-operatoria dopo chirurgia ortopedica, esiste tuttora incertezza circa la durata ideale di tale intervento. Il timore del potenziale rischio
di embolia polmonare a partire da una
tromboembolia venosa profonda asintomatica ha spinto i clinici a considerare l’ipotesi di estendere la durata
della profilassi fino a un mese dopo le
dimissioni dall’ospedale. Alcuni studi
clinici sono stati indirizzati a questo
problema, evidenziando che la frequenza di trombosi venosa asintomatica tardiva dopo sostituzione totale del
femore (20-40%) si riduceva significativamente mediante profilassi
extraospedaliera con eparine a basso
peso molecolare. Vi è inoltre un trend
che suggerisce una riduzione della
tromboembolia venosa profonda dopo
dimissione ospedaliera (2,8% nel
gruppo trattato con eparine a basso
peso molecolare rispetto al 5,8% del
gruppo placebo) e di embolia polmonare (nessun caso nel gruppo eparine
vs 1,6% nel gruppo placebo).
Un semplice regime antiaggregante appare facilmente attuabile e
vantaggioso sul piano del costo
dopo la dimissione ospedaliera,
quando il rischio di tromboembolia
venosa resta elevato. Ma non è noto
se l’ASA sia efficace quanto le eparine a basso peso molecolare nella
prevenzione di questo evento indesiderato a livello extraospedaliero.
Lo studio PEP non è stato progettato per rispondere a questo quesito e
neppure fornisce la dimostrazione
che l’ASA dovrebbe sostituire – o
essere somministrato assieme a –
altri regimi terapeutici nell’immediato periodo post-operatorio.
Le implicazioni cliniche di questo studio non sono pertanto ancora
chiare. Poiché sono stati suggeriti
vari approcci alla profilassi della
tromboembolia venosa profonda in
pazienti sottoposti a chirurgia ortopedica maggiore, si rendono necessarie ulteriori ricerche per stabilire
la migliore strategia di intervento,
in particolare, il miglior modo per
continuare la profilassi dopo la
dimissione ospedaliera.
Rischi correlati ad ipertensione sistolica isolata
nell’anziano: il trattamento antipertensivo appare
giustificato
Staessen JA, Gasowski J, Wang JG, Thijs L, Den Hond E, Boissel JP, Coope J, Ekbom T, Gueyffier F, Liu L, Kerlikowske K, Pocock S, Fagard RH. Risks of untreated and treated isolated systolic hypertension in the elderly:
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L’ipertensione sistolica isolata è
un’entità fisiopatologica a sé stante,
conseguente soprattutto a ridotta elasticità delle grosse arterie, e non
necessariamente accompagnata da
aumento della pressione media arteriosa o delle resistenze periferiche.
La sua prevalenza cresce con l’età,
raggiungendo una percentuale
dell’8% nei sessantenni e superando
il 25% negli ultraottantenni.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
Precedenti meta-analisi di studi di
esito sull’ipertensione non hanno fornito specifiche stime di rischio in pazienti
anziani con ipertensione sistolica isolata
trattati o non trattati, oppure hanno spiegato il beneficio del trattamento principalmente in funzione di una riduzione
della pressione diastolica del sangue.
Lo studio di Staessen et al. è una
meta-analisi di otto studi, finalizzata
a valutare i potenziali rischi associati
a ipertensione sistolica isolata trattata o non trattata in pazienti anziani.
I soggetti presi in esame avevano
60 anni o più, presentavano pressione sistolica uguale o superiore a 160
mmHg e pressione diastolica inferiore a 95 mmHg. Negli 8 trial sono
stati seguiti complessivamente
15.693 pazienti con ipertensione
sistolica isolata per un periodo
27
DALLA LETTERATURA
medio di 3,8 anni. I tassi di rischio
relativo associati ad una pressione
sistolica iniziale più alta di 10
mmHg erano 1,26 (p=0,0001) per la
mortalità totale, 1,22 (p=0,02) per
l’ictus, ma solo 1,07 (p=0,37) per
eventi coronarici. Indipendentemente dalla pressione sistolica del sangue, la pressione diastolica era
inversamente correlata con la mortalità totale, mettendo in evidenza il
ruolo della pressione pulsatoria
quale fattore di rischio.
Il trattamento attivo riduceva la
mortalità totale del 13% (IC 95%:
2% ÷ 22%), la mortalità cardiovascolare del 18%, le complicazioni
cardiovascolari complessive del
26%, l’ictus del 30% e gli eventi
coronarici del 23%.
Il numero di pazienti da trattare per
cinque anni per prevenire un evento
cardiovascolare maggiore (NNT) evidenzia che il beneficio assoluto del
trattamento farmacologico è superiore
negli uomini rispetto alle donne (18 vs
38), nei pazienti di 70 o più anni rispetto a quelli più giovani (19 vs 39) e in
soggetti con precedenti complicazioni
cardiovascolari rispetto a quelli non
interessati da tali problemi (16 vs 37).
Dunque, il trattamento farmacologico appare giustificato nei
pazienti più anziani con ipertensione sistolica isolata, in cui la
pressione sistolica è uguale o
superiore a 160 mmHg, o con
pressione pulsatoria più ampia. Il
trattamento previene l’insorgenza
di ictus più efficacemente rispetto
a quella di eventi coronarici. Tuttavia, l’assenza di una correlazione tra eventi coronarici e pressione sistolica del sangue in pazienti
non trattati suggerisce che la protezione coronarica può essere stata
sottostimata.
Ipertensione e terapia antipertensiva, fattori di
rischio di diabete mellito di tipo 2?
Gress TW, Nieto FJ, Shahar E, Wofford MR, Brancati FL. Hypertension and antihypertensive therapy as risk factors for type 2 diabetes mellitus. Atherosclerosis Risk in Communities Study. N Engl J Med 2000;342:905-12.
Sowers JR, Bakris GL. Antihypertensive therapy and the risk of type 2 diabetes mellitus (Editorial) N Engl J Med
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L’obiettivo che si sono posti
Gress et al. è di verificare se esista
una correlazione tra impiego di farmaci antipertensivi e rischio di successiva insorgenza di diabete mellito di tipo 2. In base a studi in precedenza condotti, si è ipotizzato che
alcuni gruppi di farmaci antipertensivi, e in particolare i diuretici tiazidici e i beta-bloccanti, possano
favorire lo sviluppo di questo tipo
di diabete. Tuttavia, i risultati di tali
studi si sono dimostrati incoerenti e
molti di essi appaiono limitati da
dati inadeguati sugli esiti e da
potenziali fattori di confondimento.
Lo studio di Gress et al., di tipo
prospettico, è stato condotto su
12.550 adulti, di età compresa tra
45 e 64 anni, non diabetici. Questi
pazienti erano stati selezionati da
uno studio in atto, Atherosclerosis
Risk in Communities (ARIC). Un’estesa valutazione dello stato di salute condotta all’inizio dello studio ha
previsto anche la determinazione
28
dei farmaci usati e la misurazione
della pressione arteriosa con uno
sfigmomanometro random-zero.
L’incidenza di nuovi casi di diabete è stata valutata dopo tre e sei
anni mediante determinazione a
digiuno della glicemia. Al sesto
anno di follow up, sono stati registrati 569 nuovi casi di diabete tra i
3.804 pazienti con ipertensione e
577 tra gli 8.746 soggetti non ipertesi: tassi di incidenza rispettivamente di 29,1 e 12 per 1.000 persone/anno. Pertanto, in accordo con i
risultati di studi condotti in precedenza, la probabilità di insorgenza
di diabete è risultata circa 2,5 volte
maggiore nei pazienti ipertesi
rispetto ai pazienti normotesi.
Dopo aggiustamento per fattori
confondenti (età, sesso, razza, adiposità, anamnesi familiare di diabete, livello di attività fisica, ecc.), si è
evidenziato che:
- i soggetti ipertesi in trattamento
con diuretici tiazidici non presen-
tavano un rischio maggiore di
successivo sviluppo di diabete
rispetto a soggetti non sottoposti
ad alcuna terapia antipertensiva;
- i soggetti in trattamento con
ACE-inibitori e calcio antagonisti
non presentavano un rischio maggiore rispetto a quelli non trattati
farmacologicamente;
- i soggetti con ipertensione in trattamento con beta-bloccanti presentavano un rischio maggiore di
sviluppare successivamente diabete pari al 28% (RR: 1,28; IC
95%: 1,04 ÷ 1,57).
Secondo gli autori dello studio, i
risultati emersi hanno tre principali
implicazioni:
1. la correlazione tra ipertensione
ed insorgenza di diabete dovrebbe stimolare la ricerca sui fattori
di rischio coinvolti e mettere in
guardia i medici sull’esistenza di
un gruppo di soggetti facilmente
identificati ad alto rischio di diabete;
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA LETTERATURA
2. il timore del rischio di diabete
non dovrebbe dissuadere i
medici dal prescrivere i diuretici tiazidici ad adulti non diabetici affetti da ipertensione;
3. anche se l’impiego dei betabloccanti mostra di aumentare il
rischio di diabete, tale effetto
indesiderato deve essere soppesato rispetto agli accertati benefici dei beta-bloccanti nel ridur-
re il rischio di eventi cardiovascolari.
Nell’Editoriale di Sowers e
Bakris si sottolinea, tra l’altro, che i
dati ottenuti da studi di breve e di
lunga durata indicano che gli ACEinibitori possono addirittura ridurre
il rischio di diabete. Questi autori
suggeriscono l’opportunità di eseguire studi prospettici per determi-
nare se gli effetti avversi dei betabloccanti sulla tolleranza al glucosio
possano essere attenuati dal concomitante impiego di ACE-inibitori.
Tuttavia, Sowers e Bakris ritengono
che i beta-bloccanti, fino a che tali
studi non saranno condotti, rivestano un ruolo importante nel trattamento dell’ipertensione in pazienti
con malattia coronarica nota e in
quelli con ipertensione e diabete.
La somministrazione perioperatoria di ossigeno
riduce l’incidenza di infezione delle ferite
chirurgiche
Greif R, Akca O, Horn EP, Kurz A, Sessler DI. Supplemental perioperative oxygen to reduce the incidence of surgical-wound infection. Outcomes Research Group. N Engl J Med 2000;342:161-7.
L’infezione delle ferite è una
complicanza post-chirurgica frequente, talora grave ed economicamente costosa. Circa il 5% dei
pazienti sottoposti ad intervento
operatorio e il 10-20% di quanti si
sottopongono a chirurgia colorettale vanno incontro a infezioni
delle ferite. La distruzione
mediante ossidazione, o killing
ossidativo, è la più importante
difesa contro gli agenti patogeni
chirurgici ed è dipendente dalla
pressione parziale di ossigeno nei
tessuti contaminati.
Un metodo semplice per migliorare la tensione di ossigeno in tessuti adeguatamente perfusi è quello di aumentare la concentrazione
dell’ossigeno inspirato. A partire
da questa evidenza, è stato progettato uno studio per verificare se la
somministrazione supplementare
di ossigeno durante il periodo
perioperatorio fosse in grado di
ridurre l’incidenza di infezione
delle ferite chirurgiche. Sono stati
arruolati 500 pazienti da sottoporre
a resezione colorettale e, per randomizzazione, 250 sono stati assegnati a ricevere ossigeno inspirato
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
al 30% (gruppo 1) e 250 ossigeno
all’80% (gruppo 2) nel corso dell’intervento chirurgico e durante le
due ore successive.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una profilassi antibiotica.
Utilizzando un protocollo in doppio cieco, si è proceduto a valutare le ferite ad intervalli giornalieri
fino alle dimissioni del paziente e,
in seguito, durante una visita di
controllo eseguita due settimane
dopo l’intervento. Sono state considerate infette le ferite caratterizzate da pus con coltura positiva. Il
momento in cui asportare i punti
di sutura e la data delle dimissioni
dall’ospedale sono stati stabiliti
dal chirurgo, che non era a conoscenza del gruppo di trattamento
di appartenenza del paziente.
La saturazione di ossigeno del
sangue arterioso è risultata normale
in entrambi i gruppi; tuttavia, la
pressione parziale arteriosa e sottocutanea di ossigeno è risultata
significativamente maggiore nei
pazienti del gruppo 2 rispetto ai
pazienti del gruppo 1.
Tra i 250 soggetti del gruppo 2,
13 (5,2%) hanno presentato infe-
zione delle ferite chirurgiche
rispetto a 28 del gruppo 1 (11,2%).
Si è pertanto osservata una riduzione relativa del rischio di infezione tra i due gruppi dello studio
di oltre il 50%, con una riduzione
assoluta pari al 6% (IC 95%: 1,2%
÷ 10,8%). La durata della degenza
ospedaliera è risultata simile nei
due gruppi.
In conclusione, lo studio evidenzia che la somministrazione perioperatoria di ossigeno supplementare può essere un metodo pratico per
ridurre l’incidenza delle infezioni
delle ferite chirurgiche.
Altri fattori che influiscono in
modo certo o probabile sulla frequenza delle infezioni operatorie
sono: profilassi antibiotica, durata
dell’intervento chirurgico, meccanismi di difesa dell’ospite, utilizzo
di aria ultrafiltrata in sala operatoria, temperatura corporea del
paziente in sala operatoria, presenza di ipovolemia, di diabete mellito
e di adiposità del paziente, il suo
stato nutrizionale, l’impiego di trasfusioni di sangue. L’importanza di
ciascun fattore, tuttavia, è difficile
da determinare.
29
FARMACOVIGILANZA
FARMACOVIGILANZA
Cisapride: limitate le indicazioni terapeutiche
e prescrizione riservata ai centri ospedalieri
L’uso di cisapride è stato correlato con l’insorgenza
di gravi disturbi del ritmo cardiaco (tachicardia e fibrillazione ventricolari, torsioni di punta e prolungamento
del tratto QT) e decessi. La maggior parte dei pazienti
che ha presentato aritmie da cisapride era già portatore
di disturbi predisponenti, come, ad es., storia di prolungato allungamento del tratto QT o di aritmie ventricolari, insufficienza renale, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca congestizia, squilibri elettrolitici non
corretti e insufficienza respiratoria. Il rischio aumenta
in caso di uso concomitante di farmaci in grado di prolungare il tratto QT, di inibire il citocromo P450 o di
determinare la deplezione di elettroliti sierici (v. anche
BIF 3/98, pag. 31). A causa di tali gravi effetti, negli
USA la ditta produttrice Janssen ha volontariamente
ritirato dal commercio le specialità a base di cisapride a
partire dal 14 luglio 2000.
1
In Europa, il Committee for Proprietary Medicinal
Products (CPMP) – presso la European Medicines Evaluation Agency (EMEA) – in data 14 giugno 2000 ha raccomandato la restrizione delle indicazioni delle specialità
medicinali contenenti come principio attivo la cisapride.
Alla luce di tali iniziative internazionali, il 28 luglio
u.s. il Ministero della Sanità (Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza), visto
anche il parere espresso dalla CUF, ha decretato che le
uniche indicazioni per le specialità a base di cisapride
siano: gastroparesi negli adulti e malattia da reflusso
gastroesofageo nella prima infanzia1. Inoltre, la dispensazione di specialità a base di cisapride è soggetta
alla presentazione di ricetta medica da rinnovarsi volta
per volta rilasciata da centri ospedalieri.
Attualmente la commercializzazione è stata temporaneamente sospesa in Germania e Gran Bretagna.
Il Decreto in oggetto è in corso di pubblicazione nella GU. Approfondimenti in merito saranno pubblicati prossimamente su questo Bollettino.
Prodotti a base di iperico (Hypericum perforatum):
rischio di interazioni con altri medicinali
Caro Dottore,
Le scriviamo per segnalarle alcune recenti informazioni provenienti
dalla European Medicines Evaluation Agency (EMEA), inerenti il
rischio di interazioni tra preparazioni
a base di iperico (Hypericum perforatum) ed altri farmaci, probabilmente correlate all’induzione di
alcuni isoenzimi del citocromo P450.
Prodotti a base di iperico sono
presenti sia come prodotti erboristici sia come specialità medicinali.
Sono stati riportati casi di significativa riduzione dei livelli plasmatici
di indinavir, farmaco inibitore della
proteasi dell’HIV, dovuta all’induzione dell’isoenzima 3A4 del citocromo P450 da parte dei principi attivi contenuti nelle preparazioni a base
di iperico. Ciò potrebbe portare ad
una riduzione dell’efficacia terapeutica e al possibile sviluppo di resi-
30
stenza da parte del virus. Al momento non sono disponibili dati sull’interazione con altri farmaci antiretrovirali, tuttavia, è probabile che essa
possa avvenire con altri inibitori
della proteasi e con gli inibitori non
nucleosidici della trascrittasi inversa.
Inoltre, nell’ultimo anno sono
divenute disponibili informazioni
sulle interazioni tra prodotti a base di
iperico e warfarin, ciclosporina, teofillina e digossina. Anche queste interazioni sono dovute al fatto che i prodotti a base di iperico inducono alcuni isoenzimi del citocromo P450
responsabili del metabolismo dei farmaci, come ad esempio 1A2, 3A4 e
2C9 (v. Tabella allegata), con conseguente riduzione dei livelli plasmatici e, quindi, dell’efficacia terapeutica
dei medicinali somministrati contemporaneamente. Se, in base a ciò,
si ricorresse ad un aumento delle dosi
di questi medicinali, tali dosi risulterebbero poi eccessive per il ritorno
alla norma del metabolismo dei farmaci – prima accelerato – una volta
cessato l’uso dei prodotti a base di
iperico. Quindi non si raccomanda di
aggiustare il dosaggio dei farmaci
assunti assieme all’iperico, ma più
semplicemente di evitare l’uso di
prodotti a base di iperico quando si
seguono altre terapie. Sono stati
riportati anche casi di ripresa del
ciclo mestruale, con perdita dell’effetto anticoncezionale, quando si
assumono prodotti a base di iperico
insieme a contraccettivi orali.
Si invitano gli operatori sanitari
italiani a monitorare attentamente
gli effetti indesiderati delle preparazioni a base di iperico, con particolare riguardo alle possibili interazioni, ed a segnalarli prontamente
alle Autorità Sanitarie.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
FARMACOVIGILANZA
Principali farmaci metabolizzati da isoenzimi del citocromo P450 inducibili da preparazioni a base
di Hypericum perforatum
Principio attivo
Estradiolo
Activelle, Armonil, Biormon, Climara, Climen, Dermestril, Epiestrol, Estracomb TTS,
Estraderm MX, Estraderm TTS, Estroclim, Estrofem, Femoston, Femseven, Filena, Gravibinan, Gynodian Depot, Kliogest, Menorest, Menovis, Nuvelle, Progynon Depot, Progynova,
Systen, Tesor-C, Trisequens, etc.; disponibile anche come generico
Imipramina
Teofillina
Tofranil; disponibile anche come generico
Aminomal, Aminomal Elisir, Aminophilline, Diffumal, Euphyllina, Frivent, Paidomal,
Respicur, Tefamin, Teobid, Theo Dur, Theo-24, Theolair, Unidur, etc.; disponibile anche
come generico (aminofillina)
Coumadin
CYP1A2
Warfarin
Fenitoina
Aurantin, Dintoina, Dintoinale, Gamibetal Complex, Metinal Idantoina, etc.; disponibile
anche come generico
Tolbutamide
Glucosulfa
Torasemide
Diuremid, Diuresix, Toradiur, etc.
Carbamazepina
Tegretol
Chinidina
Chinteina, Longachin, Naticardina, Natisedina, Ritmocor, etc.; disponibile anche come generico
Ciclosporina
Sandimmun, Sandimmun Neoral
Digossina
Lanoxin, Eudigox, Digomal, Cardioreg, etc.; disponibile anche come generico
Diltiazem
Altiazem, Angidil, Angipress, Angizem, Carzem, Citizem, Diladel, Dilem, Diliter, Dilzene,
Etyzem, Longazem, Tiakem, Tildiem, Zilden, etc.; disponibile anche come generico
Eritromicina
Eritrocina, Eritrocist, Erytrociclin, Ilosone, Lauromicina, Rubrociclina, etc.; disponibile
anche come generico
Etinilestradiolo
Diane, Dueva, Egogyn 30, Eugynon, Evanor D, Fedra, Garcial, Ginoden, Harmonet, Mercilon, Microgynon, Milvane, Minulet, Novogyn, Ovranet, Planum, Practil 21, Securgin, Trigynon, Triminulet, Trinordiol, Trinovum, etc.; disponibile anche come generico
Flutamide
Drogenil, Eulexin, etc.; disponibile anche come generico
Losartan
Hizaar, Lortaan, Losaprex, Losazid, Neo-Lotan Plus, Neo-Lotan, etc.
Nifedipina
Adalat Crono, Adalat, Anifed, Bionif, Citilat, Coral, Fenidina, Mixer, Nifedicor, Nifedin,
Nifesal, Niften, Nipin, etc.; disponibile anche come generico
Steroidi
In generale, tutti i medicinali a base di principi attivi a struttura steroidea
Tacrolimus
Prograf
Tamoxifene
Kessar, Ledertam, Nolvadex, etc.
Paclitaxel
Taxol
Docetaxel
Taxotere
CYP2C9
CYP3A4
Specialità ad uso sistemico commercializzate in Italia
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
31
DALLA SPERIMENTAZIONE
ALLA PRATICA CLINICA
Questa rubrica intende portare all’attenzione dei lettori alcuni studi clinici apparsi in
letteratura, particolarmente rilevanti per il riflesso che possono avere nella pratica
della medicina. La presentazione degli studi sarà in forma sintetica e terrà conto anche
delle obiezioni, critiche e rilievi che faranno seguito alla loro pubblicazione.
Helicobacter pylori e dispepsia non ulcerosa
Titolo
L’eradicazione di Helicobacter pylori non apporta
alcun beneficio ai pazienti affetti da dispepsia non
ulcerosa. (Titolo originale: Absence of benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with nonulcer
dyspepsia)
Autori
Nicholas J. Talley, Department of Medicine, University
of Sydney, Nepean Hospital, Penrith, New South Wales
2751, Australia
Nimish Vakil, University of Wisconsin Medical
School, Milwaukee
E. David Ballard II, Department of Family Medicine,
Bethesda Hospital, Cincinnati
M. Brian Fennerty, Oregon Health Sciences University,
Portland
Rivista
The New England Journal of Medicine:1999;341:1106-11
Sponsor
Abbott Laboratories and Astra Merck, USA
Problema clinico sollevato
Tra infezione da Helicobacter pylori (H. pylori) e dispepsia non ulcerosa esiste un rapporto di coincidenza o di causalità? L’eradicazione dell’Helicobacter porta a remissione dei sintomi dispeptici?
Contesto e motivazione della ricerca
In molti pazienti, che si rivolgono al medico per
dolori o altri disturbi localizzati nell’alto addome indicativi di una malattia peptica, non è poi evidenziata,
all’indagine endoscopica o radiologica, la presenza di
ulcera o di altra patologia gastrica. Tale condizione,
caratterizzata da sintomi fastidiosi più o meno ricorrenti alle prime vie digerenti in assenza di lesione organica significativa, è denominata dispepsia non ulcerosa o
funzionale.
32
Ad almeno il 50% dei soggetti seguiti in medicina
di base per questo tipo di disturbi è diagnosticata una
dispepsia funzionale (1,2) e, pur se per il 30% circa
risultano H. pylori-positivi, è controverso se debbano
essere o meno sottoposti a trattamento eradicante.
Nel 1994, una Consensus Conference dei National
Institutes of Health degli Stati Uniti si è pronunciata
contro l’impiego della terapia antinfettiva a causa
della mancanza di evidenze circa la sua utilità (3). Più
di recente, da parte di altri gruppi di esperti di Nord
America, Europa e Australia è stata cautamente,
anche se non all’unanimità, sostenuta l’opportunità di
trattare i pazienti con dispepsia funzionale caso per
caso (4-7).
Per valutare l’efficacia del trattamento dell’infezione da H. pylori in pazienti con dispepsia non ulcerosa, sono stati già condotti molti studi, che però
appaiono quantomeno discutibili sul piano metodologico e presentano risultati poco chiari e contraddittori (8). Poco più di un anno fa sono apparsi nello stesso numero del New England Journal of Medicine due
studi ben disegnati, ma ancora con risultati tra loro
conflittuali (9,10).
I quesiti aperti sono dunque di particolare importanza. Tra infezione da H. pylori e dispepsia funzionale
esiste un rapporto di coincidenza o di causalità? Di
fronte a tale condizione, che cosa conviene fare? E’
opportuno sottoporre i pazienti dispeptici a trattamento
con antibiotici, come si fa con la malattia ulcerosa? Se
invece esiste la dimostrazione che la triplice terapia (v.
oltre: Trattamento) determina un limitato o nessun
beneficio, che senso ha un intervento che può provocare effetti indesiderati, creare resistenze e avere un considerevole risvolto economico?
Lo studio in oggetto, randomizzato, in doppio cieco,
controllato vs placebo con follow up di 12 mesi, è stato
progettato per rispondere a questi quesiti.
Disegno dello studio
Doppio cieco, randomizzato, controllato vs placebo
su pazienti degli Stati Uniti.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA
Popolazione studiata
337 pazienti con dispepsia non ulcerosa e H. pyloripositivi sono stati randomizzati in due gruppi: 170 nel
gruppo trattato con terapia eradicante (74 uomini), 167
nel gruppo placebo (67 uomini).
Criteri di inclusione
Nello studio sono stati inclusi pazienti di età compresa tra 18 e 65 anni con dispepsia da almeno tre mesi
(definita come dolore o fastidio localizzato nell’alto
addome), endoscopia normale di esofago, stomaco e
duodeno, positivi all’H. pylori dopo apposito test. I sintomi dispeptici, valutati durante i sette giorni precedenti l’inizio del trattamento (periodo di run in), dovevano
essere presenti per almeno tre giorni (pena l’esclusione
dallo studio).
Criteri di esclusione
Esofagite da reflusso, esofago di Barrett, ulcera
gastrica o duodenale cronica, erosioni duodenali o esofagee, cancro, più di cinque erosioni gastriche all’esame endoscopico superiore. Esclusi anche i pazienti che
presentavano in modo predominante bruciore o sintomi
riferiti a sindrome da intestino irritabile. Vietata l’assunzione di farmaci per il trattamento dei sintomi dispeptici durante il periodo di run in e per l’eradicazione dell’H. pylori durante i 30 giorni antecedenti l’inizio
dello studio.
Trattamento
I pazienti positivi all’urea breath test e con sintomi
di dispepsia durante il periodo di run in sono stati sottoposti ad indagine endoscopica il giorno prima della
randomizzazione. 170 pazienti sono stati assegnati a
trattamento per 14 giorni consecutivi con 20 mg di
omeprazolo, 1.000 mg di amoxicillina e 500 mg di claritromicina (triplice terapia), tutti due volte al giorno;
167 pazienti sono entrati nel gruppo placebo. L’aderenza al trattamento (compliance) è stata eccellente.
Follow up
Dopo la conclusione del trattamento, tutti i pazienti
sono stati seguiti per un anno, con visite programmate alla
4a-6a settimana e a 3, 6, 9, 12 mesi. Una scheda previamente standardizzata secondo una scala di quattro valori
(da 0 a 3), e compilata dai pazienti, insieme ad una
Gastrointestinal Symptom Rating Scale, utilizzata in
modo retrospettivo per valutare i sintomi nella settimana
precedente le visite programmate, hanno permesso di
seguire l’andamento dei pazienti dispeptici nell’anno di
follow up e di classificare la loro dispepsia in base alla sintomatologia prevalente. Alla 4a-6a settimana e dopo 12
mesi è stato eseguito un’urea breath test; a 12 mesi è stata
anche eseguita un’endoscopia allo stomaco con duplice
prelievo bioptico. E’stata pure valutata la qualità della vita
dei pazienti al momento del loro inserimento nello studio
e in occasione della visita finale, dopo un anno.
Durante l’anno di follow up è stato dispensato, ad
ogni visita, un antiacido con debole capacità neutralizzante (idrossido di alluminio, idrossido di magnesio,
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
simeticone) e ne è stato registrato l’eventuale impiego.
Risultati
Il trattamento veniva considerato efficace se un paziente non riportava più di un lieve dolore o fastidio nell’alto
addome durante i sette giorni precedenti la visita finale,
eseguita al termine dei 12 mesi di follow up; inefficace se
un paziente assumeva farmaci per la dispepsia (oltre gli
antiacidi) nei 30 giorni precedenti la visita conclusiva.
In caso di pazienti i cui sintomi non erano stati valutati a 12 mesi, ma alla visita eseguita alla 4a-6a settimana o in quelle previste successivamente, al posto dei
risultati della visita conclusiva venivano utilizzati quelli più recenti.
Al controllo eseguito a 4-6 settimane (urea breath
test), la quota di eradicazione dell’H. pylori è risultata
del 2% (3 casi su 139) nel gruppo placebo e del 90% tra
i pazienti sottoposti a triplice terapia (121 casi su 135).
I dati sono risultati incompleti per 7 pazienti. A 12 mesi,
all’urea breath test e alla valutazione istologica, le percentuali furono rispettivamente del 5% (6 pazienti su
119) e dell’80% (78 pazienti su 98; 19 indeterminati).
Nell’86% dei pazienti sottoposti a trattamento attivo
è stata osservata, a 12 mesi, una completa risoluzione di
gastrite attiva (cellule polimorfonucleate), contro l’8%
del gruppo placebo. Un miglioramento di gastrite cronica (cellule mononucleate) è stato riscontrato nel 67%
dei pazienti trattati con la triplice terapia e nel 18% del
gruppo placebo.
A 12 mesi, l’efficacia del trattamento (definita come
presenza di dolore o fastidio lievi) è stata evidenziata nel
46% dei pazienti sottoposti a triplice terapia e nel 50%
dei pazienti del gruppo placebo (IC 95%: 0,73 ÷ 1,18).
La percentuale di successo a 12 mesi è stata del 48%
tra i pazienti H. pylori-negativi e del 49% tra quelli H.
pylori-positivi. Nessuna differenza significativa dei sintomi è stata riscontrata tra i due gruppi in ogni momento del follow up.
Anche le percentuali di esiti favorevoli sono apparse
simili quando i pazienti sono stati analizzati in rapporto al tipo di dispepsia (simil-ulcerosa, tipo reflusso
gastro-esofageo e motoria).
Del tutto simile è risultata la qualità della vita nei
due gruppi di trattamento.
La visita al 12° mese di follow up ha evidenziato la
presenza di ulcera duodenale nel 2% dei pazienti sottoposti a trattamento attivo e nel 4% di quelli trattati con
placebo. Il tasso di insorgenza di ulcera gastrica durante il follow up è risultato uguale nei due gruppi (2%).
Le evidenze più importanti che emergono dallo studio
➢ In base ai risultati dello studio non trova conferma
l’ipotesi di una correlazione causale tra infezione da
H. pylori e dispepsia non ulcerosa.
➢ La terapia eradicante (omeprazolo, amoxicillina,
claritromicina) ha determinato una percentuale
assai elevata di risoluzioni dell’infezione da H.
pylori, della gastrite attiva e della gastrite cronica;
nonostante ciò, non si è dimostrata in grado di eliminare i sintomi della dispepsia non ulcerosa.
33
Bibliografia
DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA
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Spesa nazionale per inibitori della pompa acida e per anti-H2: 1997- stima 2000
Sono stati considerati i dati di vendita dei due gruppi di farmaci -inibitori della pompa acida e anti-H2- che rappresentano oltre il 90% del mercato degli antiulcera di fascia A e B (il rimanente 10% è da attribuirsi a sucralfato,
misoprostolo, sali di bismuto). Si tratta di un mercato in progressiva crescita (+22% nel 2000* vs 1997) anche se
il trend per le due categorie di farmaci considerate non risulta lineare; infatti la spesa per anti-H2 nel 2000 rispetto
al 1997 è diminuita del 25% mentre quella per gli inibitori di pompa ha fatto registrare nello stesso periodo un
aumento del 69%.
(*): la stima 2000 è stata effettuata sulla base dei dati del primo quadrimestre.
34
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA
Obiezioni, critiche, rilievi allo studio
Risposta degli Autori
Gli autori dello studio concordano
con l’autore della lettera (1). Il beneficio sintomatico registrato in alcuni
studi europei in pazienti con dispepsia
non ulcerosa dopo eradicazione dell’H. pylori è probabilmente spiegato,
almeno in parte, dall’inclusione di
pazienti sia con ulcera peptica non
riconosciuta che con diatesi ulcerosa
(6). E’ probabile che questo effetto sia
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
osservabile in Paesi in cui la prevalenza ambientale della malattia ulcerosa
dovuta a infezione da H. pylori è notevolmente elevata (ad es., Scozia e
Irlanda), e il disegno dello studio
dovrebbe tenere conto di questo bias
potenziale. Poiché il beneficio dell’eradicazione dell’H. pylori in pazienti
con malattia ulcerosa è fuori da ogni
discussione, è stato deliberatamente
deciso di non contaminare i risultati
della ricerca sulla dispepsia non ulcerosa includendovi pazienti con ulcere.
I criteri di selezione della coorte di
pazienti arruolati sono simili a quelli
utilizzati in studi sulla dispepsia non
ulcerosa condotti in vari Paesi (6,7). I
risultati dello studio concordano inoltre con quelli di un’altra ricerca recentemente condotta negli USA (8).
Bibliografia
In una lettera inviata all’Editore
(1) si sottolinea che i risultati dello
studio sono inusuali per quanto concerne il beneficio assai modesto che
denotano nell’insorgenza della malattia ulcerosa dopo eradicazione dell’infezione da H. pylori. La percentuale di pazienti in cui nell’arco di 12
mesi si sono manifestate ulcere gastriche o duodenali è stata del 4% nel
gruppo trattato con terapia eradicante
e del 6% nel gruppo placebo, mentre
in altri studi sulla dispepsia non ulcerosa l’eradicazione dell’H. pylori
aveva determinato effetti ben più
rimarcati. Ad esempio, nello studio di
Blum et al. (2), sono comparse ulcere
nel 6% dei pazienti sottoposti a placebo, ma solo nell’1% di quelli trattati
con terapia eradicante. Studi in precedenza condotti sulla malattia ulcerosa
avevano dimostrato che l’infezione da
H. pylori ha un ruolo causale meno
rilevante negli USA che in altre parti
del mondo, forse perché negli USA si
assiste ad un più elevato impiego di
antinfiammatori non steroidei.
Il beneficio sintomatico dell’eradicazione dell’H. pylori in pazienti con
dispepsia funzionale può essere correlato alla prevalenza ambientale della
malattia ulcerosa da H. pylori nella
popolazione studiata. Irlanda del Nord,
Irlanda del Sud e Scozia presentano
un’elevata prevalenza di malattia ulcerosa da H. pylori e studi effettuati in
ognuno di questi Paesi hanno evidenziato un beneficio sintomatico dopo
eradicazione dell’H. pylori in pazienti
con endoscopia normale di esofago,
stomaco e duodeno (3-5). A causa delle
differenze geografiche e nazionali
all’origine sia della malattia ulcerosa
che della dispepsia funzionale, il trattamento che risulta utile in un Paese
potrebbe dimostrarsi inefficace in un
altro.
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In una seconda lettera di autori
italiani, F. Perri e A. Andriulli, (1) si
sottolinea che quanto è affermato
nella conclusione dello studio - che
non si ha beneficio con l’eradicazione dell’H. pylori in pazienti con dispepsia funzionale - può trarre in
inganno in quanto, sulla base dei dati
riportati, appare quantomeno evidente un miglioramento istologico della
gastrite. Non è chiaro se tale miglioramento determini la remissione dei
sintomi dispeptici anche se, in un precedente studio, Talley et al avevano
evidenziato una correlazione positiva
tra miglioramento della gastrite e
remissione dei sintomi (2). Inoltre,
nello studio attuale appare raddoppiata (anche se il dato non è significativo) la percentuale di ulcera duodenale a 12 mesi. Ciò suggerisce che
l’eradicazione dell’H. pylori può
risultare vantaggiosa in un sottogruppo di pazienti con dispepsia non ulcerosa.
Gli autori della ricerca avevano
stabilito che, in caso non fosse possibile valutare i sintomi a 12 mesi e gli
stessi fossero stati valutati alla visita
effettuata alla 4a-6a settimana o successivamente, al posto dei risultati
della visita conclusiva si utilizzassero
quelli più recenti. Gli autori riportano
dati conclusivi sullo stato dell’H.
pylori alla visita di 12 mesi solamente
per 217 pazienti; 19 (tutti nel gruppo
sottoposto a trattamento attivo) presentano risultati indeterminati. Di
conseguenza, 57 dei 274 pazienti
valutati alla visita effettuata a 4-6 settimane o si sono persi durante il follow up o il loro stato relativo all’H.
pylori alla visita dei 12 mesi non è
chiaro. Nonostante ciò, questi pazienti sono stati inclusi nell’analisi finale.
La quota di trattamenti efficaci è stata
determinata estrapolando i valori sintomatici a 12 mesi da quelli registrati
alla visita alla 4a-6a settimana o in
quelle successive. Questi dati possono essere imprecisi, in quanto i sintomi possono essersi sostanzialmente
modificati dopo l’ultima visita. La
quota di drop out (soggetti che non
hanno completato lo studio) nel gruppo di pazienti ancora considerati H.
pylori-positivi a 12 mesi era dell’11%
(17 pazienti su 150), rispetto al 32%
(40 su 124) del gruppo di pazienti
considerati H. pylori-negativi. E’ possibile che i pazienti in cui l’infezione
è stata curata abbiano presentato un
sostanziale miglioramento dei sinto-
35
DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA
Risposta degli Autori
Da parte degli autori della lettera
si afferma che i risultati dello studio
sono in parte ingannevoli a causa del
miglioramento istologico della
gastrite dopo terapia eradicante. Tuttavia, con l’eradicazione efficace
dell’H. pylori tale miglioramento era
atteso, e questa critica dimentica che,
a 12 mesi, la percentuale di risoluzione dei sintomi tra i pazienti sottoposti a trattamento attivo non è stata
significativamente maggiore rispetto
a quella del gruppo placebo, nonostante il miglioramento istologico
riscontrato nel gruppo sottoposto a
triplice terapia. È vero che in uno
studio precedente era stata eviden-
ziata una correlazione significativa
tra completa risoluzione della gastrite e miglioramento dei sintomi in
pazienti con dispepsia non ulcerosa,
ma questa era un’analisi secondaria
(2), ed era possibile che il risultato
non fosse confermato dallo studio
attuale, in cui è stata testata l’ipotesi.
Gli autori della lettera esprimono
inoltre perplessità sul fatto che, nell’analisi dei dati, siano stati utilizzati
quelli più recenti nel caso non fossero
disponibili i risultati della visita conclusiva, a 12 mesi. Questa è una tecnica normalmente accettata quando si è
di fronte al problema di dati mancanti. La percentuale di successo (definito come dispepsia di grado lieve o del
tutto assente) in 210 pazienti, di cui
erano disponibili i dati completi sullo
stato dell’H. pylori e sui sintomi a 12
mesi, è stata del 46% (44 pazienti su
95) nel gruppo sottoposto a terapia
eradicante e del 52% (60 su 115) nel
gruppo placebo (p=0,41). Questi
risultati sono altamente compatibili
con l’originale analisi intention to
treat. La quota di drop out dovuta a
mancanza di disponibilità di dati relativi ai sintomi è risultata simile nei
due gruppi: 32 pazienti su 150 nel
gruppo sottoposto a trattamento attivo
e 25 su 143 nel gruppo placebo. E’
pertanto improbabile che il non completamento dello studio sia dovuto
alla risoluzione dei sintomi in seguito
a trattamento attivo, per cui le conclusioni originali sono riconfermate
dagli autori dello studio.
Bibliografia
mi e siano stati meno disponibili,
rispetto ai pazienti con infezione persistente, a completare la parte di follow up dello studio. Qual è stata la
percentuale di trattamenti efficaci nei
217 pazienti il cui stato dell’H. pylori
e i valori dei sintomi sono stati effettivamente valutati a 12 mesi?
1. Perri F, Andriulli A. Absence of
benefit of eradicating Helicobacter pylori in patients with
nonulcer dyspepsia. N Engl J
Med 2000;342:583.
2. Talley NJ et al. Eradication of
Helicobacter pylori in functional dyspepsia: randomised
double blind placebo controlled trial with 12 months follow
up. The Optimal Regimen
Cures Helicobacter Induced
Dyspepsia (ORCHID) Study
Group. BMJ 1999;318:833-7.
Commento
a cura del Comitato di Redazione del Bollettino d’Informazione sui Farmaci
È stato chiaramente dimostrato
che l’eradicazione dell’H. pylori
mediante brevi regimi di antibiotici
è, di norma, in grado di curare l’ulcera peptica e di prevenirne le ricadute. Questo straordinario risultato è
stato estrapolato all’ipotesi di un
possibile beneficio dell’eradicazione dell’H. pylori nella dispepsia non
ulcerosa. Nel 1999, in Europa (1),
Nord America (2) e in altri Paesi (3)
sono state proposte strategie di eradicazione dell’H. pylori in pazienti
con dispepsia non ulcerosa a partire
da alcuni dati desunti da studi di piccole dimensioni, non randomizzati,
con follow up brevi, oppure basati su
meta-analisi di tali studi.
Tra dicembre 1998 e maggio 2000
sono comparsi in letteratura cinque
studi metodologicamente ben condotti
(6-10), che hanno affrontato il problema dell’eradicazione dell’H. pylori
nella dispepsia non ulcerosa in modo
più organico e approfondito. I risultati
portano a conclusioni di altro segno,
tanto da indurre a riconsiderare l’intera materia.
36
Oltre a quella riportata in questa
rubrica, sono state condotte tre
altre sperimentazioni sostanzialmente simili per tipo di trattamento
del gruppo attivo (breve ciclo di due
antibiotici orali a largo spettro più
omeprazolo), per numero e caratteristiche dei pazienti (circa 300 in ogni
studio, con test positivo all’H. pylori e diagnosi di dispepsia non ulcerosa formulata dopo endoscopia
gastrointestinale superiore), per
disegno sperimentale (doppio cieco
randomizzato e controllato vs placebo), per end point principali (presenza o meno di sintomi dispeptici alla
visita conclusiva dopo un anno di
follow up dal trattamento).
I principali risultati sono sinteticamente riportati nella Tabella 1.
Come si può osservare, la percentuale complessiva di frequenza della
dispepsia ad un anno non risulta statisticamente diversa tra gruppi sottoposti a trattamento eradicante (70%) e
gruppi di controllo (75%).
Un quinto studio (10) ha valutato l’effetto eradicante l’H. pylori
sulla dispepsia e sulla qualità della
vita in una popolazione di età compresa tra 40-49 anni di un’area del
territorio inglese ben definito
(Leeds e Bradford: 1.200.000 abitanti). Le persone arruolate, positive all’Helicobacter, sono state
selezionate da liste di 36 centri di
medicina primaria e assegnate, per
randomizzazione, per una settimana a trattamento attivo (omeprazolo 20 mg, claritromicina 250 mg e
tinidazolo 500 mg, ognuno due
volte al giorno: 1.161 soggetti) o a
placebo (1.163 soggetti). I partecipanti allo studio sono stati seguiti e
valutati a sei mesi e a due anni. Tra
quanti si sono presentati a quest’ultima data, dispepsia o sintomi di
reflusso gastro-esofageo sono stati
riportati in 247 individui su 880
(28%) del gruppo trattato con terapia eradicante e 291 su 871 (33%)
del gruppo placebo (riduzione
assoluta del rischio: 5%; IC 95%:
1%÷10%). In definitiva, lo screening di popolazione e il trattamento eradicante hanno determinato
una modesta riduzione della dispepsia, senza alcun impatto sulla
qualità di vita dei pazienti.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
DALLA SPERIMENTAZIONE ALLA PRATICA CLINICA
È disponibile inoltre in Medline
una meta-analisi Cochrane (11) che,
includendo sette sperimentazioni,
conclude per un possibile beneficio
“non robusto” e marginale dell’eradicazione dell’H. pylori sulla dispepsia non ulcerosa. La modestia di questo ipotetico effetto si evince chiara-
mente dall’alto numero di dispeptici
che andrebbero trattati – 19 – per
migliorare i sintomi di uno solo di
essi (NNT).
Tabella 1. Studi randomizzati di strategie di eradicazione di Helicobacter pylori nella dispepsia non ulcerosa
Trial (rif. biblio.)
Terapia/durata
n. di casi senza remissione/totale (valore %)
Gruppo trattato
con antibiotici
Blum et al. (6)
McColl et al. (7)
Talley et al. (8)
Talley et al. (9)
Totale
A,C,O/1 settimana
A,M,O/2 settimane
A,C,O/2 settimane
A,C,O/1 settimana
119/164 (73)
121/154 (79)
81/150 (54)
101/133 (76)
422/601 (70)
Gruppo di controllo
130/64 (79)
143/154 (93)
71/143 (50)
111/142 (78)
455/603 (75)
Bibliografia
A=Amoxicillina, C=Claritromicina, M= Metronidazolo, O=Omeprazolo
1.
2.
3.
4.
Current European concepts in the
management of Helicobacter pylori infection: the Maastricht Consensus Report. Eur J Gastroenterol
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Talley NJ et al. American
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Asia Pacific Consensus Conference on the management of Helicobacter pylori infection. J Gastroenterol Hepatol 1998;13:1-12.
Laheij RJF et al. Review article:
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eradication of Helicobacter pylori
in patients with non-ulcer dyspepsia. Aliment Pharmacol Ther
1996;10:843-50.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
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8.
Jaakkimainen RL et al. Is Helicobacter pylori associated with nonulcer dyspepsia and will eradication improve symptoms? A metaanalysis. BMJ 1999;319:1040-44.
Blum AL et al. Lack of effect of
treating Helicobacter pylori infection in patients with nonulcer
dyspepsia. N Engl J Med
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McColl K et al. Symptomatic
benefit from eradicating Helicobacter pylori infection in patients
with nonulcer dyspepsia. N Engl J
Med 1998;339:1869-74.
Talley NJ et al. Absence of benefit
of eradicating Helicobacter pylori
in patients with nonulcer dyspepsia.
N Engl J Med 1999;341:1106-11.
9.
Talley NJ et al. Eradication of
Helicobacter pylori in functional
dyspepsia: randomised double
blind placebo controlled trial with
12 months’ follow up. BMJ
1999;318:833-7.
10. Moayyedi P et al for the Leeds
HELP Study Group. Effect of
population screening and treatment
for Helicobacter pylori on dyspepsia and quality of life in the community: a randomised controlled
trial. Lancet 2000;355:1665–9.
11. Moayyedi P et al. Eradication of
Helicobacter pylori for non-ulcer
dyspepsia. Cochrane Database
Syst Rev 2000;2:CD002096.
37
ABC DEGLI STUDI CLINICI
EDITORIALE
Gli end point surrogati
In alcuni articoli pubblicati recentemente sul Bollettino di Informazione sui Farmaci è stato usato il termine end point surrogati, distinguendoli dagli end point
veri, che sono quelli veramente rilevanti per il paziente
(ad es., guarigione di una malattia, prolungamento della
sopravvivenza, miglioramento o prevenzione del deterioramento della qualità della vita).
Questo articolo è finalizzato a chiarire che cosa si intenda con il termine end point surrogato, perché gli end point
surrogati vengono scelti in luogo degli end point veri nelle
sperimentazioni cliniche, e come devono essere interpretati i risultati delle sperimentazioni in cui sono stati valutati gli effetti di un trattamento su end point surrogati.
Un ricercatore, quando si accinge a impostare il protocollo di una ricerca clinica, deve decidere a priori
quali criteri intende adottare per stabilire se il trattamento sperimentale è efficace, in modo da offrire un
vantaggio reale ai pazienti a cui verrà prescritto. Medici
e pazienti si aspettano che un trattamento riduca la mortalità o altri eventi gravi e invalidanti (per esempio, l’incidenza di infarto miocardico, di ictus cerebrale, di un
intervento chirurgico, di ulcera gastrica, di fratture
ossee, o la necessità di iniziare la dialisi renale), ma
dimostrare la riduzione di tali eventi richiede di dover
seguire un gran numero di pazienti, per un lungo periodo di tempo, in attesa che si possa evidenziare una differente incidenza tra i pazienti trattati e quelli di controllo. Oltretutto bisogna affrontare il rischio che, dopo
5 anni e alcuni miliardi investiti nella ricerca, si dimostri
che la sopravvivenza è del tutto sovrapponibile nei
gruppi a confronto. E’ allora molto più semplice e più
rapido accontentarsi di dimostrare che un trattamento:
riduce la colesterolemia e non necessariamente l’incidenza di infarto miocardico; la pressione arteriosa e non
l’incidenza di ictus; lo spessore delle placche coronariche e non l’incidenza di interventi di bypass aortocoronarici; il tasso ematico della creatinina e non la necessità della dialisi; aumenta la densità ossea e fa diminuire
il numero di fratture vertebrali e del collo del femore.
Tutti questi obiettivi “minori” (la riduzione di colesterolemia, pressione arteriosa, spessore delle placche, creatininemia o l’aumento della densità ossea) sono appunto considerati end point surrogati, perché vengono utilizzati al posto degli end point veri (1-3).
Al medico, che deve decidere se utilizzare un certo
farmaco, basta sapere che quel principio attivo agisce
nel ridurre un end point surrogato o deve pretendere
che il trattamento riduca la mortalità, l’incidenza di
eventi gravi e migliori in modo sostanziale la qualità
della vita del paziente a cui intende prescriverlo?
38
E se fosse solo un surrogato?
A prima vista sembra ragionevole pensare che se
l’ipercolesterolemia provoca l’infarto e la morte precoce (come dimostrato da numerosissime ricerche
epidemiologiche), ridurre il tasso ematico di colesterolo debba ridurre l’incidenza di infarto e prolungare la sopravvivenza. Sembra ragionevole pensare che
se la mortalità dopo infarto è maggiore in coloro che
hanno all’Holter aritmie ventricolari non sostenute,
ridurre la comparsa di tachicardie ventricolari debba
ridurre il numero di morti improvvise. Sembra infine
ragionevole pensare che se una bassa frazione di eiezione del ventricolo sinistro è il fattore principale che
determina la morte, la stimolazione della capacità
contrattile del miocardio debba migliorare la sopravvivenza. In clinica non sempre ciò che è ragionevole è anche vero. Questi tre esempi ci riportano infatti ai risultati di tre ricerche, in cui si era riscontrata (in
modo inatteso sulla base delle conoscenze di fisiopatologia allora note) una maggiore mortalità nonostante si fosse ottenuta un’importante riduzione della
colesterolemia con clofibrato (4), una riduzione quasi
totale delle tachicardie ventricolari con flecainide (5)
e un miglioramento della frazione di eiezione con
milrinone (6). Se i medici avessero prescritto questi
farmaci fidandosi della loro efficacia su end point
surrogati, avrebbero indotto una serie di decessi di
cui sarebbe stato impossibile individuare la causa.
Prendiamo l’esempio della flecainide: dopo circa 10
mesi di trattamento è stata riscontrata una mortalità
del 4,5% nei pazienti trattati con il farmaco e
dell’1,2% in quelli trattati con placebo. La differenza
di decessi è apparsa importante soltanto perché era
stata rilevata nell’ambito di una ricerca clinica randomizzata e controllata; nessun medico né alcun centro
cardiologico avrebbe infatti potuto accorgersi di una
differenza del 3,3% tra pazienti trattati e non trattati.
Surrogati o sostituti?
Un end point surrogato può essere considerato un
reale sostituto dell’end point vero solo se è in grado
di predire in modo inequivocabile l’evento maggiore
e se è possibile dimostrare che l’intervento sull’end
point surrogato modifica sempre anche l’incidenza
dell’evento. Sono state esemplificate quattro condizioni in cui un end point surrogato può non essere un
affidabile sostituto dell’end point vero (7). Innanzi
tutto quello che viene considerato un end point surBIF Mag-Giu 2000 - N. 3
ABC DEGLI STUDI CLINICI
Colpevoli o innocenti?
Con queste considerazioni non si intende demonizzare il ruolo degli end point surrogati, che è fondamentale nelle fasi iniziali dello sviluppo di una molecola, quando è indispensabile sapere se quel nuovo
principio attivo è in grado di ridurre la pressione arteriosa, la colesterolemia, l’escrezione urinaria di proteine, o aumentare la densità ossea. Quando invece si
passa alla fase della commercializzazione, siccome lo
scopo dei clinici è quello di prolungare la vita dei
pazienti e di farli stare meglio e non certo di portare
nei limiti della norma alcuni valori ematochimici o
alcuni parametri di laboratorio, bisogna essere sicuri,
prima di prescrivere un farmaco, che il singolo principio attivo abbia dimostrato una reale efficacia su
end point veri.
Alcuni autori distinguono gli end point surrogati
(una variabile biochimica come l’ipercolesterolemia o
patofisiologica come l’ipertensione arteriosa, o una
variabile morfologica come l’ipertrofia ventricolare
sinistra) dagli end point intermedi, come la frequenza
di angina pectoris, i sintomi da iperglicemia, la tolleranza allo sforzo (10). Questi ultimi non sono esattamente end point veri, ma il loro miglioramento rappreBIF Mag-Giu 2000 - N. 3
senta comunque un traguardo importante nella storia
naturale di una malattia e un risultato apprezzabile per
i pazienti.
Considerazioni conclusive
Sulla base delle considerazioni che riguardano il
ruolo degli end point surrogati l’FDA (l’agenzia americana incaricata di fornire l’approvazione all’immissione in commercio dei farmaci) rifiuta di approvare un
farmaco se manca la dimostrazione di un beneficio clinico prodotto dall’effetto su un end point surrogato
(11). La CUF ha recentemente deciso di non concedere
ad alcuni ACE-inibitori l’indicazione della nefroprotezione, in quanto nelle ricerche con quei farmaci era
stata dimostrata una riduzione del tasso di escrezione di
albumina e non la riduzione dell’incidenza di dialisi.
Non ha concesso ad alcuni bifosfonati l’indicazione
nella prevenzione dell’osteoporosi in corso di trattamento con glucocorticoidi, in quanto nelle ricerche era
stato dimostrato soltanto un aumento della densità
ossea in alcuni distretti e non una riduzione delle fratture. Inoltre, la CUF ha deciso di non concedere ad
alcune statine l’indicazione di utilizzo per aumentare il
tasso di colesterolo HDL in quanto, pur sapendo che
elevati valori di HDL sono correlati a un minor rischio
cardiovascolare, non ci sono prove che l’aumento artificiale di quella frazione lipidica riduca l’incidenza di
infarto miocardico.
Bibliografia
rogato è un fattore non coinvolto in modo diretto nel
meccanismo patogenetico della malattia (nonostante
la nota relazione tra leucocitosi e processo infettivo,
non ha senso proporre un farmaco citotossico per trattare una polmonite). In secondo luogo, l’end point
surrogato ha un ruolo patogenetico, ma il modificarlo non determina alcun cambiamento sull’evento
finale, in quanto un altro meccanismo fisiopatologico
è essenziale per lo sviluppo della malattia (l’ipertrigliceridemia ha un ruolo nel processo aterosclerotico,
ma finora non è stato dimostrato che ridurre il tasso
di trigliceridi riduca l’incidenza di infarto miocardico). In terzo luogo, l’intervento terapeutico agisce su
un meccanismo fisiopatologico diverso da quello
controllato dall’end point surrogato, che non viene
modificato dal trattamento (inizialmente l’efficacia
degli agenti antiretrovirali è stata dimostrata sull’aumento dei CD4). Infine, l’efficacia dell’intervento si
riscontra per un’azione contemporanea sull’end point
surrogato e sull’evento finale, dando l’illusione che
modificando il primo si ottenga anche una riduzione
del secondo. Spesso infatti il trattamento fornisce
risultati non attesi, indotti da meccanismi di azione
non conosciuti che sono indipendenti dal processo
della malattia.
Nel campo dei trattamenti dello scompenso cardiaco si ritiene attualmente che non si possano utilizzare end point surrogati al posto della valutazione diretta degli effetti del farmaco sulla riduzione dei sintomi o della mortalità (8) e che nel campo dell’osteoporosi non ci si possa basare sull’aumento della densità ossea piuttosto che sulla riduzione dell’incidenza
di fratture ossee (9).
1.
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9. Bucher HC et al. Users’ Guide to medical literature. XIX
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11. Food and Drug Administration Modernization Act §
112,1997.
39
ABC DEGLI STUDI CLINICI
Prescrivere in base ai numeri
Interpretare con obiettività i dati numerici degli studi clinici - e i risultati che ne derivano - richiede una valutazione
attenta del loro significato in relazione a diversi fattori, quali il numero di soggetti coinvolti, l’importanza e la gravità delle patologie considerate e degli eventi misurati nonché la rilevanza in termini di trasferibilità degli effetti
osservati.
Non sempre, tuttavia, i risultati vengono espressi utilizzando gli indicatori che possono descrivere in modo più immediato l’effettiva validità del trattamento sperimentato. Per evitare di enfatizzare certi risultati è opportuno saper
derivare dai dati presentati gli indicatori più idonei per una valutazione più completa e conseguentemente per
un’adeguata prescrizione.
I risultati degli studi clinici sono spesso presentati
in termini di riduzione relativa di rischio (RRR) di
eventi sfavorevoli osservata in un gruppo di pazienti
sottoposti a trattamento in sperimentazione (EER =
Experimental Event Rate) rispetto a un gruppo di
controllo (CER = Control Event Rate). La riduzione
del rischio relativo, di solito espressa in valore percentuale, è un indicatore che, se non completato da
ulteriori elementi di valutazione, può enfatizzare l’efficacia del trattamento al di là del suo significato clinico reale. L’esempio di seguito riportato ne dà spiegazione.
Supponiamo che, in uno studio, 10.000 pazienti
siano trattati con un farmaco sperimentale e altrettanti
(gruppo di controllo) con placebo, e che siano complessivamente evidenziati 1.000 eventi sfavorevoli nel
gruppo sperimentale e 2.000 nel gruppo di controllo. La
EER è pari al 10% e la CER al 20%. La RRR nel gruppo trattato è del 50%.
In un’altra ricerca clinica, in cui uno stesso numero
di pazienti è stato sottoposto a trattamento sperimentale o di controllo, si osservano rispettivamente 100
(EER = 1%) e 200 (CER = 2%) eventi sfavorevoli.
Anche in questo caso la RRR nel gruppo trattato è del
50%.
Lo stesso valore RRR (50%) si ottiene se la EER è
pari allo 0,1% (10 casi) e la CER allo 0,2% (20 casi)
oppure se la EER è 0,01% (1 evento) e la CER 0,02%
(2 eventi).
Da tutto ciò deriva che, se la RRR è enucleata dall’incidenza reale dell’evento che in una data condizione clinica si desidera prevenire, è limitatamente significativa e poco utile al medico.
La riduzione assoluta del rischio (ARR) è la differenza tra la quota di eventi osservati nel gruppo sperimentale e nel gruppo di controllo. Nei quattro casi citati, mentre la RRR è sempre del 50%, la ARR è, in termini percentuali, rispettivamente del 10%, 1%, 0,1%,
0,01%. Detto in altro modo, rispetto al gruppo di con-
40
trollo, nel primo esempio su 100 pazienti trattati, 10
presentano una riduzione del rischio di eventi sfavorevoli; negli altri tre casi, 1 paziente vedrà il rischio di
eventi ridotto rispettivamente ogni 100, 1.000, 10.000
pazienti trattati.
Il reciproco della riduzione assoluta del rischio permette di conoscere il numero di pazienti che devono
essere trattati per prevenire un evento. Questo è
l’NNT (dall’inglese Number Needed to Treat), un
indicatore particolarmente utile in campo clinico in
quanto offre al medico la possibilità di porre in rapporto l’efficacia del trattamento (espressa dalla RRR)
con il rischio dell’evento sfavorevole in assenza di
trattamento (CER): è chiaro infatti che un trattamento
efficace ha un’utilità clinica tanto maggiore quanto
più elevato è il rischio di base.
Formule
I concetti sopra riportati possono essere trasformati in
formule matematiche, come di seguito riportato.
Incidenza di EER =
numero di eventi nel gruppo sperimentale
numero di soggetti del gruppo sperimentale
Incidenza di CER =
numero di eventi nel gruppo di controllo
numero di soggetti del gruppo controllo
% RRR =
(CER – EER) x 100
CER
ARR = CER – EER
NNT per prevenire un evento =
1
ARR
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
ABC DEGLI STUDI CLINICI
Esempio di applicazione delle formule ai risultati di
uno studio clinico
Studio
Helsinki Heart Study: studio di prevenzione primaria,
in doppio cieco, controllato e randomizzato, sull’utilizzo di gemfibrozil in uomini di media età con dislipidemia (Frick MH et al. N Engl J Med 1987;317:1237-45).
Risultati
Numero di eventi (infarto miocardico fatale o non
fatale, morte cardiaca): gruppo gemfibrozil 56, gruppo
placebo 84.
Calcoli
Incidenza di eventi gruppo placebo = 84 = 0,041 (4,1%)
2.030
56 = 0,027 (2,7%)
2.051
Numero di soggetti
4.081 uomini asintomatici, di età compresa tra 40-55
anni, con dislipidemia (colesterolo totale meno HDL >
5,2 mmol/L)
Incidenza di eventi gruppo gemfibrozil =
Trattamento
Gemfibrozil 600 mg due volte al giorno (gruppo sperimentale: 2.051 soggetti) vs placebo (gruppo di controllo: 2.030 pazienti) per la durata di 5 anni.
Riduzione assoluta del rischio = (0,041 – 0,027) = 0,014 (1,4%)
Riduzione relativa del rischio % = 0,041 – 0,027 = 0,34 (34%)
0,041
NNT per prevenire un evento =
1
= 71 soggetti
0,014
Considerazioni finali
1. I risultati del Helsinki Heart Study mostrano una riduzione relativa del 34% dell’incidenza di eventi nei pazienti trattati con gemfibrozil rispetto ai controlli. Questa espressione, statisticamente corretta (RRR), non riassume però appieno il significato clinico della ricerca.
2. Osservando i risultati numerici della ricerca si rileva infatti che l’incidenza di eventi si è ridotta dal 4,1% nei
soggetti trattati al 2,7% nei controlli. La differenza fra le due cifre, pari a 1,4%, rappresenta la riduzione assoluta del rischio (ARR).
3. Detto in altri termini, se si trattano 1.000 pazienti per 5 anni con gemfibrozil si evita il verificarsi dell’evento
in 14 di essi; 986 pazienti sono stati trattati per 5 anni senza beneficio.
4. Questo risultato è efficacemente esprimibile con NNT, cioè devono essere trattati per 5 anni 71 pazienti per evitare 1 evento.
5. È stato dimostrato che quando i risultati di uno studio sono espressi solo come RRR, i medici sono indotti ad
interpretarli in termini falsamente ottimistici; è pertanto necessario, nella valutazione degli studi terapeutici,
esaminare anche la ARR e l’NNT da essa ricavato.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
41
NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO
EDITORIALE
Il collegato alla finanziaria 1998 (Legge 27 dicembre 1997, n. 449) al comma 14 dell’art. 36 ha previsto uno stanziamento di fondi “per iniziative di farmacovigilanza e di informazione degli operatori sanitari sulle proprietà, sull’impiego e sugli effetti indesiderati dei medicinali, nonché per le campagne di educazione sanitaria nella stessa
materia”. Il Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza del Ministero della Sanità ha così
predisposto il “Programma di informazione sui farmaci, farmacovigilanza ed educazione sanitaria” (di seguito definito “Programma”) che, articolandosi in diverse specifiche attività, si ispira agli obiettivi e agli indirizzi del Piano
Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 e ai principi della Riforma Ter.
Informazione sui farmaci ed educazione sanitaria:
le iniziative editoriali
Tra le varie attività specifiche previste dal Programma e attuate dal Dipartimento, assumono particolare
rilevanza quelle rivolte allo sviluppo di una corretta
informazione sui farmaci, nell’ambito delle quali si
inseriscono alcune importanti iniziative editoriali.
Il settore dell’informazione sui farmaci e dell’educazione sanitaria è sicuramente un settore prioritario. Si è
voluto perseguire l’obiettivo strategico di promuovere
una cultura critica sui farmaci, per garantire una dialettica seria in un settore fortemente complesso e caratterizzato da interessi spesso contrapposti.
È infatti noto che in Italia, mancando una tradizione
culturale in grado di contrapporre alla promozione del
mercato - pur legittima - una informazione pubblica
qualificata ed indipendente, il rapporto tra promozione
ed informazione scientifica risulta sbilanciato ed asimmetrico, tanto che le attività di marketing finiscono
spesso per influenzare le abitudini prescrittive dei
medici.
In tale contesto il Dipartimento sta realizzando una
serie di iniziative editoriali e (in)formative che, nell’intento di riequilibrare il rapporto tra informazione scientifica e promozione, sono tese a stimolare un dialogo
diretto tra autorità regolatoria, operatori sanitari, industria farmaceutica e cittadini.
Il Bollettino di Informazione sui Farmaci
Nell’ambito di una rinnovata politica farmaceutica, che vede il Ministero impegnato in un’azione di
maggiore efficienza, tempestività e trasparenza, si è
ritenuta necessaria un’iniziativa volta ad assicurare
un’informazione più appropriata e completa sui farmaci, destinata agli operatori del SSN ed in particolare alla classe medica. In tale prospettiva si colloca
la pubblicazione di questo Bollettino, recentemente
rinnovato nei contenuti e nella veste grafica, che
intende dare un contributo nel rendere più consapevoli e partecipi i medici prescrittori, i farmacisti e gli
operatori sanitari sui principali aspetti dell’assistenza
42
farmaceutica, sulla farmacovigilanza e sulle principali decisioni della CUF.
In particolare, l’impegno nella realizzazione del Bollettino vorrebbe rispondere ad alcune fondamentali esigenze:
– qualificare l’informazione scientifica tramite articoli
facilmente sfruttabili dai lettori ed i cui contenuti possano essere trasferiti nella pratica professionale;
– contribuire al miglioramento della pratica professionale dei farmacisti e dei medici, dando un’informazione che consenta loro di svolgere la propria attività in modo altamente professionale e di effettuare
una prescrizione razionale, consapevole e basata
sulle prove di efficacia;
– avviare un processo di collaborazione e di dialogo con
medici e farmacisti al fine di garantire la comprensione e la trasferibilità delle decisioni assunte a livello
centrale e per superare il distacco, oggi esistente, tra gli
organismi regolatori e il mondo della professione.
Per il perseguimento degli obiettivi anzidetti, gli articoli del BIF si soffermano sui temi di maggior interesse, quali nuovi farmaci, nuove indicazioni e strategie
terapeutiche, effetti collaterali, revisioni, meta-analisi,
e gli argomenti vengono spesso presentati in modo
comparativo affinché si possano confrontare, ad es.,
rischi e benefici, nuovi e vecchi farmaci, farmaci della
stessa classe, trattamenti farmacologici e non.
Il Repertorio Farmaceutico del Servizio Sanitario Nazionale
Non esistendo ancora una edizione “istituzionale” da
parte del Ministero che comprendesse l’elenco di tutti
i farmaci del SSN1, è stata avvertita come prioritaria
1 Tale compito era stato lasciato all’iniziativa privata; sono note,
in particolare, due iniziative: l’Informatore Farmaceutico edito da
OEMF e il REFI edito da Farmindustria.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
NOTIZIE DAL DIPARTIMENTO
l’esigenza di un’edizione predisposta in tal senso dal
Dipartimento. Si sta così ultimando la stesura del
Repertorio Farmaceutico del SSN, in cui i farmaci sono
organizzati per: classe terapeutica, principio attivo,
nota CUF e prezzo.
L’importanza del Repertorio Farmaceutico del SSN
risiede nel fatto che esso è uno strumento fondamentale di ogni farmacista e di ogni medico per poter valutare, nell’ambito delle differenti categorie terapeutiche e
delle patologie ad esse correlate, la gamma dei principi
attivi disponibili, i medicinali ad essi rispondenti, la
loro rimborsabilità, i dosaggi e le confezioni. Tale pubblicazione sarà gratuitamente distribuita a tutti gli operatori sanitari e si caratterizza anche per essere molto
maneggevole e di facile consultazione.
Successivamente, verrà realizzata un’edizione integrativa per comprendere i farmaci non dispensati dal
SSN, ovvero i farmaci di fascia C, quelli senza obbligo
di prescrizione (SOP) e i medicinali da banco (OTC).
Per i farmaci in rimborsabilità verranno inoltre inseriti
i costi della terapia giornaliera e le dosi-definite-die
(DDD).
In particolare, questi parametri consentono:
- ai prescrittori, una valutazione comparativa dei farmaci disponibili e dei costi di terapia per ciascuna
categoria terapeutica omogenea;
- ai servizi farmaceutici, l’acquisizione di un riferimento metodologico univoco, necessario a garantire
l’omogeneità dei dati e la comparabilità delle elaborazioni e delle analisi dell’attività prescrittiva.
Edizione italiana del British National Formulary
Nel contesto delle iniziative editoriali tese a diffondere una corretta ed appropriata informazione sui farmaci, si inserisce anche un progetto di traduzione in lingua italiana del British National Formulary (BNF), il
prontuario commentato per i medici del Servizio sanitario inglese che, dato il suo alto livello scientifico, rappresenta una delle iniziative editoriali più conosciute ed
apprezzate in campo medico.
L’edizione in lingua italiana assumerà, comunque,
una valenza esclusivamente culturale: il testo tradotto non avrà, infatti, alcuna implicazione regolatoria e non impegnerà gli aspetti amministrativi e
normativi definiti dal Ministero nel settore dei medicinali.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
Altre iniziative
Al fine di promuovere una cultura critica sull’utilizzo dei farmaci e di accrescere la consapevolezza sulle
prestazioni del SSN, il Dipartimento sta anche realizzando alcuni opuscoli divulgativi, su specifici temi di
interesse. L’intento è quello di avviare una comunicazione chiara e diretta non solo con gli operatori sanitari, ma anche con il cittadino, in modo da fornirgli informazioni utili alla tutela della salute e alla comprensione delle motivazioni, scientifiche ed economiche, che
guidano le scelte del SSN nell’erogazione delle prestazioni farmaceutiche.
Fra queste iniziative di educazione sanitaria si colloca la stesura di un opuscolo, destinato alle famiglie italiane, sul corretto impiego dei medicinali. Tale opuscolo intende rendere consapevole il cittadino degli aspetti relativi alla difesa della salute, attraverso chiare e
semplici informazioni che lo guidino ad un utilizzo
appropriato dei farmaci (dall’acquisizione, alla conservazione, allo smaltimento delle confezioni scadute) e lo
aiutino a comprendere anche altri aspetti relativi alle
prestazioni offerte dal SSN (es., classificazioni dei farmaci, fasce di erogabilità, esenzioni, ticket, spesa farmaceutica in Italia, ecc.).
È anche in corso di
distribuzione a tutti i
medici e farmacisti un
opuscolo nel quale è
riportato il protocollo di
monitoraggio dei piani
di trattamento farmacologico per la malattia di
Alzheimer. Data la
dimensione sociale del
problema, che riguarda
una parte cospicua della
popolazione, questa iniziativa assume una
notevole rilevanza.
L’opuscolo contiene numerose informazioni relative
all’identificazione delle unità di valutazione, al percorso per l’ammissione al trattamento, al programma terapeutico, alla valutazione della risposta, nonché ai criteri di cessazione del trattamento stesso, e si pone come
strumento utile a favorire l’integrazione dell’attività dei
centri specializzati e dei medici di medicina generale,
con l’obiettivo di promuovere la continuità terapeutica
ed assistenziale. Per un aggiornamento scientifico in
tempo reale e per un dialogo aperto tra medici, cittadini ed esperti del Ministro della Sanità, è disponibile il
sito internet: www.alzheimer-cronos.org.
43
FARMACOUTILIZZAZIONE
EDITORIALE
La spesa farmaceutica nel 2000: andamento
nel primo quadrimestre e proiezione a fine anno
La Commissione per il monitoraggio della Spesa Farmaceutica, a conclusione della prima fase di lavori per il
2000, ha rilevato, nel primo quadrimestre, un consistente incremento della spesa, tale da far prevedere a fine
anno un aumento del 15% sulla spesa 1999 e un significativo sfondamento del tetto programmato (+17% circa).
A partire dalla spesa farmaceutica lorda del 1999, la
Commissione ha effettuato una stima per l’anno 2000
valutandone gli elementi costitutivi, sulla base dei dati
riferiti al primo quadrimestre dell’anno.
In particolare, uno dei principali fattori che concorrono al superamento del tetto di spesa, è stato identificato in un aumento generale dei consumi. Si stima,
infatti, che tale aumento determini un incremento di
spesa del 4% per farmaci in rimborsabilità sia nel 1999
che nel 2000 e dell’1,65% per classi di farmaci ammessi alla rimborsabilità nel corso del 1999. Il peso della
multiprescrizione sui consumi, e quindi sulla spesa, è in
corso di approfondimento. Un’ulteriore conferma di
tale tendenza si evince dall’aumento del numero di
ricette prescritte: nel primo quadrimestre 2000, infatti,
si è registrato un incremento del 6,7% rispetto al corrispondente periodo del 1999.
Gli altri fattori che contribuiscono a determinare un
incremento della spesa e che, seppur con pesi diversi, si
ripetono costantemente negli ultimi anni, possono essere così schematizzati (v. anche BIF 2000;1:47):
– aumento dei prezzi per adeguamento al prezzo
medio europeo - PME - (+2,9%);
– effetto mix dei consumi, cioè l’impiego di farmaci
più recenti e più costosi al posto di altri di minor costo
La Commissione per la Spesa Farmaceutica, prevista dall’art. 36, comma 16, della legge n. 449 del
27 dicembre 1997 (“Misure per la stabilizzazione
della finanza pubblica”) è stata istituita nel luglio
1998 per consentire all’Amministrazione pubblica
la valutazione delle eccedenze della spesa farmaceutica per ciascuna classe terapeutica omogenea,
identificando le misure per fronteggiare il superamento del tetto di spesa.
Il suddetto comma 16 prevede, infatti, che qualora
la spesa per l’assistenza farmaceutica ecceda,
secondo proiezioni trimestrali, gli importi stabiliti
dall’art. 36, comma 15 della stessa legge, il Ministro della Sanità, avvalendosi di un’apposita commissione da istituire con proprio decreto, che includa una rappresentanza delle aziende del settore e
della Commissione Unica del Farmaco, valuti l’entità delle eccedenze per ciascuna classe terapeutica
omogenea e identifichi le misure necessarie.
e con profili di efficacia e sicurezza sovrapponibili
(+4,8%);
– incidenza relativamente minore del ticket, stabilito
in cifra fissa per confezione, su una spesa lorda aumentata, nonché un minore gettito assoluto del ticket stesso
per effetto di un minor prelievo dalla multiprescrizione.
Gli elementi costitutivi della previsione di spesa a carico del SSN per l’anno 2000 sono riportati in Tabella 1.
Tabella 1. Elementi della proiezione della spesa farmaceutica 2000 a carico del SSN sulla base dei dati di spesa
1999 (in Mld di Lire)
Spesa lorda 1999
Effetto mix
Aumento dei consumi
Adeguamento al PME
Estensione alla rimborsabilità di nuovi farmaci o nuove categorie di farmaci
Ammissione alla rimborsabilità di altri farmaci (es., per il morbo di Alzheimer, inibitori COX-2) nel corso del 2000
Totale spesa lorda
Ticket (8,9%)
Sconto (4%)
Totale spesa netta
44
16.970
+ 815
+ 679
+ 492
+ 280
+ 140
19.375
– 1.724
– 775
16.876
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
FARMACOUTILIZZAZIONE
In sintesi, dalla relazione della Commissione per il
monitoraggio della Spesa Farmaceutica, emerge che
nel 2000 si prevede che la spesa netta raggiunga 16.876
Mld di Lire, con uno sfondamento di 2.455 Mld di Lire
del tetto programmato che è fissato in 14.421 Mld di
Lire (+17%) e con un incremento del 14,8% rispetto
alla spesa netta del 1999.
Analizzando i dati di vendita* nei due periodi di riferimento, si evince che i farmaci che hanno fatto registrare le maggiori variazioni assolute di spesa sono rappresentati da statine, antagonisti dell’angiotensina II,
comprese le associazioni con diuretici, inibitori della
pompa acida e glicocorticoidi, in particolare quelli a
lunga emivita (v. Tabella 2). Per quanto riguarda le statine si sta confermando il trend già evidenziato negli
scorsi anni con un aumento dei pazienti trattati, mentre
sui sartani e le relative associazioni con diuretici, ha
notevolmente influito l’eliminazione della nota 73 nel
corso del 1999.
Relativamente a inibitori di pompa e glicocorticoidi
va rilevato che la variazione assoluta di spesa non è
imputabile esclusivamente all’aumento dei consumi; su
di essa pesa, infatti, anche lo spostamento dei consumi
di antiulcera anti-H2 verso inibitori di pompa e quello
di derivati glicocorticoidi a breve emivita verso quelli a
lunga emivita (di più recente immissione sul mercato).
Tabella 2. Primi 10 gruppi terapeutici per variazione assoluta della spesa tra il 1° quadrimestre 1999 e il
1° quadrimestre 2000 (in Mld di Lire)
ATC
GRUPPO TERAPEUTICO
Spesa
Spesa
Increm.
gen/apr 1999 gen/apr 2000 assoluto
Increm.
%
1
C09DA
Antagonisti dell’angiotensina II e diuretici
37,5
104,5
67,0
179,0
2
C10AA
Inibitori dell’HMG CoA reduttasi (statine)
181,3
247,5
66,2
36,5
3
C09CA
Antagonisti dell’angiotensina II, non associati
97,8
144,9
47,1
48,2
4
A02BC
Inibitori della pompa acida
208,0
259,2
51,2
24,6
5
R03BA
Glicocorticoidi
166,1
205,4
39,3
23,7
6
C08CA
Derivati diidropiridinici
363,2
392,1
28,9
8,0
7
C07AB
Betabloccanti, selettivi, non associati
42,1
68,1
26,0
61,7
8
B01AB
Eparinici
48,1
73,5
25,4
52,8
9
B03XA
Altri preparati antianemici
78,3
103,2
24,9
31,8
129,9
152,1
22,2
17,1
10 M01AX
Altri farmaci antinfiammatori/antireumatici non steroidei
In Tabella 3 sono richiamati i primi dieci gruppi terapeutici per incidenza di spesa nel primo quadrimestre
2000; le incidenze percentuale e cumulativa di spesa
sono state calcolate sul totale del mercato (spesa
SSN+spesa privata) per farmaci di fascia A e B nel
primo quadrimestre 2000, pari a 7.200 miliardi.
Nel caso degli antibiotici riportati (cefalosporine e
sostanze correlate; macrolidi), va considerato che,
essendo i dati riferiti al primo quadrimestre del 2000, i
consumi riflettono necessariamente la stagionalità delle
patologie; sull’utilizzo dei macrolidi ha influito, inoltre, l’ammissione alla rimborsabilità di confezioni
* Nelle Tabelle sono riportati i dati complessivi di vendita attraverso le farmacie al pubblico
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
“ottimali” rispetto alla durata della terapia per l’eradicazione dell’Helicobacter pylori.
Un’importante quota di mercato è rappresentata dai
farmaci per il sistema cardiovascolare (antipertensivi,
ipocolesterolemizzanti, antianginosi), dagli inibitori di
pompa (3,6%) e dai glicocorticoidi (2,9%).
In generale, considerando sia l’incremento sia l’incidenza di spesa, i dati mostrano come, nella maggior
parte dei casi, le variazioni più significative riguardino
classi di farmaci tradizionalmente presenti nel Prontuario Terapeutico Nazionale. In definitiva, quindi, la
causa dell’incremento di spesa può essere identificata
soprattutto in un maggiore utilizzo di farmaci (in particolare di molecole immesse recentemente sul mercato,
seppur appartenenti a categorie già rimborsate) piuttosto che in opportunità terapeutiche nuove.
45
FARMACOUTILIZZAZIONE
Tabella 3. Primi 10 gruppi terapeutici per incidenza di spesa nel 1° quadrimestre 2000 (in Mld di Lire) e relativa incidenza % e cumulativa
ATC
GRUPPO TERAPEUTICO
Spesa
Incidenza
Incidenza
%
cumulativa
1
J01DA
Cefalosporine e sostanze correlate
510,4
7,1
7,1
2
C09AA
ACE-inibitori
386,6
5,4
12,5
3
C08CA
Derivati diidropiridinici
392,1
5,4
17,9
4
C09BA
ACE-inibitori e diuretici
297,3
4,1
22,0
5
J01FA
Macrolidi
292,2
4,1
26,1
6
C10AA
Inibitori della HMG CoA reduttasi
247,5
3,4
29,5
7
A02BC
Inibitori della pompa acida
259,2
3,6
33,1
8
R03BA
Glicocorticoidi
205,4
2,9
36,0
9
C01DA
Nitrati organici
156,2
2,2
38,2
10
M01AX Altri farmaci antinfiammatori/antireumatici non steroidei
152,1
2,1
40,3
Alla luce dei dati emersi, la Commissione approfondirà nella prossima relazione al Ministro lo studio delle
misure per il controllo della spesa farmaceutica, aggior-
nando il ventaglio delle proposte avanzate nel 1999 ed
ancora attuali, e presentandone di nuove in relazione
all’aumento osservato nei prossimi mesi.
Comunicazioni e osservazioni al Bollettino dovranno essere inoltrate presso:
Redazione Bollettino di Informazione sui Farmaci
Dipartimento per la Valutazione dei Medicinali e la Farmacovigilanza
Ministero della Sanità
Viale della Civiltà Romana, 7
00144 Roma
Fax 06-59943117
Le comunicazioni relative a variazioni di indirizzo, dovranno riportare nome, cognome e nuovo
indirizzo del destinatario, ed essere preferibilmente accompagnate dall’etichetta allegata ad una delle
copie ricevute, in cui figurano codice, nome, cognome e vecchio indirizzo del destinatario stesso.
46
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
SCHEDA DI SEGNALAZIONE DI SOSPETTA REAZIONE AVVERSA
(Da compilarsi a cura del medico o farmacista)
N.B. È OBBLIGATORIA SOLTANTO LA COMPILAZIONE DEI SEGUENTI CAMPI: 2; 4; 7; 8; 12; 22;
N.B. È OBBLIGATORIA SOLTANTO LA COMPILAZIONE DEI SEGUENTI CAMPI: 2; 4; 7; 8; 12; 22
1
INIZIALI DEL PAZIENTE
2
3
7
DESCRIZIONE DELLE REAZIONI ED EVENTUALE DIAGNOSI*
ETÀ
4
SESSO
DATA D’INSORGENZA DELLA REAZIONE
5
6
ORIGINE ETNICA
8
CODICE MINISTERO
SANITÀ:
GRAVITÀ DELLA REAZIONE
MORTE
■
HA PROVOCATO O HA PROLUNGATO
L’OSPEDALIZZAZIONE
■
HA PROVOCATO INVALIDITÀ GRAVE O
■
PERMANENTE
HA MESSO IN PERICOLO LA VITA DEL
PAZIENTE
10
RISOLTA
* NOTA: SE IL SEGNALATORE È UN FARMACISTA, RIPORTI SOLTANTO LA DESCRIZIONE DELLA REAZIONE AVVERSA, SE È UN MEDICO ANCHE
L’EVENTUALE DIAGNOSI.
9
■
ESITO:
■
RISOLTA CON POSTUMI
PERSISTENTE
■
ESAMI STRUMENTALI E/O DI LABORATORIO RILEVANTI
■
MORTE:
11
DOVUTA ALLA REAZIONE AVVERSA
SPECIFICARE SE LA REAZIONE È PREVISTA NEL FOGLIO ILLUSTRATIVO
■
IL FARMACO POTREBBE AVER
SI
■
NO
■
CONTRIBUITO
■
NON DOVUTA AL FARMACO
COMMENTI SULLA RELAZIONE TRA FARMACO E REAZIONE
SCONOSCIUTO
■
■
INFORMAZIONI SUL FARMACO
12
13
FARMACO (I) SOSPETTO (I)
LA REAZIONE È MIGLIORATA DOPO LA
SOSPENSIONE DEL FARMACO?
(NOME SPECIALITÀ MEDICINALE (*)
A)
SI
■
NO
■
B)
C)
* NEL CASO DI PRODOTTI BIOLOGICI INDICARE IL NUMERO DEL LOTTO
14
15
DOSAGGIO
IN VIA DI SOMMINISTRAZIONE
GIORNALIERO (I)
16
DURATA DELLA TERAPIA
DAL
A)
A)
A)
B)
B)
B)
C)
C)
C)
17
AL
SI
INDICAZIONI PER CUI IL FARMACO È STATO USATO
19
FARMACO (I) CONCOMITANTE (I) E DATA (E) DI SOMMINISTRAZIONE
20
CONDIZIONI CONCOMITANTI E PREDISPONENTI
■
NO
■
RICOMPARSA DEI SINTOMI
SI
18
RIPRESA DEL FARMACO
21
■
NO
■
LA SCHEDA È STATA INVIATA ALLA:
AZIENDA PROD.
DIR SANITARIA
■
■
MINISTERO DELLA SANITÀ
USL
■
■
INFORMAZIONI SUL SEGNALATORE
22
FONTE:
MEDICO DI BASE
✄
SPECIALISTA
■
FARMACISTA ■
ALTRO ■
OSPEDALIERO
■
■
23
NORME ED INDIRIZZO DEL MEDICO O FARMACISTA - N.UMERO ISCRIZIONE
ORDINE PROFESSIONALE - PROVINCIA
24
DATA DI COMPILAZIONE
25
26
CODICE USL
27
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
FIRMA
FIRMA
RESPONSABILE
47
INFORMAZIONI SULLA DITTA FARMACEUTICA
NOME E INDIRIZZO
FONTE DELLA SEGNALAZIONE
STUDIO CLINICO
LETTERATURA
PERSONALE SANITARIO
NUMERO DI REGISTRO
DATA IN CUI LA SEGNALAZIONE
È PERVENUTA ALL’IMPRESA
TIPO DI RAPPORTO:
INIZIALE
SEGUITO DI ALTRO RAPPORTO
DATA DI QUESTO RAPPORTO
Note sulla compilazione della scheda di segnalazione
• Il campo N. 6 (codice Ministero della Sanità)
non va compilato dal sanitario che segnala,
ma dall’Ufficio competente del Ministero
della Sanità.
• Per ciò che attiene il campo N. 7, la descrizione della reazione deve essere il più ampia possibile e non limitarsi a pochi termini, cioè la
descrizione dell’evento avverso dovrebbe, per
quanto possibile, non coincidere con la diagnosi.
• Il campo N. 8 è stato inserito come obbligatorio in quanto, dato che da alcune segnalazioni
originano poi interventi incisivi per la salute
pubblica, è di fondamentale importanza conoscere il livello di gravità della reazione stessa.
Ovviamente, se la segnalazione si riferisce a
reazioni non gravi il segnalatore può scegliere se scrivere non grave o non applicabile,
sbarrare l’intero campo, o semplicemente
lasciarlo in bianco.
• Il campo N. 11 è anch’esso importantissimo,
in quanto la menzione o meno della reazione avversa nel foglio illustrativo, e di conseguenza nella scheda tecnica permette al
Ministero della Sanità di classificare tale
reazione come inaspettata o meno. Ciò è
48
particolarmente utile nel caso vada avviata
una procedura d’urgenza di variazione degli
stampati. Sempre in questo stesso campo è
riportata la richiesta di commenti sulla possibile relazione tra l’assunzione del farmaco
e l’insorgenza della reazione avversa. In
questo caso è opportuno rispondere dopo
aver compiuto opportune verifiche (consultazione degli stampati e di testi scientifici,
follow up, esami di laboratorio).
• Il campo N. 21 serve soprattutto ad evitare le
duplicazioni in caso la scheda sia stata spedita a più destinatari (Azienda USL, Industria
Farmaceutica, etc.).
• Il campo N. 27 va firmato dal responsabile del
servizio farmacovigilanza della USL dopo
che questi ha controllato la congruità della
segnalazione stessa. In caso la segnalazione
risultasse mancante di elementi importanti, è
auspicabile che il responsabile suddetto si
adoperi per acquisirne il più possibile.
• Per quanto riguarda il retro della scheda si fa
presente che esso va compilato dall’Azienda
titolare dell’Autorizzazione all’Immissione in
Commercio, e non da chi riporta né dalla
USL.
BIF Mag-Giu 2000 - N. 3
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editoriale - Ministero della Salute