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I GENERI
Saggio breve
o articolo di giornale
Duecento e Trecento
Il comico e il tragico
Goffredo di Vinsauf, I tre stili
A partire dalla fine del secolo XII, si diffusero nelle scuole medievali i trattati di poetica; basandosi sull’insegnamento degli autori antichi, essi dettavano le norme per comporre in versi latini. Riportiamo un passo dal Documentum de arte versificandi (“Manuale dell’arte di
scrivere in versi”) attribuito a un certo Goffredo di Vinsauf, autore di altri trattati del genere.
1. Orazio... stili:
l’Ars poetica di
Orazio, poeta dell’età
di Augusto, era considerata l’autorità suprema in materia; il
testo accenna ai livelli
stilistici in relazione
ai generi teatrali della
tragedia e della commedia (che erano i
prototipi dello stile
alto e basso): «una
materia comica non
ammette di essere
presentata con versi
tragici» (v. 89).
2. persone... generale: persone di rango
sociale elevato, avvenimenti pubblici.
3. Virgilio... Eneide:
Virgilio, l’altro grande poeta dell’età augustea, incarnava nel-
Degli stili Orazio non dice nulla, parla solo dei difetti degli stili1. Perciò
noi parleremo degli stili, e in seguito dei difetti di cui dice Orazio. Gli stili
sono dunque tre: l’umile, il medio e il grande. E hanno queste denominazioni come stili in relazione alle persone o alle cose di cui si tratta. Quando
infatti si tratta di persone o cose di importanza generale2, allora lo stile è
grande; quando di persone o cose umili, è umile; quando di medie, è medio. Virgilio si serve di tutti e tre gli stili: dell’umile nelle Bucoliche, del medio nelle Georgiche, del grande nell’Eneide 3.
Ci sono poi tre difetti relativi ai tre stili. Allo stile grande è collegato il
difetto che si dice “turgido e gonfio”; al medio è collegato il difetto che si
dice “sconnesso e ondeggiante”; all’umile è collegato il difetto che si dice
“secco ed esangue”. Turgido e gonfio è quello stile che si serve di metafore
troppo dure e ampollose, come se io dicessi «io passai attraverso le montagne della guerra» quando intendessi dire «per le difficoltà della guerra». La
metafora è dura, e usandola appaio turgido e gonfio. Secco ed esangue è
quello stile che si serve di una scorrevolezza troppo bassa e spregevole, come se dicessi: «Io lo ho visto cantare»; infatti una scorrevolezza tanto elementare è secca ed esangue4. Sconnesso e ondeggiante è quello stile che
non sa attenersi alle proprietà delle persone o cose medie, ma parla a volte
delle medie come se si dovesse parlare delle umili, a volte invece come se si
dovesse parlare di persone grandi o di cose grandi e così, poiché non sa tenersi nel mezzo e regolare il proprio stile, perde consistenza e scivola a volte in basso verso lo stile umile, a volte in alto verso lo stile grande.
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(Goffredo di Vinsauf, Documentum de arte versificandi,
in E. Ferrol Les arts poétiques du XII e du XIII siècle,
Champion, Paris, 1962, traduzione dal latino di A. Colombo)
le sue tre opere i tre
livelli stilistici, in
quanto si riferiva a tre
ranghi di persone: le
Bucoliche sono poemetti pastorali (e i
pastori rappresentano
le persone umili per
eccellenza), le
Georgiche sono un
poema didascalico
sull’agricoltura, rivolto ai coltivatori (anche se in realtà il loro
stile è elaborato e raffinato), l’Eneide è un
poema epico che ha
per oggetto le origini
mitiche di Roma, i
cui personaggi sono
eroi di stirpe regale.
4. infatti... esangue:
un’espressione troppo
legata all’uso comune,
priva di artificio, per
il trattatista medievale
è esangue, cioè non ha
sostanza poetica.
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Il comico e il tragico
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Giuseppe Petronio, Lirica “comico-realistica” e lirica “tragica”
Negli ultimi decenni del Duecento e nella prima metà del Trecento fiorì,
specialmente in Toscana ma anche nelle regioni vicine, una poesia lirica
che i critici hanno denominata variamente, dicendola “realistica”, “giocosa”, “burlesca”, “borghese”, “comico-realistica”. […] Tuttavia un tratto comune questi poeti lo hanno, non nei temi o nella psicologia, ma nel tono e
nello stile, nel senso che tutti rinnegano coscientemente, e talvolta addirittura satireggiano, i toni e i modi della lirica “alta”, “illustre”, “tragica”, per
trattare, invece, di argomenti modesti e legati alla realtà quotidiana, adoperando, secondo il principio medievale della congruenza fra il tema e lo stile, un lessico e una sintassi vicini a quelli della lingua parlata, con un’apertura, quindi, a tutti i temi, a tutti i vocaboli, a tutti i modi stilistici, anche
a quelli che la poesia «tragica» doveva evitare.
[…] Accanto a quella «comico-realistica» corse nei primi due secoli una
lirica che, con riferimento alla teoria medievale degli stili, si potrebbe dire
“tragica”; una lirica nella quale l’aristocraticità dei temi si esprimeva in uno
stile e una lingua del livello più alto, con l’esclusione rigida di ogni moto
realistico, di ogni espressione plebea, di ogni deviazione da un ideale di
convenzionalismo severo e solenne.
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(G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palombo, 1987)
Nicola Zingarelli, “comico” e “tragico”
nel linguaggio comune di oggi
Comico […] Che provoca divertimento, ilarità; situazione, scena comica; personaggio, tipo comico; film comico. Sinonimi: buffo, ridicolo.
Tragico […] Doloroso, luttuoso: un fatto tragico. / Cruento, mortale,
violento: fare una fine tragica / Gesto tragico: esagerato, simile a quello
di un attore tragico / Passo tragico: di affettata gravità.
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(N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2007)
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Duecento e Trecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Duecento e Trecento
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Giacomo da Lentini, Io m’aggio posto in core a Dio servire
Questo sonetto è dedicato al problematico rapporto tra amore sacro e amore profano: come far convivere la totale dedizione alla donna amata prescritta dalle teorie dell’amore cortese con la totale subordinazione a Dio richiesta dalla religiosità medievale?
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Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco, c’aggio audito dire,
o’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’à blonda testa e claro viso,
che sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io pecato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
che mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
METRO:
sonetto.
1. Io m’aggio posto
in core: mi sono proposto. Aggio è una forma tipica dei dialetti
meridionali per “ho”.
2. com’io: affinché
io. gire: andare.
3. c’aggio audito dire: di cui ho sentito
parlare.
4. ’o... riso: dove durano eternamente festa, gioia e letizia.
5. voria: vorrei.
6. claro: luminoso.
9-10. Ma no... fare:
ma non lo dico con
l’intenzione di fare
peccato con lei.
11. se non: ma solo
per. portamento:
comportamento, contegno.
(Giacomo da Lentini,
da Poesie,
a cura di R. Antonelli,
Bulzoni, Roma, 1979)
13-14. che... stare:
perché riterrei per me
(mi teria) una grande
consolazione vedere
la mia donna nella
gloria (ghiora) del paradiso.
Guido Cavalcanti, Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
Questo sonetto, come il precedente, è dedicato agli effetti sconvolgenti dell’amore.
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METRO: sonetto.
1. fuoro: furono. dispenti: spenti, accecati.
2. tolti: strappati. de
la lor veduta: attraverso la loro facoltà
visiva.
3. non fosse: il soggetto sottinteso è la
donna.
4. se... senti: se senti
amore per me.
5. novi: inauditi.
6. aguta: penetrante.
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Perché non fuoro a me gli occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti»?
Ch’una paura di novi tormenti
m’aparve allor, sì crudel e aguta,
che l’anima chiamò: «Donna, or ci aiuta,
che gli occhi ed i’ non rimagnàn dolenti!
Tu gli ha’ lasciati sì, che venne Amore
a pianger sovra lor pietosamente,
tanto che s’ode una profonda voce
la quale dice: – Chi gran pena sente
guardi costui, e vederà ’l su’ core
che Morte ’l porta ’n man tagliato in croce –».
7. chiamò: gridò. ci
aiuta: aiutaci.
8. che... dolenti: affin-
ché gli occhi ed io (l’anima) non rimaniamo
nella sofferenza.
9. gli: li. sì: in tale
stato.
13-14. vederà... cro-
(Guido Cavalcanti,
da Rime,
a cura di D. De
Robertis,
Einaudi, Torino,
1986)
ce: vedrà il suo cuore
che Morte porta tra le
mani tagliato a croce.
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Il comico e il tragico
Cecco Angiolieri, Tre cose solamente m’enno in grado
Questo sonetto si può interpretare come una ripresa parodistica del genere provenzale del
plazer. Dall’elenco delle cose che piacciono a Cecco esce un autoritratto canagliesco che
piacque molto, nell’Ottocento, agli scrittori romantici.
METRO: sonetto.
1. m’ènno in grado:
mi sono gradite, mi
piacciono.
2. le quali... fornire:
che non posso ottenere come vorrei.
3. la taverna e ’l dado: metonimie per il
vino e il gioco d’azzardo.
5. Ma sì... rado: ma
pure (sì) sono costretto a permettermele
raramente.
6. ché... mentire:
perché le mie finanze
mi smentiscono, cioè
mi obbligano a negare a me stesso ciò che
desidero.
7. mi sovien: mi viene in mente. tutto mi
sbrado: mi metto a
inveire con tutto me
stesso.
8. ch’i’... disire: perché a causa dei soldi
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Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.
Ma sì me le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.
E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.
Ché fora a tôrli un dinaro più agro,
la man di Pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.
devo rinunciare al
mio desiderio.
9. Dato li sia: possa
essere colpito.
10. ciò a mi’ padre:
dico ciò pensando a
mio padre. sì magro:
così al verde.
11. che... Francia:
che potrei tornare
dalla Francia senza
dimagrimento (logro).
Cecco è già tanto magro che potrebbe fare
questo lungo viaggio
a piedi senza dimagri-
re ulteriormente.
12-14. Ché... bozzagro: infatti prendergli
un soldo (tôrli un dinaro) la mattina di
una festa (Pasqua, in
senso generico),
quando si dà la man-
(Cecco Angiolieri,
in Poeti del Duecento,
a cura di G. Contini,
Ricciardi, MilanoNapoli, 1960, tomo
II)
cia, sarebbe (fora) più
difficile (agro) che far
catturare una gru da
una poiana. La poiana è un uccello da
preda lento e goffo,
incapace di catturare
la veloce gru.
Anonimo, Scena di baldoria in osteria
Scena di baldoria in
un’osteria
(XIV sec., miniatura, Londra,
British Library)
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Duecento e Trecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Duecento e Trecento
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Anonimo, Cofanetto in avorio decorato con scene cortesi
Cofanetto in avorio
decorato con scene
cortesi (XIV sec.,
Londra, British
Museum)
Guida alla stesura
La composizione del saggio potrebbe procedere secondo i seguenti passaggi:
l Potete partire dai significati che hanno comunemente per noi oggi le parole “tragico” e “comico” nella definizione del vocabolario, e confrontarli con i concetti di
stile “comico” e “tragico” del Medioevo, come sono sintetizzati da Giuseppe
Petronio: quali differenze si possono individuare?
l Per risalire alle origini di questa distinzione potete poi fare riferimento al testo di
Goffredo di Vinsauf, che riprende dalla retorica classica l’idea della congruenza tra
il livello dello stile e il livello della materia trattata.
l Potete poi analizzare i tre testi poetici proposti: quali elementi “tragici” e “comici”
(in senso medievale ed eventualmente anche moderno) si possono notare in ciascuno di essi? Quali collegamenti potete istituire con altri testi dell’epoca che conoscete?
l Anche le due opere figurative possono essere confrontate in relazione a un criterio analogo.
Un’altra ipotesi di stesura potrebbe procedere in direzione inversa, facendo scaturire il tema della diversità dei temi e degli stili dal confronto tra le due opere figurative, e passando successivamente all’analisi dei testi scritti.
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Saggio breve
o articolo di giornale
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Saggio breve o articolo di giornale
Duecento e Trecento
Il disegno di Dio e il male del mondo
Dante, La provvidenza e il libero arbitrio
1. Colui… trascende:
Dio, il cui sapere sovrasta ogni cosa.
2. dié… conduce:
assegnò ogni cielo a
chi lo guida, cioè alle
intelligenze angeliche
che ne determinano il
moto.
3-4. Sì… luce: in
modo che ogni coro
angelico irradia il suo
splendore in uno dei
cieli, distribuendo la
luce di Dio in modo
uniforme.
5-6. Similemente…
duce: allo stesso modo Dio assegnò ai beni della terra un’intelligenza che li amministra e li governa
(ministra e duce).
Questa intelligenza è
la Fortuna, la dea
bendata del mondo
classico e pagano, che
Dante reinterpreta
come ministra
dell’imperscrutabile
volontà divina.
7-9. che permutasse… umani: che facesse passare, al tempo decretato dalla
provvidenza divina (a
tempo), i beni terreni
(vani perché non sono fonte di salvezza
per l’uomo) da un
popolo all’altro, da
una famiglia all’altra.
8. oltre… umani: in
1-3. Voi… necessitate: voi viventi attribuite ogni causa degli
eventi terreni soltanto
al cielo, come se esso
determinasse col suo
moto (movesse) tutto
ciò ce accade.
I. Nel canto VII dell’Inferno Dante si trova nel quarto cerchio, dove sono puniti gli avari e i
prodighi, che hanno peccato per l’atteggiamento tenuto nei confronti delle ricchezze.
Virgilio, interrogato da Dante, gli spiega che l’arricchimento e l’impoverimento degli uomini
dipende dalla Fortuna, un’intelligenza angelica che governa le vicende terrene secondo il
piano provvidenziale di Dio.
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Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogni parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei;
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
(Inferno, VII, vv. 73-90)
un modo che supera
la possibilità di difesa
e di reazione dell’intelletto umano.
10. per ch’…: e
quindi avviene che.
12. l’angue: il
serpente.
13. non… lei: non
può combattere con
lei.
14. provede… persegue: vede, giudica e
governa.
15. li altri dèi: gli
angeli.
16. permutazion:
cambiamenti. - triegue: interruzioni, soste.
17. necessità… veloce: il volere di Dio le
impone di capovolgere velocemente le sor-
ti degli uomini.
18. sì… consegue:
così, spesso appare
nel mondo (vien)
qualcuno che subisce
(consegue) una cambiamento di condizione (vicenda).
II. Nella terza cornice del Purgatorio, Dante incontra Marco Lombardo, un personaggio realmente esistito di cui sappiamo poco, noto ai contemporanei per la sua saggezza. Dante gli
chiede quale sia la causa del male che domina il mondo, e Marco risponde con un ampio
discorso, di cui riportiamo la prima parte.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
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Duecento e Trecento
DANTE
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4-6. Se… lutto: se le
cose andassero così, il
libero arbitrio
dell’uomo sarebbe
negato, e non sarebbe
giusto essere compensati per il bene compiuto con la felicità, e
puniti per il male
commesso con la sofferenza.
7. inizia: avvia, dà un
primo impulso.
8. non dico tutti: alcuni comportamenti
dell’uomo, come i moti involontari dell’istinto, non sono determinati dal moto dei cieli.
– posto… dica: anche
se lo fossero.
9. lume… malizia: vi
è stata data la luce
della ragione per distinguere il bene dal
male.
10. libero voler: una
libera volontà.
10-12. che…
notrica: la quale vo-
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Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.
Però, se ‘l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
[...]
(Purgatorio, XVI, vv. 67-105)
lontà, se fa fatica nei
primi conflitti contro
i moti del cielo, in
seguito, se si nutre di
buone abitudini, riesce a vincere tutte le
cattive inclinazioni.
13-14. A maggior…
soggiacete: voi, che
siete liberi, siete sottoposti a una potenza
e a una natura superiore a quella dei cieli,
cioè all’influsso diret-
to di Dio.
14. e quella… cura:
la potenza e la natura
di Dio creano in voi
l’anima razionale
(mente) che i cieli
non hanno in loro
potere.
16. Però: perciò. –
disvia: devia dalla
strada giusta.
17. cagione: la causa,
la responsabilità. - si
chiegga: va ricercata.
Dante, La lupa
Siamo nel primo canto dell’Inferno. Dante, smarritosi nella «selva oscura», cerca salvezza dirigendosi verso la cima di un colle illuminato dal sole. Ma tre belve gli sbarrano il passo:
una lonza, un leone e una lupa, simboli rispettivamente della lussuria, della superbia e della cupidigia. Riportiamo i versi riferiti alla lupa.
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Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
(Inferno, I, 49-60)
1. Ed una lupa: delle
tre fiere che vengono
incontro a Dante, la
più temibile è la lupa,
che raffigura il peccato più nocivo, la bramosia insaziabile dei
beni di questo mondo. - brame: desideri
smodati.
2. carca: carica.
3. e molte… grame:
e aveva già fatto vivere male tante gente.
4. gravezza: pesantezza.
5. vista: aspetto.
6. ch’io… altezza:
che io persi la speranza di raggiungere la
cima del colle.
7-10. e qual… s’attrista: quella belva
insaziabile (senza
pace) mi rese simile
(tal mi fece) all’avaro,
che accumula con
gioia i beni terreni, e
quando viene il momento che gli fa per-
dere ciò che ha accumulato, piange e si
dispera dentro di sé.
12. mi ripigneva…
tace: mi spingeva indietro nella selva, dove regna l’oscurità.
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Il disegno di Dio e il male del mondo
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L’immagine della lupa ritorna nella canto XX del Purgatorio. Dante e Virgilio stanno percorrendo la quinta cornice, dove sono purificate le anime di coloro che sono stati avidi dei beni terreni. Su questo sfondo, Dante prorompe in un’invettiva.
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Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
(Purgatorio XX, vv. 4-15)
2-3. che… cupa!: che
più di ogni altro vizio
catturi gli esseri umani a causa della tua
avidità insaziabile
(sanza fine cupa = in-
finitamente profonda).
4-5. O ciel…
trasmutarsi: O cielo,
nel cui movimento si
crede che stia la ra-
gione dei mutamenti
delle condizioni umane (di qua giù).
6. quando…
disceda: quando
verrà colui grazie al
quale essa (la lupa)
sarà allontanata dal
mondo?
San Paolo, La cupidigia radice di ogni male
Nella prima lettera a Timoteo, un testo del Nuovo Testamento ben noto a Dante, San Paolo
individua nella cupidigia la «radice di ogni specie di male».
Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti la cupidigia è radice di ogni specie di
mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori. Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine.
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(1 Tim. 6, 9-11)
Natalino Sapegno,
La concezione politica di Dante nel De Monarchia
Affinché poi il genere umano sia «nella condizione di pervenire al1’operazione che gli è propria con maggior libertà e agio», occorre che esso «si trovi nel riposo e nella tranquillità della pace»; donde l’opportunità che «vi sia
un solo che regoli e regga», perché l’assetto pacifico del mondo sia assicurato nell’ordine e nella giustizia, al di sopra degli interessi particolari e mediante il loro equilibrio e contemperamento.
Solo un imperatore, la cui giurisdizione si estende di diritto ai confini
della terra abitata, tutto possedendo, non ha più nulla da desiderare; la sua
volontà è assolutamente libera dalla cupidigia, che spesso corrompe e intorbida i giudizi terreni; il suo amore verso tutti gli uomini è puro e disinteressato […]. Il libero arbitrio si definisce come il giudizio libero che determina il moto della volontà verso l’azione. Solo quando l’appetito si
muove secondo l’esclusivo dettato della ragione, non prevenuta né asservita da agenti esteriori di qualsivoglia specie, si può parlare di vera libertà.
Tale condizione non si avvera sempre nell’ambito delle istituzioni sociali limitate; perché i governi corrotti […] – le tirannidi, le oligarchie, le demaLa riproduzione di questa pagina tramite fotocopia è autorizzata ai soli fini dell’utilizzo nell’attività didattica degli alunni delle classi che hanno adottato il testo
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Duecento e Trecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Duecento e Trecento
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gogie – asserviscono l’uomo ai loro fini. Solo il monarca, che ama ugualmente: gli uomini e vuole che tutti diventino buoni, assicura nella giustizia
la libertà.
(N. Sapegno, Dante, in Storia della letteratura italiana, II, Garzanti, 1965)
Hans Jonas, «Dio non ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo»
Nel saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz, il filosofo ebreo tedesco Hans Jonas (19031993) si chiede se si possa ancora conciliare l’idea tradizionale di un Dio onnipotente e
buono con le ingiustizie e le tragedie che travagliano il mondo, di cui l’orrore dei campi di
sterminio è il simbolo più evidente. La sua conclusione è che, per salvaguardare la bontà di
Dio occorre mettere in discussione la sua onnipotenza. Riportiamo un brano tratto dalla
parte conclusiva del saggio.
1. La creazione assoluta: appoggiandosi a
un antico filone della
tradizione ebraica,
Jonas avanza l’ipotesi
che Dio, nel creare il
mondo, si sia “ritirato” per fagli spazio,
accettando di non
avere potere su di esso: la Divinità ha
scelto di non essere
più assoluta (priva di
vincoli, illimitata) per
tutta la durata del
mondo.
2. un’opzione…
stesso: con la scelta
(opzione) di ritirarsi
[…] Se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (a cui non possiamo rinunciare) non deve escludere
l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente.
Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e
buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. […] La creazione fu
l’atto di assoluta sovranità, con cui la Divinità ha consentito a non essere
più, per lungo tempo, assoluta1 – un’opzione radicale a tutto vantaggio
dell’esistenza di un essere finito capace di autodeterminare se stesso2 – un
atto infine dell’autoalienazione3 divina
[…] Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non
ha più nulla da dare: ora tocca all’uomo dare. E l’uomo può dare, se nei
sentieri della sua vita si cura che non accada o non accada troppo sovente,
e non per colpa sua, che Dio abbia a pentirsi di aver concesso il divenire al
mondo.
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5
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(H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova, 1991)
dal mondo, Dio ha
affidato ogni responsabilità all’uomo, l’essere finito capace di
guidare il propri
comportamenti
(autodeterminare se
stesso).
3. autoalienazione:
limitando la propria
onnipotenza, Dio si è
spogliato della sua
divinità, per propria
scelta è diventato “altro” da quello che era
originariamente.
Guida alla stesura
Come si conciliano la bontà e l’onnipotenza di Dio con il male del mondo? Questa
domanda – che tormenta i credenti di ogni epoca – viene affrontata da Dante in
molti punti della sua opera. I brani qui riportati possono farvi da guida per uno svolgimento così articolato:
l Quale rapporto istituisce Dante tra la provvidenza divina e l’azione umana?
l Qual è secondo lui la causa principale del disordine del mondo?
l Quale ordinamento politico può garantire l’armonia tra la volontà di Dio e la convivenza umana?
l Se avete preso in considerazione il testo di Jonas, provate ad accostare, per somiglianza e per contrasto, la sua posizione a quella di Dante.
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16
PETRARCA
Saggio breve
o articolo di giornale
Saggio breve o articolo di giornale
Duecento e Trecento
L’intellettuale e le signorie
Francesco Petrarca, Per la libertà del popolo romano
Un periodo di impegno politico fu per Petrarca quello in cui prese il potere a Roma Cola di
Rienzo, un giovane notaio di origini plebee, colto e ambizioso, pieno di entusiasmo per la
Roma antica, che nel 1347 attraverso un’assemblea popolare spodestò i nobili che dominavano a Roma e ne prese il governo col titolo antico di tribuno del popolo. La curia papale di Avignone in un primo tempo non fu contraria alla sua azione; ma quando Cola mostrò
il proposito di federare a Roma i comuni italiani, e prese titoli e cariche che i papi consideravano sotto la propria giurisdizione, la Curia e le famiglie nobili romane si allearono contro
di lui: in pochi mesi Cola fu sconfitto e si trovò prigioniero ad Avignone. Petrarca si entusiasmò per il progetto di far rivivere l’antica repubblica romana e fece con i suoi scritti una vera campagna a favore di Cola Qui riportiamo un passo della prima lettera rivolta nel 1347
«A Cola di Rienzo e al popolo romano», che è un’orazione a favore del suo regime.
1. Voi: si rivolge al
popolo romano, che
si è liberato dall’op
pressione dei nobili.
2. non pose in oblio:
non ha dimenticato.
3. uomini altrettanto forti: i Romani
antichi.
4. ludibrio: cosa
spregevole.
Voi1 possedete quella libertà che, quanto sia dolce e desiderabile, lo si conosce soltanto quando la si perde. Di questo bene così grande e conosciuto
per mala prova di tanti anni, godetene con letizia, con sobrietà, con modestia e serenità, rendendone grazie a quel Dio che sa dispensare tali doni,
che ancora non pose in oblio2 la sua Città sacrosanta e non poté sopportare più a lungo di vederla serva, scelta come fu in tutto il mondo come sede
dell’impero. E quindi, o uomini forti che succedete a uomini altrettanto
forti3, se con la libertà è ritornato il retto giudizio, ognuno di voi pensi a
non abbandonarla se non con la vita, ché senza libertà la vita è soltanto ludibrio4. Abbiate sempre sotto gli occhi la trascorsa servitù!
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(Petrarca, Epistole, trad. dal latino di U. Dotti, UTET, Torino, 1978)
1. Simonide...
Silvano: Boccaccio
ama travestire le persone di cui parla nelle
sue lettere con nomi
antichi; Silvano è
Petrarca, Simonide un
amico comune.
2. Avrei creduto... i
lupi: cose impossibili,
per dire quanto è incredibile il comportamento di Petrarca.
3. ora un mostruoso... ciclope: altri
epiteti che Petrarca
avrebbe affibbiato in
precedenza al
Visconti; nell’Odissea
Polifemo è appunto
un mostruoso ciclope, e Boccaccio mostra di avere in proposito idee approssimative.
Giovanni Boccaccio, A Francesco Petrarca
Nel 1353 Petrarca decise di abbandonare definitivamente la Provenza e di stabilirsi in Italia;
giunto a Milano, accettò l’offerta di ospitalità del signore della città, l’arcivescovo Giovanni
Visconti. Era un momento di forte espansione dei Visconti, che erano diventati la maggiore
potenza dell’Italia centro-settentrionale e minacciavano seriamente l’indipendenza dei comuni toscani. Molti intellettuali amici di Petrarca, che consideravano Visconti un tiranno e
un aggressore, si scandalizzarono che il poeta si mettesse proprio al suo servizio. Tra questi
Boccaccio, che gli scrisse la lettera duramente critica di cui presentiamo un estratto.
Pochi giorni dopo capitò a Ravenna Simonide, costui mi presentò una lettera scritta da Silvano1 e così, non avendo più dubbi, imprecai al cielo e alla colpa di Silvano, dicendo: «Bisogna proprio crederci! Avrei creduto che
le cerbiatte cacciassero le tigri o gli agnelli mettessero in fuga i lupi2, prima
che Silvano si comportasse contro le sue opinioni. Chi in avvenire accuserà
i malvagi, chi condannerà gli svergognati, i lascivi, gli avari, dopo che il
nostro Silvano è così uscito di strada? Ah dolore! Dove sono finiti il suo
onore, la sua santità, la sua saggezza? È diventato amico di uno che proclamava violento, ora un mostruoso Polifemo, ora un ciclope3; si è sottomes-
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4. A che... oro: è un
celebre passo
dell’Eneide, citato anche da Dame (Purg.,
XXII, 41).
L’intellettuale e le signorie
so spontaneamente, non trascinato, non costretto, al giogo di uno di cui
condannava con disgusto la tracotanza, la superbia, la tirannide!
[...]
Questo egregio lodatore e cultore della solitudine, che cosa farà circondato
dalla folla? lui che era solito esaltare con tanto sublimi elogi la vita libera e
povertà decorosa, che farà ora sottomesso a un giogo estraneo e carico di
ricchezze vergognose? che cosa celebrerà più lui che era diventato il più illustre nell’esortare alle virtù, nel perseguire i vizi? Io non so che arrossire e
dannare la sua azione, e ripetere in pubblico e in privato quei versi di
Virgilio: «A che cosa non spingi i petti mortali esecranda fame dell’oro?»4.
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Duecento e Trecento
Saggio breve o articolo di giornale
(Opere latine minori, Laterza, Bari, 1928, trad. dal latino di A. Colombo)
Francesco Petrarca, L’amicizia con i tiranni
Questo passo è tratto dalla replica a un altro attacco che Petrarca ricevette nella stessa occasione, da un cardinale francese che lo aveva definito «amico dei tiranni».
1. Colui... l’animo:
Dio.
2. qualcuno...
amico: i pochi buoni,
amici di Dio, che
possono essere anche
amici suoi.
3. per motivi... nobili: per l’amicizia,
che impone dei vincoli.
4. conviene: è necessario.
5. tiranneggiano i
popoli: nelle repubbliche.
[...] con l’animo non sono sottoposto se non a Colui che mi ha dato l’animo1, ovvero a qualcuno che io mi sia convinto essergli profondamente amico2: ed è una specie rarissima. [...] Tolti questi, non c’è uomo al quale l’animo mio sia sottomesso. Come vedi, la parte migliore di me o è libera oppure, priva di libertà per motivi gradevoli e nobili3, non aspira a esser libera in
modo differente e teme di esservi costretta e vi si rifiuta. Questo per l’animo.
L’altra parte di me, quella terrena, conviene4 sia sottoposta ai signori di quei
luoghi nei quali abita. [...]E così quasi nessuno è libero; da ogni parte schiavitù e carcere e ceppi, a meno che, qualche rara volta, uno non sia riuscito a
sciogliere i nodi con la forza del suo spirito e con l’aiuto del Cielo. Volgiti
verso qualsivoglia parte della terra, non c’è località che non abbia la sua tirannide; dove non ci sono tiranni, tiranneggiano i popoli5; e così, quando
t’illudi di essere sfuggito a un tiranno solo, incappi in molti; a meno che tu
non sappia, per caso, indicarmi un luogo dove regni un re giusto e mite.
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(Invettiva contro un uomo di alta condizione, trad. dal latino di P.G. Ricci,
in Prose, a cura di G. Martellotti, Ricciardi, Milano-Napoli, 1955)
Giulio Ferroni, Petrarca e i potenti
I suoi rapporti col mondo politico e sociale – che gli appare mediocre, preda della barbarie o della disgregazione – sono sempre determinati in ultima
analisi dalla difesa della propria vita intellettuale, della propria autonomia
di studioso e di uomo di cultura. Tuttavia egli non rinuncia a cercare il
consenso di quel mondo e aspira a primeggiare sulla scena del presente.
Desidera allora l’appoggio dei potenti e delle istituzioni ufficiali, serbando
comunque una sotterranea diffidenza, una estraneità di fondo verso tutti i
signori e i poteri con cui instaura rapporti. Finisce così per non identificarsi mai fino in fondo con le loro posizioni: non è un semplice intellettuale
al loro servizio, ma è sempre e soprattutto lui, Francesco Petrarca, capace
di mantenere una propria autonoma coscienza, di liberarsi, se necessario,
da legami troppo vincolanti.
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(G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, vol. I p. 246)
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Duecento e Trecento
4
Giuseppe Galasso, Gli intellettuali e le signorie
Gli intellettuali sono una forza sociale effettiva, che ha dimostrato la sua
concreta capacità nel grande movimento di contestazione civile e religiosa
dei secoli XII e XIII, nella lotta teorica e pratica dei comuni contro feudalesimo e Impero, nelle lotte interne del comune stesso in cui l’elaborazione
di distinte posizioni politiche e la loro giustificazione in sede etica sono andate assumendo un valore impreveduto. Il signore accoglie dotti e letterati
alla sua corte per molti motivi: perché essi gli forniscono quei quadri tecnici di cui già il regime podestarile del comune aveva dimostrato l’utilità, se
non la necessità; perché essi fuoriescono, generalmente, dagli schieramenti
sociali cittadini e gli offrono una preziosa componente di quel potere a base nuova al quale egli è volto; perché giustificano con le loro posizioni e le
loro partigianerie guelfe o ghibelline, la sua intromissione negli affari interni di varie città; ma anche perché essi sono un sostegno pubblicistico ormai indispensabile. Con la signoria nasce così “un vero sistema di propaganda, il quale non è diretto, come la propaganda moderna, alle masse ma
è volto a convincere e ad influenzare altri intellettuali, cioè altre individualità” [Cusin, Antistoria d’Italia, Milano, 1970], che sono però le sole a cui
metta conto di riferirsi in quanto opinione pubblica qualificata.
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(G. Galasso, Le forme del potere, classi e gerarchie sociali, in Storia d’Italia Einaudi,
vol. 1 I caratteri originali)
Guida alla stesura
I primi documenti ci pongono davanti a una contraddizione: Petrarca difensore della libertà e di una repubblica popolare, Petrarca che pochi anni dopo si associa a un
signore giudicato “tiranno”. Come valutare questo comportamento? è un “voltagabbana”? è un uomo deluso dalla politica? come considerare la sua giustificazione
che contrappone la libertà spirituale alla servitù materiale?
Un grande personaggio come Petrarca ha avuto effettivamente un ruolo di rilievo
sulla scena politico-culturale del suo tempo, e non rappresenta un’eccezione individuale: può essere visto come il caso più significativo di un rapporto tra intellettuali
e potere che si sviluppa lungo i secoli.
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Saggio breve o articolo di giornale
Analisi del testo
Duecento e Trecento
4
Duecento e Trecento
Analizzate il testo,
rispondendo alle
domande del
questionario.
Potete svolgere
l’esercizio rispondendo separatamente ad ogni
domanda, o integrando le singole
risposte in un discorso complessivo, nell’ordine
che vi sembra più
efficace.
Francesco Petrarca
Amor mi manda quel dolce pensero
Nel Canzoniere, che ha un ordinamento approssimativamente cronologico, compare a un
certo punto il tema dell’invecchiamento: passano gli anni e l’amore non ha compimento.
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Amor mi manda quel dolce pensero
che secretario antico è fra noi due,
e mi conforta, e dice che non fue
mai come or presto a quel ch’ io bramo e spero.
Io che talor menzogna e talor vero
ò ritrovato le parole sue,
non so s’il creda e vivomi intra due:
né sì né no nel cor mi sona intero.
In questa passa ’l tempo, e ne lo specchio
mi veggio andar ver la stagion contraria
a sua impromessa, et a la mia speranza.
Or sia che po: già sol io non invecchio;
già per etate il mio desir non varia:
ben temo il viver breve che n’avanza.
METRO: sonetto.
2. che secretario...
due: il pensiero d’amore viaggia tra il
poeta e Laura come
un secretario, un confidente e messaggero.
3-4. non fue... spero:
Amore non fu mai
così pronto come
adesso a quello che
desidero e spero (che
Laura mi ricambi).
7. vivomi intra due:
vivo sospeso tra il credere e il non credere.
8. né sì... intero: né il
sì né il no risuona sicuro nel mio cuore.
Ricorda il dantesco
che sì e no nel capo mi
tenciona (Inf., VIII,
111).
9-11. ne lo
Comprendere
1. Fate una parafrasi del sonetto.
2. In quale parte del testo risulta centrale il tema dell’oscillazione fra speranza, dubbio e desiderio? In quale
parte, invece, si sviluppa il tema dell’invecchiamento?
Analizzare
3. Confrontate l’andamento sintattico e quello metrico del sonetto.
specchio... speranza:
guardandomi allo
specchio mi vedo andare verso quell’età
(stagion) che è contraria alla promessa
d’Amore e alla mia
speranza; verso la vecchiaia, che non è
adatta all’amore.
12. sia che po: accada
quel che può (po) ac-
(in Canzoniere, CLXVIII,
in Rime, Trionfi e poesia latina,
a cura di F. Neri,
Ricciardi, MilanoNapoli, 1951)
cadere. già... invecchio: non invecchio
solo io (anche lei); il
già, ripetuto al verso
successivo, è un
rafforzativo.
13. per etate: per
l’età.
14. n’avanza: ci resta.
Interpretare
4. È insolito, rispetto al Canzoniere, il tono perentorio
dell’ultima terzina: da cosa deriva, a vostro parere?
Contestualizzare
5. Per osservare la diversa modulazione del motivo
«speranza e desiderio», uno dei più insistenti nel
Canzoniere, confrontate questo sonetto con altri di tema analogo (ad esempio Voi ch’ascoltate in rime sparse il
suono o Padre del ciel, dopo i perduti giorni).
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20
BOCCACCIO
Saggio breve
o articolo di giornale
Duecento e Trecento
La figura del mercante
Giovanni Boccaccio, Come tre fratelli diventano usurai
1. non aggiugnesse:
non arrivasse (ai
diciotto anni).
2. senza alcuno... piacere: senza farsi guidare da altro che da ciò
che gli piaceva.
3. famiglia: servitù.
4. continuamente
corte: (tenendo) continuamente feste e ricevimenti.
5. faccendo...fare: facendo non solo quel
che è adatto ai nobili,
ma anche quello che
capitava di volere ai
loro desideri giovanili.
6. appena s’avvidero:
si accorsero a fatica.
7. l’orrevolezza: la dignità, l’alta posizione
sociale.
8. chente: quale.
9. avanti che...
confortò: li esortò,
prima che la loro miseria si rivelasse ancor
di più.
10. alcuna pompa:
nessuna manifestazione apparente.
11. non si ritennero
sì furono: non si fermarono finché non
furono.
12. agramente: con
accanimento, chiedendo condizioni dure.
Fu già nella nostra città un cavaliere il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono, fu de’ Lamberti, e altri affermano lui essere stato degli Agolanti, [...]. Ma lasciando stare di quale delle due case si
fosse, dico che esso fu ne’ suoi tempi ricchissimo cavaliere, e ebbe tre figliuoli, de’ quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tebaldo e il terzo Agolante, già belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse1, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a
morte e loro, sì come a legittimi suoi eredi, ogni suo bene e mobile e stabile lasciò. Li quali, veggendosi rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del loro medesimo piacere2, senza alcuno freno o ritegno cominciarono a spendere, tenendo grandissima famiglia3 e molti e buoni cavalli e cani e uccelli e continuamente corte4, donando e armeggiando e faccendo ciò non solamente che a gentili uomini s’appartiene ma ancor quello che nello appetito loro giovenile cadeva di voler
fare5. Né lungamente fecero cotal vita, che il tesoro lasciato loro dal padre
venne meno; e non bastando alle cominciate spese solamente le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere le possessioni: e oggi l’una e doman l’altra vendendo, appena s’avvidero6 che quasi al niente venuti furono
e aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza aveva tenuti chiusi.
Per la qual cosa Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro
qual fosse l’orrevolezza7 del padre stata e quanta la loro e quale la loro ricchezza e chente8 la povertà nella quale per lo disordinato loro spendere
eran venuti; e come seppe il meglio, avanti che più della loro miseria apparisse, gli confortò9 con lui insieme a vendere quel poco che rimaso era loro
e andarsene via: e così fecero. E senza commiato chiedere o fare alcuna
pompa10 di Firenze usciti, non si ritennero sì furono11 in Inghilterra; e quivi, presa in Londra una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente12
cominciarono a prestare a usura; e sì fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantità di denari avanzarono.
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(Decameron, Giornata seconda, Novella terza)
Paolo da Certaldo, Consigli a un giovane di buona famiglia
Paolo da Certaldo fu un mercante che visse nella seconda metà del Trecento a Firenze, dove ebbe anche cariche pubbliche. Il Libro di buoni costumi è una raccolta di massime e
consigli rivolti alla gioventù.
Molto ti guarda di non ispendere più ch’abbi in podere, sempre vogli avanzare ogni anno il quarto […] [per quelle spese] non usate che possono veniLa riproduzione di questa pagina tramite fotocopia è autorizzata ai soli fini dell’utilizzo nell’attività didattica degli alunni delle classi che hanno adottato il testo
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1. non usate... a dosso: (spese) non ordinarie che possono capitare all’improvviso a
chiunque altrui).
2. ‘l mobile: il denaro liquido.
3. condannagioni...
brighe: condanne pecuniarie, spese per
cause in tribunale.
4. chi più... si manuca: più vi si porta roba, più vi si mangia
(proverbio).
5. Guardati tu non
indugi: bada di non
rimandare.
6. terra: città.
7. montare in istato:
salire di condizione,
diventare importanti.
La figura del mercante
re altrui a dosso1, […] sì che, quando vengono, tu abbi di che farle senza toccare le possessioni o ‘l tuo patrimonio o ‘l mobile2 che ti fu lasciato. Le dette
spese non usate ne la casa e non continue sono queste: condannagioni, spese
di brighe3, malattie; e anche fanciulle a maritare. E anche, perché la famiglia
sempre cresce, però si vuole avanzare e mettere innanzi quanto puoi con giusto modo. Guardati molto de le spese minute di fuori casa, ch’elle sono quelle cosa che votano la borsa e rodono le ricchezze […] E però ti guarda da le
taverne; e anche non comperare tutte le buone derrate che vedi, che “la casa
è fatta come la lupa: chi più vi reca, più vi si manuca”4.
Guardati tu non indugi5 in domane quello che puoi fare immantinente, e
specialmente il bene. Per continua sollecitudine si vince ogni cosa; e leggesi
che tanto cade la gocciola de l’acqua in su la pietra, che l’acqua la fora. Dunque sii sollecito e studioso e persevera quello ch’hai a fare, e verrati fatto.
In ogni terra6 che vai o che stai, dì sempre bene di que’ che reggono il
Comune; e degli altri non dire però male, però che potrebbero montare in
istato7, e non t’avrebboro per amico di loro né di loro stato.
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(dal Libro di buoni costumi, Le Monnier, Firenze, 1945)
Maestro del Biadaiolo, Mercante di grano nella sua bottega
Firenze, biblioteca
Laurenziana (F. Antal,
La pittura fiorentina,
tav. 122).
(particolare)
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Saggio breve o articolo di giornale
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Duecento e Trecento
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Francesco Petrarca, Contro la ricchezza
In un trattato latino composto nel 1346, Petrarca contrapponeva la vita ritirata dell’uomo di
studi o di religione alla vita agitata di coloro che sono spinti dalla sete del guadagno.
1. le upupe: uccelli
che una tradizione
infondata credeva frequentatori notturni
dei cimiteri.
2. il Tartaro: l’inferno (chiamato col nome che davano gli
antichi al regno dei
morti).
3. il nome... fine: il
nome (del ricco) sarà
oggetto di una eterna
dimenticanza.
4. liberali: disinteressati: gli studi propri
dello spirito libero.
Abbandoniamo la città ai mercanti, agli avvocati, ai sensali, agli usurai, agli
appaltatori, ai notai, ai medici; abbandoniamola ai profumieri, ai beccai, ai
cuochi, ai fornai e ai salsicciai, agli alchimisti, ai lavandai, ai fabbri, ai tessitori; […] Lascia che i ricchi contino i loro denari, servendosi per questo
dell’aiuto dell’aritmetica. […] Naturalmente le ricchezze che vorrebbero
eterne si esauriranno, e fuggiranno i piaceri che con le mani cercano di trattenere: ma rimarranno quelle abitudini che desidereranno di non aver mai
avuto, e li accompagneranno pur contro lor voglia. […] Le ricchezze le avrà
l’erede ingrato e forse un odiato nemico; il corpo lo avranno i vermi e le
upupe1, l’anima il Tartaro2, il nome l’oblio senza fine3. Invece, per povero
che sia, il giusto rimarrà nell’eterno ricordo. Non ci sfidi dunque all’emulazione una falsa prosperità, che è poi una vera miseria; siano allontanati da
noi i ricchi molli ed effeminati. A loro siano care le terme, i bordelli, i grandi palazzi, le taverne; a noi le selve, i monti, i prati, le sorgenti. Seguano essi i desideri della carne e i guadagni, da qualsiasi parte provengano; noi gli
studi liberali4 e nobili. Se poi torna gradito unire allo studio qualche attività
pratica, sia questa l’agricoltura e la caccia.
1
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(De vita solitaria, II, XV, trad. dal latino di A. Bufano, in Prose,
Ricciardi, Milano-Napoli, 1955)
Henri Pirenne, Il mercante nella società medievale
Ecco come un grande storico belga dei primi del Novecento presenta l’irruzione della nuova classe dei mercanti nella socità medievale.
1. parvenus: nuovi
ricchi.
Salvo che nell’inverno, il mercante del Medioevo è continuamente in cammino: alcuni testi inglesi del XIII secolo lo indicano pittorescamente sotto
il nome di «piedi polverosi ».
Questo essere errante, questo vagabondo del commercio dovette certamente stupire fin dall’inizio, per la stranezza della maniera di vivere, la società agricola di cui urtava tutte le abitudini e in cui non vi era posto per
lui. Egli portava il movimento fra gente attaccata alla terra, rivelava, a un
mondo fedele alla tradizione e rispettoso di una gerarchia che fissava le
funzioni e il rango di ciascuna delle classi, un’attività calcolatrice e razionalista nella quale la fortuna, invece di misurarsi alla condizione dell’uomo, dipendeva solamente dalla sua intelligenza e dalla sua energia. Non ci
si deve quindi sorprendere se fece scandalo. La nobiltà disprezzò sempre
questi parvenus1 venuti fuori chissà da dove e di cui non poteva tollerare la
fortuna insolente. Essa si irritava della loro superiore ricchezza, ed era
umiliata di dover ricorrere nei momenti d’imbarazzo alla borsa di questi
nuovi ricchi.
[…] Quanto al clero, il suo atteggiamento verso i mercanti fu ancora più
sfavorevole. Per la Chiesa, la vita commerciale era pericolosa per la salvezza
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La figura del mercante
dell’anima: «il mercante – si legge in un testo attribuito a san Girolamo –
difficilmente può piacere a Dio». Il commercio appare ai canonisti come
una forma di usura. Essi condannavano la ricerca del profitto, che confondevano con l’avarizia.
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(H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni barbariche al XVI secolo, Sansoni, Firenze)
Guida alla stesura
Dai passi di Paolo da Certaldo potete ricavare un’immagine della mentalità che si
formò nella borghesia mercantile fiorentina, con i suoi meriti e i suoi limiti. Le immagini riprodotte raffigurano dal vivo i mercanti impegnati in alcune delle loro attività, così come li vedeva un contemporaneo: che cosa stanno facendo, che tipo di
vita conducono i personaggi raffigurati?
Il passo di Petrarca presenta un punto di vista aristocratico e umanistico sulle attività connesse al guadagno, opposto a quello di Paolo da Certaldo, mentre il brano
dello storico Pirenne serve a inquadrare questi due punti di vista.
A questo punto, ritornando al brano della novella di Boccaccio, potete chiedervi
quali aspetti della vita e della mentalità degli uomini d’affari medievali vi siano rappresentati, e quale sia l’atteggiamento dell’autore rispetto ai punti di vista accennati: la miniatura potrebbe rappresentare i personaggi della novella? quali idee di
Paolo da Certaldo sembrano condivise da Boccaccio?
Annotate le idee che potete raccogliere da questi confronti; esse vi serviranno a impostare un breve saggio che illustri alcuni aspetti della figura del mercante medievale, e delle diverse idee che se ne fecero i contemporanei.
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Duecento e Trecento
Saggio breve o articolo di giornale
24
Analisi del testo
Duecento e Trecento
Analizzate il testo,
rispondendo alle
domande del
questionario.
Potete svolgere
l’esercizio rispondendo separatamente ad ogni
domanda, o integrando le singole
risposte in un discorso complessivo, nell’ordine
che vi sembra più
efficace.
1. una presta parola:
una battuta pronta.
2. a sua salute: per la
propria salvezza.
3. sé campa: si salva.
4. liberale e magnifico: generoso nello
spendere in una vita
sontuosa.
5. in cani e in uccelli: nella caccia con
cani e con falconi.
6. gli mandò dicendo: gli mandò a dire.
7. governassela: la
preparasse.
8. nuovo bergolo:
uno straordinario
sventato (bergolo era
termine veneziano).
9. acconcia: preparata.
10. Voi... da mi: imitazione del dialetto
veneziano di
Chichibio.
11. crucciar: fare arrabbiare.
12. alcun suo forestiere: qualche suo
ospite.
13. Egli è: la cosa è.
14. ne’ vivi: negli
animali vivi.
Giovanni Boccaccio
Chichibio
Decameron, Giornata VI, novella 4
Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola1 a sua salute2 l’ira di Currado volge in riso e sé campa3 dalla mala ventura minacciatagli
da Currado.
Currado Gianfigliazzi, sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere,
sempre della nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico4, e
vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e in uccelli5 s’è dilettato, le
sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone
avendo un dì presso a Peretola una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e
era viniziano; e sì gli mandò dicendo6 che a cena l’arrostisse e governassela7
bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo8 era così pareva, acconcia9 la
gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocer la cominciò. La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odor venendone, avvenne che una
feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio
era forte innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.
Chichibio le rispose cantando e disse: «Voi non l’avrì da mi10, donna
Brunetta, voi non l’avrì da mi.»
Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: «In fé di Dio, se tu
non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia», e in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar11 la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere12 messa la gru
senza coscia, e Currado, maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: «Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba.»
Currado allora turbato disse: «Come diavol non hanno che una coscia e
una gamba? Non vid’io mai più gru che questa?»
Chichibio seguitò: «Egli è13, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia,
io il vi farò veder ne’ vivi14.»
Currado per amore de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse: «Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io
mai più non vidi né udi’ dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò
contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che
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15. sempre che tu ci
viverai: finché vivrai
su questa terra.
16. gonfiato: gonfio
d’ira.
17. nel menò: lo
condusse.
18. Tosto: subito.
19. gli conveniva: gli
toccava.
20. laonde: allora.
21. ghiottone: birbante.
22. parti: ti pare.
23. non sappiendo...
venisse: non sapendo
lui stesso da dove gli
venisse l’idea.
24. sollazzevol: divertente.
25. cessò la mala
ventura: evitò un
guaio.
Chichibio
io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre
che tu ci viverai15, del nome mio.»
Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente, come il
giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l’ira cessata, tutto
ancor gonfiato16 si levò e comandò che i cavalli fossero menati; e fatto
montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della
quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò17 dicendo:
«Tosto18 vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io.»
Chichibio, veggendo che ancora durava l’ira di Currado e che far gli
conveniva19 pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri,
se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora
adietro e dallato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che
stessero in due piè.
Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che a alcun vedute
sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano,
sì come quando dormono soglion fare; per che egli, prestamente mostratele a Currado, disse: «Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il
vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a
quelle che colà stanno.»
Currado vedendole disse: «Aspettati, che io ti mostrerò che elle n’hanno
due», e fattosi alquanto più a quelle vicino, gridò: «Ho, ho!», per lo qual
grido le gru, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire; laonde20 Currado rivolto a Chichibio disse: «Che ti par,
ghiottone21? parti22 che elle n’abbian due?»
Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse23,
rispose: «Messer sì, ma voi non gridaste “ho, ho!” a quella d’iersera; ché se
così gridato aveste ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata,
come hanno fatto queste.»
A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì
in festa e riso, e disse: «Chichibio, tu hai ragione: ben lo doveva fare.»
Così adunque con la sua pronta e sollazzevol24 risposta Chichibio cessò
la mala ventura25 e paceficossi col suo signore.
25
40
45
50
55
60
65
(Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino, 1991)
Comprendere
1. Definite il tema della novella, riconducendolo a
uno dei temi dominanti del Decameron.
2. Fate una parafrasi del capoverso che comincia «Ma
già vicini...» (righe 50-55).
Analizzare
3. Scegliete un periodo da cui appaia l’impostazione
sostenuta e latineggiante della sintassi di Boccaccio e indicate gli aspetti che evidenziano tale impostazione.
Interpretare
5. Indicate i valori di comportamento che nella novella sono presentati come positivi, attraverso le figure di
Currado e Chichibio.
Contestualizzare
6. Currado e Chichibio rappresentano due figure sociali che compaiono più volte nel Decameron; paragonate ciascuno dei due ad altri personaggi boccacceschi che
conoscete che appartengano allo stesso ceto.
4. Indicate gli aspetti da cui traspare la finzione che la
novella sia raccontata oralmente.
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Duecento e Trecento
Analisi del testo
30
Prova a rispasta chiusa B
1-5
Duecento e Trecento
1. Scrivi le opere e le scuole letterarie elencate nella casella accanto al
secolo in cui furono composte o si svilupparono.
Cantico di Frate Sole
Canzoniere
씰 Decameron
씰 Novellino
씰 poema romanzesco cortese
씰 I racconti di Canterbury
씰 Vita nuova
씰
씰
Secolo XII
Secolo XIII
Secolo XIV
2. Inserisci gli autori elencati nella colonna a fianco del genere letterario
che coltivarono o della scuola letteraria a cui appartennero.
Cecco Angiolieri
Bertran de Born
씰 Giovanni Boccaccio
씰 Guido Cavalcanti
씰 Brunetto Latini
씰
씰
Poesia didattica
Novella
Dolce stil novo
Poesia comico-realistica
Poesia provenzale
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31
3. I seguenti sono brani di testi medievali che esprimono valori propri di
ambienti sociali differenti, elencati più sotto. Accanto a ciascun ambiente sociale scrivi la lettera o le lettere corrispondenti ai brani che
lo rappresentano.
a) Lo studio della letteratura profana, anche se di per sé non giova alle battaglie dello spirito, congiunto allo studio delle Scritture, consente di conoscere meglio questo ultime.
b) Molto ti guarda di non ispendere più ch’abbi il podere [più delle tue possibilità]; sempre ogni anno vogli avanzare il quarto [risparmiare il quarto di quello
che guadagni]
c) Il compito del cavaliere è tenere la terra, poiché in conseguenza della paura
che la gente comune ha dei cavalieri, essa lavora e coltiva la terra, per il terrore
di essere annientata.
d) Figliuol mio, se’ tu oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a vedere de’ fatti tuoi, per che noi ci contenteremo molto che tu andassi a
stare a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica...
e) Il compito del cavaliere è di sostenere e difendere le donne, le vedove, gli orfani, e gli uomini afflitti e non potenti o forti. Perché come per abito e ragione il
più grande e il più potente aiuta il debole e l’afflitto, che fanno ricorso al grande, così agisce l’ordine di cavalleria, poiché esso è grande, onorevole e potente.
Ceti urbani e mercantili:
................................................................................
Aristocrazia feudale:
................................................................................
Ecclesiastici:
................................................................................
4. Scrivi a fianco di ciascuna opera il nome dell’autore o la lettera corrispondente, scegliendo dalla colonna di destra (ovviamente un autore
resterà inutilizzato).
Corbaccio
Rime petrose
Tesoretto
Trecentonovelle
...............................................
...............................................
................................................
...............................................
a) Dante Alighieri
b) Giovanni Boccaccio
c) Brunetto Latini
d) Jacopo Passavanti
e) Franco Sacchetti
5. Segna la risposta corretta.
In quale delle seguenti opere è utilizzata la terzina?
씰 Cantico delle creature q
씰 Vita nuova
q
씰 Tesoretto
q
씰 Commedia
q
6. Segna la risposta corretta.
Quale dei seguenti scrittori teorizzò il primato del volgare come lingua letteraria?
씰 Petrarca
q
씰 Francesco d’Assisi
q
씰 Dante
q
씰 Boccaccio
q
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1-5
Duecento e Trecento
Prova a risposta chiusa B
32
Duecento e Trecento
1-5
7. Attribuisci ciascuna quartina a uno tra i seguenti autori: Guido
Cavalcanti, Cecco Angiolieri, Dante, Petrarca
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.
b) Pace non trovo e non ho da far guerra,
e temo e spero, et ardo e sono un ghiaccio,
e volo sopra il cielo e giaccio in terra,
e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Maledetta sie l’or e ’l punto e ’l giorno
e la semana e ’l mese e tutto l’anno,
che la mia donna mi fece uno ’nganno,
il qual m’ha tolt’al cor ogni soggiorno.
d) Vede perfettamente onne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che van con lei sono tenute
di bella grazia a Dio render merzede.
8. Attribuisci ciascuno di questi brani di prosa a uno dei seguenti autori:
l’anonimo autore del Novellino, Dante, Jacopo Passavanti, Boccaccio.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Già è buon tempo passato che di Babilonia fu b) Leggesi nella leggenda di Santo Ambrosio
che, venendo da Melano donde era vescovo e
un soldano, il quale ebbe nome Bebinedab, al
andando a Roma donde era nato, e passando
quale ne’ suoi dì assai cose secondo il suo piaper Toscana, venne a una villa del contado di
cer avvennero. Aveva costui, tra gli altri suoi
Firenze, che si chiama Malmantile; dove, esmolti figliuoli e maschi e femine, una figliuola
sendo con tutta sua famiglia in uno albergo
chiamata Alatiel, la qual, per quello che ciaper riposarsi, venne a ragionamento collo alscun che la vedeva dicesse, era la più bella febergatore […].
mina che si vedesse in que’ tempi nel mondo.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Ercules fu uomo fortissimo oltre gli altri uo- b) Avvenne poi che là ovunque questa donna mi
vedea, sì si facea d’una vista pietosa e d’un comini, e avea una sua moglie la quale gli dava
lore palido quasi come d’amore; onde molte
molta travaglia. Partissi un dì di subito e anfiate mi ricordava de la mia nobilissima dondonne per una gran foresta, e trovava orsi e
na, che di simile colore si mostrava tuttavia.
lioni e assai fiere pessime. Tutte le squarciava
e le uccidea con la sua forza, e non trovò niuna bestia sì forte che da lui si difendesse.
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9. In questo brano sulla poesia d’amore nel Medioevo, inserisci negli
spazi vuoti i termini riportati sotto:
amore, antichi, cortese, ideale, lirica, morale, sensualità, virtuoso
«Ora l’........................................................................ divenne il campo nel quale poteva fiorire qualsiasi perfezione estetica e
. Secondo la teoria dell’amore
........................................................................
cortese, il nobile amante diventa
........................................................................
e puro mercé il suo
amore. L’elemento spirituale prende sempre più il sopravvento nella .....................................
...................................
; finalmente l’effetto dell’amore è uno stato di santa conoscenza e di
santa devozione: la Vita nuova.
A quel punto doveva seguire un nuovo sviluppo: col dolce stil novo di Dante e
dei suoi contemporanei si era giunti a un estremo. Petrarca già oscilla di nuovo
fra l’........................................................................ dell’amore cortese spiritualizzato e l’ispirazione attinta di nuovo dall’antichità; e da Petrarca fino a Lorenzo de’ Medici il canto d’amore, in Italia, ripercorse il cammino verso la
che compenetrava anche i modelli
stema dell’amore
........................................................................
........................................................................
naturale
così ammirati. Il si-
, elaborato con tanta arte, veniva di
........................................................................
nuovo abbandonato»
(J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, 1938)
10. Ricostruisci il brano, tratto dal Proemio del Decameron, ordinando i
frammenti riportati sotto, mettendoli di seguito a:
Il veder questo giardino, il suo bello ordine, le piante e la fontana co’ ruscelletti
procedenti da quella, tanto piacque
a) il giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l’uno all’altro mostrandolo, d’una parte uscir conigli, d’altra parte correr lepri, e dove giacer cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a questi, altre più
maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie maggior piacere aggiunsero.
b) per quello, faccendosi di vari rami d’albori ghirlande bellissime, tuttavia
udendo forse venti maniere di canti d’uccelli quasi a pruova l’un dell’altro
cantare, s’accorsero d’una dilettevol bellezza, della quale, dall’altre soprappresi, non s’erano ancora accorti; ché essi videro
c) a ciascuna donna e a’ tre giovani che tutti cominciarono ad affermare che, se
Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che
quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque contentissimi dintorno
Ordine dei frammenti: ........................................................................................
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1-5
Duecento e Trecento
Prova a risposta chiusa B
40
GENERI
Saggio breve
o articolo di giornale
Cinquecento
Imitazione e originalità nella lirica
petrarchista
Ugo Dotti, Petrarca, maestro della lirica d’amore
Con Bembo e con gli altri poeti della cosiddetta scuola veneta [...] Petrarca
non divenne soltanto l’incomparabile maestro della lirica d’amore; divenne
il modello stesso dell’esperienza amorosa, l’uomo che – Ulisse dell’Eros – ne
visse e ne sublimò tutte le fasi con perfezione assoluta. Appropriarsi di questa sua vita e riviverla, fu da allora l’impegno dei versificatori cinquecenteschi [...]. E siccome una delle caratteristiche di tale amore era stato il rimanere insoddisfatti (nei termini comunemente intesi), questo particolare divenne esemplare, e l’insoddisfazione dei sensi venne sentita come una delle
ragioni essenziali della durata dell’affetto [...]. Sicché il vivere un amore con
la penna ancor più che con il cuore e con il pensiero e il tradurre gli slanci, i
dubbi, gli allarmi del sentimento in un linguaggio disciplinato e rivolto a fini estetici (il razionalizzare cioè la passione nella versificazione) divennero
l’essenza della nuova lirica. Essa – il petrarchismo – dominerà a lungo la
scena letteraria italiana ed europea giacché la sua formula – il vivere la propria passione da poeta oltre che da amante – non poteva che catturare, proprio per la sua suggestiva semplicità, la fantasia e la sensibilità degli artisti.
1
5
10
15
(Ugo Dotti, Storia della letteratura italiana, Laterza, Bari, 1991)
1. ridotta…
stilistica: Bembo ripropone la lingua petrarchesca come un
modello di moderazione e di rigore, perfettamente aderente
alla norma grammaticale e priva di ogni
eccentricità di stile.
2. un codice… messaggi: un repertorio
di parole e di figure
retoriche che possono
essere piegate ad
esprimere sentimenti
e concetti diversi da
quelli del modello
originario.
Nicola Gardini, La lingua petrarchesca come deposito di immagini
1
Le conseguenze della teorizzazione bembiana, nata dal programma di dare
all’Italia delle corti una «lingua indipendente» [...], cioè superiore ai frazionamenti politici e territoriali, sono state enormi, e non solo in Italia. Il
modello petrarchista si diffonde nel giro di pochi decenni per tutta
5
l’Europa, dando vita a un tipo di poesia amorosa che per convenzionalità e
per allusività può solo paragonarsi ai due maggiori codici letterari dell’erotismo occidentale, l’amore cortese e l’amore romantico.
La diffusione del petrarchismo deriva fondamentalmente dall’universalità e dalla traducibilità della lingua petrarchesca, priva dei tecnicismi filoso10
fici dello stilnovo e ridotta a media grammaticale e stilistica1 dagli studi e
dagli esperimenti di Pietro Bembo, certo facilitato in questo dall’equilibrio
linguistico dello stesso Petrarca [...] Bembo riduce la lingua petrarchesca a
un elegante e aggraziato deposito di immagini, di significanti e di costrutti
standard, insomma a un codice compiuto da destinare ad altri messaggi2. Il
15
che spiega in gran parte come, finalmente, numerosissime donne abbiano
trovato una via alla scrittura poetica e come il modello petrarchesco, nelle
sue varie trasformazioni europee, possa esser servito a discorsi antitetici [...].
(N. Gardini, Letteratura comparata, Mondadori, Milano, 2002)
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41
Gaspara Stampa, Io son da l’aspettar omai sì stanca
Riportiamo un sonetto di Gaspara Stampa, e, a fianco di ogni verso, alcuni versi di
Petrarca, con l’indicazione del numero d’ordine del componimento del Canzoniere da cui
sono tratti.
(Gaspara Stampa e
Veronica Franco, Rime, a
cura di A. Salsa, Laterza,
Bari, 1913)
1 Io son da l’aspettar omai sì stanca,
sì vinta dal dolor e dal disio,
per la sì poca fede e molto oblio
di chi del suo tornar, lassa, mi manca,
5 che lei, che ’l mondo impallidisce
1. da l’aspettare: si
riferisce a una prolungata assenza del conte
Collaltino di
Collalto, l’uomo
amato dalla poetessa.
2. sì…disio: tanto
oppressa dal dolore
(per la sua lontananza) e dal desiderio
(del suo ritorno).
3. fede: fedeltà. oblio: dimenticanza.
4. di chi… manca:
di colui che mi priva
- me infelice! - del
suo ritorno.
5. che: regge il chiamo del v. 7. - lei…
imbianca: colei che
stende su tutto un
bianco pallore, cioè la
morte.
e imbianca
con la sua falce e dà l’ultimo fio,
chiamo talor per refrigerio mio,
Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
10 schernendo i miei pensier fallaci e folli,
come sta sordo anch’egli al suo tornare.
Io son da l’aspettar omai sì vinto (XCVI).
Sì traviato e folle è ’l mio disio (VI).
E s’Amor se ne va per lungo oblio (XXXVII).
Come colei che d’ora in ora manca (CLII).
Quel crudel che’ suoi seguaci imbianca (LVIII).
Con refrigerio in mezzo al foco vissi
(CCCXIII).
sì ’l dolor nel mio petto si rinfranca.
Pregate non mi sia più sorda morte
(CCCXXXII).
Non seguir più pensier vago fallace
(CCLXXIII).
O caduche speranze, o pensier folli!
(CCCXX)
Così col pianto, ond’ho gli occhi miei molli, Perché dì e notte gli occhi miei son molli (L).
fo pietose quest’onde e questo mare,
ed ei si vive lieto ne’ suoi colli.
6. l’ultimo fio: l’ultima pena.
7. refrigerio: ristoro,
sollievo.
8. sì… rinfranca: a
tal punto si rafforza il
dolore nel mio cuore.
11. come… tornare:
come anche lui è sordo ai miei appelli perché ritorni.
12. ond’ho… molli:
di cui sono bagnati
(molli) i miei occhi.
13. fo: rendo.
Michelangelo Buonarroti, Giunto è già ‘l corso della vita mia
(da Rime, 285, a cura di
E. N. Girardi, Laterza,
Bari, 1960)
5
METRO: sonetto.
2. con tempestoso...
barca: la metafora
della vita come navigazione è di tradizione petrarchesca: si
veda T4.22.
3-4. al comun... pia:
al porto (la meta finale; continua la
metafora della navigazione), comune a tut-
10
Giunto è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.
Onde l’affettüosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca
conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.
Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
che fien or, s’a duo morte m’avvicino?
ti, dove si entra per
rendere conto e ragione di ogni propria
opera, cattiva e buona; il «comun porto»
è dunque il giudizio
di Dio che attende
dopo la morte.
5-7. Onde... carca:
per cui capisco ora
bene come era carica
di errori la fantasia
appassionata che rese
l’arte mio idolo e sovrano.
8. e quel... desia: e
(capisco come sia un
errore) ciò che ogni
uomo desidera contro
il proprio bene: i desideri terreni.
9-10. Gli amorosi...
m’avvicino: i pensieri
d’amore, un tempo
futili (vani) e gioiosi,
che saranno ora, se
mi avvicino a due
morti? (la morte del
corpo e quella dell’anima, cioè la dannazione; il concetto è di
origine dantesca).
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9
Cinquecento
Imitazione e originalità
nella lirica petrarchista
Saggio breve o articolo di giornale
42
11. D’una... minaccia: di una morte (del
corpo) sono sicuro,
l’altra (dell’anima) mi
minaccia.
12-13. Né pinger...
l’anima: né il dipingere né la scultura daranno più pace alla
mia anima.
Cinquecento
9
D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia.
Né pinger né scolpir fie più che quieti
l’anima, volta a quell’amor divino
c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.
14. ch’aperse... braccia: che per accoglierci aprì le braccia sulla
croce; l’amor divino,
che nel v. 13 è l’amore dell’anima per Dio,
diventa qui improvvisamente l’amore di
Dio per l’uomo, incarnato in Cristo che
si sacrifica sulla croce;
l’apertura delle brac-
cia sulla croce acquista il senso di un abbraccio rivolto all’umanità.
Petrarca, I’vo piangendo i miei passati tempi
5
10
I’ vo piangendo i miei passati tempi
i quai posi in amar cosa mortale,
senza levarmi a volo, abbiend’ io l’ale
per dar forse di me non bassi esempi.
Tu che vedi i miei mali indegni et empi,
Re del cielo, invisibile, immortale,
soccorri a l’alma disviata e frale,
e ’l suo defetto di tua grazia adempi;
sì che, s’io vissi in guerra ed in tempesta,
mora in pace ed in porto, e se la stanza
fu vana, almen sia la partita onesta.
A quel poco di viver che m’avanza
ed al morir degni esser tua man presta:
tu sai ben che ’n altrui non ò speranza.
METRO: sonetto.
2. i quai... amar: che
impiegai nell’amare.
3-4. senza... esempi:
senza innalzarmi, pur
avendo io le ali per
poter forse dare prove
non basse di me.
L’amore lo ha tenuto
legato a terra, impedendogli di realizzare
tutte le potenzialità
del suo ingegno.
5. i miei mali: i miei
peccati.
7. l’alma... frale:
(in Canzoniere, CCCLXV,
in Rime, Trionfi e poesia latina,
a cura di F. Neri,
Ricciardi, Milano-Napoli, 1951)
quest’anima uscita
dalla retta via e debole (frale, «fragile»).
8. ’l suo... adempi:
compensa con la tua
grazia le sue deficienze.
10-11. se la stanza...
onesta: se la residenza
nel mondo fu frivola,
almeno sia virtuoso il
distacco.
13. degni... presta: la
tua mano si degni di
essere soccorrevole.
Guida alla stesura
Vi suggeriamo di elaborare il saggio a partire da queste domande e indicazioni.
l Quali aspetti della poesia di Petrarca sono stati ripresi da Bembo e dai suoi seguaci? Confrontate i testi di Dotti e di Gardini, mettendo in luce i denominatori
comuni e le diverse sottolineature.
l Considerate il testo di Gaspara Stampa e i versi di Petrarca che gli abbiamo affiancati: si tratta di pura e semplice imitazione o c’è qualche elemento di originalità?
l Confrontate i testi di Michelangelo e di Petrarca, mettendone in luce le affinità e
le differenze tematiche e stilistiche.
l Tirate qualche conclusione sulla ripresa di temi e modi petrarcheschi operata da
Gaspara Stampa e da Michelangelo, mettendo in evidenza denominatori comuni
e specificità, e collocando i loro testi nell’ambito della considerazioni iniziali di
Dotti e Gardini.
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46
ARIOSTO
Saggio breve
o articolo di giornale
Cinquecento
Immagini del “diverso” e dell’“altro”
dal Medioevo al Rinascimento
Italo Calvino, Gli “infedeli” nell’Orlando Furioso
L’essere «di fé diversi» non significa molto di più, nel Furioso, che il diverso
colore dei pezzi in una scacchiera. I tempi delle Crociate in cui il ciclo dei
Paladini aveva assunto un valore simbolico di lotta per la vita e per la morte
tra la Cristianità e l’Islam, sono lontani. In verità nessun passo avanti sembra
si sia fatto per comprendere gli “altri”, gli “infedeli”, i “Mori”: si continua a
parlare dei Maomettani come di “pagani” e adoratori di idoli, si attribuisce
loro il culto d’una strampalata trinità mitologica (Apollo, Macone e
Trivigante). Però essi sono rappresentati su un piano di parità con i Cristiani
per quel che riguarda il valore e la civiltà; e senza quasi nessuna caratterizzazione esotica, o notazione di costumi diversi da quelli d’Occidente.
(Notazioni esotiche che pur erano presenti in Boiardo, il quale rappresentava
i Saracini sdraiati «come mastini / Sopra a tapeti; come è lor usanza / Sprezando
seco il costume di Franza »). Sono dei signori feudali tal quale i cavalieri cristiani, e neanche li distingue la convenzionale differenziazione delle uniformi
negli eserciti moderni, perché qui gli avversari si contendono e scambiano
sempre le stesse corazze e elmi e armi e cavalcature.
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(I. Calvino, Italo Calvino racconta l’Orlando Furioso, Einaudi, Torino, 1988)
Dante, Maometto all’Inferno
1-3 Già… trulla:
Una botte (veggia),
per il fatto di perdere
una delle doghe che
ne formano il fondo
(mezzul… lulla), non
si apre (pertugia) così
come io vidi un uomo spaccato dal mento fino a dove si scoreggia (trulla).
4. le minugia: le budella.
5-6. la corata…
trangugia: erano visibili le interiora (corata), e lo stomaco, il
turpe sacco che trasforma in escrementi
ciò che si ingoia.
7. in lui… attacco:
fisso intensamente il
mio sguardo.
Nel canto XXVIII dell’Inferno Dante percorre la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di
discordie e di scismi. Qui incontra Maometto, il fondatore della religione musulmana, orribilmente mutilato.
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10
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!
vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
9. mi dilacco: mi
squarcio.
10. Alì: genero di
Maometto, fondatore
dello sciismo, principale ramo minoritario
dell’Islam.
11. fesso: spaccato
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Immagini del “diverso” e dell’“altro”
dal Medioevo al Rinascimento
Saggio breve o articolo di giornale
15
20
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.
11
Cinquecento
14-15. seminator…
vivi: da vivi furono
seminatori di discordie e di scissioni.
16. qua dietro: in un
punto che Maometto
si è lasciato indietro. I
peccatori sono condannati a percorrere
circolarmente la bolgia, ricapitando ciclicamente alla portata
di un diavolo armato
di spada. - n’accisma:
ci concia.
17-18. al taglio…
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(Dante Alighieri, Inferno, XVIII, 22-42)
risma: sottoponendo
nuovamente al taglio
della spada ognuno
che fa parte di questa
schiera.
19. quand’avem…
strada: quando abbiamo compiuto il
giro del doloroso percorso.
20. però che… rivada: poiche le nostra
ferite si richiudono
prima che ciascuno di
noi gli passi di nuovo
davanti.
Tzvetan Todorov,
Argomenti a favore della guerra contro gli Indios
Nel saggio La conquista dell’America Tzvetan Todorov riporta i tratti salienti di una controversia pubblica tenutasi nel 1550 a Valladolid tra il filosofo Ginés de Sepúlveda, favorevole
alla guerra contro gli indigeni dell’America da poco “scoperta” da Colombo, e il domenicano Bartolomé de Las Casas, difensore dei diritti degli Indios. In questo brano Todorov sintetizza gli argomenti di de Sepúlveda.
Vediamo ora quali sono i suoi argomenti a favore della guerra giusta condotta dagli spagnoli. Quattro ragioni rendono legittima una guerra:
1) È legittimo assoggettare con la forza delle armi gli uomini la cui condizione naturale è quella di dover obbedire agli altri, se essi rifiutano tale
obbedienza e non vi è altro rimedio a cui ricorrere.
2) È legittimo mettere al bando il crimine abominevole consistente nel
mangiare carne umana, che è un’offesa particolare alla natura, e porre fine
al culto dei demoni e al rito mostruoso dei sacrifici umani, che provoca più
di ogni altra cosa la collera divina.
3) È legittimo salvare da un grave pericolo gli innumerevoli innocenti
che quei barbari immolavano ogni anno per placare i loro dèi con l’offerta
di cuori umani.
4) La guerra contro gli infedeli è giustificata perché apre la via alla propagazione della religione cristiana e facilita il compito dei missionari.
Questa argomentazione unisce quattro proposizioni descrittive della
natura degli indiani a un postulato che è anche un imperativo morale. Le
quattro proposizioni sono: gli indiani hanno una natura subalterna; praticano il cannibalismo; sacrificano esseri umani; ignorano la religione cristiana. Il postulato-prescrizione è il seguente: abbiamo il diritto, anzi il dovere,
di imporre il bene agli altri. Occorre dire subito che siamo noi a decidere
che cosa è bene e che cosa è male; abbiamo il diritto di imporre agli altri
quel che noi consideriamo un bene, senza preoccuparci di sapere se lo è anche dal loro punto di vista. [...]
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(T. Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino, 1984)
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Cinquecento
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Tzvetan Todorov, Argomenti contro la guerra contro gli Indios
Sempre dalla Conquista dell’America di Todorov riportiamo un brano dedicato alle argomentazioni di De Las Casas.
1. il pregiudizio…
“ideale di sé”: se parto dal presupposto
(pregiudizio) che l’altro uguale a me stesso, corro il rischio di
non cogliere la sua
diversità, e di vederlo
addirittura come
un’immagine idealizzata di me.
Se la concezione gerarchica di Sepùlveda poteva essere posta sotto il segno
di Aristotele, la concezione egualitaria di Las Casas merita di essere presentata - come già fu fatto a quell’epoca - come una derivazione dall’insegnamento di Cristo. Las Casas stesso dice, nel suo discorso di Valladolid:
«Addio, Aristotele! Il Cristo, che è verità eterna, ci ha lasciato questo comandamento: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». [...]
Non che il cristianesimo ignori le opposizioni o le ineguaglianze; ma
l’opposizione fondamentale è quella fra il credente e il non credente, fra il
cristiano e il non cristiano. Ora, chiunque “può” diventare cristiano: alle
differenze di fatto non corrispondono differenze di natura. [...] Il tratto
più caratteristico degli indiani è, secondo Las Casas, la loro somiglianza
con i cristiani... Che altro si legge nel suo ritratto? Gli indiani sono dotati
di virtù cristiane, sono obbedienti e pacifici. [... ]
Bisogna ammettere che il ritratto degli indiani che si può ricavare dalle
opere di Las Casas è molto più povero di quello lasciatoci da Sepùlveda: in
realtà, degli indiani non veniamo a sapere niente. Se il pregiudizio di superiorità è indiscutibilmente un ostacolo sulla via della conoscenza, si deve
riconoscere che il pregiudizio di eguaglianza rappresenta un ostacolo ancora maggiore, perché porta a identificare puramente e semplicemente l’altro
con il proprio “ideale di sé”1 (o con il proprio io).
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(T. Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino, 1984)
Tzvetan Todorov, Una prospettiva attuale
Nel capitolo finale della Conquista dell’America Todorov accenna a un confronto tra la
mentalità degli uomini del XVI secolo e quella dei nostri contemporanei.
I rappresentanti della civiltà occidentale non credono più così ingenuamente alla sua superiorità e il movimento di assimilazione si sta spegnendo
da parte dell’Europa [...]. Per lo meno sul piano ideologico, noi cerchiamo
di combinare quel che ci sembra abbiano di meglio i due termini dell’alternativa: vogliamo l’uguaglianza senza che ciò significhi identità; ma vogliamo anche la differenza senza che degeneri in superiorità/inferiorità; speriamo di poter godere i benefici del modello egualitarista e quelli del modello
gerarchico; aspiriamo a ritrovare il senso del sociale senza perdere le qualità
dell’individuale. [...] Vivere la differenza nell’eguaglianza: è cosa più facile
a dirsi che a farsi.
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(T. Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino, 1984)
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Immagini del “diverso” e dell’“altro”
dal Medioevo al Rinascimento
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Guida alla stesura
Vi suggeriamo di elaborare il saggio a partire da queste indicazioni e domande.
l Per mettere in luce la novità della mentalità di Ariosto, potete accostare il suo
modo di rappresentare gli “infedeli” alla raffigurazione di Maometto proposta da
Dante: quali contesti storici e presupposti culturali stanno alla base di questa diversità di atteggiamenti?
l Potete poi confrontare tra loro le posizioni di due contemporanei di Ariosto come
de Sepúlveda e de Las Casas: in base a quali argomentazioni sono a favore o contro la guerra agli Indios? I loro punti di vista possono essere accostati per qualche
aspetto alle rappresentazioni letterarie del diverso” proposta da Dante e da
Ariosto?
l Infine prendete in esame il terzo passo di Todorov. Vi pare che rispecchi effettivamente la mentalità del mondo occidentale contemporaneo? Come si differenzia
questa mentalità da quelle rappresentate dagli altri brani? Qual è il vostro punto
di vista sull’attuale incontro/scontro tra le civiltà?
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Cinquecento
Saggio breve o articolo di giornale
50
TASSO
Saggio breve
o articolo di giornale
Cinquecento
La guerra come eroismo e la guerra
come massacro
Paolo Uccello
La battaglia di San Romano
(ca 1450),
Londra, National Gallery
Jacopo Robusti detto Tintoretto
Ratto d’Elena (battaglia fra Turchi e cristiani)
(ca 1580),
Madrid, Museo del Prado.
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La guerra come eroismo
e la guerra come massacro
Saggio breve o articolo di giornale
51
12
5
2. gradi: gradini.
4. ch’agile... vento:
che una piccola canna
è meno mobile al
vento (di quanto la
scala nelle mani di
Rinaldo).
5. spaldo: frammento
dei coronamenti delle
mura (spalti).
6. d’alto discende:
viene gettato su
Rinaldo dai difensori
delle mura.
8. Olimpo ed Ossa:
alti monti della
Tessaglia.
9-10. Una selva...
monte: regge a una
selva di frecce e frammenti di mura (ruine)
che gli piove sulla
schiena, e a una montagna (delle stesse cose) sullo scudo.
12. sospesa... fronte:
è levata a proteggersi la
fronte (con lo scudo).
13. opre...
pellegrine: imprese
audaci e straordinarie.
14. non è... monte:
non è il solo che salga.
15. eccelse: altissime.
17-18. sublime poggia: sale più in alto di
tutti. questi... minaccia: rincuora gli uni,
rimprovera gli altri
(fra i suoi compagni).
21. Gran gente...
trae: allora una folla
(di nemici) accorre in
quel punto.
23. fermo: saldamente appoggiato sulle
mura (mentre
Rinaldo è sospeso in
aria, verso seguente).
26-28. e come... sol-
Cinquecento
Torquato Tasso, La presa di Gerusalemme
75
Son già sotto le mura: allor Rinaldo
scala drizzò di cento gradi e cento,
e lei con braccio maneggiò sì saldo
ch’agile è men picciola canna al vento.
Or lancia o trave, or gran colonna o spaldo
d’alto discende: ei non va su più lento;
ma, intrepido ed invitto ad ogni scossa,
sprezzaria, se cadesse, Olimpo ed Ossa.
76
10
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20
25
30
Una selva di strali e di ruine
sostien su ’l dosso, e su lo scudo un monte:
scote una man le mura a sé vicine,
l’altra sospesa in guardia è de la fronte.
L’essempio a l’opre ardite e pellegrine
spinge i compagni: ei non è sol che monte,
ché molti appoggian seco eccelse scale;
ma ’l valore e la sorte è diseguale.
77
More alcuno, altri cade: egli sublime
poggia, e questi conforta e quei minaccia;
tanto è già in su che le merlate cime
pote afferrar con le distese braccia.
Gran gente allor vi trae; l’urta, il reprime,
cerca precipitarlo, e pur no ’l caccia.
Mirabil vista! a un grande e fermo stuolo
resister può, sospeso in aria, un solo.
78
E resiste e s’avanza e si rinforza;
e come palma suol cui pondo aggreva,
suo valor combattuto ha maggior forza
e ne la oppression più si solleva.
E vince alfin tutti i nemici, e sforza
l’aste e gli intoppi che d’incontro aveva;
e sale il muro e ’l signoreggia, e ’l rende
sgombro e securo a chi diretro ascende.
[...]
leva: e come suole
accadere a una palma
gravata da un peso
(che si risolleva con
forza elastica), il suo
valore combattuto ne
trae maggiore forza e
quanto più è oppresso
tanto più s’innalza.
29. sforza: supera
con violenza.
30. l’aste: le lance.
31. signoreggia: domina.
32. ascende: sale.
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33. in mille giri: in
mille volute, al vento.
37. dardo... stral:
freccia.
38. o la declini... ritorno: (pare che) o la
eviti deviando (la vincitrice insegna) o torni indietro.
39. l’opposto monte:
l’altro monte di
Gerusalemme, posto
di fronte.
45. riparo: difesa.
48. nel muro: sulle
mura.
Cinquecento
35
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45
12
100
La vincitrice insegna in mille giri
alteramente si rivolge intorno;
e par che in lei più riverente spiri
l’aura, e che splenda in lei più chiaro il giorno;
ch’ogni dardo, ogni stral ch’in lei si tiri,
o la declini, o faccia indi ritorno:
par che Siòn, par che l’opposto monte
lieto l’adori, e inchini a lei la fronte.
101
Allor tutte le squadre il grido alzaro
de la vittoria altissimo e festante,
e risonaro i monti e replicaro
gli ultimi accenti; e quasi in quello istante
ruppe e vinse Tancredi ogni riparo
che gli aveva a l’incontro opposto Argante,
e lanciando il suo ponte anch’ei veloce
passò nel muro e v’inalzò la Croce.
(Gerusalemme liberata, Canto XVIII Mondadori, Milano, 1979)
La presa di Gerusalemme nel racconto di un testimone
Raimondo d’Aguilers, cappellano di uno dei condottieri francesi della prima crociata, assistette alla presa di Gerusalemme nel 1099, e così ne parla in una sua cronaca.
Tra i primi entrarono Tancredi e il duca di Lorena, che in quel giorno versò una quantità incredibile di sangue. Dietro di loro tutti gli altri salivano
le mura, e i saraceni erano ormai sopraffatti. [...] Appena i nostri ebbero
occupato le mura e le torri della città, allora avresti potuto vedere cose orribili: alcuni, ed era per loro una fortuna, avevano la testa troncata; altri cadevano dalle mura crivellati di frecce; moltissimi altri infine bruciavano tra
le fiamme. Per le strade e le piazze si vedevano mucchi di teste; mani e piedi tagliati; uomini e cavalli correvano tra i cadaveri. Ma abbiamo ancora
detto poco: veniamo al Tempio di Salomone, nel quale i Saraceni erano soliti celebrare le loro solennità religiose. Che cosa vi era avvenuto? Se diciamo il vero, non saremo creduti; basti dire che nel Tempio e nel portico di
Salomone si cavalcava col sangue all’altezza delle ginocchia e del morso dei
cavalli. E fu per giusto giudizio divino che a ricevere il loro sangue fosse
proprio quel luogo stesso che tanto a lungo aveva sopportato le loro bestemmie contro Dio.
1
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(Raimondo d’Aguilers, Historia Francorum qui ceperunt Iherusalem,
in Il movimento crociato, a cura di F. Cardini, Sansoni, Firenze, 1972)
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La guerra come eroismo
e la guerra come massacro
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Vittorio Locchi, La sagra della Santa Gorizia
Vittorio Locchi (1889-1917), poeta, fu un acceso interventista e combatté nella prima guerra mondiale, dove trovò la morte. La sagra della Santa Gorizia è un poemetto in versi liberi
in cui, poco prima di morire, celebrava la conquista della città da parte delle truppe italiane,
avvenuta nell’agosto del 1916. Il testo fu molto noto soprattutto durante l’epoca fascista.
Ne riportiamo una parte.
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Ma quando tutte le bocche
dei cannoni cantarono,
all’ora fissata,
per completare la strage,
l’ansia strinse ogni gola,
e ognuno sentì
tonfare dentro il suo cranio
come sopra un timpano
spaventoso,
la romba.
Traballava la terra
come una casa di legno;
il cielo pareva incrinarsi
ogni tanto come cristallo;
pareva si dovesse
spezzare e precipitare
a schegge celesti ogni tanto tra gli schianti e gli strepiti.
E su la prima linea
nessuno più fiatava, sentendo il cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.
E tutte le facce
parevano in un’aureola,
e tutti erano certi
di vincere, tutti certi
di rompere l’incanto,
di varcare il Calvario
e l’lsonzo,
di celebrare domani
la sagra serena
di Santa Gorizia.
[...]
Ancora tre minuti,
due minuti,
uno: “Alla baionetta”
E tutte le baionette
fioriscono sulle trincee.
Tutta la selva di punte
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Cinquecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Cinquecento
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ondeggia, si muove,
si butta sul monte,
travolge gli Austriaci
rigettandoli
oltre le cime,
scaraventandoli giù,
a precipizio,
dentro l’Isonzo
“Sei nostra! Sei nostra!”.
sembra gridare l’assalto.
Ezra Pound, Questi combatterono
3. pro domo: per la
patria (in latino).
8-9. alcuni... in seguito: alcuni per desiderio di uccidere,
coltivato nella fantasia; ma nella realtà
impararono l’orrore
della strage.
10. alcuni... strage:
alcuni per vincere la
paura, che trasformarono poi in gusto per
la violenza.
12. non ‘dulce’...
‘decor’: non dolce né
onorevole, in latino.
Allusione al verso del
poeta latino Orazio
dulce et decorum est
pro patria mori: “è
dolce e onorevole
morire per la patria”.
18. usura: il prestare
denaro a interesse. Il
termine rappresenta
un tipico vizio medievale, condannato da
Dante nel canto XVII
dell’Inferno. Secondo
Pound questo antichissimo peccato,
consolidatosi col sorgere delle banche, è
all’origine del moderno sistema capitalistico e della degradazione della società contemporanea.
27. risa dai ventri
morti: ventri lacerati
da ferite aperte come
risate.
Sono le parti finali del poemetto E.P. Ode pour l’éléction de son sépulcre (1920). Il titolo,
che significa in francese “Ode per la scelta del proprio sepolcro”, riprende il titolo di un’ode
di Ronsard, poeta francese del Cinquecento, a cui Pound premette le proprie iniziali: dopo
aver deplorato l’epoca in cui vive come un’epoca barbara e volgarmente materialista, il
poeta si chiede se la prima guerra mondiale non abbia mostrato che anche in una tale
epoca è possibile l’eroismo.
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IV.
Questi combatterono in ogni caso,
e alcuni con fede,
pro domo, in ogni caso...
alcuni presti nelle armi,
alcuni per avventura,
alcuni per paura di esser deboli,
alcuni per paura di esser biasimati,
alcuni per amore di strage, in immaginazione,
imparando in seguito...
alcuni per paura, imparando l’amore della strage.
Morirono alcuni pro patria
non ‘dulce’ e non ‘et decor’...
camminarono immersi fino agli occhi nell’inferno
prestando fede alle menzogne dei vecchi, poi sfiduciati
tornarono a casa, a casa, presso la menzogna,
a casa e a molti inganni,
a casa, a vecchie menzogne e a nuova infamia;
all’usura, come il tempo antica e come il tempo spessa.
E ai pubblici mentitori.
Audacia mai veduta, scempio mai veduto.
Sangue giovane e sangue nobile,
rosee guance e bei corpi;
vigore mai veduto,
sincerità mai veduta,
disinganni mai detti in passato,
isterismi, confessioni di trincea,
risa dai ventri morti.
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La guerra come eroismo
e la guerra come massacro
Saggio breve o articolo di giornale
55
V.
30-31. per una vecchia... rattoppata:
per la civiltà vecchia e
decadente
dell’Europa. cagna:
prostituta.
32-33. fascino... terra: la mitezza e la bellezza dei sorrisi dei
giovani soldati sono
35
Morirono a migliaia
e i migliori fra quelli,
per una vecchia cagna sdentata,
per una civiltà rattoppata,
fascino che fioriva in sorriso dalla bocca mite,
occhi vivi scomparsi sotto la palpebra della terra,
per qualche centinaio di statue rotte,
per poche migliaia di libri a brandelli.
Cinquecento
30
12
(In Le poesie scelte, trad. dall’inglese di A. Rizzardi, Mondadori, Milano, 1960)
racchiusi sotto la terra
come sotto una palpebra.
34-35. Per qualche...
brandelli: i giovani
soldati sono morti
per difendere ciò che
resta della civiltà europea: pochi
frammenti di antiche
statue e di libri malandati.
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60
Prova a risposta chiusa B
6-12
Quattrocento e Cinquecento
1. Scrivi le opere elencate nella casella accanto al secolo in cui furono
composte.
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
Gargantua
씰 Libri della famiglia
씰 Mandragola
씰 Orlando innamorato
씰 Satire di Ariosto
씰 Stanze per la giostra
씰
씰
Secolo XV
Secolo XVI
2. Scrivi accanto alle opere elencate il genere letterario a cui appartengono, traendolo dal seguente elenco:
commedia
씰 poema eroico
씰 poema cavalleresco
씰 trattato
씰
Prose della volgar lingua
Mandragola
Dell’arte della guerra
Gerusalemme liberata
Orlando innamorato
...........................................................................................................................
...........................................................................................................................
...........................................................................................................................
...........................................................................................................................
...........................................................................................................................
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61
3. Gran parte della letteratura italiana del Cinquecento nasce negli ambienti delle corti e ne riflette la mentalità e il gusto. Se ne discostano
alcuni scrittori “irregolari” per cultura, temi e scelte linguistiche e stilistiche. Accanto a ciascuno scrittore elencato segna
c se è uno scrittore “cortigiano”
i se è uno scrittore “irregolare”
Lodovico Ariosto
Pietro Bembo
Benvenuto Cellini
Giovanni Della Casa
Ruzante
Torquato Tasso
.................
.................
.................
.................
.................
.................
4. Segna la risposta corretta.
Il cortigiano ideale delineato da Baldassare Catiglione dovrebbe...
씰 evitare le conversazioni frivole e inutili
q
씰 praticare sia gli esercizi fisici sia la cultura intellettuale
q
씰 mettere bene in mostra le sue maniere eleganti
q
씰 evitare di immischiarsi nelle decisioni politiche del principe
q
5. Segna la risposta corretta.
Quali dei seguenti generi è sempre in ottave?
씰 lirica
씰 poema cavalleresco
씰 satira
씰 tragedia
q
q
q
q
6. Sono qui elencate tre caratteristiche proprie della Gerusalemme liberata e una propria dell’Orlando furioso. Indica la caratteristica propria dell’Orlando furioso.
ha un argomento storico
씰 si attiene al verosimile e al “meraviglioso cristiano”
씰 usa un registro stilistico costantemente elevato
씰 ha un fine di intrattenimento
씰
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q
q
q
q
6-12
Quattrocento e
Cinquecento
Prova a risposta chiusa B
62
Quattrocento e Cinquecento
6-12
7. Attribuisci ciascuna ottava a uno tra i seguenti autori: Ariosto,
Poliziano, Pulci, Tasso.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Era la notte allor ch’alto riposo
han l’onde e i venti, e parea muto il mondo.
Gli animai lassi, e quei che ’l mar ondoso
o de liquidi laghi alberga il fondo,
e chi si giace in tana o in mandra ascoso,
e i pinti augelli, ne l’oblio profondo
sotto il silenzio de’ secreti orrori
sopian gli affanni e raddolciano i cori.
b) Tutti gli altri animai che sono in terra,
o che vivon quieti e stanno in pace,
o se vengono a rissa e si fan guerra,
alla femina il maschio non la face:
l’orsa con l’orso al bosco sicura erra,
la leonessa appresso il leon giace;
col lupo vive la lupa sicura,
né la iuvenca ha del torel paura.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Tempo era quando l’alba s’avicina,
e divien fosca l’aria ove era bruna;
e già ’l carro stellato Icaro inchina,
e par nel volto scolorir la luna:
quando ciò ch’al bel Iulio el cel destina
mostrono i Sogni, e sua dolce fortuna;
dolce all’entrar, all’uscir troppo amara,
però che sempre dolce al mondo è rara.
d) Per lo deserto vanno alla ventura:
l’uno era a piede e l’altro era a cavallo;
cavalcon per la selva e per pianura
sanza trovar ricetto o intervallo.
Cominciava a venir la notte oscura.
Morgante parea lieto sanza fallo,
e con Orlando ridendo dicìa:
– È par ch’io vegga appresso una osteria.
8. In questo brano sull’Umanesimo, inserisci negli spazi vuoti i termini riportati sotto:
antichi, completo, educazione, lettere, pensiero, rinnovamento, umanesimo,
umanità
Dir questo era necessario per porre ben chiaro quello che l’Umanesimo chiaramente sentì: che gli studia humanitatis, le litterae humanae,
l’............................................................. liberale, erano il mezzo, lo strumento ideale per formare
l’uomo ................................................ La cui immagine non scaturì miracolosamente un bel
giorno dai libri degli ............................................................. , trovati come per caso da qualche letterato vagabondo nelle prigioni dei conventi, ma si formò in un lungo travaglio
di ............................................................. e di vicende, in seno ad un vasto .............................................................
politico e sociale, attraverso l’esigenza sempre più consapevole di un ideale di
compiuta ...................................... ........................ Maturatosi, insomma, quello che efficacemente
fu chiamato l’............................................................. dello spirito, esso trovò nell’umanesimo delle ................................ ............................. il mezzo più adatto alla educazione dell’uomo.
(E. Garin, Educazione umanistica in Italia, 1949)
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63
9. Attribuisci ciascun passo di prosa a uno tra i seguenti autori e testi:
Pietro Bembo, Prose della volgar lingua
Benvenuto Cellini, Vita
씰 Giovanni Della Casa, Il Galateo
씰 Francesco Guicciardini, Ricordi
씰
씰
a) Sono varie le nature degli uomini: certi sperano tanto, che mettono per certo
quello che non hanno; altri temono tanto, che mai sperano se non hanno in
mano. Io mi accosto più a questi secondi che a’ primi, e chi è di questa natura
si inganna manco, ma vive con più tormento.
b) Se la natura, Monsignor messer Giulio, delle mondane cose producitrice e de’
suoi doni sopra esse dispensatrice, sì come ha la voce agli uomini e la disposizione a parlar data, così ancora data loro avesse necessità di parlare d’una maniera medesima in tutti, ella senza dubbio di molta fatica scemati ci avrebbe e
alleviati, che si soprastà.
c) Ritornando ai fatti mia, quando io mi viddi dar certe sentenzie per mano di
questi avvocati, non vedendo modo alcuno di potermi aiutare ricorsi per mio
aiuto a una gran daga che io avevo, perché sempre mi son dilettato di tener
belle armi; e il primo che io cominciai a intaccare si fu quel principale che
m’aveva mosso la ingiusta lite; e una sera gli detti tanti colpi, pur guardando di
non lo ammazzare, in nelle gambe e in nelle braccia che di tutt’a due le gambe
io lo privai.
d) Ritrosi sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, sì come il
vocabolo medesimo dimostra; ché tanto è a dire a ritroso quanto a rovescio.
Come sia dunque utile la ritrosia a prender gli animi delle persone e a farsi ben
volere, lo puoi giudicare tu stesso agevolmente, poscia che ella consiste in opporsi al piacere altrui; il che suol fare l’uno inimico all’altro, e non gli amici infra di loro.
10. Ricostruisci il brano, tratto dai Discorsi sopra la prima Deca di Tito
Livio di Machiavelli, ordinando i frammenti riportati sotto di seguito a:
Egli è sentenzia [è un detto] degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi [annoiarsi] nel bene; e come dall’una e dall’altra di
queste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto
agli uomini il combattere per necessità,
a) parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla
guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra.
b) e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello
che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il variare della
fortuna loro: perché, disiderando gli uomini, parte di avere più,
c) combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai,
a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perché la natura ha
creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa,
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6-12
Quattrocento e
Cinquecento
Prova a risposta chiusa B
Saggio breve
o articolo di giornale
64
CONTESTO
Seicento
La perdita del centro
Correggio, La visione di San Giovanni
(Parma, Battistero di
San Giovanni
Evangelista)
(1520-1523)
Andrea Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio
(Roma, Sant’Ignazio)
(1691-1694)
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1. l’elemento... escluso: nella fisica aristotelica il fuoco (uno dei
quattro elementi fondamentali) aveva come sede propria una
sfera posta sopra la
terra, subito sotto il
cielo della luna; questa teoria non era
compatibile con la
terra in moto del sistema copernicano.
2. tutto... atomi: il
sistema copernicano
aveva contribuito a
rilanciare le antiche
teorie atomistiche, che
includevano tra l’altro
l’ipotesi di uno spazio
infinito e senza centro.
3. giusta
provvidenza: il fatto
che gli uomini provvedano gli uni ai bisogni degli altri, secondo i rapporti stabiliti
dall’ordine sociale.
4. una Fenice: un essere unico nel suo genere. La Fenice era un
mitico uccello, di cui
compariva un solo
esemplare ogni cinquecento anni.
1. quella luce... l’universo: il sole.
2. si stancherà... materia: l’immaginazione si stancherà di
concepire idee, prima
che la natura si stanchi di fornire nuovi
oggetti di meditazione.
3. partoriamo solo
atomi: ciò che
riusciamo a concepire
è immensamente piccolo (solo atomi) in
confronto alla realtà
delle cose.
4. una sfera... luogo:
è un’immagine paradossale per esprimere
l’idea inconcepibile di
uno spazio infinito.
La perdita del centro
65
13
John Donne, “Tutto è in pezzi”
Questo brano tratto dal poemetto Anatomia del mondo dell’inglese John Donne (15721631) deplora la nuova scienza copernicana («nuova filosofia») perché sconvolge l’ordine
del mondo fisico e minaccia di conseguenza l’ordine morale.
5
10
E una nuova filosofia rimette in dubbio tutto,
l’elemento del fuoco è completamente escluso1;
il sole e la terra son perduti, e l’intelletto
non sa più dove dirigersi a cercarli.
E gli uomini ammettono che questo mondo è finito,
quando nei pianeti e nel firmamento
così tanti cercano novità; allora vedono che tutto
è di nuovo sbriciolato nei suoi atomi2.
Tutto è in pezzi, ogni coesione è andata;
ogni giusta provvidenza3 ed ogni rapporto:
principe, suddito, padre, figlio sono parole dimenticate,
perché ogni uomo pensa che lui solo
è una Fenice4, e che non ci può essere
nessuno della sua stessa specie, tranne lui.
(An Anatomy of the World, in Poems, Dent, London, 1958; trad. dall’inglese di A.Colombo)
Blaise Pascal, L’uomo nell’universo
Questo brano dei Pensieri di Blaise Pascal, matematico e filosofo francese (1623-1662),
esprime le riflessioni suscitate in un pensatore profondamente religioso dalla nuova visione
dell’univeso suscitata dalla scoperte di Keplero e Galilei.
L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano.
Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l’universo1; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire
prima che la natura di offrirle la materia2. Tutto questo mondo visibile è
solo un punto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessun’idea vi
si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi
immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi3.
È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun
luogo4. Infine, è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di Dio che la
nostra immaginazione si perda in quel pensiero.
L’uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest’angusta prigione dove si trova, intendo dire l’universo, impari a stimare
al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos’è un uomo nell’infinito?
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(B. Pascal, Pensieri. V, 1, trad. dal francese di P. Serini, Mondadori, Milano, 1979)
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Seicento
Saggio breve o articolo di giornale
66
Seicento
13
Nicola Spinosa, Spazio infinito e decorazione barocca
1. parvità: piccolezza.
In fondo la nuova concezione copernicana aveva solo sostituito al centralismo terrestre il centralismo del Sole, ma il vero capovolgimento nelle coscienze si ebbe quando Keplero avvertì […] che nel loro moto di rotazione
attorno al Sole i pianeti compivano un’ellissi di cui l’astro solare occupava
soltanto uno dei fuochi e quando Galilei […] percepì che il nostro sistema
planetario era solo uno dei tanti sistemi diversi costituenti l’infinito
Universo celeste, nei quali i corpi, costituiti di infinita materia trasformantesi in infinita energia, si muovevano continuamente secondo leggi eterne
di forza e attrazione reciproca.
Era la fine, per la coscienza e l’accesa sensibilità dell’uomo moderno, di
ogni privilegio passato, anche di quelli che in qualche modo potevano essergli stati concessi o confermati dalla «rivoluzione» copernicana: si precipitava in una condizione di disperante smarrimento derivata dalla consapevolezza di una irrimediabile «perdita del centro», di un definitivo sconfinamento in aree marginali e periferiche del mondo e della realtà naturale,
dalle quali ogni cosa appariva in una luce diversa e continuamente mutevole, con in più la lucida coscienza della propria parvità1 e miseria e dell’infinita impotenza del proprio essere ed esistere di fronte a quell’infinita
vastità e incommensurabile grandezza di un Universo regolato da leggi
estranee alla propria volontà e alla stessa logica tradizionale della ragione
umana.
1
5
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15
20
(in Storia dell’arte italiana, II, Einaudi, Torino, 1981)
Guida alla stesura
Considerate i due affreschi riprodotti, ricordando che entrambi sono collocati sul
soffitto di una volta e che sono stati dipinti a una distanza di più di un secolo e
mezzo. Osservate come i due dipinti organizzano diversamente lo spazio della volta, quale diversa impressione producono sull’osservatore? Il brano di uno storico
dell’arte indica un possibile motivo di questo cambiamento così radicale nella concezione dello spazio pittorico, collegandola al mutamento nella concezione dello
spazio astronomico.
Questo mutamento è un vero sconvolgimento che investe le coscienze. Nei passi di
Donne e di Pascal potete osservare come esso si manifesta in due spiriti profondamente religiosi: che cosa notate di comune e di diverso nelle loro riflessioni? che
cosa appare nella loro religiosità di nuovo, rispetto alle epoche precedenti la rivoluzione copernicana?
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Saggio breve
o articolo di giornale
74
GENERI
Settecento
Il teatro, il denaro e i principi
1. Risovvenendomi... Mazzolà: ricordandomi del suggerimento di Mazzolà;
con quest’ultimo,
poeta del principe
elettore di Sassonia,
Da Ponte aveva collaborato alla traduzione
e al rifacimento di testi teatrali.
2. poeta di Cesare:
poeta della corte imperiale.
3. Salieri: Antonio
Salieri (1750-1825),
il più affermato musicista dell’ambiente
viennese all’epoca.
4. m’allettò: mi indusse.
5. Cesare: Giuseppe
II, imperatore d’Austria dal 1780 al
1790, uno dei più
convinti rappresentanti del dispotismo
illuminato.
6. ribrezzo: imbarazzo.
7. ch’era: che ero.
L. Da Ponte, Alla corte di Vienna
Questo brano è tratto dalle Memorie di Lorenzo da Ponte, autore dei libretti di alcune delle più
note opere di Mozart. Qui l’autore si riferisce all’udienza ottenuta nel 1783 dall’imperatore
Giuseppe II, che in quell’occasione affidò a Da Ponte l’incarico di «poeta dei teatri imperiali».
Udii dire frattanto accidentalmente che l’imperadore volea riaprire un teatro italiano in quella città. Risovvenendomi allora del suggerimento di
Mazzolà1, mi passò per la mente il pensiero di diventar poeta di Cesare2. Io
aveva nudrito sempre in me stesso un sentimento di affettuosa venerazione
per quel sovrano, di cui aveva udito narrare infiniti tratti di umanità, di
grandezza e di beneficenza. Questo sentimento accresceva il coraggio mio e
avvalorava le mie speranze. Andai da Salieri3, a cui dato aveva al mio arrivo
la lettera di Mazzolà; ed egli non m’allettò4 solamente a domandar quel posto, ma offersemi di parlar per me egli medesimo al direttore degli spettacoli ed al sovrano medesimo, da cui singolarmente era amato. Maneggiò sì
bene la cosa, che andai da Cesare5 la prima volta, non per domandar grazie, ma per ringraziare. Io non aveva parlato prima d’allora ad alcun monarca. Quantunque ognun mi dicesse che Giuseppe era il principe più
umano ed affabile del mondo, pur non potei comparirgli innanzi senza
sommo ribrezzo6 e timidità. Ma l’aria ridente della sua faccia, il suono soave della sua voce, e sopra tutto la semplicità estrema de’ suoi modi e del
suo vestire, che nulla avea di quello che imaginavami d’un re, mi rianimaron non solo, ma mi lasciarono appena spazio d’accorgermi ch’era7 davanti
a un imperadore. Aveva inteso dire ch’ei giudicava spessissimo gli uomini
dalla loro fisonomia; parve che la mia non gli dispiacesse, tal fu la grazia
con cui mi accolse e la benignità con cui accordommi la prima udienza.
1
5
10
15
20
(Memorie, in Memorie e libretti mozartiani, a cura di G. Armani, Garzanti, Milano, 1976)
Carlo Goldoni,
«La mia musa e la mia penna agli ordini d’un privato»
1. del caso ch’io faccio: della considerazione che ho.
2. un terzo: è il teatro di Sant’Angelo,
che Medebac intende
mettere in concorrenza con quelli di San
Samuele e di San
Luca.
In questo brano delle sue Memorie (1787-1789) Goldoni fa riferimento al contratto stretto
con Girolamo Medebac, impresario del teatro Sant’Angelo di Venezia, episodio decisivo della sua vita e della sua carriera.
[...] «Se voi siete deciso, – mi disse un giorno Medebac, – a lasciar la
Toscana, se contate di ritornare in seno ai vostri compatrioti, ai vostri parenti, ai vostri amici, io ho da proporvi un progetto che almeno vi darà una
prova del caso ch’io faccio1 della vostra persona e dei vostri talenti. Ci sono
a Venezia, – egli proseguì, – due teatri da commedia: io m’impegno d’aver-
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1
5
3. Se... obiettare:
Goldoni a Parigi incontrò sia Voltaire
che Rousseau e conosceva bene sia la ricchezza del primo che
la povertà del secondo. Cinico si riferisce
qui all’atteggiamento
filosofico che cerca di
eliminare dalla propria vita ogni desiderio di beni umani in
nome dell’autonomia
dello spirito.
4. se è uno...
stampa: se è un autore che non si vergogna di trarre un guadagno dalle sue opere
attraverso le percentuali sull’incasso del
teatro e sulle vendite
dei suoi testi.
Il teatro, il denaro e i principi
ne un terzo2, e di prenderlo in affitto per cinque o sei anni, se volete farmi
l’onore di lavorare per me».
La proposta mi parve lusinghiera; né ci volevano sforzi per farmi inclinare dalla parte del teatro. Ringraziai il direttore della fiducia che mi accordava; accettai la proposta; venimmo agli accordi; e il contratto fu stipulato
senza indugio.
[...]
Ecco dunque la mia musa e la mia penna agli ordini d’un privato. Un
autore francese troverà forse quest’impegno singolare. Un uomo di lettere,
si potrà dire, dev’essere libero, deve disprezzare la schiavitù e la soggezione.
Se questo autore è negli agi, com’era Voltaire, o se è cinico, come
Rousseau, non ho niente da obiettare3. Ma, se è uno di quelli che non si rifiutano di dividere la quota dei proventi d’incasso e il guadagno della stampa4, lo prego, in grazia, di voler ascoltare attentamente la mia giustificazione.
75
16
10
15
(Memorie, a cura di G. Davico Bonino, trad. dal francese di E. Levi, Einaudi, Torino, 1967)
Carlo Goldoni, L’autore diventa editore
Questo brano delle Memorie si riferisce ai difficili rapporti tra Goldoni, gli editori e i librai.
1. la compagnia: la
compagnia del teatro
di San Luca, con la
quale Goldoni aveva
concluso un contratto
nel 1752 come autore
di commedie.
2. Bettinelli: il libraio che stampò la
prima edizione delle
commedie di Goldoni in otto tomi tra il
1750 e il 1755.
3. Medebac: il capocomico della compagnia teatrale di
Sant’Angelo, per il
quale Goldoni aveva
lavorato dal 1748 al
1752. Medebac si
considerava proprietario delle commedie
goldoniane scritte per
Mentre la compagnia1 doveva andare a trascorrere la primavera e l’estate a
Livorno, io contavo di restare a Venezia; e la mia prima cura fu quella della
stampa del mio teatro. Il libraio Bettinelli2 ne aveva pubblicato i primi due
volumi; e io andai a portargli il manoscritto del terzo; ma quale non fu il
mio stupore allorché quest’uomo flemmatico, schiettamente e con una
freddezza glaciale mi disse che non poteva più ricevere da me i miei originali, che li riceveva da Medebac3, e che solo per conto di questo comico
egli avrebbe continuato l’edizione.
[...]
Bettinelli, a cui forse troppo leggermente avevo consentito che fosse dato il privilegio della stampa delle mie opere, era stato comprato con denaro; e io avevo da combattere col direttore che mi contestava la proprietà
delle mie opere e col libraio che era in possesso della facoltà di pubblicarle.
Avrei senza dubbio vinto la lite, ma bisognava mettersi in causa; e i cavilli forensi4 sono gli stessi dappertutto. Presi allora il partito più spiccio5.
Mi recai senza indugio a Firenze6 e diedi inizio a una nuova edizione, lasciando Medebac e Bettinelli in libertà di farne una a Venezia; ma pubblicai un piano programmatico che ridusse l’uno e l’altro al silenzio, perché
proposi dei cambiamenti e delle correzioni7.
1
5
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15
(Memorie, a cura di G. Davico Bonino, trad. dal francese di E. Levi, Einaudi, Torino, 1967)
il suo teatro.
4. i cavilli forensi: le
sottigliezze nell’interpretare le leggi che si
usano nei tribunali.
5. il partito più spiccio: la decisione più
sbrigativa.
6. a Firenze: in Italia
esistevano normative
diverse per ogni stato;
il privilegio di stampa
concesso nelle Venezie non era valido per
la Toscana.
7. pubblicai... correzioni: Goldoni pubblica un annuncio
programmatico che
riduce al silenzio i
suoi concorrenti, per-
ché vi annuncia la
pubblicazione delle
sue opere rivedute,
che svaluta automaticamente l’edizione
non riveduta dall’autore.
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Settecento
Saggio breve o articolo di giornale
76
Settecento
16
Vittorio Alfieri, «Io dunque prescelsi d’esser autore»
È un brano tratto dalla Vita di Alfieri (1790-1803), riferito a un singolare gesto compiuto
dall’autore nel 1778.
1. eziandio: anche.
2. ogni mio... libero:
tutte le mie proprietà
immobiliari, sia quelle date a titolo di feudo, sia quelle di cui
disponevo totalmente.
Esisteva in quel tempo una legge in Piemonte, che dice: «Sarà pur anche
proibito a chicchessia di fare stampar libri o altri scritti fuori de’ nostri
Stati, senza licenza de’ Revisori, sotto pena di scudi sessanta, od altra maggiore, ed eziandio1 corporale, se così esigesse qualche circostanza per un
pubblico esempio». Alla qual legge aggiungendo quest’altra: «I vassalli abitanti ne’ nostri Stati non potranno assentarsi dai medesimi senza nostra licenza in iscritto». E fra questi due ceppi si vien facilmente a conchiudere,
che io non poteva essere ad un tempo vassallo ed autore. Io dunque prescelsi di essere autore. E, nemicissimo com’io era d’ogni sutterfugio ed indugio, presi per disvassallarmi la più corta e la più piana via, di fare una interissima donazione in vita d’ogni mio stabile sì infeudato che libero2 (e
questo era più che i due terzi del tutto) al mio erede naturale, che era la
mia sorella Giulia, maritata come dissi col Conte di Cumiana. E così feci
nella più solenne e irrevocabile maniera, riserbandomi una pensione annua
di lire quattordici mila di Piemonte, cioè zecchini fiorentini 1400, che venivano ad essere poco più in circa della metà della mia totale entrata d’allora. E contentone io rimanevami di perdere l’altra metà, o di comprare con
essa l’indipendenza della mia opinione, e la scelta del mio soggiorno, e la
libertà dello scrivere.
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(Vita, Epoca IV, in Opere di Vittorio Alfieri, a cura di V. Branca, Mursia, Milano, 1965)
Vittorio Alfieri,
Se i letterati debbano lasciarsi protegger dai principi
È un brano del trattato Del principe e delle lettere, composto da Alfieri tra il 1778 e il 1786.
1. necessità di bisogno: attività imposta
dal bisogno di guadagnare.
2. affatto scevra di:
del tutto libera da.
3. apologia: difesa,
elogio.
4. con qualunque...
liberamente: migliorare le loro condizioni
materiali con qualunque altro mestiere
(arte), per essere in
grado, grazie all’indipendenza economica,
di avvalersi
liberamente del loro
ingegno.
Lo scrivere, è una necessità di bisogno1 in molti; e questi per lo più non
possono essere veramente scrittori, né io li reputo tali: lo scrivere, è una necessità di sfogo in alcuni; e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra
di2 ogni altro bisogno, può spingere l’uomo ad essere quasi che un Dio.
Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di pane. Né io certamente imprendo qui a fare l’apologia3 dei ricchi; i quali anzi, per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di
corpo, come d’ingegno: vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori
tutti, che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e
durevole, né quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se
il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero, e interamente sciolto da
ogni secondo meschino fine. Parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai
soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati
poveri, dico loro: che se vengono a conoscere sé stessi in tempo, debbono
da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno
liberamente4.
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(Del principe e delle lettere, in Opere di Vittorio Alfieri, a cura di V. Branca, Mursia, Milano, 1965)
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Saggio breve
o articolo di giornale
PARINI
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Settecento
Settecento
Parini e l’illuminismo
Giuseppe Parini, Lo spirito filosofico
Questi brani sono tratti rispettivamente dal saggio di argomento estetico Discorso sopra la
poesia (1761) e dal Proclama in nome di Pasquale de’ Paoli generale de’ Corsi (1769),
ispirato alla figura del capo della rivolta corsa contro la Repubblica di Genova.
1. facella: fiaccola.
2. non pur: non solo.
3. maggiori: antenati.
4. disinteresse: obiettività e lucidità razionali.
5. dimodoché... sopraffare: tanto da
non lasciarci intimidire né dall’antichità
né dal numero né
dall’importanza dei
fenomeni sottoposti
alla nostra indagine.
6. promulgare:
diffondere autorevolmente.
(in Prose, a cura di E.
Bellarini, Laterza,
Bari, 1913-15)
Lo spirito filosofico, che, quasi Genio felice sorto a dominar la letteratura
di questo secolo, scorre colla facella1 della verità accesa nelle mani, non
pur2 l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, ma la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de’ pregiudizii autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe de’ nostri maggiori3, finalmente perviene a ristabilire nel loro trono il buon senso e la ragione. A lui si debbono i progressi che quasi
subitamente hanno fatto per ogni dove le scienze tutte, e il grado di perfezione a cui sono arrivate le arti.
Il maggiore poi de’ beneficii, anzi quello che dentro di sé contiene tutti
gli altri che recati ci abbia la moderna filosofia, si è lo averci avvezzati a
ponderare con un certo disinteresse4 le cose, dimodoché né l’età, né il numero, né la dignità delle circostanze ci possano sopraffare5.
[...] Per quanto io ho letto, veduto e provato colla sperienza, mi sono
convinto che, dove il popolo è ignorante, il ceto degli ecclesiastici lo è
egualmente: e tanto più quanto che questo ceto, essendo ignorante, ha delle opinioni che direttamente s’oppongono allo avanzamento delle umane
cognizioni, ed ha delle superstizioni che contribuiscono a far crescere ed a
promulgare6 l’ignoranza medesima; e s’immagina d’avere un particolare interesse a coltivarla, né s’avvede che il maggiore interesse d’un cittadino si è
l’interesse di tutti. Finalmente io ho veduto che, qualora si cominciano a
spargere qualche lumi di verità in una nazione, non so se per le anzidette o
per altre ragioni, gli ecclesiastici son sempre gli ultimi a profittarne e i primi ad impedirne il progresso, e sembra ch’essi temano che le verità filosofiche debbano recar pregiudizio alle verità della fede, quasi che la verità possa giammai condurre all’errore. Questo nondimeno che io dico, lo dico
parlando generalmente, perché d’altronde ne ho conosciuto e ne conosco
alcuno che merita d’essere eccettuato.
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Giuseppe Parini, Il filosofo e il ciarlatano
Questi versi sono tratti da una “cicalata” (componimento scherzoso) composto nel 1762.
METRO:
strofe di settenari e endecasillabi
liberamente rimati e
alternati.
Un filosofo viene
tutto modesto, e dice:
– Bisogna a poco a poco,
pian pian, di loco in loco
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(Poesie varie, in Poesie
a cura di E. Bellarini,
Laterza, Bari, 1929)
Settecento
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levar gli errori dal mondo morale:
dunque ciascuno emendi
prima sé stesso, e poi de gli altri il male. –
Ecco un altro che grida:
– Tutto il mondo è corrotto;
bisogna metter sotto
quello che sta di sopra, e rovesciare
le leggi, il governare;
non è che il mio sistema
che il possa render sano. –
Credete al primo; l’altro è un ciarlatano.
Parini, pro e contro gli illuministi
Nel Mezzogiorno Parini descrive il pranzo che si svolge nel palazzo della dama del «giovin
signore». Sul finire del pasto, il protagonista fa sfoggio delle dottrine che ha appreso nei libri
dei filosofi illuministi di moda. Come avviene di solito nel Giorno, il narratore elogia ironicamente ciò che l’autore in realtà vuole condannare, e viceversa.
(da Il Giorno, a cura
di D. Isella, Ricciardi,
Milano-Napoli, 1969)
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1. novi sofi: i filosofi
illuministi francesi.
2. il fren… mortali:
la religione, il solo
limite (fren) che gli
antenati creduloni
(creduli maggiori) ritennero capace di
moderare le passioni
smodate (impeto folle)
degli esseri umani.
5. nodo: vincolo di
solidarietà. – speme:
speranza nella salvezza eterna.
6. penne: ali.
7. almo: nobile, glorioso.
8-9. Paventi… natura: il popolo abbia
paura dell’aldilà.
9-10. il debole…
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Qui ti segnalerai coi novi Sofi
schernendo il fren che i creduli maggiori
atto solo stimar l’impeto folle
a vincer de’ mortali, a stringer forte
nodo fra questi, e a sollevar lor speme
con penne oltre natura alto volanti.
Chi por freno oserà d’almo Signore
a la mente od al cor? Paventi il vulgo
oltre natura: il debole Prudente
rispetti il vulgo; e quei, cui dona il vulgo
titol di Saggio, mediti romito
il Ver celato; e alfin cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma il mio Signor, com’ aquila sublime
dietro ai Sofi novelli il volo spieghi.
[...]
Ma guardati, o Signor, guardati oh dio
dal tossico mortal che fuora esala
dai volumi famosi; e occulto poi
sa, per le luci penetrato all’alma,
gir serpendo nei cori; e con fallace
lusinghevole stil corromper tenta
il generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli,
vulgo: il sapiente
pauroso rispetti le superstizioni del popolo.
10-12. quei… celato:
colui che il popolo
considera sapiente
mediti in solitudine
(romito) le verità occulte della religione.
13. la sacra… intorno: il mistero che lo
avvolge.
17. tossico: veleno.
19. per… alma: penetrato nella mente
(alma) attraverso gli
occhi (luci).
20. gir servendo: andare serpeggiando.
23. ti scevra: ti
distingue. – da
quelli: dai libri degli
illuministi.
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Analisi del testo
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che ciascun de’ mortali all’altro è pari;
che caro a la Natura, e caro al Cielo
è non meno di te colui che regge
i tuoi destrieri, e quei ch’ara i tuoi campi;
e che la tua pietade, e il tuo rispetto
dovrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni d’infermo! Intatti lascia
così strani consigli; e sol ne apprendi
quel che la dolce voluttà rinfranca,
quel che scioglie i desiri, e quel che nutre
la libertà magnanima.
29. dovrien…
vilmente: dovrebbero
vigliaccamente abbassarsi fino a costoro.
30-31. Intatti… consigli: non dare ascolto a insegnamenti così insensati.
31-32. sol… rinfranca: da’ retta soltanto
all’insegnamento che
rafforza l’impulso al
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Settecento
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La caduta
dolce piacere.
32. scioglie i desiri:
lascia libero corso ai
desideri.
Giuseppe Petronio, Parini e l’illuminismo
Io dico Illuminismo ma […] etichette di questo genere indicano solo gli
aspetti comuni a uomini e opere che per il resto sono diversi: Parini,
Goldoni, i Verri, Beccaria, tanti altri, appartengono alla civiltà dei lumi,
ma ognuno a suo modo […]. Parini era “illuminista”. Un suo Discorso sopra la poesia si apre così: «Lo spirito filosofico che quasi Genio felice […]
scorre con la facella della verità accesa nelle mani […]». È una professione
di fede illuministica: disprezzo per le tenebre, fiducia nella ragione e nel
buon senso, spirito filosofico, estensione europea di questa nuova cultura
dei lumi (ha in mano la «facella», cioè la fiaccola della Verità), auspicio che
essa permei anche la letteratura. Ma Parini è sensibile soprattutto ad alcuni
aspetti di questa civiltà; popolano per nascita e piccolo-borghese per condizione sociale, ha vivissimo il senso dell’uguaglianza naturale degli uomini; prete e credente, ha un senso altrettanto vivo dell’umanitarismo ed è
avverso alla letteratura puramente formalistica, ma guarda con timore al
materialismo, all’ateismo, al vago deismo che caratterizzavano tante correnti illuministiche; “letterato”, cioè imbevuto di una cultura più umanistica che scientifica o economica, non apprezza, come i Verri e i loro amici,
il commercio, ma pone in primo piano nella graduatoria delle occupazioni
socialmente utili, l’agricoltura.
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(G. Petronio, Il piacere di leggere. La letteratura italiana in 101 libri, Mondadori, Milano, 1997)
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GOLDONI
Saggio breve
o articolo di giornale
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Settecento
Settecento
Il dibattito sulla riforma goldoniana
Carlo Goldoni, Il mondo e il teatro
Questo brano è tratto dalla prefazione di Goldoni alla prima raccolta delle sue Commedie
(1750).
(Prefazione Bettinelli,
in Tutte le opere di
Carlo Goldoni, a cura
di G. Ortolani,
Mondadori, Milano,
1935-56
1. segni: gli indizi, le
tracce.
2. correnti: attuali,
contemporanei.
3. rivolgendolo: sfogliandolo, studiandolo.
4. ombreggiarli: farli
emergere attraverso il
chiaroscuro (metafora
ricavata dal disegno).
5. grati: graditi.
6. si pratica: si frequenta.
7. indiscretamente:
indiscriminatamente.
8. l’unità... luogo:
l’unità di luogo era
una delle regole che il
classicismo rinascimentale aveva imposto alla tragedia e alla
commedia, sulla base
della Poetica di
Aristotele.
9. Aristofane: commediografo greco del
V secolo a.C.
10. Burlette: le farse
dei comici dell’arte.
11. però: perciò.
12. Orazio: le regole
sulla composizione
delle opere letterarie,
oltre che dalla Poetica
di Aristotele, si traevano dall’Ars poetica del
poeta latino Orazio.
[...] i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi
tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti
apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed
istruttive Commedie: mi rappresenta i segni1, la forza, gli effetti di tutte le
umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti2 costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del
nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o
la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi co’ quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo
libro raccolgo, rivolgendolo3 sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che
si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il
secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa
conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle scene i caratteri, le
passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli4 per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte,
che più li rendon grati5 agli occhi dilicati de’ spettatori. Imparo insomma
dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a
destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l
ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica6, in modo però che
non urti troppo offendendo.
[...]
Per questo, quando alcuni adoratori d’ogni antichità esigono indiscretamente7 da me, sull’esempio de’ Greci e Romani Comici, o l’unità scrupolosa del luogo8, o che più di quattro personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità, io loro in cose che così poco rilevano all’essenzial bellezza della Commedia, altro non oppongo che l’autorità del
da tanti secoli approvato uso contrario. Moltissime son quelle cose nelle
antiche Commedie, massimamente Greche, ed in particolare in quelle di
Aristofane9, quando esse recitavansi sopra palchi mobili come le nostre
Burlette10, le quali assaissimo a que’ tempi piacevano, e riuscirebbono intollerabili a’ nostri: e però11 io stimo che, più scrupolosamente che ad alcuni precetti di Aristotele o di Orazio12, convenga servire alle leggi del
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13. chinchina: chinino, utilizzato per curare le febbri malariche.
14. Ippocrate o
Galeno: celebri medici greci dell’antichità.
Settecento
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Popolo in uno spettacolo destinato all’istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto. Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbero paragonare a que’ Medici, che
non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina13 per questa
sola ragione, che Ippocrate o Galeno14 non l’hanno adoperata.
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Cesare Gozzi, «Vere pidocchierie»
1. pernizioso: dannoso.
2. sdegnoso…
subordinazione: insofferente nei
confronti della sua
necessaria subordinazione (giogo) alle classi dominanti.
3. aver fronte: avere
il coraggio, la faccia
tosta.
[Goldoni] Espresse sul Teatro tutte quelle verità che gli si posero dinanzi ricopiate materialmente e trivialmente, e non imitate dalla natura, né coll’eleganza necessaria ad uno Scrittore. Non seppe o non volle separare le verità che si devono, da quelle che non si devono porre in vista sopra un
Teatro; ma si è regolato con quel solo principio, che la verità piace sempre.
Da ciò nasce che le sue Commedie odorano per lo più di pernizioso1 costume. La lascivia, e il vizio gareggiano in esse colla modestia, e bene spesso queste due ultime sono vinte dai primi.
Egli ha fatto sovente de’ veri Nobili lo specchio dell’iniquità, e il ridicolo; e della vera plebe, l’esempio delle virtù, e il serio in confronto delle sue
Commedie; io sospetto (e forse troppo maliziosamente) ch’egli abbia fatto
così per guadagnarsi l’animo del minuto popolo sempre sdegnoso col necessario giogo della subordinazione2. […]
Moltissime delle sue Commedie non sono, che un ammasso di scene, le
quali contengono delle verità, ma delle verità tanto vili, goffe, e fangose,
che, quantunque abbiano divertito anche me medesimo animate dagli attori, non seppi giammai accomodare nella mente, che uno scrittore dovesse umiliarsi a ricopiarle nelle più basse pozzanghere del volgo, né come potesse aver l’ardire d’innalzarle alle decorazioni d’un Teatro, e soprattutto
come potesse aver fronte3 di porre alle stampe gli esemplari delle vere pidoccherie.
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(C. Gozzi, La frusta letteraria)
Francesco Albergati, Chi sono i critici di Goldoni
[I critici di Goldoni si dividono in due classi]. La prima comprende una specie di critici eruditi, che da noi s’appellano parolai o puristi; conoscitori e
giudici delle parole, che si figurano perduta ogni cosa, se mai una frase non
è del tutto cruscante, se un termine non è affatto a suo luogo o se un’espressione non è abbastanza nobile e sublime. […] L’altra classe, che è la
più feroce, e un corpo rispettoso di molti Nobili dei due sessi, che gridano
vendetta contro il Goldoni, perché ardisce esporre in iscena Il Conte, il
Marchese, la Contessa e la Marchesa con caratteri ridicoli e viziosi. […] E
fu appunto questa verità dell’azione e dei caratteri, che gli suscitò contro i
primi nemici della nostra città; gli si rimproverò di essere entrato troppo liberamente nel santuario della galanteria e d’averne svelati i misteri agli occhi profani del volgo.
(Lettera di F. Albergati a Voltaire)
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Pietro Verri, «Virtù vera»
Settecento
Nelle commedie del signor Goldoni primieramente è posto per base un
fondo di virtù vera, d’umanità, di benevolenza, d’amor del dovere, che riscalda gli animi di quella pura fiamma che si comunica per tutto ove trovi
esca, e che distingue l’uomo che chiamasi d’onore, dallo scioperato.
(P. Verri, Il Caffè)
Giuseppe Petronio, La vera novità del teatro goldoniano
Io direi che l’illuminismo del Goldoni, cioè la sua adesione alla cultura e
alla civiltà del suo tempo, non sia tanto nelle singole soluzioni che egli dà
ai singoli problemi problemi politici e sociali di allora; non è tanto, per
esempio, nella satira pur così ferma, così concreta, così storica, che fa della
nobiltà del suo tempo; non è tanto nella difesa che prende con fermo coraggio della borghesia veneziana; non è tanto ancora nella adesione sua
piena alla mercatura e ai mercanti, un’adesione che lo accosta, per esempio,
ai Verri e al Caffè e lo fa tanto più moderno del fisiocratico Parini. […] Ma
io direi forse che l’illuminismo del Goldoni, e il suo spirito progressivo, e
la sua partecipazione attiva alle battaglie culturali e sociali del suo tempo,
siano, più ancora che in queste affermazioni puntuali, nello spirito del suo
teatro e nello schema di questo, cioè nella forma nuova che egli diede alla
commedia italiana.
Nello spirito intanto, in quel saggio borghese buon senso, in quella rappresentazione sempre cordiale del mercante veneziano, con le sue virtù e
con i suoi difetti, difetti, però, che non negano certe sostanziali virtù e non
distruggono, nel lettore, cordialità e simpatia. […]
Nella forma poi soprattutto, nel fatto stesso, cioè, di sostituire alla commedia a soggetto, plebeamente stilizzata e astratta, la commedia scritta,
borghese, realistica, in cui le classi borghesi, e più tardi quelle popolane,
potessero entrare, non oggetto di riso, ma soggetto di una rappresentazione cordiale, con le loro virtù, coi i loro difetti, con le loro passioni, con i
loro contrasti, con i loro interessi: personaggi umanamente seri, per i quali
la commedia, quella commedia, era il naturale campo di azione per i personaggi mitologici ed eroici, nei quali potesse rispecchiarsi ed idealizzarsi il
primo stato, la nobiltà padrona fino allora dell’arte.
In questo senso la commedia del Goldoni è veramente nuova, e tutta
settecentesca e illuministica.
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(G. Petronio, in C. Goldoni, Commedie)
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Saggio breve
o articolo di giornale
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ALFIERI
Settecento
Alfieri e l’illuminismo
Alfieri, Contro i « gelati filosofisti»
(da Epistolario, a cura
di L. Caretti, Centro
nazionale di studi alfieriani, Asti, 1963)
1. Candido... Gori:
amici comuni morti.
2. imaginiamo: è un
imperativo: lasciamo
libero campo all’immaginazione.
3. gelati filosofisti:
gelidi filosofi; «filosofista» è una deformazione spregiativa, per
indicare un filosofeggiare arido e vuoto.
È la parte finale di una lettera scritta nel 1796 da Alfieri a Teresa Regoli-Mocenni in occasione della morte di un comune amico.
Alcune opinioni son più utili e soddisfano più il cuor ben fatto, che altre.
Per esempio, giova assai più alla fantasia e all’affetto il credere che il nostro
Mario sia col Candido e col Gori1, e che stiano parlando e pensando di
noi, e che li rivedremo una volta, che non di crederli tutti un pugno di cenere. Se tal credenza ripugna alla fisica e all’evidenza gelida e matematica,
non è perciò da disprezzarsi; il primo pregio dell’uomo è il sentire; e le
scienze insegnano a non sentire. Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per
quanto elle possono stare insieme: imaginiamo2, e crediamo l’imaginato
per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio; ché Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente; e cani chiamo, o Francesi, che è lo stesso, i
gelati filosofisti3, che da null’altro son mossi, fuorché dal due e due son
quattro. Son tutto suo.
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Alfieri, Ferro, torchi, destrieri, inchiostro e tede
(in Opere di Vittorio
Alfieri, a cura di V.
Branca, Mursia,
Milano, 1965)
1. necessità di bisogno: attività imposta
dal bisogno di guadagnare.
2. affatto scevra di:
del tutto libera da.
3. apologia: difesa,
elogio.
Il trattato Del principe e delle lettere fu composto fra il 1778 e il 1786 e stampato nel
1789, ma apparve per la prima volta solo nel 1801 insieme a Della tirannide, per opera di
un libraio parigino che lo divulgò contro la volontà dell’autore.
Il trattato è diviso in tre libri, rispettivamente di 12, 13 e 12 capitoli: il primo, dedicato «ai
principi che non proteggono le arti», sostiene che il mecenatismo ostacola la libera attività
intellettuale, asservendola ai voleri di chi comanda, sempre propenso a privilegiare i «mediocri» sui «sommi»; il secondo si rivolge «ai pochi letterati che non si lasciano proteggere»,
di cui si esalta l’autonoma ricerca della verità, che li rende moralmente superiori al principe;
nel terzo, dedicato «alle ombre degli antichi liberi scrittori», si ribadisce come la sublimità
delle lettere «non possa esistere sotto protezione»: il «sublime scrittore», guidato da un’ispirazione quasi divina, è un’incarnazione assoluta del principio della libertà, “poeta vate”, guida morale e civile della nazione.
Ammiratissimo da Foscolo, il trattato ebbe grande fortuna presso gli uomini del risorgimento, che lo interpretarono come una lezione di libertà e di patriottismo anticipatrice delle loro battaglie.
In questo capitolo, tratto dal secondo libro, Alfieri delinea la figura del «sublime scrittore»
e il suo rapporto col potere.
Lo scrivere, è una necessità di bisogno1 in molti; e questi per lo più non
possono essere veramente scrittori, né io li reputo tali: lo scrivere, è una necessità di sfogo in alcuni; e questa, ben diretta, modificata, e affatto scevra
di2 ogni altro bisogno, può spingere l’uomo ad essere quasi che un Dio.
Spessissimo però accade (pur troppo!) che i sommi ingegni nascono necessitosi di pane. Né io certamente imprendo qui a fare l’apologia3 dei ricchi; i quali anzi, per lo più nascono di assai meno robusta natura, così di
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4. con qualunque...
liberamente: migliorare le loro condizioni
materiali con qualunque altro mestiere
(arte), per essere in
grado, grazie all’indipendenza economica,
di avvalersi liberamente del loro ingegno.
5. ne può ridondare:
può riversarsi.
6. divisato: indicato.
7. procacciare dei
lumi: offrire delle conoscenze.
8. eleggersi: scegliere
se stesso, indirizzarsi.
9. vile: umile, schiavo.
10. altrui: agli altri.
11. un ente... chiostri: un religioso.
12. beneficj: le rendite derivanti da una
carica ecclesiastica.
13. cavalier servente:
nel Settecento era il
cavaliere che dedicava
se stesso al servizio di
una dama.
14. non dureranno...
esserlo: se proclameranno con energia la
verità perderanno
senza fatica la protezione del principe,
ma non quella del
pubblico illuminato,
quando un tale pubblico comincerà ad
esistere.
Alfieri e l’illuminismo
corpo, come d’ingegno: vorrei bensì persuadere e convincere gli scrittori
tutti, che non possono essi mai ottenere gloria verace con fama intatta e
durevole, né quindi mai cagionare utilità vera e massima nei loro lettori, se
il loro scrivere non riesce alto, veridico, libero, e interamente sciolto da
ogni secondo meschino fine. Parlando io dunque ai grandi ingegni (ma ai
soli e pochi grandissimi) che per ingiustizia di fortuna si trovano esser nati
poveri, dico loro: che se vengono a conoscere sé stessi in tempo, debbono
da prima, ove sia possibile, con qualunque altra arte migliorare la loro sorte, per poi potersi, per mezzo della indipendenza, valere del loro ingegno
liberamente4. E di ciò gli scongiuro, per quel sommo utile, che dai loro
scritti ne può ridondare5 agli uomini tutti; e per quella purissima gloria,
che ad essi ne dee ridondare. Ma, se non possono assolutamente procedere
nel modo su divisato6, li consiglio a desistersi dalla impresa dello scrivere, e
a cercare altri mezzi per campare; che tutti, in ogni tempo e governo, riescono a ciò più atti che non il mestier delle lettere. In una parola in somma, io dico; che all’ingegno dee bensì la ricchezza servire, ma non mai alla
ricchezza l’ingegno.
Se il più nobile, se il più elevato, il più sacro, e quasi divino ufficio tra
gli uomini si è quello di voler loro procacciare dei lumi7, dilettare la loro
mente, infiammarli d’amore di vera virtù, e di nobile gara in ben fare; ardirà egli mai eleggersi8 ad una così importante impresa colui, che per necessità vien costretto ad essere, o a farsi vile9? [...]
In somma, io non posso nel cuore di un vero scrittore dar adito ad altro
timore, che a quello di non far bene abbastanza; né ad altro sperare, che a
quello di riuscire utile altrui10, e glorioso a sé stesso. Ammettendo un tale
principio, si esamini se il sublime scrittore nel principato potrà mai essere
un ente vissuto fra i chiostri11; un segretario di cardinale; un membro accademico; un signor di corte; un abate aspirante a beneficj12; un padre, o figlio, o marito; un legista; un lettore di università; un estensore di fogli periodici vendibili; un militare; un finanziere; un cavalier servente13: o qualunque altr’uomo in somma, che per le sue serve circostanze sia costretto a
temere altro che la vergogna del male scrivere, o a desiderare altro che il
pregio e la fama della eccellenza.
Rimanendo per sé stessa esclusa da quest’arte una così immensa turba
di non-uomini, a pochissimi uomini mi rimane a parlare. A quelli dunque,
che letterati veri ardiscono e possono farsi, dico; che senza scapito massimo
dell’arte, non possono essi lasciarsi proteggere da chi che sia. Ed ella è cosa
certa pur troppo, che se essi faranno interamente il severissimo loro dovere,
di professar sempre e dire con energia la verità, non dureranno fatica veruna per sottrarsi da ogni protezione: tolta però sempre quella del pubblico
illuminato, quando perverrà ad esserlo14; protezione, la sola, che onoratamente si possa e bramare e ricevere.
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Settecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Settecento
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Walter Binni, Consonanza con l’illuminismo e suo superamento
Accesa dalla consonanza con il coraggio morale e intellettuale dell’illuminismo nelle sue versioni più radicali, la passione alfieriana supera di fatto
quella consonanza anche là dove il grande illuminismo si estrinsecava nel
culto dei forti sentimenti [...].
La passione dell’Alfieri, il suo deciso propendere per il «forte sentire» superiore ad ogni equilibrio di natura-ragione, di piacere-virtù, si muove piuttosto
sulle onde crescenti dello sviluppo e crisi dell’illuminismo, al di là dei suoi cerchi più armonici, verso l’accentuazione preromantica del sentimento e sin nell’esaltazione dell’entusiasmo irrazionale o antirazionalistico, segnando così potentemente insieme un aspetto della crisi dell’illuminismo in ciò che esso poteva ancora avere di più « razionalistico » e decurtante rispetto alla integralità
dell’uomo nelle sue forze fantastiche e sentimentali [...].
Al centro di tutte le posizioni alfieriane, dai modi di atteggiarsi della
sua vita sentimentale all’impostazione politica, alla poetica e al concreto fare poetico, risalta un’energica spinta individualistico-eroica, che presuppone il sentimento dolente di una situazione storica ed esistenziale limitativa
e oppressiva, e che sfocia in moti di possente pessimismo nell’amarissima
riconstatazione del divario incolmabile fra le esigenze, gli ideali dell’individuo superiore e i limiti della realtà in tutti i suoi aspetti e livelli.
(W. Binni, Vittorio Alfieri, in Storia della letteratura italiana, VI, Il Settecento, Garzanti, Milano, 1968)
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Giulio Ferroni, Il concetto di “libertà” in Alfieri
L’aspirazione di Alfieri allo scontro con il mondo comporta, insieme alla
scelta della letteratura e della tragedia, anche un’essenziale scelta politica; la
scelta letteraria è per lui anche scelta di “libertà” e viene vissuta come tensione a rompere le costrizioni della società assolutistica. La “libertà” è per
l’astigiano l’esigenza determinante di ogni individuo dal “forte sentire” e lo
strumento di ogni vita sociale “eroica”: cercare la libertà nel mondo dell’assolutismo significa impegnarsi in uno scontro “tragico” con il potere e con
le sue istituzioni, distinguersi da una nobiltà abituata all’acquiescenza e alla collaborazione con le monarchie assolute, trarre alcune conseguenze
estreme dalla critica illuministica alla tradizione e al dispotismo,
[...] L’orizzonte che traspare dal trattato Della tirannide e dalle tragedie politiche, come da tutto il teatro alfieriano, non può comunque essere interpretato come giacobino e rivoluzionario; e non è nemmeno esatto vederlo come
prima manifestazione di anarchismo o come una forma veemente di liberalismo. L’Ideologia politica dell’Alfieri appare, più che altro, come un modo di
porsi dello scrittore e dell’individuo nei confronti della cultura e dei modelli di
comportamento del proprio tempo, come uno scatto volontaristico con cui
egli afferma la propria insofferenza e la propria eccezionalità.
È in questo senso che vanno intesi la novità e, insieme, il grave limite
del culto alfieriano della “libertà”, che si traduce in crescente diffidenza nei
confronti del pensiero illuministico e nella condanna dell’intero secolo dei
lumi, considerato «niente poetico e tanto ragionatore».
(G. Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 1992)
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13-19
Tardo Cinquecento, Seicento e Settecento
1. Scrivi le opere elencate nella casella accanto al secolo in cui furono
composte.
Candido
Le confessioni di Rousseau
씰 Il Giorno
씰 La locandiera
씰 Il mercante di Venezia
씰 Saul
씰
씰
Secolo XVII
Secolo XVIII
2. Inserisci le opere nella tabella, a fianco del genere letterario a cui appartengono.
Saul
Robinson Crusoe
씰 Didone abbandonata
씰 Neutonianesimo per le dame
씰 I rusteghi
씰 Adone
씰
씰
Poema
Trattato
Melodramma
Romanzo
Tragedia
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13-19
Tardo Cinquecento,
Seicento e
Settecento
Prova a risposta chiusa B
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Tardo Cinquecento,
Seicento e Settecento
13-19
3. Scrivi a fianco di ciascuna opera il nome dell’autore o la lettera corrispondente, scegliendo nella colonna di destra (ovviamente un autore
resterà inutilizzato).
Moll Flanders
I dolori del giovane Werther
Odi
Il Saggiatore
.................................................................
.................................................................
.................................................................
.................................................................
a) Wolfgang Goethe
b) Giuseppe Parini
c) Carlo Goldoni
d) Galileo Galilei
e) Daniel DeFoe
4. Segna la risposta corretta.
In quale delle seguenti opere è utilizzato l’endecasillabo sciolto?
씰 Fedra di Racine
q
씰 Commedie di Goldoni
q
씰 Adone
q
씰 tragedie di Alfieri
q
5. Segna la risposta corretta.
Secondo Galileo
씰 fra la scienza e la religione c’è un contrasto insanabile.
q
씰 tanto la scienza quanto la religione si devono fondare
sul principio di autorità.
q
씰 la scienza e la religione devono fare riferimento a diversi criteri di verità. q
6. Segna la risposta corretta.
Il seguente passo appartiene a
씰 un letterato petrarchista
씰 un letterato barocco
씰 un letterato illuminista
씰 uno scrittore preromantico
q
q
q
q
«In primo luogo vuolsi por mente che la principal dilettazione dell’intelletto consiste nel maravigliarsi. […] Quello che da noi si chiama concetto riceve il suo
pregio dal ferir l’animo dell’uditore con qualche maraviglia particolare e maggior
di quella che ne è palesata dagli altri palesamenti di peregrino pensiero; ond’io mi
avviso che sì fatta descrizione possa adatterglisi: «osservazione maravigliosa raccolta in un detto breve» […]. Il primero modo per apportare quella novità repentina in cui la bellezza del concetto è costituita, sarà il cavare da una proposizione
dirittamente il contrario di quello che altri avrebbe aspettato.»
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7. Attribuisci questi versi a uno dei seguenti autori: Metastasio, Marino,
Parini, Alfieri.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Due fère donne, anzi due furie atroci,
tòr non mi posso (ahi misero!) dal fianco.
ira è l’una, e i sanguigni suoi feroci
serpi mi avventa ognora al lato manco.
b) Che tardi omai? Non vedi tu com’ella
già con morbide piume a i crin leggeri
la bionda che svanì polve rendette;
e con morbide piume in su la guancia
fe’ più vermiglie rifiorir che mai
le dall’aura predate amiche rose?
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Già riede primavera
col suo fiorito aspetto
già il grato zefiretto
scherza fra l’erbe e i fior.
d) Da duo candidi margini diviso,
apre quel sen, ch’ogn’altro seno aborre,
con angusto canal, che latte corre,
una via che conduce al paradiso.
8. Attribuisci ciascuno di questi brani di prosa a uno dei seguenti autori:
Paolo Sarpi, Galileo Galilei, Cesare Beccaria, Vittorio Alfieri.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Il giudicar dunque dell’opinione di alcuno in b) Il pontefice Leone, angustiato da ambedue le
parti, non sapeva che desiderare, vedeva che
materia di filosofia dal numero de i seguaci,
ogni giorno l’obedienza andava diminuendolo tengo poco sicuro. Ma ben ch’io stimi, picsi, e li popoli interi separandosi da lui, e ne
colissimo poter essere il numero dei seguaci
desiderava il rimedio del concilio, il quale
della miglior filosofia, non però concludo,
quando considerava dover esser peggior del
per converso, quelle opinioni e dottrine essere
male, portando la riforma in consequenzia,
necessariamente perfette, le quali hanno pol’aborriva.
chi seguaci.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Vuole, e dee volere il principe, che siano cie- d) È meglio prevenire i delitti che punirgli.
chi, ignoranti, avviliti, ingannati e oppressi i
Questo è il fine principale d’ogni buona legisuoi sudditi; perché, se altro essi fossero, imslazione, che è l’arte di condurre gli uomini al
mediatamente cesserebbe egli di esistere.
massimo di felicità o al minimo d’infelicità
Vuole il letterato, o dee volere, che i suoi
possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei
scritti arrechino al più degli uomini luce, vebeni e dei mali della vita.
rità e diletto.
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13-19
Tardo Cinquecento,
Seicento e
Settecento
Prova a risposta chiusa B
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Tardo Cinquecento,
Seicento e Settecento
13-19
9. In questo brano sul pensiero illuministico, inserisci negli spazi vuoti i
seguenti termini:
deduttivamente, esperienza, fatti, innate, metodo, particolari, principi, ragione.
La ragione, così com’è interpretata dall’Illuminismo, non è più un patrimonio di
idee .............................................................. originariamente possedute dall’uomo, da cui ogni nozione debba venir derivata .............................................................., ma diventa una capacità di acquisizione connessa all’impiego di un determinato ............................................................... E questa acquisizione avviene sulla base dell’..............................................................: attraverso l’osservazione dei fatti la .............................................................. procede a determinarne le leggi, i principi
di comportamento, e quindi a collegarli sulla base di
..............................................................
più
generali. Il metodo di ricerca così definito – il quale comporta il costante passaggio dai fatti ai principi, da principi più .............................................................. ad altri più generali
– è il metodo dell’analisi.
(Pietro Rossi, Gli illuministi francesi, 1971)
10. Ricostruisci il brano, tratto dal Dialogo sopra i massimi sistemi di
Galilei, ordinando i frammenti sotto riportati e indicati con una lettera, mettendoli di seguito a:
Né perciò io dico che non si deva ascoltar Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che
a) non si applica più a cercar d’intendere la forza delle sue dimostrazioni. E qual
cosa è più vergognosa che ’l sentire
b) alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo ed è che altri
c) nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un
di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario?
Ordine dei frammenti: ........................................................................................
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Primo Ottocento
IL CONTESTO
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Ottocento
La lingua e la questione della lingua
Stendhal, Gli italiani e la lingua
Il grande romanziere francese Stendhal scrisse vari libri sui suoi viaggi in Italia, ricchi di vivaci notazioni di costume. Da Roma, Napoli e Firenze nel 1817 traiamo queste osservazioni
sulla situazione linguistica italiana all’inizio dell’Ottocento.
1. Il paese... libertà:
la Toscana, o Firenze;
la superiorità letteraria che assicurò l’affermazione del fiorentino è attribuita al
migliore clima intellettuale dovuto alle
libertà comunali.
2. Crusca: il Vocabolario degli Accademici
della Crusca, pubblicato per la prima volta nel 1612 e più volte ristampato, si ispirava a un rigido canone di autori fiorentini
dei primi secoli; il purismo linguistico del
primo Ottocento esigeva che vi si restasse
fedeli.
Nel secolo XIV, le numerose parti dell’Italia, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Milano, il Piemonte, parlavano lingue diverse. Il paese che aveva la libertà1 ebbe le idee migliori, è naturale, e la sua lingua prevalse. Sfortunatamente questo vincitore non eliminò i rivali. Così la lingua scritta in Italia
non è parlata che a Firenze e a Roma. Dappertutto altrove ci si continua a
servire dell’antico dialetto locale e parlare toscano nella conversazione è
considerato ridicolo.
Un uomo che scrive una lettera apre il dizionario, e una parola non è
mai abbastanza enfatica e pomposa. Di conseguenza, la spontaneità, la
semplicità, l’espressione delle sfumature, sono cose sconosciute in italiano.
Se si hanno da esprimere sentimenti del genere, si scrive in veneziano o in
milanese. Con gli stranieri si parla sempre toscano, ma quando il vostro interlocutore vuole esprimere un’idea energica, ricorre a una parola del suo
dialetto. Tre quarti dell’attenzione di uno scrittore italiano sono dedicati
all’aspetto fisico della lingua. Si tratta di non usare nessuna parola che non
si trovi negli autori citati dalla Crusca2.
1
5
10
15
(Voyages en Italie, Gallimard, Paris, 1973;
trad. dal francese di A. Colombo)
Antonio Cesari, Lezione sopra la lingua italiana
Antonio Cesari (1760-1828), sacerdote, fu uno dei più intransigenti campioni del purismo
linguistico e tra l’altro curò una nuova edizione del Vocabolario della Crusca. Riportiamo un
brano di una sua lezione accademica scritta e letta nel 1812.
1. non dipartirci...
sentenza: non discostarci da questa opinione.
2. eziandio: anche. È
uno dei tipici arcaismi di cui Cesari infiorava i suoi scritti.
Sembra oggimai cosa superflua il far pure parola intorno alla lingua Italiana, se quella del mille trecento sia da prendere per norma del bello scrivere:
tanto se n’è detto e ridetto sin qui, e tanto chiare e vive sono le prove, che
ci costringono a non dipartirci da questa sentenza1. E ben pare, che eziandio2 i letterati d’oggidì, singolarmente gli Italiani, ne sieno chiariti: tanto è
l’ardore, che in loro universalmente s’è messo di sostenere questa opinione,
e di propagare al possibile lo studio e l’immitazione de’ Classici Toscani, in
tante e così dotte scritture, ch’in questo proposito uscirono in luce. Tuttavia non mancano di quelli, che mal s’accordano a questo pensiero, e i difensori del linguaggio di quel secolo chiamon pedanti; e dicono doversi allargare anzi i confini, e dilatare il regno di nostra lingua, faccendo luogo a
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Primo Ottocento
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quelle molte voci, e modi di dire, che l’uso moderno è venuto introducendo nelle scritture. [...]
Quando una lingua, per lo consentimento de’ dotti confermato dall’uso
di molti tempi, ha preso sua forma, e fu universalmente accettata per l’ottima, è tolto a tutti il diritto di contraddire. Que’ tali scrittori debbono esser
riconosciuti e immitati come maestri ed esempj di proprietà ed eleganza:
non dovendo esser possibile che gli uomini saggi si debbano essere dopo
tanti e sì lunghi studi ingannati.
15
(Da Opuscoli linguistici e letterari, presso Giuseppe Guidotti, Reggio Emilia, 1907)
Ludovico di Breme, Lingua e commercio sociale
I più decisi oppositori del purismo furono i romantici milanesi raccolti intorno al “Conciliatore”; su questa rivista Lodovico di Breme pubblicò nel 1819 un ampio commento al secondo volume della Proposta di alcune correzioni e aggiunte al “Vocabolario della Crusca”, in
cui il poeta classicista Vincenzo Monti prendeva posizione contro il purismo, pur nell’ambito di una concezione tradizionalmente letteraria della lingua. Nel suo articolo di Breme
prendeva in esame tutti gli aspetti del dibattito sulla lingua allora in corso.
1. commercio vicendevole: relazioni sociali.
2. tampoco: nemmeno.
3. flessuosa, urbana:
adattabile, disinvoltamente colta.
4. una setta: i puristi,
considerati spregiativamente come un
gruppo religioso fanatico.
5. il cui... vetustà: il
cui valore sia in proporzione della più
remota antichità.
Ricordiamoci [...] che la lingua, l’espressione delle idee, ossia della parola
interna, è nell’uomo il più sicuro indizio della sua destinazione sociale; che
lingua, cioè sistema di linguaggio, senza commercio vicendevole1 di persone, non è tampoco2 concepibile; e che per conseguente l’esistenza d’ogni
lingua nel mondo, racchiude in sè i resultati dell’indole, delle leggi, delle vicende d’un qualche popolo. Ricordiamoci che presso nessun popolo, senza
sede di socievole commercio e di reciproche relazioni, può esservi lingua
durevole; e che, quanto più una favella ci appare ricca, gentile, flessuosa, urbana3, altrettanto possiamo argomentare di una più vasta sede di civiltà, e di
più perfette relazioni sociali, nel paese di cui essa è l’idioma. [...]
Lo zelo che il cav. Monti viene ora spiegando ha per importante oggetto
di rifondere in un tutto omogeneo, e, (vogliamo sperare), di ridurre a sistema analitico gli elementi e la materia della favella dispersa per la penisola, e
non voluta riconoscere per legittima da una setta4 che considera la lingua
come un museo di anticaglie, il cui pregio stia in ragione della più remota
loro vetustà5. Cotesta setta che non s’è tampoco avveduta ancora che una
lingua viva è figlia immediata dell’organismo intellettuale, e va sottoposta
ad una forza di perenne riproduzione, abjurando la urbanità e la filosofia
dei giorni presenti, reputa gran senno l’ostentare in vece le miserie dei secoli balbuzienti.
1
5
10
15
20
(In Dal “Conciliatore”, a cura di P .A. Menzio, Utet, Torino, 1927)
Alessandro Manzoni, La povertà della lingua italiana
Da una lettera all’amico francese Claude Fauriel, datata 3 novembre 1821.
Immaginatevi invece un italiano che scrive, se non è toscano, in una lingua che non ha quasi mai parlato, e che (anche se è nato nella regione privilegiata) scrive in una lingua che è parlata da un piccolo numero di abitanti d’Italia, una lingua nella quale non si discute oralmente di grandi
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1. scienze morali:
quelle che oggi chiamiamo “scienze umane”.
2. chi ne parla di
più: i puristi e i classicisti in genere.
La lingua e la questione della lingua
questioni, una lingua nella quale le opere relative alle scienze morali1 sono
molto rare, e distanti l’una dall’altra, una lingua che (se si presta fede a chi
ne parla di più2) è stata corrotta e sfigurata proprio dagli scrittori che hanno trattato le materie più importanti negli ultimi tempi, cosicché non vi
sarebbe per le buone idee moderne un modello generale di espressione riconoscibile in ciò che è stato fatto fin’ora in Italia. Manca completamente
a questo povero scrittore il sentimento, per così dire, di comunione con il
lettore, la certezza di maneggiare uno strumento egualmente conosciuto
da entrambi.
Si chieda pure se la frase che ha appena scritto sia italiana: come potrebbe dare una risposta sicura a una domanda che non è precisa? Infatti cosa
significa italiano in questo senso? secondo alcuni ciò che è registrato nella
Crusca, secondo altri ciò che è capito in tutta Italia, o dalle classi colte; i
più non attribuiscono a questa parola alcuna idea precisa.
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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15
(In Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti,
“Classici Mondadori”, Milano, 1957-90)
Alessandro Manzoni, La lingua italiana è in Firenze
La Lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana fu scritta nel 1847 e pubblicata nel 1850.
1. accidenti giornalieri: fatterelli di vita
quotidiana.
Io sono in quella scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua
italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è
in Parigi; non perché quella fosse, nè questa sia ristretta a una sola città
tutt’altro; e quali lingue furono mai più diffuse di queste? ma perchè conosciute bensì e adoprate in parte, e anche in gran parte, in una vasta estensione di paese, anzi di paesi, pure, per trovar l’una tutt’intera, e per trovarla sola, bisognava andare a Roma, come, per trovar l’altra, a Parigi. […]
Come vi pare che potremmo intenderci, non dico tutti insieme, napoletani, milanesi, romani, genovesi, bergamaschi, bolognesi, piemontesi, e via
discorrendo; ma in una città, in un crocchio, in una famiglia? E non dico
la parte meno istrutta delle diverse popolazioni; ma le persone civili, colte,
letterate: non dico le parole che il servitore non intenderebbe; dico le cose
che il padrone non saprebbe come nominare. Quante cose, dico, e modificazioni e relazioni di cose, quanti accidenti giornalieri1, quante operazioni
abituali, quanti sentimenti comuni, inevitabili, quanti oggetti materiali, sia
dell’arte sia della natura, rimarrebbero senza nome! [...] Sapreste voi altri
stendere in termini italiani nel vostro senso, cioè comuni di fatto a tutta
l’Italia, l’inventario di ciò che avete nelle vostre case? Di grazia insegnatemi
il come, perchè io non lo conosco. L’aver noi in quelli che chiamate dialetti, altrettanti mezzi di soddisfare, non in comune, ma in diverse frazioni, i
bisogni del commercio sociale, è ciò che vi fa dimenticare questi bisogni, e
gli effetti corrispondenti delle lingue, quando parlate di lingua italiana; è
ciò che vi fa associare al nome di lingua, non l’idea universale e perpetua
d’un istrumento sociale, ma un concetto indeterminato e confuso d’un
non so che letterario.
(Scritti linguistici, a cura di A. Stella e L. Danzi, Mondadori 1990)
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FOSCOLO
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Ottocento
Forme e significati del neoclassicismo
Giulio Ferroni,
Neoclassicismo e incompiutezza nell’opera di Foscolo
Sul versante della poesia, dopo gli esperimenti giovanili, Foscolo pare invece cercare una sempre maggiore sublimazione del proprio egotismo,
vagheggiando una bellezza assoluta e superiore, da conquistarsi attraverso
la continuità con la tradizione classica. Il Neoclassicismo è per lui ricerca di
una poesia in cui le sue contraddizioni e le sue passioni possano trasporsi
su un piano ideale, nella luce di una bellezza in grado di resistere alla distruzione e alla vanità del mondo, di conservare la propria forza consolatrice. Inoltre non è trascurabile il fatto che, riattivando il rapporto con il
mondo classico, e in particolare con la cultura greca, Foscolo ha modo di
ricongiungersi alla sua terra d’origine alla madre greca.
Se si guarda all’opera foscoliana tenendo conto di questa corrispondenza tra vita e letteratura, si comprende subito come il carattere precario della sua esistenza si rifletta nell’instabilità e nell’apertura della sua vasta produzione: la sua figura di scrittore, se si escludono alcune liriche e i Sepolcri,
non si definisce mai in testi veramente compiuti e definitivi. [...]. Nessuna
opera di Foscolo è mai veramente finita: la sua è un’interminabile «opera
aperta», che coincide con la stessa provvisorietà della vita; essa è un inesausto accumularsi di temi, un proliferare ostinato di progetti e soluzioni diverse [...]. Tutto ciò esprime una insoddisfatta ricerca di assolutezza, che
induce lo scrittore a tornare ossessivamente sui propri testi. Il suo correggere riscrivere ha un duplice significato: se da un lato evidenzia il desiderio
inappagato di una perfezione classicistica, dall’altro è un modo per ribadire
l’instabilità esistenziale del poeta.
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(G. Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 1992)
Sviluppi del neoclassicismo
Questo movimento, delineatosi parallelamente all’intensificarsi delle ricerche archeologiche, può essere ricollegato ad atteggiamenti tipici del pensiero
illuminista, in particolare alla volontà di recuperare l’originaria semplicità
naturale tramite l’accostamento a quella che si configurava come una condizione iniziale della storia dell’umanità. Nato nell’ambito delle arti figurative,
il neoclassicismo intendeva proporre, contro i toni mossi e le irregolarità del
barocco, quei modelli di compostezza e armonia che allora sembrarono rintracciabili solo nell’arte antica. Il suo maggior teorico fu J.J. Winckelmann,
che propugnò un’arte fatta di equilibrio, di elegante precisione e di serenità,
esente da “dismisure” di stile e da espressioni di passionalità.
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Forme e significati del neoclassicismo
[...] Verso la fine del secolo le mutate condizioni politiche e sociali, con
l’avvento della borghesia, la rivoluzione francese e l’inizio, ricco di fermenti innovatori, della rivoluzione industriale in Inghilterra, portarono alla ribalta una nuova classe di committenti [...]. È in questo periodo che le
istanze del neoclassicismo si intrecciano con quelle del nascente romanticismo. favorendo il rovesciamento della prescrizione anti-passionale del movimento alle sue origini, l’interpretazione del modello antico come fonte di
animosi pensieri e sentimenti, e quello del mito come nostalgia di un tempo ricco di immaginazione e civilizzazione. La Roma repubblicana fu assunta a modello durante la risoluzione francese; la Roma imperiale, durante l’età napoleonica; mentre la civiltà greca restò l’esempio’ perfetto di armonico sviluppo della personalità umana.
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(La nuova enciclopedia dell’arte, Garzanti, Milano, 1986)
Antonio Canova, Grazie
Antonio Canova,
Grazie, Edimburgo,
National Gallery of
Scotland
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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Primo Ottocento
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Jacques-Louis David, Marat assassinato
Jacques-Louis David,
Marat assassinato
(1793), Musées Royaux
des Beaux Arts,
Bruxelles
Johan Joachim Winckelmann,
«Nobile semplicità e quieta grandezza»
In questo passo dei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura
(1754) Winckelmann, prendendo a modello la scultura greca, fissa alcuni princìpi di gusto
che fino ai primi decenni dell’Ottocento avranno il valore di veri e propri canoni per molti
artisti e teorici dell’arte e della letteratura.
(in Il bello nell’arte, a
cura di Pfister,
Einaudi, Torino,
1973)
Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto
agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata.
1
5
Friedrich Schiller,
La classicità come armonia perduta con la natura
Il saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, pubblicato da Schiller nel 1800, ebbe un’influenza decisiva nell’elaborazione delle teorie romantiche in Germania. La distinzione tra
«poesia ingenua» e «poesia sentimentale», che coincide in gran parte con “poesia degli antichi” e “poesia dei moderni”, dava una base sistematica e filosofica a un confronto che
sarà poi alla base delle idee divulgate in tutta Europa da August Wilhelm von Schlegel
(T20.24) e da M.me de Staël.
Quando ci si ricorda della bella natura che circondava gli antichi Greci,
quando si pensa con quale familiarità questo popolo vivesse con la libera
natura sotto il suo cielo felice, quanto più vicino alla pura natura fosse il
suo modo di rappresentare e quale fedele specchio di questo siano le sue
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Caspar David
Friedrich,
Tempio di Giunone
ad Agrigento,
Museum fur Kunst
und Kulturgeschichte,
Dortmund
Forme e significati del neoclassicismo
opere poetiche, deve stupirci l’osservazione che in un simile popolo si incontrano così scarse tracce dell’interesse sentimentale, che noi moderni nutriamo verso scene e caratteri naturali.
[...]
Da dove deriva dunque questo spirito diverso? Perché mai noi, che in
tutto ciò che è natura siamo superati in così infinita misura dagli antichi,
proprio noi possiamo renderle omaggio in misura superiore, possiamo
amarla intimamente, possiamo abbracciare persino il mondo inanimato
con il più caldo sentimento? Questa è la risposta: la natura è ormai scomparsa dall’umanità, e soltanto fuori di questa, nel mondo inanimato, nuovamente possiamo incontrarla nella sua verità. Non la nostra superiore
conformità alla natura, ma appunto l’opposizione alla natura dei nostri rapporti, delle nostre condizioni e dei nostri costumi ci spinge a cercare nel
mondo fisico un appagamento, impossibile nel mondo morale, dell’istinto
verso la verità e la semplicità, istinto che giace incorruttibile e incancellabile, come la disposizione morale da cui scaturisce, in tutti i cuori umani. Per
questo il sentimento che ci spinge ad amare la natura è così simile al sentimento con cui rimpiangiamo la perduta età dell’infanzia e dell’innocenza
infantile. Essendo la nostra infanzia la sola natura integra che ancora sia
possibile incontrare nell’umanità civilizzata, non c’è da stupirsi se ogni
traccia della natura al di fuori di noi ci riconduce alla nostra infanzia.
[...]
Il sentimento di cui qui si
parla non è dunque quello degli antichi: è piuttosto simile a quello che noi
nutriamo per gli antichi.
Essi sentivano in modo
naturale, noi sentiamo il
naturale. [...] Il nostro
sentimento per la natura è
simile a quello che il malato prova per la salute.
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(Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e
sentimentale, trad. dal tedesco di E.
FRanzini e W. Scotti, Mondadori,
Milano, 1995)
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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MANZONI
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Ottocento
I personaggi religiosi nei
Promessi sposi
Don Abbondio
Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.
Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure
non si sentisse inclinazione d’esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. […] Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno,
s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in
quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di
molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo
vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche
agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che
sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un
suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri
della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperarsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva
scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui,
dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e
il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a
prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io
mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le
loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a
quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a
forza d’inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un
sorriso, quando gl’incontrava per la strada, il pover’uomo era riuscito a passare i
sessant’anni, senza gran burrasche.
Fra Cristoforo
Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, seLa riproduzione di questa pagina tramite fotocopia è autorizzata ai soli fini dell’utilizzo nell’attività didattica degli alunni delle classi che hanno adottato il testo
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I personaggi religiosi nei Promessi Sposi
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condo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che
lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento,
faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che
tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta
sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano
da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure
fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.
La monaca di Monza
Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due
parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino
cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza;
un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma
quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora
due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri
neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea
d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una
svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero
nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli
oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e
grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro
moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono
del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e
là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia
una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo
della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati,
nella cerimonia solenne del vestimento.
Il cardinale
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che
abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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Primo Ottocento
23
vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla
roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni,
va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a
quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’
piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o
non sentite ne’ cuori, vengono trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser
vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione
in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di
prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che
la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma
per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa. […] In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del
tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se non quanto fosse strettamente
necessario. Diceva, come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri.
Vittorio Spinazzola, Le «due schiere» dei personaggi
Man mano che i personaggi si avvicendano sul palcoscenico ove ha luogo
la sacra rappresentazione romanzesca, li vediamo ordinarsi in due schiere.
Non è la nobiltà di sangue, non sono le ricchezze né tanto meno le doti intellettuali a distinguerli, ma l’atteggiamento osservato nei confronti del patrimonio di verità elementari di cui Dio ha arricchito ogni cuore. Così la
schiera di destra è guidata da una popolana di genuina, incrollabile fede,
Lucia, il cui rifiuto al patteggiamento e al compromesso morale appare
tanto più esaltante in quanto discende non da un diniego del mondo ma al
contrario dalla volontà di riaffermarvi a pieno diritto la sua presenza. Accanto a lei, ma già un poco indietro, il suo impetuoso Renzo; e un principe
della Chiesa, Federigo Borromeo; due peccatori pentiti, il borghese fra
Cristoforo, l’aristocratico Innominato [...]. Parimenti, nella schiera di sinistra troviamo ignobili scherani e famosi guerrieri, illetterati e intellettuali,
meschini faccendieri e gran politicanti; davanti a tutti procede quel sordido nemico dell’amor cristiano che è il prete don Abbondio. La decisione,
di sfuggire ogni rischio di pericolo fisico lo induce a separarsi totalmente
dalla socialità: ma chi rinnega l’attiva comunione tra l’io e gli altri finisce
per distruggere la sua stessa personalità, di cui avrebbe voluto preservare
l’autonomia.
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(V. Spinazzola, Introduzione, in I promessi sposi, Garzanti, Milano, 1980)
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I personaggi religiosi nei Promessi Sposi
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Remo Ceserani, Lidia de Federicis, La funzione della chiesa
Attraverso il prestigio morale e la forza ideale dei grandi princìpi evangelici, la chiesa può appoggiare la formazione della nuova società ispirandola a
criteri di giustizia e fratellanza, rendendo più umano e democratico il potere. Ma nel contempo essa si assume il compito di educare le classi subalterne al rifiuto dell’azione violenta nei rispetto di un governo illuminato e
nella fiducia verso la Provvidenza.
Per questi motivi la religione trionfante nei Promessi sposi non è quella
ufficiale che ha legato storicamente la sua fortuna alle vecchie classi dominanti. E invece la religione attiva e rivolta al popolo di padre Cristoforo e
del cardinale Borromeo che si contrappone alla viltà di don Abbondio, alla
debolezza di Gertrude e alla forza controriformistica e reazionaria dei gesuiti. È sintomatico infatti che, rappresentando il secolo dominato dalla
Compagnia di Gesù, Manzoni abbia fatto di un cappuccino, e non di un
gesuita, l’eroe di un cristianesimo non disarmato, combattivo, rispondente
agli ideali del suo proprio cattolicesimo liberale.
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(R. Ceserani, L. de Federicis, Il materiale e l’immaginario, 4,
Società e cultura della borghesia in ascesa, Loescher, Torino, 1993)
Franco Fido, Analogie e opposizioni tra i personaggi religiosi
A parte qualche ovvia analogia nel fisico e nel carattere (gli occhi, l’indole
focosa), Cristoforo e Gertrude hanno in comune il fatto d’essere entrati in
religione attraverso una crisi dolorosa, cioè in seguito a circostanze avverse
alle quali essi hanno reagito con imprudenza, mettendosi in una situazione
che limita fortemente la loro libertà dì scelta (…): ma nel caso di Lodovico
il sangue sparso e la pace del convento provocheranno il manifestarsi di
una vocazione vera e ardente; nel caso di Gertrude la totale mancanza di
vocazione e la frustrazione del chiostro porteranno la monaca a farsi complice di un omicidio.
Diverso è il caso dei due preti secolari, don Abbondio e il cardinale. Entrambi si sono destinati al sacerdozio fin dall’infanzia, uno per obbedienza ai
parenti e per la speranza di «procacciarsi di che vivere con qualche agio, e
mettersi in una classe riverita e forte»; l’altro per eseguire il progetto concepito da fanciullo di render la sua vita «utile e santa», e mettendo ogni studio a
schivare i vantaggi che la sua condizione «gli avrebbe potuto procurare».
L’opposizione fra questi due «pastori d’anime » di professione, il parroco inferiore al suo compito e il cardinale pari al suo fino alla santità è anche più
forte di quella tra fra Cristoforo e Gertrude: e sono proprio don Abbondio e
Federigo Borromeo gli unici personaggi religiosi importanti che Manzoni
mette a confronto nel memorabile colloquio dei capitoli XXV e XXVI.
Così, oltre ad assolvere una loro precisa funzione dì mediatori tra le vittime e i potenti, i quattro maggiori «chierici» del romanzo illustrano vari
aspetti di uno stesso tema, il tema solenne della vocazione religiosa e della
milizia cristiana.
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(F. Fido, Per una descrizione dei Promessi sposi: il sistema dei personaggi,
in La metamorfosi del Centauro
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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LEOPARDI
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Ottocento
Concezioni romantiche della natura
Pierre-Simon de Laplace, La concezione deterministica
Il matematico Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) fu, tra i pensatori illuministi, il più radicale assertore della concezione deterministica dell’universo. Il passo che segue è tratto
dal Saggio filosofico sulle probabilità (1814).
1. l’avvenire... occhi:
se tutti i fenomeni sono regolati da cause
necessarie, una volta
conosciuto in tutti i
dettagli uno stato dell’universo sarebbe possibile da questo risalire
agli stati anteriori o
discendere a quelli posteriori, senza limiti.
2. espressioni analitiche: le formule in
cui si sintetizzano le
leggi fisiche.
Dobbiamo dunque raffigurarci lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore, e come la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che per un dato istante conoscesse tutte le forze da cui la natura è
animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se d’altra
parte fosse così vasta da sottoporre questi dati all’analisi, abbraccerebbe in
un’unica e medesima formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del più lieve atomo: niente sarebbe incerto per essa, e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi1. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo procurare alla Astronomia, una pallida
immagine di questa intelligenza. Le sue scoperte in Meccanica ed in
Geometria, aggiunte a quella della gravitazione universale, l’hanno messo
in grado di includere nelle medesime espressioni analitiche2 gli stati passati
e futuri del sistema del mondo. Applicando il medesimo metodo ad altri
oggetti delle sue conoscenze, esso è riuscito a ricondurre sotto leggi generali i fenomeni osservati, ed a prevedere quelli che date circostanze debbono
far nascere. Tutti gli sforzi nella ricerca della verità tendono incessantemente a ravvicinarlo alla intelligenza da noi poco fa immaginata, ma da cui sarà
sempre infinitamente lontano. Questa tendenza propria del genere umano
è quella che lo rende superiore agli animali, e i suoi progressi in questo
campo distinguono le nazioni e i secoli e ne costituiscono la vera gloria.
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10
15
(Saggio filosofico sulle probabilità, trad. dal francese di S. Oliva, Laterza, Bari, 1951)
Giacomo Leopardi, dal Dialogo della Natura e di un Islandese
In una notissima operetta morale, all’Islandese che lamenta le sofferenze a cui lo ha condannato l’inclemenza degli elementi, la Natura riponde:
1. nelle fatture...
mie: nel mio modo di
creare, ordinare, operare.
2. trattone: eccettuate.
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?
Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie1, trattone2 pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque
modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime
volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so;
e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali
azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di
estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
NATURA
1
5
(In Tutte le opere, a cura di W. Binni, con la collaborazione di E.Ghidetti, Sansoni, Firenze, 1969)
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81. che... confina:
confina col cielo al
lontano giro dell’orizzonte.
83. seguirmi...
mano: mentre mi segui passo a passo con
il mio gregge.
86. a che tante facelle?: perché tante piccole luci?
90. meco ragiono:
parlo con me stesso.
90-98. e della stanza... non so: e non
riesco a indovinare
alcuna utilità, alcuno
scopo dell’universo,
sconfinata e superba
sede (stanza) dell’uomo, dell’innumerevole stirpe (famiglia)
degli esseri viventi;
quindi di tanto affaccendarsi (adoprar) di
tutte le cose che stanno sulla terra e nel
cielo, che girano senza sosta per poi tornare sempre al punto da
cui sono partite.
101-104. che degli
eterni... male: che
dall’eterno movimento delle stelle, dalla
mia fragile vita, forse
qualcun altro ricaverà
qualche vantaggio
(bene) o soddisfazione
(contento); per me la
vita è un male.
Concezioni romantiche della natura
113
Giacomo Leopardi,
dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Come è noto, l’immaginario pastore errante dell’Asia di Leopardi rivolge il suo canto notturno alla luna.
80
85
90
95
100
Spesso quand’io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.
(Giacomo Leopardi, da Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia, vv. 79-104, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, con la
collaborazione di E. Ghidetti, Sansoni, Firenze, 1969)
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Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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Primo Ottocento
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Friedrich Schelling, L’odissea dello spirito
Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), il filosofo tedesco, ripercorrendo tutte
le manifestazioni della vita dello spirito, riconosce in esse la presenza di un disegno identico a quello che anima la natura, e pone alla base di tutta la realtà una identità assoluta di
spirito e natura.
(in La filosofia della
storia da Herder a
Hegel, trad. dal tedesco di M. Mori,
Loescher, Torino,
1969)
Ciò che noi chiamiamo natura, è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e
mirabili1. Ma se l’enigma si potesse svelare, noi vi conosceremmo l’odissea
dello spirito, il quale, per mirabile illusione, cercando sé stesso, fugge sé
stesso2; poiché si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso
attraverso le parole, solo come, attraverso una nebbia sottile, quella terra
della fantasia, alla quale miriamo. Ogni splendido quadro nasce quasi per
il fatto, che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale
dall’ideale, e non è se non l’apertura, attraverso la quale appaiono nel loro
pieno rilievo le forme e le regioni di quel mondo della fantasia, il quale traluce solo imperfettamente attraverso quello reale3.
1. Ciò che... mirabili:
la natura racchiude in
modo simbolico e misterioso una verità superiore.
2. l’odissea... stesso:
il processo travagliato
(odissea) dello spirito
che cercando sé stesso
crea la natura (fugge sé
stesso).
3. Ogni... reale: ciò
che rende artistico
un quadro è la sua
capacità di esprimere
un contenuto spirituale (ideale) attraverso una rappresen-
Due strofe da una delle grandi odi di Shelley, scritta nel 1819.
I
5
10
9. la tua azzurra...
Primavera: la brezza
primaverile.
28-29. solo... di te: le
cose trasportate dal
vento, con cui il poeta si vorrebbe identificare, sono soggette
alla sua forza.
O selvaggio Vento Occidentale, tu respiro dell’Autunno,
tu, dalla cui invisibile presenza le foglie morte
sono cacciate, come spettri che fuggano da un incantatore,
gialle, e nere, e pallide, e rosse come per febbre,
moltitudini battute dalla pestilenza: o tu,
che conduci al loro oscuro letto invernale
i semi alati, dov’essi giacciono freddi e bassi,
ciascuno come un cadavere entro la sua tomba, finché
la tua azzurra sorella della Primavera soffierà
la sua tromba sopra la sognante terra, ed empirà
(cacciando dolci gemme come greggi a pascolare nell’aria)
di vive tinte e odori il piano e il colle:
selvaggio Spirito, che ti muovi per ogni dove;
distruttore e conservatore; odi, oh, odi!
IV
15
S’io fossi una morta foglia che tu potessi portare;
s’io fossi una veloce nuvola per volare con te;
un’onda per ansare sotto la tua potenza, e aver parte
nell’impulso della tua forza, solo men libera
di te, o infrenabile! se almeno
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5
10
tazione del mondo
reale, facendo cadere
la muraglia invisibile
che li separa.
Percy Bisshe Shelley, Ode al vento occidentale
(Percy Bisshe Shelley,
Poesie, trad. dall’inglese di R. Picchi,
Vallecchi, Firenze,
1925)
1
20
25
Concezioni romantiche della natura
115
io fossi come nella mia fanciullezza, e potessi essere
il camerata dei tuoi errori per il Cielo,
come allora, quando il vincere la tua celeste rapidità
appena pareva una fantasia; io non avrei mai lottato
così con te in preghiera nel mio duro bisogno.
Oh, innalzami come un’onda, una foglia, una nuvola!
io cado sopra le spine della vita! io sanguino!
Un grave peso d’ore ha incatenato e piegato
un che t’è troppo simile: indomito, e rapido, e orgoglioso.
21. il camerata...
Cielo: compagno nel
tuo vagare (errori) per
il cielo.
22-23. quando...
fantasia: il poeta fanciullo fantasticava di
gareggiare col vento
in velocità.
23-24. io non avrei...
bisogno: se fossi una
foglia, una nuvola,
un’onda non avrei dovuto lottare nella pre-
ghiera al vento per
soddisfare il duro bisogno di immergermi
nelle forze della
natura.
27-28. Un grave...
orgoglioso: il poeta si
sente simile al vento,
ma incatenato a terra
dal tempo, dalla vita
materiale (grave peso
d’ore).
Joseph Mallord William Turner,
Ghiacciaio e sorgente dell’Arveron
Joseph Mallord William Turner
Ghiacciao e sorgente
dell’Arveron, 1803,
acquerello, Yale Center for
British Art, Paul Mellon
Collection
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24
Primo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
122
Prova a risposta chiusa B
VOL. E
Primo Ottocento
1. Segna le lettere riferite alle opere elencate accanto alla data della loro
composizione o pubblicazione:
a) Edizione definitiva dei Promessi sposi
b) Lettera di M.me de Staël Sull’utilità delle traduzioni
c) Monti, Bassvilliana
d) Nievo finisce di scrivere Le confessioni di un italiano
e) Foscolo, Dei sepolcri
1793
1807
.........................
.........................
1816
1831
.........................
.........................
1840
1858
.........................
.........................
2. Metti in ordine cronologico le seguenti poesie di Leopardi:
a) ciclo di Aspasia, b) La ginestra, c) primi idilli, d) A Silvia
..............................................................................................................................................................................................................................................................................................
..........................................................................................................................................................................................................................................................................................
3. Tra i seguenti autori, segna quelli che scrissero romanzi.
Belli
씰 Berchet
씰 Foscolo
씰 Manzoni
씰 Nievo
씰 Pellico
씰
q
q
q
q
q
q
4. Segna la risposta corretta.
In quale delle seguenti opere sono usati gli endecasillabi sciolti?
씰 Inni sacri di Manzoni
q
씰 La ginestra di Leopardi
q
씰 Le fantasie di Berchet
q
씰 Dei sepolcri di Foscolo
q
5. Attribuisci alle poetiche classiciste o a quelle romantiche i seguenti
elementi:
a) apertura alle letterature europee
b) mescolanza degli stili e dei generi letterari
c) imitazione di modelli e rispetto di canoni
d) interesse per il genere romanzo
e) uso della mitologia
poetiche classiciste ....................................................................................................................................
poetiche romantiche .............................................................................................................................
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123
6. La questione della lingua. Attribuisci la seguente citazione:
a un purista
a uno scrittore del “Conciliatore”
씰 a Manzoni
씰
씰
q
q
q
«Ora io dico: quello essere appunto l’aureo secolo della lingua toscana [il Trecento],
dal quale è bisogno ritrarre [attingere le forme linguistiche], chi vuole aver fama di
buon dicitore: così almeno ne pare a me, e tanto sarà la corrente lingua italiana o
buona o sconcia, quanto più o meno allo scrivere di quel secolo si rassomigli.»
7. Segna la risposta corretta. Da un saggio di Carlo Tenca del 1846:
«Oggidì gli editori ed i libraj hanno usurpato in Italia il monopolio delle pubblicazioni letterarie. [...] La ciarlataneria ha preso il posto del sapere; e s’è eretta officina di libri, come c’è officina d’ogni arte manuale. Il commercio librario ingoja
coll’usura dei proventi, dei ribassi, dei cambi [i profitti, gli sconti concessi ai librai,
le rese dei libri invenduti] tutto il guadagno che dà il libro; e d’altra parte l’industria degli editori, accaparrando tutte le vie della pubblicità è funesta concorrenza
al sorgere delle buone opere.»
Questo passo testimonia cambiamenti avvenuti
Italia. I cambiamenti consistono in
씰 affermazione del letterato cortigiano
씰 ruolo accresciuto dell’industria editoriale
씰 maggiore importanza del lavoro manuale
씰 rapporto diretto tra l’autore e il suo pubblico
nella condizione del letterato in
q
q
q
q
8. Attribuisci ciascun brano poetico a uno dei seguenti autori: Berchet,
Foscolo, Leopardi, Manzoni.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lúgubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni.
b) Chi è quel greco che guarda e sospira,
là seduto nel basso del lido?
par che fissi rimpetto a Corcira
qualche terra lontana nel mar.
Chi è la donna che mette uno strido
in vederlo una ròcca additar?
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.
d) È risorto: or come a morte
la sua preda fu ritolta?
Come ha vinte l’atre porte,
come è salvo un’altra volta
quel che giacque in forza altrui?
Io lo giuro per Colui
che da’ morti il suscitò.
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20-24
Primo Ottocento
Prova a risposta chiusa B
124
Primo Ottocento
20-24
9. Attribuisci ciascun brano a una delle seguenti opere:
Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis
Leopardi, Operette morali
씰 Manzoni, I promessi sposi
씰 Nievo, Le Confessioni d’un Italiano
씰
씰
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il b) Francia aveva decapitato un re e abolito la
primo chiamato, in linea di successione,
monarchia: il muggito interno del vulcano
Carlo Gonzaga, capo d’un ramo cadetto traannunziava prossima un’eruzione: tutti i vecpiantato in Francia, dove possedeva i ducati
chi governi si guardavano spaventati, e avvendi Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso
tavano a precipizio i loro eserciti per sopire
di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferl’incendio nel suo nascere: non combattevano
rato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lapiù a vendetta del sangue reale ma a propria
sciar nella penna.
salute.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Perdona; ti credeva più savio. – Il genere d) Figliuola mia; tutte le anime degli uomini,
umano è questo branco di ciechi che tu vedi
come io ti diceva, sono assegnate in preda alurtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o stral’infelicità, senza mia colpa. Ma nell’universascinarsi dietro la inesorabile fatalità. A che
le miseria della condizione umana, e nell’infidunque seguire, o temere ciò che ti deve sucnita vanità di ogni suo diletto e vantaggio, la
cedere?
gloria è giudicata dalla miglior parte degli uomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e il più degno oggetto che questi possano
proporre alle cure e alle azioni loro.
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125
10. In questo brano sul pensiero di Leopardi, inserisci negli spazi vuoti i
termini riportati sotto:
ascetica, illusioni, noia, razionalismo, Restaurazione, società, storico,
superstizioni.
Il cosiddetto “pessimismo
” di questa prima fase non
...............................................................................
è, a rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema. È piuttosto vivissima insofferenza dell’atmosfera stagnante dell’Italia e
dell’Europa della ..............................................................................., vagheggiamento di una ..................................
...........................................
repubblicana, libera da
...............................................................................
mortificanti e
da ascetismo ma anche da eccessi di ............................................................................... e di raffinatezza,
capace di vivere una vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnanime
. La propria infelicità individuale è considerata, alme-
...............................................................................
no prevalentemente, dal Leopardi come un caso-limite dell’infelicità della società
italiana del suo tempo, condannata all’inattività e alla ...............................................................................
[...], fisicamente decaduta per colpa di un’educazione ...............................................................................
che tende a comprimere ogni impulso vitale.
(S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, 1965)
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20-24
Primo Ottocento
Prova a risposta chiusa B
126
IL CONTESTO
Saggio breve
o articolo di giornale
Secondo Ottocento
Alle origini del razzismo
Friedrich Nietzsche, Che cos’è aristocratico?
Che cos’è aristocratico? è intitolato l’ultimo capitolo della raccolta di frammenti Al di là del
bene e del male (1886).
1. antiche civiltà...
pervertimento: civiltà antiche in decadenza (marcescenti: in
via di marcire), le cui
ultime energie si
esprimevano in manifestazioni brillanti
(rutilanti) di intelligenza e di corruzione.
Ogni elevazione del tipo «uomo» è stata, fino a oggi, opera di una società
aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che
crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra
uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. [...] Indubbiamente, per quanto riguarda la storia delle origini di una società aristocratica (il presupposto, dunque, di quell’innalzamento del tipo «uomo»), non ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanitaria: la verità è
dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è
cominciata sulla terra! Uomini con un’indole ancora naturale, barbari in
ogni terribile significato della parola, uomini da preda ancora in possesso
di non infrante energie volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze
più deboli, più ben costumate, più pacifiche, forse dedite al commercio o
alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l’ultima forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d’intelligenza e di pervertimento1. La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta
barbarica: la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica,
ma in quella psichica, – erano gli uomini più interi (la qual cosa significa
anche lo stesso che «bestia più intera»).
1
5
10
15
(Al di là del bene e del male, trad. dal tedesco di F. Masini, Adelphi, Milano, 1993)
Rudyard Kipling, Il fardello del Bianco
Rudyard Kipling (1865-1936) fu il canore del colonialismo britannico. Questa poesia porta
il sottotitolo «Gli Stati Uniti e le isole Filippine»; fu composta in occasione della cessione
delle Filippine dalla Spagna agli USA dopo la guerra di Cuba (1898), per esaltare la missione civilizzatrice dei popoli bianchi nelle colonie.
(I capolavori di
Rudyard Kipling,
Mursia, Milano,
1966)
5
1. il fardello: il carico, il gravoso compito.
5. in pesante assetto:
con un ordine gravoso da imporre e da
subire.
Addossatevi il fardello del Bianco –
mandate i migliori della vostra razza –
andate, costringete i vostri figli all’esilio
per servire ai bisogni dei sottoposti,
per custodire in pesante assetto
gente irrequieta e sfrenata –
popoli truci, da poco soggetti,
mezzo demoni e mezzo bambini.
[...]
Addossatevi il fardello del Bianco –
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Saggio breve o articolo di giornale
10. le crudeli... pace:
le guerre condotte
con crudeltà per “pacificare” le regioni
non ancora soggette.
11. riempite... Carestia: fate cessare le
carestie, nutrendo in
abbondanza.
13. quando... vicina:
quando state per raggiungere questo scopo umanitario.
15. l’Ignavia... pagana: la pigrizia e la follia proprie dei “selvaggi” pagani.
21. non vociferate...
Libertà: gli americani, con la loro tradizione democratica,
potrebbero essere tentati di parlare agli in-
15
20
le crudeli guerre della pace –
riempite la bocca della Carestia
e fate cessare la malattia;
e quando più la meta è vicina,
il fine per altri perseguito,
osservate l’Ignavia e la Follia pagana
ridurre al nulla tutta la vostra speranza.
[...]
Addossatevi il fardello del Bianco –
non osate piegarvi a un compito inferiore –
e non vociferate troppo di Libertà
per mascherare la vostra stanchezza;
da tutto ciò che gridate o mormorate,
da tutto ciò che fate o tralasciate,
i popoli truci e silenziosi
peseranno voi e i vostri Dèi.
digeni di Libertà; ma
sarebbe solo un segno
di mascherata stanchezza di fronte ai
propri compiti di governo.
23. truci e silenziosi:
chiusi in un silenzio
minaccioso. È l’impressione che può
aver l’europeo che
non comprende una
25
Secondo Ottocento
10
127
Alle origini del razzismo
cultura diversa.
24. peseranno... Dèi:
giudicheranno voi e i
vostri ideali.
Alfredo Oriani, La guerra d’Africa
Alfredo Oriani (1852-1909), romanziere, fu noto per i saggi politici, ispirati a un deciso nazionalismo, per i quali fu considerato un precursore del fascismo. Il libro da cui è tratto questo brano, Fino a Dogali (1889), conteneva un’analisi dei primi passi della politica coloniale italiana, che ebbero una battuta d’arresto dopo la disfatta subita contro le truppe etiopiche a Dogali in Eritrea (1887).
La redenzione dell’Africa non è già quella degli africani attuali, ma la sostituzione di una più alta vita alla loro: chè se essi non possono raggiungerla,
hanno vissuto fin troppo vivendo inutilmente.
[...] La razza bianca disputa il terreno alle razze inferiori chiamandole
alla propria civiltà: quelle che non rispondono sono condannate, quelle
che resistono saranno distrutte.
L’Italia, stata due volte il centro del mondo e risorta oggi nazione, non
può sottrarsi a quest’opera d’incivilimento universale, di cui le tragedie, per
essere inevitabili, diventano incolpevoli1. La storia segue la stessa morale e
lo stesso diritto della natura nel trionfo della forma più perfetta e dell’idea
più alta2, e poiché vincitori e vinti saranno pareggiati dalla stessa morte, la
disparità del loro trattamento scompare nella idealità conquistata3.
1
5
10
(In Gli eroi, gli eventi, le idee. Pagine scelte, Cappelli, Bologna, 1928)
1. per essere... incolpevoli: avvengono
senza colpa perché
sono inevitabili.
2. La storia... più
alta: la morale e il
diritto che regolano la
storia sono le stesse
che in natura regolano l’evoluzione delle
specie, dove attraverso la lotta per la vita
si affermano le forme
di vita più perfette;
allo stesso modo nella
storia si affermano le
idee più alte.
3 e poiché... conquistata: forse vuol dire
che tutte le civiltà sono destinate a scomparire (stessa morte),
per cui l’ingiustizia
nei loro rapporti (di-
sparità del loro trattamento) scompare vista
da lontano, nella luce
del progresso storico
(idealità conquistata).
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128
Secondo Ottocento
25
Remigio Zena, Nigra nox
Questa poesia di Remigio Zena (1850-1917), intitolata “Notte nera”, in latino, fa parte di
un gruppo incluso in Le Pellegrine (1894), che costituiscono una specie di cronaca poetica
del soggiorno dell’autore a Massaua ai primi tempi dell’occupazione italiana in Eritrea.
1. Taulud: una delle
due isole costiere che
costituiscono il centro abitato di
Massaua.
2. carbonizzati: neri
come il carbone.
3. viri: uomini (latinismo).
4. selvatico lezzo:
puzzo di bestia selvatica.
5
10
15
Si va tutte le sere
girellando a Taulud1.
[...]
Negri carbonizzati2,
per qual gusto o pazzia,
in terra addormentati
ci sbarrate la via?
Femmine, infanti, viri3
accatastati insieme,
confondono i sospiri
e la carne che geme.
[...]
Ma da tanta che giace
carne in vili riposi,
si sviluppa e ci assale
il selvatico lezzo4
dell’immondo animale,
e un immenso ribrezzo.
Houston S. Chamberlain, La differenza delle razze
Il libro da cui è tratto questo passo, Le basi del XIX secolo (1899) ebbe enorme successo:
fu tradotto in inglese e in francese, e in Germania se ne vendettero 100000 copie in meno di quindici anni, nonostante fosse un ponderoso trattato in due volumi. Attraverso l’analisi della storia europea, l’opera mira a dare un fondamento pseudoscientifico al razzismo,
all’antisemitismo e alla pretesa superiorità della “razza” germanica.
1. popolo... influente: gli ebrei, popolo
di minima consistenza numerica ma di
straordinaria influenza sulla civiltà. L’idea
di una misteriosa potenza, associata al disprezzo, è alla base
dell’antisemitismo
moderno.
2. anime di schiavi...
etnico: anime di
schiavi sono coloro
che sostengono l’uguaglianza degli uomini, che va a vantaggio degli oppressi (l’espressione morale da
schiavi è di
Nietzsche); il caos etnico è la mescolanza
All’espansione di questo popolo infinitesimale e così prodigiosamente influente1, c’è una contropartita: l’avvento dei Germani nella storia universale. Anche questo fenomeno ci istruirà su ciò che bisogna intendere per purezza della razza; ma impareremo in più, studiandolo, che cosa significa la
differenza delle razze – questo grande principio naturale della varietà e dell’ineguaglianza delle attitudini, che oggi è negato da tanti chiacchieroni insulsi e ciarlatani. Compiangiamo queste anime di schiavi, discendenti dal
caos etnico2 e tormentate dalla nostalgia di questa pappa amorfa3 dove non
emerge né carattere né individualità. Ebrei e Germani – queste sono ancora le due potenze che si ergono l’una in faccia all’altra, dovunque un ritorno offensivo del caos non abbia cancellato i loro tratti: a volte amiche, a
volte nemiche, straniere sempre.
1
5
10
(La génèse du XIX siècle, Payot, Paris, 1913;
trad. dal francese di A. Colombo)
delle razze prodottasi
in Europa nel corso
delle sue vicende storiche.
3. questa pappa
amorfa: la mescolan-
za informe delle etnie.
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Alle origini del razzismo
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25
Émile Zola, Per gli Ebrei
Émile Zola, il caposcuola del romanzo naturalista, si impegnò in una vigorosa campagna
giornalistica nel corso dell’”affare Dreyfus”, che scosse la Francia nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Il capitano Dreyfus, ebreo, era stato ingiustamente accusato di spionaggio, condannato e deportato a vita nella colonia penale dell’Isola del Diavolo. La difesa della sua innocenza si associò alla lotta contro l’antisemitismo che ispirava i suoi accusatori. L’articolo
che riproduciamo in parte apparve sul “Figaro” nel 1896, dopo la prima condanna di Dreyfus, mentre infuriava la campagna antisemita.
Da alcuni anni, seguo con crescenti sorpresa e disgusto la campagna che si
cerca di fare in Francia contro gli Ebrei. Mi ha l’aria di una mostruosità,
voglio dire qualcosa di estraneo a qualsiasi buon senso, qualsiasi verità,
qualsiasi giustizia; qualcosa di stupido e cieco che ci può riportare indietro
di secoli, qualcosa che può risolversi nella peggiore infamia; una persecuzione religiosa tale da insanguinare tutte le patrie.
E lo voglio dire.
Per cominciare, che accusa si monta contro gli Ebrei, che cosa si rimprovera loro?
Certe persone, anche amici miei, dicono che non li possono soffrire,
non possono toccare la loro mano senza sentire sulla pelle un fremito di ripugnanza. È l’orrore fisico, la ripulsione di una razza per l’altra, del bianco
per il giallo, del rosso per il nero. Non voglio indagare se questa ripugnanza non abbia a che fare con l’antica ira del cristiano contro l’Ebreo che ha
crocifisso il suo Dio, tutto un atavismo secolare di disprezzo e di vendetta.
Insomma, l’orrore fisico è una buona ragione, perché non c’è nulla da rispondere a quelli che vi dicono: «Li odio perché li odio, perché la sola vista
del loro naso mi manda in bestia, perché tutta la mia carne si ribella nel
sentirli diversi e contrari».
Ma in verità, questo motivo dell’ostilità tra razza e razza non è sufficiente. Allora ritorniamo in fondo ai boschi, ricominciamo la barbara guerra
tra specie e specie, divoriamoci perché non gridiamo nello stesso modo e
perché abbiamo il pelo diverso. Lo sforzo delle civiltà è proprio quello di
cancellare questo bisogno selvaggio di aggredire il proprio simile, quando
non è simile del tutto. Lungo i secoli, la storia dei popoli non è che una lezione di reciproca tolleranza, tanto che il sogno finale sarà di ricondurre
tutti alla fratellanza universale, avvolgerli tutti in un comune amore, per liberare tutti il più possibile dal comune dolore. E nella nostra epoca, odiarsi e mordersi perché non si ha il cranio esattamente identico comincia a essere la più mostruosa delle follie.
1
5
10
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30
(In L’affaire Dreyfus. La vérité en marche, Garnicr-Flammarion, Paris, 1969;
trad. dal francese di A. Colombo)
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Secondo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
130
GENERI
Saggio breve
o articolo di giornale
Secondo Ottocento
Naturalismo e simbolismo: il mercato,
il pubblico, la funzione dell’arte
Stéphane Mallarmé, La commercializzazione come degradazione
È un brano tratto da un articolo scritto da Mallarmé nel 1862, all’età di vent’anni. In età matura il poeta rinnegherà il tono aggressivo e impetuoso delle argomentazioni, ma si manterrà fedele a un’idea rara e aristocratica dell’arte, alla quale ispirerà tutta la sua vita.
(Eresie artistiche: l’arte
per tutti, trad. dal
francese di R. Mucci,
in Tutte le poesie e prose scelte, a cura di L.
De Nardis, Guanda,
Parma, 1966)
1. arcani: misteri.
2. senza mistero...
nemico: a differenza
dalle altre arti, la poesia è alla portata di
tutti, non è circondata dal mistero.
3. Les Fleurs du
Mal: la raccolta delle
poesie di Baudelaire,
considerato da
Mallarmé il suo maestro.
4. con caratteri... utilitario: i caratteri da
Ogni cosa sacra e che sacra vuol conservarsi s’avvolge di mistero. Le religioni si trincerano dietro arcani1 svelati al solo predestinato: l’arte ha i suoi.
[...]
Ho sovente domandato perché tal carattere necessario sia stato rifiutato
ad una sola arte, alla più grande. Questa è senza mistero di fronte alle curiosità ipocrite, senza terrore di fronte alle empietà, o sotto il sorriso o la
smorfia dell’ignorante e del nemico2.
Parlo della poesia. Les Fleurs du Mal 3, ad esempio, sono stampate con
caratteri il cui sboccio fa fiorire ad ogni aurora le ajuole d’un lungo discorso utilitario4, e vendonsi nei libri bianchi e neri5, identicamente eguali a
quelli che spacciano prosa del visconte du Terrail6 o versi del Sig.
Legouvé7.
Così i primi venuti entrano senza ostacoli in un capolavoro, e da quando esiston poeti, non sono state inventate, per l’allontanamento di tali importuni, una lingua immacolata, formule jeratiche8 l’arido studio delle
quali abbagli il profano e punga il paziente fatale9; e questi intrusi presentano a mo’ di biglietto d’ingresso una pagina dell’alfabeto che hanno appreso a leggere!
[...]
Stimo un filosofo che ambisca alla popolarità [...]. Ma che un poeta, un
adoratore del bello inaccessibile al volgare10, non sia pago dei suffragi del
sinedrio11 dell’arte, questo m’irrita, e non lo comprendo. L’uomo può essere democratico: l’artista deve, sdoppiandosi12, rimanere aristocratico.
stampa sono paragonati a fiori che, sbocciando ogni mattina all’apertura delle librerie,
sono comprati e venduti, sottoponendo la
poesia alle regole utilitarie del mercato.
5. bianchi e neri: a
differenza dei codici
manoscritti di un
tempo, colorati, rari e
preziosi.
6. visconte du Ter-
rail: Pierre-Alexis
Ponson du Terrail
(1829-1871), inventore del personaggio
di Rocambole, protagonista di romanzi
d’appendice di grandissimo successo
presso il pubblico di
massa.
7. Sig. Legouvé:
Gabriel Legouvé
(1764-1812), autore
di mediocri tragedie
classiciste.
8. jeratiche: sacre,
solenni.
9. punga... fatale:
punisca chi si sia sottoposto, a suo danno
(paziente fatale), all’arido studio che
dovrebbe preservare
la poesia dal contatto
coi profani.
10. al volgare: alla
gente del popolo.
11. sinedrio: la paro-
5
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20
la designa il supremo
organo legislativo e
giudiziario degli antichi Ebrei. Qui si riferisce alla ristretta aristocrazia spirituale
che secondo Mallarmé ha il diritto di
emettere un giudizio
sulle cose dell’arte.
12. sdoppiandosi:
perché, come uomo,
può essere democratico.
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Naturalismo e simbolismo: il mercato,
il pubblico, la funzione dell’arte
131
26
Emile Zola, La commercializzazione come democratizzazione
Il romanzo sperimentale (1880) di Émile Zola è una raccolta di scritti teorici a sostegno della
narrativa naturalista. Il brano che riportiamo è tratto da uno studio sui rapporti tra il mercato
editoriale e la letteratura, nel quale Zola mette a confronto le condizioni economiche dei letterati del Seicento e del Settecento con quella degli scrittori contemporanei.
(Il romanzo sperimentale, trad. dal francese
di I. Zaffagnini,
Pratiche editrice,
Parma, 1980)
1. dell’Accademia:
l’Académie française,
venerabile istituzione
che raccoglie i letterati più illustri. Qui è
sinonimo di gruppo
ristretto e autorevole,
che condiziona la letteratura in senso tradizionalista.
2. cricche: piccoli
gruppi di privilegiati
che si aiutano tra loro: si riferisce ai salotti e all’Accademia citati prima.
Consideriamo ora la condizione materiale dello scrittore ai nostri giorni.
La Rivoluzione ha spazzato via i privilegi, trascinando con sé come un fulmine la gerarchia ed il rispetto. Nel nuovo Stato, lo scrittore è certamente
uno dei cittadini la cui situazione è mutata più radicalmente.
[...]
Innanzitutto si diffonde l’istruzione, si creano migliaia di lettori. Il
giornale penetra dovunque, anche nelle campagne si comperano libri. In
mezzo secolo il libro, che era un oggetto di lusso, diventa un oggetto di
consumo corrente. Un tempo costava carissimo; oggi le borse più modeste
possono farsi una piccola biblioteca. Sono fatti di importanza decisiva: non
appena il suo popolo sa leggere e può leggere a buon mercato, il commercio librario decuplica i suoi affari e lo scrittore trova ampiamente il modo
di vivere della sua penna. Dunque, la protezione dei grandi non è più necessaria, il parassitismo scompare dal costume, un autore è un operaio come un altro, che si guadagna la vita con il suo lavoro.
[...]
Così dunque il grande movimento sociale che è iniziato nel diciottesimo secolo ha avuto nel nostro il proprio esito letterario. Nuovi modi di vivere sono assicurati agli scrittori; e subito la gerarchia scompare, l’intelligenza diventa un titolo di nobiltà ed il lavoro acquista la sua dignità. Al
tempo stesso, per logica conseguenza, vien meno l’influenza dei salotti e
dell’Accademia1, nelle lettere si ha l’avvento della democrazia: cioè le cricche2 si perdono nel gran pubblico, l’opera nasce dalla gente e per la gente.
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Edmond e Jules Goncourt, Il romanzo come «studio sociale»
(in Le due vite di
Germinia Lacerteux,
trad. dal francese di
O. Del Buono,
Rizzoli, Milano,
1957)
1. debba... letterario:
debba essere bandito
dalla letteratura come
argomento indegno
di essere trattato.
Questi brani sono tratti dall’introduzione a Germinie Lacerteux (1867), un romanzo dei fratelli Goncourt, esponenti di spicco della narrativa naturalista.
Dobbiamo chiedere scusa al pubblico per questo libro che gli offriamo e
avvertirlo di quanto vi troverà.
Il pubblico ama i romanzi falsi: questo romanzo è un romanzo vero.
Ama i romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo: questo libro viene dalla strada.
[...]
Vivendo nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale,
di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «classi inferiori» non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo sotto un mondo,
il popolo, debba restare sotto il peso del «vietato» letterario1 e del disdegno
degli autori che sino ad ora non hanno mai parlato dell’anima e del cuore
che il popolo può avere. Ci siamo chiesti se possano ancora esistere, per lo
scrittore e per il lettore, in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi in-
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Secondo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
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Secondo Ottocento
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degne, infelicità troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi
d’un terrore troppo poco nobile.
[...]
Ed ora, questo libro venga pure calunniato: poco c’importa. Oggi che il
Romanzo si allarga e ingrandisce, e comincia ad essere la grande forma seria, appassionata, viva, dello studio letterario e della ricerca sociale, oggi
che esso diventa, attraverso l’analisi e la ricerca psicologica, la Storia morale contemporanea, oggi che il Romanzo s’è imposto gli studi e i compiti
della scienza, può rivendicarne la libertà e l’indipendenza. Ricerchi dunque
l’Arte e la Verità; mostri miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi; faccia vedere alla gente della buona società quello che le
dame di carità hanno il coraggio di vedere, quello che una volta le regine
facevano sfiorare appena con gli occhi, negli ospizi, ai loro figli: la sofferenza umana, presente e viva, che insegna la carità; il Romanzo abbia quella
religione, che il secolo scorso chiamava con il nome largo e vasto di
Umanità; basterà questa coscienza: ecco il suo diritto.
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Charles Baudelaire, Epigrafe per un libro condannato
(Les fleurs du mal,
Martello, Milano,
1954, trad. dal francese di G. Armellini)
METRO:
nell’originale
francese sonetto di
versi di otto sillabe; la
traduzione segue l’originale verso a verso,
senza regolarità metrica.
3. saturnino: malinconico, cupo, in
quanto soggetto agli
influssi malefici attribuiti dall’astrologia al
pianeta Saturno.
Pubblicato per la prima volta nel 1861, questo sonetto fu inserito da Charles Asselieau e da
Théodore de Banville nell’edizione postuma dei Fiori del male (1868). Il titolo si riferisce al
processo per oscenità subìto dalla prima edizione del libro, ad opera dello stesso pubblico
ministero che aveva sostenuto l’accusa contro Madame Bovary di Flaubert. L’autore e gli
editori furono condannati a una multa e alla soppressione di sei poesie.
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Lettore pacifico e bucolico,
sobrio e ingenuo uomo dabbene,
getta questo libro saturnino,
orgiastico e malinconico.
Se non hai studiato retorica
presso Satana, astuto docente,
gettalo! non ci capiresti niente,
o mi crederesti isterico.
Ma se, senza lasciarsi ammaliare,
il tuo occhio sa affondare negli abissi,
leggimi, per imparare ad amarmi;
anima curiosa che soffri
e vai cercando il tuo paradiso,
compiangimi!... Se no, ti maledico!
Charles Baudelaire, Poeti e borghesi
È una notazione tratta dai Diari intimi di Baudelaire.
Se un poeta domandasse allo Stato il diritto di avere nella sua scuderia alcuni borghesi, grande sarebbe lo stupore; se invece un borghese domandasse un po’ di poeta arrosto, la cosa sembrerebbe naturalissima.
1
(C. Baudelaire, Diari intimi, Mondadori, Milano, 1955)
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133
Analisi del testo
Secondo Ottocento
CARDUCCI
Secondo Ottocento
Analizzate il testo,
rispondendo alle
domande del
questionario.
Potete svolgere
l’esercizio rispondendo separatamente ad ogni
domanda, o integrando le singole
risposte in un discorso complessivo, nell’ordine
che vi sembra più
efficace.
Giosuè Carducci
Nevicata
Questa poesia chiude le Odi barbare (1877-1889)
Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita più non salgon da la città,
non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.
5
Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.
Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
10
In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.
(da Odi barbare, in Opere, Zanichelli, Bologna, 1935-40)
Comprendere
1. Fate una parafrasi del testo, ricostruendo l’ordine
normale delle parole nella frase.
Analizzare
2. Analizzate la struttura tematica della poesia, mettendo in luce i passaggi dalle sensazioni visive a quelle
auditive, al momento introspettivo degli ultimi versi.
3. In alcuni punti è particolarmente evidente la ricerca
di effetti di suono prodotti dall’allitterazione. Individuateli nel testo.
4. I versi sono costruiti con l’intenzione di imitare il
distico elegiaco della poesia latina, costituito da un esametro e un pentametro: l’esametro è reso attraverso
l’abbinamento di un settenario con un novenario; il
pentametro attraverso l’abbinamento di un settenario
con un ottonario. Scandite i versi della poesia, secondo
questo modello:
26
Lenta fiocca la neve (settenario) / pel cielo cinerëo: gridi,
(novenario).
suoni di vita più (settenario tronco) / non salgon da la
città (ottonario tronco)
[...]
Contestualizzare
5. Nevicata fa parte della raccolta Odi barbare, da cui è
tratta anche Alla stazione in una mattina d’autunno:
confrontate i due testi, mettendo il luce le affinità tematiche e stilistiche.
Interpretare
6. Come si può definire secondo voi il rapporto tra il
paesaggio e lo stato d’animo del poeta? Indicate altre
poesie basate sulla relazione tra mondo esterno e mondo interiore accostabili a questa per affinità o per differenza.
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138
VERGA
Saggio breve
o articolo di giornale
Secondo Ottocento
Realismo romantico
e realismo naturalista
Balzac, da Prefazione a La commedia umana (1842)
Nel 1842 Honoré de Balzac (1799-1850), il protagonista del realismo romantico francese,
progettò di riunire la sua opera narrativa, già scritta e da scrivere, sotto il titolo generale La
Commedia umana: la sua ambizione era di dare una rappresentazione complessiva del
suo tempo, analoga a quella contenuta nella Divina commedia. Il progetto comprendeva
centotrentasette romanzi, di cui riuscì a scriverne ben novanta. Diamo alcuni estratti della
prefazione generale scritta in quell’occasione.
(La comédie humaine.
Scène de la vie privée,
vol. 1 Gallimard, Paris
1951, trad. dal francese di A. Colombo)
1. alla regola... bello:
Balzac, di orientamento conservatore, ritiene che la società vada giudicata
sulla base di princìpi
naturali e immutabili.
Il caso è il più grande romanziere del mondo: per essere fecondi, basta studiarlo. La Società francese sarebbe stata lo storico, io non dovevo essere che
il suo segretario. Compilando l’inventario dei vizi e delle virtù, raccogliendo le principali manifestazioni delle passioni, dipingendo i caratteri, scegliendo gli avvenimenti principali della Società, creando dei tipi mediante
l’accostamento dei tratti di parecchi caratteri omogenei, forse potevo arrivare a scrivere la storia trascurata da tanti storici, quella dei costumi. [...]
Ma, per meritare gli elogi a cui deve ambire ogni artista, non dovevo
forse anche studiare le cause o la causa di questi effetti sociali, cogliere il
senso nascosto in quell’immenso insieme di figure, di passioni e di avvenimenti? Infine, dopo avere cercato, non dico trovato, questa causa, questo
motore sociale, non bisognava meditare sui princìpi naturali e vedere in
che cosa le Società si allontanano o si avvicinano alla regola eterna del vero
e del bello1? [...]
L’immensità di un progetto che abbraccia insieme la storia e la critica
della Società, l’analisi dei suoi mali e la discussione dei suoi princìpi, mi
autorizza, credo, a dare alla mia opera il titolo sotto il quale appare oggi:
La Commedia Umana. È troppo ambizioso? È solo giusto? Lo deciderà il
pubblico, a opera terminata.
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Alessandro Manzoni, da una lettera a Victor Chauvet (1820)
(in Tutte le opere di
Alessandro Manzoni, a
cura di A. Chieri e F.
Ghisalberti,
Mondadori, Milano,
1957-90)
Non voglio per questo asserire che i componimenti che appartengono al
genere romanzesco siano sostanzialmente falsi. Certo ci sono dei romanzi
che meritano di essere considerati modelli di verità poetica; e sono quelli i
cui autori, dopo aver preso atto, in modo preciso e sicuro, dei caratteri e
dei costumi, hanno inventato, per poter rappresentare tali caratteri e tali
costumi, azioni e situazioni conformi a quelle che si verificano nella vita
reale: dico solo che, come ogni genere letterario ha un suo scoglio particolare, così lo scoglio del genere romanzesco è rappresentato dal falso. Il pensiero degli uomini si manifesta con maggiore o minore chiarezza attraverso
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Realismo romantico e realismo naturalista
le loro azioni e i loro discorsi; ma anche quando si parte da questa larga e
solida base raramente si giunge alla verità nella rappresentazione dei sentimenti umani. A fianco di un’idea chiara, semplice e vera se ne presentano
cento che sono oscure, forzate o false; ed è la difficoltà di separare la prima
dalle seconde che rende così esiguo il numero dei buoni poeti. Tuttavia anche i più mediocri si trovano spesso sulla via della verità; qualche indizio
più o meno vago di essa, lo hanno sempre. Ma è difficile seguire questi indizi: che cosa accadrà poi se li si trascura e li si disprezza? È questo l’errore
che commettono, inventando i fatti, la maggior parte dei romanzieri. Ne è
derivato quel che doveva derivarne, e cioè che la verità è sfuggita loro più
spesso che a quelli che si sono tenuti più vicini alla realtà; ne è derivato che
essi si sono preoccupati poco della verosimiglianza, sia nelle vicende che
hanno immaginate sia nei caratteri dai quali hanno fatto scaturire queste
vicende; e che a forza di inventare storie, situazioni nuove, pericoli inaspettati, contrasti eccezionali di passioni e di interessi, hanno finito col creare
una natura umana che non somiglia in niente a quella che avevano sotto
gli occhi, o, per meglio dire, a quella che non hanno saputa vedere. Di
conseguenza l’epiteto di romanzesco è stato designato ad indicare generalmente, per quel che riguarda i sentimenti e i costumi, quel tipo particolare
di falsità, quel tono artificioso, quei tratti convenzionali che contraddistinguono i personaggi dei romanzi.
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Secondo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
20
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Gustave Flaubert, da una lettera a Louise Colet (1852)
(Lettere a Louise Colet,
trad. dal francese di P.
Serini, Einaudi,
Torino, 1959)
1. Uncle Tom: La
capanna dello zio Tom
(1852), romanzo della scrittrice americana
Harriet Beecher-Stowe.
2. angusto: povero,
meschino.
3. Dernier...
condamné : L’ultimo
giorno di un condannato a morte (1829)
opuscolo di Victor
Hugo contro la pena
di morte, ispirato a
un fatto di cronaca
del tempo.
4. Merchant of
Venice: Il mercante di
Ecco perché l’Uncle Tom1 mi sembra un libro angusto2. Obbedisce solo a
preoccupazioni morali e religiose; bisognava scriverlo, invece, da una visuale umana. Per impietosirmi di uno schiavo che viene torturato, non è
necessario che sia un brav’uomo, buon padre, buon marito, che canti inni
e legga l’Evangelio e perdoni ai suoi carnefici...
Le riflessioni dell’autore mi hanno continuamente infastidito. Che bisogno c’è di riflessioni sulla schiavitù? Rappresentatemela, e basta. Quel
che ho sempre ammirato nel Dernier jour d’un condamné 3 è l’assenza di
qualsiasi disquisizione sulla pena di morte (è vero che la prefazione guasta
il libro, se questo potesse esser guastato). Nel Merchant of Venice4, si declama forse contro l’usura? Ma la forma drammatica ha di buono questo: che
fa scomparire l’autore. Balzac non è sfuggito al difetto comune: è legittimista, cattolico, aristocratico5.
L’autore dev’essere nella sua opera come Dio nell’universo; presente dovunque e non visibile in nessun luogo. Dato che l’Arte è una seconda natura, il creatore di questa natura deve operare in modo analogo al creatore
della prima: bisogna che in tutti gli atomi, in tutti gli aspetti di essa si senta un’impassibilità ascosa6 e infinita. L’effetto, per lo spettatore, dev’essere
una specie di sbalordimento. Deve dire: «Com’è stato fatto tutto ciò?», deve sentirsi annichilito senza capire perché.
Venezia (1596-97),
commedia di William
Shakespeare che ruota
attorno al tema del-
l’usura.
5. è legittimista...
aristocratico:
Flaubert non rimpro-
vera a Balzac le sue
posizioni ideologiche
di appoggio all’antico
regime, ma il fatto
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che le esprima apertamente nei suoi
romanzi.
6. ascosa: nascosta.
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Secondo Ottocento
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Emile Zola, da Il romanzo sperimentale (1880)
(Il romanzo sperimentale, trad. dal francese
di I. Zaffagnini,
Pratiche editrice,
Parma, 1980)
1. smontano... ambienti: analizzano
l’uomo (considerato
materialisticamente
una macchina) e ne
osservano il comportamento sotto
l’influsso di diversi
ambienti sociali; come un chimico che
osserva le reazioni di
una sostanza in diversi ambienti chimici.
Per il fisiologo, l’ambiente esterno e l’ambiente interno sono unicamente
chimici e fisici, il che gli permette di trovarne facilmente le leggi. Non siamo ancora in condizione di poter provare che l’ambiente sociale sia, anch’esso, solamente chimico e fisico. Lo è certamente o piuttosto è il prodotto variabile di un gruppo di esseri viventi, i quali sono totalmente sottoposti alle leggi fisiche e chimiche che regolano allo stesso modo gli organismi viventi ed i corpi inanimati. Perciò vedremo che si può agire sull’ambiente sociale agendo sui fenomeni di cui ci si sia resi padroni nell’uomo. E
ciò costituisce il romanzo sperimentale: possedere il meccanismo dei fenomeni umani, mettere in luce gli ingranaggi delle manifestazioni passionali
ed intellettuali quali li spiegherà la fisiologia, sotto le influenze dell’ereditarietà e delle circostanze ambientali, poi mostrare l’uomo mentre vive nell’ambiente sociale che lui stesso ha prodotto, che quotidianamente modifica ed in seno al quale subisce a sua volta una continua trasformazione.
Perciò dunque basiamo il nostro lavoro sulla fisiologia, prendendo, dalle
mani del fisiologo, l’uomo isolato, per contribuire alla soluzione del problema e risolvere su basi scientifiche l’interrogativo circa i comportamenti
degli uomini non appena vivono in società.
[...]
Ecco dunque in che consistono l’utilità pratica e la elevata moralità delle nostre opere naturaliste, che sperimentano sull’uomo, che smontano e rimontano pezzo per pezzo la macchina umana per farla funzionare sotto
l’influenza dei vari ambienti1.
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Verga, da Lettera a Salvatore Farina (1880)
(da Vita dei campi, in
Novelle, Rizzoli,
Milano, 1981)
1. il fiat creatore: il
fiat lux (“sia fatta la
luce”) di Dio, secondo il racconto biblico, diede inizio alla
creazione del mondo.
2. eclissarsi: non apparire, nascondersi,
come il sole o la luna
durante un’eclissi.
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni
sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo
e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta
spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto
col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta
della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide,
alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il
fiat creatore1; ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come
dev’essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari
di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di
eclissarsi2 e sparire nella sua opera immortale.
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Saggio breve o articolo di giornale
Realismo romantico e realismo naturalista
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Secondo Ottocento
Eugène Delacroix, Il massacro di Scio
Eugène Delacroix,
Il massacro di Scio
(1824), Musée du
Louvre, Parigi.
Il dipinto raffigura un episodio della guerra
d’indipendenza greca.
Nell’aprile 1822, i soldati turchi si riversarono sulla piccola isola di Scio e massacrarono
i suoi abitanti, che credevano fossero sostenitori dei ribelli greci.
Gustave Courbet, Funerali a Ornans
Gustave Courbet,
Funerali a Ornans
(1850),
Musée d’Orsay,
Parigi
Degas, Le stiratrici
Edgar Degas,
Le stiratrici (1884),
Museo del Louvre,
Parigi
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PASCOLI
Saggio breve
o articolo di giornale
Secondo Ottocento
Pascoli e l’emigrazione
Giovanni Pascoli, Italy
4-5. accostando...
pannelletto: la vecchia, asciugando una
lacrima con un lembo
del grembiule da cucina (pannelletto).
6. E il Cecco...
Assunta: chiede notizie di altri parenti; è
fiero? significa “è forte, in salute?”
7. Ma voi!: è un modo di chiedere come
sta; secondo l’uso antico, i figli si rivolgono alla madre col voi.
Là là... croce: sto così così, coi miei guai
(la mia croce).
8. banco: l’armadio
per la biancheria (lucchese).
10-12. Di nuovo...
spalla: l’unica cosa
nuova era una stampa
che ritraeva un negro
(moro), incollata al
muro, in cui si vedevano di bianco solo
gli occhi e i denti,
con una lenza da pesca in spalla.
13. roba di là: roba
venuta da laggiù,
dall’America.
14-15. il sito della
capanna: il tanfo (sito, toscanismo) della
baracca adibita a stalla.
18. ammiccava: accennava, indicava.
21. luì: un piccolo
uccello.
22. Parlava... oltremare: Molly, nata in
America, parla solo
inglese.
23. a chicken-house:
un pollaio. La voce di
Molly, che nomina
Italy, scritto nel 1904 e posto a chiusura dei Primi Poemetti, è preceduto da una solenne
dedica agli emigranti che in quegli anni lasciavano l’Italia a centinaia di migliaia ogni anno,
diretti in gran parte oltre Atlantico. Il poemetto.narra di una bimba, Maria (Molly in inglese),
figlia di emigrati, nata in America, che è accompagnata da due giovani zii in Italia, nella
campagna toscana, presso i nonni, perché malata di tisi. Grazie al clima mite Molly alla fine
guarisce, ma la nonna, che si è presa il suo male, muore. Riportiamo la sezione III del primo canto, in cui si descrivono il primo incontro degli emigranti con la madre (nonna della
bambina) al loro ritorno, la brutta impressione che Molly ha del paese per lei straniero, l’incontro coi paesani che chiedono notizie dei loro parenti emigrati.
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20
25
E i figli la rividero alla fiamma
del focolare, curva, sfatta, smunta.
«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»
Ed accostando agli occhi, essa, la punta
del pannelletto, con un fil di voce:
«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»
«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
I muri grezzi apparvero col banco
vecchio e la vecchia tavola di noce.
Di nuovo, un moro, con non altro bianco
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
la lenza a spalla ed una mano al fianco:
roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
S’udiva il soffio delle vacche, e il sito
della capanna empiva l’abituro.
Beppe sedé col capo indolenzito
tra le due mani. La bambina bionda
ora ammiccava qua e là col dito.
Parlava; e la sua nonna, tremebonda,
stava a sentire e poi dicea: «Non pare
un luì quando canta tra la fronda?»
Parlava la sua lingua d’oltremare:
«... a chicken-house» «un piccolo luì...»
«... for mice and rats» «che goda a cinguettare,
zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!»
(In Poesie, Mondadori, Milano, 1958, vol. I)
ciò che si vede intorno, si alterna ai commenti della nonna.
24. for... rats: per
topi e ratti (probabil-
mente la bimba indica una trappola).
25. Bad... Italy :
brutto paese, Joe, la
tua Italia! Joe (che
Pascoli scrive Ioe) è il
nome preso in
America dallo zio
Beppe. Secondo un
uso popolare (ma im-
probabile in bocca a
Molly), Italy va letto
come parola tronca
(“Italì”), tanto che
rima con luì.
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Pascoli e l’emigrazione
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Edmondo De Amicis, Gli emigranti
Già nel 1880 Edmondo De Amicis, letterato e giornalista di spiriti umanitari, aveva composto una poesia sull’emigrazione.
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35
Cogli occhi spenti, con le guance cave,
pallidi, in atto addolorato e grave,
sorreggendo le donne affrante e smorte,
ascendono la nave
come s’ascende il palco de la morte.
E ognun sul petto trepido si serra
tutto quel che possiede sulla terra,
altri un misero involto, altri un patito
bimbo, che egli s’afferra
al collo, dalle immense acque atterrito.
Salgono in lunga fila, umili e muti,
e sopra i volti appar bruni e sparuti
umido ancor il desolato affanno
degli estremi saluti
dati ai monti che più non rivedranno.
Salgono, e ognuno la pupilla mesta
sulla ricca e gentil Genova arresta,
intento in atto di stupor profondo,
come sopra una festa
fisserebbe lo sguardo un moribondo.
Ammonticchiati là come giumenti
Sulla gelida prua morsa dai venti,
migrano a terre inospiti e lontane;
laceri e macilenti,
varcano i mari per cercar del pane.
Traditi da un mercante menzognero,
vanno, oggetto di scherno, allo straniero.
Bestie da soma, dispregiati iloti,
carne da cimitero,
vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti.
Vanno, ignari di tutto, ove li porta
La fame, in terre ove altra gente è morta;
come il pezzente cieco e vagabondo
erra di porta in porta,
essi così vanno di mondo in mondo.
(da Treccani Scuola, http://www.treccani.it/site/Scuola/
nellascuola/area_storia/archivio/emigrazione/parisi.htm)
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Secondo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
148
Secondo Ottocento
29
Samuel Conkey, Immigrazione sgradita
Nel romanzo Vita, che Melania Mazzucco ha dedicato alle vicende dei suoi genitori emigrati in America, compare questa lettera a un giornale di New York, che pare un documento
autentico, anche se l’autrice non lo dichiara espressamente.
È gratificante vedere un giornale di prima classe come il “Times” suonare
una nota di ammonimento per il pericoloso afflusso di stranieri indesiderati che si stanno rovesciando su di noi. L’afflusso non è solo sgradito ma nocivo al benessere del nostro paese. Voi dite che è nostro dovere aprire le
porte agli oppressi di tutto il mondo, e dal momento che una persona è
povera e infelice nel paese in cui è nata può reclamare la nostra ospitalità
come un diritto. Ma le nostre leggi per l’immigrazione sono troppo lassiste. Guardate nelle nostre prigioni, negli istituti di pena, guardate il numero di omicidi e crimini quotidiani: sono tutti commessi da stranieri. E perché questi stranieri selvaggi e col sangue caldo sono sempre armati di stiletti o revolver? Nelle nostre strade sono tutti armati. Non molto tempo fa ho
visto un ambulante italiano che spingeva un carretto a mano minacciare
con un coltello un bambinetto americano che lo aveva provocato prendendolo in giro in modo innocuo. Ho cercato un poliziotto per quasi mezz’ora, ed ero a Broadway, a mezzogiorno. Non ho trovato un poliziotto e il
potenziale assassino è scappato. Sì, bisogna bloccare in ogni modo questo
flusso indiscriminato. Per quaranta o cinquant’anni la porta deve restare
chiusa contro questo genere di immigranti.
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Samuel Conkey (Brooklyn, 28 aprile 1903)
Numero medio di espatri all’anno (1861-1910)
600.000
500.000
400.000
300.000
200.000
100.000
1861-1870
1871-1880
1881-1890
1890-1900
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1900-1910
Pascoli e l’emigrazione
149
29
Gian Antonio Stella, La feccia del pianeta
Da un saggio storico di un giornalista di oggi.
La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non potevamo mandare i figli alle scuole dei bianchi in Louisiana. Ci era vietato
l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alla stazione di Basilea. Venivamo
martellati da campagne di stampa indecenti contro “questa maledetta razza
di assassini”. Cercavamo casa schiacciati dalla fama d’essere “sporchi come
maiali”. Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché
non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei
paesi d’adozione come cattolici primitivi e un po’ pagani. Ci appendevano
alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo “tutti siciliani”.
1
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10
(L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Rizzoli, Milano, 2002)
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Secondo Ottocento
Saggio breve o articolo di giornale
154
Prova a risposta chiusa B
25-30
Secondo Ottocento
1. Scrivi accanto al nome di ciascun autore quale o quali delle seguenti
opere ha scritto:
a)
b)
c)
d)
e)
f)
g)
h)
Canti di Castelvecchio
La figlia di Jorio
Inno a Satana
Il marchese di Roccaverdina
Mastro-Don Gesualdo
Il piacere
Poema paradisiaco
Le Vergini delle Rocce.
Capuana
Carducci
D’Annunzio
Pascoli
Verga
2. Segna le lettere riferite alle opere narrative elencate accanto alla data
della loro pubblicazione:
a) Mastro-Don Gesualdo
b) Notturno
c) Madame Bovary
d) Piccolo mondo antico
e) Le Confessioni d’un Italiano
1857
.........................
1889
.........................
1867
.........................
1895
.........................
1921
.........................
3. Segna le lettere riferite alle opere poetiche elencate accanto alla data
della loro pubblicazione:
a) Alcyone
1857
.........................
b) I fiori del male
1891
.........................
c) Myricae
1903
.........................
4. Segna la risposta corretta.
Chi è l’autore de I fiori del male?
씰 D’Annunzio
q
씰 Baudelaire
q
씰 Maupassant
q
씰 Rimbaud
q
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155
Prova a risposta chiusa B
5. Segna la risposta corretta.
q
q
q
q
6. «Sì: la poesia, detta e scritta, è rara. Proprio rara la poesia pura. Ma c’è
la poesia “applicata”. La poesia “applicata” è dei grandi poemi, dei
grandi drammi, dei grandi romanzi. Ora molto ci corre che questi siano
tutta poesia. Imaginate che siano un gran mare, ognuno. Nel mare ci sono le perle; ma quante? Ben poche; però in quale più, in quale meno».
A chi appartiene questa dichiarazione di poetica?
씰 D’Annunzio
q
씰 Mallarmé
q
씰 Pascoli
q
씰 Rimbaud
q
7. Distingui tra i seguenti incipit di novelle di Verga quelli che appartengono al periodo pre-verista da quelli che appartengono al periodo verista:
periodo pre-verista: ......................................
periodo verista ......................................
a) Appena chiuse gli occhi compare Nanni, e ci era ancora il prete colla stola,
scoppiò subito la guerra tra i figliuoli, a chi toccasse pagare la spesa del mortorio, ché il reverendo lo mandarono via coll’aspersorio sotto l’ascella. Perché
la malattia di compare Nanni era stata lunga, di quelle che vi mangiano la
carne addosso, e la roba della casa.
b) Allorché Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio – in
quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano belle – aveva incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano
quel titolo perché aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma soprattutto
perch’era superbiosetta e la sera, quando le sue compagne irrompevano in
Galleria come uno stormo di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca, sino a Porta Garibaldi.
c) C’era un aneddoto che in Napoli, dopo più di un anno, faceva ancora le spese della conversazione alla tavola rotonda dell’Albergo di Russia, quando i tre
o quattro ospiti che tutti gli anni solevano trovarsi al medesimo posto, dal cominciar di novembre alla fine di maggio, rimanevano faccia a faccia, col sigaro in bocca e i gomiti sulla tovaglia.
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Secondo Ottocento
Il principio di impersonalità dei naturalisti significa che
씰 nella società di massa non ci sono più grandi personalità artistiche
씰 l’autore è condizionato dal pubblico
씰 l’opera d’arte è diventata un bene di consumo
씰 l’autore deve essere invisibile nella sua opera
25-30
156
Secondo Ottocento
25-30
8. Attribuisci ciascun brano poetico a uno dei seguenti autori: Carducci,
D’Annunzio, Foscolo, Pascoli.
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Tre vaghissime donne, a cui le trecce
infiora di felici itale rose
giovinezza, e per cui splende più bello
su lor sembiante il giorno, all’ara vostra
sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
b)
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Solo quel campo, dove io volga lento
l’occhio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.
Fragile passa fra’ cartocci il vento:
uno stormo di passeri s’invola:
nel cielo è un gran pallore di viola.
d) Questa è la bella foce
che oggi ha il color del miele,
sì lene che l’Amore
te l’accosta alle labbra
come una tazza colma.
lodata io l’ho con l’arte.
Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovenile incanto.
9. Attribuisci ciascun brano a una delle seguenti opere:
D’Annunzio, Le novelle della Pescara
Nievo, Novelliere campagnolo
씰 Tarchetti, Racconti fantastici
씰 Verga, Novelle rusticanee
씰
씰
a) Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti agli
usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciola, che si
vide comparire da lontano lo zio Masi, l’acchiappaporci, col laccio in mano; e
il pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse.
b) U! U!
Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi
profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io
ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore?
c) Tutto il paese sacrificava la recente ricchezza del fromento a gloria del Patrono. Su le vie, da una finestra all’altra, le donne avevano tese le coperte nuziali.
Gli uomini avevano inghirlandato di verzura le porte e infiorato le soglie.
Come soffiava il vento, per le vie era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante di cui la turba si inebriava.
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157
d) Voglio rappresentarti, o ingenuo lettore, per ischizzi e profili quella parte più
pura dell’umana famiglia che vive nei campi; e per vivere intendo io lavorare
in essi di braccia, non passeggiarvi un’orettina pei freschi della sera come tu
per avventura costumi. Né di codesta tua spensierata opulenza cerco farti carico per ora, sibbene innamorarti di coloro che allenano per te, e de’ quali in
onta al diuturno consorzio conosci ben poco indole, mente, e costumi; o se li
conosci, non te ne dai per inteso, e seguiti a trattarli come mandra da bastone.
10. In questo brano su Pascoli, inserisci negli spazi vuoti i termini riportati sotto:
contrapposizione, innocenza, missione, puro, superuomo, umanitaria, vate
Comunque il fanciullino si presenta come l’opposto del ....................................................................:
lì la lussuria e qui l’................................................................., lì la violenza e qui la mansuetudine, lì
il tono esaltato e qui la voce smorzata, lì gli oggetti e i paesaggi più esotici e strani, qui gli oggetti e i paesaggi di tutti i giorni, lì il lusso qui la povertà, lì il dominio qui la sofferenza. E questa ..................................................................... così netta è tanto più singolare in quanto non troviamo da una parte un poeta
....................................................................
che si propone una missione nazionale o sociale e dall’altra un poeta
.............................................
.............................
che si limita solo a coltivare la pianticella dei suoi affetti intimi e
della sua poesia, ma ci troviamo di fronte a due poeti che si pongono entrambi
una ...................................................................., che attribuiscono entrambi alla loro poesia una funzione civile, che cercano entrambi il collegamento con grandi masse di pubblico.
[...] Che Pascoli si ponesse una missione civile e ............................................................................... non
pare messo in dubbio da nessuno.
(C. Salinari, Il fanciullino, in Miti e coscienza del decadentismo italiano, 1960)
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25-30
Secondo Ottocento
Prova a risposta chiusa B
158
CONTESTO
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Novecento
1. è non intuizione...
universalità: l’intuizione è propria della
conoscenza artistica,
l’individualità della
conoscenza storica.
2. dati storici e intuitivi: il limite delle
cosiddette scienze è di
basarsi su dati singoli,
relativi a particolari
circostanze (storici e
intuitivi), astratti dall’universalità dello
spirito.
4. ma tutti... storicamente: per quanti
progressi facciano le
scienze naturali, ci
fanno conoscere solo
dei fatti individuali
legati a particolari intuizioni ed esperienze
(intuitivamente e storicamente); esse cioè
non ci fanno conoscere la realtà nella sua
unità.
Le due culture
Benedetto Croce, La vera scienza è la filosofia
Nell’Estetica, (1902), il maggior filosofo italiano del primo Novecento sferrava il suo attacco allo scientismo positivista.
La scienza, la vera scienza, che è non intuizione ma concetto, non individualità ma universalità1, non può essere se non scienza dello spirito, ossia di
ciò che la realtà ha di universale: Filosofia. Se, fuori di questa, si parla di
scienze naturali, bisogna notare che codeste sono scienze improprie, cioè
complessi di conoscenze, arbitrariamente astratte e fissate. Le cosiddette
scienze naturali, infatti, riconoscono esse medesime di essere sempre circondate da limiti: limiti i quali non sono poi altro che dati storici e intuitivi2.
Esse calcolano, misurano, pongono eguaglianze, stabiliscono regolarità, foggiano classi e tipi, formulano leggi, mostrano a loro modo come un fatto
nasca da altri fatti; ma tutti i loro progressi urtano sempre in fatti che sono
appresi intuitivamente e storicamente3. Perfino la geometria afferma ora di
riposare tutta su ipotesi, non essendo lo spazio tridimensionale o euclideo se
non uno degli spazî possibili, che si studia di preferenza perché riesce più
comodo. Ciò che di vero è nelle scienze naturali, è o filosofia o fatto storico;
ciò che vi è di propriamente naturalistico, è astrazione e arbitrio.
1
5
10
15
(Estetica, Laterza, Bari, 1928)
Henri Bergson, «L’azione spezza il cerchio»
1. È proprio... dato:
il pensiero razionale,
essendo basato su
concetti statici, ci
presenta la realtà come qualcosa di già
fatto (dato).
2. l’azione spezza il
cerchio: agendo infrangiamo nella pratica i limiti del ragionamento.
3. l’azione...
sciogliere: il pensiero
razionale si trova di
fronte a dei paradossi
(nodi), perché scompone i processi della
realtà in concetti rigidi (come “non saper
ancora nuotare / saper già nuotare”); l’e-
In questo passo dell’Evoluzione creatrice (1907), Bergson mette in rapporto l’intuizione, che
nella sua filosofia è lo strumento principe di conoscenza, con l’azione umana nel mondo.
È proprio del ragionamento di chiuderci nella cerchia di ciò che è dato1:
ma l’azione spezza il cerchio2. Se non avessi mai visto un uomo nuotare,
penserei forse che nuotare è impossibile: giacché per imparare a nuotare bisogna cominciare col tenersi a galla, ossia saper già nuotare. Il ragionamento mi inchioderà sempre alla terraferma. Ma se, semplicemente, mi getterò
senza timore in acqua, comincerò col sostenermi, bene o male, sull’acqua,
dibattendomi contro di essa, mi adatterò a poco a poco alle nuove condizioni d’ambiente e imparerò così a nuotare. Analogamente, in teoria è assurdo voler conoscere altrimenti che per mezzo dell’intelligenza; ma, se si
affronterà risolutamente il rischio, l’azione troncherà forse il nodo che il
ragionamento ha annodato, ma che è inetto a sciogliere3.
1
5
10
(L’evoluzione creatrice, trad. dal francese di P. Serini, Mondadori, Milano, 1935)
sperienza dell’azione
ci può mettere in
contatto con la realtà
vera, che è mutamen-
to e trasformazione,
infrangendo i limiti
della conoscenza intellettuale.
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Le due culture
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31
Hans Hahn, Otto Neurath, Rudolf Carnap,
La concezione scientifica del mondo
Alcuni scienziati e filosofi di un’associazione nota come Circolo di Vienna si proposero di rivalutare la conoscenza scientifica e di lavorare a una unificazione delle scienze. La prima
formulazione organica di questo programma, redatta nel 1929 da tre scienziati-filosofi del
Circolo, diventerà il manifesto di una corrente filosofica chiamata “neopositivismo” (o “neoempirismo”, o “positivismo logico”).
(La concezione scientifica del mondo, trad.
dal tedesco di S.
Tugnoli Pattaro,
Laterza, Bari, 1979)
Abbiamo caratterizzato la concezione scientifica del mondo essenzialmente
con due attributi. Primo, essa è empiristica e positivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati1. In ciò si ravvisa il limite dei
contenuti della scienza genuina. Secondo, la concezione scientifica del
mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello,
cioè, dell’analisi logica2. Il lavoro scientifico tende, quindi, a conseguire,
come suo scopo, l’unità della scienza, applicando l’analisi logica al materiale empirico3.
[...]
Taluni fautori della concezione scientifica del mondo, per sottolineare
ulteriormente la loro contrapposizione nei confronti dei sistemi filosofici,
non vogliono assolutamente più applicare al proprio lavoro la parola «filosofia». Comunque possa venir designato questo, è fuor di dubbio quanto
segue: non si dà alcuna filosofia quale scienza basilare o universale, accanto o
sopra i vari rami della scienza empirica, non si dà via di sorta per attingere
cognizioni concrete oltre all’esperienza; non si dà – infine – nessun mondo
delle idee, che trascenda quello sensibile.
[...]
L’incremento delle tendenze metafisiche e teologizzanti4, che oggi si avverte in molti gruppi e sette, in libri e periodici, in conferenze e lezioni accademiche, sembra dipendere dai profondi contrasti sociali ed economici
del presente: mentre taluni, di orientamento socialmente conservatore, sostengono tradizionali tesi metafisiche e teologiche, spesso da tempo in concreto superate; altri, aperti all’età nuova, soprattutto nell’Europa centrale,
rifiutano simili atteggiamenti e si collocano sul terreno della scienza empirica. Questo sviluppo è connesso con quello dei moderni processi di produzione, sempre più affinato in senso tecnico-meccanico e sempre meno
sensibile alle istanze5 metafisiche.
1. si dà... immediati:
l’unica vera conoscenza è quella basata sull’esperienza dei sensi
(empirica), su osservazioni anteriori a qualsiasi teoria (dati immediati).
2. analisi logica: l’analisi del significato
di concetti, proposizioni e metodi usati
dalla scienza, che li
riduce a concetti elementari di cui si possa controllare la validità logica.
3. applicando... empirico: applicando un
linguaggio chiaro e
corretto dal punto di
vista logico a esperienze direttamente verificabili.
4. tendenze... teologizzanti: correnti filosofiche di tipo metafisico (che cioè pretendono di conoscere
con la pura speculazione una realtà superiore a quella sensibile), vicine alla tradizionale teologia.
5. istanze: esigenze
del pensiero, tesi.
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Primo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
160
Primo Novecento
31
Paul Valéry, Sull’intelligenza come classe
Paul Valéry (1871-1945), il maggior continuatore di Mallarmé nella poesia francese, fu anche un notevole saggista. Il passo che presentiamo è tratto da una conferenza tenuta nel
1922 a Zurigo, pubblicata col titolo L’uomo europeo in appendice al saggio La crisi del
pensiero. La riflessione di Valéry parte dalla constatazione della distruzione non solo materiale, ma intellettuale, prodotta dalla prima guerra mondiale, e comincia con le parole «Noi,
le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali».
1. Gli uni: i membri
delle professioni liberali, come medici,
giuristi, insegnanti.
2. i più preziosi...
natura: i pensatori e i
poeti, che elevano
spiritualmente la specie umana (la nostra
razza), le danno l’illusione di superare i
propri limiti animali.
3. esistenze... azione:
i pensatori e i poeti
non hanno un ruolo
definito nella macchina di una società dominata da criteri efficientistici, e per questo vi sono mal tollerati.
4. senza considerazione... specie: gli
intellettuali “inutili”
dal punto di vista
economico hanno il
compito di conservare la memoria storica
dell’umanità e di
esplorare le vie del
suo futuro; ma questo
non interessa alla società meccanizzata.
Tutti noi sappiamo che vi è un certo gruppo (una certa tribù) che si distingue per i suoi particolari rapporti con il pensiero.
Nessuno è in grado di fornirne una descrizione completa, semplice,
conclusa. Si tratta di definire una nebulosa sociale. Ma questa è una di
quelle molli nebulose le quali quanto più vengono osservate e tanto più i
loro contorni sfumano, le loro forme si confondono o sfuggono. Permane
sempre qualche cosa che non siamo in grado né di collegare alla figura generale, né di sottrarre a quest’ultima.
Tuttavia questa specie si lamenta: quindi esiste.
Intellettuali, artisti, membri delle varie professioni liberali... Gli uni1
sono abbastanza utili per la vita animale della società, gli altri sono inutili
(e fra questi ultimi, i più preziosi forse, sono coloro che risollevano un po’
la nostra razza, e le danno l’illusione di conoscere, di progredire, di creare,
di ribellarsi contro la propria natura)2. Càpita, al giorno d’oggi, che si parli del valore in ribasso di questi uomini, dell’indebolimento del loro prestigio, del loro annientamento dovuto all’estinzione. La loro esistenza è infatti strettamente legata a una cultura o a una tradizione, entrambe minacciate da oscuri destini dall’attuale rivoluzione delle cose di questo mondo.
La nostra civiltà acquisisce, o tende ad acquisire, la struttura e le qualità di
una macchina, come ho potuto indicare prima. La macchina non sopporta
che il suo potere non sia universale, e che vi siano esseri che rimangono estranei ai suoi meccanismi, estranei al suo funzionamento. D’altro canto essa non
può adattarsi a esistenze indefinite nel suo campo d’azione3. La sua esattezza,
che è per lei essenziale, non può ammettere il vago né il capriccio sociale; il suo
buon funzionamento è incompatibile con le situazioni irregolari. Non può accettare che vi sia qualcuno il cui ruolo e le cui condizioni di vita non siano definiti con esattezza. Essa tende ad eliminare gli individui imprecisi secondo il suo
punto di vista, e a classificare nuovamente gli altri, senza considerazione alcuna per il passato e anche il futuro della specie4.
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(La crisi del pensiero, trad. dal francese di N. Agosti, il Mulino, Bologna, 1994)
1. autodefinirsi “intellettuali”: il termine
comparve in Francia
intorno al 1890, per
qualificare coloro che
si battevano, a fianco
del romanziere Émile
Zola, contro l’involuzione reazionaria, nazionalista e antisemita
connessa all’ “affare
Dreyfus”.
Charles P. Snow, Le due culture
Charles P. Snow (1905-1980), scienziato e romanziere inglese, sollevò nel 1959 la questione della frattura che si era venuta a creare nel mondo della cultura.
Sono convinto che la vita intellettuale, nella società occidentale, si va sempre più spaccando in due gruppi contrapposti. [...] Due gruppi antitetici: a
un polo abbiamo i letterati, che come per caso, senza che nessuno se ne accorgesse, cominciarono ad autodefinirsi “intellettuali”1, quasi che non ce
ne fossero altri. [...].
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Le due culture
Letterati a un polo e scienziati a un altro, i più rappresentativi dei quali
sono i fisici. Tra i due gruppi, un abisso di reciproca incomprensione: qualche volta (particolarmente tra i giovani) ostilità e disprezzo, ma soprattutto
mancanza di comprensione. [...]
I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano
animati da un ottimismo superficiale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo. D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano
totalmente privi di preveggenza e nutrano un particolare disinteresse per
gli uomini loro fratelli; che in fondo siano anti-intellettuali e si preoccupino di restringere tanto l’arte quanto il pensiero al momento esistenziale.
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(Le due culture, Feltrinelli, Milano, 1964)
Le “due culture” nell’arte del primo Novecento
Razionalismo e
funzionalismo da
una parte,
espressione
soggettiva
dall’altra
Breuer Marcel,
Poltrona Vasilij,
1925-1928. New York,
The Museum of
Modern Art
Emil Nolde,
Danza intorno al vitello
d’oro, 1910.
Monaco, Staatgalerie,
Modern Kunst
Mondrian, Piet,
Composizione in rosso, blu e giallo,
1930. New York, Collezione privata
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Primo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
162
GENERI
Saggio breve
o articolo di giornale
Primo Novecento
La rivoluzione della fisica e il nuovo
romanzo
Werner Heisenberg, L’indeterminazione
Agli inizi del Novecento la scoperta di nuovi fenomeni di radiazione spinse gli scienziati a riprendere l’ipotesi di una struttura atomica della materia. Il mondo invisibile delle particelle
si trovò così al centro delle ricerche della fisica. Nel 1913 il fisico danese Niels Bohr, andando contro l’idea tradizionale di una sostanziale continuità dei fenomeni naturali, ipotizzò
che nell’atomo l’energia degli elettroni variasse in modo discontinuo, a salti, secondo i multipli di una certa quantità elementare e invariabile di energia detta “quanto”. Sulla base di
questo modello di atomo si è sviluppata nel corso del Novecento la “teoria dei quanti”, che
ha rivoluzionato molte concezioni tradizionali nel campo dei fenomeni atomici. Queste trasformazioni sono illustrate da Heisenberg nei passi che seguono, tratti da Natura e fisica
moderna (1957).
1. Laplace: l’astronomo e fisico francese
Pierre-Simon de
Laplace (1749-1827),
a cui si deve la
formulazione più radicale del determinismo causale.
2. Max Planck: fisico
tedesco (1858-1947),
il primo a introdurre,
nel 1899, il concetto
di “quanto”.
3. all’ipotesi... statistico: un atomo non
emette radiazioni in
modo continuo, ma a
scatti, per unità
discrete (quanti); non
è possibile determinare in quale istante
questo avvenga, ma
solo prevedere la
quantità di radiazione
che una massa di atomi emette in un tempo dato; il fenomeno
è dunque conoscibile
solo in modo statistico.
La fisica newtoniana era costruita in modo che, conoscendo lo stato di un
sistema ad un certo tempo, si poteva calcolare in precedenza il movimento
futuro del sistema stesso. La concezione che in natura le cose stiano fondamentalmente proprio così, fu formulata forse nel modo più generale e
comprensibile da Laplace1 attraverso la finzione di un demone che, a un
dato momento, conoscesse la posizione e il moto di tutti gli atomi e che
quindi dovesse essere in grado di precalcolare l’intero futuro dell’universo.
Se la parola «causalità» si interpreta in modo così stretto, si parla anche di
«determinismo» e si intende dire che esistono leggi fisse di natura le quali,
partendo dallo stato attuale di un sistema, determinano univocamente il
suo stato futuro.
Fin dai suoi inizi la fisica atomica ha sviluppato certe idee che non rientrano propriamente in questa immagine.
[...] Non si è tuttavia rinunciato teoricamente al determinismo fino alla
celebre scoperta di Max Planck2, con cui ha avuto inizio la teoria dei quanti. In un primo tempo Planck aveva trovato, nel suo lavoro intorno alla teoria delle radiazioni, soltanto un elemento di discontinuità nei fenomeni di
radiazione. Egli aveva dimostrato che un atomo radiante non perde la sua
energia in modo continuo, ma discontinuamente, a scatti. Questa perdita
di energia discontinua e a scatti porta anch’essa, come tutte le idee della teoria atomica, all’ipotesi che l’emissione di radiazioni sia un fenomeno statistico3. Ma soltanto nel corso di venticinque anni, è risultato che effettivamente la teoria dei quanti costringe addirittura a formulare le leggi proprio come leggi statistiche e ad abbandonare, anche teoricamente, il determinismo.
[...] Un’altra formulazione è stata coniata da Niels Bohr, che ha introdotto il concetto della complementarità. Egli intende con questo che diverse immagini intuitive, con cui noi descriviamo sistemi atomici, sono sì adatte per
certi esperimenti, ma si escludono reciprocamente. Così, per esempio, si
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4. L’indeterminazione... immagini:
ciascuno di questi
modelli (quello corpuscolare, quello ondulatorio) ha un limite di indeterminazione, e questo basta a
garantire che fra di
essi non vi siano contraddizioni logiche. In
sostanza ognuna di
queste immagini non
determina come l’atomo è in sé: gli esperimenti mostrano che
gli elettroni, considerati abitualmente corpuscoli materiali, si
comportano in alcuni
casi come la luce, e
che la luce si comporta in alcuni casi come
formata non da onde,
ma da corpuscoli materiali.
La rivoluzione della fisica e il nuovo romanzo 163
può descrivere l’atomo di Bohr come un sistema planetario in piccolo: al
centro un nucleo atomico e all’esterno gli elettroni ruotanti attorno a questo
nucleo. Per altri esperimenti, invece, può essere più opportuno immaginare
che il nucleo atomico sia circondato da un sistema di onde permanenti, dove
la radiazione emessa dall’atomo dipende dalla frequenza delle onde. Infine si
può anche considerare l’atomo come oggetto della chimica, si può calcolare
il suo calore di reazione nel combinarsi con altri atomi: ma allora non si può
dir nulla, contemporaneamente, intorno al moto degli elettroni. Questi diversi modelli sono quindi giusti quando li si utilizzi al posto giusto, ma si
contraddicono fra loro e si chiamano, perciò, reciprocamente complementari. L’indeterminazione da cui ognuna di queste immagini è affetta e che viene espressa mediante la relazione di indeterminazione, basta appunto ad evitare contraddizioni logiche fra le diverse immagini4. Da questi accenni risulta comprensibile, anche senza inoltrarsi nel formalismo matematico della
teoria dei quanti, che la conoscenza incompleta di un sistema deve essere una
componente essenziale di ogni formulazione della teoria quantistica.
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(Natura e fisica moderna, cap. II, Garzanti, Milano, 1957)
Virginia Woolf, Atomi cadono sulla mente
La scrittrice inglese Virginia Woolf (1882-1941), tra i protagonisti della nuova narrativa, scriveva nel 1919 queste parole.
1. catastrofe: in senso
stretto è la conclusione, spesso luttuosa,
della tragedia greca.
Qui si riferisce alla
fase finale della trama, in cui i punti sospesi della narrazione
giungono a compimento.
Esaminate per un momento una mente qualsiasi in un giorno qualsiasi.
Riceve una miriade di impressioni – banali, fantastiche, evanescenti o incise con l’acutezza di una punta d’acciaio, che piovono da ogni parte, come
un diluvio incessante di atomi; e mentre cadono, mentre assumono la forma di vita del lunedì o del martedì, l’accento si posa in modo sempre differente; il momento essenziale non si è verificato qui, ma lì. Col risultato che
se lo scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere
quel che vuole e non quel che deve, se potesse basare la sua opera su quel
che sente e non sulle convenzioni, non ci sarebbe intreccio, non ci sarebbe
commedia, tragedia, storia d’amore o catastrofe1 nel consueto stile e nemmeno forse un solo bottone attaccato come decretano i sarti di Bond
Street. La vita non è una serie di lanterne disposte in modo simmetrico; la
vita è un alone luminoso, un involucro trasparente che ci avviluppa da
quando cominciamo ad aver coscienza fino alla fine. Non è forse compito
del romanziere trasmettere questo spirito mutevole, sconosciuto e irriducibile, senza preoccuparsi di eventuali sue aberrazioni o complessità, contaminandolo il meno possibile con quanto gli è estraneo, esterno? Non si
vuole qui solo sostenere la causa del coraggio e della sincerità, ma suggerire
che il vero materiale del romanzo è un po’ diverso da quanto l’abitudine
vorrebbe farci credere.
[...] Registriamo quindi gli atomi mentre cadono sulla mente nell’ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per quanto sconnesso e incoerente
in apparenza, che ogni visione, ogni avvenimento segna sulla coscienza.
Rifiutiamoci di dar per scontato che ci sia più vita in quanto è generalmente ritenuto grandioso che in quanto è generalmente ritenuto modesto.
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(Il lettore comune, il Melangolo, Genova, 1995)
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Primo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
164
Primo Novecento
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Robert Musil, Il filo del racconto
Riflessioni del protagonista del capolavori di Musil, L’uomo senza qualità (1930-1943).
1. la legge... semplicità: la legge, l’ordine
a cui aspiriamo, oppressi da un’esistenza
complicata e caotica.
[...] la legge di questa vita a cui si aspira oppressi, sognando la semplicità1
non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: «Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro».
Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui
che può dire: «allorché», «prima che» e «dopo che»! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli
avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco.
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(L’uomo senza qualità, Trad. dal tedesco di A. Rho. Einaudi, Torino, 1957)
Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento e la scienza fisica
Giacomo Debenedetti (1901-1967) fu uno dei critici letterari più brillanti e innovativi del
Novecento italiano. I passi che riproduciamo sono da Il romanzo del Novecento, titolo col
quale sono stati pubblicati, dopo la sua morte, gli appunti stesi per le lezioni che tenne all’università di Roma negli ultimi anni della sua vita.
Il romanzo naturalista lavorava sulla certezza che ogni fatto si producesse
come effetto di una causa precisa, unica e riconoscibile: che il mondo, e
quindi anche il mondo narrato e le cose che vi succedono, obbedissero a
un gioco di forze conosciute, le quali agiscono come un meccanismo conosciuto, di cui è possibile stabilire la formula. Cioè quel romanziere si fondava su un’interpretazione, su un’idea dell’universo identica a quella su cui
la fisica classica o, come si dice più esattamente, la fisica meccanicistica costruiva le proprie teorie, traendone anche le conseguenze ed applicazioni
pratiche: l’idea cioè che ogni fenomeno si produce in virtù di una forza,
della quale praticamente si sa tutto: come si arriva a scatenarla e a metterla
in moto. [...]
In sostanza che cosa si è voluto dimostrare con tutti questi accostamenti tra fisica e letteratura? Intanto, che il romanzo naturalista era stato deterministico come la scienza del suo tempo: cioè partiva dall’ipotesi divenuta
una convinzione, un assioma, che anche i fenomeni del mondo umano,
odi, amori, benefici, vendette, catastrofi, fortune, atti mediocri o sublimi,
misfatti, dipendessero da un gioco perfettamente calcolabile ed esprimibile
di cause ed effetti. Questo carattere deterministico della narrativa naturalista è andato risultando sempre più chiaro, di mano in mano che ce ne siamo allontanati, ora è noto a tutti, è diventato un luogo comune. [...]
Torniamo, dal romanzo di ieri, a quello più vicino a noi. Negli esempi
che abbiamo ricordati e brevemente analizzati, questo romanzo di oggi
sembra fondarsi, ripetiamo, su un’idea del tutto analoga a quella con cui la
fisica nucleare spiega i fenomeni che è riuscita a produrre. [...] il romanzo
naturalista riposava sull’idea della necessità, era il romanzo della necessità;
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La rivoluzione della fisica e il nuovo romanzo 165
il romanzo di oggi riposa sull’idea dell’onda di probabilità, è un romanzo
della probabilità. Questa affermazione, che connette il pensiero che il fisico moderno ha dei fatti naturali col pensiero che l’uomo moderno ha degli
eventi umani, potrebbe essere approfondita, ma ci porterebbe a difficili
considerazioni sulle leggi della fisica dei quanta e sul famoso principio di
indeterminazione stabilito da Werner Heisenberg. Insomma, le leggi della
nuova fisica – per citare ancora il libro di Einstein - «non governano le vicende nel tempo di oggetti singoli, esse governano le variazioni della probabilità nel tempo». Mentre la vecchia fisica diceva: «Questo oggetto è fatto così e così e possiede tali e talaltre proprietà», la nuova può soltanto affermare che «ci sono queste e queste altre probabilità che il singolo oggetto
sia fatto così e così e possegga tali e talaltre proprietà».
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(Il romanzo del Novecento, in Saggi, Mondadori, Verona, 1999)
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Primo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Analisi del testo
Primo Novecento
Analizzate il testo,
rispondendo alle
domande del
questionario.
Potete svolgere
l’esercizio rispondendo separatamente ad ogni
domanda, o integrando le singole
risposte in un discorso complessivo, nell’ordine
che vi sembra più
efficace.
(La coscienza di
Zeno - cap. IV, Einaudi Gallimard,
Torino, 1993)
1. fu d’uopo: fu necessario.
Italo Svevo
La morte del padre
«“15. 4. 1890 ore 4 1/2. Muore mio padre. U.S.” Per chi non lo sapesse queste due ultime
lettere non significano United States, ma ultima sigaretta». Con questa annotazione Zeno,
all’inizio del quarto capitolo del romanzo, fa riferimento a quello che definisce «l’avvenimento più importante della mia vita».
Il padre di Zeno è dipinto come un uomo che vive «perfettamente d’accordo sul modo
in cui l’avevano fatto», ancorato a solide e comode certezze borghesi, e non può comprendere le tortuosità psicologiche del figlio, che da parte sua nutre nei confronti del padre un
sentimento di diffidenza e di rivalità; ma quando il vecchio si ammala di un male che lo
condurrà rapidamente alla morte, Zeno si rende improvvisamente conto di come la sua
presenza gli sia necessaria. Riportiamo la parte finale del capitolo, dedicata all’ultima fase
della malattia: l’agonia del padre si trascina per parecchi giorni, tra attimi di lucidità e momenti di assenza o di confusione, e Zeno, che lo assiste, è come sempre in preda a stati
d’animo contraddittori.
Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che
gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni
mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo1 che ogni mio sentimento
fosse affievolito dagli anni.
L’infermiere mi disse:
– Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà
tanta importanza!
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai
al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora
nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla,
gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non muoversi. Per un istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò:
– Muoio!
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la
pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto
proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli
toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la
lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento.
Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sol-
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2. risolvere: decidere.
3. dirigermi: rivolgermi.
4. Coprosich: il medico curante.
La morte del padre
levai e lo riposi in letto. Piangendo, proprio come un bambino punito, gli
gridai nell’orecchio:
– Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di
star sdraiato!
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di
non farlo più:
– Ti lascerò muovere come vorrai.
L’infermiere disse:
– È morto.
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed
io non potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere2 di punirmi e di
dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia.
Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento
era giusto? Pensai persino di dirigermi3 a Coprosich4. Egli, quale medico,
avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un
moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era
impossibile di andare a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da
me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: – Il padre alzò alto alto la mano e
con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo. – Egli lo sapeva e perciò
Coprosich l’avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il
cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non
volli, non seppi più rivederlo.
Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello
schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me,
divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo ormai
perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.
Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia.
Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era
stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio
padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui
voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non
occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta –
raramente – non si può fare a meno.
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Primo Novecento
Analisi del testo
Primo Novecento
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Analizzare
1. I ruoli del “debole” e del “forte” scivolano continuamente da Zeno al padre. Collocate nella tabella le
espressioni che denotano forza o debolezza attribuite a
ciascuno dei personaggi.
Zeno
padre
Forza
Debolezza
2. Individuate nel testo due esempi delle irregolarità
grammaticali tipiche della scrittura di Svevo.
Comprendere / interpretare
3. Al termine di questo capitolo, restano aperti alcuni
fondamentali interrogativi:
– Quando Zeno impedisce al padre di alzarsi da letto
lo fa per attenersi alle prescrizioni del medico o per il
gusto di imporgli la propria volontà? Soffre per lui o
piuttosto per se stesso?
33
– L’ultimo gesto del padre è un movimento inconsulto
determinato dal delirio o un vero e proprio schiaffo
col quale intende “punire” Zeno?
– Il ricorso di Zeno al conforto della religione scaturisce da una fede sincera o è uno dei suoi consapevoli
autoinganni?
Per ciascuna di queste domande verificate se nel testo ci
siano indizi che depongono a favore di una o dell’altra
interpretazione, o di entrambe nello stesso tempo, ed
esprimete una vostra opinione a riguardo.
Contestualizzare
4. Facendo riferimento ad altri passi del romanzo, indicate i caratteri tipici del personaggio di Zeno che
emergono da questo testo.
5. Il tema del rapporto col padre ricorre in molte opere narrative del Novecento. Indicatene una a vostra scelta ed accostatela, per somiglianza e per contrasto, a questo brano.
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Primo Novecento
Autoritratti di poeti
Aleksandr Puskin, Il profeta
Risaliamo per un momento al primo Ottocento. Questa poesia del maggiore poeta romantico russo fu composta nel 1826.
1. sete spirituale:
un’ansia indeterminata., l’attesa di una rivelazione.
2. nel tetro deserto:
un paesaggio psicologico: uno stato di angoscia che predispone
del poeta a ricevere il
messaggio divino.
3. serafino: nella
Sacra Scrittura i serafini sono una categoria di angeli, raffigurati con sei ali, che
rappresentano l’ardore della carità.
10-14. E li riempirono... valle: anche gli
orecchi, come gli occhi, sono aperti dal
tocco dell’angelo e
diventano capaci di
percepire ciò che non
è urna- namente percepibile.
16-17. la lingua...
astuta: la lingua che
serve alla conversazione quotidiana, ai comuni rapporti umani
basati sull’inganno.
18. il pungiglione:
una lingua capace di
ferire.,
30. Col verbo: con la
parola divina.
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Oppresso da sete spirituale
Nel tetro deserto vagavo —
E un serafino con sei ali
Mi apparve ad un bivio.
Con le dita leggere come il sonno
Egli sfiorò le mie pupille,
E si spalancarono le profetiche pupille
Come ad un’aquila spaventata.
Egli sfiorò i miei orecchi —
E li riempirono rombo e suono;
Ed ascoltai il fremito del cielo,
E il volo eccelso degli angeli
E lo strisciar subacqueo dei mostri marini,
E il vegetare dei tralci nella valle,
Ed egli si accostò alle mie labbra,
E mi strappò la lingua menzognera,
E ciarliera ed astuta,
E il pungiglione del saggio serpente
Nella mia bocca irrigidita
Mise con la destra sanguinosa.
E mi squarciò il petto con la spada.
E ne trasse il cuore palpitante,
E un tizzone ardente
Introdusse nel petto aperto.
Come un cadavere giacevo nel deserto,
E la voce di Dio mi chiamò:
«Alzati, o profeta, e mira e ascolta,
Adempì la mia volontà,
E, percorrendo mari e terre,
Col verbo accendi i cuori degli uomini».
(da Le più belle pagine della letteratura russa,
trad. dal russo di E. Lo Gatto, Milano, Nuova Accademia, 1957)
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Primo Novecento
UNGARETTI E
MONTALE
Saggio breve
o articolo di giornale
180
Primo Novecento
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Guido Gozzano, La vergogna di essere poeta
Nel poemetto La signorina Felicita, ovvero la Felicità, pubblicato in I colloqui (1911),
Gozzano si rappresenta come un letterato imbevuto di cultura raffinata alle prese con una
famiglia borghese di idee semplici e ristrette.
5
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
(da I colloqui, in Le poesie, Garzanti, Milano, 1960)
Aldo Palazzeschi, Chi sono?
Palazzeschi pose questa poesia in testa alla raccolta di quelle scritte fra il 1904 e il 1914,
dandole un carattere programmatico.
5
10
15
20
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
«follìa».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
«malinconìa».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
«nostalgìa».
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Palazzeschi
a 21 anni
(da Poesie, Mondadori, Milano, 1971)
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Saggio breve o articolo di giornale
Ungarertti, Montale: autoritratti di poeti
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Primo Novecento
Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto
Questa poesia diede il titolo alla raccolta omonima pubblicata per la prima volta a Udine nel 1916 e poi inclusa in
L’Allegria.
5
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde.
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto.
(L’allegria, Milano, Mondadori, 1942)
Giuseppe Ungaretti, La missione della poesia
Questi passi sono tratti da una conferenza che Ungaretti tenne in varie città italiane negli
anni trenta, e furono poi inclusi dall’autore nel saggio Ragioni d’una poesia (1949).
Illuminazione favolosa, fantasmi e miti, divinazioni metafisiche, non sono
forse illusioni di tempo domato, o meglio di tempo abolito? E inoltre, l’affaticarsi alla perfezione dell’opera, rinnovandone da capo a fondo i mezzi
come ogni vero poeta d’oggi fa, non è volontà che l’opera duri? Non è volontà che l’opera duri per singolare bellezza? Che duri cioè, per la più alta
qualità di durata in un’opera di poesia. Tutto ciò più che ricerca d’illusioni
d’immortalità, è brama d’eterno.
Una parola che tenda a risuonare di silenzio nel segreto dell’anima –
non è parola che tenda a ricolmarsi di mistero? È parola che si protende
per tornare a meravigliarsi della sua originaria purezza.
[...]
Dunque, forse, sarebbe il nostro un secolo di missione religiosa?
Lo è. Potrebbe non esserlo con tanta enormità di sofferenza intorno a
noi, in noi?
Lo è. In verità, tale è sempre stata la missione della poesia.
1
5
10
15
(in Per conoscere Ungaretti, Mondadori, Milano, 1971)
Eugenio Montale, La mia Musa
2. è il pensiero dei
più: Montale è ormai
un poeta affermato e
celebrato; ma finge di
credere che i più non
apprezzino la sua
poesia.
3. Se pure una ne fu:
ammettendo che sia
esistita. spaventacchio: spaventapasseri.
5. monsoni: venti
impetuosi; allude alle
tempeste storiche che
hanno attraversato la
sua vita.
Nel suo penultimo libro di versi, nel 1971, il vecchio Montale intitola classicamente una
poesia La mia Musa.
5
La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei più) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
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182
Primo Novecento
10
10-11. ha lasciato...
teatrale: sviluppando
la metafora delle prime due strofe, identifica la Musa con un
vestito usato; prima di
essere ridotto a spaventapasseri, era di
15
32, 35-36
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.
(da Diario del ’71 e del ’72, in Opere complete,
Mondadori, Milano, 1996)
quelli che si conservano nei ripostigli dei
teatri, per essere usati
nelle rappresentazioni.
11-12. ed era... si
vestiva: personaggi
importanti indossavano quell’abito: i poeti
del passato.
15. cannucce: flauti
di canna, modesti
strumenti di fortuna.
Eugenio Montale, È ancora possibile la poesia?
Dal discorso tenuto a Stoccolma nel 1975, in occasione del conferimento del premio
Nobel per la letteratura.
1. accumulazione:
idee, sentimenti, significati si accumulano lentamente nello
spirito, prima di tradursi in poesia.
Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei
suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia
una produzione o una malattia assolutamente endemica e
incurabile.
Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una
produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un
produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce.
[...]
Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere
anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro
identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto
la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l’artista ha
di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. [...] In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è
opera, frutto di solitudine e di accumulazione1. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati.
1
5
10
15
20
(In Sulla poesia, Mondadori, Milano, 1976)
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183
Analisi del testo
35
Primo Novecento
CAP. 35
Primo Novecento
Analizzate il testo,
rispondendo alle
domande del
questionario.
Potete svolgere
l’esercizio rispondendo separatamente ad ogni
domanda, o integrando le singole
risposte in un discorso complessivo, nell’ordine
che vi sembra più
efficace.
Giuseppe Ungaretti
Fratelli
Mariano il 15 luglio 1916
Questa poesia, inclusa in L’Allegria, fa parte di quelle scritte al fronte durante la prima guerra mondiale.
Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
5
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
10
Fratelli
Comprendere
1. Quale situazione è evocata nella poesia?
Analizzare
2. Individuate nel testo i caratteri stilistici tipici della
prima raccolta poetica di Ungaretti.
Interpretare
3. Come interpretate la metafora del v. 5?
4. Come si può intndere la rivolta del v. 7?
5. Quale tema centrale assegnate alla poesia?
Contestualizzare
6. Il testo che abbiamo letto è quello definitivo
(1942). Questo è il testo della poesia come apparve nella prima stampa del Porto sepolto (a Udine nel 1916):
Fratello
tremante parola
nella notte
come una fogliolina
appena nata
saluto
accorato
nell’aria spasimante
implorazione
sussurrata
di soccorso
all’uomo presente alla sua
fragilità.
Mariano il 15 luglio 1916
– Quali cambamenti ha introdotto il poeta? come
cambiano l’effetto complessivo della poesia?
– Quali aspetti della revisione mostrano l’adesione di
Ungaretti alla poetica dell’ermetismo?
Di che regimento siete
fratelli?
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Primo Novecento
1. Segna le lettere riferite alle opere elencate accanto alla data della loro composizione o pubblicazione:
a)
b)
c)
d)
e)
L’Allegria
Il fu Mattia Pascal
Manifesto del futurismo
Gli indifferenti
Senilità.
1898
.........................
1909
.........................
1904
.........................
1919
.........................
1929
.........................
2. Segna le lettere relative alle raccolte di poesie accanto ai rispettivi autori:
Gozzano
Marinetti
Montale
Ungaretti
......................................................................................................................
......................................................................................................................
......................................................................................................................
......................................................................................................................
a) Le occasioni
b) Il Dolore
c) I colloqui
d) Zang Tumb Tuuum
3. Segna le lettere relative alle opere narrative accanto ai rispettivi autori
Svevo
Tozzi
Proust
Pirandello
......................................................................................
......................................................................................
......................................................................................
......................................................................................
a) Alla ricerca del tempo perduto
b) Uno, nessuno e centomila
c) Una vita
d) Tre croci
4. «Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».
Questa è una autodefinizione contenuta in uno dei “manifestri” delle avanguardie del primo Novecento; di quale si tratta?
futurismo
espressionismo
씰 dadaismo
씰 surrealismo
씰
씰
q
q
q
q
31-36
Primo Novecento
Prova a risposta chiusa B
188
Primo Novecento
31-36
5. Quale dei seguenti poeti impiegò un linguaggio di stampo ottocentesco?
q
q
q
q
Montale
Pavese
씰 Saba
씰 Ungaretti
씰
씰
6. Quale di queste opere ha al centro il tema della memoria?
Il processo di Kafka
Il Fu Mattia Pascal di Pirandello
씰 Ulisse di Joyce
씰 Alla ricerca del tempo perduto di Proust
씰
씰
q
q
q
q
7. Quale di queste opere teatrali di Pirandello è un esempio di “teatro
nel teatro”?
q
q
q
q
Così è (se vi pare)
La giara
씰 Sei personaggi in cerca d’autore
씰 Il gioco delle parti
씰
씰
8. Attribuisci ciascun brano poetico a uno dei seguenti autori: Gozzano,
Montale, Penna, Ungaretti,
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
a) Non so se veramente fu vissuto
Quel giorno della prima primavera.
Ricordo – o sogno? – un prato di velluto,
ricordo – o sogno? – un cielo che s’annera,
e il suo sgomento e i lampi e la bufera
livida sul paese sconosciuto...
b) Anche questa notte passerà
Autore: .................................................................................................................................................
Autore: .................................................................................................................................................
c) Un fanciullo correva dietro un treno.
La vita – mi gridava – è senza freno.
Salutavo, ridendo, con la mano
e calmo trasalivo, indi lontano.
d) Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo
batte la coda a torcia sulla scorza.
La mezzaluna scende col suo picco
nel sole che la smorza. È giorno fatto.
Questa solitudine in giro
titubante ombra dei fili tranviari
sull’umido asfalto
Guardo le teste dei brumisti
nel mezzo sonno
tentennare
9. Attribuisci i seguenti brani di romanzi a Pirandello oppure a Svevo:
a) “Ma sì! è qui tutto” pensavo, “in questa sopraffazione. Ciascuno vuole imporre agli altri quel mondo che ha dentro, come se fosse fuori, e che tutti debbano vederlo a suo modo, e che gli altri non possano esservi se non come li vede
lui.”
Autore: .................................................................................................................................................
b) Le parole fecero a lui lo stesso effetto come se fossero state accompagnate dalLa riproduzione di questa pagina tramite fotocopia è autorizzata ai soli fini dell’utilizzo nell’attività didattica degli alunni delle classi che hanno adottato il testo
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l’atto immediato. Ella voleva lasciarlo! – Aspetta prima un istante, che ci spieghiamo! – Anche nell’ira enorme che lo pervadeva tutto, egli pensò un momento se non fosse tuttavia possibile di ritornare allo stato di calma rassegnata in cui s’era trovato poco prima.
Autore: .................................................................................................................................................
c) Ora come, con una faccia e un corpo così fatti, Malagna potesse esser tanto ladro, io non so. Anche i ladri, m’immagino, debbono avere una cetta impostatura, ch’egli mi pareva non avesse. Andava piano, con quella sua pancia pendente,
sempre con le mani dietro la schiena, e tirava fuori con tanta fatica quella sua
voce molle, miagolante! Mi piacerebbe sapere com’egli li ragionasse con la sua
propria coscienza i furti che di continuo perpetrava a nostro danno.
Autore: .................................................................................................................................................
10. In questo testo critico su La coscienza di Zeno di Svevo inserisci negli spazi vuoti i termini riportati sotto:
analisi cornice introspettiva passato patologico prima tradizionale
L’esperienza psicanalitica progressivamente tende a coincidere con l’autobiografia [...], tanto è vero che dalla terza persona di Senilità si passa decisamente alla
utilizzazione, senza remore, della
..................................................................................
persona necessaria
allo spazio elettivo dell’................................................................................... Così la rinunzia al racconto
..................................................................................
e la tensione verso una nuova struttura narrativa
sono in certo senso giustificate dall’applicazione delle teorie psicanalitiche, almeno nei lineamenti esterni della
..................................................................................
del terzo romanzo.
Ora per Svevo conta soltanto la personalità della evocazione del .................................................
.............................................
in funzione di un presente atemporale, non per una ipotetica
guarigione dallo stato ........................................................................................................., ma per una conferma
..................................................................................
della eterna «malattia» del presente.
(G. Luti, Italo Svevo, in Un’idea del ’900, a cura di P. Orvieto, Salerno editrice, Roma, 1984)
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31-36
Primo Novecento
Prova a risposta chiusa B
196
GADDA E
CALVINO
Saggio breve
o articolo di giornale
Secondo Novecento
Gadda e Calvino
Carlo Emilio Gadda, Desiderio di essere romanzesco
Nel 1928 Gadda cominciò a scrivere un racconto lungo, ispirandosi a un clamoroso processo per matricidio del momento. Il lavoro, come tanti altri dell’autore, rimase interrotto, e
solo dopo più di quarant’anni il manoscritto fu consegnato all’editore Garzanti e pubblicato.
Sul quaderno, insieme al testo, comparivano degli appunti sui propositi e i problemi dello
scrittore, da cui riproduciamo questo brano.
Mio desiderio di essere romanzesco, interessante, Dumas, Conandoyliano1: non nel senso istrionico (Ponson du Terrail2) ma con un fare intimo e
logico.[...]
In questa novella io voglio movimento romanzesco, scherlokholmesismo3, per diverse ragioni:
1.°) interessare anche il grosso pubblico. E cioè arrivare al pubblico
fino4 attraverso il grosso: doppia faccia, doppio aspetto. Interessare la plebaglia per raggiungere e penetrare un’altezza espressiva che mi faccia apprezzare dai cervelli buoni. È un metodo editoriale che richiede qualità
(Manzoni - Pr. Sposi5), ma un buono e difficile metodo. Voglio provare.
2.°) Il pubblico ha diritto di essere divertito. Troppi scrittori lo annoiano senza misericordia. Bisogna dunque riportare in scena anche il romanzo romanzesco.
3.°) Non è detto che la vita sia sempre semplice, piana, piatta. Talora è
complicatissima e romanzeschissima. Occorre provare anche ciò.
1. Dumas, Conandoyliano: romanzesco come Alexandre
Dumas (1802-1870),
il popolarissimo autore del Conte di Montecristo e dei Tre moschettieri, o come
Arthur Conan Doyle,
il creatore del genere
poliziesco con i romanzi di Sherlock
Holmes.
2. Ponson du
Terrail: romanziere
d’appendice (1829-
1871), creatore di
Rocambole; romanziere dai facili effetti
forti (istrionico).
3. scherlokholmesismo: maniera alla
Sherlock Holmes
(con grafia inesatta).
5
10
15
4. fino: di gusti letterari raffinati.
5. Pr. Sposi: esempio
di un romanzo che ha
saputo essere insieme
popolare e apprezzato
dalla critica più esigente.
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Gadda e Calvino
39-40
Italo Calvino, «Il divertimento è una cosa seria» (1983)
È uno stralcio da una conversazione con un gruppo di studenti tenuta da Calvino nel 1983
in una scuola di Pesaro.
(Il visconte dimezzato,
Presentazione,
Mondadori, Milano,
1983)
1. Bertolt Brecht: il
poeta e drammaturgo
tedesco che si può
considerare il prototipo dello scrittore
“impegnato”.
Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto
scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per
divertire gli altri.
Nello stesso tempo, io sono anche sempre molto attento ai significati: bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a
come la penso io; quindi anche i significati sono molto importanti, però in
un racconto come questo l’aspetto di funzionalità narrativa e, diciamolo, di
divertimento, è molto importante. Io credo che il divertire sia una funzione
sociale, corrisponde alla mia morale; penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una
gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato il libro, ha pagato
dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come
Bertolt Brecht1 diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il
divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria.
1
5
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Carlo Emilio Gadda,
«La lingua dell’uso piccolo-borghese…» (1942)
Nel 1942 Gadda intervenne con un articolo in un dibattito sul tema “Lingua letteraria e lingua dell’uso”, aperto su una rivista dai più importanti linguisti italiani del momento.
Riportiamo la parte conclusiva dell’intervento.
(Il viaggio, la morte, in
Saggi giornali favole, a
cura di L. Orlando,
C. Martignoni, D.
Isella, Garzanti,
Milano, 1991)
1. apodittica: schematica (propriamente
“deduttiva, che dimostra”).
2. doventare: forma
antica per diventare.
3. malati di pauperismo: affetti dalla mania di essere popolari;
pauperismo si dice
una tendenza ideologica che privilegia le
esigenze dei poveri
(latino pauper).
4. astringa... lusso:
La lingua dell’uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica1,
stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie, va bene, concedo, è lei pure una lingua: un «modo»
dell’essere. Ma non può doventare2 la legge, l’unica legge. Ripudio un tale
obbligo e una siffatta legge, quando è dettata dall’ortodossia degli inesperti
o dei malati di pauperismo3.
Può darsi che la manìa dell’ordine astringa taluni a potare la pianta di
tutte le rame capricciose della liberalità e del lusso4. Dichiaro, per altro, di
non appartenere ad alcuna confraternita potativa. La mia penna è al servizio della mia anima, e non è fante5 o domestica alla signora Cesira e al signor Zebedia6 che vogliono suggere dal loro breviario7 «la lingua dell’uso»,
del loro uso di pitta-unghie o di fabbricanti di bretelle.
Le genti le dimandano con ogni ragione delle buone e intelligibili scritture: legittima cosa, che il fratello attenda dal fratello una parola fraterna.
Ma questa prepotenza del voler canonizzare l’uso-Cesira scopre di troppo il
desiderio, e quasi l’intento, della Cesira medesima: il desiderio d’aver tutti
inginocchiati al livello della sua zucca.
costringa certuni a rinunciare alle ricchezze della lingua non
necessarie (dovute a
prodigalità dello scrit-
tore, al puro lusso).
Metaforicamente: potare dalla pianta i
rami che crescono capricciosamente.
5. fante: servitore.
6. signora Cesira...
Zebedia: nomi qualunque, per indicare
personaggi piccolo-
5
10
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borghesi di gusto mediocre.
7. suggere dal loro
breviario: alimentarsi
dalle loro letture.
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Secondo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
198
Secondo Novecento
39-40
Italo Calvino, Contro la peste del linguaggio (1984)
È un brano tratto da Esattezza, una delle Lezioni Americane che Calvino avrebbe dovuto
tenere nel 1984 presso un’università degli Stati Uniti.
(Lezioni americane,
Garzanti, Milano,
1988)
La letteratura – dico la letteratura che risponde a queste esigenze – è la
Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe
essere.
Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste
del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le
punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da
ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media
cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e
forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio.
1
5
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15
Carlo Emilio Gadda, Il mondo come «groviglio» (1928, 1963)
Riportiamo un brano da Meditazione milanese, una serie di annotazioni filosofiche centrate sul problema della conoscenza, scritte da Gadda nel 1928 e rimaste inedite fino al
1974.
1. pleistoceniche:
preistoriche
2. sparnazzando:
starnazzando.
Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano
ad altro, ad altro, infinitamente ad altro. [...]
Esempio: l’individuo umano p.e. Carlo, già limitatamente alla sua persona, non è un effetto ma un insieme di effetti ed è stolto il pensarlo come
una unità: esso è un insieme di relazioni non perennemente unite: (p.e. il
suo amore per una certa ragazza dura in lui tre mesi e la sua ira contro un
debitore otto giorni). Ma poi è assolutamente impossibile pensare Carlo
come persona, come uno, come un pacco postale di materia vivente e pensante. Ciò vien praticato su larga scala: eppure è cosa grottesca, puerile, degna di mentalità pleistoceniche1. Il suo apparire nel mondo ha dato luogo
a rapporti sociali, economici, psicologici, ecc: le galline della fattoria ‘si sono accorte di lui’ sparnazzando2 spaventate ai suoi primi strilli, il testamento d’uno zio è stato mutato a suo favore, la levatrice, il prete, la balia, il medico, il sindaco, l’ufficio anagrafe e l’ufficio leva hanno dovuto scomodarsi
per lui, accorgersi della sua presenza. Poi volle mangiare, bere, giocare, lavorare. Sono intervenuti nel mondo, dal fatto Carlo, milioni di miliardi di
nuovi rapporti. La realtà totale ha in lui un nucleo deformante e introducente in essa una infinità di rapporti.
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(Appendice, in La cognizione del dolore a
cura di E. Manzotti,
Einaudi, Torino,
1987)
1. singole… esterna:
i singoli fenomeni
della realtà esterna
all’autore.
2. nelle lettere… siano: nella letteratura.
Gadda gioca sull’espressione umanistica
humanae litterae.
Gadda e Calvino
199
Questo brano è tratto dalla premessa alla prima edizione in volume di La cognizione del
dolore.
Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di
una fenomenologia a noi esterna1: nelle stesse espressioni del costume, nella nozione accettata “comunemente” dai pochi o dai molti: e nelle lettere,
umane o disumane che siano2; grottesco e barocco non ascrivibili a una
premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura
e alla storia […]: talché il grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe
commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo,
e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine».
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Italo Calvino, La società come «collasso, frana, cancrena» (1980)
Riportiamo un brano dalla prefazione a Una pietra sopra, una raccolta di articoli e interventi di Calvino, pubblicata nel 1980.
(Una pietra sopra,
Presentazione,
Mondadori, Milano,
1995)
L’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse è stata quella del progetto
di costruzione d’una nuova letteratura che a sua volta servisse alla costruzione d’una nuova società. Quali correzioni e trasformazioni abbiano subito queste attese verrà fuori dalla successione dei testi qui raccolti. Certo il
mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La
società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (o, nelle sue
apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli.
Il personaggio che prende la parola in questo libro (e che in parte s’identifica, in parte si distacca dal me stesso rappresentato in altre serie di
scritti e di atti) entra in scena negli anni Cinquanta cercando d’investirsi
d’una personale caratterizzazione nel ruolo che allora teneva la ribalta:
«l’intellettuale impegnato». Seguendo le sue mosse sul palcoscenico, s’osserverà come in lui, visibilmente anche se senza svolte brusche, l’immedesimazione in questa parte viene meno a poco a poco col dissolversi della pretesa d’interpretare e guidare un processo storico. Non per questo si scoraggia l’applicazione a cercar di comprendere e indicare e comporre, ma prende via via più rilievo un aspetto che a ben vedere era presente fin da principio: il senso del complicato e del molteplice e del relativo e dello sfaccettato che determina un’attitudine di perplessità sistematica.
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Italo Calvino, Su Gadda (1958, 1984)
Questo brano è tratto da Natura e storia del romanzo, una conferenza del 1958.
Possiamo far entrare in questo quadro dell’oggettività soverchiante anche il
libro italiano di cui più s’è parlato negli ultimi mesi: Quer pasticciaccio
brutto de via Merulana di C.E. Gadda. Protagonista del romanzo è la città
di Roma, vista come un immenso e vischioso calderone di popoli, di linguaggi e dialetti, di civiltà, di sozzure e sublimità. Il linguaggio incrostato
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39-40
Secondo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Secondo Novecento
39-40
di tutti gli ingredienti dì questo eterogeneo calderone ribolle in primo piano: non è il flusso soggettivo di Joyce ma un flusso d’oggettività nella quale l’individuo razionalizzatore e discriminante si sente assorbire come una
mosca sui petali d’una pianta carnivora. Da questo sprofondamento dell’autore e del lettore nel ribollire della materia narrata nasce un senso di
sgomento: ma questo sgomento è il punto di partenza d’un giudizio; il lettore può in grazia d’esso fare un passo in là, riacquistare il distacco storico,
dichiararsi distinto e diverso dalla materia in ebollizione. Anche per questa
strada potremo dunque ritrovare un rapporto tra la coscienza di sé e i dati
della storia e della natura?
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(I. Calvino, Natura e storia del romanzo, in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 1997)
Una delle Lezioni Americane (1984), intitolata Molteplicità, si apre con un ampio riferimento a Gadda, da cui riportiamo questo brano.
Carlo Emilio Gadda cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo
come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni
evento.
A questa visione Gadda era condotto dalla sua formazione intellettuale,
dal suo temperamento di scrittore, e dalla sua nevrosi. Come formazione
intellettuale Gadda era un ingegnere, nutrito di cultura scientifica, di competenze tecniche e di una vera passione filosofica. Quest’ultima egli la tenne – si può dire – segreta [...]. Come scrittore, Gadda – considerato come
una sorta d’equivalente italiano di Joyce – ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia, in quanto sovrapposizione dei
vari livelli linguistici alti e bassi e dei più vari lessici. Come nevrotico,
Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce
e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a
coprire tutto il quadro. Quello che doveva essere: un romanzo poliziesco
resta senza soluzione; si può dire che tutti i suoi romanzi siano rimasti allo
stato d’opere incompiute o di frammenti, come rovine d’ambiziosi progetti, che conservano i segni dello sfarzo e della cura meticolosa con cui furono concepite.
[...] La passione conoscitiva riporta dunque Gadda dall’oggettività del
mondo alla sua propria soggettività esasperata e questo per un uomo che
non ama se stesso, anzi si detesta, è una spaventosa tortura, com’è abbondantemente rappresentato nel suo romanzo La cognizione del dolore. In
questo libro Gadda scoppia in un’invettiva furiosa contro il pronome io,
anzi contro tutti i pronomi, parassiti del pensiero: «... l’io, io! ... il più lurido di tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando
il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi ...
e nelle unghie, allora ... ci ritrova i pronomi; i pronomi di persona».
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(I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988)
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Gadda e Calvino
201
39-40
Marco Belpoliti, Calvino e Gadda
1. metasistema: il
principio ordinatore
dei diversi sistemi di
relazioni che costituiscono la realtà.
Calvino rifiuta di farsi travolgere dal rovello gaddiano di «risalire il deflusso delle significazioni e delle cause», di smarrirsi nella trama dei rimandi.
Ciò che egli rifiuta, o almeno cerca di sublimare sotto forma di pensiero
puro, è la nevrosi che domina le pagine del Gran Lombardo, la sua ossessione, la disperazione che nasce dalla disperazione di non trovare il bandolo della matassa. La sua ricerca, al contrario, ha l’obiettivo di raggiungere
una serenità dell’arte, un distacco che solo l’individuazione del metasistema1, del linguaggio semplice, con cui è scritto il libro del mondo, può assicurargli: Galileo contra Gadda.
Dinanzi al gran caos del mondo, lo scrittore ligure reagisce purificando
la propria prosa, prosciugando sulla pagina le paludi dei labirinti, dei groppi, dei guazzabugli, dei meandri, del bailamme; per Calvino il bazar, il caravanserraglio, il calderone gaddiano è elenco padroneggiabile, almeno sulla pagina.
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(M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino, 1996)
Pierpaolo Antonello, Calvino e Gadda
1. epistemologico:
relativo alla teoria
della conoscenza (epistemologia), e, più in
generale, alla visione
del mondo.
2. algido: freddo.
3. progettualità epistemologica: progetto conoscitivo, atteggiamento rispetto al
problema della conoscenza.
A privilegiare il dato stilistico su quello epistemologico1 e culturale, il
Gadda barocco ed espressionista sembra poter spartire ben poco con il
Calvino geometrizzante e algido2, con il linguaggio chiaro e spogliato di
ogni ridondanza manieristica dello scrittore ligure – e di fatto Calvino sarà
da principio colto da una ben celata allergia per l’euforia linguistica e dialettale dell’ingegnere milanese. È a partire dagli anni ’60, dopo la svolta
“conoscitiva” e epistemologica della narrativa calviniana, che le aperture di
credito nei confronti di Gadda aumenteranno esponenzialmente, fino a
quell’omaggio così preciso in apertura di Molteplicità in cui Calvino cita il
Pasticciaccio di Gadda come esempio fra i più cogenti di «romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto
come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo».
Gadda si iscrive a pieno titolo in quella costellazione di “classici” che
Calvino ha istruito negli anni, e che ha trovato emblematica sistematizzazione estetica nelle Lezioni americane. Ovviamente si tratta di un autore a
cui non riesce e non può assomigliare stilisticamente, ma con cui impara a
condividere profonde tensioni conoscitive e una esplicita progettualità epistemologica3.
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(P. Antonelli, Calvino, in The Edinburgh Journal of Gadda Studies, 2004)
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Secondo Novecento
Saggio breve o articolo di giornale
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Saggio breve o articolo di giornale Duecento e Trecento