Martedì 11 Novembre 2008
TREGNAGO
Partìsulla nave etornòcoltram
Ilpatriotache salvòdal boiagli insorti
pervedersipoisnobbato daiburocrati
Giovanni BattistaAlessi,ilgaribaldino
cheportò nellavalle ibinarideltrenino
STRANEZZE. Sembrava stravagante: semplicemente si sollazzava scrivendo sui sassi. Serenità su scommessa? Succede, se si sa sorridere
Sacerdotesanto se scherzoso
Simpatico Spada: scriveva
sullo stabilimento Safrcc
sempre sfruttando solo «S»
Se si suppone semplice...
Elettroimpianti
Q.Z.
di Quacqueri Fabio
e Zuliani Stefano
DonMarcoFerruccioSpada, sedutosul carretto,tra i sassi:non quellidacemento, che cantò,madelMonte Gardon,rimboschito nel 1936
Sfida sociale
Strambotto
sullo
stabilimento
Safrcc
In onore del cementificio don
Ferruccio Spada scrisse uno
strambotto, composizione
poetica popolare satirica o
amorosa, che nel «rispetto»
toscano è in quartine a rima
alterna, come in questo caso.
Qui ogni parola comincia con
la s: perfino la firma:
«Sacerdote Spada». Perché?
La chiave è la sigla Safrcc
dell’ultimo verso: Società
anonima fabbriche riunite
cemento e calce, che risultò
dalla fusione fra la
bergamasca Società italiana
cementi e calci idrauliche e la
Società anonima fabbrica di
calce e cementi di Casale
Monferrato, a cui si deve la
fondazione del cementificio
di Tregnago nel 1922.
SULLOSTABILMENTO
(strambotto)
Se sempre soddisfatto
sono stato
Scrivendo scherzi, scipide
storielle,
Solo stavolta sono
sfortunato
Se senza scale salgo sulle
stelle
Impianti
elettrici,
civili
industriali
e elettronici
Sentii scavar sotto scistoso
spalto
Silenzïoso sassolin sepolto
Scatenando Sanson sismico
salto,
Secoli son sul sottosuol
sconvolto.
Selenitiche schegge sette stili
Sovverchian sulle sagore
stridenti,
Sì sembran simular stridor
simili,
Se sentonsi schiacciar schifi
serpenti.
Secco, stracotto, smisurato
sasso
Sale scende sul saldo
saliscendi,
Siccome Sprotman suol, se
sente spasso,
Sereno scivolar su sci
stupendi.
Siculi scogli, sussultorio Scilla,
Salsomaggior, Sirmion,
sorgenti Strà,
Stupite. Stromboli, smorta
scintilla, scrivi: S.A.F.R.C.C.
sempiterno sol sarà.
Sac, Spada
A CURA DI
GIUSEPPE ANTI
[email protected]
Sialzailfumodallaciminiera delcementificio, aperto nel 1922
Impresa Edile e Restauri
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Don Marco F. Spada (1880-1951)
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Don Marco Ferruccio Spada,
nato a Roncolevà il 25 aprile
1880 e ordinato sacerdote il 15
agosto 1903, incoraggiato agli
studi ecclesiastici dall’allora
vescovo di Mantova e poi futuro papa Pio X, arrivò a Tregnago come cappellano della chiesa di Sant’Egidio nel 1910, dopo essere stato curato a Isola
Rizza e Monteforte e vi rimase
fino alla morte, il 22 aprile
1951. Quarant’anni durante i
quali ebbe modo di farsi conoscere, stimare e rimpiangere
dai tregnaghesi per la sua cultura e i diversi ambiti in cui eccelleva, dalla liturgia, alla musica, al canto, all’oratoria, alla
pittura e alla matematica, per
non dire delle lingue: ne conosceva sette che parlava e scriveva correntemente ed era latinista provetto.
Le sue pagelle degli anni di teologia riportano ottimi voti in
esegesi (7), dogmatica (8), diritto canonico (8), sacra liturgia
(8,5), lingua ebraica (7), sacra
eloquenza (9). Suonava con
passione un vecchio cassone
che si ostinava a chiamare violoncello, ma che dello strumento aveva solo la forma e tuttavia restava rapito da quella melodia. Si addolorò quando la
commissione per la sacra liturgia proibì di suonare in chiesa,
durante le celebrazioni, gli
strumenti d’orchestra, privilegiando esclusivamente organo e armonium. Ripeteva agli
amici musicisti: «Non è forse
musica sacra quella di Bach,
Händel, Franck: sono forse
operisti?» Passava con facilità
da discorsi teologici a dotte
conversazioni letterarie, ma
anche ad argomenti di scienza, arte e storia.
Arrivò nella rettoria di Sant’Egidio quando la chiesa era
mal ridotta da decenni di incuria, trasformata in magazzino.
Ci mise l’anima per restaurarla e ci riuscì in tempo per l’anniversario della morte del santo titolare, com’è ricordato nella lapide che il primo settembre 1921 i tregnaghesi collocarono in chiesa e che oggi, in
parte rovinata, sta al piano terra della torre campanaria:
«Questa antica chiesa, dedicata a sant’Egidio abate, nuovamente restaurata ed abbellita
per lo zelo e le cure sapienti del
cappellano don Ferruccio Spada, il popolo di Tregnago nel
XII centenario della morte del
santo titolare, con vivo sentimento d’arte e di fede inaugurava».
Quando non era in chiesa era
in canonica a far scuola perché
voleva dare un’istruzione ai
suoi parrocchiani che volessero proseguire gli studi e non
fermarsi al diploma di terza
elementare, il massimo che allora si poteva ottenere dalle
scuole del paese.
Se serviva una dedica, un discorso celebrativo, un sonetto
si ricorreva a lui come nel
1922, all’inaugurazione del cementificio. In quattro versi
don Ferruccio sintetizzò: «Tregnago stanco della sua collina/ troppo avara di biade e di
frumento/ pensò di trar da’ sassi la farina/ coi forni bergamaschi del cemento». A lui fu affidata nel 1924 l’organizzazione
per il centenario della nascita
di Abramo Massalongo, naturalista e patriota, capostipite
di una famiglia che ha lasciato
segni a Tregnago e a Verona.
Prete colto ma semplice, si entusiasmava per le piccole cose
e spingeva gli animi a guardare a quelle più grandi. Nel primo anniversario della morte
don Ernesto dalle Pezze, parroco di Tregnago, ricordò un episodio: «Nell’istante in cui la
Madonna Pellegrina entrava
trionfalmente nello stabilimento (il cementificio, ndr) al
suono della sirena, vidi le guance di don Ferruccio bagnarsi
di pianto».
Pur nella sua grande cultura
era un prete di campagna: lo si
poteva incontrare tutti i giorni
mentre recitava il rosario lungo la Canesela, una stradina
adiacente alla canonica che
era anche il suo posto di caccia.
Grande oratore, dal pulpito
ebbe parole tonanti e minacciose e proprio qualche sua parola di troppo, qualche predica-verità fu all’origine dei guai
con il regime fascista, che nei
primi mesi del 1945 lo arrestò
con una decina di altre persone: restò in carcere a Verona
fino all’arrivo degli Alleati.
Quando tornò a Tregnago non
era più lo stesso e faticò a riprendersi, fino al giorno della
sua morte, sei anni dopo. f
IB07252
Vittorio Zambaldo
VOLTIVERONESI
31
L'ARENA
32 Volti di Tregnago
L'ARENA
Martedì 11 Novembre 2008
Libertà&tramway
L’avventura di un idealista, dal Risorgimento al socialismo
1860
L’ANNODELLASPEDIZIONE
DEIMILLEINSICILIA
ALESSISIIMBARCA
SULPIROSCAFOUSA
CITYOFABERDEEN
MAÈCATTURATO
1881
L’ANNODELL’INAUGURAZIONE
PERLATRAMVIAVERONESE
ALESSIFACARRIERA
AMILANOEDIVENTA
PIONIEREINITALIA
DEITRAMAVAPORE
Volti di Tregnago 33
L’ARENA
Martedì 11 Novembre 2008
Un’idea
digiustizia
Ilsognodelgaribaldino:
«Garantireatuttitempo
perlavorare,perriposare,
peristruirsiededucarsi»
1883
L’ANNOINCUISIATTIVALALINEA
SECONDARIATREGNAGO-STRA’
ALESSIOTTIENE
ANCHELADIRAMAZIONE
PERSERVIRE
LASUAVALD’ILLASI
Uomod’azione
edipensiero
«Redenzionemorale
ematerialedelpopolo»
GIOVANNIALESSI
GARIBALDINO,AVVOCATO(1837-1911)
PERSONAGGIO. Arrivò a Genova in ritardo per imbarcarsi, ma salpò con i rinforzi su un piroscafo americano. In tempo per battersi a Milazzo
RICORDI. La tramvia Stra’ di Caldiero-Tregnago fu aperta nel 1883 e riconvertita nel 1955
Quelgaribaldino
chepartìin nave
eritornò col tram
Dal treninoalla filovia
soppressasenza intuito
Giovanni Alessi fu tra i Mille
e poi diventò pioniere
dei trasporti pubblici, grazie
a lui arrivati pure in valle
Vittorio Zambaldo
«Questi uomini non si commemorano, si sentono», disse Felice Cavallotti, giornalista e politico della sinistra radicale, a
proposito dei garibaldini, a cui
lui stesso appartenne. Così dovrebbe essere per Giovanni
Battista Alessi, avvocato, nato
nel 1837 e morto nella sua casa, Villa Adelia di Tregnago, il
14 novembre 1911. Studente a
Padova partecipa ai tumulti risorgimentali del 1859 e organizza una spedizione in Lombardia per unirsi a Novara alle
truppe del Piemonte, di cui si
vocifera un’intesa con la Francia per attaccare l’Austria. Ma
viene bloccato a Brescia e portato in carcere per strappargli
i nomi degli altri cospiratori.
Non ottenendo alcunché da
lui, gli austriaci lo mandano a
Ulm per il servizio militare e
poi a Salisburgo, da dove è rinviato in Veneto col reggimento
dell’arciduca Sigismondo, ma
in una notte del dicembre
1859, durante una tempesta di
neve, passa il Mincio per disertare e unirsi ai piemontesi. Processato in contumacia, è condannato a morte dal governo
austriaco.
Dopo la pace che consegna la
Lombardia al Piemonte, si trasferisce a Modena, territorio
sotto commissariamento piemontese, passato al nuovo Regno d’Italia con il plebiscito
del 1860, e a Modena completa
gli studi e si laurea in giurisprudenza. Nella primavera
del 1860 sente parlare di una
possibile spedizione di Garibaldi in partenza dalla Liguria
e manda un amico a Genova
per informarsi. Questo arriva
a Quarto il 5 maggio, quando
le navi stanno partendo e salpa con le camicie rosse il giorno successivo. Dopo la battaglia di Calatafimi (15 maggio)
e l’insurrezione di Palermo
(27-30 maggio) Alessi, deluso
di aver perso la nave, va in Liguria e il 9 giugno fa in tempo
a salire a Genova su un veliero
americano, il piroscafo City of
Aberdeen, con 2.000 uomini,
tra carabinieri genovesi e un
contingente al comando del colonnello Corte.
Tra la Corsica e la Sardegna
la nave viene intercettata da
tre fregate borboniche che con
la minaccia di tre colpi di cannone costringono l’equipaggio alla resa. Però una seconda
nave, carica di armati e guidata dal generale Giacomo Medici, può arrivare indisturbata in
Sicilia e portare forze fresche
all’impresa garibaldina. Nuovamente catturato, Alessi finisce ancora in carcere, questa
volta a Gaeta. Dopo venti giorni arriva provvidenziale un’or-
dinanza del re di Napoli Francesco II di Borbone che libera i
prigionieri malati e stremati.
Molti tornano a casa, altri ripartono per la Sicilia, dove Garibaldi sta preparando lo scontro decisivo per la conquista
dell’intera isola.
Alessi arriva in tempo per il
battesimo del fuoco a Milazzo,
il 20 luglio, la più cruenta delle
battaglie siciliane, nella quale
resta sul campo un sesto dei
combattenti.
Su una cartolina acquistata a
Milazzo mezzo secolo dopo in
occasione del viaggio in Sicilia
con la figlia Luigia, moglie di
Oreste Castiglioni. Alessi rievocò la sua parte nella battaglia.
Sulla cartolina è ritratta la
chiesa di Santa Maria con a
fianco una piccola croce rossa
segnata da Alessi di suo pugno, mentre sul retro scriveva:
«Nel giorno 20 luglio 1860, al
chiudersi vittorioso della battaglia di Milazzo, il generale
Garibaldi ordinò al volontario
G.B. Alessi e ad altri suoi commilitoni di erigere una barricata nel punto tinteggiato di rosso, di fianco alla chiesa di Santa Maria Maggiore, asportandone i banchi, per impedire alle truppe borboniche, ancora
minacciose, di discendere improvvisamente dal Castello
ove si erano concentrate. L’ordine ebbe immediata esecuzione».
Nel risalire la Penisola Alessi
ottiene il grado di caporale e
viene inquadrato nel reggimento del generale Giacomo
Medici, amico intimo di Garibaldi fin dai tempi delle guerre
di liberazione in Sud America,
e con lui partecipa al fatto d’arme di Caiazzo, in provincia di
Caserta. In quell’occasione i
popolani, guidati dal maniscalco Nicola Santacroce, nelle
giornate del 20 e 21 settembre
1860, si schierarono dalla parte dei Borbone: Caiazzo fu
l’unica località nella quale la
popolazione in armi, schierata
con l’esercito borbonico, respinse i garibaldini, che in una
fase della battaglia del Volturno in un primo momento riuscirono a occupare l’abitato,
ma poco dopo furono sopraffatti dalle truppe borboniche,
senza che tuttavia cambiassero le sorti della battaglia decisiva del Volturno.
Sui fatti legati a Garibaldi
Alessi tornerà ancora nel 1910,
un anno prima della morte,
per rispondere a chi gli chiedeva notizie sull’appoggio fornito dall’Inghilterra alla spedizione e sull’atteggiamento del
governo piemontese: «Quelli
che siamo qui non eravamo
che dei militi semplici e dei modesti sottufficiali: nessuno era
addentro alle segrete cose»,
aveva risposto. f
La linea provinciale fu abolita nel 1974, proprio quando
il rincaro del petrolio doveva suggerire di tenerla in attività
Una battaglia
AMilazzo,
sottoicolpi
dell’armata
borbonica
Un episodio al seguito di
Garibaldi nella spedizione dei
Mille è raccontato da
Giovanni Battista Alessi
stesso in una lettera in cui
risponde ai familiari del
volontario Domenico Battiti
che gli chiedevano notizie. «Il
battaglione dei toscani ebbe
a soffrire grandi perdite,
ingolfatosi nelle strade
affondate, fulminato da una
batteria nascosta. A
sostenere il battaglione fu
staccata una compagnia
comandata dal’intrepido
capitano Friggessy alla quale
appartenevamo noi pure. Si
continuò ad avanzare verso il
promontorio di Milazzo,
malgrado perdite enormi.
Cadde al nostro fianco il
colonnello Corte. Si poté
occupare, verso
mezzogiorno, un cascinale
situato in un punto elevato
della campagna tutta
attraversata da siepi di fichi
d’India che servivano ai regi
da feritoie e da ripari. In
questa cascina mi sono
trovato io pure con l’amico
Giuseppe Garibaldi a Milazzo
Battiti e con altri militi di diversi
corpi, perché dopo alcune ore di
combattimento, mancando
anche gli ufficiali, in parte morti,
in parte feriti, si procedeva tutti
alla rinfusa. Noi due ci eravamo
appostati presso i due pilastri
alla porta del cascinale contro
cui i regi rivolsero i loro colpi di
mitraglia e di granata. Uno
scoppio frantumò la porta e noi
cademmo avvolti in un nuvolo di
terriccio; cademmo acciecati
senza più vederci l’un l’altro. Né
io vidi più l’amico né l’amico vide
più me per tutta la giornata; né
lo incontrai più tardi quando
raggiunsi gli avanzi del
battaglione che aveva perduto il
suo comandante maggiore
Migliavacca. Io rimasi salvo non
avendo nel colpo tremendo
riportato che delle graffiature
alla faccia, Entrato in Milazzo,
chiesi conto dell’amico mio; ma
mi si disse che egli era morto là
nel cascinale dove era caduto
con me».
GiovanniBattistaAlessi (1837-1911), garibaldino, avvocato
Alessi,secondodasinistra, nei primi delNovecento:la foto ha il timbrodi unostudio milanese, mapotrebbe esserestata fatta alla stazioneveronesedi Porta Vescovo
Stazionedi Caldierodellatramvianel primo Novecento: arrivailtram daVerona,in primo piano,e partequello perTregnago, dietro
IDEALISMO. Dopo la militanza garibaldina, Alessi diventò direttore di «Verona del Popolo» e si battè per l’uguaglianza
AlessandroTutinomostraa Tregnagola camiciarossa delbisnonnogaribaldino GiovanniBattista Alessi
Il primo tram della linea Verona-San Bonifacio partì per il
suo viaggio inaugurale il 17
agosto 1881 tra ali festanti di
curiosi. Il vapore partì alle 7.20
da Porta Vescovo, allora poco
più che una baracca in legno
perché esigenze militari proibivano di costruire edifici alti
a ridosso delle mura cittadine.
Ci fu un deragliamento di due
vagoni, senza conseguenze, al
forte di San Michele, ma il viaggio proseguì in un clima festoso, salvo che a San Martino
Buon Albergo, dove il sindaco
era contrario all’opera e non si
presentò, mentre a Soave il sindaco si fece accompagnare dalla banda. Il viaggio si concluse
a San Bonifacio alle 9.12 e il 1
novembre 1881 cominciò il servizio pubblico. Per gli 11,3 km
di deviazione da Stra’ di Caldiero a Tregnago si dovette attendere ancora fino al 12 aprile
1883. La tratta in pianura era
coperta alla velocità di 20
km/h, solo 18 km/h invece per
il tratto in pendenza della Val
d’Illasi.
Nel 1911 cominciarono i lavori per elettrificare la linea fino
a San Bonifacio, inaugurata
un anno dopo, ma la prima
guerra mondiale portò a diradare il servizio, bloccando anche la costruzione di nuove linee. Alla Società anonima dei
tramways a vapore Verona-Vicenza, di cui era stato rappresentante l’avvocato Alessi, subentrò la Provincia: i dipendenti, tornati in miseria dal
fronte, chiedevano aumenti salariali, ma la società non era in
grado di far fronte alle richieste, avendo già pagato indennità e caro-viveri al personale in
«L’Arena»: «Uomo buono
anche se le sue idee
non erano certo condivise
dalla maggioranza»
Unpatriotasocialista
Lasualinea:«LoStato
hadeidoveriversoleclassi
menofortunate.Dare
impulsoallaredenzione»
Con la fine dell’impresa dei
Mille, Alessi si stabilisce a Milano, esercita la professione di
avvocato e asseconda le lotte
per le libertà politiche e la giustizia sociale.
L’avvocato ed ex camicia rossa garibaldina fa proprie le
idee socialiste e scrive su Vero-
na del popolo, che arriva a dirigere, salutando così le celebrazioni del Primo Maggio: «Credo che non vi sia giustizia sociale se non quando a tutte le
classi sarà concesso in congrua misura tempo per lavorare, tempo per godere e riposare, e tempo per istruirsi ed educarsi».
Alessi partecipa alle lotte per
la libertà di organizzazione e
di sciopero e diventa presidente della Società Umanitaria,
che regge per dieci anni fino al-
la morte. Si tratta di un’istituzione nata nel 1893, grazie al
lascito di un mecenate ebreo
mantovano Prospero Moisé
Loria, che le assegnò molteplici beni finanziari e un'intera
area edilizia situata nel pieno
centro di Milano per l'istituzione delle classi più povere, con
lo scopo di «mettere i diseredati, senza distinzione, in condizione di rilevarsi da se medesimi, e di operare per l'elevazione professionale, intellettuale
e morale dei lavoratori». In
principio l’Umanitaria dovette superare problemi giuridici
con gli eredi di Loria che impugnarono il testamento, poi l'ente dovette accettare le leggi autoritarie del generale Bava Beccaris che, durante i moti milanesi del 1898, ne chiuse i battenti, in quanto presunto covo
di pericolosi sovversivi, vicina
agli agitatori sociali dei primi
scioperi operai.
Ma Alessi non demorde e insiste nella sua idea: «Noi crediamo che lo Stato abbia dei dove-
ri da compiere verso le classi
meno fortunate; e primo quello di dare impulso alla loro redenzione morale e materiale,
favorendo tra gli operai e i contadini la costituzione delle associazioni del lavoro e affidando a queste le imprese che ora
si abbandonano ai privati speculatori, i quali traggono i loro
lauti guadagni sfruttando i sudori e le fatiche altrui: e l’esempio dello Stato dovrebbe essere seguito dalle altre pubbliche amministrazioni». Alessi
fu eletto membro dell’Ordine
degli avvocati e della commissione per la stesura del nuovo
codice del commercio, oltre
che consigliere comunale a Milano dal 1899 al 1910. f V.Z.
UNA STORIA
GLORIOSA
Siandavaincittà
infiloviarossa
LalinetramviariaStra’diCaldiero-Tregnago, derivazione dalla
Verona-Vicenza, fu inaugurata
nel 1883, con motrici a vapore.
Negli anni Venti del Novecento
venne elettrificata e nel 1955
trasformata in filovia, Le famosefilovierosseandaronoinpensionenel1974.Undoverosoringraziamentoperlacollaborazione prestata nella realizzazione
diquestoinsertovaa:WalterFostari, Paola Milli, Aldo Ridolfi,
Aurelio e Ida Venturini.
1
ESORDIO. Il tram a vapore in partenza da Tregnago a fine Ottocento. La
velocità, salendo in Val d’Illasi, era di 18 chilometri orari, 20 in pianura.
2
IL CASO. Socialista e libero pensatore, Alessi volle esequie civili. La stampa scelse di ignorare lo «scandalo»
Ilfuneralesenza prete
concorteodi polemiche
Lastazione dellatramviaaStra’di Caldiero neglianniCinquanta delNovecento,; adestra,i binaridellalinea Verona-Vicenza; asinistra, ladiramazione per Tregnago
armi. La proposta di ritocchi alle tariffe non fu ammessa e la
società lasciò definitivamente
l’impresa. Proseguirono comunque i lavori per l’elettrificazione totale e per le nuove linee della Valpantena, fino a
Grezzana, inaugurata il 10 dicembre 1922, e della Val
d’Alpone, fino a San Giovanni
Ilarione, inaugurata il 28 ottobre 1928.
Ma le condizioni economiche continuarono a peggiorare finché la Provincia fu costretta a cedere l’esercizio il 26
marzo 1935 alla Saer (Società
anonima elettrovie romagnole), creata dalla Breda di Sesto
San Giovanni per gestire il trasporto pubblico in molte città
italiane e nata anche per sviluppare il trasporto su filovia
sostituendo gradualmente la
tramvia. La filovia aveva il vantaggio di non essere obbligata
dalle rotaie, di essere più comoda e silenziosa, di non necessitare di combustibile d’importazione e di risparmiare sull’acciaio delle rotaie, indispensabile per l’industria bellica che si
stava armando.
La prima filovia entrò in funzione a Verona nel 1937, tra
Porta Nuova e Porta Vescovo,
ma si dovette attendere il dopoguerra (1955) per l’avvio graduale delle tre linee filoviarie
provinciali (per Grezzana, San
Bonifacio e Tregnago). Durarono poco più di un decennio: la
prima filovia provinciale fu
soppressa nell’ottobre 1968,
l’ultima nel 1974, proprio in
piena crisi petrolifera, quando
ben altri dovrebbero essere stati i propositi e gli intendimenti
degli amministratori. f V.Z.
Per la sua preparazione nelle
questioni legali di industria e
commercio, Alessi rappresentò in Italia, come consigliere
delegato, la Società anonima
dei tramways a vapore, costituita a Bruxelles con capitale belga e autorizzata a esercitare in
Italia e tramite la quale realizzò le linee Verona-Vicenza,
con la deviazione per la Val d’Illasi, Milano-Gallarate e RomaTivoli.
È il gennaio 1879 quando l’avvocato Giovanni Battista Alessi, veronese trapiantato a Milano, e l’imprenditore milanese
Felice Grondona, costruttore
di carrozze ferroviarie, fanno
la proposta alla Provincia di
Verona di costruire una ferrovia a vapore da Porta Vescovo
a San Bonifacio con deviazioni
a Tregnago e Soave, a patto di
poter utilizzare parte del sedime stradale. La concessione arrivò per delibera il 20 ottobre
1879 e la durata fu fissata in 60
anni. In meno di tre anni l’opera fu inaugurata
«Era un gentiluomo», scrive
di lui Il Secolo di Milano, il 15
novembre 1911, il giorno dopo
la morte. «Nella milizia democratica rappresentava una tradizione di gentilezza, di disinteresse, di altruismo. Scompare con lui un cavaliere della
bontà, un soldato operoso, modesto, sereno, nella dura battaglia incessante contro le numerose ingiustizie e infelicità della vita».
Un fatto doloroso colpì le esequie che si celebrarono a Tregnago nel pomeriggio del 16
novembre, ma di cui non tutti i
giornali del tempo diedero notizia.
Alessi aveva chiesto per sé la
cremazione e il funerale con rito civile. La salma era stata
esposta per alcuni giorni nella
villa di famiglia, coperta dalla
camicia rossa garibaldina che
il pronipote Alessandro Tutino ancora conserva a Villa Adelia. Il feretro fu portato a braccia dai contadini della sua tenuta, seguito da una gran folla
Necrologioin mortedi GiovanniBattistaAlessi: funerali solocivili
di amici venuti anche dalla
Lombardia, preceduto dalla
banda, dai bambini delle scuole elementari e da una scorta
armata dell’associazione Tiro
a segno nazionale, già presieduta da Garibaldi, che voleva
così rendere omaggio al patriota combattente.
«Questa è stata la degna risposta data dalla fierezza d’animo e dalla bontà dei lavoratori», scrive L’Avanti! di Milano,
«al settarismo clericale che
aveva osato di disturbare la
mesta cerimonia gridando al
“sacrilegio” contro il funerale
civile. La cerimonia solenne e
commovente ha testimoniato
della stima e dell’affetto grande di cui era circondato l’avvocato Alessi, il quale, sebbene
ispirasse sempre tutti gli atti
della sua vita a sentimenti di
mitezza e di equanimità, non
fu risparmiato dall’intolleranza clericale che tentò di impedire l’espressione unanime e
sentita di affettuoso compianto che gli venne tributata».
Dall’Arena nessun cenno all’episodio controverso, se non
un larvato riferimento parlando di «un uomo supremamente buono, professionista integerrimo, tenace nelle sue idee,
che certamente non erano condivise dalla grande maggioranza della popolazione, ma nello
stesso tempo rispettoso delle
opinioni altrui e per questo
amato e stimato dai suoi stessi
avversari». f V.Z.
ELETTRIFICAZIONE. Motrice elettrica, negli anni Venti del Novecento;
nel 1935 subentrò la Saer. Il popolo leggeva: «Salti alti e rebaltoni».
3
FILOVIA. Nel 1955 addio ai binari, arriva il filobus. Eccolo a Tregnago in
via Cipolla, presso la stazione. È un successo, ma durerà solo 19 anni.
4
ECOLOGICO. Filobus articolato a tre assi, che veniva usato sulle linee
provinciali negli orari di maggiore affluenza: silenzioso, capiente, pulito.
34 Volti di Tregnago
L'ARENA
Martedì 11 Novembre 2008
MEMORANDUM. Valentino Pomari, eroe del Risorgimento, passò la vita cercando di ottenere la patente di reduce. Invano. La burocrazia fu peggio dell’Austria
Salvòdal boia ipatrioti
emorìsenza un grazie
«Eppure dovranno
riconoscermi!» Nelle ultime
parole dell’incompreso
un’ amarezza tutta italiana
Vittorio Zambaldo
Avventurosa quanto sfortunata la vita di Valentino Pomari,
di Cogollo, nato nel 1820, personaggio epico delle battaglie
risorgimentali, ma che non è
entrato in nessun libro di storia, nonostante i suoi eroismi.
Da soldato di leva nell’Imperial regio esercito d’Austria, si
trovò col grado di sergente a
Bergamo nel marzo 1848, nei
giorni delle insurrezioni nazionaliste in tutta Europa. Con altri italiani arruolati come lui,
compì un colpo di mano entrando in tribunale e liberando i conti veronesi Camuzzoni
e Frisoni che erano in giudizio
per la condanna a morte come
insorti. Datosi alla fuga dopo
l’impresa, si arruolò con il corpo franco lombardo-veneto,
partecipando alle scorribande
di guerriglia durante la prima
guerra d’indipendenza che li
videro impegnati nel Bresciano e in Trentino. Riuscì persino e impadronirsi di una bandiera austriaca, che fece arrivare a Torino come trofeo di guerra.
Partecipò alla battaglia di
Santa Lucia, alle porte di Verona con la speranza di entrarvi
da vincitore, ma i piemontesi
dovettero ritrarsi e Pomari,
man mano che avanzano gli
austriaci, si fermava nelle città
lombarde, a Brescia, a Milano
per aiutare gli insorti e la resistenza, fino alla capitolazione
del re Carlo Alberto. Proprio a
Milano divenne amico di Goffredo Mameli che lo chiamava
«il tregnaghese». Partecipò alle insurrezioni di Genova e di
Bologna e alla sfortunata battaglia di Mortara, dove i piemontesi furono costretti all’armistizio e da lì si diresse a Roma per difendere la repubblica nata per iniziativa di Mazzini, Garibaldi e Manara. Caduta Roma, puntò su Venezia che
ancora resisteva assediata.
Qui ancora si distinse con
un’azione di commando al forte di Pellestrina, sorprendendo la guarnigione a pranzo e
razziando viveri da distribuire
fra gli insorti. Tornò a Verona
ferito, raccontando di essere
stato prigioniero dei piemontesi, il che gli valse la possibilità
di farsi curare in ospedale e
poi mandare a casa in congedo.
Ma anche a Cogollo non riuscì a starsene mai tranquillo,
aiutando patrioti, disertori e
giovani che volevano arruolarsi volontari per le guerre d’indipendenza del 1859 e ’66. Nel
’59 si offrì di aiutare un compaesano a passare coi piemontesi che erano accampati oltre
Peschiera e approfittando del
passaggio sul carro di un mercante di buoi, che era solito fare la spola e non era controllato con il foglio di via, la cosa gli
riuscì. Ripeté ancora lo scherzo del prigioniero dei piemontesi per entrare in Peschiera assediata e ancora una volta fu
creduto, tanto da ottenere il foglio di via per tornarsene a Cogollo liberamente.
Di tutte queste avventure
conservò sul corpo le cicatrici
e una medaglia di zinco, con la
scritta «Banda Manara» su un
lato, un teschio, un crocefisso
e un’invocazione sull’altro.
Nella sua povera casa aveva i
Ilfrontespizio dell’opuscolosul patriota scritto daLuigiVenturini
Riscoperte
TregnagoafineOttocento, quando viveva ValentinoPomari: sul colle, senzaalberi,lerovine delcastello
Lapiazza delMercato(oggi piazzaMassalongo) in un’altra immaginedifine Ottocento
ritratti di Vittorio Emanuele e
Garibaldi e invano aveva cercato quello di Manara da unire a
loro. «Spesso tornava a deplorare», racconta Luigi Venturini, il biografo appena ventenne che lo frequentò e raccolse
le sue memorie, «il confronto
fra il valore degli insorti lombardi e la mitezza dei veneti,
che se avessero avuto più energia avrebbero salvato la patria».
Ma nonostante la gloria sui
campi di battaglia si ridusse in
miseria, con moglie e due figli
piccoli da mantenere. Quando
sentì raccontare da un reduce
di Soave che lui aveva ricevuto
un assegno dallo Stato per le
sue partecipazioni alle battaglie per l’indipendenza, si pre-
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sentò in municipio a Tregnago
il 2 ottobre 1878 per ottenere
altrettanto, ma sindaco e segretario gli dissero di essere all’oscuro della cosa. Tornò l’anno dopo con due testimoni per
raccontare le sue imprese che
fossero messe a protocollo e inviate alla commissione di Roma incaricata di risarcire i reduci, ma invano. Da Roma gli
fu risposto che «era scaduto il
tempo utile al ricorso» e perfino la Cara reale, a cui si era rivolto, si limitò a rispondere
che la domanda era stata inoltrata a chi di competenza.
Ma lui testardo, una sola imprecazione si lasciò sfuggire,
annota il biografo: «Li abbiam
messi a sedere noi e ora ci dimenticano». Avrebbe voluto
morire in battaglia Valentino
Pomari, invece lo vinse la pellagra, una sera, tornando dalla
raccolta delle ciliegie. Gli furono negate le medicine perché
non iscritto fra i poveri e le ultime parole prima di morire, sotto gli occhi del prete, furono:
«Gran fati che no i me riconossa!».
Venturini raccolse delle offerte per mettere sulla tomba
un’epigrafe che così recitava:
«A Valentino Pomari di Cogollo, morto a 64 anni il 22 giugno
1884, fuggì dall’esercito austriaco il 1848 a Bergamo, combatté bersagliere lombardo gli
anni 1848-49 in Lombardia, in
Tirolo, a Venezia, a Roma. Visse povero, ma giovine sempre».f
L’unico
estimatore
nescrisse
leavventure
Niente sapremmo di
Valentino Pomari di Cogollo
se un giovane studente
compaesano, Luigi Venturini,
poi diventato professore di
lettere al liceo Tulliano di
Arpino (Frosinone) non ne
avesse raccolto le confidenze
e non avesse poi pubblicato
un opuscolo nel 1886, due
anni dopo la morte di Pomari,
Il testo è stato ritrovato e
riproposto da Aldo Ridolfi,
appassionato di storia e di
arte del proprio paese, sulle
pagine della rivista
Cimbri-Tzimbar, di cui è
redattore.
VENTURINIera figlio di Natale,
originario di Velo,
agrimensore e primo maestro
a Cogollo nel 1862 e
capostipite di quella stirpe di
«Maestri», come ancora sono
soprannominati i Venturini di
Cogollo, sui discendenti, che
si distinsero in vari campi:
dall’insegnamento, alla
medicina e alla farmacia.
Luigi, laureatosi a Bologna
Luigi Venturini (1865-1944)
con Giosuè Carducci, tenne con
il poeta un fitto carteggio, come
anche con Saffi, Gandino e
Siciliani. Presidente della
società Dante Alighieri, per
diversi anni ricoprì anche le
cariche di assessore e
vicesindaco di Arpino, dove
volle restare sempre,
nonostante la nomina a preside
del liceo-ginnasio di Ancona,
dove rifiutò di trasferirsi. Un
grave dolore lo colpì con la
morte del figlio primogenito
Antonio a Bressanone nel 1918,
dopo essere stato combattente
nella Grande guerra. Pur lontano
conservò sempre un grande
affetto per il suo paese e per il
Verona, tanto da pubblicare nel
1900 un Saggio di guida dei
Lessini. Morì dopo cinquant’anni
di insegnamento il 26 agosto
1944 ma della sua scomparsa si
seppe in paese solo un anno
dopo, a causa delle difficili
comunicazioni per la guerra in
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