UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Dipartimento di diritto privato e del lavoro italiano e comparato
Corso di dottorato di ricerca in
Diritto privato comparato e diritto privato dell’Unione Europea
XXIV ciclo
TESI DI DOTTORATO
“LA GIURIDIFICAZIONE DELLA STORIA:
LEGGI SULLA MEMORIA,
NEGAZIONISMO, RESPONSABILITÀ”
Coordinatore: Ch.mo Prof. Ermanno Calzolaio
Tutor: Ch.mo Prof. Giorgio Resta
Dottoranda: dott.ssa Marina Dimattia
Anno 2012
0
Indice
INTRODUZIONE ............................................................................................................ 4
Capitolo I ........................................................................................................................ 12
TRA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E STIGMATIZZAZIONE PERNALE DEL
NEGAZIONISMO .......................................................................................................... 12
1. La prima fase del percorso di giuridificazione della storia: il “diritto di
Norimberga” come “spartiacque” ............................................................................ 12
2.
L’arte di distorcere il passato: dalla rievoczione all’imposizione ..................... 16
3.
Profili penalistici del reato di negazionismo ...................................................... 19
4.
I limiti dellla libertà di espressione .................................................................... 22
5. La legittimità delle azioni di risarcimento danni a seguito di condotte
negazioniste ................................................................................................................ 25
6.
Il dibattito sulla sanzionabilità delle condotte negazioniste in Italia................ 27
7. La storia in giudizio: il caso del genocidio degli armeni di fronte al Tribunale
di Torino ..................................................................................................................... 31
Capitolo II ....................................................................................................................... 35
IL CONTRASTO AL NEGAZIONISMO E LA GARANZIA DELLA LIBERTÀ
D’ESPRESSIONE: LA PROSPETTIVA DELLA COMMISSIONE EUROPEA DEI
DIRITTI DELL’UOMO ................................................................................................. 35
1.
Essere negazionisti in Europa e fuori: tra detenzione e libertà ........................ 35
2.
Un panorama sulle leggi memoriali in Europa ................................................. 37
2.1
La negazione come unico oggetto di sanzione ........................................... 39
2.2
La proibizione del negazionismo oltre l’Olocausto .................................... 42
2.3
Tentativi infruttuosi di proibizione del negazionismo .............................. 45
2.4
La situazione olandese: un approccio «intermedio» .................................. 46
3.
La protezione della libertà di espressione nella giurisprudenza della
Commissione Europea e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo………………..47
3.1 Restrizione della libertà di espressione a protezione della morale pubblica .
……………………………………………………………………………………..51
3.2
Restrizione della libertà di espressione a protezione dell’ ordine pubblico ...
……………………………………………………………………………………..52
3.3
Restrizione della libertà di espressione a favore della prevenzione del
crimine e in virtù della notorietà dei fatti contestati ............................................. 53
3.4
Restrizione della libertà di espressione per i “precedenti vincolanti” in
materia di negazione della Shoah .......................................................................... 54
1
3.5
Restrizione della libertà di espressione a protezione dei diritti altrui ....... 55
3.6
Restrizione della libertà di espressione a seguito dell’incitamento alla
discriminazione razziale ......................................................................................... 57
3.7 Un caso isolato: la Commissione europea dei diritti dell’uomo si
pronuncia a favore dei ricorrenti ........................................................................... 58
4. La decisione quadro del Consiglio d’Europa in materia di apologia, negazione
o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l' umanità e
crimini di guerra......................................................................................................... 59
4.1
La trasposizione della decisione quadro ..................................................... 63
4.2
Riforme normative nazioniali a seguito della decisione quadro................ 63
4.3
Estensione della portata della decisione quadro ........................................ 64
4.4
Modelli formalmente “non interventisti” ................................................... 66
5. La negazione della Shoahe l’incitazione all’odio razziale: tendenze del diritto
internazionale ............................................................................................................. 67
6.
Cenni sull’esperienza nordamericana ............................................................... 71
Capitolo III ...................................................................................................................... 73
1.
Le lois mémorielles: presupposti e caratteri ...................................................... 73
2.
Le leggi memoriali successive alla legge Gayssot .............................................. 76
3.
Prima della legislazione memoriale: il caso Henri Roques ............................ 83
4. La legge Gayssot di fronte alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e al
Comitato dei diritti umani Onu.................................................................................. 87
5.
La voce degli storici francesi .............................................................................. 92
6. L’inidoneità’ della legge Gayssot: problemi “tecnici” e obiezioni alla
legittimità costituzionale .......................................................................................... ..98
7. La repressione del negazionismo attraverso la responsabilità civile (art. 1382
code civil) .................................................................................................................. 103
Capitolo IV ................................................................................................................... 109
L’ESPERIENZA NORDAMERICANA ...................................................................... 109
1.
Il risultato della libertà incondizionata degli Stati Uniti ................................. 109
2.
Il regime del “discorso dell’odio”..................................................................... 112
3.
Cosa si nasconde nel passato americano? ....................................................... 114
4.
Il “judicial notice” emesso nelle Corti americane: il caso Mermelstein ........ 117
5.
La corsa verso i campus universitari: il caso Smith ........................................ 118
2
6.
L’esperienza canadese: un approccio intermedio ........................................... 120
7.
La “trilogia” delle corti canadesi a confronto: il caso Keegstra ..................... 123
8.
7.1
Il caso Taylor ............................................................................................. 126
7.2
Il problema del negazionismo online ........................................................ 127
7.3
Il caso Zündel ............................................................................................ 129
Il fenomeno dell’ “adversarial legalism” e la “hearsay rule” ....................... 131
Capitolo V ..................................................................................................................... 134
“HOLOCAUST LITIGATION”: IL CONTENZIOSO CIVILE IN MATERIA DI
OLOCAUSTO .............................................................................................................. 134
1. Dai “tribunali della storia” alla storia nei tribunali: la recente inversione di
tendenza. Common law e civil law a confronto....................................................... 134
2.
Si può riparare la storia? ................................................................................ 136
3.
Le liquidazioni dei debiti della storia, tra riparazioni materiali e pentimento 143
4. Il problema dell’immunità degli Stati e la questione della responsabilità per il
massacro di Civitella ................................................................................................ 147
5. Il limite della prescrizione nelle richieste di risarcimento per i danni da lavoro
forzato: i casi Mantelli e De Guglielmi ................................................................... 154
CONCLUSIONI………………………………………………………………………160
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………………...165
3
INTRODUZIONE
Il fatto che il governo turco continui a negare che un milione e mezzo di Armeni siano
stati assassinati sotto il regime ottomano, riducendo numericamente la cifra delle
vittime, e rifiutando di definire l’accaduto con il temine “genocidio”, sposando invece
l’idea che la corretta dicitura sia rappresentata dal “più benevolo” termine “massacro”;
se proliferano scritti e pensieri che vanificano quanto sia stato riportato sino ad oggi nei
libri di storia circa l’esistenza delle camere a gas, minimizzando l’Olocausto, la
metafora del ventesimo secolo; e se qualcuno comincia a non voler più tollerare
opinioni minoritarie e parole inappropriate riferite ad un passato già di per sé inadeguato
e offensivo, è evidente che qualcosa nell’approccio con il passato sta cambiando. Il
passato non è più percepito come oggetto di conoscenza, senso di profondità senza il
quale una comunità sarebbe persa, ma come fonte perpetua di risentimento. Sono questi,
infatti, i marcatori di un ritorno in auge della storia, dei pericoli che essa corre, delle
restrizioni che, con l’ostentato e ormai retorico fine di salvaguardare l’autenticità e
l’ufficialità della storia stessa, la attanagliano.
A partire dal processo di Norimberga, le corti sono state sempre più percepite come
luoghi all’interno dei quali correggere gli errori del passato: i confini tra “legal and
historical adjudication” sono, così, diventati sempre più labili lasciando intravedere una
convergenza tra le due discipline1.
Tre sono le fasi di questo percorso di “giuridificazione della storia”2, uno dei fenomeni
più importanti del diritto contemporaneo, (che presta anche il titolo al lavoro di tesi);
con l’espressione “giuridificazione della storia” si intende un ricorso crescente al diritto
per riparare le conseguenze di eventi storici avversi, una tendenza ad una lettura
giudiziaria della storia che crea l’illusione di poter rispondere efficacemente e
concretamente nel presente, all’interrogativo sul “come” riparare i pregiudizi di un
passato troppo spesso non ancora “superato”, di quel passato ingombrante che in alcuni
casi si è solo forzatamente dimenticato.
Il punto di partenza del cammino di “giuridificazione della storia”, si può far coincidere
con la fine della seconda guerra mondiale: in questo periodo l’approccio alla storia e ai
crimini del passato risulta sicuramente più “internazionalistico”; è in quell’occasione
1
G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Personality rights and historical ‘truth’: the case of the Ardeatine
Quarries massacre, in corso di pubblicazione negli atti del convegno di Bruxelles, Vérité en procès, a
cura di O. Corten e J. Allard, Bruxelles, 2012, p.2.
2
Le fasi cui si fa riferimento non corrispondono, in verità, a tre differenti periodi della storia in cui il
fenomeno si è manifestato, essendo le ultime due fasi pressoché cronologicamente coincidenti.
4
che sono stati deferiti, per la prima volta, dinanzi ad una corte internazionale,
direttamente i responsabili dei più gravi crimini commessi ai danni della collettività, dal
genocidio ai crimini di guerra, a quelli contro l'umanità. Un tentativo simile, ma non
portato ad effettivo compimento, risale già ai Trattati di pace del 1919-1920 che posero
fine alla prima guerra mondiale3, ed in particolare al Trattato di Versailles (Treaty of
Peace between the Allied and Associated Powers and Germany) del 28 giugno 1919, il
quale contemplava il diritto delle potenze vincitrici alleate a giudicare e punire i
responsabili di gravi violazioni di legge (artt. 227, 228 e 229)4. Se queste norme non
ebbero modo di essere applicate, la necessità di una giurisdizione internazionale fu
riproposta dopo il secondo conflitto mondiale, quando presero così corpo le prime
esperienze di tribunali penali internazionali, tra i quali ricordiamo i tribunali militari di
Norimberga e di Tokio del 1945.
Ed invero, la modalità con cui fu organizzato il Processo di Norimberga, il fatto che si
trattasse di un tribunale voluto e costituito dalle Potenze vincitrici della II guerra
mondiale5, in cui non trovarono posto giudici di paesi neutrali6, ebbe come conseguenza
numerose accuse mosse a questo grave vizio del quale si caratterizzò il processo, fino a
parlare di una "giustizia dei vincitori"7.
Sono questi gli elementi esplicativi di quella corrente chiamata negazionismo che ben
presto prenderà forma e consistenza. È in questa prima fase, infatti, precisamente nella
seconda metà degli anni ’40 che le pubblicazioni di stampo negazionista cominceranno
3
L. Condorelli, La Cour Pénale Internationale: Un pas de géant (pourvu qu'il soit accompli ...), in Revue
générale de droit international public, 1999, p. 15-16. Un primo tentativo di affidare la storia ad un
Tribunale fa capo al Presidente del Comitato Internazionale per la Croce Rossa, lo svizzero Gustave
Moynier il quale, nel 1872 propose di istituire una Corte internazionale per giudicare coloro che, durante
tale conflitto, avevano violato gravemente la prima Convenzione di Ginevra sulla cura dei militari feriti
nella battaglia del 22 agosto del 1864.
4
In particolare nell'art. 227 del Trattato si legge: “Le Potenze alleate e associate accusano pubblicamente
Guglielmo II di Hohenzollern, già Imperatore di Germania, per crimine supremo contro la morale
internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati. 2. Sarà istituito un tribunale speciale per processare
l'accusato, al quale saranno garantite le fondamentali garanzie del diritto di difesa. Il tribunale sarà
formato da cinque giudici, ciascuno nominato da una delle seguenti potenze: Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia, Italia e Giappone”.
5
B. Conforti, Diritto internazionale, cit., p. 208. L’autore considera il Tribunale di Tokyo un Tribunale
interno, in quanto è il risultato di una decisione della sola Potenza occupante, gli Stati Uniti. Ed inoltre
viene qui precisato che i giudici del Tribunale di Norimberga vennero designati dalle quattro Potenze
firmatarie dell'Accordo di Londra del '45 (art. 2), mentre i giudici del Tribunale di Tokyo, furono scelti
dal Comandante in capo per le Potenze alleate da una lista di nomi sottoposti dai Paesi firmatari dell'atto
di capitolazione, oltre che dall'India e dalle Filippine (art.2).
6
D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, 2006. Sotto questo profilo Zolo
ricorda argomenti più volte ribaditi da altri autori, relativi alla mancanza di autonomia e imparzialità
durante il processo, violazione dei diritti soggettivi degli imputati, qualità delle pene inflitte, etc.
7
Così R. Socini, voce Crimini e criminali di guerra, in Noviss. Dig. it., V, Utet, 1964, p. 8.
5
a diffondersi8, finalizzate a contestare i crimini discussi proprio dinanzi alla Corte di
Norimberga, a mettere in discussione la veridicità della portata dei fatti raccontati in
quella sede, sebbene il negazionismo stricto sensu inaugurerà un vero e proprio
“movimento”9, cominciando così ad imporsi nel panorama storico e giuridico mondiale,
soltanto a partire dalla prima metà degli anni ’6010.
È stata probabilmente la necessità di porre rimedio ai “mistificatori” della storia, ad
inaugurare quello che possiamo definire un passaggio intermedio, la seconda fase del
percorso di “giuridificazione” intrapreso in particolare dall’Europa a partire dagli anni
‘90 e finalizzato a stabilire veri e propri obblighi di memoria, installando, così, una
barriera giuridica volta a dissuadere i dissidenti, e coloro che propendono per una
visione contraria a quella ufficializzata dallo Stato; un modo come un altro per “fissare
dei paletti”, per apportare segni indelebili a quella storia che di segni ne ha già lasciati
tanti.
Nonostante i limiti che la punibilità delle tesi negazioniste incontra a più livelli del
diritto positivo (diritto costituzionale in primis, ma anche diritto penale e civile), la
previsione di atti normativi restrittivi in ordine al discorso sul passato non ha avuto
difficoltà ad affermarsi: un “trend” che ci si sarebbe aspettato piuttosto dai regimi
totalitari, ha preso invece corpo in numerose democrazie europee. Gli Stati europei si
sono attestati su posizioni non troppo diverse tra loro, approdando così ad un presente
connotato da un obbligo di commemorare, di rispettare una ed una sola versione della
storia; da qualche anno si assiste, infatti, ad una proliferazione di leggi che impongono
come dovere istituzionale la commemorazione di fatti della storia nazionale cui lo Stato
attribuisce riconoscimento giuridico di memoria ufficiale. L’Italia, per esempio, ha
approvato la legge istitutiva del Giorno della Memoria11, la legge istitutiva del Giorno
8
Il testo a cui ci si riferisce e che origina questa corrente, è strato pubblicato in Francia da Maurice
Bardèche e si intitola “Nuremberg ou la Terre promise”, Le Sept Couleurs, 1948, in cui si denuncia
l’invenzione del genocidio da parte degli Alleati, per mascherare invece i bombardamenti di Hiroshima e
Dresda; nel 1950 lo stesso Bardèche ha pubblicato un altro libro dal titolo “Nuremberg II ou les Fauxmonnayeurs”, Le Sept Couleurs, 1950, p. 279.
9
È il francese Paul Rassinier, autore de Le Drame des Juifs européens, Les Sept Couleurs, 1964, ad
essere considerato il fondatore della corrente negazionista.
10
R. A. Kahn, Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, Palgrave, 2004, p. 2 Fino alla metà
degli anni 1970 i c.d. negazionisti non erano organicamente strutturati, e sino a quel momento avevano
ricevuto poca attenzione da parte della stampa. Nel corso degli anni successivi cominciò un vero e proprio
cambiamento: protagonista indiscusso del cambio di rotta fu R. Faurisson che nel 1978 inviò al giornale
francese “Le monde” una lettera in cui negava l’Olocausto; nello stesso anno fu fondato l’Institute for
Historical Review (IHR).
11
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita dal Parlamento con la legge n. 211 del 20 luglio
2000, in Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000.
6
del Ricordo12 e la legge per commemorare le vittime del terrorismo e delle stragi13. E se
nessuno contesta, almeno apertamente, la scelta della Shoah come evento da
commemorare il 27 gennaio, una volta intrapresa la strada finalizzata a stabilire per
legge cosa sia opportuno ricordare14, sorgono delicati problemi quando si pretende, ad
esempio, di “estendere l'invito” ad avvenimenti più controversi o legati a specifiche
situazioni di storia nazionale15.
Il confronto con il passato, in questa seconda fase, ha così privilegiato da una parte i
momenti rievocativi con l’obiettivo di restituire, in maniera non poco eccepibile, dignità
alle vittime, ovvero ripararle moralmente e pubblicamente dai torti subiti; dall’altra
l'identità profonda di una comunità politica si è riproposta a diversi livelli, come
dialettica tra "diritto e memoria”, nel difficile rapporto tra storia e ricordo,
indipendentemente dall'angolo prospettico dal quale si osservano e si narrano le vicende
del passato. Di qui, accanto all’istituzione di momenti commemorativi, l’Europa ha
intrapreso un ulteriore cammino, un percorso le cui strade si affacciano piuttosto
sull’”oceano” dei regimi totalitari: il percorso di “giurisdizionalizzazione” in cui è
entrata l'Europa si è reso terreno favorevole per il voto di leggi qualificate poi come
memoriali: non un “invito”, non un “suggerimento” ma vere imposizioni
antinegazioniste volte a “gestire” l’Olocausto ed in generale i crimini contro l’umanità,
in maniera più o meno dettagliata a seconda del Paese in cui il delitto viene commesso,
12
Il Giorno del Ricordo è stato istituito dal Parlamento con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, in Gazzetta
Ufficiale, n. 86 del 13 aprile 2004.
13
Giornata commemorativa istituita con la legge n. 56 del 4 maggio 2007, in Gazzetta Ufficiale, n. 103
del 5 maggio 2007: “Al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle
stragi di tale matrice”.
14
L. Fontana, Memoria, trasmissione e verità storica, in Rivista di Estetica, 45, 3/2010, p. 2. Accanto
all’Italia non mancano esempi europei in tal senso: in Spagna, le associazioni dei familiari delle vittime
del franchismo hanno chiesto di dichiarare il 2006 anno della “memoria repubblicana”, mentre
l’Asociación por la Recuperación de la Memoria Histórica (ARMH) ha sollecitato una legge per istituire
una “giornata della memoria” per la condanna del franchismo; il 2 ottobre 2006, il presidente ucraino
Viktor Yuščenko ha fatto in modo che fosse approvata una legge volta a sanzionare severamente chi
neghi la definizione di Olocausto riferita alla carestia del 1932-33, nota come Holodomor.
15
Pochi conoscono, per esempio, la proposta di legge relativa all’istituzione della "Giornata della
memoria delle vittime del comunismo", che, se fosse approvata, ricorrerebbe il 9 novembre di ogni anno,
anniversario della caduta del muro di Berlino, «evento simbolo per la liberazione dei Paesi oppressi e
auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo». Atto Camera 909. Proposta di
legge presentata l'8 maggio 2008:, d’iniziativa dei deputati Marinello, Vincenzo Antonio Fontana,
Misuraca, Pagano. Articolo 1: «A ricordo delle vittime del comunismo, e` istituita la "Giornata della
memoria delle vittime del comunismo", che ricorre il 9 novembre di ogni anno, anniversario della caduta
del muro di Berlino e data dichiarata «Giorno della libertà» ai sensi della legge 15 aprile 2005, n. 61.
Articolo 2. In occasione della Giornata della memoria di cui al comma 1, le scuole di ogni ordine e grado
e le assemblee elettive ricordano il sacrificio delle vittime innocenti che furono uccise in nome dell’odio
di classe e della cosiddetta « dittatura del proletariato». Le pubbliche istituzioni promuovono od
organizzano manifestazioni e cerimonie ufficiali per commemorare tutte le vittime dei crimini comunisti,
favorendo, in particolare, la realizzazione di convegni, mostre, pubblicazioni e momenti di riflessione».
7
con l’obiettivo di proteggerne il ricordo e di diffonderne la conoscenza presso
la generalità dei consociati, con buona pace di storici e ricercatori che, nonostante la
propria peculiare attività professionale, sono tenuti a rispettare la versione “ufficiale”
della storia.
Dietro la “sedicente” preoccupazione di veder riproporre eventi del passato, i legislatori
si sono mossi, anche in Paesi in cui prevalgono dottrine favorevoli alla massima
valorizzazione e tutela dei diritti di libertà, verso formule che prevedono limiti alla
libertà di manifestazione del pensiero, imponendo ai giudici di interpretare tali leggi
coerentemente alle esigenze che ne hanno determinato l’adozione.
Non è stato difficile mettere in discussione la validità e la legittimità delle c.d. leggi
memoriali, essendo le stesse in stridente contrasto con le esigenze della professione
dello storico: se la storia è in continuo aggiornamento, può essere negato allo storico il
diritto di rivangare nel passato, di aggiungere al quadro della storia sviluppi,
aggiornamenti e fatti che abbiano un certo rilievo, dopo aver preso cognizione
dell’”archivio” di cui essi fanno parte? Fino a che punto possono legittimamente
limitarsi, in un sistema costituzionale, la libertà di espressione e la libertà della ricerca
storica?
Accanto a questa fase intermedia, espressione tanto della commemorazione dei crimini
perpetrati anni addietro, quanto della imposizione ex lege di modelli di confronto con il
passato, divieti di negazionismo, obblighi di ricordo, si è riscontrata una terza fase,
ugualmente di recente elaborazione almeno nella sua massima diffusione, caratterizzata
dalla moltiplicazione dei meccanismi di regolamentazione giuridica della storia, sino al
crescente ricorso al sistema della responsabilità civile. L'alternativa radicale all'esercizio
della giurisdizione penale e internazionale si è concretizzata negli ultimi anni, in una
progressiva “privatizzazione” delle controversie, e con il risultato di placare l’utilizzo
dello strumento internazionalistico a favore della responsabilità civile, i tribunali hanno
cominciato ad accordare risarcimenti in ordine agli illeciti di massa di rilevanza storica.
Il punto di partenza di questo terzo aspetto della “giuridificazione” della storia, nonché
di questa escalation di risarcimenti, è la sentenza della Corte di Cassazione italiana del
200816 secondo la quale la Germania dovrà risarcire nove familiari delle vittime della
strage del 29 giugno 1944 a Civitella, uno dei peggiori eccidi della seconda guerra
mondiale commesso da militari tedeschi: lo Stato è così responsabile dei fatti delittuosi,
16
Cass. pen. 21 ottobre 2008, n.1072, in Riv. dir. internaz. 2009, 2, 618.
8
e più in generale di qualsiasi condotta commessa dai propri organi.
La Germania dovrà quindi risarcire «le rivendicazioni e domande relative al ristoro dei
danni morali cagionati da crimini internazionali commessi attraverso la grave lesione di
diritti inviolabili dell'uomo»17; rappresenta un grande riconoscimento morale quello che
la Suprema Corte ha stabilito con la condanna della Germania, “premiando” così, e
riparando economicamente la devastazione e le sofferenze subite dalle popolazioni di
Civitella, Cornia e San Pancrazio18.
Tale pronunzia, tuttavia, non costituisce un esempio isolato. L’idea della riparazione in
sede civile dei danni della storia trae origine dal cuore di un evento, la Shoah, tragedia
che non finisce di tormentare l’Occidente e dalla cultura liberale degli Stati Uniti: azioni
risarcitorie sono, infatti, state proposte di fronte ai tribunali Statunitensi nei confronti di
istituti bancari svizzeri accusati di illecita distrazione dei fondi depositati da parte di
persone perite nell’Olocausto, e contro altre imprese, nonché Stati europei poi19. Il caso
americano e quello italiano hanno in comune l’uso massivo dello strumento della
responsabilità civile: nel secondo caso, però, si contesta l’elusione del diritto
internazionale e, quindi, gli accordi passati stipulati tra Stati; nel primo, ad inasprire il
destinatario della richiesta di risarcimento, la presa di coscienza di un fenomeno di
“anacronismo storico” che spinge ad utilizzare strumenti contemporanei per situazioni
passate, per capitoli “ormai” completi della storia dell’uomo, per diritti ormai prescritti.
In questo modo, la regolazione del passato viene affidata ad un processo di
privatizzazione crescente, ad un percorso volto a reintegrare le parti fin dove possibile,
convertendo qualsiasi danno, di qualsiasi entità in una somma di denaro.
Di non poco conto appare la novità di tale ondata: una “giurisdizionalizzazione” della
storia ha preso corpo, e così, mettendo da parte il diritto penale, il diritto civile è stato
investito di un ruolo rilevante anche in vicende, quali appunto i crimini della storia, fino
a poco tempo fa estranei a tale branca. Shoah, colonizzazione, schiavitù: alla base delle
17
Ibidem, p.630.
Questa decisione ha suscitato grande scalpore: con fermo dissenso, lo Stato tedesco ha rivendicato la
propria immunità sulla base dei Trattati internazionali stipulati nel 1947 (Accordo di Pace) e nel 1961
(Trattato bilaterale tra Germania e Italia).
19
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, Odile Jacob, 2008, p. 28 ss. A
conclusione della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti e le organizzazioni di ebrei americani chiesero
che il denaro delle vittime dell’Olocausto, depositato presso conti correnti svizzeri fosse restituito agli
aventi diritto. Nell’autunno del 1996 fu proposta una class action contro le banche svizzere e nel 1999, la
Commissione Volcker stabilì che, su un totale di 6858 milioni di conti accesi tra il 1933 e il 1945 restava
traccia solamente di 2.5 milioni, e in seguito ad intense negoziazioni si giunse all’accordo globale tra
associazioni americane e banche svizzere per la cifra di 1,25 miliardi di dollari. Le organizzazioni ebree
americane convennero, però, di versare più di un terzo di tale somma ai superstiti della persecuzione
nazista, nonché alle vittime del lavoro forzato durante il Terzo Reich.
18
9
richieste economiche si intravede proprio la necessità di rispondere attraverso strumenti
diversi da quelli del diritto penale, alle ferite lasciate dalla storia. Quando indietro non si
può tornare, quando non è possibile punire personalmente i responsabili attraverso una
specifica sanzione afflittiva, perché gli stessi sono da tempo deceduti, risarcire i
discendenti delle vittime sembra essere l’unica possibile risposta volta a chiudere i
conti con la storia e a riallacciare il legame con le generazioni precedenti nei cui
confronti i “debiti” non sono stati ancora sanati.
È con la formula Holocaust Litigation, ormai divenuta di uso corrente, che si designa il
profluvio di azioni civili che fanno capo a vittime della Shoah; azioni che hanno avuto
particolare enfasi verso la fine degli anni 90 e che si svolgono quasi sempre in torts,
principalmente proposte attraverso class action, negli Stati Uniti e non solo, da parte di
attori e convenuti di diversa nazionalità.
E allora qual è il fondamento di tali riparazioni? “Il est nécessaire qu’elles soient
renforcées dans les rapports interétatiques par l’éthique?”20. Non possono le
erogazioni effettuate dagli Stati essere inquadrate alla luce di considerazioni di
opportunismo politico o morale21, eludendo la volontà effettiva di riparare, (risarcire,
emendare, chiedere perdono), denaturando, così, i regimi di riparazione? La
‘regolazione del passato’ tende a essere assoggettata al monopolio della politica, nonché
ad essere sottoposta ad un processo di privatizzazione crescente in nome
dell’indiscutibile diritto degli individui ad ottenere una riparazione per gli illeciti
commessi dallo Stato, direttamente o quale garante indiretto della sicurezza dei
cittadini. Il dubbio è se risarcimenti e class action possano fornire una risposta
soddisfacente alle istanze di riconoscimento rivendicate dalle vittime dei "danni della
storia".
Quelle appena delineate rappresentano le tre fasi, logicamente distinte, ma strettamente
correlate, di una “battaglia” contro i “fantasmi della storia”, che non potrà che spingersi
ancora oltre con un dibattito per ora difficilmente placabile, in particolar modo, tra
storici e giuristi. Se la storia compie un’operazione di investigazione del passato, da
20
R. Kolb, Réflexions de philosophie du droit international, Editions Bruylant, 2003, p. 99.
La tragedia dell’Olocausto ebraico e le sue responsabilità morali in Storia e Idea, Annali Italiani
online, a cura dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, disponibile al sito web
http://www.identitanazionale.it/stco_5001.php. La tragedia dell’Olocausto viene spesso utilizzata in
chiave politica per lo più come deterrente: così è stato per lo Stato d’Israele a partire dal processo contro
il gerarca nazionalsocialista Karl Adolf Eichmann (1906-1962) nel 1961, per le sinistre che evocano
l’Olocausto contro l’anti-comunismo e contro una politica di destra, e in alcuni ambienti ebraici in cui se
ne fa uso nel contesto dei rapporti interreligiosi, soprattutto verso i cattolici.
21
10
qualche anno, l’obiezione principale mossa dagli storici è proprio la manipolazione
della storia e della memoria da parte della politica e del legislatore, con una conseguente
e inevitabile conclusione: ”l’histoire est saisie par le droit”22.
22
Dal titolo del libro di C. Vivant, L'historien saisi par le droit. Contribution à l'étude des droits de
l'histoire, Dalloz, 2007.
11
Capitolo I
TRA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE E STIGMATIZZAZIONE PENALE DEL
NEGAZIONISMO
1. La prima fase del percorso di giuridificazione della storia: il “diritto di
Norimberga” come “spartiacque”
A soli due anni dal processo di Norimberga una pubblicazione dal titolo “Nuremberg ou
la Terre Promise” cominciò a circolare prima in Francia poi in tutta Europa, con
l’obiettivo da parte dell’autore di denunciare una falsificazione della storia ad opera dei
vincitori della guerra23. È da questo momento che l’ufficializzazione di una visione
della storia prenderà forma, una tendenza “sperimentale” ben presto si tradurrà in scritti
e discorsi, una serie di prese di posizione volte a privare di una qualsiasi verità il
genocidio degli ebrei tenteranno di scalfire la sacralità della storia. Il meccanismo che
ha preso corpo a conclusione della seconda guerra mondiale ed in particolar modo dopo
la celebrazione del processo di Norimberga non ha mancato di spingersi sino ai giorni
nostri, inaugurando una incomprensibile e quanto mai fastidiosa “aspirazione” a negare
la storia.
Nonostante vi fosse unanimità nel propendere verso una punizione dei responsabili dei
più efferati crimini contro l’umanità, nonostante l’esigenza della comunità
internazionale si concretasse nella punizione dei capi nazisti accusati di cospirazione a
commettere crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, le
polemiche sulla legittimità del processo internazionale militare per eccellenza non
tardarono ad invadere l’opinione pubblica.
Le undici condanne a morte inflitte dal Tribunale di Norimberga24 istituito nel 1945 con
l’accordo di Londra25 concluso tra le potenze che occupavano la Germania debellata,
non soddisfò chi dopo mesi e mesi di dibattito in relazione alle modalità con cui
celebrare i processi, subì l’imposizione da parte di alcuni Stati (in primis gli Stati Uniti)
23
M. Bardeche, Nuremberg ou la Terre Promise, cit.
Il testo completo della sentenza si trova in American Journal of International Law, Vol. 41, 1947, p.
172 ss., nonché in http://avalon.law.yale.edu/subject_menus/judcont.asp.
25
Il testo istitutivo del Tribunale Militare Internazionale è reperibile al sito web
http://avalon.law.yale.edu/imt/imtconst.asp.
24
12
della costituzione di un tribunale internazionale ad hoc26. Ed invero, nella Dichiarazione
di Mosca delle Potenze alleate del 1943, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica
stabilirono che i criminali di guerra tedeschi dovessero essere consegnati ai Paesi in cui
le loro azioni fossero state commesse, in modo tale che potessero essere processati e
puniti in conformità alle leggi dei rispettivi Paesi. Per la prima volta fu dichiarato e
previsto all’interno dello Statuto di Norimberga che «il preparare, provocare e condurre
una guerra di aggressione o cospirare con altri a tal fine è un delitto contro la società
internazionale e che il perseguire, opprimere e fare violenza a individui o minoranze per
motivi politici, razziali o religiosi connessi con tale guerra e sterminare, mettere in
schiavitù e deportare le popolazioni civili sono veri e propri delitti internazionali e gli
individui sono responsabili di tali delitti»27.
Da un lato, quindi, si gettarono le basi per la costituzione del Tribunale militare di
Norimberga, competente a giudicare i criminali di crimini che non avessero avuto una
precisa localizzazione geografica, dall’altra si decise di accordare un trattamento
diverso ai maggiori criminali, secondo la decisione congiunta che avrebbero preso i
governi alleati.
Quello di Norimberga fu sicuramente un diritto innovatore, si affermò per la prima volta
la responsabilità penale individuale degli organi statali, coloro che erano stati “mezzo”
per la realizzazione di superiori finalità dello Stato, ma nonostante tutto il diritto di
Norimberga non fu esente da critiche28: la presenza dei soli giudici designati dalle
quattro potenze vincitrici all’interno del collegio giudicante, mancando qualsiasi
rappresentante tanto dei Paesi vinti quanto dei Paesi neutrali, hanno inevitabilmente
accelerato quel processo di negazione della storia che pure ha origini più risalenti.
Proprio al fine di contestare la legittimità del processo militare di Norimberga
“l’impresa” negazionista si affermerà29: è in questa fase, infatti, precisamente nella
seconda metà degli anni ’40 che le pubblicazioni di stampo negazionista cominceranno
26
S. Glueck, By what Tribunal shall war offenders be tried?, in Harvard Law Review, vol. 56, 19421943, p. 1059 ss.
27
F. Paolini, A dieci anni di processo di Norimberga: la sua giustificazione, Cappelli, 1956, p. 17.
28
H. D. De Vabres che fu giudice in rappresentanza della Francia, in Le procès de Nuremberg, in Revue
de Science Criminelle et de Droit Pénal Comparé, n. 2, 1947, p. 171 ss. Cfr. Anche M., J. Cerezo, Curso
de Derecho penal español, Tecnos, T. I., V ed. Madrid, 1996, p. 209-210. Emerge dagli autori la
considerazione secondo la quale il Tribunale non era una vera e propria corte di giurisdizione
internazionale, essendo stata costituita dalle forze di occupazione senza il coinvolgimento della
Germania, e le sue decisioni non erano pertanto vincolanti nei confronti di questo Paese.
29
M.R. Saulle, I grandi processi post bellici dei criminali di guerra di fronte al diritto internazionale, in
AA.VV., Verso un Tribunale permanente internazionale sui crimini contro l’umanitá. Precedenti storici
e prospettive di istituzione, a cura di P. Ungari e M.P. Pietrostefani Malintoppi, p. 71.
13
a diffondersi30, con l’obiettivo di contestare i crimini discussi proprio dinanzi alla Corte
di Norimberga, e di mettere in discussione la veridicità della portata dei fatti raccontati
in quella sede.
Di conseguenza possiamo affermare che il Tribunale di Norimberga è stato
l’”antesignano” di una tendenza che più tardi si svilupperà in una forma più ampia e
diversificata: poiché i crimini commessi sfuggivano a qualsiasi previsione di legge, fu in
quell’occasione che i giudici provvidero a regolare la storia all’interno delle aule dei
tribunali, creando addirittura le norme con cui poi sarebbero andati a giudicare31. La
storia quindi fu scritta in termini di genocidio, crimini contro l’umanità attraverso delle
decisioni che poi resteranno “intrappolate” nella rete dell’insindacabile, e richiamate
dalle legislazioni nazionali “memoriali”.
Dei tre reati oggetto dei capi d’accusa dei criminali, però, solo i crimini di guerra erano
noti al diritto internazionale, le altre condotte “irruppero” nel principio del “nulla poena
sine lege“; anche andando contro uno dei “brocardi” cardine del diritto, la presa di
coscienza della presenza di beni giuridici propri della comunità internazionale, di
interessi esorbitanti i confini di un singolo ordinamento statale, il riconoscimento dei
diritti dell’uomo, portarono la comunità internazionale ad avvertire l'esigenza di punire i
responsabili di gravi crimini commessi durante la guerra mondiale; e a nulla valse
invocare che le condotte commesse dai capi nazisti non fossero identificate come
crimini in nessun documento prima della loro commissione: per la prima volta si parlò
concretamente di crimini internazionali e così la parola “genocidio” entrò tra i capi
d’accusa32.
30
Il testo a cui ci si riferisce e che origina questa corrente, è strato pubblicato in Francia da Maurice
Bardèche e si intitola “Nuremberg ou la Terre promise”, Le Sept Couleurs, 1948, in cui si denuncia
l’invenzione del genocidio da parte degli Alleati, per mascherare invece i bombardamenti di Hiroshima e
Dresda; nel 1950 lo stesso Bardèche ha pubblicato un altro libro dal titolo “Nuremberg II ou les Fauxmonnayeurs”, Le Sept Couleurs, 1950, p. 279.
31
S. Sgroi, Il principio di retroattività e il processo di Norimberga, in Dir. e quest. Pubbliche, 3, 2003, p.
318 ss.
32
A. Palma, Il diritto internazionale penale e la giurisdizione internazionale in Diritto&Diritti, luglio
2002; B. Conforti, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, 2002, p. 211. L’Accordo di Londra del
1945 istitutivo del Tribunale di Norimberga, identificava tre categorie di crimini: crimini contro la pace;
crimini contro l’umanità (tra cui il genocidio); crimini di guerra. Un elenco dettagliato di tali crimini è
oggi contenuto negli artt. 5-8 dello Statuto della Corte penale internazionale.
I crimini di guerra consistono in quelle violazioni delle leggi e consuetudini di guerra, consistenti in gravi
infrazioni delle Convenzioni di Ginevra e del Primo Protocollo addizionale del 1977, in un conflitto
armato e “d’aggressione” di natura internazionale o interna. Nell’elenco dei crimini internazionali di
guerra, è compreso anche il genocidio (che prima consisteva in una fattispecie non separata dalla
categoria dei crimini contro l’umanità), crimine consistente nella distruzione totale o parziale di un
gruppo etnico, razziale e/o religioso; Sono crimini contro l’umanità, secondo l’art. 7 dello Statuto:
l’omicidio, la riduzione in schiavitù, la deportazione forzata della popolazione, la tortura, la violenza
sessuale, le persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi, etc. Questi reati sono punibili in quanto non
14
Se per un’istanza di giustizia volta a criminalizzare le violazioni più gravi dei diritti
umani, i principi della immunità degli Stati e il limite della prescrizione saranno elusi
nelle aule dei tribunali ordinari (di cui si tratterà nel cap. V), anche il principio della
irretroattività delle leggi è stato oggetto di “violazione” in quella occasione, sempre in
nome di una eccezionalità che ha caratterizzato i crimini perpetrati dal regime nazista e
che forse sarebbe stato “contra jus” non violare.
Ma se la corrente negazionista ha cominciato a diffondersi proprio in questo periodo,
quali sono i legami e le differenze con la storiografia revisionista che pure non ha
risparmiato i più aberranti crimini della storia dell’uomo?
Nel corso dei decenni il negazionismo della Shoah è riuscito ad assumere
fondamentalmente due differenti sfaccettature, ma entrambe tendenti ad un obiettivo
similare. La prima branca del negazionismo, se così si può definire, raggruppa coloro
che si qualificano “revisionisti storici”
33
, coloro cioè che rimettono in discussione,
completamente o in singoli aspetti, alcuni nodi cruciali della storia moderna e
contemporanea, formulando una versione alternativa dei fatti attraverso il reperimento
di nuove fonti, attraverso una interpretazione parziale del passato34.
Proprio perché forse la storia è in continua “revisione”, ad essere stigmatizzata
penalmente a partire dall’ultimo ventennio in numerosi Stati Europei, e di cui si tratterà
nei prossimi capitoli, non è tanto la revisione del passato quanto la negazione dello
stesso, il rifiuto ad ammettere quello che è stato definito nel processo di Norimberga.
Senza eccedere in digressioni storiche, si tiene a precisare in questa sede che la prima
fase di un processo di giuridificazione della storia che ben presto abbandonerà le aule
dei tribunali internazionali, si svolse proprio in una “prassi” internazionale; se in quella
circostanza e fino a quel momento la regolazione delle “colpe” o delle “ingiustizie” del
passato si riteneva dovesse esser rimessa all’accordo politico o al “Tribunale della
Storia”, dopo Norimberga è la storia ad esser sempre più frequentemente condotta “in
Tribunale”, con la conseguenza che i discorsi sulla storia tenderanno ad essere
regolamentati in via giudiziaria o legislativa, con l’aspettativa di conferire una eventuale
atti sporadici, ma atti facenti parte di un disegno criminoso, di una prassi generalizzata avallata dal potere
politico, purché perpetrati «come parte di un esteso e sistematico attacco contro una popolazione civile».
Circa i crimini contro la pace lo Statuto rinuncia a darne una definizione.
33
L’enciclopedia Rizzoli Larousse dà la seguente definizione del termine Revisionismo: «comportamenti
e dottrine che rimettono in causa un dogma o una teoria, notoriamente quella di un partito politico;
rimessa in causa di una legge, di una costituzione ovvero di una sentenza; rimessa in discussione della
storia della Seconda Guerra Mondiale, tendente a negare o minimizzare il genocidio degli Ebrei».
34
C. Bermani, S. Corvisieri, C. Del Bello, Guerra civile e Stato, Per una revisione da sinistra, Odradek,
1998, p. 57.
15
pronuncia di assoluzione o condanna da parte dei giudici direttamente alla correttezza o
meno della versione della storia raccontata o scritta dall’”imputato”.
2. L’arte di distorcere il passato: dalla rievocazione all’imposizione
L'oblio, la negazione, l'errore storico sono dei fattori alle volte determinanti per la
creazione di una nazione; da sempre le comunità hanno cercato di «distorcere» il
proprio passato, spesso attraverso la “dimenticanza” e la cancellazione, rovesciando
apertamente i fatti, così come scritti e verificati.
In tema di negazionismo e “amnesia”, è doveroso ricordare lo strumento utilizzato dal
Senato romano contro la tirannide imperiale, la rimozione storica volta a far scomparire
il nome del defunto imperatore dai documenti d'archivio e dalle iscrizioni dei
monumenti35, la c.d. damnatio memoriae. Stessa tecnica, si potrebbe dire, allargando il
punto prospettico, adottava la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo
quando il 3 novembre 2009 stabiliva che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche
costituisce «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro
convinzioni» e una violazione della «libertà di religione degli alunni», imponendo la
rimozione del crocifisso dalle aule pubbliche36. Una sentenza volta a rimuovere un
35
Cfr. le affermazioni di E. Renan ad una conferenza tenuta alla Sorbona l'11 marzo 1882, in Che cos'è
una Nazione?, Donzelli ed., 2004, p. 7.
36
J.H.H Weiler, Il Crocefisso a Strasburgo: una decisione ««imbarazzante», in Quaderni costituzionali,
2010, 148; V. Fiorillo, Il Crocefisso a Strasburgo: l'Italia non è la Francia, ivi, 145.
Prima di arrivare alla decisione europea è utile delineare l’iter giurisprudenziale precedente al ricorso alla
CEDU: nel 2002 la signora Soile Tuulikki Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, richiese al
consiglio d'istituto della scuola media frequentata dai figli, di rimuovere il crocifisso dalle aule. La
richiesta fu rifiutata e la signora si rivolse al TAR del Veneto. Questo nel 2004, notando come la
questione "non appare manifestamente infondata e va sollevata questione di legittimità costituzionale",
sospese il giudizio e interpellò la Corte costituzionale. La Corte Costituzionale, con un parere del 2004 si
disse non idonea a discutere il caso, dichiarando la " manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale", dato che "l'impugnazione delle indicate disposizioni del testo unico si appalesa
dunque il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di
legittimità concernente le norme regolamentari richiamate: norme prive di forza di legge, sulle quali non
può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né, conseguentemente, un intervento
interpretativo di questa Corte". Toccò quindi al TAR del Veneto pronunciarsi nel 2005 rigettando il
ricorso della signora Lautsi, sostenendo tra l'altro che "nell'attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere
considerato non solo come simbolo di un'evoluzione storica e culturale, e quindi dell'identità del nostro
popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza
religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta
costituzionale". In seguito, il 13 aprile del 2006, anche il Consiglio di Stato risolse in favore
dell'esposizione del crocifisso. La prima sentenza della CEDU, resa il 3novembre 2009 stabilì che
l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è "una violazione del diritto dei genitori a educare i figli
secondo le loro convinzioni e del diritto degli alunni alla libertà di religione”. Tutto questo, proseguono i
giudici, «potrebbe essere incoraggiante per gli studenti religiosi, ma fastidioso per i ragazzi che praticano
altre religioni, in particolare se appartengono a minoranze religiose o sono atei». La sentenza definitiva
16
simbolo, all’interno del quale si condensa gran parte della storia italiana. Ricorrendo in
giudizio contro il crocifisso non si fa che reiterare il rifiuto della giustizia del Regno, se
non altro perchè “il crocifisso è elevato fondamento dei valori (tolleranza, rispetto,
valorizzazione della persona, amore per il prossimo, etc.) civili che hanno un’origine
religiosa, ma che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello
Stato”.37
Cosa erano le foibe fino a qualche anno fa? Solo a partire dal 2005, il 10 febbraio di
ogni anno si celebra il “Giorno del Ricordo”, al fine di commemorare i martiri delle
Foibe e “di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le
vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel
secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale…”, come si
legge nel testo della legge che istituisce la ricorrenza38.
Il nostro Paese pur evitando di ammettere apertamente le responsabilità in materia di
Shoah, ha deciso di istituire anche la Giornata della Memoria: nel dibattito sull’
approvazione del “Giorno della Memoria”39, se è apparsa chiara l’intenzione della
Camera dei Deputati di porre al centro della memoria della Shoah la correità italiana, il
proposito non ha trovato conferma nel dettato normativo. Il titolo del provvedimento
“Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni
del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, lascia in
secondo piano le responsabilità italiane nella realizzazione della politica razziale.
Se il Giorno del Ricordo e della Memoria condensano in sé la volontà di educare al
ricordo e al rispetto, evitando che il negazionismo trovi seguaci nelle scuole, nelle
nuove generazioni, per mettere in atto una vera e propria battaglia culturale contro ogni
del 18 marzo 2011 resa dalla Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha poi ribaltato
la sentenza di primo grado. I giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno accettato la tesi in
base alla quale non sussistono elementi che provino l'eventuale influenza sugli alunni dell'esposizione del
crocifisso nella aule scolastiche. Nella sentenza della Corte di Strasburgo si legge tra l'altro: «se è vero
che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi
attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule
scolastiche potrebbe avere sugli alunni. Inoltre, pur essendo comprensibile che la ricorrente possa vedere
nell’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai suoi figli una mancanza di
rispetto da parte dello Stato del suo diritto di garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi
alle sue convinzioni filosofiche, la sua percezione personale non è sufficiente a integrare una violazione
dell’art. 2 del protocollo n.1».
37
Tar Veneto, 22 marzo 2005, n. 1110 in Corriere del merito 2005, 847.
38
Legge 30 marzo 2004, n. 92, in G.U. n. 86 del 13 aprile 2004, “Istituzione del «Giorno del ricordo» in
memoria delle vittime delle foibe, dell'esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e
concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”.
39
Legge 20 luglio 2000, n. 211, in G.U n. 177 del 31 luglio 2000, “Istituzione del «Giorno della
memoria» in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e
politici italiani nei campi nazisti”.
17
forma di razzismo e negazionismo, possono leggi volte sic et simpliciter a
commemorare, avere una valenza in termini effettivi pur in assenza di ammissione di
responsabilità?
Così la rievocazione rappresenta il momento meno “rigido” di quel processo di
giuridificazione della storia al quale numerosi Paesi europei stanno aderendo da circa un
ventennio con la consapevolezza di “riconoscere” prima e di criminalizzare poi. Forse
proprio perché ai momenti evocativi è mancato un fondamento di effettivo
riconoscimento, forse perché immediate potrebbero essere le obiezioni contro quella che
appare la tipica rievocazione all’italiana (e non solo) di un evento del passato, limitata
ad una singola giornata, ad una celebrazione scolastica finalizzata a recital riposti, a
distanza di poche ore, nel dimenticatoio di docenti e alunni; forse perché si è presi
consapevolezza del fatto che la memorialistica di stampo celebrativo difficilmente
avrebbe contribuito a quella elaborazione critica del fenomeno storico, fondamentale nel
mondo attuale, l’Europa ha messo da parte gli strumenti commemorativi intraprendendo
la strada delle leggi memoriali.
Ed invero, piuttosto che consegnare determinati avvenimenti alla “memoria labile” o
alla celebrazione strumentale e simbolica, l’Europa ha provveduto ad affiancare ai
“meccanismi” evocativi strumenti impositivi che nulla, però, hanno aggiunto in termini
di indagine storica finalizzata a comprendere il peso del passato e dei fattori psicologici
alla base delle condotte dei carnefici. La sfiducia nei momenti rievocativi e l’inefficacia
degli stessi nella elaborazione critica del passato hanno indotto l’Europa ad adottare le
c.d. leggi memoriali “riponendo” su di un piano secondario le leggi meramente
“decorative” e di riconoscimento.
Sebbene l’Italia, diversamente da gran parte di altre democrazie liberali, non abbia
ancora provveduto ad adottare disposizioni ad hoc volte a punire i negazionisti, quali
sarebbero le ripercussioni in termini di diritto costituzionale, penale e civile laddove si
punissero, limitandole, libere manifestazioni di pensiero? Prima di analizzare nello
specifico le conclusioni non sempre omogenee raggiunte dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo e dai tribunali delle nazioni europee, coinvolti in una serie di verdetti che
tenderanno a riconoscere i limiti connessi alla libertà di espressione, è bene, sulla base
di quanto accennato, approfondire le implicazioni giuridiche del negazionismo,
consapevoli che esso rilevi tanto sotto il profilo penale, quanto sotto quello
costituzionale e civile.
18
3. Profili penalistici del reato di negazionismo
Il “delitto di negazionismo”, fattispecie che si inquadra nei c.d. delitti d’opinione pone il
preliminare problema del rispetto di alcuni dei principi del diritto penale, tra cui quello
di offensività del reato e di proporzionalità della pena40.
La caratteristica principale dei delitti d’opinione, tipicamente definiti quali forme di
tutela anticipata per espungere i quali la Corte Costituzionale e il legislatore italiano
hanno lavorato per decenni, consiste nella repressione di un comportamento di
ribellione nei confronti dell’ordine costituito, che si concreta in un gesto di
disobbedienza a prescindere dall’effettivo grado di pericolosità della condotta,
attraverso una valutazione antecedente e astratta e semplicemente punendo il pensiero in
quanto tale, perché intrinsecamente pericoloso41.
E così oggi molti Stati ammettono la potenzialità e l’idoneità lesiva del pensiero,
considerandolo di per sé una minaccia e ritenendo che, poiché determinate forme di
manifestazione del pensiero rappresentino un pericolo in sé, vadano punite a
prescindere da una eventuale estrinsecazione in termini di pericolo concreto, «puniti in
quanto fatti rilevatori di tendenze comportamentali e ideologiche che dovrebbero più
opportunamente essere soggette a misure di prevenzione o a sanzioni amministrative»42.
Ma c’è una differenza: un conto è punire manifestazioni di pensiero nei casi in cui il
grado di pericolosità che ad esse si attaglia sia concretamente apprezzabile attraverso
una valutazione che sulla base di criteri sufficientemente determinati, tenga ben conto
del contesto in cui la propalazione verbale o scritta è stata proferita. Così nel nostro
codice penale vengono punite condotte come l’incitamento all’azione, l’apologia purchè
idonea a determinare la commissione di delitti (414 c.p ult co), la propaganda dotata di
particolare intensità (art. 507 c.p.), l’istigazione all’odio di classe se attuato in modo
pericoloso per la pubblica incolumità, la diffusione di notizie false e tendenziose che
minacciano seriamente l’ordine legale (art. 656 c.p.)43.
Altra cosa è, invece, punire una manifestazione di pensiero perché ontologicamente e
intrinsecamente pericolosa. In quest’ ultimo caso il legislatore ha optato per uno schema
di tutela che consente protezione attraverso l’arretramento della normale soglia di
punibilità: il modello prescelto è quello del pericolo astratto, che, come noto, si
40
E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo in Rivista italiana di diritto e procedura penale 1999, 3,
1034.
41
A. Pace, M. Manetti, Art. 21, cit., p. 236 ss.
42
Ibidem, p. 277.
43
Ibidem, p. 254 ss.
19
distingue dal modello del pericolo concreto, in quanto nel primo caso il pericolo è
implicito. In termini di pericolo astratto quindi, il giudice non dovrà accertare se
qualcuno si sia effettivamente sentito leso dalle opinioni espresse in senso
antinegazionista, (indi per cui anche laddove dovesse emergere che l’esposizione dei
fatti non abbia offeso in concreto alcuno, sussisterà in ogni caso l'illecito), ma dovrà
presumere, se è il caso e se sussistano leggi di esperienza in materia, la potenziale
pericolosità di quei comportamenti in sé considerati44. Decisivo sarà il solo fatto
dell’espressione di una opinione contraria alla “verità ufficiale” che il legislatore ha
vietato perché prevedibilmente pericolosa.
È d'altronde doveroso ricordare che nel nostro ordinamento ha preso corpo negli ultimi
tempi, una vera e propria trasformazione almeno in via interpretativa, di taluni reati a
pericolo astratto, in reati a pericolo concreto, onde evitare di punire sulla base della
semplice potenzialità a cagionare una offesa, piuttosto che sul concreto verificarsi del
pericolo
scongiurato.
Sintomatica
l’evoluzione
giurisprudenziale
del
delitto
d’istigazione a delinquere (art.414 c.p.) che potrebbe apparire quanto mai simile, dal
punto di vista della configurazione, al nostro reato di negazionismo: la giurisprudenza
ha sostenuto che, ai fini della punibilità, non possa prescindersi dall’indagine in ordine
al concreto pericolo per l’ordine pubblico derivante dalla condotta dell’istigatore45.
44
Vale qui le pena riportare per sommi capi le principali obiezioni mosse dalla dottrina al reato di
negazionismo, attraverso uno schema riassuntivo elaborato da A. Di Giovine in Il passato che non passa:
“Eichmann di carta” e repressione penale in
Diritto pubblico comparato ed
europeo, Giappichelli, 2006, fasc. 1, pp. 14-28: «a) le norme che incriminano il negazionismo si
presentano dubbie sotto il profilo della materialità e si rivelano carenti sul piano dell’offensività,
apparendo quindi incompatibili con il diritto di uno Stato democratico; b) la tutela penale è collocata in
un momento talmente arretrato rispetto al pericolo che è difficile ipotizzare la realizzazione di un evento
lesivo, ma posto che il diritto penale non può curarsi delle ideologie se esse non si traducono in un inizio
di attività esecutiva del tentativo di una lesione dei beni, occorre che i delitti di negazionismo siano
strutturati almeno in chiave di pericolo concreto; c) con l’individuare l’ordine pubblico o la pace pubblica
come beni offesi non solo si surroga l’assenza di un immediato referente di lesività, ma si utilizzano
concetti non neutri, prodotto di valori ideologici; d) è difficile distinguere tra fatto e opinione, accertare la
verità oggettiva, storica rispetto a quella legale; e) la lesione dell’onore è difficile da determinare nei
confronti di una collettività dai confini indeterminati; f)quella antinegazionista è una tipica legislazione
simbolica, strutturata in chiace amico/nemico, che persegue le persone e non i fatti, così aprendosi a un
diritto penale soggettivo privo dell’elemento dell’offesa e allontanandosi dai principi di
obbiettivizzazione, sussidiarietà, offensività, tipicità e materialità; g) si tratta di puri reati di opinione, di
reati di pura condotta senza pericolo di evento».
45
F. Caringella, F. Della Valle, M. De Palma, Manuale di diritto penale, parte generale, Dike Giuridica
Editrice, 2009 p. 555 ss. In particolare si è rimarcato che la «potenzialità istigatoria del messaggio non
può essere valutata senza tener conto del contesto in cui è stato pronunciato, poiché il delitto può ritenersi
integrato solo accertando che la frase, per le modalità in cui è stata formulata, è idonea ad indurre a
delinquere il soggetto che la percepisce.» Il Trib. Venezia, 24 ottobre 1996, ha escluso, per esempio, la
sussistenza del reato di cui all’art. 414 c.p. nella condotta di un giornalista che, in un articolo dal tono
ironico e paradossale, suggeriva al lettore alcuni comportamenti astrattamente costituenti reato, poiché la
frase incriminata era inserita in un contesto idoneo ad innescare nel lettore l’impulso a realizzare
concretamente la condotta indicata.
20
Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in merito al “nostro” reato di
negazionismo, onde superare, l’impasse del pericolo astratto.
Se da un lato appare già di per sé troppo “poco garantista” per una qualsiasi democrazia,
l’introduzione di un reato di “opinione negazionista”, ancor più deleteria sarebbe la
concreta possibilità, (così come accade negli ordinamenti che considerano la condotta
negazionista un reato), di sanzionare “a prescindere”, e anche laddove un’ opinione
negazionista non abbia urtato concretamente contro la sfera di sensibilità di alcuno,
perché per esempio, completamente avulsa da un contesto di pericolosità.
Nel profluvio di leggi antinegazioniste già adottate in Europa, invece, la pericolosità che
caratterizza le disposizioni normative è quanto mai astratta, la sanzione penale viene
posta a carico di chi nega o minimizza grossolanamente uno dei genocidi a cui il
rispettivo ordinamento fa riferimento, per il solo fatto di averne fatta menzione
negazionista, sottovalutando la circostanza che, salvo la possibilità di influenzare un
interlocutore particolarmente vulnerabile (studenti per esempio), la manifestazione di
pensiero possa non cagionare alcuna offesa concreta alla dignità o all’onore di vittime,
che seppur martiri di un “sistema”, non si esclude possano essere materialmente
impossibilitate dall’avvertire quell’insulto.
Un altro principio che verrebbe violato in sede d’incriminazione penale del reato di
negazionismo, attraverso la privazione della libertà personale, sarebbe il principio di
proporzionalità delle pene previsto dall’articolo 275 c.p.p.46; il nostro sistema penale
esige che “le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare
restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della
situazione concreta alla stregua dei principi di adeguatezza, proporzionalità e minor
sacrificio, così da realizzare una piana individualizzazione della coercizione
cautelare”47.
Gli stessi principi sono stati affermati dalla Corte di Cassazione con sentenza del 19 aprile 2001 n.
16041in tema di configurabilità del reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti ex art. 82
del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Gli autori inoltre evidenziano che la stessa trasformazione ermeneutica
è avvenuta per i reati di incendio di cosa altrui di cui all’art. 423 co 1 cp.
46
Art. 275 c.p.p.: «Criteri di scelta delle misure. 1. Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della
specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel
caso concreto. 1-bis. Contestualmente ad una sentenza di condanna, l'esame delle esigenze cautelari è
condotto tenendo conto anche dell'esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi
sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate
nell'articolo 274, comma 1, lettere b) e c).
2. Ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa
essere irrogata […]».
47
Cass. pen., SSUU n. 16085 del 31 marzo2011, in Cass. pen. 2011, 11, 3713. «Il principio di
proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure
21
Sarebbe insomma penalmente accettabile una restrizione della libertà personale pari ad
un anno di custodia cautelare (l’esempio francese insegna), stessa pena prevista nel
nostro ordinamento per i reati di ingiuria, diffamazione e calunnia, quando però ad
essere offesi fossero beni giuridici “incerti”, riferiti ad una sorta di diffamazione
collettiva di cui sarebbe vittima la comunità ebraica (per esempio nel caso di negazione
della Shoah), una collettività dai confini indeterminati e portatrice di un senso
dell’onore condiviso e offeso dal negazionismo, altrettanto ostico da determinare? È
davvero indispensabile e necessario l’intervento del legislatore penale in questo campo,
quando sarebbero sufficienti sanzioni amministrative?48
Ed invero, il principio di materialità impone che il fatto di reato si estrinsechi nel mondo
materiale, nella realtà esterna. Quale sarebbe la condotta materialmente commessa dai
negazionisti?49
Gi interrogativi non sono pochi, eppure in tanti Stati europei sembra che i dubbi e le
implicazioni penalistiche non siano state oggetto di opportuno dibattito se non
tardivamente e dopo l’approvazione delle leggi memoriali.
4. I limiti della libertà di espressione
Dal punto di vista costituzionale si pone, invece, il problema di verificare se la
repressione penale del negazionismo di cui gran parte dell’Europa è testimone e che ben
presto potrebbe coinvolgere anche il nostro Paese, sia legittima, ovvero urti contro
alcuni dei principi cardine che l’ordinamento riconosce a ciascun individuo, tra i quali
regna sovrana la libertà di espressione. Di conseguenza sarà oggetto di riflessione la
posizione all’interno della quale inquadrare chi nega pubblicamente fatti aberranti della
storia, vale a dire quale soluzione debba prevalere tra la criminalizzazione dei
negazionisti e il far rientrare le condotte degli stessi in pure e semplici manifestazioni
della libertà di espressione.
E allora quali sono i fondamenti della libertà di espressione, quali gli interessi che
l’espressione delle opinioni può urtare e che meritano di essere preservati?
cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della
adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante
verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente
permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale».
48
E. Fronza, Profili penalistici del negazionismo, cit.
49
A. Di Giovine, Il passato che non passa: «Eichmann di carta» e repressione penale, cit.
22
Orbene, il dubbio è se esistano ed eventualmente quali siano i valori sulla base dei quali
giustificare le limitazioni alla libertà di opinione, considerando che non tutti gli Stati
che si sono dotati di una legislazione memoriale sono stati intellegibili nell’accordare
tutela all’interno delle rispettive legislazioni: c’è chi ha prediletto l’ordine pubblico
piuttosto che la prevenzione dei reati alla libera manifestazione del pensiero, chi
l’incolumità pubblica o la tutela delle minoranze, chi ha implicitamente fatto
riferimento ad una serie di valori costituzionali senza specificarne il fondamento.
Quando si parla di libertà d'espressione, il pensiero corre alle varie Costituzioni degli
Stati e inevitabilmente ai documenti ufficiali. Ad esempio, se la Costituzione americana
non prevede, almeno esplicitamente, alcun limite in tal senso, la Dichiarazione francese
dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, condiziona il riconoscimento della libertà
di pensiero alla tutela dell’“ordine pubblico stabilito dalla legge”, disponendo all’art. 11
che “La libera comunicativa dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi
dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a
rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”; e ancora l’ art.
4 della stessa Dichiarazione statuendo che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò
che non nuoce ad altri”, garantisce che l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo
abbia come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento
di questi stessi diritti.
A prescindere dall’ordinamento democratico a cui si faccia riferimento, possiamo
innanzitutto considerare un duplice fondamento che connota la libertà di espressione: da
una parte esiste una libertà di espressione concepita come fine a sé stessa, dall’altra e
convive con la prima, una libertà di espressione come meccanismo al servizio della
verità50. È solo in questa seconda accezione che si giustifica l’importanza di una
garanzia costituzionale fondamento di tutti gli Stati democratici. Per stabilire la verità
occorre, infatti, che le idee circolino e solo in un’ottica d’“insieme” vengano comparate;
così è necessario che ai fini della verità “transitino” tanto idee condivise, quanto idee
disapprovate, i pensieri più o meno giusti che siano devono ugualmente circolare,
poiché «ci sono più possibilità di pervenire alla verità se sono stati scambiati tutti gli
argomenti e infinitamente meno se il potere politico ha intrapreso la costruzione di una
verità ufficiale»51. È questo un corollario dell’uguaglianza degli individui: se le
Costituzioni democratiche garantiscono l’uguaglianza di tutti gli uomini, essi hanno
50
51
M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, cit., p.195.
Ibidem, 195-196.
23
uguale diritto di proferire parola. E anche se l’interlocutore, come spesso accade, di
fronte ad una miriade di possibilità non fosse in grado di scegliere, è più giusto che a
scegliere sia lo Stato? Che cosa indica la libertà di espressione se non il diritto ad
esternare liberamente le proprie opinioni e quindi a condividere all’esterno le proprie
convinzioni revisioniste o negazioniste che siano? Possono quindi a livello
costituzionale le propalazioni negazioniste sebbene provenienti da una minoranza (così
come quindi la legislazione antinegazionista), ritenersi compatibili con l’ambiente
liberaldemocratico nel quale sono inserite? Può il Parlamento stabilire una verità
storica, e può il diritto alla libertà di espressione consentire la distorsione di quella
verità?
Ed invero, è pacifico rilevare all’interno di qualsivoglia ordinamento democratico da
una parte una garanzia di libertà di pensiero, dall’altra una serie di limiti più o meno
espliciti.
Quali sono allora i limiti della manifestazione del pensiero previsti dalla Costituzione
italiana, in presenza dei quali «possono ritenersi contenutisticamente non tutelate alcune
forme di manifestazione di pensiero?»52 L’unico limite esplicito riconosciuto dalla
nostra Costituzione e previsto dall’ultimo comma dell’art. 21 è il buon costume53. I
limiti impliciti alla libertà d’espressione si desumono invece, dalla lettura dell’intero
testo costituzionale in materia di libertà. Così rientrano nei limiti alla libertà di
manifestazione del pensiero, il diritto all’identità personale54, all’onore e alla
reputazione, assieme ad esigenze di giustizia, sicurezza dello Stato e ordine pubblico.
In sostanza, si è inclini a riconoscere limiti alla libertà di pensiero solo in vista della
tutela di altre libertà individuali e al fine di porre a freno il pericolo che corre la società.
52
A. Pace, M. Manetti, Art. 21, in Commentario della Costituzione, Zanichelli, il Foro italiano, 2006, p.
54.
53
Il concetto di buon costume che la giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno adottato è tratto dal
codice penale: si intende per buon costume il comune senso del pudore e della pubblica decenza nella
sfera sessuale. Nella sentenza n. 9 del 1965 la Corte costituzionale definisce il buon costume: «l’insieme
di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza
dei quali comporta la violazione del pudore sessuale, della dignità personale (…) e del sentimento morale
dei giovani».
54
Cass. civ., 22 giugno 1985, n. 3769 in Dir. famiglia 1985, 901. I Giudici hanno per la prima volta
tracciato i contorni di una libertà consistente nella fedele rappresentazione da parti di terzi della propria
personalità individuale «L'interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità
personale, nel senso di immagine sociale, cioè di coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi,
professionali ecc.) rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, nonché,
correlativamente, ad insorgere contro comportamenti altrui che menomino tale immagine, pur senza
offendere l'onore o la reputazione, ovvero ledere il nome o l'immagine fisica, deve ritenersi qualificabile
come posizione di diritto soggettivo, alla stregua dei principi fissati dall'art. 2 cost. in tema di difesa della
personalità nella complessità».
24
È pacifico sostenere, così come è stato riconosciuto tanto da dottrina quanto da
giurisprudenza, che la libertà di pensiero copre le manifestazioni di pensiero senza
preoccuparsi della chiarezza del contenuto o delle attese dell’interlocutore55. Equivale
questo a dire che in linea di principio sono ammesse anche forme non veritiere di
espressioni, forme tali da non soddisfare le aspettative di una maggioranza che ben
considera “fatto notorio” e per questo innegabile la Shoah o il genocidio degli armeni?
È lecito punire semplici manifestazioni di ignoranza quali ben possono essere
considerate le espressioni di negazione dell’esistenza delle camere a gas? Sono da
considerare inaccettabili istanze negazioniste a fronte di una libertà di espressione che
non ha mai taciuto di avere limiti?
Come si è già avuto modo di precisare nel paragrafo precedente, si possono distinguere
all’interno della categoria delle manifestazioni di pensiero emesse in un contesto di
circolazione di idee, vere e proprie opinioni e atti che invece esulano dalla categoria
delle opinioni in senso stretto, perché dotati di un potenziale ben maggiore del semplice
fine comunicativo: è in quest’ottica che una teoria o un’opinione lascia il posto
all’apologia. È in quest’ultimo caso che la condotta dovrebbe perdere “lo scudo
protettivo” della libertà di espressione poiché acquisisce carica lesiva capace di ferire
l’interlocutore.
Le Corti europee si stanno muovendo lungo una direzione univoca: limitare la libertà di
espressione al cospetto di altri valori costituzionali ritenuti astrattamente e
ontologicamente lesi, tante volte a prescindere dalla effettiva idoneità lesiva della
condotta negazionista. Nel prossimo capitolo i valori costituzionali “privilegiati” dalle
corti europee saranno oggetto di approfondimento all’interno della variegata casistica
giurisprudenziale che ha coinvolto le aule dei tribunali non italiani.
5. La legittimità delle azioni di risarcimento danni a seguito di condotte
negazioniste
Da ultimo, le condotte negazioniste possono rilevare anche sotto il profilo del diritto
civile attraverso la necessità di rilevare gli eventuali danni risarcibili in capo alle
vittime. In che modo dovranno e potranno le vittime dei più efferati crimini della storia
55
A. Pace, M. Manetti, Art. 21, cit., p. 51. «Beninteso anche le informazioni non intellegibili sono
costituzionalmente garantite, ancorché non siano in grado di soddisfare le attese del lettore o del
telespettatore, i quali se insoddisfatti, potranno soltanto…cambiare quotidiano o programma».
25
dimostrare non solo l’ingiustizia del danno subito (di cui si tratterà nel capitolo V),
quanto la lesione che la negazione dei fatti ha provato?
Poiché le vittime dirette della storia stanno scomparendo, le aule dei tribunali, sempre
più sovente, “ospitano” i discendenti delle stesse, alle prese con difficili dimostrazioni
della lesione del proprio diritto di identità personale. È quest’ultima una figura di
elaborazione giurisprudenziale che si caratterizza per «il diritto di ognuno a che la
proiezione sociale della propria personalità non subisca travisamenti o distorsioni a
causa dell’attribuzione di idee, opinioni o comportamenti differenti da quelli che
l'individuo ha manifestato nella vita di relazione»56, il diritto, insomma, alla corretta
percezione
sociale
dell’identità
personale,
la
possibilità
che
una
distorta
rappresentazione dei fatti stravolga la personalità degli individui agli occhi del pubblico
e consegni alla collettività una visione non veritiera di fatti e persone.
In materia di negazionismo la situazione italiana risulta, come già anticipato, nettamente
distinta dal resto d’Europa: la presenza delle leggi memoriali in molti Stati Europei ha
“eluso” il ricorso alla responsabilità civile per i danni derivanti dal negazionismo,
avvalendosi piuttosto delle disposizioni ad hoc idonee a punire la stessa condotta; in
questo senso il caso italiano appare una eccezione, affiancata solo da pochi ricorsi ex
art. 1382 code civil, in territorio francese, di cui si tratterà nel capitolo III.
A causa proprio della diffusione delle legislazioni memoriali in Europa la responsabilità
civile è stata sempre meno oggetto delle richieste di risarcimento da parte delle vittime
di condotte negazioniste. Di conseguenza la questione italiana di cui si tratterà nel
paragrafo VII, di ricorso alla responsabilità extracontrattuale risulta, così, emblematica
di un ordinamento che cerca di muoversi lungo il solco del risarcimento ex art. 2043,
sebbene senza alcun accoglimento, per il momento, da parte degli organi giudicanti.
56
G. Pino, Il diritto all'identità personale. Interpretazione costituzionale e creatività giurisprudenziale, Il
Mulino, 2003, p.105.; Cass. civ. 22 giugno 1985, n. 3769, in Foro it. 1985, I, 2211: ogni soggetto ha
«interesse a non vedersi all'esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio
intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale, ecc. quale si era estrinsecato od
appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell'ambiente sociale».
26
6. Il dibattito sulla sanzionabilità delle condotte negazioniste in Italia
Che ne sarebbe stato del vescovo lefebvriano Richard Williamson57, se anche l’Italia
fosse dotata di una legislazione antinegazionista? Le tesi del prelato, sebbene abbiano
scatenato passioni e polemiche nel nostro Paese, non hanno comportato alcuna sanzione
a suo carico. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero gode di un’ampia tutela in
Italia, sebbene non paragonabile all’assolutezza americana; nonostante lo sdoganamento
di una tendenza generale diversa nel resto dell’Europa, come si è già avuto modo di
precisare, manca nel nostro Paese una disciplina che punisca specificamente la
negazione di qualsivoglia genocidio.
Tuttavia, nell'ordinamento giuridico italiano sono presenti varie fattispecie di reato
d’istigazione e di apologia all'odio razziale, etnico o religioso, introdotte a partire dalla
legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), legge adottata per dare attuazione alla
XII disposizione finale della Costituzione, la quale vieta «la riorganizzazione, sotto
qualsiasi forma, del disciolto partito fascista»58; l’Italia dispone inoltre di una fattispecie
incriminatrice che, pur non del tutto assimilabile al modello tipico del reato di
negazionismo, così come configurato in altri paesi europei, persegue finalità politicocriminali molto simili: si allude al delitto di apologia di genocidio, introdotto dall’art. 8,
2° comma, della l. 9 ottobre 1967 n. 96259, in attuazione della Convenzione
internazionale per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio approvata
dall’Assemblea generale O.N.U il 9 dicembre 194860.
Con la legge n° 654/1975, l'Italia ha ratificato la Convenzione internazionale per
l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, configurando così un
57
M. Introvigne, Le origini di sinistra del negazionismo dell’Olocausto: in margine a caso Williamson
“la via del negazionismo? Prima a sinistra” in Il domenicale, anno 8, n. 18, 2 maggio del 2009, pp. 6-7.
Richard Williamson è uno dei quattro vescovi ordinati da Marcel Lefebvre che, scomunicato nel ‘88 da
Papa Paolo Giovanni II, nel 2009 ha ricevuto il “perdono” pontificio, il vescovo Williamson, è stato
condannato oggi a pagare una multa di 10 mila euro, per le sue tesi ngazioniste, in particolare ci si
riferisce all'intervista televisiva rilasciata alla televisione pubblica svedese nel gennaio del 2009, in cui
Williamson aveva negato l'esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazisti. “Credo che
le prove storiche parlino fortemente contro al fatto che sei milioni di persone siano state intenzionalmente
gasate come perfida strategia di Adolf Hitler. Non è possibile ci siano state camere a gas.” Questa una
delle tante dichiarazioni negazioniste in un’intervista rilasciata da Williamson a Zaitzkofen, vicino
Ratisbona: per queste ragioni il processo in questione a suo carico si sta tenendo a Ratisbona, ed è
cominciato il 4 luglio 2011. Un’altra istanza, nell’aprile del 2010, condannò l’arcivescovo a una multa di
10.000 Euro per incitazione all’odio razziale.
58
A. Manna, voce fascismo (sanzioni contro il) in Dig. disc. pen. V, Utet, 1991, p. 137 ss.
59
Legge 9 ottobre 1967, n. 962, Prevenzione e repressione del delitto di genocidio. Art. 8, Pubblica
istigazione e apologia: «Chiunque pubblicamente istiga a commettere alcuno dei delitti preveduti negli
articoli da 1 a 5, e' punito, per il solo fatto della istigazione, con la reclusione da tre a dodici anni. La
stessa pena si applica a chiunque pubblicamente fa l’apologia di uno dei delitti preveduti nel comma
precedente».
60
C. Visconti, Aspetti penalistici del discorso pubblico, cit.
27
sistema di repressione penale più severo nei confronti dei fenomeni di intolleranza
razziale. La legge punisce chiunque diffonda, in qualsiasi modo, “idee fondate sulla
superiorità e sull'odio razziale o etnico ovvero inciti a commettere o commetta violenza
o atti di provocazione alla violenza nei confronti di persone a causa della loro
appartenenza ad un gruppo nazionale, etnico o razziale".
In un’ottica più recente, è la "legge Mancino"61che, collocandosi all'interno di un quadro
normativo non ancora ricco in materia, condanna in Italia gesti, azioni e slogan legati
all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla
discriminazione per motivi razziali, etnici religiosi o nazionali, consentendo al giudice
di considerare un'aggravante la finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale,
razziale o religioso. L'art. 1 ("Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi") dispone infatti che: "Salvo che il fatto costituisca più grave
reato, [...] è punito: a) con la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a
6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico,
ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali,
etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in
qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla
violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È vietata ogni organizzazione,
associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla
discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi
partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza
alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la
reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali
organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la
reclusione da uno a sei anni"62.
Si tratta di una legge che al momento non ha portato nel nostro Paese, alcuna
61
Legge 25 giugno 1993 n. 205. Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa,
Pubblicata in Gazz. Uff. 27 aprile 1993, n. 97.
62
L' art. 2 ("Disposizioni di prevenzione") stabilisce che «chiunque, in pubbliche riunioni, compia
manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni,
movimenti o gruppi" come sopra definiti "è punito con la pena della reclusione fino a tre anni e con la
multa da lire duecentomila a lire cinquecentomila." Inoltre lo stesso articolo vieta la propaganda fascista e
razzista negli stadi, disponendo che "è vietato l'accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni
agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli" di cui sopra. "Il contravventore è punito
con l'arresto da tre mesi ad un anno." L'art. 4 punisce con la reclusione da sei mesi a due anni e con la
multa da lire 400.000 a lire 1.000.000 "chi pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del
fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è
della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni».
28
conseguenza in termini di negazionismo, escludendo ad oggi, l’assimilazione delle
condotte elencate nell’art. 1 della Legge Mancino a condotte negazioniste,
(diversamente da quanto per esempio è accaduto in Spagna).
Orbene, il mondo politico italiano non si è sottratto dal prendere in considerazione la
possibilità di introdurre anche in Italia un reato simile a quello identificato dalle c.d. lois
mémorielles. In primis è indicativo ricordare che il dibattito sulla punibilità del
negazionismo ha registrato nel nostro Paese un’improvvisa impennata a seguito
dell’iniziativa assunta a gennaio 2007 dall’allora ministro della giustizia Mastella, che
annunciò l’imminente presentazione di un disegno di legge diretto ad introdurre nel
nostro ordinamento una fattispecie incriminatrice ad hoc63. La proposta che in una
prima bozza configurava la negazione dell'Olocausto come una fattispecie propria di
reato, sollevò non poche polemiche: in particolare, si distinse, un movimento di storici
che diffuse un documento di bocciatura al disegno di legge a firma Mastella. In tale
documento dal titolo «Manifesto di critica», netta appare la posizione dei firmatari
contro una verità di Stato imposta «dall'alto»: «Come storici e come cittadini siamo
sinceramente preoccupati che si cerchi di affrontare e risolvere un problema culturale e
sociale certamente rilevante (il negazionismo e il suo possibile diffondersi soprattutto
tra i giovani) attraverso la pratica giudiziaria e la minaccia di reclusione e condanna. [...]
Sostituire a una necessaria battaglia culturale, a una pratica educativa, e alle tensioni
morali necessarie per fare diventare coscienza comune e consapevolezza etica
introiettata la verità storica della Shoah, una soluzione basata sulla minaccia della legge,
ci sembra particolarmente pericoloso per diversi ordini di motivi: 1) si offre ai
negazionisti [...] la possibilità di ergersi a difensori della libertà d'espressione, le cui
posizioni ci si rifiuterebbe di contestare e smontare sanzionandole penalmente; 2) si
stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico, che rischia di delegittimare
quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato. Ogni verità
imposta dall'autorità statale [...] non può che minare la fiducia nel libero confronto di
posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale. [...] È la società civile,
attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici
63
Il d.d.l. XV legislatura A.S. 1694 (c.d. Mastella, dal nome del ministro della giustizia proponente), nel
testo approvato dal Consiglio dei ministri il 25 gennaio 2007, non faceva in realtà riferimento diretto al
negazionismo della Shoah, come invece era stato ipotizzato in una prima stesura del testo, ma prevedeva
pene più severe per chi diffonde idee fondate sulla superiorità razziale e commette o incita a commettere
atti discriminatori. La mancanza nel testo definitivo - il quale è stato significativamente presentato dal
Governo il 27 gennaio, ossia il Giorno della memoria - di ogni riferimento al negazionismo è stata
influenzata proprio dal dissenso manifestato da alcuni esponenti dell'ambiente politico-istituzionale e da
una parte dell'opinione pubblica.
29
anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni
negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge
che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente»64. Dopo il disegno di legge
approvato il 25 gennaio 2007 dal Consiglio dei Ministri, e mai discusso in Parlamento,
alcuni episodi di esplicita o implicita negazione della Shoah, avvenuti anche in
ambiente universitario65, hanno reso nuovamente attuale la proposta di introdurre una
normativa penale, al fine di reprimere la negazione della storia; di talché nel 2010
l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano ha “riaperto la ferita” annunciando la
costituzione di un gruppo tecnico di lavoro per valutare la scrittura di una norma che
preveda il reato di negazionismo. La proposta del Guardasigilli non è stata accolta con
favore dall'Unione delle camere penali: «L'idea di arginare un'opinione, anche la più
inaccettabile e infondata, con lo strumento del diritto penale, è in aperto contrasto con il
chiaro dettato della Carta costituzionale, che all'articolo 21 non pone limiti di sorta alla
libertà di manifestazione del pensiero. Quella disegnata dai Costituenti non è dunque, e
per fortuna, una democrazia protetta, che possa legittimamente contrastare la mera
circolazione delle idee»66.
Il reato di negazionismo, urterebbe insomma contro il
principio secondo cui il diritto penale può e deve sanzionare un fatto dell'uomo, quando
esso sia lesivo e colpevole, quando vada a ledere un diritto giuridicamente tutelato.
Numerose sono state le “obiezioni” anche in Italia alle leggi limitative di una serie di
garanzie costituzionali: critiche del resto, che hanno costituito la trama della battaglia
condotta dagli avversari delle leggi memoriali.
L’assenza di una legislazione negazionista ad hoc non ha impedito ai giudici nazionali
64
Il documento, sottoscritto da 150 storici (primo firmatario M. Fleres) fu pubblicato in diversi
quotidiani, in prima battuta sulle colonne de La stampa del 20 gennaio 2007; v. anche il commento di S.
Rodotà, Negazionisti in libertà. La libertà della menzogna, in La Repubblica del 26 gennaio 2007;
«L'Unità», 23 gennaio 2007; «La Stampa», 20 gennaio 2007; «Corriere della Sera», 26 gennaio 2007. Cfr.
anche V. C Cuccia, Libertà di espressione e negazionismo, cit., 877 ss.
65
Il 25 settembre 2010, Moffa professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'università
di Teramo, durante l'ultima lezione dell'edizione 2009/2010 del master "Enrico Mattei in vicino e Medio
Oriente", di cui era coordinatore ha prospettato una serie di tesi revisioniste, mettendo in discussione
l’Olocausto. La stampa nazionale non ha mancato di pubblicare parte del contenuto della lezione.
66
Penalisti, il reato di negazionismo è contro costituzione, in Ossevatorio sul pregiudizio antiebraico
contemporaneo,
consultabile
al
sito
web
http://www.osservatorioantisemitismo.it/Scheda_del_documento.asp?docid=4710&idmacro=1&n_macro
=2&idtipo=229&idfiglio=302&situazione=si. Rilevano ancora i penalisti, «Il giudizio su un accadimento
storico, per quanto contrastante con ogni generale e documentata evidenza, non può mai essere impedito e
represso con la sanzione penale: spetterà alla comunità scientifica rintuzzarlo, ove sia il caso, e alla
maturità dell'opinione pubblica democratica lasciarlo nell'isolamento di chi lo formula…» e anche un
solo argine, benché eticamente condivisibile, all'esercizio delle libertà politiche e tale è, prima fra tutte, la
libertà di espressione, introduce un vulnus al principio che l'elenco di esse debba restare assolutamente
incomprimibile: quell'elenco, infatti, come diceva Calamandrei, 'non si può scorciare senza regredire
verso la tirannide».
30
di pronunciarsi in materia di condotte “negazioniste”, anche se al momento emerge un
unico contenzioso in materia, e precisamente in materia di lesione del diritto all'identità
personale attraverso la manifestazione di tesi c.d. negazioniste.
7. La storia in giudizio: il caso del genocidio degli armeni di fronte al
Tribunale di Torino
La posizione italiana sul fenomeno negazionista emerge evidente nella decisione
emessa dal Tribunale di Torino, in un contenzioso che ha ad oggetto l'omissione della
menzione del genocidio armeno in un'opera storico-letteraria a carattere divulgativo,
realizzata su iniziativa di un quotidiano nazionale67: per la lesione del diritto all’identità
personale causata dalla omissione del genocidio nell’opera, gli attori si sono avvalsi
dello strumento della responsabilità civile. È la prima volta che nel nostro Paese si
chiede ad un tribunale di correggere un testo storico, nel quale è omesso ogni
riferimento al genocidio del popolo armeno da parte dell'impero ottomano; è la prima
volta che si chiede al Giudice nel merito di «Accertare che la ricostruzione della vicenda
del popolo Armeno nel periodo 1915-1923, quale esposta nei brani inseriti nei Voll. XII
e XIII de “La Storia”, è lesiva del diritto all’identità personale degli attori” con
conseguente condanna al risarcimento dei danni. L'Unione degli Armeni in Italia, la
Fondazione «Stefano Serapian» ed alcuni membri della comunità armena hanno
lamentato, infatti, la lesione del proprio diritto di identità personale, sia perché
nell'opera era stato del tutto omesso ogni riferimento al genocidio armeno, sia perché i
fatti storici relativi alla c.d. questione armena erano stati ricostruiti con metodo non
scientifico, con conseguente stravolgimento degli accadimenti, sostenendo che decine di
migliaia di persone fossero morte di stenti durante la deportazione, vittime di
circostanze tragiche e non di un disegno preciso. Partendo dal presupposto che secondo
gli attori tale omissione appariva un'esplicita negazione del genocidio e «che la
ricostruzione fornita era tale da non porre neppure l’ipotesi che tali massacri potessero
essere ricondotti alla categoria del genocidio», tali omissioni costituivano «un vulnus al
67
Trib. Torino, 27/11/2008, sentenza n. 7881/2008, in Giur. cost. 2009, 5, 3959. L'opera intitolata La
Storia era stata realizzata su iniziativa del quotidiano «La Repubblica» dalla Redazione Grandi Opere
della casa Editrice UTET, quest'ultima convenuta in giudizio insieme al Gruppo Editoriale l'Espresso.
Davanti ai magistrati comparvero in quell’occasione l'Unione armeni d'Italia, la fondazione «Serapian» e
una rappresentanza degli 82 cittadini italiani di origine armena che chiedevano in sostanza una
riparazione culturale, sostenendo che passare sotto silenzio il genocidio della loro gente sulla cui memoria
si è costruita un’identità collettiva, equivale a negare l’esistenza della loro comunità.
31
patrimonio spirituale, culturale e politico dell'intera comunità», qualificabili come
illecite per violazione dei principi di cui all'art. 2 Cost. e 2043 c.c. «Esse apparivano poi
inconcepibili, sia tenuto conto che l’opera dedicava invece ampio spazio all’Olocausto
ebraico, rispetto a cui il genocidio armeno costituiva una tragica anticipazione, sia
perché l’olocausto armeno era non solo riconosciuto come tale, ma addirittura
considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo» 68.
Così, nonostante gli attori entrassero nel merito dei tragici eventi che avevano segnato
la storia del popolo armeno, nonostante lamentassero l’inosservanza del criterio della
verità, evidenziando come l’opera fosse “diretta ad un vasto pubblico non sempre in
possesso delle nozioni e competenze adeguate per seguire criticamente la ricostruzione
storica offerta”69, senza uniformarsi al resto dell’Europa, i giudici italiani hanno escluso
che l’omissione potesse essere ritenuta esplicita negazione, «a meno di non voler
attribuire al silenzio un significato che non ha». Il Tribunale di Torino ha ritenuto, nel
merito, l'azione risarcitoria destituita di ogni fondamento, negando la sussistenza di
lesioni del diritto invocato in relazione ai contenuti dell'opera storica contestata70. Il
Tribunale ha in più precisato che la fattispecie oggetto di causa non potesse essere
ricondotta a tale ipotesi, poiché l'opera non conteneva alcuna negazione espressa circa
l'effettivo accadimento dei tragici eventi del popolo armeno, ma soltanto un'omessa
trattazione di tali fatti in termini di genocidio, così che la portata dei contenuti appariva
ben lontana dall’essere ritenuta lesiva del patrimonio dell’identità del popolo armeno71.
Nel processo italiano non sono mancati riferimenti da parte degli attori, alla
giurisprudenza di altre Corti europee, sebbene non accolti dai giudici nazionali. Si è, per
esempio, fatto riferimento all’affaire Faurisson e Lewis72; la risposta della Corte è stata
però negativa: «gli argomenti e le tesi propugnate, per quanto suggestive e affascinanti
68
Ibidem, p.3960.
Ibidem, p. 3960.
70
Ibidem, p. 3960: Innanzitutto il tribunale ha individuato il limite della tutela all'identità personale, di cui
all'art. 2 Cost., nel diritto di libera manifestazione del pensiero e di critica, anch'esso previsto e garantito
dall'art. 21 Cost. Si afferma, infatti, che appare «giuridicamente insostenibile», la pretesa dei ricorrenti e
quindi l'obbligo per l'autore di «rappresentare una vicenda storica, di abbracciare le tesi e le convinzioni
di coloro che ne furono parte [...] facendo proprio anche uno stile espositivo che sia pienamente
rispondente a quei sentimenti e rigorosamente calibrato in modo da non urtare la suscettibilità dei
protagonisti con ciò comprimendo [...] la libertà di ricerca, di critica e di pensiero, il diritto di elaborare
l'opera secondo le proprie personali idee o anche secondo mere e più semplicistiche esigenze
giornalistiche o editoriali, diritto che [...] ha pari dignità costituzionale rispetto all'identità personale».
71
F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la «verità storica?, cit. Secondo l’autrice il compito della
ricostruzione storica andrebbe affidato al popolo stesso evitando qualsiasi intromissione del potere
giudiziario, in sintonia con la posizione assunta dal Tribunale di Torino. Il Tribunale di Torino ha
rigettato la domanda nel merito ma avrebbe ben potuto, dichiararla inammissibile per difetto di
giurisdizione, ritenendo che non è compito del processo accertare la storia.
72
La giurisprudenza dei casi Faurisson e Lewis sarà oggetto di approfondimento dei prossimi capitoli.
69
32
(del tutto diverse dalle quotidiane controversie), appaiono del tutto esorbitanti dai
compiti assegnati dal legislatore al processo civile», al quale non è stato attribuito «il
potere di accertare la storia e quindi le esatte ragioni politiche e sociali che muovono
l'umanità e a cui conseguono eventi, mutamenti e purtroppo talvolta guerre e
persecuzioni».
Ciò che sicuramente non può trovare tutela nel nostro ordinamento è una concezione del
diritto all’identità personale che imponga e pretenda una determinata rappresentazione o
riconoscimento della persona; il limite quindi della tutela assicurata a tale posizione è
costituito dal diritto alla libera manifestazione di pensiero e di critica. Diverso il caso in
cui ad un soggetto vengano negate «qualità oggettive o se ne discosta la paternità di
azioni, che costituiscono pacificamente patrimonio della persona stessa, come
rappresentata e riconosciuta all’esterno[…]», casi questi in cui il compito dell’interprete
appare più delicato e compromesso.
Il caso italiano si discosta evidentemente dalle cause sottoposte all’attenzione di altri
giudici di merito europei e della stessa Commissione e Corte Europea dei diritti
dell’uomo, sebbene, attraverso l’analisi della giurisprudenza “europea” di cui si tratterà
meglio nel prossimo capitolo, può essere quanto mai semplice prevedere un verdetto
diverso rispetto a quello italiano, laddove il caso di specie fosse stato sottoposto ad altra
corte. Se è vero che nei casi Faurisson e Lewis, ad essere stato contestato è stato
esplicitamente e direttamente il genocidio, la sua effettiva verificazione, l’esistenza
delle camere a gas, dubbi sembrano non sussistere circa il fatto che, anche una
omissione nei Tribunali francesi (e non solo) sarebbe stata interpretata come implicita
minimizzazione, di talché, la condotta sarebbe stata probabilmente considerata come
negazionista e non avrebbe per questo trovato alcuna forma di legittimazione, in ragione
di un abuso del diritto di espressione previsto dall’art. 10 secondo comma della
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Ed invero, nel 1951
nel giudizio reso dalla Cour de cassation di Parigi nel caso Branly73, gli organi
giudicanti avevano già precisato che lo storico incorreva in responsabilità civile anche
nel caso di semplice reticenza, trasgredendo l’esigenza di una informazione oggettiva.
La Cour de Cassation74, infatti, ha riconosciuto a carico dello storico la responsabilità
da informazioni inesatte, affermando che l’informazione carente, anche se non
determinata da malizia o intenzione di nuocere, comporta la responsabilità dello
73
74
Si tratta dell’ affaire Branly: Cour de cassation de Paris, 27 febbraio 1951, in R. Dalloz, 1986, n. 25.
Cass. 27 febbraio 1951, cit.
33
scrittore cui si possa rimproverare di non essersi comportato come uno storico prudente
e consapevole dei doveri che professionalmente gli incombevano75.
In altri termini, attraverso l’analisi comparata della giurisprudenza italiana con quella
francese, appare subito chiara la differente strategia intrapresa dai due paesi in materia
di negazionismo. Sarebbe stato identico il risultato nel caso in cui avessimo raffrontato
la giurisprudenza italiana con quella di una serie di altre realtà giuridiche europee che
hanno adottato disposizioni memoriali, i cui orientamenti in materia di negazionismo
emergeranno chiaramente alla luce di una disamina che sarà oggetto del prossimo
capitolo.
Ed invero, così come la Decisione Quadro Europea non ha definito il termine
“minimizzazione”, provvedendo in ogni caso a sanzionarne la condotta, anche alcuni
Stati Europei che pure hanno inserito la c.d. “minimizzazione grossolana” tra i crimini
punibili, non si sono preoccupati di spiegarne il significato. Ed invero, ci si potrebbe
domandare se la mancata menzione nell’opera scientifica Utet del genocidio degli
armeni, accanto alla lunga e dettagliata trattazione dell’Olocausto degli ebrei, possa
essere assimilata ad una condotta di minimizzazione del genocidio armeno. Una risposta
affermativa spiegherebbe il differente “regime sanzionatorio” tra l’Italia e il resto
dell’Europa, senza considerare poi il diritto di elaborare l’opera secondo le proprie
personali idee o anche secondo le esigenze giornalistiche, diritto che, come ha ben
chiarito il Tribunale di Torino, ha pari dignità costituzionale rispetto all’identità
personale. Ed infine, un profilo soltanto sfiorato nella sentenza italiana, e che tocca in
realtà lo stesso fondamento dei moderni ordinamenti democratici, induce a domandarsi
se sia davvero compito dello Stato, del potere legislativo e giudiziario, plasmare una
verità storica e predisporre limiti alle libertà fondamentali.
75
J. Françillon, Aspects juridiques des crimes contre l’humanité, in L’actualitè du genocide des
arméniens (Actes du colloque tenu à la Sorbonne, les 16, 17 et 18 avril 1998), Edipol, Créteil, 1999, p.
403. L’autore scriveva: «chi opta per il silenzio, per le omissioni ha una ragione in più per essere
considerato negazionista».
34
Capitolo II
IL CONTRASTO AL NEGAZIONISMO E LA GARANZIA DELLA LIBERTÀ
D’ESPRESSIONE: LA PROSPETTIVA DELLA COMMISSIONE EUROPEA
DEI DIRITTI DELL’UOMO
1. Essere negazionisti in Europa e fuori: tra detenzione e libertà
La seconda fase del percorso di giuridificazione della storia coincide con l’imposizione
ex lege di obblighi di memoria, una tendenza del potere legislativo volta a
criminalizzare il passato - per altro di “tardiva” elaborazione – la quale connota ormai
trasversalmente l’intero spazio europeo.
Un trend che ci si sarebbe aspettato dai regimi totalitari sta prendendo, invece, corpo in
numerose democrazie europee. Leggi antinegazioniste, lois mémorielles, decisioniquadro e direttive europee: l'Europa da circa un ventennio ha intrapreso un percorso di
“giurisdizionalizzazione” del passato resosi terreno favorevole per il voto di leggi
qualificate successivamente come memoriali, volte a “gestire” l’Olocausto ed in
generale i crimini contro l’umanità. Le ragioni di quel che si presenta come un’autentica
escalation sono piuttosto complesse; si tratta in ogni caso di una strategia volta ad
“istituzionalizzare” – attraverso una damnatio memoriae a forme invertite – l’Olocausto
e altri crimini ritenuti allo stesso tempo meritevoli di questo tipo di sanzioni.
Un’analisi comparata mette in risalto l’esistenza di numerose legislazioni che
propongono iure imperii una determinata lettura e rilettura di un evento del passato e ne
impongono il rispetto anche contro alcune delle libertà fondamentali garantite dalle
Costituzioni degli stessi Paesi. Ci si riferisce in particolare a disposizioni normative che
si nascondono dietro una presunta ineluttabilità, leggi non ancora del tutto estese e
molto recenti, sebbene in alcuni casi i tentativi di introduzione sono ben più risalenti. Su
scala europea, dei quarantasette Paesi membri del Consiglio d’Europa, sette Stati hanno
introdotto nelle rispettive legislazioni, tra il 1990 e il 1997, disposizioni volte a
reprimere comportamenti negazionisti; una lista simbolica che vede protagonisti
Francia, Austria, Belgio, Spagna, Lussemburgo, Svizzera e Germania; simbolica perché
alcuni dei Paesi indicati sono, ed è una “verità ufficiale”, direttamente responsabili della
Shoah (l’eccidio per eccellenza che sta particolarmente a cuore ai negazionisti), i
35
restanti invece potrebbero essere definiti come i testimoni, rimasti muti, del genocidio
degli ebrei.
La lista appena tratteggiata ha subito un ampliamento dopo il 2008, a seguito
dell’emanazione della Decisione Quadro da parte del Consiglio d’Europa76, con
l’obiettivo precipuo del ravvicinamento delle disposizioni legislative in materia di
xenofobia, razzismo e negazionismo degli Stati membri.
I sette Paesi pionieri, che hanno inaugurato le legislazioni anti-negazioniste in senso
stretto, appartengono all’Europa Occidentale e sono tutti Paesi di “diritto scritto”; gli
stati anglosassoni e scandinavi, pur essendo progrediti in materia di lotta al razzismo e
antisemitismo, non hanno ancora introdotto nelle rispettive legislazioni interne
disposizioni volte a reprimere comportamenti negazionisti; la probabile spiegazione
risiede nella tradizione giuridica di tali Paesi, essendo gli stessi legati ad una concezione
massimalista e intransigente della libertà d’espressione77. Quest’ultima è, del resto, una
tendenza emblematicamente riscontrabile nel diritto statunitense, fortemente influenzato
dal primo emendamento alla Costituzione del 179178.
Accanto agli ordinamenti anglo-americani, anche quelli nord-europei esaltano la libertà
di manifestazione del pensiero, diversamente dai sistemi continentali europei
(soprattutto i Paesi che hanno avuto esperienza diretta della persecuzione antisemita),
all’interno dei quali si evidenzia una ulteriore differenziazione, tra la normativa degli
Stati dell’Europa occidentale, che prende in considerazione esclusivamente il fenomeno
nazista - così che tra milioni di avvenimenti che hanno costituito la trama della storia
dell’umanità, la negazione di uno solo, l’Olocausto degli ebrei nelle camere a gas tra il
1942 e il 1944, viene ritenuto punibile - e quella dell’Europa centro-orientale che
amplia la questione, fino a coinvolgere anche il totalitarismo stalinista, con una
equiparazione non esente da polemiche.
Per un quadro più completo, va precisato che, fuori dal Consiglio d’Europa e ancora
prima dell’avvio francese alla legislazione antinegazionista, in Israele, la Knesset aveva
approvato nel 1986 la Denial of Holocaust (Prohibition) Law 5746-1986 che punisce la
76
Decisione Quadro 2008/913/GAI in GU L 328 del 6.12.2008.
M. Valdès-Boulouque, Les législations en vigueur en Europe, pag. 71, Atti del Convegno La lutte
contre le négationnisme, Bilan et perspectives de la loi du 13 juillet 1990 tendant à réprimer tout acte
raciste, antisémite ou xénophobe. Vendredi 5 juillet 2002, Cour d'Appel de Paris, consultabile on line
http://www.vho.org/aaargh/fran/livres5/trichetruche.pdf.
78
Primo emendamento della Costituzione americana: “Il Congresso non promulgherà leggi che
favoriscano qualsiasi religione, o che ne proibiscano la libera professione, o che limitino la libertà di
parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al
governo per riparazione di torti”.
77
36
negazione dello Holocaust nei seguenti termini: “ A person who, in writing or by word
of mouth, publishes any statement denying or diminishing the proportions of acts
committed in the period of the Nazi regime, which are crimes against the Jewish people
or crimes against humanity, with intent to defend the perpetrators of those acts or to
express sympathy or identification with them, shall be liable to imprisonment for a term
of five years.” A questo reato si aggiunge un divieto di pubblicare manifestazioni di
simpatia nei confronti dei crimini nazisti79.
2. Un panorama sulle leggi memoriali in Europa
Al cospetto di democrazie che hanno adottato disposizioni normative più o meno
dettagliate volte a sanzionare la negazione di un fatto storico, risulta quanto mai
necessario, in un’ottica comparatistica, e senza la pretesa di essere esaustivi, illustrare le
disposizioni normative negazioniste presenti ad oggi negli Stati europei.
Ad una disamina iniziale, limitata solo ad alcuni Stati, si aggiungerà nel prossimo
paragrafo, l’esame delle disposizioni normative afferenti ai paesi che si sono muniti
“tardivamente” di legislazione antinegazionista, e precisamente solo a seguito della
approvazione della Decisione Quadro del 200880.
La legislazione anti-negazionista in tutta Europa risulta piuttosto omogenea (ci si
riferisce tanto a quella dei sette paesi che inizialmente hanno provveduto a punire
comportamenti negazionisti, quanto agli Stati che solo dopo la Decisione Quadro del
2008 hanno rivisitato le rispettive normative): si tratta di leggi simili fra loro, ma non
identiche. Convivono nella mole di legislazioni memoriali, paesi che limitato
l’incriminazione solo al caso di negazione dell’Olocausto: Germania81, il Belgio82, e
79
S. Roth, Making the Denial of the Holocaust a Crime in Law, Institute for Jewish Affairs, Research
Reports, n° 1, mars 1982, 1-12.
80
Decisione quadro 2008/913/GAI cit.
81
J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, in Dir. pubbl. comp. ed
eur. 2008, 1192 ss. L’autore enuncia le tappe del negazionismo nell’esperienza tedesca, in cui le condotte
riconducibili al negazionismo sono varie e comprendono, in particolare, “l’apologia di reato (§ 140 StGB:
Billigung von Straftaten), il vilipendio della memoria dei defunti (§ 189 StGB: Verunglimpfung des
Andenkens Verstorbener), l’ingiuria e la diffamazione verso persone individuali, collettività organizzate o
categorie di persone non organizzate (§ 185 StGB: Beleidigung, § 186 StGB Verleumdung) e, infine, il
cd. “aizzamento del popolo” (§ 130: “Volksverhetzung”). Nel 1960, il Bundestag ha approvato
all’unanimità il nuovo art. 130 del codice penale (StGB) sotto il nuovo titolo di “aizzamento del popolo”
(Volksverhetzung): “Chiunque aggredisce, in forme idonee a turbare la pace pubblica, la dignità umana
altrui
1) istigando all’odio contro parti della popolazione,
2) esortando a compiere atti di violenza o di arbitrio nei loro confronti,
3) insultando, denigrando con malizia o calunniando gli stessi,
37
l’Austria83, e Paesi che estendono il reato alla negazione di più genocidi (Francia,
Spagna, Portogallo, Svizzera); leggi che puniscono la sola negazione, e disposizioni che
incriminano anche la minimizzazione e la banalizzazione del crimine.
Ed invero, nel quadro europeo si alternano leggi che richiedono per la punibilità,
l’idoneità a turbare la pace pubblica (Germania) e altre che rinunciano a questa
condizione (Francia e Belgio).
Diversi poi sono gli agganci alla normativa internazionale al fine d’individuare l’area di
punibilità: la legge francese, per esempio, fa riferimento all’art. 6 dello Statuto del
Tribunale militare di Norimberga, mentre quella belga si rifà all’art. 2 della
Convenzione del 1948 per la prevenzione e repressione del genocidio84.
4) viene punito con la reclusione per non meno di tre mesi. Inoltre può essere inflitta una pena
pecuniaria”.
82
Belgium Negationism law (1995, emendamenti 1999), in Belgian Official Journal Marzo, 1995.
83
Verbotsgesetz 1947, StF: StGBI Nr 148/1992, legge costituzionale austriaca promulgata nel 1947 con
emendamenti del 1992. Con l'approvazione della legge di proibizione sono stati ufficialmente vietati il
partito nazista, le sue strutture armate e tutte le organizzazioni dipendenti.
84
A. Di Giovine, Il passato che non passa: “Eichmann di carta” e repressione penale, cit; A. Di Giovine
(cur.), Democrazie protette e protezione della democrazia, Giappichelli, 2005; E. Fronza, Profili
penalistici del negazionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 1034 ss. Ad essere richiamate la
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950 (art. 10), la Convenzione internazionale
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1965 (art. 4); il Patto internazionale sui
diritti civili e politici del 1966 (art. 20), l’Azione comune del 15 luglio 1996 adottata dal Consiglio
dell’UE, sulla base dell’art. 3 del Trattato sull’UE, concernente l’azione contro il razzismo e la xenofobia,
nella quale gli Stati membri sono sollecitati a reprimere la negazione pubblica dei crimini definiti dall’art.
6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga; la risoluzione del Parlamento Europeo del 30 gennaio 1997,
che invita, in occasione dell’Anno europeo sul razzismo, gli Stati membri «a prendere, sulla base dell’art.
1, punto 7, del Trattato sull’UE, delle iniziative che permettano di lottare efficacemente contro il
razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo, e contro la diffusione di tesi negazioniste, prevedendo o
rafforzandole sanzioni e migliorando le possibilità di azioni giudiziarie».
38
2.1 La negazione dell’Olocausto come unico oggetto di sanzione
L’inaugurazione della legislazione memoriale in Europa coincide con la loi Gayssot85:
la Francia, pioniera in materia, ha aperto un dibattito non ancora placatosi con
l’introduzione della legge Gayssot del 13 luglio 1990. Si tratta di un atto normativo che
ha sin da principio suscitato passioni e polemiche: è unicamente la negazione
dell’Olocausto ad essere incriminata dal provvedimento in oggetto, con previsione di
ammenda, restrizione della libertà personale e talvolta anche di interdizione
professionale per il caso di violazione. Almeno inizialmente, e per lungo tempo,
probabilmente per limitare i rischi di una eccessiva compressione della libertà di
espressione, e per scongiurare il pericolo di affidare ai tribunali il compito di ricerca
dell’intera verità storica, la Francia ha scelto di limitare l’oggetto della negazione al
solo genocidio nazionalsocialista e ai crimini giudicati da un tribunale nazionale o
internazionale, con il risultato che non risultava passibile di sanzione colui che,
spigolando negli angoli più reconditi della storia, avesse contestato un genocidio
diverso da quello perpetrato ai danni degli ebrei (questo quello che accadeva fino a
poche settimane fa). La legge Gayssot stabilisce, infatti ,all’art. 24-bis86 specifiche pene
per chiunque neghi "l’esistenza di uno o più delitti contro l’umanità, così come definiti
85
Legge n° 90-615 del 13 luglio 1990, in Bullettin Officiel du Ministre de la Justice, n° 39 del 30
settembre 1990, Circulaire Crim 90-09 F1 del 27 agosto 1990, Application de la Loi n 90-615 del 13
luglio 1990 tendant à réprimer tout acte raciste, antisémite ou xénofobe. Sulla legge Gayssot e per alcune
note applicazioni giudiziarie di tale disciplina, in particolare sul caso Faurisson e sul caso Garaudy, cfr.
M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, in Ragion pratica 1997, pag. 189 ss., P. Wachsmann,
Libertà di espressione e negazionismo, ivi, 1999, 57 ss.; M. Ripoli, Ancora sul negazionismo. Garaudy
letto sul serio, ivi 1999, 71 ss.; A. Buratti, L'affaire Garaudy di fronte alla Corte di Strasburgo. Verità
storica, principio di neutralità etica e protezione dei «miti fondatori» del regime democratico, in Giur. it.
2005, 12 ss. Nella stessa direzione di severità normativa e di ferma condanna verso ogni forma di
negazionismo si colloca la proposta di legge che punisce specificamente la negazione del genocidio
armeno, approvata in prima lettura il 12 ottobre 2006 e mai esaminata dal Senato per l’assenza della
maggioranza tanto di destra quanto di sinistra. Probabilmente per evitare gli effetti nefasti nelle relazioni
diplomatiche e commerciali tra la Francia e la Turchia, non avendo ancora i governi turchi ammesso le
responsabilità della nazione in quell'ecatombe, in Senato non si è mai discussa la legge.
In data 22 dicembre 2011 l’Assemblea Nazionale francese, nonostante da parte della Turchia non ci sia
stato alcun riconoscimento in merito, ha approvato un testo che prevede un anno di carcere e 45.00 euro
di ammenda per chi nega o minimizza grossolanamente il genocidio turco ai danni degli Armeni.
86
Article 24 bis, Legge Gayssot: «Seront punis des peines prévues par le sixième alinéa de l'article 24
ceux qui auront contesté, par un des moyens énoncés à l'article 23, l'existence d'un ou plusieurs crimes
contre l'humanité tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international annexé
à l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d'une organisation
déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de
tels crimes par une juridiction française ou internazionale».
Le tribunal pourra en outre ordonner :
1° L'affichage de sa décision dans les conditions prévues par l'article 51 du code pénal ;
2° La publication de celle-ci ou l'insertion d'un communiqué dans les conditions prévues par l'article 511 du code pénal sans que le frais de publication ou d’insertion puissent excéder le maximum de l’amende
encourue»
39
dall’art. 6 dello Statuto del tribunale militare internazionale annesso all’accordo di
Londra dell’8 agosto 1945".
Accanto ad una iniziale e limitata incriminazione da parte della Francia sulla base della
loi Gayssot, si sono aggiunte altre disposizioni che estendono il raggio della punibilità
ad altri genocidi commessi nella storia dell’umanità, oltre a disposizioni che al
momento sono allo stadio di semplici proposte di legge. La questione francese sarà
oggetto di approfondimento nel prossimo capitolo.
Tra gli Stati che hanno limitato la portata della incriminazione al solo genocidio degli
ebrei, ricordiamo, in ordine di tempo, l’Austria, la quale ha novellato la propria
normativa in chiave antinegazionista, inserendo con legge del 26 febbraio 1992 nella
“vecchia” legislazione sul divieto del partito nazionalsocialista87, due nuovi paragrafi, il
primo contenente una fattispecie generale e sussidiaria che punisce con pena detentiva
da uno fino a dieci anni, e in caso di particolare pericolosità del reo o dell’attività, fino a
20 anni” (§ 3g) “chiunque compie attività in senso nazionalsocialista (…); il secondo
accoglie invece una disposizione specifica contro la negazione del genocidio
nazionalsocialista (§ 3 h);
in applicazione del § 3 g viene punito “chiunque con
un’opera di stampa, in radiotelevisione o attraverso altro mezzo di comunicazione di
massa (medium) o in altro modo pubblico accessibile a una moltitudine di persone,
nega, banalizza grossolanamente, apprezza o cerca di giustificare il genocidio
nazionalsocialista o altri reati contro l’umanità”. La legge austriaca, dotata delle
sanzioni più rigorose in Europa, è stata peraltro applicata allo storico David Irving,
condannato in data 20 febbraio 2006 a pena detentiva pari a tre anni88.
In Germania la legge del 28 ottobre 1994 si è mossa in una direzione simile a quella
austriaca e iniziale francese89, modificando l’art. 130 del codice penale, che ora punisce
“chi pubblicamente o in una riunione, approva, nega o minimizza il genocidio nazista
nei confronti degli ebrei, in maniera idonea a turbare la pace pubblica” 90. Tuttavia, è
87
In Austria, con una modifica del 26 febbraio 1992 alla legge costituzionale del 6 febbraio 1947
sull’interdizione del partito nazionalsocialista, si è introdotta la fattispecie della negazione o della grave
minimizzazione dei genocidi nazisti e socialisti.
88
M. Malena, Il caso Irving: libertà di pensiero o mistificazione della realtà?, in Quad. cost., 2006, p.
116.
89
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 15. L’autore ricorda che per i
cittadini della Repubblica federale il rifiuto andava oltre una semplice discussione storica sull'Olocausto;
qualsiasi riferimento alla Shoah, anche durante una semplice conversazione veniva interpretato come
un'affermazione simbolica di nazismo, non differente dal saluto di Hitler e dalla svastica.
90
F. Rotondi, Luna di Miele ad Auschwitz, Riflessioni sul negazionismo della Shoah, Edizioni
Scientifiche Italiane, 2005, p. 22 ss. I gerarchi tedeschi si preoccuparono nel momento stesso
dell’espletamento del genocidio di occultarne le prove, ricorrendo costantemente alla Sprachregelung
40
proprio nel paese a maggior rischio di interpretazioni minimizzatrici e orientate alla
relativizzazione delle colpe del passato nazista, nel paese in cui la libertà di parola ha
considerevole appoggio istituzionale e culturale anche perché protetta dall’art. 5 della
Legge fondamentale (Grundgesetz)91, che il codice penale punisce la c.d. “menzogna di
Auschwitz pura e semplice”92, qualora tale condotta sia idonea a turbare la quiete
pubblica, senza che sia necessaria l’intenzione di ledere la dignità umana dei
perseguitati o di sottolinearne l’inferiorità razziale93.
Rientra pure nella “categoria” degli Stati europei che si sono limitati a punire il solo
genocidio perpetrato ai danni degli ebrei, il Belgio, che nel 1995 ha visto l’adozione di
una disposizione che punisce ogni atto che «nie, minimise grossièrement, cherche à
justifier ou approuver le génocide commis par le régime nationalsocialiste allemand
durant la seconde guerre mondiale»94: tale legge richiama al comma secondo la
Convenzione internazionale del 1948 per la prevenzione e repressione del genocidio,
sfruttando la definizione contenuta nella stessa del termine genocidio
95
. Contestata da
più parti, la legge del 1995 è finita al vaglio della Cour d’arbitrage belga, chiamata a
(linguaggio cifrato usato per nascondere la vera natura delle operazioni criminali), distruggendo
documenti compromettenti, eliminando al termine del conflitto qualsiasi traccia di edifici adibiti a camere
a gas, e delle vittime degli stessi massacri. Nella Sprachregelung lo sterminio era chiamato Endlösung
(soluzione finale), gli architetti della Zentralbauleitung (Direzione centrale delle costruzioni) indicavano
le camere a gas omicide sotterranee con il termine Sonderkeller (cantine per azioni speciali) e quelle in
superficie Badeans für Sonderaktionen (bagni per azioni speciali)”.
91
Republic of Germany (Baden-Baden: Nomos, 1988), 91–106, 92, Articolo 5(1): “Everyone shall have
the right freely to express and disseminate his opinion by speech, writing and pictures and freely to
inform himself from generally accessible sources. Freedom of the press and freedom of reporting by
means of broadcasts and film are guaranteed. There shall be no censorship.” Article 5(2): “These rights
are limited by the provisions of the general laws, the provisions of law for the protection of youth, and by
the right to inviolability of personal honor.” citato in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A
Comparative Study, cit., p. 148.
92
M.C. Vitucci, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale
dell’asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, in Giur. Cost.,
1994, p. 3379 ss. La modifica dell’art. 130 in Germania è stata influenzata dalla sentenza del
Bundesverfassungsgericht (Corte Costituzionale tedesca) Sent. 13-4-1994, in BVerfGE 90, 1994, 241 ss.
relativa al caso Auschwitzlüge dalla quale emerge il punto di vista della giurisprudenza tedesca prima
della penalizzazione della negazione dell’Olocausto: in tale decisione il Bundesverfassungsgericht
affronta la questione del negazionismo sotto il profilo dell’offesa all’onore degli ebrei. È in questa
occasione che il Bundesverfassungsgericht, distinguendo tra opinione e fatto, si pronuncia in questo
modo: “La negazione dell’Olocausto può essere protetta solo nel caso in cui sia strumentale alla
formazione di un’opinione, per la quale non è sufficiente la semplice convinzione soggettiva della verità
di ciò che si esprime, ma è necessaria anche la verifica oggettiva di un fatto, che nel caso di specie è da
escludere”. Negare l’Olocausto degli ebrei è stata considerata un’affermazione allo stesso tempo
“evidentemente falsa e sufficientemente dannosa” da giustificare un immediato intervento dello Stato.
93
A. Pace- M. Manetti, Art. 21, in Commentario della Costituzione, cit., p. 282.
94
Legge del 23 marzo 1995, Loi tendant à réprimer la négation, la minimisation, la justification ou
l'approbation du génocide commis par le régime national-socialiste allemand pendant la seconde guerre
mondiale”, in Justice, 30-03-1995, n° 1995009273, p. 7996.
95
Comma 2, art. 1 legge 23 marzo 1995: «Pour l'application de l'alinéa précédent, le terme génocide
s'entend au sens de l'article 2 de la Convention internationale du 9 décembre 1948 pour la prévention et la
répression du crime de génocide».
41
pronunciarsi su due ricorsi individuali diretti contro la legge in questione: la Corte ha
giudicato conforme alla Costituzione belga la legge del 1995 perché in linea con le
garanzie dell’eguaglianza e non discriminazione (art. 10, 11), della libertà di opinione
(art. 19) e del divieto di “ogni misura di limitazione preventiva” della libertà di
insegnamento (art. 24 co. 1 cost.). La necessità di disposizioni del genere è giustificata,
a dire della Cour d’arbitrage, dal fatto che “La liberté d’expression constitue l’un des
fondements essentiels d’une société démocratique. Elle n’est toutefois pas absolue […]
Il peut être admis que le législateur intervienne de manière répressive lorsqu’un droit
fondamental est exercé de manière telle que les principes de base de la société
démocratique s’en trouvent menacés et qu’il en résulte un dommage inacceptable pour
autrui…”. Si motiva in questi termini l’intervento repressivo del legislatore belga anche
nei confronti della manifestazione di opinioni che da un lato risultano infamanti e
offensive per la memoria delle vittime, dei sopravvissuti e dello stesso popolo ebraico,
dall’altro lato offrono terreno fertile per l’antisemitismo e il razzismo: per la Corte belga
si rende opportuno intervenire ogni qualvolta un diritto fondamentale viene esercitato
minacciando i principi di base della società democratica, determinando un danno
inaccettabile per la collettività.
2.2 La proibizione del negazionismo oltre l’Olocausto
Accanto alle legislazioni che si sono limitate a punire il solo genocidio degli ebrei
considerandolo il genocidio per eccellenza, e lasciando impuniti altri “errori della
storia”, si colloca la legge svizzera, che estende, invece, l’incriminazione ad ogni
genocidio o crimine contro l’umanità, senza fare esclusivo riferimento all’Olocausto. In
data 25 settembre 1994 è stata approvata la riforma svizzera deliberata nel 1993, la
quale ha introdotto un nuovo reato di “discriminazione razziale” all’art. 261 bis nel
codice penale: “Chiunque incita pubblicamente all’odio o alla discriminazione contro
una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione; chiunque
propaga
pubblicamente
un’ideologia
intesa
a
discreditare
o
calunniare
sistematicamente i membri di una razza, etnia o religione; chiunque, nel medesimo
intento, organizza o incoraggia azioni di propaganda o vi partecipa; chiunque,
pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo
comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo
di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce,
42
minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro
l’umanità; chiunque rifiuta ad una persona o a un gruppo di persone, per la loro razza,
etnia o religione, un servizio da lui offerto e destinato al pubblico, è punito con una
pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniari 96”. È stata proprio l’ampiezza
dell’incriminazione contenuta nell’art. 261 bis a permettere al Tribunale federale
svizzero la condanna di Doğu Perinçek, capo del Partito turco dei lavoratori per
negazione del genocidio degli Armeni: un verdetto a favore degli Armeni che per la
prima volta a livello mondiale è stato pronunciato da una Corte Suprema97.
In un’analisi comparata si può notare che, se la disciplina svizzera appare più restrittiva
rispetto quella tedesca e francese, in quanto esige l’intento di screditare e calunniare
sistematicamente i membri di una razza, etnia o religione, sotto il profilo oggettivo, la
giurisprudenza svizzera ha individuato il bene protetto nella pace pubblica e nella
dignità umana, estendendo per altro le condotte incriminatrici a più eventi della storia
passata.
Dei Paesi iberici né il Portogallo, né la Spagna proibiscono espressamente la negazione
dell’Olocausto: il Portogallo si è dotato di una legislazione che estende l’incriminazione
penale alla negazione di una serie di crimini di guerra, contro la pace e l’umanità; con
legge del 2 settembre 1998, n. 65, è stata introdotta nell’art. 240 del codice penale
portoghese, una norma che punisce «chiunque … diffama o ingiuria una persona o un
gruppo di persone a causa della loro razza, colore, origine etnica o nazionale ovvero
della loro religione, in particolare mediante la negazione di crimini di guerra, contro la
pace e l’umanità»98.
Sebbene anche la Spagna disponga nel proprio codice penale di articolo volto a
sanzionare le condotte di negazione o giustificazione di una serie di crimini che mirano
a distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso, senza fare menzione esplicita del genocidio ebreo, qualcosa è cambiato a
partire dal 2007.
96
L’art. 261 bis è stato introdotto dall’art. 1 della LF del 18 giu. 1993, in vigore dal 1° gen. 1995 (RU
1994 2887 2889; FF 1992 III 217).
97
Doğu Perinçek è stato condannato dalla corte distrettuale di Losanna il 9 marzo 2007; la decisione è
stata confermata il 19 giugno dalla Corte cantonale di Vaud e, definitivamente, il 12 dicembre 2007 dal
Tribunale federale svizzero. Perinçek non negò l’esistenza dei massacri ma ne contestò la qualificazione
in termini di genocidio, parlando di una «mensonge international».
98
Código Penal português (texto oficial), (in Portuguese). Diário da República. September 4, 2007. pp.
57–58, consultabile all’indirizzo internet http://www.dre.pt/pdf1sdip/2007/09/17000/0618106258.pdf. ,
Retrieved 2009-05-31.
43
In Spagna il codice penale post-riforma della Ley Orgánica n. 1099, puniva, fino alla
pronuncia dei giudici del Tribunal Constitucional del 7 novembre del 2007 n. 235, ex
ultimo comma dell’art. 607, «la difusión por cualquier medio de ideas o doctrinas que
nieguen o justifiquen los delitos tipificados en el apartado anterior de este artículo, (che
si riferisce al proposito di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso), o pretendan la rehabilitación de regímenes o instituciones
que amparen prácticas generadoras de los mismos»100.
La decisione del Tribunale Costituzionale Spagnolo ha dichiarato, però, incostituzionale
l’art. 607 comma secondo nella parte relativa all’espressione “nieguen o”, considerando
tale sanzione restrittiva, in modo ingiustificato, della libertà di manifestazione del
pensiero e di ricerca storica; la stessa Corte, però, non ha ritenuto incostituzionale
sanzionare penalmente la giustificazione di idee negazioniste. Di conseguenza, al
momento la negazione dell’Olocausto così come di altri crimini contro l’umanità risulta
non punibile in Spagna, diversamente dalla semplice giustificazione degli stessi crimini.
Il Principato del Liechtstein, in assenza di qualsiasi tipo di azione comunitaria, ha
riformato nel 2000 l’art. 283 del codice penale che prevede ora, al punto 5 del comma
primo, la punizione con pena detentiva fino a due anni delle condotte di negazione o
minimizzazione grossolana del genocidio o di altri crimini contro l’umanità, attraverso
scritti, immagini e strumenti elettronici.
Il Lussemburgo, con una riforma del codice penale approvata in data 19 luglio 1997, ha
inserito nel titolo dedicato ai “Crimini e delitti contro le persone, il capitolo VI (Du
99
I. Spigno Un dibattito ancora attuale: l’Olocausto e la sua negazione in Libertà e diritti civili, in Dir.
pubbl. comp. Eur, n. 4/08, p. 1921 ss. La riforma della Ley Orgánica che ha dato attuazione agli impegni
assunti dalla Spagna in ambito internazionale per prevenire e perseguire il genocidio, è stata influenzata
dalla sentenza del Tribunal Constituciona dell’11 novembre 1991, n. 214, meglio conosciuta come
sentenza “Friedman”. Il caso nacque in seguito alle dichiarazioni rese durante un’intevista contro gli ebrei
da Leon Degrelle, ex combattente nazista durante la seconda guerra mondiale. A seguito delle parole di
Degrelle la signora Friedman, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, in cui erano stati uccisi
tutti i suoi familiari, presentò ricorso davanti al Tribunal Constitucional. La Corte, diversamente da come
probabilmente ci si sarebbe aspettato, non obiettò il fatto che tali dichiarazioni fossero state rese nei
confronti dell’intero popolo ebraico e non specificatamente contro la signora Friedman, ma ampliò
l’ambito di incidenza del diritto all’onore, così che anche i singoli membri di un determinato gruppo
etnico o sociale avrebbero goduto del diritto ad ottenere il risarcimento in seguito alle offese rivolte
all’intero gruppo. E in più, il Tribunale spagnolo, sulla considerazione che la libertà di espressione non
garantisce il diritto a porre in essere manifestazioni anche solo verbali, di carattere razzista o xenofobo,
dichiarò che le opinioni naziste nei confronti degli ebrei e dei campi di concentramento, rientravano
nell’ambito di garanzia riconosciuto alla libertà di espressione, in relazione alla libertà di coscienza di cui
all’art. 16 della costituzione spagnola.
100
Cfr C. Caruso, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale
Costituzionale spagnolo, in Quad. cost. 3/2008, p. 33; I. Spigno, Un dibattito ancora attuale: l’Olocausto
e la sua negazione, cit., 1921 ss; E. Fronza-V. Manes Il reato di negazionismo nell’ordinamento
spagnolo: la sentenza del Tribunal Costitucional n. 235 del 2007, in [email protected], n.2/2008, pag 489
ss.
44
racisme, du révisionnisme et d'autres discriminations), recependo varie figure di
discriminazione ed istigazione all’odio e estendendo la tutela tanto ai crimini contro
l’umanità, quanto ai crimini di guerra, e al genocidio, in un ordine di previsione che
antepone alla negazione o minimizzazione del genocidio, condotte simili perpetrate nei
confronti dei crimini contro l’umanità, e dei crimini di guerra101. L’art 457-3 statuisce,
infatti, che: “Est puni d'un emprisonnement de huit jours à six mois et d'une amende de
251 euros à 25.000 euros ou de l'une de ces peines seulement celui qui, soit par des
discours, cris ou menaces proférés dans des lieux ou réunions publics, soit par des
écrits, imprimés, dessins, gravures, peintures, emblèmes, images ou tout autre support
de l'écrit, de la parole ou de l'image vendus ou distribués, mis en vente ou exposés dans
des lieux ou réunions publics, soit par des placards ou des affiches exposés au regard
du public, soit par tout moyen de communication audiovisuelle, a contesté, minimisé,
justifié ou nié l'existence d'un ou de plusieurs crimes contre l'humanité ou crimes de
guerre tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international
annexé à l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres
d'une organisation déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par
une personne reconnue coupable de tels crimes par une juridiction luxembourgeoise,
étrangère ou internationale. Est puni des mêmes peines ou de l'une de ces peines
seulement celui qui, par un des moyens énoncés au paragraphe précédent, a contesté,
minimisé, justifié ou nié l'existence d'un ou de plusieurs génocides tels qu'ils sont définis
par la loi du 8 août 1985 portant répression du genocide et reconnus par une
juridiction ou autorité luxembourgeoise ou internationale»102.
2.3 Tentativi infruttuosi di proibizione del negazionismo
Accanto alle leggi c.d memoriali introdotte in Europa, con previsioni che di fatto non si
esimono dal minacciare la libertà di parola, ma che forse, è doveroso dirlo, nulla di più
aggiungono all’orientamento già seguito, a partire dagli anni ottanta, dalla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, si individuano, in casi circoscritti, disposizioni simili che
non hanno visto l’approvazione finale, ovvero hanno subito una inaspettata
abrogazione. Nel 1997, anche nel Regno Unito è stata presentata una proposta di legge
101
J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit. , p. 16.
Legge del 19.07.1997, Incrimination du racisme, révisionnisme et discrimination in Mémorial A n° 54
del 07.08.1997.
102
45
(“Holocaust Denial Bill”) volta ad equiparare la negazione all’esternazione di parole o
scritti minacciosi, abusivi, ingiuriosi, che istigano all’odio razziale, ai sensi della
Section 18 del Public Order Act del 1986: “any words, behaviour or material which
purport to deny the existence of the policy of genocide against the Jewish people and
other similar crimes against humanity committed by Nazi Germany (‘the Holocaust’)
shall be deemed to be intended to stir up racial hatre…” La proposta non ha avuto buon
esito nemmeno quando è stata rilanciata nel 2001; rientra nella stessa “categoria” anche
il caso della Slovacchia che ha abrogato, nel 2005 l’art. 422 del codice penale, che
criminalizzava la negazione dell’Olocausto. Smentire o negare le atrocità perpetrate dal
comunismo e dal nazifascismo potrebbe, però, diventare nuovamente un reato in
Slovacchia: è questa è la proposta di emendamento al Codice Penale presentata da
quattro deputati del Partito Civico Conservatore OKS nei mesi scorsi.
2.4 La situazione olandese: un approccio «intermedio»
La negazione dell’Olocausto non è, invece, esplicitamente vietata in Olanda. Benché
manchi qualsiasi riferimento alla categoria del genocidio, le Corti puniscono con il
carcere fino ad un anno o con una multa ex art. art. 137c del codice penale, (e solo
laddove le offese vengano rivolte contro un gruppo particolare di persone), la sola
diffamazione: è punito, infatti, chi intenzionalmente, sia oralmente che con scritti o con
immagini, “makes a defamatory statement about a group of persons on the grounds of
their race, religion or personal beliefs, or their hetero - or homosexual orientation”103;
così come è punito anche chiunque “incites hatred of or discrimination against persons
or violence against their person or property, on the grounds of their race, religion or
personal beliefs, their sex or their hetero-or homosexual”104.
103
Art. 137 c del Dutch Penal Code, Wetboek van Strafrecht (Sr), consultabile al sito web www.wetboekonline.nl. http://wetboek-online.nl/wet/Sr/137c.html.
104
Art. 137 d del Dutch Penal Code, Wetboek van Strafrecht (Sr), consultabile al sito web www.wetboekonline.nl. http://wetboek-online.nl/wet/Sr/137d.html.
46
3. La protezione della libertà di espressione nella giurisprudenza della
Commissione Europea e della Corte europea dei Diritti dell’Uomo
La Commissione europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata in numerose decisioni in
materia di negazionismo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è stata, invece, adita
piuttosto recentemente, poiché la Commissione ha fatto da filtro dichiarando nel corso
degli anni irricevibili una serie di richieste presentate dai negazionisti per la violazione
dei propri diritti alla libertà di espressione. Conformemente alla giurisprudenza della
Commissione Europea dei Diritti dell'Uomo e della stessa Corte di Strasburgo, la libertà
di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, una
delle condizioni precipue per il progresso di tale società e per il pieno sviluppo di ogni
singola persona. A suggellare tale condizione, il primo comma dell’art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ai sensi del quale “Ogni persona ha diritto
alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da
parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non
impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di
radiodiffusione, cinematografiche o televisive”.
La libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’articolo in esame, rappresenta
una delle basi essenziali di una società che vuole essere democratica ed una delle
condizioni primordiali per il suo progresso, nonché per lo sviluppo della persona. È
ovvio che tale libertà “non riguarda solo le informazioni o le opinioni accolte con favore
o considerate inoffensive o indifferenti, ma comprende anche le informazioni e le
opinioni che urtano o inquietano; ciò è richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo
spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica”105 A seguito
dell’ingresso delle leggi memoriali, (e accanto alle numerose iniziative comunitarie di
cui tratteremo nel prossimo paragrafo), non vi erano dubbi sul fatto che anche la Corte
Europea dei diritti dell’uomo avrebbe continuato ad uniformarsi all’ondata di restrizioni
in campo negazionista: lo snodo centrale sottoposto sin dall’inizio agli organi della
CEDU è stato quello di valutare se i limiti imposti dalle legislazioni interne alla libertà
di esprimere posizioni negazioniste fossero conformi alle ipotesi previste proprio dal
secondo paragrafo dell’art. 10 CEDU.
Da una parte il primo comma dell’art. 10, che pure, attraverso una interpretazione
105
Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1986, Lingens c. Austria, Application n. 9815/82.
47
estensiva, tutela la libertà di parola del “contestatore” di turno, anche quando il
contenuto di quell’espressione possa non essere condiviso dalla collettività, dall’altra,
questa stessa libertà, lungi dall’essere incondizionata, si vede sottoposta alle limitazioni
previste dall'art. 10 comma secondo della Convenzione106. Tale secondo comma è
finalizzato a “disinnescare” l’offesa, stabilendo che il diritto alla libertà d'espressione
impone doveri e responsabilità, segnatamente quello del rispetto dei diritti altrui. Nella
seconda parte, infatti, l’art.10 non esclude la possibilità di sottoporre l’esercizio della
libertà di espressione a restrizioni o sanzioni previste dalla legge, quali misure
necessarie in una società democratica, a mantenere la sicurezza nazionale, l’integrità
territoriale o la sicurezza pubblica, la prevenzione del crimine, la reputazione o i diritti
altrui.
L'aggettivo «necessario», contenuto nell'art. 10, comma 2, implica un'esigenza sociale
imperativa e, se è vero che gli Stati contraenti godono di un certo potere discrezionale
nel valutare il ricorrere di tale esigenza, è vero anche che i vincoli a cui deve sottostare
la libertà di espressione, devono essere proporzionati allo scopo legittimo perseguito e
che i motivi invocati dalle autorità nazionali per giustificarli devono essere pertinenti e
sufficienti. Peraltro, perché una limitazione ad un diritto protetto dalla Convenzione sia
ammissibile, la restrizione in questione deve essere necessariamente prevista dalla
legge107, mirare ad un legittimo obiettivo e presentare il carattere della necessità;
l’ingerenza deve dunque essere necessaria e proporzionale all’obiettivo ricercato108. Al
fine di verificare quest’ultima condizione, la Corte e la Commissione hanno fatto
riferimento in più occasioni al concetto di difesa dell’ordine pubblico e alla prevenzione
dei crimini109, ma è soprattutto sotto lo scudo della protezione della reputazione o dei
diritti altrui che la giurisprudenza degli organi di Strasburgo si è mossa relativamente
106
Art. 10 comma 2 CEDU: «L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può
essere sottoposto alle formalità, condi-zioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società demo-cratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità
territoriale o alla pubblica si-curezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione
della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la
divulgazione di informa-zioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».
107
F. Sudre, Droit International et européen des droits de l’Homme, 3° ed., Presses Universitaires de
France, 1997, p. 139-141. L’autore fa un excursus della giurisprudenza della Corte europea su tale
questione. La Corte ha una concezione estensiva della nozione di “legge” per soddisfare il criterio della
previsione per legge. La legge è quindi secondo la Corte l’insieme del diritto in vigore, sia esso
legislativo, regolamentare ovvero giurisprudenziale, evitando in questo modo una grande distinzione tra i
paesi di common law e i paesi continentali.
108
Sentenza Handyside c. Royaume-Uni del 7 dicembre 1976, serie A n° 24, p. 48 e sentenza Lingens c.
Austriche dell’ 8 luglio 1986, Serie A, n°103 p. 39.
109
Comm. Déc. del 14 luglio 1983, T. c. Belgique note 70, 164; H., W., P. e k. c. Austria, nota 67, 224;
Comm. Dèc, del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Germania, req. N° 25096/94, 82-B D.R.11.
48
alla questione oggetto di approfondimento. La protezione dei diritti altrui è
un’eccezione vasta, spesso legata ad altre eccezioni110 e può riferirsi nel contesto degli
argomenti razzisti, al diritto all’uguaglianza, alla dignità, alla protezione contro i
trattamenti degradanti, o ancora al diritto all’informazione111.
Le prime decisioni della Commissione europea per i Diritti dell’Uomo che hanno
dichiarato improponibili (in quanto
manifestamente infondati) ricorsi in materia,
risalgono agli anni ottanta. Invocando la disposizione di cui all’art. 10 comma 2,
accanto all’art. 17112 della stessa Convenzione, (che altrimenti detto mira ad impedire
che gruppi totalitari sfruttino nel loro stesso interesse i principi enunciati dalla
Convenzione), prima ancora dell’ingresso nell’ordinamento europeo delle leggi
memoriali, i giudici hanno giustificato, in Germania, in Belgio, in Austria e in altri
Paesi, in più di una occasione, le limitazioni alla libertà di espressione. È in quest’ ottica
che la Commissione Europea dei diritti dell’Uomo ha assimilato i comportamenti
negazionisti a condotte vessatorie dei diritti altrui, condannabili in quanto vietati dall’art
10 comma secondo e dall’art. 17 della Convezione. La Commissione si è dimostrata
ferma nel rigettare le pretese dei negazionisti basate su una presunta violazione della
libertà di espressione, manifestando in materia una severità che è cresciuta di pari passo
con la diffusione a livello europeo delle tesi negazioniste e degli strumenti legislativi in
loro risposta: negare o dubitare dell’esistenza dei crimini contro l’umanità è stato,
inoltre, considerato una delle più gravi forme di diffamazione razziale e di incitamento
all’odio contro gli ebrei, oltre che una vera e propria minaccia per l’ordine pubblico113.
110
S. Greer, Les exceptions aux artiche 8-11 de la Convention européenne des Droits de l’Homme,
Dossier sur le droits de l’homme, n.15, Èditions du Conseil de l’Europe, 1997, p.37.
111
F. Massias, La liberté d’expression et le discours raciste ou révisionniste, (1993), 13 RTDH, 183, 191.
Considerato l’affaire Lehideux (Comm. Rapport del 8 aprile 1997, Marie-François Lehideuxb et Jacques
Isorni, req. 24662/94 rapport inédit, pag.50) in cui la Commissione aveva sottolineato « Le but ainsi visé
correspond à la protection de la réputation et des droits d’autrui, en l’occurrence des membres des
associations, comités et fédérations plaignantes, ainsi qu’à la défense de l’ordre et la prévention du
crime», la Commissione ricorda che negli Stati membri del Consiglio d’Europa, dove la protezione dei
diritti dell’individuo, garantita dalla Convenzione dipende dall’esistenza di un regime politico
democratico, “protéger ce régime doit également être considéré comme équivalant à protéger les droits
d’autrui” ; in altri termini, l’ingerenza in causa persegue obiettivi riconosciuti come legittimi dal
paragrafo 2 dell’art. 10 della Convenzione.
112
Art. 17 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: Divieto dell’abuso di diritto. «Nessuna
disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato,
gruppo o individuo di esercitare una attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle
libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni
maggiori di quelle previste in detta Convenzione».
113
In riferimento alla lesione dell’ordine pubblico attraverso espressioni e scritti frutto di quella più ampia
libertà garantita da numerose Costituzioni, la Corte di Strasburgo pare condividere le motivazioni
ampiamente delineate, in riferimento alle garanzie dell’ordinamento italiano. Cfr., M. Manetti, Libertà di
49
Non sempre la Commissione e la Corte hanno mostrato coerenza: se da un lato,
chiamata a decidere su un ricorso promosso da un giornalista, condannato perché nel
corso di un’intervista ad alcuni esponenti di un gruppo razzista egli aveva tollerato la
pronuncia di affermazioni razziste senza criticarle apertamente, la Corte ha ritenuto che
«punire un giornalista per aver favorito la diffusione di dichiarazioni di terzi nel corso
di un programma, ostacolerebbe gravemente il contributo della stampa alla discussione
di problemi di interesse generale e potrebbe ammettersi solo in presenza di motivi
particolarmente seri»114, dall’altra, secondo giurisprudenza maggioritaria degli organi di
Strasburgo oggetto della tutela offerta dall’art. 10 comma secondo, sono anche i discorsi
o gli scritti capaci di provocare disturbo o fastidio.
Sono numerose le decisioni emesse dalla Commissione e Corte Europea dei diritti
dell’Uomo in riferimento alla restrizione della libertà di espressione e a garanzia di una
serie di diritti che di volta in volta verranno specificatamente esaminati dai Giudici,
attraverso motivazioni che ne giustificheranno la prevalenza di alcuni rispetto ad altri. I
dubbi che l’adozione delle disposizioni memoriali ha suscitato nei singoli ordinamenti,
non ha scalfito la valutazione positiva che tali leggi ricevono a livello internazionale,
dalla Commissione e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nei paragrafi che seguono le pronunce degli organi di Strasburgo sono state distinte
proprio in riferimento al singolo diritto a garanzia del quale è stato ritenuto opportuno
limitare la libertà di espressione; le decisioni risalgono al periodo precedente
l’introduzione nelle legislazioni nazionali delle c.d. leggi memoriali, al fine proprio di
evidenziare come il percorso seguito dai Paesi europei che spontaneamente hanno
adottato leggi anti-negazioniste, sia in linea con la giurisprudenza emessa a Strasburgo.
La necessità di proteggere la popolazione dagli effetti nocivi di argomentazioni
negazioniste ha prevalso, nelle decisioni emesse a Strasburgo sulla garanzia della libertà
di espressione, tanto da dichiarare responsabile di aver oltrepassato i limiti della libertà
di espressione, chiunque abbia fatto riferimento alla Shoah come ad una infondata
leggenda,
ad una " grande impostura" del nostro secolo, ad un'invenzione della
propaganda alleata, sostenuta dall'internazionale ebraica…chiunque insomma abbia
negato l’esistenza stessa dell’Olocausto.
pensiero e negazionismo, in M. Anis (a cura di), Informazione Potere Libertà, Giappichelli, 2005, pp.4151.
114
Jersild c. Danimarca, 24 settembre 1994, 23, è 35, serie A, n. 298.
50
3.1 Restrizione della libertà di espressione a protezione della morale
pubblica
Nella celebre sentenza Handyside c. Regno Unito115, nel luglio 1976 fu condannato il
proprietario della casa editrice londinese “Stage 1”, per possesso a scopo di
distribuzione per fini lucrativi, di pubblicazioni oscene con conseguente confisca. Lo
stesso Handyside aveva acquisito i diritti di pubblicazione e diffusione nel Regno Unito
di un libro di educazione sessuale, del quale, a seguito di numerosi ricorsi, furono
sequestrate le copie stampate su disposizione del Director of Public Prosecutions e sulla
base della legge inglese del 1959 e del 1964 sulle pubblicazioni oscene (Obscene
publications act). Il ricorso nel 1976 alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella
speranza di sovvertire il giudizio emesso dal Magistrates' Court di Clerkenwell nel
1971, si rivelò inutile dal momento in cui per la Corte di Strasburgo la protezione della
morale pubblica, motivazione alla base del sequestro dei libri, poteva costituire un
motivo valido alla restrizione, statuendo che il sequestro e la confisca dei beni, in vista
della loro distruzione, rispondono all’interesse generale di protezione della morale116 e,
pertanto, sono da considerarsi legittimi.
La decisione emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Handyside c. Regno
Unito è stata richiamata dalla sentenza con cui il Tribunal Constitucional spagnolo117 ha
dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 607 comma 2 ai sensi del quale la “diffusione con
qualsiasi mezzo di idee o dottrine che neghino o giustifichino i delitti tipizzati nel
comma precedente di questo articolo, o tentino la riabilitazione di regimi o istituzioni
che proteggono pratiche generatrici di tali delitti, sarà punita con la pena della
reclusione da uno a due anni”118.
115
Handyside c. Regno Unito del 7 dicembre 1976, série A, n° 24.
M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme
de la Shoah en droit international et comparé, Editione L'Harmattan, 2003, p. 115. L’autore fa
riferimento al ricorso n. 5493/72, sentenza del 7 dicembre 1976: nonostante una simile dichiarazione di
principio, la Corte ha ritenuto che la libertà di espressione di Richard Handyside, editore londinese di un
testo in materia di educazione sessuale che aveva suscitato scalpore nell’opinione pubblica britannica per
i toni ritenuti troppo espliciti, potesse essere legittimamente sacrificata dinanzi alle esigenze di tutela della
morale pubblica.
117
Tribunale Costituzionale spagnolo P. V. Geis, 7.11.2007 n. 235, cit.
118
C. Caruso, Tra il negare e l’istigare c’è di mezzo il giustificare: su una decisione del Tribunale
Costituzionale spagnolo, cit. Nel caso di specie Varela Geis, titolare di una libreria, a partire dal giugno
1996 e quindi dopo l’entrata in vigore in Spagna della legislazione penale contro la discriminazione
razziale, aveva diffuso e venduto materiali di vario tipo nei quali, si negavano la persecuzione e il
genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e si incitava alla discriminazione e all’odio nei
loro confronti. Il tribunale penale di Barcellona condannò nel 1998 Geis quale responsabile del delitto di
negazionismo ai sensi dell’art. 607 c. 2 c.p., nonché ex art. 510 c. 1 c.p., per incitamento alla
116
51
3.2 Restrizione della libertà di espressione a protezione dell’ordine
pubblico
A fondamento delle restrizioni alla libertà di espressione, la Commissione europea dei
diritti dell’uomo, durante l’esame “preliminare”, ha fornito nel caso T. c. Belgio119 una
soluzione analoga, ma con argomentazioni differenti rispetto alle precedenti; in questo
caso, infatti, è stata rigettata l’istanza della ricorrente contro il sequestro di un libro che
giustificava i crimini nazisti. La Commissione Europea dei diritti dell’uomo ha fondato
la limitazione della libertà di manifestazione del pensiero non solo, come le autorità di
merito belghe, sulla tutela della morale e sul diritto delle famiglie dei sopravvissuti ad
una garanzia del ricordo dei loro parenti, ma anche sulla difesa dell’ordine pubblico e
dell’autorità del potere giudiziario: “… elle observe que des évènements actuels
montrent que les idéologies anti-démocratiques voisines de celles qui ont inspiré ces
atrocités n'ont pas disparu en Europe. ». La Commissione ha ritenuto, quindi, che in
presenza di una pubblicazione particolarmente lesiva del passato di una parte importante
della popolazione, le autorità nazionali possono considerare insufficiente la misura della
interdizione, ma accompagnare la stessa alla confisca dello scritto: “en présence d’une
publication qui par son contenu, particulièrement odieux, est de nature à choquer une
partie importante de la population, les autorités nationales peuvent à bon droit tenir pour
insuffisante une mesure d’interdiction même accompagnée de la confiscation des écrits
[...] si des poursuites et une condamnation pénales ne viennent pas sanctionner les
infractions à cette interdiction”.
discriminazione, all’odio razziale e alla violenza contro gruppi o associazioni per motivi razzisti o
antisemiti. Successivamente fu sollevata dinanzi al Tribunal Constitucional spagnolo questione di
illegittimità costituzionale tra il secondo comma dell’art. 607 e l’art. 20 della Costituzione spagnola,
posto a fondamento della libertà di pensiero. Il giudice delle leggi sostenne che la mera negazione della
verificazione di determinati fatti storici non costituisce “hate speech”, bensì rientra nella libertà di
pensiero garantita dalla Costituzione spagnola, a fronte anche della considerazione che l’“hate speech” si
caratterizza per l’incitamento diretto alla violenza contro determinati soggetti.
119
Comm. Déc. del 14 luglio 1983, T. c Belgique, req° n. 9777/82, 34 D.R. p. 158. Ad essere rimessa in
causa è la reale esistenza dell’Olocausto di Auschwitz; allo stesso modo vengono minimizzate le atrocità
naziste. Il tribunale belga ha condannato la donna ad un anno di carcere e ad una ammenda per violazione
dell’art. 123 sexies del Codice penale belga. La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo
grado.
52
3.3 Restrizione della libertà di espressione a favore della prevenzione del
crimine e in virtù della notorietà dei fatti contestati
Merita menzione anche la decisione Otto E.F.A. Remer c. Germania120 in cui si è
ritenuto che gli scritti negazionisti del ricorrente «vont à l’encontre de l’une des valeurs
fundamentales de la Convention, telle que l’exprime son Préambule, à savoir la justice
et la paix, et qu’ils dénotent une discrimination raciale et religieuse». Un generale in
pensione fu condannato ad un anno e 10 mesi di prigione per incitazione all’odio
razziale ai sensi degli art. 130 e 131121del codice penale tedesco, in virtù dei quali è
colpevole chiunque invoca il nazional socialismo ovvero incita all’odio contro una parte
della popolazione, attraverso pubbliche allegazioni notoriamente false. Sia il tribunale
di prima istanza che la Corte federale rigettarono il ricorso sulla base della motivazione
secondo la quale l’esistenza delle camere a gas e dei campi di concentramento e la
verificazione dello sterminio degli ebrei sono fatti storicamente provati e per questo
notori, rifiutando le argomentazioni del ricorrente, secondo le quali gli scritti in
questione costituirebbero un valido e necessario apporto alla ricerca storica.
Risulta conforme a questa decisione anche il verdetto della Commissione europea dei
diritti dell’uomo secondo il quale l’interesse generale alla base della prevenzione del
crimine nella società tedesca contro l’incitazione all’odio, e la necessità di difendere la
reputazione degli ebrei, prevale, in una società democratica, sulla libertà del ricorrente
di diffondere pubblicazioni che neghino lo sterminio degli Ebrei. Ed invero la Corte ha
utilizzato l’espressione «[…] indiscutable vérité historique sur l’extermination des juifs
dans les chambres à gaz de camps de concentration tels qu’Auschwitz sous le régime
nazi»122 al fine di giustificare in questa e in altre occasione la non irragionevolezza del
120
Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, req° n° 25096/94, 82-B D.R. 11. La sentenza
è stata richiamata in M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le
négationnisme de la Shoah en droit international et comparé op. cit., pag. 90. Il richiedente, un generale
in pensione, era autore di una serie di articoli comparsi in una rivista diffusa in più di ottantamila copie,
che lasciavano intendere che le camere a gas non erano esistite e che tale menzogna aveva quale obiettivo
quello di estorcere denaro al governo tedesco.
121
L’articolo 130, comma 1, del Codice penale tedesco (Strafgesetzbuch - StGB) dispone che: “Chi, in
maniera tale da disturbare la pace pubblica, incita all’odio o alla violenza contro elementi della
popolazione o lede la dignità di altre persone attraverso insulti o offese è punito con una pena detentiva da
tre mesi a cinque anni”. Il comma 2 dell’articolo 130 prevede una pena detentiva fino a tre anni o una
pena pecuniaria per chi commette gli stessi illeciti attraverso la diffusione di opere scritte. Nella
definizione data all’articolo 130 rientra anche la discriminazione effettuata in ragione dell’orientamento
sessuale, sebbene la norma non faccia un esplicito riferimento al background omofobico di colui che
perpetra il reato.
122
Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, cit.
53
giudice nel rifiutare di prendere visione delle prove dei fatti che i ricorrenti allegano a
fondamento delle loro tesi.
3.4 Restrizione della libertà di espressione per i “precedenti vincolanti”
in materia di negazione della Shoah
La Commissione Europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a difesa degli stessi
valori, nel caso Gerd Honsik c. Autriche123, relativo ad uno storico, poeta e autore
austriaco; le accuse contro di lui sono circa 130, raccolte in un dossier di 90 pagine e i
crimini dei quali è stato accusato sono in sintesi razzismo, istigazione all’odio razziale e
propaganda del nazionalsocialismo124. Prima di adire la Commissione europea, la Corte
d’Assise austriaca ha rigettato il ricorso effettuato dal ricorrente in appello ponendo
l’enfasi sulla propria giurisprudenza costante in materia. La stessa giurisprudenza
costante è stata confermata dall’autorità austriaca aggiungendo il paragrafo 3h) alla
legge austriaca relativa all’interdizione del partito nazionalsocialista125, che dispone che
“E’ ugualmente passibile di pena prevista dall’art. 3g), chiunque rifiuta, minimizza,
approva o tenta di giustificare il genocidio o gli altri crimini contro l’umanità commessi
dal regime nazional-socialista in uno scritto, durante in una emittente radiofonica,
attraverso altri media, ovvero attraverso altri mezzi che permettono l’accesso ad un
largo pubblico”. L’inserimento di tale articolo nella legge austriaca, durante il processo
contro il ricorrente, ha indotto quest’ultimo a denunciare davanti alla Commissione
Europea la parzialità dei tribunali austriaci, influenzati da una disposizione di legge,
intervenuta in luogo dei giudici. La Commissione, rigettando il ricorso, ha dichiarato,
sulla base dell’art. 6 della CEDU126 che la nuova disposizione legislativa non ha
123
Comm. Déc., del 18 ottobre 1995, Gerd Honsik c. Austria, , req. n° 25062/94, 83-B D.R 77, 82, in .J.
O. n° 148/192.
124
Riferimenti al caso Gerd Honsik, si trovano nel libro "Freispruch für Hitler" (Assoluzione per Hitler),
Ediciones Libreria Europa, 1992: si tratta di un volume scritto con la testimonianza di 37 persone, tra
studiosi, storici, militari, politici, psicologi, in cui si esamina com’è stato trattato il tema dell’Olocausto
dopo la Seconda Guerra Mondiale dal cinema e dagli altri mezzi di comunicazione, e di come
l’argomento sia stato affrontato dall’enorme macchina di propaganda che è il cinema hollywoodiano.
125
M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme
de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 92.
126
Art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Diritto a un equo processo: «Ogni persona ha
diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubbli-camente ed entro un termine ragionevo-le da un
tribunale indipendente e impar-ziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle
controver-sie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata
nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamen-te, ma l’accesso alla sala d’udienza può
essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale,
dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esi-gono gli
54
limitato abusivamente il diritto di difesa del ricorrente. Nell’analisi del ricorso, la
Commissione ha fondato sull’articolo 10 comma secondo della CEDU la decisione,
ricordando la propria giurisprudenza costante sulla negazione della Shoah e sull’
assenza di valide motivazioni da parte del ricorrente, il quale erroneamente aveva
invece giustificato il proprio ricorso sulla base dell’art. 27 CEDU127. Secondo la
Commissione il poeta revisionista austriaco non aveva subito alcuna violazione dei
diritti riconosciuti dalla Convenzione Europea, considerando che la restrizione alla
libertà di espressione ben è punibile proprio ai sensi dell’art. 10 secondo comma della
CEDU, quale misura necessaria alla salvaguardia di una serie di garanzie poste a
protezione degli individui nei numerosi precedenti giudiziali della Corte Europea di
Strasburgo.
Il 7 settembre 2011 è arrivata la scarcerazione del revisionista austriaco,
dopo quattro anni di restrizione della libertà personale.
3.5 Restrizione della libertà di espressione a protezione dei diritti altrui
Irricevibile è stato dichiarato anche il ricorso nel caso X c. Repubblica Federale
Tedesca128: la Commissione, dopo aver rilevato che la società democratica poggia le
sue fondamenta «sur les principes de tolérance et de largeur d’esprit», ha ritenuto che il
interessi dei minori o la prote-zione della vita privata delle parti in cau-sa, o, nella misura giudicata
strettamen-te necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare
pregiudizio agli interessi della giustizia…».
127
Art. 27 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Competenza dei giudici unici: «1 Un giudice
unico può dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo della Corte un ricorso individuale presentato ai
sensi dell’articolo 34 quando tale decisione può essere adottata senza ulteriori ac-certamenti. L’art. 27
richiama l’art. 34 della stessa Convenzione che così dispone:«La Corte può essere investita di un ricor-so
da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga
d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti rico-nosciuti nella
Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si im-pegnano a non ostacolare con alcuna
misura l’esercizio effettivo di tale diritto».
128
L. Di Iorio, La nozione di “giurisdizione”in alcune pronunce della Corte europea dei diritti
dell’uomo, in In.Law| 5/2007, p. 295, ricorso n. 9235/81, decisione del 16 luglio 1982. Il ricorrente aveva
affisso allo steccato del giardino un manifesto pubblicitario che qualificava la Shoah quale pura
invenzione. Fu promossa una azione civile da parte del vicino del vicino di casa, ebreo e figlio di un
uomo deportato e morto ad Auschwitz: il tribunale nazionale adito condannava il ricorrente sulla base del
fatto che numerosi documenti incontestabili provavano la morte di milioni di ebrei a seguito delle
violenze esercitate dalle autorità nazional –socialiste. La Corte d’Appello rigettava la decisione di primo
grado in quanto i manifesti affissi non erano rivolti direttamente al vicino ebreo ma nello steso tempo
concedeva la possibilità di ricorrere in appello dinanzi alla Corte Federale. Secondo la Corte federale
chiunque nega lo sterminio degli ebrei sotto il Terzo Reich non può invocare la libertà di espressione
garantita dal diritto nazionale, poiché tale libertà non include anche il diritto di formulare dichiarazioni
erronee. In più secondo la Corte, la negazione stessa di un fatto disumano costituisce una mancanza di
rispetto alle vittime. Interpellata la Corte Europea dei diritti dell’uomo relativamente alla violazione
dell’art 10 CEDU, la stessa ritenne che le brochure in questione avevano dato un’immagine distorta della
storia, per questo le restrizioni imposte al ricorrente rispondevano ad una esigenza di non negare fatti
incontestabili in quanto frutto di prove schiaccianti.
55
divieto di diffondere una pubblicazione di stampo negazionista comportasse una misura
necessaria in una società democratica per la tutela della reputazione e dei diritti altrui129.
Stessa sorte ha subito un cittadino britannico residente all’estero, storico di professione
e condannato dalle corti tedesche per aver attentato alla memoria dei defunti ai sensi
degli articoli 185, 189 e 194 del Codice penale tedesco130. Il ricorrente, durante una
conferenza pubblica tenuta nel 1990, aveva dichiarato pubblicamente che le camere a
gas avessero fatto ingresso ad Auschwitz solo nei giorni successivi alla fine della
guerra; lo stesso ricorreva poi alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo
invocando la lesione degli articoli 6 e 10 della CEDU. In riferimento al primo articolo,
il ricorrente denunciava l’assenza di un processo giusto ed equo, avendo il tribunale
tedesco rifiutato di esaminare gli elementi di prova che egli aveva posto a fondamento
della propria tesi su Auschwitz; tale motivo di ricorso veniva rigettato per l’assenza di
alcuna circostanza eccezionale che giustificasse l’intervento della Commissione
nell’apprezzamento delle prove eseguito dai tribunali nazionali. Quanto alla violazione
della libertà di espressione lamentata dal ricorrente, la Commissione si esprimeva,
ancora una volta mantenendo ferma la necessità di limitare la stessa libertà, nel caso di
specie attraverso le disposizioni del Codice penale, in considerazione dell’art. 17
CEDU: la Commissione concludeva che “le parole pronunciate dal ricorrente andavano
contro i principi cardine della Convenzione stessa, vale a dire la giustizia e la pace, con
la conseguenza che il bisogno di proteggere la popolazione dagli effetti nocivi di
argomentazioni negazioniste, prevale sulla libertà di espressione”.
Ed invero, l’elenco non si esaurisce qui: nell’affaire Herwig Nachtmann c. Austria131, il
ricorrente, editorialista e capo di una rivista austriaca, responsabile della pubblicazione
di un articolo attinente la ”scandalosa esagerazione del numero dei deceduti nelle
camere a gas” e sostenente l’impossibilità tecnica di tali meccanismi per uccidere
persone, veniva condannato nell’agosto del 1995 dai tribunali austriaci per attività
nazionalsocialiste, vietate dall’articolo 3h) della Legge austriaca che proibisce appunto
il nazionalsocialismo, introdotto qualche anno prima, in occasione del già richiamato
129
S. Giordano, La repressione legale del negazionismo storico nella giurisprudenza della Corte europea
dei Diritti dell’Uomo, cit. Con motivazioni analoghe è stato rigettato il ricorso di due organizzazioni
austriache di estrema destra, l’Aktion Neue Rechte e le Nationalistischer Bund Nordland, le quali avevano
fatto pubblicare e diffondere un fascicolo in cui negavano lo sterminio di 6.000.000 ebrei da parte del
regime nazionalsocialista; la Commissione ha rilevato infatti che «le national-socialisme est une doctrine
incompatibile avec la démocratie et les droits de l’homme et ses adhérents poursuivent des objectifs
visant à la destruction des droits et libertés reconnus dans la Convention».
130
Comm. Déc. del 26 giugno 1996, D.I. contro Allemagne, req. n° 26551/95.
131
Comm. Déc., del 9 settembre 1998, Herwig Nachtmann c. Austria, req. n° 36773/97.
56
caso Honsik c. Autriche. Secondo la Commissione di Strasburgo, il giornalista aveva
oltrepassato i limiti di cui all’art. 10 primo comma della Convenzione europea, violando
inoltre anche l’art. 17. Lo stesso Nachtmann in un testo intitolato “Le leggi di natura
valgono per nazisti e antifascisti”, aveva lodato una pubblicazione apparsa nel 1992 con
il titolo “Olocausto, fede e fatti”, del negazionista Walter Lueftl, definendola una pietra
miliare sulla via della verità.
Altrettanto interessante è quindi il riferimento da parte della Commissione Europea al
dettato normativo di cui art. 17 della Convenzione132; è anche in questa ottica che il
tribunale europeo ha giudicato la maggior parte dei dossier studiati e implicanti la
negazione della Shoah, assimilando i propositi negazionisti ad intenti volti a ledere i
diritti altrui, fattispecie stigmatizzata proprio dall’art 17 CEDU133.
3.6 Restrizione della libertà di espressione a seguito dell’incitamento
alla discriminazione razziale
Nell’affaire Glimmerveen134, (si trattava di un membro di un partito politico di destra
convinto che fosse interesse generale che tutte le popolazioni degli Stati fossero
omogenee dal punto di vista dell’etnia), il ricorrente lamentava che la condanna
inflittagli per aver distribuito volantini propagandistici incitanti la discriminazione
razziale fosse lesiva del proprio diritto alla libertà di espressione previsto dall’art. 10
della CEDU. La Commissione, dopo aver fatto chiarezza sul fatto che l’art. 10 si applica
anche alle “idee che urtano, scioccano o inquietano uno Stato ovvero una parte della
popolazione”, ha ritenuto che il ricorrente, attraverso le sue rivelazioni incitasse i nonbianchi a lasciare il territorio olandese, esacerbando così un comportamento volto alla
discriminazione razziale per altro condannato dall’art. 14135 della CEDU. Applicando
132
Nationaldemokratische Partei Deutschlands c. Allemagne, in Comm. Déc del 29 novembre 1995, req°
n. 25992/94, 84-B D.R. 149.
133
Cfr. Decisione della Commissione Europea dei diritti dell’uomo del 12 maggio 1988, Kühnen c.
République fédérale d’Allemagne, req. n° 12194/86 D.R. 205; Marais c. France, in Comm. Déc., 24
giugno 1996, req. n° 31159/96, 86-A D.R. 184.
134
M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme
de la Shoah en droit international et comparé, cit., in cui l’autore richiama la decisione in questione
pubblicata nel Comm. Dec. dell’ 11 ottobre 1979, J. Glimmerveen e J. Hagenbeek c. Paesi Bassi req. N°
8348/78 e 8406/78, 18 D.R. 187.
135
Art. 14 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Divieto di discriminazione: «Il godimento dei
diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato, senza distinzione di
alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro
genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale di ricchezza, di nascita
o di altra condizione».
57
l’art. 17 CEDU, la Commissione ha concluso che il ricorrente non poteva avvalersi
dello scudo dell’art. 10, utilizzando quella disposizione in maniera contraria alla
Convenzione stessa, rigettando così il ricorso136.
3.7 Un caso isolato: la Commissione europea dei diritti dell’uomo si
pronuncia a favore dei ricorrenti
L’approccio è simile, ma la conclusione è differente nell’affaire Lehideux137: i due
ricorrenti, presidenti rispettivamente dell’Associazione in difesa della memoria del
Maresciallo Pétain e dell’Associazione nazionale Pétain-Verdun, le cui finalità erano la
riabilitazione della memoria dello stesso Pétain, avevano fatto pubblicare in data 13
luglio 1984 sul quotidiano «Le Monde» un invito ai lettori a sostenere l’attività di tali
associazioni; l’Associazione nazionale combattenti della Resistenza si costituì parte
civile ai sensi della legge sulla libertà di stampa, sostenendo che il testo in oggetto, nel
suo tentativo di giustificare le azioni del maresciallo Pétain, costituisse un’apologia del
crimine di collaborazionismo con il nemico ai sensi dell’art. 24 comma 3 della legge
sulla libertà di stampa del 29 luglio 1881. Ritenuti colpevoli dalle corti francesi per il
contenuto apologetico di tale appello, soprattutto in considerazione del fatto che erano
stati volutamente omessi fatti direttamente imputabili a Pétain durante il periodo
dell’occupazione nazista, Lehideux e Isorni presentarono ricorso dinanzi alla
Commissione europea in data 13 maggio 1994, lamentando una violazione del loro
diritto di espressione138. Tale pronuncia, duramente criticata dalla dottrina139, presenta
in realtà una soluzione che si distacca da quella relativa ai casi precedentemente
136
Comm. Déc. del 6 settembre 1995, E.F.A. c. Allemagne, cit. Secondo la Commissione «L’interesse
generale che rappresentano la difesa dell’ordine e la prevenzione del crimine nella società tedesca, a
fronte dell’incitazione all’odio contro gli Ebrei, e la necessità di proteggere la reputazione e i diritti di
queste comunità, in una società democratica, prevalgono sulla libertà dei richiedenti di diffondere
pubblicazioni che contestano lo sterminio degli ebrei nelle camere a gas sotto il regime nazista, e
contengono delle accuse di estorsione».
137
Comm. Rapport dell’8 aprile 1997, Lehideux e Isorni c. Francia, req. N° 24662/94, p. 47.
138
S. Giordano, La repressione legale del negazionismo storico nella giurisprudenza della Corte europea
dei Diritti dell’Uomo, cit. La Corte nella sua decisione del 24 giugno 1996 ritenne il ricorso ricevibile,
valutando come il testo incriminato non contenesse di fatto affermazioni di stampo negazionista tali da
giustificare, in base al secondo paragrafo dell’art. 10 CEDU, l’interferenza statale nell’esercizio della
libertà di espressione dei signori Lehideux e Isorni.
139
G. Cohen-Jonathan, L’apologie di Pétain devant la Cour européenne des droits de l’homme, in revue
trimestrielle des droits de l’homme, 38, 1999, pp. 351 ss. L’autore ritiene che la sentenza dimostri «la
faiblesse du raisonnement et l’indulgence à l’égard de ceux qui avaient été justement sanctionnés par les
juridictions françaises pour apologie du crime de collaboration avec l’ennemi » e considera la sentenza
«profondément critiquable en soi, assez incohérente et, à la limite, très peu équitable»
58
esaminati, poiché i ricorrenti si erano limitati ad un’opera di “riabilitazione” del
maresciallo Pétain, senza di fatto esprimere tesi realmente negazioniste. I giudici
ritennero la condanna penale inflitta dalle corti di merito francesi sproporzionata, e
ritennero addirittura che vi era stata una violazione dell’art. 10 CEDU da parte del
Governo francese, anche in considerazione del carattere legale delle associazioni di cui i
ricorrenti erano presidenti e della natura pubblicitaria dell’inserto in esame140.
4. La decisione quadro del Consiglio d’Europa in materia di apologia,
negazione o minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini
contro l' umanità e crimini di guerra
Poiché a livello sovranazionale esiste un apparato normativo molto elaborato contro i
fenomeni razzisti, il Consiglio d’Europa ha cominciato a prendere provvedimenti in
materia, attraverso una serie di iniziative comunitarie, che, in linea con la tendenza più
generale, volta ad inaugurare un crescente fenomeno di controllo politico sulla ricerca
storica, confermano la scelta di punire i fenomeni negazionisti, influenzando i diritti
penali nazionali ancora “immuni” da legislazioni antinegazioniste. L’azione di contrasto
al fenomeno razzista da sempre occupa uno spazio centrale nelle preoccupazioni delle
istituzioni europee: nel 1997, proclamato «anno europeo contro il razzismo»141, svariate
sono state le iniziative, tra le quali l’istituzione a Vienna dell’Osservatorio europeo dei
fenomeni di razzismo e xenofobia142; il Trattato di Amsterdam, poi, ha introdotto l’art.
13 TCE (al quale è succeduto l’art. 19 TFUE) che ha costituito la base giuridica per le
azioni di contrasto alla discriminazione. Hanno chiesto un rafforzamento di tali
politiche anche le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre
1999143, nonché la risoluzione del Parlamento europeo del 21 settembre 2000144. Ed
140
Affaire Lehideux et Isorni c. France, cit. : “…la publication litigieuse porte atteinte à l’esprit même de
la Convention et aux valeurs essentielles de la démocratie. En conséquence, la requête de MM. Lehideux
et Isorni se heurterait à l’article 17, ainsi libellé… En effet, le texte en question présenterait de façon
manifestement erronée certains événements historiques, tantôt en leur donnant une signification qu’ils
n’ont pas, comme dans la présentation de la rencontre de Montoire, tantôt en faisant l’impasse sur des
événements essentiels à la compréhension de cette partie de l’histoire, en l’occurrence la collaboration
du régime de Vichy avec l’Allemagne nazie… »
141
Gazz. uff. Un. eur., C237 del 15 agosto 1996, p. 1. V. Si tratta di risoluzioni che già dal 1986 sono
state adottate dal Parlamento europeo (ad es., quella del 25 giugno 1986 contro il razzismo e la
xenofobia).
142
Regolamento del Consiglio, 2 giugno 1997, n. 1035/97. L’Osservatorio è stato poi assorbito dalla
Fundamental Rights Agency creata con Regolamento del Consiglio 15 febbraio 2007, n. 168/2007.
143
Gli atti sono disponibili al sito web http://ue.eu.int/it/Info/eurocouncil/index.htm.
144
Gazz. uff. Un. eur., C146 del 17 maggio 2001, p. 110.
59
ancora, risulta in ogni caso pertinente richiamare, la Convenzione del Consiglio
d’Europa per la prevenzione del terrorismo145, il cui art. 5 è dedicato alla Public
provocation to commit a terrorist offence146. Per gli Stati parte sorge il vincolo di
punire ogni diffusione al pubblico di un messaggio che provochi il pericolo di
commissione di atti di terrorismo. Sebbene la condotta debba essere compiuta con
l’intento di promuovere tali reati, l’integrazione della figura criminosa avviene a
prescindere dal fatto che l’espressione inciti direttamente ad atti di terrorismo147. Gli
organi dell’Unione Europea oltre a prendere provvedimenti in materia di
discriminazione razziale, hanno cominciato negli ultimi tempi, anche a elaborare
interventi contro coloro che negano l’Olocausto. Il 15 luglio 1996 il Consiglio Europeo
ha adottato un’Azione Comune148, attraverso la quale l’Unione, considerando che negli
ultimi anni i reati di stampo razzista e xenofobo sono in continuo aumento e soprattutto
al fine di evitare che gli autori di tali reati “sfruttino le divergenze esistenti tra le
legislazioni penali degli Stati e si spostino da un paese all'altro per eludere i
procedimenti penali o l'esecuzione delle pene”, ha sollecitato gli Stati membri a
reprimere “la negazione pubblica dei crimini definiti dall’art. 6 dello Statuto del
Tribunale di Norimberga”, oltre a prevedere che siano passibili di sanzioni penali
comportamenti quali l’istigazione pubblica alla discriminazione, alla violenza ed
all'odio razziale… Sebbene l’azione comune fosse vincolante per gli Stati membri, i
quali a meno di difficoltà rilevanti, sarebbero stati tenuti a raggiungere gli obiettivi
fissati, tanti Stati non hanno ottemperato all’azione; così l’Unione ha promosso un
nuovo tentativo di ‘armonizzazione’, per alcuni Stati ancora in corso di attuazione,
sebbene siano già scaduti i termini: in data 19 aprile 2007, a pochi mesi dall’ulteriore
allargamento dell’UE a Romania e Bulgaria, e dalla condanna delle Nazioni Unite del
145
Convention for the Prevention of Terrorism, Council of Europe, 16 maggio 2005, European Treaty
Series, n. 196
146
Un’ulteriore esortazione agli Stati affinché proibiscano l’incitamento al terrorismo è venuta dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione n. 1624, UN Doc. S/RES/1624, 14
settembre 2005.
147
P. Lobba, L’espansione del reato di negazionismo in Europa: dalla protezione dell’Olocausto a quella
di tutti i crimini internazionali. Osservazioni sulla decisione quadro 2008/913/GAI, in corso di
pubblicazione in [email protected], n. 3/2011. Anche il diritto penale internazionale, dopo la prima
applicazione concreta del crimine di “incitamento pubblico e diretto al genocidio”, ha vissuto una fase di
espansione repressiva.
148
L’Unione Europea era già intervenuta con un’ Azione Comune in cui si sollecitavano gli Stati membri
a reprimere la negazione pubblica dei crimini definiti all’art. 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga
nella misura in cui essa includa un comportamento di disprezzo o degradante verso un gruppo di persone
definito in base al colore, alla razza, alla religione o all’origine nazionale o etnica. Cfr. Azione comune del
15 luglio 1996, adottata dal Consiglio sulla base dell’art. K3 del Trattato sull’Unione europea,
concernente l’azione contro il razzismo e la xenofobia, in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 24
luglio 1996, volume L 185, p. 5.
60
27 gennaio 2007 di ogni forma di “Holocaust denial”, i ministri della giustizia dell’UE
hanno trovato un accordo per una Decisione Quadro, la numero 913 del 2008 sulla lotta
contro il razzismo e la xenofobia149.
Da una parte emerge, nel panorama giuridico degli ultimi anni, una serie di tentativi
europei legittimati dal secondo comma dell’ art. 10 e dall’art 17 della CEDU, dall’altra
accanto a questi, la Decisione Quadro introdotta dall’Unione Europea che punisce una
disposizione che non si preoccupa di definire le condotte punibili, due tipologie di reati:
atti di razzismo e xenofobia (art. 1 § 1a e 1b) e "apologia, negazione o minimizzazione
grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l' umanità e crimini di guerra [...],
quando la condotta è esercitata in modo da istigare alla violenza o all'odio contro un
gruppo di persone o un membro di tale gruppo "(art. 1. § 1 quater, 1 quinquies). In
particolare così recita l' art.1 comma "c" : «Ciascuno Stato membro adotta le misure
necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili… c) l'
apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei
crimini contro l' umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello
statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di
persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla
religione, all' ascendenza o all' origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano
posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all' odio nei confronti di tale
gruppo o di un suo membro».
Se la definizione di “apologia” e di “negazione” è sufficientemente chiara, quella di
“minimizzazione grossolana” è invece molto vaga. Così come era precedentemente
accaduto per alcune leggi memoriali introdotte a livello nazionale prima della
sollecitazione europea, (la Svizzera ne è un esempio), la Decisione Quadro del 2008
prevede, all’interno di una stessa disposizione di legge due incriminazioni non
149
Decisione quadro 2008/913/GAI, cit., che fa seguito all’azione comune del 15 luglio 1996 di cui alla
nota precedente. Così negli Stati dell’UE dovrebbero essere punibili le seguente condotte: “- Publicly
inciting to violence or hatred, even by dissemination or distribution of tracts, pictures or other material,
directed against a group of persons or a member of such a group defined by reference to race, colour,
religion, descent or national or ethnic origin; - publicly condoning, denying or grossly trivializing;crimes of genocide, crimes against humanity and war crimes as defined in the Statute of the International
Criminal Court (Art. 6, 7 and 8) directed against a group of persons or a member of such a group defined
by reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin, and-crimes defined by the
Tribunal of Nuremberg (Article 6 of the Charter of the International Military Tribunal, London
Agreement of 1945) directed against a group of persons or a member of such a group defined by
reference to race, colour, religion, descent or national or ethnic origin. Member States may choose to
punish only conduct which is either carried out in a manner likely to disturb public order or which is
threatening, abusive or insulting.”
61
necessariamente assimilabili: la negazione di un genocidio non ha nulla a che vedere
con la discriminazione razziale; si può essere revisionisti senza essere razzisti e
viceversa.
Il legislatore europeo, (come del resto taluni legislatori nazionali), preoccupato
dell’intervento limitativo dalla libertà di espressione, ha inserito quale elemento di
bilanciamento, una clausola di pericolo all’interno della Decisione Quadro, di talché gli
Stati membri possono decidere di rendere punibili soltanto i comportamenti “atti a
turbare la quiete pubblica o che siano minacciosi, vessatori o insultanti”.
Precisando che, in riferimento alle condotte negazioniste, si richiede che si tratti di
crimini definiti dallo Statuto della Corte penale permanente o da quello del Tribunale
militare internazionale di Norimberga, così che, se si è verificato un eccidio che non sia
stato definito come tale giuridicamente, o che non sia stato oggetto di processo, e
dunque non sia stato qualificato come crimine internazionale, non potrà essere frutto di
un reato di negazionismo, la norma non è stata ancora completamente recepita in
Europa, nonostante non emerga la portata innovativa della decisione quadro,
muovendosi la stessa nel solco tracciato in Europa dalle leggi memoriali.
L’annuncio di introduzione della Decisione quadro, ha sollevato subito numerose
reazioni negative: per fare qualche esempio, il politologo inglese Timothy Garton Ash
ha scritto sul quotidiano “The Guardian” che questa proposta, pur muovendo da buone
intenzioni, rappresentava “un grave errore”, perché riproduceva “una ulteriore
limitazione della libertà di espressione, oggi già minacciata da più parti”150.
L’associazione Article 19, con sede a Londra e attiva nel settore dei diritti umani è
autrice di una lettera aperta al commissario europeo Franco Frattini nella quale, pur
riconoscendo l’importanza della lotta al razzismo, si afferma che l’iniziativa legislativa
era potenzialmente lesiva della libertà di espressione, difesa da trattati e convenzioni
internazionali151. Se però all'articolo 10 lo stesso provvedimento europeo prevede che
gli Stati membri introducano nei rispettivi codici la nuova norma penale entro il 28
novembre 2010, qualche Paese non ha ancora ottemperato alla decisione quadro (Italia
in primis).
La Decisione Quadro rappresenta un significativo episodio di quel crescente fenomeno
di controllo politico sulla ricerca e sulla verità storica, che di pari passo con le leggi
150
T. G. Ash, A blanket ban on Holocaust denial would be a serious mistake in The Guardian, 18 gennaio
2007.
151
La lettera è disponibile al sito web http://www.article19.org/pdfs/letters/german-holocaust-letter.pdf .
62
memoriali adottate da alcune legislazioni europee, prima dell’imposizione contenuta
nella decisione stessa, caratterizza quella che è stata delineata come la seconda fase
dell’ampio percorso di giuridificazione della storia, che tutt’ora risulta in via di
evoluzione.
Per l’analisi delle misure adottate dagli Stati Europei appare opportuno distinguere
quattro categorie di provvedimenti: da una parte figurano i Paesi che si sono
“letteralmente”
uniformati
al
provvedimento
europeo
attraverso
una
fedele
trasposizione della Decisione Quadro nella propria legislazione interna; dall’altra coloro
che hanno modificato parzialmente o hanno avviato un iter di rivisitazione parzialmente
delle disposizioni legislative in materia già introdotte prima dell’ entrata in vigore della
Decisione Quadro. Rientrano all’interno di questa categoria anche Paesi che essendosi
già dotati “autonomamente” di una normativa antinegazionista, non prevedono, per il
momento, di apportare modifiche; alla terza categoria appartengono, invece, i Paesi che
hanno esteso la portata e il campo di applicazione della Decisione Quadro; figurano,
infine, i Paesi che non si sono uniformati alla stessa Decisione, tra i quali trovano spazio
Stati in cui sembra non esserci al momento alcuna iniziativa in atto di uniformazione.
4.1 La trasposizione della decisione quadro
L’unico Stato che appartiene al primo gruppo è Malta, che a partire dal 17 luglio 2009
ha inserito nel codice penale l’articolo 82-B, che punisce «quiconque justifie, nie ou
banalise grossièrement en public génocide, crimes contre l’humanité et crimes de guerre
visant un groupe de personnes ou un membre d’un tel groupe défini par référence à la
race, la couleur, la religion, l’ascendance ou l’origine nationale ou ethnique lorsque le
comportement est exercé d’une manière qui : a) risque d’inciter à la violence ou à la
haine à l’égard d’un groupe de personnes ou d’un membre d’un tel groupe; b) risque de
troubler l’ordre public ou qui soit menaçant, injurieux ou insultant»152.
4.2 Riforme normative nazioniali a seguito della decisione quadro
Paesi come il Belgio, la Germania, la Francia, la Romania, la Spagna, il Portogallo,
avendo già adottato prima dell’emanazione dell’atto giudiziario europeo, delle
152
I codici penali dei Paesi Europei sono consultabili nella lingua d’origine, oltre che in lingua inglese al
sito web Legislationline, http://legislationline.org/documents/section/criminal-codes.
63
disposizioni in materia, si sono limitati a modificare parzialmente la portata delle stesse;
in particolare la Germania ha apportato un minimo cambiamento nel proprio codice
penale, prescrivendo che anche i singoli individui possano essere vittime di atti razzisti
e xenofobi, diversamente dalla precedente versione dell’art. 130 c.p. che prendeva in
considerazione la sola collettività153.
La repubblica federale tedesca, rilevando la necessità che nell’applicazione della
Decisione Quadro venga rispettata la singolarità e la specificità dei sistemi legislativi
degli Stati membri, ha rifiutato l’estensione della disposizione penale di cui all’art. 130
anche agli altri crimini contro l’umanità, oltre a quelli giudicati dal Tribunale di
Norimberga.
Il 13 marzo del 2002, probabilmente per uniformarsi all’Azione Comune europea, la
Romania ha approvato la Emergency Ordinance N. 31 che proibisce la negazione
dell’Olocausto, al cui art. 6 dispone, infatti, che “Denial of the holocaust in public or to
the effects thereof is punishable by inprisonment from 6 months to 5 years and the loss
of certain rights”. Ed invero, a parere del ministero rumeno di giustizia, la decisione
quadro è già integrata nella legislazione rumena, di talchè nessuna ulteriore azione
risulta necessaria154.
Anche la Repubblica Ceca nel 2005 ha riformato la Law against Support and
Dissemination of Movements Oppresing Human Rights and Freedom (2001),
disponendo all’art. 260, comma primo che “The person who publicly denies, puts in
doubt, approves or tries to justify nazi or communist genocide or other crimes of nazis
or communists will be punished by prison of 6 months to 3 years”; la repubblica ceca
esclude al momento qualsiasi ulteriore intervento legiferativo.
Non
hanno
ancora
provveduto
ad
uniformarsi
alla
decisione
quadro
Belgio, Austria, Francia, Spagna e Portogallo che, già disponevano di leggi ad hoc, più
o meno dettagliate, per punire implicitamente o esplicitamente comportamenti
negazionisti.
153
J. Luther, L’antinegazionismo nell’esperienza giuridica tedesca e comparata, cit. In tale ottica, utili
spunti possono trarsi da un caso spagnolo, che già in precedenza si è occupato di difendere le offese
rivolte ai singoli: si tratta del già citato caso Friedman.
154
Rapporto di L. Cajani, Adoption de la décison-cadre européenne au 17 mai 2011, consultabile al sito
web http://www.lph-asso.fr/index.php?option=com_content&view=article&id=162%3Aadoption-de-ladecison-cadre-europeenne-au-17-mai-2011&catid=53%3Aactualites&Itemid=170&lang=fr.
64
4.3 Estensione della portata della decisione quadro
Tra gli Stati che hanno ampliato la portata della Decisione Quadro europea, rientra la
Lituania:
l'articolo 170-2 del codice penale promulgato nel Giugno 2010 prescrive una pena fino a
due anni di reclusione e una multa, in caso di condotte che abbiano ad oggetto
l’approvazione, la negazione o banalizzazione del genocidio, di crimini contro l'umanità
o di guerra, definiti da un testo dell'Unione europea ovvero dal governo lituano, o
ancora da una sentenza emessa da un tribunale internazionale o lituano, perché trattasi
di misure necessarie a tutelate l’ordine publico155.
La Lettonia, ha insistito per un’estensione della Decisione Quadro anche ai crimini
commessi dai regimi comunisti, ponendoli quindi sullo stesso piano dei crimini nazisti e
non facendo riferimento ad alcuna delle condotte esplicitamente previste dalla
Decisione Quadro o dai Paesi europei che hanno provveduto in materia di
negazionismo: non c’è nessun riferimento, infatti, nel codice penale lettone a condotte
di negazione, banalizzazione o apologia, rimpiazzate “innovativamente” dal reato di
“glorification”. La privazione della libertà personale per un periodo non inferiore a 5
anni viene inflitta a chiunque “commits public glorification of genocide, crime against
humanity, crime against peace or war crime or public denial or acquittal ofimplemented
genocide, crime against humanity, crime against peace or war crime”.
La Polonia, estendendo la previsione normativa europea, ha aggiunto nella disposizione
nazionale una nuova fattispecie di reato: la “distorsione grossolana” di un evento
storico156. L’Ungheria, nel gennaio 2010, ha inserito l'articolo 269-C nel codice penale
prevedendo una pena di tre anni di carcere in caso di negazione, dubbi o
minimizzazione dell'Olocausto senza riferimento ad altri reati. Successivamente lo stato
ungherese ha provveduto ad una rivisitazione dell’articolo: la menzione esplicita
dell'Olocausto è stata sostituita da quella di "genocidio" in generale e "crimini contro
155
Il codice penale della Lituania è consultabile in lingua lituana sul sito web http://archive.equaljus.eu/801/.
156
L. Cajani, Presentazione della sessione Ethics, historical research and law, in International column of
the October 2009, issue of Perspectives on History, (sessione speciale del convegno organizzato da L.
Cajani, Pierre Nora, Paolo Pezzino, Jörn Rüsen and Antonis Liakos). Il convegno si è concentrato non
solo sulle questioni etiche giuridiche ma anche del nuovo ruolo e delle responsabilità degli storici.
Durante l’excursus delle innovazioni introdotte dalla Decisione Quadro del 2008, in riferimento alla
Polonia è stato precisato che la diplomazia polacca è impegnata da anni nel denunciare l’uso
dell’espressione “campi di concentramento polacchi”, espressione utilizzata per designare i campi di
concentramento costruiti in Polonia dagli occupanti nazisti: “Un’espressione indubbiamente erronea e
fuorviante, perché confonde la localizzazione geografica di questi campi con la nazionalità di chi li ha
costruiti e gestiti”.
65
l'umanità, commessi dai nazisti ed estendendo la previsione normativa anche ai regimi
comunisti:
la legge punisce ora “who deny the genocides committed by national
socialist or communist systems, or deny other facts of deeds against humanity".
4.4 Modelli formalmente “non interventisti”
Il Regno Unito ha ritenuto che nulla vada aggiunto alla propria legislazione, che
peraltro si limita a punire in generale il razzismo, senza entrare nel merito di alcun
evento storico. Il riferimento è al Public Order Act del 1986 che punisce una serie di
reati contro l’ordine pubblico, prevedendo nella parte III l’incriminazione di condotte
che fomentino l’odio razziale. Nonostante l’assenza di una disposizione ad hoc in
materia di negazionismo è in Inghilterra che si è celebrato il processo Irving v. Penguin
Books157, un processo che sebbene non si sia occupato di negazionismo in senso stretto,
ha però dimostrato chiaramente il pensiero della Corte inglese ben disposta a discorrere
e a giudicare la storia all’interno delle aule dei tribunali. Deborah E. Lipstadt in un libro
pubblicato nel 1994158 aveva definito lo storico inglese come uno dei più pericolosi
negazionisti fino al punto da sovvertire l’evidenza storica attraverso la negazione
dell’Olocausto. Così Irving presentava querela contro la Lipstadt in Inghilterra, sebbene
il libro fosse stato pubblicato nella sua prima edizione negli Stati Uniti, e questo per
evidenti ragioni “processuali”: secondo la legge inglese al querelante spetta
esclusivamente il semplicistico onore della prova volta a dimostrare la pubblicazione
delle affermazioni lesive diffamatorie e che come tali appartengano al querelato159.
Diversamente al querelante sarebbe spettato dimostrare la verità dei fatti che nel caso di
specie corrispondeva a provare l’esistenza delle camere a gas. Il processo Irving
costituisce un esempio di processo alla storia e al ruolo dello storico in cui diversi
storici furono chiamati a testimoniare come consulenti delle parti160. Furono gli
157
Irving v. Penguin Books Ltd., No. 1996 - I-1113, 2000 WL 362478 (Q.B. Apr. 11, 2000). Su tale
famoso caso giudiziario si vedano le considerazioni di D. Mulvihill, Irving v. Penguin: Historians on
Trial and Determination of Truth Under English Libel Law, in 11 Fordham Intell. Prop. Media & Ent.
L.J. 217 (2000).
158
D. Lipstadt, Denying the Holocaust, Penguin Books, 1994.
159
S. Barbaro, Diffamazione, verità giudiziaria e verità storica in una recente sentenza della cassazione,
in Riv. Inf. e informatica, 2010, 6, 880.
160
Furono difatti citati dalla difesa della Lipstadt come consulenti cinque storici: Richard Evans,
Professore dei Storia moderna a Cambridge, Robert Jan van Pelt, Professore di Architettura all'Università
di Waterloo, Cristhopher Browning, Professore di Storia alla Pacific Lutheran University; Peter
Longerich, Lettore presso Il Dipartimento di tedesco dell'Università di Londra e Hajo Funke, Professore
di Scienza Politica presso la Libera Università di Berlino.
66
eminenti storici interpellati dalla difesa della Lipstadt a dimostrare attraverso una
accurata documentazione le deliberate reticenze contenute nella tesi di Irving, nonché
l’assoluta arbitrarietà del suo metodo d’indagine storiografica, così da assolvere
l’autrice delle affermazioni “lesive” della reputazione dello storico.
Irving aveva, a dire della Corte, falsificato e distorto le prove in suo possesso.
Il caso italiano è invece emblematico per l’assenza di qualsiasi disposizione in materia
di negazionismo, come si è già avuto modo di precisare, né al momento pare siano
previsti concreti interventi in tal senso.
5. La negazione della Shoah e l’incitazione all’odio razziale: tendenze del
diritto internazionale
“Esprimere un’opinione è una cosa, incitare alla discriminazione è altro (…)
l’antisemitismo non rientra nella categoria protetta dalla libertà di opinione”161, citava J.
P. Sartre. Purtroppo però il negazionismo, lungi dall’essere solo una forma di pensiero
“al negativo”, rappresenta per molti tra gli Stati precedentemente considerati, un vettore
dell’antisemitismo moderno, una forma di discriminazione che gli Stati puniscono, in
ordine alla convinzione secondo la quale il negazionista è sic et simpliciter colui che
incita al razzismo162: un antisemitismo che è sopravvissuto al tempo e allo spazio, e
l’ammontare piuttosto recente del numero dei movimenti antisemiti, ne fa presagire il
perdurare.
Nei Paesi in cui il razzismo viene considerato a tutti gli effetti un crimine, il
negazionismo viene studiato da una particolare angolatura, attraverso la quale la
propaganda all’odio, l’incitazione al genocidio e la discriminazione razziale vengono
intesi quali metodi diretti verso un unico obiettivo, mirare al crimine finale, di cui
appunto il negazionismo è uno dei suoi veicoli163. Ed invero, l’Olocausto appare un
momento critico, apoteosi delle conseguenze brutali del razzismo non represso. È in
reazione agli orrori dell’Olocausto che le nazioni occidentali hanno intrapreso una
161
J. P. Sartre, Lutte contre le racisme et liberté d’expression, in E. Derieux, LP n°94 –II 81.
G. Cohen-Jonathan, Négationnisme et droits de l’homme, 1997, 32 RTDH, 594; M. Bidault, Le Comité
pour l’élimination de la discrimination raciale, Montchrestien, 1997, 143.
162
N. Lerner, Group Rights and Discrimination in International Law, Dordrecht Martinus Nijhoff
Publishers, 1991, 24.
163
M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ?: Le négationnisme
de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 336 ; Doc. E/447, p. 32, in W. A. Schabas,
Genocide in International Law, Cambridge University Press, 2000, pp. 479-480.
162
67
operazione capillare che prevede l’abolizione del razzismo: lo sterminio massivo degli
ebrei ha giocato un ruolo decisivo nell’adozione dei numerosi documenti relativi ai
diritti delle persone nella comunità internazionale, cominciando proprio dalla
Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio164: la ragione
secondo la quale il fenomeno dell’antisemitismo è ancora un tema caldo, risiede nella
considerazione che la stragrande maggioranza dei testi internazionali relativi ai diritti
delle
persone
all’antisemitismo,
non
fanno
esplicitamente
riferimento
alla
“giudeofobia”
e
nonostante tali fenomeni siano stati oggetto di verifica e
accertamento prima dell’adozione dei documenti in questione. Malgrado l’assenza di
riferimenti espressi, non vi è alcun dubbio circa la proibizione dell’antisemitismo, quale
motivo di discriminazione. I due documenti centrali, dai quali si evince tale
considerazione, sono la Convenzione Internazionale sulla Eliminazione di ogni Forma
di Discriminazione Razziale (ICERD)165 e il Patto internazionale sui Diritti Civili e
Politici166. Il preambolo della ICERD assieme all’art. 4 della stessa Convenzione167,
possiede un carattere preventivo che obbliga gli Stati membri a prendere le misure
prescritte; la Convenzione non si limita a legittimare le restrizioni alla libertà di
espressione, ma indica quali sanzioni devono essere applicate. Il paragrafo della
Convenzione a) va oltre quanto disposto dall’art. 20 del Patto Internazionale sui Diritti
164
La Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio è stata approvata dalla
General Assemblycon resolution 260 A (III) del 9 dicembre 1948, è entrata in vigore il 12 gennaio 1951.
“Le Alte Parti Contraenti, considerando che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella Risoluzione
96 (1) dell’11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è un crimine di diritto internazionale,
contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile; riconoscendo che il
genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi perdite all’umanità; convinte che la cooperazione
internazionale è necessaria per liberare l’umanità da un flagello così odioso, convengono quanto segue:
Articolo I
Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga
commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed
a punire…”
165
Convenzione Internazionale sulla Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale, adottata,
aperta alle firme e ratificata dall'Assemblea Generale il 21 dicembre 1965. Il testo si basa sulle
disposizioni previste tanto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, tanto dalla Dichiarazione
delle Nazioni Unite sull'Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale del 20 novembre 1963
(Risoluzione n. 1904 [XVIII] dell'Assemblea Generale).
166
Patto internazionale sui Diritti Civili e Politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16
dicembre 1966, che riconosce già nel preambolo la sussistenza di una serie di doveri che ciascun
individuo ha verso la collettività.
167
Art. 4 Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale: «Gli
Stati parte condannano ogni propaganda e organizzazione che siano fondate su idee o teorie di superiorità
di una razza o gruppo di persone di un certo colore o di una certa origine etnica, o che tentino di
giustificare o promuovere l’odio e la discriminazione razziale in qualsiasi forma, e si impegnano ad
adottare immediatamente misure positive finalizzate ad eliminare ogni incitamento alla discriminazione o
atto discriminatorio; a questo fine, nel dovuto rispetto dei principi incardinati nella Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, nonché dei diritti chiaramente enunciati all'art. 5 della
presente Convenzione….».
68
Civili e Politici168, ai sensi del quale “Qualsiasi propaganda a favore della guerra deve
essere vietata dalla legge. Qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che
costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza deve essere
vietato dalla legge”.
Sono stati adottati più recentemente, in occasione della Conferenza mondiale sui diritti
dell’uomo tenutasi a Vienna dal 14 al 25 giugno 1993, la Dichiarazione e il Programma
d'Azione di Vienna169 che dichiarano l’importanza della promozione e della protezione
dei diritti delle persone che fanno parte di minoranze, e il contributo che questa
promozione può dare alla stabilità politica e sociale degli Stati nei quali questi individui
vivono. Nonostante l’esistenza nel corpo convenzionale europeo, di disposizioni che
interdicono la discriminazione, un nuovo protocollo specifico che tratta pure della stessa
questione è stato adottato durante la Conferenza ministeriale in occasione del 50esimo
anniversario della Convenzione europea a Roma, nel novembre del 2000170. La
Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa in
quell’occasione ha mostrato il proprio convincimento affinché la protezione contro la
discriminazione fosse rafforzata attraverso strumenti volti a combattere le attitudini e gli
atti discriminatori nel recente trend di espansione.
La questione è dunque quella di “decidere” se le leggi memoriali sopra analizzate siano
giustificate, in quanto compatibili anche con gli strumenti internazionali di protezione
dei diritti della persona, e più precisamente, se tali leggi ad hoc rispondano agli obblighi
di repressione a cui le Convenzioni fanno riferimento. Pare che abbia deciso in senso
affermativo il Tribunale francese nell’affaire Faurisson171, in cui la Corte francese, oltre
ad aver dichiarato che le attività dello storico contenevano manifestamente degli
168
Il paragrafo 5 dell’art. 13 della Convenzione americana dei diritti dell’uomo è molte simile:
«Qualunque propaganda in favore della guerra e qualunque richiamo all’odio nazionale, razziale o
religioso che costituisca incitamento alla violenza illegale o ad ogni altra azione simile contro qualunque
persona o gruppo di persone per qualsiasi ragione, compresi motivi di razza, colore, religione, lingua o
origine nazionale o sociale, deve essere considerato dalla legge come reato».
169
Dal 14 al 25 giugno 1993, si è tenuta a Vienna la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Diritti
Umani alla cui conclusione i rappresentanti di 171 Stati, hanno approvato, con votazione unanime, una
Dichiarazione e un Programma d'Azione per la promozione e la tutela dei diritti umani nel mondo,
riaffermando e richiamando gli impegni contenuti nella Carta delle Nazioni Unite.
170
Il Protocollo n. 12 alla Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti umani e delle Libertà
Fondamentali, aperto alla firma nel 2000 a Roma, definisce illegali tutte le forme di discriminazione
perpetrate da enti pubblici, qualsiasi sia la motivazione. La discriminazione razziale è pertanto
considerata una violazione dei diritti umani.
171
Ci si limita ad affermare che nel caso Faurisson, il Comitato, sulla base del fatto che l’interdizione
della diffusione di idee fondate sulla superiorità o l’odio razziale è compatibile con la libertà di
espressione ed opinione enunciata dal’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ha
concluso che la restrizione imposta alla libertà di espressione risultava accordata sulla base del paragrafo
3 dell’art. 19 dello stesso Patto. Per approfondimenti sulll’affaire Faurisson si rimanda al capitolo III.
69
elementi di discriminazione razziale, invocando il paragrafo 2 dell’art. 20 del Patto
Internazionale sui Diritti Civili e Politici, ha precisato che, attraverso la legge Gayssot,
la Francia non faceva altro che uniformarsi alle convenzioni internazionali considerando
la contestazione dei crimini contro l’umanità un reato penalmente sanzionabile. È, per
esempio, in questi termini che la Corte ha giustificato l’introduzione dell’art. 24 bis
nell’ordinamento francese, una disposizione normativa che permette di punire
penalmente una grave forma di espressione del razzismo, inteso come vero vettore
dell’antisemitismo172: se la contestazione/negazione dell’Olocausto può costituire una
forma di incitazione all’antisemitismo, le leggi antinegazioniste hanno un ruolo ben più
garantista di quello puramente repressivo o storico, questo il responso della Corte.
Nella Risoluzione sul Razzismo, Xenofobia e Antisemitismo, il Parlamento europeo ha
incluso
il
negazionismo
tra
le
forme
di
manifestazione
del
razzismo
e
dell’antisemitismo; quartantasei delegazioni provenienti da tutto il mondo hanno
sottolineato durante il Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto, tenutosi a
gennaio del 2000, l’importanza del ricordo del massacro, proponendo una operazione di
prevenzione dei genocidi. Le delegazioni hanno adottato all’unanimità una
dichiarazione in cui riconoscono l’importanza di preservare la verità sulla Shoah contro
coloro che tentano di negarla. Così la Dichiarazione e il Programma d’Azione della
Conferenza mondiale di Durban contro il razzismo173, si aggiunge a questa visione
internazionale e afferma l’importanza della lotta contro la discriminazione razziale, la
xenofobia e l’intolleranza, l’importanza della storia passata e della comprensione della
stessa per evitare nuove tragedie, sulla convinzione secondo la quale la lesione alla
dignità umana che rappresenta il razzismo non è solamente un fenomeno privato e
intimo tra la vittima e il colpevole, bensì una rottura del tessuto sociale, un rimettere in
causa la base stessa della società.
172
Il Comitato per i diritti dell’uomo ha chiaramente indicato, nel caso Taylor, che le opinioni che
quest’ultimo cercava di diffondere costituiscono nettamente una incitazione all’odio razziale che il
Canada è tenuto ad interdire in virtù del paragrafo 2 dell’art. 20 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e
Politici.
173
Cfr. Dipartimento federale dell’Interno, Servizio per la lotta al razzismo, Conferenza mondiale contro
il razzismo 2001, Durban (Sudafrica), Dichiarazione e Piano d’azione con riassunto e indice (testi
disponibili in tedesco
e francese), 2002, disponibile consultabile al sito
web
http://www.unhchr.ch/pdf/Durban_fr.pdf. Dopo aver preso atto di diffuse pratiche discriminanti,
xenofobe e razziste nei confronti di apolidi, specialmente migranti, rifugiati e richiedenti l’asilo, gli Stati
partecipanti hanno approvato un cosiddetto Piano d’azione che invita i Governi degli Stati a elaborare, in
collaborazione con la società civile, piani d’azione nazionali per implementare le raccomandazioni
contenute nei documenti conclusivi.
70
6. Cenni sull’esperienza nordamericana
A fronte di un quadro europeo caratterizzato da molteplici testi legislativi volti a
perseguire il negazionismo (limitando così fortemente la libertà d’espressione),
nettamente distinta risulta la posizione americana; l’assolutezza delle disposizioni in
materia di libertà di espressione sono inevitabilmente riconducibili all’infausto trascorso
americano. Il passato delle 13 colonie insorte poi in una guerra di secessione contro la
madre-patria nel 1776 è frutto di anni di vessazioni, malversazioni da parte dei governi
nonché pesanti limitazioni delle libertà; un turbinio di eventi che ben dà mostra di una
netta diversificazione, e mancata volontà di uniformazione dell’America al resto
dell’Europa e pure allo stesso Canada. Per queste motivazioni, i coloni americani hanno
evitato un seppur minimale riproporsi del destino da loro subito sino a quel momento,
così che, da Padri Fondatori, hanno redatto la Costituzione del 1787 con l’obiettivo di
“garantire il sacrosanto diritto della libertà individuale e preservarlo per le generazioni a
venire”174.
Ad essere garantita negli Stati Uniti è una libertà di pensiero a tratti incondizionata, 175
simbolo di speranza, elemento fondante di una civiltà, grazie ai “costumi”, allo “stato
morale e intellettuale del popolo”176, dove la prevalente dottrina e la giurisprudenza
consolidata hanno sostenuto, soprattutto nella fase più recente, una linea intransigente,
tendente ad escludere che la libertà di pensiero e di parola potesse incontrare veri e
propri limiti, condizionando tra l’altro, le riserve espresse dal Governo americano in
sede di ratifica dei trattati internazionali177. Libertà e free speech sono le parole che più
174
Nel “Bill of Rights” si legge che “il governo non potrà nè stabilire nè proibire religioni”, “non potrà
revocare il diritto di parola del cittadino”, “non potrà impedire l’assembramento pacifico delle persone”,
“non potrà negare il diritto di mantenere e portare armi”, “non potrà invadere la privacy dell’individuo
senza giusta causa”, “non potrà processare due volte un individuo per lo stesso reato”, “non potrà
deprivare il cittadino di proprietà personale senza giusto compenso”.
175
Le ragioni alla base di una così estesa tutela della libertà di parola e di manifestazione di pensiero
hanno radici nella storia e nel pensiero politico Americano. I commentatori tendono a individuare tre
fondamentali giustificazioni della tutela accordata negli USA al “free speech”. In primo luogo un ruolo
fondamentale ha la volontà di creare un "marketplace of ideas", in cui le idee competono e interagiscono
tra di loro finché la verità non emerga. Inoltre fondamentale è l'affermazione del principio di autonomia
morale in base al quale i cittadini possono ritenersi liberi e in grado di esprimere pienamente se stessi
qualora lo Stato garantisca ad ognuno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e tale diritto
sia tutelato anche qualora tale pensiero sia inpopolare o persino ritenuto offensivo dalla maggioranza. Sul
punto si veda: G. Phillipson, Trial by media: the betrayal of the First Amendments's purpose, in (a cura di
G. Resta), Il rapporto tra giustizia e mass media quali regole per quali soggetti, atti del convegno Bari 4
luglio, 2008, Editoriale Scientifica, p.94.
176
Per una disamina completa della situazione americana e degli sviluppi in termini di assolutismo e
uguaglianza, cfr. A. Tocqueville La democrazia in America, UTET Libreria, 2007.
177
Sulla storia del problema fino agli anni ’60, cfr. Th.I.Emerson, Toward A General Theory of the First
Amendment, New York, Vintage Books, 1967; più di recente, fra i molti, L.H.Tribe, Constitucional
71
connotano l’intera storia degli Stati Uniti d’America ed il suo popolo avido di libertà
assoluta: una condizione tanto agognata, a cui difficilmente l’America sarà disposta a
rinunciare. Ed invero, a fronte di quella pagina della Convenzione dei diritti dell’Uomo,
che vede convivere una libertà di espressione garantita ad ogni cittadino, con il suo
manifesto ed evidente “contrappeso”, costituito da una serie di restrizioni per motivi di
“sicurezza nazionale, integrità territoriale o pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e
prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale”, emerge una “noncuranza”
americana, quella profonda adesione alla più totale libertà di parola che gli americani
professano da sempre, ma che porta implicitamente in sé il forte timore di conseguenze
talvolta negative178.
L’esperienza statunitense, accanto a quella canadese, sarà oggetto di approfondimento
del capitolo IV.
Choices, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass., 1985, 188 ss.; R.DWORKIN, Freedom’s Law, Harvard
Univ. Press, Cambridge Mass., 1996, 163 ss.
178
Emblematiche sono le conclusioni raggiunte dalla Supreme Court nei casi Brandenburg v. Ohio e
National Socialist Party of America v. Village of Skokie, (che saranno approfonditi nel capitolo IV) in cui
la Corte ha ritenuto non punibile l’”hate speech”, rientrante nella protezione offerta dal I emendamento, in
quanto trattasi solo di apologia e non di incitement to violence.
72
Capitolo III
L’ESPERIENZA FRANCESE: UN PERCORSO MEMORIALE SENZA
PRECEDENTI
1. Le “lois mémorielles”: presupposti e caratteri
All’interno della seconda fase del percorso di “giuridificazione” della storia assumono
un ruolo centrale le c.d. lois mémorielles, peculiari dell’esperienza giuridica francese.
La Francia, infatti, si caratterizza tanto per l’aspetto “commemorativo” degli illeciti di
massa di rilevanza storica, quanto per l’imposizione di obblighi di ricordo, attraverso
l’approvazione di numerose leggi, ciascuna volta a prendere in considerazione, e solo
alle volte a sanzionare, un differente “errore” della storia.
Quello che sta accadendo in Francia dal 1990 non è riscontrabile in nessun altro Paese
europeo; proliferano “periodicamente” proposte di legge tutte con un comune filo
conduttore: la necessità di preservare - in maniera rigida e univoca – il ricordo di quel
passato che, probabilmente, ciascun essere umano, in assenza di una tale imposizione,
“interpreterebbe” a suo modo.
E così, accanto ai testi di legge con i quali si impone “semplicemente” di riconoscere la
sussistenza di alcuni crimini del passato, senza prevedere sanzioni in caso di mancato
“riconoscimento”, trovano spazio vere e proprie leggi memoriali, le quali si presentano
in numero superiore rispetto alle altre esperienze europee. È sempre nel Parlamento
francese che sono state avanzate numerose altre proposte di legge, nel vano tentativo di
regolare ex lege l’intera storia nazionale e non, per cercare di dare la stessa dignità al
passato attraverso un percorso a ritroso che, così stando le cose, difficilmente troverà
una conclusione.
Durante gli anni 1980-1990, il percorso intrapreso per ottenere l’imputazione dei signori
Barbie, Toubvier e Papon179, giudicati per aver commesso crimini contro l’umanità e il
179
M. Cointet, Dictionnaire historique de la France sous l'Occupation, a cura di M. e J. Cointet,
Tallandier, 2000. Senza pretesa di esaustività si tracciano brevemente le vicende giudiziarie di Klaus
Barbie, Paul Touvier e Maurice Papon. Barbie è stato un ufficiale e tedesco, comandante della Gestapo
durante l'occupazione nazista della Francia. Inizialmente scampato al processo di Norimberga, dopo che
un’ordinanza della Corte di Cassazione del 1985 stabiliva che i crimini commessi contro i resistenti
costituivano crimini contro l’umanità e per questo imprescrivibili, Klaus Barbie veniva “convocato”
dinanzi alla Corte di Assise del dipartimento del Rhône a Lione, e lì, in data l’11 maggio 1987
cominciava il processo a suo carico, per aver “condotto” la deportazione di circa seicentocinquanta
persone. Il 4 luglio 1987 veniva riconosciuto colpevole. Paul Touvier è stato condannato per complicità in
crimini contro l’umanità, a seguito della fucilazione perpetrata dallo stesso ai danni di sette ostaggi ebrei
73
processo, poi, contro il professor Faurisson, ha portato nelle aule dei tribunali francesi le
prime controversie in materia di negazionismo; si è innescato così un processo di
“giurisdizionalizzazione” del passato resosi terreno favorevole per il voto di leggi
adottate dal Parlamento francese: a partire da questo momento lo Stato non si è
accontentato più di onorare le vittime, ma ha cominciato ad imporre un dovere di
rievocazione dettagliatamente disposto, pena sanzioni limitative della libertà personale.
Le assemblee parlamentari hanno ora cominciato ad imporre e a dettare una “personale”
visione della storia dell’umanità, attribuendo alla stessa una ufficialità non sempre
condivisa e che ben difficilmente può essere pubblicamente confutata.
Generalmente dotate di un’elevata valenza simbolica, le leggi memoriali hanno un
carattere eccezionale, in quanto non mirano ad interdire la revisione storica nel suo
complesso, ma si riferiscono a degli accadimenti ben precisi; si presentano inoltre
eterogenee tra loro, ma il fondamento è comune: la scuola revisionista francese non può
più aspirare all’impunità goduta in passato.
Nell’ipotesi “meno contestata” dall’opinione pubblica e dagli ambienti storici, le leggi
si limitano a promuovere il ricordo di un determinato evento, così che il loro grado di
normatività è, in questi casi, minimo180; sempre più spesso, però, esse sono assistite da
un apparato repressivo-sanzionatorio di non trascurabile rilevanza, il quale spazia dai
rimedi civili alle sanzioni penali. È questo il caso dei testi di legge volti non soltanto a
favorire la commemorazione o il ricordo, ma a perseguire la negazione, la
minimizzazione o la giustificazione di determinati eventi storici, anche non
necessariamente correlati all’esperienza nazionale.
Il meccanismo sanzionatorio che ha preso corpo in Francia, volto a neutralizzare lo
spirito critico dei cittadini, degli storici, degli insegnanti e di quanti ora lamentano una
seria limitazione a quelle libertà imprescindibili da una democrazia liberale, ha portato
il legislatore francese a concentrare la propria attività legislativa su alcuni avvenimenti
della storia.
Ricopre il primo posto, in una lista non sicuramente breve di leggi memoriali adottate,
scelti in quanto tali per vendicare l’uccisione del ministro dell’informazione di Vichy ucciso dai
partigiani.
Funzionario del ministero dell'Interno del governo Petain e responsabile della deportazione nei campi di
sterminio nazisti di 1.690 ebrei, tra cui 223 bambini, Maurice Papon è finito sotto processo. Il 2 aprile del
1998 il tribunale di Bordeaux ha condannato Papon per "complicità in crimini contro l'umanità.
180
B. Mathieu, Les «lois mémorielles» ou la violation de la Constitution par consensus, Dalloz. 2006, p.
3001.
74
la legge Gayssot181. Essa è stata approvata da alcuni in nome della salvaguardia della
memoria e in virtù della necessità di una lotta antirazzista, criticata da altri in nome
della libertà di espressione e della ricerca storica. Tale provvedimento normativo mira a
reprimere tutti gli atti di razzismo, antisemitismo e xenofobia, creando così il delitto di
negazionismo del genocidio degli Ebrei, modificando la legge sulla libertà di stampa del
29 luglio 1881 attraverso l’inserimento dell’art 24 bis.
Il legislatore ha quindi voluto incriminare il negazionismo inserendo tale reato
all’interno della legge sulla stampa, un testo giuridico per altro, che ha posto le basi in
Francia della libertà di stampa e della libertà di espressione, e che si insinua
perfettamente nello spirito dell’’art. 11 della Déclaration des droits de l’homme et du
citoyen du 26 août1789182. In altri termini, proprio nella legge fondante la libertà di
comunicazione, che allo stesso tempo limita e criminalizza alcuni comportamenti
specifici attuati a mezzo stampa, è stata disciplinata la repressione del negazionismo del
genocidio ebreo.
L’art. 9 della legge Gayssot delinea la fattispecie di “contestation de crimes contre
l’humanité”. La formula utilizzata all’interno dell’art 9 “qui ont été commis” impone al
giudice di provare l’effettiva commissione di tali crimini: l’onere probatorio viene
posto, insomma, a carico degli Organi giudicanti, i quali saranno così tenuti a sostituirsi
agli storici.
Attraverso l’articolo 9 della legge citata, è vietata ed eventualmente punita la
contestazione delle decisioni del tribunale di Norimberga e delle decisioni ulteriori rese
in Francia sullo stesso argomento183. È per questo che taluni l’hanno definita “loi
antirévisionniste”: una legge che sotto la veste del contrasto al razzismo, punta a colpire
i revisionisti. La legge Gayssot, attraverso un non semplice riferimento all'articolo 6 c)
dello statuto del Tribunale Militare internazionale di Norimberga e alle decisioni
181
Legge n° 90-615 del 13 luglio 1990, legge Gayssot, cit. Sulla legge Gayssot e per alcune note
applicazioni giudiziarie di tale disciplina - in particolare sul caso Faurisson e sul caso Garaudy - cfr. M. T
roper , La legge Gayssot e la Costituzione,cit., P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo,
ivi,cit..; M., Ripoli Ancora sul negazionismo. Garaudy letto sul serio, cit.; A. Buratti I, L'affaire Garaudy
di fronte alla Corte di Strasburgo. Verità storica, principio di neutralità etica e protezione dei «miti
fondatori» del regime democratico, cit.
182
Art. 11 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen: «La libre communication des pensées et
des opinions est un des droits les plus précieux de l’homme ; tout citoyen peut donc parler, écrire,
imprimer librement, sauf à répondre de l’abus de cette liberté dans les cas déterminés par la loi».
183
Art. 9 (Loi Gayssot) «Seront punis des peines prévues par le sixième alinéa de l'article 24 ceux qui
auront contesté, par un des moyens énoncés à l'article 23, l'existence d'un ou plusieurs crimes contre
l'humanité tels qu'ils sont définis par l'article 6 du statut du tribunal militaire international annexé à
l'accord de Londres du 8 août 1945 et qui ont été commis soit par les membres d'une organisation
déclarée criminelle en application de l'article 9 dudit statut, soit par une personne reconnue coupable de
tels crimes par une juridiction française ou internationale. (…)».
75
giudiziali emesse proprio in quella sede, definisce crimini contro l'umanità «l'assassinio,
lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione, ed ogni altro atto inumano
commesso contro tutte le popolazioni civili prima o durante la guerra, oppure le
persecuzioni per dei motivi politici, razziali o religiosi quando simili atti o persecuzioni,
che abbiano costituito o no una violazione del diritto interno del Paese in cui sono stati
perpetrati, siano stati commessi a seguito di ogni crimine che rientri nella competenza
del tribunale, o in connessione con tale crimine». La seconda parte dell'art. 24 bis si
riferisce sia ai membri di una organizzazione dichiarata criminale in applicazione
dell'art. 9 dello Statuto di Norimberga, sia ad una persona riconosciuta colpevole di tali
crimini da una giurisdizione francese o internazionale senza che sia necessario che tale
individuo abbia aderito ad una delle organizzazioni menzionate all'art. 9.
Tra le peculiarità della legge Gayssot rientra sicuramente l’introduzione del “diritto di
replica” ai sensi degli artt. 1 e 3 della stessa legge: quando, infatti, siano stati pubblicati
articoli suscettibili di ledere l'onore o la reputazione di qualcuno, in ragione dell’origine,
appartenenza o non appartenenza ad un'etnia, razza o religione, il giudice può ordinare,
a spese del condannato la pubblicazione di tutta o parte della sua decisione nello stesso
quotidiano oggetto di tesi negazioniste anche implicite, ovvero la pubblicazione del
dispositivo della sentenza nella Gazzetta ufficiale della Repubblica francese o in uno o
più giornali o periodici184.
2. Le leggi memoriali successive alla legge Gayssot
Se la prima legge sull’Olocausto nasceva come strumento di difesa della memoria della
Shoah e delle sue vittime, in un’epoca in cui i sopravvissuti ai campi di sterminio o
anche coloro che vi avevano perduto i propri congiunti erano ancora molto numerosi,
diverso appare il contesto degli altri testi legislativi rilevanti per la presente indagine.
Accanto al reato di negazione della Shoah il 29 gennaio 2001 è stata adottata la seconda
legge “historique-mémorielle”, grazie alla quale i cittadini di origine armena hanno
184
L’art. 3 della Legge n° 90-615, introduce una modifica al codice penale francese, disponendo
l’inserimento dell’art. 51-1, dopo l’art. 51. L’art. 51-1 dispone che «Dans le cas prévus par la loi, le
tribunal pourra ordonner, aux frais du condamné, soit la publication intégrale ou partielle de sa décision,
soit l'insertion d'un communiqué informant le public des motifs et du dispositif de celle-ci dans le Journal
officiel de la République française ou dans un ou plusieurs journaux ou écrits périodiques qu'il désignera.
"Le tribunal déterminera, le cas échéant, les extraits de la décision qui devront être publiés; il fixera les
terms du communiqué à insérer».
76
ottenuto una legislazione “reconnaissant le génocide arménien del 1915”185. La
negazione del genocidio armeno costituisce senza dubbio il movimento “negazionista”
più esteso accanto a quello della Shoah, anche se a differenza del genocidio ebreo, si
caratterizza per essere oggetto di differente contestazione: nel caso del genocidio
armeno ad essere confutata è piuttosto la “qualificazione genocidiaria” dell’eccidio e
non la sua effettiva verificazione.
E così la legge, non solo, richiama alla memoria un avvenimento tragico, ma ancora una
volta prende ufficialmente posizione nel campo della storiografia; diversamente da
quanto accade per la legge che riconosce le vittime della Shoah, la legge del 29 gennaio
del 2001, però, non invoca esplicitamente la nozione di crimini contro l’umanità e non
crea neppure il delitto di negazionismo, questo probabilmente perché, mentre nel caso
dell’Olocausto sono frequenti le ipotesi di negazionisti e revisionisti impegnati a
confutarne l’esistenza, nel caso degli Armeni la situazione è diversa. Da più parti,
infatti, non si contesta che siano stati uccisi centinaia di migliaia di Armeni nel 1915
all’interno dell’Impero ottomano, “semplicemente” si è restii a considerare lo sterminio
un genocidio in senso stretto, in senso giuridico, e secondo la definizione data dalla
Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide adottata
dall’ONU nel 1948. In altri termini, non si ritiene la sorte degli Armeni una
conseguenza di un piano mirante allo sterminio di un gruppo etnico. Storici come
Bernard Lewis e Guenter Lewy, per esempio, non hanno ravvisato l’esistenza di prove
certe di una premeditazione e pianificazione governativa e si sono espressi in più
occasioni piuttosto in termini di “massacro” della popolazione armena186.
Occorre ribadire che il testo in questione ha una mera funzione dichiarativa, funzione
tante volte definitiva “decorativa”, prevedendo in un unico articolo il riconoscimento da
parte della Francia del genocidio degli Armeni del 1915, senza altre precisazioni. É
evidente che la legge non pone alcuna obbligazione, né alcuna interdizione, ma concreta
soltanto un impegno simbolico: riconoscere in maniera solenne un fatto preesistente,
attestato dagli storici. A riprova di un approccio politico che ha sempre cercato di
salvaguardare i rapporti diplomatici con l’estero ed in particolare con la Turchia, la
legge del 2001 non ha impedito al Governo francese di pronunciarsi in maniera
185
Loi n. 2001-70 du 29 January 2001 relative à la reconnaissance du génocide arménien de1915, in J.O.
n° 25, 30 January 200. Art.unico: “La France recconaît publiquement le génocide armonie de 1915”.
186
Cfr. G. Lewy, The Armenian Massacres in Ottoman Turkey: A Disputed Genocide, The University of
Utah Press, 2005 (trad. it. Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Giulio Einaudi editore,
2006).
77
favorevole rispetto all’accesso della Turchia all’Unione Europea, quand’anche si stia
parlando di uno Stato che continua a negare palesemente la realtà del suddetto
genocidio.
Nonostante il suo carattere meramente dichiarativo, la legittimità costituzionale della
legge del 2001 è stata apertamente contestata. Se da un lato l’art. 34 della Costituzione
francese nel fissare le regole e i principi fondamentali delle materie legislative invoca
una concezione molto rigorosa della legge, richiedendo “normatività” e imperatività
nelle disposizioni legislative187, dall’altra una elaborazione differente viene fornita dal
Conseil Constitutionnel, in particolare nella decisione del 1982188: in questa sede non è
stata, infatti, esclusa la possibilità per le leggi del Paese di contenere anche disposizioni
senza alcun effetto giuridico, e che “en raison même de leur caractère inopérant, n’ont
pas à faire l’objet d’une dèclaration de non conformité à la Constitution”. In altri
termini, e riferendo la decisione del Consiglio Costituzionale alla legge sul genocidio
perpetrato dai turchi, la questione si è risolta considerando che, poiché attraverso la
disposizione del mero riconoscimento del genocidio armeno non è stata introdotta
nell’ordinamento francese alcuna norma di legge in senso stretto, il controllo di
legittimità costituzionale non può essere in questo caso effettuato.
Questo non vuol dire che il Conseil Constitutionnel autorizzi o approvi una legge
simile, è stato ancora precisato, ma solo che la stessa disposizione sfugge dal controllo
costituzionale, poiché non costituisce una vera e propria disposizione normativa.
Ad integrare il “semplice” riconoscimento garantito nel 2001 alla popolazione armena e
a rafforzarne il contenuto, è stato, in un primo momento, un intervento legislativo datato
2006, quando l’Assemblea Nazionale francese ha adottato una proposition il cui primo
firmatario è stato il senatore-sindaco di Marsiglia Jean-Claude Gaudin; si trattava di un
progetto di legge che avrebbe esteso alla contestazione del genocidio degli Armeni le
sanzioni penali previste dall’art. 9 della legge Gayssot: alla legge del 2001 è stata
prevista l’integrazione di un secondo articolo189, istituendo ufficialmente un nuovo
delitto di negazionismo. La disposizione del 2006 avrebbe aggiunto una più immediata
dimensione precettiva, implicando così delle conseguenze giudiziarie alla dimensione
187
B. Baufume, La réhabilitation des résolutions: une nécessité constitutionnelle, in Revue de droit
public, 1994, p. 1427-1428 : «la conception de la loi implicite dans la Constitution de 1958 est celle d’une
norme impérative: la loi ne doit thèoriquement (…) contenir des dispositions dèpourvues d’effets
juridiques (…)».
188
Décision n° 82-142 DC, 27 juillet 1982, in J.O. du 29 juillet 1982, p. 2424.
189
F. Lisena, Spetta allo Stato accertare la verità storica?,in Giur. Cost., 2009,5, 3959. L’autrice
nell’affrontare un caso italiano di negazione del genocidio armeno (di cui si è trattato nel capitolo II)
accenna alla legislazione francese in materia di genocidio armeno.
78
puramente dichiarativa della legge del 2001. La disposizione approvata in prima lettura
il 12 ottobre 2006, dopo numerosi rinvii, è stata discussa e rigettata dal Senato in data 4
maggio 2011. Ed invero, l’attenzione verso il genocidio degli Armeni ha continuato ad
interessare il mondo politico e in data 22 dicembre 2011, alla presenza della
delegazione di Marsiglia francese di origine armena, l’Assemblea Nazionale francese su
proposta di Valérie Boyer, deputato UMP des Bouches-du-Rhône ha approvato
la“Proposition de loi visant à réprimer la contestation de l’existence des génocides
reconnus par la loi”. Benché il deputato proponente ne abbia escluso la qualifica di
legge memoriale, la proposta di legge prevede l’inserimento dell’art. 24 ter nella legge
sulla libertà di stampa del 1881190, al fine di punire con un anno di carcere e 45.000
Euro di ammenda tutti coloro che negano, minimizzano i genocidi così come definiti
dall’art. 211 del c.p.191 e riconosciuti come tali dalla legge francese. Il testo di legge
approvato in data 22 dicembre 2011 consta di due articoli. Accanto al primo, appena
delineato, il secondo dà diritto alle associazioni che difendono la morale e l'onore delle
vittime del genocidio, (tra le quali figura per esempio il Consiglio di Coordinamento
delle Organizzazioni armene di Francia), di intraprendere azioni legali per riconoscere i
reati di cui all'articolo uno, vale a dire la contestazione o la minimizzazione dei crimini
di genocidio. In altri termini, attraverso un’accezione più ampia, utilizzata
“intenzionalmente” per evitare riferimenti diretti alla “questione turca”, la nuova
proposta di legge permette di punire anche il genocidio degli armeni, proprio perché
oggetto di riconoscimento ufficiale da parte della Francia con legge del 2001. La
principale novità che caratterizza il testo è quella di penalizzare la negazione del
genocidio quando la condotta è effettuata al fine di incitare alla violenza o all'odio
contro un gruppo di persone; si tratta probabilmente di uno strumento necessario a
190
Legge del 29 luglio 1881, cit.
Può essere utile riportare il tersto dell’art. 211 codice penale francese:« Constitue un génocide le fait,
en exécution d'un plan concerté tendant à la destruction totale ou partielle d'un groupe national,
ethnique, racial ou religieux, ou d'un groupe déterminé à partir de tout autre critère arbitraire, de
commettre ou de faire commettre, à l'encontre de membres de ce groupe, l'un des actes suivants:
atteinte volontaire à la vie;
atteinte grave à l'intégrité physique ou psychique;
soumission à des conditions d'existence de nature à entraîner la destruction totale ou partielle
du groupe;
mesures visant à entraver les naissances;transfert forcé d'enfants.
Le génocide est puni de la réclusion criminelle à perpétuité. Les deux premiers alinéas de l'article 13223 relatif à la période de sûreté sont applicables au crime prévu par le présent article.»
191
79
garantire l’uniformazione della Francia alla Decisione Quadro 2008/913/GAI192 del
Consiglio d’Europa. Manca per l’approvazione definitiva della proposta di legge il voto
del Senato, anche se, dopo l’approvazione della legge Gayssot e il riconoscimento del
genocidio armeno, l’adozione di un testo di legge volto a criminalizzare il genocidio
armeno (sebbene evitando di menzionarlo esplicitamente nel testo) parrebbe la logica
conseguenza della “strategia” adottata dal Parlamento francese.
Nella lista delle “lois mémorielles” figura un altro testo di legge: nel maggio del 2001 il
Parlamento francese ha approvato la legge Taubira193, disponendo così che la tratta
negriera transatlantica e la tratta nell'Oceano Indiano da un lato, e la schiavitù dall'altro,
«perpetrate a partire dal XV secolo, nelle Americhe e nei Caraibi, nell'Oceano Indiano e
in Europa [...]» costituiscono un crimine contro l'umanità. Nel secondo comma si
stabilisce che i programmi scolastici e i programmi di ricerca in storia e nelle scienze
umane dedicheranno alla tratta negriera e alla schiavitù lo “spazio conseguente” che essi
meritano. La legge Taubira, sebbene inauguri una frattura importante dal punto di vista
della rappresentazione ufficiale della memoria della schiavitù riconoscendone le
vittime, non implica alcun pentimento da parte dello Stato o della Nazione, ma solo un
dovere di memoria per un crimine imprescrittibile, un “risarcimento culturale” come lo
ha definito la stessa autrice della legge, Christiane Taubira. A fronte della previsione, in
un primo momento, della creazione di un comitato composto da membri qualificati, con
il compito di determinare la portata dei danni subiti e degli obblighi di riparazione
dovuti in conseguenza di tale crimine, successivamente qualsiasi riferimento al
Comitato è stato eliminato dal testo di legge, avendo il Parlamento deciso di escludere
ogni ipotesi di risarcimento. Il 30 maggio del 2005, il Movimento internazionale della
Riconciliazione e il Consiglio Mondiale della diaspora panafricana hanno citato in
giudizio lo Stato francese reclamando la riparazione dei danni della schiavitù: secondo i
192
Decisione Quadro 2008/913/GAI, cit. Per maggiori informazioni circa il contenuto della Decisione
Quadro, cfr. capitolo II.
193
Loi n° 2001-434 du 21 mai 2001, tendant à la reconnaissance de la traite et de l'esclavage en tant que
crime contre l'humanité,in J.O. n° 119, du 23 mai 2001. Art.1: «La République française reconnaît que la
traite négrière transatlantique ainsi que la traite dans l'océan Indien d'une part, et l'esclavage d'autre part,
perpétrés à partir du XVe siècle, aux Amériques et aux Caraïbes, dans l'océan Indien et en Europe contre
les populations africaines, amérindiennes, malgaches et indiennes constituent un crime contre
l'humanité».
Art. 2: «Les programmes scolaires et les programmes de recherche en histoire et en sciences humaines
accorderont à la traite négrière et à l'esclavage la place conséquente qu'ils méritent. La coopération qui
permettra de mettre en articulation les archives écrites disponibles en Europe avec les sources orales et les
connaissances archéologiques accumulées en Afrique, dans les Amériques, aux Caraïbes et dans tous les
autres territoires ayant connu l'esclavage sera encouragée et favorisée».
80
ricorrenti, la tratta degli schiavi avrebbe costituito una violazione grave e manifesta di
un diritto fondamentale da parte dell’amministrazione francese194. Polemiche si sono
scatenate perché, da una parte, la legge non considera altre tratte, dall’altra la dicitura
del secondo comma appare incompleta e mal redatta, non lasciando del tutto
comprendere in che modo debba intendersi l’espressione «la place conséquente»,
ovvero quali siano gli strumenti di cui dovrebbe disporre chi è tenuto a giudicare che gli
stessi fenomeni storici abbiano o non abbiano ricevuto durante l'insegnamento lo
«spazio conseguente» al quale hanno diritto. L’argomento principale di quanti hanno
contestato la costituzionalità della disposizione, ha riguardato un’implicita violazione
del principio di non retroattività delle leggi, di cui all'articolo 8 della Dichiarazione dei
Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, dal momento che i responsabili della tratta
sono deceduti da tempo: ciò che è retroattivo, come accade del resto in tutte le leggi
memoriali, è la definizione stessa del crimine. Questo è stato, infatti, definito con un
concetto del tutto estraneo alla mentalità e alla società in cui esso ha avuto luogo,
attraverso una palese forma di anacronismo storico195.
A fronte del testo di legge Taubira ha rischiato di essere sottoposto a sanzione, il saggio
“Les traites négrières. Essai d’histoire globale” di Olivier Pétré-Grenouilleau196,
denunciato come revisionista. Parte del contenuto del libro è stato esposto durante
un’intervista197, in cui l’autore non ha mancato di contestare pubblicamente il carattere
di “genocidio” riferito alla tratta negriera perché carente dell’obiettivo di sterminare un
popolo, e perciò di escluderne qualsiasi assimilazione con la Shoah.
La preoccupazione degli ambienti storici non ha tardato ad “ufficializzarsi”198 anche a
seguito dell’emanazione, il 23 febbraio 2005 della legge “Mekachera”199, che si è
194
E. Keslassy, A. Rosenbaum, Mémoires vives. Pourquoi les communautés instrumentalisent l’histoire,
Bourin, 2007, p. 126.
195
A. Ollin, La loi Taubira: inconstitutionnelle, liberticide et négationniste,in Le webzine de l'histoire,
01.01.2010. L'anacronismo consiste nell'applicare un concetto elaborato nel 1945, il «crimine contro
l'umanità»,ad una realtà risalente, nel caso di specie, alla tratta negriera atlantica: «A rigor di logica,
bisognerebbe allora che i Greci condannino, per legge, i loro antenati dell'antichità per il “crimine contro
l'umanità” che hanno praticato».
196
O. Pétré-Grenouilleau, Les traites négrières. Essai d’histoire globale, Gallimard, 2004, p.7-30.
197
Un prix paur «Les traites négrières», intervista a cura di Christian Sauvage, in Journal du dimanche,
Parigi 12-6-2005.
198
Il 12 dicembre 2005 diciannove storici, fra cui Mare Ferro, Pierre Milza, Pierre Nora, Mona Ozouf,
René Rémond e Pierre Vidal-Naquet, hanno pubblicato un appello, Liberté pour l ’histoire, sottoscritto
poi da altri seicento studiosi, in cui si chiedeva l’abrogazione di tutte le leggi «della memoria» e di cui si
dirà meglio nei prossimi paragrafi.
199
Loi n° 2005-158, du 23 février 2005, portant reconnaissance de la Nation et contribution nationale en
faveur des Français rapatriés, inJ.O. n° 46 du 24/02/2005. «Article 1er. La Nation exprime sa
reconnaissance aux femmes et aux hommes qui ont participé à l'œuvre accomplie par la France dans les
anciens départements français d'Algérie, au Maroc, en Tunisie et en Indochine ainsi que dans les
81
pronunciata sul ruolo positivo della presenza francese oltremare e nello stesso tempo ha
disposto l’obbligo per i docenti di storia e per i ricercatori di prendere in considerazione
nei proprio lavori, la nuova realtà dei fatti. La legge, fortemente voluta dai cittadini
“rimpatriati”, poiché mira a riconoscere il milione e mezzo di francesi che a partire
dagli anni Cinquanta ha dovuto abbandonare l'Africa durante il processo di
decolonizzazione, ha scatenato forti tensioni e polemiche in particolare da parte degli
ambienti storici, poiché all'articolo 4 così dispone: «I programmi di ricerca
universitaria accordano alla storia della presenza francese oltre mare, soprattutto
nell'Africa del nord, il posto che merita. I programmi scolastici riconoscono in
particolare il ruolo positivo della presenza francese oltre mare, soprattutto nell'Africa
del Nord (..)». L’articolo in questione ha “innescato” un’accesa polemica sul “ruolo
positivo” della colonizzazione, a tal punto che, dopo aver sottoposto l’articolo al vaglio
del Consiglio Costituzionale, il Decreto n. 2006-160 del 15 febbraio 2006 ha abrogato il
secondo comma dell’articolo 4 della Legge “Mekachera".
Numerose altre proposte di legge sono state avanzate in Francia: testi volti a qualificare
come crimini contro l’umanità o genocidi, fatti storici sia essi passati, sia essi recenti,
francesi ovvero esteri. Bisogna aggiungere, inoltre, che sono state depositate in
Parlamento cinque proposte di legge i cui testi prevedono l’estensione delle disposizioni
repressive della legge Gayssot a tutto ciò che negli anni a venire sarà riconosciuto come
crimine contro l’umanità.
Proprio perchè soltanto alcune tra le disposizioni introdotte in Francia prevedono una
sanzione penale, mentre le restanti leggi non stabiliscono alcun delitto, assimilare le
leggi memoriali tra loro sarebbe un errore: è pacifico, infatti, ritenere che la legge del 29
gennaio 2001, riconoscendo il genocidio degli Armeni non ha altro che una funzione
territoires placés antérieurement sous la souveraineté française. Elle reconnaît les souffrances éprouvées
et les sacrifices endurés par les rapatriés, les anciens membres des formations supplétives et assimilés, les
disparus et les victimes civiles et militaires des événements liés au processus d'indépendance de ces
anciens départements et territoires et leur rend, ainsi qu'à leurs familles, solennellement hommage.
« Article 4 legge ”Mekachera” : «Les programmes de recherche universitaire accordent à l'histoire de la
présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord, la place qu'elle mérite.
Les programmes scolaires reconnaissent en particulier le rôle positif de la présence française outre-mer,
notamment en Afrique du Nord, et accordent à l'histoire et aux sacrifices des combattants de l'armée
française issus de ces territoires la place éminente à laquelle ils ont droit.
La coopération permettant la mise en relation des sources orales et écrites disponibles en France et à
l'étranger est encouragée » (NB : le 2e alinéa a été abrogé par décret du 15 février 2006).
« Article 5. – Sont interdites :
- toute injure ou diffamation commise envers une personne ou un groupe de personnes en raison de leur
qualité vraie ou supposée de harki, d'ancien membre des formations supplétives ou assimilés;
- toute apologie des crimes commis contre les harkis et les membres des formations supplétives après les
accords d'Evian.L'Etat assure le respect de ce principe dans le cadre des lois en vigueur».
82
dichiarativa, priva di qualsiasi effetto precettivo; la sua adozione non serve né ad
indicare al governo francese un orientamento da seguire in materia, né ad “incitarlo” ad
agire in un senso piuttosto che in un altro.
Ed invero, relativamente alle leggi del 21 maggio 2001 e del 23 febbraio 2005, al di là
dell’obbligazione relativa all’insegnamento (articolo 2 e 4), le regole di diritto che esse
prevedono, impongono un determinato numero di precetti. La legge Taubira, per
esempio, introduce una richiesta di riconoscimento della tratta dei negri come crimine
contro l’umanità, richiesta che mira ugualmente alla scelta di un giorno comune sul
piano internazionale per commemorare l’abolizione della tratta dei negri e della
schiavitù; la legge precisa le regole per fissare una data di commemorazione annuale
dell’abolizione della schiavitù in Francia, e permette soprattutto alle associazioni dedite
alla difesa della memoria degli schiavi di costituirsi parte civile nei processi di
incitamento alla discriminazione all’odio o alla violenza, nelle cause di diffamazione o
ingiuria contro una persona o un gruppo di persone.
3. Prima della legislazione memoriale: il caso Henri Roques
Se può stupire che una delle democrazie più longeve e stabili del mondo, con una solida
tradizione di libertà di parola, abbia adottato leggi “antirevisioniste”, tra tutte la “loi
Gayssot”, oltre ad una serie di altre disposizioni memoriali, è bene addirittura prendere
le mosse da più lontano. Ed invero, la Francia dispone di una delle legislazioni
antirazziali tra le più evolute: con il decreto Marchandeau del 1939 (abrogato l’anno
successivo, e tornato in vigore nel 1944) si prevedeva che il pubblico ministero potesse
perseguire d’ufficio l’ingiuria o diffamazione rivolta ad “un gruppo di persone che
appartenessero per origine ad una determinata razza o religione“, se l''offesa avesse “per
scopo di incitare l’odio tra i cittadini o abitanti”. Il legislatore francese ha tuttavia scelto
di utilizzare l’onore dei gruppi come bene capace di sostenere e integrare la tradizionale
tutela dell’ordine pubblico nei confronti della propaganda razzista200. Introducendo
l’azione pubblica il legislatore eliminava questo ostacolo alla tutela dei gruppi.
200
M. Manetti, L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello Stato, in
Raccolta di scritti in onore di Gianni Ferrara, 2005, pp. 1-34: «A quel tempo era già diffuso in Europa il
tentativo di utilizzare il reato di diffamazione per contrastare la propaganda razzista, ma i tribunali
respingevano regolarmente le querele presentate, ritenendo che in tali casi non fossero legittimati ad agire
né i gruppi, in quanto privi di personalità, né i loro membri, in quanto non espressamente menzionati nei
messaggi incriminati. Rare eccezioni venivano fatte per gruppi molti ristretti e per i tipi di offesa aventi
riguardo a caratteristiche irrefutabilmente comuni a tutti i membri del gruppo. Di fondo rimaneva la
83
La legge n° 72-546, la c.d. legge Pleven201 con la quale la Francia ha ratificato la
Convenzione di New York sull'eliminazione di ogni forma di razzismo (7/3/1966),
costituisce il fondamento legislativo francese in materia di lotta al razzismo. Secondo
questa legge che introduce il concetto di delitto di «istigazione alla discriminazione,
alla violenza o all'odio contro un gruppo di persone in ragione della loro appartenenza,
o non, ad una determinata nazione, razza, etnia o religione», un gruppo di persone
caratterizzato dal fatto di appartenere a una nazione, razza, etnia o religione può
dichiararsi diffamato, o vittima di un reato contro l'onore o la reputazione202.
La legge francese pioniera tra le leggi memoriali (legge Gayssot) non dispone
evidentemente in maniera così dissimile dal delitto di opinione previsto dalla “vecchia”
legge Pleven, sebbene la prima preveda un inasprimento della pena. È a partire dal ’72,
infatti, che in Francia è proibito non tanto rivolgere critiche a singoli individui, ma ad
interi gruppi di persone, genericamente intesi: attaccare un gruppo di individui legati
dall’appartenenza o non appartenenza ad una etnia, nazione, razza o religione determina
ipso facto la consumazione del reato di diffamazione ovvero istigazione alla
discriminazione, odio o violenza. A coloro infatti che si rendono colpevoli di
diffamazione o incitazione alla discriminazione contro una persona o gruppo di persone,
attraverso discorsi, urla o minacce pronunciate in luoghi pubblici o durante riunioni,
ovvero inserite in scritti, disegni, dipinti, emblemi, immagini o qualsiasi altro mezzo di
scrittura, la pena da comminarsi, ex legge Pleven va da un mese ad un anno di
restrizione della libertà personale203.
Se però successivamente al 1972, una sentenza definitiva aveva solo l’autorità assoluta
della cosa giudicata, di talché non poteva più essere contestata in diritto, ma poteva
sempre essere chiamata in causa da quanti avessero voluto farne oggetto di discussione,
con la legge Gayssot per la prima volta, si “sacralizzano” le sentenze: attraverso
convinzione che l’onore collettivo non potesse essere altro che la somma dei beni di natura individuale, e
che la lesione di tali beni fosse troppo incerta e variabile in relazione al sentimento di appartenenza al
gruppo, o per converso alla volontà di integrarsi, nutriti da ciascuno».
201
Legge 72-546 del 1 luglio 1972, in J.O. del 2 luglio 1972.
202
S. Lefart –P. de Salagnac, Le leggi repressive in Francia, in L’uomo libero n. 37, http://www.uomolibero.com.
203
Art. 1 Legge Pleven: « Ceux qui, soit par des discours, cris ou menaces proférés dans des lieux ou
réunions publics soit par des écrits, imprimés, dessins, gravures, peintures, emblèmes, images ou tout
autre support de l'écrit, de la parole ou de l'image vendus ou distribués, mis en vente ou exposés dans des
lieux ou réunions publics, soit par des placards ou des affiches exposés au regard du public (...) auront
provoqué à la discrimination, à la haine ou à la violence à l'égard d'une personne ou d'un groupe de
personnes en raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie,
une nation, une race ou une religion déterminée, seront punis d'un emprisonnement d'un mois à un an et
d'une amende de 2.000 F à 300.000 F, ou de l'une de ces deux peines seulement».
84
l’introduzione di un delitto di contestation il quale può comportare la restrizione della
libertà personale, è vietato anche qualsiasi dibattito pubblico contrario a quanto previsto
esplicitamente dalla legge.
La stessa legge Pleven aveva permesso la condanna da parte del Tribunal Correctionnel
di Parigi nell’aprile del 1973, del direttore della pubblicazione intitolata “Bulletin
URSS” che riprendeva parola per parola le allegazioni antisemite contenute nel
“Protocol des sages de Sion”, per diffamazione razziale e provocazione alla
discriminazione, all’odio e alla violenza razziale. Il prof. Faurisson è stato più volte
convenuto in giudizio sulla base proprio della legge del 1972, ma la qualità del lavoro
dello storico e la padronanza della sua eloquenza, hanno mostrato, probabilmente, i
limiti della legge Pleven: la stessa era diventata incapace di far tacere i revisionisti. In
particolare è stato lo stesso “Tribunal de Grande Instance” di Parigi a ricordare che i
giudici non hanno né le qualità, né le competenze per giudicare la storia e che la legge
non suggerisce come debba essere rappresentato un determinato episodio della storia
nazionale o mondiale. Il giudice quindi è così giunto ad un compromesso, sancendo
l’indipendenza del diritto e della storia, riprendendo la giurisprudenza del “Tribunal de
Grande Instance de Paris” relativa al il 15 giugno 1970204.
Questi sono stati i verdetti resi dai Tribunali francesi prima dell’adozione della legge
Gayssot.
Una tappa non indifferente, spesso sconosciuta a molti, vede in Francia anche
l’adozione della legge del 30 giugno del 1983205, relativa alla commemorazione
dell’abolizione della schiavitù, indirizzata principalmente agli abitanti dei territori
d’oltremare.
Ed invero, per combattere più efficacemente la negazione dell'Olocausto, la creazione di
un delitto finalizzato a punire quanti negassero i crimini contro l'umanità, è considerata
una ipotesi realistica già da parte del ministro degli Interni, Charles Pasqua, nel 1987.
Inoltre, in un disegno di legge presentato il 2 aprile 1988, Georges Sarre, disponendo
che "coloro che violano la memoria o l'onore delle vittime dell'Olocausto nazista, nel
tentativo di negare o minimizzare l'ambito, sono punite… " inaugura una prima versione
di quella che poi sarà l’attuale legge Gayssot.
204
205
Tribunal de Grande Instance de Paris, 15 giugno 1970, JCP 70, II. 16550, con nota di Lindon.
Loi n°83-550 du 30 juin 1983, in Journal Officiel 1.07.1983, p.1995.
85
Sebbene “l'armamentario legislativo” precedente alla legge Gayssot fosse consistente, il
caso Henri Roques206, appare emblematico di un “modus operandi” differente rispetto a
all’attualità (a partire dall’introduzione della legge Gayssot rilevano differenze in
termini di reazione dell’opinione pubblica, rispetto al passato).
Inizialmente la tesi di dottorato di Henri Roques, discepolo di Rassinier e Faurisson, e
intitolata Les “Confessions” de Kurt Gerstein: Étude comparative des diffèrentes
versions, veniva discussa all’università di Nantes nel 1985, ottenendo un “ très bien”
dalla commissione207. Nonostante all’interno del lavoro di tesi, Roques pretendesse di
dimostrare che le camere a gas di Auschwitz o di Treblinka fossero state utilizzate
soltanto per la disinfestazione, la tesi veniva ufficialmente approvata dalla
commissione; l’anno successivo alla discussione, il 3 luglio del 1986 l'amministratore
delegato dell’ Università P. Malvy decideva invece di annullare la tesi di Roques sulla
laconica considerazione che il lavoro fosse stato “tainted by irregularity”208, sottacendo
evidentemente una polemica antinegazionista che sarebbe diventata esplicita solo
qualche anno dopo. Nessuno ha protestato nel nome della libertà di parola di Roques,
nessuno ha condannato la condotta di Malvy, piuttosto ci si è limitati ad eccepire un
problema procedurale: ad essere oggetto di contestazione non è stata l’argomentazione
secondo la quale fosse lecito o meno che lo Stato francese avesse censurato la tesi, bensì
se per annullare la tesi fosse stata seguita la procedura corretta, alla presenza dei
membri necessari della commissione.
La reazione dell’opinione pubblica successiva alla censura del lavoro di Roques lascia
intravedere una inevitabile differenza rispetto a quelli che saranno i futuri “approcci” a
casi simili: solo più tardi il “branco” dei liberali si mobiliterà contro le corrispondenti
condanne che la legge Gayssot imporrà, in maniera tutt’altro che “originale”.
206
Il caso è richiamato in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p.144.
H. Roques, Les "confessions" de Kurt Gerstein. Etude comparative des différentes versions. Edition
critique. Doctorat d'Université. Rapporteur: Monsieur le Professeur Jean-Claude Rivière. Université de
Nantes, 15 juin 1985.
208
Memorandum of P. Malvy del July 3, 1986, in André Chelain, Faut-Il Fusiller Henri Roques?,
Ogimos, 1986, XVIII.
207
86
4. La legge Gayssot di fronte alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e al
Comitato dei diritti umani Onu
Tra il 1991 e il 1996 i processi in Francia giudicati secondo la legge Gayssot
ammontavano a più di dieci; il convenuto era essenzialmente accusato di essere l’autore
di un articolo revisionista o negazionista, ovvero di aver distribuito un opuscolo dello
stesso genere209. Come si concilia la legge Gayssot con i principi europei di cui la Corte
di Strasburgo è garante? Questo ha rappresentato il quesito più volte sottoposto
all’attenzione della Corte Europea dei diritti dell’uomo dai negazionisti soccombenti
dinanzi ai giudici nazionali. Se i ricorrenti avessero, però, conosciuto i precedenti
giurisprudenziali della Commissione Europea e della Corte Europea dei diritti
dell’uomo in materia proprio di libertà di espressione e avessero avuto consapevolezza
dei limiti che le due istituzioni hanno da sempre imposto alla stessa libertà (di cui si è
trattato nel capitolo II), probabilmente avrebbero già potuto anticiparne i verdetti, senza
sperare in un “ribaltamento” di consolidati orientamenti, in “materia” proprio di Legge
Gayssot. Nessuno, però, aveva ancora adito il Comitato dei diritti umani dell’Onu, per
verificare l’opportunità della violazione di una libertà prima, e la correttezza di una
legge, poi.
Più in generale, lungo il percorso compiuto dai tribunali francesi dopo il 1990, la prima
applicazione della “loi Gayssot” risale al “caso Faurisson”; l’uomo che, membro negli
anni settanta di un gruppo internazionale a base anglo-americana, ispirato all'opera di
Rassinier210 (autore de Le Drame des Juifs européens), e considerato dai negazionisti il
fondatore della corrente, ben presto diventerà il maggior portavoce del movimento
negazionista211. Docente di letteratura all’Università di Lione, Faurisson passerà
dall’analisi dei testi letterari a quella dei documenti storiografici fino a giungere alla
negazione dello sterminio ebraico. Nel tentativo di confermare una visione “originale”
dello sterminio degli ebrei, inaugurerà il filone del “negazionismo tecnico”, affidando il
compito di dimostrare l’inesistenza delle camere a gas all’ingegner Leuchter: «dove
esiste discordanza tra testimonianza e tecnica, è quest’ultima che deve prevalere»,
affermano gli appartenenti a questo filone, dilungandosi in dimostrazioni a loro dire
209
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study cit., p. 111.
Per una ricostruzione del percorso di Rassinier, ex deportato, cfr. F. Brayard, Comme l'idée vint à M.
Rassinier. Naissance du révisionnisme, Fayard, 1996; N. Fresco, Fabrication d'un antisennite, Éditions
du Seuil, 1999. Tra le teorie negazioniste di Rassinier, la circostanza secondo la quale appare non
veritiero l’utilizzo dello ZyklonB come gas asfissiante e mortale, poiché lo stesso non sarebbe un gas
velenoso, ma un semplice disinfettante.
211
V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo, Bompiani, 1998, p. 6-7.
L’autrice propone una breve cronologia della prima fase del "caso Faurisson”.
210
87
scientifiche. Il “caso Faurisson” ha avuto origine in occasione di un’ intervista rilasciata
al quotidiano Le Choc du Mois212, attraverso la quale il docente negazionista ha
affermato di avere ottime ragioni per non credere alla politica di sterminio degli Ebrei,
in particolare alle “magiche” camere a gas. A seguito della pubblicazione dell’intervista,
undici associazioni di combattenti della resistenza francese e di sopravvissuti ai campi
di sterminio tedeschi hanno denunciato Faurisson, nonché l’editore della rivista.
Entrambi sono stati condannati per il reato di contestazione di crimini contro l’umanità
in applicazione del non ancora “inaugurato” art. 24 bis della legge sulla stampa213.
L’importanza dell’affaire Faurisson sta in primis nel fatto che il giudice di primo grado
ha delineato una distinzione che difficilmente troverà posto nella successiva
giurisprudenza: è stato, infatti, posto l’accento sulla differenza tra l’asserzione secondo
cui «il processo di Norimberga è stata una ”buffonata” giudiziaria», critica considerata
lecita, e l’affermazione secondo la quale «il Tribunale internazionale ha ammesso senza
previa prova lo sterminio degli ebrei e l’esistenza delle camere a gas»: è solo
quest’ultima fattispecie ad essere dichiarata punibile dalla legge Gayssot, ha precisato la
Corte d’appello di Parigi. Si può dunque discutere sul numero delle vittime della Shoah,
ma «diminuire in maniera oltraggiosa questa cifra» integra il delitto di contestazione dei
crimini contro l’umanità214.
La Corte di Cassazione con sentenza del 20 dicembre 1994, per la prima volta chiamata
a pronunciarsi sulla legittimità nella legge Gayssot ha statuito che la legge
“antinegazionista” fosse compatibile con le obbligazioni contratte dalla Francia in virtù
della sottoscrizione di strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo. È stato
proprio il prof. Faurisson, giudicato con una legge che avrebbe di lì a poco
caratterizzato un numero non esiguo di contenziosi, a rivolgersi al Comitato dei diritti
dell’uomo dell’Onu215. Tale organo ha respinto, però, il ricorso promosso dal docente
212
Association des déportés c. Boizeau, Faurisson, S.A.R.L., Corte d’appello di Parigi, 9 dicembre 1992,
LP n° 103-III 90, 90. Il percorso logico di Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, con
un’argomentazione di natura scientifica, che l’esistenza delle camere a gas e le relative testimonianze
possono essere smentite dai numerosi documenti studiati in 14 anni di ricerca.
213
Trib. Gr. Inst. Paris, 22-10-1996, in Légipresse n. 139, 1997, 26.
214
Faurisson c. France, comunicazione del 2 gennaio 1993, n. 550, in Rev. Univ. Dr. De l’homme, 1997,
46. La sentenza confermata anche in appello fu impugnata dinanzi alla Cour de Cassation solo dal
coimputato editore, in quanto Faurisson riteneva tale rimedio inutile. Il rigetto del ricorso dell’editore
permise a Faurisson di adire il Comitato per i diritti dell’uomo, il quale affermò che «le sue dichiarazioni
sono di natura tale da far nascere o accrescere sentimenti antisemiti e di conseguenza la restrizione del
suo diritto alla libertà di espressione è legittima in quanto tendente a far rispettare il diritto della comunità
ebraica a non temere di vivere in un clima di antisemitismo».
215
Cfr. X. Tracol, L’Affaire Faurisson devant le Comité des droits de l’Homme des Nations Unies, 1997,
LP n° 141, II – 57, 59.
88
francese per violazione dei diritti fondamentali, osservando che oggetto di causa non
fosse la libertà di “proferire parola”, piuttosto il fatto che Faurisson con le proprie
affermazioni, idonee ad innescare sentimenti antisemiti, avesse leso la reputazione
altrui, non rispettando così i diritti della comunità ebrea.
I tribunali francesi hanno più volte considerato i lavori dei revisionisti e dei negazionisti
non come opere scientifiche o accademiche, bensì come strumenti di polemica. Un
esempio rilevante è rappresentato dal “caso Garaudy”: nel 1995 lo scrittore e attivista
politico Roger Garaudy ha scritto e pubblicato un libro intitolato "The Founding Myths
of Modern Israel"216, ripubblicato nel 1996 con il titolo "Samiszdat Roger Garaudy".
Immediatamente le aspre polemiche hanno lasciato spazio ad una vera accusa a carico
dell’autore, per aver contestato l’esistenza dei crimini nazisti contro l’umanità, dando
luogo ad una campagna di diffamazione e di incitamento all’odio razziale217. Nel
gennaio del 1996 il giornale satirico “Canard enchaîné” ha denunciato il libro di
Garaudy, di talché l'autore è stato accusato di negazionismo (prima di essere condannato
per le tesi revisioniste nel 1998, sotto il Gayssot Act del 1990)218.
Ed invero, dopo la condanna dell’imputato complessivamente a 6 mesi di carcere e a
numerose ammende da parte della Corte di Cassazione, Roger Garaudy ha fatto ricorso
alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo219, lamentando la violazione dell’articolo 10
della Convenzione Europea. La Corte in quell’occasione non si è discostata dalle
decisioni emesse in precedenza in casi simili e già precisate in precedenza (cfr. supra,
Cap. II), e ha rimarcato così l’assenza, quando si parla di libertà di espressione, dei
requisiti dell’ assolutezza e illimitatezza, (richiamando in proposito anche l’articolo 17
216
R. Garaudy, I miti fondatori della politica israeliana, Graphos, 1996.
M. Ripoli, Ancora sul negazionismo. Garaudy letto sul serio, cit. Garaudy nel tema cardine del testo,
quello cioè incentrato sull’Olocausto, eccepisce la veridicità, nonché l’”efficienza” del tribunale di
Norimberga, essendo lo stesso composto da soli vincitori, l’assenza di prove dell’esistenza delle camere a
gas, la qualificazione dello Zyklon B come antiparassitario e l’assenza di ordini scritti di eliminazione
fisica degli internati. I cinque procedimenti penali, avviati sulla base della legge 29 luglio 1981 e sul
nuovo art. 24 bis, si conclusero con sentenza del 16 dicembre 1998, con la condanna dell’imputato
complessivamente a 6 mesi di carcere e a numerose ammende, avendo la Corte di Appello di Parigi
ritenuto Roger Garaudy colpevole del reato di negazione dell’esistenza di crimini contro l’umanità, di
diffamazione pubblica della comunità ebraica e di incitamento alla discriminazione e all’odio razziali. Le
condanne della Corte d’Appello di Parigi vennero confermate dalla Cassazione il 12 settembre 2000.
218
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 38. Garaudy provocò
l'indignazione dell'opinione pubblica quando annunciò di essere sostenuto dall'abbé Pierre, che in seguito
a questa dichiarazione fu subito escluso dal comitato di onore della LICRA (International League against
Racism and Anti-Semitism). Nel film documentario per la TV del 2005 diretto da Claude Pinoteau Un
abbé nommé Pierre, une vie au service des autres, l'Abbé dichiara che il suo supporto era verso la
persona di Roger Garaudy, e non a favore delle affermazioni che egli aveva fatto nel libro. A quest’ultima
giustificazione si aggiunse la definizione che egli attribuì alla legge Gayssot, definendola a “manifest
error”, che “has allowed men such as Mr. Gaurady to invoke liberty of expression in their favor.”.
219
Corte Europea dei diritti dell’uomo, 24/06/2003, Roger Garaudy c. Francia, in Giur. It., 2005, 2241.
217
89
della Convenzione, che esplicitamente vieta l’abuso del diritto). Secondo la Corte
sarebbe irricevibile il ricorso di un cittadino che lamenta la lesione del proprio diritto di
espressione a causa della condanna penale inflittagli dalle autorità nazionali per aver
manifestato opinioni negazioniste dell’Olocausto. Tale condotta, integra un abuso del
diritto di espressione previsto dall’art. 10 della Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, giacché, sostenendo la negazione o la revisione dei
fatti storici definitivamente stabiliti, si rimettono in causa i valori che fondano la lotta
contro il razzismo e l’antisemitismo, e ciò comporta inevitabilmente un serio pericolo
per l’ordine pubblico. Conseguentemente, il suo perseguimento da parte della
legislazione nazionale costituisce un’ingerenza legittima ed una misura necessaria in
una società democratica”220. In più, secondo la Corte, il negazionismo riproduce
nient’altro che una forma di “hate speech”, in quanto “sostenere che lo sterminio degli
ebrei non sia mai avvenuto o sia avvenuto con dimensioni decisamente inferiori, implica
un tentativo di diffamazione nei confronti del popolo ebraico”, di talché la stesse legge
Gayssot è risultata, a dire della Corte conforme alle disposizioni in materia di libertà di
parola e dei limiti che devono essere necessariamente garantiti.
A dimostrazione della “fedeltà” della Commissione Europea e della stessa Corte
europea dei diritti dell’uomo a questa visione della libertà, e alla considerazione della
legittimità della legge Gayssot, si fa cenno alla decisione del 24 giugno 1996 sul ricorso
Marais c. France221, in cui la Commissione europea ha giudicato conforme alla
Convenzione la condanna del ricorrente in base alla nuova legge Gayssot. “Tale legge
servirebbe a difendere l’ordine e a prevenire reati, tutelando i diritti altrui e la pace
interna della popolazione francese, nel pieno rispetto anche dell’art. 17 CEDU”,
secondo cui “nessun diritto fondamentale può essere invocato per compiere un atto
mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente
Convenzione”. Il negazionismo contraddirebbe insomma i valori fondamentali della
Convenzione, quali la giustizia e la pace. Orbene, la Commissione dopo aver ribadito la
conformità della legge Gayssot ai principi della Convenzione europei dei diritti
dell’uomo, ha ritenuto che i giudici francesi avessero legittimamente respinto le offerte
220
P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, in Rag. Prat., 1999, 57-69; M. Troper, La
legge Gayssot e la Costituzione, in Rag. prat., 1997, 189, p.207.
221
Comm. Déc., del 24 giugno 1996, Marais c. France, req. N° 31159/96, 86-A D.R. 184. Nel numero del
settembre 1992 della rivista francese “Révision, Pierre Marais, un chimico in pensione, aveva pubblicato
uno studio scientifico dal titolo “La chambre à gaz de Struthof-Natzweiler, un cas particulier”. Tale studio
minuzioso, unicamente di natura scientifica e chimica, concludeva per l'impossibilità tecnica delle
esecuzioni di prigionieri mediante gassamento nel campo di concentramento tedesco di Struhof in
Alsazia, attivo nel 1943. Il pubblico ministero invocò per la condanna la legge Gayssot.
90
di prova del ricorrente, essendo i fatti oggetto di causa «contrari ad una notoria verità
storica, la cui affermazione è, in quanto tale, diffamatoria»222.
Emblematica è anche la sentenza del Tribunal de Grande Instance di Lione, in cui
George Theil è stato condannato a sei mesi di reclusione e ad una ammenda di 10.000
euro per contestation des crimes contre l’humanité (ai sensi dell’art. 24 bis), accusato di
aver negato l’esistenza delle camere a gas durante un’intervista televisiva. La protezione
di tale bene richiederebbe di lottare contro ogni offesa alla memoria delle vittime di
crimini contro l’umanità, definiti dall’art. 6 lett. c) dello Statuto del Tribunale militare
di Norimberga; l’art. 24 bis servirebbe pertanto a contrastare tutte le forme di negazione
della memoria che mascherano l’antisemitismo. Per la soluzione del caso concreto i
giudici hanno individuato una serie di criteri. Tra questi, il più importante, è stato l’uso
del “metodo corretto” da parte dello storico. In linea con la giurisprudenza della Corte
Europea, nella sentenza in questione è stata asserita l’importanza del metodo della
ricerca; «A tale fine si dovrà verificare se lo storico ha seguito un procedimento in
buona fede tenendo in considerazione le fonti utilizzate, il rispetto di una certa gerarchia
tra di esse e l’uso di una documentazione sufficiente».223
Rientra tra i verdetti emessi a seguito dell’emanazione della legge Gayssot il decisum
Licra et al. c. Marie-Luce Wacquez et Françoise Pichard
224
: all’interno del magazine
Rivarol di cui Madame Waquez era editrice, Françoise Pichard ha scritto quanto segue:
“Now, it is finally established there have never been homicidal gas chambers on the
territory of the Third Reich”225. La difesa nell’ambito dei processi intentati contro
Pichard, ha sostenuto che l'articolo non avesse violato legge Gayssot perché non aveva
negato l'Olocausto, di talché l'asserzione di Pichard secondo la quale non c'erano
camere a gas “all'interno del territorio del Terzo Reich” non era un rifiuto generale delle
camere a gas, bensì una descrizione della loro posizione; ad essere negata era
esclusivamente l’esistenza delle camere a gas omicide in Germania, non altrove. I
giudici hanno rifiutato di interpretare le dimensioni territoriali della frase “del terzo
Reich” a fronte dell’argomentazione secondo la quale una decisione del genere
imporrebbe alla corte l'analisi della storia, un “impero” che esulerebbe dall’autorità dei
giudici. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha invece esaminato la frase in
222
Comm. Déc., del 24 giugno 1996, Marais c. France, cit.
E. Fronza, Brevi riflessioni sul reato di negazionismo. La storia che passa in giudicato?, in Storia e,
2009, p. 12-13.
224
Licra et al. c. Marie-Luce Wacquez et Françoise Pichard, Trib. Grand Ist. Paris, cit.
225
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p.111.
223
91
riferimento all’intero articolo, che nel suo complesso contesterebbe l'esistenza delle
camere a gas nell'intero territorio dell'impero hitleriano, negazione stigmatizzata dalla
legge Gayssot226.
Se inizialmente, nonostante la vaghezza e l’imprecisione delle diciture negazioniste, la
legge Gayssot è risultata funzionale alla punizione dei negazionisti, con il passare degli
anni i difensori hanno cominciato ad uscire vittoriosi da quelle stesse aule dei tribunali,
inaugurando una nuova “era”, quella del linguaggio cifrato ed “ermetico” 227, ricorrendo
negli scritti e nelle pubblicazioni ad espressioni sempre più codificate. Gli
“escamotages” degli storici e degli accademici non hanno condotto all'abrogazione della
legge Gayssot, ma hanno esaltato i limiti della stessa, nonché l’inefficacia a
concretizzare l’obiettivo della rimozione delle tendenze negazioniste dalla società
francese: se le organizzazioni di deportati ben sono state in grado di perseguire i
negazionisti, anche risultando vittoriose nei processi intentati, restano, ad oggi, nulli i
tentativi di debellare il “fenomeno” della negazione dell'Olocausto.
5. La voce degli storici francesi
La libertà di opinione sta particolarmente “a cuore” agli storici e al lavoro di ricerca; è
attraverso la ricerca, lo studio e la confutazione di alcune tesi, che la storiografia trae
linfa vitale per il proprio sviluppo. È solo il tempo che garantisce poi l’affiorare di una
serie di documenti, frutto di ricerca perenne e quasi interminabile: costantemente
frammenti di verità si aggiungono alle acquisizioni precedenti per completare il quadro
di vicende storiche ancora oggetto di studio; si intraprendono quotidianamente una
serie di studi di ricerca tutti finalizzati a completare il “puzzle” dell’evento storico di
riferimento. L’interpretazione è per sua natura in movimento, così che la stessa
disciplina storica non ha cessato e non cesserà mai di rinnovarsi tanto nei suoi modelli
di investigazione, quanto nei suoi risultati. Ma se non è più tempo di studiare, di
ricercare e di rendere edotto l’interlocutore, che ne è della storia e degli storici?
Se sul fronte politico, il dovere del ricordo è un atto di coraggio dal momento che
226
Ibidem, p. 112. Poiché per i lettori meno informati il territorio contenuto insito nellì accezione “del
terzo Reich” ben avrebbe potuto includere anche Auschwitz per esempio, piuttosto che una assoluzione la
Corte di Parigi ha ritenuto opportuno condannare Wacquez e Pichard.
227
Ibidem, p. 114, così i revisionisti invece di dire “The Holocaust never happened” avrebbero potuto
affermare, seguendo i consigli di Eric Delcroix (difensore di Faurisson e autore del libro e autore di un
libro contro la legge Gayssot) “The revisionists contest that Germany had a policy of physical
extermination”, restando così impuniti.
92
presuppone che una nazione guardi al suo passato con chiarezza, poiché nulla di buono
può essere costruito su una menzogna o su una omissione, il dovere della memoria
mantiene sempre un collegamento vitale con la storia, che non può prescindere dalla
ricerca, dalla confutazione e della discussione. Il compito dello storico è, infatti, quello
di sostenere le proprie tesi, non certo sulla base di criteri puramente soggettivi, ben
dovendo, il metodo storico obbedire ad esigenze etiche e a questioni scientifiche. La
semplice quanto criticata interazione tra diritto e storia ha permesso ben presto
l’incontro tra i “pratici” della giustizia e i “pratici” della storia, al fine di giungere ad
una risposta sulla verità del passato.
Ed invero il rapporto tra storici e Parlamento, tra storici e politica ha cominciato ad
incrinarsi proprio a seguito di quella violazione alla libertà di ricerca che l’adozione
delle leggi memoriali ha “trascinato” dietro di sé, in particolare negli ambienti storici.
Dal momento in cui il giudizio su un determinato evento storico è diventato legge dello
Stato, non è più permesso avere dubbi, proporre interpretazioni differenti, invocare
circostanze nuove: questa la principale insidia a quell’”itinerario intellettuale” che è
rappresentato proprio dalla ricerca storica. Se da una parte le libertà di opinione e di
espressione del cittadino francese non sono garantite in maniera assoluta, bensì sono
delimitate da alcuni meccanismi legali sia di interesse pubblico che di interesse privato,
ben potendo potenzialmente la responsabilità dello storico rientrare nella sfera di cui
all’art. 1382 del code civil, che prevede una responsabilità civile a carico di chi «cause
à altrui un dommage»; dall’altra, la libertà dello storico è limitata dalle disposizioni
della legge sulla stampa che stabiliscono un regime speciale di responsabilità per le
parole e gli scritti. Ed invero, la legge influenza profondamente il modo in cui la ricerca
storica è di giorno in giorno posta in essere, fissando limiti non trascurabili alla libertà
dello storico228. E allora, può un tribunale riesaminare i risultati di una ricerca storica, o
allo storico è garantita una sorta di immunità, a condizione che abbia rispettato i canoni
fondamentali di etica professionale?
Il primo riferimento alla libertà degli storici risale ancora una volta al processo a carico
di Robert Faurisson229, il quale ha fondato la sua difesa su due argomentazioni: da una
parte la violazione della libertà di parola, dall’altra l’usurpazione del ruolo degli storici
da parte dei giudici; il rischio, insomma, che la storia e il lavoro di storico appaiano
228
G. Resta, V. Zeno-Zencovich, Personality rights and historical ‘truth’: the case of the Ardeatine
Quarries massacre, cit. p. 2.
229
Faurisson c. France, Corte di Appello di Parigi, 26 Aprile 1983, cit.
93
sminuiti da una invadenza del giudice di turno nello stabilire una verità storica tra i
banchi del tribunale, non è lontano230. Proprio in riferimento a questa seconda
argomentazione la Corte d’appello di Parigi ha precisato che è dovere del giudice
svolgere un ruolo di mantenimento della separazione dei poteri, essenziale al
funzionamento della democrazia, di talché è necessario che il giudice resti imprigionato
nel suo “office of neutrality” anche perché il verdetto emesso dallo stesso non è storico,
non rappresenta una verità storica valevole sempre, in ogni circostanza, ma è
caratterizzato dalla sua buona dose di relatività e temporaneità, caratteristiche queste
che impediscono ai tribunali qualsiasi giudizio della storia231: «The value of the
conclusions defended by M. Faurisson remain, therefore, subject to the appreciation of
the experts, historians and the public alone»232.
Orbene, uno degli effetti perversi delle leggi memoriali consiste nel fatto che le stesse,
incapaci di condannare i colpevoli principali, tendano a creare un reato connesso alla
storia e agli storici: sono questi ultimi i nuovi obiettivi delle disposizioni delle leggi
europee.
Tra le critiche maggiormente mosse dalla storiografia francese alle “lois mémorielles”,
ed in particolare alla legge “Gayssot”, il fatto che queste trasgrediscano in pieno il
principio della separazione dei poteri: il Parlamento istituendo tale leggi avrebbe
amputato l’autorità giudiziaria della sua sovranità, della sua prerogativa, del suo ruolo
più pregnante, del suo ruolo ordinario, vale a dire dell’apprezzamento dei fatti in causa.
Il Parlamento avrebbe, così, cominciato ad arrogarsi il compito di scrivere la storia e di
fissare per legge le date fauste ed infauste del calendario nazionale e internazionale.
Ed invero, le leggi memoriali rappresentano una regressione giuridica di molti secoli;
attraverso la loro stessa esistenza si subordina la libertà di espressione e di pensiero alle
230
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit. p.. 33.
Faurisson c. France, Corte di Appello di Parigi, 26 Aprile 1983, cit. La Corte d’appello di Parigi nel
caso Faurisson, pur confermando la condanna a carico del saggista francese per «danni ad altri », ha
negato la propria competenza a giudicare la storia: «…Bisogna constatare che le accuse contro di lui di
leggerezza mancano di pertinenza e non sono sufficientemente fondate: che in effetti il percorso logico
del signor Faurisson consiste nel tentare di dimostrare, con un’argomentazione [che egli ritiene]di
natura scientifica, che l’esistenza delle camere a gas, come sono state descritte abitualmente dopo il
1945, si scontra con un’impossibilità assoluta,di per se’ sufficiente a invalidare tutte le testimonianze
esistenti o quantomeno a renderle sospette; che se non spetta alla Corte di pronunciarsi su un tale
metodo o sulla portata degli argomenti espressi dal signor Faurisson, non è più permesso affermare,
riguardo alla natura degli studi ai quali si è dedicato, che egli abbia scartato le testimonianze per
leggerezza o per negligenza, o che abbia scelto deliberatamente di ignorarle; che inoltre, nessuno può
attualmente accusarlo di menzogna quando enumera i numerosi documenti che afferma di aver studiato e
gli organismi presso i quali ha condotto le sue ricerche durante più di quattordici anni».
232
Ibidem, p. 9. È con queste parole che la Corte d’Appello ha attestato che il valore delle conclusioni
difese dal Signor Faurisson sulle camere a gas appartiene alla sola valutazione degli esperti, degli storici e
del pubblico.
231
94
istituzioni giuridiche che le applicano ed ai gruppi che ne esigono il rispetto. Una volta
ammesso un tale principio, è grande il rischio di veder estendere l’applicazione delle
leggi al di là del loro contenuto originario.
Un ulteriore rischio denunciato dagli ambienti storici riguarderebbe la messa in
discussione da parte delle leggi memoriali dei fondamenti stessi della storia: la
“legislazione memoriale" distingue tra storia-memoria, rivolta a giudicare il passato, e
storia-scienza, impegnata a comprendere e spiegare gli accadimenti del passato. Si
vuole giudicare la storia a tutti i costi, specialmente quando si tratta di eventi lontani nel
tempo, sacrificando così la storia come disciplina scientifica; questo accanimento,
finalizzato a reinterpretare il passato e ad emettere verdetti, dietro l’ostentato e ormai
retorico fine di salvaguardare l’autenticità e l’ufficialità della storia stessa, condurrebbe
direttamente all’abolizione di tutte le forme «d’esprit et de raisonnement historiques»233.
La verità delle informazioni fornite dalla storia, considerata come scienza, non può
essere controllata dal giudice, i cui strumenti di analisi e i criteri metodologici di cui
dispone differiscono da quelli dello storico, hanno sostenuto “in coro”, e attraverso
numerose petizioni gi storici francesi.
Nella petizione dal titolo “Vigilance sur les usages publics de l'histoire!”234, a proposito
della strumentalizzazione del passato e della conoscenza scientifica che caratterizza la
storia, si legge quanto segue: «La connaissance scientifique de l'histoire et l'évaluation
politique du passé sont deux démarches nécessaires dans une société démocratique,
mais qui ne peuvent être confondues. En revanche, si la représentation nationale est en
droit de se prononcer pour éviter les dérives négationnistes ou rendre compte d'une
prise de conscience, certes tardive, des méfaits de l'esclavage ou de la colonisation au
nom de la Nation, de l'Empire ou d'une République exclusive, il ne lui appartient pas de
se prononcer sur la recherche et l'enseignement de l'histoire».
La proliferazione di leggi memoriali ha fatto sì che non poche fossero le Associazioni
che si sono schierate in nome di una professione prima di tutto, e di una verità che la
ricerca storiografica mira a raggiungere, poi. È stato l’insieme degli esperimenti
legislativi “poco democratici” e senza precedenti in Europa (almeno nel primo periodo)
a sollevare le forti proteste degli storici francesi, dando vita ad uno dei più accorati
appelli al “buon senso” delle istituzioni: dal titolo “Liberté pour l’histoire”. La
233
Dal testo di Pierre Nora, Malaise dans l’identité historique, in Le Débat, n°141, septembre-octobre
2006.
234
Petizione firmata da giornalisti e storici, Vigilance sur les usages publics de l'histoire!, in l’Humanité,
Tribune libre, 21 dicembre 2005, p.14.
95
petizione del 2005 è stata sottoscritta al fine chiedere la totale abrogazione delle
disposizioni su menzionate, sulla base della considerazione che “in uno stato libero, né
il Parlamento né l’autorità giudiziaria hanno il compito di definire una verità storica”235.
Quello che i firmatari della petizione hanno rivendicato, ricordando la dimensione
scientifica della storia, è il fatto che, essendo la storia un lungo susseguirsi di crimini
contro l’umanità, e poiché gli autori degli stessi crimini sono ormai deceduti, restando
così impuniti, le leggi memoriali non possono che vendicarsi contro gli storici, punendo
ricercatori, docenti e tutti coloro che si occupano di storia, attraverso l’imposizione di
una restrizione del campo di ricerca.
Lontani dal negare l’atrocità dei crimini contro l’umanità, dal primo momento gli storici
hanno avuto difficoltà a condividere l’«offensiva legislativa» sul passato, volta piuttosto
a minare le garanzie alla libertà di ricerca e di insegnamento, interferendo notevolmente
sul lavoro che gli storici compiono: «L’histoire n’est pas un objet juridique. Dans un
État libre, il n’appartient ni au Parlement ni à l’autorité judiciaire de définir la vérité
historique. La politique de l’État, même animée des meilleures intentions, n’est pas la
politique de l’histoire». Gli storici firmatari della petizione di Liberté pour l'histoire
hanno sottolineato in più occasioni che le leggi della memoria, seppur animate dai più
nobili propositi e dalle migliori intenzioni, rischiano di stabilire la verità storica per
volontà meramente politica; in altri termini se di verità si può parlare, così stando le
cose, a questa non si perviene attraverso gli strumenti tradizionali della disciplina, della
ricerca, e della comparazione delle fonti, ma attraverso la “forca” del potere legislativo.
Lo stesso ambiente storico apparirà, però, ben presto diviso: a dimostrazione di tale
scissione l’appello “Ne mélangeons pas”236, una “contro-petizione” non rivolta alla
completa abrogazione di tutte le leggi memoriali, sulla considerazione che non vadano
confuse leggi da abrogare e disposizioni che si limitano semplicemente a riconoscere il
genocidio o i crimini contro l’umanità, «al fine di lottare contro il diniego e di
preservare la dignità delle vittime offese da questo diniego»: «Quel historien a jamais
été empêché par la loi Gayssot de travailler sur la Shoah et d’en parler ? Déclarative, la
loi du 29 janvier 2001 ne dit pas l’histoire. Elle prend acte d’un fait établi par les
235
P. Nora et F. Chandernagor , Liberté pour l'histoire, CNRS Éditions, 2008, p. 13 ss. In particolare si
legge che «Avec l’extension de la loi Gayssot et la géneralisation de la notion de crime contre
l’humanité, on est dans une double dérive: la rétroactivité sans limites et la victimisation généralisée du
passé»
236
“Ne mélangeons pas tout”, in “Libération”, 20 dicembre 2005. I primi firmatari sono stati Yves
Chevalier, Didier Daeninckx, Frédéric Encel, Bernard Jouanneau, Serge Klarsfeld, Claude Lanzmann,
Marc Levy e Odile Morisseau.
96
historiens – le génocide des Arméniens – et s’oppose publiquement à un négationnisme
d’Etat puissant, pervers et sophistiqué. Quanto alla “loi Taubira”, «elle se borne
simplement à reconnaître que l’esclavage et la traite négrière constituent des crimes
contre l'humanité que les programmes scolaires et universitaires devront traiter en
conséquence». Sulla medesima linea di pensiero si muove anche il comunicato del
Comitato di vigilanza intitolato “Un appel pour une “vigilance sur les usages de
l’histoire”, con il ruolo di « principal consiste à élaborer et à transmettre des
connaissances rigoureuses sur le passé.». In riferimento proprio al caso già menzionato
di Olivier Pétré-Grenouilleau gli storici francesi, con il sostegno di molti colleghi
stranieri, sono scesi nuovamente in campo per difendere la libertà della ricerca storica,
svincolata da questioni di ordine morale237.
Ed invero, sempre in riferimento alla legge Taubira e alla indicazione in essa contenuta
volta ad “indirizzare” l’insegnamento, gli storici si sono mobilitati il 25 marzo 2005 con
una nuova petizione dal titolo «Colonisation: non à l’enseignement d’une histoire
officielle»238, al fine di impedire allo Stato l’intromissione nella ricostruzione storica
della memoria della nazione239, e chiedendo l’abrogazione dell’ art. 4 della legge del 23
febbraio del 2005, poichè causa della imposizione di una «histoire officielle, contraire à
la neutralité scolaire et au respect de la liberté de pensée qui sont au cœur de la
laïcité; parce que, en ne retenant que le « rôle positif » de la colonisation, elle impose
un mensonge officiel sur des crimes, sur des massacres allant parfois jusqu’au
génocide, sur l’esclavage, sur le racisme hérité de ce passé…».
Probabilmente consapevoli di poter contare sul sostegno della storiografia europea, e
sulla base del percorso similare intrapreso dal resto d’Europa in termini di leggi
memoriali, gli storici francesi, attraverso l’ ”Appel de Blois” hanno chiesto la
mobilitazione degli storici europei in nome del rischio di una «moralizzazione
retrospettiva della storia»240.
237
Cfr., l’intervista di O.P. Grenouilleau in Journal du dimanche, del 12 juin 2005, in cui egli manifesta
ingiustizia nella condanna mossagli ai sensi della legge Taubuira e a cui si fa riferimento nei paragrafi
precedenti. Gli storici si sono mobilitati, questa volta, attorno alla questione della schiavitù attraverso la
costituzione di un forum, presso l'Istituto di Scienze Politiche (3 dicembre 2005).
238
La petizione Colonisation: non à l’enseignement d’une histoire officielle, è stata lanciata il 25 marzo
del 2005 nel giornale Le Monde. Cfr C.Liazu, «Une loi contre l’Histoire», Le Monde diplomatique, aprile
2005.
239
L. Cajani, L’Unione europea e la sua storia. Una decisione del Consiglio dell’Unione Europea:
rischio di censura sulla storia, cit.
240
P. Nora, Président de Liberté pour l’histoire, Appel de Blois, ottobre 2008, adottato nel quadro dei
«Rendez-vous de l’Histoire de Blois» e riportata all’interno del “rapport Accoyer”.
97
A conclusione di una disamina non certamente esaustiva circa la “rivolta” storiografica
francese contro le leggi memoriali, appare in ogni caso logica la constatazione che
muove dalla necessità di tenere distinte le nozioni di “verità” giudiziaria e “verità”
storica, sebbene le istituzioni giuridiche stiano vivendo da un po’ di tempo un fenomeno
di crescente ricorso alle competenze storiche per valutare i fatti o le opinioni, la cui
comprensione va oltre le competenze del giudice; di talché lo storico è sempre più
interpellato dai Giudici sia come “testimone”, che come consulente o perito, chiamato
dal
legislatore
o
dalle
varie
Commissioni
d'inchiesta,
prima
di
giungere
all’approvazione definitiva di un testo legislativo che in qualche modo implica una
“rievocazione” storica241.
Le voci degli storici francesi, esplicitate all’interno dei numerosi appelli, appaiono
variegate e discordanti, ma soprattutto lontane dal dichiararsi placate, almeno fino a
quando i tribunali resteranno le sedi (definite dalla storiografia “meno appropriate”) per
discutere di verità storica, senza lasciare spazio al dibattito accademico.
6. L’inidoneità’ della legge Gayssot: problemi “tecnici” e obiezioni alla
legittimità costituzionale
Al di là dei rischi sollevati dagli ambienti storici, non sono state poche le critiche
sottoscritte dai giuristi e rivolte ad una legge che, al di là di qualsiasi tentativo di
suggerimento o invito ad un riconoscimento della storia, impone un dovere di memoria,
escludendo qualsiasi forma di rilettura della storia della Shoah e qualsivoglia esame
critico dei documenti e delle testimonianze invocate in riferimento a tale crimine.
Prima ancora di qualsiasi obiezione di costituzionalità sono state eccepite
dall’”esercito” dei liberali valutazioni “tecniche” e di tipo “procedurale”. Ed invero,
coloro che hanno immediatamente messo in dubbio la legittimità dell’art. 24 bis
introdotto dalla legge Gayssot, hanno eccepito che lo stesso trasgredirebbe il principio
della necessaria pubblicità della legge: le decisioni emesse dal Tribunale di Norimberga
che definiscono i crimini contro l’umanità, di cui si fa menzione nell’art. 24 bis, non
avrebbero mai formato oggetto di una pubblicazione ufficiale, all’interno del Journal
Officiel de la République française. Questa mancata pubblicità dei processi impedirebbe
241
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 106. Due storici, Marc Olivier
Baruch e Henry Rousso, sono stati, per esempio citati come testimoni nel processo Papon: il primo
accettò di farlo, il secondo rifiutò.
98
alla collettività di conoscere in anticipo se determinate condotte cadano sotto
l’incriminazione della legge ovvero non abbiano alcun valore nel diritto interno. In altri
termini, al legislatore francese si contesta la necessità che una decisione, prima di
diventare parte integrante di un testo di legge debba essere portata a conoscenza di
ciascun individuo attraverso una via ufficiale, considerando che la pubblicità delle leggi
è prevista da un decreto del “Gouvernement de Défense nationale” risalente al 5
novembre 1870242.
La risposta alle argomentazioni contrarie alla legittimità della legge è giunta con la
sentenza del 23 febbraio del 1993, dalla Chambre Criminelle, la quale ha innanzitutto
messo in evidenza che l’art. 26 dello Statuto del Tribunale di Norimberga dispone che
il verdetto del Tribunale relativo alla colpevolezza o alla innocenza di ciascun accusato
«sarà definitivo e non suscettibile di revisione», evidenziando così l’impossibilità di
contestare i termini della decisione. In un’ultima analisi, la Corte ha evidenziato come la
legge francese non preveda la pubblicazione ufficiale delle sentenze, bensì
esclusivamente dei testi legislativi, di talché l’autorità della cosa giudicata non si
acquisisce attraverso la pubblicazione delle decisioni, bensì è insita nel carattere
definitivo delle sentenze emesse dal Tribunale di Norimberga. In questo senso si è
pronunciata anche la Corte di Cassazione nel caso Alain Guionnet243: “l’autorità della
cosa giudicata di una decisione si forma indipendentemente da qualsiasi pubblicazione e
il decreto su menzionato è inapplicabile alle decisioni di giustizia”244. La Corte di
Cassazione ha ribadito, inoltre, che ciascuno è tenuto a conoscere i giudizi resi a
Norimberga, considerando che, in ogni caso, i fascicoli sono depositati presso la Corte
internazionale di Giustizia dell’Aia, di talché anche laddove le sentenze del tribunale di
Norimberga non fossero state oggetto di pubblicazione nel Journal officiel, non sarebbe
invocabile l’ignoranza dei “decisum”. Ed invero, le contestazioni hanno avuto un
seguito e sono state, così, rivolte proprio al fatto che non poche sono le difficoltà che si
242
Art. 1 del Décret du Gouvernement de Défense nationale: «Dorénavant, la promulgation des lois et
décrets résultera de leur insertion au Journal officiel de la République Française, lequel, à cet égard,
remplacera le Bulletin des lois[…]
Art. 2 : Les lois et décrets seront obligatoires, à Paris, un jour franc après la promulgation, et partout
ailleurs, dans l’étendue de chaque arrondissement, un jour franc après que le Journal officiel qui les
contient sera parvenu au cheflieu de cet arrondissemnet[…]».
243
A. Guionnet c. MRAP, LICRA et autres, Cour d’appel de Paris (11eme ch.. sect. A), 27 maggio 1992,
LP n° 100-I, 41.
244
A fronte di questo responso della Corte di Cassazione, in Gazzette du Palais del 18 luglio 1993, non si
è mancato di precisare che: «On peut regretter que la Cour de Cassation ait frileusement répondu par des
arguments formels qui ne sont nullement convaincants. L’autorité entre les parties de la chose jugée ne
saurait à l’évidence jamais équivalori à une publication tournée vers tous les justiciables».
99
incontrano laddove si tenta di reperire il materiale dalla Corte Internazionale dell’Aia245.
Alla base quindi di una prima protesta di stampo antinegazionista, il fatto che i giudici
condannino i revisionisti in nome di testi che non sono in grado di produrre e di rendere
a tutti accessibili.
Un invito istituzionale alla memoria non è esente da rischi: i rischi di manipolazione
dall’alto della storia e di e svuotamento di significato della memoria non sono per nulla
trascurabili, hanno scritto un gruppo di giuristi, firmatari dell’ “Appel de juristes contre
les lois mémorielles”, in data 29 novembre del 2006246. Lo Stato non ha il compito di
prescrivere ai cittadini quel che devono ricordare, e in che modo devono ricordarlo con
l’effetto deterrente di una pena: è questa una delle obiezioni alla legittimità
costituzionale della legge. Per altro, i giuristi hanno ricordato che l’esternazione sia essa
in forma scritta che orale delle opinioni, è un diritto riconosciuto dalla Costituzione
francese. La stessa Carta dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, prevede
all'articolo 10 che nessuno possa essere molestato per le sue opinioni, anche religiose,
purché la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla legge, e
all'articolo 11 che la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti
“les plus précieux de l’homme”; ogni cittadino può parlare, scrivere e pubblicare
liberamente, eccetto quando si abusi di questa libertà nei casi determinati dalla legge ":
«La libre communication des pensées et des opinions est, selon la déclaration de 1789,
l’un des droits les plus précieux de l’homme. Certes, ce droit n’est pas absolu et la
protection de l’ordre public ou des droits d’autrui peuvent en justifier la limitation. En
ce sens, des lois appropriées permettent de sanctionner les propos ou les comportements
racistes causant, par nature, à celui qui en est victime un préjudice certain. L’existence
de lois dites « mémorielles » répond à une toute autre logique […]»247.
A sostegno delle denunce mosse dagli ambienti storici, anche nell’appello dei giuristi
non mancano riferimenti al principio di uguaglianza: «Ce faisant elles violent également
le principe d’égalité en opérant une démarche spécifique à certains génocides et en
245
Ibidem. Quello che emerge a fondamento della difficoltà di lettura delle decisioni del Tribunale di
Norimberga è che dal testo unico di comunicazione della decisione, (diverso dal necessario testo dei
dibattiti), la comprensione del processo emerge in maniera breve ed ellittica; altrettanto laconico è il
contenuto del giudizio. Risulta chiara la necessità di andare a fondo ed effettuare ricerche per verificare in
che modo, durante il dibattito, i giudici si siano determinati. Per questo il testo ufficiale dei dibattiti, è
elemento essenziale per “illuminare” il testo della sentenza: nessuna giurisdizione al di fuori del
Tribunale di Caen, ha provveduto a produrlo.
246
Appel de juristes contre les lois mémorielles, 29 novembre 2006, consultabile sul sito web
http://www.communautarisme.net/Appel-de-juristes-contre-les-lois-memorielles_a854.html.
247
Appel de juristes contre les lois mémorielles, cit.
100
ignorant d’autres, tout aussi incontestables, comme, par exemple, celui perpétré au
Cambodge».
Oltre alla preoccupazione di proteggere la libertà di espressione e di uguaglianza, ad
essere stata invocata dagli ambienti liberali è un’ ulteriore argomentazione: gli avversari
della legge Gayssot appaiono quanto mai concordi nel ritenere che laddove la legge
fosse stata sottoposta al giudizio del « Conseil constitutionnel » quest’ultimo ne avrebbe
sicuramente dichiarato l’incostituzionalità248. Se però fino al 1 ° marzo 2010 la
Costituzione francese del 1958 affidava al “Conseil constitutionnel” soltanto un
controllo di costituzionalità preventivo, prima della promulgazione delle leggi, prima
quindi che il procedimento di formazione fosse concluso, a partire da questa data è
entrato in vigore in Francia il controllo successivo di costituzionalità delle leggi249, che
sulla base del nuovo articolo 61-1 della Costituzione consente di sfruttare a posteriori
l'incostituzionalità di una legge che colpisce le libertà e i diritti garantiti dalla
Costituzione; la c.d. “questione prioritaria di costituzionalità” è stata così accolta in
Francia. Ed invero, è ora possibile il controllo di costituzionalità delle leggi memoriali,
dando così la possibilità ad un imputato di contestarne la costituzionalità in tribunale, in
un momento successivo. La novità a livello costituzionale non sottrarrà probabilmente
nei prossimi mesi, la legge Gayssot da quel giudizio di costituzionalità al cui vaglio non
è stata a suo tempo sottoposta per evidenti ragioni politiche250.
Di non poco conto sarebbe anche il rischio di minare la libertà di insegnamento: nella
sua decisione del 20 gennaio 1984 il Conseil constitutionnel ha identificato il principio
dell'indipendenza dei professori universitari, risultando la stesso, una condizione
basilare riconosciuta dalle leggi della Repubblica251. Nella stessa decisione, il Conseil
constitutionnel ha riferito della libera espressione e dell'indipendenza di docenti e
248
M. Troper, La legge Gayssot e la Costituzione, cit., p.191.
La legge organica n. 2009-1523 (come trasfusa nell’art. 23-2 dell’ord. org. n. 58-1067 del 7 novembre
1958), in attuazione del nuovo articolo 61-1 della Costituzione francese disciplina la “Question
Prioritarie de Constitutionnalité” (QPC) ha creato un nuovo mezzo di controllo di costituzionalità
(conformità delle leggi con la Costituzione). Il sistema precedente, di cui all'articolo 61 della
Costituzione, consentiva il controllo della legittimità costituzionale solo prima della pubblicazione delle
leggi. L’art. 61-1 della Costituzione francese così dispone: «Lorsque, à l'occasion d'une instance en cours
devant une juridiction, il est soutenu qu'une disposition législative porte atteinte aux droits et libertés que
la Constitution garantit, le Conseil constitutionnel peut être saisi de cette question sur renvoi du Conseil
d'État ou de la Cour de cassation qui se prononce dans un délai déterminé».
250
P. Wachsmann, Libertà di espressione e negazionismo, cit., p.58. Secondo l’autore, la legge del 1990
non è stata sottoposta ad alcun controllo di costituzionalità perché «in assenza di una rappresentanza
parlamentare tale da permettere alla destra estremista di adire il Conseil contitutionnel, nessuna
formazione politica poteva assumersi il rischio di apparire ostile allo spirito della legge».
251
Cfr. la sentenza n. 83-165 del 20 gennaio 1984 del Consiglio di Stato, richiamata nella decisione del
Consiglio di Stato, Association amicale des professeurs titulaires du muséum national d’histoire
naturelle, Lebon, , p. 216, consultabile sul sito web http://www.conseil-etat.fr/.
249
101
ricercatori come insite nella natura stessa dei rispettivi ruoli. Così, come docenti e
ricercatori sono funzionari di un servizio pubblico e come tale soggetti a una legge, «per
loro stessa natura le funzioni di insegnamento e di ricerca non solo permettono, ma
richiedono, nell'interesse del servizio, che la libera espressione e l'indipendenza del
personale siano garantite»252.
È proprio in nome del progresso della scienza e della ricerca storica, che il Consiglio
Costituzionale francese ha dichiarato il 20 maggio 2011253, non conforme a
Costituzione, il comma terzo lettera b) dell’art. 35, della più volte citata legge del 29
luglio 1881, là dove lo stesso nega la possibilità di ricorrere all’exceptio veritatis, di dar
prova quindi della verità dei fatti oggetto del reato di diffamazione, nei casi in cui
occorrerebbe richiamare episodi risalenti ad un periodo di tempo superiore a 10 anni254.
Lo stesso Conseil constitutionnel ha identificato la restrizione di cui all’art. 35 come
una manifestazione del diritto all’oblio, contraria alla libertà di espressione e alla ricerca
della verità, considerando che in una gran parte dei processi storici l’invocazione dei
fatti del passato è al centro del contenzioso, e rappresenta un momento imprescindibile
per giungere alla verità dei fatti in causa255.
252
J. Peyrot, Lettre de Guy Môquet: rappel de principes. Mémoire, Histoire, Liberté en pédagogie , in
Historiens et Géographes, n°400, ottobre-novembre 2007, in cui si sostiene che la libertà di educazione
non è un “corpo caduto dal cielo” , bensì 'il risultato di esperienze. Essa risulta una garanzia fondante la
scuola pubblica, e «s’inscrit dans les limites du plus grand commun accord sur ce qu’ont établi les
méthodes scientifiques de la recherche et sur les degrés de certitudes reconnues».
253
Cons. const., 20 mai 2011, n° 2011-131 QPC, Dalloz, 2011. 1420, obs. S. Lavric.
254
Art. 35 della legge del 29 luglio 1881: «La vérité du fait diffamatoire, mais seulement quand il est
relatif auxf onctions, pourra être établie par les voies ordinaires, dans le cas d'imputations contre les
corps constitués, les armées de terre, de mer ou de l'air, les administrations publiques et contre toutes les
personnes énumérées dans l'article 31. La vérité des imputations diffamatoires et injurieuses pourra être
également établie contre les directeurs ou administrateurs de toute entreprise industrielle, commerciale
ou financière, don’t les titres financiers sont admis aux négociations sur un marché réglementé ou offerts
au public sur un système multilatéral de négociation ou au crédit.
La vérité des faits diffamatoires peut toujours être prouvée, sauf :
a) Lorsque l'imputation concerne la vie privée de la personne ;
b) Lorsque l'imputation se réfère à des faits qui remontent à plus de dix années ;
c) Lorsque l'imputation se réfère à un fait constituant une infraction amnistiée ou prescrite, ou
qui a donné lieu à une condamnation effacée par la réhabilitation ou la révision;
Les deux alinéas a et b qui précèdent ne s'appliquent pas lorsque les faits sont prévus et réprimés par les
articles 222-23 à 222-32 et 227-22 à 227-27 du code pénal et ont été commis contre un mineur.
Dans les cas prévus aux deux paragraphes précédents, la preuve contraire est réservée. Si la preuve du
fait diffamatoire est rapportée, le prévenu sera renvoyé des fins de la plainte. Dans toute autre
circonstance et envers toute autre personne non qualifiée, lorsque le fait imputé est l'objet de poursuites
commencées à la requête du ministère public, ou d'une plainte de la part du prévenu, il sera, durant
l'instruction qui devra avoir lieu, sursis à la poursuite et
au jugement du délit de diffamation […]».
255
Cons. const., 20 mai 2011, cit. : «Or, dans la plupart des grands procès historiques, la vérité sur les
événements est au coeur des débats, d'où parfois une incompréhension, voire une frustration tant de la
partie civile que des prévenus qui souhaitent voir le juge trancher pour ou contre tel ou tel aspect d'une
vérité en cause. Cette disposition constitue un véritable handicap pour l'historien qui se trouve privé
102
Nel “rapport Accoyer”256 si è fatto inoltre riferimento ad un aspetto non così difforme
dall’orgoglio nazionale: un ricordo così puntuale del passato della Francia, oltre a far
emergere anche le responsabilità della nazione, oltre a mettere l’accento sugli aspetti
negativi della storia, redigerebbe un quadro del passato non sempre "felice". Ciò
potrebbe indebolire il senso di orgoglio nazionale, rivedendo in quelle disposizioni una
forma di ravvedimento irritante257. Orbene, sarebbe impensabile condensare l’intera
mole della storia nazionale della Francia all’interno di testi legislativi, anche perché le
conseguenze della proliferazione di leggi storiche sarebbero devastanti. In altri termini,
le conseguenze non si limiterebbero al piano nazionale, ma coinvolgerebbero quello
internazionale, con il rischio di trasformarsi presto in una fonte di risentimento tra le
diverse comunità, interpretando le imposizioni ex lege come un gesto ostile di uno Stato
nei confronti di un “Paese partner”. E come reagirebbe la Francia se in un futuro
prossimo ad essere messo alla gogna fosse proprio il passato francese?258. L’”ingorgo”
provocato dalle leggi memoriali e dalle scelte dell’ Eliseo, ha sollecitato numerosi
interventi contrari alla vigenza delle “lois mémorielles”. In nome di una serie di
garanzie più volte invocate da storici e giuristi, nel “rapport Accoyer” i firmatari hanno
fatto appello alla “saggezza politica” al fine di scongiurare il rischio di votare in futuro
l’approvazione di leggi che disciplinano eventi storici, in particolare quando esse
prevedano delle pene, invitando altresì il governo francese a limitare gli effetti della
decisione quadro del 2007, anche perché, a ben vedere, si potrebbe “rivangare”
all’infinito nella storia, riscoprendo episodi finora ignorati, ma che ben “indossano le
vesti” di crimini contro l’umanità; così non appare lontano il rischio di spingersi fino ai
giorni nostri in un continuo susseguirsi di disposizioni normative.
d'évoquer les événements du passé pour rétablir la vérité dans le cadre des procès, fréquents, sur l'histoire,
voire un quasi-déni de justice».
256
«Rapport d’information fait en application de l’article 145 du Règlement, au nom de la mission
d’information sur les questions mémorielles», Président-Rapporteur M. B. Accoyer, consultabile sul sito
web dell’Assemblea Nazionale francese.
257
Questa considerazione appartiene allo scrittore Denis Tillinac, sulla base della sua esperienza da
Presidente di un comitato di riflessione sulla storia della tratta negriera a Bordeaux. In occasione di questo
lavoro, egli ha potuto constatare a che punto le sensibilità si ravvivino quando si tratta di avvicinarsi alla
memoria di un fatto storico tanto lontano nel tempo: «Légiférer sur les faits historiques peut en effet se
révéler dangereux pour l’unité nationale, laquelle repose sur des consensus plus ou moins inconscients »
258
È utile in questo senso riportate le parole contenute nel rappor Accoyer: «Le Parlement français est-il
prêt à assumer le risque de pousser notre politique étrangère à faire un tel saut dans l’inconnu ? Comme
l’a souligné le ministre des affaires étrangères lors du débat sur la proposition de loi tendant à réprimer la
négation du génocide arménien, « promouvoir les valeurs de la France, c’est aussi faire prévaloir l’esprit
de responsabilità. Que dirions-nous en outre si, demain, des parlements étrangers prenaient l’initiative de
se prononcer sur un aspect de notre passé ? Dans la pire des hypothèses, des représailles « mémorielles »
pourraient intervenir par le truchement de lois, ce qui placerait, à terme, notre pays dans une position pour
le moins inconfortable…»
103
L’approvazione ultima, da parte dell’Assemblea Nazionale della legge che punisce la
negazione del genocidio armeno, ben lascia intravedere una chiara non “ottemperanza”
agli auspici contenuti nel “rapport Accoyer” e agli appelli di tanti accademici e giuristi
francesi firmatari per altro anche dello stesso “rapport”.
7. La repressione del negazionismo attraverso la responsabilità civile (art.
1382 code civil)
Prima ancora che le leggi memoriali prendessero consistenza, e durante la loro stessa
vigenza, si può osservare un tentativo di condanna delle “contestazioni della storia”
sulla base della responsabilità civile, ex art. 1382 code civil: il riferimento in questo
caso è in particolare al genocidio degli Armeni. Nel caso armeno, peraltro, si deve
distinguere tra diverse categorie di "negazionismo": da una parte, la negazione
pericolosa e ostinata dell'esistenza storica del genocidio, la cui versione più estrema
consiste non solo nel negare l'esistenza del massacro, ma nell'affermare che furono gli
Armeni ad assassinare i turchi; dall'altra parte, un negazionismo più sottile, rifiuta di
applicare la nozione di genocidio al caso degli Armeni senza negare tuttavia l'esistenza
della realtà storica dei massacri: questa storiografia riconduce gli avvenimenti del 1915
a "massacri" o "atrocità" di cui furono vittime gli armeni, senza mai far riferimento
all’accezione “genocidio”, né ad uno stermino deliberatamente programmato259.
Oggetto del contenzioso tra il “Forum des associations armeniennes de france" e
Bernard Lewis260 è stata la richiesta di risarcimento danni ex art. 1382 code civil a
seguito di «very serious injury inflicted on the memory and respect owed to the
survivors and their families», minate da roboanti espressioni negazioniste.
Quest’ultimo, un arabista di fama mondiale, britannico-americano ed ebreo261, è stato
condannato al pagamento di un franco simbolico, ex art. 1382 cc, dal “Tribunal de
Grande Instance” di Parigi nel giugno 1995, non per una forma di negazionismo che
pure le sue tesi non nascondevano, ma per “colpa professionale”.
In un'intervista a Le Monde, Bernard Lewis ha contestato che la strage degli Armeni
potesse essere definita «genocidio», nel tentativo di dar atto solo parzialmente
all’eccidio: egli ha riconosciuto sia in occasione dell’intervista sia nelle aule del
259
D. El Kenz, Il massacro nella storia. Dall'antichità a oggi, Utet Libreria, 2009, p.183.
TGI Paris, 21 giugno 1995, consultabile sul sito web Voltairenet.org.
261
Ibidem.
260
104
Tribunal de Grande Instance de Paris, che “There is no doubt that the Armenians'
suffering were a terrible human tragedy, which still haunts the memory of this people as
the Holocaust lingers in the memory of the Jews ” e ha dichiarato che le stesse atrocità
non furono realizzate “all on one side”262. A fronte del fatto che con tali affermazioni
Bernard Lewis ha contestato l'esistenza del genocidio armeno o, per lo meno
banalizzato le persecuzioni e le sofferenze inflitte sui deportati armeni, e che, così
facendo, “he committed a tort for which compensation could be claimed”, il "Forum
delle Associazioni armene in Francia”, ha citato in giudizio lo studioso per
l'accertamento della responsabilità ai sensi dell'articolo 1382 del code civil, e per vedere
condannare Lewis al pagamento di 10.000 franchi, ai sensi dell'articolo 700 del nuovo
codice di procedura civile263.
Con l’affaire Lewis per la prima volta al termine genocidio è stata opposta la nozione di
massacro: secondo lo storico, in riferimento alle violenze perpetrate dai Giovani Turchi
ai danni della minoranza armena, non era opportuno parlare di genocidio, prediligendo e
pubblicizzando la tesi secondo la quale gli Armeni, durante la deportazione verso la
Siria, fossero morti di stenti, senza che vi fosse una politica volta all’annientamento
della nazione. Ed invero, il Tribunale di Grande Istanza di Parigi ha rifiutato di
pronunciarsi sulla “qualifica genocidiaria” del fatto commesso nel 1915, adducendo
l’argomentazione secondo la quale non spetti ai Tribunali la decisione su come debba
essere presentato un determinato episodio della storia nazionale o mondiale. Pur di non
lasciare impunito lo storico negazionista, i giudici hanno, però, condannato Lewis a
causa del mancato rispetto delle prerogative del compito dello storico: oggettività e
prudenza. Poiché Lewis non aveva fatto alcun cenno agli elementi contrari alla tesi
sostenuta, venendo così meno dal suo compito di storico ed esprimendosi senza riserve
in merito ad un argomento di tale portata, la Corte concluse statuendo che
le
argomentazioni sottaciute da Lewis, suscettibili di ravvivare ingiustamente il dolore
della comunità armena, risultavano “fautifs”. Ribadendo che non spetta alla Corte
valutare se i massacri del 1915-1917 rivestano o meno il crimine di genocidio, come
attualmente definito dalla sezione 211-1 del nuovo codice penale, e sebbene in linea di
principio la Corte abbia ritenuto lo storico libero di diffondere le proprie opinioni
262
Ibidem.
Art. 700 c.p.c. francese: «Comme il est dit au I de l'article 75 de la loi n° 91-647 du 10 juillet 1991,
dans toutes les instances, le juge condamne la partie tenue aux dépens ou, à défaut, la partie perdante, à
payer à l'autre partie la somme qu'il détermine, au titre des frais exposés et non compris dans les dépens.
Le juge tient compte de l'équité ou de la situation économique de la partie condamnée. Il peut, même
d'office, pour des raisons tirées des mêmes considérations, dire qu’il n’ya pas lieu à cette condemnation».
263
105
personali, lo ha altresì ritenuto responsabile nei confronti delle persone coinvolte, per la
distorsione o la falsificazione dei fatti, non avendo affiancato alle sue tesi
argomentazioni contrarie. La giurisprudenza Lewis ha escluso quindi la possibilità per i
giudici di dirimere le controversie storiche, ben potendo però essere oggetto dei
tribunali il metodo di lavoro utilizzato dallo storico, al fine di determinare se lo stesso
sia incorso o meno in colpa “professionale”.
Tale modus procedendi non costituisce un elemento di novità per l’esperienza francese.
Già nel diciannovesimo secolo, in un caso concernente Alexandre Dumas, la Corte
d’Appello di Parigi ha affermato che “la scelta da parte dello storico di una tra le
molteplici versioni della storia, deve avvenire con correttezza, buona fede ed
imparzialità” 264.
Le motivazioni addotte dal Tribunal de Grande Instance di Parigi a carico di Lewis
appaiono anche in linea con una decisione del 27 febbraio 1951265, in cui la Corte
Suprema ha precisato che la colpa professionale può consistere tanto nel commettere un
atto positivo quanto nella astensione dal dire qualcosa266.
Sarebbe lecito a questo riguardo domandarsi se la corte avrebbe in ogni caso
condannato l’arabista per colpa professionale, anche laddove il caso avesse riguardato
il genocidio degli ebrei.
Certamente Lewis non poteva essere condannato sulla base della Legge Gayssot, in
vigore al tempo in cui egli ha commesso il fatto, poiché, come più volte ribadito, il testo
della legge del 1990 mira a reprimere i crimini contro l’umanità definiti tali dallo statuto
del Tribunale di Norimberga e quindi il riferimento è al solo genocidio ebreo, di talché
una interpretazione estensiva volta a far rientrare tutti i crimini contro l’umanità (tra i
quali il genocidio degli Armeni), sarebbe in contrasto con i principi del diritto penale.
Ed invero, poiché mancava qualsiasi specifica legislazione contro la negazione del
264
App. Paris, 26 aprile 1865, in Dalloz, 1865, 2, 289.
Cass. civ. 27 febbraio 1951, in Dalloz, 1951. 329, nota di H. Desbois.
266
Ibidem: “Aussi bien dans son abstention que dans un acte positif ; que l’abstention, même non dictée
par la malice et l’intention de nuire engage la responsabilité de son auteur lorsque le fait omis devait être
accompli soit en vertu d’une obligation légale, réglementaire ou conventionnelle, soit aussi dans l’ordre
professionnel, s’il s’agit notamment d’un historien, en vertu des exigences d’une information objective.
In secondo luogo, come ogni cittadino, anche lo storico deve rispettare il diritto alla privacy ai sensi della
section 9 del codice civile. La giurisprudenza riconosce che uno storico ben può guardare alla vita privata
di un defunto, anche se può raggiungere quella della sua famiglia, dal momento che il suo approccio è
giustificato dall’interesse attuale che lo stesso suscita; per cui lo storico gode di una sorta di “immunità”
in questo senso. Cfr. C. Vivant, L’historien saisi par le droit, cit..
266
Sulla base di queste disposizioni, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nella sentenza del 23
Settembre 1998, riferendo sul caso Lehideux (cit.), ha istituito uno un «standard européen sur les limites
au libre débat dans l’histoire».
265
106
genocidio degli Armeni, Lewis non veniva condannato per negazionismo, ma per non
aver utilizzato la prudenza e la correttezza imprescindibili nell’attività di ricerca storica,
sottacendo gli elementi e le fonti relative all’esistenza di un piano di sterminio: “C’est
une faute d’abstention en ce qu’il avait occulté les èlèments contraires à sa thèse”267;
diversamente, quasi certamente, la pena sarebbe stata molto più severa.
Un altro caso rilevante in materia è “Consul de Turquie Wanadoo”: in questa ipotesi
l’assenza di una specifica proibizione normativa ha fatto propendere i giudici per
l’assoluzione della società Wanadoo; il caso finiva in tribunale a causa della presenza di
numerosi siti internet in cui le autorità turche negavano l’esistenza di un “prétendu
génocide des arméniens268”. Al fine di reagire alle numerose tesi negazioniste diffuse su
internet dalla comunità turca, il Comitato per la difesa della causa armena (CDCA) ha
deciso di convenire in giudizio il console turco a Parigi e la società Wanadoo nella sua
qualità di hosting provider. Al Tribunale di Grande Istanza di Parigi è stato chiesto, sul
fondamento dell’art. 1382 e ss. del cc. francese di condannare la controparte alla
soppressione delle pagine contenenti elementi di negazione dell’esistenza del genocidio
armeno. I giudici hanno dichiarato irricevibile la richiesta degli attori per l’esistenza di
una immunità diplomatica a suo favore; il console non aveva fatto altro che diffondere
su internet la posizione ufficiale dello Stato Turco sulla questione armena. Quanto alla
società Wanadoo, accusata di non essere intervenuta a sopprimere «les informations
litigieuses, que celles-ci présentent, en consequence, un caractère manifestement
illicite», il giudice ha respinto la richiesta di condanna rilevando che, non potendosi
applicare l’articolo 24 bis della legge del 1881, non residua alcuna legge penale che
stabilisca il carattere illecito dei documenti pubblicati su internet: “aucune loi pénale
n’établissait donc le caractère manifestement illicite des documents litigieux”. La
discussione si è focalizzata così sulla legge del 29 gennaio del 2001 relativa al
“semplice” riconoscimento del genocidio degli armeni del 1915. I giudici hanno
dichiarato che tale legge «ne met…aucune obligation à la charge des particuliers et
267
La Corte ha rilevato che: «même s’il n’est nullement établi qu’il ait poursuivi un but étranger à sa
mission d’historien, et s’il n’est pas contestable qu’il puisse soutenir sur cette question une opinion
différente de celles des associations demanderesses, il demeure que c’est en occultant les éléments
contraires à sa thèse, que le défendeur a pu affirmer qu’il n’y avait pas de "preuve sérieuse" du génocide
arménien ; qu’il a ainsi manqué à ses devoirs d’objectivité et de prudence, en s’exprimant sans nuance,
sur un sujet aussi sensible ; que ses propos, susceptibles de raviver injustement la douleur de la
communauté arménienne, sont fautifs et justifient une indemnisation, dans les conditions énoncées au
dispositif».
268
App. Paris, 8 novembre 2006, in Dalloz 2007, n°12, pp.851-855. La giurisprudenza ha riconosciuto la
legge del 29 gennaio 2001 volta a riconoscere il genocidio degli armeni come esclusivamente simbolica.
107
constitue seulement une prise de position offici elle, particulièrment solennelle, puisque
adoptée sous forme de loi, du pouvoir législatif sur cet événement historique». Di
conseguenza, nessuna obbligazione esisteva a carico dell’”hosing provider”, di talché la
società è risultata esente da colpa per non aver ritirato i documenti in causa ovvero per
non aver negato l’accesso agli utenti.
Contro qualsiasi forma di coerenza di cui un sistema giudiziario non dovrebbe difettare
a causa del disuguale trattamento accordato ai crimini della storia, la Francia sembra
ancora essere lontana da una soluzione in termini di organicità in ambito memoriale.
A garantire “omogeneità” ai crimini della storia non è stata certo la proposta di legge
del 22 dicembre 2011, in quanto, prima che la stessa legge garantisca uniformità ai
genocidi, occorre che ciascuno di essi venga riconosciuto dalla legge francese; e al
momento esclusivamente il genocidio armeno è stato oggetto di riconoscimento.
È allora opportuno andare avanti con la serie indefinita delle imposizioni “ex lege” e dei
“riconoscimenti”, o non converrebbe invece fare un passo indietro, emulando piuttosto
l’esempio liberale nordamericano?
108
Capitolo IV
L’ESPERIENZA NORDAMERICANA
1. Il risultato della libertà incondizionata degli Stati Uniti
In un’analisi comparatistica relativa al difficile rapporto tra negazionismo e libertà di
espressione, non può mancare una breve considerazione dell’esperienza statunitense.
Essa si connota per un approccio di fondo che, come già accennato, risulta in gran parte
diverso da quelli europei e dallo stesso sistema canadese, ma non per questo privo di
influenze su di essi269.
Negli Stati Uniti com’è noto, la libertà di espressione è un diritto individuale
tendenzialmente illimitato ed assoluto, che, nel contrasto con altri diritti tende a
prevalere quasi sempre e ogni tentativo anche giurisprudenziale, di arginare
l’onnicomprensività del Primo Emendamento rimane di regola un caso isolato.
Quando la libertà di espressione non è circoscritta all’interno delle rigide restrizioni
europee, il risultato, in termini di diritti delle minoranze, appare duplice e forse
ambivalente: da una parte, gli appartenenti alle minoranze sono “autorizzati” a far
sentire la propria voce e a far conoscere il proprio passato, in considerazione anche della
necessità di una tutela dell'onore dei gruppi, che trova espressione nella dottrina words
that wound, vale a dire in quella corrente che dichiara di porsi dal punto di vista dei
gruppi discriminati270; dall’altra parte, quel simbolo culturale americano caratterizzato
da una “sfrenata” libertà di parola, può essere inteso a sfavore delle minoranze ogni
qualvolta si lasci impunito chiunque intenzionalmente offenda quella minoranza, e tutte
le volte in cui si accetti senza remore, condizionandone magari l’opinione pubblica,
qualsiasi discorso che contribuisca a tracciare il solco di una situazione di netta diversità
tra “popoli e popoli”.
La dottrina americana ha creato l’immagine degli Stati Uniti come un “melting pot” o
un ”marketplace of ideas”271: la libertà di espressione costituisce la prima libertà
269
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 6. Per la maggior parte della
sua storia gli Stati Uniti non sono stati radicalmente diversi da Francia e Germania; durante il
diciannovesimo secolo molti Stati del sud hanno approvato leggi che mettevano al bando la letteratura
negazionista, e nella restante parte del secolo sono state adottate anche negli Stati Uniti leggi contro exconfederati, pornografici e anarchici. Il “periodo critico” ha preso il via negli anni ’50 quando la filosofia
del “mercato delle idee” ha acquisito forma e consistenza nella vita pubblica americana.
270
R. Delgado, Words that Wound: a Tort Action for Racial Insults, Epithets and Name-I Calling, in
Harvard Civil Rights-Civil Liberties Law Review ( 1982), pp. 133 e ss.
271
A. Stazi,“Marketplace of ideas” e “accesso pluralistico” tra petizioni di principio e ius positum, in
Dir. inf., 4-4/2009, p.16 ss. L’espressione del” marketplace of ideas” secondo la quale la verità e la
109
americana sinonimo di una cultura legale altamente tollerante nei confronti di qualsiasi
forma di discorso, garanzia di un diritto costituzionale alla libertà di parola idolatrato e
da sempre condiviso dalla collettività, il modo più sicuro per giungere alla verità. Come
mette in luce Rosenfeld «la preminenza culturale della libertà di espressione deriva dal
modo di pensare profondamente radicato, secondo cui gli Stati Uniti sarebbero la terra
delle opportunità per tutti coloro che sono stati perseguitati nel loro Paese di origine a
causa delle proprie convinzioni e credenze, nonché dall'idealizzazione del cittadino
americano come il risoluto individualista teso al superamento di ogni tipo di nuova
frontiera»272.
Se in gran parte dei paesi europei, all’uso di epiteti razziali o insegne naziste, alla
pronuncia di espressioni negazioniste seguono, quasi automaticamente, azioni legali,
negli Stati Uniti, “qualsiasi parola” gode pressoché di tutela costituzionale: la parola è
vessillo di una cultura, simbolo di una identità273. È forse il caso di riprendere le parole
del giudice Brandeis, secondo il quale il rimedio ad un messaggio sgradito costituisce
sempre more speech274, aggiunge cioè sempre qualcosa in più rispetto al messaggio
iniziale, salvo che la discussione poi venga interrotta per evidenti ragioni.
La Corte Suprema americana – presso cui trova ampia accoglienza quell’”ottimismo
liberale” estraneo al resto dell’Europa - condividendo il pensiero di Leo Bollinger
secondo quale il discorso razzista non produce solo svantaggi, ma educa alla
tolleranza275, ha finito sempre per far prevalere un’interpretazione estensiva del Primo
Emendamento, al di là della valutazione caso per caso da parte dei giudici.
Per questo oggi non stupiscono decisioni come quella relativa, per esempio, al caso
politica migliore, nascono dal concorso e dalla circolazioni di variegate idee, informazioni e contenuti, ha
radici nelle tesi di John Milton, il quale sostenne che l'individuo per poter far valere le proprie ragioni ed
esercitare i diritti che gli spettano deve essere illimitatamente in grado di confrontarsi con i suoi simili, in
un incontro-scontro di idee, che inevitabilmente porta all’affioramento dell’migliore.
272
M. Rosenfeld, La filosofia della liberta di espressione in America, in Ragion Pratica (1999), pp. 17 e
ss.
273
F. Schauer, The Exceptional First Amendment, in M. Ignatieff, a cura di, American Exceptionalism
and Human Rights, Princeton University Press 2005, 29, 51-2: «On this cluster of interrelated topics,
there appears to be a strong international consensus that the principles of freedom of expression are either
overridden or irrelevant when what is being expressed is racial, ethnic, or religious hatred. ... In contrast
to this international consensus that various forms of hate speech need to be prohibited by law and that
such prohibition creates no or few free speech issues, the United States remains steadfastly committed to
the opposite view. ... In much of the developed world, one uses racial epithets at one's legal peril, one
displays Nazi regalia and the other trappings of ethnic hatred at significant legal risk and one urges
discrimination against religious minorities under threat of fine or imprisonment, but in the United States,
all such speech remains constitutionally protected».
274
See Whitney v. California, 274 U.S. 357, 372–80 (1927) (Brandeis, J., concurring); Abrams v. United
States, 250 U.S. 616, 624–31 (1919) (Holmes, J., dissenting).
275
L. Bollinger, La società tollerante, Giuffrè, 1992, p. 191 ss.
110
“Skokie”276, dal nome del sobborgo di Chicago popolato da numerosi ebrei, molti dei
quali sopravvissuti ai campi di concentramento: nel 1977 la Corte Suprema dell’Illinois
ha ritenuto attività verbale lecita, nonché forma simbolica di libertà di parola, il diritto
rivendicato da un gruppo di rappresentanti del partito neonazista americano, di tenere in
città una sfilata dimostrativa, utilizzando i simboli del regime, tra cui la svastica. Queste
le parole utilizzate dalla Corte: «the use of the swastika is a symbolic form of free
speech entitled to First Amendment protections and determined that the swastika itself
did not constitute "fighting words”».
La tolleranza che caratterizza i cittadini americani si manifesta anche in tutte le ipotesi
di “passiva accettazione” di un qualsiasi gesto di assalto alla bandiera, a seguito di una
pronuncia della Corte Suprema risalente al 1989277, in cui è stato dichiarato
incostituzionale qualsiasi divieto del gesto di appiccare fuoco alla bandiera. Fumo e
cenere che sgorgano dal simbolo americano rientrerebbero, dunque, nella libertà di
pensiero garantita dallo scudo del Primo Emendamento della Costituzione; ed in
particolare la condotta posta in essere nel 1989 conteneva, a dire dei giudici, «sufficienti
elementi comunicativi tali da concretizzare un atto di espressione del pensiero, in
quanto ricorrevano sia l’intento soggettivo di trasmettere un determinato messaggio, sia
l’elevata probabilità che quel messaggio fosse recepito».278
276
Vill.of Skokie v. Nat'l Socialist Party of Am. 373 N.E. 2d. 21(Ill. 1978). Un gruppo di neonazisti
intendeva marciare attraverso il sobborgo di Chicago Skokie, indossando divise delle SS e svastiche. Tale
villaggio ospita una larghissima popolazione ebraica e diversi sopravvissuti dell'Olocausto. Le autorità
municipali si opposero, a tale marcia che avrebbe chiaramente incitato all'odio e alla violenza contro i
cittadini ebrei del villaggio. Il gruppo neonazista intentò un giudizio per violazione del "free speech right"
in relazione al Primo Emendamento. La Corte di primo grado affermò la legittimità del divieto di tale
manifestazione sulla base della testimonianza dei sopravvissuti all'Olocausto residenti nel villaggio di
Skokie, perché essa avrebbe evidentemente costituito un incitamento alla violenza e all'odio. La decisione
fu ribaltata dalla Corte Suprema, NationalSocialist Party of America v. Village of Skokie, 432 U.S. 43
(1977) sulla base della considerazione secondo la quale la marcia non avrebbe integrato il requisito
dell'incitamento alla violenza e la tutela dei sentimenti dei sopravvissuti all'Olocausto non costituiva
giustificazione sufficiente per una tale compressione della libertà di manifestazione di pensiero e di
parola.
277
U.S. Supreme Court, Texas v. Johnson, 491 U.S. 397 (1989). La Corte ha ritenuto che «Under the
circumstances, Johnson's burning of the flag constituted expressive conduct, permitting him to invoke the
First Amendment... Occurring as it did at the end of a demonstration coinciding with the Republican
National Convention, the expressive, overtly political nature of the conduct was both intentional and
overwhelmingly apparent... whether particular conduct possesses sufficient communicative elements to
bring the First Amendment into play, the court asked whether "an intent to convey a particularized
message was present, and [whether] the likelihood was great that the message would be understood by
those who viewed it», La Corte ha concluso statuendo che mentre «the government generally has a freer
hand in restricting expressive conduct than it has in restricting the written or spoken word," it may not”
proscribe particular conduct because it has expressive elements».
278
M. C. Vitucci, Olocausto, capacità di incorporazione del dissenso e tutela costituzionale
dell'asserzione di un fatto in una recente sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe, in Giur. Cost.
1994, III, 3379 ss., 3390.
111
Quand’anche milioni e milioni di americani considerassero la bandiera nazionale una
venerazione quasi mistica, la profanazione fisica del simbolo per eccellenza, il flag
burning non comporta alcun rischio di incorrere in sanzioni penali; del resto, quando si
chiese alla Corte Suprema di non ignorare le conseguenze deleterie e concrete del
costume incriminato, tra cui la violazione della pace sociale, le minacce alla quiete
pubblica, la risposta fu chiara: “la legge punisce solo discorsi che incitano imminenti
condotte illegali”279.
2. Il regime del “discorso dell’odio”
Se l’Europa prevalentemente parla di negazionismo, gli Stati Uniti d’America fanno
riferimento all’espressione più ampia ”hate speech”, che ben può comprendere anche il
negazionismo, e che tende ad identificarsi con quelle forme espressive dirette a minare
la pace sociale attraverso espressioni odiose rivolte ad un soggetto ben identificato o ad
un gruppo di individui280. Alla luce delle considerazioni appena delineate, è dunque
l’”hate speech” sempre meritevole di tutela costituzionale? La risposta parrebbe essere
affermativa, ma poiché evidentemente i rischi di una tolleranza senza limiti hanno finito
ben presto per preoccupare anche i giuristi americani, occorre fare una distinzione.
Più in generale, l’hate speech può assumere diverse forme: un primo livello di speech
americano si connota per il carattere dangerous281. Nel corso del tempo i tribunali
hanno sempre più limitato la facoltà da parte del Governo federale di punire le
espressioni potenzialmente pericolose, se non nei casi in cui si ravvisi una imminent
lawless action. Accanto al dangerous speech, una diversa forma di “hate speech” è
rappresentata dall’”offensive speech:” il quid pluris necessario per convertire in
sanzione l’espressione offensiva è rappresentato dal turbamento della pace sociale,
considerato che the speech that does no more than offend sensibilities or cause hurt
feelings, without threatening an immediate breach of peace, is protected under the First
Amendment282.L’ultima tipologia di incitamento all’odio americana, sebbene presente
279
Texas v. Johnson, cit.
J.T. Nockleby (2000), “Hate Speech,” in Encyclopedia of the American Constitution, ed. Leonard W.
Levy and Kenneth L. Karst, vol. 3. (2nd ed.), Macmillan Reference USA, 2000, pp. 1277-1279.
281
C. M. Cascione, Negazionismo e libertà di espressione: rilievi comparatistici in Dir. Inf., 2011, p. 321
e ss.
282
P. R. Teachou, Making “holocaust denial” a crime: reflections on european anti-negationist laws
from the perspective of u.s. constitutional experience, 30 Vt. L.-Rev. (2006), vol. 30, p. 676 ss. L’autore
oltre a delineare una chiara tripartizione tra dangerous, offesive ed heretical speech, espone una serie di
motivazioni in ordine alla contestazione dell’approccio europeo. Una di esse risiede nella “vaccination
280
112
con meno frequenza nel panorama giurisprudenziale, assume la forma del linguaggio
heretical. In quest’ultimo caso la Suprema Corte ha chiarito che non c'è posto in una
democrazia costituzionale per leggi che cercano di costringere i destinatari ad adottare
un particolare modo di pensare sulle più svariate questioni, prescrivendo cioè un
atteggiamento morale al fine di imporre la convinzione in qualcosa in cui non si crede
realmente283.
La soluzione proposta dalle Corti Americane all’”hate speech” si è mossa nella
direzione di accordare tutela costituzionale a quella forma seppur “odiosa” di linguaggio
che non sfoci nella istigazione alla violenza. Ed invero, non appare punibile un
messaggio pubblico quando nulla implichi in termini di reazioni fisiche violente e la sua
massima conseguenza (nei confronti della collettività) sia la sola apologia di idee e
dottrine: in questo caso l’”hate speech” va tollerato alla luce proprio di quel “libero
mercato di idee”; altra cosa è invece l’istigazione alla violenza, a commettere reati
contro la persona. È solo in questo secondo caso che l’”hate speech” diventa
sanzionabile284.
Mentre negli Stati Uniti i testi legislativi che impongono delle restrizioni alla
discriminazione sono ritenuti incompatibili con la libertà di espressione e per essere
validi devono soddisfare criteri severi, che non prescindono dalla presenza di un
pericolo evidente per la società, nel diritto europeo/internazionale dei diritti della
persona, la libertà di espressione non tende a prevalere, dovendo essa cedere il passo a
misure che interdicono forme di discriminazione. Non si intende ripercorrere in questa
sede la vastissima dottrina relativa al tema della libertà di manifestazione del pensiero
degli Stati Uniti d’America; per quanto concerne il tema della nostra ricerca è fin da ora
importante sottolineare come, anche nei confronti dell’ hate speech la democrazia
americana abbia inteso utilizzare, soprattutto negli ultimi tempi, la copertura
costituzionale della libertà di espressione, in tutti i casi di assenza di danni effettivi.
theory” del linguaggio: l'idea in sintesi è che per mobilitare gruppi che diversamente non interverrebbero
è sufficiente lasciare ai negazionisti lo spazio per esprimere il proprio personale punto di vista; più o
meno come una dose di vaccino contenente una piccolissima quantità di agenti infettivi inattivati serve ad
attivare il sistema immunitario.
283
Cfr. le conclusioni raggiunte in West Virginia State Board of Education v. Barnette, 319 U.S. 624,
626-29 (1943).
284
M. Rosenfeld, La filosofia della liberta di espressione in America, cit., p.17 ss.
113
3. Cosa si nasconde nel passato americano?
Contrariamente a quanto spesso si assume, va rilevato che negli Stati Uniti la situazione
non è stata sempre così garantista per i “liberi ed incontrollati oratori”: in materia di
libertà di parola la giurisprudenza della Corte Suprema ha subito una profonda
evoluzione285. Essa ha avuto un atteggiamento dapprima moderatamente repressivo, poi
con il passare del tempo sempre più liberale, sino a configurare, in linea con i tratti
caratterizzanti oggigiorno la cultura degli Stati Uniti, la libertà di espressione come un
diritto con pochi e deboli limiti. Se nella decisione Schenck v. United States286 la
pubblicazione di volantini che incoraggiavano all’insubordinazione in tempo di guerra
non può essere protetta dallo scudo del Primo Emendamento, poiché per ovvie
motivazioni si è tenuti a molte più restrizioni espressive in tempo di guerra, rispetto a
quelle imposte in tempo di pace; se nella sentenza Abrams v. United States287 la
distribuzione di volantini che, pur non incitando alla resistenza immediata, avevano una
carica lesiva tale da indurre i lavoratori nelle fabbriche di munizioni ad uno sciopero
generale, (allo scopo di limitare la produzione di ordigni e munizioni necessarie al
prosieguo della guerra), non ha configurato una delle garanzie della libertà di parola
assicurate dal Primo Emendamento; se nella decisione Whitney v. California288 i giudici
hanno deliberato che, laddove una parola ha tendenza" a causare sedizione o illegalità,
può essere costituzionalmente vietata”; se, quindi, in una prima fase, la giurisprudenza
della Corte Suprema ha considerato l’hate speech come una forma di diffamazione
collettiva analoga a quella individuale, non rientrante nella tutela prevista dalla
Costituzione, successivamente, a causa probabilmente delle numerose opinioni
dissenzienti che facevano leva sul fatto che leggi del genere rappresentassero una
«minaccia costante allo strapiombo della libertà di parola, stampa e religione»289, le
285
Cfr. in tema A. Pizzorusso, La disciplina costituzionale dell'istigazione all'odio, in Atti del XVI°
Congresso dell’Accademia Internazionale di Diritto Comparato Brisbane, 14-20 Luglio 2002.
286
Schenck v. United States, 249 U.S. 47 (1919).
287
Abrams v. United States, 250 U.S. 616 (1919).
288
Whitney v. California, 274 U.S. 357 (1927).
289
Beauharnais c. Illinois, 343 U.S. 250 ( 1952): nella “dissenting” opinion si sottolinea che sia la
diffamazione, che le c.d. “fighting words” considerate pacificamente come eccezioni alla libertà di
espressione, che si concretizzano in dichiarazioni rivolte contro i singoli, difficilmente possono essere
utili al pubblico dibattito e quindi vietate; nessuna legislatura insomma si disse, ha il compito, dovere,
potere, di decidere su quali questioni pubbliche i cittadini possono discutere, dal momento in cui in un
paese libero la scelta è individuale e non dello Stato”. Si legge nella stessa sentenza: «My own belief is
that no legislature is charged with the duty or vested with the power to decide what public issues
Americans can discuss. In a free country that is the individual's choice, not the state's… No rationalization
on a purely legal level can conceal the fact that state laws like this one present a constant overhanging
threat to freedom of speech, press and religion. Today Beauharnais is punished for publicly expressing
strong views in favor of segregation. Ironically enough, Beauharnais, convicted of crime in Chicago,
114
decisioni della Corte hanno subito una evoluzione. Tra gli esempi di questo
cambiamento rientra la decisione Brandenbourg c. Ohio290, in cui i Giudici hanno
statuito la non punibilità da parte del Governo di “inflammatory speech unless it is
directed to inciting and likely to incite imminent lawless action”, superando così altre
decisioni precedentemente rese nell’ambito della stessa materia291. In questo caso il
leader ed alcuni membri del gruppo Ku Klux Klan minacciavano di ricorrere all'uso
della violenza se non fossero state adottate misure segregazioniste. In particolare
Brandenburg in un'occasione pubblica, innalzando la croce fiammeggiante {crossburning), simbolo di superiorità della razza bianca, ha invocato il ritorno dei neri in
Africa e degli ebrei in Israele. La Supreme Court in questa sentenza ha affermato che
«l'istigazione ad azioni illegali o violente non è protetta dal Primo Emendamento
solamente se emerge che è intenzionalmente diretta o idonea ad incitare o produrre
un'imminente azione illegale»292.
È dunque questa una libertà di espressione garantita sicuramente in maniera più ampia
rispetto al passato, ma con un importante limite: le restrizioni alla libertà di espressione
sono apparse subito inevitabili nella giurisprudenza americana quando si è toccato il
delicato tema dell’istigazione alla violenza. Ne è prova il caso delle fighting words,
dottrina espressa nella sentenza Chaplinsky v. New Hampshire293. È molto sottile il
confine tra la diffusione di idee razziste ed antisemite prive di alcuna idoneità lesiva, e
l’utilizzo di epiteti antisemiti potenzialmente idonei a provocare violenza. Solo alle
prime però è stata accordata la protezione dal Primo Emendamento. Infatti, per poter
limitare un diritto costituzionalmente garantito, come la libertà di espressione, occorre
avere un interesse abbastanza importante da permettere una limitazione del diritto
protetto. É necessario, cioè, che la restrizione sia narrowly tailored e che si utilizzi the
would probably be given a hero's reception in many other localities, if not in some parts of Chicago itself.
Moreover, the same kind of state law that makes Beauharnais a criminal for advocating segregation in
Illinois can be utilized to send people to jail in other states for advocating equality and nonsegregation.
What Beauharnais said in his leaflet is mild compared with usual arguments on both sides of racial
controversies….».
290
Brandenbourg c. Ohio, 395 U.S. 444, 1969.
291
In particolare cfr. Schenck v. United States, 249 U.S. 47 (1919); Abrams v. United States, 250 U.S. 616
(1919); Whitney v. California, 274 U.S. 357 (1927); Dennis v. United States, 341U.S.494 (1951).
292
N. Courtney, "British and United States Hate Speech Legislation: a Comparison", in Brooklyn Journal
of International Law (1993), pp. 748 e ss.
293
Chaplinsky v. State of New Hampshire, 315 U.S. 568 (1942): «There are certain well-defined and
narrowly limited classes of speech, the prevention and punishment of which have never been thought to
raise any constitutional problem. These include the lewd and obscene, the profane, the libelous, and the
insulting or "fighting" words those which by their very utterance inflict injury or tend to incite an
immediate breach of the peace. It has been well observed that such utterances are no essential part of any
exposition of ideas, and are of such slight social value as a step to truth that any benefit that may be
derived from them is clearly outweighed by the social interest in order and morality».
115
least restrictive means294. Nella dottrina delle fighting words è possibile distinguere due
parti. La prima riguarda in modo specifico quelle parole che “arrecano pregiudizi”
mentre la seconda comprende quelle che tend to incite an immediate breach of peace. II
divieto di quest'ultima categoria si ritrova sempre nella pronuncia Brandenburg v.
Ohio295: così le Corti statali e federali hanno annullato, in nome della libertà di
espressione, il provvedimento delle autorità municipali che vietava lo svolgimento di
una manifestazione neonazista.
Sicuramente conforme all’evoluzione appena delineata, appare il comportamento del
governo americano in relazione alla Convenzione internazionale sull'eliminazione di
ogni forma di discriminazione razziale, in particolare per la ferma ostilità in merito
all'art. 4, che prevede di dichiarare reato punibile dalla legge “qualsiasi forma di
diffusione di idee basate sulla superiorità della razza o su sentimenti di odio" e,
pertanto, ritenuto dall'amministrazione americana incompatibile con il testo e lo spirito
della Costituzione. Le restrizioni alla libertà di espressione previste dalla sopracitata
Convenzione appaiono, dunque, rispondere alla logica più europea di apporre limiti
stringenti a tale libertà rispetto alla protezione di cui la libertà gode negli Stati Uniti da
parte della giurisprudenza della Supreme Court296; in America ,infatti, la parola non
cessa di essere costituzionalmente protetta per la sola ragione che possa nuocere ad altre
persone o che possa essere offensiva per la società. In questa logica, infatti, le
espressioni che ledono l'onore delle identità non sono sanzionabili negli Stati Uniti297.
Per tale ragione, in sede di sottoscrizione della Convenzione internazionale
sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, nel 1966 è stata apposta una
riserva da parte degli Stati Uniti in virtù della quale: «the Constitution of the United
States contains previsions for the protection of individual rights, such as the right of
free speech, and nothing in the convention shall be deemed to require or to authorize
294
M. J. Mannheimer. "The Fighting Words Doctrine", in Colorado Law Review (1993), vol.? pp. 1565 e
ss.; L. A. Rabe, Sticks and Stones: The First Amendment and Campus Speech Codes, in The John
Marshall Law Review (2003), pp. 205 e ss.
295
M. Ainis, Valore e disvalore della tolleranza, in Quad. cost. (1995), pp. 425 e ss; M. Rosenfeld, Hate
Speech in Constitutional Jurisprudence: a Comparative Analysis, in Cardozo L. Rev. 2003, vol I, pp.
1537 ss.
296
S. Fish, Hate Speech in The Constitutional Law of The United States, in The Constitutional Treatment
of Hate Speech, XVIth Congress of the International Academy of Comparative Law Brisbane, 14-20
luglio 2002, in <http://www.ddp.unipi.it>, pp. 2 ss.
297
V .Cuccia, Liberta di espressione e identità collettive, Giappichelli, 2007, p.183, ss. La concezione
americana induce a tollerare frasi razziste, purché non si oltrepassi il limite che separa l’apologia della
violenza dall’istigazione ad essa.
116
legislation or other action by the United States of America incompatible with the
provisions of the Constitution of the United States of America»298.
4. Il “judicial notice” emesso nelle Corti americane: il caso Mermelstein
All'inizio degli anni ottanta l'Institute for Historical Review aveva pubblicato un'offerta
economica sulla propria rivista con la quale prometteva una somma di denaro a
chiunque avesse fornito la prova irrefutabile dello sterminio degli ebrei nelle camere a
gas di Auschwitz. La trovata era pubblicitaria, poiché sfruttava il fatto che le uniche
testimonianze inconfutabili erano quelle oculari, gente che difficilmente era ancora viva
per raccontare. Mermelstein299 superstite dell'Olocausto, che aveva assistito alla morte
della propria famiglia nel campo di concentramento di Auschwitz, aveva risposto
all'annuncio presentando un dettagliato resoconto della sua esperienza e indicando i
nomi di altri testimoni oculari dello sterminio, tra cui una serie di eminenti storici. Di
fronte al rifiuto dell’ IHR di pagare la somma pattuita, Mermelstein ha così intrapreso
un giudizio per «breach of contract, intentional infliction of emotional distress» nei
confronti dell'Istituto. La Superior Court of California ha accolto la domanda di
Mermelstein e ha condannato l'IHR a pagare la somma pattuita e il risarcimento del
danno morale subito per aver dovuto rievocare gli atroci eventi di Auschwitz, messi in
dubbio dall’istituto, poiché rappresenta «judicial notice of the fact that Jews were
gassed to death at the Auschwitz Concentration Camp in Poland during the summer of
1944. It is simply a fact»300. La sentenza costituisce un interessante precedente, in primo
luogo perché attraverso un'azione su base contrattuale (breach of contract) ed
extracontrattuale (tort cause of action) il plaintiff è riuscito ad evitare l'applicazione del
Primo Emendamento301. In secondo luogo, nel provvedimento della Corte Californiana
che ha definito la controversia, si chiarisce che l'Olocausto e l'utilizzo delle camere a
298
Convenzione internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (1965), il testo
è disponibile al sito web http://www.ohchr.org.
299
La controversia è commentata da M. L. Picheny, A Fertile Ground: The Expansion of Holocaust
Denial into the Arab World, in 23 B.C.Third World L. J. 333 (2003); G. J. Yonover, Anti-Semitism and
Holocaust Denial in the Academy: A Tort Remedy, in 101 Dick. L. Rev.71 (1996), 84.
300
Superior Court of California, Mermelstein c. Institute for Historical Review, No. C 356 542 (July 22,
1985).
301
Questo precedente ha spinto alcuni studiosi americani a prospettare l'utilizzo nei confronti di chi nega
l'Olocausto di azioni a titolo di risarcimento del danno morale (tort of infliction of emotional distress). In
questo modo si potrebbe evitare l'applicazione del Primo Emendamento, tuttavia la legittimazione attività
a tale azione spetterebbe chiaramente soltanto ai superstiti dell'Olocausto e dei campi di sterminio e ai
loro eredi naturali e morali. Si veda: G. J. Yonover; Anti-Semitism and Holocaust Denial in the Academy:
A Tort Remedy, cit., 85.
117
gas nei campi di concentramento di Auschwitz costituiscono fatti incontestabili e
incontrovertibili e che come tali non richiedono di essere provati in giudizio. Di
conseguenza gli errori “tecnici” pur evidenti, risultanti dalle testimonianze allegate da
Mermelstein non hanno avuto alcun tipo di valenza.
5. La corsa verso i campus universitari: il caso Smith
Nonostante la singolare protezione accordata alla libertà di espressione, la fase più
recente del negazionismo ha trovato proprio negli Stati Uniti non pochi esponenti, mossi
in particolar modo, dal tentativo di “insediarsi” nei campus universitari: il coordinatore
di questo movimento Bradley Smith, ha cercato, infatti, di approfittare di giovani
redattori alle prese con giornali universitari, i quali ancora più di qualunque altro
cittadino americano non avrebbero potuto rifiutare la “circolazione di idee”, a
prescindere dal loro contenuto offensivo, lasciando quindi spazio ad ogni opinione.
Bradley Smith, esponente dell’Institute for Historical Review e fondatore del gruppo
noto come CODOH (Committee for Open Debate on the Holocaust), autore nel 1999
della rivista: “A Journal of Independent Thought”, in cui dichiarava quelli che
dovessero essere gli intenti rappresentati dai revisionisti dell'Olocausto, già a partire dai
primi anni ’90 ha reso pubblica la sua “fede” negazionista, calamitando l’attenzione
verso di sé “grazie” ad un’ originale proposta giornalistica.
Durante l'inizio degli anni 90 il “nuovo prototipo di negazionista” Smith, ha “rincorso” i
campus americani affinché fosse autorizzata la pubblicazione di un singolare annuncio
sui giornali studenteschi. Il contenuto dell’annuncio metteva subito in evidenza un
evidente scetticismo dell’autore sulle sorti delle vittime dell’Olocausto, e rivolgendosi
all’opinione pubblica, egli chiedeva il nome e le prove di una sola persona che fosse
stata vittima ad Auschwitz delle camere a gas, al fine di ottenere un dibattito pubblico
sull'Olocausto302. Se alcuni campus universitari rifiutarono la pubblicazione
302
È questo il tipico annuncio di cui Smith chiedeva la pubblicazione, consultabile sul sito web
http://www.codoh.com: «DWIGHT D. EISENHOWER published his Crusade in Europe in 1948. In 559
pages General Eisenhower does not mention the German gas chambers in which it was—and is--claimed
that millions of Jews and others were “exterminated.” WHY NOT? Are you a student? Why do you think
Dwight D. Eisenhower, the man who directed World War II against the Germans on the Western front,
the celebrated General who would become President of the United States, would write a history of that
war and not mention the greatest WMD (gas chambers) ever known to man? Do you think, maybe, it just
slipped his mind? Are you a professor? At the close of WWII it was claimed that four million victims
were exterminated at Auschwitz alone. Keeping in mind that General Eisenhower did not mention gas
chambers in his Crusade in Europe, can you provide, with proof, the name of one person killed in a gas
118
dell’annuncio e tale rifiuto attirò, in ogni caso, l’attenzione dei media, altri accolsero la
richiesta di Smith, ponendo a fondamento della propria decisione la c.d. libertà
intellettuale.
All’interno di questa seconda “categoria” rientra il giornale dell’Università del
Michigan, che per primo “difese” la propria scelta in virtù della libertà di parola
garantita dal primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti303: così come il
primo Emendamento garantisce la libertà di perseguire la verità, esso assicura anche il
diritto di negare quella stessa la verità304. La logica conseguenza che l’annuncio potesse
contenere informazioni inesatte, ovvero imprecise e offensive, che avrebbero a loro
volta portato alla mente di molti, ricordi e accadimenti terribili, nonché la possibilità di
pubblicare annunci di una simile portata, riflette esattamente il pensiero dei padri
fondatori del Primo Emendamento, sostenne l’Università del Michigan.
Nel gennaio 1992, anche l’”Ohio State Lantern” pubblicò l'annuncio di Bradley Smith.
Si trattò di un atto deliberato del comitato redazionale del giornale Lantern, che
giustificò la pubblicazione con le seguenti parole: “It is repulsive to think that the
quality, or total lack thereof, of any idea or opinion has any bearing on whether it
should be heard.”305. Con la libertà di parola altro non si intende se non la necessità di
trattare e disporre delle idee in maniera assolutamente indipendente dalla loro mancanza
di qualità ovvero totale assenza di qualità, questa la giustificazione dell’ ”Ohio State
Lantern”.
Diversa è stata la posizione assunta dall’”Harvard Crimson” invece, in cui il rifiuto alla
pubblicazione dell’annuncio è stato giustificato non da una scelta di censura, ma dal non
aver ritenuto opportuno mettere a disposizione di un giornale, con un numero limitato di
pagine e con un target determinato di lettori, un “semplice annuncio”, un testo più o
meno lungo che avrebbe “tolto spazio” ad altri argomenti del giornale e che avrebbe
avuto lo stesso rifiuto di pubblicazione anche laddove avesse trattato un argomento
chamber at Auschwitz? Do you believe it wrong, immoral perhaps, to ask this question? Tell me why. I
can be reached at [email protected]»
303
Michigan Daily, October 25, 1991: «…Nonetheless, as a newspaper committed to upholding the
principles of the First Amendment and the unrestricted exchange of ideas, we cannot justifiably condone
the censorship of unpopular ideas from our pages merely because they are offensive or because we
disagree with them…The ad said some terrible things, and some ugly memories came to the minds of
many, but what transpired on this campus for the last week is exactly what the founding fathers had in
mind when they wrote the First Amendment», in R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A
Comparative Study, cit., p. 133 ss.
304
W. F. Buckley Jr., “First Amendmentitis,” National Review, January 24,1994.
305
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 126.
119
differente306. Il discorso libero negli Stati Uniti non è solo una norma giuridica
costituzionale, ma anche una potente norma culturale, soprattutto per gli studenti
aspiranti giornalisti. L'influenza del First Amendment ha così permeato la cultura
americana, influenzando il modo con cui gli americani intendono lo stesso Olocausto.
Se in Germania e in Francia si presume di scongiurare il timore di una nuova serie di
crimini aberranti attraverso l’imposizione ex lege di particolari obblighi “memoriali”; se
nella maggior parte delle democrazie europee il dibattito è stato incentrato sul prosieguo
e sulla accelerazione di meccanismi impositivi
finalizzati a “marginalizzare i
negazionisti”, al contrario, sembra che negli Sati Uniti la paura del nazismo sia la
ragione posta a fondamento della politica della non censura307.
6. L’esperienza canadese: un approccio intermedio
Problemi analoghi a quelli americani si sono posti nella società canadese, anche se i
risultati a cui la giurisprudenza è pervenuta appaiono più prossimi alle soluzioni
europee che non a quelle testé emerse trattando della situazione americana. È in Canada,
che già alla fine del secondo conflitto mondiale, al fine di esprimere il proprio dissenso
e condannare con forza le vicende legate alle persecuzioni razziali subite dagli ebrei,
sono stati sottoscritti tre importanti documenti internazionali: la Convenzione per la
prevenzione e la repressione del Genocidio, la Convenzione internazionale
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale e il Patto internazionale sui
diritti civili e politici. Il dibattito canadese ha riguardato proprio la possibilità di
assimilare o meno la “politica” liberale degli Stati Uniti al Canada, dove la libertà di
espressione a livello federale è garantita dalla “section” 2 della “Charter of Rights and
Freedoms” del 1982308, una Carta che ha introdotto dei principi sovraordinati
all'ordinaria attività legislativa, rappresentando lo sforzo delle autorità governative di
creare un diritto federale valido per l’intera nazione, in grado di mettere insieme le varie
306
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 129. Questa la motivazione
dell’editore del giornale dell’Università di Harvard: «By choosing not to run an ad, or an editorial for
that matter, we are not imposing censorship; we are simply refusing to offer our privately-owned assets—
our printing press, our circulation network, our readership, our limited number of pages, and the name of
The Harvard Crimson, for that matter».
307
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study, cit., p. 133 ss.
308
Paragrafo 2 della Carta canadese:« Everyone has the following fundamental freedoms:
(a) freedom of conscience and religion;
(b) freedom of thought, belief, opinion and expression, including freedom of the press and other media of
communication;
(c) freedom of peaceful assembly; and
(d) freedom of association».
120
componenti del pluralismo sociale e istituzionale che compongono la società canadese,
come invocato dallo stesso documento.
La vicinanza degli Stati Uniti e le inevitabili e note affinità tra i due sistemi giuridici,
sotto alcuni aspetti, hanno favorito, secondo alcune scuole di pensiero diametralmente
opposte all’interno della stessa Corte Suprema, l’utilizzo delle correnti giurisprudenziali
americane nel diritto canadese. Da una parte (idealmente incentrata intorno alla figura
del giudice McLachlin) infatti, si sono schierati coloro che considerano la visione
canadese della libertà di espressione e i limiti a tale libertà più pertinenti all’esperienza
americana che alla visione internazionale consacrata anche dalle numerose convenzioni
in materia di libertà di espressione309. La Corte Suprema si è più volte pronunciata sulla
portata di questa garanzia erigendola a libertà fondamentale e ponendola in cima agli
altri diritti e libertà garantiti in una società democratica310. Così la Corte Suprema ha
ritenuto per esempio che l’art. 2 b) dovesse essere interpretato nella maniera più libera
ed estensiva possibile, in modo da assicurare a ciascun cittadino la possibilità di
manifestare senza conseguenze le proprie opinioni, anche nel caso in cui le stesse
appaiano impopolari e sgradevoli. Nella sentenza Edmonton Journal il giudice Cory ha
ribadito l’importanza della libertà d’espressione nel diritto canadese, rilevando che in
una società democratica sia difficile immaginare una libertà più importante della libertà
di espressione, di talché l’art. 2b) è stato redatto in termini assoluti, salvo essere ristretto
in casi rari311.
Pur considerando che tanto il metodo americano, quanto quello “internazionale”
riconoscano in maniera più o meno esplicita che la libertà di espressione può in alcune
circostanze cedere il passo ad altri valori, il primo filone di pensiero, piuttosto che
seguire il “metodo internazionale” volto alla soppressione dell’odio razziale,
giustificando così una limitazione alla libertà di espressione, ha prediletto la tradizione
americana, con l’effetto di verificare l’esistenza di un pericolo chiaro ed attuale, prima
di condannare il soggetto per aver attentato alla libertà di espressione. La differenza tra
309
M. Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste? Le négationnisme
de la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 80.
310
La sentenza Irwin Toy Ltd. C. Québec viene richiamata in M.Imbleau, La négation du génocide nazi,
liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de la Shoah en droit international et comparé,
cit. p.72. Nel decisum Irwin Toy la Corte ha cercato di formulare nella maniera più precisa alcuni
postulati caratterizzanti la libertà di espressione, statuendo che la ricerca e la scoperta della verità sono
delle attività positive in sé, che la partecipazione alle decisioni di carattere sociale e politico devono
essere incoraggiate e che le variegate forme di arricchimento e impoverimento personale devono essere
incoraggiate in una società tollerante tanto nei confronti di chi trasmetta un messaggio tanto nei confronti
di chi è destinatario di quel messaggio.
311
Edmonton Journal c. Alberta (Procureur général), 1989 2 R.C.S. 1326.
121
le disposizioni americane e quelle internazionali sta, del resto, nel diverso periodo
storico all’interno del quale le stesse sono state adottate: i testi internazionali sono stati
redatti dopo la seconda guerra mondiale e dimostrano un certo equilibrio tra la volontà
di proteggere i diritti individuali e i diritti collettivi; il diritto americano al contrario
trova le sue origini nel diciottesimo secolo, nel periodo di lotta contro la corona
britannica, momento storico in cui prevale la tutela dei diritti individuali312.
Dall’altra parte, emerge una visione differente, che tiene distinto il metodo americano
da quello canadese: la diversa importanza accordata alla nozione di multiculturalismo,
l’impegno del Canada per l’eliminazione della propaganda razziale, farebbero
propendere per una distinzione tra le due Carte nazionali, anche perché diversamente le
restrizioni canadesi rispetto alle condotte razziali sarebbero incompatibili con la libertà
di espressione313. La libertà di parola non è illimitata in Canada, piuttosto è, sottoposta
ai limiti fissati dal codice penale e la legge comune314, come ha affermato il Giudice
Cannon nel caso Press Alberta315.
Ed invero, se la formulazione letterale del paragrafo 2 della “Charter of Rights and
Freedoms” è molto simile a quella del primo Emendamento della Costituzione degli
Stati Uniti, e descrive un diritto solo apparentemente assoluto, per quanto riguarda
l’”hate speech” l’interpretazione della Suprema Corte canadese si allontana
notevolmente da quella statunitense: i limiti alla libertà di espressione derivano dalla
sezione 1 della “Charter of Rights and Freedoms” la quale, nell’introdurre una clausola
limitativa dei diritti, esclude la tutela ex section 2 di tutte quelle forme di
manifestazione del pensiero che esprimono valori incompatibili con i valori tutelati
dalla stessa Carta.
In Canada non esiste alcuna legislazione specifica che si occupa espressamente di
negazionismo; è quest’assenza ad aver imposto il ricorso alle disposizioni del Code
312
W. A. Schabas e d. Turp, La Charte canadienne des droits et libertés et le droit International: les
enseignements de la Cour supreme du Canada dans les affaires Keegstra, Andrews et Taylor, (1989-90)
6 R.Q.D.I. 12.
313
G. Rolla, La tutela costituzionale della persona come individuo e come parte di un gruppo:
l’esperienza della Carta canadese dei diritti e delle libertà, in S. Gambino (a cura di), La protezione dei
diritti fondamentali. Europa e Canada a confronto, Giuffré, 2004, 125. «Sin dall’inizio della sua
formazione, si consolidò l’idea che il Canada nacque come patto tra “due popoli fondatori ” e ciò fece sì
che il pluralismo essenzialmente riconosciuto e tutelato fosse di tipo duale: tra inglese e francese, sul
piano linguistico, tra cattolici e protestanti, dal punto di vista religioso, tra civil law e common law, in
materia di diritto».
314
Ibidem cit.
315
Alberta Press Case (1938) S.C.R. 10, quoted in D.A. Schmeiser, Civil Liberties in Canada (Oxford:
Oxford University Press, 1964), 201.
122
criminel316 relative all’odio razziale, con un risultato mitigato. Fino agli anni settanta
l’art. 181317 del codice in questione era l’unica disposizione che permetteva di agire per
diffamazione, con l’obiettivo di sedare i conflitti razziali: è in questo periodo e
precisamente nel 1966 che il Comitato speciale ha introdotto l’art. 319318, determinando
così la politica criminale dell’ordinamento canadese, politica finalizzata a porre un freno
alla libertà di espressione in relazione alle modalità con le quali essa si manifesta.
7. La “trilogia” delle corti canadesi a confronto: il caso Keegstra
I casi Keegstra, Taylor e Zündel meritano particolare attenzione all’interno della
giurisprudenza canadese, che in materia di negazionismo ha mostrato una sua
specificità; più in generale, l’assenza di una legge ad hoc in Canada ha reso
probabilmente più difficile la lotta al negazionismo. L’analisi giuridica relativa alle
disposizioni negazioniste deve, perciò, prendere le mosse dagli articoli 181 e 319 del
Codice penale canadese, di cui il primo proibisce la pubblicazione, in particolare, di
dichiarazioni storiche che l’autore sa essere false, ed il secondo fa riferimento
all’incitazione volontaria all’odio.
316
L.R.C. (1985), c. C-46, mod. par L.R.C. (1985), c 2 (1mo supp.).
Art. 181 codice penale canadese: «Est coupable d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement
maximal de deux ans quiconque, volontairement, publie une déclaration, une histoire ou une nouvelle
qu’il sait fausse et qui cause, ou est de nature à causer une atteinte ou du tort à quelque intérêt
publique».
318
Art. 319 Codice penale canadese :« (1) Quiconque, par la communication de déclarations en un
endroit public, incite à la haine contre un groupe identifiable, lorsqu’une telle incitation est susceptible
d’entraîner une violation de la paix, est coupable:
a) soit d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement maximal de deux ans;
b) soit d’une infraction punissable sur déclaration de culpabilité par procédure sommaire.
(2) Quiconque, par la communication de déclarations autrement que dans une conversation privée,
fomente volontairement la haine contre un groupe identifiable est coupable :
a) soit d’un acte criminel et passible d’un emprisonnement maximal de deux ans;
b) soit d’une infraction punissable sur déclaration de culpabilité par procédure sommaire.
(3) Nul ne peut être déclaré coupable d’une infraction prévue au paragraphe (2) dans les cas suivants :
a) il établit que les déclarations communiquées étaient vraies;
b) il a, de bonne foi, exprimé une opinion sur un sujet religieux ou une opinion fondée sur un texte
religieux auquel il croit, ou a tenté d’en établir le bien-fondé par argument;
c) les déclarations se rapportaient à une question d’intérêt public dont l’examen était fait dans l’intérêt
du public et, pour des motifs raisonnables, il les croyait vraies;
d) de bonne foi, il voulait attirer l’attention, afin qu’il y soit remédié, sur des questions provoquant ou de
nature à provoquer des sentiments de haine à l’égard d’un groupe identifiable au Canada.
(4) Lorsqu’une personne est déclarée coupable d’une infraction prévue à l’article 318 ou aux
paragraphes (1) ou (2) du présent article, le juge de la cour provinciale ou le juge qui préside peut
ordonner que toutes choses au moyen desquelles ou en liaison avec lesquelles l’infraction a été commise
soient, outre toute autre peine imposée, confisquées au profit de Sa Majesté du chef de la province où
cette personne a été reconnue coupable, pour qu’il en soit disposé conformément aux instructions du
procureur général…».
317
123
È nell’affaire Keegstra che la Corte Suprema si è pronunciata sulla delicata questione
della propaganda all’odio e sulla validità di una disposizione del Code criminel che
interdicendo tale genere di espressione, pareva, a dire della difesa, confliggere con il
paragrafo 2b) della Charte canadienne319.
Alla base dell’affaire Keegstra, infatti, risiede, la necessità di verificare la
costituzionalità dell’art. 319 del Code criminel, sez. seconda, il quale proibisce
l’istigazione volontaria dell’odio in conversazioni che non siano private e contro tutti
coloro che risultino diversi per razza, religione, colore ovvero origine etnico. “La libertà
di espressione vuol dire che non si può dire niente a nessuno? Se no, cosa si può dire e a
chi?” James Keegstra avrebbe chiesto insistentemente alla Corte Suprema del Canada di
rispondere a questi quesiti.
Keegstra, insegnante di scuola superiore è stato, infatti, condannato sulla base del § 130
del Criminal Code per aver fatto propaganda antisemitista ai suoi studenti, descrivendo
gli ebrei come “sovversivi”, “sadici”, “amanti del denaro”, appellandoli come inventori
dell’Olocausto per «ottenere simpatia internazionale», e pretendendo che gli stessi
allievi ripetessero le sue teorie, onde scongiurare il rischio di valutazioni negative in
ambito scolastico.
Orbene, quella stessa sentenza di condanna del 1985 per istigazione all'odio è stata
annullata tre anni dopo, quando la Corte d'Appello di Alberta ha decretato
l'incostituzionalità della legge che proibisce l'istigazione all'odio razziale. Il caso è stato
poi riaperto dalla Corte Suprema canadese nel 1990, e nel 1992 Keegstra è stato
condannato ad una multa di 2.640 dollari: accusato di aver violato il paragrafo 2
dell’art. 319, avrebbe sistematicamente denigrato gli ebrei durante le sue lezioni,
imponendo appunto, tale visione ai suoi allievi, i quali avrebbero dovuto accettare la
cosa, salvo dimostrare il contrario. Ma ben si può immaginare come uno studente
difficilmente disponga di conoscenze tali da confutare tesi del genere, né sia
intenzionato a farlo: sarà stata probabilmente questa anche la riflessione di coloro che
hanno condannato, non solo sui banchi dei tribunali, l’insegnante canadese. Se le
doglianze del docente si sono basate sulla palese contraddizione tra l’art. 319 sez.2 e il
paragrafo 2b) della Carta canadese, la decisione della Corte è stata emessa nel tentativo
di dimostrare che dichiarazioni tali da fomentare l’odio non sono contrarie a quanto
statuito dal paragrafo 2b), bensì rientrano in quelle limitazioni “ragionevoli” che
319
M.Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de
la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 75 ss.
124
possono essere giustificate in una società libera e democratica, alla luce dell’art. 1 della
Carta canadese320: la Corte, con riguardo alla fattispecie oggetto di causa ha statuito
che, al pari della libertà di espressione, sono valori tutelati costituzionalmente la
“multicultural diversity, human dignity and equality”; la propaganda “pericolosa” di
Keegstra avrebbe minato il rispetto dei gruppi razziali etnici e religiosi più di quanto
possa considerarsi espressione di freedom of speech, di talchè la punizione ex art. 319
(2)
delle
espressioni
dell’insegnante
avrebbe
rappresentato
una
limitazione
“raisonnable”.
Ed invero, il riferimento all’art. 1 della Carta canadese ha inevitabilmente scatenato la
difesa di Keegstra in argomentazioni in ogni caso rigettate dalla Corte: solo la prova
concreta che le espressioni proferite dal docente avessero ingenerato odio contro un
gruppo identificabile di persone, avrebbe giustificato la limitazione di cui all’art. 319
(2) ai sensi dell’art. 1 della Carta; in altri termini, secondo la difesa, sarebbe stato
proprio il carattere volontario della fomentazione richiesto nell’319(2) a restringere la
portata dell’articolo, esigendo la prova dell’intenzionalità dell’autore; la comunicazione
avrebbe dovuto effettivamente e non solo potenzialmente, generare dell’odio verso il
gruppo, di talché in assenza di una prova concreta sarebbe risultata priva di fondamento
la limitazione di cui all’art. 319.
A tali argomentazioni la Corte ha eccepito invece, che far riposare la restrizione della
libertà di espressione sulla prova dell’esistenza di un “odio effettivo”, avrebbe
significato non tener conto del grave trauma psicologico subito dai membri del gruppo
lesi dalla propaganda d’odio. Orbene, la Corte è giunta
alla conclusione che
l’accertamento circa lo “scatenarsi” di un odio effettivo non risulta necessario, essendo
il crimine di cui all’art. 319 (2) non solo finalizzato a punire l’incitamento all’odio, ma
anche il tentativo di metterlo in atto. Tenuto quindi conto dell’importanza che il
legislatore attribuisce alla prevenzione dell’odio, e tenuto conto della debolezza del
legame tra tale espressione e i valori di cui al paragrafo 2b), la Corte Suprema ha
concluso che l’articolo 319 (2) è giustificato e “costituzionalmente garantito” in virtù
dell’art. 1 della Carta canadese321.
320
Art. 1: «La Charte canadienne des droits et libertés garantit les droits et libertés qui y sont noncés. Ils
ne peuvent être restreints que par une règle de droit, dans des limites qui soient raisonnables et dont la
justification puisse se démontrer dans le cadre d'une société libre et démocratique».
321
M.Imbleau, La négation du génocide nazi, liberté d'expression ou crime raciste ? Le négationnisme de
la Shoah en droit international et comparé, cit., p. 134-141.
125
7.1 Il caso Taylor
Nell’’affaire Taylor322 ad essere stata adita è stata la Canadian Human Rights
Commission dopo lunghe e dibattute arringhe da parte dei ricorrenti nelle aule dei
tribunali canadesi: John Ross Taylor, leader del Wesern Guard Party e il restante gruppo
partitico, sono stati accusati di aver registrato ed invitato ad ascoltare un messaggio
telefonico che, salvo risultare “innocuo” in una prima parte, riportava per il resto
contenuti denigratori della razza e della religione ebraica. Nel 1979, le denunce contro
gli ideatori, sono state presentate dinanzi alla Commissione canadese per i diritti umani
che ha condannato gli ideatori del servizio dei messaggi a porre fine alla pratica,
costituendo i messaggi una attività discriminatoria ex art. 13 (1)323 della Legge canadese
sui diritti delle persone, articolo che inibisce proprio l’uso della conversazione
telefonica per questioni suscettibili di esporre all’odio e al disprezzo gli appartenenti a
un gruppo identificabile in base ai criteri di cui all’art. 3324. Nonostante la condanna, i
ricorrenti hanno continuato nella pratica discriminatoria, così che la condanna si è
inasprita, fino a 5.000 dollari di multa e ad un anno di reclusione per il leader del partito
John Ross Taylor. La Corte, anche in questo caso, ha ritenuto che non vi fossero dubbi
circa la compatibilità tra l’art. 13 paragrafo 1 della Legge Canadese sui diritti delle
persone, e le libertà di pensiero, di espressione, di opinione, garantite dall’art. 2 b) e
dall’art. 1 della Carta canadese. La Corte non ha escluso la portata denigratoria delle
comunicazioni registrate, volte a diffondere attraverso il mezzo di comunicazione
telefonica sentimenti di incitazione all’odio razziale o religioso; invitando il lettore a
consultare l’analisi esaustiva elaborata nel caso Keegstra, la Corte ha precisato che la
punizione di condotte lesive della libertà di espressione (tra cui quelle rientranti nel
disposto normativo dell’art. 13) risultava evidentemente giustificata nel contesto di una
322
John Ross Taylor and the Western Guard Party c Canada, Comitato dei diritti dell’uomo, Sélection
des decisions, vol. 2,25 (Doc. N.U. CCPR/C/OP/2), 1984-85.
323
Art. 13(1) della Legge canadese sui diritti delle persone : « Constitue un acte discriminatoire le fait,
pour une personne ou un groupe de personnes agissant d’un commun accord, d’utiliser ou de faire
utiliser un téléphone de façon répétée en recourant ou en faisant recourir aux services d’une entreprise
de télécommunication relevant de la compétence du Parlement pour aborder ou faire aborder des
questions susceptibles d’exposer à la haine ou au mépris des personnes appartenant à un groupe
identifiable sur la base des critères énoncés à l’article 3»
324
Art. 3 (1) Pour l’application de la présente loi, les motifs de distinction illicite sont ceux qui sont
fondés sur la race, l’origine nationale ou ethnique, la couleur, la religion, l’âge, le sexe, l’orientation
sexuelle, l’état matrimonial, la situation de famille, l’état de personne graciée ou la déficience. (2) Une
distinction fondée sur la grossesse ou l’accouchement est réputée être fondée sur le sexe. 3.1 Il est
entendu que les actes discriminatoires comprennent les actes fondés sur un ou plusieurs motifs de
distinction illicite ou l’effet combiné de plusieurs motifs.
126
società libera e democratica325: l’incitamento all’odio rappresenta una minaccia grave
per la società e un messaggio telefonico di odio, capace di dare all’ascoltatore
l’impressione di un contatto diretto, personale, quasi privato e non fornendo mezzi
realistici per contestare l’informazione o le opinioni presentate, ben rappresenta una
forma di incitamento all’odio. Occorre, secondo la Corte, che la libertà di pensiero sia
bilanciata con altri valori e, per questo, in una società democratica, i limiti imposti
dall’art. 13 risultano ragionevoli ai sensi dell’art. 1 della Carta.
7.2 Il problema del negazionismo online
La Canadian Human Rights Commission è stata chiamata a decidere se la pubblicazione
su un portale web di documenti negazionisti fosse suscettibile di essere considerata
discriminatoria alla luce dell’art. 13 (1) della Legge canadese. Si è così riportata in auge
la problematica relativa agli elementi necessari a violare l’art. 13 (1), l’assenza
eventuale di una effettiva trasmissione di sentimenti di odio razziale, o la
considerazione della sola probabilità che i destinatari dei documenti infamanti siano
suscettibili di essere esposti a tale sentimento. Se i precedenti in materia avevano
sempre accordato piena compatibilità tra i primi due articoli della Carta canadese e l’art.
13, nel 2009 l’orientamento maggioritario è stato sovvertito.
Ad essere dichiarato incostituzionale dalla Commissione Canadese dei Diritti Umani è
stato proprio il potere che la stessa si è avocato negli anni nel giudicare i reati
d’opinione su Internet, assolvendo così un imputato dalle accuse di “istigazione
all’odio”, come non aveva fatto mai prima di allora. In altri termini, offendere via web
ha trovato per la prima volta tolleranza anche nelle aule giudiziarie canadesi, poiché è
da ritenere incostituzionale una legge che regoli i reati d’opinione in quanto lesiva della
Carta dei Diritti dei canadesi sulla libertà di espressione. Non sarebbe quindi compito
dei tribunali essere coinvolti nella sorveglianza dei contenuti della rete, attraverso
325
Dall’altra parte i giudici dissenzienti furono dell’avviso che “La large portée de le paragraphe 13 (1)
ne satisfait à aucun des trois critères de proportionnalité ènoncès dans l’arrêt Oakes. Bien qu’il ne fasse
aucun doute que la prévention de la discrimination et le maintien de l’harmonie sociale et de la dignité
individuelle revêtent une importance capitale, et même si les expresions menaçant ces valeurs peuvent, en
certaines circonstances, être restreintes par le législateur, il n’en demeure pas moins pour ces juges que
la restriction doit être imposée d’une manière qui est raisonnable, proportionnée au mal et qui tient
compte du droit fondamental à la liberté d’expression”.
127
l’Articolo 13 della Legge Canadese sui Diritti Umani: «The guarantee to freedom of
speech has been gravely damaged by the extension of s. 13 to the Internet»326.
È nel giudizio contro Marc Lemire, webmaster di un sito estremista, che la
Commissione ha, infatti, statuito chiaramente che l’Articolo 13 viola il diritto
costituzionale alla libertà di espressione degli imputati, perché fornisce alla
Commissione Canadese dei Diritti Umani l’autorità di imporre pene a coloro che essa
ritenga colpevoli. Nel caso “de quo”, il 24 novembre del 2003 Richard Warman ha
citato in giudizio Marc Lemire, sostenendo la violazione da parte di quest’ultimo della
sezione 13 della Canadian Human Rights Act attraverso la pubblicazione di "messaggi
di odio" sul suo sito; la difesa di Lemire ha d’altro canto chiesto alla Corte di verificare
«the constitutionality of s. 13(1), that the provisions violated s. 2(b) of the Charter. In
doing so, he asked the Tribunal to revisit the decision of the Supreme Court of Canada
(“SCC”) in Canada (Human Rights Commission) v. Taylor, [1990] 3 S.C.R. 892 which
held that s. 13(1), as it then was, was a violation of s. 2(b) of the Charter but
nevertheless was constitutional as a reasonable limit within the meaning of s. 1».
Il 2 settembre 2009, il Tribunale per i diritti umani ha assolto Marc Lemire, sulla base
della incostituzionalità della Sezione 13 in riferimento al mezzo internet: dopo
l’imputazione di Taylor, nessun individuo che avesse invocato l’incostituzionalità della
sezione 13 era mai stato assolto. Alla base della motivazione di incostituzionalità
dell’art. 13, la Corte avrebbe precisato che, diversamente dal sistema dei messaggi
telefonici registrati, internet darebbe la concreta possibilità a chiunque sia stato vittima
di offese di utilizzare lo stesso mezzo per confutare, fornirebbe insomma ogni strumento
per contestare informazioni e per contro-argomentare le stesse. Ed invero, nel 1991 i
Giudici Supremi sarebbero stati costretti a condannare Taylor327 a causa della
mancanza, in riferimento al sistema dei messaggi registrati, di una “sede” appropriata in
cui confutare il contenuto del messaggio; orbene, il Presidente del Tribunale ha
precisato che i danni causati dall’ incitazione all’odio riconosciuti a carico di Taylor
326
Canadian Human Rights Tribunal, Marc Lemire c. Richard Warman, 2 settembre 2009, consultabile
integralmente
sul
sito
web
http://www.chrt-tcdp.gc.ca/aspinc/search/vhtmleng.asp?doid=981&lg=_e&isruling=0.
327
Canadian Human Rights Tribunal, Marc Lemire c. Richard Warman, cit. «Canadians can put up
websites, write comments on message boards or comment boxes, write essays which can be distributed on
websites or sent out by email or text messaging. Message boards and blogs give visitors the immediate
ability to respond to other messages with equal prominence as the original posting”. Kulaszka descrive
quest’unica violazione – per aver pubblicato un articolo, chiamato AIDS Secrets, scritto da un neo-nazista
statunitense e rivolto contro i neri e contro i gay – come “una discussione su questioni di pubblico
interesse riguardanti l’AIDS che non avrebbe dovuto essere sottoposta a censure».
128
esistono ancora in un contesto di comunicazione differente328: «There is no doubt that
the medium of the Internet is a democratizing medium which allows public discourse by
people who previously had no means to participate meaningfully in public debates or
issues. It provides every means of questioning information and of counter arguing, the
two vital factors missing in the telephone message context as noted by the majority
judgement in Taylor. Canadians can put up websites, write comments on message
boards or comment boxes, write essays which can be distributed on websites or sent out
by email or text messaging. Message boards and blogs give visitors the immediate
ability to respond to other messages with equal prominence as the original posting»329.
In altri termini, è stato rilevato in giudizio come sia potenzialmente inoffensivo un
mezzo interattivo e partecipativo come internet; sarebbe stata proprio la differenza tra la
comunicazione telefonica e quella su internet a rendere ormai superata la sentenza
emessa nel caso Taylor e la non adattabilità della stessa al caso di specie.
7.3 Il caso Zündel
Dopo aver pubblicato per più di vent'anni scritti dal carattere antisemita e filonazista,
Zündel, nel 1985, è stato accusato di diffondere consapevolmente notizie false sullo
sterminio degli ebrei e conseguentemente condannato a una pena detentiva di quindici
mesi, sulla base del § 181 del “Criminal Code” canadese, che punisce la pubblicazione
intenzionale di notizie false, nonché diffidato dal pubblicare materiale sull'argomento
della Shoah per almeno tre anni. Nel gennaio 1987 la Corte d'Appello dell’Ontario ha
annullato la sentenza sulla base di errori procedurali avvenuti durante il primo processo;
nel giugno dello stesso anno è stato avviato un nuovo processo durante il quale, in
difesa di Zündel, sono interventi testimoni del calibro di David Irving, Robert
Faurisson, Bradley Smith ed in particolare Fred Leuchter. In questo secondo processo,
avviato nel gennaio del 1988, in qualità di esperto di camere a gas ha deposto proprio
Fred Leuchter; dopo aver esaminato e analizzato campioni tratti dalle strutture di
328
Ibidem, «Because of this radically changed communications context, the analysis in Taylor regarding
the medium of the telephone is now utterly outdated in the determination under s. 1 of whether s. 13(1) is
a reasonable limit on freedom of expression. The questions must be asked: how does s. 13(1) affect
freedom of expression in a medium which is interactive and participatory and which contains the store of
knowledge of humanity? Does the harm caused by hate propaganda recognized by Taylor still exist in
such a communications context?».
329
Ibidem, cit.
129
Auschwitz l’esperto ha redatto un rapporto di 192 pagine330, che sarebbe divenuto una
delle basi cartacee fondanti delle tesi negazioniste. Secondo Leuchter, i locali
incriminati di aver ospitato e ucciso numerosi ebrei, non avrebbero potuto essere
utilizzati come camere di sterminio, in quanto nei campioni sarebbero mancate tracce
sufficienti dei residui di Zyklon B (acido cianidrico, utilizzato per le esecuzioni). A
causa dell'inaffidabilità del testimone, il c.d. rapporto Leuchter non è stato accettato
dalla Corte, così Zündel è stato nuovamente dichiarato colpevole e condannato dalla
Corte d'appello nel maggio del 1988, questa volta a nove mesi di carcere. A seguito
della condanna in primo grado del noto editore è stata adita la Corte Suprema (1992)
affinché giudicasse sulla legittimità della norma del “Criminal Code”, volta a violare,
secondo l’accusa, la “freedom of expression”, senza rientrare in uno dei “reasonable
limits” previsti dall’art. 1 della Carta canadese. È accaduto proprio in questa circostanza
che la Corte ha dichiarato incostituzionale la legge che proibisce la diffusione di notizie
false, prosciogliendo definitivamente Ernst Zündel sulla base di una incompatibilità tra
l’art.181 e la sezione 2b) della Canadian Charter of Rights and Freedoms.
La Corte infatti nel caso R. c. Zundel ha stabilito che la section 2 della “Charter”
canadese, proteggendo tutte le manifestazioni di pensiero non violente e considerando
irrilevante il loro contenuto, avrebbe inevitabilmente finito per includere anche le
opinioni minoritarie o asseritamente false; e in più la repressione di quelle espressioni
che causano un danno ovvero un’offesa ad un interesse pubblico, non sarebbe stata
giustificata nemmeno dalla “section” 1 della Carta dei diritti e delle libertà.
L’argomentazione principale volta a dichiarare incostituzionale l’art. 181 del codice
penale canadese ha preso le mosse dalla netta distinzione tra il contenuto di un semplice
messaggio o di un’ opinione anche a sfondo propagandista, e un atto di violenza. Solo in
questo secondo caso interverrebbero i limiti “ragionevoli” di cui all’art. 1 della carta
canadese; diversamente la Corte ha ritenuto, in presenza di semplici opinioni
“dissenzienti” la non compatibilità dell’art. 181 con l’art. 1 della Carta.
La sentenza in esame, lungi dal costituire un passo indietro nella repressione del
negazionismo, è emblematica del modus procedendi della Corte Suprema canadese, la
quale ha dimostrato la capacità di valutare la reale portata dei limiti applicabili alla
libertà di manifestazione del pensiero attraverso quel bilanciamento tra interessi
330
Il rapporto venne pubblicato con una prefazione di Robert Faurisson: The Leuchter Report: An
Engineering Report on the Alleged Execution Chambers at Auschwitz, Birkenau, and Majdanek Poland.
Samisdat Publishers Ltd. 1988.
130
contrapposti tanto dibattuto: il fatto che la portata di un messaggio possa incitare
all’intolleranza non rappresenta una ragione sufficiente per giustificare il venir meno
della garanzia della libertà di espressione. L’indirizzo favorevole alla libertà di
manifestazione del pensiero che caratterizza la sentenza canadese appena citata appare
invero isolato nell’ambito della giurisprudenza nazionale e sovranazionale che si è
occupata di negazionismo, in essa prevalendo una spiccata adesione alle ragioni della
repressione e al sotteso intento di difendere valori ritenuti irrinunciabili e fondanti.
8. Il fenomeno dell’ “adversarial legalism” e la “hearsay rule”
Gli “orrori” dell’Olocausto e i numerosi episodi di “pulizia etnica” verificatisi durante
la seconda guerra mondiale hanno costretto nell’ultimo ventennio i giudici ad essere
sempre più spesso interpellati tanto nelle ipotesi in cui ad essere sottoposta alla gogna è
stata una verità storica “beffeggiata” da espressioni o scritti negazionisti, quanto nel
caso in cui i discendenti delle vittime di un crimine aberrante del passato hanno deciso
di rivendicare i propri cari, chiedendo ai giudici ingenti ricompense economiche, di cui
si dirà meglio nel prossimo capitolo. Tanto nella prima ipotesi, quanto nella seconda, i
tribunali di “common law” si sono nettamente distinti nella risoluzione delle
controversie; e non è un caso che gli stessi ricorrenti abbiano e continuino a prediligere
in particolare le aule giudiziarie americane, per una serie di caratteristiche “allettanti” e
favorevoli alle vittime della storia, o ai discendenti delle stesse, e riconducibili al
sistema dell’adversarial legalism che tratteggia la cultura americana.
L’unicità del sistema nordamericano è messa in risalto dalla presenza di leggi cogenti e
forse più dettagliate rispetto ad altri ordinamenti, nonché dalla esistenza di un modello
processuale caratterizzato dal fenomeno dell’adversarial legalism, un modo di essere
dell’”american exceptionalism”331; un fenomeno per altro che agli occhi di molti
europei potrebbe sembrare talvolta una degenerazione del contraddittorio, talvolta un
modello da seguire in molti campi, dal processo civile a quello penale. Per adversarial
legalism si intende la definizione dell’indirizzo e delle scelte politiche, la risoluzione
delle controversie per mezzo di un processo dominato dagli avvocati, un sistema
giudiziario, insomma, in cui l’apporto delle parti al processo è dominante, sia nella fase
331
In questo modo definisce l’adversarial legalism, R. Kagan, Adversarial Legalism. The American Way
of Law ,Cambridge (Mass.) 2001, pp. 61 ss. , 99 ss.
131
di
impulso,
sia
in
quella
di
costruzione
e
argomentazione
delle
prove.
In linea di principio, il fulcro del sistema processuale nordamericano risiede nella fase
dibattimentale, dominata dall'iniziativa probatoria delle parti (adversary system) e
concentrato in un'unica udienza davanti ad un giudice che ha la sola funzione di
garantire la correttezza del contraddittorio e il rispetto delle norme di procedura, ma
privo di poteri istruttori, il cui ruolo è principalmente quello di garantire che le parti
rispettino le norme332. Da un punto di vista prettamente pratico, tuttavia, solo una
minima parte delle cause portate davanti ad un tribunale si protrae sino al dibattimento:
la maggior parte viene risolta nella fase predibattimentale, in via transattiva. È proprio
in questa fase che gli avvocati si preparano e preparano i testimoni al dibattimento,
entrando in possesso, attraverso una serie di attività istruttorie, delle informazioni e dei
documenti probatori intorno ai quali si svolgerà il trial. Aspetto decisamente
interessante di questa fase del processo è la possibilità per gli avvocati di intrattenere
intensi rapporti con i testimoni in assenza del giudice333.
Il caso R. v. Zündel riflette proprio l’impianto processuale accusatorio canadese,
(sebbene il Canada pur adottando un modello processuale adversarial, non sia un paese
connotato dall’adversarial legalism): uno degli elementi che contraddistingue il trial dei
sistemi di common law, caratteristica per altro giustificata proprio dalla presenza della
giuria, è quello di escludere l’ammissibilità delle prove scaturite dal “sentito dire”,
rendendo così indispensabile, salvo alcune eccezioni, che il testimone dia prova
sufficiente a far concludere che egli abbia personale conoscenza dei fatti, vietando
invece di deporre sulla c.d. “hearsay rule”, è questa una delle norme di correttezza
legale del sistema, ai sensi della quale non è ammessa in giudizio la prova di fatti di cui
il testimone non abbia conoscenza diretta.
Ed invero, la prova documentale, nei sistemi di common law non ha la forza
riconosciuta negli ordinamenti europei, così che, per la predilezione all’oralità del
processo, per la presenza “incombente” della hearsay rule, e per evitare che la giuria
incorra in una serie di errori tecnici di valutazione, il giudice può anche non ammettere
la prova documentale.
Proprio nell’affaire Zündel si è fatto “ricorso” all’ hearsay rule: così sei sopravvissuti
all'Olocausto hanno testimoniato al primo processo Zundel. Tali testimoni erano stati
332
L. Moccia, Comparazione giuridica e diritto europeo, cit. p. 537 e ss.; V. Varano – V. Barsotti, La
tradizione giuridica occidentale, vol. I, Giappichelli 2006, p. 320 ss.
333
R. A. Kahn, Holocaust denial and the law. A comparative Study,cit., 23 ss.
132
scelti con cura, al fine di dimostrare di aver visto, con i propri occhi, preparativi e
procedure di gassazioni omicide. Orbene, per la prima volta, a Toronto, nel 1985
l’avvocato Douglas Christie, ha controinterrogato i sopravvissuti chiedendo loro
spiegazioni dettagliate, munendosi di carte topografiche e mappe degli edifici. Durante
l’interrogatorio l’avvocato ha sollevato ripetutamente “hearsay objections”334: nessuno
di questi testimoni ha resistito alla prova, e qualcuno di loro ha addirittura ammesso che
per quel che riguardava le gassazioni si era attenuto solo a dei "si dice", voci che
insomma gli internati, testimoni oculari nel processo contro Zündel avevano ascoltato,
ma non avevano verificato direttamente di persona. I presunti testimoni oculari dei
campi di sterminio sono stati costretti a correggere le loro testimonianze, poiché
contraddittorie o palesemente false nel processo del 1985 e addirittura a
non
ripresentarsi nel nuovo processo del 1988.
Sono state le caratteristiche del modello processuale adversarial in particolare
americano, ad aver facilitato l’”ingresso” delle vittime della storia nelle aule dei
tribunali, questa volta con la pretesa di riavere indietro quanto, in termini di denaro,
forza lavoro e vessazioni ha costituito in passato un “ingiustificato arricchimento” a
favore di terzi.
334
R. A. Kahn, Holocaust denial and the law. A comparative Study,cit. p.. 47 e 48 si fa riferimento ad una
eccezione che l’avvocato Christie oppose al giudice durante l’interrogatorio ad uno dei sopravvissuti: «Q:
Did the status of the Jewish families in that village change at some time in 1944? A: Yes. Around Jewish
Passover there was information given to us by the police… MR. CHRISTIE: Your Honour, this
obviously, I believe, is trying to inquire into the truth, and if we get into the realm of information given
by the police or given by somebody else, we end up in the position of having to face hearsay, which we
can’t test the validity of».
133
Capitolo V
“HOLOCAUST LITIGATION”: IL CONTENZIOSO CIVILE IN MATERIA DI
OLOCAUSTO
1. Dai “tribunali della storia” alla storia nei tribunali: la recente
inversione di tendenza. Common law e civil law a confronto.
Nel crescente percorso di “giuridificazione” della storia di cui ci stiamo occupando,
l’ultimo stadio, ad oggi, è rappresentato da quella che si può considerare un’ inversione
di tendenza rispetto al passato, rispetto alla stessa prima fase, un cambio di rotta di un
cammino comune verso la rilettura della storia in termini di “diritto della storia”.
Se nella prima fase della “giuridificazione” della storia era “prassi” provvedere alla
“regolamentazione dei conti” dinanzi ai c.d “Tribunali della Storia”, tra tutti il Tribunale
internazionale militare di Norimberga, la situazione oggigiorno si è evidentemente
capovolta: la storia ha abbandonato le aule dei tribunali internazionali/penali a favore
del ricorso al diritto civile, con la pretesa che i giudici contribuiscano ad una riscrittura
del passato, dopo aver sottoposto la storia stessa ad accertamento giudiziale.
Nel presente capitolo si illustrerà una tendenza, che va
ormai affermandosi nel
panorama giurisprudenziale internazionale, relativa all’uso della responsabilità civile
per la riparazione di illeciti di massa di rilevanza storica.
Sono stati proprio gli effetti positivi del legal system americano descritto nel precedente
capitolo, effetti per altro favorevoli ai ricorrenti dei processi che “mettono alla gogna”
gli errori della storia, ad aver creato un ricorso forse eccessivo alle aule dei tribunali
americani.
I danni derivanti dalla storia, la lesione alla dignità e all’identità personale degli
individui non sono la conseguenza del solo sentimento negazionista evocato da più
parti; ad essere resa giustiziabile “monetariamente” negli ultimi tempi è la storia in sé,
le ferite dello spirito, la sofferenza derivante dalla tragicità del passato, dalle atrocità
della storia umana, il sistematico annientamento di interi gruppi umani, di classi sociali,
di popoli; tali rivendicazioni fino a qualche tempo fa non erano certo presenti nello
scenario giuridico civilistico, perché ritenute “insanabili” e irreparabili dal punto di
vista monetario.
La tendenza che ha preso corpo, volta a ricorrere a riparazioni economiche un tempo
impensabili è in larga parte riconducibile alle peculiarità del sistema processuale
134
americano. Numerosi sono, infatti, gli elementi di cui il resto dell’occidente non
dispone: dall’esistenza in America delle class action, garanzia di uniformità di risultato
per vittime e imputatati, (azioni queste che trovano solo modelli nettamente differenti in
altri Stati, tra cui quello italiano), all’esistenza dei punitive damages335, dal ruolo
riconosciuto alle giurie di assegnare con ampia discrezionalità vaste somme di denaro a
titolo di risarcimento336, alla rapidità del processo e alla discovery337 sconosciuta in
Europa, che ben può essere esperita anche in fase predibattimentale al fine di soddisfare
il diritto di ogni parte ad ottenere che l'altra presenti in giudizio tutti i documenti
afferenti al rapporto litigioso; dal ruolo svolto dalla diplomazia e dalla politica
americana che ha esercitato forti pressioni al fine di decidere o in un senso o nell’altro,
quindi non sempre a favore dei “più forti”, ma anche a favore delle vittime, alla volontà
non sempre presente negli Stati europei di fare i conti con questioni verificatesi anni
addietro, e ai maggiori rischi che tendenzialmente gli avvocati americani assumono,
coperti dallo scudo della “contingency fee” , in virtù della quale in caso di insuccesso il
cliente non è tenuto a versare nulla al legale. E se il giudice americano è diventato il
giudice per eccellenza degli avvenimenti del passato, se le Corti Americane hanno
ampliato i confini morali della responsabilità e se alcuni clienti derubati nei parcheggi
dei centri commerciali talvolta hanno ottenuto un indennizzo sostenendo che
l’amministrazione avrebbe dovuto farvi stazionare agenti privati di sicurezza338, non
può stupire che anche la storia abbia “prediletto” le Corti americane. E tutto questo
335
G. Ponzarelli, I punitive damages nell’esperienza nordamericana, in Rivista di diritto civile, 1983, I,
pp. 435 – 487; I punitive damages nell’ordinamento italiano, in Seminari di diritto privato comparato, a
cura di P. Pardolesi, Bari, 2011, 59; A. Grassi, Danni punitivi, in Il foro Riminese, n. 4/99, pp. 15 – 16.
Tutti gli autori sono concordi nel ritenere che la condanna ad una ingente somma di denaro rappresenti un
deterrente da utilizzare non solo nei confronti del condannato, ma anche nei confronti dell‘intera
comunità, al fine di inibire la comunità dal commettere comportamenti simili.
336
Per una approfondita disamina della nascita della giuria in Inghilterra e della diffusione della “pratica”
dalla madrepatria agli Stati Uniti d’America, cfr. L. Moccia, Comparzione giuridica e diritto europeo,
Giuffrè 2005, p. 269-282. Nel testo si fa riferimeno, inoltre, alle critiche mosse al trial by jury inglese, tra
le quali rientra proprio il carattere immotivato dei verdetti. Si tratta di obiezioni che ben possono
estendersi agli Stati Uniti d’America, e dalle quali oggigiorno l’Inghilterra si sottrae per il marginale
intervento della giuria nel processo inglese.
337
J. Hazard-Leubsdorf, Civil procedure, V ed., New York, 2001, 290 ss. Questi gli strumenti della
discovery.:
-«le depositions, con le quali si ha la raccolta, in genere orale, delle dichiarazioni rese dalla controparte e
dal terzo;
-gli interrogatories attraverso i quali si pongono domande scritte alla controparte;
-le richieste di produzione di documenti e di accesso a luoghi di proprietà della controparte al fine di
svolgere ispezioni, fare copie di documenti o fotografie o compiere esperimenti;
-l’ispezione fisica o mentale della controparte e di terzi;
-la richiesta di ammissioni, con la quale si chiede alla controparte di ammettere la verità di determinati
fatti».
338
R. A. Kagan, La giustizia americana. Come il contraddittorio fa il diritto, Il Mulino 2009, p. 242.
135
sempre attraverso un uso massivo della responsabilità civile al fine di “chiudere i conti
con la storia”339.
In maniera forse inaspettata, anche l’Italia sta facendo i conti con la sua storia e con le
ferite riportate, e anche con esiti altrettanto inattesi, soprattutto a tratti originali: la Corte
di cassazione italiana ha infatti statuito la necessità di sottoporre alla giurisdizione dello
Stato, i Paesi stranieri autori di crimini internazionali.
Due sono le problematiche che verranno affrontate nel corso del capitolo in tema di
risarcimenti a carico in particolare, della Repubblica federale tedesca: in primis, alla
elusione sic et simpliciter dell’ostacolo della immunità sarà eccepito dagli Stati il
contenuto dell’art. 77 comma 4° del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 in cui l’Italia
ha rinunciato, a nome proprio e dei suoi cittadini, a qualsiasi domanda di risarcimento
per fatti accaduti in tempo di guerra: “Senza pregiudizio di tali disposizioni e di quelle
altre disposizioni che fossero adottate in favore dell'Italia e dei cittadini italiani dalle
Potenze che occupano la Germania, l'Italia rinuncia, a suo nome e a nome dei cittadini
italiani, a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla
data dell'8 maggio 1945, salvo quelle risultanti da contratti o da altre obbligazioni che
fossero in forza, ed ai diritti che fossero stati acquisiti, prima del 1º settembre 1939.
Questa rinuncia sarà considerata applicarsi ai debiti, a tutte le ragioni di carattere
interstatale relative ad accordi conclusi nel corso della guerra e a tutte le domande di
risarcimento di perdite o di danni occorsi durante la guerra.”. Nonostante gli accordi
pregressi, le Corti non rinunceranno ad accordare risarcimenti alle vittime delle stragi
del passato, con motivazioni alle volte eccepibili.
Dall’altro lato, nei tribunali, tanto italiani quanto stranieri, si “discorrerà” anche di
prescrizione, altro ostacolo ai risarcimenti per le ferite della storia, che gli Organi
giudicanti tratteranno in maniera differente.
2. Si può riparare la storia?
L’idea che i pregiudizi derivanti da eventi storici possano trovare riparazione in sede
civile è una concezione affermatasi in occasione di una controversia relativa alle class
action promosse negli anni 90 negli Stati Uniti, da associazioni di ebrei americani
contro banche svizzere prima, altre imprese, o Stati europei poi. Una sorte simile è
339
Dal titolo della versione italiana del libro di A. Garapon, Chiudere i conti con la storia,
Colonizzazione, schiavitù e Shoah, Raffaello Cortina Editore, 2009.
136
quella che ha visto protagoniste le banche israeliane, alcune delle quali, anziché
impegnarsi nella restituzione dei fondi ai legittimi titolari, hanno continuato a
conservare in deposito le giacenze di oltre 3.500 ebrei d'origine europea, vittime
dell'Olocausto. Come rileva Garapon340, una volta consolidatasi l’idea di utilizzare ogni
risorsa del diritto civile al fine di ottenere riparazioni per i c.d. pregiudizi della storia,
ancora più immediato sarebbe il ricorso in sede civile per i danni morali conseguenti ad
una offesa all’onore e al decoro di una vittima dell’Olocausto, ovvero di un discendente
della stessa. Di non poco conto è la novità di tale ondata: una “giurisdizionalizzazione”
della storia ha preso corpo, e così, mettendo da parte il diritto internazionale penale, il
diritto civile è stato investito di un ruolo rilevante anche in vicende, quali appunto i
crimini della storia, fino a poco tempo fa estranei a tale branca. Generalmente meno
esposti all'attenzione dei media, più tecnici e meno spettacolari del processo penale, i
procedimenti civili hanno cominciato a svolgere un ruolo importante nella giustizia
mondiale, riflettendo la tendenza generale di espansione del diritto civile a fattispecie
che in passato risultavano ad esclusivo “monopolio” del diritto penale.
Quando indietro non si può tornare, quando non è possibile punire personalmente i
responsabili attraverso una specifica sanzione afflittiva perché gli stessi sono da tempo
deceduti, risarcire i discendenti delle vittime sembra essere l’unica possibile risposta
volta a chiudere i conti con la storia e a riallacciare il legame con le generazioni
precedenti nei cui confronti i “debiti” non sono stati ancora sanati. Il ricorso alle aule
giudiziarie, se garantisce alle vittime la proclamazione sociale delle loro sofferenze, il
riconoscimento del dolore subito, il conferimento di uno “status sociale”, incorre nel
rischio evidente di una banalizzazione del male di cui sono state vittime. In tempi
recenti quindi, una giustizia penale internazionale è stata sostituita, o meglio affiancata,
(non potendo tante volte privare della libertà fisica il responsabile), dall‘impiego del
diritto privato nelle richieste di Réparation341 dei danni prodotti dalla storia. É questa
340
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, Odile Jacob, 2008, p.27. A
conclusione della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e le organizzazioni di ebrei americani chiesero
che il denaro delle vittime dell’Olocausto, depositato presso conti correnti svizzeri fosse restituito agli
aventi diritto. Nell’autunno del 1996 fu proposta una class action contro le banche svizzere e nel 1999, la
Commissione Volcker stabilì che, su un totale di 6858 milioni di conti accesi tra il 1933 e il 1945 restava
traccia di 2.5 milioni soltanto, e in seguito ad intense negoziazioni si giunse all’accordo globale tra
associazioni americane e banche svizzere per la cifra di 1,25 miliardi di dollari. Ottenuto il responso, le
organizzazioni ebree americane convennero di versare più di un terzo di tale somma ai superstiti dela
persecuzione nazista, o ai loro eredi, respinti a quel tempo verso la frontiera svizzera, nonché alle vittime
del lavoro forzato durante il Terzo Reich.
341
Ibidem, p.76. Un’attenta analisi dell’autore Garapon mostra come il termine francese réparer, verbo
caratterizzante il titolo dell’opera e presente in maniera ricorrente nel testo, venga utilizzato in un’ottica
137
un’epoca che riserva al diritto penale un ruolo secondario, nonostante allo stesso sia da
sempre attribuito un maggiore “peso specifico” rispetto al diritto civile, per via della sua
attinenza all’ordine pubblico, ovvero per la sua incidenza sulla libertà delle persone e
sui valori morali. La novità dei recenti tentativi di “riparare la storia” s’incentra, quindi
e, stranamente, potemmo dire, sul diritto civile, una branca giuridica che presta
attenzione all’atto, ai beni, al denaro senza guardare troppo spesso all’autore e alla sua
intenzione, che non incorre nel rischio di una dispersione di prove, essendo sufficiente
nel processo civile l’aver subito un danno; così nessuna complicazione affiora se la
distanza tra gli accadimenti storici e la richiesta delle pretese è notevole. E se la
giustizia penale si scontra con la difficoltà di trovare pene proporzionate alla gravità dei
crimini commessi, la giustizia civile si serve del denaro come di un equivalente
universale, suscettibile di rendere fungibili i beni più eterogenei. Si guarda al processo
civile come allo strumento più utile a tal fine e, nonostante la consapevolezza che buona
parte delle azioni potrebbe fallire per l’impossibilità di calcolare l’ammontare
dell’indennizzo, lo strumento della responsabilità civile continua ad essere invocato al
fine di reintegrare le parti fin dove possibile, convertendo il danno in una somma di
denaro.
Il ricorso alla responsabilità civile in più, presuppone il riconoscimento in capo agli
individui della qualità di soggetti di diritto, prerogativa che permette agli stessi di essere
titolari di un patrimonio, parte di rapporti giuridici e destinatari delle norme
dell’ordinamento a cui gli individui appartengono: le vittime vengono in questo modo
considerate esseri umani; le violenze, le spoliazioni invece, sono state condotte nei
confronti di individui ritenuti oggetto, ecco perché i beni di loro proprietà sono stati
facilmente suscettibili di alienazione. Nel suo scritto "Dei delitti e delle pene", Cesare
Beccaria affermava che "non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in
alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa"342.
È l’espressione “Holocaust Litigation” ad aver prestato il nome al profluvio di azioni
civili che fanno capo a vittime della Shoah; azioni che hanno avuto particolare enfasi
verso la fine degli anni 90 principalmente proposte attraverso class action, negli Stati
Uniti e non solo, da parte di attori di diversa nazionalità, contro convenuti anch’essi di
di comparazione con il più circoscritto restituer, il primo dal significato ben più ampio, in quanto oggetto
della stessa riparazione è un bene immateriale al quale porre rimedio, valutando i danni causati in termini
economici di un passato sofferto a causa della vera e propria distruzione di una cultura. Riparare è inteso
nel senso di indennizzare non le conseguenze di un evento concluso, ma l’attualità della sofferenza.
342
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Einaudi, 2003, cap.X.
138
diversa nazionalità343. Il fondamento comune delle class action risiede nella
contestazione di un illecito commesso ai danni di persone vittime dell’Olocausto, azioni
che nel contempo implicano violazioni di diritti umani.
Variegate sono le forme assunte dagli illeciti, nonché eterogenea è la casistica: alle
ipotesi di responsabilità extracontrattuale si affiancano casi di ripetizione d’indebito,
invocazione del diritto dei consumatori344 e perdita di chance. In quest’ultimo caso
bisognerebbe immaginare come si sarebbero comportate le vittime in un futuro
prossimo e che tipo di esistenza avrebbero condotto. Figurano inoltre ipotesi di
arricchimento senza causa: è il caso degli istituti bancari svizzeri accusati di illecita
distrazione dei fondi depositati da parte di persone perite nell’Olocausto, per aver
collaborato e aiutato il regime nazista a sostegno e occultamento dei beni delle vittime
dell’Olocausto, e per essersi impadroniti dei profitti del lavoro forzato.
Se l’espressione “Holocaust Litigation”fa riferimento ai soli contenziosi in materia di
Shoah, le iniziative giudiziarie basate su un’ istanza di riconoscimento non sono state
poche: sulla scia delle vittime dell’Olocausto hanno intrapreso la via civile anche le
vittime della schiavitù, gli Aborigeni d’Australia vittime dell’occupazione delle terre, le
donne coreane vittime di prostituzione, i giovani autoctoni di origine indiana in Canada
vittime di rieducazione forzata, etc. Il ricorso ai tribunali civili non ha “risparmiato”
neppure gli eredi del genocidio turco, gli schiavi americani, i prigionieri di guerra
(contro società multinazionali in particolare compagnie petrolifere accusate a vario
titolo di aver collaborato o di complicità con regimi militari in Nigeria, Indonesia
durante il regime coloniale), i lavoratori Messicani i quali, impiegati durante la seconda
guerra mondiale non hanno mai ricevuto un pagamento completo, le “comfort women”
giapponesi durante la seconda Guerra Mondiale, gli schiavi utilizzati dai giapponesi in
tutta l’Asia, le vittime dell’Apartheid africana, i discendenti degli schiavi americani: in
tutti questi casi le pretese dei “ricorrenti” hanno seguito il modello della Holocaust
Litigation, il nucleo delle atrocità del passato, chiedendo una conciliazione laddove
343
H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge
américain: réflexions à partir des actions en justice des victims de l’Holocauste devant les tribunaux des
États-Unis, in Revue internationale de droit comparé, 4, 2003, p. 885.
344
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 110-112. Si tratta del
caso Nike, una class action intentata negli Stati Uniti per la riparazione dei danni da schiavitù. Il processo
accusò la Nike di violare il codice della California sulla concorrenza sleale. Le accuse rivolte contro la
Nike riguardavano il fatto che il pubblico dei consumatori fosse stato fuorviato riguardo alle condizioni
dei lavoratori, il danno sarebbe così derivato da «l’achat de quelque chose qu’ils n’auraient pas acheté
s’ils avaient su la vérité à propos du produit».
139
possibile345.
La riconsiderazione nell’attualità di questi avvenimenti, già memorabili di per sé, ci
induce a riflettere tanto sul cambiamento del sistema giudiziario, quanto sulla
“politicizzazione” delle reintegrazioni monetarie. E se negli anni 90 “qualcuno” ha
cambiato la storia delle riparazioni post-belliche, cominciando così ad intentare decine
di cause civili a favore delle vittime del nazismo, il risultato, oltre all’esborso
complessivo da parte di Paesi come Austria, Germania, Francia, Belgio di circa 8 bilioni
alle vittime in questione e ai rispettivi eredi346, è stato rappresentato dalla speranza di far
sì che anche le vittime di altre atroci persecuzioni, potessero cominciare a riporre le
proprie speranze in un sistema giudiziario privato. I giudici di diritto privato sono stati
così chiamati a “s’impliquer dans l’histoire”347.
Solo brama di denaro? E anche se così fosse, fino a che punto sarebbe lecito
“scandalizzarsi”? Se le vittime di comportamenti dolosi o gravemente colposi
dispongono di azioni civili per porre rimedio ad un danno patrimoniale e non
patrimoniale scaturente da fatto illecito, perché i sopravvissuti alla storia o i discendenti
degli orrori del passato non dovrebbero far ricorso alle stesse azioni invocate dalle
vittime di altre catastrofi?
La base comune dei giudizi, per altro intentati sotto forma di class action, risiede nel
fatto che in tanti casi la risoluzione degli stessi è avvenuta attraverso una transazione,
per il tramite, cioè, di provvedimenti di natura legislativa adottati in chiave politica e
diplomatica, molto spesso accompagnati o preceduti dall’istituzione di una fondazione
da parte degli Stati chiamati in causa e/o dalle industrie coinvolte per la ripartizione dei
fondi a titolo di risarcimento monetario, (da pagare al termine del contenzioso): si sta
parlando tanto di organizzazioni caritatevoli, quanto di euro simbolici e di strumenti
volti a dissociare il denaro dal suo proprietario. Sono state così raggiunte, nella maggior
parte delle ipotesi, accordi tali da eludere la fase dibattimentale del processo intentato,
probabilmente perché, diversamente sarebbe stato sollevato il non trascurabile problema
relativo all’assenza, nel tempo in cui la condotta veniva portata a compimento, di un
345
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 25 ss.
I casi recenti di “Holocaust-Era” sono stati trattati da Michael J. Bayzler, in The Holocaust
Restitution Movement in Comparative Perspective, (Paper presented at the Association of Genocide
Scholars Fourth Biennial Conference – June, 2001
Minneapolis ) disponibile al sito web
http://www.global-alliance.net.
347
H. Muir Watt, Privatisation du contentieux des droits de l’homme et vocation universelle du juge
américain, cit., p. 883.
346
140
divieto esplicito a commettere il reato, ovvero di norme incriminatrici in tal senso348.
Non sono mancati nella risoluzione dell’innovativa ondata di controversie “storiche”,
problemi processuali relativi ad accordi sulle riparazioni “contenutisticamente distanti”
dalla legittimazione a chiedere risarcimenti economici; problematiche altrettanto
discusse hanno riguardato l’originalità del ricorso al circuito giudiziario in questo tipo
di controversie, a seguito dei numerosi trattati siglati, a norma dei quali la maggior parte
degli Stati si impegnava a non reclamare danni e interessi relativi in particolare alle due
guerre mondiali.
Se i fatti oggetto di litigation riguardano eventi collocati temporalmente ad una certa
distanza dai giorni nostri, è assai difficile individuare un legame tra i responsabili di tali
pratiche e le vittime, tanto che la principale obiezione in giudizi simili è consistita
proprio nella dichiarazione di estraneità di coloro che sono convenuti in giudizio per
fatti essenzialmente “vecchi”. Trattandosi poi di azioni che trovano tante volte, come
già anticipato, il loro fondamento nella responsabilità extracontrattuale ovvero di
inadempimento contrattuale, il problema della prescrizione non risulta affatto
trascurabile.
È nel caso delle banche svizzere349 che sono stati tratteggiati gli elementi che saranno
poi richiamati nelle cause successive, giudizi che coinvolgeranno per esempio banche
tedesche, austriache e francesi, e in “litigation” susseguenti, in cui verranno rivendicate
diverse violazioni perpetrate sempre in epoca di Olocausto: dal lavoro forzato ad
episodi di complicità con il regime.
Non pochi problemi emergono però quando si chiede al Tribunale di valutare i danni
concernenti un bene immateriale, le sofferenze patite, l’inestimabile prezzo della vita.
Fino a quando ci si rivolge alle banche svizzere per la restituzione del denaro
ingiustificatamente detenuto, o si riconosce agli aborigeni australiani il diritto di
proprietà sulle terre, o ancora si identifica come ingiusta l’espropriazione ai danni dei
348
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 185. L’espressione
“femmes de réconfort”, indica giovani donne provenienti da Filippine, Thailandia, Vietnam, Corea del
Nord e altri paesi sottoposti all’occupazione giapponese, ridotte in schiavitù sessuale dai soldati
giapponesi durante e dopo la II guerra mondiale. Gli abusi avevano luogo nelle c.d. “stazioni di conforto”
istituite dalle autorità giapponesi nei territori di volta in volta occupati. La maggior parte delle
sopravvissute è rimasta in silenzio fin quando un piccolo gruppo di vittime coreane non ha parlato
apertamente, all’inizio degli anni ‘90. Le scuse offerte dal Giappone sono apparse inadeguate, vaghe e
inaccettabili e il Fondo istituito per le donne asiatiche non soddisfa i criteri internazionali sul
risarcimento, così che e' stato percepito dalle sopravvissute come un modo per “comprare il loro
silenzio”.
349
Ibidem, p. 26 ss.A conclusion della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e le organizzazioni di
ebrei americani chiesero che il denaro delle vittime dell’Olocausto depositato presso conti correnti
svizzeri fosse restituito alle famiglie delle vittime
141
Sioux per costringerli a vendere le terre contenenti giacimenti d’oro prima delimitate a
loro favore, la monetarizzazione sebbene sindacabile appare più semplice da
quantificare. Ma quale ammontare dovrebbe corrispondere ad una vita stroncata, come
nel caso degli ebrei deportati nei campi di concentramento ovvero della strage di
Civitella? Così come non esistono neppure somme congrue che possano restituire alle
Stolen Generations350, l’infanzia perduta.
Ed invero, alla base di questo flusso di richieste economiche, c’è sempre dell’altro,
diversamente non si spiegherebbe come mai, in alcuni casi giudiziari relativi proprio al
risarcimento dei danni della storia, a riconoscimento ottenuto, il denaro non sia stato
accettato ovvero sia stato donato. Alla base quindi, non una frenesia di riparare i danni
subiti attraverso una monetizzazione tendenzialmente inutile a riportare le vittime nel
loro rispettivo status quo ante, ma il desiderio di vedere riconosciute le proprie ragioni,
il proprio statuto di vittima, un riconoscimento sicuramente simbolico e politico, oltre
che materiale. In questo senso, appare indiscutibile la necessità che la valutazione e la
corresponsione di una somma di denaro sia accompagnata da un discorso politico che
attribuisca il senso giusto all’elargizione: un indennizzo senza scuse, senza chiarire il
contesto politico in cui quelle ingiustizie sono avvenute non determina una giusta
riparazione. Se, infatti, il versamento di denaro fosse decontestualizzato rispetto ad una
“narrazione di giustizia”, quest’ultima diverrebbe suscettibile di interpretazioni assai
diverse tra loro, non lontane da ingenerare risentimento. Quella appena prospettata ben
potrebbe apparire a molti una “visione poetica” della riparazione dei crimini del passato,
visione in cui per altro non rientrano gli ultimi casi italiani, di cui si tratterà nei prossimi
paragrafi: pare infatti che l’Italia abbia accettato un risarcimento economico accordato
dai Supremi Giudici in assenza di qualsivoglia ammissione di responsabilità da parte
350
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 121-124. Con la
dicitura stolen generations i canadesi definiscono i bambini sottratti con la forza alle famiglie indiane
d’origine per essere allontanati dalla loro cultura tradizionale e formati secondo altri costumi. La
disciplina impartita era molto dura, non priva di punizioni corporali. Il 10 maggio del 2006, il governo
federale ha riconosciuto in capo alle vittime autoctone 1,9 miliardi di dollari, vale a dire 24.000 dollari
per ogni studente, somma aumentata in caso di abusi sessuali e sevizie gravi. In realtà la disciplina
impartita negli istituti di accoglienza, per lo più gestiti dalle Chiese cristiane, era molto dura e frequenti
erano le punizioni corporali. Nel gennaio del 1998, il governo canadese ha espresso a tutti i popoli
autoctoni del Canada rammarico per gli effetti devastanti di quelle “pratiche”. A seguito di tale
dichiarazione solenne, il governo ha altresì istituito la Fondation pour la guérison des autochtones
destinandole una somma ingente di denaro per finanziare progetti di riabilitazione e ancora nel 2006 ha
riconosciuto in capo alle vittime 1,9 miliardi di dollari da ripartire tra i vari studenti coinvolti.
142
dello Stato tedesco351. La Germania non si ritiene responsabile delle violazioni dei diritti
umani compiute dal Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale e considera le
richieste di pagamento di danni avanzate dagli italiani, una violazione della sovranità
nazionale.
Ed invero, si tratta nel complesso di una serie di somme versate per riparare le ferite
della storia, dal non univoco fondamento352: scuse pubbliche o imposizione, dono o atto
dovuto, queste ed altre le ragioni ambigue alla base delle elargizioni. Alle differenti
motivazioni è corrisposto, però, un avvio spedito di ricorso alla giurisdizione civile, che
difficilmente tenderà ad arrestarsi: il contenzioso puramente privatistico si presenta
come una via alternativa alla soluzione diplomatica ed internazionale.
3. Le liquidazioni dei debiti della storia, tra riparazioni materiali e
pentimento
Se l’azione intentata negli Stati Uniti da parte di associazioni di ebrei americani contro
alcune banche svizzere si pone come inaugurale di un’ondata di risarcimenti della
storia, numerose altre reazioni si sono innescate a catena fino ad accordare transazioni
finanziarie alle vittime del lavoro forzato in Austria, Germania, Francia, Polonia,
Svizzera: sono questi i casi di ingiustificato arricchimento da parte degli Stati e delle
industrie ai danni della manodopera impiegata coattivamente. Se sono essenzialmente
tre le forme assunte dalla riparazione, vale a dire simbolica, politica e morale, il
risarcimento materiale per l'Olocausto è la più importante prova morale a cui l’Europa
abbia preso parte.
Non sempre, infatti, ad un riconoscimento economico è seguita una ammissione di
responsabilità da parte dello Stato. Nel 1944 la Germania ha sfruttato il lavoro di 10
milioni di operai e prigionieri di guerra per impiegarli nei settori industriali ed agricoli.
351
Il riferimento è al caso Milde, Cass. pen., 13 gennaio 2009, n. 1072, in Riv. dir. internaz. 2009, 02, p.
363, commento di C. Focarelli, Diniego dell'immunità alla Germania per crimini internazionali: la
Suprema Corte si fonda su valutazioni "qualitative".
352
In Francia, sono stati adottati tre schemi di compensazione per le vittime (o i loro successori) della
persecuzione antisemita e atti di barbarie durante la seconda guerra mondiale:
– Le décret n° 99-778 du 10 septembre 1999 institue une commission pour l’indemnisation des victimes
de spoliations (CIVS) intervenues du fait des législations antisémites en vigueur durant l’occupation, qui
propose au Premier ministre des mesures de réparation, de restitution ou d’indemnisation.
– Le décret n° 2000-657 du 13 juillet 2000 institue une mesure de réparation pour les orphelins dont les
parents ont été victimes de persécutions antisémites.
– Le décret n° 2004-751 du 27 juillet 2004 prévoit une aide financière en reconnaissance des souffrances
endurées par les orphelins dont les parents ont été victimes d’actes de barbarie durant la seconde guerre
mondiale.
143
Il governo tedesco, ha addirittura, cercato di risarcire gli ebrei attraverso tre diversi
accordi risalenti già al 1952: fu il Bundesentschädigungsgesetz, la legge d'indennizzo
federale ad accordare i primi risarcimenti353. Il 13 settembre 1999, nonostante i
ricorrenti abbiano accusato il colpo di una sconfitta in tribunale, poiché due giudici
federali del New Jersey hanno respinto la causa contro Ford Motor Company e la sua
filiale tedesca Ford Werke presentata da una cittadino belga, la Germania ha cominciato
a sanare i suoi debiti354.
Dal 1999 in ogni caso, diverse class action sono state depositate negli Stati Uniti nei
confronti delle imprese tedesche a seguito dell’uso improprio di una grande quantità di
manodopera e del lavoro forzato durante la seconda guerra mondiale, e la conseguente
“arianizzazione” della proprietà. All’interno della casistica degli indennizzi elargiti a
causa degli errori del passato, infatti, non sono mancate ipotesi in cui, prima di arrivare
alla conciliazione, i giudici di primo grado hanno sospeso le pretese degli attori
accogliendo le eccezioni di non giustiziabilità e di prescrizione.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) è ora incaricata di gestire le
richieste di indennizzo ed i pagamenti in favore di persone sottoposte a lavori forzati o
deportate dal loro Paese di origine durante il regime nazista. Entrata in vigore il 12
agosto 2000, la legge che crea la Fondazione, ha istituito un Fondo federale di 10
miliardi di marchi per l’indennizzo di vittime di lavori forzati o ridotte in condizioni di
schiavitù durante il regime nazista al quale l’industria ed il Governo tedesco
contribuiranno con 5 miliardi di marchi ciascuno.
L’istituzione di una serie di fondi finalizzati a riparare l’aspetto economico del passato
sebbene si distingua dalle vere e proprie Holocaust Litigation, si può ugualmente far
rientrare nell’ ondata di elargizioni relative all’immediato dopo guerra; in particolare,
durante gli accordi del 27 settembre 1951, così si espresse l’allora Cancellire
Adenauer355 ricordando le questioni morali all’origine della volontà della Germania di
accordare del denaro alle vittime: “unspeakable crimes were perpetrated in the name of
353
N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degi ebrei, Rizzoli,
2002, p. 56.
354
Iwanowa v. Ford Motor Co., 67 F. Supp.2d 424, D.N.J. 1999. Elsa Iwanowa citò la Ford in tribunale,
perché all'età di 16 anni fu rapita da soldati tedeschi e costretta assieme a centinaia di altre ragazze a
lavorare per la fabbrica Ford a Colonia. Con il trattato di Londra nel 1953 sui debiti pregressi della
Germania, la Repubblica federale tedesca infatti prometteva, dopo la riunificazione, di regolare i danni
per i crimini commessi dal Reich nei paesi occupati durante la guerra.
355
Konrad Adenauer, Erinnerungen, 1953-1955, DVA, 1966, pp.132-159. Il cancelliere aveva anche
stabilito ottimi rapporti con Israele firmando, il 10 settembre 1952, un accordo di risarcimento per le
vittime dello sterminio nazista degli ebrei, con cui accettava di pagare un miliardo e mezzo di dollari, pari
ad oltre la metà degli aiuti ricevuti dal piano Marshall.
144
the German people, which impose upon them the obligation to make moral and material
amends”.356 Una responsabilità quella della Germania che appare assolutamente
sfuocata dietro la frase “in nome del popolo tedesco”357, una chiara assenza di volontà a
riparare i danni delle vittime ebree, piuttosto l’impegno a “pagare” un’ammenda, a
versare una somma neppure simbolica volta a risarcire la “parte economica” del crimine
perpetrato358. Lo stesso Fondo monetario istituito attraverso il protocollo II di
Lussemburgo, mirava a soccorrere e reinserire le vittime ebree e non già a “Réparer”,
nell’accezione delineata poi da Garapon. Al fine di meglio definire la separazione tra la
volontà di soccorrere, alleviare i dolori delle vittime e il riconoscimento di un eventuale
diritto alla riparazione, la Germania si guardò bene dal sovvenzionare direttamente
questo Fondo, versando invece 45 milioni di marchi tedeschi a Israele, il quale si
impegnava a sua volta a trasferire tale somma direttamente nel fondo.
La stessa
mancanza di ammissione di colpe ha caratterizzato la creazione di un fondo austriaco
per le vittime del nazionalsocialismo, in cui da nessuna parte viene menzionata una
seppur minima responsabilità a carico dell’Austria359: qui la nozione di colpa non è né
assente, né riconosciuta, ma semplicemente non menzionata.
È mancata qualsiasi ammissione di responsabilità nel 1997 da parte della Svizzera, in
occasione dell’istituzione di un Fondo speciale per le vittime dell'Olocausto bisognose
d'aiuto: “Si istituisce in tal modo un fondo speciale, basato sull'articolo 12 della legge
sulle finanze della Confederazione, il quale fungerà da vaso collettore provvisorio per
un fondo umanitario, visto che le grandi banche hanno già messo a disposizione 100
milioni di franchi e altri contributi sono già stati preannunciati da altre cerchie
economiche. Il Fondo speciale deve garantire che già nei prossimi mesi si possano
prendere misure urgenti di aiuto. In tal modo, il Consiglio federale assicura il suo ruolo
direttivo nell'istituzione di una struttura definitiva per il fondo medesimo. Scopo del
Fondo è di soccorrere le persone bisognose che, per motivi di razza, di religione o di
356
Traduzione di Grossmann Kurt, Germany’s Moral Debt: The german-Israel Agreement, WashingtonPublic Affairs Press, 1954, pp. 59-60.
357
E. Barkan, The Guilt of Nations – restitutition and Negotiating Historical Injustices, WW Norton &
Company, New York, 2000, pp. 10-14.
358
N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degi ebrei, cit., p. 60.
Neppure la Polonia si è sottratta dal ricevere richieste di risarcimento: sono state, infatti, intentate diverse
class action presso la corte del giudice Korman per risarcire i «sopravvissuti all'Olocausto che stanno
invecchiando e morendo».
359
Il Fondo nazionale per le vittime del nazionalsocialismo della repubblica austriaca è stato istituito nel
1995 con la Legge Federale BGBl (“Gazzetta delle leggi federali”) n. 432/1995. 432/1995 in 1995. Il suo
compito era di effettuare i pagamenti nella maniera più rapida e non burocratica possibile alle persone che
erano state vittime del nazionalsocialismo in Austria tra il 1938 e il 1945.
145
opinioni
politiche
o
per
altri
ragioni,
sono
state
perseguitate
o
vittime
dell'Olocausto/Shoa, nonché di soccorrere i loro discendenti bisognosi…”360
Sebbene le aule dei tribunali americani vengano predilette dalle vittime dell’Olocausto,
il comportamento americano non ha lasciato spazio alle scuse da parte delle autorità:
corrispondeva a sei milioni di dollari il valore dei conti inattivi all’epoca dell’Olocausto.
La stima iniziale venne poi rifiutata a favore di 3 milioni di dollari, ma neppure questa
nuova cifra fu riconosciuta dalle autorità americane, le quali adottarono provvedimenti
solo per cinquecentomila dollari, limitando per altro le azioni volte alla identificazione
dei parenti delle vittime dell’Olocausto361.
Ed invero, accanto alle azioni contro gli istituti bancari, numerose azioni sono state poi
intentate contro le compagnie assicurative, per non aver pagato le polizze spettanti
proprio alle vittime dell’Olocausto: su proposta della commissione Matteoli, istituita il
25 marzo 1997, la federazione francese delle assicurazioni nel 1998 ha dato vita ad un
Comitato con il compito di esaminare i rapporti tra le diverse compagnie assicurative
del 1945 e le società poi ad esse succedute362.
Sull’esempio delle concessioni da Olocausto, la restituzione dei premi di assicurazione
sulla vita agli eredi, ha riguardato anche le vittime del genocidio armeno, le quali hanno
promosso una class action per ottenere il premio di assicurazione dal New York Life
Insurance Company363. Sulla base dell’accordo che è stato raggiunto nel 2004, la
compagnia assicurativa si è impegnata a versare la somma di 20 milioni di dollari,
anche se questo non implicava alcuna ammissione di responsabilità, ha tenuto a
precisare la stessa compagnia assicurativa364. Dinanzi alla stessa Corte è stata intentata
un’ulteriore class action contro l’Axa, compagnia di assicurazione subentrata ad una
società francese: l’Axa si è opposta alle richieste, opponendo il ritardo con cui le istanze
erano state presentate rispetto alla cadenza trentennale. Al termine di una transazione
360
Questo quanto si legge nel comunicato a firma del Dipartimento Federale degli Affari Esteri,
consultabile al sito web http://www.admin.ch/cp/i/[email protected].
361
Seymour J. Rubin e Abba P Schwartz, Refugees and Reparations, in Law and Contemporary
Problems, 1951, 286-289.
362
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p.36.
363
M. J. Bazyler , The holocaust restitution movement in comparative perspective, cit. «The insurance
company did not dispute that it sold such policies to the Armenian population in Ottoman Trukey. In
fact, it combed its archives and located records, including aged insurance cards, for 2,300 Armenian
policy holders from that time period. It argued, however, that the suit should be dismissed because all of
the policies contained forum selection clauses mandating that if a dispute ever arose about the policies,
they would be resloved either before French or English courts».
364
G. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 37 e ss. In merito al
caso della Fondazione per la memoria della Shoah, Gilles Wolkowitsch osserva che la soluzione sarebbe
stata probabilmente diversa se la via intrapresa fosse stata quella giurisdizionale. Gli indennizzi ottenuti
sono stati liquidati.
146
conclusasi nel 2005, l’Axa si è impegnata a pagare 11 milioni ad un fondo di indennizzo
e 3 milioni organizzazioni caritatevoli365.
Ma se quella del debito è solo una metafora, come si può parlare di Reconstructive
Justice quando non viene colmato quel vuoto politico di cui le vittime sono pure in
credito? Forse ben più rare delle riparazioni materiali sono le riparazioni simboliche,
gesti che esprimono pentimento, ammissione di responsabilità. E’ compito degli atti di
riconoscenza pareggiare ciò che le offese e le sofferenze hanno sacrificato.
Non è certo per i soldi che tante volte si è intentata la causa, ma per una questione di
“principio”, per avere finalmente dalla giustizia una identificazione, anche solo di
valore morale per le immani sofferenze patite. Per questo difficilmente si potrebbe
parlare di riparazione nei casi in cui ad una condanna monetaria non sia seguita una
dichiarazione ufficiale di scuse, un riconoscimento politico insomma; se di
riconoscimento si deve parlare, non si deve trascurare che esso attiene per sua natura,
alla sfera politica, pertanto non può essere affidato tout court alla giustizia. È pur vero
che è necessario un bilanciamento tra i vari interessi contrapposti: la politica, infatti,
non può interamente farsi carico delle esigenze di riconoscimento in capo alle vittime,
pena il rischio della strumentalizzazione dell’istanza di riconoscimento, come nel caso
delle c.d. lois mémorielles a cui si è fatto riferimento nei precedenti capitoli.
4. Il problema dell’immunità degli stati e la questione della responsabilità
per il massacro di Civitella
Può uno Stato straniero essere convenuto in giudizio dinanzi ai Giudici di un altro
Stato? Non è questo motivo di violazione della soggettività internazionale di cui godono
gli Stati? Per gli Stati che hanno accolto la teoria dell’immunità giurisdizionale ristretta,
l’immunità di uno Stato non è assoluta, ma può essere negata quando lo Stato agisca
come “privato”, di talché sottoporre alla giurisdizione lo Stato estero quando abbia
operato come privato e non quando abbia agito come soggetto di diritto internazionale,
lascia venir meno la ragione che giustifica l’immunità. Così stando le cose, l’unico
limite alla “elusione” dell’ immunità parrebbe essere la natura commerciale degli atti
esercitati dallo Stato, di talché la commissione di crimini internazionali, nonché la
365
J. B. Racine, Le génocide des Arméniens. Origine et permanence du crime contre l’humanité, Dalloz,
2006, pp. 151 ss.
147
violazione di diritti umani risulterebbe assolutamente incompatibile con tale limite366.
Se l’impossibilità di qualificare come atti privatistici le violazioni dei diritti umani
commessi dagli stati nell’esercizio di poteri sovrani avrebbe “dovuto” portare le corti
nazionali ad accordare sistematicamente l’immunità agli stati autori, la recente tendenza
giurisprudenziale non si è mossa in questo senso.
Diverse sono state le soluzioni suggerite per “mettere a tacere” la prevaricazione dei
diritti degli individui sugli Stati e sul rispettivo potere sovrano: tra le ricostruzioni
proposte, l’Italia ha accolto la Normative Hierarchy Theory367, che fa riferimento al
fatto che diverse norme poste a tutela dei diritti umani, abbiano ormai acquisito il rango
di norme di ius cogens, norme, cioè assolutamente inderogabili in ragione
dell’importanza dei valori che esprimono368. Così, queste norme dovrebbero prevalere
su ogni altra regola di diritto internazionale, compresa quella che prescrive la
concessione dell’immunità369.
Ad accogliere per prima tale teoria è stata la Corte di Cassazione italiana nel decisum
Ferrini370 che rappresenta il primo esempio di risarcimento civile per i danni subiti dalla
storia, ma anche il primo caso in cui la giurisprudenza italiana si sia pronunciata sulla
dibattuta quaestio del conflitto fra la norma internazionale sull'immunità degli Stati
dalla giurisdizione civile, e le norme internazionali poste a tutela di diritti fondamentali
366
A. Bianchi, L’immunité des États et les violations graves des droits de l’homme: la fonction de
l’interprète dans la détermination du droit international, in Revue Générale de Droit International
Public, 2004, pp. 72-73: «la distinction traditionnelle entre actes jure imperii et actes jure gestionis est
désormais inapte à couvrir des actes – en particulier les violations graves des droits de l’homme – qui, par
définition, ne peuvent être classés dans aucune de ces deux catégories».
367
A. Orakhelashvili, State Immunity and Hierarchy of Norms: Why the House of Lords Got It Wrong, in
The European Journal of International Law, 2008, p. 964. L’autore afferma: «it is no longer possible, if it
ever was, to consider that the view of primacy of jus cogens is an isolated trend of the small minority,
while the majority of scholars support the “traditional” or “orthodox” understanding of State immunity»
Essa è stata anche sottoposta a critiche a fronte del fatto che l’immunità dello stato «is a procedural rule
[...]. It does not go to substantive law; it does not contradict a prohibition contained in a ius cogens norm
but merely diverts any breach of it to a different method of settlement. [...] There is no substantive content
in the proce-dural plea of State immunity upon which jus cogens mandate can bite».
368
P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi
crimini internazionali: il caso dei deportati italiani. in ISPI (Istituto per gli studi di politica
internazionale)
n.
2/2010,
consultabile
al
sito
web
http://www.ispionline.it/it/documents/Analysis_2_2010.pdf.
369
A. Cassese, Diritto internazionale, Il Mulino, 2006, p. 111, in cui si precisa che le norme di jus
cogens, che proteggono valori fondamentali devono ritenersi prevalenti rispetto a norme poste a garanzia
degli interessi tradizionali degli Stati, tra queste ultime rientrano proprio le norme in materia di immunità
dalla giurisdizione.
370
Cass. civ, SSUU, 11 marzo 2004, n. 5044, in Giust. Civ. 2004, pp. 1191-1200. Il ricorrente in causa, il
sig. Ferrini, venne deportato nel lager tedesco di Kahla di cui fu uno dei pochi sopravvissuti. Sia il
Tribunale di Arezzo che la Corte d'Appello di Firenze dichiaravano il difetto di giurisdizione del giudice
italiano. Fu la Cassazione nel 2004, negò il diritto della Bundesrepublik a valersi dell’immunità statale.
Alla base della motivazione della Corte, la necessità di non lasciare impunita sul piano del diritto
internazionale la tutela delle gravi violazioni dei diritti umani.
148
della persona. Al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali subiti per essere stato sottoposto a torture e maltrattamenti e per essere
stato costretto al lavoro forzato durante la deportazione nel lager tedesco di Kahla, il
Ferrini, nel settembre 1998, conveniva in giudizio di fronte al Tribunale di Arezzo la
Repubblica Federale di Germania.
La Repubblica Federale di Germania aveva eccepito il difetto di giurisdizione
dell'autorità giudiziaria italiana in base al principio di diritto internazionale
consuetudinario dell'immunità degli Stati. Sebbene la sentenza della Suprema Corte
S.U. 285/1953 afferma che, in virtù dell’art. 77 del Trattato371, sussista una
“improcedibilità dell’azione che si concreta in un vero e proprio difetto di
giurisdizione” rispetto a tutte le domande di risarcimento di perdite o di danni occorsi
durante la guerra, indipendentemente dal fatto che la rinuncia sia già stata avanzata in
giudizio o meno; sebbene esista la sottoscrizione a Bonn nel 2 giugno 1961 della
Convenzione fra l’Italia e la Repubblica Federale Tedesca denominata “Accordo per il
regolamento di alcune questioni di carattere patrimoniale economico e finanziario” (resa
esecutiva in Italia con d.p.r. 1263/1962), con la quale la previsione dell’art. 77 del
Trattato di pace del 1947 (al quale la Germania era rimasta estranea) veniva
espressamente codificata in una convenzione cui partecipava anche la Repubblica
Tedesca, le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione nel 2004372, hanno affermato
il principio secondo cui l'applicazione della norma consuetudinaria di diritto
internazionale che sancisce l'immunità dalla giurisdizione civile dello Stato straniero,
trova un limite in presenza di comportamenti dello Stato di una tale gravità da
configurare un crimine internazionale lesivo di diritti fondamentali ed inviolabili della
persona umana. Le norme consuetudinarie di diritto internazionale che definiscono tali
crimini, trascendendo gli interessi delle singole comunità statali, devono, infatti, a
parere della Corte, considerarsi inderogabili (ed i relativi reati imprescrittibili). La
Suprema Corte, si è preoccupata di rilevare che i “crimini” commessi della Germania si
erano concretati «nella violazione, particolarmente grave per intensità o sistematicità
[…] dei diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela è affidata a norme
inderogabili che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, prevalendo su
ogni altra norma, sia di carattere convenzionale che consuetudinario […] e quindi anche
371
La sentenza del 1953 viene invocata dalla repubblica federale tedesca nella sentenza Ferrini e anche
nel caso De Guglielmi (di cui si tratterà nei paragrafi successivi).
372
Cass., SSUU, 5044/2004, cit.
149
su quelle in tema di immunità. In tale occasione, la Suprema Corte ha avuto modo di
precisare che crimini internazionali come quelli commessi dalla Germania e consistenti
«nella violazione, particolarmente grave per intensità o sistematicità, dei diritti
fondamentali della persona umana, la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si
collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, minacciano l’umanità intera e
minano le fondamenta stesse della coesistenza internazionale», di talché in ipotesi
siffatte, è escluso che lo Stato possa giovarsi dell’immunità dalla giurisdizione straniera.
È in questa circostanza che la giurisprudenza ha riconosciuto un limite: l’immunità dalla
giurisdizione civile dello Stato territoriale non può, infatti, essere invocata in presenza
di comportamenti dello Stato straniero talmente gravi da configurare, in forza di norme
consuetudinarie di diritto internazionale, crimini internazionali lesivi di quei valori
universali di rispetto della dignità umana che eccedono gli interessi delle singole
comunità statali.
Occorre in questa sede pure fare riferimento all’antecedente caso Lozano373: la stessa
sez. I pen. di quello che poi definiremo l’”affaire” Milde, soltanto pochi mesi prima,
nella sentenza Lozano, condividendo le argomentazioni del verdetto Ferrini ha ribadito
che l'orientamento a favore del diniego dell'immunità sia oggetto di una «tendenza
evolutiva, sia nella dottrina internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della
giurisprudenza interna». Nel caso di specie, oltre alla morte di Nicola Calipari dirigente
373
Cass. Pen., sez. I, 24 luglio 2008, n. 31171, in Riv. dir. internaz. 2008, 4, 1223: «Ritiene, questa Corte
che il fondamento del primato esclusivo della giurisdizione “attiva” degli USA debba rinvenirsi nel
principio consuetudinario di diritto internazionale che sancisce la “immunità funzionale” (ratione
materiae), dalla giurisdizione interna dello Stato straniero, nella specie quello italiano, dell’individuoorgano il quale, come l’imputato Lozano, soldato del contingente militare statunitense facente parte della
MNF, operante in Iraq sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ma sotto il “controllo
effettivo” della struttura di comando dello Stato d’invio (v., in proposito, Corte eur. d. uomo, 31/5/2007,
nei casi Behrami e Saramati c. Francia), abbia agito iure imperii nell’esercizio delle funzioni di guardia e
di controllo a un posto di blocco…È peraltro ricostruibile una più recente tendenza evolutiva, sia nella
dottrina internazionalistica che in una parte ancora minoritaria della giurisprudenza interna, diretta a
contrastare la più ampia applicazione della regola consuetudinaria sull’immunità dello Stato estero,
relativamente alla responsabilità civile derivante dall’attività illecita compiuta iure imperii da un suo
organo, oltre che sull’immunità dalla giurisdizione penale dell’individuo-organo autore del medesimo
illecito, prospettandosene la “cedevolezza” laddove gli atti siano stati eseguiti in violazione di norme di
diritto internazionale cogente, come in tema di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, per essersi
l’individuo-organo reso colpevole di “crimini internazionali”, a garanzia di valori fondanti la comunità
internazionale nel suo insieme. Può pertanto ritenersi (condividendosi, sul punto, le lucide
argomentazioni dei più recenti arresti delle Sezioni Unite civili: n. 5044 del 2004, nn. 14199 e 14201 del
2008, citt.) che sia “in via di formazione” una consuetudine internazionale la quale, in considerazione del
carattere cogente e imperativo delle norme di diritto internazionale umanitario (“peremptory norms of
general international law”, nella dizione dell’art. 53 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul
diritto dei trattati), che impongono il rispetto dei diritti umani fondamentali, e della concreta lesività di
“valori universali che trascendono gli interessi delle singole comunità statali”, è diretta a limitare
l’immunità dalla responsabilità civile dello Stato estero, il cui organo, pur nell’esercizio di un’attività iure
imperii, come in situazioni belliche, si sia tuttavia reso autore di atti di gravità tale da “minare le
fondamenta stesse della coesistenza tra popoli».
150
del Sismi, ucciso a Bagdad dal fuoco di una pattuglia statunitense, veniva ferito un altro
funzionario del SISMI e la giornalista Sgrena che Callipari cercava di condurre in
aeroporto. Inizialmente la mancanza di giurisdizione del giudice italiano sul caso era
stata motivata dalla Corte di Assise sulla base di una consuetudine internazionale che in
via generale disporrebbe la giurisdizione esclusiva dello Stato bandiera per i corpi di
spedizione stazionanti in territorio straniero nel corso di una occupazione militare. I
giudici avevano rilevato l’assenza di giurisdizione facendo leva su un’ulteriore
consuetudine che sancisce l’immunità funzionale della giurisdizione interna dello Stato
straniero dell’individuo organo, che abbia agito iure imperii.
Al momento
dell’uccisione di Calipari, Lozano era un soldato, cioè un organo, degli Stati Uniti, di
cui eseguiva gli ordini. Un giudizio semmai sarebbe stato ammissibile solo se si fosse
trattato di un crimine internazionale, il che è palesemente da escludere; il danno è,
infatti, derivato da un’attività sovrana quale quella relativa alle attività militari; la
Cassazione, confermando l’improcedibilità nei confronti del militare USA per
l’omicidio ed il tentato omicidio di Nicola Calipari e Andrea Carpani in territorio
iracheno, ha precisato che l’immunità è funzionale e può essere superata solo
dimostrando gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Non va infine
trascurato che la sentenza Lozano si è pronunciata in materia di riconoscimento
dell’immunità funzionale nel giudizio penale, ambito in cui la prassi rilevante è molto
più abbondante374.
Il principio delineato dal caso Ferrini e Lozano è stato accolto nella sentenza del 13
gennaio 2009 n. 1072, il c.d. caso Milde: la Suprema Corte, decidendo in merito ad un
ricorso promosso dalla Repubblica Federale di Germania (in qualità di responsabile
civile), ha riconosciuto nei crimini internazionali un limite all'immunità giurisdizionale
degli Stati375. Se l’ex sergente Milde è stato condannato all’ergastolo nel dicembre 2007
per la strage dei comuni di Civitella, Cornia e San Pancrazio, lo stesso è stato anche
condannato in solido con lo Stato tedesco al risarcimento dei danni delle parti civili; si
tratta dei danni patrimoniali e morali a favore dei discendenti di alcune delle vittime
della strage nazista di Civitella. Questa decisione ha suscitato grande scalpore: lo Stato
374
P. De Sena, Immunità di organi costituzionali e crimini internazionali individuali in diritto
internazionale, in Comunicazioni e Studi, vol. XXIII, 2007, pp. 267-300, p. 289 ss.
375
Cass. pen., 13 gennaio 2009, n. 1072, cit. Il 18 giugno del 1944 quattro giovani soldati tedeschi
entrarono nel circolo ricreativo di Civitella; all’interno vi erano alcuni partigiani che, notati i tedeschi,
spararono contro di essi: tre soldati morirono. 11 giorni dopo, in occasione della festa dei SS Pietro e
Paolo, i tedeschi irruppero nelle case, aprendo il fuoco sugli abitanti. I tedeschi incendiarono le case di
Civitella, e solo pochi abitanti riuscirono a salvarsi dal massacro. Alla fine si contarono 244 morti (115 a
Civitella, 58 a Cornia e 71 a San Pancrazio).
151
tedesco ha rivendicato la propria immunità sulla base dei Trattati internazionali stipulati
nel 1947 (Accordo di Pace) e nel 1961 (Trattato bilaterale tra Germania e Italia). La
decisione della Corte di Cassazione appare particolarmente coraggiosa, perché, in nome
della garanzia effettiva dei diritti fondamentali dei cittadini e del principio della
riparazione integrale dei danni, essa intacca profondamente la regola dell’immunità
degli Stati di fronte a tribunali esteri.
Sono queste le sentenze inaugurali di quello che potrebbe diventare presto un “trend”:
ed invero, per la prima volta la Cassazione sancisce il diritto ad essere risarcite,
nell’ambito di un procedimento penale, delle vittime delle stragi naziste.
Nessun altro Paese al mondo, ha rilevato l’avvocato della Germania, Augusto Dossena,
ha mai intentato cause di risarcimento nei confronti della Germania, proprio a causa
della presenza della clausola dell’immunità, della cui applicazione insuperabile il legale
si è fatto portavoce anche in questo caso.
Un verdetto quello italiano che si attende di verificare se verrà confermato dalla Corte
internazionale di Giustizia, investita della questione dalla Repubblica Federale tedesca.
Ora, infatti, sui banchi opposti della corte internazionale dell’Aja sono finite Germania
e Italia, alle prese con il diritto al risarcimento delle vittime ed i sempre più delicati
equilibri europei.
Dinanzi alla Corte dell’Aja, la richiesta tedesca è decisa: annullare le sentenze dei
tribunali civili italiani sugli indennizzi alle vittime di crimini nazisti. Si parla di cifre
ingenti: per i tre procedimenti attualmente passati in giudicato, l’ammontare
complessivo è di 51 milioni di euro, secondo un’interrogazione rivolta al governo
federale dal partito di sinistra Die Linke, e non è improbabile che la somma finale da
corrispondere alle vittime e ai loro familiari si aggiri intorno ai 150 milioni di euro.
Oltre all'Italia, al procedimento in questione partecipa anche la Grecia: il problema
relativo alla Grecia riguarda, dunque, la possibilità per uno Stato straniero in virtù della
soggettività internazionale di cui gode, di essere sottoposto dagli organi di un altro Stato
ad esecuzione forzata rispetto ai suoi beni. Nel 2000 il Supremo Tribunale civile greco
si occupò, infatti, delle richieste dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime della
strage di Distomo, un villaggio, dove nel giugno 1944 le SS uccisero 218 persone. Quel
tribunale però, respinse le obiezioni di immunità della Repubblica Federale Tedesca,
sostenendo che lo Stato straniero, violando gravemente i diritti umani, avrebbe
tacitamente rinunciato ai propri diritti di immunità sul piano del diritto internazionale, e
dispose un risarcimento di circa 28 milioni di euro. La Germania rifiutò di pagare, così
152
si provvide al sequestro di immobili tedeschi, tra cui il Goethe-Institut di Atene.
Tuttavia la sentenza non poté essere eseguita in Grecia, e così, le vittime investirono la
giustizia italiana della vicenda, grazie ad una sentenza del 1992 in cui la Corte
Costituzionale stabiliva che uno Stato responsabile di crimini di guerra, pure se
commessi in altri paesi, Può essere sottoposto a rispondere in Italia, con i beni di cui lo
Stato responsabile sia ivi proprietario376. Da questa sentenza che dichiarava esigibili in
Italia le richieste di risarcimento avanzate nei confronti della Germania dalle vittime del
massacro effettuato nel villaggio greco, si seguì la strada del sequestro del centro studi
italo-tedesco Villa Vigoni, a Menaggio sul lago di Como, e il pignoramento dei crediti
delle ferrovie tedesche presso Trenitalia, crediti connessi alla vendita i biglietti su tratte
internazionali.
Presso la Corte internazionale di giustizia dell’Aia il dibattimento inerente il ricorso
presentato dalla Germania contro l’Italia ha ora ad oggetto tre questioni, di cui si attende
a breve il responso:
- sfruttamento del lavoro coatto di oltre settecentomila civili italiani deportati dopo l’8
settembre 1943;
- eccidi compiuti dall’esercito tedesco contro i civili nel corso della seconda guerra
mondiale;
- esecutività in Italia delle sentenze dei tribunali greci relative alla strage di Distomo.
376
Corte Cost., 15 luglio 1992, n. 329, in Riv. dir. internaz., 1992, 395. La questione di legittimità
costituzionale di cui è stata investita la Corte nel 1992 riguardava l’art. unico del r.d.l. 30 agosto 1925, n.
1621, convertito nella legge 15 luglio 1926, n. 1263, secondo cui «non si può procedere ad atti
conservativi o esecutivi su beni appartenenti a uno Stato estero senza l'autorizzazione del Ministro di
grazia e giustizia, sempre che si tratti di uno Stato che ammette la reciprocità». La Corte ha però chiarito
intanto che «perché vi sia immunità dalla giurisdizione esecutiva dei beni di uno Stato estero in base al
diritto internazionale generale, occorre che i beni siano destinati all'adempimento di funzioni pubbliche di
detto Stato, senza che rilevi l'esistenza della reciprocità», così che «La norma che subordina
all'autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia il compimento di atti conservativi o esecutivi sui beni
di uno Stato estero non destinati a funzioni pubbliche è incompatibile con il diritto del creditore alla tutela
giurisdizionale nonché con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, sia in quanto investe il Ministro
del potere-dovere di accertare l'esistenza di una condizione (destinazione dei beni ad atti "iure gestionis")
da cui dipende la giurisdizione del giudice naturale; sia in quanto impone alla tutela giurisdizionale un
limite che non è giustificabile nell'attuale contesto di diritto internazionale, nel quale si è largamente
affermato il principio dell'immunità ristretta degli Stati esteri in executivis ed è conseguentemente
scemata la probabilità di reazioni all'applicazione di esso; sia in quanto la prassi applicativa della norma
censurata dimostra che essa ha finito col ripristinare virtualmente l'immunità assoluta». La Corte ha
statuito, quindi che l’autorizzazione ministeriale non va richiesta per i beni detenuti a titolo privato,
poiché tali beni possono essere assoggettati ad esecuzione forzata sulla base del diritto internazionale
consuetudinario. Il “responso” della Corte Costituzionale è stato utilizzato dal vicepremier greco,
Theodoros Pangalos, in riferimento ai risarcimenti di guerra tedeschi al suo paese, risalenti alla Seconda
guerra mondiale.
153
5. Il limite della prescrizione nelle richieste di risarcimento per i danni da lavoro
forzato: i casi Mantelli e De Guglielmi
Oltre a considerare la barriera dell’immunità, superata dalla giurisprudenza italiana,
deve necessariamente farsi cenno ad un altro ostacolo che si frappone all’accoglimento
delle azioni su menzionate: la prescrizione. Così come il legislatore italiano ha sancito
all’art. 157 del c.p. la non estinzione per prescrizione dei reati per i quali la legge
prevede la pena dell’ergastolo, con l’obiettivo di evitare di lasciare imputi i colpevoli e
così di estinguere per prescrizione i reati più gravi, esistono limiti alla prescrizione nel
trattamento risarcitorio dei più efferati crimini della storia?
Quello della prescrizione è stato un problema che si era posto in realtà già ai tempi del
processo di Norimberga: in quella sede, però, la prescrizione assunse un ruolo
marginale, dal momento in cui solo alcune limitate ipotesi di crimini internazionali
trattate a Norimberga sarebbero risultate prescritte, considerato che il processo venne
celebrato subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e che i crimini risalivano
solo a qualche anno prima. In ogni caso si provvide a regolare la prescrizione stabilendo
che in ogni processo gli imputati non avrebbero avuto diritto al beneficio della
prescrizione per i reati commessi dal 30 gennaio 1933 al 1 ° luglio 1945, né alcuna
immunità, grazia o amnistia. Dunque, a fronte di questa soluzione parziale, l’esigenza di
punire i crimini contro l’umanità perpetrati durante la seconda guerra, e l’esigenza di
assicurarne la punizione senza limiti di tempo, sono state fortemente avvertite dalla
comunità internazionale e manifestate attraverso numerose leggi che, derogando alla
disciplina interna, hanno tante volte sottratto tali crimini dal decorso dei termini di
prescrizione.
La questione della imprescrittibilità dei crimini internazionali è stata, infatti, sollevata
negli anni 60 quando stavano per scadere i termini della prescrizione dei crimini
commessi durante la seconda guerra mondiale e le ferite della storia, il turbamento
sociale erano tutt’altro che placati. L’inadeguatezza di lasciare che ogni singolo Stato si
autodeterminasse in ambito di prescrizione, ha portato all’entrata in vigore, l’11
novembre 1970 della Convenzione sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei
crimini contro l’umanità; la Convenzione non fu accolta con favore dagli Stati del
Consiglio d’Europa vista la retroattività della stessa: la Convenzione avrebbe obbligato,
infatti, gli Stati a sancire l’imprescrittibilità anche per i reati commessi prima
dell’entrata in vigore della Convenzione, anche se i termini prescrizionali fossero già
decorsi. I limiti eccepiti alla “prima” Convenzione, la quale, per giunta aggiunse ai
154
crimini internazionali nuove categorie di condotte, come ad esempio l’apartheid,
indusse gli Stati membri del Consiglio d’Europa a redigere una ulteriore Convenzione
nel 1974, la “Convenzione europea sull’ imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro
l’ umanità”, la quale non era retroattiva e prendeva in considerazione, attraverso una
accezione di estrema vaghezza la gravità del crimine al fine di accordarne o meno lo
“status” di imprescrittibile, per altro rinviando ad altre Convenzioni. L’art. 2 della
Convenzione prevede però una “deroga” all’imprescrittibilità imponendo agli Stati di
sancire l’imprescrittibilità dei crimini commessi dopo l’entrata in vigore della
Convenzione, qualora però a tale data la prescrizione del reato o della pena sia ancora in
corso. L’Italia però probabilmente per i problemi di incostituzionalità tra la
Convenzione ed il divieto di retroattività di cui all’art. 25 della Costituzione, non ha
ancora ratificato la Convenzione.
La “longevità di azione” che si attaglia al diritto civile risulta nettamente distinta da
quella penale internazionale, dove il reato è assoggettato all’essere in vita dell’accusato,
di talché morto quest’ultimo l’azione penale perde il suo oggetto. Tanto ciò premesso, è
lecito chiedersi, sulla base delle regole della prescrizione, se possa una vittima della
Shoah chiedere una riparazione in termini economici, dopo che sia decorso così tanto
tempo dal momento esatto in cui l’eccidio che l’ha coinvolta si sia verificato.
Il problema della prescrizione si è posto innanzitutto nei processi intentati negli Stati
Uniti negli anni ‘90 contro le banche svizzere, francesi e tedesche; in questo caso le
argomentazioni delle vittime delle spoliazioni bancarie o dei loro eredi, volte a chiedere
un rinvio nella decorrenza dei termini di prescrizione, hanno preso le mosse dai
numerosi rifiuti opposti dalle banche, le quali avevano impedito loro di ottenere
l’accesso ai conti ovvero alle informazioni relative, accelerando così il decorrere della
prescrizione legale377. È accaduto però anche che, nei casi delle vittime dell’Olocausto,
377
A. Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit. p. 32. Nei processi
intentati davanti ai tribunali tedeschi per la riparazione dei danni derivanti dal lavoro forzato durante il
regime nazionalsocialista, le Corti tedesche, per esempio, hanno applicato ai richiedenti le regole
tradizionali della prescrizione, rigettando tutte le argomentazioni basate sulla “particolarità” dei
pregiudizi sofferti dalle vittime dell’Olocausto. La Corte suprema tedesca, la Corte per eccellenza più
coinvolta, si è pronunciata nel 1963 (Decisione della Corte suprema Bundesgerichtshof nel caso Staucher
v. I.G. Farben, 23 febbraio 1963, n° VI ZR 94/61) in una causa concernente la domanda di
risarcimento/riparazione intentata da un cittadino polacco contro un’azienda tedesca. La Corte ha
introdotto il principio secondo il quale le domande di risarcimento contro le aziende per il lavoro forzato
durante la seconda guerra mondiale, devono essere trattate nell’ambito del quadro delle relazioni interstatali di riparazione delle guerre. La Corte ha precisato, infatti, rinviando all’accordo di Londra, che le
querelle relative alle riparazioni di guerra meritavano di essere rinviate alla data della conclusione di un
accordo finale di pace con la Germani riunificata. Tale decisione ha assunto a suo tempo il ruolo di
precedente per respingere le richieste di risarcimento intentate per esempio, da un cittadino turco
155
un certo numero di sospensioni della prescrizione sia stato giustificato dalla difficoltà di
ottenere la documentazione necessaria all’istruzione del processo, ed in gran parte
distrutta dai nazisti, ovvero per la difficoltà di intentare un’azione per ragioni politiche
nei vari Paesi avversari, o per la situazione personale delle vittime, in caso di persone
decedute378.
In un quadro generale, bisogna ora considerare come la prescrizione sia diventata,
attualmente, l’ultimo ostacolo in Italia alla risarcibilità di danni subiti da persone
deportate e obbligate a svolgere lavoro coatto per conto del regime nazista.
Un caso italiano da prendere in considerazione è l’affaire Mantelli, del Tribunale di
Torino379, il cui primo grado risale al 2009, (prima della sentenza di appello del caso De
Guglielmi di cui si tratterà nel prosieguo del paragrafo). Oggetto della causa Mantelli
era un’ azione di risarcimento del danno proposta da ex-deportati costretti al lavoro
forzato in Germania durante il periodo del secondo conflitto mondiale. Il giudice
torinese si è posto radicalmente in contrasto con l’orientamento della Cassazione
“Ferrini”, accogliendo invece la giurisprudenza di primo grado del caso “De
Guglielmi”, respingendo le richieste attoree, questa volta sulla base della intervenuta
prescrizione del diritto al risarcimento: «si deve concludere che la prescrizione del
diritto si era compiuta da oltre quarant’anni al momento della notifica dell’atto di
citazione contenente la richiesta risarcitoria».
Poiché le pretese erano fondate sui reati di deportazione e assoggettamento al lavoro
forzato, condotte non esplicitamente riconosciute dal codice penale, ma rientranti nella
disposizione di cui all’art. 600 cp., la prescrizione dei reati, che si estende anche agli
illeciti civili, è di anni 20, e tale termine risulta ampiamente decorso alla data di
proposizione della domanda380.
(Bundesgerichtshof, 19 giugno 1973, causa n° VI ZR 74/70 (KG). e da uno americano
(Bundesgerichtshof, 17 marzo 1964, causa n° VI ZR 186771 (Berlin). In una decisione del 22 giugno del
1967, la Corte Suprema ha rigettato l’argomentazione della Corte d’appello di Stuttgart, secondo la quale
il lavoro nei campi di concentramento costituiva una deroga alle regole del diritto civile ordinario (OLG
Stuttgart, 19 maggio 1965, 10 U-8/1965, 12 S 334/59).
378
Garapon, Peut-on réparer l’histoire? Colonisation, esclavage, shoah, cit., p. 35. L’autore fa
riferimento alla richiesta di Estelle Sapir, figlia di una vittima dell’Olocausto e vittima anche di una
“irragionevole” richiesta da parte delle banche svizzere: la donna infatti, si rivolse agli istituti bancari in
cui il padre aveva depositato e lasciato il denaro. Alla richiesta di restituzione del denaro la banca eccepì
la necessità di un atto di decesso.
379
Trib. di Torino, sez. I civile, Mantelli Giovanni e altri contro Repubblica Federale di Germania e altri,
n. 7137, depositata il 20 ottobre 2009, richiamata da P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e
prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi crimini internazionali: il caso dei deportati
italiani. In ragione di questo successo, cit.
380
Art. 600 c.p: «Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù.
156
L’inevitabile riferimento è stato all’art. 2947 terzo comma c.c., («In ogni caso, se il fatto
è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga,
questa si applica anche all’azione civile […]»); dunque la prescrizione di riferimento è
quella del reato penale e non perciò quella dell’azione ordinaria di risarcimento del
danno di cinque anni dal giorno di realizzazione del fatto illecito (ai sensi dell’art. 2947
c.c., comma 1). La durata del termine prescrizionale è così legata alla gravità
dell’illecito, all’allarme sociale che questo ha generato, consentendo al danneggiato di
far valere il proprio diritto con tempi più lunghi di quelli che sarebbero diversamente
consentiti.
Pertanto, qualora il reato fosse imprescrittibile, lo sarebbe di conseguenza anche
l’azione risarcitoria relativa al reato stesso. Se quindi il fatto illecito per il quale si
aziona il diritto al risarcimento del danno è considerato dalla legge come reato e per
questo la legge stabilisce una prescrizione superiore a cinque anni, lo stesso termine
prescrizionale si applica all’azione civile, indipendentemente dalla promozione o meno
dell’azione penale: ci si riferisce a tutti i fatti illeciti penalmente qualificati, ciascuno dei
quali costituisce il fondamento di azione di risarcimento contro lo stesso, giacché nella
struttura del fatto doloso o colposo considerato dall’art. 2043 come generatore
dell’obbligazione è da intendersi contemplata non già la sola azione od omissione del
responsabile, ma anche l’evento lesivo»381.
Il giudice di Torino ha, infatti, ritenuto i diritti prescritti, senza fare alcun riferimento al
principio di diritto internazionale dell’imprescrittibilità dei crimini internazionali382,
ritenendo che la regola della imprescrittibilità, essendo intervenuta negli anni 60 non
avrebbe potuto essere applicata ad un reato già estinto al momento della sua “entrata in
Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque
riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni
lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo
sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante
violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o
psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di
altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di
minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la
persona offesa al prelievo di organi».
381
Cass. civ., 11 ottobre 2002, n. 14528, in Dir. e giust., 2002, 40, 78.
382
L’esistenza di una norma consuetudinaria internazionale che dispone l’imprescrittibilità dei crimini
contro l’umanità viene espressamente affermata in alcune sentenze rese dalla Suprema Corte e da Corti
penali militari italiane. Nella sentenza S.U. 11.3.2004 n. 5044 la imprescrittibilità viene legata sia alla
particolare natura di questi illeciti, che minano alla base le fondamenta della coesistenza internazionale;
sia all’esistenza di una consuetudine internazionale di cui sarebbero espressione proprio la Convenzione
ONU del 1968 e la Convenzione d’Europa del 1974.
157
vigore”; per il giudice insomma, il crimine di deportazione non può essere considerato
imprescrittibile poiché quando nel 1945 il reato fu commesso, non esistevano norme
internazionali che obbligassero gli Stati a perseguire le violazioni dei diritti umani, e
meno ancora norme che sancissero la imprescrittibilità di tali crimini, e l’introduzione
nell’ordinamento italiano di una regola consuetudinaria posteriore e “in malam partem”
contrasterebbe con il divieto espresso dal comma secondo dell’art. 25 della
Costituzione383.
Altro caso italiano di riferimento è il decisum De Guglielmi: se il 13 marzo 2007, il
Tribunale di primo grado di Arezzo ha rigettato le richieste del De Guglielmi
affermando che il diritto vantato dall’attore dovesse ritenersi prescritto, con sentenza del
19.5.2010, il Tribunale di Torino ha condannato la Repubblica Federale di Germania al
pagamento in favore di De Guglielmi Roberto (quale erede di De Guglielmi Vincenzo)
di € 28.000, ribaltando radicalmente l’opposta soluzione accolta dalla sentenza
20.10.2009 Tribunale di Torino384.
A fronte della richiesta di un sopravvissuto ai lager, di condanna della Repubblica
federale di Germania al risarcimento dei danni patrimoniali (consistenti nel mancato
guadagno del De Guglielmi per i lavori cui venne adibito nel periodo di prigionia) e non
patrimoniali (rapportati alle sofferenze fisiche e psichiche per l’ingiusta privazione della
libertà e l’assoggettamento a condizioni servili), il Tribunale di Torino ha così statuito:
«Si ritiene dunque esistente una norma di diritto internazionale consuetudinario,
formatasi all’inizio degli anni 60, e che sancisce la imprescrittibilità dei crimini contro
l’umanità, con particolare e specifico riferimento ai crimini commessi dalle forze di
occupazione naziste nel corso della seconda guerra mondiale. Questa norma, che per
sua genesi e natura si applica a fatti commessi prima della sua entrata in vigore, ha
natura retroattiva, in conformità di quanto previsto dall’art. 7 2° comma della CEDU
[…] Nel caso concreto la conformazione opera nel senso di ritenere che, se il fatto
illecito civile consiste in un crimine contro l’umanità, esso deve considerarsi
383
P. Actis Perinetto e L. Pasquet, Immunità e prescrizione come estreme difese degli stati autori di gravi
crimini internazionali: il caso dei deportati italiani, cit.
384
Trib. di Torino, sez. quarta, 19 maggio 2010, n. 28889, disponibile online, in cui si legge la
ricostruzione delle motivazioni poste a fondamento della richiesta di risarcimento dell’attore: il 9
settembre 1943 De Guglielmi Vincenzo, all’epoca militare di leva dell’Esercito italiano, venne catturato a
Chiusa d’Isarco (BZ) dalle forze militari tedesche e deportato in Germania per essere avviato ai lavori
forzati. Fino al settembre 1945, epoca in cui il De Guglielmi riuscì a far ritorno in Italia, venne mantenuto
in condizioni di sostanziale schiavitù: privo dello status di prigioniero di guerra (e delle relative garanzie
assicurate dalla Convenzione di Ginevra), costretto a usuranti lavori non retribuiti, denutrito e in
condizioni igieniche inaccettabili.
158
imprescrittibile…»385. Il Tribunale di Torino ha così ritenuto di doversi discostare dai
precedenti sopra richiamati e di disattendere l’eccezione di prescrizione ex art. 2947,
terzo comma cc.
Se fino a qualche anno fa gli ostacoli procedurali per eccellenza, contrastanti con
l’obbligo giuridico di offrire un rimedio alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani
(immunità e prescrizione), risultavano insuperabili, la giurisprudenza recente,
probabilmente con particolari “occhi di riguardo” nei confronti dell’importanza
acquisita dai diritti umani, ha optato per la prevalenza di norme sorte a tutela della
libertà e della dignità umana su singole norme procedurali di diritto interno.
385
Ibidem, p. 17.
159
CONCLUSIONI
La questione che viene ancora una volta affrontata in sede di conclusioni non può che
essere quella relativa ai limiti della istituzionalizzazione della memoria e ai pericoli che
da essa ne derivano, considerando che il “dovere di memoria” ha ormai invaso il
discorso politico e lo spazio dei mass media: da una parte assistiamo al riconoscimento
della libertà di pensiero e di parola come situazioni soggettive che l’ordinamento si
impegna a garantire, dall’altra siamo testimoni di una tendenza volta a caratterizzarsi
per comportamenti restrittivi e punitivi che sviluppano il timore di subire
discriminazioni o restrizioni della libertà personale a causa delle opinioni manifestate
pubblicamente.
Non resta che chiedersi in quale misura sia legittimo vietare l’espressione di
determinate idee in una società in cui la ricerca della verità trae linfa vitale dal libero
confronto delle opinioni, sebbene scomode e fastidiose, dal dibattito pubblico e dal
dialogo politico, consapevoli che rigorosi limiti alla libera circolazione di idee lasciano
venir meno il fondamento di qualsivoglia democrazia.
Non necessariamente la scelta deve avvenire tra una concezione assolutista della libertà
di espressione ed una completamente opposta volta a punire qualsivoglia discorso
pubblico anche se privo di “potenzialità lesive”. Non è questa la sede per giudicare se
la concezione assolutista della libertà di espressione sia sostenibile, sebbene si possa
ipotizzare una risposta negativa dal momento in cui persino negli Stati Uniti sono state
ammesse limitazioni alla libertà di espressione; non è questa la sede per accusare alcuni
ordinamenti europei di disinteressarsi dei diritti di coloro che potrebbero sentirsi lesi da
manifestazioni di pensiero di stampo negazionista, né di riservare il “plauso” agli
ordinamenti che hanno previsto legislazioni memoriali.
In altri termini, la libertà è fattispecie ambigua e indeterminata, né la sua aprioristica
difesa sarebbe la regola, né la sua automatica incriminazione.
Difficile non essere retorici nel momento in cui ci si interroga sulla vis actractiva del
fenomeno che ha preso corpo, sulla concreta possibilità di scontentare “qualcuno”
attraverso una determinata visione della storia piuttosto che un'altra, nel facile
scadimento nella irruzione ed interruzione della quiete pubblica; inevitabile è anche far
riferimento al fatto che non è lontano il pensiero che leggi che tendano a punire il
negazionismo rischino di essere controproducenti: leggi che difettano della presenza di
un pubblico confronto e di uno spazio pubblico democratico aperto ben possono
160
risultare ambigue. Si dovrebbe piuttosto legiferare nel senso di correggere eventuali
errori commessi nella narrazione della storia, grazie alla documentazione nuova e
sopraggiunta di cui si viene ad avere disponibilità, dal momento in cui diffondere una
verità parziale o reticente rischia di rendere meno credibile l'intero messaggio.
Il fatto che nell’attualità abbia preso corpo una pratica infima, secondo i più, fino ad
imporre che nelle aule dei tribunali e dei Parlamenti si discorra, in maniera
probabilmente incompetente e incompleta, tanto di verità storica, quanto di
anacronistico ritorno al passato attraverso mezzi recenti, non può che condizionare il
futuro dei procedimenti giudiziari.
Può allora la semplice negazione della Shoah essere considerata in sé pericolosa e
sempre criminalizzata o dovrebbe essere punita solo a cagione di un pericolo che
scaturisca in concreto, anche sulla base del contesto in cui l’espressione è stata
manifestata? Può la libertà di espressione cessare di godere della garanzia costituzionale
per la sola ragione che la società possa ritenerla offensiva?
Alcune forme di discorso razzista provocano effettivamente danni tangibili: si tratta di
quelle forme di discorso che sono in grado di determinare in via diretta atti di violenza.
È evidente che il diritto in questi casi sia legittimato ad intervenire. In tali circostanze,
infatti, il discorso diventa sinonimo di un danno in senso tecnico e nessuna delle
giustificazioni della libertà di espressione meriterebbe di intervenire a “tutela”.
Vi è però una differenza sostanziale tra i discorsi la cui idoneità lesiva è ben
riscontrabile fino addirittura a prestarsi ad un semplicistico paragone con delle vere e
proprie azioni, e forme di manifestazione del pensiero che producono conseguenze non
immediatamente percepibili, incerte e alle volte solo astrattamente concretizzabili.
Ed invero, manca in tante legislazioni europee una “puntualizzazione” imprescindibile
dall’esercizio della libera manifestazione del pensiero: il legislatore in numerose
disposizioni normative ha mancato colpevolmente di precisare che la punizione della
negazione o della minimizzazione grossolana deve riguardare esclusivamente i casi in
cui “i comportamenti siano posti in essere in modo tale da istigare alla violenza o
all' odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”386. Tale precisazione sarebbe
completamente assente in alcune leggi memoriali adottate prima della richiesta di
uniformazione pervenuta dal Consiglio d’Europa, di talché la potenzialità lesiva delle
condotte negazioniste sarebbe completamente posta su di un piano trascurabile e
386
Così dispone invece la Decisione Quadro 2008/913/GAI, cit.
161
secondario, onde punire senza preoccupazione alcuna, sic et simpliciter causa della sola
manifestazione esternata di un pensiero negazionista.
È ineluttabile, inoltre, riflettere sul fatto che le disposizioni in questione abbiano
l’effetto di conferire una grande visibilità al negazionismo, e al negazionista di turno, il
quale inevitabilmente non farebbe fatica a diffondere, anche più efficacemente i propri
precetti, guadagnando copertura mediatica per la sua causa e dichiarandosi “martire”
della libertà387. Le leggi contro la negazione dell’Olocausto hanno avuto, per esempio,
un effetto esattamente contrario a quello desiderato: hanno sollevato dubbi sulla Shoah,
hanno portato la più parte degli Stati ad emularsi vicendevolmente nello
“svecchiamento” dei rispettivi codici, le leggi sono diventate oggetto mediatico, di
talché la spettacolarizzazione del passato ha finito per fare pubblicità e per concedere
quella visibilità ai negazionisti, che con i soli propri mezzi nessuno di loro sarebbe
riuscito ad ottenere. Prendiamo il caso di un qualsiasi negazionista condannato in
Europa sulla base delle leggi memoriali, e gli esempi non mancano: grazie alla quantità
di articoli scritti sulla propria condizione, grazie all’attenzione che la stampa ha
dedicato alla novità del fenomeno, quel negazionista ha acquisito una fama ben
superiore a quella di altri storici che si sono occupati di temi simili, ovvero di argomenti
diversi, ma dal probabile “peso specifico” e impatto sociale anche più elevato. Un
percorso simile caratterizza probabilmente la cronaca quotidiana: è come dire che
esistono due diverse forme di omicidio. Del “primo” se ne parla limitatamente perché il
colpevole ha confessato e non figurano nel caso concreto fattori interagenti in via
alternativa ad invalidare o sospendere il nesso di causalità; del “secondo”, si fa
quotidiana e alle volte fantasiosa “discettazione”, perché la verità stenta ad emergere, si
alternano illazioni, confessioni e ritrattazioni e le prove non sono schiaccianti. E allora
sarà il secondo delitto a “fare audience”, ad indurre la collettività a schierarsi, a
prendere posizione a dare notorietà al caso e all’imputato, riponendo su un piano
dislocato le vere vittime. E’ quest’ultimo un rischio che non stenta a prendere forma
anche nei processi alla storia e sulla storia.
Ed invero, se esiste una ragione per limitare la libertà di espressione esiste, questa trova
certamente il suo fondamento nella necessità di salvaguardare concretamente la
sicurezza nazionale, l’integrità territoriale, la sicurezza pubblica, la prevenzione del
crimine, la reputazione o i diritti altrui…etc, combinando la più grande libertà di
387
R. A. Kahn Holocaust Denial and the Law A Comparative Study cit,. p.. 6.
162
opinione necessaria allo sviluppo e al funzionamento della democrazia, con la sua
legittima protezione, distinguendo però tra opinioni tout court e opinioni lesive: solo in
presenza di un pericolo concreto a creare un danno grave e attuale, che vada ben al di là
del fatto di disturbare e infastidire il destinatario, ma che si funga da “collante” per
ripetere la tragicità del passato o per scatenare reazioni pericolose, le restrizioni adottate
dal legislatore sarebbero legittime; solo in un contesto del genere il pericolo diventa
evidente, ed evidente è anche la necessità di intervenire, ”censurando” eventualmente
manifestazioni della libertà di espressione e punendo il colpevole.
Se un avvenimento non incombe al punto da rendere impossibile un’esauriente
discussione, il rimedio da applicare è la libertà di espressione, non invece silenzio
imposto dall’alto. Si può proibire un dibattito quando esistono rischi incombenti ovvero
imminenti, diversamente non avrebbe senso farne un “tabù”. Ed è invece proprio verso
questo tabù che l’Europa intera si sta dirigendo.
Se si è concordi sul fatto che la pratica della negazione di ogni evidenza storica sia un
fenomeno in crescita, se si è concordi sul fatto che gli errori della storia non vadano
dimenticati, è vero anche che i meccanismi ad oggi adottati non sembrano tante volte
idonei a debellare un fenomeno, ma piuttosto mirano a punire incondizionatamente.
Orbene, la neutralizzazione del negazionismo non può rientrare tra i compiti del diritto
penale, se non attraverso rigorose distinzioni: si dovrebbe imporre una “clausola di
precisazione” nelle leggi memoriali, che al pari di quanto previsto anche dalla Decisione
Quadro Europea, dovrebbe infliggere pene solo in presenza di una conseguenza
concreta ed in termini di violenza fisica del discorso negazionista, favorendo così una
maggiore e più obiettiva valutazione del caso di specie onde rilevarne la portata lesiva
della manifestazione negazionista, così da non sottrarre le condotte dal vaglio della
pericolosità; in assenza di una qualsiasi conseguenza di tal specie il ricorso al diritto
penale diventa un rimedio inidoneo ed eccessivo. In altri termini, certamente non
possono ambire al beneficio della libertà di espressione coloro che ne fanno un “cattivo
uso”, non fosse altro perché obiettivo della “libertà di circolazione delle idee” è proprio
l’opposto di quello che è invece risulta violento e non pacifico.
Per quanto riguarda, invece, il ricorso massivo alla responsabilità civile per la
riparazione delle ferite della storia, se in alcuni casi lo stesso è apparso puramente
simbolico, avendo per esempio i “vincitori” provveduto a cedere la “ricompensa”
economica ad essi spettante, accettando euro simbolici purché accompagnati da scuse
pubbliche, in una visione materialistica e negativa del futuro prossimo, la
163
“giurisdizionalizzazione” del passato probabilmente tenderà ad assumere sfaccettature
differenti; così nei processi di riparazione, probabilmente la componente del ristoro
economico prenderà sempre più il sopravvento, e allora il “guadagno facile”, anche
sfruttando la storia non potrà che insediarsi nei contenziosi in materia di storia.
Ed invero, l’”addio” alla comprensione del passato e al rispetto delle vittime, nella
sempre pessimistica visione tracciata, non potrà, in questo modo, che allontanarsi
ulteriormente e forse definitivamente. E non solo, il giudice così facendo, assumerà
sempre più le sembianze di un giudice-storico, fino a sostituirsi completamente alla
figura dello storico stesso e, seppur per pervenire a conclusioni condivisibili nella
sostanza, il nuovo “ruolo” non appartenendo al magistrato in senso stretto, non rimarrà
esente da ostacoli e rischi concreti.
164
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Tesi Dottorato Dimattia Marina (2012)