IL CONSENSO INFORMATO NEL RAPPORTO DI CURA: UN APPROCCIO INTERPERSONALE ALL’
AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA
Una riflessione a margine del Convegno “L’attualità del consenso tra profili legislativi, deontologici, medico
legali e di responsabilità professionale”1
Enrico Bertrand Cattinari
Il dibattito più recente non manca di elementi di critica, anche aspra, alla medicina tradizionale, alle politiche
pubbliche in ambito sanitario e alla tendenza alla medicalizzazione della vita, o almeno di alcune sue fasi. Tuttavia, gli
spettacolari progressi scientifici compiuti in campo medico negli ultimi decenni hanno generato un sentimento di
fiducia spesso sproporzionato nelle possibilità terapeutiche, alimentando aspettative illusorie, che sono spesso destinate
a rimanere frustrate. D’altro canto, l’accettazione di un trattamento da parte del paziente è sempre stata legata, già prima
che l’etica medica e la giurisprudenza elaborassero la moderna nozione di consenso informato, ad una aspettativa del
malato riguardo alla propria salute. Il malato che oggi decide di sottoporsi un trattamento, esercitando il proprio diritto
all’autodeterminazione terapeutica, lo fa, in definitiva, per le medesime finalità per cui, in tempi meno recenti, si
sarebbe affidato al medico paternalista. Oggi però, il paziente medio dispone di una conoscenza di partenza molto
maggiore di quella che poteva avere, fino a poche decine di anni fa, chi si rivolgeva ad un medico. Questo costituisce
sicuramente un vantaggio per l’acquisizione del consenso, ma può anche rivestire aspetti problematici.
Se le informazioni di cui dispone conducono il paziente a nutrire aspettative sproporzionate rispetto alle
possibilità che la medicina può offrirgli. Se confida in una guarigione facile e completa quando questa sia improbabile,
o se non è consapevole dei rischi di insuccesso cui può andare incontro, l’ottenimento di un beneficio inferiore o di un
esito diverso da quello sperato può incrinare il rapporto di fiducia tra il medico ed il paziente. L’informazione ed il
consenso non servono quindi soltanto a garantire l’autodeterminazione del paziente ma sono oggi divenuti
indispensabili anche per rinsaldare questo rapporto.
Non è chiaramente facile, spiega Gianluigi Melotti, accettare l’eventualità che un trattamento possa comportare
complicanze molto gravi. Ma una comunicazione chiara è necessaria per ristabilire il rapporto di fiducia con il paziente
e per contrastare la percezione, talvolta diffusa anche dai fatti di cronaca, che la sanità non sia affidabile. Vi è un rischio
che è invincibilmente connesso all’attività sanitaria e questo deve essere spiegato anche quando i rischi sono maggiori,
perché purtroppo, più le procedure curano grandi problemi, più l’esito finale può essere anche la morte del paziente.
Il processo di informazione e acquisizione del consenso non può esaurirsi in una singola sessione o in alcune
sessioni specifiche ma riguarda tutto il percorso terapeutico e, secondo Marcella Vandelli, non si può parlare di un
momento dedicato a dare informazioni e a formalizzare il consenso scritto, distinto rispetto al momento nel quale viene
costruita la relazione con il paziente. Le due vicende si muovono in parallelo e avvengono simultaneamente,
influenzandosi reciprocamente, e la scelta che fa il paziente dipende direttamente anche dalla relazione che ha instaurato
con l’operatore sanitario.
Bisogna impedire, continua la Vandelli, che nella prassi l’informazione si esaurisca in una comunicazione
unilaterale e che il rapporto medico-paziente sia soltanto finalizzato o si riduca ad una acquisizione formale del
consenso. Vi sono infatti molti altri fattori che entrano in gioco nell’acquisizione del consenso e l’informazione deve
essere data all’interno di una comunicazione con il paziente, ossia all’interno di un particolare contesto interpersonale di
Organizzato dall’Azienda USL di Modena, presso la Camera di Commercio di Modena, il 12 dicembre 2012. Contributi: Giorgio
Pighi (Professore di Diritto Penale, Università di Modena e Reggio Emilia), Il consenso informato come presupposto del trattamento
medico: profili penali; Vito Zincani (Procuratore Capo, Procura della Repubblica di Modena), Il consenso e la sua prova nel giudizio
penale; Mario Leoni (Avvocato, Foro di Modena), Consenso e responsabilità civile: profili sostanziali e processuali; Nicolino
D'Autilia (Presidente dell'Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Modena), Il consenso informato tra privacy e
deontologia; Gianluigi Melotti (Presidente della Società Italiana di Chirurgia), La relazione terapeutica: finalità, ambiti e limiti
dell'informazione da fornire al paziente; Marcella Vandelli (Psicologa-Psicoterapeuta, Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico
di Modena), Aspetti comunicativo-relazionali del consenso
Informato; Patrizia Zavatti (Direttore Servizio Committenza, Azienda USL di Modena), Il consenso informato nel Soggetto Fragile:
il Minore, l'Anziano e il Demente; Ornella D'Orazi (Giudice Tutelare, Tribunale di Modena), L'Amministratore di Sostegno; Aldo
Ricci (Dirigente medico, S.C. di Medicina Legale e Gestione del Rischio, Azienda USL di Modena), Il rispetto dell'autonomia del
paziente: definizione di un protocollo operativo aziendale.
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interazione e di scambio. In questo senso si può dire che informazione, comunicazione e relazione sono contenute l’una
nell’altra.
Occorre compiere un ulteriore passaggio, secondo la Vandelli, rispetto a quello dal modello di rapporto
paternalista tra medico e paziente, al modello del consenso informato, promuovendo un modello interattivo, di
condivisione delle decisioni terapeutiche. È importante che per prima cosa il medico raccolga dal malato le
informazioni di cui ha bisogno per la sua valutazione e verifichi di averle comprese correttamente, in modo da
selezionare, in base ad esse, le informazioni da fornire poi al malato. Le informazioni devono essere confrontate con le
aspettative del malato, offrendo un approccio che consenta di individuare e attuare un trattamento che è frutto di un
“compromesso” tra il punto di vista del medico e quello del paziente, ossia tra considerazioni scientifiche e valutazioni
strettamente personali, in modo da ottenere una reale condivisione del progetto terapeutico.
La carenza di una vera relazione medico-paziente, come riferisce Nicolino D'Autilia, è la causa più ricorrente dei
problemi che afferiscono all’Ordine dei Medici di Modena per una valutazione da parte della Commissione di
Disciplina, che riguardano il consenso ai trattamenti. Se il contenuto della relazione si impoverisce non è più possibile
per il medico fornire un’informazione compatibile con le caratteristiche della persona che deve riceverla e che possa
quindi essere non solo formalmente corretta, ma reale e profonda.
Anche per documentare correttamente l’informazione e il consenso ai fini di un’eventuale tutela legale è
importante che essi siano concepiti come un percorso che interessa tutta la relazione terapeutica. L’informazione è parte
integrante dell’atto sanitario e pertanto, ricorda Aldo Ricci, in base al Codice di Deontologia Medica “la cartella clinica
deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente” 2. Per evitare che
insorgano difficoltà nel dimostrare che il consenso sia stato validamente acquisito, la documentazione sanitaria nel suo
complesso dovrebbe riportare il più fedelmente possibile quali informazioni siano state fornite e in che modo il sanitario
ne abbia verificato la comprensione da parte del paziente.
Proprio perché l’acquisizione del consenso e l’informazione ad esso preordinata sono parte del percorso di cura, i
problemi di prova del consenso sono, rileva Vito Zincani, gli stessi che investono ogni altro aspetto dell’intero
trattamento. Pertanto la prova del consenso non va riferita ad un singolo documento sottoscritto dal paziente, ma
all’intera documentazione sanitaria, eventualmente integrata con le deposizioni testimoniali.
In ogni caso, prosegue Zincani, per l’acquisizione del consenso non è sufficiente fare firmare un modulo senza
avere un rapporto diretto con il paziente. La giurisprudenza è concorde nel sottolineare che la comunicazione con il
paziente resta un elemento indispensabile e deve necessariamente essere correlata ad un rapporto di tipo fiduciario.
Perché il consenso non si trasformi in uno scudo artificioso è importante che il medico non lo percepisca come uno
strumento di tutela legale preventiva, ma come la base del pactum fiduciae con il paziente e quindi come un
presupposto del successo terapeutico.
Anche secondo Mario Leoni, peraltro, l’utilizzo di moduli standardizzati, ormai assai diffuso nella prassi
ospedaliera, raramente raggiunge i requisiti minimi per fornire la prova di cui il medico è onerato, soprattutto in sede
civile. L’obbligo di fornire al paziente una adeguata informazione riguarda ogni fase del trattamento ed è parte
integrante delle obbligazioni contrattuali gravanti sul medico, per cui, qualora egli non sia in grado di provare di avere
correttamente adempiuto tale obbligo, potrà essere ritenuto responsabile dei danni eventualmente patiti dal paziente,
anche se la sua condotta non risulta negligente sotto altri profili. Quindi è importante che il medico documenti in modo,
per quanto possibile, puntuale il percorso dell’informazione e i colloqui avuti con il paziente e se questi è stato messo in
condizioni di valutare diverse alternative terapeutiche o ha potuto chiedere chiarimenti.
Se è innegabile la centralità dell’aspetto relazionare nell’acquisizione del consenso, per stabilire quale debba
essere il contenuto di una corretta informazione, occorre però interrogarsi sul tipo di decisione cui il paziente viene
chiamato in ambito sanitario. Infatti, gli specifici ruoli che gli attori della vicenda del consenso ricoprono, così come in
particolare gli obblighi gravanti sui sanitari, possono essere compresi soltanto alla luce del significato che
l’autodeterminazione terapeutica assume nel rapporto di cura e del tipo di libertà che essa è intesa a tutelare.
Oggi non si pongono più dubbi sul fatto che l’autodeterminazione del paziente non incontri un limite nel
sacrificio della propria salute o persino della vita. L’obbligo del medico di iniziare e praticare la terapia cessa, come
ricorda Ornella D'Orazi quando insorge il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle
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Codice di Deontologia Medica, 16 dicembre 2006, art. 26.
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cure, anche quando da questo discenda il sacrificio del bene della vita 3. In tali ipotesi al medico è consentita al più
un’attività di persuasione intesa a convincere la persona a sottoporsi al trattamento consigliato, che però deve svolgersi
sempre nel rispetto della libertà del paziente.
Sul punto in particolare Giorgio Pighi spiega che il contenuto del consenso informato non consiste soltanto nella
libertà di decidere a quale trattamento sottoporsi, scegliendo tra un ventaglio di opzioni, ma anche di rifiutare
consapevolmente le terapie o di decidere di interromperle. Pertanto, il consenso non è dovuto soltanto quando occorra
scegliere tra una pluralità di opzioni terapeutiche, ma anche quando una sola tipologia di trattamento risulti clinicamente
eleggibile e necessaria.
Infatti, spiega Pighi, la decisione se curarsi o meno, se accettare i trattamenti o lasciare che la malattia compia il
suo corso, non è una scelta tecnica, che il medico può essere legittimato a compiere in sostanziale autonomia, ma
costituisce una fondamentale decisione personale del paziente, ossia rientra in quella tipologia di decisioni che la
dottrina del consenso informato è intesa a tutelare e in merito alle quali riconosce la piena e libera facoltà di scelta della
persona. In tale caso, quindi, come stabilito dalla Corte di Cassazione, la mancanza del consenso del paziente o
l’invalidità del consenso determinano “l'arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in
quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi
estranei sul proprio corpo” 4.
La fisionomia dell’autodeterminazione terapeutica tracciata dalla giurisprudenza di legittimità, prosegue Pighi, è
quella di una sfera personale del soggetto in cui egli è l’unico titolare del diritto di decidere per se stesso. Per cui, tali
decisioni non possono essere compiute dai sanitari. Il meccanismo del consenso quindi, non deve trasferire sul paziente
le scelte tecniche, la cui responsabilità rimane al medico, ma soltanto quelle il cui contenuto è strettamente personale, in
quanto il medico non ha alcun titolo per compierle al posto del paziente.
Prendendo come riferimento questo criterio, è possibile stabilire in concreto quali decisioni possono essere prese
dai medici in parziale autonomia e quali invece devono essere integralmente e inderogabilmente rimesse al paziente.
Come spiega Zincani, se da un lato il consenso deve essere effettivo e deve riguardare tutte le fasi del trattamento e,
inoltre, un consenso iniziale non implica che il paziente abbia acconsentito alle fasi successive, tuttavia, in alcuni casi, il
consenso può essere presunto. Ossia, in caso di contingente impossibilità di acquisirne la volontà, quando le circostanze
facciano presumere che la persona, se avesse potuto, avrebbe senz’altro accettato l’intervento, il medico può agire come
se il consenso fosse stato validamente prestato.
La possibilità di considerare il consenso acquisito in via presuntiva, continua Zincani, deve essere apprezzata in
relazione ai rischi, alla gravità e alla difficoltà del trattamento e alle circostanze concrete della relazione terapeutica
all’interno della quale il consenso viene richiesto. Se ad esempio, durante l’esecuzione, il medico si rende conto che
sarebbe necessario modificare l’intervento programmato, in alcuni casi potrà procedere considerando presunto il
consenso, mentre in altri dovrà fermarsi e raccogliere nuovamente il consenso della persona. In particolare il consenso
non può essere dato per presunto se l’intervento che il medico intende praticare può incidere sulla condizione della
persona e sulla sua qualità di vita futura. Infatti in questi casi ci troviamo di fronte ad una decisione che non è valutabile
solo dal punto di vista tecnico.
Il medico è chiamato a compiere tutta una serie di valutazioni che orientano la decisione del paziente, ma, spiega
Zincani, non può essere lui a stabilire se i rischi o gli effetti pregiudizievoli di un trattamento siano accettabili in
relazione ai benefici che esso può offrire. Si tratta infatti di una valutazione strettamente personale che può compiere
soltanto il paziente o chi sia dalla legge autorizzato a decidere in sua vece. Il paziente potrebbe anche compiere una
scelta contraria alla migliore tutela della sua salute, o decidere che non desidera essere curato o mantenuto in vita in
determinate condizioni. In questo senso, il consenso ai trattamenti è espressione dell’intangibile diritto di libertà della
persona di stabilire come vuole vivere.
La finalità dell’informazione che viene fornita al paziente non deve pertanto essere quella di istruirlo sugli
aspetti tecnici dei trattamenti o della sua condizione clinica, quanto quella di metterlo concretamente in grado di
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Tale orientamento, affermato nella sentenza sul caso di Eluana Englaro (Cass. civ. sez. I, 16 ottobre 2007 n. 21748), è stato
riaffermato più volte dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, di recente: Cass. civ. sez. III, 27 novembre 2012 n. 20984
e Cass. pen. sez. IV, 10 luglio 2009 n. 37875.
4 Cass. pen. sez. IV, 11 luglio 2001 n. 1572 (Firenzani), in Riv. it. medicina legale 2002, 867 (s.m.).
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apprezzare le decisioni che riguardano le sue condizioni e la sua qualità di vita presente e futura, in coerenza con il
riconoscimento del diritto alla salute come diritto personalissimo dell’individuo.
Come osserva la Vandelli, il linguaggio utilizzato per l’informazione, anche quando molto chiaro e puntuale, se
eccessivamente tecnico, rischia di depotenziare grandemente la possibilità per il paziente di essere consapevole delle
circostanze all’interno delle quali è chiamato a compiere la sua decisione.
Anche per Melotti l’ipertrofia dell’attività informativa può costituire un ostacolo piuttosto che un vantaggio per
un’effettiva comprensione da parte del paziente. L’informazione è parte della relazione continua tra medico e paziente e
il problema della sua qualità non si risolve con maggiori quantità di moduli, di opuscoli informativi o con un eccessivo
approfondimento di aspetti prettamente clinici.
Secondo D’Autilia un’informazione onesta, ossia concretamente capace di raggiungere lo scopo di porre il
paziente in condizione di compiere una scelta consapevole dovrebbe compiere uno sforzo di semplificazione, non solo
per quanto riguarda il linguaggio usato, ma anche i contenuti.
Il problema della complessità viene in evidenza, ricorda D’Autilia, soprattutto nei protocolli di sperimentazione
dove, alla persona che accetta di sottoporsi ad una sperimentazione, vengono sottoposti dei documenti informativi la cui
comprensione richiede spesso uno sforzo sproporzionato, in relazione al suo stato psicofisico e alle sue condizioni di
salute.
Il problema della complessità dell’informazione investe in generale il tema del consenso e, sotto questo profilo,
secondo D’Autilia, la preoccupazione dei rischi legali può costituire un ostacolo alla volontà di semplificare e rendere
più sintetica ed efficace l’informazione. Infatti molti medici si sentono maggiormente tutelati, in vista di eventuali
controversie, se hanno fornito un’informazione più esaustiva, anche se probabilmente è stata solo in parte compresa.
Nei corsi di laurea in medicina, spiega la Vandelli, non si insegna al medico come comunicare con il paziente,
anche se questa attività richiede specifiche competenze che dovrebbero essere sviluppate e approfondite.
L’informazione del paziente presenta problemi specifici e richiede particolari strategie per raggiungere l’obiettivo di
una reale comprensione. L’esperienza clinica mostra come spesso le informazioni che vengono fornite al paziente
vanno perdute o vengono deformate a causa del suo stato d’animo, delle esperienze vissute o delle informazioni
acquisite in precedenza. Il medico pertanto non può limitarsi a informare il paziente, ma ha il compito di verificare che
il paziente abbia compreso correttamente le informazioni ricevute.
Inoltre, spiega Patrizia Zavatti, il contenuto dell’informazione dovrebbe sempre essere rapportato alla possibilità
di comprendere del singolo paziente, alla sua storia, alle sue emozioni e al particolare momento che sta vivendo e non
definito solo in base alla patologia da cui è affetto o avendo come riferimento la capacità di comprensione di un
paziente medio.
Un paziente che è in una condizione di fragilità, prosegue la Zavatti, non può essere automaticamente ritenuto
incapace di prestare il consenso. Nella persona legalmente capace, la capacità a prestare il consenso è sempre presunta e
deve essere valutata in relazione al compito specifico che la persona ha di fronte. Infatti, ad esempio, la stessa persona
può essere in grado di assumere una decisione relativamente ad un trattamento semplice, con dei profili di rischio bassi,
ma può, nello stesso tempo, risultare de facto incapace di prestare un valido consenso ad un trattamento più complesso e
pericoloso.
Dal punto di vista operativo, nelle procedure per l’acquisizione del consenso informato ai trattamenti adottate
nelle strutture sanitarie, grande rilevanza pratica riveste l’adozione di appositi materiali informativi. Questi strumenti
consentono di selezionare in modo sistematico le informazioni utili e proporle con chiarezza anche per mezzo di
illustrazioni che le rendano più comprensibili per i pazienti. Tuttavia, l’impiego di tali materiali richiede particolari
cautele per evitare che comportino un’indebita standardizzazione del processo informativo e di acquisizione del
consenso.
Gli opuscoli informativi predisposti dalle strutture ospedaliere, osserva Zincani, sono senz’altro utili e in molti
casi indispensabili, sia sotto il profilo della comunicazione con il paziente sia a fini probatori, in sede di accertamento
giudiziario, ma non possono avere un ruolo esclusivo e non sono di per se soli sufficienti ad adempiere l’obbligo
informativo. Secondo Zincani, laddove si faccia uso di modulistica standard, sarebbe importante che all’interno dei
moduli utilizzati fossero previsti degli appositi spazi da compilare di volta in volta per adattarli al caso specifico.
Inoltre, l’utilizzo dei materiali informativi deve inserirsi nel processo di acquisizione del consenso senza
alterarne la corretta evoluzione. Come sottolinea Ricci, anche qualora la consegna dei materiali avvenga in un momento
precedente, il processo di informazione si compie solo nel momento in cui avviene il colloquio con il medico. Per cui, è
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comunque necessario che, dopo tale colloquio sia lasciato al paziente il tempo per elaborare le informazioni ricevute.
L’informazione deve sempre essere il frutto di una interazione diretta tra medico e paziente e, inoltre, è molto
importante tenere distinto il processo informativo, che è il momento sostanziale del consenso attraverso il quale il
paziente matura la sua scelta, dall’acquisizione vera e propria del consenso, in cui la volontà del paziente viene
formalizzata.
Secondo Ricci deve esserci un primo colloquio in cui al paziente vengono fornite le informazioni in modo
esaustivo, poi, dopo questo colloquio, al paziente deve essere lasciato il tempo necessario a elaborare le informazioni. Il
tempo di cui ha bisogno il paziente per decidere non può essere stabilito in generale, in quanto non esiste uno standard.
Il tempo di volta in volta necessario dipende dal paziente, dal suo stato fisico ed emotivo e dalla tipologia di
trattamento.
Poi il medico, continua Ricci, deve incontrare nuovamente il paziente per un ulteriore colloquio in cui verifica se
il paziente ha compreso gli elementi essenziali dell’informazione e se è pronto per prendere la sua decisione o se ha
bisogno di ulteriori informazioni o chiarimenti. Solo allora il medico può acquisire il consenso. In ogni caso, però, la
formalizzazione della volontà del paziente non chiude un processo, perché il paziente deve sempre essere messo in
condizione di chiedere ulteriori informazioni e anche la documentazione sanitaria deve dare conto dei successivi eventi
informativi.
A volte, è difficile, sottolinea la Zavatti, diluire il percorso di informazione nel corso del rapporto terapeutico e il
paziente è molto passivo durante il percorso diagnostico. Soprattutto in questi casi, dunque, quando viene fornita
l’informazione non ci si può aspettare che il paziente in pochi minuti riesca ad assimilare e rielaborare le informazioni
ricevute in un unico momento. Esiste una oggettiva difficoltà a conciliare i tempi dell’attività clinica con i tempi di
comprensione delle informazioni ed elaborazione delle decisioni sanitarie da parte del paziente. Infatti, il tempo di cui
può abbisognare il paziente non è valutabile a priori e può essere anche considerevole, soprattutto quando si è di fronte
ad un soggetto che si trova in una condizione di fragilità.
In conclusione, l’attuazione del principio del consenso informato incontra, nella pratica clinica, diversi ostacoli
di non facile soluzione e delicatissima rimane soprattutto la questione di come documentare in maniera soddisfacente la
correttezza delle procedure seguite. Per questo, lo svolgimento dell’attività sanitaria deve soprattutto ricercare un
contesto, per quanto possibile, favorevole ad un approccio non conflittuale al rischio non evitabile ad essa connesso e
all’eventuale insorgere di risultati non voluti.
In estrema sintesi, al medico è richiesto, da un lato, di assumersi la responsabilità esclusiva delle valutazioni
cliniche che gli competono e, dall’altro, di tentare di fornire al paziente un’informazione onesta e rispettosa della sua
libertà di decidere della sua sfera personale. Infatti, proprio attraverso questo tipo di informazione e di condivisione
delle decisioni terapeutiche è possibile rinsaldare quel rapporto di fiducia tra il medico ed il paziente che è
indispensabile, non solo alla buona riuscita delle cure, ma anche ad una autodeterminazione terapeutica che non
rimanga astratta, ma sia concretamente supportata dai curanti.
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