teorie: speciale Olivetti
Perché l’Olivetti non c’è più?
di Francesco Varanini
Si celebrano quest’anno i cent’anni della fondazione dell’Olivetti:
nell’ottobre 1908 nasce la società in accomandita semplice Ing. C.
Olivetti & Co. Con la mania degli anniversari che perseguita i
giornalisti, e anche certi esperti di comunicazione, ci saremmo potuti
aspettare più pagine e più eventi.
Celebrazioni e presunzione
C’è anche da dire che le celebrazioni che hanno avuto luogo hanno lasciato abbastanza a
desiderare. Del recente convegno promosso dalla Fondazione Istud1, per esempio, resta
nel ricordo l’incolore esibizione di Professori Ordinari di Storia Contemporanea, Professore Emeriti, ex Rettori, Dirigenti della Pubblica Amministrazione, Direttori Scientifici assortiti, giornalisti.
Pubblico in gran parte di anziani. Unico intervento magari anche criticabile, ma intenso
e appassionato, quello di Rosario Amodeo, Amministratore Delegato di EngineeringIngegneria Informatica: un imprenditore che nella sua vita è riuscito a fare qualcosa. Sapeva di quello che parlava, e con motivo rivendicava l’orgoglio di chi ha
salvato qualche pezzo dell’immenso patrimonio olivettiano. Un patrimonio di
cultura d’impresa, di modelli di business, di competenze e di tecnologie, di italianità e di orientamento al mercato globale. Interessanti anche le parole di Federico Butera, non parole di docente ma ricordi di giovane neoassunto. Spiacevole invece l’intervento di Pierpaolo Perotto, chiamato a ricordare il padre Pier
Giorgio Perotto, che negli anni Sessanta aveva progettato la macchina che conosciamo come Programma
101, e che ricordiamo come
la vera antesignana dei personal computer. Chiamato
a ricordare il padre, Pierpaolo, che a sua volta ha lavorato in Olivetti, parla solo
di sè, esaltando il proprio
ruolo. Un atteggiamento
diffuso, che accomuna figure professionali diversissime: manager, tecnologi, commerciali. La storia
Olivetti è troppo di frequente usata da
Ivrea, storica fabbrica in mattoni rossi:
persone che in quella vicenda ebbero
primo stabilimento nazionale di macchine per scrivere
un qualsiasi ruolo, alto o modestissimo
che sia, e che ora usano questa storia per celebrare se stessi, o per difendersi dal mondo.
Chi ebbe la ventura di lavorare all’Olivetti, troppo spesso tende a mantenere l’atteggiamento dell’eletto. Baciato dal destino, crede forse di meritare per questo onori, rispetto
e successo. La presunzione sostituisce la sostanza.
Costoro, invece di farsi belli di un passato di cui hanno usufruito, dovrebbero forse invece rispondere a una domanda precisa: perché l’Olivetti non c’è più?
False spiegazioni
Si è ripetuto in quel convegno ciò che in altre sedi era già stato ampiamente detto:
la storia Olivetti è un caso degno di essere studiato, un caso esemplare. Sì, è vero.
1
100 anni di Olivetti. Sabato 15 novembre 2008, Auditorium Il Sole 24 Ore.
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Ma il caso più interessante da studiare sta nella sua
fine. Nessuno l’ha raccontata bene questa storia.
Tutte le spiegazioni –di testimoni, di manager sopravvissuti, di studiosi– le trovo insoddisfacenti.
Penso alla fine ingloriosa dell’Olivetti: lenta fine,
che è iniziata con la morte di Adriano, nel 1960, a
soli 59 anni.
Agonia che si è prolungata fino a tutti gli anni novanta – in qualche modo fino a oggi.
L’Olivetti non è scomparsa a causa di carenze finanziarie. Le risorse finanziarie non sono mai mancate (così come non mancano oggi). Il problema
degli investitori è semmai quello di non capire nulla di tecnologie. Ma sta a manager e imprenditori
spiegare.
L’Olivetti non è mancata certo per carenze tecnologiche: sia al tempo del Mainframe, sia al tempo del
personal computer è giunta preparata.
L’Olivetti eccelleva nell’hardware e nel software.
Questa non è certo una condizione di svantaggio. Un management intelligente
avrebbe potuto scegliere.
L’Olivetti non è stata penalizzata
dalla localizzazione. Aveva siti produttivi in luoghi diversi e antenne
tecnologiche negli States. E comunque, il luogo non è mai un fattore
di successo insuperabile. Come si
producono automobili dovunque,
così dovunque si può produrre
hardware. Per il software, poi, il
luogo non esiste – e basterebbe ricordare i successi dell’India.
Negli stessi anni in cui l’Olivetti periva e deperiva,
in garage californiani, con risorse enormemente minori di quelle di cui disponeva l’Olivetti in quegli
anni, è nata dal nulla, una tra le tante, la Apple. E
negli anni in cui l’Olivetti, dopo iniziali successi,
non è riuscita a stare al passo nel mercato dei personal computer cloni del pc Ibm, la Compaq, che prima rincorreva l’Olivetti, si è affermata come grande
industria.
E nemmeno si può dire che l’Olivetti sia stata rovinata da carenze di Studi & Ricerche & Sviluppo.
Le teste, nelle università italiane, erano ottime.
Un’azienda prestigiosa attrae talenti di qualsiasi
provenienza, se vuole. E poi l’Olivetti aveva una
tradizione di scuola interna. Natale Cappellaro,
Mario Tchou, Pier Giorgio Perotto non erano stati
comprati a peso d’oro sul mercato dei talenti: erano
cresciuti in Olivetti.
Si sostiene anche che esisteva un problema familiare, un problema di passaggio generazionale. Il
problema c’era veramente, credo. Ma la Fiat, per
parlare del più evidente caso di capitalismo familiare italiano, proprio negli anni della crescita e della
crisi dell’Olivetti, mostrava con Vittorio Valletta
Programma 101. Il primo Pc della storia opera di un italiano
come si può supplire brillantemente a un vuoto generazionale.
Ho sentito anche dire che il fallimento dell’Olivetti è dovuto alla mancanza di regole che caratterizza il capitalismo italiano. Ma anche questa è
una spiegazione che non regge. È prendere il
problema troppo da lontano. Se proprio,
dico, un’impresa può radicarsi altrove,
qualcuno l’ha fatto, andando a cercare
nello scenario internazionale luoghi
retti da regole più sane o più precise.
E poi –e dovrebbe proprio essere il caso
dell’Olivetti, che ha creato dal nulla
una cultura d’impresa e anche una
città, Ivrea – chi, se non un’impresa,
deve e può creare per sé le proprie
regole, il proprio ambiente?
Persone
Poi si passa alle colpe ben indirizzate verso persone.
Dire che Bruno Visentini –grand commis (recita il
dizionario: ‘funzionario d’alto rango di una pubblica amministrazione’), signorile abitatore di salotti
buoni– dire che Visentini non era un imprenditore,
e non capiva nulla del business, e forse di business
in generale, è dire cosa ovvia.
Dire che Carlo De Benedetti, rampante finanziere
con pretese di imprenditore, allora reduce da rapido
e infelice raid alla Fiat, dire che De Benedetti non
era l’uomo giusto al posto giusto, è sparare sul bersaglio facile.
Entrambe persone con la penna d’oro in mano, pronti a firmare accordi, a proprio agio nel mondo della
finanza, ma abissalmente lontani dalla fabbrica.
Mi porrei piuttosto qualche altra domanda. Perché
la scuola Olivetti non aveva formato nessun manager in grado di garantire la successione. Magari
all’ombra di Visentini e De Benedetti, magari in
coabitazione. Nessuno in grado di tenere dritta la
rotta e di valorizzare le enormi risorse di cui l’impresa disponeva.
Certo, dalla scuola Olivetti sono emersi ottimi professionisti – tecnologi, ingegneri e professionisti
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
delle Risorse Umane, del Marketing. Persone che
debbono tutto a quella scuola, e che credo abbiano motivi di rimpianto: un’azienda così non credo
l’abbiano poi più ritrovata.
Ma credo che proprio questi professionisti abbiano
motivo di rimpiangere il fatto che di lì non è emerso
nessun manager veramente all’altezza.
Eppure, solo un manager cresciuto all’interno –per
la natura stessa dell’Olivetti, così legata a una cultura, a una storia– avrebbe potuto garantire all’Olivetti un futuro.
Se è possibile generalizzare, direi che faceva loro difetto un certo senso della realtà e del limite. L’aura
olivettiana toglieva spirito critico. Il senso di appartenenza tendeva a sconfinare, l’ho già notato, in gratuita presunzione. E impediva magari di guardare il
mondo con la curiosità, di prendere spunto da alte
scuole manageriali, impediva di guardare altrove e
forse di imparare tutto quello che si sarebbe potuto
imparare.
Credo si possa dire che questo atteggiamento olivetticentrico, autoreferenziale avesse poche eccezioni.
E che costituiva tratto comune degli olivettiani che
vissero prestigiose carriere, fuori dall’Olivetti, dopo
l’Olivetti.
Altra connessa carenza, forse la più grave, stava in
questo: aver ridotto l’Olivetti a idea, mito, un’icona.
Un’astrazione certamente ricca di riferimenti all’etica e alla libertà d’impresa. Ma un’immagine ‘dirigenziale’, aristocratica,
troppo lontana da ciò
che era l’impresa, nella
concretezza quotidiana,
per l’operaio, per il tecnico e per l’impiegato.
Probabilmente, tutti gli olivettiani in carriera, come voleva la
cultura della casa, da giovani avevano fatto
la loro gavetta lavorando in fabbrica, pur se destinati alla Direzione del Personale, o avevano battuto le
periferie vendendo macchine da scrivere. Ma credo
mancasse in molti la consapevolezza della centralità
della fabbrica – non dimentichiamo che c’è ‘fabbrica’ anche lì dove si produce software. Credo mancasse loro quella curiosità per le vicende delle persone,
quel gusto di muoversi nei meandri dello stabilimento, quell’attenzione ai dettagli, alle minuscole novità
che cambiano istante dopo istante l’impresa, corpo
sociale, sistema vivente.
Insomma, credo che ai manager Olivetti mancasse
quell’atteggiamento che ha ogni imprenditore degno
di questo nome, e che potrebbe, e anzi dovrebbe avere anche ogni manager.
Atteggiamento senza il quale Adriano Olivetti non
avrebbe mai scoperto le doti di Natale Cappellaro.
Operaio appassionato di meccanica che si portava di
nascosto a casa attrezzi e materiali, per progettare in
pace nuove macchine, lontano dagli ingegneri troppo legati ai loro schemi.
Ecco: i giovani filosofi che Adriano Olivetti portava
in azienda, per farne i futuri manager, sono rimasti
probabilmente, come gli ingegneri che Cappellaro
non sapeva digerire, troppo legati a una visione schematica delle cose. Incapaci di comprendere i Cappellaro, incapaci di scovarli, privi di interesse per loro.
A questa incapacità, credo, e non ad altro, si deve il
fatto che l’Olivetti non c’è più.
Cosa è mancato
Alla domanda: perché l’Olivetti non c’è più, risponderei dunque per carenze dei suoi manager.
Ne deriva un’altra domanda: cosa mancava loro.
Una prima risposta sta nella difficoltà di
crescere veramente stando accanto ad Adriano Olivetti:
crescere senza restare figli, o figure di contorno.
Qui va rilevato il difetto,
l’umanissimo limite del
grande leader carismatico.
Che lascia crescere, stimola
la crescita, purché nessuna
figura possa competere con lui.
Umanissimo limite che si manifesta, anche, nel tenere lontana da sè
l’idea della morte, esorcizzandola.
Quindi, nel non preparare la propria successione.
Olivetti Lettera 22
Ma c’è anche il difetto degli altri, delle teste brillantissime di cui Olivetti si era circondato. C’è il difetto
di chi è incapace di crescere, nonostante il contesto
difficile, ‘uccidendo il padre’ che si porta in sè. Se
questi manager fossero stati all’altezza del compito,
mi dico, l’Olivetti ci sarebbe ancora.
È cresciuta invece una classe manageriale di comprimari, più che di veri leader.
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
teorie: speciale Olivetti
Olivetti cento
di Emilio Renzi
Lunga la vita felice della Società Olivetti. Cent’anni quasi: dal 1908 (28
novembre) al 2003 (12 marzo). Oppure dobbiamo dire: breve la vita felice
della Società Olivetti? Ché essa fu spenta prima dei cent’anni. La chiave
dell’antinomia sta in quel ‘quasi’.
‘Quasi’ indica il modo del finale di partita. Quel ‘quasi’ assunse la forma della
coda del cavalluccio marino: che rientra su se stessa, non svetta più, impedisce
di correre, continuare, svilupparsi sia pure in altre direzioni. Finale penoso
e non solo per chi ci lavorava ancora, ma per i tanti che furono obbligati a
lasciarla nei dieci anni precedenti. Non meno dannoso anche da un rilevante
punto di vista oggettivo: la perdita per il sistema economico italiano, per il
complesso industriale europeo, per la cultura e la società italiana.
Emilio Renzi ha studiato
Filosofia all’Università
degli Studi di Milano e
ha lavorato alla Olivetti,
Direzione relazioni culturali.
Attualmente docente di
Semiotica presso la Facoltà
del Design del Politecnico
di Milano, polo Bovisa. Ha
scritto “Caro Ricoeur, mon
cher Paci. Dialogo in cinque
scene”, Cuem, Milano 2006,
e “Comunità concreta.
Le opere e il pensiero
di Adriano Olivetti”,
prefazione di Giuseppe
Galasso, Alfredo Guida
Editore Napoli 2008.
Olivetti cento, ovvero le celebrazioni per i cent’anni della fondazione della Società in Ivrea a opera dell’ingegner
Camillo Olivetti, hanno riflesso quasi a opera di
un’inconsapevole regia le oscillazioni, le antinomie, i dolori e le glorie, la beffa insomma di una
storia quasi-centenaria.
Primo fu il francobollo. Come nei racconti
dell’Ottocento, un bel giorno le Poste recapitarono un messaggio affrancato... Il francobollo, prodotto
da I.P.Z.S. SpA, Roma, 2008 e firmato da G. Ieluzzo, reca la
scritta ‘Centenario di Fondazione della Prima Fabbrica’, nel carattere Courier delle macchine per scrivere. Raffigura la fabbrica in mattoni rossi, fatta edificare da
Camillo e ancor oggi esistente. Al di sopra svolazza il primo logotipo della Società:
il cognome completo, in caratteri d’epoca come si suol dire, ossia in corsivo inglese. A destra, massiccia, scura e autorevole, la visione prospettica della macchina
per scrivere M1, progettata e prodotta da Camillo per l’Esposizione universale
di Torino del 1911, anno cinquantenario dell’Unità d’Italia. (Consideriamo sin
da ora: all’Esposizione che si sta allestendo
a Torino per i centocinquant’anni della prima capitale dell’Italia unita nessun prodotto della Olivetti sarà esposto, e cosa ben più
drammatica, proprio pochi prodotti originali
di una qualsiasi industria nazionale).
Una bella società
L’atto successivo va in scena ancora a Torino,
proclamata World Design Capital 2008: si deve
pensare grazie ai risultati dell’auto nel settore
della meccanica. Da metà giugno a metà luglio,
la mostra ‘Una bella società’, curatori gli architetti Manolo De Giorgi ed Enrico Morteo, contributi di Alberto Saibene e Patrizia Bonifazio oltre che di De Giorgi, Morteo,
Alexia De Steffani, Mariana Siracusa, Alessandro Uccelli.
Nella mostra, la storia della Olivetti inizia correttamente con i disegni e le macchine di
Camillo, prosegue e si conclude sin quasi alla fine. Gli anni Ottanta sono trascurati, i
Novanta e quelli finali neanche accennati. La stazione più bella ed emozionante della
rassegna è la ricostruzione al vero del negozio Olivetti di Carlo Scarpa a Venezia. Valida
la serie di installazioni che mostrano materiale audiovisivo noto e non frequentato.
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
sato: è il volume di Patrizia Bonifazio ed Enrico
Giacopelli, del Politecnico di Torino, intitolata
Tutto questo vien fuori bene nel Catalogo pubbliIl paesaggio futuro: letture e norme per il patrimocato per i tipi di Allemandi, Torino. Il saggio di Alnio dell’architettura moderna di Ivrea (Allemandi,
berto Saibene “Albergo Dora” racconta con molti
2007). Come la città di Ivrea (istituzioni e persone)
particolari anche gustosi la raccolta che Adriano
valuti e rivaluti un patrimonio urbanistico, progetOlivetti fece di laureati, poeti e grafici, e il fascino
tuale ed edilizio moderno-razionalistico a dir poco
che la Olivetti, la città, l’Albergo Dora e Scudo di
raro in Italia, dovrebbe costituire un tema condiviFrancia, la vista dall’alto sulla Dora Baltea, la fabso da tutta la cultura italiana e non solo dagli archibrica (ma non le idee del comunitarismo adrianeo)
tetti, per i quali come si sa Adriano Olivetti costituesercitarono su personalità anche non facili, come
isce una delle stelle polari del Novecento.
Franco Fortini, Giovanni Giudici, Paolo Volponi.
Importante contributo è il Quaderno su AdriaLa parte consistente del Catalogo è formato da un
no Olivetti e le Edizioni
sorta di ‘dizionario olivetComunità (1946-1960) di
tiano’: una novantina di
Beniamino de’ Liguori
voci in ordine alfabetico
Canino, edito dalla Fonsulle tante sfaccettature di
dazione Adriano Olivetti
quell’universo, narrate in
(lodevolmente
immestesti né brevi né lunghi e
so in .Pdf sul sito della
integrate da belle illustraFondazione). È dedicato
zioni, alcune delle quali
ai libri e alla rivista della
non frequenti. Chiude
Casa editrice fondata da
una conversazione con
Adriano e può esser l’avRenzo Zorzi, per decenni
vio della necessaria narraresponsabile delle attività
zione storico-critica della
culturali ed editoriali delCasa editrice, a tutt’oggi
la Società.
mancante.
Se si eccettua la CronoAnche il saggio di Davilogia che regolarmente
Negozio Olivetti. San Marco, Venezia
de Cadeddu, Gli albori
informa sino al 2008, il
del Movimento Comunità (1947-1949), apparso nel
corpo del Catalogo/Mostra ossia
n. IX/6 (novembre 2008) della rivista ‘L’Acropole voci del lessico famili’, colma una lacuna, almeno inizialmente. Il Mogliare olivettiano non
vimento Comunità non è infatti preso nemmeno
vanno oltre quella sorta
in minima considerazione nei manuali e storie dei
di autocensorio tetto di
partiti e delle idee politiche del Secondo Novecento
vetro costituito appunitaliano.
to dagli anni finali e dalla
fine fattuale.
Civitas hominum
Nello stesso periodo di pieGiuseppe Lupo e l’editore Aragno di Torino rina estate giunge in libreria
pubblicano gli scritti di Adriano Olivetti degli
quel tipo di ricerche conanni della formazione prima della guerra, rivolcepite molto tempo prima
ti all’organizzazione del lavoro e all’urbanistica: i
e che non fanno parte della
temi che com’è noto lo appassionarono allora e poi.
programmazione ufficiale o
La raccolta si intitola Civitas hominum. Scritti di
ufficiosa delle celebrazioni centenarie. Ed è qui il
urbanistica e di industria 1933-1943.
punto di divaricazione da cui cominciano a rendersi
La contrattazione aziendale. Esperienze in Olivetti
visibili le faglie del discorso critico sulla Olivetti:
1975-1995 di Raffaele Del Vecchio (Bruno Mondai vari approcci e le risposte diverse alla sua genesi,
dori, 2008) rappresenta già un discorso che, sia pur
ascesi, sviluppo, declino e caduta.
sotto un punto di vista parziale, si tiene alle spalle
Vi sono ricerche che si occupano della Società e di
gli anni di Adriano e si inoltra negli anni delle presuoi specifici aspetti sino agli anni che precedono
sidenze di Ottorino Beltrami e di Carlo De Beneil marasma finale. Sappiamo tutti che ogni storia è
detti e dei rispettivi management.
storia contemporanea perché nasce da un problema,
Anche il volume Quattro anni con Olivetti. Riflessioun interesse, uno spasmo del presente, e dunque la
ni e interviste da una ‘Città dell’uomo’ (2004-2007)
dicitura ‘ricerche storiche’ non dev’essere intesa in
allunga lo sguardo su tutta la vita della Società. Esso
un significato miope del termine.
raccoglie gli atti delle giornate di studio organizzate
Ecco quindi un’opera specialistica importante, che
per quattro anni consecutivi a Imola dall’associasi preoccupa dei modi per dare continuità al pas-
Albergo Dora
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
zione “Città dell’uomo”. Stampato dall’Editrice
La Mandragora di Imola, è a cura dei promotori
– Antonio Castronuovo e Mauro Casadio Farolfi e
testimonia non solo dell’attenzione diffusa in molte
parti d’Italia, ma anche dell’importanza attribuita
al nesso tra comunitarismo e cooperativismo.
Più densa della mostra torinese quella montata a
Ivrea tra ottobre e novembre dall’Archivio storico
Olivetti, alle Officine H, affidata per l’allestimento a Pier Paride Vidari e a Federico Vidari e per i
contenuti ad Alberto De Macchi, Giovanni Maggia
ed Eugenio Pacchioli. Dalla mostra origina la
giornata Olivetti rivolta agli
studenti della Facoltà del
Design del Politecnico di
Milano/polo Bovisa, il
28 ottobre, coordinatore
Paolo Ciuccarelli, relatori Mauro Broggi, Alberto De Macchi, Emilio
Renzi e Pier Paride Vidari.
Negli ultimi giorni di ottobre
tambureggia l’eco delle celebrazioni ufficiali. La Fondazione Olivetti
le organizza a Torino, invitando tra
gli altri Roberto Colaninno e, a Milano, Carlo De
Benedetti. Più ascoltata, forse, l’intervista radiofonica a Elserino Piol, dai microfoni di RadioRai Tre,
la mattina del 23 ottobre.
no (e capitani coraggiosi bresciano-mantovani) per
reperire i mezzi per l’Opa a Telecom, il vero anno
cruciale è il 1989, quando la fuoruscita del partner
americano AT&T e la crescente stretta della concorrenza internazionale sui piani congiunti dei prodotti innovativi e dell’erosione dei prezzi sancisce
l’addio alla prospettiva di fare del gruppo di Ivrea
un player globale” (p. 326). Talché non sarà più
metamorfosi, in ogni caso preceduta dalla diversificazione degli investimenti da parte di De Benedetti in settori e aree geografiche anche lontane. La
dismissione dell’informatica non è che una
consequenziale tragicità.
La metamorfosi
La conclusione di Bricco è che ‘in un settore
come l’informatica, segnato da transizioni tecnologiche di rottura e da un
elevato grado di concorrenza,
dalla necessità di ingenti capitali
e da strutture di mercato multiformi e in
perenne mutamento, De Benedetti ha operato con
un impegno costante, ma non esclusivo, come probabilmente sarebbe stato richiesto” (p. 341). Questo non toglie che si debba parlare della fine della
Olivetti come di “uno dei casi a maggiore rapidità
di consunzione nella storia del capitalismo italiano”
(p. 323).
Completa il documentato quadro una panoramica sulla metamorfosi del distretto industriale del
Canavese: le piccole imprese e la disoccupazione, i
ritorni e i tentativi di intraprese, il ruolo dell’amministrazione locale e il Patto territoriale del Canavese. E la dinamicità nonostante tutto della media
industria, “pur nell’unicità di un passaggio storico
segnato da un crollo industriale unico nella sua rapidità e violenza” (p. 378).
Bricco ha curato anche un bel paginone polifonico
del Sole 24 Ore apparso il 23 ottobre 2008, il cui titolo generale è Lo spirito Olivetti e tutti i suoi eredi.
Viaggio tra le 98 imprese nate dopo il dissolvimento
della vecchia fabbrica.
Da realtà industriale a fenomeno finanziario
Ricerca che viceversa indaga proprio gli anni ultimi della Società e anzi di Ivrea e del distretto del
Canavese dopo la chiusura della Olivetti è il saggio di Paolo Bricco, Dalla crisi della grande impresa
all’imprenditorialità diffusa: la Olivetti e l’Eporediese, contenuto nel volume collettivo La questione
settentrionale. Economia e società in trasformazione,
curato da Giuseppe Berta e pubblicato nell’Universale Economica Feltrinelli, 2008.
Bricco conduce l’analisi, in termini di cronaca
stretta e di tabelle numeriche, del passaggio della
Olivetti da realtà industriale a fenomeno finanziario et ultra. Bricco distingue quattro metamorfosi
nella storia dell’azienda: con Adriano dalla meccanica semplice a quella più complessa delle calcolatrici; nel 1972 (Beltrami e Bellisario) la conversione
all’elettronica; nel 1978 (De Benedetti) il passaggio
all’informatica, con il 1986 come ultimo anno di
crescita e il 1991 con il primo ‘rosso’ nel bilancio.
È del 1994 “il tentativo debenedettiano di indurre
nel complesso, e ormai in via di decomposizione,
corpo industriale, finanziario e tecnologico olivettiano” (p. 325) il nascente business delle telecomunicazioni, nella forma della telefonia mobile. “Se la
mossa –il cui padre naturale è com’è noto Elserino
Piol­– inizia bene ma verrà poi ribaltata da Colanni-
Il declino
Anche il saggio nello stesso volume di Fabio Lavista,
Il declino della grande impresa, si occupa in larga misura, com’è naturale, della parte discendente della parabola della Olivetti, dalla fondazione e poi cessione
della Divisione Elettronica alla cessione e dissoluzione di tutto. Istruttivi confronti con i picchi e le riprese
di Pirelli e di Fiat. Questi saggi presuppongono l’accoglimento delle tesi sulle trasformazioni profonde in
atto nel capitalismo italiano sostenute dalla maggior
parte degli storici: segnatamente da Giuseppe Berta,
nei suoi Metamorfosi. L’industria italiana fra declino
43
PERSONE&CONOSCENZE N.45
e trasformazione (Università Bocconi, 2004), L’Italia
delle fabbriche (il Mulino, 2006) e Nord. Dal triangolo
industriale alla megalopoli padana 1950-2000 (Mondadori, 2008).
Replica, in un certo senso, alle celebrazioni ufficiali, è
stato il Convegno organizzato dalla Fondazione Istud
ma anche dalla Fondazione Olivetti stessa nell’Auditorium del Sole 24 Ore, il 15 novembre a Milano,
regista dal tavolo Marco Vitale. Tre i contributi che
segnaliamo: la comunicazione di Giuseppe Rao su
Mario Tchou e l’Elea 9003; la relazione su “Olivetti nella grande sfida internazionale dell’informatica”
di Rosario Amodeo; la presentazione dei
risultati dell’indagine conoscitiva condotta da Istud tra una rete di manager
olivettiani e non olivettiani, partendo dal
quesito: “Olivetti: cosa resta?”.
La relazione di Amodeo è quella che affonda nel merito. Ammette che la superiorità in mezzi economici e in tecnologia
della Ibm non poteva che far affondare
la Divisione Elettronica della Olivetti
e ogni suo grande progetto, più ancora
della cattiva volontà del ‘gruppo di controllo’ (leggi: Fiat) al comando dopo la
morte di Adriano. Ma dimostra l’incomprensione, le
mosse incerte e la dissipazione strategica e tattica della
Olivetti di De Benedetti, esattamente in quel settore
che doveva rivelarsi il più ricco e importante e anzi
decisivo dell’informatica: il software e i servizi. Settore, bisogna aggiungere, ancora oggi ignorato dagli
analisti e dagli studiosi.
il 22% è attuale, per il 15% è desueto, per il 10% è
inesistente, ma per il 45% è desiderabile. In conclusione: non alimentare il mito, farlo emergere nelle
Business School e nelle Università come un patrimonio accessibile, laicamente interpretabile.
Infine, opera di sintesi, nel senso che cerca di esporre assieme e di mostrare la coerenza e le intime relazioni tra le molte attività di Adriano Olivetti, è
la monografia di Emilio Renzi, Comunità concreta.
Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, per i tipi
di Alfredo Guida Editore Napoli. Poiché autore
del libro e autore del presente saggio sono la stessa persona, non se ne parlerà qui. Sia
solo concesso di indicare l’attenzione
non consueta portata all’opera teorica
di Adriano Olivetti, L’Ordine politico
delle Comunità, scritta nell’esilio svizzero, apparsa nel 1945 e introvabile da
anni; e che nella conclusione che va oltre Adriano sino al 2003, si spende il
termine ‘olivetticidio’.
Anche la tesi del convegno Fiom/Cgil
Piemonte di metà dicembre è così presentata: ‘La Olivetti è stata vittima di
un vero e proprio omicidio industriale’.
Linguaggio più casto, ma contenuti non meno decisi quello usato qualche settimana prima nel Convegno di studi organizzato dalla Diocesi di Ivrea.
Anche perché pochi lo sanno, ma una realtà industriale che si chiama Olivetti esiste ancora e meglio
sarebbe dire resiste ancora, arroccata tra Ivrea e le
propaggini della Val d’Aosta. Da quell’estate del
2003 la Telecom racchiude nel proprio seno alcune
centinaia di persone, due fabbriche (Agliè e Arnad)
e una tecnologia proprietaria, inventata dalla Olivetti: la tecnologia di stampa ink-jet. Ma Telecom
dev’essere una madre arcigna se le più recenti notizie di stampa, peraltro su testate locali e non nazionali, riportano di smobilitazioni, riconversioni,
Cig. Arnad è ristretta, Agliè è caduta. Per contro
una piccola, piccola buona notizia è arrivata attraverso gli infiniti fili della rete dalla sfarinata fabbrica di Pozzuoli, uno dei capolavori e di Adriano e
dell’architettura italiana del Novecento. In un’ala,
a cura della Regione Campania, è entrata in funzione la più grande struttura di asilo nido aziendale del
Mezzogiorno.
E sarà insomma ben sintomatico che nel recente Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista
(Marsilio, 2008) Massimo Teodori riservi un capitolo alla rivista Comunità, con tutto che Adriano
mai si definì laico bensì cristiano, e che un saggio
che si intitola Adriano Olivetti nei percorsi storici
del comunitarismo appaia per la firma dello studioso
Giorgio Campanini nel numero di dicembre 2008
della rivista della sinistra cattolica Aggiornamenti
sociali.
Il modello Olivetti
Ora, queste in sintesi le domande e le risposte della
ricerca Istud. Esiste nella memoria un modello Olivetti, che si esprime in quattro elementi ricorrenti:
struttura organizzativa flessibile, poco formalizzata; leadership forte e carismatica; gestione delle
risorse umane centrata sulla valorizzazione del potenziale; innovazione di prodotto attenta all’estetica come elemento strategico e distintivo. Esiste
nella memoria una corona di valori: attenzione alla
Persona; libertà di pensiero; rispetto per la diversità; partecipazione sociale e consenso (stakeholder
relazionali). La conoscenza oggi del modello Olivetti si affida per il 26% alla presenza di un imprenditore illuminato; per il 24% al design industriale
e ai prodotti; per il 19% alla sventura finanziaria;
per il 13% alla centralità della persona; per il 12%
all’organizzazione di successo.
È, il ‘modello Olivetti’, attuale? Il 48% vede meglio
il modello gerarchizzato; il 68% antepone la guida
e intuizione al carisma; il design resta centrale in
quanto elemento driver ossia fertilizzazione/contaminazione fra mondo aziendale e mondo culturale. In definitiva è più desiderabile che attuale: per
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
PERSONE
CONOSCENZE
LA RIVISTA DI CHI INVESTE SU SE STESSO
Presentano
Roma
12 febbraio
Hotel Melià Aurelia Antica
Bari
19 marzo
Sheraton Nicolaus Hotel
Bologna
6 maggio
Savoia Hotel Regency
Milano
18 giugno
Atahotel Executive
Torino
6 ottobre
NH Jolly Ambasciatori
Padova
18 novembre Sheraton Padova Hotel
Sei convegni rivolti a Responsabili Risorse Umane,
Responsabili Organizzazione, Responsabili IT e in
generale a Manager e Imprenditori che gestiscono
le Persone in Azienda.
Per confrontarsi e conoscere le pratiche di gestione
delle Risorse umane dal punto di vista organizzativo,
formativo e tecnologico.
teorie: speciale olivetti
Cent’anni di Olivetti, cent’anni di solitudine
di Pietro Condemi
Nel 1908 nasceva a Ivrea la società Ing. C. Olivetti & C. con 20
dipendenti; nel 1968 conterà oltre 60.000 dipendenti in cinque continenti.
Un successo imprenditoriale da manuale, un esempio strategico,
manageriale, culturale e sociale che vorrebbe proporsi a ogni uomo,
prima ancora che a ogni azienda. Equità, responsabilità sociale, fiducia,
partecipazione e trasparenza sono temi dibattuti da molti, attuati da
pochissimi; la Olivetti li ha incarnati, li ha resi manifesti e concreti
esercitando un potere: il potere di fare impresa diversamente.
Pietro Condemi vive e lavora
a Milano come imprenditore
e docente Silsis nell’area di
Scienze dell’Educazione.
È stato un imprenditore
industriale e ha coperto, nel
corso degli anni, funzioni
di Responsabile Vendite
Italia, Marketing Manager,
Consulente aziendale.
Nel 2004 si è laureato in
Scienze dell’Educazione
all’Università di MilanoBicocca.
www.ipoc.it
L’anno 2008, oramai a conclusione, verrà certamente ricordato per l’elezione del primo presidente afro-americano degli Stati Uniti d’America. Qualcuno lo ha definito un evento più ancora che un avvenimento, per le sue conseguenze globali a livello epistemologico prima ancora
che politico; l’Altro, il diverso, assurge alla massima carica politica dei nostri tempi, testimoniando di per sé una logica incentrata sul dialogo, sull’avvicinamento tra culture, sull’unità
di aspettative che non possono più essere prerogativa solamente dell’uomo ‘bianco’. Tuttavia
esiste una differenza tra avvenimento ed evento, che per essere tale necessita di attualizzarsi.
Tristemente assordato dalla logica del profitto e dal dirigismo politico, il 2008 sarebbe tuttavia
un anno importante, sia per l’Italia sia per il mondo intero, per un reale evento risalente a 100
anni fa, ovvero la nascita della Olivetti di Ivrea, fondata appunto nel 1908; se a prima vista il
termine ‘evento’ può sembrare fuori luogo, cercherò di motivare tale scelta e il paragone con il
neo-presidente americano.
Evento come attualizzazione
Dopo aver assistito all’incontro promosso per ricordare i cento anni della nascita dell’azienda,
organizzato dalla Fondazione Olivetti a Milano, che faceva seguito alla mattinata svoltasi a Torino, e dopo aver avuto la fortuna di assistere agli splendidi spettacoli teatrali di Laura Curino
e Gabriele Vacis, dedicati rispettivamente a Camillo e Adriano Olivetti, confesso di essermi
commosso; i motivi di tale stato d’animo sono stati la figura di Laura Olivetti e l’essenza del
messaggio di Adriano Olivetti. Così pacata, così dolce, così nostalgica la prima: traspariva,
palpabile, non solo il sentimento e la tristezza per la prematura perdita del padre, ma tutta
quella umanità, quella disponibilità e timidezza
che ci viene testimoniata da chi Adriano Olivetti
l’ha conosciuto. Così profondo, così carico d’immanenza, così pregno di senso il secondo.
Evento, dicevo. Osserva Diego Napolitani (Individualità e gruppalità, pp. 42-57):
“La destrutturazione degli accoppiamenti cognitivi già
dati è la condizione necessaria per la strutturazione di
nuovi accoppiamenti, che possiamo descrittivamente
accostare a certi fenomeni fisici come la turbolenza, ‘per
Adriano Olivetti
i quali non abbiamo addirittura elementi che ci permettano di immaginare in dettaglio un sistema deterministico che dia loro origine’ (Maturana e Varela, 1987).
Questi accoppiamenti si stabiliscono tra quella cognizione che si annulla e si apre, che muore e rinasce… ed
elementi emergenti del mondo trasformato. Questi elementi emergenti sono letteralmente gli eventi, ciò che
viene incontro allo stupore nell’ambito di una turbolenza non descrivibile se non nei termini della casualità.
Ciascun evento è di per sé indicatore di una direzione, di un senso che rimanda a un altro evento, che a sua volta
rimanda a un terzo evento e così via fin tanto che non si delinea un percorso connettivo sufficiente per compiere
un certo attraversamento di quello spicchio di mondo che è stato rifondato e di consentire quindi di farne un
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
a salvaguardia dell’ambiente; edifici luminosi e moderni (dalla fabbrica di Pozzuoli, del 1955, si poteva vedere
il mare); massima cura nella progettazione dell’ambiente
di vita-lavoro (“Quando un ente di riforma costruisce un
Nel 1926 Adriano Olivetti, di rientro dal suo viaggio negli
villaggio di agricoltori o un centro di servizi, controlla con i
Stati Uniti, inizia a collaborare con il padre Camillo per rimuri delle case e gli edifici pubblici un determinato assetto
organizzare la produzione; la fabbrica conta 500 dipendensociale”, Adriano Olivetti).
ti, per una produzione annua superiore a 8.000 macchine
La cultura si riflette non solo in quanto sopra, ma prende
da scrivere. L’‘accoppiamento cognitivo’ di Adriano concorpo nel famoso Centro Formazione Meccanici (1936):
siste nell’organizzazione scientifica
si insegnano cultura generale, politaylorista del lavoro, la modalità più
tica, economica e sindacale, educaefficiente per produrre a costi bassi.
zione artistica, accanto alle materie
L’impennata produttiva che ne contecniche; la formazione informale
segue avrebbe potuto esaurire, sotto
comprende la casa editrice Ediziola spinta della conseguente esplosione
ni di Comunità, la rivista Comunità,
degli utili aziendali, ogni ulteriore idea
moltissime altre riviste sostenute ecoemancipativa; ma quell’uomo “timido
nomicamente, il Centro Culturale
e silenzioso”, che quando parlava fisOlivetti, l’Irur, nato per condividere
sava “il vuoto coi piccoli occhi celesti,
e aiutare altre iniziative produttive
che erano insieme freddi e sognanti”
mettendo a disposizione la cultura
(Natalia Ginzburg, Lessico famigliare,
e le esperienze maturate all’interno
Camillo Olivetti
p. 66) era ‘turbolento’, cercava nuove
dell’impresa Olivetti.
connessioni di senso per sé.
A metà degli anni
Scriverà nel 1955 (Città dell’uomo, 1960): “Può l’inCinquanta prende a
dustria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente
funzionare il Centro
nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apdi Psicologia: si studia
parente qualcosa di più affascinante, una destinaziola relazione tra procene, una vocazione anche nella vita di fabbrica?”. La
dure di produzione e
direzione è già tracciata, il ‘percorso connettivo’ è già
disturbi psicofisici, allo
strutturato per riattraversare il mondo e per farne un
scopo di intervenire
racconto; quel che manca ancora è l’attualizzazione,
direttamente
presso
appunto ‘l’eventualizzazione’ del mondo. Eventum,
l’Ufficio tempi e metoda e-venire, ovvero accadere, venir fuori: deve concredi; il lavoro frantumato
Irur, Centro Culturale Olivetti
tizzarsi, deve realizzarsi. E si realizzerà. L’ingegnere
e dequalificato riduce i
Adriano corre in aiuto del filosofo Adriano: complessoggetti a non usare la propria intelligenza, a non ritrovare
sità e non determinismo e consequenzalità, uno straordiun significato nel proprio ruolo sociale, a viverlo come un
nario breakdown frutto di tormenti, idee, riflessioni, pragmale necessario “sacrificando il bisogno di responsabilità
matismo, responsabilità, progettazione, sogno: un evento
e autonomia” (Francesco Novara, Psicologi in fabbrica).
storico.
Occorre intervenire: personalizzazione del metodo di lavoro, rifiuto della dicotomia quantità-qualità, apertura ad
Una rivoluzione copernicana
arricchimenti funzionali della mansione, supporto formaLe consolidanti modalità operative della fabbrica vengono
tivo per la professionalità. Come ricorda Franco Ferrarotti,
ridiscusse: il lavoro diviene mezzo e non fine per liberare
per Olivetti l’organizzazione era “capacità di far convivere
l’uomo dall’ignoranza, prima di tutto, e dal bisogno. Il saesigenze umane, tecniche, meccaniche, industriali, amper fare non è abbastanza: senza cultura non si può progetbientali” (La rosa di Jericho, p. 73). Cento anni fa nasceva
tare, non si può pensare al nuovo, non si possono destrutdunque una fabbrica, come soleva chiamarla Adriano Oliturare gli accoppiamenti cognitivi che ci fanno replicare il
vetti, il cui scopo si andava via via modificando, mettendo
passato.
sotto critica un paradigma nascente e destinato a governare
L’attualizzazione prende corpo in biblioteche, scuole, asili
il mondo, debordante, come ci insegna Michel Foucault, in
nido, case per le vacanze per i figli dei dipendenti, stipentutti gli aspetti del nostro vivere sociale. Un evento nel suo
di doppi rispetto alla media del settore, medico di fabbripiù completo significato, dal momento che ha fatto seguire
ca, alloggi per i dipendenti, riduzione dell’orario di lavoro,
alla progettazione una reale attuazione, che si è dimostrata
consiglio di gestione, compartecipazione degli utili, periodo
foriera di benessere individuale e collettivo, che ha realizzadi maternità retribuito. Ma non solo: urbanizzazione come
to utili aziendali strepitosi, che ha coniugato mirabilmente
costruzione di un ambiente rispettoso di salvaguardare la
formazione, cultura e strategia imprenditoriale, che ha gebellezza dei luoghi; decentralizzazione produttiva atta a
nerato innovazione sociale e tecnologica; basterà ricordare
evitare il congestionamento delle città; servizi di trasporti
a tale proposito che Adriano Olivetti è stato tra i fondatori
racconto… Non è, in altri termini, la novità oggettiva di un fenomeno
che lo rende ‘evento’, ma è la creazione di una nuova combinatoria…
che attivamente ‘eventualizza’ il mondo”.
47
PERSONE&CONOSCENZE N.45
dell’odierna STMicroelectronics, che il sistema Elea
9003 è stato il primo elaboratore al mondo a transistor
anziché valvole (1959), che il
primo pc al mondo è nato in
Olivetti nel 1965, e si chiamava Programma 101.
figura esistenziale estranea a ogni articolazione tecnica e a
ogni programmazione razionale, e che è legata all’intuizione e all’apertura dialogica… alimentata dalla testimonianza
e dall’esperienza” (Eugenio Borgna): fiducia di non essere
manipolati, di non perdere il posto di lavoro, di essere considerati persone e non risorse, di essere trattati da uomini
e non da bambini, di essere remunerati con equità; fiducia
che si realizza attraverso l’esemplarità, il contatto personale,
la relazione, la trasparenza. Cosa mancava in Olivetti per
essere un’azienda eccellente?
Esserci per l’altro
Ma il mio entusiasmo e la mia tristezza, forse la stessa
che mi è parso di cogliere negli occhi di Laura Olivetti, mi hanno portato a non rispettare la promessa fatta
all’inizio, e riguardante gli spettacoli di Laura Curino e
Gabriele Vacis, e il senso dell’opera di Adriano Olivetti
che mi è sembrato emergesse con maggior vigore.
Così mirabilmente recita Laura Curino nel suo spettacolo Adriano Olivetti, attingendo da Natalia Ginzburg (Lessico famigliare, p. 78): “Aveva gli occhi spaventati, risoluti
e allegri… Erano gli occhi che aveva quando aiutava una
persona [Filippo Turati] a scappare, quando c’era un pericolo e qualcuno da portare in salvo”. E ancora (p. 168): “Lo
incontrai a Roma per la strada… Era vestito come tutti gli
altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava,
nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava”.
E a proposito della precipitosa fuga dalla propria casa a seguito dell’arresto del marito Leone da parte dei tedeschi (p.
168): “Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto
che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura…
e ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le
stanze, i nostri indumenti sparsi, le scarpe dei bambini, con
gesti di bontà umile, pietosa e paziente. E aveva, quando
scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e
felice di quando portava in salvo qualcuno”.
Trovo in queste parole l’essenza dell’avvento-evento di una
delle figure più importanti del Novecento italiano. Il senso della vita, quel qualcosa che ricerchiamo e rimuoviamo,
sembra risiedere in uno slancio che ci rende trafelati e spaventati: portare in salvo qualcuno. In questo c’è tutta la turbolenza della paura, della nuova possibilità che si staglia di
fronte a noi, ma che cozza con il nostro egoismo, con la mal
interpretata idea del bastare a se stessi. Scrive Christopher
Lasch nel suo La cultura del narcisismo: “L’ideologia della
crescita personale lascia trapelare profondo sconforto e rassegnazione. È la fede di chi non ha più fede”.
Il portare in salvo qualcuno diventa esigenza per poter dare
senso alla nostra vita, e richiede la capacità di esistere, letteralmente ex-sistere, uscire da se stesso (Vicktor Frankl),
l’opposto di in-sistere (nel replicare) per Slavoj Zizek, ma
ancor più esserci come fattualità e progettualità “del possibile e del divenire”, progetto concreto (Martin Heidegger,
Diego Napolitani). “Conoscere non basta per sopravvivere;
per sopravvivere occorre progettare. A noi lo ha insegnato
Adriano…” scrive Riccardo Musatti (La rosa di Jericho, p.
Attualità che fa paura?
Perché, ci si potrebbe
chiedere, di fronte a tutto
questo non ci sono state
commemorazioni pubbliche? Perché della Olivetti non se
ne vuole più parlare? Perché si dice che “la sua [di Adriano
Olivetti] visione dei compiti di un’azienda era completamente sbagliata” (Cesare Romiti, L’Espresso, 19.06.1988),
che “era satura di paternalismo” (Edoardo Sanguineti,
Corriere della Sera, 17.02.1998)? Eppure, il recente libro di
Jim Collins Good to Great (2001) ripropone lo stesso modello di leadership e di organizzazione aziendale insegnato
al mondo intero dalla Olivetti, in maniera che rasenta il
plagio, e che è stato sposato dalle più importanti aziende di
successo americane; eppure, il Libro Verde della Cee Com
(2001) 366 parla di formazione, responsabilità sociale, tutela dell’ambiente, luoghi di lavoro, cooperative di lavoratori,
equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero, partecipazione ai benefici e formule di azionariato nei termini in cui non
ne parlava, ma che metteva in pratica (e-ventum) Adriano
Olivetti.
STMicroelectronics
Il leader delle 11 aziende americane definite eccellenti dalla ricerca di Jim Collins, selezionate in un panel di 1.435
aziende, ha il volto di Adriano Olivetti: calmo, timido, riservato, un misto di umiltà e voglia di essere un vero professionista, “più simile a Socrate e Lincoln, che non Patton o a
Cesare”, focalizzato più sul benessere dell’azienda che non
sul proprio, riflessivo, attento alla propria crescita personale
e interiore, tra un mentore e un bravo insegnante, orientato
al benessere collettivo. L’organizzazione che crea il vantaggio competitivo si fonda sulla possibilità di condividere
conoscenze, e questa si dà quando regna la fiducia, “una
48
PERSONE&CONOSCENZE N.45
47). Portare in salvo qualcuno è immanenza, ricerca del senso che trova una risposta al di qua di una visione teistica.
Oso asserire che l’esigenza (da exigere: spingere,
condurre fuori) di Adriano Olivetti di dare un
senso alla propria esistenza (ormai trasformatasi da vita a esistenza) lo ha fatto transitare da
un primo momento di purgatorio, per poter
costruire le condizioni economiche fondanti
il suo progetto, a un momento nel quale i fini
sono diventati i mezzi per andare oltre, per
realizzare il senso della propria esistenza. La
semplicità e l’umiltà dei suoi gesti, come ci ricorda Natalia Ginzburg, sono la testimonianza di come tutto questo sia sotto i nostri occhi,
non richieda performance apicali, ma sia accessibile a chiunque
si dichiari uomo,
o persona, come avrebbe preferito dire l’ingegner Adriano.
Lui, il ricco industriale, sembrava “un mendicante”, per le
strade di Roma, ma al tempo
Il messaggio dell’evento Olivetti parte dunque dall’uomo,
dalla sua cultura, dal suo benessere economico e interiore; senza queste pre-condizioni non solo non
si comprende a fondo il messaggio di Adriano
Olivetti e dei suoi collaboratori, ma non sembra darsi la possibilità di dare senso alla propria
esistenza.
Ecco perché la formazione, che poggia sulla
cultura e sul pragmatismo, come ci insegna
John Dewey, diventa il motore del cambiamento: i sogni dell’uomo, così ben visibili nella
filosofia che attraversa i secoli, possono diventare realtà attraverso il pensiero tecnico-scientifico. Adriano Olivetti era prima di tutto un
educatore: poi un filosofo, un ingegnere, un
mecenate, un industriale, e, come dice Massimo Fichera, “tutto era funzionale all’azienda e niente lo
era… non gli vidi fare mai qualcosa per mero interesse, mai
qualcosa che non gli servisse” (La rosa di Jericho, p. 53).
Inutile far finta di non vedere: Adriano Olivetti era un
genio, uno straordinario leader che ha saputo raccogliere
presso la sua fabbrica le migliori menti italiane, che spaziavano dal management alla psicologia, dalla sociologia alla filosofia, dall’urbanistica al design.
Eccellenza culturale di vere personae: persona
che, nell’accezione di Olivetti ripresa da Emmanuel Mounier, “nasce da una ‘vocazione’,
dalla consapevolezza cioè del compito che ogni
uomo ha nella società terrena… ha profondo
senso, quindi, nel rispetto, sostanzialmente e
intimamente cristiani, della dignità altrui, sente
profondamente i legami che l’uniscono alla comunità cui appartiene, ha vivissima la coscienza
di un dovere sociale” (La rosa di Jericho, p. 21).
Formare, educare gli individui li rende liberi e
responsabili, e in grado di cercare il senso della propria vita, cercare di esistere, ovvero necessariamente
prendersi cura dell’altro, ‘salvare qualcuno’.
Natalia Ginzburg
stesso un re: cosa rifletteva
quello sguardo? Rifletteva
tutta la sua umiltà, tutto il
suo bisogno dell’altro: il ‘difetto’ del mendicum diviene
dipendenza di chi sa che la
propria nascita avverrà solo
nella possibilità di essere riconosciuti dall’altro da sé; ma rifletteva anche tutta la sua determinazione a rendere concreta la sua vita, a permettersi di darle un senso: un re che aveva
in sé tutta la potenzialità e il desiderio, ma era frustrato e
vinto dall’impotenza contingente. Un re in esilio, appunto,
che non doveva far altro che pazientare, attendere.
Questione di volto
Sarà capace, il neo-presidente americano, di trasformare un
avvenimento in evento? Questa è la speranza di tutti noi.
Ma eventi di altrettanta portata possono essere realizzati a
livello individuale e sociale, all’interno delle proprie famiglie e delle fabbriche, delle scuole e degli ospedali, nel tessuto sociale attraverso i mass media; il messaggio di Adriano
Olivetti si propone a tutti coloro che, umilmente, vogliono
dare un senso al proprio transito terreno.
Lui aspetta, come una rosa di Jericho, l’acqua per tornare
verde: si tratta di un’esigenza che non riguarda solamente la
possibilità di competere sui mercati internazionali, di innovare, di creare benessere collettivo, di etica e responsabiltà,
ma che interessa ognuno di noi.
Lui aspetta, con i suoi occhi azzurri e il suo “viso trafelato,
spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno”.
Peccato che, su quel palco, fatta eccezione per le figure femminili, nessuno avesse quel viso.
Il senso dell’esistenza
Scriveva Giorgio Soavi (Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana): “Perché gli uomini giovani del nostro tempo si impegnano esclusivamente nei soldi, negli affari, certo, non
hanno torto, ma hanno torto quando non vedono altro al
mondo. Quelle teste, seppure di talento finanziario, non
sono deludenti? Perché il cervello, le ambizioni, non vanno, non sfiorano qualche altra emozione che non sia quella,
unica, di far denaro? Mai un’emozione diversa da quella?
Credo che, così facendo, il risultato che si ottiene da quelle
teste sia, tirando le somme, abbastanza modesto. Per non
dire penoso. Abbiamo –hanno– dunque studiato e vissuto solo per i soldi? Tutto il resto può esistere o non c’è proprio?”.
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PERSONE&CONOSCENZE N.45
teorie speciale Olivetti
teorie:
Il Centenario Olivetti visto dalla prospettiva
del lavoro commerciale
di Galileo Dallolio
Il 22 novembre 2008, a Milano si è raggiunto il tutto esaurito.
Non era più possibile iscriversi per partecipare a un evento che vedeva
presenti 150 ex dipendenti Olivetti, degli oltre mille collegati in rete, nel
ricordo del Centenario dell’Azienda.
In modo spontaneo, venditori, dirigenti, tecnici, progettisti, formatori
che hanno dato vita a www.olivettiani.org, si sono incontrati per il
piacere di rivedersi e di parlare della vita trascorsa in Olivetti. Così come
già avviene in Spagna, Inghilterra, Danimarca, Belgio.
Galileo Dallolio ha studiato
Sociologia e ha lavorato
alla Olivetti, Direzione del
Personale Commerciale Italia,
dal 1960 al 1991.
Ha collaborato al testo’Storia
e storie delle risorse umane in
Olivetti’ edito da F.Angeli e
curato da M.
La Rosa, P.A.Rebaudengo e
C.Ricciardelli.
Attualmente è direttore
editoriale di FOR, la rivista
dell’Associazione Italiana
Formatori e gestisce il sito:
www.bottegadellaformazione.it
Le informazioni su Olivetti
sono reperibili nell’archivio
Olivetti www.arcoliv.org e
in una bibliografia composta
da molte centinaia di titoli.
Tra questi ‘Olivetti: una
bella società’, catalogo della
mostra svolta a Torino nel
2008, a cura di Manolo De
Giorgi e Enrico Morteo,
Umberto Allemandi
Editore.
Racconto questo Centenario per i lettori di Persone&Conoscenze secondo uno schema maturato attraverso lo scambio con colleghi, con Concessionari e con clienti e utilizzando 31
anni di lavoro trascorsi lavorando nella Filiale di Bologna e alla Direzione Commerciale
Italia della Olivetti, a Milano.
È la storia vista da organizzazioni tipiche del mondo industriale, ma che in Olivetti hanno
assunto significati molto particolari. C’è infatti Ivrea che è il centro e sul quale si è scritto
e si continuerà a scrivere e ci sono tante Olivetti sparse nel territorio dove, per una singolare combinazione, quella storia assumerà profili diversi. Generatori di questa originalità
sono la Direzione Commerciale Italia (inaugurata a Milano nel Palazzo di Via Clerici nel
1955), la Scuola per Venditori di Firenze (il 1°corso comincia nel febbraio 1954 nell’aula
magna della facoltà di Architettura) e la Scuola per meccanici di Piacenza (Stac: servizio
tecnico assistenza clienti) le Filiali e le Concessioni (in Italia e all’estero). Le Filiali e le
Concessioni devono vendere, installare e assistere le macchine prodotte a Ivrea e vengono
organizzate per questi scopi. Ma in breve tempo assumono un carattere distintivo: sono
luoghi belli, ben organizzati e dove si lavora bene. Nel 1957, in Italia le Filiali erano 30 e
235 i Concessionari (i dipendenti in tutto erano 24.000); nel 1963 le Filiali passano a 60 i
Concessionari a 332 (i dipendenti erano diventati 54.600). Questa crescita fu originata da
una scelta molto coraggiosa.
“Alla metà degli anni Cinquanta si esprime in pieno la capacità organizzativa e di progetto
industriale di Adriano, ma soprattutto la sua capacità di realizzare prodotti non solo buoni
ma anche in grande quantità, il che determina un intasamento dei magazzini dell’azienda. Si
apre allora un grande dibattito: chiudere gli stabilimenti (come forse si farebbe oggi) o individuare canali nuovi per portare i prodotti al mercato. Si opta per questa seconda strada, una
scelta che la dice lunga sulla visione di Adriano in tema di responsabilità d’impresa”.1
La persona che organizza e innova il sistema distributivo si chiama Ugo Galassi. “Per
ricordare Adriano Olivetti nel centenario della sua nascita, si è parlato sempre di quanto
1
G.Maggio p.504, Uomini e lavoro alla Olivetti a cura di Francesco Novara, Renato Rozzi e Roberta Garruccio, postfazio-
ne di Giulio Sapelli, Bruno Mondadori, 2004.
50
PERSONE&CONOSCENZE N.45
Sono infinite le storie di lavoro che hanno visto la presenza di venditori, di tecnici e di programmatori nella
soluzione di problemi di sviluppo organizzativo per le
imprese, le banche, gli enti pubblici, le scuole, i professionisti…
Filiali e Concessioni erano e sono (i concessionari sono
a tutt’oggi 600) punti di riferimento nella realtà economica locale.
I venditori venivano selezionati da giovani che si chiamavano Furio Colombo, Tiziano Terzani, Ottiero Ottieri, Alberto Projettis, Giancarlo Lunati...
Interessante notare che nel 1960 Einaudi pubblica I
venditori di Milano una piece teatrale di Ottiero Ottieri
(con dedica a Elio Vittorini).
“Poi, se il colloquio è stato positivo, vieni mandato a
Firenze, in una splendida villa del cinquecento, il Cisv
(Centro specializzazione vendite) o meglio conosciuta
da tutti noi come Villa Natalia. Svegliandoti al mattino,
vedi attraverso i pini marittimi e i cipressi la cupola del
Brunelleschi, poi dopo colazione ti avvii per un sentiero
nel verde a Villa degli Ulivi, sul colle di fronte, dove ci
sono le aule per i corsi di formazione. In questo contesto
apprendi le tecniche di vendita e impari a conoscere i
prodotti che dovrai proporre ai clienti”.3
In questa straordinaria scuola i futuri venditori studiavano assieme ai giovani ternisti o ‘nela’(neolaureati).
“La Olivetti assumeva i laureati a ‘terne’: un tecnico,
un economista, un umanista. Modello di superamento
della schizofrenia fra le ‘due culture’, di comprensione
del nesso tra innovazione tecnologica e cultura classica,
di valorizzazione della interdisciplinarietà”.4
“Nessuna azienda aveva un centro come questo per la
formazione del personale appena assunto. Ma mi spaventò che si parlasse di una mia destinazione al settore
commerciale.
Ignoravo che tutti venivano mandati a Villa Natalia e
passavano un mese di corso come momento introduttivo nell’azienda”.5
Oggi che per diversi mestieri, impieghi, professioni, si
debba ‘fare il corso’ è scontato, negli anni Cinquanta e
Sessanta non lo era.
L’idea della vendita era piuttosto elementare: prendere
la valigetta e andare dal cliente, forti della propria capacità persuasiva e di molta energia fisica.
“Nel periodo 1954-1962 si sono sommate, per felici e irripetibili circostanze, quelle condizioni ambientali, organizzative, umane e tecniche capaci di influire in modo
significativo sull’apprendimento di uno stile di comportamento organizzativo, oltreché di serie e approfondite
conoscenze tecnico professionali.
Villa Natalia
la Olivetti ha fatto sul piano dell’architettura, dell’organizzazione del lavoro, della cultura, dell’arte, della sociologia; si è parlato lungamente di tutti gli artisti, scrittori,
poeti che sono passati all’Olivetti, ma non si è mai parlato della sua formidabile organizzazione commerciale. Se
uno si limitasse a leggere certi resoconti, credo sarebbe
legittimato a concludere che l’Olivetti era fatta da architetti, ingegneri, letterati, poeti, e non riuscirebbe a capire
chi possa avere venduto i suoi prodotti. In effetti ci fu
un padre dello sviluppo del settore commerciale, a cui si
deve l’importanza che esso ha avuto nella storia dell’Olivetti. Questo padre si chiamava Ugo Galassi […]. Certe
metodologie, certe pratiche, certe norme, una certa pianificazione dell’attività commerciale, messa a punto da
parte di uno staff, si devono al dottor Galassi, che dovrebbe essere ricordato, a mio avviso, con la stessa enfasi
con la quale sono ricordati altri illustri e mitici personaggi olivettiani”.2
Modernizzare il lavoro
Le Filiali erano vetrine del design italiano; perché anche
chi non entrava poteva guardare le realizzazioni progettuali (scrivanie, sedie, scaffali, arredo da ufficio, macchine)
di Belgiojoso, Peressuti, Rogers, Nizzoli, Pintori, Bellini,
von Klier, Zanuso.
Filiali e Concessioni Olivetti erano note per essere luoghi
‘belli e importanti’ della città, e facevano parte dell’universo del lavoro e non dello shopping.
Erano luoghi dai quali provenivano idee e prodotti per
modernizzare il lavoro d’ufficio. Prodotti e soluzioni che,
in una concorrenza piuttosto severa con produttori tedeschi e americani in particolare, erano vendute e assistite da
persone competenti e ben formate.
N.Colangelo p. 486, Uomini e lavoro in Olivetti.
In Giuseppe Silmo M.P.S Macchine per scrivere Olivetti e non solo. Memorie di un venditore di macchine per scrivere, Tecnologic@mente Storie/Fondazione
Natale Capellaro 2008, pag. 31.
4
In Comunità concreta. Le opere e il pensiero di Adriano Olivetti, di Emilio Renzi, Guida 2008, p. 147.
5
M.Torta, p. 527, Uomini e lavoro in Olivetti, cit.
2
3
51
PERSONE&CONOSCENZE N.45
I fondatori
Camillo Olivetti (1868-1943)
Laureato in ingegneria a Torino, fu per due anni assistente di elettrotecnica
alla Stanford University. In America era andato la prima volta per accompagnare il suo maestro Galileo Ferraris, lo scienziato torinese scopritore del
campo magnetico rotante e ideatore del motore elettrico alternato. La sua
esperienza americana, che fu alla base della sua idea imprenditoriale, è in
‘Lettere americane’ edite nel 1968.
L’impresa comincia nel 1908 a Ivrea con la costruzione dei primi modelli di
macchine per scrivere e la creazione di filiali di vendita, le prime nel 1912
a Milano, Roma, Napoli e Genova. Quando nel 1933 il figlio Adriano, a 32
anni, diventerà direttore generale subentrando al padre, l’azienda avrà 870
dipendenti, 13 filiali, 79 concessionari e sarà presente in due Paesi africani, 5 sudamericani, 12 europei e 13 mediorientali. Il brevissimo quadro va
completato con questa annotazione dello scrittore Libero Bigiaretti, che fu
capo ufficio stampa in Olivetti,: “Camillo Olivetti, amico ed estimatore di Filippo Turati e di Oddino Morgari, finanziatore e collaboratore, nei primi anni
del regime, del settimanale antifascista torinese ‘Tempi nuovi’; coraggioso
autore di un opuscolo in cui, proponendo un’ardita riforma tributaria, condanna apertamente il fascismo (ancora dominante) e l’egoismo della classe
dirigente”.
Adriano Olivetti ( 1901-1960)
Si laureò a 23 anni in ingegneria chimica al Politecnico di Milano. Dopo un
soggiorno negli Stati Uniti, entrò come operaio nella fabbrica del padre.
Le sue capacità umane e manageriali portarono l’azienda a uno straordinario
successo (nel 1942 i dipendenti sono 4.673).Qualche cenno sulla sua visione del mondo si può ricavare da queste iniziative: avvia gli studi per la prima
esperienza di pianificazione territoriale in Italia (il Piano regolatore della Valle
La Famiglia Olivetti
Chi usciva dai corsi di base sentiva di avere fatto propri i
valori e gli obiettivi aziendali; sentiva l’orgoglio di essere
parte attiva in un’impresa proiettata con successo verso
la leadership mondiale non solo per la qualità tecnica dei
prodotti e per il loro design, ma anche per il grande prestigio culturale dell’azienda.
A questo segno di appartenenza che, in un certo modo
nobilitava il sentirsi ‘olivettiani’, si sommava la consapevolezza, non disgiunta da un senso di gratitudine sincera, di avere potuto vivere un’importante esperienza
professionale”.6
Cominciava così, nei luoghi di lavoro, un’originale combinazione di saperi. Le Filiali erano luoghi ricchi di personalità, di personaggi e di eventi e dove, nel contatto con
i clienti, si andava declinando un modo molto speciale di
vivere il lavoro.
La formazione svolgeva un ruolo molto importante e
non è un caso che l’Associazione Italiana Formatori (Aif)
e il Dipartimento di Sociologia del lavoro dell’Università di Bologna organizzassero nel 2001, in occasione del
centenario della nascita di Adriano, un convegno sulla
formazione in Olivetti.
bisogno di strumenti di lavoro ma si può dire che, in
modo personale e orgoglioso insieme, ‘distribuivano’
la cultura Olivetti.
Si tenga conto che nelle Filiali arrivavano regolarmente le riviste Sele Arte, Comunità e ‘Notizie Olivetti’,
funzionava il Fondo di Solidarietà (originato in memoria del primo direttore tecnico Domenico Burzio
nel 1933) e che i figli dei dipendenti andavano nelle
Colonie estive Olivetti.
Nelle città, con mostre e rassegne (molte organizzate
con Egidio Bonfante e Paolo Viti) e con oggetti di gran
pregio (Soavi, Sotsass, Leclerc, Nizzoli, Munari…)
dalle agende progettate da Enzo Mari e illustrate ogni
anni da artisti diversi, ai calendari di artisti dal mondo, classici e moderni, si instaurava un dialogo insolito con il clienti.
Infine come non ricordare che le macchine e le calcolatrici, cos’altro erano se non capolavori del design
italiano riconosciuti, studiati, apprezzati e accolti nei
Musei del mondo?
Ripensandoci ora e rivedendo i colleghi nella ricorrenza del Centenario, chi ha lavorato in particolare negli
anni che hanno visto, anche dopo la sua scomparsa,
l’influenza di Adriano, ha portato nelle attività che in
seguito ha svolto un carattere, un tratto, uno stile che
in maniera non arbitraria può essere chiamato ‘olivettiano’.
La cultura Olivetti
I venditori Olivetti portavano al mercato non solo i
prodotti, i servizi, la capacità di comprendere le problematiche del cliente nelle varie tipologie di chi aveva
6
P.91. M.Torta, in Storia e storie delle risorse umane in Olivetti, A cura di Michele La Rosa, Paolo A.Rebaudengo e Chiara Ricciardelli, F.Angeli, 2004.
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d’Aosta); nel 1937 esce il primo numero della rivista ‘Tecnica e organizzazione’ dedicata ai problemi dell’industria moderna; crea l’Ufficio Assistenti
sociali, incarica gli architetti Figini e Pollini di progettare il Villaggio Operaio
di Castellamonte. Nel 1939 viene inaugurata a San Giacomo di Champoluc
una colonia montana estiva per i figli dei dipendenti. Nel 1941 viene costituito il Centro Agrario per risolvere il problema alimentare durante la guerra.
Adriano Olivetti si oppose al regime fascista in modo attivo e partecipò con
Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Petr e altri alla liberazione di Filippo
Turati. Arrestato nel luglio del 1943 entra nella clandestinità dopo l’8 settembre. Alla Ico nel frattempo si costituisce il Comitato di Liberazione Nazionale
con Guglielmo Jervis (fucilato nel 1944), Gino Martinoli Levi e Giovanni Enriques. Nel 1943 con Cesare Musatti pone le basi del primo Centro di Psicologia industriale. La ricerca dell’armonia tra sviluppo industriale, democrazia
partecipativa, diritti umani dentro e fuori la fabbrica fu uno dei grandi motivi
ispiratori della sua attività. “Nel 1945 pubblicò L’ordine politico delle Comu-
nità che va considerato la base teorica per una idea federalista dello Stato
che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità
territoriali culturalmente omogenea e economicamente autonome.
Nel 1948 fondò a Torino il ‘Movimento Comunità’ e si impegnò affinché si
realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese. Il movimento, che
tentava di unire sotto un’unica bandiera l’ala socialista con quella liberale,
assunse nell’ Italia degli anni Cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica. Sotto l’impulso delle fortune
aziendali e dei suoi ideali comunitari, Ivrea negli anni cinquanta raggruppò
una quantità straordinaria di intellettuali che operavano (chi in azienda chi
all’interno del Movimento Comunità) in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e
cultura umanistica. Fu sindaco di Ivrea nel 1956 e nel 1958 venne eletto
deputato come rappresentante di ‘Comunità’.” (Tratto da wikipedia). Alla sua
morte, nel 1960, i dipendenti sono 22.000 in Italia e 25.000 all’estero.
co nell’imporre il suo punto di vista. Va, in proposito,
osservato che l’apporto di capitale necessario per risolvere la crisi non era esorbitante e la situazione generale
dell’azienda niente affatto drammatica. Tanto è vero che
nel 1965 la società tornò a distribuire dividendo.
Un altro fattore di debolezza era di natura culturale e cioè
la contrapposizione tra meccanici ed elettronici all’interno dell’azienda. L’establishment aziendale era dichiaratamente avverso all’elettronica; la mentalità dominante
era quella che credeva nelle produzioni meccaniche, che
avevano fatto la fortuna dell’Olivetti.
In questa visione conservatrice, l’elettronica non rappresentava il futuro,
ma solo uno sperpero
di risorse. Con la morte
di Adriano diventava
più facile sostenere che
occorreva accantonare
l’elettronica in favore di
sempre più complessi
(ma sempre meno proponibili) prodotti meccanici.
Infine, si può mettere in conto anche una debolezza di
natura politica.
Infatti, nell’assenza di sostegni da parte dello Stato, oltre
alla miopia dei governanti sul ruolo strategico del settore, giocò a sfavore della Olivetti una malcelata insofferenza verso la figura di Adriano, imprenditore anomalo,
fuori dal coro, considerato dai più un utopista lontano
dalla realtà.
Sta di fatto che l’Olivetti non ebbe alcun sostegno dalle
istituzioni, all’opposto di quanto avveniva negli altri Paesi, nei quali l’industria nazionale del computer godeva
di varie forme di agevolazione, dalle commesse di ricerca
alla preferenza negli acquisti (paradossalmente, fu anzi
l’Olivetti a regalare un Elea 9003 alla Ragioneria Generale dello Stato...)”.7
L’individuazione di una grande opportunità
Il prototipo del primo transistor fu creato nei laboratori
Bell nel 1947 e Adriano Olivetti nel 1952 a New Canaan
(in Usa) inizia a studiare le applicazioni dell’elettronica
al calcolo. Attraverso Mario Tchou, un talento di padre
cinese e di madre italiana, nato a Roma e docente di elettronica alla Columbia University di New York a 28 anni,
Adriano Olivetti, nel 1955 e in collaborazione con l’Università di Pisa, pone le basi per un successo clamoroso.
Nel 1959 viene infatti prodotto e presentato l’Elea 9003
(Elaboratore Elettronico Aritmetico), progettato e costruito in serie per impieghi scientifici e commerciali.
L’Elea non fu soltanto il primo calcolatore
elettronico italiano, ma
anche uno dei primissimi al mondo costruito
interamente a transistor, che consentiva
prestazioni (velocità e
affidabilità) assai maggiori e dimensioni molto più contenute rispetto ai precedenti sistemi a valvole.
“In chiave storica, c’è un generale consenso sul fatto
che –a prescindere dalle cause economiche contingenti– il corso degli eventi fu influenzato da fattori interni di
debolezza della Olivetti, acuitisi con la morte di Adriano. Uno dei fattori era costituito dalla proprietà stessa
dell’azienda”.
Il controllo azionario della società era detenuto dagli eredi Olivetti, un gruppo familiare diviso e conflittuale, che
aveva però in Adriano un leader riconosciuto. Dopo la
sua morte, il figlio Roberto, ottima persona, erede e paladino dell’iniziativa elettronica, non riuscirà a imporsi e a
risolvere i contrasti. La crisi finanziaria del 1963 troverà,
quindi, un Consiglio di amministrazione frammentato
e remissivo, cui il Gruppo di intervento avrà buon gio-
7
Sulle ragioni per cui la vicenda si dissolse si veda Franco Filippazzi, Elea: storia di una sfida industriale, in Luigi Dadda: La nascita dell’informatica in Italia,
Polipress, Milano, 2006.
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