IL SECONDO RINASCIMENTO
La città.
I nostri prodotti e la loro vendita
ARMANDO VERDIGLIONE
Questa è la trascrizione del master tenuto da Armando Verdiglione nella
Villa San Carlo Borromeo, Milano-Senago.
Sabato, 2 dicembre 1995
La città. Oggi sembra o tutto città o tutto campagna. In ogni caso,
questa dicotomia città-campagna — tanto importante nelle ideologie del
diciannovesimo secolo, arrivate fino al tardo romanticismo, al
postromanticismo e fino a Lin-Piao che opponeva la campagna alla città
— oggi non sta in piedi. Ci sono altre nozioni, come lo spazio, il
paesaggio, la superficie, ma, in ogni caso, città non si contrappone a
campagna, non formano, città e campagna, una dicotomia. In francese,
ci sono due termini: la ville e la cité.
La città non è un problema urbanistico, non è la polis greca, non è
l’urbe romana, è la città temporale, la città che viene dall’infinito della
parola e poggia sul tempo e non sullo spazio, poggia sul taglio, sulla
divisione. Da che cosa è costituita la città? Dalle arti del paradiso — la
danza, l’intelligenza, la politica, la musica, la strategia — e dalle invenzioni, dagli errori di calcolo, dal percorso culturale, dal malinteso,
dall’arte e dalla cultura dell’impresa. Quindi, in un certo senso, la città
poggia anche sull’impresa o, addirittura, è costituita dall’impresa.
Che cosa porta alla città normalizzante, segregante, spazializzante,
alla città mortifera, alla città necropoli, alla città della calma? È un genere
di società, che, oltre vent’anni fa, chiamavamo segregativa, cioè la
società conformista, la società che vuole la città quanto più vicina
possibile al naturale, che sia una città naturale e, quindi, nazionale, che
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sia una città nata città. Questa società è fatta di categorie professionali e
sociali, è una società come corporazione, che deve evitare due pericoli,
la morte e la prigione, e rispetto a questi due pericoli organizza tutte le
professioni.
Che cosa comporta questo? Che la società organizza e gestisce la città
su un programma di morte, non la dispone al programma di vita.
Promette la salvezza, ma attraverso la calma, promette l’assenza dell’Altro, dopo averlo distribuito tra amico e nemico, tra positivo e negativo,
tra bene e male. È una società senza occorrenza, senza contingente, senza
intervallo, dove il fare passa attraverso le categorie del possibile o
dell’impossibile, del sapere, del volere o del dovere. Così, per quasi tutti
è impossibile fare, mentre per qualcuno è possibile fare. È una società
senza miracolo, fatta in modo che tutto sia previsto e prevedibile, che
nulla mai accada.
Altra è la società da che la parola originaria si è instaurata. Non
dall’epoca di Platone né da quella di Cicerone o di Quintiliano, si è
instaurata con Leonardo da Vinci e con Niccolò Machiavelli. Oggi, noi
viviamo nella parola originaria e non più nel logo, non più nel discorso
occidentale, non più nel discorso della morte. Viviamo nell’infinito della
parola, anziché nel finito.
Leonardo aveva innovato, inventato quella che, nella sua epoca, era
la bottega, fino a farla divenire dispositivo, dispositivo intellettuale,
artificiale, pragmatico, poetico, dispositivo di amministrazione, di gestione, dispositivo di scrittura, dispositivo di pittura come scrittura della
parola, dispositivo anche politico e diplomatico — e qui c’è anche
l’apporto di Niccolò Machiavelli. Sono autori e testi assolutamente
ignorati, eppure oggi vivi tra noi. La brigata, diceva Machiavelli.
Senza dispositivo in atto la città non emerge, nemmeno l’impresa,
nemmeno la comunicazione. La comunicazione non ha nulla di spontaneo e di naturale — nell’accezione che questo termine ha acquisito
nell’uso comune, dove “Sii spontaneo” equivale a “Sii conformista”.
L’arte, la cultura, il danaro, la moneta, i soldi, la politica, la diplomazia, la comunicazione, la scienza, la quantità, la qualità sono termini che,
nel luogo e nel discorso comuni, appartengono interamente al tradizionalismo e sono propri alla conoscenza che è definita come conoscenza
della morte.
La psicanalisi, instaurata in maniera inedita e nuova rispetto al primo
apporto di Freud, rispetto al rilancio che ha avuto con Lacan, se noi la
indaghiamo in questi venticinque anni, lungo l’itinerario fra l’Italia,
l’Europa, il Mediterraneo, l’America, il Giappone, la troviamo intera-
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mente altra da quella che era e senza nessun rapporto con quello che è
diventata, fino agli epigoni più provinciali nei vari paesi, oggi: un
prodotto psicofarmacologico, un modo di stabilire l’accettazione della
morte, della castrazione, del fallimento, della mancanza, della deficienza, insomma tutto ciò che non ha nulla a che vedere con l’audacia, con
il rischio, con l’estremismo proprio della vita — il titolo del romanzo di
Ferruccio Masini, La vita estrema, è quanto mai opportuno —, con
l’istanza di qualità. La vetrina di questa psicanalisi dovremmo trovarla
in libreria, a Parigi o a New York o a Francoforte o a Ginevra o a Tokio
o a Roma, e che cosa vediamo invece, che cosa appare? Qualche frammento adattato, impolverito, masticato, rimasticato, insomma, un corpo
in decomposizione, più o meno cadaverico, un materiale per necrofilia
e per coprofilia, questo la psicanalisi è diventata!
Noi abbiamo detto, venticinque anni or sono, che assumiamo le sorti
e il destino della psicanalisi non soltanto in Europa, ma anche negli altri
paesi. Le sorti e il destino della psicanalisi comportano, poi, le sorti e il
destino della parola, le logiche e le strutture della parola, senza nessun
rapporto con il discorso della morte, diventato discorso comune. Abbiamo fondato un Movimento freudiano, una scuola internazionale, diverse associazioni psicanalitiche, intendiamo assumerle e impegnarci. Come
dicevo ieri sera a Losanna, io m’impegno direttamente. M’impegno a
Losanna, come a Parigi, come a Ginevra, come a Milano, come altrove.
La psicanalisi è l’esperienza della parola, non una qualsiasi esperienza. Ma dove mai la parola viene affermata come originaria! Dove? In
quale università, in quale istituzione, in quale associazione, in quale
libreria, in quale ospedale? Se dico che la psicanalisi è l’esperienza della
parola, dico qualcosa che non si trova in nessun libro, in nessuna rivista
di ciò che passa come psicanalisi negli epigoni provinciali. Il
postlacanismo non c’entra assolutamente niente con Lacan né, tanto
meno, con l’originario della parola e dell’esperienza quale si è affermato
come virtù del principio in questi venticinque anni.
Nel 1984, per il quarto centenario di san Carlo Borromeo, abbiamo
inaugurato la villa Borromeo. Abbiamo inaugurato qui un’esperienza e
in un opuscolo l’abbiamo chiamata La città di clinica psicanalitica. La
clinica psicanalitica è una formula che voi potete trovare anche altrove,
ma, da nessuna parte, la trovate come clinica della parola, da nessuna
parte la trovate come clinica del sembiante, da nessuna parte trovate la
città.
Di che cosa hanno avuto paura i demonologi, i demonizzatori,
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IL SECONDO RINASCIMENTO
gl’inquisitori? Perché è chiaro che è la paura il grande fantasma materno,
è sulla paura che si fonda la mitologia contro la parola. La reazione alla
parola, così come si è manifestata, è la reazione postmoderna. Certamente, processo per stregoneria, processo postmoderno, ma processo alla
parola. Intenderlo ancora come processo della parola è inscrivere ciascuno, anzitutto, nell’itinerario procedente dall’apertura. Non c’è nulla che
possa ostruire, coprire, cancellare, circoscrivere l’apertura della parola.
Cifrematica è il termine emerso nell’88. In maggio c’era un’equipe,
che si chiamava Logica e scrittura, e in quell’equipe è sorto prima il
termine cifrema, poi cifrematica e, nell’estate di quell’anno, è sorta
l’Associazione di cifrematica — cifrematica, per indicare la scienza della
parola. È su questa base che noi possiamo leggere il testo occidentale, il
testo di Leonardo, di Machiavelli, possiamo leggere il Vangelo o la
Bibbia o Dante Alighieri o il testo di Josif Gurwic o di Ely Bielutin.
Tutto sembra confusione, tutto sembra caotico. Ognuno sembra non
affrontare la difficoltà, sembra prendersi una difficoltà, due difficoltà,
tre difficoltà, quattro al massimo — è già troppo! —, sembra occuparsi
di questa e di quella difficoltà e cercare di affrontare, di vincere questa
o quella difficoltà — non la difficoltà — e così non combattere, non
lottare. La difficoltà è estrema, non c’è modo di ridurla, di diminuirla, di
localizzarla, di personalizzarla, di socializzarla, è la difficoltà della
parola. Non c’è facoltà di parola, non c’è parola facile, non c’è vita facile.
La psicanalisi che promette la vita facile è la psicanalisi psicofarmacologica, è la psicanalisi che vota il soggetto alla morte, così la
psicofarmacologia, così i vari modesti personaggi dell’epoca, che dicono
di praticare l’elettroshock, la lobotomia o lo psicofarmaco in nome della
scienza medica, come se Auschwitz non fosse organizzata in nome della
scienza medica! Sei milioni di depressi in Italia, sei milioni di ebrei a
Auschwitz! Quale affare per le industrie psicofarmaceutiche. Ma non ha
nessun interesse contrapporsi ai Cassano o alle industrie psicofarmaceutiche: sono sempre esistite, purtroppo.
Non importa ciò che manca, importa ciò di cui abbiamo bisogno.
Abbiamo bisogno di fare, abbiamo bisogno di soddisfazione, abbiamo
bisogno d’impresa, abbiamo bisogno di città, abbiamo bisogno di scrittura, abbiamo bisogno di comunicazione — non di psicofarmaco, non di
mangiare la morte con dose quotidiana o notturna. Abbiamo bisogno
del superfluo. Il superfluo è l’arte, l’invenzione, la cultura, è l’intelligenza, la politica, la musica, la strategia, il malinteso, il calcolo. Tutto ciò
partecipa al superfluo, a quanto non può essere misurabile, quantificabile.
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La quantità non è ordinaria, non è nemmeno ordinale, è la quantità
che si fa d’infinito. È questa quantità a divenire qualità attraverso la
scrittura, perciò occorre che noi non diamo nessun contributo al litigio
generale, al rumore perpetuo, occorre che noi non parliamo nella nostra
lingua. E dove ci vengono opposti la chiusura, il negativismo, il fatalismo,
la predestinazione, noi non reagiamo negli stessi termini. Dove viene
decantata la sofferenza, dove viene portata a spettacolo, dove vengono
costituiti gli album di famiglia della sofferenza, dove troviamo chi
pratica il cannibalismo bianco o rosso o nero su se stesso, bisogna che noi
non diamo nessun contributo per alimentare tutto ciò! Bisogna che noi
troviamo il modo, procedendo dagli stessi ingredienti che ci vengono
opposti, trasformati in ingredienti di apertura. Procedendo dall’apertura della parola occorre che noi troviamo il modo, il modo di fare ricerca,
il modo di scrivere, il modo di attraversare il labirinto, il modo di
raggiungere la semplicità, il modo di comunicare.
La vera comunicazione è quando s’instaura la soddisfazione non
personale e non c’è più litigio, e non c’è più neppure la possibilità di
litigio. La città dei conflitti, dei dissidi, dei litigi, delle risse, la città dove
tutti litigano con tutti è la città dell’indecisione, è la città senza miracolo,
dove nulla accade, è la città che attende soltanto di essere spazializzata,
pianificata, appiattita e che cerca un tiranno. Questo tiranno, com’è noto,
può anche essere la morte.
Da che cosa è qualificata la città? Qual’è la qualità della città? Qual’è
la cifra della città? Dieci anni or sono, c’erano tre equipe: una intorno al
dizionario, un’altra, la domenica sera, intitolata La cifra della città, e
un’altra, la domenica pomeriggio, che si chiamava Il caso clinico.
La cifra della città. Il prodotto è la cifra. Quali sono i nostri prodotti?
Quali sono i prodotti della città? Ciascuna cosa — la psicanalisi, l’arte, la
cultura, la scrittura, la comunicazione — diviene prodotto, diviene
qualità. In questa accezione, la vendita è in direzione del prodotto, in
direzione della qualità. La vendita dispone al prodotto e alla qualità.
Possiamo dire “noi vendiamo”, ma soltanto come imprenditori o come
dispositivo di vendita. La vendita s’instaura in questa direzione, si
rivolge alla qualità dell’impresa, della vita, della parola, dell’arte, della
cultura, della comunicazione.
Se noi non ci rivolgiamo alla qualità, il libro noi non possiamo
venderlo. E per noi ha una portata vendere il libro, che diviene utensile,
perché vendendo il libro noi ci rivolgiamo alla qualità. Noi ci troviamo
in un itinerario di qualità. Noi costituiamo dispositivi differenti con cui
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inventiamo la città, con il libro, l’arte, la cultura, la psicanalisi, i corsi, i
seminari, le conferenze, i congressi. Noi ci troviamo in questo itinerario,
in questa direzione. Noi ci rivolgiamo alla qualità. Noi non vendiamo la
qualità — in questa accezione non vendiamo il prodotto come qualità —
, ma vendiamo il libro, vendiamo il quadro, vendiamo la scultura. Noi
non vendiamo la qualità, ma la vendita è in direzione della qualità. Il prodotto
è la qualità, e il prodotto come qualità noi non lo vendiamo! Come noi
non vendiamo l’oggetto della parola, non vendiamo la condizione del
nostro itinerario, non vendiamo neppure il prodotto estremo, cioè la
qualità! L’oggetto e la qualità della parola non si vendono. Noi vendiamo utensili — corsi, formazione, libri, opere — ma il sé (il tu, l’io, il lui),
lo specchio, lo sguardo, la voce, la cifra della parola non li vendiamo,
perché non possono vendersi!
La vendita nella sembianza si scrive, perché si rivolge alla qualità:
questa è la pornografia (pornografia, in greco: scrittura della vendita).
Certamente, noi assicuriamo la formazione e la terapia dello psicanalista. Ma assicuriamo anche la formazione psicanalitica e cifrematica
dell’imprenditore, del banchiere, dell’assicuratore, del dirigente dell’istituzione pubblica o privata, del finanziere, dell’artista, del poeta,
dello scrittore, dell’informatico, del telematico. C’è amministratore o
imprenditore o assicuratore o banchiere o finanziere che possa fare a
meno della clinica della parola, del compimento della scrittura della
parola? O che possa fare a meno della comunicazione che si compie nella
scrittura della parola, nella scrittura delle cose che si fanno, nella
scrittura della politica altra?
La città temporale è città dell’Altro, è città dell’ospite e, per questa via,
città della comunicazione. Ma chi ha notato finora che la comunicazione
s’instaura soltanto con la scrittura dell’esperienza e che le teorie della
comunicazione sono decadenti, postromantiche, postmoderne, psicologiche, sociologiche, insomma, superstizioni contro la comunicazione,
superstizioni perché comunicazione non ci sia? La comunicazione che
trova compimento come scrittura della politica, come scrittura delle cose
che si fanno (questo compimento è la clinica) è tributaria del diritto
dell’Altro, dell’Altro con le sue virtù: la generosità, l’indulgenza, l’umiltà. Qui siamo nella casa di san Carlo Borromeo: senza l’humilitas, non
smettiamo di dirlo, non c’è ascolto. Senza il diritto dell’Altro non c’è
ascolto, l’ascolto sta fra il tempo e la piega, fra il taglio e la piega della
parola. Soltanto perché si piegano le cose che si fanno si scrivono e,
quindi, si comunicano. Nessuna comunicazione può dirsi compiuta
senza la clinica della parola. Quella che viene propagandata come
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IL SECONDO RINASCIMENTO
comunicazione è comunicazione psicopatologica, psicofarmacologica, è
la comunicazione della morte, è la morte. E il monopolio che le sette o
otto sorelle vorrebbero instaurare sulla comunicazione è il monopolio
della morte.
L’insegnamento, la formazione, l’arte, la cultura sono cose che non
possono distribuirsi come rimedio, come modi per appianare la difficoltà. L’arte e la cultura sono inconsce, perché la loro struttura è secondo la
logica, secondo la particolarità, secondo l’idioma, secondo l’inconscio.
L’inconscio del logo secondo il discorso occidentale era già noto, non
aveva bisogno della psicanalisi per instaurarsi, è l’inconscio della parola, è la logica della parola originaria, la logica secondo cui s’instaurano
l’itinerario, l’arte, la cultura, l’impresa, la città, la finanza, la comunicazione, che ha avuto bisogno di questi venticinque anni per instaurarsi.
Questa è la medicina nuova, l’inconscio della parola. Med, medicina
come med, il medium: la particolarità, la dissidenza, l’idioma, la logica. La
linguistica, la logica matematica, la filosofia del linguaggio, la semantica
sono dottrine di compromesso fra il rinascimento della parola e la
reazione al rinascimento.
Noi non abbiamo nemici. Non abbiamo gente che non ci rispetta
abbastanza o che non ci tiene in considerazione o che non valuta
abbastanza il nostro valore o che non si rende conto della nostra scrittura
o del nostro interesse per la scrittura o dei nostri privilegi o del nostro
purismo. Noi non abbiamo nemici. Ribadisco quello che ho scritto in una
lettera, una volta. La circostanza in cui l’ho scritta era, come ciascuna
circostanza, pretestuale, tanto per indicare che la vita è estrema, che la
difficoltà della vita è difficoltà della parola e è estrema. Nessuno toglie
nulla all’Altro. Ciascuno può solo aggiungere, mai togliere. Non c’è
uomo o donna, che si rappresenti come nostro nemico, che possa
toglierci qualcosa. O che non possa divenire ospite e essere da noi accolto
come ospite. Occorre che noi troviamo il modo con cui, in un certo
istante, divenga ospite, divenga l’Altro e non più lui, non più noi.
DANIEL BRYNER Ma se qualcuno fa una critica a lei, come è accaduto,
e scrive sul giornale una cosa non veritiera su di lei, il suo onore viene
ridotto, la sua reputazione è attaccata...
A. V. No, non in questo senso. Intanto, se Barbaro Rossi scrive che
Verdiglione è un magliaro, è un guru, o che Verdiglione ha fatto la tratta
delle bianche, delle nere o delle gialle, allora ci sono due aspetti. Se
comincia a dire magliaro, intanto c’è da chiedersi che cosa intenda lui
con magliaro, da dove si muova per dire magliaro. Questo riguarda una
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fantasmatica propria a lui e quindi al personaggio che egli si crea. Io ho
detto, infatti, che è stato creato un personaggio a immagine e somiglianza dell’inquisitore. Il critico, il cronista, il giornalista, lo psichiatra, il
perito senza onore, il filosofo di provincia, l’universitario (in generale
era una popolazione piuttosto comunista e già postcomunista), insomma, l’inquisitore ha creato il personaggio a propria immagine e somiglianza, e non ha né tolto né aggiunto nulla a me. In un certo senso, però,
ha aggiunto. Perché? Io considero il “magliaro” e incomincio a parlare
di maglia, di maglieria, di trama, insomma dell’ironia. È un capitolo
nuovo per me (non che non esistesse prima, se leggete gli scritti precedenti, l’ironia c’è nella Peste, in Dio, nel Giardino dell’automa), è un
capitolo nuovo che mi trovo a scrivere: l’ironia. Dove dico che non c’è la
speranza nel futuro, ma che la speranza è il futuro. Dove dico che non si
tratta di sperare che qualcosa accada o non accada, perché questo resta
più o meno sempre nell’ambito della dottrina della predestinazione —
l’ottimismo, il pessimismo sono dottrine soggettivistiche che fanno
parte della dottrina della predestinazione —; dove dico che l’ironia è
l’interrogazione non socratica (ironia è interrogazione, in greco) e che
non fonda la risposta, i cui presupposti non sono quelli della logica
predicativa. L’ironia non dice che bisogna rispondere o sì o no, non
presuppone la logica del sì o del no, ma è il modo dell’inconciliabile, fra
sì e no, fra positivo e negativo, fra bene e male, fra amico e nemico, fra
alto e basso. Sono modi, varianti del modo dell’apertura della parola, del
cielo stesso della parola.
Prendiamo, poi, guru. Adesso viene adoperato spesso: guru della
finanza, guru della politica, guru della banca. Ho fatto un’indagine
intorno a questo termine molto interessante, sottraendolo all’animale
fantastico anfibologico gravis-brutus. È un termine che viene dal sanscrito,
guru, poi arrivato al greco e al latino, ma insomma, si tratta di un animale
anfibologico che presuppone la genealogia sociale. Io l’ho sottratto a
questa genealogia e l’ho elaborato in modo differente.
Insomma, non c’è elemento detto come negativo nei miei confronti
che io non abbia elaborato e trasformato in qualcosa che comportasse
l’apertura, l’apertura da cui procedere anche con il signore in questione,
se il signore in questione non è sovraccarico di acciacchi, di tic, di tac, di
lesioni, di deficienze, di somatizzazioni o di somarizzazioni, e quindi se
si trova in grado di parlare con me. È chiaro che se io ho la necessità di
parlare con questo signore, io trovo il modo, e dove lo trovo? Nella
parola. È accaduto che, in questi ultimi due anni, abbia avuto necessità
di parlare con signori verso cui non avevo nessun interesse di parlare,
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IL SECONDO RINASCIMENTO
ma c’era la necessità di parlare proprio con quei signori, che verso di me
avevano un pregiudizio totale. Io non posso fermarmi a dire che l’altro
è squallido, che l’altro è scialbo, che l’altro è stupido, che l’altro è
paranoico, che l’altro è razzista, perché questo mi limita molto, non mi
dà nessuna chance: io mi chiudo e faccio la torre senza avorio. Il fatto è
che questo signore non rappresenta l’Altro e occorre, invece, che io trovi
il modo di trasformare, per via di malinteso, questo signore in
interlocutore per la cosa di cui io ho bisogno. Io ho bisogno di quella cosa
e, quindi, ho bisogno che questo signore si trasformi in mio interlocutore.
Non posso dire che lui è stupido o che è pazzo. Io considero, invece, che
attraverso la sua pazzia, attraverso questi suoi caroselli, può darmi una
chance.
Certo, c’è chi scrive cose false intorno a me. Per esempio, in un
congresso qualcuno diceva che io ero figlio di Giovanni XXIII, un altro
che ero figlio di Brez̆nev, che ero finanziato dalla Cia e dal Kgb, oppure
da Israele, quindi dai servizi segreti israeliani oppure dai servizi segreti
tedeschi, che oggi sono più di moda — sono potentissimi oggi i servizi
segreti tedeschi. Ero molto finanziato! Fatto sta che io invece avevo
bisogno di quattrini per organizzare un congresso, per pubblicare libri,
per fare questa cosa, che io mi permetto di ripetervi, che ho già detto e
che ritengo che sia importante per noi che viviamo d’infinito: restituire
qualcosa di quanto ci è stato consegnato, tramandato da tutti coloro che
ci hanno preceduto e da coloro che vivono oggi accanto a noi, restituire
qualcosa alla civiltà con la nostra lettura, dare un contributo, fosse pure
un granello di sabbia. Io penso che se fossimo in un’epoca non analfabetica,
potremmo intitolare un libro Un granello di sabbia. Un granello di sabbia
non è poco, non è qualcosa di finito e di finibile se abita nella parola, se
sorge dalla parola e se emerge dall’infinito della parola. Dato che lei ha
preso l’iniziativa, prosegua! Intanto, come si chiama, se non sono
indiscreto?
D. B. Mi chiamo Daniel Bryner. Svizzero di origine.
A. V. L’origine non la sappiamo. L’originario è senza origine.
D. B. Io sono venuto per curiosità. Ovviamente, hanno detto peste e
corna di lei...
A. V. Lei capisce che le corna, in particolare, appartengono interamente
a coloro che le hanno dette.
D. B. E io non ci credo finché non vedo. La mia tesi è che lei si è scontrato
con dei poteri forti e alla fine l’hanno sopraffatto.
A. V. Mi hanno sopraffatto?
D. B. Sull’“Espresso”, in un articolo su Lacan, dicono che lei è il peggiore,
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IL SECONDO RINASCIMENTO
che Lacan è andato male in Italia perché lei è stato il suo profeta
sciagurato. Ci sono due possibilità: o controbattere ogni cosa sulla stessa
stampa oppure dire... E poi c’è l’altra cosa penale, che non vorrei toccare,
perché è una cosa privata sua.
A. V. Privata mia?
D. B. A un certo punto, ognuno dice la sua... È una cosa di cui non vorrei
entrare nel merito. Ognuno ha i suoi problemi.
A. V. Ho capito. Sono vari capitoli che lei ha enunciato. Incominciamo
con l’ultimo.
Intanto, io non ho accettato né il processo penale né la pena, non ho
accettato la morte, non ho accettato lo psicofarmaco, non ho accettato il
ruolo di vittima. Ho combattuto. Ho fatto anche di questa circostanza
l’occasione e il pretesto di una battaglia culturale e, in ogni caso, ho tratto
per me e per altri una lezione di vita. Non mi sono difeso, perché per
difendersi bisogna in qualche modo avere commesso dei reati.
D. B. Ha patteggiato...
A. V. Non mi sono difeso. Io ho avuto tre gradi di giudizio in meno di tre
anni, quando in Italia i processi prendono dieci, quindici anni, fra primo,
secondo, terzo grado. Con me, in meno di tre anni, tutto: uguale, uguale,
uguale. Tanta rapidità era abbastanza sospetta. Il processo, così come si
è svolto, non qualifica me e è un attacco piuttosto impari rispetto ai
mezzi e agli strumenti che io adopero. Lei dice: la mettono in prigione.
Però, lei può accettare la prigione e soffrire, oppure può affrontare la
prigione, certamente con dolore, e non accettarla, non dire semplicemente “io sono vittima di una persecuzione”. La persecuzione c’è, ma
occorre trasformarla in proseguimento, in ironia, trasformare anche
quella in circostanza per inventare, per scrivere, per combattere, per
pensare, per fare.
Insomma, io sono stato attaccato — diceva un amico — per avere
provocato, senza volerlo, la paura di non avere più paura. Per avere
dissipato la paura in alcuni e per avere destato la paura di non avere più
paura in altri. Ma insomma, sulla paura si fondano il regno, il principio
stesso di padronanza. Il principio della paura è il principio stesso di
padronanza sulla parola, sulla repubblica, sulla città. La persecuzione
ha destato paura anche tra i miei amici e collaboratori, non c’è dubbio,
in taluni timidezza, in altri fuga, collaborazionismo più o meno goffo,
insomma tutto ciò che avviene anche in un processo moderno per
stregoneria, dove la parola viene ritenuta reato o stregoneria. Il reato
d’influenza — ma l’influenza è dell’Altro, non del sé.
Ci sono coloro che soccombono dinanzi a un processo, giusto o
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ingiusto che sia, poi ci sono coloro che combattono, anche, ma assumono
il ruolo di vittima...
D. B. Cusani, per esempio.
A. V. Non so. Tortora ha combattuto, però ha assunto un ruolo di
vittima. Ci sono coloro che si uccidono o sono colpiti da infarto, da ictus,
da malattie, da tumori di varia natura. Noi abbiamo notato persone che
si sono trasformate radicalmente per il fatto di avere un’accusa di natura
penale.
Circostanze avverse, sfavorevoli ciascuno ne incontra, più o meno
adeguate alla sua portata. Un attacco così gigantesco non è certo avvenuto per la faccenda di un dentista o per investimenti in una causa
culturale, non è certamente in questi termini. È per avere toccato
qualcosa di fondamentale al modo di pensare, al modo di fare, al modo
di organizzare le cose, qualcosa di fondamentale nella politica, nell’economia, nella finanza, qualcosa che attiene alla sessualità, al piacere.
Abbiamo valutato quanti mezzi sono stati profusi, con costi notevoli per
lo stato, per una cosa come questa: non s’impiegano per criminali veri e
propri, per vastissime organizzazioni!
A me pare di avere analizzato, per filo e per segno, e di avere
elaborato, con altri amici sulla scena internazionale, quanto nei quattro
anni, dall’85 all’89, è accaduto a me, contrariamente a molti che, in questi
anni, sono stati colpiti più o meno ingiustamente. Perché tutti coloro che
sono stati colpiti per Tangentopoli, in un certo senso, sono stati colpiti
ingiustamente. E non perché non avessero partecipato alla corruzione,
senza dubbio c’erano motivi — nel mio caso non c’erano —, senza
dubbio hanno commesso cose che nel nostro sistema sono qualificati
come reati — non era questo il mio caso. Sono stati colpiti ingiustamente
perché i magistrati hanno colpito alcuni e non altri, alcuni di più, altri di
meno, e cioè, data l’obbligatorietà dell’azione penale, essa è completamente affidata all’arbitrio del pubblico ministero, della procura. A un
certo punto si è costituito il partito dei magistrati, come il potere forte
principale. In questo senso, l’accusa di falso in bilancio o di false
comunicazioni sociali può essere rivolta a qualsiasi impresa, in Italia, e
rivolgerla a un’impresa anziché a un’altra è chiaramente una scelta di
politica giudiziaria.
Lei mi dice che “L’Espresso” ha scritto qualcosa su di me. Io non lo
leggo, ma non perché sia contro “L’Espresso”, è che quando lo compravo non trovavo notizie, è trasparente, dice sempre la stessa cosa
demonologica. Elisabeth Roudinesco, l’autrice del libro su Lacan recensito dalla giornalista in questione, era venuta a due congressi organizzati
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IL SECONDO RINASCIMENTO
da me e ciascuna volta con grande sottomissione, perché c’era una sua
compagna, una signora molto più importante di lei in Francia, intellettuale comunista, che veniva e era favorevole a me, quindi lei veniva. Poi
questa signora importante si è messa contro di me, per tornare, poi, a
essere di nuovo favorevole a me, ma Elisabeth Roudinesco non si è
aggiornata. Elisabeth Roudinesco è figlia di Aubry, una delle cento
famiglie più ricche di Francia. Una volta ha scritto sulla “Quinzaine
Littéraire” che io sono mafioso. Io sono mafioso?
D. B. Perché si vestiva...
A. V. Certo, mi vestivo in modo... Mi vestivo. Certamente non mi vestivo
alla tedesca. E allora il sigaro, il colore del vestito... È tutto. Ero mafioso.
In questo libro intorno a Lacan ha scritto: “la politique ravageuse
d’Armando Verdiglione”. Lei crede che Lacan abbia affidato a me il
movimento freudiano in Italia. Ora, Lacan non ha affidato a me il
movimento freudiano in Italia, Lacan ha trovato tre persone che erano
suoi allievi. Io sono stato allievo di Lacan, mi pare che non sia da
sconfessare né da negare. Non l’ho mai negato questo, né rinnegato.
Sono stato allievo dei gesuiti, sono stato allievo di Augusto Marinoni,
sono stato allievo di Lacan. E allora, lui intendeva costituire un tripode,
noi abbiamo pubblicato il suo testo per l’inaugurazione di questa
associazione italiana, chiamata la Chose freudienne. Avevamo costituito, presso un notaio che io conoscevo, questa associazione. Gli altri due
personaggi, che facevano parte della triade, hanno ritenuto che io non
fossi interessato. Fatto sta che io avevo un’attività pubblica internazionale per lo meno molto più nota, non erano figure per me interessanti,
ma insomma avevo aderito all’atto di costituzione di questa associazione. Non ha avuto seguito. Io ho proseguito per la mia strada.
Roudinesco ha messo questa frase, “la politique ravageuse”, e pare
che sia stato tradotto con “la politica disastrosa”, ma no, è più giusto dire
“devastante”. Ma certamente, la politica devastante era quella di Lacan?
No, la politica devastante è la mia. Il mio giudizio sul libro di Rudinesco?
Appartiene alla demonologia, al regno femminilista di Gomorra: pettegolezzi, volgarità, volgarizzazioni, denigrazioni. È un libro antintellettuale, anticulturale, senza idioma e senza intelligenza. Dice qual è
l’apporto di Lacan? Ma certamente no! Pettegolezzi, cose familiari,
fesserie. Questo è l’apporto di Lacan? Questo è il testo di Lacan?
Leggendo il libro di Roudinesco abbiamo il testo di Lacan? Proprio no.
Ciò non toglie che possiamo anche leggere il libro di Roudinesco.
D. B. Ma al di fuori del vostro giro, la gente legge sul “Corriere della
Sera”: Lacan il megalomane... Sono piccole cose, ma allora voi dovete
combattere con queste cose...
22
IL SECONDO RINASCIMENTO
A. V. No. A me pare che il “Corriere della Sera” abbia parlato del mio
libro Leonardo da Vinci in termini molto precisi e che anche “L’Espresso”,
in qualche occasione, abbia fatto qualcosa di positivo. Del resto, l’ultimo
articolo fatto dall’“Espresso” era buono.
Poi, lei diceva del patteggiamento. Mi hanno fatto il processo stralcio
in tre anni, a tamburo battente. Intanto, di questa vicenda io ho scritto
cinque libri. Sono stati pubblicati gli atti. L’interrogatorio fatto a me è un
documento straordinario. Sa che cosa mi veniva contestato? “Signor
Verdiglione, che cos’è la cifra?” (che reato!). “Signor presidente, non è
una somma di danaro”. “Mi sembra che la sua cultura non sia granché”.
“Può darsi, signor presidente. Ma non è di pertinenza di questo tribunale valutarla”. “Ma non si attacchi alle parole”. “Io sono un linguista, se
non mi attacco alle parole a che cosa mi attacco?”. Tutto l’interrogatorio
si è svolto così. “È vero che era un capo carismatico?”. Dico: “Mi avete
fatto arrestare, contestatemi fatti specifici. Ditemi quali reati ho commesso e io vi rispondo”. “Ma lei cosa intende per fatti specifici? Il suo
ruolo nella Fondazione...”. Il fatto specifico sarebbe quello! Ma per fatto
specifico s’intende il fatto rilevante che costituisce reato. La trascrizione
è stata fatta dal tribunale e noi l’abbiamo riportata pari pari, senza
togliere né aggiungere una virgola. Quando l’ha letto Carlo Sini, ha detto
“se mi fossi trovato io in un interrogatorio così...”. Maksimov ricordava
quella massima: datemi una frase di un uomo...
D. B. Però, le piace apparire, perciò l’hanno fucilato. Se era così tranquillo, non...
A. V. Prima di tutto, non mi hanno fucilato...
D. B. Hanno tentato.
A. V. Il fucilato non c’è, questo è il bello.
D. B. In un mondo dove tutto si può comprare, compresi i giornali e i
giornalisti... Per questo la prima repubblica è stata cancellata, perché i
partiti non avevano più soldi. Ci sono dietro grossi poteri, ci sono i
servizi segreti che pagano e hanno sempre pagato e questa è una guerra.
Quindi, per rifare tutto ci vogliono soldi.
A. V. Li troviamo.
D. B. Se li trovate siete a posto.
A. V. No, noi siamo già a posto. E li troviamo anche. Siamo al nostro
posto. È chiaro che adesso entro di nuovo in scena. Non che mi sia
nascosto in questi anni, sono stato a meditare in sui libri, a lavorare, a fare
una lotta speciale, giorno per giorno, istante per istante, e ho acquisito
delle cose che altrimenti non avrei acquisito e che altri, comunque, non
hanno acquisito. E quindi sono in grado di entrare di nuovo sulla scena
23
IL SECONDO RINASCIMENTO
internazionale. Per questo, m’impegno direttamente a Losanna, m’impegno direttamente a Ginevra, così a Parigi e così in altre città. Incontro
persone per strada che mi dicono “Ma perché non appare in televisione,
perché non si rende visibile?”. Entro in scena, anche in televisione, anche
sui giornali, rimanendo invisibile. Perché coloro che non esistono se non
in quanto visibili, poi, spariscono.
Ho scritto un libro, Niccolò Machiavelli, che è anche la valutazione, un
giudizio intorno all’Italia. Io non dico: l’Italia è ammalata, l’Italia è di
seconda, terza, quarta classe, insomma, tutto il male dell’Italia. Gli
italiani, spesso, quando vanno all’estero, parlando dell’Italia dicono che
tutto va male e quando stanno in Italia dicono che tutto va male. È un po’
una superstizione questa, occorre valutare altrimenti le cose, più che con
destra e sinistra. Il nostro apporto non è per la circolazione stradale, non
è di metterci al centro della strada e dire: tu vai a destra, tu vai a sinistra,
lo fanno già i poliziotti. il nostro apporto è altro.
D. B. Sono soddisfatto. A prima vista...
A. V. Se però lei a seconda vista e a terzo udito ha qualche altra domanda,
la faccia.
D. B. Lei ha detto che non ha mai patteggiato...
A. V. In quei tre anni ci sono stati primo, secondo e terzo grado del
processo stralcio, che per loro era il processo, con tutto il clamore, a tutte
le ore, su tutti i giornali, i notiziari, le prime pagine, c’era solo Verdiglione.
Per quattro anni. Mai nessun criminale ha avuto tanto clamore! Mai
nessun intellettuale ha avuto un processo così, in Italia, negli ultimi
cinquant’anni. Il processo stralcio è cominciato con rito direttissimo il 31
maggio dell’86 e è terminato in Cassazione il 10 marzo dell’89. Poi, però,
sarebbe dovuto proseguire il processo “grande”, dove ero accusato di un
centinaio di reati, per i quali, anche con la continuità della pena,
avrebbero dovuto esserci un migliaio di anni di carcere. Fatto sta che io
avrei potuto proseguire la battaglia, ma ormai per me la battaglia
culturale era compiuta, era compiuta con il libro La congiura degli idioti,
in gran parte già con L’albero di san Vittore. Diciamo che il terzo atto è stato
L’albero di san Vittore e il vero compimento La congiura degli idioti. Dopo
questo libro, che ho scritto nell’estate del ’91, io non avevo più nessun
interesse per il processo. Questa è la prima cosa.
Seconda cosa. Io avevo e ho una responsabilità storica e quindi
assumo la paternità di molte cose, l’autorità e anche la responsabilità di
molte cose e, quindi, ho valutato che fare un processo ancora per dieci
anni sarebbe stato uno spreco, non più un investimento. Lei badi che io
avrei potuto, nell’85, evitare il processo. Subito, prima ancora dell’avvi-
24
IL SECONDO RINASCIMENTO
so di garanzia e comunque dopo il primo avviso di garanzia, ancora
avrei potuto evitarlo. Ma, se lei legge i miei libri precedenti all’85, lei
trova che io non avrei potuto evitarlo. Nei miei libri trova già la risposta
all’essenziale del processo. Ma come, lei dice, se avrebbe potuto evitarlo
perché tutto questo sacrificio successivo? Perché fa parte dell’itinerario
scientifico e intellettuale. Fa parte del messaggio e della lezione. Fa parte
di quel granello di sabbia: è il mio contributo. Evitando il processo, io
avrei evitato un’analisi essenziale di questo paese e dell’Europa e di dare
un contributo importante. La congiura degli idioti, Leonardo da Vinci,
Niccolò Machiavelli sono contributi importanti. E non solo, tutto ciò che
non è ancora libro, che non trovate come libro, in particolare questi
ultimi tre anni, e in particolare l’ultimo anno ’95. La pena, poi, è stata di
un anno e quattro mesi, ma calcolando la continuità della pena, hanno
aggiunto quattro mesi alla condanna precedente. Allora, erano mille
anni o quattro mesi? Tutti quei reati non c’erano, altrimenti non avrebbero potuto dare solo quattro mesi! Poi, siccome ho patteggiato, hanno
dissequestrato tutto. Allora, questi beni non erano corpi del reato,
altrimenti non li avrebbero dissequestrati così, improvvisamente!
Certo, io capisco che poi nel ricordo della gente c’è questo o quell’altro. Però, coloro che leggono hanno una nozione precisa. E siccome per
coloro che non leggono quello che importa è la visibilità, adesso io
rientro in scena, ma come invisibile. Ma rientro in scena: mi si noterà,
rimanendo invisibile, cioè non affidato e esaurito interamente nella
visibilità. Senza litigio, senza partecipare in nulla alla lingua dei litiganti,
quella che produce un rumore perpetuo, dice Leonardo da Vinci.
Allora, ho toccato i vari punti delle sue domande, o c’è ancora
qualcosa che non ho toccato?
Una cosa importante, ancora. Non è da dire che il fatto penale sia un
fatto privato. Questo no. Il mio caso non è giudiziario, è un caso
culturale, un caso linguistico, è un caso intellettuale. Non è un caso
personale.
D. B. Per alcuni dei reati, come la circonvenzione d’incapace, sicuramente può avere ragione lei, e del resto può succedere che nelle attività
imprenditoriali non tutto sia a posto. L’unica cosa è la truffa, perché se
non è vero questo, io, al suo posto, non avrei patteggiato, ma sarei andato
fino in fondo, fino alla Cassazione...
A. V. Io sono andato fino in Cassazione. L’accusa di truffa e addirittura
di estorsione su che cosa poggiava? Sul concetto d’incapace. Se non ci
fosse stato incapace non ci sarebbe stata estorsione né truffa, ma siccome
c’era l’incapace... Siccome si accorgevano che l’accusa di circonvenzione
25
IL SECONDO RINASCIMENTO
d’incapace poteva essere discutibile — e per un anno sono intervenuto
su questa circonvenzione d’incapace, dicendo quale fosse il terreno
insicuro di questo reato senza prove —, allora hanno rafforzato l’accusa
con l’estorsione, hanno detto: certo, non ci sarebbe estorsione, ma
siccome era incapace... E perché era incapace? Perché una persona che
fa la psicanalisi è sempre un incapace, così ha detto il procuratore
generale Dello Russo. Chi fa la psicanalisi è sempre un incapace! Il
caporedattore di un giornale rispetto al suo direttore è sempre un
incapace! Una donna rispetto a un uomo è sempre incapace!
D. B. Quindi, lei dice che c’è stata una sentenza sbagliata.
A. V. A me pare di avere analizzato in base a quali presupposti ideologici
sia stata impiantata l’accusa. Ho detto anche che la base erano gli articoli
scritti dai comunisti sui giornali, questa base è stata utilizzata dagli
accusatori e la stessa base è rimasta nella sentenza. Gli stessi termini.
D. B. E riaprire il processo?
A. V. Io l’ho già aperto, compiuto e trasformato in processo della parola.
Ho fatto qualcosa di più importante che riaprire il processo! Ciò che ho
fatto appartiene ormai alla storia e alla geografia. E rimarrà. Ci saranno
molti che si occuperanno di questo processo, che avranno modo di
riaprirlo. Io devo proseguire, non posso fissarmi su una cosa, questo è un
episodio, analizzato, affrontato, ma occorre che faccia altre cose. Ci sono
coloro che incappano una volta nel tribunale poi ci restano sempre! O
vanno una volta in ospedale per una fesseria e poi muoiono lì, perché
incominciano una serie di altre malattie. Bisogna proseguire, con un
programma di vita. Daniel, mi pare di averle un poco risposto.
D. B. Sono soddisfatto.
MARIA ANTONIETTA VIERO Lei diceva prima che bisogna trasformare,
per via di malinteso, ciascuno in interlocutore...
A. V. Anche colui che si pone come nemico, se noi abbiamo bisogno che
divenga interlocutore. Se non ne abbiamo bisogno, non possiamo trasformare tutti coloro che si pongono come nemici in interlocutori!
Facciamo come dice il Vangelo: c’è un po’ di polvere, scuotiamo i calzari!
M. A. V. Volevo sapere in che relazione sta il compimento con il progetto,
con l’obiettivo e anche con il programma. Il compimento della scrittura
sembrerebbe il compimento del progetto.
A. V. No, io non ho detto del progetto. Ha messo tante cose al fuoco!
L’obiettivo è sempre il pretesto, però ci vuole, poi bisogna andare oltre
l’obiettivo, non prenderlo realisticamente, perché sarebbe limitarsi. Il
progetto si aggancia all’audacia, a questo aspetto della tranquillità che
è l’audacia — l’altro aspetto della tranquillità è il rischio e il rischio
26
IL SECONDO RINASCIMENTO
introduce al programma. Soltanto il rischio estremo introduce al programma, al programma di vita. C’è il compimento della scrittura della
ricerca nel labirinto, rispetto alla difficoltà, e poi c’è il compimento della
scrittura delle cose che si fanno. Le cose che si fanno si scrivono e,
scrivendosi, si comunicano e si qualificano, ma per giungere alla qualità
le cose che si scrivono hanno bisogno del compimento. La clinica è
compimento. La clinica è cultura e arte della piegatura delle cose.
Compimento è un termine del Vangelo e quella che ho fatto finora è stata
soltanto una lettura del Vangelo, in un certo senso.
Lo statuto che si fa carico della globalità dell’esperienza è lo statuto
di regista. Si può essere sempre registi?, chiede Maria Antonietta Viero.
In cima all’itinerario, bisogna mettersi in quella direzione. Ma, dice
ancora Maria Antonietta, se l’associazione “ha bisogno”, come rispondere? Oggi pomeriggio ho detto una cosa. Ci sono coloro che dicono: “ci
manca questo, ci manca quello”. No. Io dico: di che cosa abbiamo
bisogno? Noi abbiamo bisogno. L’associazione è assoluta e è la condizione per il viaggio. Nel viaggio noi viviamo, noi facciamo, noi abbiamo
bisogno. Ma il bisogno non è quello dei marxisti, non è il bisogno delle
masse amorfe, delle masse che hanno bisogno di essere formate, di
essere organizzate, noi non abbiamo questo bisogno. E quindi fare è
necessità, impresa è necessità, superfluo è necessità.
Non si tratta di dire sì o no al bisogno. Invece la decisione è questa, che
noi facciamo, e è soltanto facendo che esistiamo, esistiamo in questo
accadimento, esistiamo nel miracolo. Non c’è altro modo di esistere.
Cosa giova al miracolo? Anche il sogno, anche la dimenticanza. Molte
guarigioni avvengono dormendo, avvengono perché esistono i sogni,
perché c’è dimenticanza. E le guarigioni sono sempre qualcosa di
assolutamente imprevisto per la medicina. La medicina parla del cosiddetto male incurabile: “quanto tempo gli resta, quanto gli manca, fra
quanto tempo muore”, e stabilisce quanti mesi, quanti giorni, eppure
avviene il miracolo. Questa è una cosa interessante. Non la si capisce
dicendo che questa è superstizione, no, bisogna intenderla in altro
modo.
Con il miracolo s’instaura il programma di vita. Il programma di vita
non è preliminare, si enuncia soltanto in seguito al fare. Chi non fa e non
combatte non può enunciare il programma di vita. La guarigione è il
programma di vita, se vogliamo rilevare questo termine, guarigione.
27
IL SECONDO RINASCIMENTO
Domenica, 3 dicembre 1995
Oggi procediamo in modo differente. Ciascuno pone domande o dà
testimonianze, prendendo sul serio, senza diminuire in nulla, la difficoltà. Chi rappresenta o diminuisce la difficoltà l’affida a me come carico e
ne porta la pena. Non ci guadagna nulla e non è certo un vantaggio
intellettuale per me. Perché è chiaro che io assumo l’esperienza e quindi
non posso, in nessun modo, nemmeno lontanamente accettare la
défaillance per quanto mi riguarda, sarebbe la rovina. È in questo senso
che assumo anche la paternità dell’esperienza e m’impegno direttamente. Se non fosse stato chiaro finora!
Sentiamo se ci sono notazioni. Taluni si erano iscritti a parlare. Dottor
Saverio Bellumat. È un nome che mi è molto caro: dovrei riprendere in
mano le lettere di san Francesco Saverio. Oggi è il suo onomastico?
S. B. Festeggio sant’Antonio.
A. V. Ma allora lei è Antonio Saverio Bellumat!
A. S. B.Sì.
A. V. Ah, ecco. Chi ha nomi brevi è preferibile che li scriva per intero.
Quindi, se lei scrive un libro, si firma per esteso. Lei ha fatto un’indagine
intorno a questo nome? È di Belluno. Quindi “bellumat” sarebbe
bellumatense?
A. S. B. È in dialetto della provincia di Belluno, l’antica Feltre, e
“bellumat” era il sovrintendente alla caccia del principe vescovo.
A. V. Quindi si occupava della caccia, che era un capitolo importantissimo, perché la mensa dei principi era costituita in massima parte da
cacciagione che, com’è noto, è un buon nutrimento. Ma a che epoca
risale?
A. S. B. Al 1600.
A. V. Il cacciatore. Abbiamo discusso a lungo: il cacciatore di teste, il
cacciatore di nomi, il cacciatore di cervelli, il cacciatore di streghe, il
cacciatore d’intellettuali. Però la caccia è lo stesso termine di Aufhebung,
cioè rilievo e rigetto. Il rilievo è nella logica delle relazioni, e il rigetto,
quindi la rimozione, è l’assunzione del superfluo nella logica delle
funzioni. L’assunzione, quindi funzione di nome — l’assunzione di
Maria è in questa accezione. Il nome come anonimo e innominabile, la
donna in quanto indice dell’anonimato del nome, il padre come indice
dell’innominabile del nome. La caccia verte sia intorno all’ironia, al
modo dell’inconciliabile, sia intorno alla sintassi, all’incominciamento
delle cose. Sicché lei si occupa di cose nobilissime, di cui il principe non
si è più occupato — perché non c’è più il principe vescovo di Feltre.
28
IL SECONDO RINASCIMENTO
A. S. B. In quale accezione lei dice “le cose sono estreme”? E qual’è la
connessione tra l’estremo delle cose e la solitudine?
A. V. Intanto, la parola estrema è la parola originaria perché non è
riducibile, non è spazializzabile, non è finalizzabile, non è nemmeno
visibile. La parola è estrema perché non c’è padronanza sulla parola,
quindi parola indominabile. Le cose — in quanto s’instaurano nella
parola, esistono nella parola, appartengono alla parola, si scrivono nella
parola, quindi si dicono, si fanno e si scrivono — sono estreme. Estrema
la parola perché mai diverrà psicofarmaco. Quindi, disperazione estrema, fede estrema, cioè la fede che opera e non agisce. Disperazione
estrema, quella che mai sarà convertibile in speranza che qualcosa
accada o non accada. La speranza che qualcosa accada o non accada è
puro fatalismo e, nella versione che ha nell’esperienza, giunge come
fantasma materno a seconda dei vari discorsi. La speranza nell’accezione comune è l’accettazione della morte e dipende dalla conoscenza della
morte.
Estremo, quindi, non come ultimo. Estremo perché non c’è al di qua
né al di là della parola. Convertito nella dottrina energetistica, l’estremo
diventa lo stremo delle forze, per esempio, essere o trovarsi allo stremo.
Lo stremo è la negazione dell’estremo.
Ogni volta che siamo tentati dall’energetistica deragliamo. Che cosa
prescrive l’energetistica? “Tu hai una quantità di energia, energia
termodinamica o energia informatica o energia telematica. Devi distribuirla. Se ne togli da una parte devi aggiungerne dall’altra. Se tu la
riversi su una cosa, non puoi, nello stesso tempo, impegnarti in un’altra
cosa”. Questo comporta che il corpo e la scena siano una macchinapsicofarmaco, che lo psicofarmaco si alimenti con l’energia termodinamica o con l’energia informatica. Se ciascuno di noi è interpellato
dalla difficoltà in qualcosa di assolutamente imprevisto, che scombina
tutti i suoi piani, non è che l’energia diminuisca perché si occupa di una
cosa nuova imprevedibile e imprevista! Quando dico energia
termodinamica o energia informatica è chiaro che parlo della dottrina
energetistica, e di come questa dottrina energetistica diventi poi una
dottrina morale, sociale, personale.
Io distinguo tra energia (atto) e materia. Mentre quella che Aristotele
chiama potenza è una variabile, e nel commento hegeliano diventa l’arte
soggetta alla morte, l’arte che deve finire, una variabile, insomma. Ma
l’arte è costante, l’arte è perenne, come dice il titolo italiano del libro di
Jacques Martinez, Il perenne moderno. Energia. Nel Giardino dell’automa
c’è qualcosa di preciso intorno al termine energia. La parola in atto, la
parola che agisce, questa è l’energia.
29
IL SECONDO RINASCIMENTO
La parola è originaria, estrema, non può essere limitata. C’è questa o
quella difficoltà e è sempre rispetto alla difficoltà estrema: è una chance
per giungere alla semplicità, perché le cose si facciano secondo l’occorrenza e si scrivano. C’è chi dice: Faccio già abbastanza, sono già impegnato a mio modo, insomma io mi trovo nel mio cerchietto, nella mia
nicchia, nel mio giardino, nel mio campo, nel mio orizzonte, nella mia
linea e questo sarebbe andare oltre la linea, sarebbe trovarsi senza la
linea, senza il cerchio. Prima occorre che io guadagni, poi che m’impegni, e allora, ecco ancora una volta il cane che si morde la coda. Perché
la dottrina energetistica è una dottrina gnostica, è una dottrina che dice:
tu sei un soldato, oppure uno schiavo, questo è il tuo salario, questo tu
puoi spendere. È la dottrina del salario o del premio. Questo è il bottino,
questo spetta a te, questo tu puoi spendere. Questi sono i tuoi compiti e
non altri. Io prima conquisto il salario e poi m’impegno. No! Io m’impegno direttamente, subito, e assumo la paternità dell’esperienza. Subito
e ora, non dopo, nel regno del mai. Ancora una volta, chi dice così non
si rimetterà mai in bonis, resta sempre in malis, resta sempre in questo
segno circolare del cane che si morde la coda, del serpente che divora la
coda, del gatto o altro animale fantastico che fa cerchio. Ma io già così
non ce la faccio! E quindi già si è assegnato i limiti, gli anni passano e che
cosa resta? Che ce l’ha fatta, che non ce l’ha fatta... Bisogna che qualcosa
resti di perenne, e questa è un’impresa in cui ciascuno dà il suo apporto,
ciascuno come dispositivo del fare, dispositivo poetico, dispositivo
politico, dispositivo di amministrazione, di governo, di finanza, di
comunicazione, di scrittura. La scrittura è questa, è scrittura dell’esperienza. Questa è l’accezione che assume la scrittura con il rinascimento
della parola, è scrittura della parola. Nel discorso occidentale non è
scrittura della parola, è scrittura del discorso, è scrittura della morte, è la
morte. Dice: Ma questi sono parametri per lei, lei sì che è bravo, questa
è la sua cifra, non è la nostra cifra, non è la mia! E già la cifra diventa il
segno, il segno della predestinazione. Questo è il suo segno, lei per forza
è grande, io sono più piccolo, io, nel mio piccolo, faccio le cose piccole.
No, il segno è tripartito e diviene cifra, qualità.
Vi dicevo ieri sera di Cristoforo Colombo. Poco prima dell’approdo,
i suoi amici, quelli che era riuscito a raccogliere in Spagna — e certamente non erano baroni, conti, principi, ma, insomma, avevano questa
vocazione dello straordinario potendo trovare nell’eccezione la condizione per fare — che cosa dicono? Torniamo in Spagna! Che il re ci
bastoni, ci metta in galera, ci metta a pulire le scale, almeno siamo sicuri,
abbiamo il pane sicuro. Eppure sono lì, vicinissimi alla terra.
30
IL SECONDO RINASCIMENTO
E gli ebrei, che vengono dall’Egitto e si trovano nel deserto, mentre
Mosè è salito sulla montagna: quel pazzo, parla con Dio! Facciamo il
nostro vitello, torniamo in Egitto dal faraone, anche da schiavi, pur di
non restare qui, nel deserto. E Mosè ritorna con le tavole, vede il vitello
e le spezza.
Occorre parodiare anche il Messia, ogni tanto. Il Messia non è che sia
venuto e basta. Il Messia è tra noi. Nessuno è il Messia, né questo né
quello che noi vediamo, il Messia non è visibile. Ma insomma, c’è la
necessità del Messia, c’è la necessità del miracolo, la necessità della
scrittura dell’esperienza, la necessità del superfluo. Certamente, l’atto di
Cristo è l’atto del Messia, la parola che agisce indica il Messia. Non è che
la parola abbia agito e ormai è finita, no! La parola finita non è più la
parola estrema, non è più la parola originaria.
Il Messia sta nella parola, cioè la parola ancora, ancora agisce.
Vogliamo limitarla con la dottrina dell’energia? Con la dottrina della
conoscenza della morte e dei propri limiti? Non è psicanalisi, se noi
facciamo così. Bisogna che la psicanalisi insegni l’eccezione, lo straordinario, il miracolo e che formi al miracolo, cioè che stabilisca le condizioni perché il miracolo intervenga, perché qualcosa accada secondo
l’occorrenza e non ho esitazione a dire anche secondo necessità —
nell’accezione di necessità non ontologica, di necessità pragmatica,
necessità sintattica, necessità d’incominciare, necessità di debuttare,
necessità dell’incominciamento, necessità del debutto.
Antonio Saverio Bellumat dice anche: la solitudine estrema. Certo,
perché la parola è estrema. La solitudine estrema non è l’isolamento. Ma
il confronto con il fratello, con l’amico, con il compagno è una fregatura!
È una castrazione transitiva. È un omicidio. Il confronto è con la
solitudine, con l’assoluto, con il sembiante, con l’oggetto della parola.
Né con il padre né con il figlio né con l’Altro. Il confronto con il sembiante
è l’identificazione stessa del sembiante.
Non c’è bisogno della psicanalisi per vivere una vita normale, per
rappresentare la morte bianca, il suicidio bianco, per subire e assumere
la propria dose di morte giorno e notte, in ogni istante. La psicanalisi è
l’esperienza della parola. Tripartizione (conversazione, narrazione, lettura), ma con differenti dispositivi. Certamente, nel proprio dipartimento. Ma anche la presidenza di una banca può essere un dipartimento,
anche la sede di un’impresa o di un’associazione d’imprenditori: lì si
tratta d’instaurare dispositivi per la formazione e l’insegnamento della
psicanalisi. Questo non significa che io debba spiegare cosa hanno detto
Abraham o Ferenczi o Bion o Hartmann o Kris o Melanie Klein, lì si tratta
31
IL SECONDO RINASCIMENTO
di entrare in medias res, si tratta di formazione, si tratta di esperienza,
dove io, io come soggetto, non esisto o l’esperienza non c’è! Il fantasma
del soggetto va analizzato: potremmo dire che è il fantasma materno
fondamentale, è il fantasma della morte.
Freud ha inventato la psicanalisi, lui ebreo (Jakob, suo papà, si era
formato in ambiente hassidico), come un suo approccio al Vangelo. La
lettura del Vangelo comporta l’invenzione della psicanalisi. Se voi
notate, in questi venticinque anni, quanti sono i brani del Vangelo che ho
ripreso e quante volte sono stati considerati, discussi, elaborati! Restituire il testo del Vangelo con la lettura è restituire il testo occidentale. In che
lingua noi leggiamo il Vangelo? Apparentemente, in greco o in latino.
Ma noi lo leggiamo, ormai, nella lingua in cui il Vangelo si scrive e il
Vangelo si scrive nella lingua di Babele e nella lingua della Pentecoste.
ANNA SPADAFORA Lei diceva che noi ci occupiamo di ciò di cui
abbiamo bisogno, non di ciò che ci manca.
A. V. È vero. Importa ciò di cui abbiamo bisogno. Dire che ce ne
occupiamo sarebbe un po’ ridondante.
A. S. In che modo si stabilisce ciò di cui abbiamo bisogno, per esempio,
come strumento per la restituzione di un granello di sabbia?
A. V. Io non ho detto che restituisco un granello di sabbia. Io restituisco
il testo occidentale e questo è come un granello di sabbia, un contributo
alla civiltà. Dicendo un granello di sabbia non c’è nessuna modestia e ho
precisato perché.
Una prima approssimazione per indagare intorno a ciò di cui abbiamo bisogno è ciò di cui abbiamo paura.
Riprendiamo. Importa non ciò che manca, ma ciò di cui abbiamo
bisogno. Noi facciamo, noi viviamo, noi abbiamo bisogno di fare, di
decidere, di concludere, di scrivere. Abbiamo bisogno di politica, abbiamo bisogno d’intelligenza, di malinteso. Abbiamo bisogno di paradiso.
Abbiamo bisogno di scrittura e di conclusione. Abbiamo bisogno di
soddisfazione. Ciò di cui abbiamo bisogno, in una prima approssimazione, è ciò di cui abbiamo paura — paura estrema, però, non questa o
quella paura.
LUCIO PANIZZO Al master di Padova lei diceva che della difficoltà si
occupa il progetto, quindi senza progetto si può parlare di una possibile
diminuzione della difficoltà, abortendo o sconfessando il progetto stesso, rientrando in una teoria energetistica. Aggiungerei anche la questione dell’investimento, senza il quale risulta difficile intendere la vendita
e lo svolgimento del progetto. Può aggiungere qualcosa?
A. V. È quello che io ho fatto ieri pomeriggio e sera e poi ho inviato
32
IL SECONDO RINASCIMENTO
l’appello estremo articolato in a, b, c. Solo che c’è chi lo intende in
maniera riduttiva.
L. P. Io ho già detto che aderisco al punto a.
A. V. Certo, e anche al punto b e al punto c. Pensi che io assumo la
paternità dell’esperienza e aderisco al punto a, b, c e poi d, e, f, g fino alla
zeta!
Ci sono altre domande?
MARITA CAPPIELLO Per un caso culturale mi trovo a percorrere un
itinerario cifrematico…
A. V. Certo, il caso è in cima all’itinerario. Il caso dell’unico. Nel n. 16
(gennaio-febbraio ’95) della rivista, c’è una serie di conferenze che ha
come titolo Il caso dell’unico.
M. C. Ho avuto modo di proporre a istituzioni bancarie e a aziende
attività di formazione che esigono la cifrematica…
A. V. Ho incontrato un amico, che aveva organizzato in altra epoca
incontri con imprenditori. Gli ho suggerito di organizzare un master per
gli imprenditori della città, cominciando con Modena, attorno al tema Il
commercio internazionale, l’impresa, la vendita, proprio per la formazione
psicanalitica di imprenditori. Dodici anni fa, tenevamo un’equipe dell’industria che aveva come progetto l’intervento clinico, l’intervento
psicanalitico, clinico e cifrematico nella direzione dell’azienda. È molto
più interessante formare imprenditori, presidenti, direttori generali di
banche, banchieri che occuparsi dei loro schiavi, i quali non rischiano
molto e non hanno una mentalità interessante. È agli imprenditori e ai
banchieri che occorre insegnare che non ci sono schiavi e quindi come,
a loro volta, formare all’interno e all’esterno chi collabora con loro.
M. C. L’esigenza da parte di tali istituzioni è di tipo culturale e è legata
alla necessità di trasformazione. La loro scommessa è diventare imprenditori, in primo luogo di se stessi. La cifrematica può dare una risposta.
A. V. Imprenditori di se stessi no, perché l’imprenditore non vende se
stesso, deve vendere utensili, libri, opere, macchinari, congegni, ma non
se stesso. Non c’è prostituzione: non ci si vende mai e non si vende mai
il prodotto come qualità, questo dicevamo ieri.
M. C. La città del secondo rinascimento sarà in grado di formare una
richiesta così urgente di uomini e d’impresa?
A. V. Questa è una scommessa importantissima. La città del secondo
rinascimento sorge specificamente anche per questo. Bisogna che abbia
intanto questa ambizione, quindi che questo divenga programma. La
domanda è formulata in modo interessante. Sono contento che lei ascolti
con attenzione.
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IL SECONDO RINASCIMENTO
M. C. Mi sono ritrovata a avere contatti...
A. V. Come, ha avuto contatti? Io, mai contatti.
M. C. Pubbliche relazioni...
A. V. Relazioni sì, ma mai pubbliche. Quelle pubbliche non hanno
nessun interesse. La relazione è duale, non è pubblica, la relazione è il
due, non è mai sociale. “Socializziamo la relazione”, no, proprio no. So
che lo dice in un’accezione un po’ usuale, ma noi ci permettiamo
d’indagare su ciascun termine perché, anche parlando, bisogna che
portiamo un messaggio. Per noi le parole non sono indifferenti, sono
specifiche e altri si accorge della proprietà linguistica, non in base a
canoni convenzionali, ma come proprietà della parola e dell’itinerario in
cui ci troviamo.
M. C. Quindi mi sono ritrovata a esplorare tabù che ancora vincolano la
questione donna, la vendita e il profitto.
A. V. Certamente. Il direttore generale della banca non è una donna,
l’amministratore delegato della grande azienda non è una donna, il
presidente della compagnia di assicurazioni non è una donna, e così via.
Però, per ciascuno di loro c’è una donna, la segretaria, che in ciascuno di
questi casi è dirigente. Io avrei potuto parlare con l’amministratore
delegato e non concludere nulla se non ci fosse questa segretaria dirigente, che fa le cose, il suo non è semplicemente un ruolo esecutivo. Non
sono propriamente escluse, le donne, dalla finanza, il loro non è un ruolo
subordinato, perché partecipano in pieno alla direzione e alla strategia,
partecipano ai consigli di amministrazione. Esistono donne di talento e
sono assolutamente indispensabili nelle aziende, sopra tutto dove si
tratta d’imprenditoria, di direzione, di amministrazione, di finanza e di
strategia.
È anche vero, però, che c’è un’omosessualità dilagante, un’omosessualità eretta a principio, che regna in molte aziende, in molte banche, in
molte compagnie e questa omosessualità ha la donna come modello —
schiavista invisibile e donna da schiavizzare e da aggredire (quest’ultima è la donna madre, la mamma, trattata con rispetto, cioè con violenza).
Un imprenditore che non abbia accanto a sé una donna come interlocutrice
ha un limite molto grave per la sua impresa. Però, può fare parte di un
cerchio omosessuale fortissimo, e allora farà scalate finanziare straordinarie e subirà precipizi rovinosi. Quando dico una donna come
interlocutrice non intendo una donna che si lamenti in continuazione: il
telefono, l’affitto, le mie colleghe, come sono ridotta! Questa non è
interlocutrice, è la donna come segno negativo, che dice continuamente:
“io ti conosco, so quali sono i tuoi limiti”, e quindi fa la figlia o la mamma,
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IL SECONDO RINASCIMENTO
che è la stessa cosa. Sono un po’ rapido, ma insomma, bisogna pur
entrare nella materia fantasmatica.
M. C. Per una donna, la questione vendita si formula in termini intellettuali...
A. V. Il pregiudizio qual è? Che una donna debba vendersi. Una donna
ha grandissime chance, se non si abbandona, se non aderisce all’erotismo,
se non crede che debba vendersi. Per una donna stare sul filo del
malinteso comporta una chance estrema. Togliere il malinteso, credere
che questo sia possibile, è letale! La professionalità, per una donna, è
anzitutto questo: instaurare il malinteso e mai toglierlo. Una donna
abbandona la professionalità nel momento in cui crede che ormai ci si è
capiti, ci si conosce, si sa quello che si vuole — allora è proprio una donna
fottuta, una fottuta donna che non merita nessuna considerazione,
votata alla perdizione, cioè alla scemenza, alla banalità, alla normalità!
Parodiando, potremmo dire: così fan tutte. Ma non è così, non tutte
fanno così. Sono queste “non tutte” a interessarci. Mentre un uomo che
abbandona la professionalità e si abbandona all’erotismo è già una
nullità in partenza. È una mezza scarpa, è un bamboccio mai emerso
all’orizzonte della vita!
M. C. Per una donna la questione vendita si formula nei termini
intellettuali a favore della logica e della parola, ma per la donna perché
la questione danaro è così difficile da trattare?
A. V. Perché il danaro viene considerato, da Aristotele a oggi, una
materia degli uomini, una materia umana. E quindi il danaro è genealogia
delle forme simboliche, sociali, istituzionali, aziendali, bancarie, perciò
questa genealogia umana deve essere propria degli uomini e non delle
donne. Noi abbiamo insistito molto su questo: il danaro non è relazione
sociale, il danaro è relazione, indice e figura della relazione, non è
relazione sociale, non è genealogia sociale.
La moneta, insisto, è il colore dello specchio, dello sguardo, della
voce, quindi anche l’inspeculare, l’indisciplinare, l’invisibile, l’intoccabile — questo è la moneta. E i soldi siamo noi, voi, loro o come noi, voi,
loro, cioè marche, nella sembianza, e indici, nel linguaggio, dell’infinito
della parola. I soldi, i quattrini non devono essere il segno della nostra
finitudine, come di solito avviene, il segno del razzismo.
ALBERTO CAVICCHIOLO Si può parlare di danaro virtuale?
A. V. Adesso c’è un po’ un’inflazione del virtualismo. Non è più
interessante quanto tutto diventa virtuale. A me pare di avere precisato
questo termine. Diciamo solo realtà virtuale o finanza virtuale, ma
insomma, dicendo finanza virtuale o banca virtuale noi diciamo, sempli-
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IL SECONDO RINASCIMENTO
cemente, qual’è la prerogativa della banca, qual’è la proprietà della
finanza, e non che ci siano una finanza non virtuale o una banca non
virtuale. Ciascuna banca o è virtuale o non esiste. La finanza o è virtuale
o non esiste. Da questo non possiamo dire danaro virtuale, moneta
virtuale, due virtuale, sembiante virtuale! Allora questo termine è usato
come se fosse una moltiplicazione per zero, come se fosse un segno di
neutralizzazione della parola.
Per quanto riguarda il termine scambio, mi pare che nel dizionario
curato da Fabiola Giancotti ci siano vari esempi.
L’equivalente generale è un fantasma, il sembiante non è l’equivalente generale. L’equivalente generale non è la moneta, non è il dollaro, non
è l’oro, non è neppure il marco. È sempre un fantasma materno, nella
Borsa, porre il marco come equivalente generale o come, viene detto,
moneta di riferimento o moneta forte, moneta come equivalente generale. “L’economia, la finanza, la cultura e l’arte si situano nello scambio.
Assioma dello scambio è l’anoressia intellettuale”. La parola agisce.
Come agisce? Questo è lo scambio.
Si chiede Marita Cappiello: ma per la donna perché la questione
danaro è così difficile da trattare? Rispetto al pregiudizio. Poi, rispetto
al pregiudizio, c’è anche la donna di danaro e ci sono uomini che sono
bravi professionisti accanto alla donna di danaro — la moglie, la cliente,
la suocera, la donna di danaro, insomma. Sono bravi professionisti, ma
in proprio non rischiano mai nulla. Dicono: adesso chiedo a mia moglie,
chiedo a mia suocera, chiedo alla mia cliente. Ci sarebbe bisogno di un
investimento? Chiedo alla donna di denaro.
Stamattina sono un po’ terribile! Lei mi ha provocato su questioni
serie e bisogna pure che io dica qualcosa che risente dell’esperienza. Poi
c’è l’uomo di danaro, “cappellaccio paga tutto”. L’uomo di danaro,
l’uomo cappello, l’uomo copertura. E, allora, la donna è lì giusto per
chiedere il denaro a quest’uomo, che lei spende, alla bisogna. L’uomo di
danaro. Ci sono donne senza una dignità, che semplicemente si appoggiano e sono sempre lì a lagnarsi, a lamentarsi, a portare grane a
quest’uomo, che appartiene alla genealogia umana e deve rispondere a
tutto. Certo, ci può essere anche un uomo che per le questioni principali,
dove si tratta dell’impresa, del rischio assoluto, dell’investimento, del
programma, delega la donna. Lui è un brav’uomo, animato da buona
volontà, ma mai veramente s’impegna direttamente, assume la paternità e corre il rischio assoluto, perché lui ha la donna dell’impresa come
moglie e, se occorre, per le cose principali interviene lei. Noi non lo
interroghiamo su come vadano le cose sessuali, tra loro. Stamattina sono
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IL SECONDO RINASCIMENTO
cattivo, ma occorre pure che dica qualcosa, per elaborarla. La generosità,
l’indulgenza e l’umiltà sono virtù dell’Altro, costituiscono proprio il
diritto dell’Altro.
ROBERTO FRANCESCO da CELANO Come si pone la città del secondo
rinascimento rispetto ai media, più precisamente, allo spettacolo, al
cinema, che sembrerebbero dettare un modo di vita? Molte volte ci si
trova con un’equipe che dice: non è così che ci dicono, oppure ci
contraddicono...
A. V. Bene, le danno molte opportunità in questa equipe, quindi la
interpellano come psicanalista. E allora, avanti, proceda!
FANCHETTE KUNZ L’investimento è indispensabile, ma c’è un momento per farlo. Come valutare quale sia il momento giusto?
A. V. Lei vuole sapere quando occorre l’investimento? L’investimento è
la funzione di Altro nella sembianza. Il quando dipende dall’investimento, il tempo dipende dall’investimento, l’anatomia della sembianza
dipende dall’investimento, e non viceversa. Non c’è un momento per
l’investimento. Non esiste l’anatomia nella sembianza, quindi non esiste
il tempo nel fare, proprio alla sembianza, senza la funzione di Altro.
L’investimento è la funzione di Altro. Negare questo è suddividere
l’Altro in bene-male, amico-nemico e, quindi, portarselo come abito o
combattere contro un abito. La battaglia dei costumi è questa. Se la
funzione di Altro è espunta, se l’investimento è espunto, l’Altro serve
per il travestimento, per l’abito sociale, morale, collettivo, politico,
mentre l’Altro come barbaro va combattuto nel suo abito. La battaglia
delle linee ideologiche, politiche è anche questa.
La sua domanda ha anche altri aspetti. C’è una formula che dice: è
venuto il momento per fare qualcosa. Le cose si fanno secondo l’occorrenza e al modo opportuno. Al modo opportuno, al modo tagliente.
Quando bisogna fare, investire, decidere, concludere? Lei se ne
accorge. È quando la paura di fare, d’investire, di decidere, di concludere è estrema. La paura non è una buona consigliera, dice il proverbio. La
paura è un’eccellente consigliera! È una straordinaria consigliera! La
paura estrema, non la piccola paura, non la paura come feticcio. Quella
che viene chiamata paura, per esempio nel discorso ossessivo, è qualcosa che caratterizza il feticcio. È paura per questa cosa o per quella cosa,
mentre è chiaro che la paura non è per questa cosa o per quella cosa,
perché questa o quella cosa tutt’al più fanno parte di una globalità. La
paura estrema è la paura sentinella, è la paura spia di ciò che incomincia.
Quando dico che è ottima consigliera, la spingo fino allo spavento e al
panico, anche questi quando sono eccessivi, quando non sono contenibili,
non tali che si possa dire: oh, oh, come mi batte il cuore! Quando il panico
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IL SECONDO RINASCIMENTO
è tale che io non possa dire: ho una tachicardia, mi s’indolenzisce un
piede o un braccio o una mano.
Il panico estremo è quando lei si accorge che la finanza è assolutamente inevitabile e che il momento è venuto per concludere. Lo spavento
estremo è quando lei si accorge della politica, della sessualità, del fare,
e quindi il momento è venuto per fare, per la politica, la politica
dell’ospite, la politica altra, la politica dell’Altro. Questo estremismo
non dà l’occasione alla politica, alla sessualità e alla finanza di localizzarsi, di rappresentarsi in qualcosa e sopra tutto di personalizzare il fare e
la conclusione delle cose, della scrittura.
La paura ordinaria personalizza, lo spavento ordinario è supersoggettivo, il panico ordinario è mortale: vengono infarti, ci sono contraccolpi, ci sono conseguenze dell’orrore, del terrore, della paura, dello
spavento e del panico. Anzi, Aids, ictus, cancro, infarto si possono anche
cogliere come contraccolpi, contrappassi, contropiedi rispetto alla
personalizzazione dell’orrore, del terrore, della paura, dello spavento e
del panico.
Questa è una strada clinica molto interessante, se noi decidiamo di
percorrerla. Altro che la psicosomatica! Se noi decidiamo di occuparci
sul serio di tutta una serie di cose di cui poi finiscono per occuparsi i
medici perché la gente le trascura, per anni si tappa le orecchie, non
intende affrontarle, se noi decidiamo di affrontarle si apre per noi una
strada molto interessante — nel Processo alla parola ne abbiamo accennato e l’abbiamo ripreso più volte. Fabiola Giancotti potrebbe fare un terzo
dizionario costituito da esempi clinici.
Intendo che ci occupiamo anche delle cosiddette psicosi, non nel
senso di aprire ospedali, ma che ce ne occupiamo in modo interessante.
Tutto questo regno chiamato confusamente psicosomatica — il termine
psicosomatica è esattamente inscritto nel discorso occidentale, nella
logica binaria, nel dualismo platonico: psicofisica, psicosomatica...
MARIA ROSA ORTOLAN Come si costituisce l’assemblea? Certo non
basta riunirsi perché ci sia assemblea e, allora, qual è e come si costituisce
il dispositivo dell’assemblea? Quali sono le condizioni, quali sono i
termini perché ci sia dispositivo nell’assemblea?
A. V. Che cosa instaura l’assemblea? Noi facciamo. Che cosa la
contraddistingue? La decisione e la politica. A che cosa punta l’assemblea? A concludere. Quindi, l’assemblea è costellata dalla pragmatica,
dalla politica, dalla finanza. Qual’è la lingua dell’assemblea? La lingua
diplomatica. Se in un’assemblea c’è litigio non è assemblea, se c’è
conflitto non è assemblea.
L’abito della paranoia, se davvero indossato, evita l’assemblea, è
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IL SECONDO RINASCIMENTO
fatto apposta per evitare l’assemblea. La paura estrema dell’assemblea
è sfiorata dalla paranoia e allora o porta all’assemblea oppure la fa finita
con l’assemblea, la fa finita poi anche con il sembiante, anche con la
psicanalisi, con l’esperienza. In questo senso, noi potremmo oggi restituire il testo del processo. Nei cinque scritti giuridici, io ho dato una
lettura del testo della paranoia, ma adesso ci sono altre acquisizioni e noi
possiamo compiere questa lettura. Sarebbe anche un modo di leggere il
testo giuridico dell’Italia di oggi, di questi ultimi tre anni, quasi quattro,
dal febbraio del ’92. Insomma, non è un caso che il discorso giudiziario,
che si propone di sfruttare e formalizzare la paranoia, si sia appuntato
proprio all’assemblea. Tutti gli interrogatori, le inquisizioni, le inchieste
riguardavano l’assemblea, non è un caso. Quindi anche l’affaire della
parola trova la sua specificità nell’assemblea. Questo è un capitolo
nuovo, ci consente di leggere molte cose di questi anni e non di mantenerle come fobie — fobie sarebbero le paure cui il soggetto è affezionato.
ANNA GLORIA MARIANO Nelle assemblee le donne non erano ammesse.
A. V. Dove?
A. G. M. Presso i greci, per esempio.
A. V. Poi è arrivato il cristianesimo, dove le donne c’erano, nella chiesa.
La promozione delle donne è avvenuta con il cristianesimo, anche se
hanno delimitato uno spazio dove dovevano esserci solo gli uomini —
era un’opera di seduzione terribile da parte di questi uomini sacerdoti
rispetto alle donne, ma era anche un modo di porre l’accento sulle donne.
L’accento posto dal giudiziario sull’assemblea è perché dalla politica
dell’assemblea s’instaura la via del piacere; quindi, sbarrare l’assemblea, negare l’assemblea, cancellare l’assemblea serviva a cancellare la
via del piacere, per avere un monopolio sul piacere posto come fine e
distribuito in dosi dai regimi politici. Ma l’abbiamo analizzato.
Lei diceva: la donna intellettuale. Non esiste la donna intellettuale e
neppure l’uomo intellettuale. La donna, tre virgole, intellettuale. Non la
donna intellettuale senza virgola. Deve provvedersi della virgola!
A. C. Può dare una definizione alla virgola?
A. V. È il tempo. La virgola è il tempo. Però è una risposta ad hoc, non
possiamo universalizzarla. Oppure è l’istante.
CRISTINA FRUA DE ANGELI Come nel caso di “vergine, madre”.
A. V. Sì. Non madre vergine o vergine madre. Sono due termini distinti.
Della verginità abbiamo indagato sia il teorema sia l’assioma. E madre
come indice del malinteso indissipabile.
A. C. Può specificare la questione della paternità? È la prima volta che ne
parla.
A. V. Assumo la paternità. M’impegno direttamente. Ieri ho fatto una
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IL SECONDO RINASCIMENTO
conferenza, sull’onda di Losanna. È un capitolo assolutamente nuovo
che abbiamo inaugurato in questo master, di cui c’erano i termini
certamente prima, ma che qui si è precisato. Non toglie l’equivoco, ma
indica dove sfocia, qual è il compimento della scrittura dell’equivoco,
cioè la legge. Dieci anni or sono, c’era chi aveva capito che io negavo la
psicanalisi (conferenza stampa del 26 giugno 1985). No, io assumo la
paternità dell’esperienza. I termini sono emersi in modo preciso ieri e
oggi, c’erano già, ma adesso viene affermato con forza, tant’è che subito
viene affiancata da un’altra affermazione: m’impegno direttamente.
Non è che mi fossi impegnato indirettamente finora, caso mai fosse
sembrato in qualche angolo, da qualche parte, che fossi impegnato
indirettamente, no, adesso m’impegno direttamente. È un impegno
inaggirabile. Nessuno può avere motivo di credere di potere eludere
questo mio impegno. Non solo, ma dico: Noi facciamo. Assumo la
paternità dell’esperienza. M’impegno direttamente. Noi facciamo. Con
ciò che è seguito ieri intorno al bisogno: non importa ciò che manca ma
ciò di cui abbiamo bisogno. Queste tre affermazioni si situano nel
programma di vita.
A. C. Questo termine non posso situarlo se non nel programma di vita.
Il termine paternità assume grande rilievo, perché, spesso, accade di
sentire parlare di padre e figlio senza paternità. Fare il figlio...
A. V. Fare il figlio è in un’altra accezione. Che mestiere fai tu? Faccio il
figlio.
Questo è un capitolo interessante che dovrei senza dubbio affrontare,
toccare e elaborare e offrire molti elementi, perché è importantissimo
nella clinica. Negli anni settanta insistevamo molto su questo aspetto: un
conto è la genealogia, ma effettivamente l’accoppiamento ha bisogno di
un compromesso sociale e produce il figlio. Potremmo fare un master
dal titolo La famiglia, la generazione, la finanza. E potrebbe riguardare le
famiglie industriali, le famiglie bancarie, ecc.
Nel caso del suicidio di quella famiglia, la madre con i tre figli, il padre
era scomparso, per un tumore. È questo il dato che è stato accettato (e non
accettato) e il suicidio è il paradosso di questa accettazione.
PIERLUIGI DEGLIESPOSTI Ieri diceva che l’inconscio del logo non aveva
bisogno della psicanalisi, mentre l’inconscio della parola ha atteso
venticinque anni per instaurarsi. Mi chiedo se le domande intervenute
ultimamente possano dare l’occasione per riprendere la portata dell’inconscio della parola.
A. V. Questo master ha molte indicazioni. La giornata di ieri era intorno
all’inconscio.
Trascrizione, non rivista dall’Autore, di Fabiola Giancotti
A cura di Cristina Frua De Angeli
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