2014
quindicinale di attualità e documenti
7
Documenti
193 Misericordia e povertà
Povertà evangelica e misericordia divina sono i due temi che il papa
ha scelto per il messaggio di Quaresima e per l’incontro col clero di Roma.
208 A scuola d’intercultura
Educare al dialogo interculturale nella scuola è la sfida a cui risponde
l’ultimo documento della Congregazione per l’educazione cattolica.
233 CEI: violenza, le Linee guida
Il nuovo testo delle Linee guida della CEI per i casi di violenza sessuale
di chierici su minori integra quello del 2012 con le osservazioni della CDF.
241 Questionario sulla famiglia: risposte/2
I vescovi austriaci e svizzeri pubblicano una sintesi delle risposte raccolte
attraverso il questionario preparatorio per il Sinodo straordinario di ottobre.
Anno LIX - N. 1164 - 1 aprile 2014 - IL REGNO - Via Scipione Dal Ferro 4 - 40138 Bologna - Tel. 051/3941511 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
quindicinale di attualità e documenti
D
ocumenti
1.4.2014 - n. 7 (1164)
Caro lettore,
consegnandole questo nuovo numero
de Il Regno-documenti, che speriamo
trovi interessante per la scelta
di temi che vanno dagli ultimi
interventi di papa Francesco alla
dichiarazione della Congregazione
per l’educazione cattolica sul dialogo
interculturale, alle Linee guida
della CEI sui casi di violenze
sessuali nei confronti di minori da
parte dei chierici, alla lettera dei
vescovi siciliani sulla situazione
politica e sociale, ai risultati
delle consultazioni sulla pastorale
familiare resi noti dai vescovi di
Austria e Svizzera, desideriamo
richiamarle un piccolo gesto di cura,
di cui Il Regno ha bisogno, da
parte dei suoi abbonati: il rinnovo
tempestivo dell’abbonamento.
Il fatto di sostenersi in gran parte
grazie al contributo degli abbonati
ha garantito e continua a garantire
a Il Regno la libertà di pensiero e
parola che gli è riconosciuta
da tutti.
Per questo motivo confidiamo che
chi non ha ancora rinnovato
l’abbonamento per il 2014 lo faccia
celermente, consentendoci
di rimanere quello che siamo.
R
Francesco
193
Si è fatto povero per arricchirci
{ Messaggio per la Quaresima;
discorso all’incontro con il clero
della diocesi di Roma }
Povertà, non miseria
(Messaggio per la Quaresima 2014)
Messaggio al World
Economic Forum
Il tempo della misericordia
(Con il clero della diocesi
di Roma)
Agli uomini e alle donne mafiosi
Santa Sede
200
Nuove regole per la finanza
e l’economia
{ Nuovo statuto dell’Autorità
di informazione finanziaria
e nuova struttura
di coordinamento }
Nuovo statuto dell’AIF
Nuova struttura di coordinamento
204
Con amaro sbigottimento
{ Lettera circolare
di p. Fidenzio Volpi ai Frati
francescani dell’Immacolata }
208
Educare al dialogo interculturale
{ Congregazione per l’educazione
cattolica }
Studi e commenti
225
Il ruolo del vescovo, in giustizia,
pace e caritas
{ Il card. O.A. Rodríguez
Maradiaga alla plenaria della
Conferenza canadese
dei vescovi cattolici }
Chiesa in Italia
230
Con papa Francesco
e con mons. Galantino
{ Comunicato finale del Consiglio
permanente della CEI }
233
Chierici e minori: linee guida / 2
{ Episcopato italiano }
237
Il nodo della classe dirigente
{ I vescovi siciliani e l’attuale
congiuntura della Regione }
Chiese nel mondo
241
Risposte al questionario
sulla famiglia
{ Vescovi austriaci }
246
Consultazione sulla pastorale
della famiglia
{ Conferenza dei vescovi svizzeri }
«Uniti nella fede della Chiesa»
(I vescovi svizzeri)
Studi e commenti
249
Un futuro per il mondo arabo
{ Fadia Kiwan al Congresso
internazionale sulla
Pacem in terris,
Città del Vaticano 2-4.10.2013 }
F
rancesco |
pastorale
Si è fatto povero
per arricchirci
Povertà,
non miseria
Messaggio per la Quaresima;
discorso all’incontro con il clero
della diocesi di Roma
«Che cosa dice oggi a noi l’invito a una
vita povera in senso evangelico?». Inizia così il messaggio del papa in occasione della Quaresima, datato 26
dicembre 2013 e intitolato Si è fatto
povero per arricchirci con la sua povertà (cf. 2 Cor 8,9). Al cuore della riflessione una distinzione fondamentale per la fede cristiana: se la povertà
è lo «stile di Dio, (...) il suo modo di
amarci, il suo farsi prossimo a noi
come il buon samaritano», la miseria
– in tutte le sue forme – «non coincide
con la povertà; la miseria è la povertà
senza fiducia, senza solidarietà, senza
speranza». L’invito «a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene
carico e a operare concretamente per
alleviarle» è per il cristiano partecipazione alla misericordia divina, un
tema che Francesco ha riproposto
nell’incontro con il clero della diocesi di Roma. «Il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino
alla sua gente (…). Chiunque si trovi
ferito nella propria vita, in qualsiasi
modo, può trovare in lui attenzione e
ascolto». E in un esame di coscienza
ha domandato ai suoi preti: «Conoscete le ferite dei vostri parrocchiani?
Siete vicini a loro? (…) Tu piangi? O
abbiamo perso le lacrime?».
Stampa (22.3.2014) da sito web www.vatican.va; titolazione redazionale.
Il Regno -
documenti
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Messaggio per la Quaresima 2014
Si è fatto povero
per arricchirci con la sua povertà
(cf. 2Cor 8,9)
Cari fratelli e sorelle,
in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e
comunitario di conversione. Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: «Conoscete infatti la grazia del
Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto
povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo
della sua povertà» (2Cor 8,9). L’Apostolo si rivolge ai
cristiani di Corinto per incoraggiarli a essere generosi
nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel
bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste
parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla
povertà, a una vita povera in senso evangelico?
La grazia di Cristo
Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non
si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del
mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà:
«Da ricco che era, si è fatto povero per voi…». Cristo,
il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con
il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è
fatto vicino a ognuno di noi; si è spogliato, «svuotato»,
per rendersi in tutto simile a noi (cf. Fil 2,7; Eb 4,15).
È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è
grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a
donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità,
l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato. L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le
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rancesco
Messaggio al World Economic Forum
I
n occasione dell’apertura del 44° incontro annuale del World
Economic Forum, svoltosi a Davos-Klosters (Svizzera) tra il 22
e il 25 gennaio scorsi, papa Francesco ha inviato un messaggio
– che porta la data del 17 gennaio – al prof. Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del Forum, di cui è stato latore il
card. Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia
e della pace. Lo pubblichiamo di seguito (www.vatica.va).
Al professor Klaus Schwab,
presidente esecutivo del World Economic Forum
La ringrazio vivamente per il suo cortese invito a rivolgermi
all’incontro annuale del World Economic Forum, che, come al solito, si terrà a Davos-Klosters alla fine del mese corrente. Confidando che l’incontro sarà un’occasione per una più approfondita
riflessione sulle cause della crisi economica che ha interessato
tutto il mondo negli ultimi anni, vorrei offrire alcune considerazioni nella speranza che possano arricchire i dibattiti del Forum e
fornire un utile contributo al suo importante lavoro.
Promuovere un approccio «inclusivo»
Il nostro è un tempo caratterizzato da notevoli cambiamenti
e da significativi progressi in diversi campi, con importanti conseguenze per la vita degli uomini. In effetti, «si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio
nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione»
(lett. enc. Evangelii gaudium, n. 52; Regno-doc. 21,2013,651), come
pure in tanti altri campi dell’agire umano, e occorre riconoscere
il ruolo fondamentale che l’imprenditoria moderna ha avuto in
tali cambiamenti epocali, stimolando e sviluppando le immense
risorse dell’intelligenza umana. Tuttavia, i successi raggiunti, pur
avendo ridotto la povertà per un grande numero di persone, non
di rado hanno portato anche a una diffusa esclusione sociale.
Infatti, la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro
tempo continua a vivere ancora una quotidiana precarietà, con
conseguenze spesso drammatiche.
In questa sede, desidero richiamare l’importanza che hanno le
diverse istanze politiche ed economiche nella promozione di un
approccio inclusivo, che tenga in considerazione la dignità di ogni
persona umana e il bene comune. Si tratta di una preoccupazione
che dovrebbe improntare ogni scelta politica ed economica, ma a
volte sembra solo un’aggiunta per completare un discorso. Coloro
che hanno incombenze in tali ambiti hanno una precisa responsabilità nei confronti degli altri, particolarmente di coloro che sono
più fragili, deboli e indifesi. Non si può tollerare che migliaia di persone muoiano ogni giorno di fame, pur essendo disponibili ingenti
quantità di cibo, che spesso vengono semplicemente sprecate.
Parimenti, non possono lasciare indifferenti i numerosi profughi in
cerca di condizioni di vita minimamente degne, che non solo non
distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti,
«ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato
con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è
fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché
nel peccato» (Concilio ecumenico Vaticano II, cost.
past. Gaudium et spes, n. 22; EV 1/1386).
Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in
se stessa, ma – dice san Paolo – «perché voi diventaste
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documenti
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trovano accoglienza, ma non di rado vanno incontro alla morte in
viaggi disumani.
Sono consapevole che queste parole sono forti, persino
drammatiche, tuttavia esse intendono sottolineare, ma anche sfidare, la capacità di influire di codesto uditorio. Infatti, coloro che,
con il loro ingegno e la loro abilità professionale, sono stati capaci
di creare innovazione e favorire il benessere di molte persone,
possono dare un ulteriore contributo, mettendo la propria competenza al servizio di quanti sono tuttora nell’indigenza.
Con rinnovato senso di responsabilità
Occorre, perciò, un rinnovato, profondo ed esteso senso di
responsabilità da parte di tutti. «La vocazione di un imprenditore
è – infatti – un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un
significato più ampio della vita» (Evangelii gaudium, n. 203; Regnodoc. 21,2013,680). Ciò consente a tanti uomini e donne di servire
con più efficacia il bene comune e di rendere più accessibili per
tutti i beni di questo mondo. Tuttavia, la crescita in equità esige
qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga.
Essa esige anzitutto «una visione trascendente della persona» (Benedetto XVI, lett. enc. Caritas in veritate, n. 11; EV 26/693), poiché
«senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso umano in
questo mondo rimane privo di respiro» (ivi). Parimenti, richiede
decisioni, meccanismi e processi volti a una più equa distribuzione
delle ricchezze, alla creazione di opportunità di lavoro e a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo.
Sono convinto che a partire da tale apertura alla trascendenza
potrebbe formarsi una nuova mentalità politica e imprenditoriale,
capace di guidare tutte le azioni economiche e finanziarie nell’ottica di un’etica veramente umana. La comunità imprenditoriale internazionale può contare su molti uomini e donne di grande onestà
e integrità personale, il cui lavoro è ispirato e guidato da alti ideali
di giustizia, generosità e preoccupazione per l’autentico sviluppo
della famiglia umana. Vi esorto, perciò, ad attingere a queste grandi
risorse morali e umane, e ad affrontare tale sfida con determinazione e con lungimiranza. Senza ignorare, naturalmente, la specificità scientifica e professionale di ogni contesto, vi chiedo di fare in
modo che la ricchezza sia al servizio dell’umanità e non la governi.
Signor presidente, cari amici,
confidando che in queste mie brevi parole possiate scorgere
un segno di sollecitudine pastorale e un contributo costruttivo
affinché le vostre attività siano sempre più nobili e feconde, desidero rinnovare il mio augurio per il felice esito dell’incontro, mentre invoco la benedizione divina su di lei, sui partecipanti al Forum,
come pure sulle vostre famiglie e attività.
Vaticano, 17 gennaio 2014.
Francesco
ricchi per mezzo della sua povertà». Non si tratta di un
gioco di parole, di un’espressione a effetto! È invece una
sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica
dell’incarnazione e della croce. Dio non ha fatto cadere
su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi
dà parte del proprio superfluo con pietismo filantropico.
Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende
nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni
il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di
conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori, e caricarsi
del peso dei nostri peccati. È questa la via che ha scelto
per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria. Ci
colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non
per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della
sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le «impenetrabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8), «erede di tutte le
cose» (Eb 1,2).
Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera
e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo
farsi prossimo a noi come il buon samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della
strada (cf. Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera
salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione,
di tenerezza e di condivisione. La povertà di Cristo che
ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé
le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la
misericordia infinita di Dio.
La povertà di Cristo è la più grande ricchezza: Gesù
è ricco della sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a lui in ogni momento, cercando sempre e solo la
sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino
che si sente amato e ama i suoi genitori e non dubita
un istante del loro amore e della loro tenerezza. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione
unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo
Messia povero. Quando Gesù ci invita a prendere su di
noi il suo «giogo soave», ci invita ad arricchirci di questa
sua «ricca povertà» e «povera ricchezza», a condividere
con lui il suo Spirito filiale e fraterno, a diventare figli nel
Figlio, fratelli nel fratello Primogenito (cf. Rm 8,29).
È stato detto che la sola vera tristezza è non essere
santi (Léon Bloy); potremmo anche dire che vi è una
sola vera miseria: non vivere da figli di Dio e da fratelli
di Cristo.
La nostra testimonianza
Potremmo pensare che questa «via» della povertà sia
stata quella di Gesù, mentre noi, che veniamo dopo di
lui, possiamo salvare il mondo con adeguati mezzi umani.
Non è così. In ogni epoca e in ogni luogo, Dio continua
a salvare gli uomini e il mondo mediante la povertà di
Cristo, il quale si fa povero nei sacramenti, nella Parola e
nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri. La ricchezza
di Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma
sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, personale
e comunitaria, animata dallo Spirito di Cristo.
A imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo
chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a
farcene carico e a operare concretamente per alleviarle.
La miseria non coincide con la povertà; la miseria è la
povertà senza fiducia, senza solidarietà, senza speranza.
Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale. La miseria
materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna
della persona umana: privati dei diritti fondamentali e dei
beni di prima necessità quali il cibo, l’acqua, le condizioni
igieniche, il lavoro, la possibilità di sviluppo e di crescita
culturale. Di fronte a questa miseria la Chiesa offre il suo
servizio, la sua diakonia, per andare incontro ai bisogni e
guarire queste piaghe che deturpano il volto dell’umanità.
Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo;
amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo.
Il nostro impegno si orienta anche a fare in modo che
cessino nel mondo le violazioni della dignità umana, le discriminazioni e i soprusi, che, in tanti casi, sono all’origine
della miseria. Quando il potere, il lusso e il denaro diventano idoli, si antepongono questi all’esigenza di una equa
distribuzione delle ricchezze. Pertanto, è necessario che le
coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla
sobrietà e alla condivisione.
Non meno preoccupante è la miseria morale, che
consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato.
Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei
membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla
droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone
hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza! E quante persone sono costrette a questa miseria da condizioni sociali
ingiuste, dalla mancanza di lavoro che le priva della dignità che dà il portare il pane a casa, per la mancanza di
uguaglianza rispetto ai diritti all’educazione e alla salute.
In questi casi la miseria morale può ben chiamarsi suicidio incipiente.
Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina
economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che
ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il
suo amore. Se riteniamo di non aver bisogno di Dio, che
in Cristo ci tende la mano, perché pensiamo di bastare a
noi stessi, ci incamminiamo su una via di fallimento. Dio
è l’unico che veramente salva e libera.
La vera povertà duole
Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente
l’annuncio liberante che esiste il perdono del male
commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e
ci ama gratuitamente, sempre, e che siamo fatti per la
comunione e per la vita eterna. Il Signore ci invita a
essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza! È bello sperimentare la gioia
di diffondere questa buona notizia, di condividere il
tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e
dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio.
Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i
poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a lui possiamo
aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazione e
promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima
trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale
e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume
nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso,
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pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona. Potremo
farlo nella misura in cui saremo conformati a Cristo,
che si è fatto povero e ci ha arricchiti con la sua povertà.
La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e
ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci
al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà.
Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione
penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che
non duole.
Lo Spirito Santo, grazie al quale «[siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non
ha nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6,10), sostenga
questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la
responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e
ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario
quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Dal Vaticano, 26 dicembre 2013, Festa di Santo Stefano, diacono e primo martire.
Francesco
Il tempo
della misericordia
con il clero della diocesi di Roma
Quando insieme al cardinale vicario abbiamo pensato a questo incontro, gli ho detto che avrei potuto fare
per voi una meditazione sul tema della misericordia.
All’inizio della Quaresima riflettere insieme, come preti,
sulla misericordia ci fa bene. Tutti noi ne abbiamo bisogno. E anche i fedeli, perché come pastori dobbiamo
dare tanta misericordia, tanta!
Il brano del Vangelo di Matteo che abbiamo ascoltato ci fa rivolgere lo sguardo a Gesù che cammina per le
città e i villaggi. E questo è curioso. Qual è il posto dove
Gesù era più spesso, dove lo si poteva trovare con più
facilità? Sulle strade. Poteva sembrare che fosse un senzatetto, perché era sempre sulla strada. La vita di Gesù
era nella strada. Soprattutto ci invita a cogliere la profondità del suo cuore, ciò che lui prova per le folle, per
la gente che incontra: quell’atteggiamento interiore di
«compassione»: vedendo le folle, ne sentì compassione.
Perché vede le persone «stanche e sfinite, come pecore
senza pastore».
Abbiamo sentito tante volte queste parole che forse
non entrano con forza. Ma sono forti! Un po’ come
tante persone che voi incontrate oggi per le strade dei
vostri quartieri… Poi l’orizzonte si allarga, e vediamo
che queste città e questi villaggi sono non solo Roma
e l’Italia, ma sono il mondo... e quelle folle sfinite sono
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documenti
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popolazioni di tanti paesi che stanno soffrendo situazioni
ancora più difficili.
Allora comprendiamo che noi non siamo qui per fare
un bell’esercizio spirituale all’inizio della Quaresima, ma
per ascoltare la voce dello Spirito che parla a tutta la
Chiesa in questo nostro tempo, che è proprio il tempo
della misericordia. Di questo sono sicuro. Non è solo la
Quaresima; noi stiamo vivendo in tempo di misericordia,
da trent’anni o più, fino adesso.
Nella Chiesa tutta
è il tempo della misericordia
Questa è stata un’intuizione del beato Giovanni Paolo
II. Lui ha avuto il «fiuto» che questo era il tempo della
misericordia. Pensiamo alla beatificazione e canonizzazione di suor Faustina Kowalska; poi ha introdotto la
festa della Divina misericordia. Piano piano è avanzato,
è andato avanti su questo.
Nell’omelia per la canonizzazione, che avvenne nel
2000, Giovanni Paolo II sottolineò che il messaggio di
Gesù Cristo a suor Faustina si colloca temporalmente
tra le due guerre mondiali ed è molto legato alla storia
del ventesimo secolo. E guardando al futuro disse: «Che
cosa ci porteranno gli anni che sono davanti a noi? Come
sarà l’avvenire dell’uomo sulla terra? A noi non è dato di
saperlo. È certo tuttavia che accanto a nuovi progressi
non mancheranno, purtroppo, esperienze dolorose. Ma
la luce della divina misericordia, che il Signore ha voluto
quasi riconsegnare al mondo attraverso il carisma di suor
Faustina, illuminerà il cammino degli uomini del terzo
millennio». È chiaro. Qui è esplicito, nel 2000, ma è una
cosa che nel suo cuore maturava da tempo. Nella sua
preghiera ha avuto questa intuizione.
Oggi dimentichiamo tutto troppo in fretta, anche
il magistero della Chiesa! In parte è inevitabile, ma i
grandi contenuti, le grandi intuizioni e le consegne lasciate al popolo di Dio non possiamo dimenticarle. E
quella della divina misericordia è una di queste. È una
consegna che lui ci ha dato, ma che viene dall’alto. Sta
a noi, come ministri della Chiesa, tenere vivo questo
messaggio soprattutto nella predicazione e nei gesti,
nei segni, nelle scelte pastorali, ad esempio la scelta di
restituire priorità al sacramento della riconciliazione, e
al tempo stesso alle opere di misericordia. Riconciliare,
fare pace mediante il sacramento, e anche con le parole,
e con le opere di misericordia.
Che cosa significa misericordia per i preti?
Mi viene in mente che alcuni di voi mi hanno telefonato, scritto una lettera, poi ho parlato al telefono: «Ma
Padre, perché lei ce l’ha con i preti?». Perché dicevano
che io bastono i preti! Non voglio bastonare qui...
Domandiamoci che cosa significa misericordia per
un prete, permettetemi di dire per noi preti. Per noi,
per tutti noi! I preti si commuovono davanti alle pecore,
come Gesù, quando vedeva la gente stanca e sfinita come
IstItuto superIore
dI scIenze relIgIose
ecclesIa Mater
pecore senza pastore. Gesù ha le «viscere» di Dio, Isaia
ne parla tanto: è pieno di tenerezza verso la gente, specialmente verso le persone escluse, cioè verso i peccatori,
verso i malati di cui nessuno si prende cura... Così a immagine del buon Pastore, il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino alla sua gente e servitore di
tutti. Questo è un criterio pastorale che vorrei sottolineare tanto: la vicinanza. La prossimità e il servizio, ma la
prossimità, la vicinanza! Chiunque si trovi ferito nella
propria vita, in qualsiasi modo, può trovare in lui attenzione e ascolto.
In particolare, il prete dimostra viscere di misericordia nell’amministrare il sacramento della riconciliazione;
lo dimostra in tutto il suo atteggiamento, nel modo di
accogliere, di ascoltare, di consigliare, di assolvere... Ma
questo deriva da come lui stesso vive il sacramento in
prima persona, da come si lascia abbracciare da Dio
Padre nella confessione, e rimane dentro questo abbraccio... Se uno vive questo su di sé, nel proprio cuore, può
anche donarlo agli altri nel ministero. E vi lascio la domanda: come mi confesso? Mi lascio abbracciare?
Mi viene alla mente un grande sacerdote di Buenos
Aires, ha meno anni di me, ne avrà 72... Una volta è venuto da me. È un grande confessore: c’è sempre la coda
lì da lui... I preti, la maggioranza, vanno da lui a confessarsi... è un grande confessore. E una volta è venuto da
me: «Ma padre...»; «dimmi»; «io ho un po’ di scrupolo,
perché io so che perdono troppo!»; «prega... se tu perdoni troppo...». E abbiamo parlato della misericordia. A
un certo punto mi ha detto: «Sai, quando io sento che è
forte questo scrupolo, vado in cappella, davanti al tabernacolo, e gli dico: “Scusami, tu hai la colpa, perché mi
hai dato il cattivo esempio!” E me ne vado tranquillo». È
una bella preghiera di misericordia! Se uno nella confessione vive questo su di sé, nel proprio cuore, può anche
donarlo agli altri.
Il prete è chiamato a imparare questo, ad avere un
cuore che si commuove. I preti – mi permetto la parola –
«asettici» quelli «da laboratorio», tutto pulito, tutto bello,
non aiutano la Chiesa. La Chiesa oggi possiamo pensarla come un «ospedale da campo». Questo scusatemi
lo ripeto, perché lo vedo così, lo sento così: un «ospedale
da campo». C’è bisogno di curare le ferite, tante ferite!
Tante ferite! C’è tanta gente ferita, dai problemi materiali, dagli scandali, anche nella Chiesa... Gente ferita
dalle illusioni del mondo... Noi preti dobbiamo essere
lì, vicino a questa gente. Misericordia significa prima di
tutto curare le ferite.
Quando uno è ferito, ha bisogno subito di questo,
non delle analisi, come i valori del colesterolo, della glicemia... Ma c’è la ferita, cura la ferita, e poi vediamo le
analisi. Poi si faranno le cure specialistiche, ma prima si
devono curare le ferite aperte. Per me questo, in questo momento, è più importante. E ci sono anche ferite
nascoste, perché c’è gente che si allontana per non far
vedere le ferite... Mi viene in mente l’abitudine, per la
legge mosaica, dei lebbrosi al tempo di Gesù, che sempre
erano allontanati, per non contagiare... C’è gente che si
allontana per la vergogna, per quella vergogna di non
far vedere le ferite. E si allontanano forse un po’ con la
Il Regno -
documenti
7/2014
conferenza epIscopale ItalIana
servIzIo nazIonale
per Il progetto culturale
SEFIR
Scienza e Fede Sull’interpretazione del reale
area di ricerca interdiSciplinare
BANDO DI CONCORSO
Presso la Scuola di formazione e ricerca che si tiene dal 15 al
18 giugno 2014 a Perugia, organizzata da SEFIR in collaborazione
con il Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI d’intesa
con la Diocesi di Perugia, è aperto un bando di concorso per 12
posti riservati a giovani studiosi di ambito ingegneristico e
scientifico (matematica, informatica, fisica, biologia, etc.) in possesso al minimo di laurea magistrale o titoli equipollenti che sono
anche invitati a presentare dei poster sul proprio lavoro scientifico.
I vincitori godranno di vitto e alloggio gratuiti, e di rimborso
delle spese di viaggio (200 euro al massimo). Un ulteriore compenso di 400 euro sarà erogato coloro che – previa accettazione
dei direttori della scuola – presenteranno un poster sui propri
interessi di ricerca scientifica.
Il tema dell’edizione 2014 è: «Aspetti pluri-disciplinari delle
dinamiche di relazione multi-agente», cioè tra più attori, e
sarà approfondito dal punto di vista ingegneristico, biologico e sociologico. Gli «agenti» potranno essere persone singole e corpi sociali, individui sani e malati, macchine poste in relazione con soggetti
umani oppure con altre macchine, ecc. La scuola prevede quattro
laboratori di mezza giornata ciascuno che affronteranno dei
sotto-temi appropriati e due poster session. L’ultimo giorno avrà
luogo una tavola rotonda dedicata alla riflessione filosofica e teologica delle dinamiche di relazione.
La Scuola SEFIR è diretta da:
• GIANDOmeNICO BOffI (ordinario di Algebra, Univ. Studi Internazionali di Roma), direttore di SEFIR,
• CARlO CIROttO (ordinario di Anatomia comparata e citologia, Università di Perugia).
Docenti e coordinatori dei laboratori:
• SeRGIO BARBAROSSA (ordinario di Telecomunicazioni, Sapienza
Università di Roma, laboratorio su «Le possibilità tecniche di relazione oggi»;
• GIOvANNI IACOvIttI (ordinario di Telecomunicazioni, Sapienza
Università di Roma) laboratorio su «Le relazioni tra esseri umani
e macchine»;
• flAvIO KelleR (ordinario di Fisiologia, Università Campus Biomedico, Roma) laboratorio su «Le relazioni individuali tra esseri
umani»;
• SeRGIO BelARDINellI (ordinario di Sociologia dei processi culturali
e comunicativi, Università di Bologna) laboratorio su «Le relazioni
sociali tra esseri umani».
Ognuno dei docenti sarà coadiuvato da un paio di giovani collaboratori. Tali collaboratori saranno a tutti gli effetti fruitori della
scuola dall’inizio alla fine, alla pari dei partecipanti vincitori della
selezione pubblica.
La tavola rotonda avrà come protagonisti PIeRO CODA, ordinario
di Teologia sistematica, Istituto Universitario Sophia, Incisa in Val
d’Arno e mASSImO DONà, ordinario di Filosofia teoretica, Università
Vita-Salute San Raffaele, Milano.
La domanda di partecipazione va inviata a
s e f i ra re a @ g m a i l. co m
(con oggetto del messaggio: scuola di Perugia). Al modulo va allegato
il curriculum vitae, comprensivo di tutti i titoli ritenuti utili ai fini
della selezione, nonché un sunto dell’eventuale poster che si intende
presentare.
Alla fine della scuola sarà rilasciato un attestato di partecipazione con la descrizione dei contenuti trattati e la firma dei direttori.
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F
rancesco
Agli uomini e alle donne mafiosi
L
o scorso 21 marzo, nella chiesa di San Gregorio VII in Roma,
il papa ha incontrato i partecipanti alla veglia di preghiera
promossa dalla Fondazione Libera in occasione della XIX Giornata della memoria e dell’impegno, in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Al saluto di don Luigi Ciotti, fondatore di
Libera, è seguita la lettura dei nomi di 842 vittime delle mafie.
Dopo la proclamazione del brano evangelico delle Beatitudini,
papa Francesco ha rivolto ai presenti le parole che riportiamo
di seguito (www.vatican.va).
Cari fratelli e sorelle,
grazie di avere fatto questa tappa a Roma, che mi dà la possibilità di incontrarvi, prima della veglia e della Giornata della
memoria e dell’impegno, che vivrete stasera e domani a Latina.
Ringrazio don Luigi Ciotti e i suoi collaboratori, e anche i padri
francescani di questa parrocchia. Saluto anche il vescovo di Latina,
mons. Crociata, qui presente. Grazie, eccellenza.
Il desiderio che sento è di condividere con voi una speranza,
ed è questa: che il senso di responsabilità piano piano vinca sulla
corruzione, in ogni parte del mondo... E questo deve partire da
dentro, dalle coscienze, e da lì risanare, risanare i comportamenti,
le relazioni, le scelte, il tessuto sociale, così che la giustizia guadagni spazio, si allarghi, si radichi, e prenda il posto dell’inequità.
So che voi sentite fortemente questa speranza, e voglio condividerla con voi, dirvi che vi sarò vicino anche questa notte e
domani, a Latina – pur se non potrò venire fisicamente, ma sarò
con voi in questo cammino, che richiede tenacia, perseveranza.
In particolare, voglio esprimere la mia solidarietà a quanti tra
faccia storta, contro la Chiesa, ma nel fondo, dentro c’è
la ferita... Vogliono una carezza! E voi, cari confratelli –
vi domando – conoscete le ferite dei vostri parrocchiani?
Le intuite? Siete vicini a loro? È la sola domanda...
Né manica larga né rigidità
Ritorniamo al sacramento della riconciliazione.
Capita spesso, a noi preti, di sentire l’esperienza dei
nostri fedeli che ci raccontano di aver incontrato nella
confessione un sacerdote molto «stretto», oppure
molto «largo»; rigorista o lassista. E questo non va
bene. Che tra i confessori ci siano differenze di stile è
normale, ma queste differenze non possono riguardare
la sostanza, cioè la sana dottrina morale e la misericordia. Né il lassista né il rigorista rende testimonianza a
Gesù Cristo, perché né l’uno né l’altro si fa carico della
persona che incontra.
Il rigorista si lava le mani: infatti la inchioda alla legge
intesa in modo freddo e rigido; il lassista invece si lava le
mani: solo apparentemente è misericordioso, ma in realtà non prende sul serio il problema di quella coscienza,
minimizzando il peccato. La vera misericordia si fa carico della persona, la ascolta attentamente, si accosta con
rispetto e con verità alla sua situazione, e la accompagna
nel cammino della riconciliazione. E questo è faticoso,
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Il Regno -
documenti
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voi hanno perso una persona cara, vittima della violenza mafiosa.
Grazie per la vostra testimonianza, perché non vi siete chiusi, ma
vi siete aperti, siete usciti, per raccontare la vostra storia di dolore
e di speranza. Questo è tanto importante, specialmente per i giovani!
Vorrei pregare con voi – e lo faccio di cuore – per tutte le vittime delle mafie. Anche pochi giorni fa, vicino a Taranto, c’è stato
un delitto che non ha avuto pietà nemmeno di un bambino. Ma
nello stesso tempo preghiamo insieme, tutti quanti, per chiedere
la forza di andare avanti, di non scoraggiarci, ma di continuare a
lottare contro la corruzione.
E sento che non posso finire senza dire una parola ai grandi
assenti, oggi, ai protagonisti assenti: agli uomini e alle donne mafiosi. Per favore, cambiate vita, convertitevi, fermatevi, smettete
di fare il male! E noi preghiamo per voi. Convertitevi, lo chiedo in
ginocchio; è per il vostro bene. Questa vita che vivete adesso, non
vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il
denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini mafiosi, è denaro insanguinato, è potere insanguinato, e non
potrete portarlo nell’altra vita. Convertitevi, ancora c’è tempo,
per non finire all’inferno. È quello che vi aspetta se continuate su
questa strada. Voi avete avuto un papà e una mamma: pensate a
loro. Piangete un po’ e convertitevi.
Preghiamo insieme la nostra madre Maria che ci aiuti: Ave
Maria...
Roma, chiesa di San Gregorio VII, 21 marzo 2014.
Francesco
sì, certamente. Il sacerdote veramente misericordioso si
comporta come il buon samaritano... Ma perché lo fa?
Perché il suo cuore è capace di compassione, è il cuore
di Cristo!
Sappiamo bene che né il lassismo né il rigorismo
fanno crescere la santità. Forse alcuni rigoristi sembrano
santi, santi... Ma pensate a Pelagio e poi parliamo. Non
santificano il prete, e non santificano il fedele, né il lassismo né il rigorismo! La misericordia invece accompagna
il cammino della santità, la accompagna e la fa crescere...
Troppo lavoro per un parroco? È vero, troppo lavoro!
E in che modo accompagna e fa crescere il cammino
della santità? Attraverso la sofferenza pastorale, che è
una forma della misericordia. Che cosa significa sofferenza pastorale? Vuol dire soffrire per e con le persone. E
questo non è facile! Soffrire come un padre e una madre
soffrono per i figli; mi permetto di dire, anche con ansia...
Un bell’esame di coscienza
Per spiegarmi faccio anche a voi alcune domande che
mi aiutano quando un sacerdote viene da me. Mi aiutano anche quando sono solo davanti al Signore!
Dimmi: tu piangi? O abbiamo perso le lacrime? Ricordo che nei messali antichi, quelli di un altro tempo,
c’è una preghiera bellissima per chiedere il dono delle la-
crime. Incominciava così, la preghiera: «Signore, tu che
hai dato a Mosè il mandato di colpire la pietra perché
venisse l’acqua, colpisci la pietra del mio cuore perché le
lacrime...». Era così, più o meno, la preghiera. Era bellissima. Ma, quanti di noi piangono davanti alla sofferenza
di un bambino, davanti alla distruzione di una famiglia,
davanti a tanta gente che non trova il cammino? Il pianto
del prete... Tu piangi? O in questo presbiterio abbiamo
perso le lacrime?
Piangi per il tuo popolo? Dimmi, tu fai la preghiera
di intercessione davanti al tabernacolo? Tu lotti con il
Signore per il tuo popolo, come Abramo ha lottato: «E
se fossero meno? E se fossero 25? E se fossero 20?...»
(cf. Gen 18,22-33). Quella preghiera coraggiosa di intercessione... Noi parliamo di parresia, di coraggio apostolico, e pensiamo ai piani pastorali; questo va bene,
ma la stessa parresia è necessaria anche nella preghiera.
Lotti con il Signore? Discuti con il Signore come ha fatto
Mosè? Quando il Signore era stufo, stanco del suo popolo e gli disse: «Tu stai tranquillo... Distruggerò tutti, e
ti farò capo di un altro popolo». «No, no! Se tu distruggi
il popolo, distruggi anche a me!». Ma questi avevano i
pantaloni! E io faccio la domanda: Noi abbiamo i pantaloni per lottare con Dio per il nostro popolo?
Un’altra domanda che faccio: la sera, come concludi
la tua giornata? Con il Signore o con la televisione?
Com’è il tuo rapporto con quelli che aiutano a essere più
misericordiosi? Cioè, com’è il tuo rapporto con i bambini, con gli anziani, con i malati? Sai accarezzarli, o ti
vergogni di accarezzare un anziano?
Non avere vergogna della carne del tuo fratello (cf.
J.M. Bergoglio Reflexiones en esperanza, Buenos Aires
1992, c. I). Alla fine, saremo giudicati su come avremo
saputo avvicinarci a «ogni carne» – questo è Isaia. Non
vergognarti della carne di tuo fratello. «Farci prossimo»:
la prossimità, la vicinanza, farci prossimo alla carne del
fratello. Il sacerdote e il levita che passarono prima del
buon samaritano non seppero avvicinarsi a quella persona malmenata dai banditi. Il loro cuore era chiuso.
Forse il prete ha guardato l’orologio e ha detto: «Devo
andare alla messa, non posso arrivare in ritardo alla
messa», e se n’è andato. Giustificazioni! Quante volte
prendiamo giustificazioni, per girare intorno al problema, alla persona. L’altro, il levita, o il dottore della
legge, l’avvocato, disse: «No, non posso perché se io faccio questo domani dovrò andare come testimone, perderò tempo...». Le scuse!... Avevano il cuore chiuso. Ma
il cuore chiuso si giustifica sempre per quello che non fa.
Invece quel samaritano apre il suo cuore, si lascia commuovere nelle viscere, e questo movimento interiore si
traduce in azione pratica, in un intervento concreto ed
efficace per aiutare quella persona.
Alla fine dei tempi, sarà ammesso a contemplare la
carne glorificata di Cristo solo chi non avrà avuto vergogna della carne del suo fratello ferito ed escluso. Io vi
confesso, a me fa bene, alcune volte, leggere l’elenco sul
quale sarò giudicato, mi fa bene: è in Matteo 25.
Queste sono le cose che mi sono venute in mente,
per condividerle con voi. Sono un po’ alla buona, come
sono venute...
C’era un confessore famoso...
A Buenos Aires – parlo di un altro prete – c’era un
confessore famoso: questo era sacramentino. Quasi tutto
il clero si confessava da lui. Quando, una delle due volte
che è venuto, Giovanni Paolo II ha chiesto un confessore
in Nunziatura, è andato lui. È anziano, molto anziano...
Ha fatto il provinciale nel suo Ordine, il professore... ma
sempre confessore, sempre. E sempre aveva la coda, lì,
nella chiesa del Santissimo Sacramento. In quel tempo,
io ero vicario generale e abitavo nella Curia, e ogni mattina, presto, scendevo al fax per guardare se c’era qualcosa. E la mattina di Pasqua ho letto un fax del superiore
della comunità: «Ieri, mezz’ora prima della Veglia pasquale, è mancato il padre Aristi, a 94 – o 96? – anni. Il
funerale sarà il tal giorno...».
La mattina di Pasqua io dovevo andare a fare il
pranzo con i preti della casa di riposo – lo facevo di solito
a Pasqua –, e poi – mi sono detto – dopo pranzo andrò
alla chiesa. Era una chiesa grande, molto grande, con una
cripta bellissima. Sono sceso nella cripta e c’era la bara,
solo due vecchiette lì che pregavano, ma nessun fiore. Io
ho pensato: ma quest’uomo, che ha perdonato i peccati a
tutto il clero di Buenos Aires, anche a me, nemmeno un
fiore... Sono salito e sono andato in una fioreria – perché
a Buenos Aires agli incroci delle vie ci sono le fiorerie,
sulle strade, nei posti dove c’è gente – e ho comprato fiori,
rose. Sono tornato e ho incominciato a preparare bene
la bara, con fiori... E ho guardato il rosario che aveva in
mano... E subito mi è venuto in mente – quel ladro che
tutti noi abbiamo dentro, no? –, e mentre sistemavo i fiori
ho preso la croce del rosario, e con un po’ di forza l’ho
staccata. E in quel momento l’ho guardato e ho detto:
«Dammi la metà della tua misericordia».
Ho sentito una cosa forte che mi ha dato il coraggio
di fare questo e di fare questa preghiera! E poi, quella
croce l’ho messa qui, in tasca. Le camicie del papa non
hanno tasche, ma io sempre porto qui una busta di stoffa
piccola, e da quel giorno fino a oggi, quella croce è con
me. E quando mi viene un cattivo pensiero contro qualche persona, la mano mi viene qui, sempre. E sento la
grazia! Sento che mi fa bene. Quanto bene fa l’esempio
di un prete misericordioso, di un prete che si avvicina alle
ferite...
Se pensate, voi sicuramente ne avete conosciuti tanti,
tanti, perché i preti dell’Italia sono bravi! Sono bravi. Io
credo che se l’Italia ancora è tanto forte, non è tanto per
noi vescovi, ma per i parroci, per i preti! È vero, questo
è vero! Non è un po’ d’incenso per confortarvi, lo sento
così.
La misericordia. Pensate a tanti preti che sono in
cielo e chiedete questa grazia! Che vi diano quella misericordia che hanno avuto con i loro fedeli. E questo fa
bene.
Grazie tante dell’ascolto e di essere venuti qui.
Città del Vaticano, Sala Paolo VI, 8 marzo 2014.
Francesco
Il Regno -
documenti
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S
anta Sede |
atti di governo
Nuove regole
per la finanza
e l’economia
Nuovo statuto dell’Autorità
di informazione finanziaria e
nuova struttura di coordinamento
Nuovo statuto
dell’AIF
M
otu proprio
Le due lettere apostoliche motu proprio emanate da papa Francesco il
15 novembre 2013 – per riformare
la struttura dell’Autorità di informazione finanziaria (AIF) e approvarne il nuovo Statuto –, e il 24 febbraio 2014 – Fidelis dispensator et
prudens, per istituire la nuova struttura di coordinamento per gli affari
economici e amministrativi – proseguono l’impegno della Santa Sede
a ricercare trasparenza e giustizia
nella gestione della finanza e dell’economia. Le modifiche introdotte
dal papa riguardano in particolare l’istituzione di tre istanze: una
nuova Segreteria per l’economia,
della quale è stato nominato prefetto l’arcivescovo di Sydney, card.
George Pell; un nuovo Consiglio per
l’economia, composto da otto cardinali o vescovi e sette esperti laici
con competenze finanziarie e riconosciuta professionalità (i cui nomi
sono stati anticipati da un comunicato della Sala stampa vaticana
dell’8 marzo 2014: spicca la presidenza assegnata all’arcivescovo di
Monaco, card. Reinhard Marx); un
revisore generale.
Stampa (2.4.2014) da sito web www.vatican.va.
Il Regno -
documenti
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Mediante il motu proprio La Sede apostolica, del 30
dicembre 2010, emanato per la prevenzione e il contrasto delle attività illegali in campo finanziario e monetario
(cf. Regno-doc. 3,2011,74s), il mio predecessore Benedetto
XVI volle istituire l’Autorità di informazione finanziaria
(AIF), approvandone il primo Statuto.
In seguito, per rafforzare le iniziative già prese allo
scopo di prevenire e combattere sempre meglio eventuali
attività illecite nel settore economico-finanziario, come
pure per contrastare il finanziamento del terrorismo e
la proliferazione delle armi di distruzione di massa, con
il motu proprio La promozione, dell’8 agosto 2013 (cf.
Regno-doc. 15,2013,473s), ho attribuito nuove funzioni
all’Autorità di informazione finanziaria.
Accogliendo anche i suggerimenti della Commissione
referente sull’Istituto per le opere di religione (IOR) che ho
istituito con chirografo del 24 giugno 2013 (cf. Regno-doc.
13,2013,408s), ho ritenuto opportuno riformare la struttura
interna dell’Autorità, affinché possa meglio svolgere le funzioni istituzionali che le sono affidate e pertanto, con la presente lettera apostolica, approvo l’allegato Statuto dell’Autorità di informazione finanziaria, che sostituisce il precedente.
Tutto ciò che ho deliberato con questa lettera apostolica in forma di motu proprio ordino che sia osservato
in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria
anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che
venga promulgato mediante la pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore romano, entrando in vigore il 21
novembre 2013.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 novembre
dell’anno 2013, primo di pontificato.
Francesco
200
S
tatuto
Titolo I
Natura e funzioni
Articolo 1. Natura e sede
1. L’Autorità di informazione finanziaria (AIF) è una
Istituzione collegata con la Santa Sede a norma degli articoli 186 e seguenti della costituzione apostolica Pastor
bonus.
2. L’Autorità è dotata di personalità giuridica canonica
pubblica e ha sede nello Stato della Città del Vaticano.
Articolo 2. Funzioni
L’Autorità svolge, in piena autonomia e indipendenza, le seguenti funzioni:
a) vigilanza e regolamentazione a fini prudenziali
degli enti che svolgono professionalmente un’attività di
natura finanziaria;
b) vigilanza e regolamentazione al fine della prevenzione e del contrasto del riciclaggio e del finanziamento
del terrorismo;
c) informazione finanziaria.
Titolo II
Organi, struttura e personale
Articolo 3. Organi e struttura
1. Gli organi dell’Autorità sono:
a) il presidente;
b) il Consiglio direttivo;
c) il direttore.
2. L’Autorità è suddivisa in due uffici:
a) l’ufficio per la vigilanza e la regolamentazione;
b) l’ufficio per l’informazione finanziaria.
3. L’Autorità adotta le procedure e le misure necessarie per garantire la separazione operativa fra la funzione
di vigilanza e regolamentazione e la funzione di informazione finanziaria.
Articolo 4. Consiglio direttivo e presidente
1. Il Consiglio direttivo è composto da quattro membri e da un presidente, nominati dal sommo pontefice ad
quinquennium, tra persone di provata onorabilità, senza
conflitti di interessi e con una riconosciuta competenza
nei campi giuridico, economico e finanziario e negli ambiti oggetto dell’attività dell’Autorità.
2. Il Consiglio direttivo svolge le seguenti funzioni:
a) formula le linee di politica generale e le strategie
fondamentali dell’Autorità;
b) emana il Regolamento interno dell’Autorità;
c) conferisce al direttore il potere di firma, secondo le
modalità previste dal Regolamento interno dell’Autorità;
d) adotta i regolamenti e le linee guida nei casi stabiliti
dall’ordinamento;
e) approva il programma delle verifiche a distanza e
delle ispezioni in loco dei soggetti vigilati, predisposto dal
direttore;
f) irroga le sanzioni amministrative nei casi stabiliti
dall’ordinamento vigente;
g) propone al presidente del Governatorato l’applicazione di sanzioni amministrative nei casi stabiliti dall’ordinamento;
h) approva ogni anno entro il 31 marzo il bilancio
consuntivo ed entro il 31 ottobre il bilancio preventivo
dell’Autorità, predisposti dal direttore;
i) approva ogni anno entro il 31 marzo un rapporto
pubblico contenente dati, informazioni e statistiche non
riservati sull’attività svolta dall’Autorità nell’esercizio
delle sue funzioni, predisposto dal direttore;
j) approva ogni anno entro il 31 marzo un rapporto
confidenziale per la Segreteria di stato sull’attività svolta
dall’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni, predisposto
dal direttore;
k) formula mediante il presidente le proposte di nomina del direttore, del vice-direttore e di assunzione del
personale;
l) può richiedere studi e pareri o lo svolgimento di
specifiche attività ai propri membri, al direttore o a
esperti esterni.
3. Il presidente svolge le seguenti funzioni:
a) presiede il Consiglio direttivo;
b) ha la rappresentanza legale dell’Autorità;
c) ha il potere di firma.
Articolo 5. Sedute del Consiglio direttivo
1. Il Consiglio direttivo è convocato dal presidente di
norma ogni tre mesi, nonché ogniqualvolta sia necessario, anche su proposta di un membro del Consiglio direttivo o del direttore.
2. Le sedute sono presiedute dal presidente. In caso
di sua assenza le sedute sono presiedute dal membro da
lui designato.
3. Il presidente convoca le sedute, fissa l’ordine del
giorno e coordina i lavori.
4. L’avviso di convocazione, contenente l’ordine del
giorno, è inoltrato ai membri di norma almeno cinque
giorni prima della data della riunione. Nei casi di urgenza, l’avviso di convocazione è effettuato almeno un
giorno prima della seduta con telefax, posta elettronica o
altro mezzo immediato di comunicazione, purché documentabile.
5. Per la validità delle sedute è necessaria la presenza
di almeno tre membri.
6. Le deliberazioni del Consiglio direttivo sono prese
con il voto favorevole della maggioranza dei componenti.
7. Delle sedute e delle deliberazioni deve redigersi
verbale, sottoscritto dal presidente e dal segretario, da
registrarsi nel libro dei verbali.
8. Il segretario è nominato dal Consiglio direttivo tra
i suoi membri.
9. Il libro dei verbali e gli estratti del medesimo, certificati dal presidente e dal segretario, fanno prova delle
sedute e delle deliberazioni.
Il Regno -
documenti
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201
S
anta Sede
Articolo 6. Direttore
1. Il direttore è nominato dal segretario di stato ad
quinquennium, su proposta formulata dal presidente, tra
persone di provata onorabilità, senza conflitti di interessi
e con una riconosciuta competenza nei campi giuridico,
economico e finanziario e negli ambiti oggetto dell’attività dell’Autorità.
2. Il direttore, in linea con le linee di politica generale
e le strategie fondamentali stabilite dal Consiglio direttivo, svolge le seguenti funzioni:
a) dirige, organizza e controlla l’attività dell’Autorità;
b) propone al Consiglio direttivo la nomina del vicedirettore e l’assunzione del personale, nei limiti stabiliti
dalla Tabella organica e del bilancio preventivo, partecipando alla procedura di selezione;
c) sovrintende al personale, promuovendone la formazione e il costante aggiornamento e qualificazione
professionale;
d) adotta istruzioni e linee guida in materia di organizzazione e attività del personale;
e) propone al Consiglio direttivo il programma delle
verifiche a distanza e delle ispezioni in loco dei soggetti
vigilati;
f) nel quadro del programma approvato dal Consiglio
direttivo, dispone e attua le verifiche a distanza e le ispein loco dei soggetti
R1f_Reggi:Layoutzioni
1 5-03-2014
15:24 vigilati;
Pagina 1
g) propone al Consiglio direttivo l’irrogazione di sanzioni amministrative, nei casi stabiliti dall’ordinamento
vigente;
A CURA DI
ROBERTO REGGI
Matteo
Traduzione interlineare in italiano
I
l volume propone: il testo greco tratto
dall’edizione interconfessionale The Greek
New Testament (GNT); la traduzione interlineare, a calco, che privilegia gli aspetti
morfologico-sintattici del testo greco; il
testo della Bibbia CEI a piè di pagina con a
margine i passi paralleli. Non si tratta di
una ‘traduzione’, ma di un ‘aiuto alla traduzione’: un utile strumento di facilitazione e
sostegno per affrontare le difficoltà del
greco e introdursi nel testo biblico in lingua
originale.
«BIBBIA E TESTI BIBLICI»
pp. 112 - € 11,00
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna
Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299
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202
h) propone al Consiglio direttivo entro il 28 febbraio
il bilancio consuntivo ed entro il 30 settembre il bilancio
preventivo dell’Autorità;
i) propone al Consiglio direttivo entro il 28 febbraio
un rapporto pubblico annuale contenente dati, informazioni e statistiche non riservati sull’attività svolta dall’Autorità nell’esercizio delle sue funzioni;
j) propone al Consiglio direttivo entro il 28 febbraio
un rapporto confidenziale per la Segreteria di stato
sull’attività svolta dall’Autorità nell’esercizio delle sue
funzioni;
k) partecipa alle sedute del Consiglio direttivo, senza
diritto di voto;
l) partecipa alle sedute del Comitato di sicurezza finanziaria;
m) trasmette rapporti, documenti, dati e informazioni
al promotore di giustizia presso il Tribunale dello Stato
della Città del Vaticano, nei casi stabiliti dall’ordinamento vigente;
n) partecipa alle delegazioni della Santa Sede presso
le istituzioni finanziarie e gli organismi tecnici internazionali competenti in materia di prevenzione e contrasto del
riciclaggio e del finanziamento del terrorismo;
o) propone al Consiglio direttivo le linee di politica
generale e le strategie fondamentali per la collaborazione
internazionale;
p) ha potere di firma, se delegato dal Consiglio direttivo, inclusa la stipula di protocolli d’intesa con autorità
analoghe di altri stati, nei casi stabiliti dall’ordinamento
vigente.
3. Il direttore è coadiuvato da un vice-direttore, nominato dal segretario di stato ad quinquennium, su proposta formulata dal presidente, tra persone di provata
onorabilità, senza conflitti di interessi e con una riconosciuta competenza nelle materie giuridiche, economiche
e finanziarie e negli ambiti oggetto dell’attività dell’Autorità.
4. Il vice-direttore sostituisce il direttore in caso di sua
assenza.
5. Per la nomina e il rapporto di lavoro del direttore e
del vice-direttore si attuano, in quanto applicabili, i principi e le norme stabiliti nel Regolamento per il personale
dirigente laico della Santa Sede e dello Stato della Città
del Vaticano del 22 ottobre 2012, come eventualmente
integrato e modificato.
Articolo 7. Personale
1. L’Autorità è dotata di risorse umane e materiali
adeguate alle sue funzioni istituzionali, nei limiti stabiliti
dalla Tabella organica.
2. I capi ufficio, i membri del personale e gli esperti
esterni sono scelti tra persone di provata onorabilità,
senza conflitti di interessi e con un alto livello di preparazione nei campi giuridico, economico e finanziario e
negli ambiti oggetto dell’attività dell’Autorità.
3. I capi ufficio sono nominati con biglietto del segretario di stato, su proposta formulata dal presidente.
4. Per l’assunzione e il rapporto di lavoro del personale si attuano, in quanto applicabili, i principi e le
norme stabiliti nel Regolamento generale della curia roIl Regno -
documenti
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mana del 30 aprile 1999, e nel Regolamento della commissione indipendente di valutazione per le assunzioni di
personale laico presso la sede apostolica del 20 novembre
2012, come eventualmente integrati e modificati.
Titolo III
Accesso alle informazioni
e collaborazione a livello interno
e internazionale
Articolo 8. Accesso alle informazioni
e collaborazione a livello interno e internazionale
L’Autorità accede ai documenti, dati e informazioni,
collabora e scambia informazioni a livello interno e internazionale nei casi stabiliti dall’ordinamento.
Articolo 9. Protezione dei documenti,
dati e informazioni
Tutti i documenti, dati e informazioni posseduti
dall’Autorità sono:
a) utilizzati esclusivamente ai fini stabiliti dall’ordinamento;
b) protetti al fine di garantire la loro sicurezza, integrità e riservatezza;
c) coperti dal segreto d’ufficio.
Articolo 10. Norma finale
Per quanto non previsto dal presente Statuto, si applicano le disposizioni canoniche e civili vaticane.
Nuova struttura
di coordinamento
M
otu proprio
Fidelis dispensator et prudens (Lc 12,42).
Come l’amministratore fedele e prudente ha il compito di curare attentamente quanto gli è stato affidato,
così la Chiesa è consapevole della responsabilità di tutelare e gestire con attenzione i propri beni, alla luce
della sua missione di evangelizzazione e con particolare
premura verso i bisognosi. In special modo, la gestione
dei settori economico e finanziario della Santa Sede è
intimamente legata alla sua specifica missione, non solo
al servizio del ministero universale del santo padre, ma
anche in relazione al bene comune, nella prospettiva
dello sviluppo integrale della persona umana.
Dopo aver considerato attentamente i risultati del
lavoro della Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione della struttura economicoamministrativa della Santa Sede (cf. chirografo del 18
luglio 2013), dopo essermi consultato con il Consiglio
dei cardinali per la riforma della costituzione aposto-
lica Pastor bonus e con il Consiglio di cardinali per lo
studio dei problemi organizzativi ed economici della
Santa Sede, con questa lettera apostolica in forma di
motu proprio stabilisco quanto segue.
Consiglio per l’economia
1. È istituito il Consiglio per l’economia, con il
compito di sorvegliare la gestione economica e di vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e
finanziarie dei dicasteri della curia romana, delle istituzioni collegate con la Santa Sede e dello Stato della
Città del Vaticano.
2. Il Consiglio per l’economia è composto di quindici
membri, otto dei quali sono scelti tra cardinali e vescovi
in modo da rispecchiare l’universalità della Chiesa e sette
sono esperti laici di varie nazionalità, con competenze
finanziarie e riconosciuta professionalità.
3. Il Consiglio per l’economia è presieduto da un cardinale coordinatore.
Segreteria per l’economia
4. È istituita la Segreteria per l’economia, quale dicastero della curia romana secondo la costituzione apostolica Pastor bonus.
5. Tenendo conto di quanto stabilito dal Consiglio
per l’economia, la Segreteria risponde direttamente al
santo padre e attua il controllo economico e la vigilanza
sugli enti di cui al punto 1, come pure le politiche e le
procedure relative agli acquisti e all’adeguata allocazione
delle risorse umane, nel rispetto delle competenze proprie di ciascun ente. La competenza della Segreteria si
estende pertanto a tutto ciò che in qualunque maniera
rientra nell’ambito in oggetto.
6. La Segreteria per l’economia è presieduta da un
cardinale prefetto, il quale collabora con il segretario di
stato. Un prelato segretario generale ha il compito di coadiuvare il cardinale prefetto.
Revisore generale
7. Il revisore generale è nominato dal santo padre e
ha il compito di compiere la revisione contabile (audit)
degli enti di cui al punto 1.
Gli statuti
8. Il cardinale prefetto è responsabile della stesura
degli Statuti definitivi del Consiglio per l’economia, della
Segreteria per l’economia e dell’ufficio del revisore generale. Gli statuti saranno presentati quam primum all’approvazione del santo padre. Dispongo che quanto stabilito abbia immediato,
pieno e stabile valore, anche abrogando tutte le disposizioni incompatibili e che la presente lettera apostolica
in forma di motu proprio sia pubblicata su L’Osservatore
romano del 24-25 febbraio 2014 e successivamente negli
Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 febbraio 2014,
primo di pontificato.
Francesco
Il Regno -
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S
anta Sede |
vita religiosa
Con amaro
sbigottimento
C
Lettera circolare di p. Fidenzio Volpi
ai Frati francescani dell’Immacolata
«Con amaro sbigottimento ho preso
atto di disobbedienze e intralci alla
mia azione, di atteggiamenti di sospetto e di critica verso la Chiesa».
Con queste parole p. Fidenzio Volpi,
commissario apostolico per i Francescani dell’Immacolata, si è rivolto
ai membri dell’Istituto in una lettera
circolare datata 8 dicembre 2013.
Nella stessa – in origine riservata,
ma fatta trapelare – egli traccia un
quadro grave della vita interna e
parla dell’opposizione, «più o meno
esplicita e virulenta», incontrata
nei primi mesi del suo incarico. Riscontra la «mancanza in tanti di libertà e responsabilità di pensiero e
di azione»; il «“terrore reverenziale”
verso le autorità deposte»; il trasferimento della «disponibilità di beni
mobili e immobili a fedeli laici, noti
figli spirituali e familiari del fondatore». Inoltre, l’interesse «spasmodico» e sgarbato di alcuni media
(«soprattutto diversi siti Internet»)
per la vicenda, scrive Volpi, testimonia come l’Istituto sia in realtà divenuto «il campo di battaglia per una
lotta tra correnti curiali e soprattutto
il luogo di opposizioni al nuovo pontificato». Chiudono la lettera alcune
severe disposizioni disciplinari.
Stampa (20.1.2014) da sito web vaticaninsider.lastampa.it. Titolazione redazionale.
Il Regno -
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arissimi confratelli,
pace e bene e Ave Maria!
A distanza di circa cinque mesi dalla mia
nomina a commissario apostolico del «nostro» Istituto, sento il desiderio e la necessità – come
uomo, religioso, sacerdote e commissario – di rivolgermi a voi tutti. L’occasione propizia è data dalla
solennità dell’Immacolata concezione, a noi tutti
particolarmente cara per il legame specialissimo che
i figli del Serafico hanno con la Virgo Ecclesia facta.
Naturalmente le imminenti solennità del Natale, del
capodanno e dell’Epifania sono occasioni di grazia
che potranno rendere più chiare, rassicuranti e fruttuose le mie parole.
Come sapete, l’attenzione materna della Chiesa
per ogni singolo istituto religioso si esprime anche con
questo ufficio del «commissariamento» – da me ricevuto e assunto in obbedienza dal santo padre (Regnodoc. 19,2013,606) – con cui essa intende aiutare le famiglie religiose, quando in queste si evidenziano difficoltà interne tali da non poter essere superate senza
un aiuto diretto della suprema autorità della Chiesa;
e ciò per salvaguardare l’unità della stessa famiglia
religiosa e l’autenticità del suo carisma che, riconosciuto dalla Chiesa, da questa viene anche precisato
nel caso di interpretazioni diverse. Ogni carisma, infatti, è dato per il bene di tutto il corpo mistico di
Cristo (cf. Concilio ecumenico Vaticano II, cost.
dogm. Lumen gentium, n. 7; EV 1/296ss) e non solo
per l’utilità di coloro che lo professano.
La recentissima esortazione apostolica Evangelii
gaudium di papa Francesco ha tanti punti (cf. nn.
93-95; Regno-doc. 21,2013,659s) che possono ottimamente aiutare anche i Francescani dell’Immacolata
in questo momento «critico» per l’Istituto. Vi invito
a leggerla e a meditarla con cuore aperto e fedele.
Mi piace qui citare almeno questa frase: «Lo Spirito
Santo arricchisce tutta la Chiesa che evangelizza
anche con diversi carismi. Essi sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa. Non sono un patrimonio
chiuso, consegnato a un gruppo perché lo custodisca;
piuttosto si tratta di regali dello Spirito integrati nel
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corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è Cristo,
da dove s’incanalano in una spinta evangelizzatrice.
Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la
sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del popolo santo di Dio per il bene
di tutti. Un’autentica novità suscitata dallo Spirito
non ha bisogno di gettare ombre sopra altre spiritualità e doni per affermare se stessa. Quanto più un
carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo,
tanto più il suo esercizio sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela
autenticamente e misteriosamente fecondo. Se vive
questa sfida, la Chiesa può essere un modello per la
pace nel mondo.
Le differenze tra le persone e le comunità a volte
sono fastidiose, ma lo Spirito Santo, che suscita questa diversità, può trarre da tutto qualcosa di buono
e trasformarlo in dinamismo evangelizzatore che
agisce per attrazione» (nn. 130-131; Regno-doc.
21,2013,666).
Disobbedienze, intralci,
mancanza di libertà...
Poiché l’Istituto mi sta veramente a cuore, chiedo
anzitutto scusa se, pur senza volerlo, avessi con i miei
modi urtato la sensibilità di qualcuno. Chiedo scusa
anche per il fatto di non aver ancora incontrato tutti
quanti voi. Ho però incontrato tanti, e con partecipazione ho letto e raccolto le lacrime di sofferenza
scaturite dal loro cuore.
Permettetemi allora di dirvi con tanta franchezza
che c’è bisogno da parte di tutti i membri dell’Istituto
di un grosso cammino di fede, di umiltà e di fiducia.
Con amaro sbigottimento ho preso atto di disobbedienze e intralci alla mia azione, di atteggiamenti
di sospetto e di critica verso la Chiesa che è nostra
madre, fino alla calunnia di attribuirle la «distruzione
del carisma» (sic), attraverso la mia persona.
Altra constatazione è la mancanza in tanti di una
libertà e responsabilità di pensiero e di azione. Si vive
di paure e di «terrore reverenziale» verso le autorità
deposte.
Ricordo che nella lettera con cui mi presentavo
all’Istituto elencavo quattro punti che il commissario
apostolico doveva verificare: modalità del governo
dell’Istituto; formazione religiosa ed educativa; gestione economica dello stesso Istituto e comunione
tra i membri. Proprio nei confronti di essi, alcuni religiosi – tra i più anziani dell’Istituto, ma non solo
– hanno sollevato difficoltà a suo tempo. Non si trattava semplicemente dell’opportunità dell’adozione
del Vetus ordo, ma anche di uno stile di governo, di
formazione incipiente e permanente, di economia e
amministrazione non conformi in tutto alle direttive
e alla dottrina della Chiesa. Un discorso a parte era
ed è costituito dai rapporti con le Suore francescane
dell’Immacolata.
Contrariamente a quanto è stato per altri Istituti
nel corso degli ultimi anni, il provvedimento della
Congregazione dei religiosi, applicato nel nostro
caso in forma specifica dal Vicario di Cristo, ossia il
commissariamento dell’Istituto, ha immediatamente
incontrato all’interno e all’esterno un’opposizione più
o meno esplicita e virulenta.
Un «campo di battaglia»
al nuovo pontificato
Innanzitutto, sono stati coinvolti i mezzi di comunicazione, soprattutto diversi siti Internet, che si
sono schierati, nella maggior parte dei casi, contro
tale provvedimento, divulgando notizie riservate che
soltanto pochi dei nostri stessi confratelli potevano
conoscere e ne avevano i carteggi.
Successivamente si sono attaccati con accenti
anche offensivi i primi cinque religiosi che all’inizio
hanno fatto ricorso alla Santa Sede – conforme al
loro diritto – e tutti quelli che hanno prestato con
buona volontà la loro collaborazione al commissario. Questo in vista di attivare la nota e immorale
tecnica della «macchina del fango» per delegittimarli
dalle responsabilità che sono state loro affidate dalla
volontà di Dio, attraverso l’obbedienza, e renderli
quindi poco autorevoli e credibili.
Ben per tutti, per me e la Congregazione per i religiosi, si è prodotto l’effetto contrario! Più erano calunniati e diffamati, più li abbiamo ammirati. Siamo,
come vedete, molto lontani dallo spirito della Regola:
«Poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale,
con quanto più affetto uno deve amare e nutrire il suo
fratello spirituale?» (n. 6). Più che «nutrire il fratello»,
anche in senso di edificazione reciproca, lo si è dato
«in pasto ai porci» stravolgendo l’ordine dei valori.
Mai ho sentito nei vostri confratelli, quelli che
sono oggetto di dileggio mediatico, critiche contro i
fondatori. Sono rimasto edificato dal loro amore alla
Chiesa e all’Istituto, dalla loro dottrina, dalla loro ricerca di giustizia. Tutt’altro atteggiamento ho notato
in coloro che si sentivano irremovibili nei loro incarichi, perché «più esperti» di coloro che ne hanno
preso il posto, considerati «loro ex-alunni». Essi dimenticano l’adagio secondo il quale, alle volte, «l’allievo supera il maestro». Naturalmente tanti e tanti
laici sono stati «mobilitati» in quest’opera, a dir poco,
di «opposizione».
Mi sono chiesto il perché di questo spasmodico interessamento alla vicenda e ho concluso che l’Istituto
era diventato il campo di battaglia per una lotta tra
correnti curiali e soprattutto il luogo di opposizioni
al nuovo pontificato di papa Francesco. Non è un
caso se Fellay in persona ne parla. Io avrei preferito
che ne parlasse bene (di voi) l’insieme dei vescovi e il
«vescovo di Roma» in particolare. Purtroppo debbo
rivelarvi che ho ricevuto, invece, testimonianze negative anche da diversi ordinari in Italia e all’estero.
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S
anta Sede
Messale
festivo
All’interno poi dell’Istituto il malumore si è manifestato con continue difficoltà sollevate da singoli religiosi – alcuni dei quali direttamente impegnati nella
formazione – alle disposizioni obbedienziali date da me.
Azioni «gravemente illecite»
Cosa poi estremamente grave – ve ne porto a conoscenza ufficialmente solo ora – è stato il trasferimento delle disponibilità dei beni mobili e immobili
dell’Istituto a fedeli laici, noti figli spirituali e familiari del fondatore, p. Stefano M. Manelli, nonché ad
alcuni genitori di suore. Tali operazioni gravemente
illecite sotto il profilo morale e canonico, con risvolti
anche in ambito civile e penale, sono state fatte dopo
la nomina del commissario apostolico, manifestando
così la volontà di sottrarre tali fondi al controllo della
Santa Sede e di privare l’Istituto dei frati francescani
dell’Immacolata dei necessari mezzi per il mantenimento dei religiosi e, soprattutto, per le opere di apostolato, in particolare delle missioni.
Chi ha fatto o permesso tutto ciò è caduto in gravi
mancanze e, se religioso, è passibile di severe sanzioni
canoniche. Una simile cosa è avvenuta anche per le
opere di apostolato: editrice, televisione... Da segnalare, infine, trasferimenti di denaro – sempre in pieno
commissariamento – a soggetti che formalmente non
vantavano nessuno credito nei nostri confronti, da
parte di chi non ne aveva più l’autorità e l’autonomia
operativa.
A tutto ciò si aggiunga la raccolta furtiva di firme
di religiosi – senza nemmeno informarne il sottoscritto – sollecitata dagli esponenti più in vista dell’Istituto, in Italia e nelle case fuori d’Italia, con cui si
richiedeva alla Santa Sede la fondazione di un nuovo
Istituto, caratterizzato soprattutto dall’adozione del
Vetus ordo come ordinario. Tali firme sono state
spesso estorte con l’inganno, come attestato da diverse lettere che ho ricevute da singoli religiosi, i quali
poi hanno ritrattato quanto precedentemente sottoscritto. Ad alcuni è stato persino mostrato un foglio
in lingua italiana, idioma da essi non conosciuto!
Letture bibliche dal Nuovo Lezionario CEI
COMMENTI DI FRATEL MICHAELDAVIDE
I
l Messale quotidiano con gli apprezzati commenti
di fratel MichaelDavide è ora proposto con i soli
testi per la liturgia domenicale, unitamente ai giorni
di festa e alle solennità. In formato tascabile, l’ingombro ridotto non pregiudica la leggibilità, grazie all’utilizzo di due colori nell’impaginazione. Una rubricatura
visibile sul taglio della pagina permette di individuare
velocemente le varie parti in cui il volume è struttu-
Una mentalità «distorta»
Ringraziando il Signore, ho certamente incontrato molti religiosi sinceramente preoccupati per
l’avvenire dell’Istituto, soprattutto della sua fedeltà al
carisma e alla Chiesa, due aspetti assolutamente inscindibili. Ma, purtroppo, molti altri frati identificano
l’Istituto con la persona stessa del fondatore, che è
circondato da una specie di aureola di infallibilità,
e vedono nell’intervento della Chiesa una specie di
abuso di ciò che, a loro parere, sarebbe intoccabile e
quasi proprietà privata dello stesso fondatore.
Tutto questo rivela gravi errori in campo ecclesiologico, circa principi fondamentali della vita religiosa,
e rivela una grande povertà spirituale e una dipen-
rato. Numerosi e dettagliati indici facilitano la ricerca.
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Festivo e feriale
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denza psicologica incompatibile con quella «libertà
dei figli di Dio» che si presuppone in chi s’impegna
in una donazione totale al Signore per mezzo della
consacrazione religiosa. L’obbedienza, come ha rilevato il concilio Vaticano II, non è un automatismo
succube, ma l’assunzione responsabile della volontà
di Dio espressa dalla legittima autorità (cf. Vaticano
II, decr. Perfectae caritatis, n. 14; EV 1/746ss). Questa
autorità non va identificata con questa o quell’altra
persona, anche se fondatore, ma con Cristo stesso che
parla attraverso la Chiesa gerarchica, di cui il superiore legittimo è espressione immediata, in tanto e in
quanto questi è fedele alla stessa Chiesa. Al momento
attuale, come tutti sapete, il superiore dell’Istituto voluto dalla Chiesa è il commissario apostolico, ossia la
mia povera persona.
Alla formazione di questa mentalità «distorta»
hanno contribuito non poco alcune esponenti di
spicco delle Suore francescane dell’Immacolata, le
quali hanno influenzato fortemente anche lo stile di
vita del ramo maschile. Tale mentalità è stata purtroppo rilevata anche presso molti laici appartenenti
ai gruppi Missione dell’Immacolata mediatrice (MIM)
e del Terz’ordine (TOFI), e ha provocato tra i fedeli
gravi scandali che mettono in pericolo non solo l’apostolato di questi gruppi ma la stessa integrità della
fede dei suoi membri.
Disposizioni del commissario
Avendo presenti tutti questi elementi appena
elencati – che sono stati debitamente portati a conoscenza della Congregazione dei religiosi – e in forza
dell’autorità conferitami dalla stessa Congregazione,
dispongo quanto segue che avrà esecuzione immediata:
– Lo Studio teologico «Immacolata mediatrice»
(STIM) è sospeso fino a nuovo ordine, cioè sono interrotti gli studi. Inoltre, gli studenti del biennio filosofico si trasferiranno nella casa madre di Frigento,
frequentando – allorché sarà loro dato licenza dal
sottoscritto – lo Studio teologico interdiocesano di
Benevento; gli studenti del triennio teologico, invece,
andranno presso la casa generalizia di Roma, in Via
Boccea, dove frequenteranno – a tempo e a luogo –
le università pontificie dell’Urbe. In conseguenza di
questi trasferimenti, la Casa mariana di Sassoferrato
verrà chiusa.
– Rimarranno sospese per un anno le ordinazioni
diaconali e sacerdotali. Inoltre, i candidati che adesso
sono in formazione dovranno sottoscrivere personalmente un’accettazione formale del Novus ordo,
quale espressione autentica della tradizione liturgica
della Chiesa e dunque della tradizione francescana
(fermo restando quanto permesso dal motu proprio
Summorum pontificum, una volta revocata l’attuale
disposizione disciplinare di veto, ad hoc e ad tempus,
per l’Istituto), e dei documenti del concilio Vaticano
II, secondo l’autorità riconosciuta loro dal magistero.
Chi non accettasse tali disposizioni verrà immediatamente dimesso dall’Istituto.
– Ogni religioso dovrà chiaramente e formalmente
manifestare per iscritto la volontà di continuare il proprio cammino nell’Istituto dei Francescani dell’Immacolata, secondo il carisma francescano-mariano,
nello spirito di san Massimiliano M. Kolbe, secondo
le direttive sulla vita religiosa contenute nei documenti del concilio Vaticano II.
– I gruppi MIM dell’Italia sono formalmente sospesi fino a quando non mi giungerà, come da circolare precedente, un’adesione formale alla nuova
autorità. Lo stesso dicasi del TOFI. Saranno nominati dal commissario apostolico tre religiosi a cui i
membri di detti gruppi potranno far riferimento per
tutti i chiarimenti in materia.
– Si costituirà una commissione economica che ausilierà l’amministratore generale nella sua opera, con
il consiglio anche di legali ed esperti in questo campo.
– Si rivedranno le norme relative alla collaborazione nel campo apostolico con l’Istituto delle francescane dell’Immacolata, onde evitare indebite ingerenze. Nel frattempo i nostri religiosi, che a qualsiasi
titolo collaborano con le pubblicazioni del suddetto
Istituto, sono tenuti a sospendere tale collaborazione.
È sospesa anche la diffusione pubblica, da parte dei
frati, delle edizioni di Casa mariana. Riguardo all’assistenza spirituale delle religiose Suore francescane
dell’Immacolata e delle Clarisse dell’Immacolata,
ogni caso sarà valutato attentamente e sottoposto alla
mia approvazione.
Faccio obbligo formale ai guardiani (e ai vicari
delle case filiali), di leggere la presente lettera a tutti i
membri di ogni singola comunità, conservandola poi
debitamente nei rispettivi archivi.
Cari confratelli, la docilità amorosa alla volontà di
Dio della vergine Immacolata e del suo casto sposo
san Giuseppe siano per tutti noi di esempio e di
sprone! L’umiltà, l’obbedienza, il distacco dimostrati
dal Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, nel suo
Natale a Betlemme, ci insegnino la strada da seguire
per trovare anche noi, finalmente, come i pastori e i
magi, la luce, la pace e la salvezza! Amen!
Affidando tutti alla materna protezione della vergine Immacolata, di cui san Massimiliano M. Kolbe è
stato il nobile cavaliere che imitò nei nostri tempi l’eroismo del serafico padre san Francesco, impartisco
a tutti e a ognuno la serafica benedizione, mentre vi
chiedo una fervorosa e costante preghiera per il mio
delicato e importante servizio.
Resto a vostra disposizione per qualunque chiarimento e necessità.
Fraternamente,
p. Fidenzio Volpi ofmcapp,
commissario apostolico
per i Frati francescani dell’Immacolata
Roma, 8 dicembre 2013, solennità dell’Immacolata
concezione.
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anta Sede |
scuola cattolica
Educare
al dialogo
interculturale
I
Congregazione
per l’educazione cattolica
ntroduzione
La composizione multiculturale delle
nostre società impone oggi a chi si occupa di educazione una sfida centrale
in vista del futuro: «Rendere possibile
la convivenza fra la diversità delle
espressioni culturali e promuovere
un dialogo che favorisca una società
pacifica». Della questione si occupa
il nuovo documento curato dalla Congregazione per l’educazione cattolica
– Educare al dialogo interculturale
nella scuola cattolica. Vivere insieme
per una civiltà dell’amore – presentato lo scorso 19 dicembre nella Sala
stampa vaticana. Il documento, che
porta non casualmente la data del 28
ottobre 2013, 48° anniversario della
dichiarazione conciliare sull’educazione cattolica, «raccoglie l’esperienza
e la riflessione di molte persone e dà
solidi fondamenti evangelici, teologici
e filosofici, alla pratica del dialogo interculturale» – ha rilevato il segretario
della Congregazione, mons. Zani –, e
va considerato «come una tappa di un
percorso che la Congregazione per l’educazione cattolica ha iniziato verso
il 2015», anno nel quale saranno celebrati il 50° della Gravissimum educationis e il 25° della costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae, il testo di riferimento per le università cattoliche.
Stampa (11.3.2014) da sito web www.vatican.va.
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La composizione multiculturale delle odierne società, favorita dalla globalizzazione, è divenuta un dato
di fatto. La presenza simultanea di culture diverse rappresenta una grande risorsa quando l’incontro tra differenti culture viene vissuto come fonte di reciproco arricchimento. Può anche costituire un problema rilevante,
quando la multiculturalità viene vissuta come minaccia
alla coesione sociale, alla salvaguardia e all’esercizio dei
diritti dei singoli o dei gruppi. Non è facile la realizzazione di un rapporto equilibrato e pacifico tra culture
preesistenti e nuove culture, spesso caratterizzate da usi
e costumi che sono in contrasto. La società multiculturale
è da tempo oggetto delle preoccupazioni dei governi e
delle organizzazioni internazionali. Anche nella Chiesa,
istituzioni e organizzazioni educative e accademiche, sia
in ambito internazionale che nazionale e locale, si sono
interessate allo studio del fenomeno e hanno avviato specifici progetti.
L’educazione si trova a essere impegnata in una sfida
centrale per il futuro: rendere possibile la convivenza fra
la diversità delle espressioni culturali1 e promuovere un
dialogo che favorisca una società pacifica. Tale itinerario
passa attraverso alcune tappe che portano a scoprire la
multiculturalità nel proprio contesto di vita, a superare i
pregiudizi vivendo e lavorando insieme, a educarsi «attraverso l’altro» alla mondialità e alla cittadinanza. Promuovere l’incontro tra diversi, aiuta a comprendersi reciprocamente, ma non deve far abdicare alla propria identità.
È grande la responsabilità delle scuole, che sono chiamate a sviluppare nei loro progetti educativi la dimensione del dialogo interculturale. Si tratta di un obbiettivo
arduo, difficile da raggiungere, ma necessario. L’educazione, per sua natura, richiede apertura alle altre culture
– senza la perdita della propria identità – e accoglienza
dell’altro, per evitare il rischio di una cultura chiusa in se
stessa e limitata. Pertanto, è indispensabile che i giovani
apprendano, attraverso l’esperienza scolastica e accademica, strumenti teorici e pratici che consentano loro una
maggior conoscenza degli altri e di sé, dei valori della
propria e delle altre culture. Un confronto aperto e dina-
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mico, poi, aiuta a comprendere le differenze per evitare
che generino conflitti, divenendo al contrario occasione
di arricchimento reciproco e di armonia.
In un tale contesto, le scuole cattoliche sono chiamate
a portare il loro contributo in ragione della propria tradizione pedagogica e culturale, e alla luce di solidi progetti educativi. L’attenzione alla dimensione interculturale non è nuova alla tradizione della scuola cattolica,
abituata ad accogliere alunni provenienti da ambienti
culturali e religiosi diversi, ma oggi è richiesta, in questo
ambito, una fedeltà al proprio progetto educativo coraggiosa e innovativa.2 Questo è vero in tutti i contesti nei
quali si realizza la presenza di scuole cattoliche, tanto nei
paesi dove la comunità cattolica è in minoranza, quanto
in quelli dove la tradizione del cattolicesimo è più radicata. Nei primi è sollecitata la capacità di testimonianza
e di dialogo, senza cadere nel rischio di un comodo relativismo, secondo il quale tutte le religioni si equivalgono
e sono manifestazioni di un Assoluto che nessuno può
veramente conoscere; negli altri paesi si tratta di dare
una risposta ai tanti giovani «senza domicilio religioso»,
frutto di un contesto sempre più secolarizzato.
La Congregazione per l’educazione cattolica, fedele
al compito di approfondire i principi dell’educazione cattolica che le è stato affidato dopo il concilio ecumenico
Vaticano II, intende offrire un contributo per suscitare
e orientare l’educazione al dialogo interculturale nelle
scuole e negli istituti educativi cattolici. Pertanto, i principali destinatari del presente documento sono: i genitori,
responsabili primi e naturali dell’educazione dei figli,
nonché gli organismi che rappresentano la famiglia nella
scuola; i dirigenti, i docenti e il personale delle scuole
cattoliche che con gli studenti compongono la comunità
educativa; le commissioni episcopali nazionali e diocesane; gli istituti religiosi, i vescovi, i movimenti, le associazioni di fedeli e altri organismi che hanno la sollecitudine
pastorale dell’educazione. Siamo lieti, inoltre, di offrirlo
come mezzo di dialogo e di riflessione anche a tutti quelli
che hanno a cuore l’educazione della persona per la costruzione di una società pacifica e solidale.
I.
Il contesto
Cultura e pluralità di culture
1. La cultura è espressione peculiare dell’essere
umano, suo specifico modo di essere e di organizzare la
propria presenza nel mondo. Grazie alle risorse del patrimonio culturale di cui è dotato sin dalla nascita, egli è
perciò in grado di realizzare uno sviluppo sereno ed equilibrato di se stesso, in una sana relazione con l’ambiente
in cui vive e con gli altri esseri umani. Il pur necessario
1 Cf. UNESCO, Convenzione per la protezione e promozione della
diversità delle espressioni culturali, Parigi, 20.10.2005, art. 4.
2 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola
cattolica alle soglie del terzo millennio, 28.12.1997, n. 3; EV 16/1844.
e vitale legame con la propria cultura non lo obbliga,
tuttavia, a una chiusura autoreferenziale, essendo pienamente compatibile con l’incontro e la conoscenza delle
altre culture. Le diversità culturali rappresentano, in verità, una ricchezza e vanno comprese come espressioni
della fondamentale unità del genere umano.
2. Uno dei fenomeni epocali del nostro tempo, che
particolarmente investe l’ambito della cultura, è quello
della globalizzazione. Facilitando la comunicazione tra le
varie aree del mondo e coinvolgendo tutti i settori dell’esistenza, essa ha manifestato la pluralità di culture che
caratterizza l’esperienza umana. Non si tratta però solo
di un aspetto teorico o generale: ogni singola persona,
infatti, ha continuamente a che fare con informazioni e
relazioni che provengono, in tempo reale, da ogni parte
del mondo e incontra, nella sua quotidianità, una varietà
di culture, confermando così il sentimento di far sempre
più parte di una sorta di «villaggio globale».
3. Tale grande varietà di culture, tuttavia, non è la
dimostrazione di ancestrali divisioni preesistenti, ma è
piuttosto il frutto di quel continuo mescolamento di popolazioni che viene anche definito come «meticciato» o
«ibridazione» della famiglia umana nel corso della storia, e che fa sì che non esista una cultura «pura». Le
differenti condizioni ambientali, storiche e sociali hanno
introdotto un’ampia diversità all’interno dell’unica comunità umana, nella quale peraltro «ogni essere umano
è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che
scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla
sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili».3
4. L’attuale fenomeno della multiculturalità, legato
all’avvento della globalizzazione, rischia ora di accentuare in termini problematici tale «diversità nell’unità»,
che caratterizza l’orizzonte culturale dell’essere umano.
Emerge, infatti, una forte ambivalenza nella dinamica
del confronto sempre più ravvicinato tra le molteplici
culture: da un lato, si impone la spinta verso forme di
maggiore omologazione e, dall’altro, si fa spazio l’esaltazione della peculiarità delle differenti culture. Sotto la
pressione della mobilità umana, delle comunicazioni di
massa, di Internet, di social network e soprattutto dell’enorme diffusione dei consumi e dei prodotti che hanno
condotto a una «occidentalizzazione» del mondo, è
legittimo interrogarsi circa la sorte che spetta alla differenza di ogni cultura. Nello stesso tempo, però, pur
restando forte questa inesorabile tendenza all’uniformità
culturale, sono vivi e attivi molti elementi di varietà e
distinzione tra i gruppi, che non di rado accentuano reazioni di fondamentalismo e di chiusura autoreferenziale.
In tale modo il pluralismo e la varietà di tradizioni, di
costumi e di lingue, che costituiscono di per sé motivo
di arricchimento reciproco e di sviluppo, possono condurre a una esasperazione del dato identitario che sfocia
in scontri e conflitti.
3 Giovanni XXIII, lett. enc. Pacem in terris, 11.4.1963, n. 5; EV
2/3.
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5. Sarebbe, però, sbagliato ritenere che siano le differenze etniche e culturali la causa dei tanti conflitti che
agitano il mondo. Questi ultimi, in verità, hanno radici
politiche, economiche, etniche, religiose, territoriali, non
certo esclusivamente o prioritariamente culturali. L’elemento culturale, storico e simbolico, viene invece utilizzato per mobilitare le persone, fino al punto di stimolare
la violenza che si radica in elementi di competitività economica, scontro sociale, assolutismo politico.
6. La crescente caratterizzazione multiculturale della
società e il rischio che, contro la loro vera natura, le stesse
culture vengano utilizzate come elemento di contrapposizione e conflitto, sono fattori che spingono ancor più al
compito di costruire relazioni interculturali profonde tra
le persone e i gruppi, e contribuiscono a fare della scuola
uno dei luoghi privilegiati del dialogo interculturale.
Cultura e religione
7. Un altro aspetto da considerare è il rapporto tra
cultura e religione. «Il concetto di cultura è qualcosa di
più ampio di quello di religione. C’è una concezione secondo la quale la religione rappresenta la dimensione
trascendente della cultura e, in un certo senso, la sua
anima. Le religioni hanno certamente contribuito al progresso della cultura e all’edificazione di una società più
umana».4 La religione si incultura e la cultura diventa
terreno fertile per una umanità più ricca e all’altezza
della sua specifica e intima vocazione di apertura agli
altri e a Dio. Pertanto, «è tempo (...) di comprendere più
profondamente che il nucleo generatore di ogni autentica
cultura è costituito dal suo approccio al mistero di Dio,
nel quale soltanto trova il suo fondamento incrollabile
un ordine sociale incentrato sulla dignità e responsabilità
personale».5
8. La religione si offre in generale quale risposta
di senso alle domande fondamentali dell’uomo e della
donna: «Gli uomini attendono dalle religioni la risposta ai
reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come
oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo».6 Tale
statuto mette necessariamente le religioni non solo in dialogo tra loro, ma anche con le diverse forme di interpretazione atea o non religiosa della persona umana e della
storia, che si trovano ad affrontare le stesse domande di
senso. L’esigenza del dialogo interreligioso nell’accezione
più ampia di confronto tra soggetti e comunità portatrici
di diverse visioni oggi è avvertita come fondamentale
anche dagli stati e dalla società civile. Onde evitare in
questo delicato ambito di riflessione facili riduzionismi
e strumentalizzazioni, riteniamo opportuno richiamare
alcune indicazioni.
9. L’avanzare del processo di secolarizzazione nella
società occidentale, sempre più caratterizzata dal multiculturalismo, rischia di produrre una forte marginalizzazione dell’esperienza religiosa, ammettendola come lecita solo entro la sfera privata. Più in generale, nella concezione dominante, si assiste a una tacita rimozione della
questione antropologica, ovvero della questione circa la
piena dignità e destinazione dell’essere umano. Avanza
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in questo modo la pretesa di sradicare totalmente dalla
cultura ogni espressione religiosa. Sfugge però la consapevolezza della preziosità della dimensione religiosa ai
fini di un fruttuoso e promovente dialogo interculturale.
Accanto a tale orientamento generale, vi è da registrare
la presenza di altri fenomeni che pure rischiano di sottovalutare l’importanza dell’esperienza religiosa per la
cultura. Si pensi alla diffusione delle sette e del New Age,
il quale si è talmente identificato con la cultura moderna
da non essere quasi più considerato una novità.7
10. Con il suo richiamo a verità ultime e definitive e
quindi a verità fondative di senso, da cui la cultura occidentale diffusa pare allontanarsi, la religione rappresenta
in ogni caso un decisivo contributo alla costruzione della
comunità sociale nel rispetto del bene comune e nell’intento della promozione di ogni essere umano. Coloro che
detengono il potere politico sono perciò chiamati a un
effettivo discernimento circa le possibilità di emancipazione e di inclusione universale che ogni cultura e ogni
religione manifestano e realizzano. Un criterio importante per tale valutazione risulta essere l’effettiva capacità che esse possiedono al fine di valorizzare tutto l’uomo
e tutti gli uomini. Il cristianesimo, religione del Dio dal
volto umano,8 porta in se stesso un simile criterio.
11. La religione può dare il suo apporto al dialogo
interculturale «solo se Dio trova un posto anche nella sfera
pubblica».9 «La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e a operare perché le verità
della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative a vari livelli. Infatti, l’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro
verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso
dell’umanità. (...) Nel laicismo e nel fondamentalismo si
perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La
ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e
questo vale anche per la ragione politica, che non deve
credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre
bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il
suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo
comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità».10 Fede e ragione devono perciò riconoscersi reciprocamente e reciprocamente fecondarsi.
12. Una questione importante nel dialogo tra cultura
e religioni riguarda il confronto tra fede e diverse forme
di ateismo e concezioni umanistiche non religiose. Tale
confronto richiede di porre al centro della discussione la
ricerca di ciò che favorisce lo sviluppo integrale di tutto
l’uomo e di tutti gli uomini, evitando di incagliarsi in
uno sterile scontro di parti. Esige pure una società che
riconosca il diritto all’identità. Da parte sua la Chiesa,
con l’amore che attinge alle sorgenti del Vangelo, sulla
scia del mistero dell’incarnazione del Verbo, continuerà
a «proclamare che l’uomo merita onore e amore per se
stesso e deve essere rispettato nella sua dignità. Così i fratelli devono imparare nuovamente a parlarsi come fratelli, a rispettarsi, a comprendersi, affinché l’uomo stesso
possa sopravvivere e crescere nella dignità, nella libertà,
nell’onore. Più egli soffoca il dialogo delle culture, più il
mondo moderno va incontro a conflitti che rischiano di
essere mortali per l’avvenire della civiltà umana. Al di là
dei pregiudizi, delle barriere culturali, delle separazioni
razziali, linguistiche, religiose, ideologiche, gli uomini
devono riconoscersi come fratelli e sorelle, accettandosi
nelle loro diversità».11
Religione cattolica e le altre religioni
13. In tale contesto, il dialogo tra le diverse religioni
assume un rilievo particolare. Esso ha un profilo proprio
e rileva innanzitutto la competenza delle autorità di ciascuna religione. Naturalmente il dialogo interreligioso,
ponendosi nella dimensione religiosa della cultura, interseca gli aspetti dell’educazione interculturale, pur non
esaurendosi e non identificandosi totalmente in essa.
La mondializzazione ha aumentato l’interdipendenza
dei popoli, con le loro differenti tradizioni e religioni. In
merito non manca chi afferma che le differenze siano
necessariamente causa di divisione e, pertanto, al più
da tollerare; mentre altri addirittura sostengono che le
religioni debbano semplicemente essere ridotte al silenzio. «Al contrario [le differenze] offrono una splendida
opportunità per persone di diverse religioni di vivere insieme in profondo rispetto, stima e apprezzamento, incoraggiandosi reciprocamente nelle vie di Dio».12
Al riguardo, la Chiesa cattolica sente sempre più
importante il bisogno di un dialogo che, a partire dalla
coscienza della identità della propria fede, possa aiutare
le persone a entrare in contatto con le altre religioni. Dialogo indica non solo il colloquio, ma anche l’insieme dei
rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e
comunità di altre credenze, per una mutua conoscenza.13
Il dialogo con persone e comunità di altre religioni
è motivato dal fatto che siamo tutti creature di Dio, che
Dio è all’opera in ogni persona umana, la quale attraverso la ragione percepisce il mistero di Dio e riconosce i
valori universali. Inoltre, il dialogo trova ragione nella ricerca del patrimonio di valori etici comuni presenti nelle
diverse tradizioni religiose al fine di contribuire come
credenti all’affermazione del bene comune, della giusti
4
Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, istr. Dialogo e an-
nuncio. Riflessioni e orientamenti sull’annuncio del Vangelo e il dialogo
interreligioso, 19.5.1991, n. 45.
5 Giovanni Paolo II, Discorso alla Chiesa italiana, Palermo,
23.11.1995, n. 4; Regno-doc. 21,1995,669.
6 Concilio ecumenico Vaticano II, dich. Nostra aetate sulle
relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, n. 1; EV 1/855.
7 Cf. Pontificio consiglio della cultura, Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Gesù Cristo portatore dell’acqua
viva. Una riflessione cristiana sul «New Age», Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2003.
8 Cf. Benedetto XVI, lett. enc. Caritas in veritate sullo sviluppo
umano integrale nella carità e nella verità, 29.6.2009, nn. 55-56; EV
26/764-766.
9 Ivi, n. 56; EV 26/766.
10 Ivi.
11 Giovanni Paolo II, Discorso alla plenaria del Pontificio consiglio della cultura, 18.1.1983, n. 7.
12 Benedetto XVI, Discorso agli esponenti religiosi nel centro
Notre Dame of Jerusalem, Gerusalemme, 11.5.2009.
zia e della pace. Pertanto, «mentre molti sono pronti a
sottolineare le differenze immediatamente rilevabili tra
le religioni, come credenti o persone religiose noi siamo
posti di fronte alla sfida di proclamare con chiarezza ciò
che noi abbiamo in comune».14
Il dialogo, poi, che la Chiesa cattolica coltiva con
le altre Chiese e comunità cristiane, non si ferma a ciò
che abbiamo in comune, ma tende verso il più alto obbiettivo di ritrovare l’unità perduta.15 L’ecumenismo ha
come fine l’unità visibile dei cristiani, per la quale Gesù
ha pregato per i suoi discepoli: Ut omnes unum sint, che
tutti siano una cosa sola (cf. Gv 17,21).
14. Le modalità del dialogo tra i credenti possono
essere diverse: c’è il dialogo della vita con la condivisione delle gioie e dei dolori; il dialogo delle opere con la
collaborazione in vista della promozione dello sviluppo
dell’uomo e della donna; il dialogo teologico, quando è
possibile, con lo studio delle rispettive eredità religiose; il
dialogo dell’esperienza religiosa.
15. Questo dialogo, però, non è un compromesso,
è invece uno spazio per la testimonianza reciproca tra
credenti appartenenti a religioni diverse, per conoscere
di più e meglio la religione dell’altro e i comportamenti
etici che ne scaturiscono. Dalla conoscenza diretta e obbiettiva dell’altro e delle istanze religiose ed etiche che
ne contraddistinguono il credo e la prassi, si accrescono
il rispetto e la stima reciproci, la mutua comprensione, la
fiducia e l’amicizia. «Per essere vero, questo dialogo deve
essere chiaro, evitando relativismi e sincretismi, ma animato da un sincero rispetto per gli altri e da uno spirito
di riconciliazione e di fraternità».16
16. La chiarezza del dialogo comporta anzitutto la
fedeltà alla propria identità cristiana. «I cristiani propongono Gesù di Nazaret. Egli è – questa è la nostra
fede – il Logos eterno, che si è fatto carne per riconciliare l’uomo con Dio e rivelare la ragione che sta alla
base di tutte le cose. È lui che noi portiamo nel forum
del dialogo interreligioso. L’ardente desiderio di seguire
le sue orme spinge i cristiani ad aprire le loro menti e
i loro cuori al dialogo (cf. Lc 10, 25-37; Gv 4, 7-26)».17
La Chiesa cattolica annuncia che «Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia,
13 Cf. Congregazione per la dottrina della fede, dich. Dominus Iesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della
Chiesa, 6.8.2000, n. 7; EV 19/1156ss. La Commissione teologica internazionale ha sottolineato come il dialogo interreligioso, essendo «connaturale alla vocazione cristiana: si inscrive nel dinamismo della Tradizione
viva del mistero della salvezza, di cui la chiesa è sacramento universale»
(Il cristianesimo e le religioni, 30.9.1996, n. 114; EV 15/1110). In quanto
espressione di tale Tradizione esso non costituisce un’iniziativa individuale e privata, perché «non sono i cristiani che sono inviati, ma è la
chiesa; non sono le loro idee che presentano, ma Cristo; non è la loro
eloquenza che tocca i cuori, ma lo Spirito paraclito. Per essere fedele al
“senso della Chiesa”, il dialogo interreligioso richiede l’umiltà di Cristo e
la trasparenza dello Spirito Santo» (ivi, n. 116; EV 15/1112).
14 Benedetto XVI, Discorso agli esponenti religiosi nel centro
Notre Dame of Jerusalem.
15 Cf. Concilio ecumenico Vaticano II, decr. Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, n. 4; EV 1/508.
16 Benedetto XVI, Discorso al corpo diplomatico accreditato
presso la Santa Sede, 7.1.2008, n. 9; Regno-doc. 3,2008,75.
17 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro interreligioso, Washington, 17.4.2008; Regno-doc. 9,2008,269.
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ADONE AGNOLIN
singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo
per la salvezza di tutti».18
Pertanto, se questa è la condizione indispensabile
per il dialogo interreligioso, lo è anche per un’adeguata
educazione interculturale che non prescinda dall’identità religiosa.
17. Luoghi significativi per una tale educazione sono
le scuole e gli istituti di educazione superiore cattolici.
Ciò che definisce «cattolica» una istituzione educativa è
il suo riferirsi alla concezione cristiana della realtà. «Di
tale concezione Gesù Cristo è il centro».19 Pertanto, «le
scuole cattoliche sono contemporaneamente luoghi di
evangelizzazione, di educazione integrale, di inculturazione e di apprendimento di un dialogo vitale tra giovani
di religioni e di ambienti differenti».20 Papa Francesco,
riferendosi a una scuola dell’Albania, che «dopo i lunghi
anni di repressione delle istituzioni religiose, dal 1994 ha
ripreso la sua attività, accogliendo ed educando ragazzi
cattolici, ortodossi, musulmani e anche alcuni alunni nati
in contesti familiari agnostici», ha dichiarato che «così la
scuola diventa un luogo di dialogo e di sereno confronto,
per promuovere atteggiamenti di rispetto, ascolto, amicizia e spirito di collaborazione».21
18. In questo contesto, la responsabilità dell’educazione è quella di «trasmettere ai soggetti consapevolezza
delle proprie radici e fornire punti di riferimento che consentano di definire la propria personale collocazione nel
mondo».22 Tutti i ragazzi e giovani devono avere la stessa
possibilità di accedere alla conoscenza della religione propria e degli elementi che caratterizzano le altre religioni.
La conoscenza degli altri modi di pensare e di credere
dissipa le paure e arricchisce ciascuno dei modi di pensare dell’altro e delle sue tradizioni spirituali. Perciò, gli
insegnanti hanno la responsabilità di rispettare sempre la
persona umana che ricerca la verità del proprio essere, di
apprezzare e di diffondere le grandi tradizioni culturali
aperte alla trascendenza e che esprimono l’aspirazione
alla libertà e alla verità.
19. Tale conoscenza non si esaurisce in se stessa, ma si
apre al dialogo. Più è ricca la conoscenza più si è in grado
di sostenere il dialogo e di vivere insieme con chi professa
altre religioni. Le differenti religioni, nel contesto di un
dialogo aperto tra le culture, possono e devono portare
un contributo decisivo alla formazione della coscienza
dei valori comuni.
20. A sua volta il dialogo, frutto della conoscenza,
deve essere coltivato per vivere insieme e costruire una
civiltà dell’amore. Non si tratta in questo modo di fare
riduzioni della verità, ma di realizzare lo scopo dell’educazione che «ha una particolare funzione nella costruzione di un mondo più solidale e pacifico. Essa può contribuire all’affermazione di quell’umanesimo integrale,
aperto alla dimensione etica e religiosa, che sa attribuire
la dovuta importanza alla conoscenza e alla stima delle
culture e dei valori spirituali delle varie civiltà».23 Tale
dialogo, nell’educazione interculturale, ha l’obbiettivo
«di eliminare le tensioni e i conflitti, e anche gli eventuali
confronti, per una migliore comprensione tra le varie culture religiose esistenti in una determinata regione. Potrà
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contribuire a purificare le culture da tutti gli elementi
disumanizzanti e essere così un agente di trasformazione.
Potrà anche aiutare a promuovere i valori culturali tradizionali minacciati dalla modernità e dal livellamento
che un’internazionalizzazione indiscriminata può comportare».24 «Il dialogo è molto importante per la propria maturità, perché nel confronto con l’altra persona,
nel confronto con le altre culture, anche nel confronto
sano con le altre religioni, uno cresce: cresce, matura.
(...) Questo dialogo è quello che fa la pace», ha affermato
papa Francesco.25
II.
Approcci al pluralismo
Diverse interpretazioni
21. Se il pluralismo è un dato indiscutibile del mondo
di oggi, il problema diventa quello di valorizzare il potenziale presente nel dialogo e nell’integrazione fra le diverse culture. La via del dialogo diventa possibile e fruttuosa quando si fonda sulla consapevolezza della dignità
di ogni persona e sull’unità di tutti in una comune umanità per condividere e costruire insieme un medesimo destino.26 D’altra parte, la scelta del dialogo interculturale,
resa necessaria nella situazione del mondo attuale e dalla
vocazione di ogni cultura, si presenta come un’idea-guida
aperta sul futuro, in risposta a diverse interpretazioni del
pluralismo avanzate e realizzate in campo sociale, politico e, per quanto di nostro interesse, educativo.
I due principali approcci alla realtà del pluralismo
che sono stati messi in atto nel tentativo di dare una risposta, quello relativista e quello assimilazionista, pur
presentando aspetti positivi, sono entrambi incompleti.
Approccio relativista
22. Coscienza della relatività delle culture e scelta del
relativismo sono due opzioni profondamente diverse. Riconoscere che la realtà è storica e mutevole, non porta
necessariamente all’approccio relativista. Il relativismo,
invece, rispetta le differenze ma nel contempo le separa
nel loro mondo autonomo, considerandole come isolate
e impermeabili e rendendo impossibile il dialogo. La
«neutralità» relativista, infatti, sancisce l’assolutezza di
18 Congregazione per la dottrina della fede, Dominus
Iesus, n. 15; EV 19/1179.
19 Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola cattolica, 19.3.1977, n. 33; EV 6/91.
20 Giovanni Paolo II, es. ap. postsinodale Ecclesia in Africa,
14.9.1995, n. 102; EV 14/3172.
21 Francesco, Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania, 7.6.2013.
22 Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, Messaggio per la XXXIV Giornata mondiale della
pace (2001), n. 20; Regno-doc. 1,2001,5.
23 Ivi.
24 Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, Con-
ogni cultura nel proprio ambito, impedisce di esercitare
un criterio di giudizio metaculturale e di giungere a interpretazioni universalistiche. Tale modello si fonda sul
valore della tolleranza, che si limita ad accettare l’altro
senza implicare uno scambio e un riconoscimento nella
reciproca trasformazione. Una simile idea di tolleranza
veicola infatti un significato sostanzialmente passivo del
rapporto con chi ha una diversa cultura; non richiede
necessariamente che ci si prenda cura dei bisogni e delle
sofferenze dell’altro, che si ascoltino le sue ragioni, che
ci si confronti con i suoi valori, e, meno ancora, che si
sviluppi l’amore per l’altro.
23. Un approccio di questo tipo è alla base del modello politico e sociale del multiculturalismo, che non
presenta soluzioni adeguate alla convivenza e non aiuta
il vero dialogo interculturale. «Si nota, in primo luogo,
un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente: le
culture vengono semplicemente accostate e considerate
come sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento a un relativismo che
non aiuta il vero dialogo interculturale; sul piano sociale
il relativismo culturale fa sì che i gruppi culturali si accostino o convivano, ma separati, senza dialogo autentico
e, quindi, senza vera integrazione».27
Approccio assimilazionista
24. Non è certamente più soddisfacente quello che
viene chiamato approccio assimilazionista, caratterizzato
non dall’indifferenza verso l’altra cultura, ma dalla pretesa di adattamento. Un esempio di questo approccio si
ha quando, in un paese a forte immigrazione, si accetta
la presenza dello straniero solo a condizione che rinunci
alla propria identità, alle proprie radici culturali per abbracciare quelle del paese ospitante. Nei modelli educativi basati sull’assimilazione, l’altro deve abbandonare i
suoi riferimenti culturali facendo propri quelli di un altro
gruppo o del paese di accoglienza; lo scambio si riduce a
mero inserimento delle culture minoritarie con assente o
scarsa attenzione alla loro cultura d’origine.
25. A livello più generale l’approccio assimilazionista
è messo in atto da parte di una cultura con ambizioni
universalistiche che cerca di imporre i propri valori culturali attraverso la propria influenza economica, commerciale, militare, culturale. È qui evidente il pericolo
«costituito dall’appiattimento culturale e dall’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita».28
gregazione per l’evangelizzazione dei popoli,
istr. Dialogo e annuncio. Riflessioni e orientamenti sull’annuncio del Vangelo e il dialogo
interreligioso, 19.5.1991, n. 46; EV 13/336.
25 Francesco, Discorso agli studenti e ai professori del Collegio Seibu Gakuen Bunry Junior High School di Saitama, Tokyo,
21.8.2013.
26 Cf. Consiglio d’Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale
«Vivere insieme in pari dignità», Strasburgo, maggio 2008, 5: «L’approccio
interculturale offre un modello di gestione della diversità culturale aperto
sul futuro, proponendo una concezione basata sulla dignità umana di ogni
persona (e sull’idea di una umanità comune e di un destino comune)».
27 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 26; EV 26/713.
28 Ivi.
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Approccio interculturale
26. Anche la comunità internazionale riconosce che
i tradizionali approcci alla gestione delle differenze culturali nelle nostre società non si sono dimostrati adatti.
Ma come superare le barriere di posizioni incapaci di
interpretare positivamente la dimensione multiculturale?
Scegliere l’ottica del dialogo interculturale significa non
limitarsi solo a strategie di inserimento funzionale degli
immigrati, né a misure compensatorie di carattere speciale, anche considerando che il problema si pone non
solo quando ci sono emergenze migratorie, ma come
conseguenza dell’elevata mobilità umana.
27. Infatti, in una significativa prospettiva dell’educazione, «oggi le possibilità di interazione tra le culture
sono notevolmente aumentate dando spazio a nuove
prospettive di dialogo interculturale, un dialogo che,
per essere efficace deve avere come punto di partenza
l’intima consapevolezza della specifica identità dei vari
interlocutori».29 In questa visione la diversità cessa di
essere intesa come problema, per farsi risorsa di una
comunità caratterizzata dal pluralismo, occasione per
aprire l’intero sistema a tutte le differenze, riguardanti la
provenienza, il rapporto uomo-donna, il livello sociale, la
storia scolastica.
28. Tale approccio si basa su una concezione dinamica della cultura, che evita sia la chiusura sia la manifestazione delle diversità secondo rappresentazioni stereotipate o folkloristiche. Le strategie interculturali sono
efficaci quando evitano di separare gli individui in mondi
culturali autonomi e impermeabili, promuovendo invece
il confronto, il dialogo e anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza e affrontare
gli eventuali conflitti. In definitiva, si tratta di costruire
un nuovo approccio interculturale orientato a realizzare
l’integrazione delle culture nel reciproco riconoscimento.
III.
Alcuni fondamenti
dell’intercultura
L’insegnamento della Chiesa
29. La dimensione interculturale è, in certo modo,
parte del patrimonio del cristianesimo, a vocazione «universale». Infatti, nella storia del cristianesimo, si legge
un percorso di dialogo con il mondo, alla ricerca di una
più intensa fraternità tra gli uomini. La prospettiva interculturale, nella tradizione della Chiesa, non si limita
a valorizzare le differenze, ma collabora alla costruzione
dell’umana convivenza. Ciò diviene particolarmente
necessario all’interno delle società complesse nelle quali
occorre superare il rischio del relativismo e dell’appiattimento culturale.
30. La riflessione sulla cultura e sulla sua importanza per il pieno sviluppo delle potenzialità dell’uomo
214
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e della donna è stata oggetto di innumerevoli interventi
ecclesiali, soprattutto nel concilio Vaticano II e nel magistero seguente.
Il concilio Vaticano II, nel considerare l’importanza
della cultura, affermava che non si dà esperienza veramente umana senza inserimento in una determinata cultura. Infatti, «è proprio della persona umana il non poter
raggiungere un livello di vita veramente e pienamente
umano se non mediante la cultura».30 Ogni cultura, che
comporta una riflessione sul mistero del mondo e in particolare sul mistero dell’uomo e della donna, è un modo
di dare espressione alla dimensione trascendentale della
vita. Il significato essenziale della cultura consiste «nel
fatto che essa è una caratteristica della vita umana come
tale. L’uomo vive di una vita veramente umana grazie
alla cultura. La vita umana è cultura nel senso anche
che l’uomo si distingue e si differenzia attraverso essa da
tutto ciò che esiste per altra parte nel mondo visibile:
l’uomo non può essere fuori della cultura. La cultura è un
modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell’uomo.
L’uomo vive sempre secondo una cultura che gli è propria, e che, a sua volta, crea fra gli uomini un legame
che pure è loro proprio, determinando il carattere interumano e sociale dell’esistenza umana».31
31. Inoltre, il termine cultura indica tutti quei mezzi
con i quali «l’uomo affina e esplica le molteplici sue doti
di spirito e di corpo; procura di ridurre in suo potere il
cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più
umana la vita sociale, sia nella famiglia sia in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica
e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso
di molti, anzi di tutto il genere umano».32 Quindi sono
comprese sia la dimensione soggettiva – comportamenti,
valori, tradizioni che ciascuno fa propri – sia quella più
oggettiva, cioè le opere dell’uomo e della donna.
32. Conseguentemente «la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e (...) assume spesso
un significato sociologico ed etnologico. In questo senso
si parla di pluralità delle culture. Infatti, dal diverso
modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di
praticare la religione e di formare i costumi, di fare le
leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze
e le arti e di coltivare il bello, hanno origine le diverse
condizioni comuni e le diverse maniere di organizzare i
beni della vita. Così dalle usanze tradizionali si forma il
patrimonio proprio di ciascuna comunità umana. Così
pure si costituisce l’ambiente storicamente definito, in
cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, si inserisce,
e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere
la civiltà».33
Le culture manifestano una loro profonda dinamicità e storicità, per cui subiscono dei cambiamenti nel
tempo. Tuttavia, al di sotto delle loro modulazioni più
esterne, mostrano significativi elementi comuni. «Le
diversità culturali vanno perciò comprese nella fondamentale prospettiva dell’unità del genere umano», alla
luce della quale è possibile cogliere il significato profondo
delle stesse diversità, al contrario del «radicalizzarsi delle
identità culturali che si rendono impermeabili a ogni benefico influsso esterno».34
33. L’interculturalità nasce, quindi, non da un’idea
statica della cultura, bensì dalla sua apertura. Ciò che
fonda il dialogo tra le culture è soprattutto la potenziale
universalità, propria di ogni cultura.35 Di conseguenza:
«il dialogo tra le culture (...) emerge come un’esigenza
intrinseca alla natura stessa dell’uomo [nella] consapevolezza che vi sono valori comuni a ogni cultura, perché
radicati nella natura della persona (...). Occorre coltivare negli animi la consapevolezza di questi valori, per
alimentare quell’humus culturale di natura universale
che rende possibile lo sviluppo fecondo di un dialogo
costruttivo».36 L’apertura ai valori superiori comuni
all’intero genere umano – fondati sulla verità e, comunque, universali, quali giustizia, pace, dignità della
persona umana, apertura al trascendente, libertà di coscienza e religione – implica un’idea di cultura intesa
come contributo a una più ampia coscienza dell’umanità, in opposizione alla tendenza presente nella storia
delle culture, a costruire mondi particolaristici, chiusi e
ripiegati su sé stessi.
Fondamenti teologici
34. La definizione dell’essere umano nelle sue relazioni con gli altri esseri umani e con la natura non
soddisfa l’interrogativo ineludibile e fondamentale: chi
è veramente l’uomo? L’antropologia cristiana pone il fondamento dell’uomo e della donna e della loro capacità
di fare cultura nell’esser creati a immagine e somiglianza
di Dio, Trinità di persone in comunione. Fin dalla creazione del mondo, infatti, ci è rivelata la paziente pedagogia di Dio. Lungo la storia della salvezza Dio educa il
suo popolo all’Alleanza – cioè a un rapporto vitale – e
ad aprirsi progressivamente a tutti i popoli. Tale Alleanza ha il suo culmine in Gesù, che attraverso la morte
e risurrezione l’ha resa «nuova ed eterna». Da allora lo
Spirito Santo continua a insegnare la missione che Cristo
ha affidato alla sua Chiesa: «Andate e ammaestrate tutte
le nazioni (...) insegnando loro a osservare tutto ciò che
vi ho comandato» (Mt, 28,19-20).
«Ogni essere umano è chiamato alla comunione in
forza della sua natura creata a immagine e somiglianza
di Dio (cf. Gen 1,26-27). Pertanto, nella prospettiva
dell’antropologia biblica, l’uomo non è un individuo isolato, ma una persona, il cui essere relazionale si fonda
nella Trinità delle persone in Dio. La comunione alla
quale l’uomo è chiamato implica sempre una duplice
dimensione, cioè verticale (comunione con Dio) e orizzontale (comunione tra gli uomini). Risulta essenziale riconoscere la comunione come dono di Dio, come frutto
dell’iniziativa divina compiuta nel mistero pasquale».37
35. La dimensione verticale della comunione della
persona con Dio si realizza in modo autentico, seguendo
la via che è Gesù Cristo. Infatti, «solamente nel mistero
del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo
(...). Cristo (...) svela anche pienamente l’uomo all’uomo
e gli fa nota la sua altissima vocazione».38 Allo stesso
tempo, tale dimensione verticale cresce nella Chiesa
che «è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il
genere umano».39 «Davanti alla ricchezza della salvezza
operata da Cristo, cadono le barriere che separano le
diverse culture. La promessa di Dio in Cristo diventa (...)
un’offerta universale (...) estesa a tutti come patrimonio a
cui ciascuno può attingere liberamente. Da diversi luoghi
e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a partecipare
all’unità della famiglia dei figli di Dio».40
36. La dimensione orizzontale della comunione, alla
quale l’uomo e la donna sono chiamati, si attua nelle
relazioni interpersonali.41 L’identità personale matura
quanto più egli vive tali rapporti in modo autentico.
Le relazioni con gli altri e con Dio sono quindi fondamentali, perché in esse l’uomo e la donna valorizzano
sé stessi. Anche i rapporti tra i popoli, tra le culture e
tra le nazioni potenziano e valorizzano chi si mette in
relazione. Infatti, «la comunità degli uomini non assorbe
in sé la persona annientandone l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza
ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità
è di un tutto verso un altro tutto. Come la comunità familiare non annulla in sé le persone che la compongono
e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova
creatura” (Gal 6,15; 2Cor 5,17) che con il battesimo si
inserisce nel suo corpo vivo, così anche l’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le
culture, ma li rende più trasparenti l’uno verso l’altro,
maggiormente uniti nelle loro legittime diversità».42
37. L’esperienza dell’intercultura, al pari dello sviluppo umano, si comprende profondamente solo alla
luce dell’inclusione delle persone e dei popoli nell’unica
famiglia umana, fondata nella solidarietà e nei fondamentali valori della giustizia e della pace. «Questa prospettiva trova un’illuminazione decisiva nel rapporto tra
29 Ivi.
30 Concilio ecumenico Vaticano II, cost. past. Gaudium et
spes (GS) sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 53; EV 1/1492.
31 Giovanni Paolo II, Discorso all’UNESCO, Parigi, 2.6.1980,
n. 6; Regno-doc. 13,1980,297.
32 GS 53; EV 1/1493.
33 GS 53; EV 1/1494.
34 Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, nn. 7 e 9; Regno-doc. 1,2001,2.3.
35 Cf. Commissione teologica internazionale, Fede e inculturazione, 8.10.1988, c. I, «Natura, cultura e grazia», n. 7; EV 11/1361.
36 Giovanni Paolo II, Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace, nn. 10 e 16; Regno-doc. 1,2001,3.4.
37 Congregazione per l’educazione cattolica, Educare in-
sieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate e
fedeli laici, 8.9.2007, n. 8; EV 24/1239.
38 GS 22; EV 1/1385.
39 Concilio ecumenico Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium (LG) sulla Chiesa, n. 1; EV 1/284.
40 Giovanni Paolo II, lett. enc. Fides et ratio circa i rapporti tra
fede e ragione, 14.9.1998, n. 70; EV 17/1317.
41 Cf. Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea generale della
Conferenza episcopale italiana, 27.5.2010: «è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’“io” diventa
se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il
“noi” apre l’“io” a se stesso».
42 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 53; EV 26/762.
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le persone della Trinità nell’unica sostanza divina. La
Trinità è assoluta unità, in quanto le tre divine persone
sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca tra le
persone divine è piena e il legame dell’una con l’altra
totale, perché costituiscono un’assoluta unità e unicità.
Dio vuole associare anche noi a questa realtà di comunione: “Perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17,22).
Di questa unità la Chiesa è segno e strumento. Anche le
relazioni tra gli uomini lungo la storia non hanno che da
trarre vantaggio dal riferimento a questo divino modello.
In particolare, alla luce del mistero rivelato della Trinità si
comprende che la vera apertura non significa dispersione
centrifuga, ma compenetrazione profonda».43 Il fondamento che la tradizione cristiana dà all’unità del genere
umano si colloca primariamente in un’interpretazione
metafisica e teologica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale.44
Fondamenti antropologici
38. La dimensione autenticamente interculturale è
perseguibile in ragione del suo fondamento antropologico. L’incontro, infatti, avviene sempre tra persone concrete. Le culture prendono vita e si ridisegnano continuamente a partire dall’incontro con l’altro. Uscire da sé
stessi e considerare il mondo da un diverso punto di vista
non è negazione di sé, ma, al contrario, un necessario
processo di valorizzazione della propria identità. In altri
termini, l’interdipendenza e la globalizzazione tra popoli
e culture devono essere centrate sulla persona.
La fine delle ideologie del secolo scorso, come pure
il diffondersi oggi di quelle che si chiudono alla realtà
trascendente e religiosa, fanno sentire la drammatica
necessità di riportare al centro la questione dell’uomo e
delle culture. È innegabile che accanto a innumerevoli
progressi, l’uomo e la donna della nostra epoca sperimentino maggiormente la difficoltà a definire sé stessi.
Il concilio Vaticano II ha descritto molto bene una tale
situazione: «Molte opinioni egli ha espresso ed esprime
sul suo conto, opinioni varie e anche contrarie, perché
spesso o si esalta così da fare di sé una regola assoluta,
o si abbassa fino alla disperazione, finendo in tal modo
nel dubbio e nell’angoscia».45 La cifra più significativa
di questo smarrimento è la solitudine dell’uomo e della
donna moderni. «Una delle più profonde povertà che
l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere
anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare. Le povertà spesso sono generate dal
rifiuto dell’amore di Dio, da un’originaria tragica chiusura in sé medesimo dell’uomo, che pensa di bastare a
se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e
passeggero, uno “straniero” in un universo costituitosi
per caso. L’uomo è alienato quando è solo o si stacca
dalla realtà, quando rinuncia a pensare e a credere in
un fondamento. L’umanità intera è alienata quando si
affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false.
Oggi l’umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera co-
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munione. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal
riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora
in vera comunione ed è costituita da soggetti che non
vivono semplicemente l’uno accanto all’altro».46
39. Per una corretta impostazione dell’intercultura occorre così un solido fondamento antropologico che parta
dall’intima natura di essere relazionale della persona umana,
la quale senza i rapporti con gli altri non può vivere né
esplicare le sue potenzialità. L’uomo e la donna non sono
solo individui, quasi monadi autosufficienti, ma sono aperti
e protesi verso ciò che è altro da sé. L’uomo è persona,
essere in relazione, che si comprende in relazione con l’altro. Inoltre, le sue relazioni raggiungono la loro natura profonda se si fondano nell’amore, a cui aspira ogni persona
per sentirsi pienamente realizzata, tanto l’amore ricevuto
come a sua volta la capacità di donare amore. «L’uomo
non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un
essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non
gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore,
se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente (...). In questa dimensione l’uomo ritrova la
grandezza, la dignità e il valore propri alla sua umanità».47
40. Il concetto di amore ha accompagnato, sotto
forme diverse, la storia delle differenti culture. Nell’antica Grecia il termine più usato era quello di eros, l’amore-passione, associato in genere con il desiderio sensuale. Erano anche usati i termini di philia, spesso inteso
come amore di amicizia, e quello di agape, per designare
un’alta stima verso l’oggetto o la persona amati. Nella
tradizione biblica e cristiana viene sottolineato l’aspetto
oblativo dell’amore. Tuttavia, al di là di queste distinzioni, c’è una profonda unità, seppure con diverse dimensioni, nella realtà dell’amore, che spinge a un «esodo
permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento
di sé, anzi verso la scoperta di Dio».48
41. L’amore, liberato dell’egoismo, è via per eccellenza di fraternità e di reciproco aiuto verso la perfezione
tra le persone. In quanto anelito insopprimibile inscritto
nella natura di ogni uomo e di ogni donna della terra, il
fatto di non accoglierlo comporta necessariamente il nonsenso e la disperazione, e può portare a comportamenti
distruttivi. L’amore è la vera nobiltà della persona, al di
sopra della sua appartenenza culturale, etnica, del censo
o della posizione sociale. È il vincolo più forte, autentico
e gradito che unisce gli uomini tra di loro e rende capace
di dare all’altro l’ascolto, l’attenzione e la stima che merita. Dell’amore si può dire che è metodo e fine della vita
stessa. È il vero tesoro, cercato e testimoniato in modi
e contesti differenti da pensatori, santi, uomini di fede,
figure carismatiche che lungo i secoli sono stati esempi
vivi del sacrificio di sé come sublime, necessaria via di
cambiamento e di rinnovamento spirituale e sociale.
Fondamenti pedagogici
42. I fondamenti teologici e antropologici sopra
esposti pongono solide basi per un’autentica pedagogia
interculturale che, in quanto tale, non può prescindere
da una concezione personalistica dell’uomo, per cui a entrare in contatto non sono primariamente le culture, ma
le persone, radicate nelle loro reti storiche e relazionali.
Si tratta, allora, di assumere la relazionalità come paradigma pedagogico fondamentale, mezzo e fine per lo sviluppo dell’identità stessa della persona. Tale concezione
guida un’idea di dialogo non astratto o ideologico, bensì
improntato al rispetto, alla comprensione e al reciproco
servizio. Si nutre, poi, dell’idea di cultura storicizzata e
dinamica, rifiutando di costringere l’altro in una sorta di
prigione culturale. Infine, riposa sulla coscienza del fatto
che la relatività delle culture non significa relativismo,
il quale, pur rispettando le differenze, nel contempo le
separa nel loro cosmo autonomo, considerandole come
isolate e impermeabili, ma cerca con ogni mezzo di alimentare una cultura del dialogo, di intesa e di reciproca
trasformazione per il raggiungimento del bene comune.
43. In tale orizzonte la concezione dell’interculturalità, anziché porsi come differenzialista e relativista,
considera le culture come inserite nell’ordine morale,
all’interno del quale il valore fondamentale è rappresentato anzitutto dalla persona umana. È da questo basilare
riconoscimento che persone di diversi universi culturali,
venute tra loro in contatto, possono superare l’iniziale
estraneità. Poiché non si tratta solo di un rispettarsi: il
processo implica che si metta in discussione la pre-comprensione dell’interprete, e che ogni persona possa comprendere e discutere il punto di vista dell’altro.
44. Declinare dal punto di vista pedagogico un tema così
impegnativo richiede il coraggio di spendersi per una sempre maggior consapevolezza della complessa e imprescindibile realtà multiculturale. In particolar modo, occorre riannodare il discorso per una più appassionata e ampia ricerca
di un comune denominatore circa l’idea di educazione, e di
educazione al dialogo interculturale, intesa come un itinerario della persona verso il dover essere, nell’ottica del dialogo
e di un reciproco apprendimento per tutta la vita.
IV.
L’educazione cattolica
nella prospettiva del dialogo interculturale
Il contributo dell’educazione cattolica
45. Dalla visione dialogica delle culture nasce la necessità di un comune sforzo per superare la frammentazione, sapendo entrare concretamente nello specifico
della dialettica, provocata da alcune fondamentali realtà,
sia della vita associata sia della cultura («scontro/incontro», «chiusura/apertura», «monologo/dialogo»…), in
un’ottica di mutuo apprendimento.
43 Ivi, n. 54; EV 26/763.
44 Cf. ivi, n. 55; EV 26/764.
45 GS 12; EV 1/1356.
46 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 53; EV 26/760.
47 Giovanni Paolo II, lett. enc. Redemptor hominis, 4.3.1979,
n. 10; EV 6/1194.
In questo processo educativo la ricerca di una convivenza
pacifica e arricchente deve ancorarsi nel più ampio concetto di essere umano, caratterizzato da una continua ricerca di autotrascendimento, vista non solo come spinta
psicologica e culturale oltre ogni forma di egocentrismo
e di etnocentrismo, ma anche come slancio spirituale e
religioso, secondo una concezione di sviluppo integrale e
trascendente della persona e della società.
46. Occorre perciò che, nelle comunità che si richiamano ai valori della fede cattolica (dalle famiglie, alle
scuole, ai gruppi associativi e di aggregazione giovanile…), si dia voce e concretezza a un’educazione veramente personalistica sulla scia della cultura e tradizione
umanistico-cristiana: nuovo slancio e nuova cittadinanza
alla persona come «persona-comunione», senza cui una
pretesa società di individui liberi e uguali nasconde certamente i rischi di conflitto e prevaricazione senza limite
e senza controllo.
D’altra parte la centralità del legame delle persone
che si costituiscono come società o comunità «obbliga
a un approfondimento critico e valoriale della categoria
della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede
l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per
cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente
dell’uomo».49
Alla luce del mistero trinitario di Dio, la relazionalità
va vista non solo nella sua processualità comunicativa,
ma come amore, legge fondamentale dell’essere, un
amore non generico, indistinto e puramente ancorato
alle emozioni, legato alla convenienza o alle regole di
scambio, ma «gratuito», altrettanto forte e generoso
quanto l’amore con cui Gesù Cristo ha amato. In questo senso, l’amore è volontà di «promozione», fiducia
nell’altro e, di conseguenza, è un atto fondamentalmente educativo.
47. Il concetto di «amore» in educazione richiama
direttamente quello di «dono» e di «reciprocità», dimensioni fondanti l’educazione stessa. Si tratta di promuovere nelle scuole, tra allievi e insegnanti, tra le famiglie,
nella comunità, quel movimento bidirezionale di andata
e ritorno dell’amore, che potremmo plasticamente sintetizzare nel duplice movimento: dall’amore ricevuto
all’amore donato, dove la reciprocità è intesa non semplicemente nel suo esito finale, come corrispondenza, ma
soprattutto come azione proattiva dell’educatore chiamato ad amare per primo.
Occorrerà riprendere con coraggio questi concetti,
nella prospettiva di una pedagogia di comunione, di
un ideale educativo che muova gli educatori ad essere testimoni credibili agli occhi dei giovani e che
porti a riflettere sul nesso cruciale e strategico che lega
«amore dell’educazione» ed «educazione all’amore»
come elementi essenziali, tra loro inscindibilmente
48 Benedetto XVI, lett. enc. Deus caritas est sull’amore cristiano,
25.12.2005, n. 6; EV 23/1150.
49 Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 53; EV 26/761
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A CURA DI
MASSIMO GRILLI - JOSEPH MALEPARAMPIL
Il diverso e lo straniero
nella Bibbia
ebraico-cristiana
connessi, in cui lo sguardo dell’educatore e quello
dell’educando siano reciprocamente orientati al bene,
al rispetto e al dialogo.
La presenza nella scuola
48. Giovanni Paolo II ha ripreso con forza questo
pensiero e ha individuato nella spiritualità di comunione50 la più importante sfida, da promuovere nella
cultura, nella vita quotidiana, in famiglia, a scuola,
nella Chiesa.
Lo spirito di unità tra persone e gruppi, che va vissuto prima di ogni altra iniziativa concreta, è l’orizzonte
in cui ogni valore trova fondamento; è l’elemento vitale, fondativo di ogni altro. Non è solo una sfida spirituale ma anche culturale, valida per tutti gli uomini e
le donne di buona volontà. Quindi, un invito che deve
essere vissuto anche da parte di educatori, insegnanti e
allievi cattolici inseriti in ogni tipo di scuola, uniti nella
medesima arte di amare.
49. Ne deriva che non è la legge in sé o la forma
giuridica a costituire e a tener viva una comunità, ma
lo spirito stesso della legge, giusta nella misura in cui si
pone al servizio del bene comune e pone tutti nelle condizioni di reciprocità per essere cittadini consapevoli e
responsabili. L’identità di una comunità, quindi, è tanto
più matura quanto più essa è fedele ai valori di cooperazione e di solidarietà che si è data e che continuamente
cerca di rinnovare.
50. La scuola è investita da una grande responsabilità
riguardo all’educazione interculturale. Nel suo percorso
formativo lo studente si trova a interagire con culture diverse, e ha bisogno di disporre degli strumenti necessari
per comprenderle e metterle in relazione con la propria.
Alla scuola, aperta all’incontro con le altre culture, spetta
il compito di fornire il sostegno affinché ogni persona
sviluppi un’identità consapevole della propria ricchezza
e tradizione culturale.
In un’ottica pedagogico-interculturale, il più bel dono
che l’educazione cattolica può fare alla scuola è la testimonianza del continuo, intimo intreccio vissuto tra identità e alterità, nella loro dinamica compenetrazione, nei
vari rapporti tra adulti (insegnanti, genitori, educatori,
responsabili delle istituzioni...), tra insegnanti e ragazzi,
tra ragazzi, senza pregiudizi nei confronti della cultura,
sesso, classe sociale o religione.
Uno studio esegetico-teologico in chiave interculturale
B
iblisti di tutto il mondo si confrontano
sulla comprensione che i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento esprimono
nei confronti del «forestiero». La sfida è
il passaggio dall’estraneità all’ospitalità,
perché il rumore assordante del potere
– nella società come nella Chiesa – non
sommerga chi non ha voce.
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Matteo: il Vangelo
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rosegue l’itinerario di spiritualità sui libri
biblici visti alla luce del messaggio di
san Francesco e dell’attualità. Si parte dal
testo biblico (la sezione Parola...), si osserva
come esso è stato recepito e vissuto nel
francescanesimo (...e sandali...), per arrivare
infine alle sfide dell’oggi (...per strada). Il
tutto «con brevità di sermone»: un modo
semplice e chiaro di presentare una visione
cristiana e francescana della vita.
«LA BIBBIA DI SAN FRANCESCO»
Dove la libertà di educazione è negata
51. In molte realtà del mondo, per ragioni politiche o
culturali, non sempre è possibile la presenza della scuola
cattolica; talvolta si tratta di una presenza molto limitata,
verso la quale c’è ostilità. La questione si pone non solo
in termini di rivendicazione di un diritto, quello alla libertà d’insegnamento e di scuola, ma in termini di offerta
culturale più ricca per tutti. Bisogna, perciò, interrogarsi
su quanto l’educazione cattolica possa offrire anche in
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Un punto di riferimento fondamentale è riconoscere
negli altri lo stesso anelito che si trova in un importante
precetto di molte religioni e culture, la cosiddetta regola
d’oro dell’umanità: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse
fatto a te; non fare agli altri quello che non vorresti fosse
fatto a te». È una legge morale, una necessità imprescindibile per la vita associata: l’amore portato a tutti, come
fonte di nuova civiltà, di vera umanizzazione dell’uomo
e della donna, contro ogni istinto egoistico, di violenza e
di guerra.51
52. è questa la novità dell’educazione che scaturisce
anche dalla pedagogia cristiana, la quale trova fondamento nelle parole di Gesù: «Tutti siano una cosa sola»
(Gv 17,21). Essa, infatti, manifesta il cuore di tutto il cristianesimo, portatore del mistero di Dio, che è essere in
relazione, puro atto di amore. Qui si trova la novità del
Vangelo, la cui accoglienza piena implica certamente la
fede, ma i cui effetti trasformano il senso dell’incontro tra
persone, gruppi, culture e istituzioni.
53. è solo questo spirito di ricerca d’unità, che
potrà comporre l’ordine sociale, la solidarietà nella collettività, in tutti i sensi (religioso, politico, sociale, economico, professionale), come alternativo a quello stato
di permanente rivalità che condanna gli uomini, pur in
un mondo globalizzato, a essere sempre più incomunicanti, in un crescente indifferentismo nei confronti sia
del Dio annunciato dal cristianesimo sia di qualunque
forma di assoluto.
Le nuove generazioni, quindi, private di una cultura
e di una fede, del loro senso vero, di un fine giusto a cui
tendere, rischiano di disumanizzare la vita stessa nelle
sue molteplici espressioni. Ed è proprio in queste molteplici situazioni «di frontiera», dove la fede è quotidianamente messa alla prova, che spesso l’andar controcorrente è più che mai scelta evangelica, fino al dono più
alto di sé, di dare la vita per l’altro, quando giustizia e
verità vengono violate.
54. Occorre, quindi, in questi contesti, pur molto diversi (dall’ateismo, al fondamentalismo, al relativismo, al
laicismo), rimettere al centro quella «priorità di valore»
che è prima di tutto testimonianza e coerenza, dono di
sé, capacità di chiedere e di dare perdono, non per esibizionismo o falso moralismo, ma «per amore», per contribuire allo sviluppo del mondo.
«È proprio dell’uomo il desiderio di rendere partecipi
gli altri dei propri beni. L’accoglienza della Buona Novella nella fede, spinge di per sé a tale comunicazione»,
specialmente con quelli a cui «manca un grandissimo
bene in questo mondo: conoscere il vero volto di Dio e
l’amicizia con Gesù Cristo, il Dio-con-noi. Infatti, “non
vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal
Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui”».52
50 Cf. Giovanni Paolo II, lett. ap. Novo millennio ineunte,
6.1.2001, n. 43; EV 20/85.
51 Cf. Commissione teologica internazionale, Alla ricerca di
un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale (2009), n. 51:
«“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Ritroviamo
la regola d’oro, che oggi è posta come principio stesso di una morale
della reciprocità».
V.
Il contributo
della scuola cattolica
Responsabilità della scuola cattolica
55. Nell’attuale contesto sociale, la scuola cattolica
si trova chiamata in causa per lo specifico apporto che
essa può offrire. Si tratta, però, di un compito non facile, che anzi sta incontrando sempre maggiori ostacoli.
La scuola cattolica vede al suo interno una presenza
sempre più rilevante di alunni di differenti nazionalità
e appartenenze religiose; in molti paesi del mondo la
maggioranza degli alunni professa un diverso credo e
la questione del confronto interreligioso appare ormai
ineludibile. Per evitare di rinchiudersi in un «identitarismo» fine a se stesso, un progetto educativo deve fare
i conti con il crescente tasso di multireligiosità della
società e con la conseguente necessità di saper conoscere e dialogare con le diverse credenze o con i non
credenti.
56. È importante che la scuola cattolica sia consapevole dei rischi che derivano dal perdere di vista le
ragioni della propria presenza. Ciò accade, ad esempio, quando essa si conforma acriticamente alle attese
di una società improntata ai valori dell’individualismo
e della competizione, al formalismo burocratico, alle
domande consumistiche delle famiglie, o alla ricerca
esasperata dell’approvazione esterna. A maggior ragione in una cultura che affermi una pretesa neutralità della scuola e rimuova dal campo dell’educazione
ogni riferimento religioso, la scuola cattolica è chiamata a un impegno di testimonianza, attraverso un
progetto educativo chiaramente ispirato al Vangelo.53
Tale scuola, in quanto cattolica, non si ferma a una
generica ispirazione cristiana o di valori umani. Essa
ha la responsabilità di offrire agli studenti cattolici,
oltre a una valida conoscenza della religione, anche la
possibilità di crescere nell’adesione personale a Cristo
nella Chiesa. Infatti, «tra i diritti umani basilari, anche
per la vita pacifica dei popoli, vi è quello dei singoli e
delle comunità alla libertà religiosa. (...) Diventa sempre più importante che tale diritto sia promosso non
solo dal punto di vista negativo, come libertà da – ad
esempio, da obblighi e costrizioni circa la libertà di
scegliere la propria religione –, ma anche dal punto di
vista positivo, nelle sue varie articolazioni, come libertà
di: ad esempio, di testimoniare la propria religione,
di annunciare e comunicare il suo insegnamento; di
compiere attività educative, di beneficenza e di assistenza che permettono di applicare i precetti religiosi;
52 Congregazione per la dottrina della fede, nota dottrinale Missus a Patre su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, 3.12.2007,
n. 7; EV 24/1556.
53 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola
cattolica alle soglie del terzo millennio, n. 3; EV 16/1844.
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di esistere e agire come organismi sociali, strutturati
secondo i principi dottrinali e i fini istituzionali che
sono loro propri».54
57. La prima responsabilità della scuola cattolica è
quella della testimonianza.55 La presenza cristiana nella
realtà multiforme delle diverse culture deve essere mostrata e dimostrata, cioè deve rendersi visibile, incontrabile
e consapevole. Oggi, a causa dell’avanzato processo di secolarizzazione, la scuola cattolica si trova in una situazione
missionaria, anche in paesi di antica tradizione cristiana. Il
contributo che il cattolicesimo può portare all’educazione
e al dialogo interculturale è il suo riferimento alla centralità della persona umana, che ha nella relazione la sua
dimensione costitutiva. La scuola cattolica, che ha in Gesù
Cristo il fondamento della sua concezione antropologica e
pedagogica, deve praticare «la grammatica del dialogo»,
non come espediente tecnicistico, ma come modalità profonda di relazione. La scuola cattolica deve riflettere sulla
propria identità, perché quello che può «donare» è, prima
di tutto, quello che è.56
Comunità educativa laboratorio d’intercultura
58. Il modello a cui deve ispirarsi l’organizzazione
scolastica è quello della comunità educativa, spazio di
convivialità delle differenze.57 La scuola-comunità è
luogo di incontro, promuove la partecipazione, dialoga
con la famiglia, prima comunità di appartenenza degli
alunni che la frequentano, rispettandone la cultura e ponendosi in profondo ascolto dei bisogni che incontra e
delle attese di cui è destinataria. Così facendo può essere
considerata un autentico laboratorio di un’intercultura
vissuta più che proclamata.
59. La partecipazione non si sviluppa in una società
e in una scuola neutrali, prive di valori di riferimento ed
estranee a qualsiasi formazione morale, né, all’opposto,
permeate da una visione fondamentalista, ma fiorisce in
un clima di dialogo e di rispetto reciproco, in un ambiente
educativo nel quale a ognuno venga assicurata la possibilità di incrementare al massimo livello le proprie capacità,
sempre in vista del conseguimento del bene di tutti. In tal
modo si può sviluppare quel costante clima di reciproca
fiducia, di disponibilità, di ascolto e di fecondo interscambio che deve contrassegnare l’intero percorso formativo. Le
stesse lezioni, al fine di farsi espressione insieme di vita e di
pensiero, sono mirate a instaurare un dialogo costante fra
docenti e studenti, a valorizzare il personale contributo di
questi ultimi nella comune ricerca e a dar vita a un insegnamento a «più voci» da parte dei docenti di varie discipline.
60. Nella scuola, intesa come comunità educativa, la famiglia ha un posto e un ruolo molto importante. La scuola
cattolica la considera un valore e ne promuove la partecipazione e l’assunzione di forme di corresponsabilità. Anche
quando ci si trovi di fronte a realtà familiari che vivono
situazioni difficili e a genitori che non rispondono alle proposte della scuola, la famiglia viene sempre considerata un
riferimento indispensabile, portatrice di risorse che possono
essere valorizzate: «La scuola cattolica ha interesse a continuare e potenziare la collaborazione con le famiglie. Essa
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ha per oggetto non solo questioni scolastiche, ma tende soprattutto alla realizzazione del progetto educativo».58
Progetto educativo
per un’educazione al dialogo interculturale
61. Dalla testimonianza del Vangelo e dall’apertura
gratuita all’amore per l’altro scaturisce la proposta educativa della scuola cattolica, che si preoccupa di sviluppare
un approccio interculturale riguardante tutti gli ambiti
dell’esperienza scolastica: le relazioni tra le persone, la
prospettiva da cui guardare il sapere umano e le discipline,
l’integrazione e i diritti di tutti.
L’apertura alla pluralità e alle differenze è condizione
indispensabile per la collaborazione. L’esperienza dimostra
che la religione cattolica sa incontrare, rispettare, valorizzare le diverse culture. L’amore per l’uomo e per la donna
è, inevitabilmente, anche amore per la loro cultura. La
scuola cattolica è per sua stessa vocazione interculturale.
62. Il progetto educativo della scuola cattolica prevede che studio e vita s’incontrino e si fondano armonicamente tra loro, così che gli studenti possano compiere una
esperienza formativa qualificata, alimentata dalla ricerca
scientifica nelle diverse articolazioni del sapere e, al tempo
stesso, resa sapienziale dall’innesto nella vita nutrita dal
Vangelo. S’intende così superare il rischio di un’istruzione
che non sia anche – e prima di tutto – formazione integrale della persona. Infatti, «la scuola è uno degli ambienti
educativi in cui si cresce per imparare a vivere, per diventare uomini e donne adulti e maturi, capaci di camminare,
di percorrere la strada della vita. (...) Aiuta non solo nello
sviluppare l’intelligenza, ma per una formazione integrale
di tutte le componenti della personalità».59
63. Le principali linee d’impegno del progetto educativo sono le seguenti:
Il criterio dell’identità cattolica. La scuola cattolica è
impegnata a vivere in ogni sua espressione l’identità del
progetto educativo che ha in Cristo il suo fondamento.
«È proprio nel riferimento esplicito e condiviso da tutti
i membri della comunità scolastica – sia pure in grado
diverso – alla visione cristiana che la scuola è “cattolica”,
poiché i principi evangelici diventano in essa norme educative, motivazioni interiori e insieme mete finali».60 Da
questa esplicita identità traggono senso gli altri impegni.
Costruzione di un orizzonte comune. L’educazione può
contribuire a individuare quello che vi è di universale, ciò
che unisce persone differenti. Il ruolo dell’educazione oggi
consiste proprio nel promuovere quel dialogo che rende
possibile la comunicazione tra diversi, aiutando a «tradurre» i differenti modi di pensare e sentire. Non si tratta
soltanto di realizzare un dialogo come procedura o come
metodo, bensì di aiutare le persone a tornare alla propria
cultura a partire dalle culture altre, cioè a riflettere su sé
stessi in un orizzonte di «appartenenza all’umanità».
Apertura ragionata alla mondialità. Una comunità
educante come la scuola non formerà ai particolarismi,
ma offrirà i saperi necessari per comprendere l’attuale
condizione dell’uomo planetario, definita da molteplici
interdipendenze.
Formazione di identità forti non perché contrapposte,
ma perché, a partire dalla consapevolezza della propria
tradizione e della propria cultura, si è capaci di dialogare
e riconoscere l’uguale dignità dell’altro.
Sviluppo di autoriflessività attraverso l’abitudine a ripensare le proprie esperienze, a riflettere sui propri comportamenti, a diventare maggiormente consapevoli di sé,
anche attraverso l’uso di strategie cognitive e di formazione al decentramento.
Rispetto e comprensione dei valori delle altre culture e
religioni. La scuola deve divenire uno spazio di pluralismo
in cui si apprende a dialogare sui significati che le persone
delle diverse religioni attribuiscono ai rispettivi segni, per
poter condividere valori universali quali la solidarietà, la
tolleranza, la libertà.
Educazione alla partecipazione e alla responsabilità. La
scuola non deve rappresentare una parentesi della vita, un
luogo puramente artificiale o semplicemente dedicato a
sviluppare la dimensione cognitiva. Nel rispetto dei tempi
di maturazione degli alunni e della loro libertà personale,
la scuola si assume il compito di aiutarli non solo a capire
la realtà sociale e culturale di vita, ma anche a favorire
l’assunzione di responsabilità per migliorarla. Inoltre, proprio per l’attenzione all’integralità della persona e dell’esperienza, non limita il proprio impegno all’insegnamento
diretto, ma cura la molteplicità delle dimensioni dell’esperienza degli studenti, secondo modalità informali (feste,
momenti conviviali…), formali (incontri con testimoni,
momenti di discussione…), esperienze religiose (momenti
liturgici e di spiritualità…).61
64. Il curricolo rappresenta lo strumento attraverso
il quale la comunità scolastica esplicita le finalità, gli
obbiettivi, i contenuti, le modalità per perseguirli in
maniera efficace. In esso si manifesta l’identità culturale e pedagogica della scuola. L’elaborazione del
curricolo è uno dei compiti più impegnativi, perché si
tratta di definire i valori di riferimento, le priorità tematiche, le scelte concrete.
65. Per la scuola cattolica riflettere sul curricolo significa approfondire i propri elementi di specificità, il
peculiare modo di essere servizio alla persona attraverso
gli strumenti della cultura, perché quanto viene progettato possa essere effettivamente adeguato alla sua originale missione. Non ci si può accontentare di un’offerta
didattica aggiornata, capace di rispondere alle esigenze
che provengono dall’economia in trasformazione. Il progetto curricolare della scuola cattolica mette al centro la
persona e la sua ricerca di significato. Rispetto a questo
riferimento valoriale, le diverse discipline rappresentano
delle importanti risorse e assumono un più pieno valore
se sanno proporsi come mezzi di educazione. Da questo
punto di vista i contenuti non sono indifferenti, così come
non può essere indifferente il modo di presentarli.
66. È stato detto che quella in cui viviamo è la società
della conoscenza, ma la scuola cattolica è sollecitata a
promuovere la società della sapienza, ad andar oltre il
conoscere per educare a pensare, a valutare i fatti alla
luce dei valori, a educare all’assunzione di responsabilità
e di impegno, all’esercizio della cittadinanza attiva. Tra
i contenuti caratterizzanti, un posto di rilievo va dato
alla conoscenza delle diverse culture, con l’attenzione a
favorire l’incontro e il confronto fra i tanti punti di vista
che le connotano. Il curricolo deve aiutare a riflettere sui
grandi problemi del nostro tempo, non eludendo quelli
nei quali più si evidenzia la drammaticità della condizione di vita di tanta parte dell’umanità, come l’ineguale
distribuzione delle risorse, la povertà, l’ingiustizia, i diritti
umani negati. La povertà implica un’attenta considerazione del fenomeno della globalizzazione e suggerisce di
avere della povertà una visione ampia e articolata delle
sue diverse manifestazioni e delle sue cause.62
67. Un buon curricolo sa intrecciare a lezioni teoriche momenti di testimonianza, presentazione di esperienze di vita nella luce della visione di fede, pratiche di
partecipazione e di assunzione di responsabilità.
I diversi momenti si rimandano l’uno all’altro: le lezioni nascono dagli spazi aperti dall’esperienza di vita,
il sapere si fa esperienza, e questa acquisisce la forza di
proposta culturale, di annuncio.
Per quanto concerne l’insegnamento delle discipline, la prospettiva metodologica condivisa e promossa
dai docenti è quella della correlazione dinamica delle
diverse scienze in un orizzonte sapienziale. Lo statuto
epistemico di ogni scienza possiede una propria identità
contenutistica e metodologica, ma non riguarda soltanto
le condizioni «interne» relative al suo corretto funzionamento; ciascuna disciplina non è un’isola abitata da
un sapere distinto e recintato, ma si relaziona in modo
dinamico con tutte le altre forme del sapere che esprimono ciascuna qualcosa della persona e attingono qualcosa della verità.
68. La composizione multiculturale delle classi è una
sfida per la scuola, che deve essere in grado di ripensare i
54 Benedetto XVI, Beati gli operatori di pace, Messaggio per la
XLVI Giornata mondiale della pace (2013), n. 4; Regno-doc. 1,2013,4.
55 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Educare
insieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate
e fedeli laici, n. 38; EV 24/1269.
56 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola
cattolica, nn. 33-37; EV 6/91-95.
57 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Il laico
cattolico testimone della fede nella scuola, 15.10.1982, n. 22; EV 8/321322; Id., Educare insieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di
persone consacrate e fedeli laici, n. 13; EV 24/1244.
58 Congregazione per l’educazione cattolica, Dimensione re-
ligiosa dell’educazione nella scuola cattolica, 7.4.1988, n. 42; EV 11/442.
59 Francesco, Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania.
60 Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola cattolica, n. 34; EV 6/92. Cf. Codice di diritto canonico (CIC) can. 803, §2.
61 Papa Francesco, rivolgendosi ai Gesuiti che gestiscono scuole,
li ha incoraggiati «a cercare nuove forme di educazione non convenzionali secondo le necessità dei luoghi, dei tempi e delle persone»
(7.6.2013).
62 Cf. Benedetto XVI, Combattere la povertà, costruire la pace,
Messaggio per la XLII Giornata mondiale della pace (2009), n. 2;
Regno-doc. 1,2009,1s.
Il curricolo
espressione dell’identità della scuola
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contenuti dell’insegnamento, i modi dell’apprendimento,
la propria organizzazione interna, i ruoli, le relazioni con
le famiglie e il contesto sociale e culturale di appartenenza.
Un curricolo aperto alla prospettiva interculturale propone all’attenzione degli studenti lo studio di civiltà prima
ignorate o remote, che però ora si affacciano all’attenzione
e sono molto più «vicine» grazie alla globalizzazione e ai
mezzi di comunicazione, varcando frontiere spaziali e difese ideologiche. Un insegnamento che voglia aiutare gli
studenti a capire la realtà nella quale vivono non può ignorare la dimensione del confronto, ma, al contrario, s’impegna a favorire dialogo, interscambio culturale e spirituale.
69. Sul piano didattico la scuola deve articolare la
propria preoccupazione interculturale tenendo presenti
le due dimensioni dell’apprendimento: quella cognitiva e
quella relazionale-affettiva. Per il primo aspetto essa agisce sui contenuti del curricolo, sui saperi da trasmettere
e le competenze da promuovere. Per il secondo aspetto
agisce sugli atteggiamenti e le rappresentazioni, insegnando a rispettare le diversità, a tener conto dei diversi
punti di vista, a coltivare l’empatia, a collaborare.
Insegnamento della religione cattolica
70. Nel contesto attuale le società umane stanno cercando di darsi strutture più ampie e sopranazionali e di
andare verso un sistema di governance planetario. Inoltre, gli immensi patrimoni simbolici, che i diversi popoli
hanno costruito, difeso e trasmesso per secoli mediante le
loro specifiche tradizioni culturali e religiose, sembrano
essere ignorati nella loro vera valenza umanizzante, diventando invece motivo di separazione, nella diffidenza
reciproca. Per cui, la sfida più grande nell’educazione
interculturale sta sempre più nel dialogo tra la propria
identità e le altre visioni della vita.
71. Il passaggio culturale odierno presenta evidenti
segni di oscillazione tra dialogo e scontro. Ed è soprattutto in presenza di questa crisi di orientamento che il
contributo dei cristiani appare come fattore indispensabile. È fondamentale, quindi, che da parte sua la religione cattolica sia segno ispiratore del dialogo, perché si
può senz’altro affermare che il messaggio cristiano mai è
stato così universale e decisivo come oggi.
72. Attraverso la religione, dunque, può passare la
testimonianza-messaggio di un umanesimo integrale, alimentato dalla propria identità e dalla valorizzazione delle
sue grandi tradizioni, come la fede, il rispetto della vita
umana dal concepimento alla sua fine naturale, della famiglia, della comunità, dell’educazione e del lavoro: occasioni
e strumenti non di chiusura ma di apertura e dialogo con
tutti e con tutto ciò che conduce verso il bene e la verità. Il
dialogo resta l’unica soluzione possibile, anche di fronte alla
negazione della religiosità, all’ateismo, all’agnosticismo.
73. In questo orizzonte, assume un significativo ruolo
l’insegnamento scolastico della religione cattolica.63 Esso,
anzitutto, è un aspetto del diritto all’educazione che ha
alla base una concezione antropologica aperta alla dimensione trascendente dell’uomo e della donna. Unito a
una formazione morale, favorisce anche lo sviluppo della
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responsabilità personale e sociale e le altre virtù civiche
per il bene comune della società. Il concilio Vaticano II
ricorda che: ai genitori «spetta pure il diritto di determinare la forma di educazione religiosa da impartirsi ai
propri figli secondo la propria persuasione religiosa (...).
I diritti dei genitori sono violati se i figli sono costretti
a frequentare lezioni scolastiche che non corrispondono
alla persuasione religiosa dei genitori o se viene imposta
un’unica forma di educazione dalla quale sia completamente esclusa la formazione religiosa».64 Questa affermazione trova riscontro nella Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo65 e in altre dichiarazioni e convenzioni della comunità internazionale.66
74. Occorre, inoltre, rilevare che l’insegnamento scolastico della religione cattolica ha finalità specifiche rispetto alla catechesi. Questa, infatti, promuove l’adesione
personale a Cristo e la maturazione della vita cristiana.
L’insegnamento scolastico, invece, trasmette agli alunni
le conoscenze sull’identità del cristianesimo e della vita
cristiana. In tale modo, si prefigge «di allargare gli spazi
della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del
vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia
e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e
della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza della loro intrinseca unità che le tiene insieme. La
dimensione religiosa, infatti, è intrinseca al fatto culturale,
concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita».
Pertanto, con l’insegnamento della religione cattolica «la
scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di
cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene e a crescere nella responsabilità, a ricercare
il confronto e a raffinare il senso critico, ad attingere dai
doni del passato per meglio comprendere il presente e
proiettarsi consapevolmente verso il futuro».67
Infine, lo status di disciplina scolastica colloca l’insegnamento della religione nel curricolo accanto alle altre
discipline non come accessorio, ma in un necessario dialogo interdisciplinare.
75. In conseguenza, per raggiungere gli obbiettivi
di un allargamento degli spazi della nostra razionalità
e per sostenere con capacità il dialogo interdisciplinare
e quello interculturale, appare efficace l’insegnamento
confessionale della religione. Infatti, «si potrebbe anche
creare confusione o generare relativismo o indifferentismo religioso se l’insegnamento della religione fosse limitato a un’esposizione delle diverse religioni, in un modo
comparativo e “neutro”».68
La formazione dei docenti e dirigenti
76. Di cruciale importanza è la formazione dei docenti
e dei dirigenti. Nella maggior parte degli stati la formazione iniziale del personale scolastico è fornita dallo stato.
Per quanto qualificata possa essere, non si può però considerarla sufficiente; c’è, infatti, una specificità della scuola
cattolica che va sempre riconosciuta e approfondita. La formazione richiesta impone, pertanto, di considerare, oltre
agli aspetti disciplinari e professionali tipici della funzione
docente e dirigente, anche i fondamenti culturali e pedagogici che costituiscono l’identità della scuola cattolica.
77. Il percorso formativo deve essere l’occasione per
rafforzare l’idea della scuola cattolica vista come comunità di relazioni fraterne e luogo di ricerca, impegnata
nell’approfondimento e nella comunicazione della verità
nei diversi ambiti scientifici. Chi ne ha responsabilità è
tenuto a garantire a tutto il personale un’adeguata preparazione, per un servizio qualificato, coerente alla fede
professata e capace di interpretare le esigenze della società nella concretezza della sua attuale configurazione.69
Ciò anche per favorire la collaborazione educativa della
scuola con i genitori,70 nel rispetto della loro responsabilità di primi e naturali educatori.71
78. Per quanto riguarda una formazione particolarmente dedicata a promuovere sensibilità, consapevolezza
e competenza di tipo interculturale, l’itinerario proposto
dovrebbe prestare attenzione a tre fondamentali direzioni:
a) l’integrazione, che riguarda la capacità della scuola
di attrezzarsi in maniera efficace per accogliere studenti
di origini culturali diverse, di rispondere ai loro bisogni
di riuscita scolastica e valorizzazione personale;
b) l’interazione, che riguarda il saper facilitare buone relazioni fra i pari e fra gli adulti, consapevoli che la semplice
vicinanza fisica non basta, ma vanno stimolate curiosità
reciproca, apertura e amicizia, sia in classe che nei luoghi
e nei tempi della vita extrascolastica, prevenendo e riparando situazioni di distanza, discriminazione, conflitto;
c) il riconoscimento dell’altro, evitando di cadere
nell’errore di imporsi all’altro affermando il proprio stile
di vita e il proprio pensiero senza tenere conto della sua
cultura e particolare situazione affettiva.
79. Sul piano culturale va perseguito l’impegno a promuovere l’unità tra i saperi, superandone la frammentazione e l’astrazione, secondo una più ampia prospettiva
di senso. Non meno importante, anzi prerequisito indispensabile, è che la comunità educativa sia impegnata a
superare la frammentazione dei rapporti personali, comunitari e collettivi. Non vi può essere elaborazione di
un sapere integralmente «umano» e non solo funzionale,
custode della tradizione e insieme aperto alla novità,
senza la consapevolezza della dimensione unitaria, nella
sua variegata ricchezza, della persona e della società.
80. Se è ormai assodato che il processo formativo
copre l’intero arco dell’esperienza professionale, non
potendosi limitare alla fase della formazione iniziale o
dei primi anni, questo assume un valore tutto particolare
nella scuola cattolica. In essa si richiede non soltanto di
saper insegnare o saper dirigere un’organizzazione, ma,
attraverso lo strumento della competenza professionale,
di saper testimoniare l’autenticità di quanto si propone e
la propria continua ricerca di meglio corrispondere, con
il pensiero e con la vita, agli ideali che a parole si enunciano.
Di qui l’importanza che la scuola sappia essere comunità di formazione e di studio, nella quale la relazione tra
le persone comunichi il proprio timbro alla relazione fra
le discipline; e il sapere, interiormente vivificato da questa ritrovata unità alla luce del Vangelo e della dottrina
cristiana, porti il proprio indispensabile contributo alla
crescita integrale della persona e della società planetaria
che si va annunziando.
63 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, lettera
circolare ai presidenti delle conferenze episcopali La natura e il
ruolo sull’insegnamento della religione nella scuola, 5.5.2009; EV
26/478ss.
64 Concilio ecumenico Vaticano II, dich. Dignitatis humanae
sulla libertà religiosa, n. 5; EV 1/1057. Cf. CIC can. 799; cf. Santa
Sede, Carta dei diritti della famiglia, 22.10.1983, art. 5, c-d.
65 Cf. Nazioni Unite, Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, 10.12.1948, art. 26.
66 Cf. ad esempio Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione
culturale europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (1952), art. 2; Nazioni Unite, Dichiarazione dei diritti
del fanciullo (1959), principio 7, 2; UNESCO, Convenzione contro la
discriminazione nell’educazione (1960), art. 5, b; Nazioni Unite, Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989), art. 18, 1.
67 Benedetto XVI, Discorso agli insegnanti di religione cattolica,
25.4.2009.
68 Congregazione per l’educazione cattolica, La natura e
il ruolo, n. 12; EV 26/493.
69 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Educare
insieme nella scuola cattolica. Missione condivisa di persone consacrate
e fedeli laici, nn. 34-37; EV 24/1265-1268.
70 Cf. CIC can. 796, §1.
71 Cf. Congregazione per l’educazione cattolica, Dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica, n. 32; EV 11/431;
cf. CIC can. 799.
Essere insegnanti, essere dirigenti
81. La formazione è sempre orientata dalla definizione di un profilo professionale e quindi deve rispondere alla domanda: che cosa significa essere insegnante,
che cosa significa essere dirigente nella scuola cattolica?
Quali sono le competenze che devono caratterizzarne la
professionalità?
82. L’insegnante oggi è membro di una comunità
professionale, contribuisce all’elaborazione del curricolo, ha la responsabilità di molteplici relazioni con altri
soggetti, in primo luogo la famiglia. Una buona scuola è
quella nella quale il corpo docente sa diventare qualcosa
di più di un formale collegio, nel quale i membri sono
legati da vincoli burocratici; una comunità nella quale
sperimentare rapporti professionali e personali, non solo
superficiali, ma molto più profondi, legati da una comune preoccupazione educativa.
83. Un buon insegnante sa che la sua responsabilità
non si esaurisce dentro l’aula o la scuola, ma è rivolta
anche al territorio di appartenenza, e si manifesta nella
sensibilità ai problemi sociali del suo tempo. La preparazione professionale, la competenza tecnica, sono requisiti
necessari, ma non sufficienti. La funzione educativa si
manifesta nell’accompagnare i giovani a capire il loro
tempo e a fornire una convincente ipotesi per il loro progetto di vita. Poiché la dimensione della multiculturalità
e del pluralismo è tratto caratterizzante del nostro tempo,
si richiede all’insegnante la capacità di fornire agli studenti gli strumenti culturali necessari per orientarsi e,
ancora di più, di far loro sperimentare nella quotidianità
della vita dell’aula la pratica dell’ascolto, del rispetto, del
dialogo, del valore della diversità.
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84. Alla scuola, sempre più multiculturale, spetta il
compito di porre in relazione e di mediare esperienze differenti, che chiedono di essere conosciute e riconosciute.
Ai docenti e ai dirigenti scolastici si richiedono capacità
professionali nuove, volte a ricomporre e far dialogare le
differenze, proponendo orizzonti comuni, pur nella singolarità dei percorsi di sviluppo e delle visioni del mondo.
85. Per chi occupa una responsabilità dirigenziale
può essere forte la tentazione di considerare la scuola in
modo analogo a un’azienda o a un’impresa. Ma la scuola
che vuole essere comunità educante ha bisogno che chi
la guida sia capace di richiamare i valori di riferimento
e di valorizzare tutte le risorse professionali e umane in
tale direzione. Il dirigente scolastico, più che manager di
un’organizzazione, è leader educativo quando sa assumersi per primo questa responsabilità, che si configura
anche come una missione ecclesiale e pastorale radicata
nel rapporto con i pastori della Chiesa. Spetta in particolare al dirigente scolastico fornire il necessario sostegno
al diffondersi della cultura del dialogo, dell’incontro, del
reciproco riconoscimento fra diverse culture, promuovendo dentro e fuori la scuola tutte le collaborazioni possibili e utili a realizzare l’intercultura.
86. Perché una scuola possa svilupparsi come comunità professionale è necessario che i suoi membri imparino
a riflettere e a ricercare insieme. Essa è una comunità di
pratiche condivise, di comunanza di idee, di ricerca.
L’unione della comunità educante si alimenta, inoltre, attraverso un forte legame con la comunità cristiana.
La scuola cattolica, infatti, è un soggetto ecclesiale. «La
dimensione ecclesiale non costituisce nota aggiuntiva,
ma è qualità propria e specifica, carattere distintivo che
penetra e plasma ogni momento della sua azione educativa, parte fondante della sua stessa identità e punto
focale della sua missione».72 Pertanto, «tutta la comunità
cristiana e, in particolare, l’Ordinario diocesano hanno
la responsabilità di “disporre ogni cosa, perché tutti i fedeli possano fruire dell’educazione cattolica” (CIC can.
794, §2) e, più precisamente, per avere “scuole nelle quali
venga trasmessa un’educazione impregnata di spirito cristiano” (CIC can. 802; cf. CCEO can. 635)».73 L’ecclesialità della scuola cattolica, che è iscritta nel cuore stesso
della sua identità scolastica, è la ragione del «vincolo istituzionale che mantiene con la gerarchia della Chiesa,
la quale garantisce che l’insegnamento e l’educazione
siano fondati sui principi della fede cattolica e impartiti
da maestri di dottrina retta e vita onesta (cf. CIC can.
803; CCEO cann. 632 e 639)».74
C
onclusione
La dimensione interculturale è familiare alla tradizione della scuola cattolica. Oggi, però, di fronte alle
sfide della globalizzazione e del pluralismo culturale e
religioso, diventa indispensabile acquisire una maggior
consapevolezza del suo significato, così da meglio tradurre, in presenza, testimonianza e insegnamento, la
propria peculiarità di essere, in quanto cattolica, scuola
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aperta all’universalità del sapere e, allo stesso tempo, portatrice di una specificità che è data dal radicamento nella
fede in Cristo Maestro e dall’appartenenza alla Chiesa.
Rifuggendo da ogni fondamentalismo, come da ogni
relativismo omologante, la scuola cattolica è sollecitata
a progredire nella corrispondenza all’identità ricevuta
dalla sua ispirazione evangelica, ed è invitata anche a
percorrere i sentieri dell’incontro, educandosi ed educando al dialogo, che consiste nel parlare con tutti e con
tutti relazionarsi con rispetto, stima, sincerità d’ascolto;
nell’esprimersi con autenticità, senza offuscare o mitigare
la propria visione per suscitare un maggiore consenso;
nel testimoniare con le modalità della propria presenza,
la coerenza tra le parole e la vita.
A tutte le educatrici e a tutti gli educatori vogliamo
far giungere le parole incoraggianti e orientative di papa
Francesco: «Non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà che
la sfida educativa presenta! Educare non è un mestiere,
ma un atteggiamento, un modo di essere; per educare
bisogna uscire da sé stessi e stare in mezzo ai giovani, accompagnarli nelle tappe della loro crescita mettendosi al
loro fianco. Donate loro speranza, ottimismo per il loro
cammino nel mondo. Insegnate a vedere la bellezza e la
bontà della creazione e dell’uomo, che conserva sempre
l’impronta del Creatore. Ma soprattutto siate testimoni
con la vostra vita di quello che comunicate. Un educatore (...) trasmette conoscenze, valori con le sue parole,
ma sarà incisivo sui ragazzi se accompagnerà le parole
con la sua testimonianza, con la sua coerenza di vita.
Senza coerenza non è possibile educare! Tutti siete educatori, non ci sono deleghe in questo campo. La collaborazione allora in spirito di unità e di comunità tra le
diverse componenti educative è essenziale e va favorita
e alimentata. Il collegio può e deve fare da catalizzatore, esser luogo di incontro e di convergenza dell’intera
comunità educante con l’unico obbiettivo di formare,
aiutare a crescere come persone mature, semplici, competenti e oneste, che sappiano amare con fedeltà, che
sappiano vivere la vita come risposta alla vocazione di
Dio, e la futura professione come servizio alla società».75
Il santo padre Francesco ha dato il suo benestare alla
pubblicazione del presente documento.
Roma, 28 ottobre 2013, quarantottesimo anno dalla
promulgazione della dichiarazione Gravissimum educationis del concilio Vaticano II.
✠ Zenon card. Grocholewski,
prefetto
✠ Angelo Vincenzo Zani,
segretario
72 Congregazione per l’educazione cattolica, La scuola cattolica alle soglie del terzo millennio, n. 11; EV 16/1852.
73 Congregazione per l’educazione cattolica, La natura e
il ruolo, n. 5; EV 26/485.
74 Ivi, n. 6; EV 26/486.
75 Francesco, Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania.
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carità
Il ruolo del vescovo,
in giustizia,
pace e caritas
Il card. Oscar Rodríguez Maradiaga
alla plenaria della Conferenza
canadese dei vescovi cattolici
V
Il cardinale honduregno Oscar Maradiaga, presidente di Caritas internationalis, parlando lo scorso 24 settembre all’Assemblea plenaria della
Conferenza canadese dei vescovi cattolici, riflette sul fondamentale contributo di Benedetto XVI alla comprensione della carità come missione della Chiesa. «L’intima natura
della Chiesa», infatti, «si esprime in
un triplice compito: annuncio della
parola di Dio, celebrazione dei sacramenti, servizio della carità».
Allo stesso tempo, «il servizio della
carità è una dimensione costitutiva
della missione della Chiesa». La parabola del buon samaritano rappresenta efficacemente la prassi della
carità cristiana e unisce, in un filo
rosso carico di significato, le parole
del papa emerito a quelle di papa
Francesco: «L’espressione più bella
della carezza di fronte a una necessità è quella del buon samaritano».
In questa prospettiva, il vescovo è
pastore e «padre di famiglia»: come
Benedetto XVI nei confronti di tutta
la Chiesa, per usare le parole di
Maradiaga, egli indica «la direzione
e gli strumenti per navigare sicuri
mantenendo la giusta rotta».
Stampa (31.1.2014) da sito web blog.caritas.
org. Nostra traduzione dall’inglese; sottotitoli
redazionali.
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ostre eminenze, vostre eccellenze, cari fratelli
vescovi, vi porgo il saluto più cordiale a nome
di Caritas internationalis, la confederazione
di 164 organizzazioni assistenziali cattoliche
nazionali che operano nel campo degli aiuti
umanitari e dello sviluppo.
Tra esse vi è la Canadian catholic organization for
development and peace di Caritas Canada. Sono certo
che voi tutti conoscete bene la sua eccellente attività,
anche nella mia patria, l’Honduras, dove ha aiutato le
comunità devastate dalle società minerarie. È un esempio meraviglioso della fraternità in azione, che è una
parte essenziale della confederazione della Caritas.
Proprio questo mese ha promosso degli incontri
sulla creazione di una rete di comunicazioni nell’Africa francofona e sulla nostra risposta all’emergenza
in America Latina. È stata una delle organizzazioni
della Caritas fondamentali nel fronteggiare la siccità
che nell’Africa occidentale, lo scorso anno, ha colpito
più di 20 milioni di persone. Potete andare molto orgogliosi di Development and peace, la vostra organizzazione Caritas del Canada.
Con grande sollecitudine fraterna vorrei incoraggiarvi nella vostra missione, voi che siete «servi di Cristo
e amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1) nella
«casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e
sostegno della verità» (1Tm 3,15).
Vi ringrazio per avermi invitato a parlarvi e per l’opportunità che mi avete offerto di visitare Sainte-Adèle
in Quebec. Sant’Adele fu una principessa tedesca dell’VIII secolo, fondatrice di un convento, divenuta celebre per la sua santità, la prudenza e la compassione. Fu
anche in corrispondenza con san Bonifacio, apostolo
della Germania.
Mi è venuta spesso in mente questa osservazione di
san Bonifacio: «Nel suo viaggio attraverso l’oceano di
questo mondo, la Chiesa è come una grande nave che
viene battuta dalle onde delle diverse preoccupazioni e
tensioni della vita. Il nostro dovere è non abbandonare
la nave ma mantenerla sulla sua rotta».
Bonifacio rafforzò la Chiesa in Germania mediante
il suo esempio e creando una struttura istituzionale che
esiste ancor oggi. È stata questa Chiesa, naturalmente, a
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darci Joseph Ratzinger. Ed è papa Benedetto XVI che ha
rafforzato la nostra comprensione della missione evangelica della Chiesa riguardo al servizio della carità e che ci
ha mantenuto in rotta nell’attraversamento delle tempeste della vita nel mondo moderno. Si potrebbe dire che
ciò che Bonifacio ha fatto per la Germania, Benedetto lo
ha fatto per la carità.
Carità come missione della Chiesa
Il mio intervento oggi è sul «ruolo del vescovo in giustizia, pace e caritas», ed attingerò ampiamente dall’attività del pontificato del papa emerito Benedetto XVI.
In risposta alla chiamata del Vangelo (cf. Mt 25), la
Chiesa lungo la storia ha lavorato per e accanto ai poveri
del mondo. Tuttavia l’enciclica di Benedetto XVI Deus
caritas est, pubblicata nel 2005, per la prima volta ha presentato una dottrina ufficiale sulla carità. E ha collocato
la carità al centro della missione della Chiesa.
La sua seconda lettera enciclica, Caritas in veritate,
ha sottolineato alcune delle sfide che devono essere
affrontate da tutti per vivere secondo la carità nella
verità.
E pochi mesi prima della sua rinuncia, egli ha pubblicato il motu proprio Intima Ecclesiae natura, o «Sul
servizio della carità», che fornisce il quadro legale per le
azioni caritative della Chiesa.
Scrive papa Benedetto in Deus caritas est: «L’intima
natura della Chiesa si esprime in un triplice compito:
annuncio della parola di Dio (kêrygma-martyria), celebrazione dei sacramenti (leiturgia), servizio della carità
(diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda
e non possono essere separati l’uno dall’altro».1
Nel motu proprio, papa Benedetto afferma: «Il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della
sua stessa essenza».2
Nella testimonianza della carità di Cristo, la caritas
è parte integrante dell’evangelizzazione. Infatti, come
ha affermato Paolo VI, «l’evangelizzazione non sarebbe
completa se non tenesse conto del reciproco appello, che
si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo».3
La nostra Chiesa è un popolo universale, unito nei
sacramenti e nella solidarietà. Essere il popolo di Dio nel
mondo è la nostra vocazione di cristiani.
Nella Lumen gentium, della Chiesa stessa viene data
la definizione che segue: «Cristo è la luce delle genti, e
questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul
volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando
il Vangelo a ogni creatura».4
La nostra sollecitudine sociale per la giustizia e per
la promozione dello sviluppo umano ovviamente non è
l’intero e unico compito della Chiesa, ma è uno dei suoi
«elementi costitutivi», e una dimensione vitale della nostra koinonia.
Papa Benedetto, in Deus caritas est, scrive che il servizio della carità è una «espressione irrinunciabile della
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sua stessa natura». Egli afferma inoltre che tutti i fedeli
hanno il dovere di dedicarsi a una vita caritativa.
Come ha detto papa Francesco all’incontro con il
Comitato esecutivo di Caritas internationalis, tenutosi
quest’anno a Roma, «una Chiesa senza la carità non
esiste».5
Lo scorso anno, all’apertura del Sinodo per la
nuova evangelizzazione, papa Benedetto ci ha ricordato il ruolo eminente che la carità ha nell’evangelizzazione, sottolineando che le due colonne sulle quali la
nuova evangelizzazione deve essere costruita sono la
«confessio» e la «caritas». «Confessio» e «caritas» sono
– egli ha detto – «come i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con lui, in lui e per l’umanità, per la
sua creazione».6
Oggi stiamo vivendo un momento di grave crisi. Non
si tratta solo di una crisi economica e neppure solo di
una crisi culturale; e neppure è una crisi di fede. Oggi è
in pericolo l’intera umanità. Oggi è in pericolo il corpo
di Cristo.
Come ha detto papa Francesco, «la nostra civiltà ha
creato una cultura dell’usa e getta: se non si usa, via, nella
spazzatura! Bambini, anziani, emarginati. Questa è la
crisi che stiamo vivendo».7
Il buon samaritano
emblema della carità cristiana
Il rifiuto dell’emarginato richiama il racconto evangelico del buon samaritano. In questa parabola, come
spiega papa Benedetto, «vediamo la duplice realtà della
carità cristiana, che è sia universale che pratica. Questo
samaritano incontra un ebreo, che quindi sta oltre i confini della sua tribù e della sua religione. Ma la carità è
universale e perciò questo straniero in tutti i sensi è per
lui prossimo. L’universalità apre i limiti che chiudono il
mondo e creano le diversità e i conflitti».8
Le sfide che dobbiamo fronteggiare sono reali, e
talvolta scoraggianti. Nel suo libro-intervista Luce del
mondo, papa Benedetto conclude: «Tanto più importante è perciò che la fede cattolica si presenti in modo
nuovo e vivo e si mostri come forza di unità, di solidarietà e di apertura all’eterno di ciò che è nel tempo».9
Queste parole incoraggianti ispirano il nostro impegno a combattere la povertà e a portare il nostro contributo all’edificazione di un’unica famiglia umana, secondo lo spirito e la visione dell’enciclica Spe salvi: «La
misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per
il singolo come per la società. Una società che non riesce
ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire
mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga
condivisa e portata anche interiormente è una società
crudele e disumana».10
Cari amici, la missione di Caritas internationalis è
quella di servire i poveri, e ancor più i più poveri tra i
poveri, per primi. Questa è la nostra ragion d’essere e
perciò la Caritas è al centro della missione della diakonia
della Chiesa.
Per molte persone che sono nel bisogno, la Caritas
è il volto amorevole di Cristo che reca sollievo e conforto, rispetto e considerazione. Come Caritas siamo
chiamati a rendere testimonianza del suo amore e lo
facciamo con entusiasmo. Sappiamo che Dio è amore e
sappiamo e crediamo che egli ha creato ogni singola persona a propria immagine. E quindi non possiamo permetterci di perdere una sola persona della nostra unica
famiglia umana senza perdere il nostro proprio destino.
Perderemmo un fratello o una sorella in Cristo che si è
fatto uguale a ciascuno di noi.
Papa Francesco ha detto che la Caritas è una «parte
essenziale della Chiesa» e che è «l’istituzione dell’amore
della Chiesa». Ha detto che la Caritas ha una doppia
dimensione – una «sociale» o attiva, e l’altra «mistica»
o divina, cioè «posta nel cuore della Chiesa». Il papa ha
anche detto che «la Caritas è la carezza della Chiesa al
suo popolo, la carezza della madre Chiesa ai suoi figli; la
tenerezza, la vicinanza».
Papa Francesco ci riconduce di nuovo al buon samaritano: «Per me l’espressione più bella della carezza
di fronte a una necessità è quella del buon samaritano
che non dice: “Lo alzò, lo portò alla locanda, pagò e se
ne andò”. No, prima gli lavò le ferite, gli curò le ferite,
poi lo alzò, lo prese e affermò: “Pagherò per quello che
manca”».
Riflettendo sulla parabola del buon samaritano in
Deus caritas est, papa Benedetto elenca i seguenti elementi costitutivi. Primo: «La carità cristiana è dapprima
semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata
situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati
in vista della guarigione, i carcerati [ecc.]». Secondo:
«Le organizzazioni caritative della Chiesa, a cominciare da quelle della Caritas (diocesana, nazionale,
internazionale) devono fare il possibile, affinché siano
disponibili i relativi mezzi e soprattutto gli uomini e le
donne che assumano tali compiti». Terzo: «Per quanto
riguarda il servizio che le persone svolgono per i sofferenti, occorre innanzitutto la competenza professionale: i soccorritori devono essere formati in modo da
saper fare la cosa giusta nel modo giusto, assumendo
poi l’impegno del proseguimento della cura». E infine:
«La competenza professionale è una prima fondamentale necessità, ma da sola non basta. Si tratta, infatti, di
esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di
qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta.
Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno dell’atten-
zione del cuore, (…) [di una] “formazione del cuore”
(…). Il programma del buon samaritano, il programma
di Gesù è “un cuore che vede”».11
L’esercizio della diakonia della carità, sia in piccole
comunità che a livello della Chiesa universale, richiede
un’organizzazione. Nel motu proprio Intima Ecclesiae
natura, papa Benedetto offre un quadro giuridico per
la migliore organizzazione delle varie forme dell’attività
caritativa della Chiesa.
È importante avere una comprensione migliore dello
spirito e della lettera di questo documento, le cui fonti
risalgono e fanno riferimento alla pratica dei primi secoli
del cristianesimo, com’è chiaramente indicato nella Deus
caritas est.12
1
Benedetto XVI, lett. enc. Deus caritas est sull’amore cristiano,
25.12.2005, n. 25; EV 23/1575.
2
Benedetto XVI, motu proprio Intima Ecclesiae natura sul servizio della carità, 11.11.2012; Regno-doc. 21,2012,641.
3
Paolo VI, es. ap. Evangelii nuntiandi sull’evangelizzazione nel
mondo contemporaneo, 8.12.1975, n. 29; EV 5/1621; cf. inoltre n. 31;
EV 5/1623.
4 Concilio ecumenico Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium sulla Chiesa, 21.11.1964, n. 1; EV 1/284.
5 Francesco, discorso ai membri del Comitato esecutivo di Caritas internationalis, udienza privata in Casa Santa Marta, Città del
Vaticano, 16.5.2013.
6 Benedetto XVI, meditazione nel corso della I Congregazione
generale, 8.10.2012; Regno-doc. 19,2012,577s.
7 Francesco, discorso ai membri del Comitato esecutivo di Caritas internationalis.
8 Benedetto XVI, intervento alla I Congregazione della II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, 5.10.2009; Regnodoc. 21,2009,669.
9 Benedetto XVI, Luce del mondo. Il papa, la Chiesa e i segni dei
tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 2010, 164.
10 Benedetto XVI, lett. enc. Spe salvi sulla speranza cristiana,
30.11.2007, n. 38; EV 24/1476.
11 Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 31; EV 23/1592.
12 Cf. ivi, nn. 21-24.32; EV 23/1571-1574.1595.
13 Ivi, n. 20; EV 23/1570.
14 Ivi, n. 32; EV 23/1595.
Il servizio della carità
Il motu proprio offre una legislazione destinata ai
diversi attori del servizio della carità. Esso indica non
solo qual è la responsabilità del vescovo, ma anche
l’impegno di ogni persona battezzata nell’esercizio
della carità.
L’amore del prossimo, radicato nell’amore di Dio,
è prima di tutto una responsabilità per ogni singolo
membro del popolo dei fedeli, ma è anche un compito
dell’intera comunità ecclesiale a tutti i livelli, dalla comunità locale a quella diocesana, dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale nel suo complesso.
Qui troviamo un’eco di ciò che viene affermato in
Deus caritas est: «L’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario
ordinato. La coscienza di tale compito ha avuto rilevanza costitutiva nella Chiesa fin dai suoi inizi».13
Poiché è veramente un’attività della Chiesa stessa,
oltre a essere una dimensione essenziale della Chiesa,
l’attività caritativa deve essere ricollegata direttamente al ministero episcopale. In virtù della natura
episcopale della Chiesa, i vescovi diocesani hanno
«la prima responsabilità della realizzazione, anche
nel presente, del programma indicato negli Atti degli
apostoli (cf. 2,42-44)».14
Il motu proprio spiega il mandato generale dato ai
vescovi. Tuttavia, il vescovo non può funzionare senza
quel corpo che egli presiede. Per questa ragione, tutti i
fedeli devono essere educati nello spirito della condivisione e della genuina carità.
Il documento del papa si rivolge a diversi tipi di sog-
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tudi e commenti
getto: a coloro che esercitano un’autorità nella Chiesa,
alla comunità dei fedeli e alle diverse organizzazioni caritative. Il motu proprio mette in luce i rispettivi livelli
di responsabilità: a livello diocesano la competenza appartiene al vescovo; a livello nazionale appartiene alla
Conferenza episcopale e a livello internazionale appartiene alla Santa Sede. Quando il motu proprio fa riferimento alla «responsabilità del vescovo», occorre tenere
ben presenti questi tre livelli.
Il motu proprio afferma che la comunità dei fedeli e
tutti i fedeli hanno il diritto di creare organizzazioni caritative e di costituire fondazioni per finanziare concrete
iniziative caritative. Il motu proprio pone in evidenza la
partecipazione dell’intera comunità cristiana, che deve
essere educata «allo spirito di condivisione e di autentica
carità».15 Siamo quindi in un ambito che promuove e
incoraggia la libertà dei fedeli.
Infine, le organizzazioni cattoliche che operano a servizio della carità. Ve ne sono di diverso tipo, e tra esse
possiamo identificarne almeno quattro:
– la Caritas, che merita una menzione particolare
perché è considerata come lo strumento ufficiale del
vescovo nel ministero della carità, come si può vedere
anche nella recente legislazione riguardante Caritas internationalis;
– altre organizzazioni istituite dall’autorità della
Chiesa per affrontare situazioni sociali e gestire progetti di finanziamento per la promozione dello sviluppo
umano;
– le organizzazioni promosse dagli istituti di vita consacrata e dalle società di vita apostolica;16
– le organizzazioni nate dall’iniziativa dei fedeli. Esse
sono soggette alla nuova legislazione, se sono state riconosciute in un modo o in un altro dall’autorità competente, ad esempio se portano l’attributo di «cattolica».
Il vescovo come pastore
Qui stiamo parlando della responsabilità del vescovo
nella sua attività caritativa come missione ecclesiale. In
effetti, il vescovo viene definito «pastore, guida e primo
responsabile» di questo servizio della carità.
Tra le principali responsabilità connesse con il suo
ministero, egli ha il compito di suscitare nei fedeli il fervore della carità operosa come espressione di vita cristiana e di partecipazione alla missione della Chiesa.
Questo per il vescovo implica l’obbligo paterno di
sentirsi vicino ai più poveri e, da un punto di vista pastorale, di prestare una speciale attenzione, così che la
Chiesa al livello diocesano e parrocchiale viva la diakonia della carità secondo l’esempio di Cristo.
Il vescovo deve educare i fedeli nello spirito della condivisione e della genuina carità. Ogni comunità cristiana
deve avere un «cuore che vede» le miserie che, tragicamente, persistono intorno a essa e deve essere in grado di
intervenire e portare assistenza.
È necessario che le nostre comunità sappiano come
portare conforto e consolazione ai poveri e ai sofferenti.
Il vescovo deve incoraggiare a operare nella carità, sia
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individualmente sia in una forma organizzata in gruppi
di volontari cattolici.
Questa responsabilità del vescovo implica anche che
egli sia il garante della comunione. Nella sua persona sussiste l’unità dei tre compiti, tanto quanto egli costituisce
una certezza e una garanzia assolute della loro autenticità e della loro interdipendenza.
Questa responsabilità comporta il fatto che il vescovo
sia anche il garante del dialogo che deve esistere all’interno delle organizzazioni caritative che desiderano appartenere alla Chiesa cattolica o anche per coloro che
operano nella sua diocesi e che provengono da altri organismi ecclesiali.
La garanzia di questa unità comprende anche il diritto del vescovo di dare il suo assenso alle iniziative di
organismi cattolici, vigilando perché le attività realizzate
nella propria diocesi si svolgano conformemente alla disciplina ecclesiastica, proibendole o adottando i provvedimenti necessari qualora non la rispettassero.17
È chiaro che il vescovo non può presiedere da solo il
servizio della carità; questo è il motivo per cui si consiglia
che il vescovo diocesano crei un ufficio ad hoc che, a suo
nome e sotto la sua vigile supervisione, gestisca il servizio
della carità.
Questo potrebbe essere il compito della Caritas, la cui
specificità è diversa da quella di altre organizzazioni caritative create all’interno di organismi laici o di istituzioni
religiose.
Tuttavia non è realistico né opportuno limitare il ministero della carità della Chiesa alla sola «caritas». Le
organizzazioni caritative sparse in tutto il mondo sono
numerosissime e riflettono la varietà dei carismi presenti
nella Chiesa. Il compito del vescovo è quello di favorire
e sostenere questa pluralità di attività e opere caritative e
non di soffocarla. Questo appare particolarmente importante perché, grazie a Dio, stanno emergendo molte iniziative di carità, ma spesso si ignorano a vicenda. Spetta
quindi al vescovo promuovere tra esse quella comunione
e quell’armonia ecclesiale che esistono intorno alla sua
persona. Egli è veramente il «padre di famiglia».
Vorrei anche riflettere sulla responsabilità del vescovo
nella formazione di coloro che operano nel servizio di carità. Spesso ci accontentiamo semplicemente del fatto che
una persona offra tempo ed energia ad altri. È evidente
che non si tratta solo di una questione di fare del bene,
ma anche di farlo bene. Seguendo l’esempio di Cristo,
coloro che operano nel servizio di carità dovrebbero essere umili come lui, non considerando sé stessi come il
centro della propria azione, ma piuttosto essendo capaci
di rendere testimonianza della propria relazione con Dio.
Il punto fondamentale riguarda la selezione e la formazione delle persone che offrono il loro servizio. Esse
devono avere un autentico sensus Ecclesiae e vivere nella
fede e nella carità. Questo permette loro di affrontare e
di valutare la situazione più difficile o più intricata.
Questo è il motivo per cui la loro formazione dovrebbe essere presa sul serio, sia dal punto di vista professionale che spirituale. È la persona umana nella sua integralità, creata a immagine e somiglianza di Dio, quella
che vogliamo servire.
Il motu proprio prescrive che le organizzazioni caritative selezionino operatori che condividano i criteri
della missione della Chiesa, o almeno che li rispettino.18 Questo non significa che persone non cattoliche non
possano essere impiegate in organismi caritativi cattolici. Tuttavia, tali persone non solo devono avere una
buona conoscenza della dottrina della Chiesa, ma devono anche rispettare i principi e i criteri che qualificano
la missione caritativa della Chiesa.
Vorrei mettere in evidenza la semplicità che dovrebbe caratterizzare la gestione delle iniziative di carità
e alla quale voi già fate attenzione.
Cito: «In modo particolare, il vescovo curi che la gestione delle iniziative da lui dipendenti sia testimonianza
di sobrietà cristiana. A tale scopo vigilerà affinché stipendi e spese di gestione, pur rispondendo alle esigenze
della giustizia e ai necessari profili professionali, siano
debitamente proporzionate ad analoghe spese della propria curia diocesana».19
Questa semplicità è anche una delle ragioni della fiducia di cui godono le nostre organizzazioni da parte dei
fedeli. Infatti, le spese amministrative vengono sempre
attentamente esaminate dai donatori e sono oggetto di
discussione.
Responsabilità e buone prassi
Un ulteriore aspetto merita di essere menzionato. Il
vescovo è tenuto a chiedere all’autorità civile di garantire
che la Chiesa possa esercitare liberamente il servizio di
carità, ed egli stesso deve garantire il rispetto della legislazione civile da parte di tutti gli organismi che operano
all’interno della sua diocesi.20
È una delle responsabilità principali presentare all’autorità competente gli statuti che devono essere approvati.
Questi devono contenere, oltre alle cariche istituzionali
e alle strutture di governo, anche i principi ispiratori e le
finalità dell’organizzazione, le modalità di gestione dei
fondi e il profilo dei propri operatori.21
Il motu proprio richiede la comunione con il vescovo del luogo in cui l’attività caritativa viene realizzata. Il motu proprio, infatti, afferma: «Resta sempre
integro il diritto dell’autorità ecclesiastica del luogo di
dare il suo assenso alle iniziative di organismi cattolici
da svolgere nell’ambito della sua competenza (…) ed è
suo dovere di pastore vigilare perché le attività realizzate nella propria diocesi si svolgano conformemente
alla disciplina ecclesiastica».22
Il motu proprio esorta a una particolare vigilanza
sulla destinazione dei proventi delle collette. Questi dovrebbero essere destinati alle specifiche finalità per cui
sono stati raccolti, per il bene della trasparenza dell’organizzazione.23 Non è permesso raccogliere fondi o
promuovere attività che sono contrarie all’insegnamento della Chiesa attraverso le strutture parrocchiali
o ecclesiali.24
Il vescovo diocesano deve evitare che organismi caritativi accettino contributi per iniziative che, nelle finalità o nei mezzi per raggiungerli, non siano conformi
alla dottrina della Chiesa. In altre parole, se i finanziamenti offerti sono soggetti a condizioni moralmente
inaccettabili, tali contributi non possono assolutamente
essere accettati, e questo anche per evitare di dare scandalo ai fedeli.25
Questo motu proprio crea una nuova situazione giuridica sulla quale noi dobbiamo riflettere, anche per trovare applicazioni pratiche. Esso non riguarda soltanto i
vescovi, ma anche gli organismi stessi. Sarà certamente
necessario prestare una particolare attenzione ai seguenti punti:
– l’urgenza o la necessità di un esame e l’eventuale
revisione degli statuti per garantire la conformità e l’applicazione della nuova normativa nei suoi vari livelli per
meglio esprimere, ad esempio, il legame con la Chiesa e
la fedeltà alla dottrina e all’insegnamento del magistero;
– gli organismi caritativi hanno il dovere ecclesiale
di preservare la comunione con i vescovi diocesani.
Tuttavia non dovrebbero interpretare questo dovere
come una questione disciplinare, ma come un’espressione della nostra appartenenza alla Chiesa;
– la creazione di luoghi di incontro e di riflessione a livello diocesano per ridefinire i criteri adottati nell’attività
caritativa, per precisare e pianificare l’offerta formativa,
per ridurre le linee-guida che devono essere date alle attività e, a livello parrocchiale, per valutare le attività che
devono essere promosse e organizzate;26
– è pure di fondamentale importanza promuovere regolarmente una riflessione sulla formazione professionale
e cristiana, cosa che oggi è una questione centrale, di
coloro che operano in organismi caritativi cattolici;
– prestare una particolare attenzione alla situazione
degli organismi creati da istituti religiosi che, a volte, non
hanno un collegamento istituzionale con coloro dai quali
hanno avuto origine.
Cari amici, il mio intervento si è concentrato principalmente su papa Benedetto XVI e sull’attenzione che
lui ha riservato al servizio di carità nella Chiesa. Papa
Benedetto è un grande incoraggiamento per la nostra
missione. Se la Chiesa è paragonabile a una grande nave,
egli ci ha dato la direzione e gli strumenti per navigare
sicuri mantenendo la giusta rotta.
Sainte-Adèle, Quebec, 24 settembre 2013.
✠ Oscar card. Rodríguez Maradiaga,
presidente di Caritas internationalis
15 Benedetto XVI, Intima Ecclesiae natura, art. 9 § 1; Regno-doc.
21,2012,644.
16 Cf. ivi, art. 1 § 4; Regno-doc. 21,2012,643.
17 Cf. ivi, art. 13; Regno-doc. 21,2012,644.
18
Cf. ivi, art. 7 § 1.
19
Ivi, art. 10 § 4.
20
Cf. ivi, art. 5.
21
Cf. ivi, art. 2 § 1; Regno-doc. 21,2012,643.
22
Ivi, art. 13; Regno-doc. 21,2012,644.
23
Cf. ivi, art. 10.
24
Cf. ivi, art. 9 § 3.
25
Cf. ivi, art. 10 § 3.
26
Cf. ivi, art. 6 e 8.
Il Regno -
documenti
7/2014
229
C
hiesa in Italia |
conferenza episcopale
Con papa Francesco
e con mons. Galantino
S
Comunicato finale
del Consiglio permanente
della CEI
«Sarà papa Francesco ad aprire l’Assemblea Generale della Conferenza
Episcopale Italiana il prossimo maggio. L’invito del Card. Angelo Bagnasco
ha incontrato la pronta disponibilità
del Santo Padre, che aveva in animo la
medesima intenzione». La notizia con
cui si apre il Comunicato finale del
Consiglio permanente della CEI (2426 marzo 2014) fa il paio, anche nella
formulazione calibrata, con l’altro
dato saliente di questa sessione primaverile del «parlamentino» dei vescovi
italiani, e cioè che «il papa, dopo aver
accolto la proposta della Presidenza,
condivisa in Consiglio permanente,
ha nominato segretario generale della
CEI ad quinquennium s.e. mons. Nunzio Galantino, (…) confermando così
l’indicazione data a fine dicembre». Le
molte altre decisioni di questo Consiglio appartengono all’ordinaria amministrazione: giungono in porto due
note pastorali, sulla scuola cattolica e
sull’Ordo virginum; fanno passi avanti
altri due documenti: quello sull’annuncio e la catechesi e quello, su famiglia
e società, conclusivo della XLVII Settimana sociale; procedono infine la preparazione del V Convegno ecclesiale
nazionale e la revisione dello Statuto e
del Regolamento della Conferenza.
Stampa (1.4.2014) da sito web www.chiesacattolica.it.
Il Regno -
documenti
7/2014
arà Papa Francesco ad aprire l’Assemblea Generale
della Conferenza Episcopale Italiana il prossimo
maggio. L’invito del Card. Angelo Bagnasco ha
incontrato la pronta disponibilità del Santo Padre,
che aveva in animo la medesima intenzione. Il Presidente della CEI ha comunicato la notizia ai membri del Consiglio Episcopale Permanente – riunito a Roma da lunedì 24
a mercoledì 26 marzo – i cui lavori per molti versi sono stati
orientati proprio alla preparazione dell’Assemblea.
Martedì 25 marzo il Papa, dopo aver accolto la proposta della Presidenza, condivisa in Consiglio Permanente, ha
nominato Segretario Generale della CEI ad quinquennium
S.E. Mons. Nunzio Galantino, Vescovo di Cassano all’Ionio, confermando così l’indicazione data a fine dicembre. A
questo proposito il Consiglio Permanente ha rilasciato una
dichiarazione nella quale esprime riconoscenza al Papa («la
Sua scelta qualifica la Segreteria Generale con la conferma di
un Vescovo del quale in questi mesi abbiamo apprezzato dedizione, passione e impegno») e «cordiale stima e accoglienza» al
Segretario, nella fiducia che saprà continuare «a promuovere
la fraternità e la partecipazione con disponibilità all’ascolto e
dialogo costante».
Nella prolusione il Card. Bagnasco ha richiamato il messaggio del Papa per la Quaresima, soffermandosi sulla miseria
materiale – che «si riversa come una tempesta» su chi è escluso
dal mondo del lavoro, come su quanti sono alle prese con le
conseguenze della «rottura dei rapporti coniugali» – e sulla
miseria morale e spirituale, che porta a illudersi di poter bastare a sé stessi.
I membri del Consiglio Permanente hanno ampiamente ripreso, approfondito e rilanciato gli appelli del Presidente della
CEI a reagire all’erosione e alla corruzione dell’impianto culturale umanistico – fra tutti, «la lettura ideologica del “genere”»
–, a superare gli ostacoli sul fronte della famiglia e della libertà
educativa, a riaffermare il primato della persona, a partire da
quanti sono rimasti «feriti sulla via di Gerico» da «un individualismo scellerato».
Nel corso dei lavori il Consiglio Permanente ha approvato
due Note pastorali: la prima, dedicata alla scuola cattolica, ne
ribadisce la finalità educativa e il suo essere risorsa per l’intera
collettività, invitando a superare pregiudizi ideologici che ne
compromettono l’effettiva parità; la seconda si concentra su una
particolare forma di vita consacrata – l’Ordo Virginum –, ne
230
coglie i tratti distintivi e offre alle Chiese indicazioni per criteri
comuni e prassi condivise.
I Vescovi hanno esaminato il Documento conclusivo della
XLVII Settimana Sociale dei Cattolici Italiani e valutato positivamente gli Orientamenti per l’annuncio e la catechesi, testo
che verrà discusso nell’Assemblea Generale di maggio.
Il Consiglio Permanente è stato occasione anche per fare il
punto sul cammino di preparazione al Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. Ampio spazio è stato dato pure all’esame delle
proposte di emendamento dello Statuto e del Regolamento della
CEI, che saranno portate in discussione all’Assemblea Generale.
Nel clima di condivisione fraterna che ha caratterizzato i
lavori, è stata accolta la richiesta di riconoscimento canonico di
un’associazione; si è dato il nulla osta per l’avvio dell’ iter per
la traduzione del Messale Romano in lingua friulana; infine,
sono stati presi in esame una serie di adempimenti in vista della
prossima Assemblea Generale.
1. L’ideologia del «genere»
«La lettura ideologica del «genere» è una vera dittatura
che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni».
L’analisi, contenuta nella prolusione, prende spunto
dall’iniziativa di tre opuscoli – destinati rispettivamente alla
scuola primaria, alla scuola secondaria di primo grado e a
quella di secondo grado – intitolati Educare alla diversità a
scuola e recanti Linee-guida per un insegnamento più accogliente e rispettoso delle differenze. Il confronto all’interno del
Consiglio Permanente ha messo in risalto la preoccupazione
dei Vescovi per forzature che rischiano di colpire pesantemente la famiglia, di associare in maniera indebita religione
e omofobia, di presentare come pacifico l’assunto circa l’indifferenza della diversità sessuale dei genitori per la crescita
del figlio e di spingere verso il matrimonio tra soggetti dello
stesso sesso.
I Vescovi avvertono la necessità di investire con generosità e rinnovato impegno nella formazione, risvegliando
le coscienze di genitori, educatori, associazioni, consulte di
aggregazioni laicali e istituzioni di ispirazione cristiana in
merito a quella che si rivela una questione antropologica di
rilevante urgenza.
2. Scuola cattolica, risorsa sociale
Una preziosa risorsa per la società, al cui servizio intende
porsi come espressione della comunità ecclesiale: è l’orizzonte
della scuola cattolica, che con la sua finalità educativa è al
servizio del Paese, ma ancora si scontra con disattenzioni,
incomprensioni e chiusure di natura ideologica. Per questo
il Consiglio Permanente ha approvato una Nota pastorale
– curata dalla Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università – dal titolo La scuola cattolica,
risorsa educativa della Chiesa locale per la società.
Il testo vede la luce in un contesto gravido di preoccupazioni sul futuro stesso di molte scuole cattoliche: pesano
i tagli dei finanziamenti e la mancanza di un autentico sostegno nella linea della sussidiarietà; pesano le riduzioni di
personale religioso e le difficoltà a promuovere una proposta
più unitaria tra le diverse realtà; soprattutto – hanno evidenziato i Vescovi – pesano pregiudizi e resistenze che riducono
a enunciato puramente nominale il riconoscimento della parità scolastica.
Queste difficoltà – hanno rilevato – permangono, nonostante la funzione assicurata dalle scuole cattoliche rappresenti per l’amministrazione statale un significativo risparmio
anche sul piano economico: le sovvenzioni pubbliche di cui
esse sono destinatarie rimangono lontane da quelle di cui beneficiano gli altri istituti; paradossalmente, in Paesi più «laici»
– quali, ad esempio, la Francia – il sostegno è significativamente maggiore.
A partire dall’esperienza concreta, il confronto tra i Vescovi ha fatto emergere i valori della scuola cattolica: l’originalità di una proposta culturale che muove da un progetto
educativo, raccoglie con responsabilità le sfide del tempo presente e forma le giovani generazioni alla vita futura. Lo fa con
una proposta di qualità che è a vantaggio di tutta la collettività e che si esprime nell’attenzione alla persona (significativa,
al riguardo, la cura dei soggetti più deboli, come pure il fatto
che le paritarie non conoscano dispersione scolastica); nella
preparazione di programmi rispondenti al bisogno culturale
e professionale, che agevola significativamente anche gli
sbocchi occupazionali; nelle motivazioni e nelle competenze
del suo personale.
Per queste ragioni il Consiglio Permanente, oltre ad approvare la Nota pastorale, rilancia con forza al Governo la
richiesta di politiche coerenti, che garantiscano finanziamenti
certi e in prospettiva pluriennale, recuperando da subito l’intero fondo destinato alle paritarie e poi in parte reso indisponibile dal patto di stabilità.
3. Con Cristo vergine, povero e obbediente
Una particolare espressione di vita consacrata, dalle radici antiche e rifiorita con tratti inediti nella stagione postconciliare, è costituita dall’Ordo Virginum, presente oggi in Italia in 113 diocesi: alle circa 500 consacrate se ne affiancano
quasi altrettante in fase di discernimento e di formazione.
Fra i tratti distintivi che concorrono a descrivere tale carisma
vi sono la sequela di Cristo vergine, povero e obbediente, la
dedizione alla Chiesa particolare e la vita nel mondo, nonché
un rapporto specifico con il Vescovo, responsabile del discernimento, dell’ammissione alla consacrazione – e della sua
celebrazione –, della formazione e dell’accompagnamento.
A fronte della significatività di questa vocazione, da
tempo i Vescovi chiedevano orientamenti e indicazioni
per elaborare criteri comuni e attivare prassi condivise. In
questa prospettiva la Commissione Episcopale per il clero
e la vita consacrata ha presentato al Consiglio Permanente
– ottenendone l’approvazione – la Nota pastorale L’Ordo
Virginum nella Chiesa in Italia. Mentre offre punti di riferimento per orientare scelte concordi nelle Chiese particolari, essa esprime un’attenzione incoraggiante nei confronti
delle vergini consacrate, insieme all’aspettativa che con il
tempo questa esperienza evangelica consenta di portarne
a più compiuta maturità i percorsi formativi, il loro stile di
presenza nella Chiesa, le forme della loro missione e i tratti
della loro spiritualità.
Il Regno -
documenti
7/2014
231
C
hiesa in Italia
4. Annuncio e catechesi
6. Statuto e Regolamento
Il Consiglio Permanente ha ampiamente condiviso una
positiva valutazione del testo Incontriamo Gesù. Orientamenti
per l’annuncio e la catechesi – presentato dalla Commissione
Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi
– che verrà portato alla discussione della prossima Assemblea Generale. Sul solco del Documento Base Il Rinnovamento della catechesi (1970), che rimane la «magna charta»,
i Vescovi hanno sottolineato il valore della catechesi per gli
adulti come punto fondamentale dell’impegno pastorale delle
parrocchie e l’importanza della pastorale di primo annuncio
e della formazione di sacerdoti, diaconi e catechisti nell’ambito della catechesi; hanno, inoltre, evidenziato il valore del
Mandato del Vescovo ai catechisti. In sintonia con l’Evangelii gaudium, il testo intende mostrare l’intimo e organico
rapporto tra annuncio e catechesi nell’orizzonte dell’azione
evangelizzatrice della Chiesa. Frutto di un’ampia e articolata
consultazione, legge l’attuale contesto ecclesiale alla luce del
cammino delle Chiese che sono in Italia, del magistero del
Papa e delle linee pastorali espresse dall’episcopato. In particolare, dedica un intero capitolo alla catechesi per l’iniziazione cristiana di bambini e ragazzi tenendo conto anche dei
nuovi itinerari espressi in numerose Diocesi italiane.
Nei suoi lavori in vista dell’Assemblea Generale del
prossimo maggio il Consiglio Permanente ha esaminato le
proposte di emendamento dello Statuto e del Regolamento
della CEI, formulate sulla base del confronto maturato nelle
Conferenze Episcopali Regionali in seguito alle indicazioni
del Papa.
Gli ambiti riguardano la nomina del Presidente, per la
quale si prevede una consultazione dei Vescovi, riservando
comunque la decisione al Santo Padre; le modalità di contribuzione alla relazione del Presidente, quale momento espressivo forte della CEI sulla vita della Chiesa e della società civile; la natura, i compiti e la composizione delle Commissione
Episcopali, nel loro riferimento all’Assemblea Generale, al
Consiglio Episcopale Permanente e alla Presidenza e nei loro
rapporti con la Segreteria Generale; infine, la valorizzazione
delle Conferenze Episcopali Regionali.
5. Da Torino a Firenze
Il tema della famiglia è tornato all’attenzione dei membri
del Consiglio Permanente con la presentazione della bozza
del Documento conclusivo della XLVII Settimana Sociale
dei Cattolici Italiani (Torino, 12-15 settembre 2013), dedicata a La famiglia, speranza e futuro della Società Italiana.
Il testo, intitolato La famiglia fa differenza, si articola in
quattro parti: la prima richiama l’attuale contesto di crisi
che in molti casi ha ridimensionato in modo drastico non
solo il reddito, ma anche la libertà e la dignità di famiglie
già impoverite dalla crisi demografica; la seconda parte affronta questa situazione con uno sguardo di fede e, quindi,
di speranza, rilanciando il progetto di famiglia che scaturisce
dal sacramento del matrimonio. In continuità con la precedente Settimana Sociale di Reggio Calabria, la terza parte
del Documento focalizza alcune priorità urgenti per una ragionevole agenda della famiglia. La quarta e ultima parte è
dedicata all’impegno particolare dei laici, sia quali protagonisti principali dell’esperienza familiare sia in quanto portatori
di una missione propria nell’ambito politico.
I Vescovi hanno evidenziato come si tratti di contenuti
preziosi pure per il cammino di preparazione al 5° Convegno
Ecclesiale Nazionale, che si svolgerà a Firenze nel 2015 sul
tema dell’umanesimo incentrato in Gesù Cristo e che avrà il
suo momento più alto nell’incontro con il Santo Padre. Una
comunicazione specifica, relativa a tale appuntamento, ha
sottolineato l’importanza che in questa fase le diocesi, le facoltà teologiche e le aggregazioni laicali lavorino per individuare esperienze particolarmente significative circa il tema
del Convegno: costituiranno la materia principale del Documento base dell’incontro, che sarà predisposto per il prossimo
autunno. Nel frattempo, si sta approntando un apposito sito
Internet che sarà pubblicato entro Pasqua.
232
Il Regno -
documenti
7/2014
7. Varie
Nel corso di questa sessione primaverile il Consiglio
Permanente ha approvato il tema principale (Educazione
cristiana e missionarietà alla luce dell’Esortazione apostolica
Evangelii gaudium) e l’ordine del giorno dell’Assemblea
Generale, che si svolgerà in Vaticano, nell’aula del Sinodo,
da lunedì 19 a giovedì 22 maggio prossimi: su invito del
Cardinale Presidente, sarà aperta dall’intervento del Santo
Padre, che ha confidato di aver avuto in animo la medesima
intenzione.
Il Consiglio Permanente ha accolto la richiesta di riconoscimento canonico dell’Associazione Fede e Luce, approvandone lo statuto a norma del can. 299 § 3 del Codice
di Diritto Canonico. Ha quindi approvato la proposta di
ripartizione dei fondi otto per mille da presentare all’Assemblea Generale e la determinazione del contributo da
assegnare ai Tribunali ecclesiastici regionali per l’anno in
corso; ha dato il nulla osta per l’avvio dell’iter per la traduzione del Messale Romano in lingua friulana. Infine, ha
approvato il calendario delle attività della CEI per l’anno
pastorale 2014-2015.
8. Nomine
Nel corso dei lavori, il Consiglio Permanente ha proceduto alle seguenti nomine:
– Consulente ecclesiastico nazionale della Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (UCID): S. Em. Card. Salvatore De Giorgi (Arcivescovo emerito di Palermo).
– Membri del Collegio dei revisori dei conti della Fondazione Migrantes: Dott. Diego Barbato; Don Rocco Pennacchio, Economo della CEI; Ing. Fabio Porfiri.
– Consulente ecclesiastico nazionale dell’Associazione
Italiana Ascoltatori Radio e Televisione (AIART): Don Ivan
Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI.
Roma, 28 marzo 2014.
C
hiesa in Italia |
violenze sui minori
Chierici e minori:
linee guida / 2
Episcopato italiano
Il Consiglio permanente della CEI
nella riunione di fine gennaio (cf.
Regno-doc. 3,2014,975ss) ha licenziato il nuovo testo delle Linee guida
per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici.
Come indica la Nota redazionale
della stessa CEI, la prima versione
(Regno-doc. 11,2012,362), che era
stata approvata dall’Assemblea dei
vescovi nel maggio 2012, ha ricevuto «alcune osservazioni e suggerimenti» da parte della Congregazione per la dottrina della fede con
una comunicazione del 7 maggio
2013. Così, «recependo tali indicazioni e suggerimenti, la Conferenza
episcopale italiana ha provveduto a
rivedere le disposizioni del testo originario e a riformulare i periodi segnalati come richiesto». Il testo – che
qui pubblichiamo e le cui parti variate sono evidenziate in colore – integra il precedente laddove dichiara
la necessità «morale» che il vescovo
contribuisca «al bene comune» e ribadisce che la «presentazione della
denuncia in ambito canonico non
comporta né implica in alcun modo
la privazione o la limitazione del diritto di sporgerla innanzi alla competente autorità giudiziaria civile».
Stampa (31.3.2014) da sito web www.chiesacattolica.it.
Il Regno -
documenti
7/2014
Nota redazionale
Con lettera circolare del 3.5.2011 la Congregazione
per la dottrina della fede ha fornito alcune indicazioni
per i casi di abusi sessuali perpetrati da chierici ai danni
di minori e invitato le conferenze episcopali a predisporre su questa base, entro maggio 2012, delle proprie
linee guida che tenessero «in considerazione le situazioni
concrete delle giurisdizioni appartenenti alla conferenza
episcopale».
Facendo seguito a tali indicazioni è stato predisposto un testo di Linee guida della Conferenza episcopale
italiana, la cui prima bozza è stata presentata e discussa
nel corso del Consiglio episcopale permanente del 2629.9.2011; successivamente, tenuto conto delle indicazioni emerse nel dibattito, è stato preparato il testo delle
Linee guida che ha ricevuto l’approvazione del Consiglio
episcopale permanente nella sessione del 23-26.1.2012,
con la successiva presentazione all’Assemblea generale
del 21-25.5.2012. Questo testo – che non presenta carattere giuridicamente vincolante e quindi non necessita
della recognitio della Santa Sede – è stato trasmesso alla
Congregazione per la dottrina della fede con lettera del
27.5.2012 (Regno-doc. 11,2012,362ss).
Con successiva comunicazione del 7.5.2013, la stessa
Congregazione ha trasmesso alla Conferenza episcopale
italiana alcune osservazioni e suggerimenti circa il testo
delle Linee guida predisposto dalla Conferenza.
Recependo tali indicazioni e suggerimenti, la Conferenza episcopale italiana ha provveduto a rivedere le
disposizioni del testo originario e a riformulare i periodi
segnalati così come richiesto; il testo risultante da tale
revisione è stato approvato dal Consiglio permanente del
27-29.1.2014 e quindi trasmesso alla Congregazione con
comunicazione del 13.2.2014.
Premessa
Il triste e grave fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte di chierici sollecita un rinnovato
impegno da parte della comunità ecclesiale, chiamata ad
233
C
hiesa in Italia
AIMONE GELARDI
affrontare la questione con spirito di giustizia, in conformità alle presenti Linee guida.
In quest’ottica, assume importanza fondamentale
anzitutto la protezione dei minori, la premura verso le
vittime degli abusi e la formazione dei futuri sacerdoti e
religiosi.
Il vescovo che riceve la denuncia di un abuso deve
essere sempre disponibile ad ascoltare la vittima e i suoi
familiari, assicurando ogni cura nel trattare il caso secondo giustizia e impegnandosi a offrire sostegno spirituale e psicologico, nel rispetto della libertà della vittima
di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più
opportune.
Una speciale cura deve essere posta nel discernimento vocazionale dei candidati al ministero ordinato
e delle persone consacrate, nell’iter di preparazione al
diaconato e al presbiterato. Piena osservanza deve essere
assicurata alle previsioni contenute nel Decreto generale
circa la ammissione in seminario di candidati provenienti
da altri seminari o famiglie religiose della Conferenza
episcopale italiana (27.3.1999), riservando una rigorosa
attenzione allo scambio d’informazioni in merito a quei
candidati al sacerdozio o alla vita religiosa che si trasferiscono da un seminario all’altro, tra diocesi diverse o tra
istituti religiosi e diocesi.
Il vescovo tratterà i suoi sacerdoti come un padre e un
fratello, curandone la formazione permanente e facendo
in modo che essi apprezzino e rispettino la castità e il
celibato e approfondiscano la conoscenza della dottrina
della Chiesa sull’argomento.
In linea con quanto richiesto dalla Congregazione
per la dottrina della fede nella Lettera circolare per aiutare le Conferenze episcopali nel preparare linee guida per
il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di
minori da parte di chierici del 3.5.2011, il presente testo
è diretto a facilitare la corretta applicazione della normativa canonica vigente in materia nonché a favorire un
corretto inquadramento della problematica in relazione
all’ordinamento dello stato.1
I. Profili canonistici
1. Notizie di condotte illecite
e giudizio di verosimiglianza
Quando il vescovo abbia notizia di possibili abusi
in materia sessuale nei confronti di minori a opera di
innanzi-chierici sottoposti alla sua giurisdizione, deve innanzi
tutto procedere ad espletare gli accertamenti di carattere
strettamente preliminare di cui al can. 1717 del Codice di
diritto canonico2 (di seguito CIC
CIC)) relativi alla verifica della
verosimiglianza della notitia criminis, affidando il relativo incarico, qualora fosse ritenuto giusto e opportuno,
a persona idonea di provata prudenza ed esperienza e
curando di tutelare al meglio la riservatezza di tutte le
persone coinvolte.
Restano fermi i vincoli posti a tutela del sigillo sacramentale.
Durante tale fase spetta al prudente discernimento
del vescovo la scelta di informare o meno il chierico delle
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sin dalle origini della Chiesa una raccolta
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Il Regno -
documenti
7/2014
accuse e di adottare eventuali provvedimenti nei suoi
confronti affinché si eviti il rischio che i fatti delittuosi
ipotizzati si ripetano, ferma restando la presunzione di
innocenza fino a prova contraria.3
Qualora, espletati i summenzionati incombenti prepreliminari e stimata positivamente la verosimiglianza della
notitia criminis,
criminis l’indagine previa appaia «assolutamente
superflua», il vescovo potrà deferire il chierico direttamente alla Congregazione per la dottrina della fede per
le determinazioni del caso (cf. CIC can. 1717, § 1; art. 17
Normae de delictis Congregationi pro doctrina fidei reservatis seu normae de delictis contra fidem necnon de gravioribus delictis).
Nel caso in cui invece escluda motivatamente la veroemetsimiglianza della notizia di delitto, il vescovo potrà emettere un decreto di archiviazione conservando nel suo
archivio segreto documentazione idonea a consentirgli
di attestare, ove risultasse necessario, l’attività svolta e i
motivi della decisione.
2. Indagine previa
Nel caso in cui, constatata la non manifesta infoninfondatezza della notitia criminis,
criminis, il vescovo proceda allo
svolgimento dell’indagine previa, dovrà essere osservato
il disposto di cui al CIC can. 1717. In particolare, quaqualora il vescovo non ritenga di dovervi procedere persopersonalmente, nomini a tal fine un presbitero investigatore
esperto in materia processuale e prudente nel discerdiscernimento, nonché un presbitero con funzioni di notaio.
L’indagine dovrà ricostruire: i fatti della condotta delitdelittuosa, il numero e il tempo degli atti delittuosi, le genegeneralità e l’età delle vittime, il danno arrecato, l’eventuale
commistione con il foro sacramentale, gli eventuali altri
delitti connessi, quantunque non «graviora»
«graviora»..
Nel corso dell’indagine potranno essere raccolti dodocumenti, testimonianze e informazioni, anche rogando
il vescovo di altre diocesi ove l’indagato abbia dimorato;
salvaguardata la fama attuale dell’accusato, dovranno
essere ascoltati la/e vittima/e e raccolti tutti i documenti
e provvedimenti dell’autorità civile, ove sussistenti; per
quanto possibile, si dovrà trattare la questione del danno
ex bono et aequo ex CIC can. 1718, § 4.
A meno di gravi ragioni in senso contrario, il chierico
accusato sia informato delle accuse e abbia l’opportunità
di rispondere alle medesime.
Durante l’indagine previa il vescovo ha il diritto di
adottare, ove lo ritenga necessario affinché si eviti il rischio
che i fatti delittuosi si ripetano, provvedimenti nei confronti
redel chierico accusato ex art. 19 delle Normae de delictis re-
servatis ferma restando la presunzione di innocenza fino
servatis,
a prova contraria. A tal fine, il semplice trasferimento del
chierico risulta generalmente inadeguato, ove non comporti anche una sostanziale modifica del tipo di incarico.
I provvedimenti eventualmente adottati, venendo
meno la causa, devono essere revocati con successivo
decreto e, comunque, cessano ipso iure al termine del
processo penale.4
I provvedimenti andranno presi ricercando per
quanto possibile la cooperazione del chierico interessato,
ma senza detrimento della loro efficacia;5 in ogni caso,
l’adozione dei provvedimenti non potrà essere subordinata al consenso del chierico.6
Specie ove l’addebito delle condotte in oggetto non sia
notorio, dovrà essere adottata ogni idonea cautela intesa
notorio
a evitare che quei provvedimenti pongano in pericolo la
buona fama del chierico. I provvedimenti assunti potranno
essere resi pubblici qualora sussistano valide ragioni.
Delle attività svolte durante l’indagine previa dovrà
essere conservata una completa documentazione, ai sensi
del CIC can. 1719.
Terminata l’indagine il vescovo la renderà nota alla
Congregazione per la dottrina della fede in base al didisposto dell’art. 16 delle Normae de delictis reservatis,
reservatis, così
che la stessa Congregazione possa assumere le decisioni
conseguenti.
3. Procedura a seguito dell’indagine previa
Di norma i delicta graviora devono essere perseguiti
«per via giudiziale» (art. 21, § 1, delle Normae de delictis
reservatis; Regno-doc. 15,2010,465).
Agli ordinari è affidato, salvo il diritto della ConCongregazione per la dottrina della fede di avocare a sé
la causa ex art. 16 delle Normae de delictis reservatis,
reservatis il
primo grado del processo penale, da compiere secondo
dicastero il quale costituisce
le indicazioni del predetto dicastero,
opin ogni caso il tribunale di seconda istanza. Appare opportuno assicurare in ogni diocesi la presenza di chiechierici, particolarmente distinti per prudenza ed esperienza
giuridica, che possano eventualmente essere chiamati a
far parte di un collegio giudicante. Salvo dispensa della
Congregazione per la dottrina della fede, tutti i soggetti
indicati devono essere sacerdoti provvisti di dottorato in
diritto canonico.
Nel caso in cui la Congregazione per la dottrina
della fede disponga di procedere per decreto extragiudiziale,7 il vescovo dovrà nondimeno garantire in modo
pieno al chierico accusato l’esercizio del diritto fondamentale alla difesa.8
1 Cf. allegati, qui omessi; cf. Regno-doc. 11,2012,365s.
2 CIC can. 1717, § 1: «Quoties ordinarius notitiam, saltem verisimilem, habeat de delicto (…)».
3 Nella Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la dottrina della fede riguardo alle accuse di abusi sessuali
si legge: «In realtà, al vescovo locale è sempre conferito il potere di
tutelare i bambini limitando le attività di qualsiasi sacerdote nella sua
diocesi. Questo rientra nella sua autorità ordinaria, che egli è sollecitato a esercitare in qualsiasi misura necessaria per garantire che i
bambini non ricevano danno, e questo potere può essere esercitato a
discrezione del vescovo prima, durante e dopo qualsiasi procedimento
canonico»; Regno-doc. 9,2010,261.
4 Cf. CIC can. 1722.
5 Escludendo il pericolo di reiterazione dei fatti addebitati, simili provvedimenti possono produrre effetti favorevoli anche rispetto
allo stesso chierico interessato, assumendo rilievo circa l’adozione di
eventuali misure cautelari da parte dell’autorità giudiziaria statale. Si
rammenti, in proposito, che per i delitti di prostituzione minorile, pornografia minorile e violenza sessuale l’art. 275, § 4 del Codice di procedura penale prevede di regola l’applicazione della custodia cautelare
in carcere, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari».
6 Cf. CIC can. 1722.
7 Cf. Normae de delictis reservatis, art. 21.
8 Cf. CIC can. 1720.
.
Il Regno -
documenti
7/2014
235
C
hiesa in Italia
Le misure canoniche applicate nei confronti di un chierico riconosciuto colpevole dell’abuso sessuale di un minorenne sono generalmente di due tipi: 1) misure che restringono il ministero pubblico in modo completo o almeno
escludendo i contatti con minori. Tali misure possono essere
accompagnate da un precetto penale; 2) pene ecclesiastiche,
fra cui la più grave è la dimissione dallo stato clericale.
Le pene perpetue non possono essere inflitte o dichiarate attraverso decreto extragiudiziale (cf. CIC can.
1342, § 2), salvo il caso in cui la Congregazione per la
dottrina della fede abbia previamente autorizzato in tal
senso l’autorità ecclesiastica incaricata tramite mandato
ex art. 21, § 2, n. 1 delle Normae de delictis reservatis.
reservatis. In
mancanza del predetto mandato, il vescovo dovrà a tal
fine rivolgersi alla Congregazione per la dottrina della
fede, che potrà anche far uso del potere di deferimento
della decisione al sommo pontefice, secondo la previsione
dell’art. 21, § 2, n. 2 delle Normae de delictis reservatis.
La Congregazione per la dottrina della fede ha anche
la facoltà di portare direttamente davanti al santo padre
i casi più gravi per la dimissione ex officio.
È opportuno che una documentazione del caso rimanga nell’archivio segreto della Curia (cf. CIC cann.
489. 490, § 1. 1719).
In ogni momento delle procedure disciplinari o penali
sarà assicurato al chierico un giusto sostentamento, nonché
la possibilità di esercitare il fondamentale diritto alla difesa.
Il chierico riconosciuto colpevole potrà attuare un
percorso impegnativo di responsabilizzazione e di serio
rinnovamento della sua vita, anche attraverso adeguati
percorsi terapeutico-riabilitativi e la disponibilità a condotte riparative.
II. Profili penalistici
e rapporti con l’autorità civile
4. Autonomia del procedimento canonico
Il procedimento canonico per gli illeciti in oggetto è
autonomo da quello che si svolga per i medesimi illeciti
secondo il diritto dello stato.
Di conseguenza, il vescovo, da un lato, non può far riferimento ad atti o conclusioni definitive o non definitive
del procedimento statale onde esimersi da una propria
valutazione e/o per far valere presunzioni ai fini del procedimento canonico. Dall’altro lato, anche se non risulti
in atto un procedimento penale nel diritto dello stato
(ricomprendendosi in esso anche la fase delle indagini
preliminari), dovrà ugualmente procedere senza ritardo
secondo quanto previsto al numero 1 delle presenti Linee
guida, ove abbia avuto notizia di possibili abusi, al giudizio di verosimiglianza e, se necessario, all’indagine previa
e all’adozione degli opportuni provvedimenti cautelari.
5. Cooperazione con l’autorità civile
Nel caso in cui per gli illeciti in oggetto siano in atto indagini o sia aperto un procedimento penale secondo il diritto
dello stato, risulterà importante la cooperazione del vescovo
con le autorità civili, nell’ambito delle rispettive competenze
e nel rispetto della normativa concordataria e civile.
236
Il Regno -
documenti
7/2014
I vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di
esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ministero (cf. Codice di procedura penale artt. 200 e 256; Accordo [18.2.1984] che apporta modificazioni al Concordato lateranense [11.2.1929]
tra la Repubblica italiana e la Santa Sede [L. 25.3.1985,
n. 121] artt. 2, § 1, e 4, § 4).
Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti
dall’autorità giudiziaria dello stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro.
Rimane ferma l’inviolabilità dell’archivio segreto del
vescovo previsto dal CIC can. 489, e devono ritenersi sottratti a ordine d’esibizione o a sequestro anche registri e
archivi comunque istituiti ai sensi del CIC, salva sempre
la comunicazione volontaria di singole informazioni.
Nell’ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo
la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico – salvo il dovere
morale di contribuire al bene comune – di denunciare
all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee
guida. L’affermazione presente nella Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per
la dottrina della fede riguardo alle accuse di abusi sessuali
e poi ripresa nella Lettera circolare della stessa Congregazione del 3.5.2011, secondo la quale «va sempre dato
seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte,
senza pregiudicare il foro interno sacramentale», deve
essere intesa in linea con quanto previsto dal diritto italiano (Regno-doc. 11,2011,335).
La presentazione della denuncia in ambito canonico
non comporta né implica in alcun modo la privazione o
la limitazione del diritto di sporgerla innanzi alla compecompetente autorità giudiziaria civile. Qualora il denunciante
dovesse decidere di sporgere denuncia in sede civile, la
competente autorità ecclesiastica, nel rispetto della vivigente normativa canonica e civile, provvederà a fornirgli
tutto l’aiuto spirituale e psicologico necessario, con ogni
premura verso le vittime.
III. Il servizio della Segreteria generale
della Conferenza episcopale italiana
6. Nel quadro normativo brevemente richiamato,
ferma restando la competenza della Congregazione per
la dottrina della fede, la procedura relativa ai singoli casi
spetta di regola all’ordinario del luogo ove i fatti stessi
sono stati commessi.
Nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli
eventuali abusi sussiste in capo alla Santa Sede o alla
Conferenza episcopale italiana.
La Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana assicura la sua disponibilità per ogni esigenza che sarà
rappresentata, in spirito di servizio alle Chiese che sono in
Italia e di condivisa sollecitudine per il bene comune.
Il presente testo è stato approvato dal Consiglio episcopale permanente nella sessione del 27-29.1.2014.
C
hiesa in Italia |
sicilia
Il nodo della
classe dirigente
L
I vescovi siciliani e l’attuale
congiuntura della Regione
La classe dirigente siciliana, non
solo quella politica, «dovrebbe caratterizzarsi sempre, e a maggior
ragione in questa fase, con la cifra
del rigore etico e della competenza
socio-politica». È il passaggio più
incisivo di queste «riflessioni circa
la situazione economica, sociale e
politica», rese pubbliche dai vescovi
siciliani lo scorso 19 febbraio, e che
hanno come interlocutore principale
l’amministrazione regionale (quella
attuale è in carica da 16 mesi, ma la
sua fragile maggioranza è già entrata in difficoltà). La critica dei
vescovi, «che non riguarda solo i livelli istituzionali e politici ma chiunque eserciti ruoli di responsabilità
verso gli altri e che, come cristiani,
ci esorta a recitare il mea culpa su
noi stessi, prima che sugli altri, per
le tante omissioni o pavidità» (ivi),
si snoda attraverso la segnalazione
di alcune aree più bisognose d’intervento (politiche sociali e della famiglia, immigrazione, riforme del
governo locale, occupazione giovanile) e culmina nella riaffermazione
«dell’incompatibilità del Vangelo
con la mafia e la sub-cultura che ne
deriva» (n. 8)
Stampa (15.3.2014) da sito web www.chiesedisicilia.org.
Il Regno -
documenti
7/2014
o sguardo «verso la realtà siciliana, l’attenzione verso i bisogni assai gravi delle fasce
più deboli, l’ascolto delle voci preoccupate
per la situazione della popolazione, il giudizio che come pastori siamo chiamati a dire
e a dare ci hanno convinti che in questo momento non
possiamo tacere».
Con queste parole si apriva il documento del 9 ottobre 2012, Amate la giustizia voi che governate sulla
terra, con il quale, come vescovi di Sicilia, proponevamo le nostre riflessioni sulla situazione sociale e politica del momento, proprio in occasione delle incipienti
elezioni regionali.
Sono trascorsi sedici mesi da allora e le urgenze
che ci avevano indotti a non tacere sulla gravità della
condizione in essere appaiono, oggi, aggravarsi notevolmente, così da rendere necessario il prendere nuovamente la parola.
1. La crisi in atto e l’urgenza
di un profondo cambiamento
La crisi che stiamo vivendo già da tempo ci chiama a
misurarci con nuove sfide rispetto alle quali nessuno può
essere lasciato indietro, senza che si possa immaginare un
semplice ritorno a equilibri passati.
Siamo a un tornante delicato della storia nel quale,
particolarmente come cristiani, ci sentiamo spinti a
raggiungere quelle «periferie esistenziali», indicate più
volte dal santo padre Francesco, offrendo quel supplemento di testimonianza e condivisione di cui specie i più
poveri hanno bisogno per fare concreta esperienza della
carità di Cristo.
La crisi economica nella nostra Regione, oltre a
coinvolgere qualche grande azienda, indotta a licenziare
o a diminuire la produzione e quindi le ore lavorative
per i dipendenti, sta interessando tante piccole e medie
imprese (agricole, artigianali, commerciali), che costituiscono la trama connettiva della nostra economia, provocando la vulnerabilità e la povertà delle nostre famiglie,
che rischiano quotidianamente la propria coesione e la
propria sussistenza.
237
C
hiesa in Italia
2. L’avvio della legislatura regionale
Siamo consapevoli delle notevoli difficoltà che gravano su chi ha assunto ruoli di governo in Sicilia. In
forza della nostra missione di pastori, intendiamo tuttavia esercitare un discernimento sugli sviluppi allarmanti
che accompagnano questo primo periodo di attività
della legislatura.
Il primo nodo è proprio quello della classe dirigente,
non solo di quella politica, che dovrebbe caratterizzarsi
sempre, e a maggior ragione in questa fase, con la cifra
del rigore etico e della competenza socio-politica. Essa
costituisce la misura concreta di quella trasparenza nella
gestione della cosa pubblica richiesta da tutti i cittadini,
per non rimanere una ripetitiva evocazione retorica, utile
solo a ottenere un generico consenso elettorale e mediatico e non per affrontare adeguatamente i tanti problemi
che sono sul tappeto.
In verità si tratta di un’esigenza che non riguarda solo
i livelli istituzionali e politici ma chiunque eserciti ruoli
di responsabilità verso gli altri e che, come cristiani, ci
esorta a recitare il mea culpa su noi stessi, prima che sugli
altri, per le tante omissioni o pavidità.
La società siciliana al suo interno possiede una riserva
di capacità e competenze che attendono di essere poste a
servizio di tutti per sostenere, nella corresponsabilità, la
speranza delle siciliane e dei siciliani.
3. Una visione di lungo periodo
per lo sviluppo della Sicilia
La mancanza di un virtuoso e tempestivo utilizzo
delle risorse dell’Unione Europea, ancora a disposizione
della Sicilia, sembra essere una deprecabile costante
delle politiche pubbliche regionali, circostanza ancor
più grave se si considera che con un bilancio interamente ingessato dalla spesa corrente, proprio i fondi comunitari restano (o meglio resterebbero) l’unica risorsa
finanziaria significativa per promuovere la crescita dei
nostri territori.
A monte di questa incapacità risiede certamente un
deficit di programmazione e di prospettiva progettuale,
frutto di una logica miope fatta di localismi e frammentazione, priva di ampio respiro e perciò incapace di innescare mutamenti strutturali e di generare autentico e
duraturo sviluppo.
Tutto ciò non basta, però, a giustificare il gravissimo
ritardo accumulatosi nell’uso delle risorse, col rischio di
perderle a vantaggio di altri territori europei. Occorre
ribadire con chiarezza la necessità del buon funzionamento della macchina amministrativa regionale, le cui
distorsioni, corruttele e inefficienze vanno certamente
corrette con decisione, ma in una prospettiva generale
di valorizzazione e riconoscimento delle competenze
personali. In particolare una dirigenza pubblica continuamente delegittimata e resa precaria in funzione della
fedeltà politica, più che spronata e responsabilizzata in
ragione di un’effettiva professionalità, non costituisce di
238
Il Regno -
documenti
7/2014
certo la chiave di volta verso l’efficienza e la stabilità organizzativa, condizioni necessarie a fare presto e bene
per non disperdere risorse preziose.
Ulteriore preoccupazione suscita il tema del prossimo
ciclo di programmazione comunitaria 2014/2020, col
quale supportare le dinamiche di sviluppo dei prossimi,
e probabilmente decisivi, sette anni. Nulla o quasi è dato
conoscere in ordine all’orizzonte strategico che l’amministrazione regionale intende perseguire in questa delicatissima fase decisionale: né idee, né dibattiti, né confronti
in grado di stimolare una partecipazione e un coinvolgimento diffusi della compagine economica e sociale, ma
solo passaggi e documenti definiti nelle sedi burocratiche
di confronto.
La costante appare, pertanto, quella di una continua
rincorsa alla gestione emergenziale del contingente, rispetto alla quale proprio l’ormai cronica carenza finanziaria della Regione dovrebbe suggerire ben altro slancio
progettuale e capacità di analisi. In altri termini bisogna
cambiare passo se si vuole operare un’inversione di tendenza che scongiuri il tracollo dell’Isola.
4. Le politiche sociali e la famiglia
Altrettanto drammatico è quanto sta accadendo sul
fronte delle politiche sociali e della famiglia. Alle promesse e ai proclami volti a sostenere i tanti poveri della
nostra Regione sono seguite scelte assolutamente parziali
e insufficienti, se non contraddittorie, che mostrano una
grave insensibilità verso il tema delle vecchie e nuove povertà, purtroppo in costante aumento.
L’annuncio della cancellazione della ormai nota
Tabella H, ancora una volta non ha avuto un effettivo
seguito. L’introduzione di nuovi criteri di selezione
nell’uso di questi fondi avrebbe dovuto garantire una
gestione più trasparente e appropriata delle risorse da
attribuire ai diversi organismi del privato sociale che
operano meritoriamente da anni nel mondo del bisogno
e del disagio. In realtà, in questo altalenante e incerto
contesto, i soggetti più qualificati ed efficienti, che con
un investimento pubblico assai limitato potrebbero innescare dinamiche di rete e solidarietà vera nella risposta
ai bisogni primari, soprattutto delle fasce deboli della
popolazione, come quello alimentare, sono state messe
definitivamente in ginocchio.
Il Governo regionale ha ritenuto, ancora, di dovere
contraddistinguere le proprie scelte in tema di welfare
introducendo nell’ultima legge finanziaria una generica
estensione dei diversi benefici previsti dalla legislazione
regionale a favore della famiglia anche alle coppie di
fatto, purché registrate in appositi registri delle unioni
civili eventualmente istituiti dai comuni.
Si tratta di una strada intrapresa all’insegna di una
lettura alquanto approssimativa e inconsapevole dei bisogni più diffusi e delle urgenze più avvertite dal tessuto
familiare siciliano, frutto probabile di qualche venatura
ideologica accompagnata da una disarmante approssimazione giuridica, peraltro rilevata dallo stesso commissario dello stato.
Tale venatura, è bene ribadirlo, poco o nulla ha a che
fare con una tutela autentica di quell’inviolabile dignità e
di quel valore unico che a ogni persona, in quanto voluta
e amata da Dio, vanno sempre riconosciuti, quale che sia
la sua condizione di vita personale, in una prospettiva
sulla quale come Chiese di Sicilia ci sentiamo particolarmente impegnati.
Invece è stato del tutto trascurato l’obiettivo di rifinanziare e attuare pienamente la legge regionale sulla
promozione e valorizzazione della famiglia di cui la Regione già dispone (L.r. n. 10 del 2003), aperta a una visione organica e innovativa della politica pubblica alla
luce dei mutamenti sociali in essere nelle dinamiche e
negli assetti di vita propri dell’esperienza familiare.
le stesse competenze della Regione, che per gran parte
vengono esercitate, ancora oggi, nell’ambito di circoscrizioni provinciali.
Il Governo regionale ha, tuttavia, privilegiato un diverso approccio, determinato essenzialmente da esigenze
di protagonismo mediatico, gettando nel caos le amministrazioni provinciali siciliane con gravi disagi per taluni
settori della vita sociale, come l’istruzione e le infrastrutture, o le società partecipate con ricadute sui cittadini.
Auspichiamo, quindi, che il dibattito di queste settimane possa ricondursi a minore improvvisazione e
a maggiore senso di responsabilità senza rinunciare, a
costo di riconoscere eventuali errori sin qui compiuti,
all’esercizio di una seria attività legislativa che sappia
anteporre il bene di tutti i cittadini a quello di interessi
di parte.
5. L’accoglienza dei migranti
Una rinnovata attenzione specifica deve essere rivolta agli effetti preoccupanti del crescente fenomeno
delle migrazioni interne ed esterne. Non si tratta di una
semplice emergenza da fronteggiare, ma di un fenomeno
dai connotati strutturali, destinato a segnare nei prossimi
decenni la vita di interi popoli e nazioni, riscoprendo che
l’unico modo di vivere l’attenzione all’altro è un’autentica fraternità.
I primi a mostrare questa consapevolezza sono stati
proprio i cari abitanti di Lampedusa, che hanno offerto al
mondo la testimonianza credibile di un’accoglienza praticata come autentica carità evangelica. Lo stesso dicasi
delle altre città costiere interessate dal fenomeno degli
sbarchi. Il loro esempio costituisce un monito per la coscienza di ciascuno di noi e, particolarmente, per quella
di coloro che sono chiamati a responsabilità pubbliche.
Esistono, in proposito, livelli diversi di competenze e
responsabilità che, come quello europeo, attendono ancora di essere pienamente esercitati. Rimaniamo convinti,
tuttavia, dell’opportunità che ogni intervento, nell’ottica
del principio di sussidiarietà, si ispiri alla promozione e al
sostegno delle esperienze che sul campo già offrono esempi
espressivi di accoglienza e integrazione, valorizzandone
modelli d’intervento proposti e dinamiche di rete attivate.
7. I giovani e il lavoro
Non occorrono sofisticate analisi per comprendere
quale sia l’attuale condizione, tristemente rappresentata dal 35,7% di NEET, giovani in età compresa tra
i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non
fanno formazione.
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Auspichiamo vivamente,
in questo9:19
campo,
una radi1 15-02-2014
Pagina
1
cale rivisitazione delle priorità politiche regionali, fondata sul riconoscimento delle nostre risorse umane quale
primo e decisivo fattore di intervento per la crescita e
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consultati della Sacra Scrittura alla possibilità di usufruire dei commenti e delle
note della Bibbia di Gerusalemme.
6. L’abolizione delle province
e la riforma del governo locale
Suscita allarme e preoccupazione l’irrisolta vicenda
della tanto propagandata riforma delle province, che finora ha prodotto solo l’abolizione dell’esistente e il protrarsi delle gestioni commissariali.
Nel pur lodevole intento di ridurre i costi degli apparati politici, non è stata tenuta in adeguata considerazione la circostanza che l’ente provinciale è parte di un
più complesso sistema di governo locale, peraltro delineato nell’ambito di una precisa cornice costituzionale e
non solo statutaria.
La soppressione o la modifica del sistema delle province doveva, pertanto, inquadrarsi in un organico processo di riforma istituzionale chiamato a riconsiderare
Il Regno -
documenti
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C
hiesa in Italia
lo sviluppo, per non alimentare sacche clientelari e per
scongiurare un ennesimo fallimento.
La tormentata vicenda della formazione professionale sembra seguire, purtroppo, una direzione diversa.
Alla doverosa denuncia di sprechi e malaffare consumati sul futuro dei nostri giovani, che magistratura e
forze dell’ordine stanno perseguendo con encomiabile
decisione, ha fatto seguito un sostanziale vuoto di iniziativa. Valga per tutti l’esempio del progressivo depauperamento dell’esperienza di formazione professionale
in capo ai salesiani e ad altre congregazioni religiose ed
enti che, fino a oggi, ha sempre ottenuto riconoscimenti
estremamente significativi sul mercato del lavoro, anche
oltre i confini regionali, per la qualità dell’offerta e per i
risultati conseguiti; continuando di questo passo l’anno
prossimo si potrà scrivere solo la storia di queste istituzioni, prossime al collasso.
In una regione con un bassissimo tasso di industrializzazione, investire sul capitale umano significa guardare al ruolo del sistema educativo e universitario. Ma
anche in questo caso l’urgenza del quotidiano tende
a diventare l’alibi per rinunciare a una logica di più
ampio respiro.
Eppure, tra le pieghe del nostro pur fragile apparato economico, possiamo scoprire gli esempi virtuosi di
quanti hanno accettato e vinto la scommessa di intraprendere e di restare: come Chiese di Sicilia continuiamo
a scommettere nella metodologia e profezia del Progetto
Policoro, nel quale intendiamo investire con rinnovato
entusiasmo e con nuove risorse.
Certamente esiste una grave questione sociale legata
a forme storiche di lavoro precario rispetto alle quali non
deve essere disconosciuta o tradita la dignità dei lavoratori. Tuttavia rifiutiamo con decisione l’idea che quella
del precariato sia la sola politica del lavoro possibile in
Sicilia stante la grave criticità finanziaria della Regione,
che appare all’esterno come il perpetuarsi di una logica
assistenzialistica. Il rischio elevatissimo rimane, infatti,
quello di alimentare nuovi bacini clientelari, utili a gestire consenso piuttosto che promuovere interventi in
grado di valorizzare percorsi educativi, risorse umane,
merito e capacità d’intrapresa, anche a costo di qualche
impopolarità.
8. I costi della politica
Responsabili della cosa pubblica e partiti fanno, di
questi tempi, della riduzione dei costi della politica un
cavallo di battaglia. Questo impegno si deve fondare
sulla sobrietà e il decoro personale, che impegna ciascun
cittadino e amministratore e non può ridursi con generici
proclami e mere denunce.
Ridurre i costi della politica assume, oggi, una valenza etica prima che finanziaria, specie in un frangente
in cui vengono compiute scelte di natura fiscale che incidono in modo pesantemente crescente sui bilanci di tante
famiglie e di tante imprese. Incoraggiamo in questo senso
l’Assemblea regionale a proseguire coraggiosamente i
passi compiuti di recente, così come vogliamo apprez-
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Il Regno -
documenti
7/2014
zare anche le iniziative prese in tale direzione da alcuni
gruppi parlamentari.
Esiste un bisogno condiviso di moralità nella vita pubblica che chiama in causa il recupero di stili di vita, anche
personali, improntati a sobrietà e misura, elementi necessari per restituire credibilità alle diverse istituzioni che si
rappresentano e senza i quali il servizio al bene comune
si riduce a retorici appelli che sottendono, in realtà, ben
altri interessi.
In questa nostra riflessione non possiamo non riaffermare con forza l’assoluta e radicale incompatibilità
del Vangelo con la mafia e la sub-cultura che ne deriva,
come già fecero i vescovi nel documento conclusivo delle
Chiese di Sicilia Nuova evangelizzazione e pastorale del
1993: «Tale incompatibilità con il Vangelo è intrinseca
alla mafia per sé stessa, per le sue motivazioni e per le sue
finalità, oltre che per i mezzi e per i metodi adoperati. La
mafia appartiene, senza possibilità di eccezione, al regno
del peccato e fa dei suoi operatori altrettanti operai del
Maligno. Per questa ragione, tutti coloro che, in qualsiasi modo deliberatamente, fanno parte della mafia o ad
essa aderiscono o pongono atti di connivenza con essa,
debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, alla
sua Chiesa» (n. 12).
Nello stesso tempo, come insegna il martirio del beato
Giuseppe Puglisi, non possiamo ignorare un tema di
scottante attualità come l’eclatante riproporsi di gravissime e inquietanti intimidazioni mafiose che sembrano
riproporre il ritorno a cupe stagioni del passato.
La fermissima condanna di questo incedere minaccioso, unita alla più ampia solidarietà verso tutti
coloro che ne sono purtroppo destinatari per la sola
circostanza di compiere il proprio dovere come servitori dello stato, è solo il primo passo in un cammino
che tutti insieme siamo chiamati a compiere. Occorre
consolidare, infatti, la comune coscienza di popolo forgiato all’insegna di quella tradizione ideale e d’impegno
civile, tanto di matrice cattolica che laica, che parte così
rilevante ha avuto nella storia della Sicilia. Un tratto
molto importante di questa strada è stato percorso, in
questi anni, anche grazie alla testimonianza di quanti
hanno immolato la propria vita. Il loro sangue ha certamente generato nuova consapevolezza e nuova voglia
di riscatto che non può indurci, tuttavia, ad abbassare
la guardia.
Concludiamo affidando queste riflessioni, segno della
nostra cura pastorale, della condivisa partecipazione alle
difficoltà di tante famiglie siciliane e alle sofferenze dei
più poveri e degli ultimi, alla responsabilità e all’impegno
dell’intera comunità cristiana, così come di tutte le donne
e di tutti gli uomini animati da una sincera passione per il
bene comune, ancor necessaria per quanti sono chiamati
a responsabilità pubbliche nella nostra Regione.
Su di essa e su tutto il popolo siciliano, invochiamo
grazia e benedizione dal Signore.
Palermo, 19 febbraio 2014.
I vescovi di Sicilia
C
hiese nel mondo |
austria
Risposte
al questionario
sulla famiglia
L
Vescovi austriaci
La Chiesa cattolica austriaca ha aderito con grande convinzione alla consultazione lanciata dalla Santa Sede
attraverso il questionario allegato al
Documento preparatorio della III Assemblea generale straordinaria del
Sinodo dei vescovi, che si terrà dal 15
al 19 ottobre 2014 sul tema «Le sfide
pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione». Per una
Chiesa che conta dieci diocesi e circa
cinque milioni e mezzo di fedeli, le
oltre 34.000 risposte sono un numero
certamente significativo. La Conferenza episcopale austriaca ha pubblicato sul suo sito una sintesi dei risultati, elaborata dall’agenzia Kathpress.
Come nel caso della Chiesa tedesca
(cf. Regno-doc. 5,2014,162), le risposte
evidenziano una netta divergenza tra
l’insegnamento della Chiesa e la posizione dei fedeli, soprattutto sui metodi
anticoncezionali, sul trattamento dei
divorziati risposati e sui rapporti prematrimoniali. «Dalle risposte risulta
chiaramente che la Chiesa in pratica
non riesce a trasmettere in modo comprensibile il suo insegnamento su matrimonio, famiglia e morale sessuale».
Kathpress 21.1.2014, pubblicata anche sul sito
della Conferenza episcopale www.bischofskonferenz.at. Nostra traduzione dal tedesco.
Il Regno -
documenti
7/2014
a Chiesa cattolica in Austria ha registrato
oltre 34.000 risposte al questionario del papa
su matrimonio e famiglia. Per i cattolici austriaci, le affermazioni centrali – amore e fedeltà, matrimonio e famiglia – sono tuttora
grandi valori da perseguire. La religione occupa un posto
molto importante anche nelle relazioni e nelle famiglie,
come risulta ad esempio dal notevole accordo sull’educazione cristiana dei figli. Ma in molti punti l’insegnamento
della Chiesa e la posizione dei cattolici divergono chiaramente. La maggiore divergenza riguarda le questioni dei
metodi anticoncezionali, del trattamento dei divorziati
risposati, dei rapporti prematrimoniali e – meno chiaramente – dell’omosessualità.
La stragrande maggioranza dei cattolici è favorevole all’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti
dell’eucaristia (comunione) e della riconciliazione (confessione). Altrettanto preponderante è la maggioranza
di coloro che rifiutano il divieto dei metodi artificiali di
regolazione delle nascite da parte della Chiesa. A loro
avviso, la pianificazione familiare è una questione da lasciare alla responsabilità propria dei genitori.
Un punto critico centrale: la Chiesa non prende abbastanza sul serio la realtà del fallimento nel matrimonio
e nella famiglia. Inoltre in molte risposte si esprime il desiderio di un maggiore sviluppo dell’insegnamento della
Chiesa in materia. Dalle risposte risulta chiaramente che
la Chiesa in pratica non riesce a trasmettere in modo
comprensibile il suo insegnamento su matrimonio, famiglia e morale sessuale. Le affermazioni della Chiesa
sarebbero caratterizzate da un linguaggio lontano dalla
vita. Una percentuale molto alta delle persone che in
Austria hanno partecipato al questionario vaticano dovrebbe provenire da un ambiente ecclesiale cattolico.
Tema della visita ad limina
Il 5 novembre 2013 il Vaticano ha inviato alle Chiese
locali di tutti i paesi del mondo, in preparazione al Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2014, un questionario sul
tema della famiglia, del matrimonio e della sessualità. Le
39 domande erano indirizzate ai vescovi, con l’incarico
di trasmetterle alla base delle loro rispettive diocesi. Perciò tutte le diocesi austriache hanno invitato i fedeli a in-
241
C
hiese nel mondo
viare le loro risposte al questionario per e-mail e Internet
o in forma cartacea.
In occasione della loro visita ad limina in Vaticano
(27-31 gennaio), i vescovi austriaci consegneranno tutte
le risposte alla Segreteria generale del Sinodo dei vescovi
e informeranno papa Francesco sul risultato. Il card.
Schönborn ha detto: «Sarà consegnato tutto».
Fondamentalmente ogni diocesi ha proceduto in
modo autonomo alla rilevazione, ma alcune lo hanno
fatto insieme. La diocesi di Graz-Seckau ha elaborato,
e messo a disposizione su Internet, una versione semplificata del questionario, che è stata adottata anche dalle
diocesi di Innsbruck e Gurk-Klagenfurt. Anche le diocesi
di Linz e Salisburgo hanno rinviato i loro fedeli a questa
versione disponibile in Internet.
Schönborn: «Dolore e speranza»
Nell’arcidiocesi di Vienna in novembre e dicembre,
oltre 8.000 persone hanno risposto al questionario originale. Anche la Gioventù cattolica di Vienna ha adottato
il questionario originale per i suoi gruppi. In una trasmissione l’arcidiocesi di Vienna ha riferito che 1.127 persone, in gran parte giovani, hanno usato il questionario.
Molti cattolici si sono serviti di altri adattamenti. Sinteticamente, nella trasmissione si parlava di una «notevole
discrepanza fra l’insegnamento cattolico e la concezione
di molti fedeli».
In una prima presa di posizione, il card. Christoph
Schönborn ha affermato: «Scorgo sofferenza e speranza.
Mi commuove il fatto che così tante persone abbiano
risposto, anche se spesso criticano con veemenza la
Chiesa». A suo avviso nella serietà delle risposte si evidenzia un legame fra spirito critico e profonda preoccupazione per il futuro delle famiglie e delle persone colpite
da problemi familiari. Ha affermato: «Scorgo la sofferenza e la speranza di molti, per i quali l’insegnamento
della Chiesa su matrimonio e famiglia non è luce nel
cammino della vita, ma oscurità e ostilità verso la vita».
L’arcivescovo ha detto di essere particolarmente toccato anche dalle molte testimonianze di vita personali
e dal riconoscimento dei valori del matrimonio indissolubile e della responsabilità nei riguardi della famiglia.
Molte persone hanno usato l’occasione offerta dal questionario per descrivere la loro lotta, i duri colpi del destino, la loro gioia di sposi e genitori, «e la loro fedeltà
spesso dolorosa alla Chiesa». «Nelle risposte – ha detto
il cardinale – odo anche l’appello a un maggior accompagnamento, incoraggiamento, sostegno da parte della
Chiesa. Essa viene spesso percepita, per usare una parola
di papa Francesco, come un luogo nel quale non si promuove, ma si controlla la fede».
Egli consegnerà «coscienziosamente e senza censure»
tutte le valutazioni, le opinioni degli esperti, ma anche
una documentazione di tutti i dati raccolti al Consiglio
del Sinodo nominato dal papa per la preparazione del
Sinodo dei vescovi: «È un quadro molto espressivo delle
preoccupazioni, delle speranze e della fede, che caratterizzano molti fedeli della nostra diocesi».
Il cardinale ha aggiunto che nel programma della
preparazione del Sinodo dei vescovi 2014 c’è anzitutto
242
Il Regno -
documenti
7/2014
una franca visione delle situazioni esistenti nella Chiesa
a livello mondiale e di come in esse si possa scorgere
l’azione dello Spirito Santo, e che in questo sguardo
sulle situazioni esistenti confluiscono anche le risposte
austriache.
Schönborn si aspetta orientamenti riguardo al contenuto solo dal Sinodo ordinario dei vescovi del 2015:
«Lì dovremo rispondere alla domanda sul modo in
cui si possono vivere bene il matrimonio e la famiglia
nel XXI secolo ascoltando sia il Vangelo sia ciò che
sperimentiamo e speriamo concretamente nelle nostre
relazioni».
La fede nella famiglia è importante
Dettagli significativi nella valutazione dell’arcidiocesi
di Vienna. Si parla in modo incoraggiante della vita di
preghiera nelle famiglie, ma spesso si ha la sensazione
che si tratti di una pretesa eccessiva. Si sperimentano le
comunità parrocchiali, i gruppi di sposi e di famiglie, i seminari sulla vita matrimoniale, i movimenti e la propria
famiglia come luoghi di spiritualità familiare vissuta. Le
coppie chiedono un maggior sostegno.
Nelle risposte si è riservato molto spazio al tema dei
divorziati risposati, collegato con il desiderio di un trattamento alternativo da parte della Chiesa. Una prassi rafforzata dell’annullamento del matrimonio è considerata
importante, ma non è vista come una possibile soluzione
del problema.
In oltre la metà delle risposte si afferma esplicitamente che la diversa valutazione morale di metodi «artificiali» e «naturali» per la regolazione delle nascite non è
comprensibile e viene rifiutata. Solitamente l’aborto non
viene considerato un metodo di prevenzione ed è esplicitamente rifiutato.
Graz-Seckau: «Un grande successo»
Martedì 21 gennaio la diocesi di Graz-Seckau ha definito «un grande successo» l’alta partecipazione alla rilevazione nella Stiria. La diocesi è al primo posto a livello
nazionale con 14.221 questionari compilati e restituiti.
In una trasmissione la diocesi ha presentato anche alcuni
risultati più precisi della rilevazione. Il 96% si è espresso
a favore della ricezione dei sacramenti dell’eucaristia (comunione) e della riconciliazione (confessione) da parte
dei divorziati risposati; il 4% si è detto contrario.
Alla domanda «Condivide la posizione di rifiuto
della Chiesa cattolica verso unioni fra persone dello
stesso sesso?», il 29% ha risposto «sì», il 71% «no». Il
95% si è espresso a favore di un’accettazione da parte
della Chiesa dell’uso dei metodi ormonali o di condom
per la regolazione delle nascite; il 5% si è detto contrario. Alla domanda «Per quanto conosco l’insegnamento della Chiesa, vivo in base a esso», il 68% ha
risposto «in parte», il 21% «sì, pienamente» e l’11%
«no». Alla domanda «Cura nella sua famiglia forme
di preghiera comune, che considera appropriate e arricchenti?» il 56% ha risposto «sì», il 44% «no». Alla
domanda «Sarebbe o è importante per lei trasmettere
la fede (cattolica/cristiana) ai suoi figli?», l’89% ha risposto «sì», l’11% «no».
JOSÉ MARÍA RECONDO
Linz: 1.200 risposte
Nella diocesi di Linz sono pervenute circa 1.200 risposte al questionario vaticano. La tendenza registrata a livello
nazionale si rispecchia anche nell’Austria superiore. Martedì 21 gennaio, in una conferenza stampa, Josef Lugmayr,
dell’Ufficio matrimonio e famiglia della diocesi di Linz, ha
affermato che le persone hanno lamentato l’astrattezza e
la lontananza dalla realtà dell’insegnamento della Chiesa
rispetto ai problemi umani e ai concreti rapporti quotidiani.
A suo avviso la Chiesa presenta un quadro ideale non
realistico della famiglia, che in alcuni punti può essere
perseguito (ad esempio, fedeltà, equiparazione dei partner, valore dei figli nella famiglia), ma in altri è esagerato
e non attuale (ad esempio, divieto dei metodi artificiali di
controllo delle nascite, divieto dei rapporti prematrimoniali, omosessualità).
Lugmayr: «Oggi le persone vogliono essere prese sul
serio riguardo alla loro decisione autonoma, ma coscienziosa e responsabile sul numero dei figli e il momento
della loro nascita». La paternità e maternità responsabile
e la pianificazione familiare sono ovvie per persone maggiorenni e vengono considerate una sfida cristiana.
Nelle risposte si è riservato molto spazio alla relazione della Chiesa con i divorziati risposati. Al riguardo
le parrocchie, i pastori e la maggior parte di coloro che
hanno risposto si aspettavano chiaramente un cambiamento delle norme della Chiesa «in modo che le persone
interessate non continuino a subire un’emarginazione
che ferisce», «ritrovino un posto nella comunità e siano
anche accompagnate nella loro nuova gioiosa scelta».
Lugmayr ha aggiunto che le unioni fra persone dello
stesso sesso sono considerate un dato di fatto, ma valutate
in modo molto controverso: «In molte parrocchie ci si
preoccupa di rispettare la forma di vita scelta da persone
dello stesso sesso e di invitarle e integrarle nella vita quotidiana della parrocchia. Ma d’altra parte in parecchie risposte si percepisce anche uno scarso entusiasmo e un’incomprensione, si presenta il problema come marginale o
si evita semplicemente di rispondere alla domanda».
In genere coloro che hanno risposto al questionario
considerano molto importante la cura della trasmissione
della fede. Lugmayr ha osservato che, riguardo al tema
dell’evangelizzazione indicato nel questionario, spesso le
norme della Chiesa relative allo sviluppo e alla trasmissione della fede costituiscono piuttosto un ostacolo. Nelle
risposte sono considerati positivi e utili i corsi di preparazione al matrimonio e anche le offerte di consulenza
matrimoniale, che aiutano le coppie in crisi.
Edeltraud Artner-Papelitzky, presidente del Consiglio
pastorale della diocesi di Linz, ha annunciato che entro
venerdì i responsabili nella diocesi vogliono completare
una valutazione finale di circa 20 pagine, che poi sarà
pubblicata sul sito Internet della diocesi e inoltrata dal
vescovo Schwarz agli uffici vaticani competenti.
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LUISITO BIANCHI
Lettera
all’amico vescovo
A CURA DI MARCO D’AGOSTINO
E DEL FONDO LUISITO BIANCHI
P
uò un prete servire liberamente e gratuitamente il Vangelo nella Chiesa, se
riceve uno stipendio per il ministero che
svolge? Questo interrogativo attraversa le
pagine della profetica Lettera che don Luisito Bianchi – insegnante e traduttore,
prete-operaio e inserviente d’ospedale –
indirizza idealmente a un amico vescovo.
Innsbruck: oltre 5.000 risposte
Nella diocesi di Innsbruck sono pervenuti 5.092 questionari debitamente compilati. Martedì 21 gennaio, in
una trasmissione, la diocesi ha affermato che, da una
prima valutazione delle risposte, risulta che sono consi-
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C
hiese nel mondo
derati molto importanti il messaggio cristiano dell’amore
del prossimo e della misericordia e la sua trasmissione ai
figli. Ma riguardo alla domanda su chi sia di aiuto nelle
difficoltà relazionali, solo uno su cinque circa ha indicato il pastore o i consultori familiari gestiti dalla Chiesa.
Anche in Tirolo la maggiore discrepanza fra insegnamento e realtà riguarda le questioni della regolazione
delle nascite, del trattamento dei divorziati risposati e
della valutazione dell’omosessualità.
In una prima valutazione il vescovo Manfred Scheuer
ha detto di essere rimasto colpito dalla grande partecipazione nella diocesi di Innsbruck. I numerosi questionari
compilati e restituiti dimostrano che per molte persone il
matrimonio e la famiglia sono importanti. Ma al tempo
stesso appare chiaramente che oggi le relazioni sono vissute a livello individuale e sotto molteplici forme.
Il vescovo ha sottolineato anche il debito contratto
dalla Chiesa nei riguardi del matrimonio e della famiglia:
«Vi sono speranze e paure, c’è la ricerca e la richiesta
della felicità e della riuscita della relazione, nonché l’esperienza della sofferenza, della delusione, delle rotture
e del fallimento. Dobbiamo affrontare a tutti i livelli le
richieste del matrimonio e della famiglia. Ciò vale per la
pastorale locale, per noi come diocesi, per la teologia e
per la Chiesa universale». Il vescovo si è chiesto facendo
autocritica:
«Quando
sono Pagina
veramente
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1 importanti le famiglie per noi? Che cosa facciamo concretamente per
loro? Quale speranza possiamo trasmettere?».
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In Carinzia le risposte al questionario vaticano sono
state circa 1.700. Martedì 21 gennaio, in una trasmissione,
la diocesi ha affermato che l’elevato numero delle risposte
dimostra una grande partecipazione alla vita della Chiesa
e l’importanza del tema. Dalle risposte risulta che sulle
questioni della sessualità esistono chiare deviazioni dall’insegnamento della Chiesa. Il 75% afferma di attenervisi
solo in parte e l’11% di non attenervisi affatto.
Sulla questione della pianificazione familiare i più decidono in base alla loro coscienza e al consiglio del medico. Il 63% nega l’esistenza di una differenza morale fra
metodi di regolazione delle nascite «permessi» (naturali)
e «non permessi». Il 96% si esprime a favore dell’ammissione dei metodi ormonali per la regolazione delle
nascite o dei condom. Al tempo stesso la stragrande maggioranza di coloro che hanno risposto rifiuta l’aborto.
La maggior parte di coloro che hanno risposto si dimostra tollerante riguardo al trattamento degli omosessuali e di un’unione registrata fra persone dello stesso
sesso. Il 78% non condivide l’atteggiamento di rifiuto da
parte della Chiesa delle «unioni registrate fra persone
dello stesso sesso». Tuttavia la maggioranza si pronuncia
contro una piena equiparazione con il matrimonio fra un
uomo e una donna. Anche in Carinzia il 96% dei coloro
che hanno risposto auspicano l’ammissione dei divorziati
risposati alla comunione.
Il questionario ha mostrato chiaramente anche l’importanza della famiglia, delle celebrazioni liturgiche e
dell’insegnamento della religione per la conoscenza degli
insegnamenti della Chiesa sul matrimonio e la famiglia.
Il 67% indica come fonte l’insegnamento della religione,
il 64% le celebrazioni liturgiche e il 56% la famiglia.
Feldkirch: circa 1.500 risposte
Martedì 21 gennaio la diocesi di Feldkirch ha comunicato che nel Voralberg hanno risposto al questionario
su matrimonio e famiglia circa 1.500 persone. In una trasmissione Walter Schmolly, direttore dell’Ufficio pastorale
di Feldkirch, ha affermato che il risultato è molto sfaccettato. Globalmente le risposte riflettono la persistenza
dell’attribuzione «di un posto importante alla religione
nelle relazioni e nelle famiglie». Il 72% considera importante il matrimonio celebrato in chiesa, il 75% è interessato alle proposte della Chiesa in materia di matrimonio e
famiglia, l’86% ritiene importante la ricezione dei sacramenti e un’educazione cristiana dei figli; il 37% dei genitori prega spesso con i figli, un altro 30% di tanto in tanto.
Schmolly: «Al tempo stesso le persone sono consapevoli
di una discrepanza esistente su vari punti fra le loro concezioni e l’ideale descritto nell’insegnamento della Chiesa.
La maggior parte di loro desidera un ulteriore sviluppo
della posizione della Chiesa su questi punti».
Questo è particolarmente evidente sui temi della regolazione delle nascite (oltre l’80% non condivide la posizione ufficiale della Chiesa), la convivenza prima del matrimonio (il 75% la considera in regola) e il trattamento dei
divorziati risposati (il 91% rifiuta la loro esclusione dalla
L’«oggi» della Parola nel Vangelo di Luca
«QUADERNI DI CAMALDOLI - SEZ. MEDITAZIONI»
Klagenfurt: circa 1.700 risposte
rispecchiano una grande partecipazione
alla vita della Chiesa
244
Il Regno -
documenti
7/2014
comunione e dalla confessione; l’80% auspica la possibilità di un secondo matrimonio in chiesa) e delle unioni fra
persone dello stesso sesso (il 61% può immaginare un rito
di benedizione per le coppie dello stesso sesso).
St. Pölten: spesso l’insegnamento della Chiesa
è poco conosciuto
Martedì 21 gennaio la diocesi di St. Pölten ha comunicato di aver ricevuto di ritorno 156 questionari
originali debitamente compilati. Non è stato indicato il
numero delle risposte on-line. Markus Mucha dell’Ufficio pastorale della diocesi ha sintetizzato i risultati affermando che da molte risposte risulta che solo un numero
molto ristretto di cattolici possiede una conoscenza più
precisa dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e
sui metodi naturali di regolazione delle nascite. Secondo
molti, la ragione per cui le persone non leggono e non
comprendono «i documenti del magistero» è «la loro
formulazione complicata e perciò difficilmente comprensibile». Mucha ha affermato che sono state criticate
anche le grandi differenze nella pratica delle regole della
Chiesa: «Molto spesso anche queste regole sono messe
in discussione».
Helmut Prader, vicario del vescovo, ha aggiunto che la
valutazione delle risposte al questionario sul tema del matrimonio e della famiglia conferma «quella che è la realtà
pastorale: Negli ultimi decenni si è riusciti solo in contesti
molto ristretti a trasmettere l’insegnamento della Chiesa
su temi quali matrimonio, famiglia, sessualità, regolazione
delle nascite e contraccettivi». Prader: «Nel Sinodo dei
vescovi non si tratterà di cambiare l’insegnamento della
Chiesa, ma di trovare strade nuove e migliori per l’annuncio e di aiutare i coniugi e le famiglie a mettere in pratica
e vivere gioiosamente l’insegnamento della Chiesa».
Zsifkovics: «Ogni singola risposta
sarà portata a Roma»
Alla data limite del 13 gennaio la diocesi di Eisenstadt, nel Burgenland, aveva ricevuto di ritorno 628 questionari compilati. Martedì 21 gennaio, in una trasmissione, la diocesi ha comunicato che la provenienza delle
risposte e le opinioni sono molto variegate. La maggior
parte delle risposte attesta che il modo in cui attualmente
le persone vivono e le richieste dell’insegnamento della
Chiesa divergono, ma, secondo la diocesi, questo è dovuto non tanto a un rifiuto consapevole delle concezioni
valoriali della Chiesa, quanto piuttosto a costrizioni sociali esteriori e a oppressioni esistenziali. Un’altra affermazione cruciale che, secondo la trasmissione, attraversa
le risposte è il fatto di non essere riusciti a trasmettere
l’insegnamento della Chiesa in modo tale da renderlo
comprensibile ai fedeli.
In una prima presa di posizione il vescovo ägidius
Zsifkovics si è rallegrato per l’ampia partecipazione e per
la ricchezza dei contenuti. Si impegnerà personalmente a
far «pervenire a Roma ogni singola risposta. Il santo padre
ha chiesto la loro opinione alla gente ed essa merita di ricevere le risposte, per quanto scottanti esse possano essere».
I fedeli, «che si sono presi la briga di rispondere a quelle
domande, hanno meritato di essere ascoltati al centro».
Michal Wüger, direttore dell’Ufficio pastorale, ha aggiunto: «Il Consiglio diocesano ha chiaramente detto di
volersi occupare in seguito più intensamente dei contenuti del questionario e dei settori pastorali a essi collegati.
Si affronterà anche il problema dei divorziati risposati
che costituiscono una realtà pastorale. Essi si sentono
in parte emarginati e soffrono per non poter ricevere i
sacramenti. Dobbiamo dedicare una cura particolare
anche a coloro che hanno lasciato la Chiesa. E vogliamo
sforzarci di risvegliare la gioia della fede nelle famiglie».
Salisburgo: un atteggiamento più umano
verso «chi ha fallito» è fondamentale
L’arcidiocesi di Salisburgo ha ricevuto di ritorno circa
750 risposte al questionario (on-line e in forma cartacea).
Le risposte rispecchiano il contesto nazionale. In esse ritorna spesso la richiesta di un atteggiamento più umano
verso chi ha fallito e verso i divorziati risposati e di un’apertura generale della Chiesa sulle questioni relative alla
comunità del matrimonio e della famiglia.
Al tempo stesso risulta chiaramente che c’è ben più di
una scarsa conoscenza dell’insegnamento della Chiesa.
L’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia è troppo avulso dalla realtà. L’arcidiocesi ha anche
affermato che le persone vorrebbero che si lasciasse ai
coniugi, nella loro libera responsabilità, la decisione riguardo al numero dei figli.
Ordinariato militare: critica all’insegnamento
della Chiesa su famiglia e sessualità
L’ordinariato militare ha comunicato di aver ricevuto di ritorno 50 questionari compilati, provenienti per
lo più da militari del servizio di leva. La maggior parte
delle risposte rispecchia la posizione critica ampiamente
diffusa sull’insegnamento della Chiesa in materia di famiglia e sessualità. Tuttavia una piccola parte dei giovani ha espresso non solo comprensione per la posizione
della Chiesa, ma addirittura difeso esplicitamente questa posizione. Alcune risposte oscillano fra questi due
poli. La diocesi militare ha affermato: «Generalmente
in quasi tutte le risposte si esprime il desiderio di cambiamenti nell’insegnamento della Chiesa e nella pratica
pastorale, soprattutto sui temi dei divorziati risposati,
della regolazione delle nascite e della morale sessuale
nel suo complesso».
Ma appare chiaramente anche l’esistenza di un’ignoranza molto diffusa riguardo alla dottrina e alla pratica
della Chiesa o anche interpretazioni errate o fraintendimenti di determinati aspetti. In questo campo appare
una carenza di informazione da parte della Chiesa e la
necessità di informare meglio le persone su queste questioni dal punto di vista della Chiesa.
La diocesi ha affermato, inoltre, che hanno riscosso
un notevole interesse anche le domande relative alle
persone omosessuali. Le risposte vanno dalla richiesta di un’equiparazione dell’unione fra persone dello
stesso sesso con il matrimonio a un veemente rifiuto di
una tale politica. Nelle maggior parte delle risposte c’è
la richiesta di una maggiore comprensione per queste
persone da parte della Chiesa.
Il Regno -
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7/2014
245
C
hiese nel mondo |
svizzera
Consultazione
sulla pastorale
della famiglia
I
Conferenza dei vescovi svizzeri
Oltre 23.000 risposte sono pervenute
in Svizzera alla sollecitazione offerta
dal questionario allegato al Documento preparatorio della III Assemblea generale straordinaria del Sinodo
dei vescovi, che si terrà in ottobre sul
tema «Le sfide pastorali sulla famiglia
nel contesto dell’evangelizzazione»: un
numero elevato in rapporto alla consistenza di questa Chiesa, che conta otto
diocesi e tre milioni e mezzo di battezzati. La Conferenza dei vescovi svizzeri
(cattolici) è stata tra quelle che hanno
scelto di rendere nota una sintesi delle
risposte, pubblicando il 4 febbraio un
comunicato stampa elaborato dall’Istituto svizzero di sociologia pastorale e intitolato Consultazione sulla
pastorale di coppia, del matrimonio e
della famiglia della Chiesa cattolica –
Risultati. Anche in Svizzera, come in
Germania (cf. Regno-doc. 5,2014,162 e
173) e in Austria (in questo numero a p.
241), «se si confrontano [le] critiche nei
confronti della Chiesa con il desiderio
fondamentale di vivere una relazione,
un matrimonio e una famiglia che abbiano anche una dimensione ecclesiale
e religiosa, si constata la necessità urgente di riconsiderare lo statuto della
dottrina della Chiesa sulla famiglia
nella Chiesa e la pastorale».
Stampa (24.2.2014) da sito web www.ivescovi.
ch; nostra traduzione dal francese.
Il Regno -
documenti
7/2014
n preparazione al Sinodo mondiale sulla famiglia,
che si terrà a Roma nel prossimo ottobre, i vescovi
svizzeri hanno condotto un sondaggio presso i fedeli
in Svizzera su esperienze, impressioni e critiche in
riferimento alla pastorale della Chiesa a riguardo
della famiglia, della coppia, della convivenza. Oggi possiamo disporre dei risultati dell’inchiesta.
Chi ha partecipato alla consultazione?
– Le 23.636 risposte ricevute all’inizio di gennaio
(tre quarti delle quali per mezzo di Internet, il resto in
versione cartacea) costituiscono la base delle valutazioni.
– Con i questionari arrivati dopo il termine, il numero
dei partecipanti sale a 25.000.
– L’età media è 54 anni, 47% uomini, 53% donne.
Due terzi dei partecipanti hanno figli.
– Quasi il 92% appartiene alla Chiesa cattolica romana, il 95% vive in Svizzera.
– L’87% circa dei questionari ricevuti è in lingua tedesca, il 9% circa in lingua francese. Più di 1.000 persone
hanno compilato il questionario in italiano, che corrisponde al 4,5% circa dei partecipanti.
– Il grande numero di partecipanti che ha utilizzato
il questionario apparso nei media ecclesiali (bollettini
parrocchiali) dimostra che la consultazione ha raggiunto
soprattutto persone vicine alla Chiesa.
– La prossimità alla Chiesa della maggior parte dei
partecipanti si traduce anche nel fatto che il matrimonio
religioso e un’educazione cristiana dei figli raccolgono
tassi molto elevati di consenso.
– Una caratteristica delle persone vicine alla Chiesa è
l’interesse per la dottrina della Chiesa, il che tuttavia non
impedisce loro di assumere posizioni molto critiche verso
di essa.
Primi risultati consolidati
La valutazione della consultazione è appena iniziata
ma già si delineano alcune tendenze molto nette.
Che cos’è importante per quanti hanno partecipato
alla consultazione? Il matrimonio religioso è generalmente importante (80%). Risulta chiaro il desiderio
di dare una dimensione religiosa alla propria coppia
246
«Uniti nella fede della Chiesa»
L
a Lettera pastorale dei vescovi svizzeri per la prima domenica
di Quaresima, che qui pubblichiamo, è un forte appello all’unità
della Chiesa di fronte alle richieste di aggiornamento che da molto
tempo la base ecclesiale avanza (cf. Regno-att. 4,2013,79). È stata
diffusa il 9 marzo, in concomitanza con le manifestazioni di protesta che hanno avuto luogo a San Gallo, dove risiede il presidente
della Conferenza episcopale svizzera mons. Markus Büchel, contro
le posizioni fortemente conservatrici del vescovo di Coira Vitus
Huonder (www.ivescovi.ch).
Cinquant’anni fa si tenne a Roma il concilio Vaticano II. In Svizzera
celebriamo il secondo anno giubilare del Concilio con il motto «Uniti
nella fede». In contatto con i mutamenti della società e della Chiesa
durante questi 50 anni, i vescovi sono spesso sollecitati perché nella
Chiesa cambi qualcosa. Ma cos’è la Chiesa? Le proposte che vengono
fatte sembrano talora presupporre che essa sia una specie di multinazionale, oppure un’«organizzazione non governativa». Ne potremmo
quindi disporre liberamente per ogni genere di cambiamento.
Dio si rivela in Gesù Cristo
Ciò che però la Chiesa è realmente, dipende essenzialmente da
ciò che è il cristianesimo. La Chiesa infatti esiste unicamente in virtù di
Cristo e perché ci sono persone che credono in lui. Il cuore della fede
cristiana è l’evento di Dio fattosi uomo. Dio si fa uomo in Gesù Cristo;
viene a noi come uomo; ci si rivela in Gesù Cristo. Essere cristiani non
significa rivendicare le proprie idee, bensì accogliere con gratitudine
quel Dio che viene a noi.
Il concilio Vaticano II evidenzia alcune caratteristiche della rivelazione cristiana.
1. Cristo è pienezza della rivelazione, non è soltanto un suo messaggero.1
2. Questa rivelazione suprema – Dio fattosi uomo – è definitiva.2
Possiamo e dobbiamo incessantemente approfondirne la comprensione. Non possiamo però mutarne alcunché.3
3. Rivelandosi, Dio era consapevole della nostra attitudine a perdere un dono così prezioso; ha disposto quindi che non vada perduto
ciò che è stato rivelato.4 Cristo ha inviato gli apostoli a predicare e
celebrare i sacramenti nella comunità da lui fondata. In seguito, «affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa,
lasciarono come loro successori i vescovi, a essi “affidando il loro proprio posto di maestri”».5 L’unità dei vescovi tra di loro è garantita dalla
loro unione con il successore di Pietro.6
Dio è all’opera
Da questi dati elementari della fede cattolica scaturisce la consapevolezza di Chiesa. Ciò che essa è, la sua fede, i suoi sacramenti non
sono in prima linea opera dell’uomo, bensì qualcosa che riceviamo da
Dio. Per fare un esempio: se non fosse a partire da Dio, ma soltanto
da un’intenzione umana, sarebbe assurdo credere che il pane possa
divenire corpo di Cristo, o che questi sia concepito da una vergine. È
anche per questa ragione che i primi seguaci di Gesù sono sbalorditi
quando egli invita a mangiare il suo corpo.7 In altro ambito, la vergine
Maria ha chiesto come concepire senza «conoscere» uomo…8 L’eucaristia e la nascita di Cristo figlio della Vergine mostrano Dio all’opera.
Lo stesso vale per la relazione di Cristo con la Chiesa: Dio all’opera.
La Chiesa è sacramento
Perciò il Concilio chiama la Chiesa «sacramento»: «La Chiesa è, in
Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento
dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».9 La
Chiesa è segno e strumento; si prefigge l’unità con Dio e il genere
umano. Poiché è segno del suo Signore e in nessun caso Signore lei
stessa, non ha il potere di modificare ciò che ha ricevuto. La fede
permane, anche se non verranno mai meno gli interrogativi che su-
scita. Nella cultura del suo tempo, san Paolo ne ha fatto l’esperienza
parlando agli ateniesi della risurrezione dei morti…10
La Chiesa non è un’ONG
In seno alla Chiesa ci sono cose che possono cambiare, altre no.
Quelle che non possono cambiare appartengono alla fede o alla struttura fondamentale della Chiesa (per esempio la necessità del sacramento dell’ordine perché si possa celebrare l’eucaristia). Altro invece
può cambiare.11 Com’è possibile? Nella Chiesa i cambiamenti non sopravvengono nello stesso modo che in un’impresa, essa non è un’ONG
o una multinazionale, come ha ripetuto papa Francesco,12 non è diretta da un manager e non può adeguarsi senz’altro alle esigenze del
mercato. Se la Chiesa fosse tale, poche sarebbero forse le ragioni per
interessarsi a essa e ancora meno per farne parte. Tutti i cambiamenti
importanti, nella Chiesa, fanno sì che ne risulti con più chiarezza la
fede. Un tale aggiornamento, per riprendere un termine caro al beato
Giovanni XXIII, avviene a livello di Chiesa universale. Ecco perché tutta
la Chiesa va implicata: le diocesi del mondo intero. Detto questo, ogni
mutamento sopravviene soprattutto tramite la preghiera.
I cambiamenti cominciano con la conversione
È normale che in una società in pieno mutamento siano in molti a
porsi delle domande. Trattandosi di questioni aperte, non è del tutto
ovvio che la risposta vada ad adeguarsi alla cultura del momento.
Quando si cerca di rendere la fede pienamente compatibile con le
visioni dominanti del momento, l’esperienza mostra che la Chiesa ne
risulta insipida, insignificante.13 Se non si parte dalla relazione con Dio,
e quindi dalla vita dello Spirito, si smette in fretta e a giusto titolo
di interessarsi della Chiesa. È sempre necessario cercare di capire in
profondità le varie situazioni umane e la Chiesa può senz’altro fare di
più in questo senso. I vescovi vi sono riconoscenti per i vari impulsi.
Ma scartare l’appello alla conversione, che fa parte della vita cristiana,
significa far perdere il sapore al sale della terra.14 La conversione si
attua innanzitutto nella fede. La Chiesa ci unisce a Cristo nella fede.
È perciò nella fede della Chiesa che siamo uniti tra di noi. Viverla e
renderle testimonianza è il primo dovere cui ci chiama il Concilio, in
quest’anno giubilare.
I vescovi svizzeri
1
Cf. concilio ecumenico Vaticano II, cost. dogm. Dei verbum (DV) sulla divina rivelazione, n. 2: «La profonda verità, poi, che questa rivelazione manifesta
su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme
il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione»; EV 1/873.
2
«Non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra rivelazione pubblica
prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo»: DV 4; EV
1/876.
3
Cf. DV 8; EV 1/882ss.
4 DV 7: «Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato
per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni»; EV 1/880.
5
DV 7; EV 1/881.
6
Cf. Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium (LG) sulla Chiesa, n. 18; EV
1/329.
7
Cf. Gv 6,51-68.
8
Cf. Lc 1,34.
9
LG 1; EV 1/284.
10
Cf. At 17,32: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni
lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”».
11
Per es. il papa Pio XII ha modificato certe modalità dell’ordinazione di
diaconi, sacerdoti e vescovi nella sua costituzione apostolica Sacramentum
ordinis del 30 novembre 1947, senza mutare peraltro il sacramento dell’ordine
in quanto tale. Parimenti la riforma liturgica del concilio Vaticano II non ha
modificato la natura della liturgia o dei sacramenti.
12
Per esempio alla vigilia di Pentecoste, 31.5.2013; Regno-doc. 11,2013,324.
13
Cf. il card. W. Kasper, «Kommen wir zur Sache», in Frankfurter Allgemeine
Zeitung 11.2.2011, 9.
14
Cf. Mt 5,13: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore,
con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che a essere gettato via e
calpestato dagli uomini».
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C
hiese nel mondo
e di tenere in considerazione la dimensione religiosa
nelle decisioni fondamentali della vita. Il diffusissimo
desiderio di fornire un’educazione religiosa ai figli raccoglie il tasso più alto di consenso di tutta la consultazione (97%)!
La fede riveste un ruolo importante nel campo della
famiglia e dell’educazione dei figli anche se i genitori non
sempre lo indicano espressamente (o non sono in grado
di farlo). Il dato statistico dei battesimi, che continua a
testimoniare una forte adesione in Svizzera, è una delle
prove della grande importanza data alla fede in campo
familiare.
Queste due constatazioni costituiscono per la Chiesa
l’indicazione di un’eccellente opportunità per trasmettere il proprio messaggio fondamentale. Ma non è comunque che tutto vada bene. Tale apertura in linea di
principio nei confronti della religione e della fede non
va affatto di pari passo con un’adesione incondizionata
alla dottrina della Chiesa sulla famiglia, il matrimonio
e la sessualità.
Il tema numero 1
Le risposte sono in larghissima parte concordi nel
mostrare incomprensione e rifiuto per la dottrina ufficiale che non consente ai divorziati risposati di ricevere i sacramenti. La vasta maggioranza dei cattolici
(circa 90%) si attende che anche la Chiesa riconosca
e benedica queste coppie. La richiesta formulata con
più insistenza ai vescovi e alla Chiesa in Svizzera è di
abolire la pratica corrente nei confronti dei divorziati
risposati, giudicata discriminatoria e non ispirata dalla
carità cristiana. Tale pratica è rifiutata dai partecipanti
per motivi religiosi e con espresso riferimento al messaggio cristiano.
Riconoscimento delle coppie omosessuali,
una maggioranza senza consenso
Una maggioranza di circa il 60% dei partecipanti
alla consultazione vorrebbe il riconoscimento e la benedizione delle coppie omosessuali da parte della Chiesa.
Diversamente dalla questione dei divorziati risposati, in
questo caso non vi è tuttavia consenso ma piuttosto una
polarizzazione. Accanto a una chiara adesione esiste
anche un rifiuto categorico, pur se inferiore numericamente, di un riconoscimento delle unioni omosessuali da
parte della Chiesa.
La Chiesa e i suoi leader hanno qui il difficile compito
di trovare una soluzione che tenga conto di queste differenti concezioni, rispondendo comunque ai bisogni pastorali delle coppie omosessuali, per le quali è importante
avere un riconoscimento e una dimensione religiosa per
la propria relazione.
La contraccezione, argomento permanente
Le risposte alla domanda sui metodi artificiali o naturali di contraccezione rivelano la distanza, drammatica e
ben nota da lungo tempo, fra la dottrina e i partecipanti
alla consultazione. La proibizione dei metodi artificiali
di contraccezione è ben lontana dalla pratica e dalle idee
della grande maggioranza dei cattolici.
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Riserve nell’adesione alla dottrina
della Chiesa sulla famiglia
La maggior parte dei cattolici indica di essere a conoscenza delle posizioni della Chiesa sulla sessualità, sulla
coppia, sul matrimonio e sulla famiglia, ma si mostra
piuttosto scettica alla domanda se aderisce a tali posizioni. Le riserve avanzate sulla dottrina della Chiesa
sono molto nette.
Prospettive per la Chiesa
Se si confrontano queste critiche nei confronti della
Chiesa con il desiderio fondamentale di vivere una relazione, un matrimonio e una famiglia che abbiano anche
una dimensione ecclesiale e religiosa, si constata la necessità urgente di riconsiderare lo statuto della dottrina
della Chiesa sulla famiglia nella Chiesa e la pastorale.
Occorre che la Chiesa, di fronte alle concrete esperienze e situazioni di vita delle persone, cessi di dare valore assoluto a determinate norme e direttive. Quando
essa esige che i cattolici seguano incondizionatamente e
senza critica le norme concrete e le direttive di comportamento che emana, in ultima analisi nuoce all’aspirazione di trasmettere alle persone gli aspetti più centrali
ed essenziali del proprio messaggio.
Sviluppando le proposte pastorali occorrerebbe
inoltre tener conto dello scarto ben noto esistente fra
l’apertura di tanti credenti a una connotazione religiosa
per la coppia, il matrimonio e la famiglia, e il rifiuto e
l’incomprensione nei confronti di vasti settori della dottrina. In particolare, generalmente nella consultazione
la preparazione al matrimonio non viene vista con favore, e viene considerata di scarso aiuto per la vita della
coppia e della famiglia.
Infine la consultazione mostra come la Chiesa non
venga affatto considerata un aiuto quando insorgono
crisi nel matrimonio e nella famiglia. In questo contesto
pare che l’alto ideale dottrinale ne falsi la visione della
realtà e la renda meno disponibile precisamente alle
persone che più avrebbero bisogno di sostegno.
Larga convergenza
Uno dei risultati più sorprendenti della consultazione
è la vastissima convergenza delle risposte provenienti da
gruppi molto diversi: giovani e anziani, uomini e donne,
di lingua tedesca, francese e italiana; non vi è praticamente alcuna differenza rilevante nel modo di rispondere. Nessuna questione solleva conflitti generazionali,
non vi è lotta fra i sessi, diversità fra Svizzera romanda
e tedesca, disaccordo ecumenico profondo fra le confessioni cristiane e alcuna divergenza significativa tra le
risposte che sono arrivate dalla Svizzera e quelle dall’estero.
Prospettive per valutazioni ulteriori
Siamo solo all’inizio della valutazione. Per l’analisi
ulteriore dei risultati, l’Istituto svizzero di sociologia pastorale si baserà su questioni pastorali concrete. Sarà ad
esempio possibile intraprendere una valutazione tarata
sui gruppi di riferimento, allo scopo di adattare l’offerta
pastorale.
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medio oriente
Un futuro
per il mondo
arabo
Fadia Kiwan al Congresso
internazionale sulla Pacem in terris,
Città del Vaticano 2-4.10.2013
Organizzato dal Pontificio consiglio
della giustizia e della pace, dal 2 al
4 ottobre scorso si è tenuto un congresso per commemorare i 50 anni
dell’enciclica sulla pace di Giovanni
XXIII. Suddiviso in tre sezioni, una
per giornata, in quella del giorno 3
– dedicata a «Organizzazione internazionale e bene comune universale:
attualità del messaggio della Pacem
in terris» – ha preso la parola anche
Fadia Kiwan, direttore dell’Istituto di
scienze politiche dell’Università SaintJoseph di Beirut su «L’esperienza
dell’integrazione nel mondo arabo».
Passando in rassegna l’evoluzione storica del Medio Oriente a partire dallo
sfaldarsi dell’Impero ottomano fino ai
sommovimenti della cosiddetta «primavera araba», Kiwan ha messo in
luce una forma di «doppio dilemma»
che blocca cristiani e musulmani: per
i primi le forme di protettorato che
hanno concesso loro uno statuto di minoranza protetta; per i secondi la frequente coincidenza tra stato nazionale
e confessionale che ha saldato fede e
fedeltà allo stato. Per entrambi, il superamento del dilemma passa attraverso il riconoscimento delle «libertà
fondamentali», prima tra tutte «la libertà di coscienza».
Stampa (31.10.2013) da sito web www.iustitiaetpax.va; nostra traduzione dal francese.
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Zona di conflitti e di tensioni identitarie
L’interesse che viene rivolto al mondo arabo da parte
del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, di eminenti padri della Chiesa cattolica e di tanti suoi fedeli è
una scintilla che rinfocola la speranza nel cuore di chi,
come noi, vive nel mondo arabo, da decenni scosso senza
tregua da violenze, tensioni e guerre di ogni sorta. Più
in generale il Medio Oriente, che comprende accanto
agli stati arabi la Turchia e l’Iran, costituisce oggi una
delle zone più militarizzate del mondo. I paesi del Medio
Oriente hanno il tasso più elevato di spese belliche e la
percentuale più alta di militari rispetto alla popolazione
complessiva. È il Medio Oriente che conosce il conflitto
più lungo dell’epoca moderna: il conflitto arabo-israeliano, che risale al 1948 e continua a riaccendersi sotto
forme diverse.
Le risorse naturali, la via della seta, la protezione
dello Stato d’Israele hanno di volta in volta fatto muovere le grandi potenze occidentali. Anche alcune potenze
regionali si sono avventurate alla ricerca di egemonia e
di espansione. Il Medio Oriente, luogo di nascita dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam, è in fiamme. Ci
si uccide nel nome stesso di Dio mentre tutti ne proclamano l’unicità.
Lo sguardo esterno ha visto il Medio Oriente attraverso le lenti sia dell’interesse sia del romanticismo. Mai
finora sono stati fatti sforzi seri per ristabilire giustizia e
pace in questa regione del mondo.
Per comprendere meglio la situazione nei paesi arabi
occorre risalire al tempo del loro ingresso nella modernità politica, all’indomani del crollo dell’Impero ottomano. Sorsero allora degli stati arabi che si fondavano
su una triplice legittimità: quella dell’identità particolare
di un popolo nazionale che ogni volta tracciava i propri
confini; quella dell’identità araba; e quella dell’identità
musulmana. Queste tre identità si sovrapponevano e
s’intrecciavano. A ogni dato momento della storia, una
di queste identità prevaleva sulle altre. I primi passi verso
la fondazione della nazione si coprivano ipocritamente di
una certa ambivalenza: nazionale e nazionalista arabo
potevano essere termini intercambiabili.
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tudi e commenti
La Lega araba è nata proprio in questo contesto. Essa
ha interpretato, nel momento stesso della sua nascita, la
tensione fra le due logiche, quella nazionale e quella nazionalista. Ma nel Protocollo d’Alessandria, da cui nasce
la Lega degli stati arabi, vi è l’impegno da parte degli stati
membri di operare in vista della cooperazione e della
solidarietà. Il Libano per aderirvi esigerà l’adozione del
principio del consenso, per timore di essere trascinato in
un futuro incerto. Il vento del nazionalismo arabo soffierà infatti, a partire dagli anni Cinquanta, con il nasserismo e il baathismo che spingono verso obiettivi più
espliciti d’unità. Tuttavia ciascuno stato aveva già una
propria traiettoria, proprie specificità, e diventava sempre più circospetto e diffidente verso la cooperazione.
Alcuni regimi arabi si consideravano come investiti di
una missione fraterna di patronato e tentavano di renderla
operativa sui propri vicini, facendo radicare la diffidenza e
il rifiuto. Tuttavia il nazionalismo arabo traeva la propria
energia dai sentimenti dei popoli arabi, spesso umiliati da
sconfitte e disfatte, e dalla frustrazione causata anche dalla
nascita di uno stato etnico ebraico in Palestina e dalla cacciata del popolo palestinese dal proprio territorio.
Ma questa ambivalenza e questo dualismo non potevano frenare o coprire il processo di formazione della
cittadinanza in seno a ciascuno stato. Sotto l’egida di
carte costituzionali che consacravano solennemente l’uguaglianza dei cittadini quanto a diritti e a doveri, che
facevano riferimento all’arabità e all’islam, sono emersi
coscienze nazionali, interessi nazionali, problemi particolari e talvolta anche alcuni vantaggi specifici – come le
abbondanti risorse presenti in alcuni paesi – che hanno
sviluppato per reazione un ripiegamento su sé stessi e
al tempo stesso la tendenza a ricercare un’unità interna
della collettività e a reclamare il riconoscimento di un
legame civile tra cittadini e fra i cittadini e lo stato.
Presto si sono profilate tre sottoregioni arabe: Maghreb, Mashrek e Golfo arabo, con alcuni paesi periferici
come Yemen, Gibuti, isole Comore e Somalia.
Il sistema panarabo, rappresentato dalla Lega degli
stati arabi, sarà attraversato da conflitti d’interesse e
conflitti di potere, da molteplici tentazioni egemoniche
o di polarizzazione. Attorno al conflitto arabo-israeliano
in particolare si vanno delineando e affrontando due
campi: quello dell’Egitto e dei paesi conciliatori e quello
della Siria e dell’Iraq su quello del rifiuto.
Ma la comunità degli stati arabi sarà presto scossa dal
trionfo della rivoluzione islamica di Khomeini in Iran. Il
nazionalismo cederà il posto al settarismo sunnita/sciita
e i conflitti di potere riprenderanno vigore.
Le divisioni, le sconfitte e l’esperienza dei sistemi autoritari socialisti e nazionalisti creeranno sentimenti di delusione
presso vasti strati di popolazione in numerosi paesi arabi.
La cittadinanza nazionale
di fronte al fondamentalismo
«L’islam è la soluzione» (
), è lo slogan
principale delle formazioni islamiste che risponderanno a
questo panorama di desolazione, confermando lo scacco
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del socialismo e del nazionalismo. La montata del fondamentalismo islamico risusciterà i sentimenti di rifiuto
nei confronti dei non musulmani e di timore da parte di
questi ultimi.
In effetti, mentre lo stato nazionale, fondato sul principio della razionalità giuridica, prevedeva la cittadinanza fondata su di un legame nazionale, il programma
di tutte le formazioni fondamentaliste s’appoggiava sul
legame religioso per fondare il contratto sociale. È evidente che gli obiettivi e i programmi delle formazioni
islamiste intimorivano i cristiani. Essi erano più a proprio agio in uno stato nazionale o anche in uno stato
nazionalista. In questo caso i singoli cittadini dovevano
manifestare unità attorno all’idea di stato nazionale e
potevano aver fiducia che i propri diritti e doveri non
potessero essere a lungo ignorati. Nel caso di un governo fondamentalista (islamico) tutti i non musulmani
rischiavano di essere molestati ed emarginati, e i loro
diritti calpestati.
Si può riconoscere tuttavia una grande varietà di formazioni politiche fondamentaliste: alcune si definiscono
moderate, altre manifestano il proprio radicalismo, altre
ancora fanno appello al takfir.1 In ogni caso, le formazioni fondamentaliste rivendicano l’applicazione della
sharia e assimilano dunque la cittadinanza nazionale alla
fedeltà all’islam.
In una tale concezione di cittadinanza, tutti i non
musulmani sono esclusi dal principio di uguaglianza nei
diritti politici e si trovano emarginati e relegati al rango
di minoranze.
Lo statuto di minoranza
È noto che all’inizio, oltre quattordici secoli fa, l’islam
fu innovatore, chiamando alla tolleranza nei confronti
della ahl al-kitab (gente del libro; ndt), ossia dei cristiani
e degli ebrei. Tolleranza che si traduceva nel riconoscimento della libertà di culto e dell’autonomia nelle pratiche cultuali e culturali; essi erano dispensati dal servizio
di jihad per la religione – quello che nelle società moderne chiamiamo il servizio militare – in cambio di un
tributo, la jizya, da pagare al potere che assicurava loro
la protezione. Questo statuto di ahl al-dhimma (gente
protetta; ndt) o statuto di «dhimmitudine» fonderà lo
statuto delle minoranze che aprirà la via a pratiche di
esclusione da parte dei musulmani e di ricerca da parte
dei non musulmani di protezione al di fuori della comunità politica alla quale appartenevano. La ricerca della
protezione esterna s’intreccerà con le mire egemoniche
di molte potenze estere.
Tale protezione culminerà nel corso del XIX secolo, sotto l’Impero ottomano, in un sistema quasi organizzato di protezione esterna, sprofondando i non
musulmani nella marginalità, creando un fossato che
separava i musulmani dai non musulmani e aprendo
una via all’ingerenza esterna e ai conflitti di potere fra
le grandi nazioni.
Tuttavia il processo di fondazione nazionale intrapreso all’indomani della prima guerra mondiale aveva
un’altra natura: esso era fondato sul legame nazionale
o nazionalista e non religioso: una differenza che sarà
netta soltanto nel caso libanese. Negli altri 21 paesi arabi
l’islam sale al rango di fonte di legittimità dello stato. Di
conseguenza i non musulmani sono relegati al rango di
cittadini passivi.
Confisca dei diritti ai musulmani
ed emergenza del settarismo
Successivamente due fatti nuovi appariranno progressivamente nei percorsi nazionali arabi. Il primo è quello
della confisca dei diritti di cittadinanza anche ai musulmani da parte di regimi autoritari o pseudo-totalitari o
ancora neo-patrimoniali (Siria, Iraq di Saddam Hussein)
e pseudo-democratici (Mubarak, Ben Ali, Gheddafi).
Come è apparso con evidenza, questi regimi si appoggiavano simbolicamente ma formalmente sulla legittimità
dell’islam. Occorre precisare che il partito Baath (siriano;
ndt) era in teoria laico, ma ha dovuto fare concessioni
nella Costituzione del paese nel 1971. In Iraq Saddam
Hussein arriverà a includere l’islam nella bandiera stessa
del paese con la frase
(«Allah
è il solo Dio e Maometto è il suo profeta»; ndt).
Il secondo fatto è l’emergere di una coscienza settaria, sunnita/sciita, nel seno stesso delle comunità
musulmane. Tale coscienza settaria si rifletterà negli
ultimi anni nella politica degli stati arabi: alcuni chiederanno di coalizzarsi contro una Mezzaluna sciita che
sarebbe all’opera sotto l’egida dell’Iran; altri chiederanno aiuto per calmare sollevazioni di tipo settario:
il Bahrein. Da questa reazione allo stesso tempo nazionalista e settaria hanno avuto origine azioni di tipo
regionale, come appunto l’intervento dell’Arabia Saudita in Bahrein a nome dei paesi del Golfo per favorire
il ritorno alla calma.
Si può citare anche l’invito fatto al ministro turco degli
Affari esteri a partecipare ad alcune riunioni della Lega
degli stati arabi: esso indica un riavvicinamento fra sunniti
arabi e non arabi di fronte agli sciiti. Occorre forse ricordare che un simile riavvicinamento incrocia le mire di potenza nella regione sia da parte della Turchia sia dell’Iran?
Il legame nazionale arabo cede dunque il passo al legame musulmano settario. La Lega degli stati arabi ne risentirà: divisa come sempre, essa non riesce più a gestire
e regolare i conflitti in seno agli stati arabi, segnati dalla
divisione settaria. Si affiderà alle Nazioni Unite nella
forma, ma agli Stati Uniti nella sostanza.
Alcuni intellettuali cristiani molto noti nel mondo
arabo avevano partecipato attivamente al movimento
nazionalista arabo sia con i propri scritti sia con le proprie azioni. Il processo di fondazione nazionale intrapreso dopo il crollo dell’Impero ottomano era sempre
stato percorso congiuntamente e invariabilmente da
cristiani e musulmani arabi. Ciononostante l’evoluzione
delle idee nei paesi arabi mostrerà una ricomparsa dell’identità musulmana, anche se di tipo settario.
1 Il concetto di takfir (empietà, apostasia; ndt) risale al pensiero
di Sayyd Qutb, segretario generale dei Fratelli musulmani che negli
anni Cinquanta succede a Hasan al-Banna, fondatore e capo storico della Fraternità. Imprigionato e torturato per molti anni sulla
base dell’accusa di aver partecipato attivamente al complotto per
assassinare Abdel Nasser, Qutb scrive in carcere una nuova visione
dell’islam, Fi Zilal Al Quran (All’ombra del Corano; ndt), e chiama
al jihad contro la società araba e musulmana che accusa di essere
apostata poiché si sarebbe allontanata dalla vera religione. I suoi
scritti sono una matrice del pensiero delle correnti jihadiste takfiri
che legittimano l’uso della violenza e la distruzione stessa delle società musulmane.
I rapporti con la religione
Il crollo dell’Impero ottomano aveva messo fine all’istituzione del califfato. Per i popoli arabi e musulmani
stava per cominciare una nuova era, nel corso della quale
essi avrebbero collocato formalmente la legittimità dell’islam all’apice dell’ordine costituzionale dei rispettivi stati
nazionali, ma per entrare al tempo stesso in una relazione di cittadinanza.
Solo il diritto di famiglia e quello di successione saranno applicati in riferimento all’islam, a cui viene riconosciuto il rango di referente per la legittimità dello stato.
Inoltre i dirigenti politici allacceranno con le autorità religiose legami assai ambigui: vassallaggio per gli uni e
partenariato e cooperazione per gli altri.
I due modelli tipo di tali relazioni sono quello della
Siria, che fa dei capi religiosi dei funzionari statali e li
integra nel regime, e quello che vede in Egitto Al-Azhar
innalzata dal regime di Mubarak al rango di pilastro
della legittimità e di partner che gode di una certa autonomia. In queste configurazioni di rapporti fra potere politico e potere religioso il Libano si distingue,
intessendo rapporti particolari ma non meno ambigui:
l’autonomia delle comunità religiose viene innalzata al
rango di articolo costituzionale del paese nei campi del
culto, dello statuto personale e delle scuole (artt. 9 e 10
della Costituzione).
Le Chiese cristiane si organizzeranno in totale autonomia mentre le autorità religiose musulmane beneficeranno del finanziamento statale pur godendo della
medesima autonomia. Avendo le Chiese cristiane, gelose
della propria autonomia come della propria influenza sociale, rifiutato il finanziamento per le proprie istituzioni
canoniche, anche le autorità musulmane sunnite, sciite
jaafarite e druse rivendicheranno questa stessa autonomia anche se si faranno finanziare i tribunali della sharia
dalle casse dello stato.
In ogni caso, le autorità libanesi operano su un terreno di co-sovranità sui cittadini, come partner delle autorità religiose.
Il posto e il ruolo dei cristiani:
dall’esclusione alla prossimità con i regimi
Nel corso della formazione degli stati nazionali, i cristiani vivranno anch’essi un’ambivalenza: da una parte
l’appartenenza a una comunità religiosa costituitasi nel
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tudi e commenti
corso della storia in comunità sociale e dall’altra parte
l’appartenenza a uno stato nazionale.
Per risolvere il dilemma della doppia appartenenza,
in alcuni paesi arabi saranno concepiti due tipi di legame
e due scenari.
1) Da un lato lo scenario del regime nazionalista teoricamente laico – il regime di Nasser, il regime baathista
–, in cui i cittadini sono considerati nel loro legame nazionale mentre le questioni dello statuto personale che
riguardano il diritto di famiglia e le successioni patrimoniali fanno riferimento alle rispettive comunità sotto l’egida dello stato.
2) Dall’altro – ed è soltanto il caso del Libano – lo
scenario del regime consociativo, ove a fianco dell’autonomia di culto e della libertà in campo educativo sono
state previste delle quote di rappresentanza politica per
tutte le comunità.
Nel primo scenario i cristiani non vengono formalmente esclusi, ma la asabiyya (spirito di solidarietà; ndt)
comunitaria e lo squilibrio demografico permettono loro
una partecipazione soltanto simbolica. La relativa permanenza di riflessi comunitari ha portato infatti i musulmani a scegliere dei musulmani, e la secolarizzazione
al vertice o a livello di dirigenza politica non ha influito
molto sui comportamenti tradizionali del cittadino comune.
Lo squilibrio demografico non ha semplificato le cose.
In questa situazione, le classi dirigenti sono state tentate
di riavvicinarsi ai cristiani e di associarli al potere guadagnandone in cambio la fedeltà. Il presidente Mubarak si
vantava di essere amico dei cristiani d’Egitto. Nominava
fra di essi deputati, ministri, governatori e direttori… ma
il prezzo di tali favori era talvolta il discredito dei cristiani
nell’opinione pubblica sfavorevole al regime.
D’altronde, la caduta del regime Mubarak ha creato
un vero malessere, e in un primo tempo si poteva cogliere un certo disorientamento in certi ambienti tra i leader spirituali e i civili copti. Le posizioni di questi ultimi
si sono adattate in seguito alla nuova situazione.
Nel secondo scenario i cristiani si sono adagiati troppo
comodamente nelle quote che garantivano loro una partecipazione politica attiva. Si trattava di pantofole che
impedivano loro qualunque azione di reale riforma e di
modernizzazione. Quella partecipazione garantita rappresenterà una spinta irresistibile verso l’identificazione
con il potere. Le pratiche di potere e i molteplici problemi
che man mano sorgeranno porteranno lo scontento popolare a indirizzarsi contro i cristiani, attribuendo loro la
responsabilità d’ogni malfunzionamento.
La prossimità al potere, se non l’identificazione di
molti cristiani con il potere, macchierà la loro immagine,
danneggerà il loro ruolo e farà loro perdere autonomia
e senso critico. Non è un caso che in Libano i progetti
di riforma siano stati portati avanti soprattutto da musulmani, e che i cristiani si siano spesso allineati al potere, così che al crescere delle pressioni, certi ambienti
cristiani hanno proposto il progetto di separazione o ancora il federalismo.
Un risentimento nei confronti dei cristiani era percepibile nei diversi paesi arabi ove la loro presenza è
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significativa: in Siria, in Iraq, in Giordania, in Egitto,
in Palestina e soprattutto in Libano. Avendo spesso posizioni culturali privilegiate grazie alle proprie scuole e al
legame con i paesi occidentali, avendo spesso abbondanti
risorse economiche, essendo simbolicamente associati al
potere, i cristiani in questi diversi paesi erano destinati a
patire il crescere dello scontento popolare e della volontà
di cambiamento politico.
L’orientamento fondamentalista che emergerà e si
amplierà nel corso degli ultimi due decenni sarà incontestabilmente una minaccia per loro. Questa situazione si
andrà a complicare ancora di più a causa della componente talvolta anti-occidentale dei programmi di alcune
formazioni islamiche, specialmente le formazioni takfiri.
Nella memoria collettiva, soprattutto di questi gruppi, i
cristiani sono ancora «queste minoranze» protette dalle
potenze occidentali.
Durante il mese di settembre 2013 una chiesa in Pakistan ha subito un attentato con un’autobomba, che ha
fatto più di 80 vittime e centinaia di feriti. I talebani del
Pakistan che hanno rivendicato l’attentato hanno precisato che era la risposta a un raid aereo dell’esercito
americano contro le basi dei talebani in una regione del
Pakistan. È un esempio eclatante del dilemma.
I cristiani del mondo arabo e musulmano sono considerati dei bersagli. Percepiti come vettori dell’ingerenza
occidentale all’interno del paese, identificati con regimi
corrotti e repressivi, sono accusati di accaparrarsi le risorse e di accumulare le ricchezze a detrimento dell’intera popolazione. Si nutre invidia e gelosia nei loro confronti poiché spesso sono un passo avanti rispetto al resto
della popolazione. Si tenta di escluderli, di riversare su di
loro la rabbia delle masse…
Di fronte a tali sentimenti ostili, talora accade che
i cristiani si ripieghino, vadano alla ricerca di una protezione esterna o ancora cerchino nell’emigrazione una
soluzione definitiva ai loro problemi quotidiani. Non è
forse una sconfitta? Un abbandono? Non è forse necessario stilare un bilancio – e un bilancio critico – dei loro
percorsi per vedere se i cristiani non siano in parte responsabili del proprio declino?
Il dilemma dei musulmani
Il dilemma dei cristiani del mondo arabo va di pari
passo al dilemma dei musulmani. I musulmani arabi
sono chiamati in causa per risanare il rapporto fra la propria fede musulmana e la propria appartenenza civile,
in quanto la tradizione pre-statuale era improntata alla
confusione fra la città degli uomini e la città di Dio.
Occorre forse ricordare che dopo la sua fondazione
da parte del profeta Maometto, l’islam aveva organizzato
sia la vita politica e sociale sia l’esercizio del culto? Con lo
stato nazionale i musulmani entravano in un’esperienza
nuova, in cui il legame sociale non era più fondato sul
legame religioso. Dovevano allontanarsi o disserrare i
legami con i fratelli nella religione e consolidare e rinserrare quelli con i fratelli nella cittadinanza. L’esperienza
dello stato nazionale ha offerto molte opportunità per
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realizzare il ripensamento di questi legami. Tuttavia
l’accaparramento del potere da parte delle élite dirigenti
autoritarie neo-patrimoniali o mercantili ha finora impedito ai popoli arabi musulmani di riuscire a raggiungere
questo obiettivo.
Sono solo i regimi liberali che consentono più degli
altri – conservatori e autoritari – il riconoscimento e il
consolidamento dei nuovi legami civili e politici.
Il Libano offre un buon esempio d’apertura che il
regime liberale assicura ai cittadini e delle molteplici
sollecitazioni che emergono in un ambiente ove sono
rispettate le libertà individuali e la libertà di coscienza.
In seno alla vita politica, nella costruzione della città, i
libanesi hanno sempre avuto la possibilità di associarsi
in organizzazioni politiche, civili o professionali miste.
Il riferimento alla religione non è la norma, cosa che ha
generato correnti d’opinione e di idee di differenti obbedienze ideologiche.
I musulmani sono politicamente multiformi
È per questo che sarebbe inesatto e anche ingiusto
assimilare tutti i musulmani ai fondamentalisti. Nei paesi
che sono stati toccati negli ultimi tre anni dalla febbre
della «primavera araba», fra la popolazione che contestava il regime è apparsa di volta in volta una grande
varietà di posizioni politiche. La crescita del potere delle
formazioni islamiste in ciascuno di questi paesi si spiegava con fattori precisi: la condivisione con i fondamentalisti dell’esclusione e della repressione subita dai regimi
uscenti, i notevoli mezzi finanziari di cui essi godevano
e la strategia d’infiltrazione popolare grazie alle reti di
takaful / solidarietà sociale e l’eccessiva dispersione delle
opinioni non fondamentaliste/ che si opponevano al regime ma anche fra loro.
Solo per citare il caso tunisino, è possibile misurare almeno le ragioni oggettive che hanno portato all’avanzata
del partito al-Nahda. Nelle elezioni che sono seguite alla
caduta del regime di Ben Alì, esso era in lizza con altri
101 partiti. Ha raccolto 1,7 milioni di voti su 4 milioni
di votanti su 7 milioni di elettori. Al-Nahda è riuscito ad
arrivare primo ma è lungi dal rappresentare la maggioranza dell’opinione pubblica tunisina.
In Egitto, lo scacco del regime Morsi, o quella che
si suole definire la seconda rivoluzione del 30 giugno
2013, prova che l’opinione pubblica contraria al regime
Mubarak è essa stessa multiforme. In Egitto è stata una
componente importante della popolazione a mobilitarsi
per sventare i piani dei Fratelli musulmani, non l’unica.
L’Algeria era passata attraverso momenti dolorosi e
difficili per venire a capo del Fronte islamico di salvezza.
Oggi i tunisini si mobilitano per imporre al partito alNahda un governo di coalizione nazionale. In Siria, l’opposizione al regime di Assad è molteplice. Gli scontri fra
le formazioni fondamentaliste e quelle che non lo sono –
in seno all’Esercito siriano libero – si aggiungono a quelli
con l’esercito del regime.
In Libano, le formazioni politiche che si rifanno all’islam occupano soltanto una parte del campo politico, ac-
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canto a molteplici formazioni politiche che non adottano
un riferimento religioso o un programma o un obiettivo
religiosi. La maggior parte degli attori politici che partecipano alla vita politica e al potere non fanno riferimento
alla religione. In Libano ha sempre operato più o meno
liberamente una grande varietà di partiti e di organizzazioni politiche. È vero che certi gruppi fondamentalisti
hanno guadagnato terreno. Ma sono divisi fra sunniti e
sciiti e beneficiano di molteplici finanziamenti esterni, e
considerata la natura del sistema sociale libanese, a tessuto
largamente multicomunitario, non vi è alcuna chance che
queste formazioni fondamentaliste possano minacciare il
regime liberale che si nutre di questa radicata mescolanza.
Fondamentalisti e liberali
In generale, il mondo arabo è oggi grossomodo diviso
politicamente fra fondamentalisti e liberali. Dallo Yemen
al Marocco la società civile si mobilita e scandisce slogan
diversi. Le categorie più attive sono i giovani, le donne, le
ONG e i professionisti dei mezzi di comunicazione. Non
si tollera più che le aspirazioni delle popolazioni arabe
siano osservate attraverso il prisma della religione, ma
nemmeno con una logica d’incompatibilità con la fede.
Non è più possibile semplificare la griglia d’analisi
per tentare di spiegare una mancanza o una certa eccezionalità del mondo arabo. Per comprenderlo occorre
fare attenzione agli obiettivi delle categorie attive oggi
e cogliere i più pressanti: ci si accorge che sono i concetti di diritti dell’uomo, libertà, partecipazione, diritti
della donna, protezione giuridica contro la violenza,
eguaglianza, giustizia, responsabilità, trasparenza… che
ritornano nei comunicati, nei programmi e negli obiettivi
elettorali. Sono oggi valori quasi universali, e riconosciuti
come centrali per la modernità politica.
Non meraviglia constatare la sinergia oggi esistente
fra differenti popolazioni e culture diverse, favorita dai
media sociali. Non desta meraviglia anche in considerazione delle forti pressioni che la comunità internazionale
esercita su tutti i paesi e tutti i regimi affinché si conformino ai diritti fondamentali proclamati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dai principali strumenti giuridici internazionali. Le società arabe sono in
cammino all’interno del mondo d’oggi: hanno traiettorie
particolari e ritmi particolari, ma sono in movimento e
vibrano all’unisono con i valori umani universali.
Si può anche affermare che le società arabe in questo
momento avanzano più velocemente delle proprie istituzioni e molto più velocemente delle istituzioni della Lega
araba, paralizzata come si è visto precedentemente dalle
lotte d’influenza degli stati e da preoccupazioni di carattere settario.
Un superamento dei dilemmi?
Esiste una risposta a questi dilemmi, comune sia ai
cristiani sia ai musulmani? Assolutamente sì, ci rispondono i fatti e gli avvenimenti, poiché i proclami più fre-
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quenti e le parole d’ordine più ripetute sono la richiesta
della costruzione di un ordinamento civile (dawla madanya), di uno stato di diritto, di una distinzione che si
opera mediante il potere della legge e mediante l’appello
a regimi che trascendono la legge per mezzo di meccanismi di controllo della conformità della legge al diritto.
Dovunque vi è l’esigenza del riconoscimento delle libertà
fondamentali, fra cui la libertà di coscienza.
Nella coscienza collettiva dei cristiani del mondo
arabo vi è un riferimento di primaria importanza, che
dovrebbe rappresentare un manuale per le persone politicamente e socialmente attive. È l’esortazione apostolica
di sua santità papa Giovanni Paolo II.2
Fu promulgata a seguito del Sinodo speciale per il
Libano, considerato da sua santità come il sinodo della
speranza. Egli considerava questa esortazione un documento che si proponeva di offrire principi di riflessione,
orientamenti per il rinnovamento e suggerimenti concreti, e doveva costituire una guida per un costante rinnovamento (cf. n. 7; EV 16/335).
Vi è nell’esortazione l’appello a un autentico dialogo
fra i fedeli delle grandi religioni, fondato «sulla stima reciproca, al fine di proteggere e di promuovere insieme,
per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali,
la pace e la libertà. Tale comune compito è particolarmente urgente per i libanesi, chiamati coraggiosamente a
perdonarsi l’un l’altro, a far tacere dissensi ed inimicizie
e a cambiare mentalità, per sviluppare la fraternità e la
solidarietà in vista della ricostruzione di una società sempre più accogliente»(n. 89; EV 16/474).
«Avendo vissuto fianco a fianco per lunghi secoli talora in pace ed in collaborazione, talora nello scontro e
nei conflitti, i cristiani e i musulmani in Libano devono
trovare nel dialogo, rispettoso delle sensibilità delle persone e delle diverse comunità, la strada indispensabile
all’accoglienza e all’edificazione della società» (n. 90;
EV 16/476).
«È particolarmente necessario intensificare la collaborazione tra i cristiani e i musulmani, nei campi nei
quali sarà possibile, con spirito disinteressato, cioè per il
bene comune e non per quello delle persone private o di
una comunità particolare» (n. 92; EV 16/478).
«Aperta al dialogo e alla collaborazione con i musulmani del Libano, la Chiesa cattolica vuole essere aperta
anche al dialogo e alla collaborazione con i musulmani
degli altri paesi arabi, di cui il Libano è parte integrante.
(…) Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo. Li invito a considerare il loro
inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno
contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei paesi arabi,
un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’islam.
(…) Cristiani e musulmani del Medio Oriente sono chiamati a costruire insieme un avvenire di convivialità e di
collaborazione, in vista dello sviluppo umano e morale
dei loro popoli. Inoltre, il dialogo e la collaborazione tra
cristiani e musulmani in Libano può contribuire a far sì
che, in altri paesi, si avvii lo stesso processo» (n. 93; EV
16/480.481).
L’esortazione precisa che «ogni personalità pubblica,
politica o religiosa e “ogni gruppo deve tener conto dei
bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi,
anzi del bene comune dell’intera famiglia umana”. In
effetti, l’attività nella vita pubblica è anzitutto un servizio responsabile dei fratelli – di tutti i fratelli –» (n. 94;
EV 16/482).
«Invito pertanto tutti i Libanesi a coltivare e far crescere in sé, e soprattutto nelle giovani generazioni, “la
determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il
bene comune (…)”. Allo stesso tempo, è auspicabile che
si sviluppi una condivisione equa delle responsabilità in
seno alla nazione, affinché tutti possano mettere i propri
talenti e le proprie capacità al servizio dei fratelli» (n. 95;
EV 16/484).
«Affinché la pace regni nel Libano e nella regione,
(…) esorto le autorità e tutti i cittadini libanesi a fare tutto
il possibile perché i diritti umani (…) siano pienamente
rispettati» (n. 116; EV 16/520).
«Violare i diritti dell’uomo è violare i diritti di Dio.
(…) Servire i poveri è andare a Dio; dovete riconoscere
Dio nelle loro persone» (n. 115; EV 16/519).
«Esorto voi libanesi di tutte le confessioni ad affrontare con successo la sfida della riconciliazione e della fraternità, della libertà e della solidarietà, condizione essenziale per l’esistenza del Libano» (n. 120; EV 16/525).
Infine, sua santità il papa Giovanni Paolo II ha precisato che la Chiesa è impegnata nel servizio sociale, nel
servizio all’educazione, che è sensibile ai più poveri ma
«in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico. (…) Non
compete perciò a essa impegnarsi direttamente nella vita
politica» (n. 112; EV 16/511).
La missione delle Chiese
Si coglie chiaramente la missione culturale ed etica
di cui sono investite le Chiese cattoliche, e si fa appello
ai libanesi affinché coltivino l’attaccamento alla propria
terra e siano aperti alla cooperazione e alla solidarietà di
concerto con i libanesi delle altre comunità.
Le Chiese cattoliche nel mondo arabo adempiono
realmente a compiti importanti in campo educativo,
come pure nel campo umanitario e in quello sociale. La
precarietà in cui versano vasti settori della popolazione
chiama oggi le Chiese a perseverare e a estendere il proprio servizio, in particolare nei confronti dei più poveri.
Le Chiese hanno quindi un ruolo primario nell’educazione ai valori e all’etica. I fedeli sono chiamati per parte
loro a dare prova di impegno senza riserva, a servizio del
bene comune al di là degli interessi particolari.
Tolleranza e perdono, apertura e rispetto delle differenze, estrema sensibilità alla giustizia e alla pace, al riconoscimento dei diritti dell’uomo e delle sue libertà: anche
i prigionieri e le persone con necessità speciali hanno i
medesimi diritti fondamentali, che occorre rispettare.
Davanti all’immensità dei bisogni e davanti alla precarietà crescente nei vari paesi arabi, queste missioni
sono ancora più importanti e sono chiamate ad allargarsi, invitando con l’occasione a riflettere seriamente e
sistematicamente sulla «gestione» più razionale dei beni
della Chiesa, per ottimizzarne i benefici verso i più poveri e per assicurarsi che siano a servizio al bene comune,
che rappresenta la vocazione di tali beni e la missione
ultima della Chiesa.
Una piattaforma per la pace e la giustizia
nei paesi arabi
Non resta il tempo per interrogarsi sulla piattaforma
su cui costruire pace e giustizia. Essa si poggia sul necessario rispetto e sul riconoscimento dei diritti dell’uomo.
Tali diritti dell’uomo sono iscritti in forma prioritaria
negli obiettivi dei movimenti di contestazione nei diversi
paesi arabi che sono in transizione.
Anche nei paesi arabi non toccati dai sommovimenti
si osserva il risveglio di questi medesimi valori: in Arabia Saudita il re ha annunciato la delibera di una quota
del 20% di partecipazione delle donne al Consiglio della
Shura, ha dichiarato che non resteranno crimini impuniti la violenza e il maltrattamento delle donne, e queste
ultime si accingono a guidare l’auto senza essere fermate
dai poliziotti o dalla polizia religiosa, la mutawwi‘a (che
dipende dal Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio; ndt)…
Ma l’indizio più importante di questo fermo orientamento verso la modernità politica, culturale e sociale
è quello della mobilitazione attiva di larghi strati della
popolazione in nome dei diritti dell’uomo, delle libertà
fondamentali, contro il potere oscurantista o autoritario ma contro i movimenti reazionari e integralisti. È
pressante la richiesta di un ordinamento civile, di un
dawla madanya.
La reazione dei cristiani del mondo arabo
Tale reazione non è univoca ma sfaccettata. Vi è
chi ha preso la strada dell’emigrazione, e sono tanti
soprattutto fra le giovani generazioni, ma anche nei
paesi arabi ove in un primo momento il cambiamento
ha portato dei fondamentalisti al potere. Anche in Iraq
e in Siria si osservano vaste ondate di spostamenti forzati. Queste vaste ondate erano provocate da azioni o
di esclusione o semplicemente criminali da parte dei
gruppi fondamentalisti takfiri oppure anche da situazioni di conflitto.
Ciò è pericoloso, poiché svuota le regioni delle proprie popolazioni tradizionalmente cristiane e distrugge il
tessuto misto delle società. I cristiani non sono forse combattivi e pazienti? Sono disperati? Dov’è il ruolo attivo
delle loro Chiese? La lotta dei cristiani non dovrebbe es-
2 Cf. Giovanni Paolo II, esortazione apostolica postsinodale
Una speranza nuova per il Libano, 10.5.1997; EV 16/322ss.
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tudi e commenti
sere una lotta non armata ma fatta con la fede, la convinzione e l’alleanza con i musulmani che sono loro simili e
che restano i più numerosi? Com’è potuto accadere che
siano sorti importanti movimenti di risposta ai gruppi
islamisti radicali e i cristiani ne siano quasi assenti?
Se i cristiani dovessero arrivare a comprendere la
certezza di non poter contare sulla protezione delle
grandi potenze occidentali – chiamate cattoliche o
anche cristiane – che paiono strumentalizzarli a servizio
dei propri interessi nazionali o di potere, essi potranno
vivere senza protezione esterna? E dove troveranno
protezione?
Lo stato di diritto, luogo naturale
per la protezione di tutti i cittadini
Prendendo in considerazione i movimenti di risposta ai governi fondamentalisti in Egitto, Siria, Marocco
e in Tunisia e anche altrove, emerge con certezza che
i cristiani del mondo arabo hanno degli alleati naturali
che non devono ignorare: si tratta della maggioranza dei
musulmani, alla ricerca essi stessi dello stato di diritto, del
riconoscimento dei diritti dell’uomo, della giustizia, della
partecipazione e della responsabilità dei governi. La loro
lotta è la medesima. Perché allora disertare e prendere la
strada dell’emigrazione?
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stato possibile contattare, nonché per eventuali e involontarie inesattezze e/o omissioni nella citazione delle
fonti iconografiche riprodotte nella rivista.
Il ruolo pionieristico del Libano
I primi sommovimenti del cambiamento hanno sorpreso tutto il mondo, sia per il momento in cui sono avvenuti, sia per la loro ampiezza, sia per i regimi che sono
stati toccati per primi. I regimi egiziano e tunisino erano
noti per le buone relazioni con le potenze occidentali.
La loro caduta ha stravolto le idee preconcette sul ruolo
delle potenze estere nel mantenimento o nella caduta dei
regimi. Ha anche smontato un’immagine stereotipata
delle società arabe, definite immobili e passive.
Si sono viste le popolazioni, gente di tutte le età e di
tutte le categorie e classi sociali, mobilitarsi, esporsi alla
repressione, sopportare il peggio al fine di spingere verso
il cambiamento politico. Oggi appare chiaramente che
c’è in gioco la durata, la possibilità di durare; i primi
passi del cambiamento sono talvolta stati eccessivi, altre
volte hanno deviato. La costituzione e il consolidamento
dei regimi democratici richiedono tempo.
Ma lo stupore era anche provocato dall’assenza del
Libano in tutti questi sommovimenti. Perché mancava il
paese a più antica tradizione liberale? Non ha forse esso un
ruolo di pioniere, in quanto il più radicato nei valori liberali
e in quelli democratici e vive dal 1920 la problematica esperienza della vita in comune? Perché il Libano non riesce
a impegnarsi in riforme profonde che consolidino la sua
democrazia e il sistema di protezione dei diritti dell’uomo?
I libanesi sono in ritardo perché non hanno letto l’esortazione apostolica, oppure non l’hanno applicata.
Più divisi che mai, esposti a tutte le influenze e le ingerenze esterne, i dirigenti libanesi scommettono su alleanze regionali e internazionali. Si dirà che non hanno
capito niente.
Sono necessari passi coraggiosi verso il tavolo del
dialogo, l’accettazione di un governo di unità nazionale,
il senso della moderazione, l’accettazione degli altri, il
senso dell’inclusione, e, per i cristiani, la determinazione
e l’ostinazione a restare anziché emigrare.
L’alleanza dei moderati di tutte le comunità che riconoscono i diritti dell’uomo e che hanno aspirazioni simili
è il solo mezzo per restare fedeli alla memoria dell’Oriente arabo, che ha visto nascere la prima comunità di
cristiani al mondo, e per restare fedeli alla vocazione di
rispetto per l’essere umano e la sua dignità, che è inerente alle grandi religioni.
Le Chiese dovranno per parte loro farsi carico pienamente del proprio potere culturale e morale e prendere
le distanze dal potere politico, ogni potere politico. Esse
dovranno contribuire attivamente a ridurre la precarietà
sociale dei propri fedeli esortandoli ad agganciarsi ai rispettivi paesi e a partecipare alla loro riforma e democratizzazione.
Solo un tale approccio manterrà il ponte fra il mondo
arabo e il resto del mondo. Solo questo potrà salvare il
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l 24 marzo 1980 l’arcivescovo di San Salvador venne brutalmente assassinato,
all’età di 62 anni, mentre celebrava la messa. Il giorno precedente, in cattedrale,
aveva denunciato il tragico elenco delle ingiustizie e delle oppressioni compiute dal
potere violento nei confronti del popolo. Nelle sue due ultime omelie Romero affida
alla Parola di Dio il compito di illuminare la realtà sociale, politica ed economica
per tradurre in fatti gli insegnamenti del Vangelo e accogliere «il grido del popolo
e il dolore per tanti crimini».
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