Vittorio Moioli
Incoerenze
e “buchi neri”
della sinistra
Annotazioni e riflessioni critiche
sulla storia del movimento operaio
Vol. II
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Vittorio Moioli
Incoerenze
e “buchi neri”
della sinistra
Annotazioni e riflessioni critiche
sulla storia del movimento operaio
Vol. II
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Indice
Parte seconda
Commenti e osservazioni su alcune fasi storiche e su alcuni teorici della sinistra
Capitolo 1°
Nascita della sinistra e prime forme organizzative del movimento operaio
Capitolo 2°
L’elaborazione marx-engelsiana
Capitolo 3°
I revisionismi della teoria marx-engelsiana
Capitolo 4°
La costruzione del socialismo in un’economia semi-asiatica
Capitolo 5°
La mancata rivoluzione in Occidente e l’avvento del fascismo
Capitolo 6°
La degenerazione staliniana
Capitolo 7°
Gramsci e la rivoluzione in Occidente
Capitolo 8°
Resistenza, via italiana al socialismo e boom economico
Capitolo 9°
Dalla contestazione studentesca e operaia alla crisi del sistema politico
Capitolo 10°
Il crollo del socialismo reale
Parte terza
Considerazioni sulla crisi della sinistra
Capitolo 11°
La sinisra e il fallimento della strategia leninista
Capitolo 12°
E’ davvero morta la teoria marxiana?
Capitolo 13°
La rivoluzione continua del capitale
Capitolo 14°
Potenza, “virtù” e iniquità del capitale
Capitolo 15°
L’incapacità della sinistra di far leva sulle contraddizioni del capitalismo
Capitolo 16°
Le condizioni per l’alternativa al capitalismo
Capitolo 17°
Il nodo cruciale del “general intellect”
Capitolo 18°
La crisi dello Stato e della democrazia
Capitolo 19°
La sinistra e lo Stato
Capitolo 20°
L’organizzazione politica ieri e oggi
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Annotazioni conclusive
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Appendice
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“Le difficoltà non stanno nella forza dell’avversario,
nella resistenza della società borghese…
la difficoltà sta nel proletariato stesso,
nella sua immaturità, o piuttosto nell’immaturità
dei suoi capi, dei partiti socialisti”.
Rosa Luxemburg
Parte seconda
Commenti e osservazioni su
alcune fasi storiche e su alcuni
teorici della sinistra
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Capitolo 1°
Nascita della sinistra e prime forme organizzative del movimento operaio
1.1 – La sinistra, figlia del giacobinismo
Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800, l’Europa viene sconvolta da tre rivoluzioni le cui origini
sono da far risalire al rinascimento: in Inghilterra ha svolgimento la rivoluzione industriale, in
Germania quella filosofica, in Francia quella politica.
A ognuno di questi epocali avvenimenti corrisponde una precisa scuola di pensiero: le nuove teorie
economiche fanno capo ad Adam Smith, la nuova filosofia ha come fondamento la dialettica di
Friedrich Hegel, l’avvento della repubblica vanta come fautori i rivoluzionari borghesi francesi.
Sono questi i tempi della comparsa della “manifattura” e della realizzazione di uno straordinario
sviluppo del commercio, conseguente alla scoperta di nuove terre e di nuovi mercati.
Per poter produrre in modo nuovo, diventa necessario abbattere le rigidità del vecchio sistema
feudale, occorre superare l’economia contadina e abolire i dazi che rappresentano un ostacolo alla
circolazione delle merci prodotte. L’abbattimento di questi ostacoli, a sua volta, comporta la
modificazione delle legislazioni vigenti e il superamento delle istituzioni ereditate dal vecchio
ordine sociale.
Accade così, almeno nei Paesi più sviluppati, che la borghesia, originaria dei Comuni (dei burgus
medievali), discendente da villani e da servi della gleba di ogni genere, fino a quel momento ceto
oppresso, tributario della nobiltà feudale, attraverso una lotta incessante, strappa all’aristocrazia,
soppiantandola, un posto di comando dopo l’altro fino a prendere completo possesso del potere. E
sull’onda della graduale trasformazione dell’ordine economico indotto dalla rivoluzione industriale,
essa procede a un ribaltamento delle condizioni e anche degli stessi modi di pensare.
Prima ancora che la borghesia francese liquidasse la monarchia, nel continente americano si era
verificata la rivolta delle colonie dalla quale sono poi nati gli Stati Uniti d’America. Se è giusto che
i fondatori di questo nuovo Paese vengano considerati i pionieri della democrazia politica, torna
utile tener presente che la rivoluzione del “nuovo mondo”, nonostante la sua indubbia importanza,
non è riuscita ad assumere storicamente quel carattere di universalità che è proprio della rivoluzione
francese. Solo i principi di libertà, uguaglianza e fraternità vengono avvertiti e vissuti come principi
assoluti, cosmopolitici, emancipatori di tutti gli uomini, indistintamente dalle etnie e dalle
condizioni sociali, e proprio per questa loro caratteristica vengono affermati una volta per sempre.
La stessa tradizione liberale inglese, prodotto della rivoluzione del 1688-89, poiché non ha messo in
discussione l’istituto della schiavitù nelle colonie, e pur essendosi battuta contro il potere assoluto
del re, non ha riconosciuto l’idea di popolo, inteso come insieme di soggetti con eguali diritti. Per
questa ragione ha assunto storicamente un’importanza minore rispetto alla rivoluzione francese.
Solo la “presa della Bastiglia”, dunque, ha costituito il simbolo del sopravvento della borghesia sul
regime feudale. Ed è proprio in questa storica circostanza che la nuova classe emergente si è
dimostrata al mondo come forza egemone nella lotta contro il vecchio sistema aristocratico e,
tramite la sua rivoluzione economica e quella del pensiero, ha compiuto un passo da gigante nel
progresso dell’umanità.
Mentre il sistema feudale e aristocratico fondava la sua visione del mondo sulle verità rivelate da
dio, e il potere monarchico risultava intrecciato con quello ecclesiastico, la borghesia è stata
portatrice di verità laiche e razionali, all’insegna appunto di valori quali la liberté, l’egalité e la
fraternité.
Socialmente la nuova classe emergente è composta da commercianti e industriali in fieri, ma vanta
la pretesa di essere la rappresentante di tutte le classi oppresse ed è in nome anche di queste classi,
del proletariato e dei contadini in primo luogo, che essa “fa la rivoluzione”.
I rivoluzionari francesi non prevedono e non dichiarano affatto di perseguire l’ordine capitalistico,
essi si propongono di affermare universalmente i diritti dell’uomo. In questo spirito, come recita la
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“Dèclaration” del 1789, proclamano che “resistere all’oppressione dei governanti non è solo un
diritto, ma un dovere”.
Essi dimostrano pertanto di non avere piena consapevolezza del loro compito storico, ma di essere
sospinti nel loro agire soprattutto dai processi storici.
La rivoluzione francese concentra comunque nel suo arsenale spirituale, e nella sua prassi, le più
importanti conquiste dell’esperienza umana, della scienza e della coscienza sociale europea. Essa
sintetizza i risultati della Riforma e dell’Illuminismo.
Nessuna delle rivoluzioni che l’hanno preceduta si è mai spinta fino alle sue altezze morali.
Nessuna di queste aveva mai proclamato ideali democratici tanto nobili.
Parte integrante della preparazione ideale della rivoluzione francese è infatti la rivendicazione della
felicità, un’aspirazione che era già presente nei “diritti inalienabili” proclamati dai rivoluzionari
americani, quali appunto “la Vita, la Libertà ed il Perseguimento della Felicità”, ma solo ora essa
viene affermata con la dovuta determinazione.
Quella francese è stata una durissima rivoluzione anche sul piano culturale. Non per caso, nel suo
corso, vengono distrutti, giacché considerati “inutili”, una gran massa di libri ecclesiastici (messali,
libri di devozione, ma non solo) confiscati ai conventi.
In considerazione di questa sua caratteristica che indubbiamente la rende ricca di nuovi valori e di
una moderna visione del mondo, è però da notare che nessuna altra rivoluzione aveva mai
riscontrato un così palese divario tra le attese suscitate e la realtà degli accadimenti.
La contraddizione tra la Dichiarazione che riconosce i diritti “egoisti” del singolo e insieme
persegue una politica di assistenza sociale di portata comunitaria veicolata dallo Stato, e pure tra la
piena affermazione della proprietà privata e la sua messa in discussione attraverso tutta una serie di
misure tendenti a limitarla in vista dell’interesse generale, non sfugge allo stesso Marx nonostante
egli considerasse la rivoluzione francese uno straordinario evento del progresso umano.
La tanto proclamata libertà, infatti, nella pratica, si rivela ben presto limitata. Il dominio della
ragione appare idealizzato, le solennità della giustizia e dell’uguaglianza ridotte a paragrafo di
legge, la nobiltà della morale e della coscienza contaminata dall’ipocrisia, la sacra fede negli ideali
ridotta a fariseismo. In sostanza, le attese del popolo vengono tradite. Se è vero che essa si presenta
come una rivoluzione popolare non solo per le sue aspirazioni, ma anche per l’ampia e attiva
partecipazione delle masse, la sua direzione è esclusiva prerogativa della borghesia, rivelandosi in
contraddizione con lo stesso spirito che l’ha animata e con i suoi stessi principi.
Le masse popolari, per esempio, aspirano non solo alla parità politica, ma anche a una parità sociale
e sono convinte che la rivoluzione possa soddisfare questa loro esigenza, ma questo non avviene.
Nel compiere il suo disegno rivoluzionario la borghesia ha ovviamente bisogno di avere degli
alleati, anzi dei validi combattenti per la sua causa. A prendere le armi e a battersi sulle barricate
non sono però i rispettabili mercanti o gli eloquenti professori che predicano i nuovi ideali, ma
proprio le classi popolari; salvo qualche eccezione, a scorrere nelle battaglie non è il sangue
borghese, ma quello della plebe. E questo sta anche a spiegare che senza il decisivo apporto del
popolo nessuna rivoluzione borghese avrebbe potuto avere successo.
Conquistato il potere, la borghesia non si dimostra perciò in grado, né tanto meno intenzionata, di
soddisfare le esigenze e le aspettative del popolo.
La condizione dei proletari continua a essere quello di sempre, cioè di esseri sfruttati e produttori di
prole, come li aveva classificati Servio Tullio nel 6° secolo a.C..
La borghesia ha come obiettivo l’esclusiva liberazione di se stessa e il modello di società al quale
dà vita risulta formato ancora da classi sociali in antagonismo tra di loro.
E’ questa una contraddizione che inevitabilmente è destinata a emergere e ad esplodere assai presto.
Non trascorre infatti molto tempo dalla rivoluzione del 1789 che il proletariato, rappresentato nel
parlamento repubblicano dalla componente dei giacobini, si rende conto che le sue aspettative non
possono essere esaudite. E mentre constata che a trionfare sono gli interessi della nuova classe
dominante e che il suo ruolo continua a essere subalterno, prende coscienza del vero significato che
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assumono i termini di “nazione” e di “stato”, cioè dei due assunti rivoluzionari che, di fatto,
risultano funzionali solo alla vincente borghesia escludendo di nuovo dal potere i ceti popolari.
In sostanza, rispetto al vecchio sistema feudale, mentre le condizioni di vita del nuovo ceto
borghese risultano cambiati, per coloro che stanno ai gradini inferiori della scala sociale rimangono
pressoché identiche al passato. Alla conquista dell’eguaglianza civile e giuridica non ha fatto
seguito l’eguaglianza sociale ed economica.
La constatazione della disparità tra propositi e conquiste reali non provoca però automaticamente e
immediatamente un conflitto aperto. Il processo di acquisizione di una coscienza politica da parte
del proletariato e la conquista di una propria autonoma organizzazione, richiedono tempo e
pazienza. Trascorrerà infatti più di mezzo secolo dall’assalto alla Bastiglia prima che le classi
subalterne prendano atto della insanabile contraddizione di interessi di cui è portatrice la
rivoluzione dell’89. E solo quando essa diverrà evidente, il proletariato si presenterà in veste di
protagonista politico in proprio.
La sua riscossa avverrà nel corso dei moti del 1848 e le dimensioni di quel sommovimento saranno
tanto vaste da scuotere l’intera Europa. E’ proprio a partire dai moti quarantotteschi che decolla
quel processo di acquisizione da parte della classe operaia di una coscienza critica e di una sua
azione conseguente che si esplicitano nei primi tentativi di sperimentazione di una propria
organizzazione sociale e politica.
Così come il proletariato è il prodotto del capitale e non è separabile da esso, la sinistra è una
costola della borghesia. Essa ha origine dall’ala giacobina dei rivoluzionari borghesi francesi.
L’idea della politica come conflitto fra “sinistra” e “destra” nasce proprio in Francia, alle
Assemblee rappresentative della nascente repubblica, allorquando i deputati sono chiamati a
prendere posto ai lati del tavolo della presidenza. Essi si dispongono in due distinti gruppi: alla
destra si schierano i conservatori, alla sinistra i democratici e i progressisti. Da questo preciso
momento i due termini assumono un significato simbolico: destra sta a significare attaccamento a
una struttura gerarchica e al godimento di privilegi; sinistra, all’opposto, esprime desiderio
d’infrangere quella stessa struttura di potere e di lottare per l’eguaglianza e la giustizia sociale.
C’è chi ha sostenuto che la sinistra sarebbe figlia della massoneria, dal momento che è dalle logge
massoniche del Settecento che originano le grandi correnti del pensiero politico contemporaneo,
quali il liberalismo, il repubblicanesimo, la democrazia cristiana e il socialismo. In effetti, nella
seconda metà dell’Ottocento, numerosi esponenti del filone anarco-repubblicano della sinistra,
compresi Bakunin e Proudhon, furono affiliati alla massoneria; e pure i due generi di Marx,
Lafargue e Longuet, risulta fossero iscritti alle logge. Fra gli italiani illustri, sono da considerare
aderenti alla massoneria, tra gli altri, Giuseppe Garibaldi, Arturo Labriola e Andrea Costa. Nel
campo socialista, la componente riformista e la direzione del movimento sindacale sono rimasti
massoni fino alla prima guerra mondiale, mentre ai tempi nostri sono rimasti tali molti dirigenti
dell’Internazionale socialista, soprattutto belgi e francesi. Nel campo comunista, invece,
l’incompatibilità dell’appartenenza a tale organizzazione è stata fatta scattare nel 1922.
Se è dunque vero che alcuni assertori delle idee socialiste hanno aderito alle logge massoniche, è un
dato di fatto indubitabile, che i termini “sinistra” e “destra” sono produzione esclusiva degli scontri
parigini all’indomani della rivoluzione dell’89. La sinistra è dunque da considerarsi figlia del
giacobinismo e non già della massoneria.
Del resto, non è un caso che il socialismo abbia rappresentato nel tempo e continui ancora oggi a
rappresentare in sé la coniugazione dei valori che sono stati propri della rivoluzione francese, quelli
cioè della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.
1.2 – Le utopie dei primi comunisti e socialisti
Ben presto il regime giacobino si viene a trovare in un vuoto sociale che sarà la causa della sua
caduta. A decretarne la sconfitta non è solamente la sua incapacità di governare rispettando i
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principi proclamati durante la rivoluzione e ad articolare quindi le nuove istituzioni secondo il loro
dettato, ma anzitutto è la sua stessa incapacità di stabilire un rapporto positivo con il popolo.
Non è un caso, del resto, che Robespierre si trovi obbligato a ricorrere prima al “Governo di salute
pubblica” e poi al “Terrore” da lui inteso quale mezzo per conseguire “una giustizia rapida, severa
e inflessibile” e per ”purificare la Virtù della direzione rivoluzionaria”. Di fatto, queste creature
istituzionali non sono altro che il segno dell’impossibilità di governare con mezzi democratici la
situazione che si è venuta determinando dopo la presa del potere e, soprattutto, di rispondere alle
incalzanti aspettative dei ceti popolari. Va notato che è proprio nel periodo del “Terrore” che si
assiste al sopravvento di uomini privi di principi politici e morali e che trovano spazio massacri,
vendette, pratiche lucrose, tresche e persino orge. E pensare che sia Kant che Hegel hanno sostenuto
che il “Terrore” ha avuto una funzione emancipatrice e liberatrice!
E’ pur vero, d’altra parte, che la Vandea è da considerarsi una delle più eloquenti testimonianze di
questo insieme di difficoltà la quale ha avuto connotazioni secessioniste e indipendentiste. Le
popolazioni di quella regione erano soffocate dalla politica di accentramento burocratico-militare
che perdurava dall’antico regime, una politica a cui i giacobini non hanno potuto rinunciare. La
concessione dell’indipendenza o anche solo dell’autonomia avrebbe comporttato infatti una
controrivoluzione.
Ed è proprio una tale situazione di incongruenze, di incoerenze e di caos che provoca il
“Termidoro”, cioè l’esecuzione dello stesso Robespierre e di Saint-Just, la costituzione del
Direttorio e anche la conseguente abolizione del suffragio universale.
Alcuni storici hanno considerato il processo involutivo della rivoluzione francese come una regola
della storia: quando troppo grande diventa il solco fra maturità dei bisogni popolari e l’opacità del
sistema politico – secondo loro - diviene inevitabile un ribaltamento dei “poteri”.
Sta di fatto che ogni rivoluzione avviene in tempi accelerati, nel giro di pochi anni brucia interessi,
comportamenti, modi di pensare consolidati nel corso di secoli e i cambiamenti che ne conseguono
sono spesso tanto violenti da favorire irrigidimenti e degenerazioni ingovernabili con metodi
democratici e domabili solo attraverso un regime autoritario.
Non devono pertanto meravigliare né i fallimenti di Robespierre, né la piega che il processo
rivoluzionario francese prende a fine secolo con il sopravvento di Napoleone Bonaparte, il quale
trasforma le guerre di liberazione in guerre di conquista e muta la lotta rivoluzionaria della
borghesia contro il feudalesimo in una nuova e moderna forma di asservimento di popoli.
L’originario spirito rivoluzionario che era messianico di liberazione degenera appunto in
“bonapartismo imperiale” e il Paese che ha proclamato i principi di libertè, egalitè e fraternitè si
trasforma in una potenza coloniale.
A denunciare i giacobini di tradimento della rivoluzione e a scagliarsi contro il “Termidoro” ci
prova Francois-Noel Babeuf, considerato il capostipite dei comunisti utopisti. Egli si rivolta contro
il nuovo potere in nome dell’uguaglianza e dichiarandosi interprete degli interessi del popolo che si
sente tradito dalla borghesia, dà vita alla “Congiura degli uguali”. Rilancia così con forza le idee
democratiche e i principi che hanno ispirato la rivoluzione, e si dice convinto che “l’uguaglianza
non fu altro che una bella e sterile finzione della legge” e che “la rivoluzione francese non è che
l’avanguardia di un’altra rivoluzione più grande, più solenne: l’ultima rivoluzione”. Per questo egli
viene giustiziato.
Una corrente di comunismo utopistico è presente in Francia fin dai primi anni del XVIII secolo e ha
come principale esponente l’abate Meslier.
Più avanti nel tempo a rappresentare questa corrente di pensiero sono gli illuministi Gabriel Bonnot
de Mably e Morelly. In genere gli aderenti a tali concezioni sono di estrazione aristocratica e il loro
“comunismo radicale” ha un carattere elitario e idealistico.
Tra la fine del 18° secolo e l’inizio del 19°, in alcuni Paesi d’Europa si afferma anche una corrente
di socialismo utopistico che, unitamente alle idee romantiche di comunismo, rappresenta il punto
più alto cui poteva giungere a quel tempo il pensiero razionalistico.
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Il socialismo utopistico è caratterizzato da due grandi correnti, e precisamente dall’utopismo
dell’antichità classica, rappresentato da Tommaso Moro, il quale pensa il presente in funzione
dell’avvenire contrapponendo alla società esistente un progetto alternativo, e da Tommaso
Campanella; e poi dalla filosofia francese, da Jean-Jacques Rousseau anzitutto, il quale è un
acerrimo nemico dei potenti e dei ricchi e si scaglia contro il capitalismo in formazione esaltando la
giustizia sociale e l’indipendenza dell’uomo.
Durante la rivoluzione francese l’utopia si fonde con un mito assolutamente nuovo, quello appunto
della rivoluzione, che risulta totalmente sconosciuto al pensiero politico classico.
Secondo Lévi-Straus, l’epoca dell’illuminismo è un’età calda per la produzione di utopie. Se sino
alla fine del Settecento l’uomo si collegava all’idea di isole perfette, collocate nello spazio, le quali
non avevano alcun rapporto con la realtà se non quello di rappresentare il contrario di essa, con la
fine di quel secolo l’utopia si sposta dallo spazio geografico al tempo e viene sostenuto che pensare
a società future perfette, o migliori, è possibile. Per di più, si crede che le grandi trasformazioni
siano iscritte quasi geneticamente nelle cose.
Il comunismo utopistico di Babeuf non fonda ovviamente sul cambiamento del sistema di
produzione, ma si limita a prescrivere una ripartizione della ricchezza, il cambiamento invocato fa
leva cioè sul consumo. Egli è contro la proprietà privata, sostiene l’abolizione dell’eredità e lotta
per l’uguaglianza sostanziale detestando quella formale. Scrive infatti: “Non più proprietà privata
della terra: la terra non è di nessuno. Noi reclamiamo, vogliamo il godimento comune dei frutti
della terra: i frutti appartengono a tutti. Dichiariamo di non poter ulteriormente permettere che la
grande maggioranza degli uomini lavori e sudi al servizio e per il piacere di una piccola
minoranza”.
Un’utopia la sua che è in sintonia con uno dei massimi capi della rivoluzione francese, LouisAntoine-Leon Saint-Just, il quale redarguisce il popolo dicendo: “Non tollerate che ci sia nello
Stato un solo povero e infelice…”
La filosofia di quel tempo, del resto, porta con sé dal passato una forte eredità di comunitarismo e,
in alcuni casi, l’idea che una società senza proprietà privata sia sotto certi aspetti più naturale di
quella in cui essa è riconosciuta e protetta, e ad ogni buon conto le sia storicamente anteriore.
Si consideri che agli inizi della loro storia negli Stati Uniti, Paese che poi diventerà la roccaforte del
capitalismo mondiale, da parte dei primi immigrati europei vengono fatti degli esperimenti di
agricoltura comunista. La colonia di Jamestown come pure quella di Plymouth, e i primi
insediamenti nell’America del Nord, vengono fondati nei primi decenni del 1600 su principi
comunisti ispirati da convinzioni religiose. Poiché però tutti rischiano il fallimento, dal momento
che molti dei membri non eseguono la loro giusta parte di lavoro, dopo qualche anno passano alla
proprietà privata continuando così a sopravvivere.
Nei primi decenni dell’Ottocento non solo in Francia, ma anche in Inghilterra e negli stessi Stati
Uniti si registra una fiorente presenza di utopisti, sia sul fronte teorico che su quello pratico. E’
l’epoca in cui emergono due interpretazioni di questa corrente di pensiero: mentre negli ambienti
del proletariato, per definire questo movimento, si ricorre al termine “comunismo”, sottintendendo
l’esistenza di un programma sociale, negli ambienti borghesi si preferisce usare il termine
“socialismo” che sta invece a sottolineare un carattere più analitico e critico rispetto a quello
programmatico.
In Italia, l’utopismo ha scarsa rilevanza e mantiene un carattere prevalentemente provinciale. Suo
principale rappresentante è Filippo Buonarroti, fedele amico di Babeuf.
E’ da rilevare che il pensiero utopistico risulta particolarmente radicato nell’ideologia cristiana. Nei
primi decenni dell’Ottocento il filosofo francese Claude-Henry Saint-Simon scrive un testo
intitolato non a caso “Nuovo cristianesimo”. La sua dottrina combatte la povertà e la disparità
sociale e respinge decisamente i principi di libertà e di uguaglianza propugnati dalla rivoluzione
francese in quanto li giudica individualistici e tendenti a portare alla concorrenza e all’anarchia
economica. E’ proprio alla scuola di Saint-Simon che si fanno risalire concetti come “lo
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sfruttamento dell’uomo sull’uomo” e “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il
suo lavoro”.
I saint-simoniani si preoccupano comunque più della regolamentazione collettiva dell’industria e
meno della proprietà cooperativa della ricchezza.
Tra i più importanti utopisti di fede cristiana, o comunque da essa influenzati, sono da ricordare il
prete Felicitè Robert Lemannais il quale si lamenta perché “dopo 18 secoli di cristianesimo viviamo
ancora nel sistema pagano”. Egli predica contro le imposte statali e contro la delega e insiste sui
doveri ricordando che “il diritto di rifiutare l’imposta, correlativo al diritto d’accettarla, è
incontestabile. E’ stato riconosciuto in Inghilterra sotto Carlo I, in Francia sotto la restaurazione;
lo si riconosce adesso in Spagna”.
Sono ancora da ricordare Alphonse Constant, che redige la Bibbia della libertà interpretando a
modo suo i vangeli, e Richard Lahautiére, che scrive: “Se dio esiste egli deve pur maledire e
dannare tutti questi pretesi rappresentanti che predicano il cielo e derubano la terra…. Avere al di
là dei propri bisogni è appropriarsi dei beni del proprio vicino”.
Come i cristiani delle origini, la maggior parte di loro (ma così sarà anche per quelli che vivranno
nell’epoca precedente la prima guerra mondiale), ripongono le loro speranze in una grande
palingenesi apocalittica, cioè in una resurrezione la quale dovrebbe avere l’effetto di cancellare tutti
i mali sociali e instaurare una società più giusta e felice.
Loro caratteristica comune è quella di mettere al centro delle loro analisi e delle loro azioni il
momento sociale subordinando ad esso quello politico.
Ma anche utopisti comunisti come Etienne Cabet e Wilhelm Weitling mettono in relazione le loro
tesi con la religione. Il primo considera Cristo il massimo apostolo del comunismo, mentre il
secondo fa risalire il comunismo al cristianesimo primitivo. A dire di quest’ultimo, fino al secolo
dell’era cristiana i seguaci di Cristo, eredi dei suoi insegnamenti, sarebbero vissuti in comunanza di
beni. Condizione per essere accettati nella comunità cristiana sarebbe stata la vendita dei beni di chi
veniva accolto e la spartizione del ricavato tra i poveri. Weitling è convinto che “se si aspira a
raggiungere lo stato di una felicità generale, si deve volere che ciascuno abbia e goda di quanto ha
bisogno e nulla più”. E ricorda come Gesù Cristo abbia detto ai suoi: “Voi non dovete credere che
io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma la spada (Matteo,
capo X, 34)”; “Anche Gesù era un comunista, insegnava il principio della comunanza e la necessità
di questo principio. Gli spartani vissero per 500 anni in comunità di beni”.
Nel continente europeo a ispirarsi al comunismo sono anche i “rappiti” e i “separatisti”.
Gli utopisti credono nell’ineluttabilità del progresso e sono influenzati dal razionalismo: la ragione
fornisce la base di ogni azione umana per cui “la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e
l’oppressione (devono) essere soppiantati dalla verità eterna, dalla giustizia eterna,
dall’eguaglianza fondata sulla natura, dai diritti inalienabili dell’uomo”.
Il socialismo utopistico non é dunque scientifico e proprio per questa ragione alla prova della storia
si rivelerà fallimentare. Esso è però denso di una carica morale straordinaria. Gli utopisti operano
perché l’uomo sia felice; manifestano un profondo senso dell’uguaglianza e della giustizia sociale;
si dedicano alla causa al punto di andare in carcere e morire per essa. Louis Auguste Blanqui, per
esempio, dei 76 anni che ha vissuto ne ha trascorsi 36 in carcere.
Accanto ai “sognatori” esistono anche gli utopisti pratico-teorici tra i quali merita di essere
ricordato in primis Robert Owen. Nel giro di qualche anno egli riesce a trasformare una popolazione
inglese di 2.500 persone in una perfetta colonia modello. Si tratta di un’esperienza che ripeterà nel
continente americano con la realizzazione della famosa colonia comunista di New Harmony. Owen
mostra forte ostilità verso i tre grandi ostacoli che considera un impedimento alla riforma sociale e
cioè la proprietà privata, la religione e la forma del matrimonio.
Anche Charles Fourier sperimenta nel concreto la sua teoria dell’armonia universale.
L’organizzazione sociale cui dà vita è la “falange”, una società di circa 1.800 persone che abitano il
“falansterio” dove l’esistenza è comunitaria e dove vige l’armonia degli interessi di tutti. Anche lui
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identifica la condizione umana primitiva con l’Eden e lotta insistentemente per l’emancipazione
della donna, causa per la quale è ostinatamente impegnata l’operaia Flora Tristan.
Non va poi dimenticato Louis Blanc che si batte per la creazione di un ministero del progresso il
quale organizzi una rete di “opifici sociali”, cioè di stabilimenti industriali collettivistici, sostenuti
dallo Stato.
Esperienze fondate sulla comunità dei beni sono presenti anche in America per iniziativa degli
shakers. Lo stesso Cabet lancia nel 1847 un progetto per la costruzione di una colonia comunista in
America.
Sul fronte dei diritti si distinguono invece, fra gli altri, Albert Laponneraye che stende una
dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nella quale il diritto di proprietà viene limitato
all’obbligo del rispetto dei diritti altrui e il governo viene concepito come opera e proprietà del
popolo, mentre i funzionari pubblici vengono considerati suoi commessi.
Victor Considérand, che esprime diffidenza nei confronti dei politici e delle istituzioni, sostenendo
che “coloro i quali cercano la felicità sociale attraverso la politica e le trasformazioni
costituzionali inseguono una chimera e sognano un’utopia”.
Poi August Becker, che critica a fondo la funzione della religione, ritenendo che sia “passato il
tempo in cui ci si faceva prescrivere dal cielo le istruzioni e, ad onore di dio, ci si cingeva i fianchi
con un cilicio. Non rinunciare, ma godere è la parola del giorno” e che “nella parola danaro sta il
maledetto incantesimo che ha ingannato il popolo sulla sua felicità”.
Alla vigilia del ’48, sotto la bandiera del socialismo, si aggregano due diverse categorie di
personaggi: da un lato, ci stanno i seguaci dei vari movimenti utopistici presenti soprattutto in
Inghilterra e in Francia, ormai ridotti però a semplici sette in fase di rapida estinzione; dall’altro, ci
sono i molteplici dulcarama sociali che si propongono di guarire le miserie dell’umanità senza fare
alcun male né al capitale né al profitto.
Le grandi utopie educative, che vengono intese come una forza che controbilancia il potere
alienante e disumanizzante dello “spirito commerciale”, di fatto si rivelano nel tempo
completamente inefficaci ad arginare la diffusione dell’alienazione e della reificazione che il
capitalismo impone in tutte le sfere dell’esistenza umana.
A causa della loro debolezza teorica e politica, dopo il fallimento dei moti del ’48, diversi
appartenenti alla corrente del socialismo utopistico, specie coloro che fanno parte della setta dei
saint-simoniani, diventano apostoli dell’industrializzazione e si dedicano a un imprenditorialismo
avventuroso e dinamico, diventando capitani di industria e soprattutto costruttori di mezzi di
comunicazione.
Anche se la critica dei sostenitori del socialismo utopistico è rivolta in particolare alla produzione di
merci e al ruolo del denaro, la loro concezione rimane nel complesso oggettivamente entro i limiti
dell’orizzonte borghese, per quanto soggettivamente essa neghi alcune caratteristiche essenziali del
capitalismo.
Il socialismo utopistico – osserva Lenin – rendeva oggetto di critica la società capitalistica, “la
condannava, la malediceva, sognava di distruggerla e fantasticava di un regime migliore”, e
contemporaneamente voleva convincere i “ricchi dell’immoralità dello sfruttamento”… non dava
una spiegazione dell’“essenza della schiavitù del salariato sotto il capitalismo”, né portava alla luce
le “leggi dello sviluppo”, né infine, individuava la “forza sociale capace di divenire la creatrice di
una nuova società”.
Gli utopisti progettano, infatti, un superamento dell’ordine costituito della società tramite un
sistema di rapporti nella forma di un modello largamente immaginario, cioè come un postulato
morale piuttosto che come una necessità inerente alle contraddizioni della struttura esistente della
società.
Il loro socialismo viene presentato come alternativa ai pericoli di decadenza della civiltà insiti in
uno sviluppo incontrollato delle forze produttive e assume la connotazione programmatica di
appellativo generico per tutte le aspirazioni a una società organizzata su un modello
associazionistico o cooperativo, ossia sulla proprietà cooperativa anziché privata.
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Dal punto di vista teorico, l’utopismo risulta incompatibile con la dialettica della concezione
marxiana dal momento che questa non assegna affatto un potere esclusivo a un particolare fattore
sociale, ma presuppone la reciprocità dialettica di tutti i fattori.
Solo Louis Auguste Blanqui si distingue dalla generalità dei pensatori di quest’epoca, dal momento
che la sua dottrina sulla lotta di classe si approssima al pensiero marxiano e abbozza un socialismo
scientifico.
E’ comunque significativo il fatto che a formare la parte essenziale delle concezioni di questi
precursori del comunismo e del socialismo siano le utopie educative orientate verso il “lavoratore”.
Perché il socialismo utopistico lasci il posto al socialismo scientifico, cioè al marxismo, il
movimento operaio dovrà fare i conti, oltre che con la sua eredità e con i suoi strascichi, anche con
il proudhonismo e il bakuninismo.
Pierre-Joseph Proudhon è un filosofo e politico francese che lotta a fondo contro la proprietà e i
proprietari ed è fautore, assieme al russo Bakunin, dell’anarchismo. Per lui “la proprietà è un furto”
e in alternativa al progetto politico egli teorizza l’autogestione operaia. Agisce perciò contro il
comunismo e contro lo “Stato autoritario”. Definisce il suffragio universale “il mezzo più sicuro per
far mentire il popolo”. E’ da notare che egli è stato membro dell’Assemblea nazionale. Per poter
concedere il credito gratuito fonda una banca, la “Banca del Popolo”, che però fallisce. Di fatto, egli
si espone a tutte le privazioni per combattere l’ordine sociale esistente. Nonostante questa sua
dedizione, finisce per rivolgere una sterile critica moralistica alla società borghese. Proudhon - a
detta di Bakunin - rimane per tutta la vita un incorreggibile idealista che si lascia influenzare ora
dalla Bibbia, ora dal diritto romano.
Anche Michail Aleksandrovic Bakunin, sempre pronto a ingolfarsi in ogni sorta di congiura dentro
e fuori l’Internazionale, è in perenne contrasto con Marx che, in opposizione all’anarchia, sostiene
la necessità dell’organizzazione quale fondamento di un qualsiasi ordine. Seppure gli anarchici, al
pari del fondatore del socialismo scientifico, rifiutino lo Stato come strumento di oppressione nelle
mani di una classe dominante e mirino a sostituirlo con “l’organizzazione delle forze produttive e
dei servizi economici”, essi rifiutano qualsiasi forma di statualità, seppure provvisoria. E su questo
terreno il contrasto è radicale. In una lettera indirizzata a Herwegh, a riguardo dell’”avversario”
tedesco, Marx appunto, Bakunin scrive: “In una parola, menzogne e idiozie, idiozie e menzogne. In
questa compagnia non c’è alcuna possibilità di respirare liberamente. Io me ne tengo lontano e ho
dichiarato fermissimamente che non vado nella loro Associazione operaia comunista e non voglio
avere niente a che fare con essa”.
I contadini e i sottoproletari apparivano ai suoi occhi come le vere forze motrici della rivoluzione.
Anche la sua esistenza, oltre che da anni di carcere, è segnata da momenti di vera e propria miseria:
ci sono giorni, infatti, in cui Bakunin non ha in tasca più di cinque centesimi e non può procurarsi
nemmeno una tazza di tè.
E’ il caso di ricordare che l’anarchismo, così come è avvenuto per il marxismo, ogni qualvolta è
stato dato per morto e sepolto è puntualmente risorto.
Perché sorgano le prime forme di organizzazione politica bisognerà comunque attendere proprio il
passaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico.
1.3 - La travagliata conquista dell’autonomia politica
Datare le tappe del processo evolutivo che caratterizza il movimento operaio è cosa assai
complicata. Si ritiene che il socialismo assuma per la prima volta la forma di movimento sociale
solo dopo la guerra civile inglese, cioè alla metà del XVII secolo. Prima di allora, sempre in
Inghilterra, Gerrard Winstanley, che è da considerarsi uno dei più grandi pensatori socialisti dei
Paesi di lingua inglese, aveva dato vita al movimento dei Diggers (scavatori) che rappresenta la più
antica espressione pratica di socialismo.
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In Francia, le prime forme organizzative di socialismo rivoluzionario appaiono tra la fine del ‘700 e
i primi dell’800 e sono opera di nuclei piccolo-borghesi e di plebei che appoggiano la dittatura
giacobina e che successivamente, come abbiamo visto, rimangono delusi per le mancate riforme.
Il primo significativo movimento organizzato di lavoratori si realizza nel 1838 in Inghilterra, cioè
proprio nel Paese dove ha luogo la rivoluzione industriale: si tratta del movimento cartista. Sempre
oltre Manica, nel periodo successivo, trova sviluppo il socialismo cristiano di Charles Kingsley e
Frederik Denison Maurice.
L’affermazione del socialismo come proposizione politica a diffusione più ampia, cioè a livello
continentale, avviene negli anni ‘40 dell’Ottocento. Le formazioni politiche che prendono corpo in
questo periodo, però, non si propongono ancora progetti rivoluzionari.
A seguito del procedere dell’industrializzazione, nei Paesi progrediti si registra una crescita
notevole dell’occupazione e, con il conseguente incremento dei salari, aumenta la prosperità per
l’insieme delle classi sociali. La diffusione di questo relativo benessere, come ebbero a commentare
gli stessi rivoluzionari del tempo, “per la lunga prosperità, le masse debbono essere cadute in
profondo letargo”.
Considerata comunque la debole capacità di lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro, sia del
movimento dei lavoratori della campagna sia di quello degli emergenti operai di fabbrica, fino
almeno alla metà del secolo, l’azione a favore di riforme sociali assume un carattere sporadico e
non si dimostra in grado di conseguire alcun risultato di rilievo.
La prima organizzazione politica di operai a carattere internazionale sorge nel 1847 a Londra e si
tratta della “Lega dei comunisti” la quale rappresenta la voltura della “Lega dei giusti”, fondata dai
socialisti utopisti rivoluzionari francesi. Essa viene diretta da Marx e da Engels fino al 1852.
La “Lega dei comunisti” ha come suo fondamentale obiettivo la fondazione di associazioni culturali
di operai il cui compito è quello di garantire la diffusione della propaganda politica e una loro
estensione organizzativa. La funzione delle associazioni che ad essa fanno riferimento consiste nel
destinare un giorno alla settimana alla discussione politica e un altro ai trattenimenti sociali (dal
canto alla recitazione). Laddove è possibile vengono istituite biblioteche sociali e scuole per
l’istruzione elementare degli operai. Per la propaganda politica viene scelta la forma dei banchetti, o
pranzi collettivi, allo scopo di sfuggire ai controlli polizieschi sulle pubbliche riunioni.
A dire di Engels, la “Lega” è dapprima “poco più che una sezione tedesca delle società segrete
francesi”. Essa emana una serie di rivendicazioni che propugnano la repubblica una e indivisibile, il
suffragio democratico, l’istruzione universale gratuita, l’armamento del popolo, una imposta
progressiva sul reddito, limitazioni del diritto di successione, la proprietà statale di banche, ferrovie,
canali, miniere, ecc. e anche un’agricoltura su grande scala, scientifica e collettivizzata.
A giudizio di Antonio Labriola la “Lega dei comunisti” ha rappresentato “un partito, che nel suo
largo ambito, aveva già nell’animo, negli intenti e nell’azione la prima Internazionale dei
lavoratori”.
E’ proprio su commissione della “Lega dei comunisti” che Marx e Engels stendono il “Manifesto
del partito comunista” il quale, pubblicato nel ’48, costituisce il più importante documento della
storia del socialismo. Joseph Alois Schumpeter lo ha definito “un panegirico delle realizzazioni
borghesi, senza paralleli nella letteratura economica”.
Il “Manifesto” non contiene nessun pensiero che Marx e Engels non avessero già espresso nei loro
scritti precedenti, non rivela in sostanza nulla di nuovo, ma si limita a riassumere la concezione del
mondo dei suoi autori. Esso rompe definitivamente con il socialismo utopistico e con quello
animato da quei filantropi che intendono raggiungere i loro scopi rivoluzionari con mezzi pacifici e
concilianti facendo appello a tutta la società senza alcuna distinzione.
Le proposizioni più importanti in esso contenute sono: l’abolizione della proprietà terriera, una
imposta progressiva sui redditi, l’abolizione dell’eredità, l’accentramento del credito nelle mani
dello Stato per mezzo di una banca nazionale, l’accentramento dei mezzi di trasporto, la
moltiplicazione delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, l’uguale obbligo di lavoro
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per tutti, una educazione pubblica e gratuita, l’abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche alle
condizioni di quel tempo.
Questo documento, per la prima volta, dà alla classe operaia la coscienza di se stessa, la rende
classe in sé e per sé, le indica il cammino che deve percorrere adeguando i suoi obiettivi concreti e
la sua azione alla situazione del tempo.
Esso ha però una circolazione limitatissima e solo dopo la rivoluzione russa del 1917 diventerà una
sorta di breviario diffuso in milioni di copie ai quattro angoli della Terra.
E’ dunque con le lotte di metà ‘800, le quali contribuiscono alla distruzione dei residui feudali e,
involontariamente, favoriscono il consolidamento del potere della borghesia e del dominio del
capitale, che prende avvio il processo di maturazione delle classi lavoratrici e popolari.
Tocqueville sostiene nei suoi “Ricordi” che la rivoluzione del ’48 ha un carattere sostanzialmente
socialista dal momento che sono già fortemente presenti nel movimento “le teorie economiche e
politiche“ che pretendono di far “credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della
provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale”.
Sta di fatto, che seppure a ritmo lento e in modo contraddittorio, proprio in forza di quelle lotte e
con il maturare di una coscienza di classe anche per merito dell’opera della Lega dei comunisti, il
proletariato incomincia a conseguire i primi significativi risultati sul piano politico-organizzativo.
Nel momento in cui si libera dai condizionamenti della borghesia e imbocca la strada che conduce
alla sua autonomia, il nascente movimento s’imbatte però in una nuova deludente sconfitta. Nello
scontro con il potere, la cui massima espressione è rappresentata dalla “Santa Alleanza” che
rappresenta il patto di solidarietà tra gli ordinamenti borghesi più potenti d’Europa, esso si trova
avverse le masse contadine. Queste, infatti, quando non assumono un ruolo di spettatrici passive,
aiutano attivamente le autorità costituite nel reprimere la rivolta che si sprigiona nei centri urbani.
Alla fine, dunque, a trarne vantaggio è ancora la borghesia.
Dopo il ’48, la rivoluzione francese, presa nel suo complesso, viene messa in stato d’accusa dalle
prime organizzazioni del proletariato per aver sacrificato la libertà sull’altare dell’uguaglianza
formale.
Nel corso dei primi decenni della seconda metà dell’Ottocento, parallelamente all’estendersi del
capitalismo in tutto il mondo, anche le organizzazioni del movimento operaio fanno finalmente
registrare uno sviluppo sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo. E’ infatti attraverso la
realizzazione delle prime forme di organizzazione politica che i movimenti di natura sociale dei
lavoratori, impegnati a rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro, incominciano ad
affrontare i problemi della modernizzazione, dei diritti di proprietà e della giustizia economica; in
sostanza, si occupano di politica.
Il processo di politicizzazione del movimento operaio si sviluppa però con difficoltà, anche perché i
gruppi e i partiti politici della piccola borghesia hanno la pretesa che la classe operaia rinunci ad
ogni posizione rivoluzionaria, dimenticando in questo modo che essa stessa, per battere
l’aristocrazia, ha dovuto fare la rivoluzione.
Lo sganciamento della classe operaia dalla tutela della borghesia liberale avviene soprattutto in
forza del crescere della consapevolezza internazionalista dei sindacati operai e a seguito degli
scioperi nelle grandi città.
Nei confronti dei proprietari di capitale che controllano l’assegnazione dei posti di lavoro, in seno al
movimento operaio si manifestano però due linee di comportamento: una ritiene si debba puntare
sulla eliminazione dei capitalisti, l’altra crede nell’utilità di una trattativa con loro. Mentre la prima
sospinge l’attività del movimento verso il conseguimento del socialismo, la seconda favorisce la
formazione dei sindacati operai. Il movimento manifesta così, sin dalla sua infanzia, l’esistenza in
se stesso di una contraddizione che lo accompagnerà nei secoli e che tutt’oggi appare ancora
insuperata. Già all’indomani degli insuccessi del 1848, il movimento politico e quello sindacale
procedono in modo separato e, successivamente, pure nelle fasi più idilliache, l’azione sindacale
continuerà a risultare separata dall’attività politica.
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Anche a causa di questa separazione, con lo sviluppo dell’industria si afferma una tendenza
all’economismo, cioè da una parte del movimento all’azione politica viene privilegiata l’azione
rivendicativa. Il trade-unionismo in Inghilterra, il lassallismo in Germania e il proudhonismo in
Francia rappresentano proprio questa tendenza a racchiudere l’iniziativa del movimento operaio
organizzato entro la cornice del rivendicazionismo che oltretutto si rivela un sistema chiuso in rigidi
confini nazionali.
Il sindacalismo, l’economismo, la lotta per il miglioramento della semplice situazione economica,
lo sviluppo delle tendenze apolitiche, l’indifferenza per le parole d’ordine rivoluzionarie, sono tutti
fenomeni che contrassegnano dunque non solo il Paese capostipite dello sviluppo della manifattura,
cioè l’Inghilterra, ma l’insieme di tutti quei Paesi nei quali il procedere dell’industrializzazione
porta a un rapido aumento della massa degli operai qualificati con salari elevati e alla formazione di
un’aristocrazia operaia che tende appunto a identificarsi con questi movimenti.
In Italia opera il mazzinianesimo che è una formazione dalle caratteristiche differenti dalle
esperienze che contrassegnano i Paesi che hanno conosciuto una massiccia industrializzazione. Esso
è pur sempre un’espressione della borghesia e si presenta con atteggiamenti marcatamente
antisocialisti.
Dal momento che questo genere di movimenti fondano la loro azione sull’autonomia organizzativa
del movimento operaio, Marx entra ben presto in conflitto con loro.
Uno dei suoi acerrimi avversari in questo scontro di orientamenti è rappresentato da Ferdinand
Lassalle, capo dell’Associazione generale tedesca degli operai, con il quale egli era peraltro legato
da rapporti di amicizia. Lassalle è convinto della positiva funzione dello Stato monarchico
prussiano nella realizzazione delle riforme democratiche nell’interesse della classe operaia, e questo
suo atteggiamento genera quella tendenza al riformismo che avrà poi il sopravvento nella
socialdemocrazia tedesca.
Di Lassalle, Marx e Engels respingono con assoluta intransigenza l’idealismo filosofico e le
semplificazioni economiche, non meno che la strategia e la tattica politica, nelle quali essi
sospettano si nasconda qualcosa di più che una semplice concessione nei confronti del
“bonapartismo” di Bismarck.
All’inizio del decennio 1860-70 il termine “marxismo” risulta ancora ben lontano dall’essere nato,
mentre ad avere influenza tra la classe operaia continuano ad essere le sette socialiste o
semisocialiste. E’ solo verso la fine del decennio che il concetto di “marxismo” si diffonde e
assume il significato di una consapevolezza del carattere storicamente determinato dell’economia
capitalistica e della formazione nel suo seno di una tendenza antagonistica destinata a spingere in
direzione del socialismo. E questa consapevolezza è merito della Prima Internazionale che viene
fondata nel 1864. Voluta e diretta da Marx ed Engels, è difatti questa associazione a dare impulso
allo sviluppo dell’organizzazione sindacale e politica del movimento su scala continentale e a farle
conseguire un’autonomia di pensiero e di azione. La Prima Internazionale è nei fatti la pietra miliare
dell’esperienza organizzativa del movimento operaio e della sua capacità di elaborazione politica e
strategica.
L’elogio della fraternità espresso nell’Indirizzo inaugurale, esprime la necessità di collegarsi a
quanti nel mondo intero hanno bisogno della pace, dello sviluppo industriale, della libertà e della
felicità.
Marx ed Engels ripongono molta fiducia nell’internazionalismo della classe operaia e lo ritengono
una tendenza obiettiva del movimento operaio. Essi si prodigano affinché il Consiglio generale non
emetta “decreti in questioni di fede e di morale”, ma si sforzi di indirizzare “verso lo stesso
obiettivo finale” il movimento della classe operaia, sulla base di una previsione che si rivelerà esatta
e cioè: “Con la divisione del lavoro l’operaio è soltanto un ammennicolo, e senza la solidarietà tra
gli operai il libero commercio genererà una servitù industriale che sarà ancora più implacabile e
più fatale per l’umanità di quella che i nostri padri hanno distrutto nei grandi giorni della
rivoluzione francese ”.
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Lo statuto e il programma dell’Internazionale incontrano però da subito serie difficoltà dal
momento che esistono posizioni assai diverse tra i suoi stessi fondatori e aderenti. Le teorie di Marx
e di Engels – come si è ricordato – non costituiscono ancora la concezione dominante nel
movimento operaio e socialista, mentre grande seguito hanno le concezioni di Blanqui, di Proudhon
e di Bakunin. Proprio perché tanto complessa è la situazione, appena iniziato il lavoro di
propaganda, Marx ed Engels entrano in grave conflitto con la classe operaia europea, proprio con
quel soggetto cioè che prima di ogni altro avrebbe dovuto accettare i principi dell’Internazionale.
Mentre avevano interpretato la ripresa degli incontri e dei contatti tra lavoratori francesi e operai
inglesi, circostanza che aveva reso possibile la costituzione dell’Internazionale, come la premessa
della fuoriuscita del movimento operaio dalle angustie dei confini nazionali, liberandosi così degli
involucri settari entro cui sono rimaste confinate le sue prime esperienze, ora essi sono costretti a
ricredersi.
Non è che siano stati degli ingenui. Nell’Indirizzo inaugurale, difatti, Marx, mentre sostiene che
l’Inghilterra è l’unico Paese nel quale la lotta di classe e l’organizzazione della classe operaia hanno
raggiunto con le trade-unions un certo livello di maturità, non manca di precisare criticamente che
agli inglesi manca “lo spirito della generalizzazione” e “la passione rivoluzionaria”. In effetti, le
Trade Unions, che in Europa si ritiene siano organizzazioni proletarie politicamente mature,
secondo un rapporto del Consiglio generale dell’Internazionale, difficilmente potrebbero garantire
un contributo alla causa dal momento che i loro membri, ad eccezione di pochi, non sanno nulla di
politica. A dire dello stesso Engels, con i cartisti non possono esserci divergenze teoriche, proprio
perché non hanno alcuna teoria.
La consapevolezza delle difficoltà che avrebbero incontrato, dunque, non mancava di certo ai due
capi dell’Internazionale. Del resto, Marx ha sempre insistito sulla necessità di preservare
all’Associazione il suo carattere di organizzazione basata su di una unità articolata, piuttosto che
sulle differenze della cui esistenza si rendeva ben conto.
Mentre i due autori del “Manifesto” si fanno assertori di alleanze sociali e politiche, una consistente
parte degli affiliati all’Internazionale opera in direzione di uno splendido isolamento della classe
operaia e delle sue organizzazioni; mentre loro si dichiarano a favore di un intervento in tutte le
questioni decisive del loro tempo, molte organizzazioni limitano la loro azione alla semplice
rivendicazione di migliori condizioni di vita e di lavoro degli operai. Nei primi e negli ultimi anni di
esistenza della Prima Internazionale i socialdemocratici tedeschi dimostrano addirittura scarso
interesse verso la stessa associazione.
Marx ed Engels si sono sempre comportati con umanità e hanno sempre garantito solidarietà agli
emigranti, cioè agli esuli politici che in buona parte facevano riferimento all’Internazionale, ma con
loro sul piano politico raramente si sono trovati d’accordo. Essi hanno condiviso le loro sofferenze,
ma non le loro illusioni; hanno sacrificato per loro anche l’ultimo centesimo, ma non le più piccole
briciole delle loro convinzioni. L’emigrazione, del resto, e non solo quella tedesca, ma quella
internazionale, ha rappresentato dal punto di vista politico una massa confusa di soggetti, e la Prima
Internazionale, che è durata poco più di un decennio, fino al ’76, ha indubbiamente risentito molto
di questa caratteristica dei suoi fautori e aderenti.
Nel corso della sua esistenza il lavoro che viene svolto da Marx e da Engels si concentra in due
direzioni: la ricerca delle basi di un comune programma di azione e la sua articolazione mediante i
partiti politici della classe operaia.
Nonostante le molteplici difficoltà, è proprio all’indomani della costituzione della Prima
Internazionale che si vengono diffondendo i partiti politici del movimento operaio. A partire dalla
Germania, la loro proliferazione investe quasi tutti i Paesi europei. Quelli in cui l’organizzazione
del movimento operaio ha una maggiore estensione sono la Francia e la Gran Bretagna, ma il primo
partito in assoluto a essere realizzato è quello di Germania, nel 1869. Solamente dopo nascono
quelli di Spagna, Austria, Usa, Boemia, Francia e Danimarca.
Le prime esperienze di aggregazione politica sorgono, muoiono e rinascono rapidamente. Molte di
esse si limitano a proclamare la propria esistenza e poi si sciolgono; altre si scompongono, si
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contrastano, si riunificano, spariscono, e poi si ripropongono, magari in forme differenti e sotto
nuove sigle.
Nel 1871, nel corso di una Conferenza svoltasi a Londra, Marx afferma che in Germania
“l’Internazionale ha preso uno sviluppo straordinario sotto il nome di Partito socialdemocratico”.
Questo corso positivo avrà però breve durata trattandosi di una eccezione dal momento che la vita
dell’Internazionale e delle organizzazioni proletarie di quel tempo è contrassegnata da innumerevoli
tristi esperienze. Difatti, se nel 1875 il grande partito del proletariato tedesco marcia ufficialmente
ancora sotto il vessillo della lotta rivoluzionaria, nel 1891, al congresso di Erfurt, comincia a
sdoppiarsi nelle sue diverse tendenze subendo l’influenza del socialdemocratico Georg von Vollmar
e dei suoi sostenitori; dal 1891al 1898 registra una profonda divisione di orientamenti e nel 1899
giunge alla rottura, allorquando una sua parte piuttosto cospicua si lascia sedurre dalle parole
d’ordine bernsteiniane e abbandona le posizioni rivoluzionarie per abbracciare il riformismo.
Un evento importante di questa fase storica è senza dubbio costituito dall’esperienza della Comune
di Parigi i cui artefici non sono affatto marxisti, ma sono blanquisti, proudhoniani e anarchici.
Nei confronti di questo straordinario avvenimento, che rappresenta dopo quella di Spartaco la prima
esperienza di governo da parte degli oppressi, Marx, pur essendo pienamente solidale con i
comunardi, esprime verso la loro azione riserve e perplessità. In seguito modificherà opinione e
individuerà anzi in quell’esperienza un esempio di come procedere all’estinzione dello Stato dopo
la presa del potere da parte della classe operaia. Dopo appena un settantina di giorni dalla sua
costituzione, la Comune di Parigi viene barbaramente repressa dalla borghesia.
E’ solo con l’avvento della scheda elettorale, e dunque dopo che il movimento fa leva sulla forza
del consenso, che i lavoratori rilanciano la loro offensiva per una legislazione sociale e per il
riconoscimento di una maggior dose di democrazia. Ma anche questa strada risulterà lunga da
percorrere e non sempre garantirà gli esiti sperati.
Negli anni ‘80, quando i socialisti siedono nei parlamenti di Francia, Belgio e Germania, in
Inghilterra ci sono solo una mezza dozzina di cosiddetti “Lib-Lab”, lavoratori eletti nelle liste del
partito liberale. Gli operai inglesi, rispetto ai loro colleghi continentali, tardano a creare un proprio
partito politico nonostante vantino una notevole forza sindacale.
Non meraviglia pertanto il fatto che se mentre sul continente i sindacati sono spesso guidati e a
volte creati dai partiti socialisti, in Inghilterra saranno proprio i sindacati a creare e guidare il partito
laburista, e questo avviene nel 1888 in Scozia e successivamente nel Yorkshire e nel Lancashire.
In Francia, fino al 1889, il Partito operaio non è in realtà che una modesta setta messianica la quale
conta solo qualche centinaio di “evangelizzatori”.
All’epoca del suo apogeo – nell’ultimo decennio del secolo - il guesdismo (da Mathieu-Basile
Guesde, fondatore del partito) attenua la sua ideologia e il suo vocabolario rivoluzionario e
internazionalista, sceglie la via del riformismo elettorale e parlamentare e si abbandona a un
patriottismo che sconfina talvolta nello sciovinismo. Non a caso i guesdisti rifuggono dagli studi
teorici, mentre sono portati al pragmatismo. Essi non riescono peraltro a costruire rapidamente
l’ossatura dell’unità socialista che si realizzerà solo più tari, nel 1905.
In Italia, il processo organizzativo del movimento operaio ha inizio con la costituzione delle Società
di mutuo soccorso il cui primo congresso si celebra nel 1853 in Piemonte.
Nel “Manifesto” l’Italia viene esclusa dall’elenco dei Paesi nei quali i comunisti sono chiamati a
precisare il loro atteggiamento verso gli altri partiti e solo sedici anni dopo, in occasione della
costituzione della Prima Internazionale, viene indicata, insieme a Inghilterra, Francia e Germania,
come uno dei Paesi in cui si viene profilando la tendenza della classe operaia a organizzarsi come
forza politica autonoma.
Del resto, da noi, si è potuto leggere il “Manifesto”, tradotto in lingua in italiana, solo 24 anni dopo
la sua stesura e già questo spiega il perché nel “bel Paese” si sono verificate differenti
interpretazioni della lotta per l’emancipazione e, in pari tempo, si è registrata una scarsa conoscenza
nello stesso movimento delle teorie marxiane. La stessa traduzione in italiano, e così pure in
francese, dell’Indirizzo inaugurale della Prima Internazionale risale agli inizi del Novecento.
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Per assistere a un embrione di partito politico, occorre aspettare gli inizi degli anni ‘80, quando si
formano il Partito rivoluzionario di Romagna, guidato dall’anarchico Andrea Costa, e il Partito
operaio dei milanesi Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi Viani. E’ appunto da queste due
formazioni che prende corpo, nel ‘92, il Partito socialista dei lavoratori italiani, poi semplicemente
Psi.
La nascita dell’organizzazione politica nel nostro Paese avviene dunque a distanza di più di
quaranta anni dalla redazione del “Manifesto”. Prima di quello italiano nascono, oltre a quelli già
richiamati, i partiti di Belgio, Norvegia, Svizzera, Svezia, Giappone, Olanda, Ungheria, Bulgaria e
Australia.
Rispetto ad altri Paesi europei, il Psi nasce dunque in ritardo, e ciò è dovuto anche al più lento
sviluppo economico che si registra nella nostra penisola e anche al ritardato processo di
unificazione nazionale.
C’è chi tiene a sottolineare il trauma delle trasformazioni che hanno contraddistinto questa fase
storica e a rammentarci che mentre le campagne tedesche hanno impiegato cento anni a passare dal
tardo medioevo al mondo moderno, in Italia questo processo di transizione è avvenuto in tempi
molto concentrati, cioè in soli pochi anni. E anche questo fatto ha certamente contribuito a
complicare il cammino evolutivo del proletariato.
Capofila del processo di unificazione del Paese è il Piemonte il quale risulta essere la regione più
industrializzata e quella in cui esiste la classe politica più avveduta, Cavour prima di tutti. Intento
principale di questa classe politica non è però quello di equilibrare lo sviluppo della futura nazione,
bensì di abbattere dazi e barriere e di allargare i commerci, compreso quello della stessa forza
lavoro, attraverso le migrazioni, facendo così forte il Nord e indebolendo conseguentemente le
regioni meridionali del Paese.
Principale movente del processo di unificazione, infatti, è la formazione di un mercato adeguato alle
esigenze del capitalismo che sta mettendo le basi nel Settentrione.
Avviene così che nel corso di soli 15 anni, dal 1861 al 1876, i piemontesi creano un mercato unico,
eliminano le molte monete che circolano nella penisola e danno corso a una moneta unica,
privatizzano i beni della Chiesa e dei demani preunitari, cioè terre, terme, miniere, acciaierie,
cantieri, filande, fabbriche di porcellana. Costruiscono poi nuove infrastrutture e dotano il Paese di
nuovi servizi, dai trasporti alle poste, privilegiando sempre le regioni del Nord; pagano però i debiti
e pareggiano il bilancio anche con il concorso del Sud.
Ereditando una popolazione divisa da tradizioni culturali disomogenee e gravata dall’80% di
analfabeti (saranno ancora il 50% nel 1900) lo Stato italiano procede con grande lentezza e
prudenza all’alfabetizzazione.
L’industria moderna, le fabbriche, l’organizzazione capitalistica, le grandi banche si svilupperanno
fra l’inizio del ‘900 e la prima guerra mondiale, cioè con un ritardo rispetto ad altri Paesi che,
appunto, si rifletterà sullo stesso processo evolutivo delle forze organizzate del movimento operaio.
L’unificazione che si compie negli anni ‘60 è fragile e giunge in ritardo, realizzandosi proprio nel
momento in cui inizia la crisi dello Stato-nazione.
Già sin dall’inizio del processo unitario, e per molti anni ancora, proprio a causa degli squilibri
nello sviluppo, i governi nazionali sono costretti a fare i conti con il “brigantaggio” delle plebi
meridionali, con l’ostilità dei cattolici, con le trame dei legittimisti, con le sinistre anarchiche e
socialiste, con gli stessi mazziniani di stretta osservanza, tutti soggetti che per svariate ragioni si
oppongono alle scelte compiute dall’alto.
Dalla sua nascita come Stato unitario, l’Italia è governata da pochi “liberali” e “democratici”
espressi da una ristrettissima cerchia politica, a sua volta eletta da un’esigua base elettorale la quale,
tenendo conto dei votanti effettivi in rapporto agli aventi diritto al voto, ha rappresentato dapprima,
tra il 1861 e il 1882, l’1% della popolazione, poi, dal 1882 al 1913, il 4-5%.
Dopo il fallimento dei diversi e ripetuti tentativi da parte delle classi dominanti di escludere dalla
vita sociale il movimento operaio impegnato nello sforzo di organizzarsi, ricorrendo anche alla
repressione e ignorando spesso addirittura la sua stessa esistenza, prende avvio il processo della sua
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integrazione nel sistema. Questo corso è favorito, a partire dagli anni ’60, dalla graduale
introduzione del suffragio universale e, più avanti negli anni, dal riconoscimento dei sindacati come
controparte contrattuale.
Questi fugaci cenni alla storia delle prime forme organizzative del movimento operaio d’Europa e
d’Italia ci dimostrano come la conquista della sua autonomia, prima organizzativa e poi politica,
nella fase dello sviluppo del capitalismo industriale, sia stata segnata da enormi difficoltà e da
un’infinità di incertezze le quali non mancheranno di ipotecare la sua storia futura.
1.4 – Resistenze e ostacoli al processo di maturazione politica
Il cammino del proletariato verso la sua emancipazione è stato non solo faticoso, a causa dei tanti
ostacoli, ma anche pieno di raggiri e di inganni, e per certi aspetti persino contraddittorio. Durante
le intere fasi della sua primordiale organizzazione e della conquista della sua autonomia politica, il
movimento ha infatti dovuto difendersi da numerosi nemici.
Soprattutto ha dovuto mettersi al riparo dagli attacchi e dai soprusi di borghesia e padronato, dalle
loro espressioni politiche e sociali, ma anche dalle stesse istituzioni statuali da questi egemonizzate
e dirette.
Le prime organizzazioni dei lavoratori salariati, quelle che hanno incominciato a distinguersi dalle
corporazioni di mestiere medievali, hanno condotto per lungo tempo un’esistenza incerta e
sporadica dal momento che venivano viste con sospetto se non addirittura proibite dai governi,
comunque avversate in tutte le maniere e costrette ai margini della legalità.
Nell’Inghilterra dei primi del ‘700, nei confronti dell’emergente proletariato hanno continuato a
sussistere pregiudizi e pretese assurdi di stampo medievale. Il moralista liberale Bernard
Mandeville, ad esempio, si è distinto nel voler imporre a carico delle famiglie povere e dei
lavoratori l’obbligo giuridico della frequenza della messa domenicale quale antidoto alle tentazioni
insurrezionali.
I rivoluzionari francesi con la legge Le Chapelier del 1791 e i Tory britannici con il Combination
Act del 1799, hanno vietato concordemente ai lavoratori di unirsi. E’ solo con l’avvento del
liberalismo, così insensibile per molti aspetti verso i diritti dei lavoratori, che, per la prima volta,
viene concessa libertà legale alle associazioni dei lavoratori.
Le unioni britanniche hanno ottenuto un tacito riconoscimento dei Tory liberali nel 1825, e il
riconoscimento esplicito nel 1871 dal governo liberale di Gladstone, mentre le associazioni francesi
sono state dapprima riconosciute da Napoleone III, nel 1864, sono state represse a seguito della
reazione suscitata dalla Comune di Parigi, e solo negli anni successivi a questo evento hanno
ottenuto il riconoscimento legale.
La storia del liberalismo è d'altra parte accompagnata, come da una sua ombra, dalla storia di
orribili case di lavoro e di correzione in cui vengono rinchiusi i disoccupati, gli oziosi, i
“vagabondi”. Lavori forzati e disciplina spietata sono la regola di queste istituzioni, dalle quali non
è possibile allontanarsi senza il lasciapassare.
Il grande maestro dell’Illuminismo, tollerante e libertario John Locke, impegnato in una lotta
draconiana alla piaga dei “vagabondi oziosi”, ebbe a proporre che “chiunque falsifichi un
lasciapassare sia punito con il taglio delle orecchie la prima volta, la seconda sia deportato nelle
piantagioni come per un crimine” e invocò il loro condizionamento in stato di sostanziale schiavitù.
E dire che per Norberto Bobbio la “dottrina liberale” è “fondata sul principio che l’individuo viene
prima della società e pertanto ha diritti naturali che gli competono in quanto tale”!
La stessa storia d’Italia ci insegna che il prudente liberalismo della sua classe dirigente ha
costantemente diffidato della democrazia.
Come hanno documentato gli studi di Karl Marx, per fornire plusvalore, la classe operaia deve
essere in grado di riprodursi, sia quotidianamente che di generazione in generazione. Nella fase in
cui nasce il proletariato, questo processo è direttamente minacciato dalle tremende condizioni
igieniche delle prime città industriali e dalla diffusione del lavoro infantile. Si lavora fino a 15-16
21
ore al giorno, le malattie e gli infortuni sono un pericolo costante, la denutrizione e l’analfabetismo
sono fenomeni generalizzati. Si viene sfruttati al pari delle bestie da soma e non si ha riconosciuto
alcun diritto legale.
In simili condizioni diventa un’impresa proibitiva lo stesso proposito di emanciparsi.
Al fine di incrementare la popolazione dei lavoratori salariati e dei soldati, di cui le classi sfruttatrici
non potevano assolutamente fare a meno, si è ricorso all’introduzione degli assegni familiari
facendo poi apparire un simile provvedimento come un atto di magnanimità e di lotta alla miseria.
In una situazione tanto penosa sul piano delle condizioni esistenziali e tanto degradante su quello
culturale, risultava quasi impossibile sfuggire ai raggiri e ai sotterfugi di chi detiene il potere.
Successe così che sin dalla sua nascita il proletariato è stato indotto in uno stato di esasperazione e
ha subito una serie di condizionamenti culturali destinati a ipotecare nel tempo i suoi
comportamenti inducendolo in gravi incoerenze e contraddizioni. Si tratta di ipoteche di cui non
risulterà facile liberarsi, tanto è che ancor oggi, a distanza di secoli, la sinistra sia sociale che
politica dà segni di esserne per certi versi ancora prigioniera.
Uno di questi condizionamenti riguarda l’atteggiamento di subordinazione che per lungo tempo il
movimento operaio ha mostrato e continua a mostrare nei confronti del potere temporale e di quello
spirituale.
L’essere riverenti verso l’autorità costituita è una pratica che risulta infatti in largo uso ancora ai
giorni nostri. Per una lunga fase storica a essere oggetto di ossequio da parte di larga parte delle
organizzazioni del movimento operaio sono state non solo le monarchie, ma addirittura le dittature.
Dopo di allora, le manifestazioni di soggezione, hanno avuto come referenti le istituzioni
democratiche elettive, quelle che hanno sostituito il potere assolutista. Non è raro rintracciare nella
storia del movimento operaio episodi in cui la lotta si confonde con gli appelli ai reggitori del potere
affinché intervengano a risolvere una vertenza in atto o un problema. E un tale invito viene
indifferentemente rivolto al monarca, al dittatore o a colui che è stato democraticamente eletto, sia
esso appartenente allo schieramento di “sinistra” o a quello di “destra”, nel convincimento di poter
ottenere, per grazia di questi, ciò che spetterebbe di diritto. E’ questa una forma di subordinazione
culturale e politica che è dura a morire, proprio perché ha origini lontane. Occorre difatti risalire ai
tempi in cui la “politica” veniva considerata dalle classi subalterne cosa appartenente ad altri e di
cui era bene non impicciarsi.
In Italia, simili atteggiamenti ricorrono in occasione dei primi congressi delle Società di mutuo
soccorso, alla metà dell’800, quando in sedi ufficiali vengono condannate, insieme al ricorso allo
sciopero, considerato un “atto immorale”, le manifestazioni operaie antigovernative e viene sancito
il rifiuto di “fare politica”. Ancora alla vigilia della formazione del Psi, al 1° congresso del Partito
operaio, la lotta politica era giudicata un “diversivo dei borghesi”.
Ci sono voluti decenni perché le organizzazioni proletarie, sulla scorta di drammatiche
mortificazioni e sconfitte, comprendessero l’importanza del passaggio dalla lotta sociale alla lotta
politica. E purtroppo, anche dopo che questo passo è stato compiuto, nel movimento sono rimasti i
vecchi pregiudizi e ha continuato a sussistere un atteggiamento di estraneità e insieme di riverenza
verso la “politica” e gli istituti del potere.
Verso la fine degli anni ’60 è capitato a me personalmente, ma il fenomeno era ricorrente, di essere
estromesso da alcuni Circoli Enal della provincia bergamasca e minacciato di denuncia alla
magistratura per aver presieduto, in qualità di funzionario di partito, riunioni politiche in locali dove
imperava ancora la scritta “Qui non si fa politica”. E questo succedeva nella indifferenza di autorità
e di cittadini, nonostante la Costituzione repubblicana fondasse sull’esercizio della politica da parte
dei partiti.
Un altro aspetto del genere è quello relativo alla riverenza riservata alla Chiesa, da noi alle
gerarchie cattoliche romane in specifico, le quali fino a qualche tempo fa hanno avuto l’indubbio
ruolo di grande forza conservatrice.
L’influenza del clero sul mondo del lavoro e la costituzione del movimento cattolico organizzato in
funzione antisocialista, in determinate aree territoriali del nostro Paese, ma pure in Francia, in
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Germania, in Belgio e in Gran Bretagna, hanno contrastato in maniera decisiva la maturazione
culturale e politica dei lavoratori producendo confusione, divisioni e antagonismi.
Se i contadini, come è successo nel Sud Italia, ma non solo qui, sono giunti al punto di mettere
insieme Garibaldi con Marx e addirittura con la Madonna, ciò non dipende di certo solo dalla
debolezza teorica degli apostoli del socialismo. Un simile assurdo comportamento corrisponde a
risonanze culturali profonde e lontane nel tempo di cui, a torto, si tiene in genere poco conto.
Non si può altresì ignorare che, in certe epoche storiche, le ideologie della ribellione hanno assunto
un carattere religioso. In Gran Bretagna è reperibile un esempio di “Chiesa del lavoro” fondata alla
fine del XIX secolo da John Trevor il quale trasformò il laburismo in una fede. Va tenuto presente
che certe forme religiose si prestavano, come si prestano ancora oggi, ad essere usate come droghe
per lenire le intollerabili sofferenze sociali e avevano giusto la funzione di rappresentare
un’alternativa alla rivolta.
Solo con il passare del tempo e dopo che l’organizzazione socialista è divenuta bersaglio delle fobie
e delle scomuniche delle gerarchie vaticane, ancor prima cioè che essa si fosse assestata, il nascente
movimento operaio ha incominciato a tenersi a distanza di sicurezza dalla religione e a manifestare,
di contro e per reazione, atteggiamenti anticlericali.
Sono da ricordare a questo riguardo, per quanto attiene alla Chiesa cattolica, le encicliche papali
“Qui pluribus” di Pio IX del 1846, la “Quod apostolici muneris” del 1878 e la “Rerum novarum”
del 1891 di Leone XIII. Quest’ultima, tra l’altro, ebbe a condannare lo sciopero come uno “sconcio
grave”. Un atteggiamento, quello del Vaticano, che verrà confermato da Pio XI nel ’37 con la
“Divini Redemptoris” e da Pio XII con il decreto del Sant’Uffizio di scomunica dei comunisti,
rinnovato poi nel ’59, il quale verrà implicitamente a decadere nel ’63 con l’emanazione
dell’enciclica “Pacem in terris” da parte di Giovanni XXIII.
Ma l’antisocialismo e l’anticomunismo sono stati praticati non solo dalla Chiesa, bensì anche dal
mondo culturale tradizionale nel suo complesso. Una testimonianza in tal senso ci viene dalla
“Histoire du communisme…” del francese Sudre, scritta nel 1848, quando cioè il comunismo non
era ancora formalmente nato e questo dimostra quanto le classi avverse lo abbiano temuto e si siano
date da fare per denigrarlo. Berlusconi, insomma, altro non è che l’ultimo figlio della stirpe dei
forcaiòli dell’emancipazione umana.
Oltre che contro i nemici dichiarati, il movimento operaio ha dovuto combattere in continuazione
anche contro i falsi progressisti, le “pasticcerie dell’avvenire” e contro il socialismo immaginario.
Nella loro fase iniziale, infatti, le organizzazioni proletarie subiscono l’egemonia del ceto medio
intellettuale. Nel nostro Paese questo avviene per opera dei mazziniani, del moderatismo
piemontese e dei borghesi di sinistra e comporta per il movimento una pesante subalternità culturale
prima ancora che politica. A occupare ruoli decisivi nell’organizzazione del movimento non sono
infatti gli operai tessili e dell’industria, bensì gli operai che lavorano nell’artigianato, cioè i calzolai,
i tipografi, i fabbri, gli edili, che sono mediamente più evoluti dei primi. Per fare un esempio
significativo, a Berra, nel ferrarese, i contadini erano rappresentati da un triunvirato costituito da un
barbiere, da un sarto e da un calzolaio.
Successivamente a ricoprire le cariche dirigenziali, specie nelle società di mutuo soccorso, sono
figure sociali piccolo-borghesi come gli avvocati, i medici condotti, i veterinari, i maestri, i segretari
comunali. Questi dirigenti, che per un verso costituiscono degli esempi di un’encomiabile
solidarietà, e sono la testimonianza di un preziosissimo contributo alla causa, in genere, si
dimostrano col tempo ragionevoli con gli imprenditori, si sforzano di evitare il ricorso alla lotta e si
accontentano di accumulare fondi associativi e di aumentare gli iscritti all’associazione. Questo
ricorso alle deleghe, che investe sia il mondo contadino che quello del lavoro industriale, rende
sterile l’azione sindacale e politica del movimento e rallenta inevitabilmente il processo della sua
maturità.
Si tenga conto che ci sono voluti decenni perché le organizzazioni proletarie comprendessero
l’importanza dello sciopero come arma di lotta per conseguire migliori condizioni di lavoro e di
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esistenza, e questo proprio anche a causa dei ritardi sul piano della maturità politica determinati dal
ricorso alla delega nell’assegnazione delle responsabilità dirigenziali.
Ho qui fatto riferimento esclusivamente alla situazione italiana, ma il fenomeno è da considerarsi di
proporzioni internazionali. Basti ricordare al riguardo un solo caso per tutti.
In Inghilterra, l’associazione di mestiere – ossia l’unione o sindacato dei lavoratori qualificati di
uno stesso settore, nella fattispecie quello dei carpentieri, agli inizi del processo aggregativo ha
rappresentato il modello tipico di organizzazione che ebbe il massimo sviluppo nel 1851 su
iniziativa della Amalgamated Society of Engineers (società generale dei macchinisti). Sua linea
direttiva fu proprio quella di tenere i sindacati fuori dalla politica, di far dimenticare loro il
semisocialismo dei cartisti, di abbandonare l’idea grandiosa di Robert Owen di “un unico grande
sindacato” di tutti i lavoratori e di promuovere invece gli interessi delle singole categorie. Si tratta
di un esempio che ha caratteristiche originali, ma che unitamente a tante altre esperienze che si sono
consumate in quel periodo in Europa, dimostra come le cause del non lineare sviluppo nel processo
di acquisizione dell’autonomia e della maturità politica vadano ricercate non solo fuori dal
movimento, ma anche all’interno stesso di esso, nelle sue stesse convinzioni e pratiche sociali.
Questi ritardi culturali e politici hanno ovviamente condizionato pesantemente le capacità
rivendicative e di lotta delle prime organizzazioni operaie. Si consideri che agli inizi del processo di
emancipazione politica, per sfuggire ai divieti di associazione e di manifestazione, i lavoratori più
intransigenti e coraggiosi si azzardavano a issare le bandiere rosse sui campanili, sugli alberi e
persino a collocarle su palloni aerostatici, in segno di rabbia e di protesta.
Oltre a questi condizionamenti il primo movimento socialista italiano ha pagato anche la
contraddizione che è propria dei caratteri del capitalismo italiano, cioè quel ritardo evolutivo cui ho
fatto cenno, per cui di fronte al dover necessariamente lottare contro il sistema, esso ha dovuto al
tempo stesso preoccuparsi di favorirne lo sviluppo in maniera di potersi garantire il pane e il lavoro.
1.5 – Limiti e valori delle prime esperienze organizzative
Nel corso della sua adolescenza il movimento operaio è stato affetto da alcune malattie cosiddette
infantili contro le quali per lungo tempo, sia sul piano politico che su quello sindacale, si sono
schierate le sue componenti più responsabili e lungimiranti.
Le principali di queste malattie sono: il luddismo, l’anarchismo, l’operaismo e il corporativismo.
Riassumendo in maniera molto concisa, il luddismo è un movimento di protesta che prende il nome
di un operaio tessile inglese, Ned Ludd, vissuto, si presume, nella seconda metà del 1700. Egli
inaugura la pratica della distruzione delle macchine perché ritenute responsabili dei guai di chi
lavora, quali la disoccupazione, i ritmi intensi, le minacce alla salute.
E’ interessante notare che nei tempi che hanno preceduto la rivoluzione industriale, spesso erano i
poteri pubblici a contrastare le macchine che condannavano la manodopera alla disoccupazione. Nel
XVII secolo, per esempio, prima in Gran Bretagna e poi in Francia, venne proibita una macchina
per fare calze, proprio perché sostituiva l’opera dell’uomo. Nel 1623, sempre in Inghilterra, venne
proibita una macchina per fabbricare aghi e verso il 1635 toccò a un mulino a vento per segare il
legno.
Sta di fatto che dai tempi di Ludd e per un lungo periodo, la lotta del proletariato contro le macchine
è stata praticata nella generalità dei Paesi investiti dal processo di industrializzazione, segnando nel
profondo la cultura del movimento operaio, al punto che l’avversione ai processi di
modernizzazione, qua e là, costituisce una remora ancora ai tempi nostri.
Come ben sappiamo, il vero ostacolo alla costruzione di una società post-capitalista non è il
progresso della scienza e della tecnologia in sé e per sé, bensì l’uso speculativo che il capitalismo fa
delle scoperte e delle invenzioni.
Osservava Marx a riguardo di questa infantile forma di lotta: “Ci vogliono tempo ed esperienza
affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a
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trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di
sfruttamento di esso”.
Va notato che l’autore de “Il capitale” non si è limitato ad analizzare le ragioni del luddismo e a
condannare la sua pratica, ma ha addirittura scritto pagine straordinarie e dal sorprendente carattere
intuitivo proprio sulle innovazioni scientifiche, sulle macchine e sul ruolo che esse hanno nel
processo di maturazione di una società liberata dallo sfruttamento.
L’anarchismo, come già abbiamo visto, è insieme una dottrina e un movimento politico che si
propone la lotta contro lo Stato e contro qualsiasi autorità, privilegiando lo spontaneismo
rivoluzionario che viene considerato un “ordine naturale”. Teorizzato fra la fine del 1700 e i primi
del 1800, esso registra un notevole sviluppo a partire dagli anni ’30 del XIX secolo e segna
profondamente tutto il periodo della 1a Internazionale. Suoi principali teorici e fautori sono William
Godwin, Petr A.Kroptkin, Mikhail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon e Max Stirner; fra gli italiani
vanno ricordati Enrico Malatesta e Carlo Cafiero.
L’anarchismo rappresenta il rovescio della medaglia dell’evoluzionismo socialdemocratico; esso
fonda sullo sviluppo spontaneo dell’immediatezza proletaria e si propone la negazione assoluta
dell’ordine dato, cioè dello Stato. E’ appunto attraverso questo percorso che gli anarchici pensano
sia possibile superare la riduzione dell’uomo a salariato.
Quando in Svizzera si sviluppa un movimento di massa per la giornata legale di dieci ore, gli
anarchici rifiutano di prendervi parte; comportamento analogo viene da loro assunto allorquando i
socialisti fiamminghi intraprendono una campagna intesa a ottenere la proibizione legale del lavoro
dei fanciulli nelle fabbriche. Naturalmente essi respingono ogni lotta per il suffragio universale e
qualsiasi tentativo di mettere in pratica questo istituto laddove è riconosciuto solo a una cerchia
ristretta di persone.
Ai primi del ‘900, nella storia del movimento operaio italiano, l’anarco-sindacalismo o socialismo
rivoluzionario ha rappresentato un momento assai importante e non del tutto negativo. Esso ha
preso le mosse dalla teorizzazione di Georges Sorel secondo cui la lotta per l’abbattimento del
potere borghese avrebbe dovuto passare attraverso la lotta sindacale e il momento culminante di
questa lotta sarebbe stato lo sciopero generale.
Sorel, teorico appunto del sindacalismo rivoluzionario, nelle sue “Riflessioni sulla violenza” del
1908 sostiene che l’uso della forza è un bene indipendentemente dal fine realizzato e che la solerzia
dei lavoratori nella guerra di classe deve essere alimentata con la fede nel “mito” di un futuro
sciopero generale.
La questione dello sciopero generale viene discussa nella Seconda Internazionale sin quasi
dall’inizio della sua esistenza, proprio dietro pressione degli anarchici e degli anarco-sindacalisti
francesi i quali considerano decisiva questa forma di lotta, soprattutto se estesa anche all’esercito.
Questa tesi incontrerà però la netta contrarietà dei dirigenti della socialdemocrazia tedesca. La
questione sarà oggetto di dibattito in quasi tutti i congressi e, in particolar modo assai approfondito
in quelli di Stoccarda nel 1907, di Copenaghen nel 1910 e di Basilea nel 1913.
Mentre per tutta una fase storica, il ricorso allo sciopero si rivela molto efficace, poiché porta alla
paralisi l’intero ciclo produttivo, con l’evoluzione dell’industria e del terziario, quest’arma perde
efficacia sino al punto di non riuscire più a determinare l’arresto totale della produzione, e questo
perché nel frattempo il controllo dei lavoratori è venuto frammentandosi.
E’ infine da rilevare che l’anarchismo, a causa della confusione delle posizioni teoriche che lo
sorreggono, e per il suo atteggiamento negativo di fronte a tutte le questioni pratiche che riguardano
gli interessi immediati del proletariato moderno, finisce per irrigidirsi e trasformarsi in una setta.
Anche questa malattia, però, nonostante che abbia procurato più danni che benefici al movimento,
continua a essere motivo di interesse e di passioni anche ai giorni nostri.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento, con la sperimentazione delle prime forme organizzative dei
lavoratori, prende corpo l’operaismo. Esso è il prodotto di un’avversione al paternalismo della
borghesia e del rifiuto di una presenza diffusa di filantropi nelle organizzazioni del movimento
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operaio e del conseguente convincimento che a essere soggetto privilegiato dell’azione sindacale e
politica rivoluzionaria è l’operaio di fabbrica.
I proudhoniani al congresso dell’Internazionale propongono che l’iscrizione sia riservata solo ai
lavoratori del braccio e siano esclusi i lavoratori della mente. La stessa fondazione, nel 1882 a
Milano, del Partito operaio, meglio conosciuto come partito delle “mani callose”, è una
rappresentazione eloquente di questa tendenza.
L’operaismo, proprio a causa del rifiuto di un apporto fattivo all’organizzazione proletaria da parte
dei ceti intellettuali e di altre figure sociali, ha comportato per il movimento dei costi non marginali
dal punto di vista della sua crescita sia quantitativa che qualitativa.
Pure la cultura operaista ha allignato nella sinistra per lungo tempo, assumendo in termini settari e
fondamentalisti la fabbrica come ombelico della rivoluzione e teorizzando la presenza dell’operaio
nelle istituzioni come unico e vero rimedio al parlamentarismo. Lo stesso movimento del
sessantotto-sessantanove ne sarà ampiamente influenzato. A dare espressione teorica a questa
tendenza, a metà degli anni ’60, in Italia, ha contribuito la rivista “Classe operaia” nata per
iniziativa di Mario Tronti, Tony Negri e Alberto Asor Rosa.
Il corporativismo, infine, è una tendenza che ha origini storiche lontane e che si manifesta in forme
accentuate nel periodo a cavallo tra il 19° e il 20° secolo.
Al tempo delle prime leghe proletarie, ma anche successivamente, è convinzione diffusa che
l’aumento dei salari avrebbe portato di per sé alla scomparsa del capitalismo. L’operaio, secondo
l’ingenuità delle prime mutue di soccorso, doveva diventare capitalista per poter superare il suo
stato di subordinazione.
Mentre nelle prime fasi della rivoluzione industriale la classe operaia era omogenea, considerato
che il lavoro era realizzato in condizioni più o meno simili, come lo erano i rapporti di produzione,
con lo specializzarsi della manifattura e con la crescita del settore dei servizi si fanno avanti le
diversificazioni di mansioni e quindi di interessi e la classe operaia vive un processo di
frammentazione. Questo fenomeno si rivela crescente via via che il movimento operaio si estende e
si specializza nelle diverse attività produttive sospingendolo verso la deriva degli egoismi di
categoria e dividendo i lavoratori nella loro azione rivendicativa. Nella lotta operaia prevale
l’empirismo e il fatto che spezzoni di movimento si muovano su posizioni prevalentemente
difensive, è dovuto proprio al privilegio della condizione economica e dell’interesse immediato
rispetto a una prospettiva di generale cambiamento. Questa egoistica miopia ha rappresentato
indubbiamente un freno al conseguimento dell’egemonia politica e culturale della sinistra sul
movimento dei lavoratori.
Il corporativismo impedisce, o quanto meno rende difficile, l’alleanza non solo tra operai, contadini
e artigiani, ma tra le stesse categorie di settore, in particolare tra operai, impiegati e tecnici.
In Gran Bretagna, gli strati superiori della classe lavoratrice (operai specializzati e capireparto) che
si sono adattati prima e più facilmente degli altri alla moderna produzione e all’alta tecnologia,
facendo leva sulla propria posizione professionale “di privilegio”, hanno tratto benefici a scapito di
chi era invece meno favorito di loro. Non per caso i corporativisti inglesi sono diventati nel tempo
dei potenziali sostenitori della destra politica. Un fenomeno del genere si è verificato anche da noi,
favorito dalle pratiche del movimento cattolico, a cavallo dell’800-‘900, e dalla successiva nascita
del fascismo.
Si tratta di una concezione politico-culturale dei rapporti sociali che resterà a lungo impressa nella
coscienza e nel comportamento pratico di larghi strati di lavoratori.
Oltre a dover sopportare queste ipoteche, il movimento operaio e con esso le stesse formazioni
politiche della sinistra, sin dal loro sorgere sono chiamati a fare i conti con una pratica di lotte
intestine e di divisioni tra componenti e fazioni interne alle stesse organizzazioni. Questo travaglio
contraddistinguerà l’intero corso della loro esistenza.
Per quanto riguarda la specificità italiana, a questo riguardo è da ricordare un commento fatto da
Engels verso la fine del secolo, secondo il quale da noi “tutte le malattie politiche prendono un
decorso infiammatorio acuto”. Una diagnosi la sua che ha valore ancora ai tempi nostri.
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Fortunatamente, però, nella storia del movimento dei lavoratori e della sinistra sono rintracciabili
non solamente malattie, tare e insufficienze, bensì anche elementi positivi, anzi valori forti e
testimonianze di grande umanitarismo. Si tratta di virtù che hanno consentito alle organizzazioni del
movimento operaio di acquisire una loro autonomia e una visione del mondo alternativa a quella
delle classi dominanti.
Principali fattori del processo di evoluzione che ha contraddistinto il movimento operaio sono la
solidarietà, la dedizione alla causa, la disciplina, la sete di istruzione, il principio di uguaglianza fra
gli uomini, l’emancipazione della donna, l’antistatalismo e lo spirito internazionalista.
La solidarietà è uno degli scopi fondamentali delle Società di mutuo soccorso e si traduce in un
sostegno concreto ai lavoratori bisognosi e più deboli. Uno degli aspetti più nobili e qualificanti
della sinistra è appunto costituito dal fatto che sin dal primo istante della sua esistenza essa prende
partito per i poveri e per le vittime dei soprusi e dello sfruttamento. E compie questa sua missione
con estrema dedizione e a costo di qualsiasi sacrificio, imponendo anzi ai propri aderenti una ferrea
disciplina a garanzia del rispetto di questo principio.
Nel momento di maggior fioritura delle leghe, infatti, il bracciante ha l’obbligo prioritario della
solidarietà verso i compagni. Ogni lavoratore, prima di tutto il resto, deve sentirsi parte della lega e i
lavoratori organizzati in essa devono essere forti e disciplinati; non sono ammesse deroghe. In nome
della solidarietà si è persino giunti a casi estremi e discutibili. Lo statuto della lega di S. Giovanni
del Dosso, in terra mantovana – per fare un esempio – prevedeva l’abbandono del lavoro anche in
caso della sola presenza nelle campagne di lavoratori non iscritti alla lega.
E il dovere di solidarietà verso i compagni è fatto proprio anche dalle nascenti organizzazioni dei
lavoratori delle officine le cui pessime condizioni di lavoro e i conseguenti incidenti provocano una
notevole quantità di casi di indigenza e di bisogno.
Il senso della disciplina per i primi militanti di sinistra si rivela rigoroso anche nell’esplicazione
dell’attività politica. Si consideri che alla Conferenza di fondazione della Sezione Internazionale
italiana, svoltasi a Rimini nel 1872, i delegati sono obbligati a rispettare un ordine dei lavori così
definito: 1a seduta (domenica), dalle ore 14 alle 19; 2a seduta (lunedì), dalle 7 alle 12; 3a seduta,
dalle 14 alle 18; 4a seduta, dalle 21 fino all’1 di martedì; 5° seduta, dalle 9 (di martedì) alle 16; 6a
seduta, dalle 17 alle 19; un impegno cioè decisamente stressante al quale l’odierno militante di
sinistra ben difficilmente si sottoporrebbe. Per di più, senza avere alcun rimborso. Anzi, con il
rischio ricorrente di venire arrestati dalle forze dell’ordine.
Grandissima importanza ha poi l’istruzione, cioè il saper leggere e “far di conto”, quale condizione
irrinunciabile per conseguire una propria autonomia culturale. Non si dimentichi che a quei tempi
l’analfabetismo era diffusissimo e che i primi deputati socialisti, da Andrea Costa a Camillo
Trampolini, provenivano dalle zone rurali del Paese dove i livelli di istruzione erano i più bassi.
Una testimonianza eloquente della sofferta esigenza di garantire un’istruzione agli aderenti al
movimento socialista è l’istituzione a Milano dell’Umanitaria. L’avvertenza del carattere
imprescindibile del ruolo che l’istruzione svolge nell’azione del movimento operaio è dimostrata
dal ricorso a una molteplicità di iniziative il cui scopo è appunto quello di sensibilizzare in tal senso
gli aderenti al movimento e raccogliere i mezzi per favorire la sua elevazione culturale.
Questa esigenza è avvertita a livello universale. A un banchetto di 1.200 comunisti che si svolge a
Parigi nel 1840 (ma simili iniziative sono ricorrenti anche altrove) campeggia lo slogan: “Cittadini!
il cammino più breve per giungere alla felicità comune è l’educazione egualitaria”. Sempre allo
stesso banchetto ci si chiede, tra l’altro: “Che gli importa al popolo che gli si concedano dei diritti
politici se non gli vengono prima assicurati i mezzi radicali di poterli esercitare? All’uguale
suddivisione dei diritti (occorre anche la suddivisione) dei doveri, cioè alla comunanza dei lavori
(ci deve essere quella) dei piaceri!”. E’ questa un’esplicita richiesta di egualitarismo, altro valore
che sin dal suo sorgere il movimento operaio fa suo.
La sinistra dei primordi dimostra poi, seppure con l’eccezione di alcune sue frange, grande
sensibilità verso l’emancipazione della donna. Una lotta questa assai difficile da condurre
considerato che, oltre alle condizioni sociali avverse, è chiamata a cimentarsi con i retaggi del
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passato i quali ipotecano le stesse culture di chi è schierato a sinistra. A un congresso
dell’Internazionale, ad esempio, i proudhoniani propongono e che venga condannato il lavoro della
donna perché considerato una depravazione; il posto suo – a loro avviso – non è l’opificio, ma la
famiglia.
La difficile impresa dell’emancipazione femminile è favorita dal fatto che molto spesso alla testa
delle lotte operaie e contadine ci sono proprio le donne le quali subiscono per prime la repressione,
tanto è che numerose di esse sacrificano addirittura la loro vita sul campo di battaglia.
Un’altra peculiarità della sinistra è costituita dal fatto che essa, nella sua originaria configurazione
politico-organizzativa, si presenta come una forza antistatalista, dimostrando di avere ben chiaro
che il potere costituito difende gli interessi di altre classi sociali e che ogni sua rivendicazione
incontra l’avversione degli organi istituzionali. E’ proprio alla luce di questa consapevolezza che le
prime organizzazioni socialiste del movimento operaio si dicono convinte che se “isolata dalla
riforma sociale, la riforma politica è una menzogna odiosa” e giudicano rivoluzionari senza
principi coloro che “hanno teso una trappola all’intelligenza umana, proclamando una riforma
esclusivamente politica”.
L’esperienza cui dà vita la Comune di Parigi sul piano della concezione dello Stato altro non è che
la testimonianza di questa avversione alla delega istituzionale.
Infine, altra caratteristica fondamentale del nascente movimento socialista è lo spirito
internazionalista. Non per caso, per quasi un secolo le Internazionali, nel bene e nel male, hanno
significato per tutti i partiti ad esse aderenti un’importanza superiore a quella dell’organizzazione
nazionale e si sono dimostrate capaci, almeno in alcune circostanze, di agire compatte e in anticipo
sulla borghesia.
Il famoso slogan lanciato da Marx ed Engels, “proletari di tutti i paesi, unitevi!”, già 15 anni dopo
la sua formulazione nel “Manifesto” è stato tradotto in prassi politica.
Lo spirito e la pratica internazionalisti si sono dunque affermati assai presto nel movimento operaio
dopo che si è avuto la consapevolezza che la concorrenza fra le classi operaie dei singoli Paesi era
deleteria e perciò doveva cessare; che anzi era necessario il concorso comune di tutti i partiti
nazionali se si voleva infrangere il dominio internazionale della borghesia.
Fra i combattenti internazionalisti più coraggiosi sono senz’altro da annoverare i proletari di
Germania e quelli d’Italia.
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Capitolo 2°
L’elaborazione marx-engelsiana
2.1 – I teorici del socialismo scientifico
Prima di Marx, i teorici del socialismo si sono sempre limitati a criticare il modo di produzione
capitalistico e non sono mai stati in grado di spiegarlo. A prevalere sull’analisi scientifica della
realtà e su una conseguente azione per modificarla erano i sentimenti di giustizia e di solidarietà che
gli utopisti avevano ereditato dalla rivoluzione giacobina.
E’ solo con l’avvento dell’elaborazione marx-engelsiana che il socialismo acquista il carattere di
scienza e viene messa a punto una teoria della rivoluzione proletaria.
Il passaggio dal socialismo utopistico a quello scientifico costituisce dunque, senza alcun dubbio,
una importantissima svolta storica per il movimento operaio.
Come abbiamo visto, prima di Marx e di Engels esistevano certamente dei comunisti, fra i più noti è
il caso di ricordare Carlyle, Ruskin, Cabet, Dezamy, Weitling, questi però esprimevano nulla più
che delle astrazioni dogmatiche. Al pari degli utopisti condannavano l’etica della ricchezza e
consideravano la proprietà un “male assoluto”.
Marx stesso ebbe a definire “edizioni tascabili della Nuova Gerusalemme” i “phalanstères
fourieristi” e non esitò a sottoporre a severa critica le “Icarie”, comunità modellate sul “Voyage en
Icarie” di Etienne Cabet.
La superiorità del pensiero marx-engelsiano, cioè del socialismo scientifico, rispetto al socialismo
utopistico, consiste nel fatto che l’elaborazione dei due autori del “Manifesto” non propone modelli
fantastici e ideali di società future, ma parte dal presupposto che, come sottolinea bene Rosa
Luxemburg, “il sistema sociale del socialismo deve e può essere solo un prodotto storico, nato
dalla scuola stessa dell’esperienza, al momento della realizzazione, nel divenire della storia viva”.
In netto contrasto con gli utopisti e con i comunisti romantici, Marx non demonizza, bensì celebra la
borghesia e non pensa affatto che la proprietà sia sempre e comunque un male. Questo suo
convincimento ovviamente non gli impedisce di mettere in risalto gli aspetti negativi del sistema
capitalistico, di avversarli con tutte le sue forze e di elaborare la teoria del suo superamento.
Cogliere appieno il valore e la complessità della teoria marxiana non è cosa semplice, anzi è una di
quelle imprese che fanno tremare i polsi.
Di Marx e su Marx si è detto di tutto, come vedremo; ogni suo estimatore o avversario lo ha
interpretato a modo proprio e questo, unitamente al fatto che egli ci ha lasciato una gran mole di
scritti, non solo complica ogni tentativo teso a semplificare l’esposizione del suo pensiero, ma rende
addirittura vano qualsiasi sforzo di sintesi. Oltretutto, bisognerebbe essere degli studiosi superlativi
per poter vantare di aver assimilato per intero l’elaborazione filosofica, economica e politica che
Marx e Engels ci hanno lasciato in eredità.
Quello che qui mi propongo di fare è pertanto un’operazione assai modesta, cioè un tentativo di
sintesi. Cercherò di riassumere quanto io, nel corso della mia militanza politica ho recepito in
termini di studio degli scritti di questi due padri del socialismo scientifico e quanto ho appreso da
studiosi e da compagni che più e meglio di me hanno fatto i conti con il loro enorme patrimonio di
sapere e di sensibilità umana.
Ovviamente si tratta di un contributo non solo parziale e modesto, ma anche discutibile, che
comunque credo valga la pena di mettere a disposizione di chi avrà la bontà e la pazienza di leggere
queste righe, il cui scopo è quello di fornire una testimonianza interpretativa fra le tante, seppure di
second’ordine e maturata sul campo, di questo straordinario lascito politico-culturale che ha
determinato il cambiamento del corso storico.
Prima di procedere al riepilogo delle mie acquisizioni, credo torni utile fare alcuni fugaci cenni ad
alcune delle caratteristiche dei due personaggi in questione che maggiormente hanno colpito la mia
immaginazione. A qualcuno questo mio modo di procedere potrà sembrare una divagazione, io
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invece credo sia di aiuto a comprendere meglio la dimensione umana di questi due straordinari
personaggi e insieme il mio approccio ai loro insegnamenti.
Karl Heinrich Marx nasce a Treviri, sul confine franco-tedesco, nel 1818; Friedrich Engels a
Barmen, nella Renania, nel 1820. Moriranno tutti e due a Londra, il primo nel 1883, il secondo nel
1895.
Ambedue provengono da famiglie borghesi e sono degli intellettuali. Agli esami di ginnasio Marx
non riesce a cavarsela in storia e in religione, mentre Engels, al contrario, quando esce dal liceo, è
munito di un rigoroso viatico religioso. Da giovani essi si distinguono come allegri bevitori, tanto è
che Marx viene condannato a un giorno di prigione (è l’unica detenzione che subisce) per
ubriachezza notturna e disturbo della quiete pubblica.
Il padre di Marx si lamenta spesso del figlio a causa dei “conti à la Karl, senza capo né coda, senza
risultato”. In effetti, è da constatare che il teorico classico del denaro non è proprio mai riuscito a
far quadrare i suoi stessi conti personali.
Così il genitore dice del figlio: “Lo giudichi Iddio! Disordine assoluto, balordo vagabondaggio in
tutti i campi del sapere, balorde sgobbate al fioco lume della lucerna; abbrutimento nello studio in
veste da camera e coi capelli arruffati, invece che abbrutimento nel bere in una birreria; repellente
mancanza di socievolezza e di ogni decoro e perfino di ogni riguardo verso tuo padre…. Come se
fossimo pieni d’oro, il signor figlio consuma in un anno quasi 700 talleri, contro ogni accordo,
contro ogni usanza, mentre i più ricchi non ne spendono 500”.
In realtà, Karl non è un dissipatore, è solamente uno che si lascia influenzare e trascinare facilmente
dagli amici.
Marx e Engels si conoscono a metà degli anni ’40 e da subito lavorano di concerto per la causa del
movimento operaio. Karl viene chiamato dall’amico-compagno “il Moro”.
Da scapolo, Marx ama sostenere che per chi avesse delle aspirazioni di carattere universale non c’è
asineria peggiore che quella di sposarsi e di abbandonarsi così alle piccole necessità della vita
privata. Quando però conosce Jenny non esita a smentire questo suo convincimento, anzi, con lei
mette al mondo sei figli, tre dei quali muoiono poco dopo la nascita. Con la sua donna di servizio
mette poi al mondo un altro figlio che però non riconosce e la cui paternità viene attribuita a Engels.
La moglie di Karl è gelosa dell’amico Friedrich poiché questi spinge il marito a bere, lo porta in
giro a far bagordi e forse lo accompagna anche nei bordelli. Jenny, è molto politicizzata, è infatti
una protagonista del vissuto del marito e per questa ragione viene anche arrestata.
A differenza della maggior parte degli intellettuali (del suo tempo, ma anche di quelli di oggi),
Marx fa la scelta di stare con i più deboli e lottare per un mondo più giusto dichiarando “guerra con
tutti i mezzi” alle “condizioni in cui l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato,
spregevole”.
Gli economisti sono da lui considerati i teorici della borghesia, mentre i comunisti e i socialisti
rappresentano ai suoi occhi i teorici del proletariato. Egli considera l’abolizione della sofferenza un
“imperativo categorico” di ogni comunista. Già a 19 anni, nelle sue corrispondenze giornalistiche,
si occupa della condizione dei lavoratori pubblicando dati sulle malattie, sul lavoro dei fanciulli,
sull’ipocrisia pietistica dei padroni delle fabbriche che impiegano i bambini più piccoli dando loro
salari più bassi.
Egli conosce del resto la povertà per esperienza diretta vivendo in uno stato costante di opprimente
miseria. Le sue figlie mancano persino dei vestiti e delle scarpe necessari per frequentare la scuola.
In più di una circostanza subisce pignoramenti in casa. Giunge al punto di cercare di ottenere
un’occupazione borghese e quando gli si affaccia la prospettiva di trovare impiego in un ufficio
ferroviario inglese, vede andare a monte l’occasione a causa della sua illeggibile scrittura.
Scrive sua moglie a un amico, a riguardo del suo stato economico-familiare: “Lui che ha aiutato
tanti spontaneamente e gioiosamente è rimasto privo di aiuto”. E commenta: “Karl lavora di giorno
per provvedere al pane quotidiano, di notte per portare a termine la sua Economia”. Alla sua morte
lascia alla figlia Eleonor beni per un valore di 250 sterline, pari all’incirca a 23.000 euro di oggi.
30
La madre di Karl, invece, è meno compiacente nei suoi confronti e più volte lamenta: “Invece di
scrivere ‘il capitale’ avrebbe fatto meglio a metterlo insieme”.
Marx agisce sulla base di un preciso principio, cioè ripete spesso a se stesso: “Devo mirare al mio
scopo attraverso ogni ostacolo, e non devo permettere alla società borghese di trasformarmi in una
macchina per far denaro”. Lo scrittore – a suo dire – non dovrebbe lavorare per guadagnare, ma
guadagnare per lavorare: “Lo scrittore è costretto comunque a guadagnare per poter esistere e
vivere, ma non è costretto in nessun modo a esistere e scrivere per guadagnare”. E’ così che i due
teorici del comunismo, lui unitamente a Engels, testimoniano con il loro stesso comportamento ciò
che pretendono dallo scrittore e combattono in continuazione perché i loro scritti siano fine a se
stessi, al riparo da ogni condizionamento e, soprattutto, non diventino mezzo di arricchimento.
A questo riguardo scrive Engels a Marx nel 1851: “Finalmente abbiamo un’altra volta l’occasione
di dimostrare che non abbiamo bisogno di nessuna popolarità, di nessun support di qualsiasi
partito di qualsiasi paese e che la nostra posizione è totalmente indipendente da miserie del
genere”.
Marx si astiene dal frequentare la cosiddetta società mostrando uno sconfinato disprezzo per
qualsiasi popolarità a buon mercato e lavorando dietro le quinte, senza comparire pubblicamente. Si
distingue così dalla maniera di fare della stragrande maggioranza dei politici suoi contemporanei
(ma non solo di quelli) che si danno importanza in pubblico, anche senza far nulla.
In occasione della pubblicazione del primo libro de “Il capitale”, Engels e Kugelmann si danno
molto da fare per interessare gli organi di stampa e mettono a punto persino una “bomba
reclamistica”, cioè un articolo biografico su Marx col suo ritratto, da pubblicare sulla
“Gartenlaube”. Marx blocca l’iniziativa e li prega di astenersi da un tale “spasso”. E commenta:
“Ritengo simili cose piuttosto dannose che utili, e al di sotto del carattere di un uomo di scienza.
Per esempio, il Meyers Konversationslexikon da parecchio tempo mi ha richiesto per iscritto una
biografia. Non solo non l’ho fornita, ma non ho nemmeno risposto alla lettera. Ognuno deve
andare in paradiso a modo suo”.
Marx ha l’abitudine di lavorare giorno e notte e questo suo modo di essere col passare del tempo gli
compromette la salute che originariamente era “salda come il ferro”. Egli ritiene che l’incapacità di
lavorare sia la condanna a morte per ciascun uomo che non si consideri una bestia.
Quando, dietro pressione di Engels, si concede qualche settimana di distrazione al mare, perché
malato, scrive a sua figlia Laura: “… vado attorno trottando la maggior parte del giorno, prendo
aria, vado a letto alle dieci, non leggo nulla, scrivo ancora meno, e soprattutto mi sprofondo in
quello stato d’animo del nulla che il buddismo considera come il culmine della beatitudine umana”.
Nel ’64, da un suo vecchio amico, Karl eredita 700 sterline e da quel momento vive giorni un poco
più tranquilli, almeno dal punto di vista finanziario.
In età matura egli suole citare Epicuro sostenendo che “la morte non è una disgrazia per colui che
muore, bensì per colui che sopravvive”. Finisce la sua esistenza circa un anno e tre mesi dopo la
dipartita della moglie Jenny e questo suo ultimo periodo di vita, come testimonia lo stesso Engels, a
conferma della sua straordinaria coerenza, non è altro che una “lenta morte”.
Ad aiutare materialmente Karl è proprio l’amico Friedrich il quale, per racimolare il denaro
necessario al suo mantenimento, non solo sgobba di giorno, ma sacrifica le sue ore di riposo serali
fino a notte inoltrata. Braccato dalla famiglia, Engels accetta di fare lo “sporco lavoro” del
capitalista calandosi molto bene nel suo ruolo di imprenditore responsabile di una fabbrica
internazionale, ma condivide fino in fondo le passioni e soprattutto lo spirito contestatore e
rivoluzionario dell’amico-compagno Karl. A modo suo Engels è un uomo schivo e ama definirsi “il
secondo violino di Marx”.
Al pari di Karl, superata la fase dell’adolescenza, egli si dimostra avverso a ogni enfasi religiosa, a
ogni culto dell’immagine e delle spoglie.
Circa l’evoluzione del pensiero di Marx, sono molti gli studiosi, marxisti e non, che hanno spesso
fatto una distinzione tra il Marx “giovane” e il Marx “vecchio”. A mio modesto avviso una simile
interpretazione equivale a una schematizzazione che, se per un verso trova una qualche
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giustificazione, per altro tende a falsare la visione del processo di maturazione delle sue analisi e
teorie, non riconoscendo la consequenzialità del suo pensiero ed esasperando gli inevitabili
momenti di problematicità e di contraddizione. Chi mai a questo mondo ha potuto e può vantare di
avere vissuto un processo perfettamente coerente e lineare nella propria maturazione culturale?
Anche Marx, così come Engels, in qualità di esseri mortali presentano naturalmente incertezze e
contraddizioni.
Alla base del pensiero marxiano, per esempio, troviamo una fonte religiosa che fa decisamente a
pugni con l’immagine che di lui noi tutti ci siamo fatti a riguardo della sua visione del mondo.
Eppure questo non può e non deve meravigliare: è una delle dimostrazioni che l’uomo è per
davvero – come proprio lui ci ha insegnato – il prodotto delle condizioni storiche.
Nel tema per la licenza liceale, a 17 anni, Marx infatti scrive, tra l’altro: “Anche all’uomo la divinità
diede un fine generale... la divinità non lascia mai nessuno dei mortali completamente senza
guida... La guida principale che ci deve soccorrere nella scelta di una professione è il bene
dell’umanità.... l’esperienza esalta come il più felice colui che ha reso felice il maggior numero di
uomini; la religione stessa ci insegna che l’ideale al quale tutti aspirano (Cristo) si è sacrificato
per l’umanità....”.
Ancora in uno scritto giovanile sostiene che “Prometeo è il più grande santo e martire del
calendario filosofico”, il che rappresenta senza dubbio la deificazione dell’uomo nello spirito di un
titanismo romantico, di derivazione hegeliana o feuerbachiana.
Da parte sua, Engels legge e studia la Bibbia assieme ai sette fratelli e ai genitori timorati e
devotissimi, e frequenta le società pietistiche della Germania protestante. Quando rievoca la fede
della sua giovinezza ne parla con tenerezza e ricorda come fosse impegnato nell’arrivare “a Dio,
verso cui tutto il mio cuore tende..”. Il suo assoluto amore per la verità e la sua sensibilità verso i
suoi simili sono di certo da attribuire anche all’esperienza da lui compiuta in gioventù nelle file del
protestantesimo.
Marx incomincia a mutare atteggiamento verso la religione e a prendere parte politica quando
accede agli studi universitari. Egli decide di guadagnarsi il cappello di dottore in una piccola
università, rinunciando, date le sue concezioni di giovane hegeliano, a prendere una laurea
prussiana.
E’ a Jena che gli viene conferito il titolo di dottore per il suo lavoro “Differenza tra la filosofia della
natura di Democrito e di Epicuro”. L’approccio con il pensiero filosofico gli risulta decisivo ai fini
dell’orientamento politico.
A suo giudizio, fra i più antichi filosofi greci della natura, ad aver sviluppato più conseguentemente
di altri il materialismo è Democrito. Di questi apprezza alcuni concetti che riprende e sottolinea nel
suo scritto: “Nulla nasce dal nulla; nulla di quello che è può essere annullato. Ogni variazione è
soltanto unione e separazione di parti. Nulla accade a caso, ma tutto per un motivo e di necessità.
Nulla esiste, se non gli atomi e lo spazio vuoto; tutto il resto è opinione. Gli atomi sono infiniti di
numero e hanno una infinità diversa di forme. In eterno moto di caduta attraverso lo spazio
infinito, i più grossi, che cadono più rapidamente, si urtano coi più piccoli; il moto laterale che ne
risulta, e il vortice, sono l’inizio della formazione del mondo. Infiniti mondi si formano e
scompaiono di nuovo l’uno accanto all’altro e l’uno dopo l’altro”. E sottolinea come Epicuro
avesse accettato questa concezione della natura di Democrito, apportando alcuni mutamenti il più
decisivo dei quali è la cosiddetta “declinazione degli atomi”. E nota ancora come secondo Epicuro,
ateo non è colui che disprezza gli dei della massa, ma chi aderisce alle opinioni della massa sugli
dei. Marx definisce Epicuro “il più grande illuminista greco” dal momento che lotta contro la
religione e col “suo sguardo minaccioso atterrisce dall’alto dei cieli i mortali”.
L’incontro di Marx con questi filosofi greci non rappresenta ancora la sua adesione al materialismo,
ma evidenzia anzi la grande influenza che su di lui esercita ancora, a quel tempo, la filosofia
hegeliana. Il passaggio al materialismo avviene più tardi nel tempo.
Il suo approccio all’attività politico-letteraria è fortemente utopico e radicale.
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Mentre Marx inizia il suo impegno politico-sociale con una critica della filosofia del diritto, Engels
si cimenta con la critica dell’economia politica.
Quando scrive “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, Marx è ancora un democratico
radicale. Soltanto quando viene a contatto con il movimento comunista reale egli compie il
passaggio al campo socialista. Decisivo, ai fini di questa scelta, si rivela il suo soggiorno in Francia,
durante l’esilio a Parigi, nel 1843-44. La cultura dei francesi è relativamente progredita, proprio in
conseguenza della situazione sociale e politica che si è venuta a creare nel Paese, ed esercita
pertanto grande influenza sul processo di formazione del suo pensiero. A quel tempo la società
borghese francese è già entrata in conflitto con il proletariato e tra le file dei lavoratori sono già
diffuse le idee del socialismo utopistico. Marx eredita da Rousseau l’idea che l’uomo nasce libero, e
naturalmente buono, e che a guastarlo è la società mal organizzata. Studiando la rivoluzione
francese si rende conto delle lotte e dei desideri di quel tempo. Il vantaggio che trae dall’esperienza
acquisita durante il soggiorno in terra di Francia consiste nel fatto che egli è conoscitore a fondo di
tutte le conquiste del pensiero filosofico tedesco.
Unitamente agli studi economici che compirà poi con Engels, impegnato ad approfondire lo
sviluppo dell’industria inglese, la filosofia tedesca e il socialismo dei francesi costituiranno la
triplice fonte delle sue teorie. Non a caso Marx definisce il proletariato tedesco il teorico di quello
europeo, quello inglese il suo economista, quello francese il suo politico.
A riguardo di questa triplice matrice del marxismo, c’è chi sostiene che andrebbe aggiunta una
quarta fonte, e precisamente il populismo russo, materia che in età più avanzata egli studia a fondo e
che successivamente costituirà la base del marxismo-leninismo.
Uno degli elementi formatori del pensiero marxiano è rappresentato dalle concezioni classiche e
rivoluzionarie del Blanqui e dei neobabuvisti. Risalta pure chiaro in Marx lo spirito proletario tipico
degli artigiani e degli operai tedeschi impegnati nella costruzione pratica e teorica di un movimento
organizzato dei lavoratori. Egli fa sue le tesi di “morale” sociale di Owen, e anche certe intuizioni
economiche di Blanc e di Proudhon.
Se Engels, come Karl amava ricordare, “balbetta in venti lingue”, lui legge e rilegge nelle lingue
originali, oltre i classici greci e latini, Dante e Machiavelli, Shakespeare e Swuft, Moliere e Diderot,
Cervante e Calderon. E’ un divoratore di romanzi contemporanei, soprattutto inglesi. E per leggere
Puskin, Lermontov, Gogol, Turganev, Herzen, impara il russo. Oltre a tutte le lingue germaniche e
romanze, che legge con facilità, studia anche l’antico slavo e il serbo. Pur considerandolo un
reazionario, ama Balzac perché, a suo dire, esprime la verità dei rapporti sociali ben più a fondo di
tanti sedicenti scrittori di sinistra.
Marx non si esprime mai con i “forse” o i “probabilmente”, ma mostra di avere sempre la certezza
di quel che dice. E’ un polemista sferzante, talvolta sprezzante, demolitore antidogmatico di
pregiudizi, ostico a ogni ortodossia e autorità precostituita. Disprezza ciò che definisce “le
reciproche concessioni e le mezze misure tollerate per amor delle apparenze”, così come non
tollera i romantici rivoluzionari ricchi di sentimento ma poveri di comprensione.
Addita l’incapacità dei signori e la infingardaggine dei servi e dei sudditi che lasciano che tutto
avvenga come a dio piace, dal momento che ritiene le due cose insieme sufficienti a provocare una
catastrofe. Chiama “morti vivi” quei suoi compagni di gioventù che hanno tradito la causa del
proletariato e definisce clown Edgar Bauer che fa l’agitatore comunista.
Con Bakunin ha un contrasto irriducibile che riguarda non soltanto motivi ideologici e politici, ma
anche elementi razziali, nazionali e di rancore personale. Di lui lo stesso Bakunin dice: “Marx come
tedesco e come ebreo è un autoritario da capo a piedi… Lasciando da parte tutti i brutti tiri che ci
ha giocato, noi non possiamo, o almeno io non posso disconoscere gli enormi servigi che egli ha
reso alla causa del socialismo alla quale da quasi venticinque anni presta la sua opera con
intelligenza, energia e integrità, superando senza dubbio tutti noi. E’ stato uno dei primi fondatori,
e certamente il principale fondatore dell’Internazionale, e questo a mio giudizio è un enorme
merito, che riconoscerò sempre, qualunque cosa possa aver fatto contro di me”. Ma aggiunge
anche che Marx “non mi può soffrire… non ama nessuno se non se stesso e forse i suoi intimi”.
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Karl definisce Mazzini un “Teopompo” (storico greco più volte costretto all’esilio) e un “vecchio
somaro”. E come ricorda Kautsky, di Proudhon dice: “Non mi sono mai unito alle grida del suo
‘tradimento’ della rivoluzione. Non è stata colpa sua se egli, originariamente frainteso dagli altri
come da se stesso, non ha esaudito delle speranze ingiustificate”.
Marx subisce innumerevoli angherie e discriminazioni e gode il privilegio di essere oggetto di
forsennati attacchi e confutazioni. Viene costretto a esiliare ripetutamente: nel 1849 lascia la
Francia per raggiungere Londra subendo l’esilio per la terza volta.
Gli editori tedeschi che si vantano della loro indipendenza rifuggono davanti al suo nome divenuto
sinonimo di “malfamato demagogo”. E tutti i partiti tedeschi lo calunniano. Poiché però i tratti della
sua integerrima figura balenano sempre tra i vapori artificiali, nei suoi confronti subentra la perfidia
e viene praticata l’astuzia del silenzio sistematico.
Quando, esule in terra inglese, vuole sostenere le sue tesi, per evitare di finire espulso, ricorre a
pseudonimi firmandosi Howard Merton o J.G.Eccarius.
Marx ripete spesso che i libri sono i suoi schiavi. Si consideri, a riguardo della sua attitudine alla
lettura e allo studio, che per stendere il suo capolavoro scientifico (“Il capitale”) egli affronta una
serie infinita di questioni: dalla storia primitiva all’agronomia, dai rapporti di proprietà fondiaria
russi e americani alla geologia, dalle scienze alla politica, ovviamente.
Vivere per lui equivale lavorare sodo e di continuo, e lavorare per lui significa soprattutto lottare.
“Lavorare per il mondo” è una delle sue frasi preferite.
Sue qualità, a dire di Mehering che ha scritto una minuziosa biografia su di lui, sono: la chiara e
profonda conoscenza delle leggi dello sviluppo storico, l’energia di volere ciò che è necessario e la
pazienza di contentarsi del possibile, la tollerante indulgenza per l’errore fatto in buona fede e
l’imperiosa inflessibilità contro l’ignoranza ostinata.
E’ caratteristico di Marx, del suo procedimento intellettuale, il leggere o l’ascoltare
appassionatamente gli altri, magari per poi contestarli o criticarli con grande foga, non senza
comunque utilizzare le opinioni raccolte ai fini della sua costruzione teorica.
Engels sostiene che a Marx doveva essere mancato il tempo di essere breve. L’insaziabile brama di
sapere lo costringe ad affrontare rapidamente i problemi più difficili, dato che l’inesorabile
autocritica gli impedisce di venirne altrettanto rapidamente a capo. L’incitamento a riflettere, alla
critica e all’autocritica è senz’altro l’elemento più originale della dottrina che egli ci lascia. “Noi
abbiamo da compiere la critica senza riguardi di tutto ciò che esiste, senza riguardi nel senso che
la critica non ha paura dei propri risultati e tanto meno del conflitto con i poteri”, ammonisce.
La sua critica è spietata e la scrupolosità lo spinge sempre a nuove ricerche. E non si accontenta mai
di fare autocritica, tanto è che nella prefazione al primo libro de “Il capitale” dichiara: “Sarà per me
benvenuto ogni giudizio di critica scientifica”.
2.2 – La concezione materialistica della storia
Giunto a poco più della metà della sua esistenza e quando ancora le sue elaborazioni più importanti
non avevano ancora visto la luce, Marx scrive: “Ciò che io ho fatto di nuovo è stato... dimostrare
che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato”. Eppure, a quel
tempo egli aveva già dato inizio a quell’imponente opera che rappresenta una pietra miliare del
progresso dell’umanità.
La grandezza del suo lavoro consiste nel fatto che egli è riuscito a dimostrare che lo sviluppo della
società non è determinato solo dalle idee, ma dai rapporti di produzione, e che lo stesso corso delle
idee dipende dal corso delle cose.
Le due geniali elaborazioni che Marx assieme a Engels ci lascia in eredità, sono la concezione
materialistico-dialettica della storia e la rivelazione del “segreto” della produzione capitalistica
mediante il plusvalore. Con questo suo contributo il socialismo diventa una scienza la quale, come
vedremo, ha necessariamente bisogno di essere rielaborata in continuazione.
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Marx ed Engels hanno elaborato le loro teorie avvalendosi, nella maniera più ampia e completa
possibile, del patrimonio di sapere positivo accumulato fino a quel tempo dall’umanità. Come ha
sottolineato Lenin, “Marx ha rielaborato criticamente, senza tralasciare un sol punto, tutto quello
che la società umana aveva creato”.
In effetti, nel corso della loro esistenza, i due padri del socialismo scientifico studiano un’infinità di
materie: filosofia, storia, economia, matematica, scienze, e altre ancora, e prima di stendere “Il
capitale”, Marx ricompone il “sapere” che già la cultura di quell’epoca aveva scomposto sull’onda
delle divisioni sociali.
Uno degli aspetti che più colpisce è che molti dei lavori più importanti di Marx sono rimasti
incompiuti, nonostante la dedizione e determinazione che contraddistinguono l’autore. I
“Manoscritti del 1844”, le “Teorie sul plusvalore”, i “Grundrisse” e lo stesso “Il capitale” hanno
difatti avuto tale sorte. La causa di questa incompiutezza è da ricercarsi nella natura stessa del suo
lavoro e nel suo proposito di superare la filosofia e l’economia politica per rimpiazzarle con una
“scienza dell’uomo” globalmente integrata, empiricamente fondata e praticamente provata e
realizzata. Il suo è un lavoro immane, enciclopedico, testimoniato peraltro dall’ampiezza delle
spiegazioni che egli fornisce in continuazione ai suoi lettori; una fatica che chiaramente va al di là
delle possibilità di un qualsiasi singolo individuo.
Quando si propone di scrivere “Il capitale”, egli ha in mente di realizzare tre volumi: uno sul
salario, uno sullo Stato e il terzo sul mercato mondiale. E’ questo un proposito che non realizzerà
mai. Nemmeno il secondo e il terzo volume de “Il capitale” che sono arrivati a noi, sono stati portati
a termine, anzi non sono stati nemmeno da lui riveduti. Come pure egli non è riuscito a completare
quella parte dell’opera che si proponeva di sviluppare a riguardo dell’economia della società
contemporanea.
Nonostante queste inadempienze, il patrimonio accumulato negli scritti marx-engelsiani è
estremamente ricco e complesso.
Al pari di altri grandi pensatori, Marx ed Engels vengono generalmente considerati degli ideologi e
non degli scienziati quali in realtà sono. Essi non hanno nulla a che fare con l’“umanismo” astratto,
prova ne è il fatto che nel loro pensiero non c’è una sola traccia di quelli che potrebbero essere
definiti “concetti ideologici”. E questo, a dispetto di molti critici ed estimatori, vale anche per il
cosiddetto “Marx giovane”.
Deve essere ben chiaro che il pensiero marx-engelsiano non è affatto una ideologia, come molti,
purtroppo anche a sinistra, credono o si ostinano a far credere. La loro teoria è una vera e propria
scienza. Può piacere oppure no riconoscerlo, ma tale è la sua natura e nessun intellettuale serio e
onesto può dubitarne. Chi non vuol riconoscere questa verità è insipiente o semplicemente in mala
fede.
Una delle battaglie che Marx conduce fino all’estremo, infatti, è proprio quella contro l’ideologismo
da lui considerato “falsa coscienza”.
Vale la pena ricordare che l’ideologia non è altro che la cristallizzazione di un’idea o di un sistema
di idee attraverso cui viene giudicato il passato, il presente e il divenire delle cose di questo mondo,
a cui consegue necessariamente un determinato modo di agire. La sua produzione avviene sul piano
sovrastrutturale, si realizza attraverso l’ignoranza di taluni processi reali, attraverso il distacco dalla
realtà delle cose e dietro l’impulso del conseguimento di una verità assoluta, evitando così il
travaglio della ricerca e l’angoscia dell’incertezza.
A riguardo dell’origine e della natura del pensiero marx-engelsiano, deve essere ben chiaro che
torna però impossibile separare la formazione filosofica di questi pensatori dagli idealisti quali
Kant, Fichte, Schelling, Hegel. Come è noto, secondo la concezione filosofica di quest’ultimo in
particolare, la materia è indeterminata ed è il pensiero che fonda il reale. E da giovane, come
abbiamo visto, Marx è stato hegeliano. Egli ha fatto sue le acquisizioni del maestro, ma è stato
capace di non attestarsi su di esse e di proseguire la ricerca filosofico-politica lasciandosi alle spalle
l’influsso umanista della giovinezza, guardando la società con un approccio storico e materialista.
Ne sono testimonianza “L’Ideologia tedesca“ e le “Tesi su Feuerbach”. Così Gramsci spiegava la
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differenza tra il maestro e l’allievo: “Ciò che v’è d’essenziale nel fatto storico è per Hegel l’Idea,
che si sviluppa dialetticamente; per Marx, è la materia (il fatto economico) che si sviluppa
egualmente”.
Compiuto questo salto di qualità, ai suoi occhi l’elemento ideale è apparso come l’elemento
materiale che si trasferisce e si traduce nel cervello dell’uomo. L’ideologia diviene così un insieme
di concetti, idee, nozioni, rappresentazioni in cui si annidano i bisogni di identità e di mutuo
riconoscimento degli esseri umani. Non a caso le forme classiche dell’ideologia sono rappresentate
dalle concezioni politiche, dalla morale, dall’arte, dalla religione. E l’ideologo appare a Marx come
colui che è spinto a osservare il mondo alla rovescia.
“L’ideologia - ha scritto Engels a Mehring nel 1893 – è un processo che viene bensì compiuto dal
cosiddetto pensatore con coscienza, ma con una falsa coscienza. Le vere forze motrici che lo
muovono gli rimangono sconosciute, altrimenti non si tratterebbe di un processo ideologico. Egli
s’immagina dunque delle forze motrici false o apparenti. Poiché si tratta di un processo di
pensiero, egli ne deduce tanto il contenuto che la forma del pensiero puro, o dal proprio, o da
quello dei suoi predecessori... E’ innanzi tutto quest’apparenza d’una storia indipendente dalla
costituzione degli Stati, dei sistemi giuridici, delle rappresentazioni ideologiche in ogni campo
particolare, che acceca la maggior parte della gente. Quando Lutero e Calvino ‘superano’ la
religione cattolica ufficiale, quando Hegel ‘supera’ Fichte e Kant, quando Rousseau col suo
‘Contratto sociale’ ‘supera’ indirettamente il costituzionale Montesquieu, questo processo rimane
all’interno della teologia, della filosofia, della scienza politica, costituisce una tappa nella storia di
questi campi del pensiero e non esce dal campo del pensiero”.
Non è peraltro da dimenticare che a giudizio di Marx e di Engels, gettando via Hegel per intero,
Feuerbach ha gettato via troppo; occorre invece, a loro giudizio, trasferire la dialettica
rivoluzionaria di Hegel dal regno del pensiero al regno della realtà. Ed è appunto quello che essi
hanno fatto.
“Nella pratica – asserisce Marx - l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il
carattere terreno del suo pensiero. La contesa sulla realtà o l’irrealtà di un pensiero, che l’isola
dalla pratica, è una questione puramente scolastica”.
Negli abbozzi di lettera a Vera Zasulic, egli afferma risolutamente che tutte le grandi idee storiche
hanno le loro radici “nei bisogni della vita”, cioè in determinate condizioni sociali ed economiche.
A suo giudizio “l’idea ha fatto sempre una brutta figura tutte le volte che è apparsa separata
dall’interesse”.
La vita umana è intesa da Marx e da Engels come un rapporto dialettico di tutti i suoi aspetti, tra i
quali quello economico ha il peso maggiore. Contrariamente ai pensatori idealisti, essi individuano
la base materiale nella totalità sociale e da essa risalgono a una concezione della stessa totalità
facendo sì che non risulti più idealisticamente mistificata, ma venga concepita nelle sue reali
articolazioni. E ci chiariscono come la storia è un processo determinato dagli uomini e non dagli
dei, come l’uomo non è la creatura di dio, ma il prodotto del processo storico, e sempre
contrariamente a come fanno gli idealisti, i quali spiegano la realtà partendo dalle idee, spiegano le
idee partendo dalla prassi.
Ne “L’ideologia tedesca” essi sostengono che, di conseguenza, “tutte le forme e prodotti della
coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’
‘autocoscienza’ o trasformandoli in ‘spiriti’, ‘fantasmi’, ‘spettri’, ecc., ma solo mediante il
rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono
derivate; …non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della
religione, della filosofia e di ogni altra teoria”. Questo, appunto perché non la materia è un
prodotto dello spirito, ma lo spirito è il prodotto più alto della materia.
Per spiegare la coscienza occorre dunque partire dalla realtà e dal presupposto che gli individui
sono il prodotto delle condizioni materiali della loro produzione. “Sono gli uomini i produttori delle
loro rappresentazioni, idee, ecc.... La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma
ideologica... non hanno storia, non hanno sviluppo… sono gli uomini che sviluppano la loro
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produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà,
anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero”. “Il pensiero teorico di ogni epoca, e quindi
anche della nostra, è un prodotto storico”. Gli uomini fanno se stessi e non possono cambiare senza
cambiare il mondo. E operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, l’uomo cambia allo stesso
tempo la natura sua propria.
Nel momento in cui Marx ed Engels si sono resi conto che l’umanesimo e l’emancipazione
dell’uomo possono essere conseguiti solo combattendo sul terreno concreto della storia e non
invece nel solo campo del pensiero, hanno dichiarato guerra a tutti gli dei del cielo e della terra. Il
grande sforzo concettuale che essi hanno compiuto è quello di aver dato piena autonomia alla
scienza della società rispetto alla filosofia.
Non essendoci in loro traccia alcuna di utopismo, essi non inventano, non immaginano una società
“nuova”, ma studiano la genesi della società che sorge da quell’antica, così come fa lo studioso di
un processo di storia naturale.
In questo modo attribuiscono importanza decisiva alla ricerca, alle diverse interpretazioni dei
singoli fenomeni, alla disponibilità dello studioso di revisionare il proprio pensiero sulla base
dell’acquisizione di nuove conoscenze.
Raccomanda Engels al proposito: “Bisogna ristudiare tutta la storia, bisogna indagare nei
particolari le condizioni d’esistenza delle diverse formazioni sociali, prima di tentare di dedurre da
esse le concezioni politiche, giuridiche, estetiche, filosofiche, religiose, ecc. che ne derivano”.
E Marx ammonisce: “Bisogna dubitare di tutto”. E il primo a non essere dogmatico e a dubitare
delle sue stesse convinzioni è proprio lui applicando su se stesso questo criterio. Quale critico della
riduzione della teoria a ideologia, del resto, già nel 1847 afferma categorico: “Noi non siamo
venditori di sistemi”.
Negli ultimi anni di vita Marx è talmente preoccupato della possibile comparsa di un “comunismo
scientifico” che somigli a una religione laica, a un dogma, da dire al genero Lafargue: “Dev’esser
chiaro che io non sono marxista”. E pure Engels precisa in continuazione che “la nostra dottrina
non è un dogma, ma una guida per l’azione”.
Il loro pensiero dunque non è da considerarsi un “vangelo” o una “sacra scrittura”, cioè una verità
intoccabile e indiscutibile come nel corso della storia purtroppo qualcuno ha fatto. Per loro, il
pensiero è un movimento che non ha mai fine, che non tollera dogmi e schematizzazioni.
La specificità dell’elaborazione marx-engelsiana è l’unità di teoria e prassi, è il farsi azione politica
della filosofia, mentre l’azione politica si fa filosofia.
Il loro rapporto tra il pensare e il fare è radicalmente diverso da quello, per esempio, che è
intercorso tra il messaggio evangelico e la sua istituzionalizzazione ecclesiale o tra la filosofia
rousseauiana e il “Terrore” giacobino o tra Nietzche e Hitler o, ancora, tra la stessa teoria marxiana
e il marxismo-leninismo staliniano. Non riconoscere questa originalità significa ridurre Marx ed
Engels a semplici filosofi.
Tanto meno il loro pensiero è da considerarsi una teoria generale della società, così come lo ha
interpretato Bucharin. Se così fosse, diventerebbe appunto una “filosofia sociale” speculativamente
dedotta e non derivata dall’analisi dei processi sociali, considerato che ogni sistema o forma di
società vanta proprie leggi specifiche.
Marx propone il superamento della filosofia speculativa, poiché essa non si dimostra consapevole
delle proprie radici sociali. Il senso della critica che egli rivolge all’ideologia sta proprio in questo
processo evolutivo. La sua è una critica al conoscere statico dell’azione, alla non consapevolezza
dell’essere elemento costitutivo della prassi. In questo suo modo d’intendere, la filosofia subisce la
trasformazione da speculativa in metodo-concezione-critica-prassi.
Concependo il movimento come modificazione in generale, egli supera tutto il materialismo
tradizionale, che risulta ancorato ad elementi immutabili, e assume a principio la dialetticità
assoluta di tutto l’esistente. Sostiene che compito della filosofia critica deve essere quello di dare
alla società la coscienza di se stessa e rimprovera ai filosofi di essersi limitati soltanto a interpretare
il mondo, quando invece si tratta di trasformarlo. La sua critica alla filosofia giunge alla
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conclusione che la concezione del mondo non può essere il risultato di una deduzione speculativa,
bensì dell’analisi dell’economia e delle strutture sociali. Solo da una simile evoluzione del pensiero
umano può emergere, a suo giudizio, un nuovo intellettuale in grado di non illudersi della propria
purezza di “anima bella” di fronte alla lotta sociale e politica e di assumersi invece la responsabilità
di fronte all’umanità.
Marx ed Engels ci hanno dunque lasciato prima ancora che una critica della società capitalistica, un
metodo di pensiero e di indagine della realtà sociale dal quale discende la stessa teoria di una
società alternativa. Questo metodo è il materialismo storico-dialettico.
Il materialismo è quella corrente storica della filosofia che riconosce la materia come primaria e la
coscienza o il pensiero come secondari. Democrito ed Epicuro, come ci ha ricordato lo stesso Marx,
sono appunto i capiscuola di questa corrente.
Prima di Marx i materialisti non collegavano le loro concezioni con l’idea dello sviluppo, non
applicavano la dialettica e non erano in grado di estendere il materialismo al campo delle relazioni
sociali.
A fronte dell’evoluzione delle scienze naturali, che dimostrano come la materia organica e
inorganica è soggetta a continui mutamenti, Marx ed Engels si propongono di mettere a punto una
teoria materialistica della storia e della vita sociale. Per raggiungere questo obiettivo sono costretti a
liberare il materialismo dalle pastoie meccanicistiche e integrare in esso le stesse conquiste del
pensiero hegeliano. Compiuta tale operazione, essi dimostrano che le stesse forme della società
sono mutevoli e con coerenza applicano ad esse il criterio dello sviluppo storico. Il pensiero, a
questo punto, viene considerato prodotto del cervello pensante che si appropria del mondo reale.
Marx ha così formulato la tesi iniziale del materialismo storico: “Non è la coscienza degli uomini
che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro
coscienza”.
E’ qui il caso di ricordare che egli non ha mai chiamato materialistica la sua concezione e non ha
mai adoperato la formula “dialettica materialistica”, ma ha invece usato il termine “razionale” in
contrapposizione al termine “mistica”.
Il materialismo storico vede nello sviluppo dei beni materiali necessari all’esistenza dell’uomo la
forza principale che determina tutta la sua vita sociale, fino a condizionare la transizione da un
regime sociale all’altro. Questa concezione del mondo individua nell’economia la forza principale
che determina la vita sociale e che “fa la storia”. E spiega, tra l’altro, come la produzione e lo
scambio dei prodotti siano alla base di ogni ordinamento sociale; come ogni mutamento sociale non
possa e non debba essere ricercato nella testa degli uomini, bensì nel mutamento del sistema di
produzione; come ogni ordinamento politico e sociale sia una emanazione diretta del
comportamento materiale di un popolo.
Ne “L’ideologia tedesca” Marx ed Engels sostengono la tesi che “non si parte da ciò che gli uomini
dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si
rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente
operanti e sulla base del processo reale della loro vita spieghiamo anche lo sviluppo dei riflessi e
degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel
cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita”.
Il materialismo dialettico è invece l’interpretazione scientifica del mondo e affronta i fenomeni
della natura, li studia e li conosce con metodo appunto dialettico e secondo un’interpretazione
materialistica. Esso integra tutti i campi del sapere, contrastandone cioè la frammentazione e parte
dal principio che non c’è nulla al mondo al di fuori della materia in movimento nello spazio e nel
tempo. L’essenziale dell’interpretazione dialettica è l’analisi della realtà nel suo processo di
formazione, nel contesto generale della totalità in cui è inserita, nel suo rapporto con lo stesso
soggetto che la analizza.
Prima di Marx il movimento socialista si muoveva nell’ambito di forme tradizionali della
comprensione della realtà e dell’oggetto, della conoscenza e del sapere, dell’azione e della
coscienza dell’azione. Il materialismo aveva un carattere intuitivo, era una semplice “visione del
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mondo” e non momento integrante di una concezione della prassi. All’unilaterale visione
meccanicistica della natura e dell’uomo, Marx ed Engels hanno dunque sostituito una teoria dello
sviluppo che abbraccia tutti i campi della realtà. Hanno esteso il materialismo all’interpretazione
della vita sociale e hanno assunto come loro punto di vista la società umana, o meglio, l’umanità
socializzata.
Essi, in sostanza, hanno dato avvio alla comprensione della storia come processo che non ha
bisogno, per essere spiegato, di forze misteriose estranee alla vita, bensì come processo che si
svolge nel quadro di condizioni materiali oggettive, come processo regolato da leggi proprie. Essi
spiegano la prassi non partendo dalle idee, ma spiegano le idee partendo dalla prassi. Ciò che gli
individui sono – come già abbiamo visto – dipende dalle condizioni materiali della loro produzione,
da ciò che producono, dal modo come producono. La produzione delle idee, delle rappresentazioni,
della coscienza, è direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni tra gli uomini. Non è
appunto la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza. Avvertendo al
tempo stesso, però, che le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le
circostanze. Nelle “Tesi su Feuerbach” Marx precisa: “La dottrina materialistica per cui gli uomini
sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione dimentica che sono proprio gli uomini che
modificano l’ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato”.
Se è vero pertanto che l’essere sociale determina la coscienza, non è meno vero che la coscienza, a
sua volta, anticipa e precorre l’essere storico. Solo dall’attivo processo di interazione nasce la storia
e quindi è più esatto dire che la coscienza è parte integrante dell’essere sociale.
Scrive Engels in “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”: “Il momento
determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata.
Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di
generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste
cose; dall’altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni
sociali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono,
sono condizionate da entrambe le specie della produzione: dallo stadio di sviluppo del lavoro, da
una parte, e della famiglia, dall’altra”.
La teoria della storia sviluppata da Marx e da Engels asserisce quindi che il modo in cui l’uomo
agisce e pensa è determinato in ultima analisi dal modo in cui si procura da vivere e che pertanto il
fondamento di ogni società è il suo sistema economico. Conseguentemente, il mutamento
economico si rivela la forza motrice della storia.
Il materialismo storico dialettico costituisce dunque l’antitesi dell’opinione secondo cui la storia
deve interpretarsi come autosviluppo delle idee. La teoria marx-engelsiana mette in primo piano
l’interagire pratico degli uomini, la processualità ai diversi livelli della vita e della realtà sociale, le
strutture che da questa processualità emergono, il loro reciproco interferire, il loro dialettizzarsi. Si
tratta di una impostazione che cerca di continuo la verifica empirica.
Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare
un’epoca di sconvolgimenti dalla coscienza che ha di se stessa. Occorre invece spiegare questa
coscienza con le contraddizioni della vita materiale.
Nell’”Anti-Duhring” Engels contesta con forza la possibilità di raggiungere “verità pure” e
“immutabili” nell’ambito sia della scienza della natura che in quella della società, e dunque dello
stesso materialismo scientifico, il cui progresso nella conoscenza del mondo si realizza
necessariamente attraverso una serie di errori e di aggiustamenti.
Emerge in queste considerazioni la consapevolezza che una comprensione adeguata ed esauriente
della totalità dei nessi che si svolgono nella realtà è per l’uomo una vera e propria conquista. La
realtà nella sua interezza, il mondo naturale, storico e spirituale, costituiscono in se stessi
movimento, trasformazione incessante, e il pensiero è costretto ad adeguarsi nella propria ricerca a
questi processi. E ciò non è affatto cosa semplice.
La visione storico-dialettica si sforza di vedere le cose nel loro nesso d’insieme, nel loro
movimento, nel loro concatenamento.
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Marx ed Engels giungono infine alla conclusione che tutte le forme e i prodotti della coscienza
possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, ma solo attraverso il rovesciamento
pratico dei rapporti sociali esistenti.
La concezione materialistica, storico-dialettica, non è dunque una sorta di filosofia della storia che
ci può dare la chiave per interpretare tutta la storia della società, ma più semplicemente è la chiave
per indagare il carattere concreto, specifico, di ogni singola formazione sociale. E’ un canone, un
criterio d’interpretazione scientifico fondato sulla critica.
Ecco, in estrema sintesi, la parafrasi della genesi e del contenuto della dottrina critico scientifica del
materialismo storico dialettico, almeno come io l’ho recepita!
2.3 – Storicità e diversità dei modi di produzione
Con i loro studi, Marx ed Engels dimostrano come la società umana sia mutata nel corso dei secoli
assumendo numerose forme tra loro differenti e come ogni periodo storico vanti leggi sue proprie.
Non essendoci nulla di statico, anche le strutture della società sono una realtà in movimento. Anche
i rapporti di produzione e i modi di produzione risultano essere dinamici. Le stesse connessioni tra
un’epoca storica e l’altra, prima di scomparire, lasciano posto a quel che è in divenire.
Allo scopo di interpretare la periodizzazione e la dinamica della storia umana, i padri del socialismo
scientifico analizzano i modi di produzione che si sono susseguiti nel tempo, e scoprono che ognuno
di essi vanta forme tecniche, divisione del lavoro e sistema di scambio specifici. Gli stessi rapporti
sociali che si instaurano tra gli uomini e determinano le classi sociali, appaiono diversificati.
Rivelano poi che i cambiamenti strutturali prima di albergare nella testa degli uomini, si realizzano
nella materialità dei sistemi di produzione.
Marx usa il termine “modo di produrre” o “modo di produzione” in diverse accezioni. Quello che
piùricorre, si riferisce all’insieme dei rapporti sociali di produzione e delle forze produttive messe in
atto in processi lavorativi che hanno una base tecnica storicamente determinata.
Per designare società in seno alle quali le risorse appartengono a un’entità superiore, a uno Stato
personificato da un sovrano reale, o da un signore immaginario, o da un dio, egli ricorre al concetto
“modo di produzione asiatica”. Ritiene abbiano simili caratteristiche la Cina, l’India e anche la
Russia degli Stati “semi-asiatici” o “semi-orientali”. Il modo asiatico di produzione ha una
caratteristica fondamentale, cioè l’assenza della proprietà privata della terra.
Egli mette in risalto come ogni modo di produzione consenta la crescita delle forze produttive fino a
un certo livello raggiunto il quale diviene esso stesso ostacolo allo sviluppo economico, perciò cede
il campo a un nuovo modo di produzione in grado di consentire la ripresa dello sviluppo.
A proposito di questo processo evolutivo, precisa: “Una formazione sociale non perisce finché non
si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi superiori rapporti di
produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni
materiali della loro esistenza”. Ed evidenzia che “anche quando una società è riuscita ad
intravedere la legge del proprio movimento non può né saltare né eliminare per decreto le fasi
naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare ed attenuare le doglie del parto”.
Marx ed Engels credono in una storia universale progressiva e argomentano come ciascuna
formazione sociale, nonostante l’ineguaglianza dello sviluppo e i possibili arretramenti, risulti
essere comunque superiore alla precedente.
Dai loro studi deducono che nel corso della storia umana si sono succeduti quattro modi di
produzione: quello comunista primitivo, quello schiavista, quello borghese e quello capitalista. A
quest’ultimo dovrebbe, a loro parere, far seguito quello socialista, per la stessa logica secondo cui il
capitalismo è succeduto al feudalesimo. Nel passaggio al futuro nuovo regime, quello socialista
appunto, uno dei mutamenti fondamentali dovrebbe consistere nell’abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione. E’ da ricordare che Marx ed Engels considerano il socialismo e il
comunismo come fasi storiche di una civiltà superiore rispetto a quella borghese.
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Constatano poi che nella concatenazione dialettica degli avvenimenti storici, il presente contiene
sempre le contraddizioni gravide delle soluzioni del futuro e che non esistono separazioni nette fra
le varie tappe del processo storico.
Essi non rigettano la storia passata e presente (comprese le idee e le teorie) ma, vedendo in essa un
processo di sviluppo continuo e scoprendo le leggi del suo movimento, vanno alla ricerca delle
ragioni e dei limiti delle stesse teorie e filosofie che considerano sbagliate, allo scopo di dimostrare
il loro superamento e la prosecuzione del corso storico all’insegna di nuove idee e nuove teorie.
L’economia classica considera il sistema capitalistico eterno ed armonico, mentre Marx ed Engels
escludono che possa esistere un sistema di rapporti sociale definitivo. Nella produzione borghese
essi vedono solamente una determinata forma storica di produzione sociale. Nella loro concezione
non c’è nemmeno posto per un’utopistica “età dell’oro”, né dietro l’angolo né in prospettiva, cioè a
distanza di tempo. Un’ipotetica “età dell’oro”, secondo il loro ragionamento, sarebbe da
considerarsi la fine della storia, perciò la fine della stessa umanità. La storia è invece da loro
considerata un processo aperto e non ci può essere un momento in cui si possa dire “ora l’essenza
umana è stata pienamente realizzata”. La sua evoluzione è continua e infinita e non può esistere
una meta assoluta.
Le diverse epoche storiche, a loro giudizio, differiscono non tanto per quanto si produce, ma
soprattutto per come si produce e per il tipo di mezzi di lavoro che vengono impiegati.
La visione marx-engelsiana dell’evoluzione dei sistemi sociali è quella dello sviluppo di organismi
sociali, di totalità organiche che crescono più o meno rapidamente per entrare infine in una fase di
decomposizione e lasciare il posto a uno o a più sistemi economico-sociali differenti, uno dei quali
alla fine è predominante.
Marx rileva anche come lo stesso rapporto tra capitale e lavoro, così com’è venuto determinandosi
nel tempo, non sia una risultante della storia naturale, poiché la natura non produce da una parte i
possessori di denaro o di merci e dall’altra i puri e semplici possessori della sola propria forza
lavoro. E pure come esso non sia neppure da considerarsi un rapporto sociale comune a tutti i
periodi della storia, ma sia invece il risultato di un lungo svolgimento storico, anzi, il prodotto di
molti rivolgimenti economici e sociali.
Le tappe dello sviluppo del modo di lavorare e del modo di produrre, secondo Marx, scandiscono le
varie fasi della civiltà e della cultura umana.
I rivolgimenti sociali sono il prodotto di leggi oggettive dello sviluppo socio-economico e possono
essere accelerati o ritardati dall’intervento cosciente dell’uomo.
Con questa precisazione egli introduce il problema della soggettività rivoluzionaria intendendola
appunto come un’abbreviazione delle doglie del parto. Nel contempo, avverte però che nessun tipo
di società può superare con un salto mortale i gradi necessari del suo sviluppo storico. E pure che,
proprio per questa ferrea logica, “l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere,
perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”. Nelle stesse
rivoluzioni lo sviluppo storico non prende un corso diverso, ma soltanto un corso più celere. Ed è
proprio in forza di questa constatazione che definisce gli eventi insurrezionali “locomotive della
storia”.
Marx non tralascia peraltro di spiegare l’inevitabile carattere oggettivamente cruento di questi
passaggi storici. “Nella storia reale – sostiene – la parte importante è costituita, com’è noto, dalla
conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite
economia politica (invece, aggiunge polemicamente) ha regnato sempre l’idillio”. Introduce così un
elemento di drammatizzazione che smaschera il tono poetico con cui in genere gli storiografi
descrivono la rivoluzione borghese. In “Contro l’anarchismo” egli commenta: “Non hanno mai
veduto una rivoluzione questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi
sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col
mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non
vuol avere combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano
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ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa
autorità di popolo armato”.
E pure Engels insiste su questo concetto ricordando che “la storia è la più crudele di tutte le dee;
essa guida il suo carro trionfale su montagne di cadaveri, non soltanto in guerra, ma altresì nel
‘pacifico’ sviluppo economico”. E come dargli torto alla luce dei drammatici conflitti che la
globalizzazione del capitale produce ancora oggi e delle tragiche condizioni in cui versano le aree
povere del mondo, nonostante la straordinaria evoluzione tecnologica e civile dell’umanità?
La sciocca fiducia filistea nella “riforma pacifica e legale”, che sarebbe da considerarsi superiore a
tutte le esplosioni rivoluzionarie, è ovviamente estranea ai padri del socialismo scientifico; ai loro
occhi la violenza, che piaccia o no, ha assunto di fatto nella storia il ruolo di “levatrice” di ogni
nuova società.
Commenta ancora Marx a questo riguardo: “Evidentemente l’arma della critica non può sostituire
la critica delle armi, la forza materiale non può essere abbattuta che dalla forza materiale, ma
anche la teoria si trasforma in forza materiale non appena penetra nelle masse… Nessuna classe
della società civile ha il bisogno e la capacità dell’emancipazione universale finché non vi sia
obbligata dalla sua situazione immediata, dalla necessità materiale”.
A dire di alcuni storici, anche di sinistra, ricorrendo al termine “levatrice della storia”, Marx
avrebbe esaltato la funzione della violenza nei rapporti umani. Si tratta evidentemente di una delle
tante interpretazioni dei suoi scritti la quale ha il difetto di non cogliere lo spirito e non tenere conto
del contesto in cui vengono impiegate le parole e di privilegiare invece un loro uso speculativo. Di
fronte a simili insinuazioni, a noi non resta che riproporre il noto consiglio dantesco: “non ti curar
di loro, guarda e passa!”.
In questa complessa ottica e con spirito aperto, i padri del socialismo scientifico procedono
all’analisi del modo di produzione capitalistico. E lo fanno risalendo alle epoche più antiche.
Incominciano col dimostrare come la proprietà privata compaia molto più tardi dell’inizio
dell’umanità, esattamente con il passaggio all’uso da parte dell’uomo degli strumenti di metallo al
posto di quelli di pietra. Solo quando iniziano a occuparsi dell’agricoltura, le tribù danno avvio
all’accumulazione dei prodotti e ai traffici. Sono proprio queste pratiche che provocano la nascita
della proprietà dando luogo all’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi.
Spiega Marx: “Il processo di scambio delle merci in origine non si presenta in seno alle comunità
naturali e spontanee, bensì là dove queste finiscono, ai loro confini, nei pochi punti in cui entrano
in contatto con altre comunità… Lo schiavo, il bestiame, i metalli, costituiscono per lo più il primo
denaro in seno alle comunità stesse”.
All’origine di questo lento processo ci sta l’accumulazione primitiva che, in seno all’evoluzione del
modo di produzione feudale, dà avvio alla graduale separazione dei contadini dalla terra e consente
il concentramento delle ricchezze monetarie e dei mezzi di produzione nelle mani della classe
borghese in via di sviluppo.
Ne “L’ideologia tedesca”, con l’aiuto di tutta una serie di esempi storici, Marx ed Engels
dimostrano come lo sviluppo della divisione del lavoro abbia creato sempre nuove forme di
proprietà e abbia reso obsolescenti quelle vecchie.
Essi procedono quindi alla periodizzazione delle diverse tappe della nascita e dello sviluppo del
modo di produzione capitalistico che in Europa avviene tra il XV e il XIX secolo. Agli inizi esso si
sviluppa qua e là nell’agricoltura e nelle attività industriali, in maniera sporadica e subordinata. “Il
capitale – scrive Marx – nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza
trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza lavoro. E’ il proletario privo
di terra e di ogni altra forma di proprietà, interamente dipendente, il quale per sopravvivere deve
vendere la sua forza lavoro in cambio di un salario”. “L’esistenza di una classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del capitale. Soltanto il dominio
del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro
accumulato capitale”.
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Fra il secolo XVI e il XVIII il capitale si sviluppa in connessione con l’espansione coloniale e la
creazione del mercato mondiale: è il periodo del capitalismo manifatturiero. Alla fine del secolo
XVIII in Inghilterra, con l’invenzione delle prime macchine utensili e di un insieme di strumenti
semplici, si realizza la rivoluzione industriale e la manifattura viene via via sostituita dall’industria
che appunto utilizza il sistema delle macchine. Con il macchinismo e la grande industria il
capitalismo dispone finalmente di un modo materiale di produzione adeguato per dare corso al suo
pieno sviluppo. Costruisce la sua base tecnica e si regge sulle sue proprie gambe, crea cioè le
condizioni materiali della propria esistenza e del proprio sviluppo, producendole e riproducendole,
dal momento che non le trova già fatte.
Negli anni fra il 1865 e il 1883, quando Marx è impegnato a scrivere “Il capitale”, il modo di
produzione capitalistico conosce una nuova e superiore fase di sviluppo.
Il capitale viene considerato da lui non una cosa, ma un rapporto sociale, più esattamente un
rapporto tra classi antagoniste. E la distinzione che egli fa tra rapporti di produzione e sovrastrutture
è una distinzione anzitutto di funzioni.
Egli presuppone che la struttura economica corrisponda a un certo stadio di sviluppo delle forze
produttive, ossia delle capacità materiali e intellettuali dell’uomo di agire sulla natura che lo
circonda per trarne i mezzi materiali di vita e necessari al suo sviluppo sociale. Religione, famiglia,
Stato, diritto, morale, scienza, arte, ecc., vengono da lui considerati particolari modi della
produzione perchè cadono sotto la sua legge generale.
Gli elementi generali della produzione sono quelli di sempre, ciò che muta è la forma della loro
interconnessione, ed è precisamente quest’ultima a individuare un certo modo di produzione e una
certa formazione sociale. L’elemento soggettivo della produzione è sempre l’uomo con la sua
capacità lavorativa, ma sarebbe del tutto errato ritenere, ad esempio, che l’operaio, il servo della
gleba e lo schiavo rappresentino la stessa funzione sociale. Così pure, i mezzi di produzione sono
sempre un materiale naturale, “filtrato” da lavoro umano, che costituisce la condizione oggettiva di
ogni produzione. Le attrezzature produttive della grande industria meccanizzata, però, non sono la
stessa cosa dei semplici strumenti dell’artigiano e la differenza non consiste soltanto nella maggiore
produttività che esse consentono, bensì nelle modifiche dell’organizzazione sociale, di cui queste
sono il supporto materiale.
Per Marx erano proprio queste leggi di movimento che andavano conosciute, perché esse
costituiscono la forma specifica delle relazioni produttive sociali.
E’ anche grazie a questa conoscenza che egli individua nelle classi le componenti della struttura
sociale. Esse sono rappresentate dall’insieme di uomini e di donne che formano un dato strato o
gruppo sociale e le cui funzioni, i cui interessi e obiettivi sono convergenti e al tempo stesso
antagonisti a quelli di altri strati o gruppi sociali.
Si tratta di differenziazioni che sono radicate nella divisione sociale del lavoro o, in senso più largo,
nei rapporti di produzione e determinano le relazioni nei confronti della coscienza.
Le divisioni tra gruppi, partiti e ideologie sono pertanto una conseguenza della tensione esistente
nell’ambito dei rapporti sociali di produzione, in particolare, della divisione sociale del lavoro che
causa non solo specifici tipi e sistemi di rapporti di proprietà, ma anche tipi di attività
considerevolmente differenti e conseguentemente determinano i diversi livelli di coscienza. La
divisione della società in classi produce difatti considerevoli differenze non solo nelle norme di
comportamento, ma nel sistema stesso di valori e nella concezione del bene e del male.
“La società – commenta Marx - non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni,
dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro”. Pertanto, la tanto decantata unità
del popolo altro non è che un’“ingannevole finzione della borghesia”. “La popolazione è
un’astrazione se tralascio ad esempio le classi di cui si compone. E le classi a loro volta sono una
parola priva di senso se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per esempio salario,
capitale, ecc.. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi ecc.”.
Già nel ’45 Marx espone a Engels il pensiero secondo cui tutta la storia è stata storia di lotta di
classi, lotte tra classi sfruttate e sfruttatrici, dominate e dominanti, nei diversi gradi dello sviluppo
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sociale. “La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale – scrive – dispone con ciò in
pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad esse in complesso sono
assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale”. E precisa:
“Ogni nuova classe che prende il posto della classe che ha dominato prima di essa è costretta, per
il raggiungimento del proprio fine, a rappresentare il proprio interesse quale interesse generale di
tutti i membri della società ossia, parlando astrattamente, a dare ai propri pensieri la forma di
universalità, a raffigurarli come gli unici pensieri ragionevoli e validi per tutti”.
Marx ha sempre negato di essere l’inventore della teoria della lotta di classe; ciò che egli ha
rivendicato a sé è soltanto di aver dimostrato che l’esistenza delle classi è legata a determinate lotte
storiche di sviluppo della produzione, che la lotta di classe – come ho già ricordato – porta
necessariamente alla dittatura del proletariato e che questa stessa dittatura non costituisce altro che
il passaggio verso l’eliminazione di tutte le classi e quindi a una società senza classi.
In effetti, a dispetto di molti avversari del movimento operaio, la lotta di classe esiste con o senza le
teorie marxiane. Già l’ateniese Solone considerava i cittadini suddivisi in quattro classi secondo il
possesso fondiario, mentre il re di Roma Servio Tullio divideva i cittadini in sei classi secondo il
censo. Di classi parlano anche Machiavelli, Sismondi, Tocqueville, Mignet, Carlye e altri grandi
pensatori vissuti anch’essi prima di Marx. La grande novità che ci viene fornita dall’autore de “Il
capitale” consiste nell’aver accertato che lo sviluppo sociale si compie attraverso la lotta delle
classi.
Nel sistema borghese il rapporto tra il proletario e il capitalista è un rapporto di oggettiva
opposizione, antagonistico, dal momento che si contrappongono sfruttati e sfruttatori.
E la particolarità del pensiero marxiano sta nella conclusione che ne viene tratta e cioè che “soltanto
la lotta delle classi sarà la fine di tutta questa merda (lo sfruttamento)”.
“La classe operaia – precisa a questo riguardo - non ha da realizzare ideali (intendendo ideali
astratti, separati dal processo reale, moralistici), ma da liberare gli elementi della nuova società di
cui è gravida la vecchia società borghese”.
Il corso storico, del rsto, insegna che è una pia illusione borghese l’immaginare possibile in regime
capitalistico lo scambio individuale senza che insorgano contrasti di classe, così come è impensabile
contemplare in questo tipo di società una condizione di armonia e di eterna giustizia.
Franz Marek ci fa notare saggiamente che “l’esistenza delle classi e dei contrasti di classe può
anche essere coperta con tanta paglia, ma tornerà sempre alla luce”.
Un altro aspetto dell’elaborazione marx-engelsiana che assume notevole importanza è quello
riguardante il rapporto tra struttura e sovrastruttura.
Già nel 1859, nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica”, Marx ha modo di spiegare
questo rapporto sostenendo che “nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano gli uni
con gli altri in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà: rapporti di
produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. Il complesso di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della
società, la base reale, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, ed alla quale
corrispondono determinate forme della coscienza sociale”. E quando formula il concetto di
“formazioni economico-sociali” per designare le logiche sociali originali che si succedono nel corso
della storia, le quali corrispondono a uno specifico modo di produzione dominante, egli precisa:
“Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la
gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere
sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può
essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose,
artistiche o filosofiche, ossia, le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo
conflitto e di combatterlo”. “Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro
modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita,
cambiano tutti i loro rapporti sociali… Quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti sociali
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conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie,
conformemente ai loro rapporti sociali... che sono prodotti storici e transitori”.
Per i due autori del “Manifesto”, dunque, non sono le leggi che spiegano la società, ma è la società
stessa che spiega le leggi che la regolano. Bisogna dunque tornare ai rapporti sociali, alla società e
alla sua struttura, alla sua dinamicità, per demistificare il pensiero che crea i “feticci”, i “miti” e per
recuperare il carattere reale, umano, cioè storico-sociale, del pensiero medesimo. E nel compiere
questa analisi si deve procedere non partendo dalla storia per arrivare alla struttura sociale, bensì
dalla struttura sociale stessa per procedere verso la storia. Secondo Marx, il posto occupato nella
struttura sociale che è determinata dal modo di produrre, gioca un ruolo decisivo nel pensiero di un
popolo.
Partendo dalle “Tesi su Feuerbach”, egli pone un indissolubile nesso tra il soggetto e l’oggetto.
Questo nesso, che in lui non viene mai meno, è che l’essere sociale determina – come già abbiamo
visto - la coscienza e non viceversa e chiarisce il prevalere dell’oggettività sulla soggettività. Gli
obiettivi che l’individuo cerca di raggiungere, e in larga misura i motivi che ve lo spingono, non
derivano dalla natura umana o da istinti, essi hanno le loro radici in un determinato ordine sociale. E
questo vale in politica (i progetti e la prassi che li smentisce) come pure nella fede religiosa (i
comandamenti e il peccato che li viola).
Vi sono tuttavia passaggi della sua elaborazione teorica (si veda il “Manifesto”, “Per la critica
dell’economia..”, “Il capitale”) in cui ciò che è posto in evidenza è il momento della soggettività. Lo
stesso Engels insiste nel sostenere che “la situazione economica è la base, ma anche i diversi
momenti della sovrastruttura… esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in
molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. C’è azione e reazione reciproca di tutti
questi fattori”.
Si tratta di un concetto che farà discutere molto e che sarà motivo di divergenze, di accese
polemiche e di feroci scontri nello stesso movimento operaio e nella sinistra. D'altronde,
l’elaborazione di una teoria della rivoluzione viene eseguita proprio in base all’interpretazione che
viene data al rapporto tra oggettività e soggettività, tra struttura e sovrastruttura, ed è perciò
comprensibile l’insorgenza di contrasti.
Un aspetto che invece è stato assai spesso trascurato dagli stessi marxisti, è quello riguardante
l’attribuzione al capitale di una funzione progressiva. Difatti, Marx esprime un simile giudizio in
più circostanze. Lo fa, per esempio, quando sostiene che il suo sviluppo ha significato la
civilizzazione dell’umanità, seppure in
forme brutali, rispetto alle condizioni ataviche di sfruttamento e di subordinazione in cui la
stragrande maggioranza di essa si trovava.
Definisce la vittoria americana sul Messico, nella guerra del 1847, apportatrice di progresso, proprio
in forza dello sviluppo in senso capitalistico che essa porta con sé. Interpreta la “missione” della
Gran Bretagna in India come il tentativo di: “demolire l’antica società asiatica; gettare le basi
materiali della società occidentale in India”.
Polemizzando con Proudhon in “Miseria della filosofia”, gli rimprovera di dimenticare quello che è
“l’aspetto rivoluzionario della fabbrica”, cioè la cancellazione delle specializzazioni e
dell’idiotismo del mestiere. In altri scritti, nel descrivere la condizione contadina ereditata dal
feudalesimo, si intrattiene sull’”idiotismo della vita rurale”, evidenziando come la maggioranza dei
contadini sia analfabeta, passiva e superstiziosa e attribuisce al capitale una funzione emancipatrice.
E lo fa nelle pagine de “Il capitale”, quando illustra il modo selvaggio in cui, nella prima parte del
19° secolo, i capitalisti dell’industria tessile inglese si appropriano del controllo sui processi di
lavoro dei vecchi produttori creando il proletariato moderno. Egli condanna la loro immoralità,
denuncia le sofferenze inaudite inflitte ai lavoratori in nome dell’appropriazione di plusvalore, ma
non manca di sottolineare il carattere storicamente progressivo del nuovo modo di produzione
capitalistico. Dopo aver comprovato come lo sviluppo della borghesia richieda “il sangue e il
sudiciume, la miseria e l’abbrutimento” dei popoli, riconosce alla sua storica missione il merito di
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aver elevato il benessere materiale delle “nazioni” e di aver dato orizzonti universali all’arte e alla
cultura.
Paragona il modo di produzione capitalistico al cristianesimo per la sua caratteristica di essere
cosmopolita e sottolinea come sia proprio l’epoca borghese a universalizzare la concorrenza e a
costringere tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Non manca neppure di
rimarcare come sia ancora la borghesia a distruggere il più possibile l’ideologia, la religione, la
morale, e ne faccia fragranti menzogne quando questa operazione non le risulta possibile.
Ne “L’ideologia tedesca” Marx ed Engels argomentano come la creazione di individui
empiricamente universali sia di fatto un portato della società borghese, in quanto essa spinge nella
direzione del mercato mondiale il quale è destinato a trasformare gli individui in attori della storia.
Anche se poi questa universalità rappresenta a suo dire il soffocamento universale dell’individualità
da parte della casualità.
Un riconoscimento inequivocabile del ruolo progressivo della classe avversa lo si trova nello stesso
testo costitutivo del movimento comunista, cioè nel “Manifesto”. “Con lo sfruttamento del mercato
mondiale – esso recita – la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al
consumo di tutti i Paesi.... (essa) costringe tutte le nazioni, se non vogliono andare in rovina, ad
adottare il sistema di produzione della borghesia, le costringe ad introdurre in casa loro la
cosiddetta civiltà...”.
Questo suo atteggiamento quasi magnanimo nei confronti del “nemico” trova riscontro nella sua
ferma convinzione che è proprio l’evoluzione del capitalismo a creare le basi materiali e le forme
sociali e intellettuali di un nuovo modo di produzione, quello appunto dei lavoratori associati. Ci
spiega poi la sua insistenza nel considerare il proletariato l’erede di quanto di meglio l’umanità ha
prodotto, comprese le conquiste stesse del capitalismo.
E infine dimostra la sua coerenza con il principio secondo cui “negare in dialettica non significa
dire semplicemente no e dire che una cosa è inesistente, o distruggerla in qualche modo”. Egli
riconosce in modo palese e chiaro quelli che sono gli aspetti postivi dei processi messi in atto dagli
stessi soggetti che combatte con il massimo della sua forza e della sua rabbia, quali sfruttatori della
classe lavoratrice. E lo fa con estrema determinazione, considerato che il primo volume de “Il
capitale” vuole per lui rappresentare “il proiettile più temibile che sia mai stato scaraventato sulla
testa dei borghesi”.
A fronte della superficialità e semplificazione con cui, di regola ormai, analizziamo i processi del
nostro tempo, questo suo modo di leggere la realtà delle cose con obiettività e rigore intellettuale
dovrebbe rappresentare per noi un severo monito.
2.4 – L’anatomia del capitalismo
Marx ed Engels ci consegnano documentate e fondamentali analisi del capitalismo dell’epoca in cui
le uniche macchine sono ancora quelle a vapore, quando cioè l’Inghilterra conquista e mantiene il
suo impero con i velieri e i cannoni di ferro.
Il loro interesse per l’economia politica non è solo scientifico-economico, è anche pratico-umano.
Essi considerano l’economia politica “l’anatomia della società civile”.
Marx trasferisce le concezioni astratte dell’economia politica del suo tempo nei termini concreti dei
rapporti sociali fra gli uomini e collega le concezioni economiche a quelle sociologiche. Non riduce
la vita sociale all’economia come fanno gli studiosi borghesi, ma riporta l’economia al suo
contenuto sociale e riscrive la politica economica come sociologia e la sociologia come storia.
Nei “Manoscritti economico-filosofici” egli sostiene che “la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni
umani è il dogma principale dell’economia. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al
ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più
risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare il
tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande
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è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere straniato. Tutto ciò che l’economia ti porta
via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo
denaro”.
Come ebbe a commentare Schumpeter in “Capitalismo, socialismo e democrazia”,
Marx “fu il primo grande economista che capì e insegnò in modo sistematico come la teoria
economica possa trasformarsi in analisi storica e il racconto storico in histoire raisonnée”.
Nelle sue ricerche Marx parte dai risultati dei classici dell’economia politica borghese, cioè da
Smith e Ricardo, e fa sua la loro teoria del valore-lavoro secondo cui il lavoro è la fonte del valore e
la misura del lavoro è il tempo.
Mentre però Smith e Ricardo ritengono di aver espresso con la loro teoria del valore la legge
naturale ed eterna di una società corrispondente alla natura umana, e non considerano il capitalismo
come un fenomeno storico, Marx modifica il fondamento stesso di questa teoria e, come abbiamo
visto, storicizza i processi economici.
Egli è anche il primo a vedere il sistema economico come un sistema che, a un certo punto della sua
evoluzione, si muove per forza propria, “motu proprio”, secondo quelle che egli chiama le leggi
immanenti dello sviluppo del sistema. Dimostra cioè che non sono i propositi o le decisioni degli
uomini che determinano lo scambio e la distribuzione delle ricchezze, ma le condizioni obiettive
della loro produzione, le quantità dei vari beni che una data quantità di lavoro è in grado di
produrre. E’ la teoria del valore-lavoro, o meglio la variante di quella che egli ha adottato da
Ricardo.
Mentre l’ideologia liberista considera il mercato una forma altamente democratica di
organizzazione dell’economia e attribuisce alla concorrenza e alla libertà di iniziativa il valore di
principi di democrazia e garanzia di controllo non autoritario sulla produzione e sulle imprese, la
sua analisi delle leggi del movimento del capitale e dell’accumulazione svela l’intima
contraddittorietà del meccanismo della concorrenza.
Scrivendo “Il capitale”, che unitamente agli scritti economici è un autentico capolavoro di analisi
scientifica, egli dimostra che il valore di una merce è determinato dal lavoro che entra nella sua
fabbricazione e da null’altro. E’ il lavoro che produce un valore reale e soltanto il lavoro merita
remunerazione. I profitti, le rendite e gli interessi sono da lui considerati compensi ingiustificabili,
espressioni dello sfruttamento dei lavoratori.
Studiando il processo di formazione del capitale individua le sue due principali caratteristiche: la
prima è quella di produrre solo merci e di far diventare l’operaio stesso merce, nella veste di
venditore di se stesso come forza lavoro; la seconda è l’essere luogo di formazione del plusvalore.
Analizzando poi il processo di accumulazione rivela l’esistenza di una dialettica tra le forze
produttive e i rapporti di produzione. Infine, dopo aver evidenziato le differenze tra il capitalismo e
tutti i precedenti modi di produzione, conclude sostenendo che il capitale vive e si sviluppa sulla
base di contraddizioni che non possono essere superate.
Le grandi linee dell’analisi marxiana dell’economia possono essere così schematicamente riassunte:
1) la produzione è tipicamente organizzata da parte di individui privati il cui scopo è quello di
vendere piuttosto che di consumare loro stessi le merci prodotte;
2) i mezzi di produzione sono monopolizzati da una piccola minoranza della popolazione totale;
3) la grande maggioranza degli uomini è costretta a lavorare per una minoranza allo scopo di
guadagnarsi i mezzi di sussistenza;
4) i rapporti di compravendita trovano espressione quantitativa in termini di valore di scambio.
Egli definisce sistema o “modo di produzione” l’insieme delle forze produttive e dei rapporti di
produzione. Le forze produttive sono costituite dagli strumenti e dai mezzi di lavoro con cui
vengono prodotti i beni materiali e dagli uomini che compiono il processo produttivo in base a una
determinata esperienza di lavoro; i rapporti di produzione sono invece le relazioni che si instaurano
tra gli uomini durante la produzione dei beni materiali.
Con l’evolversi delle forze produttive si ingenera tra queste ed i rapporti di produzione uno
squilibrio che si traduce in conflitto, dal momento che i rapporti di produzione invecchiati
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ostacolano l’ulteriore espansione delle forze produttive. Questo conflitto acuisce le contraddizioni
tra le classi sociali, considerato che alcune di esse sono interessate a perpetuare i vecchi rapporti di
proprietà, mentre altre tendono a instaurarne di nuovi. Il conflitto viene risolto con la distruzione
rivoluzionaria dei rapporti antiquati e la loro sostituzione con dei nuovi rapporti che corrispondono
al carattere delle forze produttive.
Attraverso l’analisi minuziosa dell’evoluzione dei processi produttivi, condotta a ritroso nel tempo,
Marx constata che l’accumulazione del capitale porta a una sua concentrazione e centralizzazione,
cioè alla formazione dei monopoli, e che in questo percorso esso non si riproduce semplicemente,
ma si ingrandisce e si moltiplica in continuazione. La sua analisi dà così corpo a una nuova versione
dell’economia politica, a una dottrina del sistema non più una statica, ma a una scienza delle leggi
dello sviluppo sociale, delle tendenze del mutamento della società, del trapasso da un sistema a un
altro. Una dottrina che spiega come a creare il valore d’uso di una merce è il lavoro individuale
concreto, quello che soddisfa bisogni particolari, mentre a determinare il valore di scambio è il
lavoro sociale, universale, indifferenziato, la cui caratteristica è appunto quella di essere
scambiabile. E come in regime capitalistico è il processo di scambio a determinare il rapporto di
valore tra merci diverse, quando prima, nel baratto, era il valore d’uso.
La critica che Marx muove alla proprietà privata si riferisce non alle sue singole forme, ma alla sua
essenza che consiste nella contrapposizione del lavoro alla proprietà e nella sua subordinazione ad
essa. Il capitalismo è anzitutto un’economia di mercato, cioè produttrice di merci, la quale non
lascia “tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato ‘pagamento in contanti’”.
“La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il nesso
sociale… espresso nel valore di scambio, e solo in esso… (per cui) ogni individuo, la propria
attività o il proprio prodotto diventano un’attività o un prodotto fine a se stessi”.
Egli documenta come il valore di scambio delle merci si cristallizzi nel denaro in quanto merce
particolare e quale essenza stessa della produzione mercantile e sostiene che proprio in forza del suo
essere “cristallizzazione del valore di scambio”, la moneta contiene in sé i germi della crisi
economica.
Anche il denaro, così come il capitale, è considerato da Marx non una cosa, ma un rapporto sociale
che, al pari dello scambio, corrisponde a un determinato modo di produzione. Definisce il denaro
“la forza galvano-chimica della società” e commenta: “Il denaro, grazie al dominio del senso
dell’avere sopra ogni altra cosa, si pone tra l’uomo e il suo oggetto… poiché possiede la qualità di
comprar tutto, la qualità di appropriarsi di tutti gli oggetti, è così l’oggetto in senso eminente.
L’universalità della sua qualità è l’onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente
onnipotente. Il denaro è il lenone tra il bisogno e l’oggetto, tra la vita e il mezzo di vita dell’uomo...
tramuta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, lo
schiavo in padrone, il padrone in schiavo, l’idiozia in intelligenza, l’intelligenza in idiozia”. “Esso
può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l’arte, con la cultura, con le
curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto
quanto; può tutto quanto comprare: esso è il vero e proprio potere”. E in considerazione di questa
diagnosi ritiene che con il crescere delle merci “l’uomo diventa tanto più povero come uomo... e la
sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro”.
Ecco una delle ragioni per cui Marx considera necessario superare l’economia politica!
La sua critica però prosegue oltre. Dopo aver spiegato scientificamente la genesi del capitale, svela
il meccanismo dello sfruttamento capitalistico. Dimostrando che lo sfruttamento è esistito in tutte le
formazioni sociali che sono state caratterizzate dalla presenza di una divisione della società in classi
antagoniste, sostiene che la differenza consiste nel modo in cui esso viene praticato.
Già a partire da Adam Smith erano state elaborate diverse teorie dello sfruttamento. Marx si rifà a
Ricardo e a W. Thompson in particolare, e distinguendo la forza lavoro dal lavoro fuoriesce dal
circolo vizioso in cui si erano dibattuti i “classici” nella discussione sull’origine del profitto, il quale
prima d’allora non era mai stato considerato plusvalore.
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Egli fa sua la formula kantiana secondo cui un uomo non deve essere usato come un mero mezzo da
altri uomini e pure la teoria di Rousseau sulla inalienabilità della persona come diritto storiconaturale, per la quale nessuno può diventare merce senza essere alienato, negato, cancellato.
In nome di questi principi si oppone con veemenza all’economia politica la quale attribuisce al
capitale un enorme “potere di comando sul lavoro” e non considera il lavoratore come uomo
nell’arco di tempo in cui esso non lavora.
Attribuisce quindi un’importanza decisiva alla forza-lavoro la quale ne “Il capitale” viene definita
come energia trasmessa a un organismo umano dai mezzi di sussistenza, come “l’insieme delle
attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un
uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valore d’uso di qualsiasi genere”.
Quando tratta del valore della forza lavoro, egli si riferisce non esclusivamente a un livello di
sussistenza puramente fisica, ma tiene in conto che nella determinazione pratica di ciò che deve
essere considerato “necessario” all’esistenza umana varia a seconda del tempo e del luogo, è cioè un
elemento storico e morale.
Il capitale non si appropria dell’operaio, ma del suo lavoro, e lo fa non direttamente, ma attraverso
lo scambio. Il capitalista non compra infatti il lavoro, ma la merce che produce il valore, cioè la
forza-lavoro.
Il proprietario del denaro paga il valore giornaliero della forza-lavoro e riceve in cambio il diritto di
servirsene per tutta la durata della giornata lavorativa. E poiché solo una parte della giornata di
lavoro è necessaria per mantenere in vita l’operaio durante le ventiquattro ore, la differenza fra il
salario di sussistenza che un operaio produce per la propria sopravvivenza fisica (l’entità della paga)
e il lavoro totale che entra nel suo prodotto, viene chiamata da Marx “plusvalore”, appunto il valore
in più che viene intascato dal capitalista.
Scopo del compratore della forza-lavoro non è quello di fare uso di essa per soddisfare un servizio
per se stesso, o per creare un prodotto che soddisfa i suoi personali bisogni; suo scopo è invece
quello di far produrre al lavoratore merci da vendere sul mercato e valorizzare così il suo capitale.
Secondo Marx, la forza-lavoro ha una proprietà peculiare: essa è in grado di produrre molto di più
di quanto sia necessario alla sua sussistenza. E per appropriarsi di questo sovrappiù i capitalisti
perseguono due diversi tipi di politica: in una prima fase procedono all’allungamento della giornata
di lavoro (aumento del plusvalore assoluto), successivamente provvedono all’attuazione di una
politica di progressiva eliminazione dei tempi morti e di aumento dell’efficienza degli apparati
produttivi (aumento del plusvalore relativo). Ne consegue un aumento della produttività che porta
all’accrescimento del rapporto fra capitale costante (quello investito nei mezzi di produzione) e
capitale variabile (quello impiegato per acquistare le materie prime, la forza-lavoro e coprire le
spese generali di esercizio).
A questo riguardo precisa che “la forma del salario oblitera... ogni traccia della divisione della
giornata lavorativa in lavoro necessario e pluslavoro”. Se il lavoro viene pagato a ore, il lavoro
salariato sembra completamente retribuito in ogni parte della giornata lavorativa: “persino il
pluslavoro, ossia il lavoro non retribuito, appare come lavoro retribuito”.
E spiega che il salario a cottimo altro non è che una forma mutata del salario a tempo: è la forma di
salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico, anche perché rende in gran parte
superflua la sorveglianza, la quale comunque, assieme al lavoro di direzione, è da considerarsi un
lavoro produttivo che appare necessario in ogni modo di produzione combinato.
Il valore del concetto marxiano di “plusvalore” è quello di spiegare ciò che nessun’altra teoria
economica ha mai spiegato: l’origine del profitto in un’economia capitalista e la distribuzione del
reddito fra le classi.
Nel fornire questa spiegazione Marx chiarisce che non è il capitale ad aver inventato il pluslavoro.
Lo sfruttamento capitalistico ha la stessa identica sostanza dello sfruttamento precapitalistico; tutto
lo sfruttamento che ha attraversato la storia ha la medesima natura, quella cioè di lavoro fatto per
altri. La classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato. Il lavoro salariato è
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soltanto una particolare forma storica del sistema di lavoro non pagato che domina fin da quando la
società è divisa in classi.
La classe capitalistica, ottenendo i suoi redditi in virtù del diritto di proprietà, vive sul plusvalore
dei lavoratori salariati nello stesso modo in cui il signore medievale viveva sul plusvalore dei suoi
servi, e il proprietario di schiavi su quello dei suoi schiavi.
La differenza sta nel fatto che in regime capitalistico i rapporti tra le varie classi non assumono,
come avveniva nel passato, la forma di servizi obbligatori imposti da fattori extra-economici, quali
la legge o la tradizione sociale, ma si manifestano esclusivamente attraverso il valore, sotto forma di
contratti salariali stipulati tra parti liberamente contraenti.
Ma non solo. “Il capitalista paga il valore delle cento forze lavoro autonome, ma non paga la forza
lavoro combinata dai cento operai… La loro cooperazione comincia soltanto nel processo
lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato di appartenere a se stessi… La forza
produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale si presenta come forza produttiva
posseduta dal capitale… Presi nel loro insieme questi operai (manovali, operai, ingegneri che
fanno lavorare soprattutto il cervello, ecc.) in quanto produttori collettivi formano una macchina
viva”. “La popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del
capitale da essa stessa prodotto, i mezzi per rendere se stessa relativamente eccedente”.
Nel primo volume de “Il capitale” Marx sostiene che il lavoro non pagato del lavoratore mantiene
tutti i membri della società che non lavorano, su di esso poggia l’intera situazione sociale nella
quale viviamo. A rendere possibile lo sfruttamento dell’operaio salariato e la vendita delle merci
sono, ciascuno per la sua parte, oltre l’imprenditore, il commerciante, il capitalista del credito, il
proprietario fondiario i quali richiedono la loro parte di profitto.
Le differenze della quantità di profitto che ogni singolo capitalista incassa alla fine tende a
pareggiarsi, risultandone un “profitto medio” uguale per tutti i rami della produzione. In forza di
tale meccanismo, il singolo capitalista non gode del profitto da lui prodotto personalmente, ma
soltanto della quota che gli spetta dei profitti conseguiti dall’insieme dei suoi colleghi.
Engels ha scritto nell’”Antiduhring” che la scoperta del plusvalore è il grande merito storico di
Marx: “Essa getta una vivida luce su quei campi dell’economia, ove in precedenza i socialisti
vagavano non meno degli economisti borghesi nell’oscurità più profonda. Dalla soluzione di questo
problema tra origine il socialismo scientifico”.
In effetti, è Marx che ci ha dato la spiegazione più plausibile del fatto riscontrabile universalmente
che ogni ricchezza della società proviene proprio dal lavoro non pagato, dal pluslavoro di
generazioni di uomini che hanno piegato la schiena lavorando per altri. Avvertendoci che non basta
comunque il lavoro a creare la ricchezza la quale, come il lavoro, è essa stessa figlia della natura.
Se intorno alla teoria del valore (di Marx ma dello stesso Ricardo) si è discusso molto, e in diversi
non l’hanno condivisa argomentando svariate ragioni, è da rilevare che rispetto alla tesi sul
plusvalore sottratto dal capitalista all’operaio, nessuno è mai riuscito a confutarne la sostanza e
dimostrarne l’inesattezza con dati esplicativi.
Marx ci ha insegnato che nella società di classe e con la moderna proprietà privata il dominio
dell’uomo sull’altro uomo viene esercitato in forma mediata, per il tramite del dominio che l’uomo
stesso esercita sulle cose e che le cose esercitano, a loro volta, sull’uomo.
Il lavoratore salariato viene separato dal proprio lavoro giacché questo non può che appartenere a
chi possiede le condizioni oggettive della produzione, cioè il capitalista; e quando le condizioni
oggettive della produzione assumono la forma della macchina, il lavoro risulta a sua volta separato
da ciò che necessariamente diviene il fondamento della produzione, cioè la conoscenza,
l’applicazione della scienza e dell’organizzazione al processo produttivo.
La divisione sociale del lavoro, essendo essenzialmente nient’altro che la differenziazione delle
funzioni necessarie al mantenimento e allo sviluppo della società e alla loro distribuzione tra vari
gruppi sociali, determina non solo gli specifici tipi e sistemi di rapporti di proprietà, ma anche tipi
di lavoro considerevolmente differenti: essa deriva dalla divisione tecnica del lavoro.
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L’uomo, il “soggetto”, non diventa altro che il predicato del proprio lavoro; ciò che domina è la
cosa. Il dominio del capitalista sull’operaio è dunque il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto
sul produttore. Nell’esplicazione del loro lavoro gli operai sono isolati, separati gli uni dagli altri. Il
nesso sociale non si realizza durante la prestazione del lavoro vivo, ma si stabilisce allo stadio del
lavoro morto, quando cioè il lavoro è oggettivato nel prodotto-merce.
Il progresso tecnologico è considerato da Marx “l’istinto immediato e la tendenza immanente del
capitale ad aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce, e
con la riduzione a più buon mercato della merce ridurre più a buon mercato l’operaio stesso”. “La
macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere superfluo
l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile
all’operaio e come tale la maneggia”.
Marx dimostra però che la riduzione di forza lavoro, cioè l’estromissione di lavoratori dal ciclo
produttivo, è conseguenza non del progresso tecnologico di per se stesso, ma dell’uso che di esso ne
fa il capitale, in funzione non semplicemente di conseguire maggior profitto, ma anche al fine di
impossessarsi del “general intellect” (il sapere sociale).
“Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a
dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato.... dipende invece sempre
più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o dall’applicazione di questa
scienza alla produzione”.
Con l’appropriazione del plusvalore relativo e attraverso l’incorporazione di lavoro vivo nelle
macchine (processo che lo trasforma in lavoro morto), infatti, il capitale s’impossessa del “general
intellect” la cui accumulazione riduce progressivamente il lavoro necessario. Mettendo a fuoco
questo passaggio, Marx esclude comunque l’ipotesi che il capitale fisso (sistema delle macchine)
possa sostituire il tempo di lavoro come fonte di valorizzazione del capitale, dal momento che la
macchina non crea valore. Ed evidenzia come di fatto la macchina domina il processo produttivo
attraverso l’assorbimento “del sapere e dell’abilità delle forze produttive… in contrapposizione al
lavoro”, acquisendo così il monopolio della “applicazione tecnologica della scienza”.
Le macchine, in questo contesto, non vengono affatto in soccorso dell’operaio, bensì realizzano
quel furto non tanto e non solo di tempo di lavoro, bensì di “sapere”, di “intelligenza sociale”, su
cui il capitale costruisce la sua potenza. In confronto a questa nuova base di appropriazione che
viene creata dalla grande industria, l’originaria pratica di restringimento progressivo del tempo di
lavoro necessario si presenta come miserabile mezzo di accrescimento del plusvalore. La creazione
della ricchezza reale viene cioè a dipendere dal livello generale della scienza, dal suo progresso e
dalla sua sempre più ampia applicazione alla produzione.
Ecco delineato il processo evolutivo dello sfruttamento capitalistico!
Per centinaia e migliaia di anni dagli uomini di buona volontà è stato predicato l’amore per il
prossimo eppure il povero lavoratore, nonostante la mole di preghiere, di suppliche e di ipocrite
contrizioni, è sempre rimasto nella condizione di essere sfruttato e mortificato materialmente e
spiritualmente.
Con la loro analisi materialistica della storia, che demolisce appunto la concezione idealistica dei
rapporti sociali, Marx ed Engels ci insegnano che lo stato di sfruttamento in cui si ritrova la
stragrande maggioranza dell’umanità può essere eliminato soltanto ed esclusivamente attraverso
l’abolizione della compra-vendita di forza lavoro, vale a dire con il superamento del sistema del
salario, cioè del capitale. E che è solo fuori dal lavoro capitalistico che l’uomo può sviluppare a
pieno le sue capacità umane e conseguire un’armonia sociale.
2.5 – La denuncia dello sfruttamento e l’inevitabilità della rivoluzione
Nell’evidenziare le grandi conquiste del sistema capitalistico e la sua eccezionale capacità di
assicurare l’espansione dell’economia, Marx ci avverte che al pari dei sistemi produttivi che l’hanno
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preceduto anch’esso reca nel suo seno antagonismi e contraddizioni tali da essere destinato alla fine
a subire il suo scardinamento.
La contraddizione esistente tra le forze produttive e i rapporti di produzione viene da lui giudicata
insanabile per il fatto che la concentrazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro
sono destinati a giungere a un punto in cui diventano incompatibili con il loro involucro sociopolitico. Questa rottura viene considerata da Marx come il vero processo autodistruttivo della
società capitalistica. Le forze produttive vengono sospinte dalla necessità stessa del loro sviluppo
verso forme sempre più socializzanti, mentre i rapporti di produzione, all’opposto, tendono a
riprodurre perpetuamente una società basata sul profitto privato.
L’enorme incremento delle forze produttive è sì destinato a favorire un notevole aumento delle
libertà degli uomini, ma questa grande potenzialità positiva viene neutralizzata da due fattori: 1) le
forze produttive non sono governate dal principio dell’associazione consapevole, bensì sono
soggette a una legge che domina ciecamente gli individui; 2) mentre le forze produttive, in continua
crescita, potrebbero soddisfare i reali bisogni umani, i bisogni parziali della proprietà privata – cioè
quelli che premono per l’espansione della produzione e del profitto - prevalgono sui bisogni reali. A
questo proposito Marx precisa: “Con la massa degli oggetti cresce il regno degli enti estranei cui
l’uomo è sottomesso, e ogni nuovo prodotto è una nuova potenza di reciproco inganno e reciproco
spogliamento”.
Caratteristica della natura della produzione capitalistica, in sostanza, è di non avere riguardo dei
limiti del mercato, di portare all’estremo la concorrenza, al punto tale di provocare
paradossalmente, attraverso la liquidazione dei capitalisti più deboli, la negazione della stessa
proprietà privata individuale. Alla fine gli espropriatori sono destinati a essere a loro volta
espropriati.
In “Per la critica dell’economia politica” scrive: ”Ad un dato punto del loro sviluppo le forze
produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti,
cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali
forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti da forme di sviluppo delle forze produttive, si
convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
Legge generale del capitalismo è – a suo avviso – la caduta tendenziale del saggio di profitto (il
saggio del profitto medio non tende ad elevarsi, ma al contrario ad abbassarsi) e i capitalisti sono
per questo costretti ad accrescere sempre più la quota di capitale costante rispetto al capitale
variabile che è fonte di plusvalore. E nonostante le misure che il sistema prende per far fronte a
questa tendenza (dall’aumento della produttività del lavoro alla vendita a più buon mercato delle
macchine e delle materie prime, fino all’intervento dello Stato), la caduta tendenziale del saggio di
profitto provoca sul lungo periodo una serie di contraddizioni: dall’aumento del grado di
sfruttamento alla concorrenza tra grandi e piccoli capitalisti, dalla sovrappopolazione relativa alla
disoccupazione, dalla sfasatura tra produzione e consumo ai contrasti tra gli Stati, e altre ancora.
Queste contraddizioni acuiscono il conflitto tra lavoro salariato e capitale e diventano un ostacolo al
regolare procedere dello sviluppo capitalistico.
In base alle sue analisi, Marx matura il convincimento che in epoca di crisi si determina una
contraddizione in seno allo stesso movimento operaio e precisamente tra la parte della classe
operaia “condannata al lavoro” e quella parte di lavoratori che sono ”comandati ad un ozio
forzoso”, alla disoccupazione o all’occupazione improduttiva.
Egli mette poi in risalto altri fenomeni che fanno del capitale una vera e propria contraddizione. Si
tratta della crescita progressiva della forza-lavoro femminile, dell’inevitabile sviluppo
dell’urbanesimo, dell’inconciliabilità dell’incremento dell’automazione con la conservazione del
capitalismo stesso. L’aspetto su cui egli concentra maggiormente la sua attenzione, e che a mio
modesto avviso rappresenta il fattore potenzialmente più destabilizzante del sistema, dal momento
che si tratta della principale risultante delle contraddizioni economiche e sociali, è quello
dell’alienazione. “Nel valore di scambio – egli ci spiega - la relazione sociale tra le persone si
trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una capacità delle cose”. E la
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conseguenza di questa metamorfosi consiste nel fatto che il capitale, come rapporto sociale, diventa,
di contro all’uomo, una forza sempre più potente che trasforma la persona in semplice oggetto.
L’assurdità del modo di produzione capitalistico non risiede dunque, a suo giudizio, nel massiccio
“impoverimento materiale”, come molti suoi interpreti hanno insistito nel far credere (benché
questo fenomeno si verifichi in determinate fasi dello sviluppo e alla periferia dell’economia
mondiale, come oggi possiamo constatare), bensì nella completa dipendenza degli individui (e delle
classi) dalle leggi e dalle “cose” che formano una “seconda natura”, cioè nell’alienazione. La
società borghese spezza “tutti i legami dell’uomo col genere, (ponendo) l’egoismo, il bisogno
individuale al posto di questo legame col genere, (trasformando) il mondo degli uomini, (in) un
mondo di individui atomistici, posti l’uno contro l’altro come nemici”.
La produzione capitalistica si afferma come risultato di forze che – benché create di fatto dalle
scelte coscienti di ciascuno – si presentano ai singoli come forze impersonali oggettive, analoghe
cioè a forze naturali, che i singoli non possono controllare e dalle quali anzi essi sono controllati.
Nel sistema capitalistico il lavoro cessa di essere un’attività vitale in cui l’uomo afferma se stesso,
ma diventa un semplice mezzo per la sua esistenza.
Scrive in “Lavoro salariato e capitale”: “L’esercizio della forza-lavoro, il lavoro, è però l’attività
vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo
questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque
per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come
parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha
aggiudicato ad un terzo. Perciò, anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua
attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla
miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro e
palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca
di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce,
trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere,
filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione
della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa
attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per
lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a
tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare, la sua
esistenza come bruco sarebbe un perfetto salariato”. “Il tempo libero di cui si dispone è la
ricchezza stessa” del proletario. Mentre “il capitalista è radicato in un processo di alienazione nel
quale trova il suo appagamento assoluto, l’operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in
un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù”.
E più oltre nelle sue riflessioni osserva: “Vediamo come quel complesso di macchine che possiede
la forza meravigliosa di ridurre il lavoro umano e renderlo più fruttuoso, in realtà intristisca gli
uomini e li consumi, li logori, li distrugga... Nella misura in cui l’umanità doma la natura, pare che
l’uomo sia soggiogato da altri uomini e dalla propria abiezione... Tutte le nostre invenzioni e
l’intero progresso sembrano tendere allo scopo di mettere la vita spirituale al servizio delle forze
materiali, e di ridurre la vita umana a una forza materiale”.
L’intera concezione di Marx, insomma, è caratterizzata da un costante riferirsi all’uomo come
opposto al lavoratore salariato. A suo giudizio, l’essere legati per tutta la vita a una data forma di
lavoro esclude necessariamente lo sviluppo della totalità dell’ente umano che è ricco e complesso.
Per Marx, il proletariato esprime e riassume l’intero meccanismo che regola la società capitalistica,
cioè rappresenta in sé la mercificazione del lavoro umano, la separazione tra l’uomo e il suo lavoro,
l’alienazione universale.
Egli scopre le radici dell’alienazione del mondo moderno nell’analisi del feticismo della merce e
pone l’accento sull’enorme forza oggettiva che non appartiene all’operaio ma al capitale. La società
mercantile è l’universale dipendenza degli individui da un meccanismo impersonale, il mercato
appunto, che si è reso indipendente da loro e a loro si contrappone. Nei “Manoscritti economico53
filosofici del 1844”, sostiene che con il crescere delle merci “l’uomo diventa tanto più povero come
uomo”. E a tale proposito assieme a Engels scrive: “La società fondata sulla proprietà privata,
provocando, a causa della sua concorrenza, tutta una serie di bisogni, che storicamente sono
incomprensibili, ha confinato gli uomini entro gli angusti settori dovuti alla divisione del lavoro e,
costringendoli a specializzarsi, li ha istupiditi nella loro unilateralità…ha disciolto la dignità
personale nel valore di scambio”.
E’ da ricordare, per inciso, che la critica di Marx al carattere di feticcio della merce diventa critica
della religione e pure che nell’affrontare la questione dell’alienazione egli si premura di spiegarci
che questo non è un fenomeno esclusivo del sistema capitalistico, ma che è destinato a riproporsi
inevitabilmente nella stessa società socialista, almeno fino a quando non saranno completamente
superate le divisioni sociali e non si saranno realizzate le condizioni per cui a ognuno verrà dato non
più secondo le sue capacità, ma secondo le sue necessità.
La soppressione dell’alienazione passa a suo avviso attraverso l’abolizione della “proprietà privata
che isola ciascuno nella propria bruta singolarità” e attraverso la conversione dell’uomo dalla
religione, dalla famiglia, dallo Stato a una esistenza sociale nuova che gli consente di riappropriarsi
della sua dimensione umana.
La grande industria, “con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai
bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera
domestica”, dissolve la vecchia famiglia e il lavoro familiare preparando le condizioni per “una
forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi” corrispondenti alle proprie esigenze.
Constatato che il capitale produce “bisogni artificiali e desideri immaginari”, si dice convinto che
le macchine e la grande industria creano una miseria più spaventosa di qualsiasi precedente modo di
produzione. Conclude quindi asserendo che le moderne tecnologie, nel loro ininterrotto
rivoluzionamento della società, preparano ineluttabilmente una forma sociale superiore e che le
tendenze dell’accumulazione capitalistica sono destinate a rafforzare il proletariato fino al punto che
esso risolverà il contrasto tra le forze produttive e i rapporti di produzione mediante
l’espropriazione del capitale.
L’evoluzione del capitalismo, dunque, sviluppa senza volerlo le basi materiali e le forme sociali e
intellettuali per il modo di produzione dei lavoratori associati. La macchina che degrada l’operaio
fino a farne un suo semplice accessorio, è destinata a creare contemporaneamente uno sviluppo tale
delle forze produttive da rendere possibile l’umanizzazione di tutti i membri della società.
Dopo la stesura del “Manifesto”, nel pensiero di Marx e di Engels il socialismo assume il ruolo di
alternativa completa ai pericoli di decadenza della civiltà che sono insiti in uno sviluppo
incontrollato delle forze produttive.
Sino alla fine dei loro giorni essi continuano a ritenere che per superare le contraddizioni del modo
capitalistico di produzione è indispensabile eliminare i rapporti sociali che costituiscono il
fondamento stesso delle varie forme di alienazione dell’uomo moderno.
Ciò che distingue il socialismo scientifico marxista dal romanticismo economico degli utopisti è
appunto la rispondenza degli obiettivi che esso si pone con l’analisi delle contraddizioni del modo
di produzione capitalistico dominante.
Essi, come già abbiamo ricordato, si assumono come loro compito principale quello dell’analisi del
capitalismo, rifiutando deliberatamente di fornire in dettaglio ricette o prognosi per l’organizzazione
futura di un’economia socialista. Affidano questo compito ai posteri, a coloro i quali avranno a
disposizione materiale sempre più copioso e aggiornato sull’evoluzione del capitale.
Nel poscritto alla 2° edizione de “Il capitale” Marx precisa: “Non prescrivo ricette per l’osteria
dell’avvenire”, e questo appunto perché il suo progetto politico fonda sull’analisi oggettiva della
realtà e non sui sogni o sui desideri.
Se per Epicuro, l’infelicità della necessità può essere tramutata in libertà in qualunque momento,
per Marx ed Engels, convinti come sono che dipende da noi trasformare la necessità in “docile
schiava della ragione”, è proprio “qui” e “ora” che va compiuto questo salto di civiltà.
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Condizione del socialismo è per loro la capacità dell’uomo di sviluppare fino ai livelli più alti i
mezzi e l’organizzazione della produzione. E dal momento che il potere politico è il potere di una
classe organizzata per opprimerne un’altra, indicano nella sua conquista da parte della classe
operaia la possibilità di infrangere le leggi dell’economia borghese. “Il futuro dell’umanità dipende
completamente dall’educazione della nuova generazione operaia”, precisano. Avvertendo che non
è la teoria che può cambiare il mondo (del resto è proprio la visione materialistico-dialettica della
storia a ricordarcelo), ma che senza teoria il mondo non si cambia.
Nella lettera a Bracke che accompagna la “Critica del programma di Gotha”, Marx puntualizza però
a questo riguardo che “ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di
programmi”. E in altri scritti si premura di formulare alcuni avvertimenti. “Prima di conquistare la
vittoria sulle barricate – argomenta – il proletariato annunzia l’avvento del proprio dominio con
una serie di vittorie intellettuali”. Compito imprescindibile della classe operaia è anche quello di
penetrare i misteri della politica internazionale. L’elemento che contraddistingue i comunisti è
difatti l’internazionalismo e anche la capacità di prospettiva, cioè di collocare i vari momenti della
lotta in un quadro generale di carattere strategico, non solo politico, ma storico. E ammonisce che la
rivoluzione che lascia intatti i pilastri della casa è una rivoluzione a metà.
Nell’“Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti”, a riguardo della rivoluzione
socialista, Marx ed Engels scrivono: “Non può trattarsi per noi di una trasformazione della
proprietà privata, ma della sua distruzione; non del miglioramento dei contrasti di classe, ma
dell’abolizione delle classi; non del miglioramento della società attuale, ma della fondazione di
una nuova società”.
Per loro il socialismo deve vantare un’economia pianificata, un’economia in cui i principali legami
del processo di riproduzione devono essere regolati consapevolmente dalla “testa visibile” della
società e non dal meccanismo spontaneo della legge del valore. La produzione sotto il socialismo dice Marx ne “Il capitale” – si deve svolgere sotto il controllo cosciente e preordinato della società.
E nell’”Antidhuring” Engels afferma che il socialismo è la gestione dell’attività economica secondo
un piano, perciò, l’anarchia della produzione sociale deve essere sostituita dall’organizzazione
cosciente e la lotta per l’esistenza individuale deve cessare.
La loro elaborazione teorica esclude qualsiasi soluzione che si limiti alla semplice abolizione della
proprietà privata. Per eliminare l’insensato sciupio del lusso delle classi dominanti ed evitare
l’oppressione della burocrazia istituzionale si rivela necessaria l’appropriazione sociale.
Se è pur vero che nella critica al progetto alternativo di Cesar de Paepe, Marx lascia trasparire i
lineamenti di un socialismo di Stato laddove scrive che “la centralizzazione diverrà la base
nazionale della società di produttori liberi e uguali che svolgono lavoro sociale secondo un piano
generale e razionale”, assunto nel contesto e nello spirito delle sue elaborazioni, questo concetto è
riferito esclusivamente al breve periodo del passaggio di poteri da una classe all’altra, cioè alla
cosiddetta fase di transizione.
Marx non si cura di stabilire con esattezza da chi deve essere condotta la pianificazione in un
ordinamento socialista, difatti, mentre è preciso a riguardo alla funzione essenziale della
pianificazione, si limita ad assegnare questa funzione alla società nel suo complesso.
La pianificazione economica non viene comunque da lui concepita come una funzione dello Stato,
ma al contrario come una funzione che rende superfluo lo Stato. La società deve essere
“organizzata come un’associazione cosciente e sistematica”, nella quale i produttori medesimi sono
chiamati a regolare “lo scambio dei prodotti, ponendolo sotto il proprio controllo, anziché
permettere ad esso di governarli come una forza cieca”.
A voler tentare (compiendo una discutibile forzatura) di riassumere i punti elaborati da Marx e da
Engels a riguardo del funzionamento della futura economia socialista nel periodo della transizione,
si ricavano le seguenti indicazioni:
1) anzitutto, regolazione diretta della distribuzione sociale del lavoro;
2) determinazione diretta di quelli che vengono definiti “coefficienti di input/output”, se non per
prodotti singoli, quanto meno per aggregati di gruppi più ampi di prodotti;
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3) necessità di bilanciare l’offerta e la domanda in termini fisici;
4) distribuzione del prodotto sociale secondo criteri di benefici sociali complessivi, e
contemporanea applicazione del principio “a ciascuno secondo il suo lavoro” per la distribuzione
del fondo di consumo individuale tra le famiglie;
5) centralizzazione del fondo di accumulazione e delle decisioni che riguardano la sua allocazione
al livello della società nel suo insieme.
La sfera della produzione materiale come sfera della necessità, resta dunque per i teorici del
socialismo scientifico la conditio sine qua non dell’esistenza umana. Punto decisivo è che il “fare”
deve perdere il suo carattere inconsapevole e coercitivo e diventare invece attività libera
consapevole. E solo se il lavoro diventa un bisogno interiore per l’uomo ci si può riferire al lavoro
come “libera attività”. La liberazione del lavoratore fa sì che il lavoro diventi fondamentalmente
espressione delle capacità umane, espressione della personalità dell’uomo e, in questo senso,
“primo bisogno della vita”.
Secondo la teoria marx-engelsiana il lavoro è l’essenza dell’uomo, dal momento che “possiamo dire
che il lavoro ha creato lo stesso uomo”. E il lavoro esige cooperazione tra gli uomini e quindi vita
sociale e organizzazione in società. Il lavoro è specifico nell’uomo come attività libera ed è in
contrasto con le “funzioni bestiali... il mangiare, il bere, il generare” le quali appartengono al regno
delle necessità.
I nostri cinque sensi, del resto, non sono semplicemente una parte della nostra eredità animale, ma
si sono sviluppati e perfezionati in modo umano come risultato di processi e di attività sociali. La
differenza tra l’uomo e gli altri animali sta proprio nel lavoro, precisamente nel ricorso che egli fa
agli strumenti per procacciarsi le cose necessarie. “Mentre l’animale arriva al massimo a
raccogliere, l’uomo produce, allestisce i mezzi necessari all’esigenza”. In questa ottica Marx ed
Engels sostengono che nella futura società socialista la distribuzione non deve assolutamente
dipendere da incentivi al lavoro, ma gli incentivi materiali devono essere sostituiti da incentivi
morali.
Nella “Critica del programma di Gotha” Marx spiega chiaramente che nella prima fase la
distribuzione deve essere ancora regolata in base al lavoro svolto, non già secondo i bisogni, e
questo finché la produzione non fluirà con tale abbondanza da permettere la piena realizzazione del
comunismo. Pertanto, la regola dell’uguale remunerazione per uguale lavoro, sebbene legata a un
principio di ineguaglianza, giacché le capacità individuali variano da persona a persona, in questa
fase di transizione rimane l’unica forma concepibile di uguaglianza.
L’uguaglianza a cui guarda Marx, quella fondata sul principio “a ognuno secondo i suoi bisogni”, si
realizza a un alto grado di sviluppo sociale, considerato che l’autentica uguaglianza non livella i
bisogni, ma obbedisce alla diversità delle esigenze di ogni individuo.
Marx fa cenno per la prima volta alla “dittatura del proletariato” quando riflette sulla sconfitta dei
moti del 1848 e sull’avvento del bonapartismo e, secondo l’interpretazione che egli dà a questo
termine, essa non ha assolutamente alcuna relazione con il terrore, ma vuole significare il passaggio
alla soppressione di tutte le classi.
Considerate le imprecisioni che sono ricorse e ricorrono ancor oggi nelle interpretazioni dei
esponenti della stessa sinistra, è il caso di ricordare che negli scritti di Marx il termine “dittatura del
proletariato” compare complessivamente 11 volte. Come ha dimostrato uno studioso, chi fa
abbondante ricorso a questo termine è invece Lenin, il quale nei suoi scritti e appunti lo usa
all’incirca ben 3.500 volte.
Marx ebbe modo di precisare al riguardo ai blanquisti: “Si, vogliamo la dittatura... ma siamo contro
ciò che voi volete come dittatura: vogliamo la dittatura della classe, cioè del proletariato e non del
partito rivoluzionario”.
Un altro aspetto che può sorprendere è che egli non si pone affatto il problema di quanta gente
potrebbe essere uccisa durante la rivoluzione, di chi potrebbe rischiare di esserlo, e se sia o meno
giustificato uccidere per la causa del socialismo. Una tale questione probabilmente non gli si è
affacciata nemmeno alla mente. E’ da tenere presente che nella sua concezione, il capitalismo è un
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sistema economico destinato alla crisi e a essere superato, pertanto si deve dedurre che, a suo
parere, il rovesciare un corpo sociale in sofferenza non avrebbe necessariamente richiesto un grande
spargimento di sangue.
Engels sostiene che per Marx “la violenza rivoluzionaria è una necessità per il trapasso da una
società all’altra, però (Marx) considerava al tempo stesso il giacobinismo e il terrorismo dei mezzi
obsoleti”. Da giovane, infatti, Marx aveva rivolto al giacobinismo la sua critica poiché, ai suoi
occhi, questo movimento esprimeva l’illusone politica di poter cambiare la società imponendole un
dovere astratto, quello cioè di reprimere il gioco degli interessi in nome di un virtuoso interesse
generale.
Fatto sta, però, che nel ’48 egli scrive: “Vi è soltanto un mezzo per abbreviare la micidiale agonia
della vecchia società, le sanguinose doglie della nuova società, per semplificarle e concentrarle,
soltanto un mezzo: il terrorismo rivoluzionario”. Nell’evoluzione del suo pensiero si registra
dunque un atteggiamento contraddittorio sul ricorso alla violenza, anche se la sua attenzione è
sempre rivolta principalmente alla mutazione del processo economico per mano del proletariato
quale chiave di volta della rivoluzione.
Da parte sua, Engels reputa che “una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è
l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra col mezzo di fucili,
baionette e cannoni”.
Va messo in conto che in quel periodo storico era diffusa la convinzione che la politica poteva
cambiare la società in tempi molto brevi proprio grazie a un uso adeguato della coercizione. Ancora
oggi, del resto, la discussione sulle virtualità non solo liberatorie, ma anche autoritarie che sono
racchiuse nel principio democratico e nel protagonismo delle grandi masse non è affatto conclusa.
Convinzione profonda di Marx e di Engels è che di tutti gli strumenti di produzione, la più grande
forza produttiva è la classe oppressa, cioè la classe rivoluzionaria e che “l’operaio deve un giorno
avere nelle sue mani il potere politico… se non vuole rinunciare al ‘regno di questo mondo’, come i
cristiani dell’antichità che lo hanno trascurato e disprezzato”. E pure che per dare corso a una
nuova organizzazione del lavoro e della società essa “deve rovesciare la vecchia politica che
sostiene le vecchie istituzioni”. “Il proletariato sarà rivoluzionario o non sarà... non può agire
come classe che costituendosi in partito autonomo”.
Essi hanno costantemente insistito sul fatto che la teoria rivoluzionaria si sviluppa attraverso il
confronto con il movimento storico reale. Il comunismo, come è scritto ne “L’ideologia tedesca”,
“non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà
conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E
nel compiere questa missione – avvertono – si deve avere un atteggiamento realistico.
Il nucleo della loro teoria rivoluzionaria può essere comunque così sintetizzato: con lo sviluppo del
capitalismo, si verifica un inasprimento della lotta fra le classi; il proletariato, in lotta per la sua
esistenza, sviluppa necessariamente un’azione sindacale che contesta la ripartizione tra profitti e
salari; con questa lotta economica esso acquisisce la coscienza di classe e si appropria prima dei
mezzi di produzione, poi del potere politico.
Il proletariato viene considerato a questa stregua la “classe della liberazione per eccellenza” e
quindi il soggetto insostituibile del processo rivoluzionario.
La classe operaia è centrale nella loro ipotesi non perché sia numerosa, o dotata di istinti libertari
più di altre, ma perché è la sola annullata nel suo essere, e quindi “non ha nulla da perdere se non le
proprie catene”.
Ma è anche l’unico soggetto in condizioni di gestire il processo di superamento delle divisioni
sociali. Scrive Engels a questo riguardo nell’ “Antiduhring”: “L’abolizione delle classi ha come suo
presupposto un alto grado di sviluppo della produzione nel quale l’appropriazione dei mezzi di
produzione e dei prodotti, e perciò del potere politico, del monopolio della cultura e della direzione
spirituale da parte di una particolare classe della società non solo è diventata superflua, ma è
diventata economicamente, politicamente e intellettualmente un ostacolo allo sviluppo. Questo
punto oggi è raggiunto”.
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Perché la classe oppressa possa affrancarsi deve però trasformare la “conoscenza sociale in forza
sociale”. Il punto di fusione fra essere sociale e coscienza è la prassi e la prassi è sociale, cioè
lavoro e attività rivoluzionari.
Secondo Marx, la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. E la
rivoluzione proletaria ha il compito di fondare le basi oggettive di una conoscenza non
“ideologica”, di una cultura universale, di una scienza della realtà sociale, di una verità conoscibile,
che continuamente si autocritica nell’incessante sviluppo della storia. Deve in sostanza creare
“l’uomo nuovo” che è colui che agisce autonomamente e soprattutto consapevolmente per il bene
comune.
Il socialismo è dunque inteso come lotta e insieme autoeducazione.
Per quanto, negli statuti dell’Internazionale, Marx abbia sostenuto l’inseparabilità della lotta politica
da quella sociale, nella pratica egli si richiama sempre alle rivendicazioni sociali che sono comuni
alle classi operaie di tutti i Paesi. E parimenti suggerisce di portare avanti questa lotta in modo
dialettico e con la collaborazione delle forze democratiche.
Dal canto suo Engels sostiene che “è interesse degli operai sostenere la borghesia nella sua lotta
contro tutti gli elementi reazionari, finché essa rimane fedele a se stessa”.
2.6 – Il comunismo come processo storico e come esaltazione dell’uomo
Considerato che Marx non è un pensatore utopista, non deve sorprendere che egli dedichi scarsa
attenzione all’ordinamento della società futura, cioè al comunismo. “Noi non anticipiamo
dogmaticamente il mondo – risponde a chi lo sollecita a pronunciarsi sull’argomento – ma vogliamo
trovare il nuovo mondo muovendo dalla critica del vecchio”.
Il comunismo, a suo modo di vedere, è un processo storico, perciò egli non si preoccupa della sua
fisionomia, ma si accontenta di aver scoperto le leggi del passaggio dalla vecchia alla nuova società.
A riguardo dell’assetto sociale futuro non manca comunque di svolgere alcune riflessioni.
Fin da giovane egli ha in mente il “regno della libertà” ed è convinto che la razionale
regolamentazione del ricambio organico dell’uomo con la natura avvenga solamente attraverso il
passaggio dal regno delle necessità, cioè da uno stato di bisogno dell’uomo stesso, al regno appunto
della libertà, cioè alla sua piena emancipazione.
Scrive nel terzo volume de “Il capitale”: “Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove
cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna, si trova quindi per sua natura
oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la
natura per soddisfare i suoi bisogni…. così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le
forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione… La libertà in questo campo può
consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati regolano
razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune
controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca… Ma questo rimane sempre
un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se
stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della
necessità”.
Il comunismo, pertanto, non è da lui vissuto alla maniera dei socialisti utopisti che lo intendevano
come la messa a punto di un sistema perfetto di società, bensì come un processo che per essere
realizzato, presuppone un’indagine dell’evoluzione economica e del conflitto fra le classi attraverso
cui scoprire, nella situazione storica data, il mezzo per risolvere le contraddizioni e andare oltre il
sistema capitalistico.
Marx concepisce dunque il comunismo non come una rottura storica improvvisa e imprevista, ma
come una tendenza della stessa società capitalista. Il soggetto rivoluzionario ha pertanto il compito
di appropriarsi delle “gigantesche forze produttive della società capitalistica come proprietà e
strumento sociale”. In questa visione il socialismo appare il “particolare e ultimo prodotto del
capitalismo”.
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A suo giudizio, così come negli interstizi della società schiavistica e feudale esistevano gli scambi
mercantili, anche negli interstizi della società capitalista esistono già, concretamente, forme virtuali
di comunismo come, per esempio, quelle manifestazioni associative che riescono a sfuggire ai
rapporti di mercato.
In questa ottica, nei ”Grundrisse” egli definisce il comunismo “la verace soluzione del contrasto
dell’uomo con la natura e con l’uomo, la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra
oggettivazione ed affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere”.
Non concepisce il comunismo come fine ultimo, ma soltanto come un mezzo per giungere a una
piena affermazione dell’uomo, cioè alla liberazione non solo ideale e politica, ma economica, reale
di tutti e di ciascuno. In sostanza, per lui il comunismo è la soluzione dell’antagonismo tra la natura
e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra la libertà e la necessità.
E con questa idea di comunismo, in cui non vi è posto per gli ideali trascendentali, egli si propone
un modello di società che distribuisce in maniera egualitaria la ricchezza sia materiale che
spirituale, la quale sancisce la libertà di ciascuno come condizione della libertà di tutti. A sua volta,
Engels puntualizza che Il comunismo “non rappresenta la causa dei soli operai, ma di tutta
l’umanità”.
Nel “Manifesto” è appunto detto che “al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi
suoi antagonismi di classe subentra una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la
condizione per il libero sviluppo di tutti”.
Marx insiste poi sul fatto che “solo nella comunità diventa possibile la libertà personale... Nella
comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa”.
E precisa che “in una fase superiore della società comunista, quando sarà scomparso
l’asservimento degli individui alla divisione del lavoro e con esso l’antagonismo fra il lavoro
intellettuale e quello manuale, quando il lavoro non sarà soltanto un mezzo per vivere ma diverrà
esso stesso la prima necessità vitale, quando con lo sviluppo multiplo degli individui le forze
produttive si accresceranno, e tutte le sorgenti di ricchezza collettiva sgorgheranno in abbondanza,
allora soltanto lo stretto orizzonte borghese potrà essere completamente superato e la società potrà
scrivere sulle sue bandiere: da ciascuno secondo le proprie capacità a ciascuno secondo i propri
bisogni”.
Nella “Critica del programma di Gotha” chiarisce che “il diritto di ogni lavoratore a ricevere
secondo il suo lavoro”, cioè la condizione sociale esistente nel socialismo, “è, per il suo stesso
contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni altro diritto”, condizione questa che viene
superata nel comunismo. Altresì, egli considera imprescindibile il persistere nel nuovo regime,
almeno per un certo periodo, della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Anche
questa divisione può essere superata solo con l’affermarsi della società comunista, nella quale
nessuno si vedrà più attribuire una sfera esclusiva di attività.
Nella prima fase di costruzione del comunismo la produzione dovrebbe dunque continuare ad essere
il regno della necessità, dal momento che in essa continuano a risiedere le “cose” che fanno da
mediatrici tra le persone. La completa socializzazione della natura umana, cioè la concrescita
dell’essere della specie e dell’individuo, può realizzarsi solo con la completa socializzazione dei
rapporti umani.
Ovviamente, Marx presuppone la scienza e i suoi progressi al servizio completo dell’uomo e in
questa ottica considera come condizione stessa della realizzazione del comunismo il suo massimo
sviluppo.
Ne “L’ideologia tedesca” viene precisato che un alto sviluppo delle forze produttive è necessario
perché altrimenti col comunismo si generalizzerebbe soltanto la miseria e, inoltre, perché solo
mediante tale sviluppo si possono avere relazioni universali tra gli uomini e si possono sostituire
individui empiricamente universali agli individui locali.
Il comunismo è “possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in ‘una volta’
e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni
mondiali che esso comunismo implica”.
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In sintesi, il comunismo, quello “empiricamente possibile”, è pensato da Marx e da Engels, sin
dall’inizio del loro argomentare, come un movimento storico e politico che rappresenta l’opera
civilizzatrice dell’umanità e l’autentica realizzazione della modernità e delle sue istanze di
emancipazione. E anche se nei loro scritti l’idea di comunismo non si concretizza mai in una analisi
delle forme di organizzazione del potere nella società, dai loro assunti emerge chiaramente il
convincimento che il nuovo sistema presuppone una società senza diritto, cioè senza Stato.
Cessando il conflitto borghese degli interessi particolari e delle classi, viene superato anche
l’antagonismo tra gli individui e il loro stare insieme come un reciproco limite, perciò, alla fin fine,
non c’è alcun bisogno di diritti quali fattori di garanzia.
Poiché la realizzazione del comunismo è concepita esclusivamente in dimensione mondiale, esso
“non può affatto esistere se non come esistenza ‘storica universale’”. Ai loro occhi, dunque, il
comunismo in un paese solo o anche in un gruppo limitato di paesi sarebbe di certo apparso
un’assurdità. Di più, nei “Manoscritti del ‘44” Marx fa riferimento, detestandolo, a un “comunismo
rozzo” che riproduce la logica negativa della proprietà privata e annulla il talento e la personalità
individuale, sottoponendo la comunità all’oggettività del mondo delle cose mercificate. E’ evidente
che se egli avesse conosciuto il socialismo realizzato avrebbe avuto piena conferma della validità e
della giustezza di queste sue asserzioni.
Appare chiarissimo – e torna utile sottolinearlo - che dai suoi teorici fondatori il comunismo non
viene affatto considerato un “ideale”, come spesso si è soliti pensare, ma un processo; esso è il
movimento reale che cambia il mondo, è il modo attraverso cui ogni uomo concorre a determinare
l’avvenire proprio e dei propri simili. Hanno puntualizzato i due teorici ne “L’Ideologia tedesca”:
“Il comunismo per noi non è ... un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo
comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E Marx ribadisce: “La classe
operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è
gravida la vecchia e cadente società borghese”.
Il comunismo è quindi da intendersi come un movimento che modifica la realtà mediante lo
sviluppo di tutto il potenziale umano di ogni singolo individuo allo scopo di favorire la crescita del
benessere comune attraverso gli strumenti dell’uguaglianza.
E’ luogo comune ritenere che il pensiero marxiano neghi l’autonomia dell’individuo. Si tratta di
interpretazione sbagliata, di un’illazione da parte di chi Marx non l’ha mai letto. L’idea di
comunismo contemplata dall’autore de “Il capitale”, fonda sull’autodeterminazione di ognuno e sul
conseguimento di una responsabilità collettiva per un comune destino. Non solo l’intelligenza di
ogni uomo e donna non viene mortificata, ma anzi ogni individuo viene spinto ad agire secondo
volontà libere le quali, però, devono essere razionali, cioè non lasciate al caso, e solidali.
Sugli aspetti del pensiero marx-engelsiano riguardanti la libertà dell’uomo e il rapporto uomonatura si sono costruite molte interpretazioni che hanno dato luogo a veri e propri equivoci. Mi
sembra il caso perciò di svolgere al riguardo alcune brevi considerazioni.
Il tema dominante nella teoria di Marx è come realizzare la libertà umana. Come abbiamo visto, il
suo comunismo equivale al pieno dispiegamento della libertà. La libertà socialista non richiede solo
uguali diritti, essa esige, con la libertà e l’uguaglianza, anche la fraternità e la solidarietà, cioè dei
doveri.
Marx è attentissimo all’individuo, contrariamente a quel che spesso si crede, dal momento che ha in
mente il libero sviluppo di ciascuno come condizione del libero sviluppo di tutti.
Nel terzo libro de ”Il capitale” egli sostiene che “Lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se
stesso, (é) il vero regno della libertà”; e precisa che “il principio fondamentale (del comunismo) è
lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo”.
Allorquando critica l’egualitarismo del comunismo “rozzo”, perché opprime la personalità, egli
critica al tempo stesso il concetto borghese di cittadino, eguagliato di fronte alla legge, al di fuori
delle differenze che lo determinano come individuo. Concepisce l’uomo come un essere
polivalente, che può essere pienamente soddisfatto solo se riesce a sviluppare tutte le sue molteplici
possibilità.
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Quando affronta il problema del “superamento positivo”, della “soppressione” che l’uomo subisce
nel sistema capitalistico, usa espressioni come “la completa emancipazione di tutti i sensi umani e
di tutte le qualità umane”. La libertà dell’uomo non è perciò intesa da lui solo sul piano socioeconomico, ma anche sul piano culturale, dello spirito, a proposito del quale, poiché è esposto a
varie forme di alienazione, l’uomo stesso non ha piena coscienza delle possibilità della sua libertà, e
neppure delle cause reali che determinano la sua vita.
Osserva a sua volta Engels nell’“Antiduhring”: “La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza
dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa
conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato... La libertà consiste dunque
nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali...
La libertà è quindi una categoria storica, il prodotto dello sviluppo storico, come tutto ciò che è
umano”.
L’uomo del comunismo deve dunque essere un uomo universale, poliedrico e totale, tanto è che per
poter realizzare una nuova società è necessario modificare non solo le strutture sociali, ma l’uomo
stesso.
Pertanto, un’umanità compiutamente emancipata non fonda affatto sull’uguaglianza, ma sulla
diversità. Il comunismo non si pone l’obiettivo di costruire una società di eguali, cioè di persone
dotate degli stessi diritti e capacità di accesso alle ricchezze sociali, bensì quello di liberare i bisogni
dallo loro diversa determinazione, le differenze dal loro segno gerarchico, l’individuo dalla sua
illusione di libertà egoistica e anticomunitaria.
Marx mira al “Gattungswesen”, vale a dire all’uomo liberato dal dominio del crudo individualistico
interesse egoistico.
Nel suo pensiero il valore fondante del comunismo è la libertà, dove per libertà è da intendersi la
capacità delle donne e degli uomini di programmare in modo collettivo e consapevole il proprio
destino. Mentre il socialismo è inteso come progetto di liberazione, il comunismo costituisce la
realizzazione piena della libertà.
Riflettendo su questi concetti, si comprende la grande ignoranza che gran parte della sinistra ha
mostrato colpevolmente di avere in materia, essendosi lasciata tacciare ingiustamente di oppressivo
collettivismo; e pure si svela la sua coda di paglia di fronte alle manipolazioni del concetto di libertà
che sono state compiute dai suoi avversari politici, senza che essa le contrastasse (il berlusconismo
in primis).
Grande attenzione viene prestata da Marx anche al rapporto che l’uomo ha sia con la natura che con
la storia, infatti la “prassi” e la “storia” sono due fattori che concorrono a rendere originale la sua
teoria.
La storia, per lui, non è che la trasformazione umana della natura, la natura trasformata dall’uomo.
Ne consegue che la storia umana è data dallo sviluppo non di una, ma di due contraddizioni
fondamentali, quella tra uomo e uomo e quella tra uomo e natura.
Definisce il rapporto storicamente primario fra l’uomo e la natura come relazione della natura con
se stessa, perché l’uomo è parte integrante della natura.
L’uomo ha la specifica capacità di combattere con e contro la natura, di subordinarla e da ultimo di
trasformarla secondo i propri fini. Operando sulla natura fuori di sé e cambiandola, l’uomo cambia
allo stesso tempo la natura sua propria. E’ questa la sola funzione dell’attività produttiva umana, del
lavoro umano, che distingue l’uomo da tutti, o quasi tutti, gli esseri animali. I rapporti sociali umani
che si intrecciano nel corso di questa attività sono il fondamento della storia umana. L’intelligenza
dell’uomo, del resto, è cresciuta nella stessa misura in cui l’uomo ha modificato la natura e il primo
atto storico dell’uomo è proprio la creazione.
Gli uomini non vivono soltanto in società, come gli animali sociali, ma producono la società per
vivere. Non “evolvono” come le altre specie, ma hanno una storia, e questa storia essi la fanno in
determinate condizioni. Lo sviluppo dei loro bisogni è da lui concepito come una mediazione
essenziale e continua tra natura e società umana, come espressione della dipendenza dell’uomo
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dalla natura, ma al tempo stesso della capacità da parte dell’uomo di conferire alla natura un
significato; i bisogni vengono da lui considerati funzioni concrete di autonomia e compiutezza.
“Invero – egli scrive - anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come
le api, i castori, le formiche, ecc.. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente
per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; (l’animale)
produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero
dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà del medesimo... L’animale forma cose
solo secondo la misura e il bisogno della specie che appartiene, mentre l’uomo sa produrre
secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente; quindi
l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza”.
“Noi supponiamo il lavoro in una forma che appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie
operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la
costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto
dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in
cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella
idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente”.
L’uomo perciò ha coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altri
uomini e altre cose. In pari tempo ha coscienza della natura che le si contrappone come forza
estranea e inaccessibile. Il suo lavoro è anzitutto un processo fra lui e la natura, “un processo nel
quale l’uomo, con la sua attività, realizza, regola e controlla i suoi scambi con la natura” stessa, e
“crea la storia nella misura in cui egli crea nuovi valori e forme nuove di coesistenza”.
“La storia non fa niente... E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e
combatte tutto; non è la ‘storia’ che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini, come
se essa fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi
fini”. “Facciamo noi stessi la nostra storia ma innanzi tutto dietro premesse e in condizioni ben
determinate. Tra di esse decidono, in ultima analisi, quelle economiche, ma anche le condizioni
politiche, ecc., anzi, persino la tradizione che ossessiona i cervelli degli uomini, esercita una
funzione, anche se non decisiva”.
Gli uomini hanno una storia proprio perché hanno la capacità di trasformare la natura che li
circonda e in tal modo di trasformare la loro stessa natura sociale.
Nella creazione delle basi per emancipare l’uomo dalla divisione sociale del lavoro e dall’essere
vincolato per tutta la vita a una stessa forma sociale di lavoro, Marx attribuisce grande rilievo allo
sviluppo tecnico-scientifico.
Elementi indispensabili al progressivo sviluppo dell’uomo sono l’invenzione e l’impiego alternativo
a quello del capitale degli strumenti di produzione il cui uso collettivo diviene processo sociale.
Come già abbiamo visto, Marx intuisce con una acutezza straordinaria per il suo tempo che
l’innalzamento sempre crescente della soglia tecnologica arriverà a rendere il lavoro vivo non più
che una parte trascurabile del processo industriale produttivo di merci materiali. Nei “Grundrisse”
afferma che lo sviluppo scientifico-tecnico giungerà a tal punto da fare delle macchine stesse le
produttrici di ricchezza.
Dopo aver constatato che “il modo capitalistico di produzione pone per primo le scienze naturali al
servizio immediato del processo di produzione”; che “il capitale non crea scienza, ma la sfrutta
appropriandosene nel processo produttivo”; che “la scienza interviene come forza estranea, ostile
al lavoro che lo domina e la sua applicazione è da una parte accumulazione, dall’altra sviluppo in
scienza di testimonianze, di osservazioni, di segreti dell’artigianato, acquisiti per vie sperimentali
per l’analisi del processo produttivo”; e ancora che “la loro trasformazione in capitale si basa sulla
privazione dell’operaio di queste condizioni, sulla separazione dell’operaio da esse”, egli ribadisce
che l’uomo, e non il capitale, è il soggetto della storia, che esso non può e non deve essere il suo
strumento cieco, ma deve realizzare pienamente le proprie capacità nell’attività consapevole rivolta
a controllare il proprio ambiente.
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A suo giudizio, la “messa in valore del mondo delle cose” a prezzo della “svalutazione del mondo
degli uomini” è tale da poter essere superata. E si dice convinto che questa è la strada da percorre
per porre fine alle guerre e alla miseria e per far sì che la società industriale riscatti l’umanità.
Marx ed Engels celebrano senza riserve il soggiogamento delle forze naturali essendo ispirati da un
ottimismo quasi fatalista dell’“ideologia del progresso”.
La distruzione dell’ambiente ad opera dell’industria capitalistica e il pericolo per l’equilibrio
ecologico rappresentato dallo sviluppo illimitato delle forze produttive del capitale sono questioni
estranee al loro orizzonte intellettuale. E questo è comprensibile; pure loro sono figli del tempo. Noi
oggi ci troviamo di fronte alla necessità di rinunciare alla crescita infinita della produzione proprio
nell’interesse dell’ambiente e della salute e per impedire il collasso del pianeta. Una simile
prospettiva non appartiene e non poteva appartenere al loro orizzonte culturale, anche se dai loro
scritti emerge netto il convincimento che il progresso dell’umanità non può avvenire in violazione
delle leggi della natura.
Riprenderò più avanti la riflessione sui limiti e le ambiguità del pensiero marx-engelsiano, ciò che
mi premeva mettere qui in risalto è la immensa fiducia nell’uomo che i fondatori del marxismo
dimostrano di avere.
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Capitolo 3°
I revisionismi della teoria marx-engelsiana
3.1 – La nascita del “marxismo” e la Seconda Internazionale
Il pensiero marx-engelsiano si diffonde nel mondo verso la fine dell’ottavo decennio dell’Ottocento,
cioè trenta anni dopo l’apparizione del “Manifesto”. In Italia penetra sul finire degli anni ‘80. A
rappresentare la sua prima esposizione complessiva e sistematica è l’“Antiduhring” di Engels. Con
l’apparire di questo testo le teorie di Marx e le sue prendono il nome di “marxismo” e diventano la
base su cui vengono definiti i programmi e la tattica della socialdemocrazia tedesca e anche della 2a
Internazionale.
Mentre al tempo della 1a Internazionale le teorie marx-engelsiane, così come erano state comprese
e fatte proprie dalle avanguardie del movimento operaio internazionale, avevano significato la
semplice presa di coscienza della necessità di rendere politicamente autonomo il movimento
operaio (era la fase in cui lo sviluppo del capitalismo avveniva a tutto campo e obbligava le stesse
classi dominanti ad affrontare i problemi della politica sociale), nel periodo della 2a Internazionale,
al movimento operaio organizzato si impone la necessità di affrontare non solo il problema della
sua autonomia politica, ma anche di quella ideale. Sorge pertanto la necessità di acquisire una
concezione del mondo che spieghi il senso e il ritmo dello sviluppo storico e che sia alternativa al
pensiero dominante.
L’elaborazione marxiana concorre appunto a soddisfare questa esigenza, anche se essa mal si
accorda con le tradizioni empiristiche del pensiero scientifico e filosofico e si rivela anzi
un’autentica bomba non solo per i suoi avversari, ma anche per lo stesso movimento operaio in
formazione il cui gruppo dirigente è già da tempo lacerato da feroci polemiche.
Le teorie del socialismo scientifico incontrano infatti da subito l’avversione di pensatori quali
Pierre-Joseph Proudhon, Michail A. Bakunin, Ferdinand Lassalle i quali esercitano una forte
influenza su vasti settori del movimento.
Per di più, il pensiero di Marx e di Engels ha una diffusione molto lenta e, proprio per il suo
carattere dirompente i vecchi schemi, viene assimilato con estrema difficoltà.
Pubblicate a spizzichi, le loro opere vengono lette e studiate da pochi intellettuali che si assumono il
compito di trasmetterle, in “pillole”, alla massa dei militanti.
L’ineluttabilità di un siffatto processo di assimilazione e di trasmissione produce un fenomeno che
segnerà profondamente la storia del marxismo: il pensiero dei fondatori del socialismo scientifico
viene assunto dai suoi stessi estimatori in maniera confusa, come una sorta di “bibbia”, cioè come
una forma di religione secolarizzata. Il senso e lo spirito dei suoi autori risultano conseguentemente
distorti e, proprio a causa delle differenti interpretazioni, sorgono nel movimento varie tendenze e
scuole.
A partire dagli anni ’80, e soprattutto dagli inizi di quelli ’90, si afferma l’interpretazione
evoluzionistica del marxismo secondo la quale la rivoluzione viene identificata con un non meglio
precisato crollo generale del sistema capitalistico.
Prima ancora che venga costituita la 2a Internazionale, nelle file della socialdemocrazia si tende a
ridurre il pensiero marxiano al materialismo naturalistico o, viceversa, a una variante dell’idealismo
che si traduce in una forma raffinata di fideismo. A fronte dello snaturamento della sua teoria, Marx
definisce socialdemocratici tutti coloro che si propongono di realizzare “istituzioni democratiche
repubblicane non come mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato,
ma come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia”.
Consapevoli dei condizionamenti storici e delle difficoltà che comporta l’innovazione da loro
proposta, i teorici del socialismo scientifico si limitano pazientemente a prendere atto della
situazione e a portare avanti una sorta di realpolitk rivoluzionaria.
La 2a Internazionale nasce nel 1889, quando Marx è già morto da sei anni, come tentativo di tenere
insieme tutte le tendenze e le correnti presenti nel movimento socialista, il quale si sviluppa in una
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possente rete organizzativa che fa tremare tutti i poteri costituiti del mondo. Se la 1a Internazionale
ha funzionato come un’istituzione fortemente centralizzata, la 2a svolge un ruolo paragonabile più a
una “cassetta delle lettere” che a un gruppo dirigente. Questa è impegnata anzitutto a diffondere il
marxismo in tutto il mondo e assolve questo compito strutturandosi in grande scuola di socialismo.
Grazie alla sua ampiezza di orizzonti e al suo spirito democratico, favorisce il manifestarsi di
un’ampia gamma di concezioni che concorrono certamente ad arricchire il pensiero marxengelsiano, ma nel contempo ne distorcono profondamente il senso.
In un periodo storico in cui il proletariato è in pieno sviluppo e le sue organizzazioni sindacali e
politiche in formazione esprimono una forte domanda di ideologia, il “marxismo povero” della 2a
Internazionale dilaga nell’Europa occidentale e si diffonde nell’America latina, in Australia e in
Cina. E una tale ondata di “nuovo sapere rivoluzionario” è il risultato di un intenso lavoro
organizzativo, della fatica e dell’abnegazione non solo dei suoi dirigenti, ma di gran parte dei suoi
quadri impegnati nell’educazione politica e culturale della classe operaia.
Con la 2a Internazionale si assiste al diffondersi della cosiddetta ”linea positivista” che riduce il
pensiero marx-engelsiano a una particolare variante evolutiva del determinismo applicato alla
storia. Questa interpretazione individua nel corso degli avvenimenti solamente i processi oggettivi,
quelli cioè sottoposti a una irreversibile necessità e del tutto indipendenti dalla volontà umana. La
complessa teoria marxiana sul rapporto tra struttura e sovrastruttura viene assunta in modo
semplicistico e alterato, attingendo cioè ad alcuni testi soltanto e ignorandone altri. E anche la tesi
secondo cui è l’essere sociale a determinare la coscienza, e non viceversa, viene interpretata senza
tener conto del rapporto interattivo che esiste tra la realtà delle cose e la volontà degli uomini, sul
quale peraltro lo stesso Marx ha parecchio insistito. Così facendo, il pensiero marxiano viene
assunto nello spirito del determinismo meccanicistico. Ed è proprio da una visione del genere che
scaturisce il determinismo economico, cioè il convincimento che sia il processo evolutivo stesso
della società a determinare una nuova economia e un nuovo ordine sociale. La transizione si
realizzerebbe attraverso la semplice espansione delle forze produttive il cui sviluppo, in virtù
dell’inevitabile crollo del capitalismo a causa delle sue contraddizioni, porterebbe automaticamente
al socialismo.
In base a questa teoria, i Paesi arretrati sono necessariamente obbligati a passare attraverso le stesse
fasi evolutive dei paesi a sviluppo capitalistico per poter realizzare il socialismo. E’ poi convinzione
degli evoluzionisti che l’avvento del capitalismo avrebbe dissolto automaticamente e
definitivamente ogni rapporto precapitalistico e feudale.
Lo sviluppo delle forze produttive, accompagnandosi a un processo di proletarizzazione dei ceti
medi, farebbe quindi della classe operaia la componente maggioritaria della popolazione e,
conseguentemente, le assicurerebbe la maggioranza parlamentare.
Questo modo di intendere il processo storico porta ineluttabilmente alla rinuncia di qualsiasi
politica che persegua la mobilitazione rivoluzionaria del popolo e a privilegiare al suo posto una
gestione professionale delle lotte degli operai dell’industria sull’esclusivo fronte delle
rivendicazioni economico-sociali. La conquista della sovrastruttura istituzionale diventa così
competenza esclusiva del partito. E’ proprio nel periodo della 2a Internazione, infatti, che i partiti
della classe operaia concentrano la loro lotta nelle istituzioni democratiche facendone una ragione
non solo di forza, ma di vita o di morte dell’organizzazione. Ed è in questa fase che maturano le
tendenze nazionalistiche e che l’orizzonte sociale dei dirigenti della socialdemocrazia viene
restringendosi ai soli Paesi capitalistici, considerando i popoli coloniali estranei allo loro strategia di
lotta.
La distorsione della teoria marxiana, la trascuranza o la sottovalutazione del suo carattere dialettico,
si presentano come caratteristiche comuni a quasi tutti i dirigenti della 2a Internazionale. In loro
prevale la tendenza a costruire le basi per uno sviluppo della democrazia politica quale fattore e
condizione per una via pacifica al socialismo, una via che passa necessariamente attraverso le
istituzioni democratiche e il rifiuto della violenza proletaria. Loro convincimento è che per
conseguire questo obiettivo non bisogna turbare il processo produttivo.
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Affidato alla spontaneità e al meccanicismo dei processi storici, il socialismo torna così
oggettivamente ad essere vissuto come un ideale, come un imperativo etico e non invece come
un’azione condotta con determinazione e intelligenza dal movimento di massa.
Tra i più insigni interpreti di questo pensiero, ovviamente con posizioni non omogenee, anzi spesso
divergenti e conflittuali (tanto è che saranno proprio gli scontri che tra di loro si susseguiranno a
causare la prima crisi del marxismo), troviamo Karl Kautsky, Eduard Bernstein, Mikail I. TuganBaranovskij, Otto Bauer. Il maggiore teorico tra i tanti revisionisti del pensiero marxiano è
sicuramente Bernstein. Secondo la sua concezione, la rivoluzione proletaria non può che
rappresentare il punto terminale di un processo di evoluzione del capitalismo; la leva fondamentale
di tale progressione è lo sviluppo economico, mentre la coscienza rivoluzionaria è da lui considerata
niente più che il riflesso di tale sviluppo.
Egli attacca l’assunto teorico fondamentale per il marxismo, quello secondo cui esiste la possibilità
di conoscere e dominare l’insieme delle contraddizioni sociali del sistema nella loro genesi e
struttura. Egli ritiene invece che le contraddizioni del capitalismo si attenuano e le crisi scompaiono,
e intende il socialismo un itinerario di autoregolamentazione e razionalizzazione sociale, secondo
una scelta etica, e non come destino necessario e alternativa alle insanabili lacerazioni dello
sfruttamento.
Unitamente a Karl Renner, eminente teorico dell’austromarxismo, Bernstein declina il socialismo
come espansione massima della democrazia liberale e come applicazione conseguente delle sue
forme a tutti gli ambiti della vita sociale, sia in termini di allargamento dei diritti che di controllo
democratico dell’economia.
Bauer sostiene dal canto suo che fino a quando rimane in piedi la proprietà capitalistica, il governo
proletario è costretto a difenderla e appoggiarla, perché in caso contrario tutta la produzione
precipiterebbe nel caos.
Contro l’evoluzionismo di Bernstein e degli esponenti della 2a Internazionale affileranno le penne i
marxisti radicali tra cui Plechanov, Rosa Luxemburg, Parvus e anche Lenin.
Tra chi crede nella necessità di una dittatura del proletariato e chi invece ripone le proprie
aspirazioni nell’evoluzionismo del sistema capitalistico si determinerà una spaccatura insanabile.
A opporsi per primo all’interpretazione meccanicistica del processo rivoluzionario è già lo stesso
Engels, anche se i risultati della sua battaglia si rivelano deludenti. In una lettera indirizzata a Marc
Bloch egli precisa: “Secondo la concezione materialistica della storia il fattore in ultima istanza
determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai
affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore
economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase
vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma anche i diversi momenti della
sovrastruttura… esercitano la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne
determinano la forma in modo preponderante. C’è azione e reazione reciproca di tutti questi
fattori”.
E pure in una lettera a Starkenburg egli ribadisce nuovamente questo concetto ammettendo che da
lui e da Marx i rapporti economici sono sempre stati considerati come l’elemento determinante, ma
giammai come l’unico fattore della storia, e che tali rapporti sono da considerarsi il modo stesso in
cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza e scambiano tra di loro i rapporti.
Negli scritti di Marx e suoi, infatti, non c’è traccia alcuna né di determinismo né di crollo del
capitalismo. Il processo di revisione della teoria del socialismo scientifico è però così forte che lo
stesso “Antidhuring” viene interpretato come una summa filosofica.
Alla morte di Engels si sprigionano in un sol colpo tutte le forze revisioniste fino ad allora latenti e
represse. C’è addirittura chi, come Victor Adler e Conrad Schmidt, sollecita un abbandono del
pensiero marx-engelsiano e invoca un ritorno a Kant. E nel periodo immediatamente successivo si
verifica la scissione della teoria ufficiale della socialdemocrazia, cioè si affermano, da una parte,
l’idealismo kantiano di Bernstein, dall’altra, il naturalismo darwinistico di Kautsky: due prodotti
astratti e complementari della dissoluzione della dialettica rivoluzionaria.
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A quel punto nel movimento si radica la convinzione, propria degli aderenti alla 2a Internazionale,
ma coltivata anche dai comunisti (ancor sino ai giorni nostri), che la teoria marx-engelsiana sarebbe
un’ideologia. Anche se usata nel senso positivo del termine, una tale interpretazione rappresenta
senza alcun dubbio un vero e proprio travisamento. Semmai è il caso di interpretare la teoria della
rivoluzione proletaria come ideologia, questo va riferito non certo al pensiero di Marx e di Engels,
bensì proprio alla grande varietà di interpretazioni che di esso sono state e continuano ad essere
date. In quel calderone che è conosciuto come “marxismo” trovano, infatti, posto le teorie e le
prassi più svariate che nel corso di oltre un secolo hanno contraddistinto le formazioni politiche del
movimento operaio.
C’è chi sostiene che ad avere una grossa responsabilità nell’affermazione del processo revisionista
del pensiero marxiano sia proprio lo stesso Engels, a causa delle interpretazioni che egli ha fornito
dopo la morte del “primo violino”. E rivendica conseguentemente una separazione-distinzione di
quanto i due hanno scritto e teorizzato. Credo sia a questo riguardo il caso di ricordare che se
l’attitudine all’autocritica ha incontrato negli stessi ambienti “marxisti” insormontabili difficoltà, la
pratica di criticare l’operato altrui, all’inverso, non ha conosciuto e non conosce tuttora limiti.
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX la socialdemocrazia tedesca abbandona definitivamente
l’originario orientamento rivoluzionario, perde il suo mordente e la sua influenza politica, mentre
parallelamente si registra un rigoglioso sviluppo dell’organizzazione sindacale. Si ripete cioè anche
in Germania quel processo che anni prima aveva caratterizzato il cartismo e il tradeunionismo
inglese. Le tesi socialdemocratiche continuano a vivere come ideologia, separate dalla pratica del
movimento, dal momento che l’interesse prioritario diviene quello di garantirsi la
compartecipazione alla gestione del sistema democratico rinunciando a realizzare la dittatura del
proletariato. Testimonianza di questo ripiegamento teorico e pratico è il fatto che, agli inizi del
‘900, il partito socialista tedesco, pur vantando milioni e milioni di elettori, stampa appena 2-3 mila
copie delle sue pubblicazioni a leggere le quali sono esclusivamente i quadri dirigenti.
Ai primi del ‘900, il movimento socialdemocratico si divide in tre tronconi: un’ala destra, un’ala
sinistra e un centro costituito da una componente che si sforza di offrire una mediazione al
progressivo scontro che divide le due ali estreme. Questo settore centrale si trova sotto l’influenza
teorica di Kautsky il quale si erige a difensore dell’ortodossia marxista contro il revisionismo di
Bernstein. L’ortodossia di questa componente centrista è però limitata ai temi accademici, mentre la
sua pratica politica risulta dominata dalle tendenze riformiste, occupandosi dello sviluppo concreto
del partito e del sindacato in regime di legalità. Anche Kautsky vede nella vittoria alle elezioni e nel
parlamento la via al socialismo e considera il sindacato un valido ausilio per il raggiungimento di
questo obiettivo.
Ben presto le espressioni politiche che si ispirano alla 2a Internazionale divengono fine a se stesse e
perdono definitivamente il loro originario carattere anticapitalistico. La loro saldezza organizzativa
risulta garantita non più dalla lotta, ma dalla collaborazione di classe e gli apparati burocratici di
partito e sindacali guardano con apprensione a tutte quelle azioni dei lavoratori che possono
sfuggire al loro controllo e mettere a repentaglio l’organizzazione. Invece di favorire lo sviluppo
della coscienza rivoluzionaria, le organizzazioni socialdemocratiche cercano di scoraggiarla per
evitare lo scontro con la classe dominante.
La socialdemocrazia tedesca, che è il maggior partito socialista del mondo, ai primi del ‘900, si
presenta enormemente burocratizzata essendo modellata sulle strutture amministrative statali e
industriali dell’epoca.
Richiamandosi all’autorevolezza del “Manifesto” comunista, i socialdemocratici fanno una
distinzione fra il “programma massimo” e il “programma minimo”. Nell’Europa occidentale, dove
la rivoluzione borghese è un fatto compiuto, il programma minimo perde irrimediabilmente
l’ambizione rivoluzionaria la quale viene idealmente affidata al programma massimo, il quale però
si traduce assai presto in una sorta di carta dei sogni per chi ancora ambisce costruire una società
socialista.
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Agli evoluzionisti torna molto difficile rendersi conto che la riproduzione della forza materiale del
modo di produzione capitalistico determina specifici rapporti sociali ad esso confacenti, e pertanto
sfugge loro l’inevitabilità del permanere, nella prassi, dell’assoggettamento della classe operaia alle
leggi del capitale .
Nel tempo l’economicismo risulterà essere una tendenza del movimento operaio che si forma e si
riforma via via che nuovi strati sociali vengono assorbiti dalla struttura industriale e la cui cultura
risulta subalterna alle leggi e alle compatibilità dell’economia. Una tendenza che porterà non solo a
privilegiare i rapporti economici rispetto alla complessità della realtà sociale e politica, ma che
rinchiuderà il sapere del proletariato nell’angusta ottica della scienza borghese.
Con l’avvento del primo conflitto mondiale si giunge a un ripensamento teorico in via definitiva,
cioè a una revisione delle posizioni marxiste fino allora accettate: alla teoria marxiana del salario si
contrappone la tesi del “salario politico”; alla tesi della vulnerabilità alle crisi del capitalismo, l’idea
di un capitalismo organizzato in grado di prevenirle; alla concezione dello Stato come strumento del
dominio della borghesia, il tentativo di concepire lo “Stato repubblicano come leva del socialismo”.
La visione economicistica della transizione non manca peraltro di produrre nella cultura politica e
nella pratica del movimento una serie di distorsioni che segneranno profondamente il suo destino
fino ai giorni nostri. E’ da ricordare anzitutto che è proprio con la 2a Internazionale che prende
consistenza la tesi della “statalizzazione” dell’economia come via per la realizzazione del
socialismo, in alternativa al concetto marxiano della socializzazione. E poi, che sono proprio le
teorie di Bernstein e di Kautsky a suscitare l’opportunismo parlamentaristico e, di conseguenza, il
fenomeno del trasformismo politico di sinistra.
Infine, sono ancora le pratiche dei socialdemocratici dei Paesi colonialisti europei a dare corpo al
nazionalismo e allo sciovinismo quando decidono di giustificare le guerre di occupazione e di
rapina in nome dei benefici che ne derivano anche alle classi operaie autoctone. Posto di fronte alla
guerra il riformismo si traduce così in “socialismo imperialista”. Lo sciovinismo non è altro che il
corporativismo elevato a livello della nazione. Del resto, già prima della guerra gli Stati imperialisti
sono riusciti a legare al proprio carro gli strati superiori degli operai, cioè quelli con la qualifica,
grazie ai sovrapprofitti realizzati, facendo così breccia nell’insieme della classe operaia.
Infatti, il dibattito che impegna maggiormente la 2a Internazionale verte sul quesito se e in che
misura i socialisti possono lasciarsi coinvolgere nella politica coloniale, ritenuta dai più una
necessità teorica. Alcuni (Bernstein, Van Kol, David, Labriola, Treves e altri) sostengono
l’opportunità di una “politica coloniale socialista”, ossia di una partecipazione attiva dei socialisti
alle imprese coloniali, in modo di alleviare le pene degli “indigeni”. Altri, capeggiati da Kautsky,
preferiscono invece restare pilatescamente fuori dalla contesa. Quando scoppia il conflitto
mondiale, solo in pochi riescono a riaffermare i principi dell’internazionalismo proletario, ed essi
sono il gruppo della sinistra socialista tedesca legato a Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i
bolscevichi russi con a capo Lenin, i serbi, gli “stretti” bulgari e il partito socialista italiano. Di
fronte alle capitolazioni dei partiti operai tedesco e francese, a dire dello stesso Lenin, il Psi
rappresentò una “felice eccezione” nel panorama della 2° Internazionale. Il voto a favore dei crediti
di guerra dei socialisti tedeschi e di quelli francesi segna il momento della piena subordinazione dei
partiti operai alla politica delle rispettive borghesie nazionali. E segna anche la fine della stessa 2a
Intrernazionale.
Durante la prima guerra mondiale, in Europa, milioni di lavoratori votano socialista e la gran parte
delle organizzazioni della classe operaia, i sindacati e molti dei partiti socialisti e socialdemocratici,
sono già ben integrati nel sistema sociale e politico del capitalismo, anzi, costituiscono una specie di
condizione per il funzionamento stesso del processo di accumulazione capitalistica e per il dominio
della borghesia sulla società.
Le conseguenze deleterie dell’atteggiamento rinunciatario e remissivo della 2a Internazionale hanno
caratterizzato le stesse organizzazioni del movimento operaio italiano. A partire dal periodo di De
Pretis, infatti, ad essere investita dal trasformismo non è solamente la sinistra borghese, ma anche
frange della stessa sinistra socialista, seppure in dimensione individuale. Il successivo caso di
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Benito Mussolini rappresenta solo l’episodio più eclatante. A dare poi testimonianza di
opportunismo parlamentaristico sono sia il Psi che la Cgil nel corso del “biennio rosso”. E’ difatti
proprio il loro atteggiamento di sfiducia nel movimento di massa e di subordinazione alle logiche
del sistema a causare la sconfitta degli scioperi torinesi e dell’occupazione delle fabbriche e,
successivamente, a mettere in condizioni la componente comunista di decidere la scissione a
Livorno quale riscatto dell’autonomia del movimento.
A una visione tutta istituzionalista della lotta per il cambiamento e al diffondersi del “cretinismo
parlamentare” si contrappongono inesorabilmente manifestazioni antistituzionaliste radicali che
denotano miopia strategica e incertezza politica e prendono corpo tendenze estremistiche le quali
sospingono il movimento su posizioni minoritarie e settarie, rendendo la sua azione verbalistica e
incapace di dialogare e competere con le altre forze rappresentative della classe operaia. Con
l’inasprimento dei contrasti tra le diverse fazioni si determina così ancora una volta il dissolvimento
di una possibile e necessaria unità del movimento socialista quale condizione per l’affermazione dei
valori e della strategia rivoluzionaria.
3.2 - Il marxismo di Lenin
La teoria della successione dei vari stadi dell’evoluzione storica e dello spontaneismo rivoluzionario
fatta propria dalla 2° Internazionale viene contrastata, tra gli altri, da Lenin e messa in crisi prima
dall’esperienza rivoluzionaria russa del 1905 e poi, in maniera decisa, dalla rivoluzione bolscevica
dell’ottobre 1917.
Con Lenin, che è un revisionista della teoria marx-engelsiana e, per alcuni studiosi, il primo
saccheggiatore della pietra tombale del teorico di Treviri, il marxismo entra in una nuova fase del
suo sviluppo. All’opposto dei Kautsky e dei Bernstein, egli esalta il ruolo del soggetto
rivoluzionario e, in ragione della situazione storico-geografica in cui si è formato ed è chiamato ad
operare, mostra di non dare importanza determinante all’influenza che le condizioni materiali e
culturali hanno sui processi di cambiamento.
Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin, nasce nel 1870. Suo padre è un ispettore scolastico e la
famiglia è quella tipica della borghesia intellettuale. Essendo stato battezzato, da piccolo frequenta
la chiesa e fa il chierichetto, ma con il progredire degli anni rompe con questa tradizione. A ventuno
anni si laurea in giurisprudenza a Pietroburgo, diventa un fervente discepolo di Plechanov e si
iscrive a un circolo marxista di quella città. Da subito s’impegna a diffondere le teorie di Marx ed
essendo convinto della necessità dello sviluppo capitalista in Russia, si scontra sia con il populismo
sia con la pratica del terrorismo nella lotta politica condotta dalle avanguardie russe di quel tempo,
fra i cui esponenti vi è anche suo fratello maggiore Aleksandr.
Per anni Lenin subisce la reclusione carceraria e il confino ed è costretto all’esilio dal potere zarista.
Negli anni fra il 1907 e il 1912 collabora al lavoro direttivo del Bureau della 2a internazionale
dando prova della sua ottimistica fiducia nell’avvenire dell’organizzazione mondiale del
movimento. L’abisso che lo dividerà dall’Internazionale sarà scavato dalla guerra mondiale.
Nel ’97 sposa Nadezda Krupskaja, ma il suo più grande amore sarà Inessa Armand, una militante
francese conosciuta a Parigi. Per ben quattro volte i suoi nemici tentano di ucciderlo e in due di
queste occasioni, pur non riuscendo nell’impresa, i killer gli compromettono la salute. Dai primi del
’22 è paralizzato alle gambe e al braccio destro e nel marzo del ‘23 perde l’uso della parola. Dopo
l’ultimo attentato, infatti, egli risulta affetto da una malattia nervosa che lo porterà alla morte a soli
54 anni.
La sua cultura rispecchia le svariate origini del suo ambiente familiare e sociale. Un suo biografo
individua ascendenti tedesche, ebraiche, protestanti-ortodosse, calmucche e russe sulla sua
formazione. Per il suo notevole “sapere” e per la sua capacità dialettica, già prima dei trent’anni
viene soprannominato “il vecchio”. Si dice fosse convinto di saperla più lunga di tutti e che
dedicasse poco tempo alle opinioni altrui. Sta di fatto, però, che quando egli parla, fa lavorare la
mente dei suoi ascoltatori, sa cogliere nel concreto i pregi e gli errori delle persone, stimandole per
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quello che sono, senza che simpatie e antipatie, peraltro in lui vivissime, influenzino le sue azioni
politiche.
Lenin è senza dubbio un insuperabile stratega e tattico della rivoluzione, anche se non manca di
compiere approfondite analisi e di formulare fondamentali teorie. Piuttosto che un teorico
preoccupato di studiare le leggi del movimento della storia e della società capitalistica, anche se
pure su questo terreno il suo contributo è grande, egli si rivela soprattutto un uomo d’azione.
Considera essenza del marxismo “l’analisi concreta della situazione concreta” e uno dei suoi
principi è che la prassi sta alle origini della teoria, così come la teoria fonda la prassi.
“Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualcosa di concluso e di intangibile –
sostiene – al contrario, siamo convinti che essa abbia posto solamente le pietre miliari di una
scienza che i socialisti devono sviluppare in tutte le direzioni, se non vogliono rimanere avulsi dalla
vita”. E ritiene che la forza del pensiero marxiano stia proprio nel fatto che esso riesce a far suo
ogni valore autentico che si è manifestato nello sviluppo millenario dell’umanità. Perciò, con
grande coerenza, fa suo ogni risultato delle scienze naturali senza mai fare distinzioni su chi ne è
stato l’artefice e senza mai ricorrere a un suo uso strumentale. Egli, difatti, riconosce il valore
dell’opera di filosofi, di scrittori e di letterati che non appartengono all’area marxista o che con essa
non hanno alcuna relazione.
Si oppone invece con determinazione ai tentativi di ricavare conclusioni idealistiche dal
rivolgimento che si verifica nelle scienze. Commenta a riguardo di questo aspetto: “La materia
scompare: ciò significa che scompare il limite al quale finora si arrestava la nostra conoscenza
della materia, significa che la nostra conoscenza si approfondisce; scompaiono certe proprietà
della materia che prima ci sembravano assolute, immutabili, primordiali: impenetrabilità, inerzia,
massa, ecc. e che ora si dimostrano relative, inerenti soltanto a certi stati della materia… Anche
l’essenza delle cose o la sostanza sono relative… L’elettrone non è meno inesauribile dell’atomo, la
natura è infinita, ma esiste infinitamente”. “La coscienza del carattere non assoluto delle verità
scientifiche è la prova più persuasiva della validità della concezione marxista… Il materialismo
dialettico insiste sul carattere approssimativo, relativo di ogni teoria scientifica sulla struttura
della materia e le sue proprietà”.
Lenin conferisce dunque al “suo” materialismo la forma più antidogmatica possibile e si propone di
formulare una visione dialettica del mondo in ogni suo aspetto.
“Il mondo – sostiene ancora – è un complesso di sensazioni, le qualità sensoriali di luce e colore,
temperatura e consistenza ecc. sono i veri e propri elementi primari del mondo”.
“Per ogni scienziato non sviato dalla filosofia professorale, come per ogni materialista, la
sensazione è realmente il legame diretto della coscienza del mondo esterno, è la trasformazione
dell’energia dello stimolo esterno in un fatto di coscienza”.
Come Engels, egli ritiene che la stessa storia dell’umanità muta continuamente la sua forma in
senso progressivo, anche se talvolta è sospinta da un moto regressivo.
Questi miei fugaci riferimenti al pensiero scientifico di Lenin hanno lo scopo di fornire la
testimonianza di come, dal punto di vista della concezione del mondo e della vita, egli sia in piena
sintonia con Marx e con Engels. Assumendo però l’eredità di Marx, non come corpo dottrinario
inerte da conservare ma come metodo di ricerca nella realtà in movimento, come lui stesso precisa,
va oltre la stessa teoria marx-engelsiana e dà corpo a un revisionismo che rispetto alla 2a
Internazionale è considerato “di sinistra”. Nella sua elaborazione, infatti, non mancano aspetti che
sono complementari e innovativi rispetto all’analisi compiuta dai fondatori del socialismo
scientifico.
Analizzando il processo di produzione capitalistica, egli compie una distinzione tra consumo
produttivo e consumo individuale e dimostra la possibilità di continuità e insieme il carattere
progressivo del capitalismo. L’esistenza di un mercato interno – sostiene – non è legata a quella del
consumo individuale, o almeno non alla sua espansione e all’elevamento del tenore di vita delle
masse popolari, ma piuttosto all’esistenza di settori che producono mezzi di produzione. E la
presenza di un consumo per la produzione di mezzi di produzione fa sì che si accumulino tecniche e
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conoscenze produttive. Sulla base di questa scissione, egli ritiene che il capitale ponga
inevitabilmente un limite al suo stesso processo. La crisi non nascerebbe dal sottoconsumo e dalla
sovrapproduzione, come ritengono tra gli altri i populisti, ma piuttosto dalla separazione tra
consumo individuale e consumo produttivo. L’eccedenza nella forma di sopravalori non più
valorizzabili, ovvero di beni produttivi tendenzialmente indipendenti e in contrasto con il consumo
individuale, è fonte di spreco dal momento che produce beni che non si consumano.
Lo stesso sistema del lavoro – a suo giudizio – non è riducibile alla classe operaia, bensì, la forma
sociale dell’accumulazione capitalistica fa sì che al processo rivoluzionario siano non solo
interessati, ma indispensabili per le loro funzioni e la loro domanda di produttività anche i ceti non
operai.
In sintonia con la Luxemburg, egli considera il fenomeno dell’ineguaglianza di sviluppo delle forze
produttive su scala mondiale come un fenomeno transitorio. Del resto, nell’ambito
dell’interpretazione del pensiero marxista dell’epoca appare scontato che la diffusione delle
tecniche produttive di tipo capitalistico avrebbe portato a una riduzione progressiva delle differenze
tra i livelli di sviluppo economico dei diversi paesi. Anche se una tale concezione non è affatto
rintracciabile negli scritti di Marx .
Un importante contributo teorico lo fornisce poi quando compie l’analisi dell’imperialismo.
Egli documenta come un “pugno di nazioni più ricche e privilegiate” si siano trasformate in
“parassiti sul corpo della rimanente umanità”, cioè in sfruttatori collettivi determinando una
divisione del mondo in nazioni “sfruttatrici” e nazioni “proletarie”. Conseguentemente, “il
proletariato europeo viene in parte a trovarsi in condizioni tali per cui tutta la società non viene
mantenuta col suo lavoro, ma col lavoro degli indigeni quasi schiavizzati delle colonie”. E di
questo stadio supremo del capitalismo individua i caratteri seguenti:
1) costituzione di monopoli; 2) formazione del capitale finanziario quale risultato della fusione del
capitale bancario con il capitale industriale); 3) esportazione di capitali come fattore predominante;
4) creazione di unioni monopolistiche che si spartiscono il mondo;
5) fine della spartizione del globo tra le grandi potenze capitalistiche.
Con “L’imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin recupera una corretta analisi delle nuove
contraddizioni del capitalismo e rinnova una pratica che è stata ormai abbandonata dalla 2a
Internazionale. Considera la fase imperialistica come quella in cui il capitalismo diventa
monopolistico, perciò parassitario e morente. A proposito delle sue prospettive, nel 1920, egli
polemizza a fondo con le posizioni kautskyane che prevedono un’inevitabile fase successiva
all’imperialismo e non esita a definirle “l’abiura di tutti i principi rivoluzionari del marxismo difesi
dallo stesso Kautsky per decenni”, come l’equivalente di un vero e proprio tradimento politico
inteso a disarmare il proletariato e a privarlo della necessaria determinazione nella lotta
rivoluzionaria per l’abbattimento del capitalismo.
L’elaborazione leniniana affronta altri aspetti della lotta politica, tra cui quelli riguardanti lo Stato e
il partito: problemi questi che tratterò più avanti in altri capitoli.
Il complesso delle sue teorie influenzerà l’azione di una parte considerevole del movimento operaio,
in primis la componente comunista e, con il sopravvento di Stalin, il suo pensiero, associato a
quello dei teorici del socialismo scientifico, prenderà il nome di “marxismo-leninismo”.
Sin dall’inizio del suo impegno politico Lenin conduce una battaglia serrata su due fronti: da un
lato, si oppone all’evoluzionismo opportunista, dall’altro, combatte l’utopismo anarchico; in
sostanza, dichiara guerra sia all’opportunismo di destra che al rivoluzionarismo piccolo-borghese di
sinistra. E si dà da fare per conquistare ai bolscevichi piena cittadinanza nella 2a Internazionale,
convinto che sia questo il modo più efficace per battere l’opportunismo di cui è affetta la
socialdemocrazia. Almeno sino allo scoppio della prima guerra mondiale, egli ritiene possibile
contrastare questa tendenza operando dall’interno dell’organizzazione.
Mentre considera tutti i riformisti di destra degli eretici e dei traditori della classe e della causa
proletaria, ritenendoli colpevoli non di un errore intellettuale ma di ignominia morale, non concede
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alcuna tregua al populismo che reputa il più rigoroso teorizzatore della tesi economicista dal
momento che questo movimento considera ineluttabile lo sviluppo borghese in Russia.
A fine secolo individua il carattere piccolo borghese delle rivendicazioni contadine e a riguardo di
questo mondo scrive: “Ad onta delle teorie invalse da noi nell’ultimo mezzo secolo, i contadini
russi membri dell’obscina non sono gli antagonisti del capitalismo, ma al contrario, la sua base più
profonda e più salda”.
Nel 1903 in “Che fare?”, definisce l’anarchismo “una punizione per gli errori di opportunismo da
noi compiuti”.
Egli rifiuta sia la prospettiva del “grande crollo” sia quella dell’evoluzione pacifica. Vi è in lui una
costante tendenza a far prevalere la valutazione politica sulla realtà dei rapporti economici ed è
proprio in forza di questa sua impostazione che respinge e combatte il determinismo economico e la
concezione evoluzionistica propri della 2° Internazionale.
La storia, a suo modo di vedere, non è un processo posto in atto da un impersonale necessità, ma la
risultante delle lotte e delle azioni umane.
E questo suo modo di intendere il rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra economia e politica, fa
sì che la funzione della soggettività del combattente rivoluzionario assuma in lui un primato rispetto
alle condizioni storiche materiali della società da trasformare. Coloro che hanno accusato Lenin di
giacobinismo hanno fatto riferimento proprio a questa sua dottrina filosofico-politica. Ed è in forza
di questa visione delle cose che nel 1917 egli trasforma l’insurrezione del popolo russo in
rivoluzione socialista.
Come vedremo, mentre a Marx viene attribuito il concepimento del passaggio dal capitalismo al
socialismo in un senso molto rigoroso, cioè il cambiamento avrebbe dovuto intervenire dapprima
nei Paesi più sviluppati, Lenin teorizza che la rivoluzione socialista dei Paesi semi-coloniali (il cui
miglior esempio per lui è la Cina) avrebbe preceduto le rivoluzioni socialiste europee. Egli elabora
cioè il principio dell’”anello più debole della catena capitalistica” secondo cui la transizione al
socialismo non sarebbe più da prospettarsi come una serie di rivoluzioni nei centri metropolitani,
bensì nelle realtà in cui il sistema capitalistico non ha conosciuto ancora il pieno sviluppo. E scrive:
“L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne
risulta che è possibile la vittoria del socialismo all’inizio in alcuni paesi capitalistici o anche in un
solo paese capitalistico, preso separatamente”.
Nei Paesi europei, pertanto, la rivoluzione viene da lui concepita a scadenza più dilazionata nel
tempo e considerata come fattore essenziale ai fini del consolidamento stesso del processo di
trasformazione socialista avviato nelle realtà “deboli”, cioè ai margini dello sviluppo.
Proprio per questa sua concezione Lenin è stato considerato dalla stragrande maggioranza dei
teorici marxisti a lui posteriori un politico straordinariamente innovatore e spregiudicato, addirittura
il più grande politico del XX secolo. In effetti, se si pensa alle difficoltà che egli ha incontrato ed è
stato capace di superare, la sua grandezza è innegabile. Lenin è di fatto stato il primo dirigente
politico del movimento operaio a prevedere e sfruttare la possibilità di rompere la linearità dello
sviluppo capitalista.
Su di lui, quale artefice della prima rivoluzione socialista che sconvolge la storia del ventesimo
secolo, si è detto e si è scritto molto. I suoi estimatori ne hanno glorificato l’opera, spesso in
maniera acritica; i suoi detrattori non hanno esitato a demonizzarlo. C’è chi lo considera fedele
esecutore del pensiero marxiano e chi invece ritiene che il suo contributo alla storia sia di un ordine
diverso da quello del pensatore di Treviri; c’è chi gli attribuisce eccezionali capacità dialettiche e
organizzative e chi, al contrario, lo accusa di dogmatismo e di cesarismo; chi vede in lui l’artefice di
una svolta emancipatrice epocale nella storia dell’umanità e chi invece lo vuole responsabile dei
crimini più efferati e di aver avviato il movimento comunista su una strada senza uscita.
In effetti, non si può non riconoscere che Lenin è tra i pochi personaggi storici che sono riusciti ad
accordare in modo sobrio i propri sogni con la realtà. Egli ha avuto l’abilità di governare i moti
insurrezionali della Russia del ’17 e tradurli in un progetto rivoluzionario che ha segnato nel
profondo la storia del movimento operaio, e nel compiere questa impresa ha dimostrato di non
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essere affatto contaminato né dalla retorica né dall’utopismo, ma di possedere invece grandi doti di
realismo. Non per nulla l’opera sua ha esaltato le classi subalterne e ha fatto tremare i palazzi del
potere di tutto il mondo. Ed è significativo che ancora oggi ci sia chi continua a vivere l’esempio
che egli ha dato come un incubo.
Mentre metterò in risalto a tempo debito quelli che a mio avviso rappresentano i “buchi neri” del
leninismo, qui mi preme di chiarire che, pur convinto che la teoria e l’azione del capo dei
bolscevichi presentino tare di non poco conto, resto del parere che la sua opera sia da considerarsi
senza alcun dubbio un contributo fondamentale al processo di emancipazione del movimento
operaio e socialista la cui importanza non si esaurisce nella rivoluzione d’ottobre. Lenin è stato e
rimane un precursore dell’emancipazione umana. E nel considerare la sua opera occorre non cadere
nell’errore di confonderla con il marxismo-leninismo di stampo staliniano.
Il suo agire ha preso le mosse dai processi sociali sin dal suo esordio politico.
Quando, nel 1903, il Partito Operaio Socialdemocratico Russo si divide tra bolscevichi e
menscevichi, e i primi definiscono il loro programma politico, la rivoluzione borghese non è ancora
matura in Russia. In quel Paese esiste ancora il villaggio comunitario, cioè il “mir”, che assegna le
terre da coltivare, organizza il lavoro, amministra la giustizia al suo interno, regola i rapporti con il
latifondista e con lo Stato. Gli stessi populisti vedono rappresentata in esso l’idea socialista della
“Comune” e ritengono impossibile, a causa della ristrettezza del mercato, che nel loro Paese possa
svilupparsi il capitalismo. Essi si richiamano a Marx in modo strumentale e riservano agli aspetti
economici scarso interesse.
Nel movimento dei “giovani russi”, che attaccano frontalmente le vecchie autorità e le antiche
verità, regna un’atmosfera di tensione intellettuale forse unica nel suo genere. E questo clima dà
senz’altro forza alla nascente organizzazione socialista.
Già al 2° congresso del partito Lenin dichiara: “La rivoluzione russa può vincere con le sue proprie
forze”, anche se poi precisa che “essa non può in alcun caso conservare e consolidare con le
proprie mani le sue conquiste… non può ottenere questo se in Occidente non ci sarà un
rivolgimento socialista”. Il suo convincimento circa l’importanza fondamentale e decisiva del ruolo
della soggettività del rivoluzionario rispetto alle condizioni materiali e culturali in cui esso opera, si
evidenzia dunque assai presto.
La contraddizione tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria, in Russia, esplode nel corso
dell’insurrezione del 1905. E’ in occasione di questo primo tentativo rivoluzionario che egli
aggiusta il tiro dichiarando che come “marxisti dovremmo sapere che non c’è, e non ci può essere,
altra via che conduca alla vera libertà degli operai e dei contadini al di fuori di quella della libertà
borghese e del progresso borghese”. E contemporaneamente ribadisce che saranno i lavoratori
europei a insegnare a quelli russi “come si fa… e noi insieme con loro faremo la rivoluzione
socialista”. Puntualizza anzi: “La vittoria nell’imminente rivoluzione democratica ci consentirà di
compiere un gigantesco balzo in avanti verso la nostra meta socialista, di liberare tutta l’Europa
dal giogo gravoso di una potenza militare reazionaria e di aiutare i nostri fratelli a marciare verso
il socialismo con passo più spedito”.
Manca ancora più di un decennio all’appuntamento con l’”Ottobre rosso”, e già Lenin manifesta
fermo e integro il convincimento che a determinare i processi storici è anzitutto l’azione e la volontà
degli uomini.
Le circostanze che a suo modo di vedere renderebbero possibile la rivoluzione in Russia sono così
riassumibili: l’esistenza di una classe contadina più rivoluzionaria che altrove; un assolutismo (lo
zarismo) più arretrato che in altri Stati; la confusione ingenerata dalla guerra col Giappone e le
drammatiche conseguenze della sconfitta subita dalle classi subalterne; il sostegno delle nazionalità
oppresse; l’esistenza di partiti rivoluzionari meglio organizzati e dotati di maggior chiarezza
ideologica; infine, una situazione internazionale più favorevole dalla quale egli deriva
l’impossibilità di un intervento dall’esterno per salvare lo zarismo. Data l’insussistenza della
borghesia e il limitato sviluppo del capitalismo, egli avverte l’esigenza dell’assunzione in prima
persona da parte del proletariato dell’obiettivo di realizzare una costituzione democratico-borghese.
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E in questo spirito insiste perché venga dato corso a un “indottrinamento intensivo delle masse
popolari utilizzando le stamperie di Stato”, venga rivendicata “la completa nazionalizzazione della
terra” (ratificando le azioni dei contadini) e venga operata una “immensa espansione delle forze
produttive”, al fine di favorire “un gigantesco sviluppo del progresso capitalistico”.
Nel portare avanti questi suoi propositi rivoluzionari Lenin incontra l’opposizione di Plechanov e di
Martov. Questi sono convinti che una prematura ascesa al potere sull’onda dell’entusiasmo
proletario, i socialdemocratici o sarebbero stati forzati a introdurre misure premature di carattere
socialista, e a provocare così inevitabilmente una controrivoluzione borghese, oppure, come Engels
aveva previsto, sarebbero diventati gli esecutori involontari dell’”altra classe” e avrebbero quindi
disilluso il proprio seguito.
La rivoluzione del 1905, come è risaputo, si conclude nel sangue, ma Lenin continua a perseguire
ostinatamente il suo disegno con estrema lucidità. Nel corso degli anni immediatamente successivi,
precisa che la rivoluzione russa è “borghese nel senso del suo contenuto economico sociale. Il che
significa: i compiti del rivolgimento che sta avvenendo in Russia non escono dall’ambito della
società borghese”, e che”neppure la più piena vittoria dell’attuale rivoluzione, cioè la conquista
della repubblica più democratica e la confisca di tutta la terra dei proprietari da parte dei
contadini, intacca le fondamenta dell’ordine sociale borghese” (1907). Poco dopo, però (1908),
sostiene che “la vittoria della rivoluzione borghese è da noi impossibile come vittoria della
borghesia”.
Se fino al 1914 egli è convinto della necessità che in Russia si realizzi una rivoluzione agraria e
borghese, mentre esclude la possibilità di una rivoluzione socialista, quando scoppia la prima guerra
mondiale cambia parere e, sciogliendo le riserve che ha avuto fino ad allora, ritiene che gli
sconvolgimenti sociali necessariamente provocati dal conflitto avrebbero portato alla rivoluzione
generale. “La rivoluzione democratica borghese in Russia oggi non è più soltanto il prologo, ma
una parte integrante della rivoluzione socialista in Occidente”, afferma.
Quando la stragrande maggioranza dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, nei rispettivi
parlamenti nazionali, votano i “debiti di guerra”, solo poche organizzazioni socialiste risultano
immuni dalla malattia dello sciovinismo opponendosi con determinazione alla rinuncia di una
visione internazionalista della lotta politica e alla svendita della propria autonomia. L’imporsi dello
sciovinismo ha l’effetto della famosa goccia che fa traboccare il vaso: all’interno della 2a
Internazionale scoppiano le divergenze ormai annose e insanabili e si determina la rottura. Lenin
considera ormai finita ogni possibilità di lottare con successo contro l’opportunismo nella 2a
Internazionale e rompe decisamente con essa. Dapprima tenta di riunire i due tronconi (quello
socialdemocratico e quello comunista) che nei movimenti operai dei vari Paesi si oppongono alla
guerra, organizzando la conferenza di Zimmerwald (1915) e poi l’incontro a Kienthal (1916); fallito
il tentativo non gli resta che organizzare la rottura.
Lo scoppio della prima guerra mondiale crea una situazione completamente nuova. Mentre i destini
della rivoluzione russa si intrecciano strettamente allo sviluppo della rivoluzione socialista nei Paesi
capitalistici dell’Europa centrale e occidentale, il movimento socialista si scompone,
compromettendo quella lotta su scala europea cui egli lega il destino di un possibile e auspicabile
sbocco rivoluzionario di natura socialista nella terra degli zar.
3.3 – I bolscevichi e la rivoluzione
Nel gennaio del 1917 la Russia si trova a fronteggiare una crisi alimentare che getta le classi
popolari in una situazione catastrofica. Si determina non tanto una mancanza di prodotti, quanto
invece una situazione d’incuria e d’incapacità delle istituzioni governative di organizzarne la
distribuzione e di impedire gli episodi di speculazione e di concussione che fioriscono ovunque.
Oltre agli alimenti, scarseggiano anche le materie prime, il carbone anzitutto. Altrettanto disastrosa
è la situazione al fronte dove l’elevata probabilità di essere ammazzati e le pessime condizioni di
equipaggiamento portano alla diserzione di un milione e mezzo di soldati.
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In febbraio, a Pietrogrado avviene una rivolta di popolo e le truppe si ammutinano: è la rivoluzione.
Per quattro giorni operai, soldati e contadini protestano contro la guerra e rivendicano pace, pane e
terra. La sommossa è spontanea, non esiste alcuna direzione politica del movimento. Il regime
autocratico è nell’impossibilità e incapace di garantire i generi alimentari alla popolazione urbana e,
di fronte alla ribellione di massa allo zar Nicola II, non resta che l’abdicazione. Viene sostituito da
un governo provvisorio liberale che si dimostra pure esso incapace di governare la situazione.
Gli stessi partiti che s’ispirano al movimento operaio si trovano spiazzati dalla mobilitazione
popolare e cercano di organizzare i soviet che stanno crescendo spontaneamente ovunque e ad essi
affidano il compito di organizzare e orientare il movimento. Decisivo è il ruolo svolto dal soviet di
Pietrogrado nel dirigere la rivolta.
Lenin, che in marzo non è in Russia ammetterà onestamente in tempi successivi che “se non ci fosse
stata la guerra, la Russia avrebbe potuto vivere anni e persino decenni senza una rivoluzione
contro i capitalisti”. Dal canto suo Trotzkij, che ancora milita nelle file mensceviche, pur ritenendo
che“l’epoca nella quale stiamo ora entrando sarà la nostra epoca, cioè l’epoca della rivoluzione
proletaria”, ancora alla vigilia dell’esplosione dei moti popolari, considerava un’eventuale
rivoluzione russa vittoriosa, ma isolata, come un “aborto storico”.
La rivoluzione russa di febbraio avviene nel mentre che l’espressione politica del movimento
proletario e contadino è divisa in due tronconi: i menscevichi da una parte e i bolscevichi dall’altra.
Già a partire dai primi del secolo, infatti, i primi accusano i secondi di voler andare oltre lo schema
evoluzionista di Marx, in quanto si propongono di organizzare, con metodi cospirativi, una
rivoluzione proletaria per la quale mancano, a loro giudizio, le condizioni oggettive. I bolscevichi, a
loro volta, incolpano i menscevichi di considerare la rivoluzione “un processo di sviluppo storico”
anziché un avvenimento che deve essere coscientemente organizzato sulla base di un piano
preordinato.
I menscevichi rappresentano una serie di idee che sono familiari al socialismo dell’Europa
occidentale, perseguono cioè l’opposizione legale, il progresso attraverso le riforme anziché tramite
la rivoluzione, privilegiano il compromesso e la cooperazione con gli altri partiti politici, fanno
l’agitazione economica per mezzo dei sindacati. Raccolgono i loro seguaci tra gli operai più
qualificati e organizzati, tra i tipografi, i ferrovieri e i lavoratori delle acciaierie dei moderni centri
industriali del Sud. I bolscevichi invece ritengono possibile sconfiggere lo zarismo solo attraverso la
rivoluzione e hanno la loro base nei lavoratori relativamente poco qualificati delle grandi industrie.
A essere convinti che, con l’avvento del primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa può
rappresentare il prologo della rivoluzione sociale, sono però non solo i bolscevichi, ma gli stessi
Trotzkij e Kautsky i quali peraltro sono su posizioni politiche assai distanti da quelle di Lenin.
Nelle settimane immediatamente successive alla caduta dello zar, il comportamento di molti degli
stessi bolscevichi fa supporre che anche tra di loro sia diffuso il dubbio che il livello di sviluppo
economico della Russia renda impossibile in quel momento una rivoluzione socialista e siano perciò
consapevoli di trovarsi nel mezzo di una rivoluzione democratico-borghese.
Lenin, che negli anni precedenti aveva pure teorizzato un processo di lunga durata per la conquista
del potere, a febbraio incomincia a prospettare una possibile presa immediata del “palazzo”, dal
momento che il nuovo governo borghese si dimostra indisponibile a far uscire il Paese dallo stato di
guerra in cui si trova e appare non in grado di fronteggiare il caos economico provocato dalle scelte
del regime zarista, tanto meno è intenzionato a soddisfare le esigenze fondamentali del popolo.
Sta di fatto che dopo l’abbattimento dell’autocrazia, dai bolscevichi vengono create la “guardia
rossa”, la milizia popolare e le squadre operaie. Quando in tutta la Russia sorgono numerosi soviet e
diventano i più importanti organi di potere politico, la loro influenza tra la popolazione supera
quella delle stesse autorità governative. E la presenza diffusa di questi nuovi soggetti politicosociali fa sì che nel Paese venga a determinarsi una dualità di poteri: il governo provvisorio da una
parte, e appunto i soviet, in particolare quello di Pietrogrado, dall’altra.
Quando in aprile Lenin rientra dalla Svizzera attraversando la Germania, il cui governo non solo gli
concede il permesso, ma, nella speranza di trarre vantaggi sul piano militare, lo aiuta a tornare in
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patria, egli proclama le famose “tesi di aprile” la cui sostanza può esser racchiusa nella parola
d’ordine “tutto il potere ai soviet”. Sostiene, tra l’altro, che “il partito proletario non può basare le
proprie speranze sulla comunanza d’interessi con la classe contadina“ e fa presente la necessità di
lottare “per portare il contadino dalla nostra parte”, essendo peraltro convinto che “in una certa
misura, esso rimane consapevolmente dalla parte dei capitalisti “. E indica la tattica che i
bolscevichi devono seguire: “I soviet, prendendo tutto il potere, potranno ancor oggi – ed è
probabilmente l’ultima occasione favorevole – assicurare lo sviluppo pacifico della rivoluzione,
l’elezione pacifica dei deputati da parte del popolo, la lotta pacifica dei partiti in seno ai soviet, la
verifica pratica del programma dei vari partiti, il passaggio pacifico del potere da un partito
all’altro”. A suo giudizio, devono essere incoraggiate e utilizzate le aspirazioni di libertà della
borghesia, anche se non vi si può fare affidamento nella lotta decisiva. Il proletariato e i contadini,
congiuntamente, dovrebbero sostituirla nella costruzione rivoluzionaria di un ordine democratico
costituzionale. E intendendo sfruttare le lotte contadine contro l’assolutismo, egli cerca di impedire
che questa classe diventi la spalla della borghesia attraverso l’affermazione della piccola proprietà.
Una tale scelta – precisa – è da intendersi non come volontà di “infrangere i limiti della rivoluzione
democratico-borghese”, bensì come la possibilità di rompere la catena della reazione interna e
internazionale. Con questa linea politica determina una svolta sul piano delle alleanze negli indirizzi
dei bolscevichi i quali invece, sotto la guida di Kamenev, Zinov’ev e Stalin, hanno sostenuto, fino a
quel momento, il governo provvisorio, nonostante questo fosse impegnato a continuare la guerra e
si dimostrasse incapace di fare le riforme. Un governo, oltretutto, che in pochi mesi ha subito ben
tre rimpasti.
Le “tesi di aprile” di Lenin vengono però respinte dal comitato centrale del partito. Come ricorda
Trotzkij in “Storia della rivoluzione russa”, il partito bolscevico nel ’17 si divide e si separa dalla
sua leadership a più riprese.
Da maggio il governo provvisorio comprende anche i socialisti rivoluzionari e i menscevichi, ma il
loro coinvolgimento al potere anziché contribuire a risolvere i gravi problemi del Paese, accentua il
processo di degenerazione dell’apparato statale. I posti di funzionari che fino ad allora erano stati
riservati di preferenza agli ultrareazionari, diventano bottino dei cadetti e degli stessi menscevichi e
socialisti rivoluzionari. In tutte le amministrazioni centrali e locali le riforme risultano bloccate e
mentre l’economia va a rotoli, le condizioni di vita della popolazione diventano sempre più
insostenibili. Anche in dipendenza di questa situazione, da piccola pattuglia di qualche migliaio di
unità che erano in primavera, i bolscevichi diventano un esercito di 250 mila unità: un progresso
quantitativo del movimento che è possibile anche grazie ai finanziamenti che esso riceve dai
tedeschi, i quali fanno di tutto per creare problemi al governo russo. I bolscevichi sono così in grado
di pubblicare una quarantina di giornali, di comperare alcune stamperie e di garantire gli stipendi a
migliaia di rivoluzionari di professione.
Ancora a luglio Lenin punta sulla fine della guerra proponendo una “pace democratica” e confida
nella rivoluzione proletaria in Europa. Quando però un gruppo di allievi ufficiali, con la complicità
dei socialisti, invade e distrugge gli uffici della “Prava” e il governo provvisorio dà inizio all’arresto
degli esponenti bolscevichi, egli compie una seconda e decisiva svolta: alla via pacifica contrappone
la via insurrezionale. Da quel momento egli è costretto di nuovo alla clandestinità. Data la
situazione, e preso atto del collegamento dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi con
l’imperialismo anglo-francese, si convince che la classe operaia russa non può restare nell’ambito
dell’alleanza con i partiti democratici piccolo-borghesi, e conseguentemente nel quadro della
dittatura democratica degli operai e dei contadini, ma ritiene che a questo punto si debba
necessariamente passare alla fase della rivoluzione, quella appunto della dittatura del proletariato.
Solo questa scelta, a suo avviso, può consentire il raggiungimento di una pace antimperialista e
garantire una soluzione ai problemi del Paese.
In agosto, quando si celebra il sesto congresso del partito, Lenin si trova ancora in clandestinità.
L’assise prende in esame, tra l’altro, i problemi finanziari e chiede l’immediata sospensione di
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nuove emissioni di carta moneta, rivendica varie riforme fiscali, tra cui una tassa sulla proprietà,
forti imposte indirette sui generi di lusso e una riforma dell’imposta sul reddito.
La situazione però si aggrava e al governo del Paese viene chiamato il socialista-rivoluzionario
Kerenskij.
Di fronte a questa novità la strategia di Lenin resta quella di abbattere il governo provvisorio per
passare il potere ai soviet dando così corso a una lotta politica fra i partiti per la direzione degli
stessi. Scrive infatti al proposito in ”I compiti della rivoluzione”: “La Russia è un paese di piccola
borghesia. L’immensa maggioranza della popolazione appartiene a questa classe. Le sue
oscillazioni tra la borghesia e il proletariato sono inevitabili. La causa della rivoluzione, cioè la
causa della pace, della libertà, della consegna delle terre ai lavoratori avrà assicurata una vittoria
facile, pacifica, rapida, tranquilla, solo se la piccola borghesia si unirà al proletariato… noi
dobbiamo fare tutto il possibile per assicurare una ‘ultima’ probabilità di sviluppo pacifico della
rivoluzione, esponendo il nostro programma, mettendone in luce il carattere generale, popolare,
dimostrando che esso soddisfa completamente gli interessi e le rivendicazioni della immensa
maggioranza della popolazione”. Essendo però la maggioranza dei soviet in mano ai socialisti
rivoluzionari e ai menscevichi, egli fa un compromesso con Kerenski per arginare le spinte
controrivoluzionarie e contemporaneamente invita il partito a preparare l’insurrezione popolare.
Un mese prima della presa del Palazzo d’Inverno, Lenin si trova di nuovo contro la maggioranza
del Comitato centrale del partito guidata da Zinov’ev e Kamenev. Contro gli è anche Stalin che gli
censura degli articoli. Egli viene addirittura messo nelle condizioni di minacciare le dimissioni dal
gruppo dirigente e proclamare direttamente alle masse le sue direttrici di lotta.
La crescente indignazione della popolazione per lo stato di grande disagio in cui è costretta a vivere,
induce il governo a impiegare la forza pubblica per impedire l’insurrezione e, per farlo nel modo
più efficace, il socialista-rivoluzionario Kerenskij affida la direzione delle rappresaglie a esponenti
militari già tristemente famosi per aver aggredito quei soviet degli operai e dei soldati che si erano
contrapposti ai soviet dei contadini filo governativi. Ma neppure con la repressione Kerenskij riesce
a venire a capo della situazione di generale caos.
Quando in settembre si verifica la rottura tra il governo e il comandante in capo dell’esercito, il
generale Lavr Kornilov, allorché questi tenta il colpo di Stato, Lenin viene a trovarsi nella
condizione di dover scegliere tra la controrivoluzione, e il conseguente ripristino del regime zarista
che avrebbe inevitabilmente portato alla soppressione dei soviet, o la conquista violenta del potere
da parte degli stessi istituti di rappresentanza popolare. “La situazione è chiara – egli precisa – o la
dittatura di Kornilov o la dittatura del proletariato e degli strati più poveri della classe contadina”.
Alla vigilia della rivoluzione, oltre a numerose altre organizzazioni rivoluzionarie, nel Paese
esistono 1.429 soviet. Nella stragrande maggioranza essi sono diretti dai socialisti rivoluzionari e
dai menscevichi e attuano la politica di conciliazione voluta dal governo provvisorio. Per ordine di
questo, essi perseguitano i bolscevichi e proibiscono l’agitazione rivoluzionaria. Una parte notevole
di questi soviet egemonizzati dai socialisti sono presenti nelle regioni non industriali del Paese. Il
processo di rafforzamento delle loro funzioni di organi insurrezionali e di potere, cioè della loro
“bolscevizzazione”, ha inizio nella seconda quindicina di settembre e procede celermente in ottobre.
E’ proprio in preparazione del secondo congresso panrusso dei soviet che, data la grave situazione
di fame e di miseria causata sia dalla guerra che dalle inadempienze del governo provvisorio, in
questi organismi matura il convincimento della necessità di preparasi allo scontro col potere
centrale. “Il tempo delle parole è passato. E’ giunto il momento in cui soltanto un’azione risoluta
ed unanime di tutti i soviet può salvare il paese e la rivoluzione e decidere la questione del potere
centrale”, precisa la risoluzione approvata al congresso regionale del Nord del Paese. E su questa
linea si schierano molti soviet di altre regioni.
Nel prendere atto del montare di una crescente volontà di ribellione nelle loro stesse file, i socialisti
rivoluzionari e i menscevichi operano per far fallire il congresso. Mentre Trotskij, nonostante ciò, fa
dipendere dalle decisioni del congresso il destino della rivoluzione, Lenin si dichiara contrario alla
tattica d’attesa del congresso e fa approvare dal comitato centrale del partito la risoluzione
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sull’insurrezione. Kamenev e Zinovjev contestano questa sua forzatura e, poiché essi considerano
l’Assemblea costituente come l’organismo più importante, mentre i soviet vengono vissuti come
un’appendice del parlamento borghese, svelano allo stesso Kerenskij le decisioni prese dal CC del
partito sull’insurrezione rischiando così di compromettere il piano di Lenin. Lo stesso Stalin
esprime la volontà di rimandare la decisione sulla questione del potere all’apertura del congresso
dei soviet e scrive un articolo in questo senso sul “Rabocij put”.
Nel complesso e contraddittorio intreccio degli avvenimenti, il comitato centrale del partito prepara
i propri quadri all’assalto delle fortezze dello Stato borghese. Per decisione del soviet di
Pietrogrado, viene fondato il Comitato militare rivoluzionario che nomina i suoi commissari nei
reparti militari, negli enti e nelle aziende più importanti, estendendo così l’apparato insurrezionale
al tessuto legale. Un enorme esercito di propagandisti e di attivisti viene inviato dai bolscevichi in
provincia; loro compito, oltre che orientare i delegati al congresso dei soviet, è quello di organizzare
l’appoggio all’insurrezione armata.
Nonostante l’azione di boicottaggio dei socialisti, l’assise congressuale dei soviet si riunisce come
previsto e seppure i bolscevichi rappresentino appena il 10% dei partecipanti, 550 delegati sui 670
presenti (cioè 225 soviet e comitati su 366) si schierano con loro facendo propria la parola d’ordine
“tutto il potere ai soviet”. “Rivendichiamo il potere del proletariato perché questa classe non ha
degli interessi suoi personali e per questo non può tendere all’asservimento delle altre. Quindi
soltanto così tutte le classi possono sentirsi libere”, argomentano i delegati del soviet operaio di
Gukov (Donbass).
E’ il via libera all’assalto al Palazzo d’Inverno.
Eppure, fino alla vigilia dell’insurrezione, nessun marxista degno di questo nome aveva mai
ritenuto che una ristretta élite di rivoluzionari potesse da sola fare la rivoluzione. Pensare questo
avrebbe significato cadere nell’eresia del “blanquismo” (nel linguaggio dei rivoluzionari il termine
blanquismo significava appunto la preferenza per l’azione rivoluzionaria isolata o putsch ).
Lo stesso Lenin, prima di lasciare la Svizzera per rientrare in Russia, in una lettera di commiato
indirizzata agli operai di quel Paese afferma: “La Russia è un paese contadino, uno dei paesi più
arretrati dell’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente… la nostra
rivoluzione può essere il prologo della rivoluzione socialista mondiale, un passo verso di essa”.
In realtà, la Russia, nell’ottobre del ‘17, non solo non è pronta per una rivoluzione socialista, ma
neppure lo è per quella borghese, dal momento che non ci sono nemmeno le forze liberali sufficienti
per realizzarla e a sostenerla sono chiamati necessariamente gli operai e i contadini. Difatti, mentre
il capitalismo russo fa segnare un progresso a passi da gigante, la classe borghese incontra grosse
difficoltà a divenire soggetto politico, da qui appunto la sua debolezza. E questo non solo perché gli
imprenditori sono numericamente insignificanti, o perchè molti di essi sono stranieri o appartenenti
a minoranze etniche e culturali, ma anche perché essi dipendono dalla tolleranza e della protezione
dello Stato zarista.
Lo stesso partito bolscevico non appare teoricamente preparato a fare propria l’alleanza tra operai e
contadini come condizione strategica duratura della transizione al socialismo, in quanto la sua
elaborazione è frutto soprattutto della tradizione formatasi nell’Europa avanzata dove la rivoluzione
borghese ha già regolato da tempo la questione agraria.
Ed è proprio la sopravvalutazione della forza e del peso dei lavoratori dell’industria, i quali in
Russia sono un’infima minoranza, unita alla minimizzazione degli altri gruppi sociali, che offusca
nelle coscienze dei bolscevichi la distinzione tra la fase “borghese” e la fase “socialista” della lotta.
Ed è proprio questa errata interpretazione della realtà sociale che spinge verso un più rapido
conseguimento del traguardo finale senza passare attraverso tappe intermedie.
3.4 - Marx, Engels e la rivoluzione
Mi pare utile a questo punto aprire una parentesi e passare velocemente in rassegna quanto Marx ed
Engels hanno scritto e detto a riguardo dei tempi, dei luoghi e delle condizioni materiali e
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soggettive di una possibile rivoluzione. Una tale digressione s’impone anche perché le
interpretazioni date nel tempo dagli studiosi e dai politici, marxisti e non, sono state molteplici e
diverse tra di loro. Allo scopo di evidenziare lo sviluppo del pensiero dei due fondatori del
socialismo scientifico, torna opportuno procedere per ordine temporale.
Nei primi anni ’40, da Londra dove è impegnato a studiare il capitalismo, Engels scrive: “La
rivoluzione in Inghilterra è inevitabile, ma come per tutto ciò che avviene qui, saranno gli interessi
e non i principi a farla esplodere e a dirigerla; soltanto dagli interessi possono derivarsi i principi;
e quindi questa rivoluzione non sarà politica, ma sociale”.
A metà dello stesso decennio, ne’ “L’ideologia tedesca” lui e Marx pongono come necessaria per il
successo della rivoluzione socialista, la presenza in un dato paese di condizioni oggettive (la
maturità dello sviluppo economico) e soggettive (un adeguato livello della classe operaia in
particolare) e insistono sul carattere internazionale della rivoluzione stessa, nel senso che al suo
svolgimento devono partecipare più paesi, peraltro tra i più evoluti economicamente e socialmente.
Qualche anno dopo, in “I principi del comunismo”, Engels considera possibile la rivoluzione solo in
Paesi “civili” come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Francia o la Germania.
Nel ’48, quando scrivono il “Manifesto del partito comunista”, ritengono che l’Europa sia sull’orlo
di una ondata rivoluzionaria e individuano nella Germania il luogo d’inizio di questo processo.
Situano qui l’epicentro dell’insurrezione nonostante questo Paese non sia capitalisticamente più
sviluppato di altri.
Dopo aver studiato la storia economica dell’Inghilterra, Marx sembra cambiare opinione sostenendo
che “per lo meno in Europa, l’Inghilterra è l’unico paese in cui l’inevitabile rivoluzione sociale
possa essere attuata per intiero con mezzi pacifici e legali”. E afferma che una rivoluzione europea
senza l’Inghilterra sarebbe da paragonarsi come a una tempesta in un bicchiere d’acqua. Dopo la
sconfitta dei moti del ’48, sia lui che Engels danno segno di sperare impazientemente in una crisi su
scala continentale il cui punto di partenza è proprio il Paese in cui la rivoluzione industriale ha già
avuto compimento.
Nel 1850, nell’“Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti” e ne “Le lotte di classe in
Francia”, Marx accenna l’idea di una “rivoluzione in permanenza”.
A metà del decennio, sia lui che Engels aspettano con trepidazione che scoppi la crisi in Inghilterra
e si tengono pronti a tirarne le conseguenze rivoluzionarie.
Verso la fine degli anni ’50, scrivendo “Per la critica dell’economia politica”, Marx prende atto
dello spostamento del centro di gravità del capitalismo e si dice convinto che la rivoluzione sia
possibile non più nel Paese oltre Manica, ma in Germania, ed eventualmente, nel secolo XX, negli
Stati Uniti e in Russia. Quando però questa previsione non si verifica, egli cessa di sperare che
questo evento possa avvenire in un futuro prevedibile.
All’inizio degli anni ’60, di fronte dell’avvio in Russia di un rapido processo di capitalizzazione,
egli modifica le sue convinzioni, che erano fortemente ancorate alle condizioni dei Paesi
dell’Europa occidentale, e vede nell’impero zarista, e pure negli Stati Uniti d’America, la possibilità
di eventi tali da innescare processi rivoluzionari. E considera queste realtà dei supporti di un quadro
strategico generale caratterizzato dall’espansione del capitalismo verso nuove aree di sfruttamento.
E’ questo il periodo in cui prende entusiasticamente posizione per l’indipendenza dei polacchi, degli
italiani e degli ungheresi e considera la rivoluzione irlandese come un possibile acceleratore della
rivoluzione nei Paesi borghesi, cioè come un tallone d’Achille del capitalismo metropolitano.
Lui ed Engels cominciano così a ritenere possibile anche una via diversa al rovesciamento della
società borghese, prospettando la possibilità che la rivoluzione si realizzi lungo tre direttrici,
precisamente: o attraverso il sollevamento delle colonie; o tramite l’insurrezione in Russia; o a
seguito di un accrescimento tale del ruolo degli Stati Uniti da destabilizzare gli assetti
internazionali. Ed è proprio in base a queste ipotesi che essi si sforzano di allargare e approfondire
le loro conoscenze.
Riflettendo sulla questione irlandese, ipotizzano che la rivoluzione operaia potrebbe non scoppiare
affatto nel cuore dei paesi capitalistici, ma alla loro periferia. E questo in forza del fatto che la
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classe operaia dei paesi sviluppati rischia l’integrazione nel sistema, proprio come è avvenuto in
Inghilterra, condividendo il nazionalismo dominante e allontanandosi così dal socialismo
rivoluzionario. Non si tratta cioè della semplice constatazione dell’insorgere di un’aristocrazia
operaia, ma dell’avvertimento che è in atto un vero e proprio divorzio fra l’evoluzione reale del
movimento operaio e la teoria rivoluzionaria. Nel ‘64, infatti, nell’”Indirizzo inaugurale
dell’Internazionale” Marx sostiene che l’Inghilterra risulta essere l’unico Paese nel quale la lotta di
classe e l’organizzazione della classe operaia hanno raggiunto con le trade-unions un certo livello di
maturità, ma che agli inglesi manca “lo spirito della generalizzazione” e “la passione
rivoluzionaria” per compiere il passo decisivo.
Una rivoluzione russa, invece – egli sostiene – può rappresentare “il segnale ad una rivoluzione
proletaria in Occidente, in modo che entrambe si completino a vicenda”, nonostante che la
borghesia e il proletariato di quel Paese vengano da lui giudicati troppo deboli per portare a termine
la stessa rivoluzione borghese e abbattere definitivamente il regime semi feudale. Per supplire a
questa debolezza – a suo giudizio – i comunisti russi potrebbero garantire il loro appoggio ai partiti
contadini che conducono la rivoluzione in nome della proprietà privata contadina e in questo modo
aprire la strada al processo rivoluzionario. Ed è proprio verso la fine del decennio ’60-‘70 che Marx
ed Engels, convinti di questa possibilità, cominciano a interessarsi alle problematiche russe
imparando la lingua di quel Paese al fine di poter consultare i testi originali senza dipendere da
intermediari.
Il possibile ruolo rivoluzionario degli Stati Uniti, infine, è rappresentato a loro avviso in chiave
negativa, cioè nella possibilità che un loro massiccio sviluppo rompa il monopolio industriale
dell’Occidente europeo, in particolare quello della Gran Bretagna. Lo studio della situazione
economica e sociale degli Stati Uniti permette loro, tra l’altro, di scorgere gli ostacoli che un Paese
nuovo e dalla frontiere aperte può opporre a una classe operaia di recente formazione la quale, per
di più, risulta divisa nelle sue nazionalità di origine.
Più avanti nel tempo, sia Marx che Engels esprimono più volte l’idea che la rivoluzione proletaria
potrebbe cominciare anche entro la cornice nazionale di un singolo paese europeo, alla maniera di
un incendio che poi si estenderebbe agli altri paesi. E menzionano non solo l’Inghilterra, la Francia,
la Germania e gli stessi Stati Uniti, ma anche la Polonia, l’Italia, l’Ungheria e la Spagna come
possibili “luoghi d’incendio”.
Nel ‘72, in occasione del discorso di chiusura del congresso dell’Aja, Marx indica l’Inghilterra e gli
Stati Uniti, e anche l’Olanda, come i Paesi per i quali è prevedibile una conquista del potere per via
legale da parte della classe operaia, mentre nel resto dei paesi del continente gli appare insostituibile
l’uso della violenza.
In presenza poi della “grande depressione” che ha inizio nel ’73, Marx manifesta la speranza che
una nuova crisi generale trovi il proletariato maturo per l’insurrezione contro il capitale. A partire
dagli anni ’70 guarda alla Russia come alla realtà in cui maggiormente si concentrano le condizioni
della rivoluzione. In questo Paese il capitalismo è agli albori del suo sviluppo e la sua capacità di
espansione è straordinaria.
Nel 1875, Engels sostiene che il proletariato dei Paesi più avanzati, dopo aver concluso la propria
rivoluzione, avrebbe potuto accompagnare l’arretrata Russia verso il socialismo senza che questo
Paese sia costretto a percorrere la via del capitalismo.
Nel 1877 Marx ed Engels sono convinti che in Russia sia imminente una rivoluzione che è destinata
a mutare il volto dell’Europa. E puntualizzando che le analisi contenute ne “Il Capitale” non hanno
la pretesa di essere interpretate come leggi universali vincolanti lo sviluppo futuro della Russia,
ribadiscono il convincimento che la presenza della comunità contadina può consentire di “saltare”
la fase capitalistica di sviluppo.
Essi considerano questo Paese la più forte riserva della controrivoluzione europea
e vedono nello zarismo il nemico principale che con il suo immischiarsi negli affari dell’Occidente
ne impedisce e disturba il normale sviluppo.
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Quando il populista russo N.K. Michailovskij pubblica un saggio nel quale a Marx viene attribuita
l’opinione che in Russia il socialismo avrebbe potuto affermarsi solo dopo che vi si fosse
pienamente sviluppato il capitalismo, Marx reagisce aspramente e accusa Michailovskij di
distorcere le sue opinioni. E chiarisce il suo pensiero prospettando l’ipotesi che, in linea di
principio, la Russia ha “la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo” di
evitare “tutte le inevitabili peripezie del regime capitalistico”.
Si dice comunque convinto che “la rivoluzione, questa volta, comincia in Oriente, lì dove finora si
trovava l’intatto baluardo e l’armata di riserva della contro-rivoluzione” e individua proprio nella
terra dello zar il luogo dove avrebbe potuto appiccarsi la prima scintilla dell’”incendio”.
Nel 1881, la socialista russa Vera Zasulic scrive a Marx chiedendogli di chiarire il suo punto di
vista sulla comune contadina russa. Quanto imbarazzante giungesse quella richiesta al vecchio
Marx è dimostrato dalle tre diverse stesure di una lunga risposta che è rimasta tra le sue carte. Alle
fine egli si limita a scriverle una breve lettera spiegando che l’analisi contenuta ne “Il Capitale” si
basa sulle condizioni dell’Occidente, dove la proprietà comune è da lungo tempo scomparsa e che
essa non è applicabile alla Russia. Però precisa: “L’analisi del Capitale non offre ragioni né pro né
contro la vitalità della comune rurale… lo studio particolare che ne ho fatto mi ha convinto che
essa è il punto d’appoggio della rigenerazione sociale in Russia”. E spiega che se in quel Paese
fosse scoppiata una rivoluzione prima che il capitalismo fosse pienamente fiorito, la comunanza
della proprietà avrebbe costituito senza dubbio un mezzo di più rapida transizione a una forma
superiore di collettivismo, purché ci si appropriasse interamente della più avanzata tecnologia
sviluppata dal capitalismo. In Russia, in sostanza, avrebbe potuto essere “saltata” la fase del
capitalismo.
Lo studio della peculiare situazione russa lo ha infatti portato a scoprire la potenzialità di una via di
sviluppo diversa da quella europea-occidentale: una via nella quale l’arretratezza si trasforma da
limite invalicabile in virtù. Egli approfondisce le questioni dell’obscina, la comune contadina russa,
tipica forma precapitalistica di produzione, e in seguito a questo studio aggiusta i suoi orientamenti
rispetto alle ipotesi formulate nei “Grundrisse” e nella “Prefazione del 1859” e prefigura una nuova
configurazione della transizione al comunismo. Prospetta cioè una linea che non è coincidente con
il principio della funzione universale progressiva della modernità borghese. Le società asiatiche – ai
suoi occhi – non offrono virtualmente alcuna possibilità per uno sviluppo simile a quello
dell’Occidente. Esse sono caratterizzate da un’economia agricola stagnante e da una plebe
disseminata in una moltitudine di strutture comunali autosufficienti, prive di legame organico tra di
loro e composte da una popolazione prevalentemente contadina, ligia alle tradizioni,
intellettualmente e moralmente degradata dalle condizioni in cui si svolge la sua esistenza, mentre
la popolazione urbana è numericamente scarsa e politicamente impotente.
Applica a queste società, come già abbiamo visto, il concetto di “modo di produzione asiatica”. E
usa tale termine inserendolo in un elenco di modi di produzione e delineando con estrema cautela la
successione delle fasi pre-borghesi (“asiatico, antico, feudale e borghese moderno”), senza peraltro
indicare mai una successione obbligata dei modi di produzione che si sono susseguiti nella storia di
tutti i popoli. E’ interessante notare come la sua ricerca su questi temi si presenti aperta e in
progress. I modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese-moderno possono così essere
assunti come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società.
A conclusione di questi studi egli definisce la Russia non un sistema feudale, ma un sistema
economico semi-asiatico.
E’ da supporre che Marx ed Engels valutino il movimento rivoluzionario russo non tanto per la sua
ricettività al loro socialismo scientifico, quanto piuttosto per la sua relazione con il maturare globale
dei rapporti capitalistici avanzati e con lo sviluppo del socialismo in Europa. E’ infatti proprio in
questa ottica che essi ammettono la possibilità di adattamenti tattici alle diversità nello sviluppo
economico e sociale, nelle relazioni fra le classi e nel rapporto fra struttura e sovrastruttura.
Nell’82, essi individuano proprio nella Russia l’avanguardia del movimento operaio rivoluzionario
europeo. E pur ribadendo il convincimento che la comunità rurale non avrebbe potuto trasformarsi
81
in un modo di produzione socialista, nella prefazione alla traduzione russa del “Manifesto”
scrivono: “Se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in
modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà diventare
punto di partenza per una evoluzione comunista”.
Questa valutazione aiuta a comprendere e a giustificare l’appassionata presa di posizione di Marx in
favore del partito della “Volontà del popolo” che pratica l’azione terroristica, mentre biasima con
una certa durezza il partito della “Ripartizione nera” che respinge ogni azione politicorivoluzionaria e si limita alla propaganda, e al quale aderiscono Plechanov e Aksel’rod. Negli ultimi
anni della sua vita, infatti, egli guarda con simpatia e curiosità all’ipotesi dei narodniki (i populisti)
che pensano di saltare la fase della rivoluzione borghese passando direttamente dal comunismo
dell’obscina alla rivoluzione proletaria.
Dopo la morte di Marx, Engels ribadisce le posizioni che congiuntamente essi hanno maturato. Ai
suoi occhi la Russia continua a rappresentare l’avanguardia del movimento rivoluzionario europeo e
il possibile segnale dell’inizio di una rivoluzione proletaria in Occidente.
Nel 1893 giunge però alla conclusione che il socialismo in quel Paese non è più possibile, dal
momento che nel frattempo è diventato una realtà capitalistica, giovane ma dinamica. E l’anno
successivo, nel sottolineare l’ormai avanzato processo di disgregazione della comunità agraria,
denuncia la fine della sua eccezionalità e colloca la rivoluzione in Russia in posizione subalterna
rispetto alla rivoluzione proletaria in Occidente. Prevede invece una rivoluzione in Germania che
dovrebbe realizzarsi tra il 1898 2 il 1904. E’ questa la fase in cui tutti i teorici del socialismo, siano
essi di destra, di centro o di sinistra, sono convinti che la rivoluzione nel vecchio continente è ormai
prossima.
Nel 1895, prima di morire, riflettendo sulle insurrezioni fallite, Engels scrive: “E’ passato il tempo
dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze coscienti alla testa di masse
incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni sociali, ivi devono
partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono aver già compreso di che si tratta, per che
cosa danno il loro sangue e la loro vita”.
Ripercorrendo le tappe della elaborazione di Marx e di Engels sui tempi e sui luoghi di una
possibile rivoluzione, non si può non convenire con Eric Hobsbawm quando afferma che “nessuna
falsificazione di Marx è più grottesca di quella che asserisce che Marx prevedeva una rivoluzione
esclusivamente nei paesi industrialmente avanzati dell’Occidente”. Come abbiamo visto, infatti,
negli scritti e nei discorsi dei due padri del socialismo scientifico si trova sia l’affermazione che la
rivoluzione proletaria avrebbe preso inizio nei Paesi industrialmente più sviluppati, sia
l’individuazione, in momenti dati, di epicentri rivoluzionari che non si collocano affatto nei Paesi
capitalisticamente più progrediti. Se essi sono riusciti a individuare il carattere complessivo del
processo che in Russia si stava preparando, hanno decisamente sbagliato sui tempi di evoluzione di
questo processo. E pure errata si è rivelata ogni loro previsione circa la localizzazione della
rivoluzione.
Come è possibile spiegare questa inesattezza nelle loro previsioni?
Intanto, è bene ricordare che anche Marx ed Engels sono uomini in carne e ossa, figli del loro
tempo, studiosi di problemi economici e sociali e non indovini o profeti. Le previsioni che essi si
sono azzardati ad avanzare sono il frutto di interpretazioni e di intuizioni finalizzate a indirizzare al
meglio l’azione del movimento operaio di cui si sentono parte attiva e responsabile. Perciò va colto
anzitutto lo spirito che li ha animati.
Vale poi la pena di notare come la stessa variazione dei tempi e dei luoghi circa il verificarsi di un
processo rivoluzionario sia in dipendenza di dinamiche sociali che non sono affatto semplici da
leggere e interpretare, considerate non solo la loro complessità e imprevedibilità, ma soprattutto le
difficoltà del sistema informativo dell’epoca.
Più che sull’errato pronostico, al cui riguardo lascerei le polemiche ai critici del campo avverso,
credo sia doveroso, per chi veramente vuole capire, concentrare l’attenzione e il giudizio sulle
analisi che essi hanno compiuto e sulle conseguenze politiche che ne hanno tratto. E se lo spirito e il
82
punto di osservazione sono questi, ci si renderà presto conto che le indicazioni che essi hanno
fornito erano, per la loro epoca, tutt’altro che sballate. Anzi, esse hanno ancora oggi qualcosa da
insegnarci.
E’ da mettere poi in conto che Marx era impaziente di vedere compiersi la rivoluzione socialista e
che, a riguardo della Russia, egli considerava lo zarismo “il gendarme d’Europa” che rendeva
impossibile la vittoria del proletariato europeo. Ragioni queste per le quali, svanita la speranza di un
“incendio” nella roccaforte europea del capitalismo, egli non ha esitato a parteggiare per i populisti
russi e condividere le loro tesi che erano palesemente in contraddizione con le sue stesse
elaborazioni sul nesso socialismo- maturità del capitalismo (più si sviluppano le forze produttive e
più si creano le condizioni della rivoluzione proletaria) e sul “general intellect”, anche se egli si è
sempre guardato bene di stabilire un rapporto meccanico tra sviluppo economico e rivoluzione.
Deve altresì essere chiaro che pur auspicando l’esplosione del processo rivoluzionario in Russia,
Marx ed Engels non hanno mai sostenuto la tesi secondo cui sarebbe stato possibile realizzare
immediatamente il socialismo in un paese a economia semi-asiatica. Al contrario, essi hanno
sempre chiarito che essenziale per il suo sviluppo sarebbe stata un’efficiente diffusione su larga
scala sia dell’agricoltura che dell’industria.
Infine, va tenuto presente che loro convincimento era che la rivoluzione russa fosse auspicabile
quale innesco di un processo rivoluzionario a livello europeo. E giammai essa è stata da loro intesa
come trionfo del socialismo prima che il capitalismo fosse abbattuto nell’Europa occidentale. Così
come non hanno mai fatto cenno una sola volta all’eventualità che il socialismo potesse essere
costruito in un solo Paese, per di più in un Paese arretrato.
Scrive Engels nei “Principi del comunismo”: “Potrà questa rivoluzione avvenire soltanto in un
singolo paese? No.... La rivoluzione comunista non sarà una rivoluzione soltanto nazionale, sarà
una rivoluzione che avverrà contemporaneamente in tutti i paesi civili, cioè per lo meno in
Inghilterra, America, Francia e Germania”.
E affermazioni analoghe si ritrovano non solo nel “Manifesto”, ma in altri scritti sia di Marx che
dello stesso Engels il quale, poco prima della sua scomparsa, scrive a Lafargue: “L’emancipazione
proletaria non può essere che un fatto internazionale, se voi cercate di farne un fatto
semplicemente francese, la rendete impossibile”.
Soprattutto, però, va ricordato che in “ Le condizioni sociali in Russia“ egli afferma: “La borghesia
è, non meno del proletariato, una premessa necessaria della rivoluzione socialista, e dire che
questa rivoluzione è più facilmente realizzabile in un paese appunto perché questo non possiede un
proletariato, ma non possiede nemmeno una borghesia, significa non conoscere neppure l’abbiccì
del socialismo”.
Da Marx e ad Engels, dunque, la rivoluzione viene anzitutto intesa come un fatto di dimensioni
internazionali e non come un semplice aggregato di trasformazioni nazionali; viene cioè concepita
come fatto unitario, come un avvenimento destinato a coinvolgere l’intera Europa, e non solo
questo continente. Poi viene ideata come processo sociale, non già come semplice atto di rivolta e di
rottura col passato, perciò essa è vincolata a determinate condizioni socio-economiche. Di più
ancora, essi individuano nella socializzazione e nell’appropriazione collettiva delle condizioni di
produzione il modo di superare la separazione storicamente determinata tra lavoro intellettuale e
lavoro manuale, tra attività direttiva e attività esecutiva, e considerano questi passaggi il cardine
stesso della costruzione di una nuova società. In “Principi del comunismo” Engels afferma che la
proprietà privata non si può abolire di colpo con la rivoluzione. E Marx puntualizza che il
socialismo non può che essere “il risultato del movimento” e che è una “questione di tempo, di
istruzione, e di sviluppo di forme sociali superiori”. Egli ha posto come condizione del socialismo
proprio la capacità dell’uomo – già provata nella fase del capitalismo avanzato – a sviluppare fino ai
livelli più alti i mezzi e l’organizzazione della produzione economica.
Pertanto, se è vero che nell’elaborazione teorica dei padri del socialismo scientifico esistono
contraddizioni, ambiguità, insufficienze (e su questi aspetti ritornerò nei capitoli successivi), è
altresì innegabile che dall’insieme della loro teoria è possibile trarre la conclusione che non basta
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dare una spallata al potere costituito per realizzare il socialismo, proprio perchè la costruzione di un
nuovo sistema sociale esige non solo tempo e protagonismo di massa, ma anche determinate
condizioni materiali e soggettive che solo la maturità del capitalismo può assicurare. E che questa
sia la strada giusta da percorrere ce lo indicano in maniera chiara ed evidente le vicende del nostro
tempo.
3.5 – L’“ottobre rosso”
Alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, tra la maggioranza dei marxisti russi è diffuso il
convincimento che la vittoria del socialismo in un solo paese è da ritenersi impossibile. Lo stesso
Trotzkij, che sarà poi il principale artefice con Lenin dell’assalto al Palazzo d’Inverno, scrive: “E’
inutile sperare che, ad esempio, una Russia rivoluzionaria riesca a reggere di fronte a un’Europa
conservatrice, o che una Germania socialista possa rimanere isolata in un mondo capitalistico”. E
si schiera per “l’abbattimento pacifico” del governo provvisorio esprimendo fiducia nella legalità e
nei metodi parlamentari.
Lenin, invece, considera la Russia l’anello più debole della catena dell’imperialismo, il punto in cui
la catena si può spezzare, ed è convinto che il proletariato russo può rovesciare lo zarismo. “Non è
sufficiente essere rivoluzionari e sostenitori del socialismo. Bisogna essere capaci di afferrare
l’anello giusto della catena”, ammonisce.
Ai suoi occhi la Russia rappresenta la realtà più facilmente aggredibile del mondo imperialistico,
anche se per l’affermare il socialismo in quel Paese ritiene essenziale che all’abbattimento dello
zarismo faccia immediatamente seguito la rivoluzione nell’Occidente capitalistico.
“L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico – sostiene – è una legge assoluta del
capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi e anche in
un solo paese capitalistico, preso separatamente”. Si guarda bene, però, di indicare un qualche
singolo paese capitalistico come particolarmente prossimo alla rivoluzione socialista e quando,
dietro sollecitazione, è costretto a pronunciarsi in tal senso egli fa riferimento a paesi relativamente
piccoli e neutrali come, per esempio, la Svizzera.
Confrontandosi con le posizioni di Rosa Luxemburg, egli esprime il cruccio che se il proletariato
europeo avesse continuato a dimostrarsi impotente, la guerra mondiale avrebbe potuto concludersi
in maniera napoleonica, cioè con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali ai più forti. E
scongiurando una tale eventualità, e nutrendo scarsa fiducia che “l’incendio” rivoluzionario possa
appiccarsi nei Paesi evoluti dell’Europa occidentale, ricorda che “Marx ed Engels nutrivano la fede
più ottimista nella rivoluzione russa e nella sua grande importanza mondiale”.
Il proletariato russo, a suo giudizio, deve compiere la propria rivoluzione, conquistare il potere ben
prima che la società capitalistica abbia raggiunto una piena maturità, e un tale rovesciamento si
rivela necessario non solo per garantire uno sviluppo economico e civile della Russia, ma per
contrastare la logica catastrofica dell’imperialismo a livello mondiale e aprire nuove strade al
proletariato di tutti i paesi.
La guerra in atto, a suo avviso, sta sanzionando il passaggio dal capitalismo monopolistico al
capitalismo di Stato e compito della rivoluzione socialista è quello di decapitare il suo vertice
economico-politico. Ritiene quindi che al proletariato russo spetta non di farsi egemone della
rivoluzione democratica borghese, ma di portare la rivoluzione a una nuova tappa, quella proletaria.
Sua convinzione è che, data la debolezza della borghesia, la rivoluzione in Russia può avvenire solo
sotto l’egemonia del proletariato. E riprendendo ancora Marx, sostiene che compito dei bolscevichi
è di “abbreviare e attenuare le doglie del parto”.
In questa chiave d’interpretazione, il rapporto economia-politica viene evidentemente posto in
modo nuovo: la politica diventa il fattore decisivo e il processo rivoluzionario viene interpretato
come un’adesione maggioritaria a un nuovo ordine sociale, viene cioè inteso in maniera
radicalmente diversa da tutte le interpretazioni correnti. Punto decisivo diventa quello di
conquistare all’idea rivoluzionaria la maggioranza della popolazione per dare l’assalto al potere
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statale con il consenso dei più. E’ così che egli incarna il principio della conquista violenta del
potere politico e della costruzione forzata dello Stato proletario.
Partendo da Marx, Lenin prende in considerazione l’aspetto soggettivo della rivoluzione e trascura,
o quanto meno minimizza, il ruolo dei condizionamenti strutturali e sociali. Egli dà vita alla prima
organizzazione che, nella storia internazionale della lotta delle classi, sviluppa l’idea dell’egemonia
del proletariato e dà concretezza ai principi rivoluzionari che Marx ed Engels hanno elaborato in
linea teorica, portando la funzione del soggetto rivoluzionario a un limite massimo.
Teorizza che la crisi economica non basta e che non vi è affatto passaggio spontaneo dalla lotta
economica e sindacale alla lotta politica, cioè alla coscienza di classe; quando contratta il salario e
le condizioni del lavoro sulla base delle leggi del mercato, il proletariato resta nell’ambito del
regime borghese, non pone affatto in discussione il sistema economico capitalistico e il potere
statale della borghesia.
Vede pertanto nella corrente dell’economismo russo che affida alla borghesia liberale i compiti
della lotta politica, una variante del revisionismo di Bernstein.
Nel “Che fare?”, dopo aver sostenuto che “lo sviluppo spontaneo del movimento operaio porta a
subordinarlo all’ideologia borghese”, afferma che il compito dei bolscevichi “consiste nel
combattere la spontaneità”. Insiste quindi sul fatto che il proletariato non è cosciente del suo reale
interesse (la sua “coscienza spontanea” è coscienza borghese) e che solo l’élite marxista ha una
visione chiara del problema. A suo giudizio, la classe operaia non può produrre la sua teoria come
risultato della storicità lineare del capitale, o delle sue specifiche forme di riproduzione, ma solo
attraverso un processo che intreccia scissione e ricomposizione, ricongiunzione economica e
politica, ripercorrendo e rovesciando tutte le mediazioni e articolazioni del sociale. Precisando che
“senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”, sostiene che “la
coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della
lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni… con le sue sole forze la
classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista… Augurarsi che la
classe lavoratrice svolga una politica sindacale significa semplicemente offrire una politica
borghese ai lavoratori”.
Che la classe, il cui compito storico – secondo i padri del socialismo – è quello di compiere
un’emancipazione universale, venga giudicata da uno dei suoi massimi rappresentanti e teorici, non
in grado di svolgere la sua missione senza l’intervento decisivo di una classe estranea qual è quella
degli intellettuali, non può che produrre nel movimento un effetto dirompente. Difatti, la teoria
leniniana della rivoluzione incontra perplessità e opposizione non solo nell’Occidente capitalistico,
ma negli stessi ambienti russi. Nonostante ciò, è sulla base di essa che viene costruito l’”ottobre
rosso”, un evento cioè che è destinato a determinare una svolta profonda nella storia dell’umanità.
Agli occhi di Lenin “marxista è solo colui che dal riconoscimento della lotta di classe deriva quello
della dittatura del proletariato”. Ancora nel “Che fare?” egli sostiene che la classe operaia ritrova
la propria autonomia e determinazione politica solo diventando “combattente d’avanguardia per la
democrazia”.
Sulla base di questi convincimenti egli elabora la teoria del partito come avanguardia. E il segreto
della sua influenza non sta affatto nel riuscire a piegare le masse alla sua volontà, ma anzi nel
considerarsi esso stesso parte delle masse, continuando nel contempo a dirigerle attraverso uno
sforzo che, contrariamente alle banalizzazioni strumentali fatte attorno alla sua figura, è inteso a
esaltare la collegialità e non il proprio ruolo individuale di dirigente.
Rispetto a Marx, che pure nell’esaminare la situazione russa aveva individuato l’importanza del
ruolo dei contadini, Lenin introduce il problema dell’alleanza del proletariato con il mondo
agricolo, oltre che con la piccola borghesia. Mentre secondo Marx ed Engels la rivoluzione
socialista deve essere innanzitutto una rivoluzione operaia che si propone di instaurare un governo
operaio, il modello leniniano assume come determinante il contributo dei contadini i quali,
costituendo l’80% della popolazione russa, vengono considerati anch’essi forza motrice della
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rivoluzione stessa. Un modello quello di Lenin, che dunque anche sotto l’aspetto delle alleanze si
discosta dalle proposizioni che si ricavano dei testi di Marx e di Engels.
Il capo dei bolscevichi, in effetti, compie un’innovazione teorica e lo fa dopo aver constatato che la
grande e media borghesia russa ha ormai perduto il suo carattere progressista (“La vittoria della
rivoluzione borghese è da noi impossibile come vittoria della borghesia”, asserisce) e dopo essersi
convinto che è necessario procedere senza di essa o anche contro di essa.
Il programma che egli mette a punto, però, salvo la distribuzione del potere ai soviet e le
nazionalizzazioni, non contempla alcun tipo di misure che vadano al di là degli orizzonti di una
rivoluzione borghese. Del resto, data la situazione, egli non può fare altrimenti. Compito del
proletariato russo resta anzitutto quello di appoggiare la lotta dei contadini e portare avanti la
rivoluzione borghese fino alla confisca totale delle grandi proprietà terriere, assumendo al tempo
stesso il controllo sulla produzione e sulla distribuzione industriale. Afferma poi il principio che
l’egemonia deve appartenere alla città e più precisamente al proletariato.
Pur avendo come soggetto il proletariato e i contadini, la rivoluzione russa conserverà un carattere
sostanzialmente borghese, poiché essa rappresenta uno stadio dello sviluppo storico che non può
essere saltato. Non può perciò essere confusa con la rivoluzione socialista proletaria, e lo stesso
Lenin ne ha piena consapevolezza, tanto da rinviare a un tempo successivo la sua realizzazione.
Nella situazione della Russia del ’17, Lenin individua l’esistenza di alcune condizioni che rendono
possibile il capovolgimento di potere; esse sono: il collegamento tra i sommovimenti interni e la
guerra; le contraddizioni interimperialistiche; la possibilità di sostenere una lunga guerra civile in
un paese sconfinato e dotato di pessimi mezzi di comunicazione; l’esistenza di un movimento
rivoluzionario, seppure di carattere democratico-borghese, tra i contadini. A queste condizioni è da
aggiungere la presenza di un “pensiero d’avanguardia”, nutrito per decenni dall’emigrazione
imposta dallo zarismo, il quale costituisce appunto il fattore soggettivo.
Il 25 ottobre (7 novembre per il nostro calendario), prima che si riunisca il congresso panrusso dei
soviet, i bolscevichi danno l’assalto al potere: mentre i proletari di Pietrogrado conquistano il
Palazzo d’Inverno, quelli di Mosca penetrano nel Cremlino. La decisione di passare ai fatti
anzitempo viene presa da Lenin stesso nel timore che possibili incertezze dell’assise congressuale
possano compromettere la realizzazione del suo disegno. I delegati bolscevichi, infatti,
rappresentano solo la maggioranza relativa: su 518 delegati, essi sono 250, i socialisti rivoluzionari
159, i menscevichi 60, i rappresentanti di altri partiti piccolo-borghesi 27, i senza partito 22. Di
fatto, al congresso giungono principalmente delegati bolscevichi, mentre gli stessi delegati socialisti
rivoluzionari presenti, sotto l’influsso degli avvenimenti, si schierano dalla parte dei bolscevichi.
Dai congressisti viene proclamata la repubblica e istituito il Consiglio dei commissari del popolo
che è composto da bolscevichi e socialisti rivoluzionari. Quale organo supremo e assoluto del
potere statale di tutta la Russia viene designato lo stesso Congresso dei soviet.
Di fronte ai delegati Lenin sostiene che “per iniziativa di milioni di uomini” viene creata “la
democrazia, a modo loro”. Sta di fatto che all’interno dello stesso gruppo dirigente che ha ideato e
diretto la rivoluzione, le divergenze sui tempi e sul carattere offensivo dell’azione compiuta non
sono affatto superate, anzi, i conflitti si rinnovano determinando rotture che segneranno per decenni
la storia del partito bolscevico e insieme quella della stessa Unione Sovietica.
Sono trascorsi quasi settanta anni dalla proclamazione del “Manifesto del partito comunista” e
finalmente per merito dei bolscevichi la teoria della rivoluzione socialista è divenuta realtà concreta.
Se con il “Manifesto” il socialismo ha compiuto il salto dall’utopia alla scienza, con la rivoluzione
d’ottobre esso s’incarna nell’umanità e la classe operaia entra nella storia come protagonista, con
una autonoma funzione politica, ideale e culturale.
Questo epocale evento, però, non solo si realizza in una società caratterizzata da un sistema
economico semi-asiatico, e non nel cuore dell’Occidente capitalistico, come previsto dalla
generalità dei marxisti, ma avviene senza che rappresenti il “segnale” della rivoluzione mondiale,
senza che divenga l’inizio dell’“incendio” che avrebbe dovuto investire le casematte della
borghesia. Le previsioni e le aspettative formulate dalla stragrande maggioranza dei teorici del
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socialismo, dunque, non si realizzano. Fatto è che da quel momento la Russia fa irruzione nella
storia come il Paese che si propone l’obiettivo di costruire un modello sociale diverso da quello
capitalista e ad esso contrapposto, in pieno isolamento internazionale e con le sole proprie forze.
Sicuramente Marx ed Engels avrebbero gioito nell’assistere a un tale avvenimento, ma è assai
probabile che anche a loro – come capita a chi ha avuto la sventura di assistere al suo tragico
epilogo – alcune perplessità sarebbero di certo sorte.
Vittorio Strada, lo storico che si è distinto per essere un voltagabbana, alla fine degli anni ’90, ha
sostenuto che nel ’17 in Russia, tecnicamente, non si sarebbe trattato affatto di una rivoluzione di
popolo, ma di una rivoluzione totalitaria. “Il problema di fondo ora riemerso - sostiene il girella - è
se si sia trattato di una vera rivoluzione popolare o non piuttosto di un golpe attuato da parte di un
piccolo gruppo militarmente organizzato e guidato da un capo carismatico (anzi da due,
affiancandosi a Lenin anche Trotskij). Le due versioni non si escludono... a prevalere fu poi la
prima sulla seconda”.
Chi ha la pazienza di leggersi le testimonianze e i documenti dell’epoca non può avere i dubbi dello
Strada. La rivoluzione d’ottobre è il prodotto di un’insurrezione di popolo e ha avuto come
avanguardia il partito bolscevico sia per l’incapacità delle formazioni socialiste e progressiste russe
di realizzare le riforme democratico-borghesi, e dare così sbocco a una situazione sociale che si era
fatta esplosiva; sia perché, dopo gli strascichi dell’insurrezione di febbraio, il generale Kornilov,
tentando l’instaurazione di una dittatura di destra, ha messo in condizione gli stessi bolscevichi di
scendere in campo con le armi per impedire un ritorno allo zarismo. Si tratta di due aspetti che non
sempre vengono ricordati e presi nella dovuta considerazione.
A partire da febbraio, in Russia si erano venuti formando due enormi movimenti di massa
rivoluzionari: l’uno raccoglieva la contestazione di tutto il popolo contro la guerra imperialistica;
l’altro rappresentava l’esigenza secolare dei contadini di smembrare i latifondi e di lavorare la terra
non più in posizione subalterna. L’“ottobre rosso” ha costituito lo sbocco politico di queste due
sollevazioni di popolo.
Se Lenin ha avuto un torto, questo è consistito nell’aver creduto che la risposta più giusta alle
istanze di questi movimenti fosse la prospettiva socialista, visto che non tutti gli insorti non si erano
posti un simile obiettivo. Tra le possibili vie d’uscita da una situazione di caos generale e
prolungato, la rivoluzione proletaria al capo dei bolscevichi è apparsa tale da soddisfare meglio di
altre le rivendicazioni delle masse popolari.
Da intellettuale che è, Strada dovrebbe sapere (e riconoscere con modestia e onestà), primo, che
senza l’eredità della rivoluzione francese (rivoluzione borghese – ricordiamolo per inciso – la quale
ha cambiato il corso della storia al prezzo di tanti morti e di tanta violenza) quella bolscevica non
avrebbe potuto avvenire. Essa è dunque figlia della stessa borghesia; secondo, che senza la crisi
della società borghese (crisi che ha portato allo scoppio della prima guerra mondiale, non certo per
volontà dei comunisti), i bolscevichi non avrebbero potuto dare uno sbocco rivoluzionario
all’insurrezione popolare che si è creata in Russia proprio a causa dei disagi e dei patimenti
provocati dal conflitto mondiale.
Nel gennaio del ’18 Lenin stesso ammette che “il potere sovietico non è stato creato da questo o da
quel decreto, né per decisione di questo o quel partito, perché esso è al di sopra dei partiti, perché
esso si è costituito in base all’esperienza della rivoluzione, all’esperienza di milioni di uomini”.
Attribuire dunque ai bolscevichi il mestiere di fagocitatori e strumetalizzatori di masse in rivolta,
significa non solo falsificare la storia, ma nutrire a priori un profondo risentimento nei confronti di
quel movimento al quale, peraltro, storici come Strada hanno appartenuto.
Si può criticare Lenin per molte ragioni, non gli si può certo disconoscere un’enorme capacità di
guidare e dominare i processi spontanei. Per governare l’insurrezione di una grande massa di
contadini arretrati che rischiava di degenerare in caos e anarchica, e trasformarla in poco tempo in
un nuovo assetto di potere, è senza alcun dubbio occorsa una forte e lucida capacità di direzione. Ed
egli ha appunto dimostrato di possederla. Ha compreso lo stato dei rapporti di forza sociali e politici
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ed è riuscito a compiere un’opera di autentica genialità politica. Questo almeno gli deve essere
riconosciuto, al di là delle appartenenze politiche di chi lo vuol giudicare.
Se si compie poi un’analisi più attenta, si deve prendere atto che Lenin stesso si è reso conto assai
presto di aver compiuto una forzatura, cioè di aver fatto una rivoluzione per delega, in nome di una
classe operaia che era forza minoritaria e non ancora matura per la gestione del potere. E si è
dimostrato consapevole a tal punto di questo, da considerare la stessa rivoluzione d’ottobre come un
prodotto dei zig-zag della storia.
Marx ha sostenuto che “l’umanità si propone sempre soltanto quei problemi che è in grado di
risolvere”. Probabilmente Lenin, quando ha constatato che il progetto socialista non era applicabile
a breve nelle condizioni di arretratezza in cui si trovava la Russia, si è reso conto di aver in qualche
misura revisionato il modello marxiano. Per questo il suo pensiero e la sua azione assumono un
carattere di ereticità nei confronti dei canoni teorici che dominavano il movimento socialista
all’inizio del secolo.
In Russia la rivoluzione è stata possibile per l’intrecciarsi di una serie di contraddizioni del suo
sviluppo economico-sociale e anche per lo stato di esasperazione della popolazione determinato
dalla guerra. Di fatto, essa ha rappresentato non già un’alternativa globale e socialista al
capitalismo, ma una risposta a una situazione originale e particolarmente complessa. Al tempo
stesso è stata la riprova della sconfitta della socialdemocrazia, già evidenziata del resto dalla
capitolazione dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti francesi di fronte alla guerra
imperialista.
La rivoluzione d’ottobre rappresenta indiscutibilmente l’evento che inaugura una nuova dinamica
mondiale del movimento operaio, non solo mettendo fine al suo carattere eurocentrico, ma facendo
diventare per la prima volta nella storia dell’umanità la rappresentanza politica dei lavoratori
soggetto del potere. Ed è proprio per questo motivo che di fronte ad essa hanno tremato i consigli di
amministrazione delle multinazionali, le cancellerie delle grandi potenze, i gabinetti degli Stati.
A differenza di Lenin e dei bolscevichi, alla luce degli sviluppi della storia, noi siamo oggi in grado
di dare una soluzione ai dilemmi che Marx ed Engels si sono posti e al tempo stesso siamo nelle
condizioni di spiegarci le ragioni del revisionismo leniniano. La Russia poteva rappresentare l’avvio
del processo rivoluzionario internazionale e la costruzione del socialismo, solo alla condizione che a
quella bolscevica fossero seguite le rivoluzioni nel cuore d’Europa, cioè in quei paesi in cui le
condizioni oggettive (lo sviluppo del capitalismo) avrebbero consentito di far marciare i mutamenti
sulle direttrici che gli stessi padri del socialismo scientifico hanno tracciato. Ma così, purtroppo,
non è stato e la realizzazione del socialismo in un solo paese, per di più ad economia semi-asiatica,
non ha potuto e non poteva oggettivamente assolvere a un tale compito. Da questo punto di vista,
l’“ottobre rosso” ha rappresentato un aborto, proprio come gli stessi Marx ed Engels avevano
prefigurato.
Proporsi, come in molti hanno fatto e continuano a fare, il compito di individuare e attribuire le
responsabilità di questo avverso corso della storia ai protagonisti di quel tempo (Marx ed Engels per
le previsioni sbagliate, Lenin per il suo revisionismo) è a mio modesto avviso un pessimo modo di
leggere la storia, di trarne lezione da essa e di affrontare i problemi.
Che i teorici del socialismo scientifico, dopo essere stati delusi dai fallimenti del movimento
socialista europeo, abbiamo riposto le loro speranze nelle realtà sociali in cui lo sviluppo del
capitalismo era agli albori, non dovrebbe affatto sorprendere. Così come non dovrebbe meravigliare
più di tanto il fatto che Lenin, trovandosi in una situazione in cui la rinuncia a prendere la testa del
movimento popolare avrebbe significato un ritorno al passato, ha deciso di forzare il carattere
borghese della rivoluzione. Se noi fossimo stati nei loro panni, ci fossimo cioè trovati nelle
medesime difficili condizioni storiche e ambientali, probabilmente avremmo compiuto le stesse
scelte. Almeno se anche in noi ci fosse stata la tenace volontà di cambiamento che era propria sia
degli autori del “Manifesto” che del capo dei bolscevichi.
Se proprio si vuole individuare un soggetto il cui comportamento andrebbe sottoposto a severa
analisi critica, questi è rappresentato dalle formazioni politiche della sinistra dell’Occidente
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capitalistico, in particolare di quelle che invece di raccogliere la sfida che il capitalismo aveva
lanciato con il suo sviluppo, hanno preferito battere la strada dell’accomodamento, rinviando sine
die la costruzione di un processo rivoluzionario e abbandonando i bolscevichi a se stessi. E questo è
un monito per la sinistra odierna che rischia di incorrere nello stesso errore.
Sono peraltro convinto che, al tempo della rivoluzione d’ottobre, le condizioni per la costruzione di
una società socialista non fossero mature né nel cuore stesso del sistema capitalistico né alla
periferia. E che dall’esperienza bolscevica non si potesse pretendere più di quanto essa ha dato al
movimento operaio.
Il dilemma che noi oggi siamo chiamati a sciogliere, più che riguardare chi dei protagonisti di quel
tempo ha avuto maggiori responsabilità nell’interpretare male il corso della storia, è attinente al
nostro ruolo di eredi di quell’esperienza e di protagonisti del cambiamento.
E’ cioè il caso di chiederci se non sia forse maturo ora il tempo di fare quello che ai nostri
predecessori non è stato possibile fare ieri, e se vogliamo per davvero trarre lezione dai lori errori e
dalle loro insufficienze, oppure se ci accontentiamo di pontificare.
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Capitolo 4°
La costruzione del socialismo in un’economia semi-asiatica
4.1 – Le condizioni della Russia al tempo della rivoluzione d’ottobre
Nei giorni della rivoluzione d’ottobre la borghesia russa reagisce all’insurrezione chiedendo
l’intervento armato dei cosacchi di Krasnov e degli junker di Rudnev. Qualche settimana dopo le
forze “bianche” controrivoluzionarie si concentrano nella Russia sud-orientale e danno avvio alle
bande che percorreranno in largo e in lungo il territorio meridionale russo per almeno tre anni.
Queste formazioni militari condotte da Kolcak, Denikin e Judenic hanno il sostegno finanziario
degli Stati che si propongono di strozzare il bolscevismo alla sua nascita, vantano la partecipazione
di ufficiali dell’Intesa e vengono rifornite di cannoni e di carri armati forniti dagli alleati.
Raggiungono il culmine delle loro attività e del loro successo nell’autunno del ‘19 penetrando in
profondità nel territorio sovietico e formando un vero e proprio cordone sanitario. Nel ‘21, alla fine
della guerra civile, si conteranno 13 milioni di morti.
A ostacolare l’avvio della costruzione di un nuovo sistema sociale in Russia non è però solamente la
massiccia presenza delle formazioni armate controrivoluzionarie. I bolscevichi sono chiamati a
misurarsi con altre forme di resistenza. I proprietari fondiari, i kulaki e i commercianti avversi
all’instaurazione del potere proletario, nascondono ingenti quantitativi di generi alimentari e danno
corpo al mercato nero quale unico mezzo per soddisfare le necessità di sopravvivenza della
popolazione. L’ostruzionismo di una parte consistente del mondo contadino impedisce la
costituzione e lo sviluppo delle fattorie sovietiche e di quelle collettive. Le stesse banche, nel
momento dell’ascesa al potere dei bolscevichi, danno vita al boicottaggio finanziario e paralizzano
ogni attività di scambio monetario aprendo gli sportelli solo poche ore al giorno o non aprendoli
affatto. I prelievi di denaro vengono così limitati e non vengono concessi crediti né
all’amministrazione pubblica, che deve far fronte alle urgenti necessità della collettività, né alle
fabbriche poste sotto il controllo operaio che devono pagare i salari. Di contro, finanziano
l’opposizione e sostengono le azioni di sabotaggio, e per sfuggire ai controlli presentano conti
truccati. Gli stessi impiegati bancari scendono in sciopero determinando un prolungamento dello
stato di difficoltà per il nuovo governo. Solo verso la metà di gennaio del ’18 il sistema del credito
comincia a operare secondo le nuove direttive e solo dopo che la maggior parte degli istituti bancari
sono stati posti in liquidazione.
Contro la rivoluzione si schierano anche gli alti funzionari dello Stato i quali sabotano le attività
pubbliche e organizzano scioperi per eludere le misure del governo dirette all’attuazione delle
trasformazioni socialiste. E pure la maggioranza degli intellettuali, almeno nel periodo
immediatamente successivo all’insurrezione, trovano conveniente seguire la via della democrazia
piccolo-borghese piuttosto che aderire al potere dei soviet.
La presenza diffusa di questi soggetti avversi al bolscevismo favorisce l’azione di sabotaggio da
parte degli organi di approvvigionamento e conseguentemente milioni di persone vengono
minacciate dalla fame e dalla penuria dei beni di prima necessità.
Ma non basta. Al tempo della rivoluzione d’ottobre il più grande e organico dei sindacati risulta
essere quello dei ferrovieri. Il suo Comitato esecutivo è composto nella stragrande maggioranza da
socialisti di destra e di sinistra, da menscevichi e da indipendenti, nonostante che la più parte dei
ferrovieri simpatizzino per i bolscevichi. Questo sindacato funziona come una specie di gigantesco
comitato di fabbrica che esercita il “controllo operaio”. Quando i bolscevichi prendono il potere, il
suo atteggiamento verso di loro è negativo e minaccia lo sciopero delle ferrovie qualora non si fosse
costituito un governo di coalizione. L’ultimatum costringe i bolscevichi a entrare in trattativa con
tutti i partiti socialisti e per ripristinare il controllo su tutte le ferrovie della Russia, Lenin deve
scendere a compromessi e procedere alla costituzione di un nuovo esecutivo.
Nella prima fase della rivoluzione, tutte le organizzazioni antisovietiche sono nelle condizioni di
operare legalmente. La stampa borghese e socialista-rivoluzionaria-menscevica esce normalmente
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non esistendo alcuna misura di censura. Per un certo periodo il “Comitato di salvezza”, la Duma di
Pietrogrado e varie altre organizzazioni antisovietiche possono agire in maniera aperta e in modo
indisturbato. E già nella fase successiva all’“ottobre”, proprio grazie al regime di libertà sancito
dalla rivoluzione, si vanno formando le organizzazioni controrivoluzionarie e si organizzano senza
alcuna difficoltà numerosi centri cospirativi clandestini che praticano il sabotaggio.
A queste istanze fanno riferimento anche i menscevichi sostenitori della difesa della patria e i
menscevichi internazionalisti, i socialisti-rivoluzionari di destra e quelli di sinistra, i socialisti
popolari e i rappresentanti del soviet panrusso dei deputati contadini.
Nei mesi successivi all’insurrezione si scopre un complotto contro il governo che coinvolge i
kalediniani e che è ordito dagli imperialisti americani e non solo da questi. La controrivoluzione dà
vita a Pietrogrado, a Mosca e in altri centri del Paese a numerose organizzazioni cospirative tra le
quali “Tutto per la patria”, “Organizzazione della lotta contro i bolscevichi e per l’invio di truppe a
Kaledin”, “La croce bianca”, “Il punto nero”, “Unione per l’aiuto reale”. Dietro la copertura di
organizzazioni di beneficenza si creano i comandi clandestini delle bande delle “guardie bianche”.
I nemici del socialismo ricorrono anche alla lotta antisemita, a una vera e propria campagna di
pogrom che, tra il 1918 e il 1920, causa non meno di 60 mila vittime nella sola Ucraina, tutti ebrei
barbaramente trucidati.
Di fronte a una situazione tanto grave e pericolosa, Lenin, a tre mesi dalla presa del potere, insiste
perché si proceda all’arresto e alla fucilazione dei sabotatori, degli accaparratori e dei funzionari
corrotti.
E’ da tenere conto, altresì, che nel periodo tra il ‘18 e il ‘20 la Russia sovietica è accerchiata in ogni
angolo dei suoi confini e che il territorio su cui può governare con una certa tranquillità è ridotto
alla sola area centro-settentrionale del Paese. Per far fronte all’assedio delle forze inglesi, francesi,
giapponesi, americane e di altre nazionalità, i bolscevichi devono distribuire le loro forze armate su
ben sette fronti.
Nell’intento di rompere l’accerchiamento, e convinto che gli operai polacchi si sarebbero sollevati
contro il loro regime militare accogliendo le truppe sovietiche come liberatrici, Lenin dirige
l’Armata Rossa contro la Polonia, ma essa viene sconfitta a Varsavia e il tentativo di portare la
rivoluzione in quel Paese si traduce in un fallimento.
Fatto è che l’intervento militare degli Stati antibolscevichi impone alla neonata repubblica dei
soviet tre anni di dure lotte per l’esistenza. L’Urss nasce come fortezza assediata, e non solo dagli
eserciti. Turchia, Persia, Afghanistan ed Estremo Oriente vengono inondati da agenti
dell’imperialismo i quali hanno a disposizione riserve di oro e altri beni da distribuire allo scopo di
erigere attorno alla patria dei soviet un accerchiamento economico e politico, oltre che militare.
Mentre viene decretato l’embargo, i Paesi occidentali pongono fine a ogni scambio di merci con la
Russia che si trova così nella condizione di vivere e sviluppare la sua economia nel totale
isolamento internazionale.
Quando Lenin prende il potere l’esercito russo è in condizioni di disfacimento a causa del conflitto
con la Germania e successivamente verrà dissolto dalla guerra civile. Di fronte all’assedio delle
forze imperialiste, il Paese dei soviet vanta scarse e inadeguate difese. Può contare soltanto su una
massa di milioni di soldati sbandati, disarmati, scoraggiati e affamati. Dal punto di vista della
disciplina militare regna il caos, poiché gli ufficiali nutrono un atteggiamento ostile verso il nuovo
regime. Del resto, il vecchio apparato di comando zarista è stato distrutto, assieme al potere statale,
dagli stessi rivoluzionari.
A questo proposito è da ricordare che non solo la 1a, ma anche la 2a Internazionale avevano fatto
propria la linea dell’abolizione degli eserciti permanenti e della loro sostituzione con quella che
veniva variamente definita la “milizia popolare”. Nell’ambiente dei funzionari del partito domina
pertanto quasi unanime l’opinione secondo cui l’esercito permanente deve essere definitivamente
abolito.
A metà di gennaio del ‘18 il Consiglio dei commissari del popolo approva il decreto che istituisce
l’Armata rossa e designa quale suo organizzatore e dirigente Lev Trotzkij. La nuova milizia viene
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costruita attorno a un gruppo di ex ufficiali zaristi di diverso grado e all’inizio del ’19 può contare
su 30.000 unità. All’atto della sua costituzione viene anche creato un reparto internazionale
dell’esercito “rosso”. E sarà proprio l’Armata rossa a sconfiggere le truppe “bianche” e a resistere
all’assedio delle truppe imperialiste.
Un'altra scelta fondamentale che Lenin compie è quella relativa all’accordo di pace con la
Germania. Convinto che la rivoluzione internazionale è ormai prossima, egli procede con una certa
sollecitudine alla sottoscrizione del trattato di Brest-Litovsk la cui efficacia, egli suppone, dovrebbe
avere carattere transitorio. Il trattato, però, comporta di fatto grandi sacrifici economici per la
Russia, e suscita inevitabilmente disappunti e contrarietà nello stesso gruppo dirigente del partito.
Alla sua firma si oppone Bucharin e con lui altri dirigenti i quali considerano il patto un tradimento
dei principi rivoluzionari e ritengono che sia invece più opportuno dare continuità alla guerra per
innestare la rivoluzione in Occidente. Lenin si dimostra fermo nei suoi propositi e intendendo
conseguire la pace, in presenza di un Paese in stato di rovina e di impotenza, considera prioritario
scongiurare la minaccia di una possibile invasione tedesca. E le sue preoccupazioni non mancano
certo di fondamento.
A rendere disastrosa la situazione della Russia non sono però solo le conseguenze della guerra, ma
concorrono pesantemente la sua arretratezza economica, i retaggi feudali e dell’autocrazia che
ancora condizionano la vita comunitaria e anche la scarsa quantità e qualità del proletariato quale
soggetto del cambiamento. Non si deve dimenticare che solo nel 1861, cioè neanche quaranta anni
prima, i contadini russi hanno cessato di essere servi della gleba; che fino ad allora non si era
verificato nessuno sviluppo delle attività industriali; che la quasi totalità della popolazione era
ancora relegata a una condizione di schiavitù, di analfabetismo e che l’orgoglio del proprio lavoro e
il rispetto per se stessi erano sentimenti sconosciuti.
Fino a qualche tempo prima il modo di produzione era rimasto ancora quello di tipo “asiatico”,
secondo la definizione che Marx gli aveva attribuito nelle sue analisi. E se pure era caratterizzato
dalla presenza della “comune di villaggio”, il surplus prodotto dai contadini finiva nelle casse del
dispotico sistema monarchico il quale in cambio assicurava le infrastrutture necessarie alla
comunità e provvedeva alla sua assistenza.
Il ciclo di produzione era fondato sul principio dell’autosufficienza e l’agricoltura era integrata con
forme primordiali di industria. L’obscina era la comunità formata da famiglie aventi una stessa
origine, mentre il mir era l’associazione delle comunità agrarie e aveva un’autonomia economica e
politica. A capo di questa comunità vi era l’anziano del villaggio (starosta) che decideva la
distribuzione delle terre. Il cosiddetto “comunismo primitivo di villaggio” altro non era che
un’istituzione di tipo tribale la quale ha subito modifiche nel corso dei secoli, ma non è mai stata
eliminata sopravvivendo al feudalesimo. Esempi di tale forma di produzione sono esistiti nel Perù
degli Incas, nell’Egitto antico, nell’Assiria e in Messico.
I membri delle comuni producevano tutto ciò che era essenziale per la vita loro e dei loro padroni e
avevano pochi, se ne avevano, rapporti di scambio e pertanto il mercato e il denaro occupavano un
posto del tutto trascurabile nella loro esistenza. Il singolo individuo non era un essere autonomo nei
confronti della comunità, ma era pienamente subordinato alle sue regole e ai suoi principi.
All’indomani della riforma contadina del 1861, dal momento che l’autocrazia punta a una
industrializzazione relativamente rapida, lo sviluppo del capitalismo industriale viene favorito con
tutti i mezzi. Risultando però esso limitato a soli pochi centri territoriali, la Russia dei primi del
Novecento si presenta come il meno sviluppato dei principali paesi europei, anche se è la regione
più industrializzata e modernizzata del mondo extraeuropeo.
Con le sue riforme democratiche-borghesi il nascente capitalismo non riesce però a sostituire del
tutto le strutture, i rapporti e le tradizioni dell’assolutismo feudale. Tanto è che ancora al tempo
della rivoluzione bolscevica sopravvivono alcuni istituti tipici della servitù della gleba come la
pratica dei pagamenti a titolo di riscatto, la responsabilità collettiva dei pagamenti, le tasse gravanti
esclusivamente sui contadini, le leggi restrittive della libertà di movimento e della libera vendita
della terra e altre pratiche del genere. Nonostante l’obscina sia stata abolita molto tempo prima con
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l’entrata in funzione degli zemstvo e il mir sia stato riformato, nella terra degli zar l’ipoteca feudale
continua ad agire anche dopo l’avvento del capitalismo producendo una serie di contraddizioni
economiche e sociali esplosive.
La pressione del capitalismo europeo impone di fatto alla Russia, sotto la guida di uno Stato
autocratico, una industrializzazione che non produce uno sviluppo adeguato delle forze produttive.
La manifattura rimane un’attività annessa alla campagna e l’industria moderna risulta fortemente
concentrata territorialmente entrando così in contraddizione con la ristrettezza del mercato interno.
Si pensi che la più grande fabbrica del mondo, al tempo della rivoluzione, è insediata proprio a
Pietrogrado e conta ben 40 mila operai.
In sostanza, l’avvento del capitalismo in Russia produce un proletariato che è molto concentrato e
isolato, mentre la borghesia non può che essere debole non solo numericamente, ma anche
socialmente e politicamente, e pertanto incapace di condurre a termine la sua rivoluzione, quella
borghese appunto.
Al momento dell’insurrezione del ’17, i contadini costituiscono il 90% della popolazione. La loro
mentalità è ancora quella del vecchio mir. Il restante 10% è composto dalla nobiltà, dai funzionari
statali e dal proletariato in formazione.
Mentre i contadini sono incapaci di iniziativa politica autonoma in dimensione nazionale e sono
affetti di “cretinismo localistico”, la piccola borghesia, rappresentata dal Partito cadetto, è
prigioniera delle vecchie tradizioni.
Poco prima della sua morte Lenin scriverà a proposito delle difficoltà che ha incontrato nel portare
avanti il suo progetto: “Molti anni sono passati, la Russia ha attraversato tre rivoluzioni, eppure gli
Oblomov sono sempre lì… Oblomov non è solo un proprietario terriero o un contadino, è anche un
intellettuale; e non è solo un intellettuale, è anche un operaio e un comunista... Il vecchio Oblomov
è rimasto tra noi, e noi dobbiamo lavarlo, ripulirlo, scuoterlo e trascinarlo per ottenere qualche
cosa di significativo da lui”.
Oblomov è un personaggio creato dallo scrittore russo Gonciarov, che come Lenin è vissuto a
Simbirsk. Questo personaggio rappresenta uno straordinario concentrato delle doti negative
dell’animo russo, anzi della piccola borghesia intellettuale dell’Ottocento, e cioè: l’incertezza,
l’indolenza, l’incapacità di capire le cose e la scarsa volontà nel cambiare.
E Lenin insiste frequentemente sull’”arretratezza” e sulla “mancanza di cultura” del popolo russo.
E pensare che lui stesso considera utopistico ritenere che la nuova società possa essere creata da
“uomini particolarmente virtuosi allevati in serra”. E’ ben consapevole che il socialismo in Russia
deve essere costruito con “masse di materiale umano distorto da secoli e millenni di schiavitù, di
servitù, di capitalismo, di piccole economie individuali, e di guerra di tutti contro tutti per un posto
sul mercato, per più alti prezzi dei prodotti o del lavoro”. Eppure egli non può fare a meno di
esternare il forte disagio che incontra nel portare a termine l’impresa che si è proposto.
Ma a lamentarsi non è lui solo. Negli anni successivi alla rivoluzione Trotzkij denuncerà la presenza
nella realtà russa, oltre che di un diffuso analfabetismo, di “una mentalità arretrata, la carenza di
abitudini organizzative, l’incapacità di lavorare sistematicamente, l’assenza di una formazione
culturale e tecnica. Avvertiamo a ogni passo le conseguenze di queste condizioni di inferiorità nella
nostra economia e nella nostra edificazione culturale”.
E pure Stalin non tralascerà di rimarcare le difficoltà incontrate sottolineando, nel ’20, che “uno
degli ostacoli più gravi che s’oppongono alla realizzazione dell’autonomia sovietica è la grande
scarsezza di forze intellettuali d’origine locale nelle regioni periferiche e anche la scarsezza di
istruttori in ogni campo”.
Di fatto, le nazioni dell’ex impero zarista sono composte da popoli primitivi, privi di istruzione e di
qualsiasi esperienza politica.
Si tenga presente che, sia a causa della guerra civile e dell’assedio internazionale, sia poi per
l’avversione al bolscevismo, la maggioranza degli intellettuali e dei quadri dirigenti prende la via
dell’emigrazione. E’ stato calcolato che ben due milioni di persone qualificate siano fuggite nel
periodo successivo all’”ottobre” privando così il nuovo sistema di personale specializzato. Come
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denuncia un delegato al 1° congresso panrusso dei Consigli dell’Economia, in assenza di quadri
dirigenti, a dirigere un grande stabilimento metallurgico viene designato un sarto, mentre a dirigere
la produzione tessile viene chiamato un pittore (imbianchino). E in molti dei casi in cui i datori di
lavoro e i dirigenti sono rimasti al loro posto, questi oppongono resistenza, compiono atti di
sabotaggio o abbandonano gli stabilimenti.
La penuria d’ogni genere di necessità è cronica e si hanno casi di fabbriche costrette a sospendere il
lavoro per mancanza di materie prime. La contrazione della produzione nell’industria è più rapida
che nell’agricoltura ed è anche dovuta al fatto che la capacità produttiva del singolo operaio
diminuisce a causa della insufficiente alimentazione e della conseguente diminuzione del numero
degli addetti.
Per supplire alle necessità dell’Armata Rossa e della popolazione delle città, occorre a mala pena
l’intero quantitativo della produzione agricola, mentre l’industria non è neppure in grado di
produrre l’equivalente di manufatti indispensabile a ristabilire il normale processo di scambio. Nel
’19, per esempio, l’industria riceve solo il 10% delle normali forniture di combustibile. Più dei
quattro quinti delle aziende risultano inattivi. Nel ‘20 la produzione industriale risulta inferiore di
45-50 volte a quella degli Stati Uniti.
Nel settembre del 1920 la rivista ufficiale “Ekonomiceskaja Zizn’” così descrive la situazione:
“Dovremo esportare ciò di cui noi stessi abbisogniamo, al fine di poter acquistare in cambio ciò di
cui necessitiamo ancora di più. Per ogni locomotiva, per ogni aratro, dovremo letteralmente
sacrificare lembi strappati dal corpo della nostra economia”.
E poiché il sistema legale non è in grado di soddisfare i bisogni elementari della popolazione,
prendono corpo e si diffondono pratiche speculative e fraudolente.
Ma alle difficoltà economiche si accompagnano difficoltà d’altro genere. L’impraticabilità dei
progetti leniniani è dovuta anche a problemi politici di natura sia pratica che teorica. Anzitutto,
prima ancora che con la resistenza organizzata, i bolscevichi hanno dovuto fare i conti con il crollo
di ogni autorità; e il guadagnarsi la fiducia e l’adesione attiva di un popolo ridotto alla disperazione
non è certo cosa facile. Poi si sono scontrati con i loro stessi limiti. Render concreto un processo di
trasformazione sociale significa necessariamente procedere per tentativi, dare corso a
sperimentazioni le quali comportano anche soluzioni unilaterali e non sempre giuste e opportune,
ma che esigono, oltre al coraggio delle scelte e alla determinazione nel realizzarle, preparazione,
conoscenza, esperienza. Ebbene, i bolscevichi non dispongono di tutto questo, non vantano alcuna
esperienza concreta nella gestione del potere, non hanno le cognizioni e le abitudini in fatto di
organizzazione e direzione della società, non posseggono la cultura del comando e dell’intervento
nel sociale. Lo stesso vertice del partito, Lenin, Trotzkij, Bucharin, Kamenev, Zinoviev, Rykov,
Stalin, non possiedono le necessarie qualità per dare corpo a un nuovo sistema sociale e le
conoscenze che vantano sono prevalentemente di carattere teorico.
A costituire poi la classe rivoluzionaria dotata di una qualche consapevolezza sono i soli operai
metallurgici di Pietrogrado, mentre la massa degli insorti è pressoché sprovvista di una visione
progettuale dei mutamenti sociali. Per di più, a far riferimento ai bolscevichi sono soprattutto i
contadini poveri, e cioè analfabeti e con scarsa predisposizione a gestire situazioni complesse. I
contadini agiati, quelli con capacità e culture superiori, sono fedeli ai socialisti rivoluzionari di
destra e di sinistra e quindi sono schierati contro la rivoluzione. Mentre gli stessi aderenti al partito
non solo non vantano un livello di dottrina adeguato all’impresa che stanno per compiere, ma
esprimono addirittura posizioni politiche antitetiche, al punto di far dire allo stesso Lenin: “Gratta
molti comunisti e troverai sotto degli sciovinisti gran-russi”. Per non dire della limitata presenza
organizzativa del partito stesso: al momento della rivoluzione sul territorio russo sono presenti da
20 mila a 25 mila cooperative di consumo con 7 o 8 milioni di soci, mentre il movimento sindacale
è ancora in fase di sviluppo.
Sono queste alcune delle ragioni per cui molte delle iniziative prese dai bolscevichi, prima ancora di
scontrarsi con le attività di sabotaggio dei controrivoluzionari, hanno dovuto fare i conti, specie in
periferia, con l’inerzia delle vecchie tradizioni e abitudini.
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Le difficoltà incontrate dai bolscevichi sono dunque moltissime. Lenin ha dovuto costruire un
partito capace di tracciare una prospettiva socialista in un Paese in cui non soltanto mancava una
sufficiente tradizione culturale e una sperimentata articolazione politica, ma dove i meccanismi
economici capitalistici erano ancora in formazione ed erano fortemente condizionati dai residui
rapporti feudali.
La situazione in cui egli ha agito non era di certo matura per realizzare una società socialista. Non
esistevano né le condizioni economiche né le condizioni politiche perché l’esperimento potesse
funzionare. Lenin non ha voluto attendere che tutte le condizioni fossero mature, e data la
situazione in cui si è ritrovato, non poteva farlo, supposto che l’avesse voluto. L’esperienza storica
ci induce quindi a ritenere che il problema della rivoluzione in Russia aveva certo ragione di essere
posto, ma non poteva assolutamente essere risolto. Ha detto bene Schumpeter quando ha
sottolineato che il socialismo è stato costruito in uno “stato di immaturità”. E questa verità non può
e non deve essere mai dimenticata.
4.2 – Il “comunismo di guerra”
Ho già evidenziato il fatto che i bolscevichi danno il via alla costruzione del nuovo sistema senza
alcuna esperienza di governo, soprattutto senza avere idee chiare a riguardo della gestione
dell’economia. Questa imperizia li porta inevitabilmente a compiere valutazioni e scelte sbagliate.
Del resto, l’impresa che essi compiono è di per sé talmente grande e complessa che da parte di
chiunque la gestisca diventa difficile evitare errori.
Nelle “Tesi di aprile” Lenin sostiene che compito immediato dei bolscevichi è l’instaurazione del
socialismo anche se, per il momento, esso è limitato “ al controllo della produzione sociale e della
ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei Deputati e degli Operai”.
In settembre, quando l’assalto al “palazzo” è ormai nell’aria, egli traccia il cammino da percorrere
dopo la presa del potere e indica i provvedimenti che devono essere presi.
Essi riguardano:
1) la nazionalizzazione delle banche (la quale, sostiene, è “realizzabile con un sol tratto di penna”);
2) la nazionalizzazione dei grandi trust commerciali e industriali (zucchero, carbone, ferro, petrolio,
ecc.) e costituzione di monopoli di Stato (cosa che – a suo dire – si sarebbe potuta ottenere
facilmente considerato che i monopoli erano già stati creati dal capitalismo);
3) l’abolizione del segreto commerciale;
4) la concentrazione forzata delle piccole aziende in maniera di conseguire sia l’efficienza del
sistema produttivo sia il loro controllo;
5) la regolamentazione del consumo conseguibile mediante un giusto ed efficace sistema di
razionamento.
Tali provvedimenti vengono concepiti congiuntamente allo sviluppo del controllo operaio su tutto il
sistema produttivo in un quadro di pianificazione centralizzata.
E’ da tenere presente che fino al momento della rivoluzione, le inevitabili implicazioni pratiche di
un tale piano strategico non hanno mai costituito oggetto di riflessione e di discussione nel gruppo
dirigente bolscevico.
Preso il potere, Lenin decide di realizzare il “comunismo di guerra” che si basa su
due elementi fondamentali: a) la concentrazione dell’autorità e del potere economico, unitamente
alla centralizzazione del suo controllo e della sua direzione, attraverso il rimpiazzo delle piccole
unità di produzione con le grandi, oltre ad alcune misure di pianificazione; b) l’abbandono delle
forme commerciali e monetarie di distribuzione e l’introduzione del razionamento e della fornitura
gratuita, o a prezzi nominali, delle merci e dei servizi essenziali, cioè la sostituzione dell’economia
di mercato con un’economia “naturale”. Vengono così introdotte le tessere annonarie e attuata la
pianificazione dei più importanti articoli di consumo; e mentre su tutto il territorio si diffondono le
cooperative di consumo, alle classi abbienti viene fatto obbligo di lavoro e i loro consumi vengono
rigorosamente controllati.
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“L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e
uguaglianza di salario”, sentenzia Lenin. E in occasione del congresso dei soviet afferma: “Noi
sappiamo benissimo che la nostra opera è difficile, ma affermiamo che è socialista nei fatti solo chi
affronta questo compito fidando nell’esperienza e nell’istinto delle masse lavoratrici”.
Nella fase in cui le forze della controrivoluzione incominciano a perdere le loro basi d’appoggio e la
situazione sembra migliorare, egli insiste nel far presente che la rivoluzione comporta “molte
difficoltà, sacrifici ed errori”. “E’ una cosa nuova, mai vista nella storia, che non si può leggere nei
libri”, avverte. In effetti, in quel periodo, i rivoluzionari sovietici si trovano nelle condizioni di
dover ricercare a ogni costo una risposta immediata a tutto, e nel farlo compiono inevitabilmente
errori che sono destinati a ripercuotersi su larga scala e a coinvolgere l’intero potere statale.
Agli inizi della sperimentazione del “comunismo di guerra” l’idea stessa di “bilancio” è tabù e il
partito si occupa per la prima volta di problemi finanziari solo nel marzo del ’22, cioè con estremo
ritardo. E anche se la creazione dell’organo economico centrale, il Consiglio superiore
dell’economia, avviene nei mesi successivi alla rivoluzione, la cultura di governo dei bolscevichi,
come già ho sottolineato, si rivela decisamente inadeguata e insufficiente a dare risposte giuste ed
esaustive ai problemi che si presentano. Di fatto, la regolazione dell’economia, almeno agli inizi, è
affidata alla parte residuale dell’apparato tecnico- amministrativo-aziendale del vecchio regime
zarista il quale, seppure rimasto al proprio posto, si dimostra in larga misura ostile al nuovo sistema
e non è certo preparato tecnicamente e politicamente a dirigere il cambiamento voluto dai
bolscevichi. D'altronde, questi ultimi non potevano fare a meno delle competenze del vecchio
apparato. Lenin stesso, tra il ‘18 e il ‘19, si sofferma a più riprese sull’impossibilità di pervenire al
socialismo senza l’aiuto di questi “nemici di classe”, evidenziando così uno dei dilemmi della
rivoluzione russa.
E’ poi diffusa l’idea che con l’impegno del capitale e della tecnica stranieri, insieme con
l’abbondanza di materie prime, sia possibile accelerare la ricostruzione del Paese. Ai capitalisti
occidentali vengono pertanto prospettate delle concessioni relative allo sfruttamento delle foreste
nord-orientali, alle forniture di trattori per l’agricoltura, all’attivazione delle miniere. Queste
opportunità però non vengono nemmeno prese in considerazione dagli interessati e questo
atteggiamento avverso genera ulteriori motivi di delusione e di difficoltà.
La prima fase di attuazione del “comunismo di guerra” è così contraddistinta da un ricorso diffuso e
generalizzato a metodi violenti che, seppure giustificati dalla necessità di contrastare le azioni di
sabotaggio, rasentano il terrore.
Lenin sostiene che se la rivoluzione francese aveva ghigliottinato i propri nemici, quella proletaria li
obbliga a lavorare per essa. “Chi non lavora non mangia” è il credo pratico del socialismo dei
bolscevichi e nella categoria di chi deve essere rinchiuso in carcere sono inclusi anche “gli operai
che lavorano poco”; un simile principio, però, non viene mai reso operante.
Questo stato di costrizione indurrà molti storici (oltre ai politici anticomunisti) a individuare
l’origine dello stalinismo nelle stesse pratiche leniniane.
Già nel gennaio del ’18, il 3° congresso panrusso dei soviet adotta la Dichiarazione dei Diritti del
Popolo Lavoratore e Sfruttato, la quale proclama proprietà dello Stato tutte le fabbriche, le miniere
e i trasporti. Stesa dallo stesso Lenin, la Dichiarazione si propone come scopo principale la
soppressione di qualsiasi sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e l’abolizione della proprietà
privata dei terreni dichiarando la terra proprietà di tutto il popolo. Difatti, essa recita che “tutti i
boschi, il sottosuolo e le acque di importanza statale, come anche tutto il bestiame e gli strumenti di
lavoro, i poderi e le aziende agricole modello, vengono dichiarati proprietà nazionale”. Come
primo passo verso il completo passaggio delle fabbriche, delle miniere, delle ferrovie e degli altri
mezzi di produzione e di trasporto in proprietà della repubblica operaia-contadina sovietica, viene
confermata la legge del controllo operaio e viene deciso il passaggio di tutte le banche in proprietà
dello Stato. Nel suo programma economico e sociale Lenin si limita a inserire misure compatibili
con l’ulteriore sviluppo del capitalismo quali, ad esempio, la creazione di un’unica banca di Stato
che, per quanto sia una misura di carattere socialista, non comporta affatto la totale liquidazione del
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capitalismo. Le banche, per Lenin, costituiscono “i perni della moderna vita economica, i centri
nervosi essenziali di tutto il sistema economico capitalistico… Senza le grandi banche il socialismo
sarebbe irrealizzabile. Le grandi banche sono l’apparato statale che ci è necessario per la
realizzazione del socialismo e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo. Perciò, il nostro
compito in questo campo consiste soltanto nel tagliare da questo magnifico apparato ciò che lo
deturpa in senso capitalistico, renderlo ancora più grande, più democratico, più universale”. La
riunione di tutte le banche in una banca unitaria di Stato, che vanta filiali in ogni ramo dell’industria
e dell’apparato amministrativo, per lui, “è già per nove decimi un apparato socialista”.
L’idea delle banche come leve di controllo in una economia organizzata e pianificata risale a SainSimon e il ruolo che esse svolgono in tutta Europa, specialmente in Germania, sembra offrire una
conferma di questa tesi. Lenin sostiene che la mancata occupazione delle banche da parte della
Comune di Parigi è stata una delle principali cause della sua sconfitta.
A riguardo della riforma agraria va ricordato che mentre i menscevichi sono per la
“municipalizzazione” delle terre (proprietà affidata agli organismi di democrazia locale) e per il
loro affitto ai contadini, Lenin è per la loro nazionalizzazione. “I contadini devono esigere di essere
lasciati liberi di decidere essi stessi i loro affari, di discutere, di suggerire e istituire essi stessi
nuove leggi”, sostiene. Egli è convinto che “il sistema dei rapporti economici vigenti nel villaggio
‘comune’ non rappresenta affatto un sistema originale di ‘produzione popolare’, ma un comune
sistema piccolo borghese. Ad onta delle teorie invalse da noi nell’ultimo mezzo secolo, la comunità
contadina russa non è l’antagonista del capitalismo, ma, al contrario, la sua base più profonda e
più solida”. Ritiene perciò impossibile costruire il socialismo senza la socializzazione
dell’agricoltura, impossibile socializzare l’agricoltura senza i trattori, impossibile ottenere i trattori
senza una rivoluzione proletaria internazionale. In effetti, gli ostacoli alla costruzione del sistema
socialista dipendono anche dall’esistenza di una agricoltura contadina che in gran parte è arretrata e
il cui indice di produttività è tre o quattro volte inferiore a quello dei paesi più progrediti
dell’Europa occidentale.
Fatto è che la rivoluzione ha dovuto accettare come necessario prezzo da pagare per la sua
sopravvivenza, le occupazioni e le distribuzioni delle terre messe in atto dai contadini stessi nel
corso del biennio ’17-‘18.
Con l’attuazione del comunismo di guerra e con la messa fuori legge dei socialisti rivoluzionari di
sinistra, in seguito all’assassinio di Mirbach, viene praticamente a cessare qualsiasi opposizione alla
politica agraria bolscevica. Al fine di ottenere i rifornimenti, il governo è costretto a intensificare il
sistema delle requisizioni mediante le squadre operaie e i comitati dei poveri. Impone al contadino
la cessione di tutto ciò che eccede il suo fabbisogno e quello della sua famiglia. Questa imposizione
si rivela però fatale. La requisizione forzata ai kulaki, o presunti tali, delle eccedenze che spesso
vengono calcolate in modo arbitrario, provoca le due tipiche reazioni del contadino: in un primo
momento, l’occultamento delle scorte, in seguito, il rifiuto di seminare una superficie di terra
appena superiore a quella necessaria per sfamare la propria famiglia.
Mentre la requisizione di beni come il pane e lo zucchero è già in vigore da prima della rivoluzione
di febbraio, dopo l’ottobre viene estesa al grano, al mangime, alle patate, alla carne, al pesce e a
tutti i grassi animali e vegetali, compresi i semi di canapa, di girasole e di lino. Le requisizioni
forzate di prodotti agricoli provocano numerose rivolte popolari e quelle che si svolgono in Ucraina
e in Crimea, le quali sono dirette dall’anarchico Machno, rappresentano solo la punta di un iceberg.
L’estensione e l’intensificazione di questa politica favorisce lo sviluppo degli scambi in natura e, di
conseguenza, della “borsa nera”, una pratica questa che del resto è presente da tempo in modo
diffuso in tutto il Paese.
Lenin ha ben presente cosa comportano provvedimenti coercitivi quali l’espropriazione delle terre e
la requisizione dei prodotti. A questo riguardo si è detto convinto che “la violenza nei confronti dei
contadini medi costituisce un grandissimo danno...(ed) agire in questo campo con la violenza
significa rovinare tutto”. A suo parere “l’obiettivo non è di espropriare il contadino medio, bensì di
tener conto delle particolari condizioni della vita contadina, d’imparare dai contadini il modo di
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passare a un miglior regime!”. La sua avvedutezza e coerenza sono tali che anche dopo l’ottobre la
rendita ai proprietari degli appezzamenti di terra espropriati prima della rivoluzione per costruire
ferrovie, strade ed edifici pubblici, continua a essere regolarmente garantita.
La drammatica situazione in cui si trova la Russia all’indomani dell’“ottobre rosso” impone però
scelte dolorose e impopolari.
Il comparto industriale viene organizzato secondo il principio della produzione in serie su larga
scala. Questa scelta viene fatta nonostante che la nazionalizzazione generalizzata dell’industria non
faccia parte del programma iniziale. L’idea di Lenin è quella di realizzare, per il momento, un
“capitalismo di stato” lasciando agli stessi proprietari sia il possesso che la direzione delle aziende.
Lo Stato, a suo giudizio, dovrebbe imporre le linee generali dello sviluppo e limitarsi a esercitare il
controllo. I comunisti di sinistra invece premono per l’immediata nazionalizzazione di tutta
l’industria, considerando la linea di Lenin una “conciliazione col capitale”. In marzo, per fare un
esempio eloquente, l’imprenditore Mescerskij avanza la proposta di creare un nuovo trust
metallurgico del quale il suo stesso gruppo avrebbe posseduto metà delle azioni mentre allo Stato
sarebbe andata l’altra metà. Questa proposta viene respinta dall’opposizione di sinistra e Lenin non
manca di attaccare duramente la posizione intransigente di questi compagni.
La scelta della statalizzazione non avviene subito, ma dopo otto mesi dalla rivoluzione,
precisamente in seguito alla militarizzazione delle fabbriche imposta dalla guerra civile e
dall’invasione straniera, dopo che molte aziende, in specie quelle gestite dai capitalisti stranieri,
vengono chiuse dai loro stessi proprietari e occupate dai comitati dei lavoratori. Questa operazione
si rivela però un atto d’improvvisazione.
Le più importanti industrie del Paese sono chiamate a rifornire l’Armata rossa che è impegnata a
combattere le “forze bianche” e a respingere l’aggressione degli eserciti stranieri, pertanto le
aziende non possono arrestare l’attività, ma devono sottostare a una politica industriale che è
divenuta forzatamente elemento della strategia militare. E dato lo stato di emergenza in cui si trova
il settore, ogni decisione relativa al suo funzionamento viene presa senza tenere conto delle
conseguenze sul suo sviluppo futuro.
Si comincia col nazionalizzare l’industria dello zucchero, poi quella petrolifera e via via tutte le
altre. Il governo sovietico e Lenin personalmente non mancano di ammonire ripetutamente gli
organi locali contro la fretta di procedere alla nazionalizzazione, facendo presente che la presa di
possesso di quei mezzi di produzione non significa affatto socializzazione, ma questi richiami non
sortiscono alcun effetto.
La fretta e l’accelerazione dei tempi si spiegano, da un lato, con l’asprezza della lotta di classe,
dall’altro, con la diffusione di forme di resistenza e di sabotaggio che vengono attuate dalla
borghesia e dalle forze controrivoluzionarie.
Con il processo di nazionalizzazione dell’economia, lo Stato diventa così il principale datore di
lavoro del Paese e il lavoro perde formalmente le caratteristiche di merce tra le merci, non essendo
più subordinato al contratto di compravendita, e assume il concetto di servizio svolto a favore della
comunità. Almeno in teoria, questa diventa la nuova etica.
Nell’autunno del ’18 viene applicata una tassa straordinaria, “rivoluzionaria” che, secondo le
previsioni, avrebbe dovuto fornire dieci miliardi di rubli. Nel maggio del ‘19 il gettito reale
complessivo non raggiunge nemmeno il 10% di quanto preventivato. Questa scelta si rivela difatti
un clamoroso fallimento. Ancor meno fruttuoso si dimostra l’esperimento della tassazione in natura:
tutto ciò che eccede il fabbisogno familiare deve essere destinato all’Armata Rossa e alle città. E
questo fallimento si verifica nonostante che i commissari del popolo conducano una lotta accanita
contro la borghesia e contro gli agrari in tutti i campi della vita economica. Pertanto, non solo i
rapporti sociali continuano a essere percorsi da una conflittualità diffusa e insistente, ma gli stessi
nuovi governanti si dimostrano incapaci di dirigere l’economia nel suo complesso e di regolare e
assicurare gli approvvigionamenti all’esercito e alle popolazioni cittadine.
Nel ‘20 viene stabilito che è giunto il momento di “avviarsi verso una costruzione economica più
attentamente pianificata, verso la programmazione scientifica e la progressiva realizzazione di un
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piano statale per tutta l’economia nazionale”, tenendo conto dell’”importanza fondamentale” che
l’elettrificazione riveste per l’industria, l’agricoltura e i trasporti. E’ il periodo in cui Lenin lancia lo
slogan: “Il comunismo significa il potere sovietico più l’elettrificazione in tutto il Paese”.
Il Goelro mette a punto il piano per l’elettrificazione, mentre viene dato vita al Gosplan, la
commissione statale di pianificazione generale che incomincia a funzionare nel ‘21.
Nel corso del biennio ‘20-‘21 vengono inaugurate 221 centrali elettriche con una capacità di 12
mila kilowatt. Nel ‘21 una quota delle aziende industriali che erano state nazionalizzate, in specie
quelle con capitali modesti, vengono affidate alla direzione e al controllo dei privati. Nonostante
questi successi, però, il “comunismo di guerra” si rivela non adatto a far decollare lo sviluppo
economico-sociale della Russia.
Trascorsi quasi quattro anni dall’assalto al Palazzo d’inverno è lo stesso Vesencha, cioè il Consiglio
Superiore dell’Economia Nazionale, a mette in evidenza in un suo resoconto ufficiale come
all’apice stesso del potere sovietico regni una grande confusione. Recita questo documento:
“Mancano, fino ad oggi, elementi orientativi su ciò che deve intendersi per profitto, che spieghino
se esso dovrà essere registrato per intero, se da esso dovrà essere compiuta qualche detrazione per
rifornire di capitali l’azienda, in che modo si debbano valutare le attività rappresentate dai
prodotti invenduti, giacenti presso l’azienda, ecc.”.
E proprio in questo lasso di tempo, l’espansione dello sviluppo economico-sociale che ha raggiunto
le regioni della Siberia, del Turkestan e del Caucaso, dal punto di vista degli effetti, mostra molte
analogie tipiche del colonialismo capitalista.
4.3 – Dal controllo operaio all’abolizione del denaro
Nel periodo del “comunismo di guerra”, con l’eliminazione del mercato del lavoro, i bolscevichi
hanno abolito tutti i criteri capitalistici di assunzione e di controllo dei lavoratori, compresa la
contrattazione collettiva tra salariati e datori di lavoro. Allo scopo di eliminare gli strati parassitari
della società hanno istituito il servizio di lavoro obbligatorio.
Dopo che Trotskij ha invocato la militarizzazione del lavoro, per la prima volta nella storia, al ceto
borghese viene applicato il lavoro forzato: uomini e donne vengono impiegati nello scavo delle
trincee per difendere la capitale dagli attacchi delle truppe nemiche. Contemporaneamente, anche in
conseguenza della svalutazione della moneta e dell’interruzione dei normali processi di scambio, il
governo rivoluzionario procede alla graduale sostituzione del salario in denaro con i pagamenti in
natura ed emana tali provvedimenti senza preoccuparsi troppo della loro applicabilità nelle
condizioni in cui si trova il Paese. Obiettivo principale dei nuovi governanti è quello di passare
rapidamente alla dittatura del proletariato e seppellire il dominio del capitale insieme alle sue
norme.
Sulla base di un progetto ideato da Lenin, nel novembre del ’17 viene approvato il regolamento del
“controllo operaio”. I comitati di fabbrica che sono apparsi prima dell’ottobre, all’indomani della
rivoluzione fanno segnare uno straordinario sviluppo diffondendosi nella stragrande maggioranza
delle aziende.
Lenin propone di far assumere ai soviet degli operai, unitamente a quelli degli impiegati di banca e
degli ingegneri, la funzione di organi di controllo sui trust. Loro compito è quello di garantire il
controllo “sulla produzione, sulla conservazione e sulla compra e la vendita di tutti i prodotti e le
materie prime”. Alla metà del ‘18, questi organi di controllo risultano insediati in oltre il 70% delle
aziende con più di 200 operai, mentre coprono quasi il 25% del totale delle aziende, comprese
quelle piccole.
Durante la guerra civile la stragrande maggioranza dei capitalisti fugge dalle regioni dominate dai
bolscevichi e il mantenimento dell’attività produttiva e anche la direzione delle aziende, viene a
cadere improvvisamente sulle spalle di questi organismi operai i quali sono del tutto impreparati ad
assolvere a un simile gravoso compito.
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Inizialmente, il controllo operaio è concepito come mezzo per spezzare l’azione di sabotaggio dei
capitalisti tesa appunto a ostacolare il normale processo produttivo. Le stesse istruzioni del
Consiglio panrusso dei soviet specificano in maniera chiara che “la commissione di controllo non si
occupa delle questioni del finanziamento dell’azienda.... non ha il diritto di impadronirsi
dell’azienda e di dirigerla.... non partecipa alla direzione dell’azienda”. La funzione di questi
organismi, nel momento della loro istituzione, è limitata dunque a favorire l’autodisciplina, a
combattere la rilassatezza piccolo borghese e l’anarchia. Tanto è che uno dei successi conseguiti
dalle prime esperienze, e vantato dagli stessi delegati, è quello d’impedire lo svolgimento di
assemblee di ogni genere durante la giornata lavorativa.
Le funzioni del controllo operaio nelle aziende vengono adempiute oltre che dai comitati di
fabbrica, dai consigli degli anziani con la partecipazione dei rappresentanti degli impiegati e del
personale tecnico. L’attività di questi altri organismi viene svolta in comune con l’amministrazione
e con la direzione tecnica delle aziende.
Insomma, a garantire la gestione delle imprese i soviet si dimostrano impreparati. Solo in alcuni
casi gli operai danno segno di possedere le capacità tecniche, la disciplina e la conoscenza della
contabilità, indispensabili per mandare avanti un’azienda. E quando riescono ad assolvere i compiti
di direzione, lo fanno in base alla cultura e alla pratica ereditata dal capitalismo stesso. Scriverà
tempo dopo, riflettendo su quell’esperienza, l’economista sovietico G.Tsyperovic: “Questi nuovi
organi del potere proletario seppero utilizzare il metodo del calcolo centralizzato capitalistico, del
controllo e della regolazione per organizzare l’industria negli interessi di tutti i lavoratori contro
gli interessi del capitale”.
Il controllo operaio come forma di organizzazione non sopravvive alle prime settimane della
rivoluzione proprio a causa di questa generale inesperienza del “potere operaio”. Infatti, dopo che i
vecchi dirigenti delle aziende se ne sono andati o sono stati estromessi, i bolscevichi sono costretti a
pregarli di ritornare ai loro posti per garantire il funzionamento del sistema produttivo. Il credere
che i problemi della produzione e dei rapporti di classe nella nuova situazione possano essere risolti
mediante l’azione diretta e spontanea degli operai si rivela una chimera.
Del resto, il controllo operaio nelle aziende incontra da subito molti nemici. Anzitutto visi
oppongono gli imprenditori i quali alla sua introduzione rispondono con le serrate e il sabotaggio.
Nei mesi di novembre e di dicembre del ’17, infatti, nel corso dei loro congressi, le varie categorie
imprenditoriali mettono a punto veri e propri piani di lotta contro le interferenze del potere
bolscevico nel sistema produttivo, fino a ricorrere alla vendita delle stesse aziende alle compagnie
straniere. E a sostegno della rivolta padronale scendono in agitazione, oltre alle frange reazionarie
dei tecnici e degli ingegneri, anche i grandi finanzieri e le élite degli impiegati di banca. La stessa
Unione degli ingegneri di Pietrogrado, a metà di novembre, contrasta ufficialmente il
provvedimento governativo prendendo a pretesto che “gli operai nella loro massa non sono
preparati per attuare un controllo autonomo sulla produzione”.
A imbrigliare e sabotare il controllo operaio, dalla parte stessa dei lavoratori, sono poi i
menscevichi che non tollerano la sua centralizzazione nella mani del governo e non approvano la
sua funzione destabilizzatrice delle basi stesse del sistema capitalistico. Mentre i comunisti di
sinistra non lo prendono nemmeno in considerazione non considerandolo un obiettivo garante della
transizione al socialismo.
Se a tutto questo si aggiungono le condizioni di caos in cui si trovano le forze produttive, le
immense difficoltà di governo dei rapporti di produzione, la presenza diffusa di tendenze
aziendaliste, sindacaliste e separatiste, si comprende facilmente come il destino di un simile
ambizioso obiettivo, complesso e difficile da conseguire persino in situazioni ben più mature e
consolidate sul piano economico e socio-politico di quelle esistenti in Russia, non potesse essere
altro che quello del fallimento.
Il problema del controllo operaio è strettamente legato a quello della rappresentanza sindacale, e
anche su questo versante non manca l’insorgenza di problemi enormi.
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Mentre fino alla rivoluzione d’ottobre i bolscevichi erano interessati a sostenere i comitati di
fabbrica di orientamento rivoluzionario, contro i sindacati che erano favorevoli invece a un’azione
ordinata e vantavano una base prevalentemente menscevica, dopo la presa del potere la loro
posizione necessariamente muta. Poiché obiettivo della politica sovietica diventa la subordinazione
del sindacato all’azione del governo centrale, viene imposto ai comitati di fabbrica un
comportamento disciplinato. Fautori del più rigido centralismo e della piena sottomissione dei
sindacati al partito e allo Stato sono Trotskij e Bucharin, mentre “Opposizione operaia” rivendica
l’affidamento della direzione delle aziende al sindacato pretendendo che questo sia gestito dal
basso. Tra queste due tendenze Lenin gioca il ruolo di mediatore, essendo contrario ad affidare la
gestione delle industrie “alla massa degli operai senza partito” e respingendo le posizioni che
rifiutano il centralismo autoritario. Poiché alcuni comitati di fabbrica si attestano su posizioni
strettamente aziendalistiche, difendendo interessi corporativi, viene deciso di porre i comitati di
fabbrica sotto il controllo dei sindacati. Ma neppure questo provvedimento consegue lo scopo e
poiché molti soviet esprimono una marcata tendenza sindacalista, viene ravvisata l’opportunità di
porre questi organismi sotto il controllo e la direzione del partito.
Con il passare del tempo, soprattutto nel campo della politica industriale, il contrasto fra controllo
statale e controllo operaio assumerà dimensioni notevoli e alla fine si risolverà con la
prevaricazione del centralismo burocratico.
Il 1° congresso panrusso del sindacati sancisce il principio secondo cui “nella loro forma più
sviluppata, i sindacati dovranno divenire, nel corso dell’attuale rivoluzione socialista, organi del
potere socialista” e i lavoratori vengono chiamati alla partecipazione nella regolamentazione e
nell’organizzazione dell’economia nazionale attraverso di essi. E’ il caso di ricordare che nella
preparazione della rivoluzione i sindacati non hanno avuto alcun ruolo attivo. L’alleanza tra
governo e le organizzazioni dei lavoratori ha lo scopo di eliminare l’anarchia del controllo operaio e
di condizionare i criteri con cui vengono eletti i comitati di fabbrica. E’ così che già dopo pochi
mesi dall’ottobre i sindacati diventano i paladini dell’ordine, della disciplina e della direzione
centralizzata della produzione. La tendenza a concepire il movimento sindacale come ausiliario del
partito e strumento della sua politica, è del resto intrinseca alla dottrina bolscevica.
Al congresso si registrano due differenti posizioni: da una parte i menscevichi che sono per
l’indipendenza dei sindacati, dall’altra i bolscevichi che invece la contrastano. Il menscevico
Martov sostiene che “i compiti del movimento sindacale consistono non nel mettersi al servizio del
potere come istituzione dipendente, ma nel prendere parte a tutta la vita economica in quanto gli
elementi di realismo, di marxismo e di socialismo scientifico e la presa in considerazione delle
forze reali permettono al sindacato come organizzazione autonoma di portare correttivi nei piani
del potere”. Le sue ragioni però non vengono prese in considerazione e a prevalere sono le
posizioni dei bolscevichi. Lenin è del parere che essendo “il nostro uno Stato operaio, ma con una
deformazione burocratica, noi dobbiamo servirci delle organizzazioni operaie per difendere gli
operai dal loro Stato e per difendere mediante gli operai il nostro Stato”. E si dichiara nettamente
contrario a ogni legge “che sostituisca allo sciopero la mediazione obbligatoria dello Stato”.
Secondo la logica che poi prevarrà, solo i comunisti iscritti da parecchi anni al partito possono
essere eletti alle cariche più importanti dell’organizzazione sindacale.
Le divergenze tra menscevichi e bolscevichi non si limitano peraltro al ruolo del sindacato, ma
investono le stesse politiche del lavoro, in particolare quella salariale.
I menscevichi, la cui base è formata in prevalenza da operai specializzati, si presentano come i
naturali sostenitori dei salari differenziati, mentre i bolscevichi difendono la parificazione, anche se
è da ricordare che, nonostante gli argomenti addotti da alcuni teorici del partito, nella pratica il
nuovo regime non contrasta affatto la politica dei salari differenziati. Se inizialmente, con il
comunismo di guerra, i bolscevichi sopprimono ogni forma di incentivo preferendo contare
sull’entusiasmo rivoluzionario, cioè sull’emulazione (ma anche sulla coercizione), con il passare del
tempo sono costretti a compiere un ripensamento.
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Al 2° congresso panrusso dei sindacati viene deciso che la politica salariale deve certo fondarsi
sull’emulazione, ma pure sugli incentivi, cioè sul principio dei cottimi e dei premi e ove non sia
possibile introdurre i cottimi, su rigide norme di produzione.
Le nuove tabelle salariali vengono applicate nelle città e nei dintorni di Mosca con decreto. Il
salario minimo di un operaio adulto viene fissato in 600 rubli mensili, quello più alto, per il
personale amministrativo qualificato, in 3.000 rubli mensili; ai commissari del popolo è destinato
un salario di 2.000 rubli. Si tratta di parametri ben lontani dal salario uguale per tutti. Rispetto però
alle sperequazioni esistenti, essi riducono fortemente le differenze. A partire dalla fine degli anni
’20, difatti, lo scarto tra i salari più bassi e quelli più alti non va oltre il rapporto di 1 a 3.
Secondo i calcoli dell’economista S.G.Strumilin, la produzione oraria di un operaio – nella media di
tutti i settori del lavoro industriale – nel ’18, rispetto al periodo prerivoluzionario, è diminuita del
33-35%. I dati di Pietrogrado testimoniano che il 44% della diminuzione della produttività è
avvenuta a causa della fame e del grave esaurimento dell’organismo degli operai, il 10% a causa del
peggioramento delle materie prime e dell’usura delle attrezzature, il 25% a causa dei difetti
nell’organizzazione del lavoro, e il 21% a causa della diminuzione della disciplina del lavoro.
Sempre secondo i calcoli di Strumilin, un operaio di Pietrogrado nel ‘19-20 riceve soltanto il 45,6%
di calorie rispetto al periodo prerivoluzionario.
Per elevare la produttività del lavoro viene pertanto ammessa l’introduzione dei cottimi. Uno dei
primi a legittimare premi e avanzamenti individuali, imponendo l’emulazione socialista su nuove
basi, è Trotskij. Questa misura però crea malumori e contrasti tra i lavoratori.
Il compito di dirigere il movimento della produzione e della distribuzione viene così delegato ai
rappresentanti dei sindacati, delle organizzazioni proletarie e delle associazioni di fabbrica. Si
formano cioè delle direzioni generali, articolate verticalmente e sotto la conduzione di una sola
persona, le quali stravolgono nella pratica il carattere collettivo degli organismi di base. A dirigere
di fatto i processi produttivi vengono designati i glavki che con il passare del tempo creano una loro
mitologia della centralizzazione e avallano il sistema di gestione del “comunismo di guerra” come
l’unica forma possibile di direzione dell’economia per la transizione al socialismo. E’ così che
nasce, accanto a quella vecchia, una nuova burocrazia: la burocrazia socialista.
Eppure, per creare i nuovi rapporti, per costruire una nuova forma di vita sociale, occorrerebbe
passare dal controllo alla gestione, dagli organi di controllo operaio ai consigli dell’economia
diffusi sul territorio, dal capitalismo di Stato su cui si fonda il controllo operaio alla socializzazione,
alla creazione di una forma economica socialista. Un simile percorso si rivela però impraticabile
nella Russia postrivoluzionaria e nemmeno a livello teorico esso rappresenta, in termini
significativi, oggetto di riflessione e di confronto politico all’interno del gruppo dirigente
bolscevico.
Nel ‘21 la situazione peggiora a causa di una carestia: la siccità danneggia i raccolti, le scorte si
esauriscono, i trasporti precipitano nel caos. La crisi è un effetto non solo del “comunismo di
guerra”, ma anche la conseguenza dell’accerchiamento politico ed economico che l’imperialismo,
nelle sue diverse modalità e dimensioni, impone nei confronti del bolscevismo. Viene costituito un
comitato panrusso per gli aiuti agli affamati.
Lenin richiede categoricamente “la nomina in ogni centro locale di singoli funzionari responsabili,
scelti dalle organizzazioni dei ferrovieri”, e “l’obbedienza incondizionata ai loro ordini”. “La
sottomissione senza riserve a un’unica volontà è assolutamente necessaria per il buon esito dei
processi del lavoro”, giustifica. Si tratta di un provvedimento che viene aspramente criticato sia dai
socialisti rivoluzionari di sinistra sia dall’opposizione di sinistra dei bolscevichi; per entrambe
queste componenti esso è una conseguenza negativa del processo di centralizzazione del potere.
In segno di protesta, alcuni soviet non consegnano alle casse dello Stato le imposte raccolte
localmente. I soviet di Tsaritsyn, Samara, Kazan e di altre città impongono proprie tariffe doganali e
tassano il petrolio che da Baku viene trasportato al resto del Paese. Se durante lo zarismo una simile
azione era considerata dagli stessi bolscevichi del tutto legittima come forma di lotta al vecchio
Stato poliziesco, ora viene da loro vissuta come un atto reazionario contro il governo socialista.
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Unitamente a questi problemi esplode la contraddizione relativa all’eliminazione del denaro e alla
introduzione della gratuità dei servizi. Con l’abolizione della proprietà privata i bolscevichi cercano
di restringere gli spazi ai rapporti di denaro e di scambio fino al punto di eliminarli dalla pratica
economica. La scienza delle finanze viene considerata l’ancella della politica economica e per
questa ragione il portavoce del Narkomfin (Commissario del popolo delle finanze) decreta la sua
scomparsa.
Al 1° congresso panrusso dei Consigli dell’Economia, Aleksandr N. Smirnov, esponente
dell’opposizione di sinistra, profetizza che “quando si giungerà al pieno trionfo del socialismo, il
rublo non avrà alcun valore e si avrà una scambio senza denaro”. Di fatto questa pratica diviene
operante da subito, anche se nessun serio comunista ebbe mai a considerare l’abolizione del denaro
come un obiettivo immediato.
Menftre Zinov’ev, nel ‘19, ha sostenuto che “noi stiamo avvicinandoci alla completa abolizione
della moneta”, all’8° congresso del partito viene categoricamente affermato che “nel primo periodo
del passaggio dal capitalismo al comunismo... l’abolizione del denaro è impossibile”.
All’abolizione del denaro si sarebbe giunti solo nella fase del passaggio dal socialismo al
comunismo, quando cioè sarebbe avvenuta la rivoluzione proletaria in Europa. In realtà, anche a
causa dell’inflazione che si è rivelata indomabile, la moneta ha cessato di avere importanza da
subito dopo l’ottobre e gran parte del commercio ha incominciato a svolgersi sulla base del baratto.
In assenza dell’assunzione come criterio di governo della scienza delle finanze, e in presenza di un
uso marginale della circolazione del denaro, il Consiglio dell’Economia nazionale (Sovnarchoz)
propone l’introduzione di una nuova unità di contabilità economica che adotta come base di calcolo
“l’unità di lavoro”. Viene in sostanza ripetuto l’esperimento compiuto da Robert Owen il quale
nelle sue colonie modello, più di mezzo secolo prima, aveva introdotto la “moneta di lavoro”.
La popolazione viene divisa in tre categorie: la prima comprende gli addetti ai lavori manuali
pesanti, la seconda i lavoratori in genere e le loro famiglie, la terza i membri della borghesia. Alla
prima vengono assegnate razioni alimentari quattro volte più grandi di quelle corrisposte alla terza;
alla seconda razioni tre volte maggiori di quelle destinate ai borghesi. In alcune località le categorie
di razioni si diversificano a tal punto da poterne contare addirittura una ventina. Comunque, da una
statistica del tempo si evince che negli anni ’19 –‘20 soltanto il 20-25% dei generi alimentari veniva
distribuito con il criterio delle razioni.
Gli operai vengono pagati in parte con i prodotti della fabbrica in cui lavorano e quindi ricevono
merci che devono poi barattare. Il servizio postale è gratuito, come pure la distribuzione dei pasti
nelle fabbriche delle città e l’assegnazione degli abiti per i bambini delle scuole. Nel ‘20, per gli
operai e gli impiegati di Mosca e Pietrogrado vengono istituite le mense popolari gratuite. Per i
servizi pubblici (posta, telegrafo, telefono, acqua, fognature, luce elettrica, ecc.) viene decretata
l’abolizione dei pagamenti e l’uso gratuito.
Esistono, l’uno accanto all’altro, due diversi sistemi di distribuzione: quella a cura degli organi
statali, a prezzi fissi (e poi gratuitamente), e quella attraverso il commercio privato.
Il commercio estero non ha praticamente alcuna parte nell’economia sovietica. L’isolamento
imposto dal blocco alleato all’inizio del ‘18, diviene completo dopo il crollo della Germania.
L’eliminazione della moneta e l’introduzione dell’economia “naturale” sono in realtà provvedimenti
che scaturiscono non tanto dalla determinazione politica dei nuovi governanti, quanto invece dalla
loro incapacità di risolvere i problemi di un’economia agricola arretrata che vede occupata circa
l’80% dell’intera popolazione. Il fallimento del “comunismo di guerra”, infatti, non è causato solo
dal crollo industriale, ma prima ancora dalla mancanza di una politica agraria capace di ottenere dai
contadini le eccedenze di generi alimentari sufficienti a sfamare le città e le fabbriche. Le cause del
fallimento di questo esperimento hanno comunque radici profonde e vanno al di là di un semplice
difetto organizzativo o delle pur gravi deficienze burocratiche. Per fare un esempio emblematico,
sul fronte della finanza, il governo cerca di tenere testa all’inflazione della moneta facendo ricorso a
quelle stesse misure che i dirigenti bolscevichi avevano aspramente criticato quando erano state
adottate dal governo provvisorio. E anche a questo riguardo, le misure che esso prende si rivelano
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inefficaci. La stessa svalutazione del rublo non viene decisa dal governo sovietico, come qualcuno
ha sostenuto, per completare la rovina della borghesia, ma viene adottata solo perché esso non è
riuscito a trovare alcun altro mezzo per evitare le catastrofiche tendenze che erano in atto nel Paese.
Che l’improvviso abbattimento del mercato e l’eliminazione della moneta in un modo di produzione
capitalistico agli albori del suo sviluppo, qual era di fatto quello russo, potesse significare
l’instaurazione immediata di rapporti comunisti, si è rivelata una semplice e ingenua illusione che
non poteva portare ad altro che a un clamoroso fallimento dei meccanismi economico-produttivi.
Dedotte in maniera distorta dalla letteratura marxista, simili misure si sono oltretutto scontrate con
l’arretratezza della società russa il cui carattere semifeudale non è attribuibile alla sola sfera
economica, ma riguarda la stessa mentalità della sua popolazione.
La verità è che si è voluto precorrere i tempi della costruzione del socialismo dando vita a un
sistema che non poteva oggettivamente stare in piedi. L’esasperata centralizzazione, che pure è da
considerarsi una conseguenza dello stato di guerra civile in cui si è trovato il Paese, non può certo
considerarsi conciliabile con le esigenze di democrazia. Una società che vuol essere socialista e che
si propone di fondarsi sui principi dell’autogoverno non può tollerare alcun accentramento del
potere. Svuotare i soviet della loro autonomia comporta infatti non solo aprire la strada a un regime
dittatoriale, ma compromettere alla radice il carattere socialista degli stessi meccanismi sociali e
produttivi.
Tra il ’20 e il ’21, quando ha termine la guerra civile, non solo le difficoltà economiche, ma anche
quelle di ordine sociale, assumono proporzioni allarmanti e i bolscevichi sono costretti a procedere
a un giro di boa nel governo del Paese.
Mentre la maggioranza dei bolscevichi continua a considerare il “comunismo di guerra” un
processo di transizione dal capitalismo al socialismo conforme alle particolari condizioni russe,
Lenin si rende conto che non è più possibile proseguire su tale percorso politico, sia per la
drammatica situazione socio-economica, sia perché lo stato di guerra è ormai superato e la
condizione di pace esige un mutamento di indirizzi. Perciò procede a una ritirata tattica e dà vita
alla Nuova politica economica (Nep).
4.4 – La Nuova politica economica (Nep)
Nel ’21, al fine di assicurare la sopravvivenza del regime, Lenin, fa due passi indietro, come lui
stesso precisa, e mette in campo una nuova politica economica.
Nel presentare al 10° congresso del partito il progetto della Nep, attribuisce il “comunismo di
guerra” ai sognatori e in un successivo discorso spiega che esso è stato “imposto non da ragioni
economiche, ma da necessità, considerazioni e condizioni militari”. E sostiene che per affrontare la
situazione disperata in cui si trova la Russia, è necessario fare concessioni sia al mondo contadino
che al capitalismo straniero presente nel Paese, anche a costo di rinunciare ai principi rivoluzionari.
A suo giudizio, questa è la condizione per ridare slancio allo sviluppo delle forze produttive in
un’economia che non è ancora pronta per l’edificazione del socialismo.
Durante l’esperienza del “comunismo di guerra”, Lenin si è in effetti reso conto che la
trasformazione della rivoluzione democratica in rivoluzione socialista è un’impresa molto più
complessa di quanto avevano supposto gli stessi Marx ed Engels e si è convinto che il socialismo
costituisce necessariamente la tappa successiva al capitalismo di Stato.
“Noi non possiamo con la nostra propria forza ricostruire la nostra sconvolta economia senza
attrezzatura e assistenza tecnica dall’estero”, ammonisce. E allo scopo di ottenere gli aiuti
necessari dichiara di essere disposto a dare estese concessioni “ai più potenti trust imperialistici” e
anche alla componente contadina del popolo. E’ del resto solo attraverso la Nep che è possibile
conseguire una rianimazione degli elementi capitalistici che pur in presenza di un governo socialista
restano attivi.
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Al fine di garantirsi il potere, il 10° congresso del partito s’impegna ufficialmente, attraverso le sue
organizzazioni centrali e locali, a mantenere come in passato la piena e completa direzione
ideologica.
Del fatto che la nuova politica costituisce una ritirata strategica, Lenin non solo ha piena
consapevolezza, ma lo ammette senza sotterfugi definendola una “necessità menscevica”.
In effetti, ciò che egli propone è un modello di economia mista, dal momento che i settori trainanti
(l’industria su larga scala, gran parte del commercio all’ingrosso, il commercio estero), pur essendo
controllati dallo Stato, devono agire secondo le leggi di mercato. Il mercato al minuto, quello cioè
dei beni di consumo, è cosa invece ormai acquisita considerato che, richiamandosi a Marx, i
bolscevichi hanno da sempre ritenuto compatibile la sua esistenza nel “primo periodo del
socialismo”.
Viene anche riammesso il guadagno privato come forza motivazionale dello sviluppo, anche se
vengono varate norme giudiziarie per contenere i suoi effetti negativi.
Di fatto la Nep rappresenta una retromarcia rispetto alle misure introdotte con il “comunismo di
guerra” e sancisce l’introduzione del capitalismo di Stato. Oltre alla grave situazione che si è
determinata nel Paese, a giustificare la sua attuazione è anche la mancata rivoluzione in Occidente
che ha fatto venire meno quelle condizioni internazionali di solidarietà su cui la Russia dei soviet
aveva fatto conto di poter ricorrere ai fini del suo sviluppo.
Con l’applicazione di questa nuova politica economica la direzione del partito viene però accusata
dalla base di abbandonare il comunismo e di fare concessioni ai contadini a spese del proletariato.
Nel file del partito si allarga l’opposizione e si determinano significative divisioni. Mentre Bucharin
considera la Nep una “prospettiva a lungo termine” e un ”meccanismo per portare avanti
l’industrializzazione”, per combinare la pianificazione con il mercato e per far coesistere il settore
pubblico con quello privato, l’opposizione di sinistra l’avversa rivendicando, oltre al ristabilimento
della democrazia, la collettivizzazione progressiva e volontaria dell’agricoltura, sulla base dello
sviluppo di cooperative di produzione create dai contadini poveri, e si batte per la fornitura delle
macchine agricole ai primi kolchoz. A molti degli stessi bolscevichi questa nuova politica appare
come una resa al capitalismo. In effetti essa è in contrasto con le speranze di avanzata rapida verso
il socialismo ponendo termine alla fase utopistica della rivoluzione russa.
La decisione presa al 10° congresso del Pcus di procedere al varo della Nep è, del resto, dettata da
necessità impellenti, in primo luogo, dall’urgenza di sostituire le requisizioni contadine con una
tassa in natura; provvedimento che non risulta per nulla di facile esecuzione, non esistendo le
condizioni di una consapevole elaborazione programmatica. L’assenza di tempo per dare corso a
una tale operazione in maniera ponderata fa sì che non ci si preoccupi delle implicazioni che essa
comporterà. Come nel dare corso al “comunismo di guerra” i bolscevichi non avevano calcolato le
conseguenze dell’abolizione della moneta e del baratto, ora che si tratta di integrare la politica di
piano con quella di mercato, di ritornare a una pratica bancaria ortodossa per finanziare l’industria e
alla tradizionale politica di bilanciamento delle spese governative, essi affrontano i problemi con
una generale inesperienza. I soggetti che in questa fase vengono chiamati a dirigere la si dimostrano
sprovvisti delle più elementari nozioni dell’economia. Non è un caso che per conseguire alcuni
risultati apprezzabili ci vorranno molto tempo e molta pazienza.
L’applicazione di questa nuova politica economica, come abbiamo già detto, è resa necessaria dalla
grave situazione di crisi in cui versa il Paese e
uno dei banchi di prova della sua validità è rappresentato dalla questione contadina.
La prima tappa della rivoluzione ha visto marciare insieme il proletariato con la classe contadina nel
suo insieme contro i grandi proprietari feudali, mentre ora il tentativo di attuare il socialismo con i
soli contadini poveri si dimostra vano e il governo deve ricorrere al compromesso. Il primo
provvedimento della Nep è appunto la sostituzione delle requisizioni delle eccedenze con l’imposta
in natura che comporta lo scambio di merci. La nuova politica agraria punta ad accrescere i
rifornimenti dei generi alimentari attraverso l’inserimento di incentivi e con lo sviluppo del
commercio, il che richiede, sul piano finanziario, la stabilità della moneta. Al contadino viene
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riconosciuto il diritto di scegliere la forma di godimento della terra e garantito il possesso; misure
queste che, anche se viene lasciato sopravvivere il mir, pongono fine a quanto ancora rimaneva
delle tendenze egualitarie. Non solo, infatti, questa politica mal si concilia con le forme di
coltivazione collettiva che sono state promosse subito dopo la rivoluzione, ma riabilita e incoraggia
i kulaki a svantaggio dei contadini poveri e rimette in moto le forze del capitalismo contadino
piccolo-borghese. Compaiono così i nepmen, cioè nuove figure di imprenditori e di commercianti
che, unitamente ai burocrati e ai dirigenti industriali, formano un nuovo strato sociale privilegiato.
A seguito di questi provvedimenti, mentre nell’agricoltura si registra una rapida ripresa economica,
nell’industria il processo di sviluppo procede in modo assai più lento e in maniera difforme. Da
questo squilibrio nasce una controversia sul problema dei rapporti fra agricoltura e grande industria,
reso complicato dal fatto che la situazione richiede uno sviluppo della piccola industria.
La Nep si propone perciò di sviluppare le forze produttive autorizzando le imprese a comprare e
vendere sul mercato libero e questo “passaggio ai principi commerciali” avviene a vantaggio della
piccola produzione privata, di quella agricola e artigiana, e a detrimento dell’industria pesante. Del
resto, solo uno sviluppo dell’economia diffusa può assicurare un incremento della produttività che è
la condizione essenziale per l’edificazione del nuovo sistema.
Inaugurando la Nep, Lenin non manca di sottolineare la necessità che le fabbriche del settore statale
debbano vantare un bilancio attivo, il che comporta una loro riorganizzazione tale da evitare un
dispendio di risorse, soprattutto in retribuzioni che devono essere vincolate agli indici della
produttività.
Tutte queste misure fanno sì che la grande industria non sia più la beniamina dello Stato proletario e
che anch’essa si trovi nella necessità di riorganizzarsi per fronteggiare gli imprevisti della libera
concorrenza.
Avviene così che l’intero settore industriale, riorganizzato in base alle dinamiche della produttività,
funziona secondo i principi capitalistici e conseguentemente produce i fenomeni della
disoccupazione, mentre le aziende, per mantenersi competitive, ricorrono spesso al taglio delle
retribuzioni.
Con la Nep nascono i raggruppamenti di imprese operanti nel medesimo ramo di produzione, cioè i
trust, i quali non sono sottoposti all’amministrazione diretta degli organi governativi, ma sono
responsabili della propria contabilità commerciale e hanno la facoltà di fissare i prezzi. Nel ‘22 si
contano 421 trust che raggruppano in media una diecina di aziende fornendo, a detta del governo,
una soluzione al problema dell’organizzazione razionale del lavoro.
Ad amministrare le singole aziende sono, come abbiamo già detto, i glavki i quali vanno a comporre
la nuova burocrazia di Stato.
Sempre nel ’22, l’industria statale occupa 3 milioni di lavoratori contro i 70.000 lavoratori
dipendenti dalle industrie private e in concessione.
L’introduzione dei rapporti di mercato imprime un ritmo di sviluppo accelerato non solo alle attività
agricole e industriali, ma anche a quelle della piccolissima impresa e delle attività domestiche
creando, soprattutto nel commercio, uno strato di piccoli imprenditori privati che si affiancano agli
organi statali e alle cooperative. Anche se il commercio privato non è mai cessato, essendo
autorizzato nei mercati e sopravvivendo anche in forme clandestine, l’incoraggiamento dato alla
libera distribuzione al minuto rappresenta una brusca svolta rispetto al “comunismo di guerra”.
Il proliferare dell’iniziativa privata suscita un’avversione tale nel partito e nell’opinione pubblica da
indurre Lenin a ribadire ufficialmente, in una lettera al commissario del popolo alla giustizia, un
principio fondamentale della legge sovietica e cioè: “Noi non riconosciamo nulla come ‘privato’, e
consideriamo ogni cosa che si colloca nella sfera economica come appartenente al diritto pubblico
e non privato”. Di fatto però l’iniziativa privata è riconosciuta.
Nel 1923, in tutto il Paese sono presenti 25.000 cooperative di consumo e 30.000 negozi
cooperativi. Lo stesso Lenin riconosce che le cooperative sono controllate da elementi piccoloborghesi i quali, sapendo “organizzare i negozi” in maniera appropriata, devono a suo avviso essere
trattati con la stessa indulgenza che viene riservata agli organizzatori capitalisti dei trust.
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Ovviamente, fin dall’introduzione della Nep, a giocare un ruolo dominante nel settore distributivo
sono le cooperative di consumo, di approvvigionamento, di vendita e di credito. “La cooperativa
dei piccoli produttori di merci – precisa sempre Lenin – genera inevitabilmente rapporti
capitalistici piccolo-borghesi”, ma “il semplice sviluppo della cooperazione si identifica per noi …
con lo sviluppo del socialismo”.
Con la Nep vengono assoggettati a imposta i vini, i liquori, il tabacco, la birra, i fiammiferi, il miele
e le acque minerali. Viene pure introdotta un’imposta pro capite (“imposta generale sul cittadino”)
destinata al soccorso delle vittime della carestia e pure un’imposta di reddito studiata per colpire i
guadagni delle cosiddette professioni libere (medici, avvocati, scrittori, ecc.).
Ancora nel ‘23 si registra la “crisi delle forbici”, cioè i prezzi cominciano a differenziarsi a favore
dei prodotti dell’industria rispetto ai prodotti dell’agricoltura. Questo avviene a causa delle
dinamiche di mercato le quali incoraggiano le industrie leggere produttrici di beni di consumo a
spese dell’industria pesante che esige finanziamenti di non facile reperimento. A un certo punto la
situazione diviene tanto preoccupante da far dire al capo dei bolscevichi che “se non troveremo
questi sussidi, saremo perduti, non dico come Stato socialista, ma come Paese civile”.
Al momento dell’introduzione della Nep in Russia non esistono istituti di credito all’infuori della
Sezione cooperativa del Narkomfin. La nuova Banca Statale della Gosbank, infatti, apre i battenti
solo nel novembre del ‘21 e le sue risorse sono assai limitate, mentre i tassi risultano eccessivi.
Oltretutto, i prestiti concessi vengono gravati non solo degli interessi, ma anche di una “percentuale
assicurativa” in ragione dell’8% al mese per gli enti governativi, del 10% per le cooperative e del
12% per le aziende private. Il sistema del credito, dunque, incontra grosse difficoltà proprio nella
fase in cui viene incoraggiata l’iniziativa dei privati. Si rimedia alla difficile situazione aprendo
casse di risparmio e stimolando il risparmio. Per raccogliere le risorse finanziarie occorrenti viene
anche istituita una lotteria di Stato.
La Russia dei soviet ha bisogno estremo di macchinari e attrezzature di ogni genere e, in
conseguenza della carestia del ’21, anche di viveri. In qualità di Paese esportatore, ha poco da
offrire in cambio se si fa eccezione del legname grezzo, delle pelli e di limitati quantitativi di lino;
le sue risorse minerarie sono solo potenzialmente ricche perché non sono ancora accessibili.
Mentre viene messo a punto un progetto di concessioni straniere, Lenin considera urgente acquisire
dall’Occidente locomotive e macchinari. Solo nel maggio del ’20, però, riesce a stipulare un
accordo non ufficiale con la Svezia che viene poi rinnovato e ufficializzato nel ‘22. Nel ‘21 la
Russia vanta delegazioni commerciali ufficiali in Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia,
Svezia, Norvegia, Germania, Cecoslovacchia, Austria, Italia, Gran Bretagna, Turchia e Persia. E
alcuni accordi commerciali vengono siglati con la Gran Bretagna e con la Germania. Con la Persia,
l’Afghanistan e la Turchia vengono invece stipulati dei trattati. Tra le importazioni considerate
particolarmente preziose figurano 13 locomotive importate dalla Svezia e 37 dalla Germania.
L’accordo anglo-sovietico rende inopportuna l’aperta propaganda che viene condotta contro
l’imperialismo britannico e pure i trattati con la Persia e la Turchia sconsigliano una propaganda
comunista che possa minacciare od offendere i rispettivi governi. Il Paese dei soviet è dunque
costretto a pagare politicamente dazio.
Naturale corollario della Nep è infatti una politica estera di conciliazione e compromesso con il
mondo capitalistico. Non a caso l’esecutivo dell’Internazionale giustifica questa nuova politica
come “l’espressione della soluzione del compito di incorporare lo Stato proletario nella catena
delle relazioni internazionali”.
In effetti, la speranza di Lenin è che la Nep (ma così lo stesso trattato di Brest Litowsk) possa
servire a colmare la sfasatura di tempi all’interno di quel presunto processo internazionale secondo
il quale il socialismo dei Paesi più progrediti avrebbe assicurato le condizioni per un più rapido
sviluppo della società sovietica. Una speranza la sua che però è destinata a svanire presto.
Dopo la proclamazione della Nep da alcuni dirigenti del partito, tra cui Stalin, Kamenev e Zinov’ev,
viene posto in forse il principio del monopolio statale del commercio estero. Ad opporsi
fermamente a questa ipotesi sono Lenin e Trotskij, i quali ritengono che la nuova politica non
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implichi che le strutture dello Stato sovietico debbano essere completamente annullate e che
l’economia ancora debole nel Paese sia messa in brusco contatto con la più forte e consolidata
economia dei paesi capitalistici, con tutte le conseguenze che ne possono derivare. Dopo una simile
presa di posizioni da parte dei due leader della rivoluzione, i contestatori incassano e si allineano
mansuetamente.
I numerosi processi di riorganizzazione della aziende danno luogo a un’estesa disoccupazione che,
di fatto, comporta la creazione di un esercito di riserva. Il ritorno all’economia monetaria rende poi
impraticabile qualsiasi politica salariale intesa come servizio sociale reso allo Stato dal cittadino e
mette pure in crisi il sistema retributivo fondato sui beni in natura.
In meno di un anno la Nep ha in sostanza ricreato le condizioni di scambio e i rapporti sociali
caratteristici dell’economia capitalistica. Nel libero mercato del lavoro vengono introdotti i
procedimenti di assunzione e di licenziamento della manodopera i quali sono fatti gestire ai
sindacati che perdono così la loro indipendenza e autonomia e si fondono nello Stato e nel partito
trasformandosi in organismi di potere.
Viene riveduto anche il codice del lavoro e, seppure cautamente, viene riconosciuto il diritto di
sciopero e formate le commissioni di arbitrato.
La situazione risulta a tal punto cambiata che al congresso dei sindacati Tomskij, uno dei suoi
massimi dirigenti, può permettersi di sostenere che, “dal punto di vista degli obiettivi generali della
classe operaia”, lo sciopero dei ferrovieri è da considerarsi inammissibile. La risoluzione votata dai
delegati si limita invece a far presente che è dovere dei sindacati intraprendere “la rapida
liquidazione” di ogni sciopero che si verifichi “spontaneamente o contro la volontà degli organi
sindacali”.
La Nep raggiunge il suo punto più alto di sviluppo nel 1925, dopo di che le cose incominciano a
complicarsi. Il regime agrario creato nel dicembre del ‘22, durerà poco meno di un decennio, ma
per l’intero periodo sorgerà la controversia relativa ai rapporti fra agricoltura e grande industria. Le
differenze di opinioni produrranno incongruenze ed eccessi nella gestione dell’economia e daranno
luogo a duri scontri nel partito.
Mentre Trotzkij e Probrazenskij tendono ad attribuire al proletariato industriale l’egemonia dello
sviluppo, Bucharin lancia ai kulaki la parola d’ordine “arricchitevi!”, slogan che risulta di troppo
allo stesso Stalin del quale egli è peraltro suo stretto collaboratore e fedele alleato. Bucharin, che tra
il ‘24 e il ‘28 assume il ruolo di teorico del partito, è un personaggio politicamente eclettico. A
riguardo delle difficoltà di quel periodo scrive: “Ma forse è nostro destino perire non sotto gli
attacchi di un nemico esterno, ma per la nostra stessa arretratezza... non ricevendo aiuto tattico ed
economico dal proletariato vittorioso degli altri paesi? Simili affermazioni, che esprimono la più
profonda sfiducia nelle forze della nostra rivoluzione, sono assolutamente false e non hanno alcun
fondamento. …Le forme del nostro socialismo nel prossimo periodo della sua costruzione saranno
inevitabilmente le forme di un socialismo poco evoluto, ma questo non è un guaio”. Difatti, egli
vede nel razionamento dei beni di prima necessità, a causa della loro carenza, una forma anticipata,
anche se spartana, della società ideale comunista.
Nonostante la presenza di ostacoli sempre maggiori, la nuova politica economica ha dato vita a un
sistema di insegnamento che ha permesso la formazione di una élite scientifica e tecnica molto
ampia e capace di sviluppare un pensiero razionalistico analogo però a quello dell’Occidente. E
questo è avvenuto per certi versi a dispetto dello stesso partito la cui aspirazione era quella di creare
“l’uomo nuovo”, cioè un soggetto la cui concezione del mondo fosse quella del “proletariato
rivoluzionario”. Obiettivo questo che non gli è riuscito allora e non gli riuscirà mai.
La Nep durerà fino al ‘28, cioè fino a quando Stalin darà corso ai piani quinquennali.
4.5 – L’attuazione della dittatura bolscevica
Prima del 1917, la Russia aveva conosciuto solo un tardo e ristretto parlamentarismo che escludeva
la maggioranza del popolo dalla partecipazione elettorale. Fondamento dell’apparato dello Stato era
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la venerazione dell’autocrazia e l’oppressione dei sudditi.
Mezzo secolo prima, nel 1864, lo zar Alessandro II aveva riordinato i mir e le obscine e istituito i
zemstvo (consigli provinciali), sostituendo così la vecchia amministrazione con un corpo di
funzionari statali. Dopo la rivoluzione del 1905 venne istituita la Duma il cui corpo elettorale era
suddiviso in sei curie (classi) comprendenti esclusivamente i ceti sociali benestanti. Solo con la
rivoluzione del 1917 viene sancito il suffragio universale e il popolo è chiamato a designare i propri
rappresentanti alla gestione del potere.
Con il sistema elettorale stabilito dalle costituzioni sovietiche del ‘18 e del 24, nella elezione dei
propri rappresentanti, al voto contadino viene attribuito un valore differente del voto operaio. Già
prima della rivoluzione d’ottobre per eleggere un rappresentante ai soviet occorrevano 500 elettori
per i soldati e 1000 elettori per gli operai. Per comprendere la sopravvivenza di queste
disuguaglianze occorre tenere conto della singolarità della situazione in cui si trovano a operare i
bolscevichi e la diversità degli stessi partiti politici russi e anche delle organizzazioni di massa (dai
sindacati al movimento cooperativo, dalle associazioni alle leghe dei contadini), rispetto a quelli
esistenti nei Paesi occidentali. La nuova democrazia si contraddistingueva dunque per una
sperequazione che Lenin qualifica come un “furtarello”.
A rendere plausibile l’attuazione della dittatura del proletariato in Russia concorre anche la
specificità del sistema politico-istituzionale e lo Stato che Lenin realizza tramite l’insurrezione
d’ottobre, trova giustificazione proprio nelle caratteristiche della società zarista e nelle sue ipoteche
sulla società.
Nel ’17, l’attribuire la funzione dittatoriale al proletariato, in presenza di una rivoluzione borghese,
significava distaccarsi notevolmente dalle posizioni del marxismo tradizionale. Agli occhi di Lenin
lo Stato borghese più democratico rappresenta pur sempre una forma di dittatura, mentre a
rappresentare la democrazia socialista è la dittatura del proletariato.
Proprio per questo egli è considerato, ed è da considerarsi, un revisionista.
Come la gran parte dei marxisti russi, Lenin individua negli operai la “sola genuina forza
rivoluzionaria” presente nella società russa e ritiene che la loro vittoria è inesorabile perché
predeterminata dallo stesso sviluppo capitalistico. Secondo questa teoria, un potere conquistato dal
proletariato per restare tale non può che essere un “governo degli uomini”, in un sistema di
costrizione esercitata dall’immensa maggioranza nei confronti di un’esigua minoranza, in
opposizione a un’amministrazione delle cose. E pensa questo nonostante che la società russa sia in
larga maggioranza composta da contadini mentre il proletariato è un’esigua minoranza.
La dittatura del proletariato non è intesa da Lenin come una necessità assoluta, bensì come prodotto
specifico di una data situazione storica. Per un certo periodo, infatti, egli pensa seriamente alla
possibilità di instaurare il potere sovietico attraverso un pacifico e graduale trasferimento di
funzioni dal governo provvisorio ai soviet. Questo proposito gli viene però impedito dall’acutizzarsi
della situazione e dagli insanabili contrasti che insorgono con i partiti alleati della sinistra.
La dittatura del proletariato è poi da lui concepita sul piano teorico come una forma statuale,
precisamente l’ultimo Stato in quanto procedendo all’appropriazione collettiva dei mezzi di
produzione esso firma, a scadenza più o meno lunga, la sua sentenza di morte in quanto tale. E a
questo tipo di Stato particolare corrisponde il potere dei soviet che è da lui considerato appunto la
componente fondamentale della dittatura del proletariato.
Qualche tempo prima dell’ottobre Lenin scrive che “i soviet, prendendo il potere, potranno ancora
oggi assicurare lo sviluppo pacifico della rivoluzione, l’elezione pacifica dei deputati da parte del
popolo, la lotta pacifica dei partiti in seno ai soviet, la verifica pratica del programma dei vari
partiti, il passaggio pacifico del potere da un partito all’altro”. E successivamente, ne “I compiti
immediati del potere sovietico”, egli precisa che “il potere sovietico non è altro che la forma
organizzativa della dittatura del proletariato, della dittatura della classe più avanzata, che eleva a
una nuova forma di democrazia, alla partecipazione autonoma al governo dello Stato, decine e
decine di milioni di lavoratori e di sfruttati”.
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Lenin considera dunque la dittatura del proletariato, un espediente temporaneo, necessario solo fin
quando i residui del potere borghese non siano stati distrutti. In nessuno dei suoi scritti, peraltro,
accenna alla dittatura del proletariato come a un sistema monopartitico. Il regime leninista comincia
ad essere edificato, infatti, non come sistema monopartitico, tanto è vero che la sua prima promessa
è di trattare con spirito tollerante tutti i partiti che non combattono con le armi la rivoluzione: per
tutti questi partiti deve esserci posto nel quadro della nuova democrazia sovietica. Smentisce questo
solenne impegno solo quando è costretto a lottare per l’esistenza della rivoluzione e per la propria.
Corrisponde invece al vero il fatto che è lui stesso a limitare la democrazia interna al partito, la
quale verrà poi abolita da Stalin. E che è ancora lui, anzitempo rispetto a quanto verrà reso ufficiale
dal suo successore, a ritenere possibile il socialismo in un solo Paese, giustificando questo
convincimento con l’ineguaglianza dello sviluppo capitalistico.
Il periodo che va dalla rivoluzione d’ottobre alla morte di Lenin può essere suddiviso in tre fasi e
cioè: quella dell’accrescimento e concentrazione dell’autorità del partito nella mani di pochi; quella
della trasformazione del partito da organizzazione rivoluzionaria diretta al rovesciamento delle
istituzioni esistenti in nucleo dirigente di un apparato governativo e amministrativo; quella, infine,
del conseguimento di una posizione di monopolio mediante l’eliminazione degli altri partiti.
Va ricordato che l’atteggiamento di Lenin nei confronti dei socialisti rivoluzionari e dei
menscevichi appare problematico sin da prima della rivoluzione d’ottobre. I bolscevichi non
riconoscono come progressivi certi contenuti programmatici di questi due partiti e con essi
mantengono rapporti esclusivamente tattici.
Del resto, solo alcuni socialisti-rivoluzionari di sinistra partecipano all’assalto del “Palazzo
d’inverno” e quando i bolscevichi assumono il potere possono contare sull’appoggio di una parte
esigua di socialisti rivoluzionari di sinistra, gli stessi che inizialmente rifiutano di entrare a far parte
del governo. Essi, infatti, temono di determinare una rottura con la democrazia borghese, e pertanto
accettano di entrare solamente in alcune commissioni, oltre che nel comitato rivoluzionario militare
centrale e in quelli locali. Solo ai primi di dicembre sette socialisti-rivoluzionari di sinistra entrano
nel Sovnarkom (Consiglio dei commissari del popolo; organismo questo al quale è affidata la
gestione dei singoli settori della vita dello Stato, attraverso commissioni dirette dai commissari del
popolo e in stretta unione con le organizzazioni di massa degli operai, delle operaie, dei marinai, dei
soldati, dei contadini e degli impiegati). E’ bene ricordare che l’istituzione di questo Consiglio non
comporta l’eliminazione dei vecchi ministeri, la cui sopravvivenza è giustificata dalla non facile
transizione dal vecchio al nuovo regime la quale pone il nuovo apparato in uno stato di
subordinazione al vecchio.
I singoli socialisti rivoluzionari di sinistra, al contrario dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari
di destra che abbandonano dimostrativamente il 2° congresso dei soviet, rimangono in tutte le
organizzazioni sovietiche. Mentre i bolscevichi affrontano le questioni sollevate nel congresso con
lo spirito di rafforzare la rivoluzione socialista e accelerare lo sviluppo dell’edificazione socialista, i
socialisti rivoluzionari, al pari dei menscevichi, dei disfattisti e dei dogmatici di ogni genere,
considerano tutte le questioni del congresso dal punto di vista della “illegalità” della rivoluzione
socialista e si dimostrano scettici sul successo del socialismo in Russia.
A riguardo di questa loro condotta Lenin commenta: “Quando ci parlano della difficoltà del nostro
compito, quando ci dicono che la vittoria del socialismo è possibile soltanto su scala mondiale,
vediamo in questo null’altro che un tentativo, particolarmente disperato, della borghesia e dei suoi
volontari o involontari fautori di deformare la più inconfutabile verità”. Seppure egli abbia un
atteggiamento critico verso gli alleati, nei primi mesi dopo la rivoluzione, egli sollecita la presenza
di due partiti non bolscevichi nel regime di dittatura del proletariato: i menscevichi e i socialisti
rivoluzionari, che appunto aderiscono al suo invito. Quando si impegnerà a garantire la legalità
anche a chi non ha risposto positivamente al suo appello, dovrà far fronte a una serrata opposizione
di una parte del suo stesso partito.
Dopo che il Sovnarkom, a causa dei legami del partito cadetto con la guerra civile scatenata da
Kornilov e Kaledin contro il governo rivoluzionario, ha approvato il decreto di arresto dei capi delle
110
forze che si oppongo alla rivoluzione, sia i socialisti rivoluzionaria che i menscevichi questi due
partiti continuano a svolgere in piena legalità la loro attività politica. Non solo, essi mantengono
salde le posizioni di potere che vantano nel tessuto sociale sovietico e persino negli apparati dello
Stato. Ai socialisti di sinistra, difatti, è stata affidata la direzione della sezione contadina del VTslK
(Comitato esecutivo centrale panrusso dei soviet) il cui apparato è formato quasi esclusivamente da
socialisti rivoluzionari e da menscevichi.
Non ha pertanto fondamento la tesi di chi insinua che Lenin non abbia voluto e non abbia
sperimentato un rapporto di alleanza con i socialisti e con i menscevichi. La vicenda dei bolscevichi
è assai meno intricata di quanto la raccontano molti storici e politici la cui funzione è solo quella di
mettere in cattiva luce il leader rivoluzionario russo.
E’ semmai vero che il periodo che va dal 25 ottobre ’17 al febbraio ‘18 è caratterizzato da una
massiccia azione repressiva da parte dei bolscevichi nei confronti degli esponenti di questi due
partiti, e questo avviene dopo che essi hanno deciso di praticare in maniera sistematica il sabotaggio
nei ministeri e intralciare la trasformazione dei soviet in organi di potere.
Nella relazione dell’ufficio contadino del VTslK pubblicata nel 1918 si rileva: “Con i fondi
assegnati alla sezione contadina dal potere sovietico, i socialisti-rivoluzionari di sinistra hanno
cominciato a stampare con grandi tirature e a diffondere pubblicazioni che nelle campagne minano
la fiducia verso questo potere, pubblicazioni piene di critiche più che tendenziose e disoneste nei
riguardi delle azioni e delle disposizioni del Sovnarkom”.
Il tentativo dei socialisti rivoluzionari è infatti quello di conquistare la maggioranza nel VTsIK.
Oltre a dover contrastare il boicottaggio e l’opposizione dei socialisti rivoluzionari e dei
menscevichi, i bolscevichi devono fare i conti con il fatto che gli zemstvo e le Dume cittadine quasi
ovunque sono nelle mani della borghesia la quale crea in queste istituzioni un proprio stabile
rifugio. L’inserimento degli zemstvo nel sistema dei soviet è un processo graduale e diviene quasi
generale nei posti in cui i soviet si sono sufficientemente rafforzati e hanno subordinato a sé questi
organi del governo locale.
L’operazione di liquidazione degli zemstvo e delle Dume cittadine si protrae nel tempo (fino al
giugno ’18) e l’azione di contrasto della presenza in essi dei controrivoluzionari risulta essere
complessa e difficile. Difficoltosa a tal punto, che nella fase del passaggio del potere politico di
questi organismi ai soviet, molte di queste istituzioni locali si trasformano in bastioni della
controrivoluzione.
Oltretutto, in questa fase di transizione, nell’apparato statale sovietico, oltre al dilagare di burocrati,
penetrano elementi estranei alla rivoluzione, cioè avventurieri e concussionari. Si tratta di un
processo degenerativo reso possibile anche a causa dell’atteggiamento moderato che lo stesso Lenin
ha nei confronti del vecchio apparato. “Non è necessario spezzare quell’apparato e non si deve
spezzarlo”, egli sentenzia, “bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, bisogna staccare,
tagliare, strappare da esso i capitalisti”. In realtà, i capitalisti vengono “staccati”, ma i parassiti
sopravvivono.
Nello stesso apparato del comitato esecutivo centrale del congresso panrusso dei soviet, sono
presenti dei funzionari che d’accordo con i dirigenti socialisti rivoluzionari e menscevichi
favoriscono e organizzano azioni di boicottaggio nei confronti delle disposizioni del Sovnarkom.
A partire dalla disfatta di Kornilov, si sviluppa poi un’aspra lotta attorno alla convocazione del
congresso panrusso dei soviet. I dirigenti socialisti-rivoluzionari e menscevichi si propongono di far
fallire il secondo congresso e poiché non sono riusciti nel loro intento, espellono dalle loro
organizzazioni, “per grave violazione della disciplina di partito”, i 169 membri che sono rimasti al
congresso: si tratta del gruppo dei socialisti-rivoluzionari di sinistra. Sull’onda di questa epurazione
vengono espulsi, sempre da quel partito, anche tutti coloro che hanno partecipato alla rivoluzione
d’ottobre o che l’hanno sostenuta.
E questo nonostante che i bolscevichi si siano dichiarati interessati all’entrata di altri partiti sovietici
nel governo creato dal congresso dei soviet e siano propensi a un accordo di principio con loro
avente lo scopo di rafforzare il potere sovietico, vale a dire unificare i soviet degli operai, dei soldati
111
e dei contadini. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari di sinistra, al contrario, cercano in tutti i
modi di far fallire una tale intesa e si sforzano di sostituire il potere sovietico con una coalizione
delle Dume, degli zemstvo e di altre organizzazioni che non rispecchiano affatto i sentimenti delle
masse e che quindi non le rappresentano.
Quando il partito di Lenin conferma comunque la sua disponibilità per un’intesa con i partiti
che hanno abbandonato il congresso dei soviet, contro una tale risoluzione si pronunciano diversi
dirigenti bolscevichi tra i quali Kamenev, Zinov’ev, Rykov, Miljutin e Nogin. Secondo Kamenev e
Zinovjev ai socialisti rivoluzionari e ai menscevichi andrebbe riservata, nonostante tutto, la metà dei
posti nel governo. Lenin si ritrova dunque a dover fronteggiare non solo gli avversari esterni, ma
una parte non indifferente del gruppo dirigente del suo stesso partito.
Dopo due mesi e mezzo dall’ottobre, il governo sovietico presenta il rapporto sull’attività svolta e
Lenin fa un confronto tra le vicende della Repubblica sovietica con quelle della Comune di Parigi e
così commenta: “Noi ci troviamo in condizioni molto più favorevoli, perché i soldati, gli operai e i
contadini russi hanno saputo creare un apparato che ha fatto conoscere al mondo intero le forme
della loro lotta: il governo sovietico. Ecco quello che innanzi tutto cambia la situazione degli
operai e dei contadini russi in confronto al potere del proletariato parigino! I proletari parigini
non avevano un apparato statale e il paese non li capiva; noi invece ci siamo appoggiati subito sul
potere dei soviet e non abbiamo mai dubitato che il potere dei soviet godesse della simpatia e del
più caloroso, più illimitato appoggio dell’enorme maggioranza delle masse, e che perciò fosse
invincibile”.
Ciò che è stato fatto nel breve lasso di tempo intercorso dalla presa del Palazzo d’Inverno, in effetti,
è qualcosa di grandioso e la soddisfazione che il capo dei bolscevichi esprime è per certi versi
giustificata. Dal punto di vista socio-economico e anche da quello della realizzazione della
democrazia, la situazione della Russia sovietica continua però a essere molto complicata e densa di
insidie.
Già all’indomani della rivoluzione d’ottobre il Consiglio dei commissari del popolo aveva
approvato e pubblicato una risoluzione, sottoscritta dallo stesso Lenin, sullo svolgimento delle
elezioni dell’Assemblea entro il 12 novembre. La parola d’ordine “tutto il potere all’Assemblea
costituente” diventa però non solo un proposito dei socialisti rivoluzionari, ma una ragione di lotta e
di sfida degli stessi cadetti e dei seguaci di Kaledin. I controrivoluzionari, infatti, impegnati nella
lotta contro i soviet, fanno uso dell’apparato elettorale che nelle province si trova nelle mani
principalmente dei cadetti, dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, per far eleggere i propri
rappresentanti ricorrendo a sotterfugi di ogni genere, mentre la popolazione si perde nelle decine di
liste dei vari partiti politici in lizza.
Di fronte a una simile manovra, i bolscevichi oppongono ovviamente resistenza, ma si convincono
anche che in un clima del genere l’Assemblea costituente rischia di diventare un contro altare dei
soviet e della stessa rivoluzione, perciò denunciano le illusioni che vengono artatamente create
attorno alla sua realizzazione e non esitano a paventarla come una possibile “fabbrica delle
chiacchiere”.
A quel punto, attorno alla parola d’ordine della difesa dell’Assemblea costituente si forma uno
schieramento che raggruppa tutti i partiti controrivoluzionari, dai socialisti rivoluzionari ai
menscevichi, dai clericali ai centoneri.
Le elezioni dell’Assemblea costituente si svolgono tra novembre e dicembre e danno un esito
decisamente sfavorevole ai bolscevichi.
In la “Storia della guerra civile”, Krol e Kronenberg documentano come nelle 67 circoscrizioni si
siano recati alle urne 44.433.300 elettori (cifra questa che risulta essere superiore di 8 milioni
rispetto ai dati forniti da Svjatitskij). Secondo i calcoli del ministero degli interni del Governo
provvisorio gli elettori sono circa 90 milioni e questo già ci dice che più del 50% degli aventi diritto
al voto non hanno partecipato alla consultazione. Il partito dei bolscevichi riscuote appena il 25%
dei suffragi, mentre i partiti della democrazia piccolo borghese (socialisti-rivoluzionari,
menscevichi, ecc.) raccolgono il 62% e i partiti degli agrari e della borghesia il 13%.
112
Il partito bolscevico risulta primo partito nelle capitali Pietroburgo e Mosca e pure in una parte
notevole dei capoluoghi di provincia della Russia e in quasi tutte le guarnigioni militari. Nelle zone
rurali, in specie in quelle isolate, si registra invece la sconfitta dei rivoluzionari. Pur avendo ottenuto
il 58% dei voti nel complesso del Paese, i socialisti rivoluzionari non hanno basi di appoggio né
nelle città né sui fronti più importanti e neppure nelle guarnigioni. Il partito cadetto si deve
accontentare del 4,7% dei voti.
Quando il 5 gennaio del ’18 si riunisce l’Assemblea costituente, il bolscevico J.M. Sverdlov legge
la “Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore sfruttato” e pone l’assise dinanzi a una scelta
secca: o accettare la dichiarazione, e in tal modo riconoscere esaurita in sostanza l’attività
dell’assise, perché il potere spetta ai soviet, o respingerla pronunciandosi apertamente contro il
popolo, contro le conquiste della rivoluzione d’ottobre.
Lenin non mette affatto in discussione l’utilità dell’esistenza dell’Assemblea costituente, la
subordina però alla vittoria della rivoluzione socialista e la finalizza alla creazione di una
democrazia più elevata. Questa posizione viene espressa chiaramente nelle risoluzioni della
segreteria del comitato centrale del partito nelle quali viene specificato: “Siamo stati e siamo
favorevoli ad un’Assemblea costituente che dia ai contadini la terra, a tutto il popolo il pane, a
tutta la Russia la pace, e agli operai il controllo sulla produzione. Indubbiamente tale sarà
l’Assemblea costituente che riconoscerà il potere dei soviet, il potere del Consiglio dei commissari
del popolo”.
Non tutto il gruppo dirigente del partito è concorde su questa linea: Kamenev, Miljutin, Rykov,
Rjazanov ed altri ancora, esprimono un punto di vista differente, compiacente verso il fronte
avverso e perciò questi dissidenti vengono criticati da Lenin e rimossi dalle cariche che ricoprono.
Di fronte all’intransigenza dalla maggioranza degli eletti che si oppongono alle condizioni poste da
Sverdlov, e quindi al riconoscimento del primato dei soviet sulla stessa Assemblea, i bolscevichi
abbandonano l’assise e quella stessa notte (il 6 gennaio) il Sovnerkom approva il decreto del suo
scioglimento. A seguito di questo atto, di fronte all’insorgere delle forze controrivoluzionarie e di
alcuni focolai di rivolta sociale, Lenin decreta lo scioglimento dei partiti politici e, quale condizione
per il mantenimento del potere sovietico, sopprime la libertà di stampa e il diritto di associazione e
di riunione. Insieme a questi provvedimenti repressivi cancella pure alcune conquiste della stessa
rivoluzione d’ottobre relative al ruolo della famiglia, quali il diritto al divorzio e all’aborto.
La soppressione dei partiti e dei raggruppamenti di opposizione, la forte centralizzazione del partito
bolscevico, il consolidamento del centralismo burocratico nella sua vita interna, la progressiva
atrofia dei dibattiti e delle discussioni, contribuiscono inesorabilmente ad accelerare il processo di
deperimento degli stessi soviet.
Anche se il varo della Nep impone l’introduzione di un parziale pluralismo sociale, rendendo meno
rigido e monolitico l’intero sistema della dittatura proletaria, l’osmosi tra le strutture del partito e
dello Stato compromettono qualsiasi sviluppo della democrazia e del protagonismo di massa.
4.6 – La sterilizzazione dei soviet e il predominio del partito
Nel maggio del 1968, in occasione della celebrazione del 150° anniversario della nascita di Marx,
Michail A. Suslov, uno dei massimi teorici sovietici dell’epoca Breznev, ebbe ad affermare: “Un
grande merito di Lenin nello sviluppo creativo della teoria di Karl Marx è consistito nella scoperta
dei soviet come nuovo tipo di Stato”. E’ un’affermazione questa che corrisponde solo parzialmente
a verità poiché offusca il ruolo che ebbero i mescevichi e i socialisti rivoluzionari nel dare vita e nel
sostenere i soviet, almeno fino alla soppressione dell’Assemblea. In realtà, i bolscevichi per un
certo periodo hanno avversato questi organismi e il merito che Lenin ha avuto non è certo quello di
averli inventati, ma di averne scoperto l’utilità ai fini rivoluzionari. E poi l’affermazione di Suslov
trascura la fine che i bolscevichi hanno fatto fare ai soviet.
Torna perciò utile accennare sia pur brevemente alla loro genesi e al loro processo di evoluzioneinvoluzione.
113
I soviet nascono nel 1905, in occasione della prima rivoluzione russa, per iniziativa spontanea degli
operai delle fabbriche di Pietroburgo e di Mosca nella fase in cui viene dato inizio agli scioperi.
Nascono come strumenti di organizzazione della lotta e ad essi viene impedito l’accesso degli
anarchici i quali, come è risaputo, hanno una visione alternativa del processo rivoluzionario. Ad
assumerli come organismi di autogestione del potere socialdemocratico in opposizione al regime
autoritario zarista, e a sostenerne lo sviluppo nei luoghi di lavoro, sono soprattutto i menscevichi i
quali, negli anni successivi, attribuiscono a questi organismi il ruolo di strumenti di unificazione
politica dei lavoratori e organi di autogoverno. Prima che Lenin assuma i soviet come istanze
rivoluzionarie, i bolscevichi ne boicottavano l’azione e solamente con l’estendersi delle agitazioni
operaie e popolari accettano di riconoscerli come comitati di sciopero. Successivamente gli
attribuiscono la funzione di organizzatori delle lotte e solo con l’approssimarsi dell’insurrezione del
’17 li assumono come embrioni di un futuro governo rivoluzionario.
Tra i bolscevichi è Trotzkij il primo a considerarli a pieno titolo come organismi artefici della
rivoluzione e quindi come sedi di iniziativa politica del proletariato, dapprima come organi di
contropotere, successivamente con funzioni statali. Nella visione rivoluzionaria di Trotzkij i soviet
avrebbero dovuto essere il perno istituzionale della nuova società, il centro del nuovo potere. E’
sull’onda delle insurrezioni del ’17 che Lenin li trasforma da espressioni di “una dittatura allo stato
embrionale” in organi di potere.
Fino all’indomani della rivoluzione d’ottobre la maggioranza dei delegati dei soviet è nelle mani
dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi. E’ solo nel gennaio ’18, con il 3° congresso panrusso
dei soviet unificati (cioè dei soviet degli operai, dei soldati e dei contadini uniti) che i bolscevichi
conquistano i due terzi dei delegati.
Il comitato esecutivo centrale panrusso eletto da questa assise risulta infatti composto da 306
membri, di cui 160 bolscevichi, 125 socialisti rivoluzionari di sinistra, 2 menscevichi
internazionalisti, 3 comunisti anarchici, 7 socialisti-rivoluzionari massimalisti, 7 socialistirivoluzionari di destra, 2 menscevichi difensisti.
Nel soviet post rivoluzionario vengono unificate le funzioni del potere legislativo e di quello
esecutivo. Il suo carattere classista esclude la presenza dei discendenti delle vecchie classi
privilegiate, i cosiddetti lisentsy.
Presso ogni organismo vengono creati un ufficio finanziario per l’autogoverno urbano e rurale, un
ufficio tributario per le questioni della terra e un ufficio per la direzione generale.
Nel sistema di questi nuovi organi di potere un posto importantissimo lo ricoprono le istanze
destinate a dirigere il processo di formazione del metodo socialista di produzione, innanzi tutto
nell’industria.
Secondo la concezione di Lenin, i soviet non dovrebbero attendere le indicazioni dall’alto, ma agire
di propria iniziativa. “Il potere è passato ai soviet – lamenta – ma localmente i compagni ancora
non passano ai fatti, o se lo fanno non adempiono in pieno ciò che richiede il grande momento
storico. La classe degli agrari e dei capitalisti è stata costretta dal governo a tirarsi indietro, ma in
provincia ancora comandano i funzionari”.
E denuncia che “certi soviet locali s’impiantano come repubbliche indipendenti”. Insomma, tra la
strategia leniniana e la pratica sociale della stessa base rivoluzionaria russa si verifica una
dicotomia che si rivelerà fatale sul piano del protagonismo sociale e della democrazia. E questo
processo divergente matura nonostante che nessuna altra formazione politica, al di fuori del partito
bolscevico, abbia la possibilità sul piano legale di darsi in seno agli stessi soviet una struttura
organizzata e di competere per il potere.
All’8° congresso del partito, nel marzo del ’19, infatti, viene sancito che “il Partito Comunista
Russo deve acquistare l’esclusivo predominio politico nei Soviet e il pratico controllo su tutto il
loro lavoro”.
Nel momento in cui i soviet vengono chiamati a diventare organi di gestione della linea del partito e
delle scelte governative, una ineluttabile crisi d’identità si abbatte su di loro. Da strumenti deputati
alla costruzione non solo del movimento di massa, ma della stessa società russa con forte capacità
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di critica dell’esistente, essi si trasformano in semplici istanze di mobilitazione popolare cui viene
affidato il compito di fare ciò che viene stabilito dall’alto. E questo ridimensionamento di
autonomia politica li trasforma in apparati amministrativi del sistema che soccombono al dominio
della burocrazia. La loro originaria funzione viene rimpiazzata dalle strutture e dagli emissari del
partito.
Svuotati di contenuto politico, non più eletti dal basso i suoi delegati ma scelti dall’alto, i soviet
vengono sottomessi agli organi esecutivi delle istanze superiori e si ritrovano nell’impossibilità di
compiere una qualsiasi scelta tra diverse alternative politiche, economiche e sociali, incapaci di
imporre limiti a un potere esecutivo che ormai non sente più la necessità di impegnarsi per
conquistare il consenso alle proprie scelte da parte della società.
E’ lo stesso Trotzkij, nel ’21, a dichiararsi colpevole del peccato “sostituzionalista”, cioè del fatto
che il partito si sostituisce alla classe, riaccendendo così una polemica da lui già aperta con ardore
in gioventù nei confronti di Lenin e dei bolscevichi.
Ma ad avvertire questa stridente contraddizione tra principi e pratica sociale è lo stesso Lenin il
quale, all’8° congresso del partito, denuncia: “A parole l’apparato sovietico è alla portata di tutti i
lavoratori, in realtà è lontano dall’esserlo... occorre un immenso lavoro educativo”. E prosegue: “I
soviet, che secondo il loro programma dovrebbero essere gli organi del governo esercitato dai
lavoratori, sono in realtà l’organo del governo per i lavoratori esercitato dallo strato
d’avanguardia del proletariato non dalle masse lavoratrici”.
Se l’ideologia ufficiale sovietica non ammette la burocrazia, giudicandola una forma istituzionale
dipendente da uno stato di necessità nel periodo della transizione, nei fatti, le funzioni dello Stato
vengono svolte su scala sempre più vasta dagli apparati burocratici, sia al centro che in periferia. E
seppure la giovane burocrazia venga inizialmente formata nello spirito di servire il proletariato, col
passare del tempo essa diviene arbitro tra le varie componenti sociali.
Analogo destino hanno le organizzazioni sindacali.
Nel programma del partito bolscevico il ruolo dei sindacati viene teorizzato nel modo seguente: “La
struttura organizzativa dell’industria socializzata deve poggiarsi in primo luogo sui sindacati… I
sindacati, facendo parte, secondo le leggi della Repubblica Sovietica e la prassi stabilitasi, di tutti
gli organi centrali e periferici della gestione dell’economia devono concentrare di fatto nelle loro
mani tutta la direzione dell’economia in quanto omogenea totalità economica. I sindacati,
intrecciando in tal modo un legame indissolubile tra l’amministrazione centrale, l’economia
nazionale e le masse dei lavoratori, devono far partecipare direttamente le masse, su scala la più
vasta possibile, all’amministrazione dell’economia. La partecipazione dei sindacati alla gestione
dell’economia e l’inserimento in questo processo delle masse, costituisce nel contempo l’arma più
importante nella lotta contro la burocratizzazione dell’apparato economico del potere sovietico e
crea la possibilità di sottoporre i risultati della produzione al controllo effettivo del popolo”.
Tuttavia, quasi sin dai primi tempi della rivoluzione, tra le prerogative formali e la realtà si viene a
creare una frattura che col passare del tempo si aggrava fino al totale smarrirsi della funzione dei
sindacati come uno degli elementi essenziali della democrazia socialista. Essi diventano uno
strumento al servizio dello Stato e in primo luogo degli organi del partito (la famosa “cinghia di
trasmissione”) e si burocratizzano.
Si compie così il Termidoro sovietico!
La critica che Rosa Luxemburg rivolge a Lenin si rivela dunque giusta: senza le libertà individuali e
collettive i soviet sono destinati a veder vanificato il loro ruolo.
E sì che questi nuovi organismi di democrazia diretta suscitano un fascino e un entusiasmo
straordinari sugli oppressi di tutto il mondo! La repubblica dei soviet è considerata infatti dal
mondo progressista una forma di democrazia più elevata rispetto a tutte le forme di repubblica
borghese. I consigli degli operai, dei soldati e dei contadini costituiscono una novità storica
rappresentando una nuova fase dell’emancipazione e della presa di coscienza dell’umanità e per
questo vengono sperimentati ogni laddove il movimento operaio scende in lotta.
Eppure, nonostante queste loro potenzialità, nel Paese in cui sono nati e sono giunti al potere
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tradiscono le aspettative. Come si spiega questo loro deperimento?
Non bisogna dimenticare che i bolscevichi hanno dovuto in via prioritaria lottare contro
l’arretratezza della società russa, cioè contro il sottosviluppo, l’analfabetismo, la disoccupazione di
massa, la fame; hanno dovuto affrontare le contraddizioni e le agitazioni sociali che questa
drammatica situazione ha determinato; e poi che essi sono stati coinvolti in una sanguinosa guerra
civile e impegnati all’estremo nel respingere gli attacchi esterni degli eserciti dei paesi capitalisti
che, in coalizione, si proponevano di strozzare il potere dei “rossi” quando esso era ancora in fasce.
Ebbene, in simili circostanze diventa quasi inevitabile una concentrazione di tutti i poteri politici ed
economici in poche mani quando si è impegnati a costruire un nuovo ordine. E’ certamente in
questo quadro di ostacoli che va ricercata la ragione del fallimento della strategia leniniana.
Comunque le giustificazioni che derivano da una simile constatazione non possono assolutamente
offuscare gli errori e le incoerenze che quel processo rivoluzionario ha fatto registrare.
Una testimonianza in tal senso ci viene dal ruolo giocato in esso dallo stesso partito bolscevico e in
particolare dalle sue tormentate vicende interne.
Quello bolscevico è un partito che giunge al potere sulla base di un movimento la cui coscienza
socialista è assai ristretta e che si trova sotto la pressione di gigantesche forze avversarie, con una
base sociale proletaria molto esigua e con un’organizzazione formata quasi esclusivamente da
quadri. Del resto, la linea di Lenin è perentoria: “L’organizzazione dei rivoluzionari deve
comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’azione rivoluzionaria”.
E un’organizzazione politica del genere, nelle difficili condizioni sociali ed economiche in cui è
chiamata a operare, non può certo evitare di chiedere alla massa dei propri stessi iscritti una delega
di fiducia, un’adesione in molti casi incondizionata e acritica.
Non si dimentichi che, proprio perché inadeguato dallo stesso punto di vista quantitativo rispetto ai
compiti immensi che si propone, in un solo decennio il partito di Lenin passa da 24 mila a 3 milioni
di iscritti ed è conseguentemente invaso non solo da arrivisti e opportunisti, ma da una massa
politicamente analfabeta e impreparata a dirigere i processi sociali. E già questo la dice lunga circa
la coerenza tra i principi che esso proclama e l’azione pratica dei suoi militanti.
Non vi è dubbio che uno dei meriti della rivoluzione sia stato quello di assicurare da subito, e non
solo ai membri del partito ma all’intera popolazione, l’istruzione su larga scala, ma questa è
un’operazione destinata a dare frutti nel tempo e non nell’immediatezza.
Lenin raccomanda insistentemente che nel comitato centrale del partito venga accolto un maggior
numero di operai e di contadini, e che questi vengano istruiti e addestrati in base ai criteri di
gestione dell’amministrazione statale vigenti nei Paesi dell’Europa occidentale. E conduce poi una
lotta politica instancabile contro il volontarismo estremista e contro l’insorgere del burocratismo,
contro la stessa tendenza a trasformare la dittatura proletaria in dittatura del partito e ancora contro
ogni tendenza a separare il partito e lo Stato dalle esigenze di vita e dalle aspirazioni del popolo. Ma
i suoi propositi e le sue raccomandazioni non danno gli esiti sperati.
Non sembra affatto fuori luogo ritenere che sia Lenin che Trotzkij compiano dei veri e propri errori
di valutazione nel decidere di trasferire i poteri dei soviet all’apparato del partito. Essi non si
rendono conto appieno del conseguente pericolo di smobilitazione e di crescente passività politica
della classe operaia sotto l’effetto congiunto della carestia che ha colpito il Paese e delle privazioni
che essa ha comportato. La stessa tendenza alla moltiplicazione della burocrazia nei gangli vitali del
sistema viene da loro sottovalutata, anche se ne avvertono la pericolosità.
E nemmeno di fronte alla rivolta di Kronstadt del febbraio-marzo 1921, quando la protesta contro la
tirannia burocratica e centralistica provoca un conflitto armato tra i marinai e le truppe fedeli al
bolscevismo, il gruppo dirigente del partito prende coscienza del deteriorarsi del rapporto di fiducia
tra le masse e il governo. Lo stesso Lenin interpreta quell’insurrezione una “controrivoluzione
piccolo borghese”. Di fronte alla parola d’ordine dei rivoltosi “soviet senza comunisti”, il X
congresso del partito, anziché svolgere una seria riflessione sull’accaduto e sul malessere sociale
che serpeggia ovunque, per iniziativa di Lenin, dispone di sciogliere tutte le frazioni esistenti nel
partito. Un provvedimento repressivo questo che viene preso in risposta alla richiesta avanzata
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dall’”opposizione operaia” di conferire tutte le funzioni economiche direttive ai sindacati, posizione
che viene condannata come deviazione anarco-sindacalista. A questa rivendicazione che proviene
dalle sue stesse file il partito risponde appunto con la censura e con molta arroganza: Noi, recita il
comunicato del partito, “non abbiamo altro appoggio che milioni di proletari poco coscienti, spesso
ignoranti, poco evoluti, analfabeti, ma che, in quanto proletari, seguono il loro partito”.
L’opposizione di gruppi di sinistra che accusano di tendenze opportunistiche il gruppo dirigente
sono del resto già presenti nella primavera del ’18, quando il partito prende il nome di “Partito
comunista russo (bolscevico)” e lascia la vecchia sigla (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) ai
menscevichi. Fino al X congresso la presenza di questi gruppi di contestatori viene tollerata, dopo
non più. Infatti, il processo di degenerazione democratica che porta alla eliminazione del pluralismo
interno e che dà inizio alle repressioni che poi Stalin assumerà come regola, inizia allora. Dopo la
liquidazione degli oppositori esterni è la volta della sparizione di quelli interni al partito che in
brevissimo tempo viene spogliato di ogni traccia di effettiva democrazia. Una risoluzione votata da
quel congresso vieta la costituzione di frazioni nel partito. Già a quel tempo non é comunque il
congresso a eleggere il comitato centrale, ma la stessa direzione la quale, per mezzo del suo
apparato, sceglie i delegati al congresso, decide e controlla le iniziative, seleziona gli organici.
E’ con questi stessi criteri, con la medesima determinazione politica, ma anche con gli aspetti
contraddittori che qui abbiamo messo in rilievo, che nel ’22 viene costituita l’Urss, cioè la
Repubblica Sovietica Federativa Socialista Russa.
Nelle discussioni e nelle proposte per la sua formazione compare infatti già da subito la tendenza
centralizzatrice, cioè una resistenza a concedere l’autonomia sostanziale alle repubbliche composte
da nazionalità “non grandi-russe”.
I principi del centralismo democratico prendono corpo proprio nel corso della lotta contro il
separatismo, il regionalismo e il campanilismo diffuso, fenomeni che si sviluppano anche in
occasione delle controversie sulla distribuzione dei quadri nelle file del partito e negli stessi soviet,
proprio nel tentativo di preservarsi dall’incombente centralismo burocratico.
In questa fase Lenin sostiene il principio dell’autodeterminazione delle nazioni considerando questo
diritto una potente leva della trasformazione rivoluzionaria. Egli sostiene che “il diritto delle
nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico, alla
libera separazione politica dalla nazione dominante”. E la costituzione della RSFSR conferisce il
diritti di cittadinanza “senza alcuna fastidiosa formalità” agli “stranieri che lavorano entro il
territorio della repubblica russa, purché essi appartengano alla classe operaia o alla classe
contadina che non impiega lavoro salariato”.
Poco tempo dopo, però, il diritto di autodeterminazione viene rimesso in discussione e abrogato
sotto diversi aspetti. Il punto essenziale diventa un altro. “A parità di tutte le altre condizioni, il
proletariato cosciente difenderà sempre lo Stato più grande. Lotterà sempre contro il
particolarismo medievale e vedrà sempre con favore la più profonda coesione economica di vasti
territori, sui quali possa dispiegarsi ampiamente la lotta del proletariato contro la borghesia… Il
grande Stato centralizzato è un immenso progresso storico sulla strada che dal particolarismo
medievale conduce alla futura unità socialista del mondo intero”, puntualizza lo stesso Lenin.
Anche a questo riguardo e in questa occasione, dunque, egli dimostra di non assolutizzare mai i suoi
convincimenti, ma di orientare la sua teoria e il suo agire secondo le opportunità delle circostanze.
E’ così che il centralismo burocratico diventa il criterio su cui viene costruito il nuovo Stato dei
soviet il cui carattere antidemocratico fa sì che molti suoi tratti rappresentino una continuità con lo
zarismo.
4.7 – Le contraddizioni di Lenin su democrazia e Stato
Lenin è senza dubbio un personaggio contraddittorio. Egli esalta la democrazia ma poi dà vita a un
sistema a partito unico, magnifica i soviet ma realizza la dittatura, teorizza l’estinzione dello Stato
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ma costruisce un regime tra i più autoritari e repressivi che la storia moderna ci abbia fatto
conoscere.
Quale spiegazione dare a questo suo comportamento? Per cercare di chiarire le idee conviene
considerare in modo un po’ meno superficiale il suo pensiero e la sua prassi a riguardo della
democrazia e dello Stato. Qui mi limito appunto a qualche richiamo.
Come ho già ricordato, Lenin intende la dittatura del proletariato come una forma di democrazia
superiore a quella della borghesia, dal momento che essa rappresenta gli interessi della grande
maggioranza del popolo e pone le basi del protagonismo di massa.
Nel 1915 scrive: “Il proletariato non può vincere se non attraverso la democrazia”, ma deve
formulare la sue rivendicazioni “in modo rivoluzionario e non riformista, non limitandosi al quadro
della legalità borghese, ma spezzandolo”. Infatti – sostiene poi – “il capitalismo e l’imperialismo
non possono essere rovesciati con riforme democratiche, nemmeno con le più ‘ideali’, ma soltanto
con la rivoluzione economica; e il proletariato, se non si viene educando nella lotta per la
democrazia, è incapace di compiere questa rivoluzione”.
Quindi precisa che “il socialismo non può essere instaurato da una minoranza, da un partito… lo
debbono instaurare decine di milioni di persone, quando impareranno a farlo da se stesse”. Per
questa ragione insiste nell’affermare che compito prioritario dei bolscevichi è quello di accelerare il
processo di apprendimento delle masse lavoratrici.
E’ da questa concezione che scaturisce la tesi secondo cui tutto il potere statale deve appartenere ai
soviet e che lui fa adottare dal 3° congresso degli stessi soviet e poi introduce nella costituzione
dell’Urss.
Nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione d’ottobre, esattamente nei mesi di luglioagosto del ’17, egli scrive “Stato e rivoluzione”. Si tratta di un trattato fondamentale (sul quale
svilupperò la riflessione nel capitolo relativo allo Stato) in cui egli critica a fondo il
parlamentarismo, esalta l’esperienza della “Comune di Parigi”, teorizza l’estinzione dello Stato e
afferma la supremazia dei soviet. Il governo come mezzo di potere del partito, il partito come centro
di potere, di controllo e di coercizione, non esistono nell’esposizione di questo saggio. La massima
attorno a cui sviluppa il suo ragionamento può essere così sintetizzata: “Più le funzioni del potere
divengono funzioni del popolo intero, meno questo potere è necessario”.
In “Stato e rivoluzione” Lenin si dice convinto che in regime socialista non sia necessaria alcuna
tecnologia politica speciale: l’amministrazione dello Stato viene semplificata al punto tale da potersi
risolvere in semplici compiti di contabilità e di controllo svolti “dagli operai armati, dall’intera
popolazione armata”. Il sistema duttile e chiaro dei soviet permette allo Stato di trasformarsi
pacificamente, di dissolversi e di deperire via via che la società compie la sua evoluzione
economica e culturale. Vinti i capitalisti ed eliminati gli sfruttatori, tutti i cittadini diventano
automaticamente i protagonisti della costruzione del loro destino.
Lo scrittore Gilles Martinet ha definito “Stato e rivoluzione” un “libro estremamente utopico, in cui
si sviluppano contemporaneamente una concezione antistorica della Comune di Parigi e una teoria
piuttosto sorprendente della semplificazione delle tecniche di direzione nella moderna società
industriale”. Può essere che una simile interpretazione sia azzeccata. Fatto è che dopo la presa del
potere Lenin, sotto il condizionamento delle circostanze, dà corpo a un sistema che è in netta
contrapposizione alle teorie da lui stesso formulate. Ciò che del modello ideale della Comune egli
inserisce nel nuovo Stato in costruzione, è la concentrazione dei poteri esecutivo, legislativo e
giudiziario, ma con l’effetto non di accelerare il processo di estinzione dello Stato, bensì, al
contrario, di dare corso al dominio del partito sull’intera società.
Quel che a me pare debba comunque essere messo in evidenza sono la chiarezza e la forza che
traspaiono da questo scritto con il quale, a poche settimane dall’assalto al Palazzo d’Inverno, egli
progetta l’itinerario dell’azione rivoluzionaria che sta per intraprendere.
All’obiettivo dell’estinzione dello Stato, del resto, non rinuncerà mai e, almeno sul piano teorico, lo
ribadirà più volte dopo l’ottobre sostenendo che il nuovo apparato “permette di unire i vantaggi del
parlamentarismo con quelli della democrazia diretta e immediata, cioè di riunire nella persona dei
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rappresentanti eletti dal popolo il potere legislativo e il potere esecutivo” (“I bolscevichi
conserveranno il potere statale?”).
E ancora nel febbraio-marzo 1919 scrive: “Il compito storico della repubblica sovietica, tipo di
Stato nuovo, di transizione verso la completa abolizione dello Stato, è il seguente…” e indica il
percorso da seguire.
Nel gestire il passaggio dallo zarismo alla repubblica dei soviet, Lenin fa pure leva sulla democrazia
contadina e sostiene che “i contadini devono esigere di essere lasciati liberi di decidere essi stessi i
loro affari, di discutere, di suggerire e istituire essi stessi nuove leggi. Devono rivendicare la
costituzione di comitati contadini, liberi, elettivi”. Ai suoi occhi il movimento contadino costituisce
al pari della classe operaia una delle forze motrici fondamentali della rivoluzione.
Certo è che “Stato e rivoluzione” resta un’eloquente testimonianza del divario tra il “dire” e il
“fare” del capo dei bolscevichi.
Per un lungo periodo di tempo, prima, durante e dopo la rivoluzione, nel suo agire prevale
sicuramente il metodo democratico. Egli è così rispettoso dei principi democratici che, nel pieno
rispetto delle divergenze su singole questioni, anche molto gravi, risolve i più difficili problemi del
potere sovietico mediante il metodo del confronto e della persuasione. Seppure in presenza di gravi
dissidi, di lotte implacabili, di crisi dell’unità del partito, non un solo membro viene espulso dal
gruppo dirigente del partito.
E di esempi di questa sua disponibilità al confronto, del suo rispetto per la diversità di opinioni e
della sua tolleranza, se ne potrebbero fare moltissimi.
Nel 1917, alla Dichiarazione dei Diritti dei Popoli di Russia, su sua iniziativa viene fatto seguire
uno speciale appello “A tutti i lavoratori musulmani di Russia e d’Oriente” in cui è tra l’altro detto:
“Le vostre credenze e usanze, le vostre istituzioni nazionali e culturali saranno d’ora in poi libere e
inviolabili. Organizzate in completa libertà la vostra vita nazionale: è vostro diritto”.
Nel novembre del 1918, a Mosca si svolge un congresso delle organizzazioni comuniste musulmane
e viene istituito un Ufficio centrale di queste organizzazioni. Va tenuto presente che, anche a quel
tempo, l’islamismo si configurava come un’istituzione non solo religiosa, ma sociale, giuridica e
politica, la quale regolava quasi in ogni dettaglio la vita quotidiana dei fedeli. Gli imam e i mullah
avevano la funzione di giudici, legislatori, maestri come pure di capi politici e, qualche volta anche
di capi militari.
Lenin è convinto che ogni fase del processo rivoluzionario richiede l’adesione della maggioranza
del popolo e che questa deve essere conquistata tramite il rispetto, l’ascolto e il confronto serrato,
anche aspro e polemico. Egli dà perciò spazio al dissenso considerandolo necessario quale spia dei
problemi, assumendolo come un valore preliminare, come fondamento di una unità che deve essere
raggiunta ad ogni costo.
Persino nei giorni più difficili della rivoluzione, ritiene normale la discussione anche aspra, sollecita
la critica e ammette l’opposizione. Questa è una sua posizione di principio.
E non è un caso che egli eserciti uno straordinario fascino sui militanti del partito e sugli stessi
futuri quadri, operai e contadini, poiché in essi infonde fiducia e certezza trasmettendo una nuova
visione dell’uomo e del mondo.
Ciò che non accetta e non tollera è il dissenso come regola di vita del partito, perchè considera un
suo uso “strategico” una minaccia all’unità delle masse.
Nel corso della guerra contro i “bianchi” e l’assedio degli Stati capitalistici, egli si rende conto che
la sopravvivenza della rivoluzione dipende soprattutto, e in maniera decisiva, dall’unità dei
rivoluzionari, dalla centralizzazione del comando, dalla disciplina e dall’abnegazione di tutto il
popolo. La maturazione di questo convincimento lo porta a sostenere che se libertà di critica
significa difesa del capitalismo, tale libertà deve essere necessariamente soffocata.
Già all’indomani della rivoluzione d’ottobre nelle scuole aveva fatto proibire l’insegnamento della
storia russa: un fatto questo che già di per sé la dice lunga sul pluralismo delle idee.
E’ però in seguito alla guerra civile, all’assedio delle potenze capitalistiche e alla constatazione del
ritardo della rivoluzione mondiale che il suo atteggiamento subisce una modificazione. La sua
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convinzione che la polemica sia la fucina della verità incomincia a quel punto a traballare. E con il
moltiplicarsi delle difficoltà nella realizzazione del suo progetto rivoluzionario, il suo agire nei
confronti di chi contesta si fa duro e intransigente. Incomincia a considerare qualsiasi oppositore
interno al partito come un “opportunista” o un “traditore”, o un “piccolo borghese” o un
“socialdemocratico o menscevico camuffato”; non comunque come portatore di proposte diverse e
legittime.
Di tali accuse sono oggetto gli stessi dirigenti bolscevichi come Kamenev, Zinov’ev, Rykov, Larin
e altri ancora, allorché richiedono la costituzione di un governo di coalizione con i menscevichi e i
socialrivoluzionari. E assume tale atteggiamento quando Bucharin si oppone alla sottomissione
degli operai ai direttori d’azienda. Accusa i “comunisti di sinistra” di spirito piccolo borghese e di
disobbedienza agli ordini dei dirigenti. Per sconfiggere il revisionismo adotta la tattica del rifiuto
totale di qualunque contatto con gli elementi ideologicamente impuri e decreta l’espulsione degli
eretici dal partito, anche a costo di rischiare una scissione.
Nel ’21 bandisce la discussione collettiva delle politiche alternative e trasforma il centralismo
democratico in centralismo burocratico.
Già nel marzo del ’19, all’8° congresso del partito, Osinskij (Obolenskij) aveva denunciato la
prassi secondo cui “i compagni Lenin e Sverdlov decidono degli affari correnti tra loro due”.
Via via che la situazione si fa difficile, matura quel processo che sottrarrà al controllo della società
la potente macchina dell’esercizio del potere statale sopprimendo le più tenui trecce di pluralismo
politico. Alla concentrazione dei poteri nel partito corrisponde un processo analogo negli organi
dello Stato.
Anche sullo stesso problema della burocrazia Lenin manifesta una posizione contraddittoria: mentre
è idealmente e teoricamente contrario ad essa, nei fatti ne avalla lo sviluppo dando così continuità a
una delle peggiori caratteristiche dello zarismo.
Venendo meno il pluralismo politico, risultando limitata la libertà di stampa e di riunione, essendo
soppressa la libera lotta di opinioni nello stesso partito unico, la possibilità di protagonismo degli
individui viene di fatto impedita e ad avere una funzione attiva sono esclusivamente i burocrati.
Con la fine del “periodo eroico” i redditi e le condizioni di vita degli attivisti del partito
incominciano a subire delle sostanziali modifiche. Mentre fino ad allora i loro compensi non
potevano superare un determinato tetto, ora vengono liberalizzati e ai funzionari vengono
riconosciuti privilegi, formali e non formali, del tipo negozi speciali, appartamenti più comodi,
cliniche e case di riposo, il che provoca effetti negativi sul popolo, non tanto sul piano materiale,
quanto invece in termini psicologici. E un tale processo ha inizio proprio negli anni precedenti la
morte di Lenin.
Eppure, il breve periodo che da Marx è stato chiamato “dittatura del proletariato” non ha
assolutamente niente a che fare con l’accentramento del potere, con la repressione del dissenso, con
il terrore. Come già abbiamo visto, la dittatura del proletariato era stata concepita dall’autore de “Il
Capitale” come una democrazia che deve, non abolire, ma ereditare alcuni caratteri propri della
rappresentanza democratica borghese, mutandoli di segno e allargando la cerchia dei suoi effettivi
beneficiari; era intesa come una democrazia che ha il compito di rovesciare contro una minoranza,
contro gli stessi borghesi, le discriminazioni sostanziali che essi hanno praticato contro la
maggioranza dei cittadini mediante le regole di un elettorato fatto esclusivamente da maschi e
selezionato in base al censo e all’alfabetizzazione.
Sta di fatto che in Russia in luogo della dittatura del proletariato si realizza la dittatura del partito e
in luogo dell’autogoverno delle masse si verifica il risorgere della burocrazia. Il programma
originario della rivoluzione d’ottobre risulta capovolto. E tutto questo viene giustificato come
misura indispensabile al mantenimento del potere.
A detta di alcuni storici, Lenin sarebbe l’autentico creatore del totalitarismo moderno avendo
sostituito il partito al popolo, avendo imposto l’ortodossia con la forza ed essendo ricorso a metodi
coercitivi che prima aveva condannato.
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Secondo altri, egli avrebbe stabilito due principi fondamentali caratteristici del comunismo
contemporaneo: il primo è che il socialismo si realizza per volontà illuminata di pochi; il secondo è
che, nel corso dell’azione, non c’è principio ideale o dottrinale che non debba cedere al criterio
dell’opportunità.
Fra i critici più clementi c’è chi ritiene che egli abbia scambiato la società socialista e il suo Stato
per una società in cui le classi sociali sono ormai già superate e perciò abbia presupposto l’esistenza
di un grado di uguaglianza, di trasparenza e di adesione al suo progetto che in effetti non c’era. E
questa sua visione utopistica avrebbe impedito che numerosi problemi di fondo venissero affrontati
con la dovuta chiarezza teorica e le giuste misure politico-sociali. E ancora, c’è chi gli rimprovera di
aver permesso, per tutta la fase iniziale della rivoluzione, e soprattutto durante la guerra civile, il
“lusso della libertà”, cioè la tolleranza dei gruppi di opposizione e dei partiti, le frazioni in seno al
partito che sono in fin dei conti le cause delle misure accentratrici e repressive che poi verranno
prese.
Che il suo atteggiamento sia contraddittorio, non solo nel rapporto prassi-teoria, ma sul piano stesso
dell’elaborazione politica, è comunque un dato innegabile. Un esempio eloquente ci viene dalle sue
riflessioni sull’uso della violenza.
Se ai primi del secolo egli sostiene che “in linea di principio noi non abbiamo mai rinunciato al
terrore, né possiamo rinunciarvi. Il terrore è come una di quelle azioni militari che possono
risultare perfettamente vantaggiose e anzi essenziali in un certo momento della battaglia, in una
certa situazione”, successivamente dichiara che “la violenza non può essere un mestiere; e a
maggior ragione non può essere una necessità generale e assoluta quando al potere è la grande
maggioranza”. E in polemica con gli esponenti della 2a Internazionale precisa che “il comunismo
non si diffonde con la violenza... Dobbiamo fare in modo che i socialtraditori non possano dire che
i bolscevichi pretendono di imporre il loro sistema universale, come se questo sistema potesse
essere portato a Berlino sulla punta delle baionette dei soldati russi”. Fatta la rivoluzione, muta di
nuovo posizione e per garantirle la sopravvivenza del sistema non esita a ricorrere ai metodi
violenti.
Dare una spiegazione a questa sua incoerenza non è cosa semplice. Occorre intanto aver presente
l’eredità teorica e politica che in materia di rivoluzione il movimento operaio eredita dalle
esperienze compiute dalla stessa borghesia nel ‘700 e successivamente; poi torna essenziale
considerare il contesto storico-sociale entro cui il bolscevismo ricorre alla violenza. Si tratta di
attenzioni e di memorie che non sempre gli storici (per non dire dei politici) hanno dimostrato di
avere nel giudicare l’operato del capo dei bolscevichi.
Se si passa in rassegna la storia delle rivoluzioni borghesi d’America e di Francia, infatti, si constata
che la violenza è stata l’esercizio dominante di quegli avvenimenti. Quei rivolgimenti storici hanno
provocato moltissime vittime e, guarda caso, non solo e non tanto appartenenti ai ceti sociali che poi
ne sono stati beneficiati, ma nella stragrande maggioranza appartenenti al proletariato e al popolo.
Il capo dei giacobini Robespierre, per esempio, ha teorizzato oltre che praticato la violenza
sostenendo che “se l’attributo del governo popolare in tempo di pace è la virtù, l’attributo del
governo popolare in tempo di rivoluzione è virtù e terrore insieme, ché virtù senza terrore è fatale,
terrore senza virtù è impotente. Il terrore non è che pronta, severa, inflessibile giustizia; è, così,
un’emanazione della virtù”. In pieno ’93, quando la Francia è accerchiata dalla Coalizione e lotta
per la vita o per la morte, egli fa arrestare metà della Convenzione. E ancora, la Prima Repubblica si
trasforma nella dittatura e quindi nell’impero di Napoleone I; la Seconda Repubblica, scaturita dalla
rivoluzione del ’48, cede il posto alla dittatura bonapartista di Napoleone III. Si tratta di
rivolgimenti istituzionali la cui leva è proprio la violenza.
D’altronde, è la storia stessa a insegnarci che con il verificarsi o il profilarsi di una situazione di
crisi, lo Stato liberale e democratico non ha mai esitato a trasformarsi in una dittatura aperta e
persino terroristica. La violenza è stata all’origine di tutte le democrazie moderne, da quella inglese
(con le sanguinosissime e lunghe guerre civili del Seicento, con l’esecuzione di Carlo I, con la lunga
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oppressione dei cattolici, con il ricorrente rischio della guerra civile nei primi tempi della
rivoluzione industriale, in particolare fra il 1830 e il 1845) fino appunto a quella francese.
Va poi ricordato che tutti i classici del liberalismo (Locke, Montesquieu, Hamilton, Mill, ecc.)
prevedono in modo esplicito la sospensione delle garanzie costituzionali e il ricorso alla dittatura
aperta per fronteggiare uno stato d’eccezione. Mazzini stesso teorizza “un potere dittatoriale,
fortemente accentrato”, che provvede alla sospensione della carta dei diritti e che esaurisce il suo
compito solo con il conseguimento dell’indipendenza e la vittoria finale della rivoluzione nazionale.
Le diverse civiltà che si sono susseguite nel tempo, compresa la nostra, hanno spesso imposto
proprio con la violenza ad altre civiltà dei valori che esse ritenevano universali, umani e che invece
erano il prodotto secolare della loro cultura, della loro storia, della loro tradizione.
E perché mai, e in nome di quale morale, sarebbe giusto mettere sotto processo i bolscevichi per
essere ricorsi alla violenza nel difendere la loro rivoluzione e risparmiare invece dalle critiche le
atrocità della borghesia?
Va poi tenuto conto che i bolscevichi sono figli dello zarismo, cioè di una società che è intrisa di
violenza dal momento che governa i suoi sudditi con mezzi coercitivi e repressivi.
Le rivoluzioni del ’17, quella di febbraio e quella d’ottobre, dunque, non sono e non potevano
essere un giro di walzer, ma sono state possibili – come tutte le altre rivoluzioni – solo grazie
all’uso della forza.
Precisa Lenin a questo proposito: “L’insurrezione è come il gesto di chi stacca da un ramo un frutto
maturo. Tecnicamente è un gesto di violenza. Ma, fondandosi su una decisione maggioritaria,
questa violenza non ha nulla di arbitrario e richiede soltanto un minimo di costrizione fisica... Al
contrario, parlare di pacifismo puro per un potere di classe è una puerilità o una mistificazione”.
Eppure, nei primi mesi il nuovo regime sovietico ricorre alla fucilazione in un solo caso, per di più
attuato dai marinai nei riguardi di un loro compagno accusato di tradimento. Certo, viene poi creata
la nuova milizia operaia in sostituzione di quella zarista e con essa la Ceka, la polizia politica, che
ha lo scopo di stroncare il sabotaggio e le speculazioni. E questa organizzazione repressiva, nei
primi sei mesi di vita, fa fucilare 22 persone.
E’ la presenza delle azioni di terrorismo delle “guardie bianche” e delle truppe d’intervento
straniere che costringe i bolscevichi a ricorrere al “terrore rosso” e a istituire i tribunali del popolo
con il compito di celebrare “processi esemplari” contro chi si oppone al nuovo ordine. E’ del resto
uno degli aspetti grotteschi di ogni rivoluzione politica quello di amministrare in modo arbitrario la
giustizia nella fase del suo consolidamento.
Nella Russia dei soviet i tribunali del popolo giudicano infatti non in base alle leggi emanate in
precedenza dal vecchio regime, ma in base alla coscienza di chi costituisce il tribunale; e i giudici
vengono scelti dal popolo tra chi sa dirigere una seduta e sa leggere e scrivere. Le pene previste
consistono in multe pecuniarie, rimproveri pubblici, privazione della fiducia pubblica, lavori
pubblici coatti, privazione della libertà; la pena di morte, per tutta una fase dopo la rivoluzione, non
viene applicata, è esclusa per principio, e la massima punizione è costituita dalla detenzione in
carcere. Solo quando il conflitto tra rivoluzionari e controrivoluzionari si fa cruento viene fatto
ricorso al terrore. In parecchi casi sono proprio i tribunali del popolo a salvare i nemici della
rivoluzione dalla giustizia sommaria emettendo sentenze in nome della repubblica russa, alcune
delle quali suscitano meraviglia per la loro umanità.
Ed è proprio in seguito all’offensiva controrivoluzionaria che Lenin muta atteggiamento e risponde
alla forza con la forza.
Lo storico russo Dimitri Volkogonov, che nel 1993 è stato presidente della commissione
parlamentare russa incaricata di aprire gli archivi politici, così sintetizza gli esiti delle ricerche
svolte: “Appunto dopo appunto, lettera dopo lettera, Lenin - il semi-dio che la gente (me compreso)
ha venerato per settanta anni - appare per quello che era veramente: non la guida magnanime
della leggenda, ma un tiranno cinico, pronto a tutto pur di prendere e conservare il potere.
Checché ne dicano i nostalgici, fu lui il vero padre del terrore rosso, non Stalin”.
Tra i vari documenti recuperati e resi pubblici vi è una direttiva di Lenin dell’estate del ’18 che
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ordina la repressione di una rivolta dei kulaki contro le confische e nella quale è testualmente detto:
“Impiccare (e dico impiccare in modo che la gente veda) non meno di cento kulaki, ricconi,
sanguisughe conosciuti… Fatelo in modo che la gente tremi a centinaia di chilometri da lì”.
Il primo campo di concentramento viene aperto otto mesi dopo la rivoluzione, cioè nel luglio ’18, a
Sviajsk, nella regione di Kazan.
Il 20 aprile ‘21, il Politburo presieduto da Lenin approva la costruzione di un campo destinato a
dieci-ventimila prigionieri a Ukta.
Qualcuno ha stimato che sotto Lenin siano morte nei campi di concentramento, o siano state
giustiziate per antisovietismo, un milione di persone.
Negli archivi del Pcus, tra le ultime lettere inedite di Lenin, ce n’è una indirizzata a Molotov
riguardante le istruzioni per la lotta alla religione nella quale è detto: “Quanto maggiore è il numero
di rappresentanti del clero reazionario e della borghesia reazionaria che a questo proposito si
riuscirà a fucilare, tanto meglio sarà. Bisogna proprio adesso dare una lezione a questa gente
affinché per qualche decina d’anni non osino neppure pensare a una qualsiasi resistenza”.
Anche se, esaminando le teorie di Lenin sulla dittatura del proletariato dal 1920 in poi, si può
convenire che, mano a mano che prevalgono i compiti non più della rottura rivoluzionaria, ma
dell’edificazione e della direzione dello Stato sovietico, il suo agire si fa meno violento e la sua
attenzione si sposta dall’intervento repressivo alla sollecitazione della capacità di direzione delle
masse, resta il fatto che per difendere il potere bolscevico egli non tralascia di ricorrere alle maniere
forti dando così inizio alla costruzione del moloch.
A distruggere le basi ottimistiche su cui egli ha avviato la costruzione della società sovietica
concorrono anzitutto due anni di guerra civile durante i quali l’esistenza del nuovo Stato viene
messa quotidianamente in gioco, creando una situazione in cui il più stretto centralismo e la più
severa disciplina costituiscono un’assoluta necessità. La lotta dei bolscevichi contro i “bianchi” e i
loro alleati occidentali non è altro che una risposta, certamente crudele, alle perfide e sanguinose
cospirazioni, alle rivolte e alle violenze dei capi militari controrivoluzionari sostenuti e finanziati
dalla vecchia nobiltà, dagli agrari, dai kulaki e dalla borghesia. E’ poi da tener presente che, proprio
a causa delle sue ataviche caratteristiche, per essere governata la società russa ha bisogno di una
guida dall’alto e di una mano ferma. Se nel ’17 Lenin sostiene che ad amministrare Mosca può
benissimo essere incaricata anche una cuoca, nel ‘21 si interroga: “Ogni operaio sa forse
amministrare lo Stato?” e a questo interrogativo risponde che “la gente pratica sa che queste sono
favole”. Di fatto, solo alcune migliaia di operai in tutta la Russia partecipano in quel momento
all’amministrazione della cosa pubblica.
Egli è poi costretto a fare i conti con “l’incultura semiasiatica” delle masse lavoratrici che per
essere governate, paradossalmente, devono essere sottoposte a limitazioni democratiche e a
restrizioni di libertà. Nel ‘23 egli ammette che “anche noi non abbiamo un grado sufficiente di
civiltà per passare direttamente al socialismo, pur essendoci da noi le premesse politiche”.
Quando poi il processo degenerativo investe lo Stato è la macchina burocratica, con la sua propria
inerzia istituzionale, a opporsi oggettivamente alle misure rivoluzionarie. “Abbiamo ereditato il
vecchio apparato statale e questa è stata la nostra disgrazia.... abbiamo una massa enorme di
impiegati, ma non abbiamo un numero sufficiente di elementi preparati che possano effettivamente
dirigerli”, ammette angosciato.
E definisce la Russia sovietica come “uno Stato operaio con una deformazione burocratica”,
lamentando che “non a noi appartiene questo apparato, ma noi apparteniamo ad esso”.
La burocrazia, che non costituisce affatto una nuova classe di sfruttatori come qualcuno ha
sostenuto, ma è piuttosto un casta privilegiata, si presenta infatti come una escrescenza cancerosa
sull’organismo sociale soffocandone il protagonismo.
La critica di Lenin è rivolta a tutte le istituzioni politiche del Paese, ma soprattutto alla “Ispezione
operaia e contadina”, un commissariato del popolo diretto da Stalin incaricato del controllo e della
direzione degli uffici economici e politici. Egli percepisce il pericolo obiettivo del burocratismo
nella sua piena crudezza, avverte il rischio di estraniazione dell’apparato di potere e di una sua
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trasformazione da strumento del popolo in una forza al di sopra di esso. Avverte il pericolo di una
trasformazione degli organi dello Stato “da servitori della società in padroni della società”, come
aveva ammonito Engels.
E ricorda come nella storia sia accaduto più volte che, quando un popolo di minore cultura ne ha
conquistato uno di livello culturale superiore, il popolo vinto ha imposto la propria cultura al
vincitore. “Non è accaduto - si domanda - qualcosa di simile nella capitale della Repubblica
federale russa, e non è avvenuto che i 4700 comunisti (quasi un’intera divisione, e tutti fra i
migliori) siano stati sottomessi da una cultura estranea?”. Secondo Lenin, non sono dunque i
comunisti responsabili a manovrare la vasta macchina burocratica, ma essi stessi, senza saperlo,
sono manovrati dai funzionari appartenenti alle ex classi privilegiate. Prima di morire scrive: “Il
nostro apparato statale... è stato soltanto verniciato un po’ alla superficie, ma il resto è rimasto un
tipico relitto del nostro vecchio apparato statale”.
Nelle sue opere si trova di tutto. Alle affermazioni rivoluzionarie molto dure si alterna uno spiccato
senso del compromesso e si trovano anche testimonianze di un’inaspettata pazienza storica e di uno
spirito fortemente autocritico.
Negli ultimi anni della sua vita egli viene investito da una crisi morale al punto di dichiarare: “Sono
a quel che pare molto colpevole verso i lavoratori russi”. Così come successivamente faranno
Trotzkij e Bucharin, ammetterà di essersi lasciato andare a illusioni e speranze utopistiche.
Lucidamente riconosce che, con il 1917, si è realizzato solo il capitalismo monopolistico di stato e
si augura che questo sia “l’ultima tappa prima della socializzazione dei mezzi di produzione”.
Alla tribuna del 4° congresso del Comintern, nel ’22, ammonisce così i delegati: “Io penso che la
cosa più importante per tutti noi, compagni russi come pure stranieri, è che dopo cinque anni di
rivoluzione russa dobbiamo studiare”.
E successivamente,denuncia i pericoli che sono insiti nel sistema di potere centralistico che ha
costruito.
Nei suoi ultimi scritti mette addirittura in dubbio il carattere socialista dello stato sovietico, e fa sue
le critiche che negli anni precedenti gruppi d’opposizione all’interno del partito avevano mosso allo
suo stesso operato. “Siamo obbligati a riconoscere che tutte le nostre opinioni sul socialismo hanno
subito un cambiamento radicale”, afferma, e con evidente amarezza ammette che “la rivoluzione
politica e sociale da noi ha preceduto la rivoluzione culturale”. E ancora: “La stessa generazione
che verrà subito dopo di noi, e che sarà più forte della nostra, difficilmente potrà realizzare il
compito del completo passaggio al socialismo”.
A detta dei menscevichi, egli si sarebbe posto il dubbio di aver dato vita in Russia a un nuovo
Termidoro: tesi questa smentita dai bolscevichi e da Stalin, ma confermata da Trotzkij quando
ormai era caduto in disgrazia.
Fatto è che Lenin non superò mai la natura dicotomica e contraddittoria del suo pensare e del suo
agire, di quel suo fare che lo portò a realizzare la rivoluzione politicamente più avanzata in una
delle realtà più arretrate economicamente e socialmente. E per questo resta uno dei grandi. E a
giustificare queste sue antilogie viene in aiuto la storia stessa: mai l’umanità ha conosciuto una
rivoluzione sociale pura e senza costrizioni e violenza. La sua esperienza ci torna comunque di
grande insegnamento, perché ci dice che vincere una rivoluzione è meno difficile che consolidarla e
che conservare il potere è più complicato che conquistarlo.
4.8 – Lenin, il taylorismo e il modo di produzione capitalistico
Se nella costruzione del socialismo in Urss le contraddizioni di Lenin a riguardo della democrazia e
dello Stato hanno pesato negativamente, non meno rovinose a me sembrano essere state le discrasie
che egli ha manifestato sul piano delle politiche economiche e del lavoro. Credo che questo sia un
aspetto di altrettanta importanza da mettere sotto esame, considerato che è anzitutto sul terreno del
modo di produzione che si esprime l’originalità di un sistema socialista rispetto a quello capitalista.
Eppure, questo particolare mi sembra essere stato trascurato o quantomeno sottovalutato dalla
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stragrande maggioranza degli studiosi marxisti e dei politici. Ricordo di aver letto pochi trattati o
saggi che mettevano in evidenza come in Unione Sovietica è stata realizzata la statalizzaione
anziché la socializzazione. Ad analizzasse criticamente l’operato dei bolscevichi a questo proposito
sono stati veramente pochi. Anche per questa ragione ritengo soffermarmi su questo aspetto della
storia della rivoluzione russa giacché lo ritengo della massima importanza.
Quando Lenin rende chiaro cosa significa per lui dittatura del proletariato, afferma che essa “non è
soltanto violenza contro gli sfruttatori e neppure principalmente violenza. Base economica di
questa violenza rivoluzionaria, garanzia della sua vitalità e del suo successo – puntualizza – è il
fatto che il proletariato rappresenta e realizza, rispetto al capitalismo, un tipo più alto di
organizzazione sociale del lavoro”. Ma è proprio questo originale tipo di organizzazione del lavoro
che la rivoluzione d’ottobre dimostra di non essere in grado di garantire.
E’ da ricordare a questo proposito che all’atto della presa del potere, né i marxisti russi né
quelli dell’Europa occidentale hanno un’idea precisa circa il funzionamento di un’economia
socialista. I socialisti marxisti sono stati troppo occupati nell’opporsi al capitalismo per pensare alla
natura dell’economia socialista. Nella tradizione marxista esiste perciò una forte tendenza a
ignorare i problemi economici pratici e Lenin non trova quasi nulla nella letteratura sui problemi
della distribuzione e dell’efficienza e sui metodi della pianificazione.
La precettistica marxista fornisce solo indicazioni generiche e piuttosto vaghe su una cosiddetta
“prima fase”,per la quale viene ipotizzata un’economia socialista non monetaria in cui tutti i mezzi
di produzione diventano di proprietà sociale e lo scambio di merci viene sostituito da quello dei
prodotti. Unica fonte di ricchezza è il lavoro e l’idea dominante è quella di trattare tutta la vita
economica di un paese come un’unica fabbrica con molti reparti o come un unico monopolio.
Se i bolscevichi hanno idee piuttosto confuse sul da farsi dopo la conquista del potere, questo è
anche dovuto al vuoto teorico e alla carenza di elaborazione politica.
Come ha sottolineato Kacenellenbaum, uno studioso russo di economia, “a questo proposito i
comunisti erano dei romantici.... I testi classici del marxismo concepivano la società futura come
un sistema in cui tutto sarebbe stato ovvio: ovvi gli obiettivi della gente, ovvia la disponibilità delle
risorse”. E a conferma di questo giudizio è da ricordare quanto annotava un dirigente della politica
economica bolscevica: “Se ci chiediamo in che modo il nostro partito concepisse, prima del 25
ottobre, il sistema del controllo operaio nel suo insieme e sulla base di quale ordinamento
economico intendesse edificarlo, da nessuna parte riusciremo ad avere una risposta”.
Una delle attenuanti di Lenin, dunque, è che non esiste, e questo vale anche per l’oggi, un modello
astratto dello sviluppo delle forze produttive durante la transizione. Del resto, è lui stesso a
sottolineare questa mancanza di teoria e di pratica quando scrive: “Noi conosciamo il socialismo,
ma le nostre conoscenze per quanto riguarda l’organizzazione su vasta scala di milioni di uomini,
le nostre conoscenze sulla organizzazione e la distribuzione dei prodotti, queste conoscenze noi non
le abbiamo”.
Nessuno degli organi governativi sovietici dispone di esperienza e di una sufficiente organizzazione
sia per gestire il modo di produzione e far funzionare le imprese, sia per destreggiarsi nei complicati
processi commerciali della compravendita.
In mancanza di teoria e di esperienza, nel procedere alla rapida industrializzazione del Paese, Lenin
è attratto dalla vitalità del mondo capitalistico e assume, in maniera pedissequa, come modello il
sistema di organizzazione del lavoro che in quel momento è in via di sperimentazione nel mondo
occidentale, cioè il modello dell’”americanismo”.
Egli ammira la disciplina che regna nella fabbrica capitalista ed è affascinato dalle sue conquiste
tecnico-scientifiche. Spiega ai suoi critici di sinistra che “il socialismo è inconcepibile senza la
tecnica del grande capitalismo”, che è impossibile costruirlo senza assimilare e padroneggiare le
conquiste della tecnica, della cultura e della scienza moderna, comprese naturalmente quelle che
sono state realizzate sotto il dominio della borghesia, e sostiene che compito preciso e inderogabile
dei bolscevichi è quello di “imparare a lavorare” dal capitalismo. A causa della sopravvivenza
nella società russa di “resti del regime feudale” imposto dagli zar, Lenin considera il russo “un
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cattivo lavoratore”. Ne consegue che il potere sovietico “deve porre di fronte al popolo in tutta la
sua ampiezza” un compito preciso e inderogabile, cioè quello di “imparare e lavorare”.
Ammirando le esperienze compiute dal capitalismo sull’organizzazione del lavoro, in specie a
riguardo della sua razionalizzazione, insiste sulla necessità di assumerle come condizione per la
costruzione del socialismo. “Senza la direzione di coloro che sono specializzati nei vari campi del
sapere, della tecnica e dell’esperienza, il passaggio al socialismo è impossibile”, ripete spesso.
Definisce come posizioni di “romanticismo economico” reazionario quelle che, assieme al
capitalismo, condannano anche lo sviluppo delle forze produttive che esso genera e sviluppa e
prende una qualche distanza dal principio dell’espropriazione della proprietà capitalistica, eredità
della lotta di classe, poiché ritiene che una tale azione non fa che accrescere il dissesto economico
del Paese e la sua disorganizzazione.
A suo giudizio, mentre il vecchio apparato politico deve essere completamente annientato, tutte le
istituzioni e organizzazioni economiche della vecchia società devono essere conservate, rielaborate
e sviluppate. Devono essere semplicemente strappate di mano ai capitalisti e passate in potere dei
soviet, collegandole a un sistema di contabilità e di controllo condotto da tutta la popolazione
lavoratrice. “Non è necessario spezzare questo apparato e non si deve spezzarlo”, sostiene.
“Bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti e ai fini della loro influenza, bisogna subordinarlo ai
soviet proletari, estenderlo, svilupparlo, farne una cosa di tutto il popolo… Il proletariato prende le
armi del capitalismo invece di ‘inventarle’ o di ‘crearle dal nulla’”.
In “Stato e rivoluzione” aveva del resto scritto: “Organizziamo la grande industria partendo da ciò
che il capitalismo ha già creato.... il meccanismo della gestione sociale è già pronto. Una volta
abbattuti i capitalisti, spezzata con la mano di ferro degli operai armati la resistenza di questi
sfruttatori, demolita la macchina burocratica dello Stato attuale, avremo davanti a noi un
meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto di vista tecnico, sbarazzato dal ‘parassita’ e che i
lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare assumendo tecnici, sorveglianti,
contabili e pagando il lavoro di tutti costoro, come quello di tutti i funzionari dello Stato in
generale, con un salario da operaio. E’ questo il compito concreto, pratico, immediatamente
realizzabile nei confronti di tutti i trust e che libererà dallo sfruttamento i lavoratori, tenendo conto
dell’esperienza praticamente iniziata (soprattutto nel campo dell’organizzazione dello Stato) dalla
Comune…Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d’un solo ‘cartello’ di tutto il popolo:
dello Stato. Tutto sta nell’ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura
di lavoro e ricevano nella stessa misura”.
E quasi a dare ragione a Sorel il quale, in tono paradossale, ebbe a sostenere che “non occorre più
che il socialismo si occupi dell’organizzazione dell’industria, giacché se ne incarica il
capitalismo”, Lenin punta gli occhi sul modello tedesco, precisamente su quello dell’economia di
guerra che a suo parere costituisce l’unica via d’uscita per una realtà arretrata come la Russia.
“Imparate dai tedeschi!”, esorta. “La storia procede a zig-zag, per schemi tortuosi. Oggi accade
che i tedeschi, strettamente alleati al bestiale imperialismo, incarnino i principi della disciplina,
dell’organizzazione, di una compatta operosità collettiva, sulla base della più moderna industria
meccanizzata, di una scrupolosa amministrazione e di un ferreo controllo. E’ precisamente ciò che
a noi manca. E’ precisamente ciò che dobbiamo imparare”.
E a fine marzo del ‘18 scrive: “(Abbiamo una) carenza di tecnici e di esperienza economica e
amministrativa moderna.... Si può dire che (il nostro) compito assume due aspetti principali: 1)
inventario e controllo sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti nelle forme più larghe,
complete e universali; 2) aumento della produttività del lavoro.
Senza la grande produzione meccanizzata, senza una rete più o meno sviluppata di ferrovie e
comunicazioni postali e telegrafiche, senza una rete più o meno sviluppata di istituzioni scolastiche,
l’uno e l’altro compito non potrebbero essere assolti.... La muraglia delle operazioni di guerra ha
isolato il nostro paese dalla circolazione di merci con tutta una serie di paesi che prima
importavano ed esportavano soprattutto dalla Russia... Bisogna imparare in gran parte il
socialismo dai direttori dei trust, bisogna imparare il socialismo dai grandi organizzatori del
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capitalismo”.
E più tardi, quando la prospettiva di una rivoluzione in Occidente svanisce, scrive: “Se la
rivoluzione socialista avesse vinto simultaneamente in tutto il mondo o, almeno, in una serie di
paesi progrediti... in nostro aiuto sarebbero accorsi gli operai d’avanguardia dei paesi dell’Europa
occidentale”, purtroppo invece, “dobbiamo necessariamente far collaborare con il potere sovietico
un gran numero di esponenti dell’intellettualità borghese, in particolare di coloro che erano
impegnati nel lavoro pratico di organizzazione della grande produzione nel quadro del
capitalismo... anche se è ingiusto e sbagliato che i rappresentanti dell’intellettualità borghese
ottengano una remunerazione incomparabilmente più elevata di quella dei migliori strati della
classe operaia”.
Lenin insiste nel ritenere indispensabile un pregiudiziale sforzo comune contro la dispersione, la
disorganizzazione e il caos che caratterizzano il quadro dell’economia russa e per conseguire questo
obiettivo ritiene si debbano far propri i metodi capitalistici.
Eppure, nel ‘13, egli aveva sferrato un duro attacco contro il sistema taylorista che considerava un
modo di “spremere dall’operaio tre volte più lavoro in un’uguale giornata lavorativa“ e lo definiva
“la schiavitù dell’uomo alla macchina”.
Negli anni successivi, pur dicendosi consapevole che l’”americanismo” racchiude in sé “la crudeltà
raffinata dello sfruttamento”, il suo atteggiamento verso di esso cambia fino al punto di sostenere
che “senza che i suoi autori lo sappiano e contro la loro volontà, il taylorismo prepara il tempo in
cui il proletariato prenderà nelle sue mani l’intera produzione sociale”.
E ne “I compiti immediati del potere sovietico”, sostiene: “Dobbiamo mettere all’ordine del giorno,
introdurre praticamente e sperimentare il lavoro a cottimo, applicare tutto ciò che vi è di
scientifico e di progressivo nel sistema Taylor, proporzionare i salari alla quantità complessiva
delle merci prodotte”.
Lancia quindi la direttiva di applicare il taylorismo e dedica addirittura una scheda a un libro di
O.A.Ermanski su l’organizzazione scientifica del lavoro e il sistema Taylor definendolo un sistema
“molto buono e molto utile”. Poi scrive che “il grande capitalismo ha creato tali sistemi di
organizzazione del lavoro... che devono essere fatti propri dalla Repubblica socialista sovietica e
rielaborati... ad esempio il rinomato sistema di Taylor… L’aspetto negativo del metodo di Taylor è
il fatto che esso è stato realizzato nel quadro della schiavitù capitalistica... Noi dobbiamo
introdurre il sistema di Taylor e l’elevamento scientifico americano della produttività del lavoro in
tutta la Russia, e in pari tempo ridurre il tempo di lavoro, utilizzare i nuovi metodi di produzione e
di organizzazione del lavoro senza alcun danno per la forza-lavoro... L’applicazione del sistema di
Taylor deve essere diretta dagli stessi lavoratori... il compito si può formulare all’incirca in questo
modo: sei ore di lavoro fisso quotidiano per ogni cittadino adulto e quattro ore di lavoro per
l’amministrazione dello Stato”.
Convinto che il passaggio al socialismo si può compiere senza particolari difficoltà, incita
all’applicazione minuziosa e scrupolosa del censimento e del controllo operaio della produzione e
della distribuzione dei prodotti e introduce l’istruzione scolastica obbligatoria. Si dice convinto che
“in forza di una moderna coscienza proletaria, l’operaio sente la scienza come cosa che gli
appartiene, sente la superiorità della propria consapevolezza rispetto a quella degli stessi portatori
della scienza, anch’essi in gran parte incapaci di vedere la genesi del loro lavoro, delle condizioni
materiali, ed anticipa, nella propria attuale consapevolezza, una superiore civiltà”. E sostiene che è
necessario istruirsi perché “bisogna saper riconoscere senza paura il male per combatterlo con
maggior fermezza, per ricominciare ancora e ancora daccapo: saremo costretti ancora molte volte,
in tutti i campi della nostra edificazione, a ricominciare daccapo, correggendo ciò che è imperfetto,
scegliendo vie diverse per affrontare il compito”.
Non tutti i bolscevichi però sono convinti della bontà del taylorismo. Obolenskij (Osinskij), primo
presidente del Vesencha e membro dell’opposizione di sinistra, dirige l’attacco contro i cottimi e il
taylorismo. L’intellettuale Lozovskij denuncia nel taylorismo “una teoria imperniata
essenzialmente sull’élite operaia, sul rafforzamento dell’aristocrazia operaia”. A.M.Bogdanov
127
asserisce che la classe dominante è caratterizzata dal potere di organizzare il lavoro, piuttosto che
dal possesso degli strumenti per attuarlo. Pertanto, la trasformazione socialista del modello di
produzione capitalista sarebbe dovuta, a suo avviso, avvenire non attraverso l’espropriazione dei
mezzi, bensì mediante una diversa funzione culturale delle masse che le ponesse in grado di
impostare nuovi modelli organizzativi e quindi di non imitare semplicemente il taylorismo.
Più avanti nel tempo, E.A. Preovrazenski, alla luce dei risultati dell’applicazione del taylorismo,
parlerà di “classe operaia che si fa contemporaneamente sfruttatrice di se stessa per
l’accumulazione socialista”.
In risposta ai suoi critici, Lenin non si limita a spiegare che “il socialismo è inconcepibile senza la
tecnica del grande capitalismo”, ma ricorre anche alle maniere forti. Bogdanov, già in odore di
eresia, viene scomunicato.
E mentre polemizza, sostiene che la “sottomissione reale” del processo lavorativo ai nuovi rapporti
di produzione si porrà all’ordine del giorno quando sarà superata la fase di transizione al socialismo,
quando cioè si svilupperanno le condizioni che porteranno verso il comunismo.
Presso i dirigenti sovietici il taylorismo acquista grandissima popolarità e diventa assai presto il
fattore decisivo dello sviluppo della tecnicità e dell’ampliamento degli apparati di direzione
specialistica.
Dietro l’impulso di Lenin e sotto la sua direzione, l’economia dell’Urss viene dunque organizzata,
da un lato, adottando il modello produttivo capitalista, dall’altro, gestendo il sistema produttivo
come si gestisce la posta o un pubblico ufficio; il tutto posto, solo in teoria, sotto il controllo e la
direzione del proletariato.
Applicando il modello capitalistico di produzione all’organizzazione economica del nuovo Stato in
costruzione, Lenin realizza consapevolmente un compromesso con lo stato di cose esistente e rinvia
al dopo, alla fine del processo di industrializzazione del Paese, l’instaurazione di nuovi rapporti
sociali, cioè l’applicazione del modello di socializzazione delineato da Marx.
Con la Nep le imprese industriali si orientano in base al principio della remuneratività e ciò
comporta un ritorno ai rapporti economici capitalistici e la conseguente regressione a una fase
precedente lo stesso capitalismo di Stato.
E’ lo stesso Lenin a decretare che non bisogna “demolire l’ordine vecchio dell’economia sociale, il
commercio, le piccole aziende, le piccole imprese, il capitalismo, ma (occorre invece) animare il
commercio, le piccole imprese, il capitalismo, impadronendosene con prudenza e gradualmente, o
sottomettendoli alla regolarizzazione da parte dello Stato soltanto nella misura in cui essi si
rianimeranno”. Egli è convinto che solo una politica di questo genere, la quale risponde anche ai
bisogni immediati della classe contadina che è stata penalizzata dal “comunismo di guerra”,
rappresenti l’unica via per tenere in piedi il potere sovietico fino alla vittoria della rivoluzione
internazionale.
Lenin combina dunque il potere politico bolscevico con la disciplina produttiva e con le tecniche
capitalistiche sulla base del controllo statale. In Russia permangono fattori e situazioni economicosociali differenti e anche un forte frazionamento della piccola borghesia, al punto di rappresentare
un pericolo per il mantenimento dell’unità del Paese.
A fronte di una situazione tanto complessa, Lenin intravede la soluzione dei problemi nel
“capitalismo di Stato”. Lo Stato accentra nelle proprie mani l’intera eccedenza economica, cioè il
“prodotto socialista aggiunto” e diventa l’unico datore di lavoro. E dato che il sistema produttivo è
impostato sul metodo tayloristico, i lavoratori sono soggetti a specializzazioni e a gerarchie
identiche a quelle esistenti nella società capitalistica.
Consapevole che questa condizione contraddice i principi della dottrina marxista, il capo dei
bolscevichi si giustifica sostenendo che “il capitalismo monopolistico di Stato rappresenta la più
completa preparazione materiale verso il socialismo, è l’anticamera del socialismo” e che “il
socialismo non è altro che il monopolio capitalistico di Stato messo al servizio di tutto il popolo e
che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico”.
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In ”La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” asserisce che “resta solo da trasformare
la regolamentazione burocratico-reazionaria in una regolamentazione democratico-rivoluzionaria
mediante semplici decreti sulla convocazione di congressi degli impiegati, ingegneri, direttori ed
azionisti, sull’istituzione di una contabilità unificata, sul controllo da parte dei sindacati operai”.
Già nel ’17 aveva sostenuto che “nelle condizioni della rivoluzione, in presenza della rivoluzione, il
capitalismo monopolistico di Stato si trasforma direttamente in socialismo” essendo “la più
completa preparazione materiale del socialismo, la sua base preliminare, quello stadio
dell’evoluzione storica che precede il socialismo”. Ed ebbe pure a dichiarare che quando i
complessi industriali fossero stati dati in consegna ai soviet e posti sotto il loro controllo, “la Russia
(avrebbe) messo un piede nel socialismo”.
E pensare che più volte lui stesso aveva avuto modo di sentenziare che la politica non può e non
deve seguire docilmente l’economia e che la lotta più tenace è proprio quella che avviene per
interessi economici!
Dalla teoria e dalla pratica leniniana sono scaturiti così due principi che dall’ottobre in poi hanno
ipotecato il pensiero e la prassi del movimento comunista internazionale: 1) si è pensato fosse
sufficiente che lo Stato venisse messo al servizio del popolo perché esso cessasse di avere la sua
natura originaria; 2) si è creduto che per realizzare un sistema socialista bastasse impossessarsi dei
mezzi di produzione e sostituire alla direzione dell’economia i capitalisti con i proletari. Due
postulati questi che la storia ha ampiamente smentito.
Non va dimenticato che Lenin dimostra una certa ostilità verso la democrazia economica. Egli
sostiene che mentre la produzione è sempre necessaria, la democrazia non lo è sempre. Anzi, pensa
che “la democrazia nella produzione genera una serie di idee radicalmente false” e che “la
democrazia è una categoria attinente soltanto al campo politico”.
Egli difende in maniera categorica il principio della direzione unica delle imprese e non mostra
grande simpatia per l’autogestione nelle fabbriche, anche se intravede il momento più importante
dei nuovi rapporti sociali nella nomina degli operai ai posti di comando nell’industria. In campo
economico egli tenta di risanare la situazione affidando, in emergenza, le responsabilità principali ai
singoli dirigenti secondo il principio dell’unicità del comando e applica una disciplina autoritaria
del lavoro che viene gestita dai tribunali disciplinari. Ricorre in sostanza a metodi e criteri tipici del
modo di produrre capitalistico che di certo non possono essere fautori di un modo di produzione
alternativo e non possono rappresentare uno stimolo all’esaltazione del “general intellect” che
peraltro nella Russia post rivoluzionaria risulta essere estremamente limitato.
Lenin, in sostanza, non si cura di sperimentare forme di produzione originali. Non è nelle
condizioni oggettive e soggettive di farlo. Suo obiettivo prioritario è quello di accelerare
l’industrializzazione e l’elettrificazione del Paese e individuare la maniera di sottomettere il
processo lavorativo al controllo e alla direzione del nuovo Stato. Così facendo, rinvia a tempi meno
rovinosi la ricerca di nuovi e socialistici rapporti di produzione. Nonostante che Strumilin
ammonisca che “il nostro compito non è di aiutare la scienza economica, ma di trasformarla”, egli
procede imperterrito nel suo disegno di costruzione del capitalismo di Stato.
Lo studioso Harry Braverman sostiene che “neanche nelle sue primissime e più rivoluzionarie fasi
l’industrializzazione sovietica può essere riguardata come un tentativo di organizzare i processi
lavorativi in modo fondamentalmente diverso da quello capitalistico”. Un giudizio questo che
condivido in pieno anche perchè risulta comprovato da quegli studi che sono stati compiuti con
spirito critico sulla costruzione del socialismo in Russia e che hanno cercato di dare una spiegazione
al mancato processo di socializzazione.
E’ grazie a un’interpretazione critica di questo genere che diviene evidente la contraddizione tra il
carattere politicamente avanzato (per quel tempo) della rivoluzione bolscevica e l’arretratezza della
struttura economica in cui essa si compie. Ed è avendo chiara questa antinomia che si può
considerare giusta nei principi, ma velleitaria nella pratica, la pretesa dell’opposizione operaia di
affidare la direzione della produzione agli istituti di autogoverno operaio, mentre appare realistica la
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posizione leniniana di puntare sui direttori di fabbrica, sui glavki, quale unica possibilità di evitare
una caduta in rovina e garantire al Paese coesione e disciplina.
Lenin dimostra di avere a un certo punto piena consapevolezza che in Russia non è possibile
introdurre di colpo un sistema economico socialista, poiché mancano le premesse oggettive e
soggettive, e perciò ripiega sul capitalismo di Stato. “La Russia è un paese contadino – insiste – il
socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente”.
Il programma d’azione economica che lui propone prevede una serie di misure che di certo sono da
considerarsi radicali. Tali sono la nazionalizzazione di tutte le proprietà terriere, l’organizzazione di
fattorie modello in grandi tenute espropriate, la fondazione di una banca nazionale unitaria; il
controllo della produzione e della distribuzione dei beni economici nella società a opera dei soviet.
Tuttavia queste sono misure che si mantengono nel quadro del sistema esistente e attraverso di esse
l’apparato produttivo capitalistico non risulta affatto intaccato.
Lenin non è riuscito, e nelle condizioni in cui era chiamato ad operare non poteva riuscirci, a
plasmare “l’uomo nuovo socialista” incontrando enormi e insormontabili difficoltà nell’opera di
trasformazione del comportamento delle persone. A dare scacco matto ai suoi propositi
intervengono, infatti, non solo le condizioni materiali di arretratezza della società zarista, cosa già di
per sé esiziale, ma anche l’incultura dei soggetti sociali, l’assenza di responsabilizzazione, il
persistere di un esasperato senso di religiosità che ipoteca i comportamenti individuali e collettivi, i
nazionalismi.
Lenin traccia i lineamenti di un regime politico che poi non riesce a realizzare, perché non esistono
le condizioni per poterlo fare. Egli è infatti contemporaneamente un grande vincente e un grande
sconfitto.
Rudi Dutschke sostiene che Lenin ha sottovalutato la specificità “asiatica” della Russia, ha visto i
tratti della cultura asiatica, ma non le sue radici nelle strutture sociali. Sono anch’io convinto che il
capo dei bolscevichi ha sottovalutato uno degli aspetti fondamentali della teoria marxiana:
esattamente quello secondo cui ogni tipo di struttura economica determina un proprio specifico tipo
di relazioni fra gli uomini. Si deve però convenire che giudicare oggi retrospettivamente l’operato
di Lenin e dei bolscevichi e sostenere che sarebbe stato necessario rinunciare all’applicazione della
tecnica industriale capitalistica e introdurne invece un’altra al suo posto, mobilitando l’iniziativa
tecnica della masse, si rischia di ricadere in una visione idealistica della storia.
Non so in tutta onestà chi di noi, trovandosi nei loro panni, di fronte cioè alle drammatiche
condizioni e alle difficoltà che qui ho appena richiamato, sarebbe stato in grado di fare meglio.
Dalle contraddizioni emergenti dall’elaborazione e dall’azione politica di Lenin e dei bolscevichi, io
mi sento di trarre solo delle lezioni. Ed esse mi insegnano che la transizione da un sistema sociale
all’altro, non solo nelle condizioni di un’economia semi asiatica, ma in quelle delle stesse società di
capitalismo maturo, è necessariamente un’operazione complessa e contraddittoria sotto molteplici
punti di vista, la quale esige una grande disponibilità alla sperimentazione in ogni campo. Essa non
può assolutamente essere delegata né a un’avanguardia né alle istituzioni esistenti, ma deve essere il
prodotto di un protagonismo di massa consapevole. Per di più, essa esige un livello di maturità e
autonomia culturale e di coscienza sociale che nella Russia del primo novecento non c’era
sicuramente. Lenin, infatti, non solo è chiamato ad agire in un contesto sociale arretrato su tutti i
fronti, ma paga lo scotto dell’inesperienza e quello del più completo isolamento. Credo che queste
siano le cause principali del suo fallimento. Egli ha precorso i tempi. Di fronte al fallimento
dell’esperienza russa viene naturale chiedersi se le condizioni oggettive, quelle di natura
economico-sociale, non siano invece mature oggi, qui nelle società dell’Occidente evoluto, e se non
sia il caso di riproporre noi, in chiave moderna, quel percorso che ai sovietici è stato impossibile
fare. Ma questa è una riflessione che riprenderò più avanti.
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4.9 – I bolscevichi e la rivoluzione in Occidente
Nel ’14 Lenin interpreta lo scoppio della guerra come l’inizio della crisi decisiva del capitalismo e
si persuade che al conflitto farà seguito una lotta di classe su scala internazionale di dimensioni tali
da portare alla rivoluzione socialista mondiale.
Sulla base di tale convincimento, negli anni successivi, ritiene che i rivoluzionari russi debbano
agire per sfruttare una serie di elementi obiettivi che la situazione internazionale offre loro: “Se ci
muoviamo ora – dice – avremo tutta l’Europa proletaria dalla nostra parte”. E nel ’17 scrive:
“L’esempio degli operai russi sarà inevitabilmente seguito – forse non domani (le rivoluzioni non
si fanno su ordinazione) ma inevitabilmente – dagli operai e dai lavoratori di almeno due grandi
Paesi: la Germania e la Francia”.
Quando, concluso il primo conflitto mondiale, il proletariato di alcuni Paesi europei scende in lotta,
egli dichiara: “Il fermento è cominciato in Europa, e questo non può non portare a una crisi
dell’insieme del capitalismo mondiale” e nel far notare che in Germania e in Inghilterra si stanno
“formando eserciti rossi”, sostiene che la prospettiva non può essere altra che la rivoluzione come
in Russia.
Nel marzo del ’19, in occasione della fondazione della 3a Internazionale, nel corso del discorso
conclusivo dei lavori, afferma: “La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è
assicurata. Si approssima la fondazione della Repubblica sovietica internazionale”. E poche
settimane dopo scrive a Zinov’ev: “Si può affermare con certezza che entro un anno avremo già
cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché fra un anno
l’Europa intera sarà comunista”.
Tempo dopo, partendo dalla premessa che alcune caratteristiche della rivoluzione russa si sarebbero
probabilmente riprodotte su scala internazionale, ritiene “inconcepibile che la repubblica dei soviet
continui ad essere per un lungo periodo fianco a fianco con Stati imperialistici. Alla fine gli uni o
gli altri debbono vincere” e pensa che è più facile costruire il socialismo nei Paesi sviluppati
essendo qui il livello culturale più diffuso e la base tecnologica più avanzata di quella della Russia.
Certo dell’inevitabile progressione del processo rivoluzionario, promette: “Quando trionferemo su
scala mondiale, utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle più
grandi città del mondo”. E considera la stessa costituzione della Repubblica Sovietica Federalista
Socialista Russa come un provvedimento che deve servire per il solo periodo di transizione, nella
prospettiva di una successiva federazione mondiale di repubbliche socialiste.
Si tratta evidentemente di convincimenti e affermazioni che se da un lato esprimono una
comprensibile impazienza di consolidare il potere acquisito in Russia attraverso l’estensione
territoriale del processo rivoluzionario, dall’altro, date le circostanze, appaiono il frutto di
un’inevitabile retorica. In realtà, Lenin e l’intero gruppo dirigente bolscevico hanno al tempo stesso
profonda coscienza della parzialità della propria opera, dei suoi limiti oggettivi e delle difficoltà che
essa incontra. Sono cioè consapevoli che, escludendo la possibilità di una vittoria simultanea del
socialismo nei vari Paesi, dato che lo sviluppo del capitalismo non è omogeneo, il suo isolamento
può prolungarsi nel tempo. “La rivoluzione socialista mondiale nei paesi progrediti non può
incominciare con la stessa facilità con cui è incominciata in Russia, paese di Nicola e Rasputin”,
commenta. E poi ammonisce: “Cominciare senza preparazione la rivoluzione in un paese dove il
capitalismo si è sviluppato, ha dato una cultura e il senso dell’organizzazione democratica a tutti
gli uomini, sino all’ultimo, sarebbe un errore, un’assurdità”. “E per la Russia sarà più difficile che
per i paesi europei continuarla e condurla a termine”. “La nostra repubblica democratica non ha
altre riserve oltre il proletariato socialista d’Occidente”.
Già nel ’18, al 7° congresso del Pcus egli aveva affermato: “Non vi è il minimo dubbio che la
vittoria definitiva della nostra rivoluzione, se essa dovesse rimanere, se non ci fosse un movimento
rivoluzionario negli altri Paesi, sarebbe una causa disperata... La nostra salvezza da tutte queste
difficoltà, lo ripeto, sta in una rivoluzione europea”.
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Con l’inizio degli anni ’20 comprende che la Russia bolscevica dovrà per davvero reggersi sulle
proprie gambe. Allorquando non si realizza la rivoluzione proletaria in Germania, infatti, la
prospettiva dell’isolamento diventa una certezza e a quel punto egli si convince della necessità di
sopravvivere anche in assenza della rivoluzione in Occidente.
Di fronte a questo “scherzo della storia” egli tenta una spiegazione e diagnostica che gli elevati
profitti dei capitalisti rendono possibile la corruzione di singoli strati di operai, attirati dalla parte
della borghesia di una data branca industriale o di una nazione contro tutte le altre. “I capitalisti dei
Paesi più progrediti corrompono quest’aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti
e mascherati. E questo strato di operai imborghesiti, di ‘aristocrazia operaia’, completamente
piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita,
costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia... Se non si comprendono le
radici economiche del fenomeno, se non se ne valuta l’importanza politica e sociale, non è possibile
fare nemmeno un passo verso la soluzione dei problemi pratici del movimento comunista e della
futura rivoluzione sociale”.
E sì che per Lenin non è facile comprendere appieno il riformismo dato che nella Russia del suo
tempo è un fenomeno sconosciuto! Egli, difatti, proprio per questa ragione, ha compreso in ritardo
la natura del riformismo quale tenace rivale della rivoluzione nei Paesi dell’Europa occidentale
dove l’azione illegale, quella che gli operai russi considerano forma naturale di lotta, suscita forti
pregiudizi. Testimonianza eloquente di questa diversità di valutazione sono le reazioni che ha
suscitato lo scioglimento dell’Assemblea costituente: mentre tra gli operi russi questo
provvedimento ha trovato una quasi unanime approvazione, tra gli operai dei Paesi occidentali ha
provocato molte perplessità e persino indignazione.
A seguito della mancata rivoluzione in Europa, Lenin dà perciò corso alla strategia del “socialismo
in un solo Paese” e trasforma questa idea in una grande mobilitazione di massa. “Basta dire, come
dicono i comunisti di sinistra tedeschi e inglesi, che noi ammettiamo soltanto una via, quella
diretta, che non tolleriamo alcun destreggiamento, accordo, compromesso; questo è già un errore
capace di recare, e che in parte ha già recato e reca, un danno gravissimo al comunismo”. “Il
nostro dovere di comunisti è ... di imparare ad adeguare la nostra tattica a qualsiasi mutamento
che non sia determinato dalla nostra classe o dai nostri sforzi”. Occorre “ricercare, studiare,
discernere, indovinare, cogliere ciò che vi è di particolarmente nazionale, di specificamente
nazionale nei modi concreti in cui ciascun paese si avvia a risolvere il problema internazionale
unico per tutti”.
Anche la funzione della “Nuova internazionale rivoluzionaria”, cioè la “Terza” o “Internazionale
comunista” (Comintern), istituita nel ’19, all’indomani della mancata rivoluzione in Occidente,
subisce un cambiamento. Come Lenin stesso spiega: “La 1a Internazionale pose le fondamenta per
la lotta proletaria internazionale per il socialismo. La 2a Internazionale è stata l’epoca della
preparazione del terreno per una larga diffusione di massa del movimento in un buon numero di
Paesi. La 3a Internazionale coglie i frutti dell’attività della 2a, ne toglie via il sudiciume
opportunistico, socialsciovinistico borghese e piccolo-borghese e incomincia ad attuare la dittatura
del proletariato”.
Questa nuova istituzione trova giustificazione proprio nella presunta imminente decomposizione
dell’intero sistema capitalistico mondiale, nel principio che la dittatura del proletariato deve essere
la leva per l’espropriazione immediata del capitale e per l’abolizione della proprietà privata dei
mezzi di produzione e nella necessità di adottare il metodo fondamentale della lotta di massa, ivi
compresa la lotta aperta a mano armata contro il potere dello Stato del capitale. Il Comintern nasce
appunto come espressione organizzativa di un progetto rivoluzionario ritenuto realizzabile nei tempi
brevi e trova legittimazione storica nel proposito di preservare il patrimonio del marxismo dalla
degenerazione e dalla corruzione cui è andato soggetto nell’epoca della 2a Internazione.
Mentre la rivoluzione borghese è, secondo Lenin, per sua natura nazionale, quella socialista è
internazionale. La classe operaia è dunque chiamata a rompere i limiti della sua subalternità alla
borghesia proprio sul fronte di un impegno che oltrepassa i confini nazionali. Di fatto, il Comintern
132
rappresenta il primo grande esperimento di interpretazione collettiva dei fenomeni del mondo. I suoi
membri sono soldati di un unico esercito internazionale che conduce, pur con una grande
multiformità e flessibilità tattica, un’unica grandiosa strategia di rivoluzione mondiale. Esso è il
partito mondiale, inteso come proiezione su scala internazionale della concezione bolscevica del
partito.
Lenin considera il sistema dei partiti comunisti come “un movimento variegato e in continuo
sviluppo” che tiene conto della “particolarità e della specificità nazionale in questo o quel paese” e
come “alleanza tra partiti diversi e partito mondiale unitario”. A suo giudizio, le condizioni
concrete e storiche e anche le particolarità e le tradizioni nazionali dei partiti membri dell’IC,
debbono essere sempre rispettate.
Una delle correnti attive della nascente 3a Internazionale è costituita dal “comunismo di sinistra”
quale formazione intermedia tra bolscevismo e spartachismo da una parte e sindacalismo
rivoluzionario dall’altra. I suoi tre maggiori pensatori sono Anton Pannekoek, Hermann Gorter e
Gyorgy Lukacs.
Mentre per i bolscevichi, gli spartachisti e altri ancora la partecipazione alle elezioni è la regola e il
loro boicottaggio rappresenta l’eccezione, per i comunisti di sinistra vale l’opposto. Essi sono per
sindacati nuovi, rivoluzionari e per l’abbandono delle vecchie organizzazioni. Essi rinviano la
conquista del potere al momento in cui è possibile ottenere dalle masse il pieno appoggio in nome
dei principi rivoluzionari. Di fatto, la politica proposta e seguita dai comunisti di sinistra ha una
scarsa influenza sugli indirizzi del Comintern e il loro peso è ininfluente. Il conflitto che li oppone
al bolscevismo si chiude sostanzialmente con le discussioni che insorgono al 2° congresso dell’IC.
All’inizio degli anni ‘20, infatti, Pannekoek, Gorter, i dirigenti e l’intera organizzazione della Kapd
e anche molti altri comunisti di sinistra, si separarono dalla 3a Internazionale per propria iniziativa,
proprio a causa di queste divergenze; non certo per deliberazione di Lenin come qualcuno ha
insinuato.
Sta di fatto che per tutta la prima fase della sua esistenza, il Comintern non rappresenta affatto
quello stato maggiore della rivoluzione mondiale che aspirava a diventare.
Mentre fino al ’19 lo Stato sovietico si pone in posizione subalterna alle esigenze del movimento
internazionale, negli anni successivi, e soprattutto nel ’23, venendo meno la prospettiva
rivoluzionaria in Occidente e affermandosi la teoria del socialismo in un paese solo, il suo ruolo
cambia.
Nel ’20 viene decretato che “l’I.C. deve realmente e nei fatti rappresentare un partito comunista
unitario di tutto il mondo. I partiti che operano in ciascun paese non sono che singole sezioni di
essa”. Il baricentro della strategia rivoluzionaria però incomincia a oscillare. Quando al 2°
congresso viene affrontato il problema delle colonie e del movimento antimperialista, nessuno dei
partecipanti giunge a supporre che la rivoluzione possa trionfare nei Paesi coloniali prima ancora
che in quelli capitalisticamente sviluppati dell’Occidente. Eppure, nel “Primo abbozzo di tesi sulle
questioni nazionale e coloniale”, Lenin scrive: “Senza la volontà del proletariato e, in seguito, di
tutte le masse lavoratrici di tutti i paesi e di tutte le nazioni del mondo, di giungere all’unione e
all’unità, la causa della vittoria sul capitalismo non potrà essere condotta a buon fine”.
“L’Internazionale comunista deve fissare e motivare teoricamente le tesi che i paesi arretrati, con
l’aiuto del proletariato dei paesi più progrediti, possono passare al regime sovietico e attraverso
determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo scavalcando la fase capitalistica”.
E’ il tempo in cui il Comintern appoggia i “fronti antimperialistici” dell’Oriente con più vigore che
nel passato, nonostante che essi perseguano l’unità nazionale attraverso l’appoggio del
panislamismo. Convincimento diffuso è che con il procedere della lotta di classe questo aspetto
religioso dei movimenti di liberazione nazionale tenda gradualmente a scomparire per conto suo.
Successivamente viene auspicato che il partito internazionale sia non più lo strumento
organizzativo, politico e ideologico della rivoluzione mondiale, ma piuttosto il mezzo per non
lasciar squagliare, per amministrare e per disciplinare il movimento comunista nell’attesa che la
rivoluzione mondiale maturi.
133
Con il 3° congresso prendono vita le organizzazioni parallele: l’Internazionale sindacale, il
Soccorso operaio internazionale, il Segretariato femminile internazionale. Prima ancora che si
compia la bolscevizzazione dei singoli partiti, il processo di burocratizzazione degli organi dirigenti
dell’IC può dirsi già in stato di avanzamento.
Con la definitiva sconfitta dei comunisti in Germania che sancisce l’impraticabilità della
rivoluzione in Occidente, l’IC viene trasformata in strumento di garanzia della stessa
sopravvivenza della rivoluzione russa.
Il 4° congresso, infatti, adotta una politica estera che punta non più sulla rivoluzione mondiale, ma
si adegua alla politica estera della Russia sovietica. Del resto, già dalla primavera del ‘21 le linea è
quella di puntare al consolidamento delle conquiste ottenute piuttosto che proporsi l’avanzata.
Nella situazione in cui vengono a trovarsi, i bolscevichi sono costretti a portare avanti una duplice e
contraddittoria politica estera: da un lato tentare di affrettare la caduta dei governi capitalistici,
dall’altro negoziare con loro, anche se considerano il capitalismo anglo-americano “quasi
altrettanto odioso quanto il militarismo tedesco”. L’idea però di servirsi di un gruppo di potenze
nemiche per contrapporle ad altre si rivelerà estremamente difficile da praticare.
Il Cominter si adegua dunque al nuovo scenario sia politicamente che organizzativamente.
I suoi membri vengono eletti non più dai partiti nazionali, ma dal congresso stesso e, nonostante gli
ammonimenti e l’avversione di Lenin, viene riprodotta in esso l’organizzazione del partito russo.
Resta il fatto, che i partiti del Comintern non riusciranno mai a conquistare la maggioranza della
classe operaia e la loro strategia insurrezionalista o andrà incontro alla sconfitta militare o non
raggiungerà mai la fase di una sua concreta applicazione. La storia ci insegna appunto che in nessun
Paese le sezioni del Comintern, come d’altronde quelle della 2° Internazionale, hanno mai portato a
termine una rivoluzione socialista.
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Capitolo 5°
La mancata rivoluzione in Occidente e l’avvento del fascismo
5.1 – Riserve, dissensi e rotture sulla rivoluzione d’ottobre
Come si è visto, la rivoluzione d’ottobre viene vissuta dai bolscevichi, nel momento in cui ha
compimento, non come avvenimento fine a sé stesso, ma come inizio di un processo generale
destinato a modificare il mondo contemporaneo. Già negli anni precedenti l’assalto al Palazzo
d’inverno, Lenin aveva sostenuto che le conquiste di una rivoluzione in Russia avrebbero potuto
essere consolidate solo alla condizione che si realizzasse la rivoluzione in Occidente. Allorquando
la presa del potere nel Paese degli zar è cosa fatta, l’interazione con il processo rivoluzionario
presente in diversi Stati d’Europa rappresenta per lui la forza protettiva che compensa l’immaturità
delle condizioni sociali ed economiche che caratterizzano la neonata repubblica dei soviet. “Le
fiamme della rivoluzione incendieranno l’Europa – vaticina - e lo slancio rivoluzionario si
ripercuoterà sulla Russia e trasformerà un periodo di alcuni anni rivoluzionari in un’epoca di
alcuni decenni rivoluzionari”. E poi ammonisce che la sconfitta del proletariato russo “sarebbe
inevitabile, come quella del partito rivoluzionario tedesco nel 1849-1850 o quella del proletariato
francese nel 1871, se non gli venisse in aiuto il proletariato socialista europeo”.
Purtroppo, l’“incendio” in Occidente, anziché estendersi, viene prontamente spento e l’auspicato
aiuto alla giovane repubblica sovietica viene a mancare. E questo fa sì che i dubbi e le polemiche
sull’opportunità della rivoluzione d’ottobre che già prima dell’evento si erano manifestati, ora si
moltiplichino non solo nella stessa Russia, ma anche nel movimento operaio internazionale.
I menscevichi, già anzitempo, avevano sostenuto la tesi secondo cui “qualsiasi tentativo di una
trasformazione socialista in Russia, prima dell’inizio della rivoluzione socialista in Occidente, è
condannato in partenza all’insuccesso”. Dopo l’ottobre negano il carattere socialista della
rivoluzione e non sono disponibili a tollerare la cancellazione dei più elementari diritti politici. Il
loro leader di sinistra Martov si ribella ai bolscevichi e contesta la loro dittatura definendola
“cesariana e bonapartista”.
Anche i socialisti rivoluzionari di sinistra, che in quanto partito non hanno partecipato
all’insurrezione armata, definiscono l’aspirazione del governo sovietico di attuare il socialismo “il
sogno esaltato di illusi e di utopisti”. E concentrano i loro attacchi contro i soviet egemonizzati dai
bolscevichi negando la democrazia sovietica e contrapponendo alla dittatura proletaria la “dittatura
della democrazia”.
Ma ad avversare l’operato di Lenin è anche uno dei suoi maestri: Gerogij V. Plechanov, fondatore
del marxismo russo. Nonostante che già nel 1889 egli avesse sostenuto che “la rivoluzione russa o
trionferà come rivoluzione proletaria o non trionferà affatto”, qualche tempo prima dell’ottobre
considera pazzesca l’idea della possibilità di una dittatura proletaria nel Paese degli zar. E’ un punto
di vista, il suo, che in quel momento è condiviso non solo dai menscevichi, ma dalla stragrande
maggioranza degli stessi dirigenti bolscevichi. E sostiene che la rivoluzione avrebbe potuto portare
nel migliore dei casi a “un impero cinese colorato di rosso”.
Quando Lenin prende il potere, Plechanov giudica il suo atto frutto di un giacobinismo populista e
mette in guardia da un “comunismo patriarcale autoritario”, temendo che la rivoluzione venga
diretta da una “casta socialista”. A suo dire, il socialismo in un paese arretrato si sarebbe concluso
nel “più vergognoso fallimento”.
“Lenin - sostiene Plechanov - non ha capito né Kautsky, né Engels, né Marx, cioè non ha capito il
socialismo scientifico per quel che riguarda questo problema (il rapporto tra situazione oggettiva e
intervento soggettivo). E questa sua incomprensione si è trasformata per lui nell’incapacità del
proletariato di uscire dai limiti del ‘tradunionismo’…
Il problema controverso è se esiste una necessità economica che susciti nel proletariato la
‘esigenza di socialismo’, lo renda ‘socialista istintivo’ e lo spinga – anche quando sia abbandonato
alle ‘proprie forze’ – sulla via della rivoluzione socialista, nonostante gli sforzi ostinati e
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ininterrotti che la borghesia fa per sottometterlo alla propria influenza ideologica”.
Anche alcuni stessi membri del comitato centrale del Pcus che già avevano respinto l’appello di
Lenin all’insurrezione, sostengono la tesi secondo cui, nelle circostanze esistenti, lo sviluppo della
rivoluzione socialista è impossibile. Tra questi vi sono Zinov’ev e Kamenev i quali, dopo aver
assunto una posizione contraria all’insurrezione armata, sostengono che tutte le questioni insorte
con la presa del potere devono essere risolte dall’Assemblea costituente. Essi nutrono seri dubbi
sulla realizzazione di una rivoluzione socialista in quella fase e in quelle condizioni e ritengono
necessario attendere che la rivoluzione si estenda all’Occidente, mentre considerano l’insurrezione
in Russia come un detonatore. La loro opposizione alla strategia di Lenin viene assunta dai socialisti
rivoluzionari come un’ancora di salvezza.
Perfino nelle posizioni di Trotzkij, cioè di colui che ha diretto l’attacco al Palazzo d’inverno e ha
consegnato Pietroburgo nelle mani dei soviet, sono rintracciabili perplessità e riserve circa le sorti
della rivoluzione d’ottobre. Se ai primi del ‘900 sosteneva che “in un paese economicamente più
arretrato il proletariato può giungere al potere prima che in un paese di capitalismo avanzato”, nel
’14 era convinto che la rivoluzione russa fosse destinata a svolgere un ruolo di avanguardia e di
miccia della rivoluzione europea; in questa ottica considerava un eventuale suo successo isolato
come un “aborto storico”, nonostante fosse convinto che “l’epoca nella quale stiamo ora entrando
sarà la nostra epoca, cioè l’epoca della rivoluzione proletaria”. Protagonista di primo piano e
sostenitore strenuo della dittatura del proletariato (si pensi alla sua teoria della “rivoluzione
permanente”!) Trotzkij ebbe poi a sostenere che senza la rivoluzione mondiale l’Urss sarebbe stata
inesorabilmente condannata al fallimento. “Senza il diretto apporto stabile del proletariato europeo
la classe operaia russa sarà incapace di restare al potere e di trasformare il suo dominio
temporaneo in dittatura socialista durevole”. “Se i popoli di Europa non si sollevano schiacciando
l’imperialismo, noi saremo schiacciati – ciò è fuor di dubbio. O la rivoluzione russa susciterà il
turbine della lotta in Occidente, oppure i capitalisti di tutti i Paesi soffocheranno la nostra lotta”.
Del resto, come ho già ricordato, tutti i dirigenti bolscevichi, nel ’17, davano alla rivoluzione in
corso una dimensione internazionale; e nessuno in quel momento pensava alla possibilità della
costruzione del socialismo in un solo paese.
Perplessità e dissensi vennero espressi anche da esponenti del movimento comunista internazionale.
Tra i non ortodossi, solamente il nostro Gramsci e Gyorgy Lukàcs esultano all’indomani della presa
del potere in Russia. Su “Il grido del popolo” del gennaio ’18, il fondatore del Pcd’I giudica
possibile la rivoluzione in un Paese arretrato e ribadisce tale giudizio nelle tesi congressuali di
Lione. Qualcuno ha sostenuto che questa sua presa di posizione è l’espressione di una cultura
originariamente estranea al marxismo, impregnata cioè di soggettivismo idealistico e di irrazionalità
bergsoniana degli inizi secolo.
Sta di fatto che, in quel momento, Gramsci esalta l’azione di Lenin e dei bolscevichi e la giudica
come una smentita dell’interpretazione deterministica del pensiero di Marx considerandola come
uno sviluppo della sua stessa teoria. Parimenti, egli non esita ad approvare lo scioglimento
dell’Assemblea costituente ritenendolo “un episodio di libertà nonostante le forme esteriori che
fatalmente ha dovuto assumere”.
Diversamente da Gramsci, Karl Kautsky e Rosa Luxemburg considerano la rivoluzione d’ottobre
contraria alle tesi di Marx e si scagliano contro il centralismo e l’autoritarismo bolscevico.
Kautsky, teorico della 2a Internazionale, definisce l’Urss un “dispotismo che gronda immondizia” e
parla di “schiavismo di Stato”. Rifiuta la dittatura del proletariato perché ritiene che il socialismo
deve equivalere a democrazia e al ricorso alla violenza predilige la via pacifica e istituzionale. Egli
ammette la necessità della conquista del potere, ma non quella della distruzione della macchina
statale borghese e della sua sostituzione con un’altra di tipo nuovo. Esprime la sua contrarietà a un
potere proletario esercitato in condizioni di immaturità della rivoluzione socialista e accusa i
bolscevichi di aver liquidato qualsiasi forma di democrazia (l’Assemblea costituente, gli stessi
partiti socialisti non bolscevichi) e di nascondere dietro ai soviet la dittatura del partito.
136
Lenin risponde a Kautsky definendolo “rinnegato”, poiché confonderebbe la democrazia con la
democrazia borghese. Nel socialismo – argomenta poi – non esiste spazio per gli sfruttatori che
devono essere esclusi dalla democrazia. La dittatura del proletariato è “un potere conquistato e
sostenuto dalla violenza contro la borghesia e non è vincolato da alcuna legge”. Essa “è un milione
di volte più democratica di ogni democrazia borghese” perché in essa le masse godono di tutte le
libertà.
Rosa Luxemburg, mentre esalta la rivoluzione russa, sostiene che questa, pur avendo posto il
problema pratico della realizzazione del socialismo, non può risolverlo perché ciò è possibile solo
su scala internazionale. “Lenin, Trotskij e i loro amici che sono stati gli unici che possono gridare
con Hutten: ‘Io ho osato!’, non devono pretendere di compiere miracoli. Perché una rivoluzione
proletaria, esemplare e perfetta, in un paese isolato, spossato dalla guerra mondiale, strozzato
dall’imperialismo, tradito dal proletariato internazionale, sarebbe un miracolo”.
Quando Lenin decide di sciogliere l’Assemblea costituente, lei rimprovera i bolscevichi di aver
soppresso le libertà politiche e civili, li accusa di distorcere la dittatura del proletariato e di
ripercorrere la via del “dominio giacobino” eliminando la democrazia rappresentativa.
“La libertà è sempre libertà per coloro che pensano diversamente”, “l’essenza della dittatura del
proletariato consiste nel modo di realizzazione della democrazia, non nella sua abolizione”.
Luxemburg intende infatti per democrazia socialista la trasformazione economica della società per
opera delle masse. Pertanto definisce la politica di Lenin “ultracentrista”, “burocratica”, “non
democratica” e la sua riforma agraria di stampo “piccolo borghese” poiché concede la terra ai
contadini. Al tempo stesso, però, invita il nuovo regime a “soffocare sul nascere con pugno di ferro
ogni tendenza separatistica”.
Altro critico della rivoluzione d’ottobre è l’olandese Anton Pannekoek il quale,dopo averla
entusiasticamente considerata, classifica il sistema sovietico “dominio della burocrazia operaia”. E
poi l’austromarxista Otto Bauer che pur essendo un suo estimatore e difensore, la ritiene un’azione
al di sopra dei mezzi del partito bolscevico.
A predire il fallimento della rivoluzione bolscevica, già all’inizio degli anni ’20, sono invece
Ludwing von Mises e Max Weber. Essi giungono a una conclusione del genere in forza dell’idea
già espressa da Proudhon secondo cui l’abolizione del mercato non può che significare l’abolizione
della ratio economica, perciò della stessa organizzazione economico-politica imposta da Lenin.
Più tardi nel tempo, a giudicare anomale sia la rivoluzione d’ottobre che l’esistenza dell’Urss, e a
sostenere che un tale esperimento sarebbe stato inevitabilmente destinato al fallimento, sarà Herbert
Marcuse.
Sta di fatto che nonostante fosse prevalente nel movimento operaio il convincimento che il
cedimento del capitalismo sarebbe cominciato nei Paesi industrializzati più antichi e progrediti
dell’Occidente e non nei Paesi semi-industrializzati come la Russia, la rivoluzione bolscevica viene
accolta dalla componente di sinistra del movimento internazionale come una svolta epocale. E
mentre ravviva ed estende la convinzione che una società comunista può essere per davvero
costruita, produce una potentissima ondata di lotte mai conosciuta prima d’allora.
5.2 – La frantumazione del movimento e l’isolamento dell’Urss
Se già nel 1905, in occasione della rivoluzione russa, in Olanda si era registrata la prima scissione
della socialdemocrazia occidentale dalla quale aveva preso vita un’ala sinistra del partito
socialdemocratico; e se ai tempi dello scoppio della prima guerra mondiale il movimento socialista
si era scisso tra favorevoli e contrari ai crediti di guerra, cioè tra sciovinisti-interventisti e
internazionalisti-pacifisti, con l’avvento della prima rivoluzione proletaria esso vive la sua più
grande scissione storica i cui effetti si protrarranno sino ai giorni nostri.
Nel ’19 i comunisti costituiscono la Terza internazionale(Comintern), nel ’21 i socialdemocratici
austriaci fondano l’Internazionale “due e mezzo”, mentre nel ’23 socialdemocratici e socialisti
137
fanno loro propria la Seconda Internazionale la quale viene denominata Internazionale Operaia
Socialista. L’aspetto dominante è appunto un processo di frantumazione. In Germania si formano
quattro partiti che si richiamano al movimento operaio: la Spd, l’Uspd, il Kpd e il Kapd; in Gran
Bretagna addirittura sette: l’Indipendent Labour Party, il British Socialist Party, il Workers’
Committee Movement, il Socialist Labour Party, la Socialist Woekers’ Federation e poi il British
Communist Party e la South Wales Socialist Society; negli Usa cinque: l’Industrial Woerkers of the
World, il Socialist Party, il Socialist Labor Party, il Communist Labor Party, il Communist Party of
America. Il processo di disgregazione segna dunque la generalità dei movimenti dell’Occidente.
Ai tempi della rivoluzione d’ottobre, nelle aree europee della modernizzazione economica, il
proletariato è molto sviluppato, ma non vanta un orientamento rivoluzionario e anziché identificarsi
con il comunismo, aderisce in maggioranza ai partiti riformisti.
Nei Paesi in cui il capitalismo ha avuto sviluppo ed è divenuto potente, esso costruisce attorno a sé
una vasta rete di interessi che copre anche una notevole parte delle classi lavoratrici dell’industria,
in maniera tale da renderle sorde ai richiami rivoluzionari. E’ solo nelle aree dove esso si è appena
sviluppato, com’è il caso appunto della Russia, che si dimostra debole ed esposto all’assalto dei
rivoluzionari.
Nel ‘17, gli operai russi non hanno nulla da perdere, se non le loro catene; al contrario, la
maggioranza degli operai dell’Europa occidentale vanta un tenore di vita che, per quanto misero
possa essere, vale pur sempre la pena di essere difeso.
Lenin insiste nel dire che la parte “corrotta” della classe operaia è e può essere solo una minoranza,
anche se raggiunge il 20% del proletariato, come avviene per le organizzazioni operaie in
Inghilterra alla fine del 19° secolo o in Germania nel 1914. Karl Radek, invece, allorché analizza le
ragioni della mancata rivoluzione in Germania, sostiene che “lo strato degli operai ben pagati,
convinti della stabilità della loro posizione, è molto più cospicuo in Germania, in Inghilterra,
nell’America del nord, di quanto sia mai stato in Russia... una parte notevole della classe operaia
si trova ancora in una buona situazione materiale... (perciò) nessun disordine!”.
Le categorie di lavoratori passate economicamente dalla parte della borghesia sarebbero limitate
secondo Lenin ai funzionari e ai politici dei movimenti operai riformisti; in effetti, l’influenza che
questi hanno sul movimento operaio è estremamente vasta e questo è un aspetto che non costituisce
motivo di severa considerazione da parte del capo dei bolscevichi.
Il modello che i socialdemocratici propongono interpreta l’uguaglianza come un valore intrecciato
alla libertà, come un processo graduale che si realizza con la crescita economica e con la conquista
democratica dello Stato. La socialdemocrazia punta sul mercato e assegna il compito di correggere
le disuguaglianze all’istituzione statale.
Come sta scritto nei documenti della 2° Internazionale, lo Stato è uno strumento del dominio di
classe, ma il suo carattere di classe deriva unicamente dal suo apparato governativo e legislativo. Se
questo viene conquistato dal movimento, l’intero apparato statale cade senza difficoltà nelle mani
della classe operaia. La via principale che conduce al potere è dunque la lotta per il suffragio
universale e per un governo elettivo. Una volta raggiunti questi obiettivi, o immediatamente dopo, il
proletariato può pacificamente mandare al potere il partito operaio attraverso le elezioni.
I partiti socialisti e i movimenti sindacali europei, pur proclamando l’abolizione del capitalismo,
non hanno una politica economica alternativa e si adattano prontamente al capitalismo riformatore.
La stessa sinistra socialdemocratica concentra i suoi sforzi nel semplice miglioramento delle
condizioni sociali e materiali delle classi lavoratrici.
Non sapendo e non intendendo elaborare programmaticamente la connessione tra condizioni
oggettive e condizioni soggettive della rivoluzione, e limitandosi a distinguere un programma
minimo, buono per le situazioni non rivoluzionarie, da un programma massimo che, comunque,
esclude il ricorso all’insurrezione, la socialdemocrazia, anche quando accede al potere, non
modifica né intacca il sistema esistente. La separazione dei due programmi comporta anzi una
scissione tra teoria e azione, tra obiettivi e organizzazione, tra tattica e strategia.
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Come osserva giustamente Sarte, “il marxismo – invece – è fondamentalmente una pratica, la cui
origine è la lotta di classe. Negare questa lotta, non rimane niente”.
In sostanza, si può affermare che la Internazionale operaia socialista (Ios) nasce come strumento di
semplice coordinamento della lotta per la difesa delle condizioni materiali di esistenza della classe
operaia e per la sua emancipazione, compatibilmente con l’egemonia del capitale. La sua struttura è
di tipo federativo dato che nei suoi fondatori è viva in termini ossessivi la preoccupazione di
salvaguardare a tutti i costi l’autonomia e l’unità dei singoli partiti.
Negli anni dopo la prima guerra mondiale, come vedremo, la socialdemocrazia assume
responsabilità di governo sia in Germania che in Austria.
Nel ‘21, a Vienna, per iniziativa dei socialdemocratici austriaci, viene creata la Comunità
internazionale proletaria dei partiti socialisti, nota anche come “Ufficio di Vienna” e ironicamente
denominata dai suoi avversari “Internazionale due e mezzo”. Essa intende distinguersi sia dal
riformismo che dal comunismo, proponendosi l’obiettivo della riunificazione del movimento
operaio. Diretta da Friedrich Adler, vanta tra i suoi fondatori Karl Renner, Otto Bauer, Max Adler,
Gustav Eckstein, Rudolf Hilferding e anche il fondatore dell’ortodossia marxista, Karl Kautsky.
Alcuni di loro (Kautsky, Hilferding e Eckstein) in un secondo tempo opereranno in Germania. Essa
ha un’esistenza di soli due anni e poi confluisce nella Ios.
La socialdemocrazia austriaca rappresenta un vivaio di intellettuali marxisti che già a partire dal ‘14
si misura con gli scottanti problemi posti alla socialdemocrazia europea dalla teoria di Lenin e
assume una precisa fisionomia politica diventando nota come “austromarxismo”. Il programma
originale di questo movimento era stato steso a Hainfeld già nel 1888-89 ed è stato modificato nel
1901 in occasione del congresso del partito che si è svolto a Vienna. Esso viene aggiornato nel ’26
al congresso di Linz e la sua tesi più famosa è quella dell’”uso difensivo della violenza”.
Aspetti essenziali della “Internazionale due e mezzo” sono: 1) l’appartenenza organica al “centro”
dello schieramento internazionale; 2) la particolare posizione nei confronti dell’Unione Sovietica e
del comunismo russo che la rivela assai vicina alla posizione degli internazionalisti menscevichi
J.Martov e Fedor Dan. Negli ambienti della borghesia mitteleuropea, infatti, si parla di
austromarxismo come di una pericolosa tendenza intermedia tra la socialdemocrazia tedesca e il
bolscevismo.
Una delle caratteristiche di questo movimento è la spiccata tendenza alla tolleranza nei confronti di
opinioni diverse e di correnti opposte all’interno del movimento. Il “pluralismo” che lo caratterizza
è una diretta conseguenza dell’”unità organizzativa a ogni costo”.
Bauer sostiene che nessuna delle due ali rivali del movimento operaio deve essere “scomunicata”,
né il riformismo né il bolscevismo. Vagheggia l’idea di una possibile “coesistenza” fra la
socialdemocrazia occidentale e il comunismo sovietico orientale.
Già alla fine della guerra viene elaborata la tesi sul “socialismo integrale” che più tardi Bauer
considera come necessità al fine di non “lacerare la continuità di sviluppo del pensiero socialista”.
Egli difatti sostiene che “la scissione della classe operaia a partire dal 1917 ha avuto questa
conseguenza: che la democrazia e la dittatura del proletariato furono contrapposte
reciprocamente. Oggi dobbiamo superare dialetticamente tale contrapposizione”.
L’ala destra del movimento, raccolta attorno a Karl Renner, rifiuta la tesi degli inconciliabili
contrasti di classe, mentre la sua ala sinistra, raccolta attorno a Max Adler, afferma e ribadisce
l’irrinunciabilità del concetto marxiano di “dittatura del proletariato”, anche se precisa che la
sostituzione della dittatura borghese con la dittatura proletaria non deve necessariamente aver luogo
nella forma della dittatura aperta del bolscevismo, ma può svolgersi anche nelle forme della
democrazia politica. Con questa interpretazione lo “Stato di classe” assume una “funzione sociale”
e l’obiettivo essenziale del movimento consiste nel far sì che, in seguito al suffragio universale, il
partito conquisti il potere statale superando il 51% dei voti.
I dirigenti della socialdemocrazia austriaca si mantengono comunque immuni da tutta una serie di
illusioni riformistiche diffuse in altri Paesi. La loro forza sta nell’analisi, nella comprensione storica
e dialettica dei fenomeni e dei processi, cioè nell’interpretazione del mondo. La loro debolezza
139
consiste invece nel fatto che, trascurando un postulato fondamentale del marxismo, ossia l’esigenza
di tradurre l’interpretazione in azione, vengono meno all’istanza formulata da Marx nell’undicesima
tesi su Feuerbach e cioè “ora si tratta di trasformare il mondo”.
L’austromarxismo costruisce una fitta rete di iniziative culturali, sportive, scolastiche e pedagogiche
il cui scopo è quello di allargare l’orizzonte dei suoi membri, di immunizzarli contro le influenze
intellettuali della società borghese e quindi di formare “uomini nuovi”. A questo proposito sviluppa
la tesi secondo cui l’educazione al socialismo non può aspettare la presa del potere, ma al contrario,
deve diventare un’arma affilata, un elemento integrante e rivoluzionario della lotta di classe politica
e sindacale.
Gli austromarxisti sono particolarmente forti a Vienna, tanto che, con la costituzione della
repubblica, assumono responsabilità di governo e il loro leader Friedrich Adler viene eletto alla
presidenza del comitato esecutivo dei consigli.
La Terza Internazionale nasce invece con lo scopo di salvaguardare il marxismo dalle degenerazioni
della socialdemocrazia e sulla base della previsione del crollo imminente del capitalismo. I
comunisti sono convinti che nell’epoca dell’imperialismo, il capitalismo sia entrato nella fase della
sua crisi generale e pertanto ritengono che compito del proletariato sia quello di preparare
l’alternativa così come si è fatto in Russia. Convinzione unanime negli ambienti dell’Ic è che
quanto è avvenuto nel Paese degli zar non sia altro che l’avvio della rivoluzione mondiale. Del
resto, alla prima guerra mondiale avevano fatto seguito tentativi rivoluzionari in Germania e in
alcune realtà dell’Europa orientale. Le drammatiche condizioni sociali causate dal conflitto avevano
infatti alimentato nelle classi subalterne dei paesi dell’Occidente la spinta a un sovvertimento del
sistema sociale. E con il crollo degli imperi tedesco e austro-ungarico, socialisti e liberali di ogni
tendenza si erano impegnati in una lotta per imporre nuovi regimi.
D’altra parte, in una situazione di grandi tensioni sociali, la rivoluzione russa è destinata ad
accrescere le aspettative di cambiamento e perciò provoca un’estensione delle lotte. Ciò che hanno
saputo fare i bolscevichi diventa un esempio da imitare, si può e si deve “fare come in Russia”:
socializzare la terra e abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, diviene l’obiettivo
principale di gran parte delle agitazioni contadine e operaie.
La rivoluzione d’ottobre produce così il più formidabile movimento rivoluzionario organizzato
della storia moderna. Non a caso, dopo il ’17, tutta l’Europa diventa una polveriera pronta a
esplodere.
La Terza Internazionale viene perciò vissuta dai suoi fautori e aderenti come l’esercito
rivoluzionario mondiale; i partiti comunisti nazionali vi aderiscono come sue sezioni.
Il moto rivoluzionario inteso a instaurare la repubblica dei soviet, nel ‘19 investe la Germania
(revolutionare obleute), l’Austria (arbeiterrate), la Gran Bretagna (shop stewards committees),
l’Italia (consigli di fabbrica) e poi l’Ungheria e persino gli Stati Uniti d’America, dove il marxismo
come movimento di opposizione ha avuto scarso sviluppo a causa dell’avversione degli intellettuali
e dei lavoratori americani verso i concetti collettivisti, e dove a scendere in campo è l’International
Workes of the World.
In queste lotte e agitazioni i bolscevichi vedono una proiezione della loro esperienza e si
convincono di una imminente rivoluzione a livello internazionale.
La stessa guerra che la Polonia, sostenuta dal capitalismo occidentale (in particolare dalla Francia),
scatena contro la Russia, nel momento in cui l’Armata rossa sembra essere vincente, viene
interpretata da Lenin come un’occasione per accelerare il corso della rivoluzione in Europa
attraverso la sua sovietizzazione e anche per liquidare il trattato di Versailles.
Nel corso dei primi anni ’20, però, le prospettive della rivoluzione mondiale svaniscono. La potente
ondata rivoluzionaria che ha portato a una serie di insurrezioni e di sommovimenti con esiti alterni,
dura sino al ’23 e poi si esaurisce.
Mentre in Russia la rivoluzione si consolida a fatica, altrove il socialismo subisce una dura
sconfitta. I comunisti dell’Europa occidentale vengono relegati a forza minoritaria, quasi ovunque
140
subiscono la repressione e vengono decimati. La tanto sospirata rivoluzione in Occidente non si
realizza.
I Paesi capitalistici avanzati dell’Europa occidentale deludono le attese rivoluzionarie annunciate
dal “Manifesto”. E la previsione di Marx secondo cui la rivoluzione, una volta avviata in un
determinato paese, si sarebbe immediatamente trasformata in una rivoluzione europea, se non
mondiale, (principio radicato nella coscienza dei socialisti dell’inizio del XX secolo quale verità da
non mettere in discussione) viene smentita dalla storia.
Lo stesso Lenin non sa dare una spiegazione rigorosa e scientifica della mancata rivoluzione in
Occidente. Egli manca di compiere un esame teorico che necessariamente avrebbe comportato la
revisione delle sue analisi sul capitalismo e sulla fase storica; si limita invece a legittimare la
rivoluzione russa dichiarando possibile la realizzazione del “socialismo in un solo paese” e
indicando la strada della bolscevizzazione del movimento operaio internazionale. Secondo i
bolscevichi, tra il ‘19 e il ‘23, la rivoluzione in Occidente sarebbe andata incontro all’insuccesso a
causa dell’assenza di forze capaci di respingere le deviazioni di destra e di sinistra. Pertanto, ciò che
si rende necessaria è l’applicazione del leninismo così come si è fatto in Russia nel corso delle tre
rivoluzioni.
Anche se il 4° congresso del Comintern “ricorda ai proletari di tutti i Paesi che la rivoluzione
proletaria non può mai trionfare entro i limiti di un solo Stato”, ma “può trionfare su una scala
internazionale fondendosi in una rivoluzione mondiale”, Zinov’ev ammonisce che “la
caratteristica dell’epoca in cui viviamo è che, benché la crisi del capitale mondiale non sia stata
ancora superata, benché la questione del potere sia ancora al centro di tutte le questioni, le più
larghe masse del proletariato hanno perso la fiducia nella loro capacità di conquistare il potere in
un tempo prevedibile”. Al che – conclude – “la conquista del potere come compito immediato non è
all’ordine del giorno”.
E Radek, nel confermare che la “decomposizione del capitalismo” è una certezza, precisa che il suo
compimento richiede un “lungo processo” e che la Russia sovietica è inevitabilmente costretta, nel
frattempo, “a cercare e trovare un modus vivendi con gli Stati capitalistici”. Perciò, l’obiettivo
diventa quello dell’edificazione socialista nel quadro di un temporaneo compromesso con i Paesi
capitalistici.
Di fronte alla mancata rivoluzione in Occidente, Lenin orienta l’iniziativa in tre direzioni. 1)
Favorisce il movimento antimperialistico al fine di accerchiare le roccheforti del capitalismo. 2)
Sollecita l’appoggio degli operai occidentali alla rivoluzione russa. 3) Costruisce lo Stato sovietico
in quanto Stato fra gli Stati. Individua quindi nell’Asia il teatro sul quale il capitalismo mondiale
può essere attaccato, mettendo in luce come la transizione al socialismo non sia più da prospettarsi
come una serie di rivoluzioni socialiste nei centri metropolitani, ma come una serie di rivoluzioni
socialiste nei paesi che egli considera gli “anelli più deboli della catena”, e fa adottare all’Ic la linea
del “fronte unico” che rappresenta appunto il passaggio dall’offensiva alla difensiva.
Tuttavia, nonostante il radicale mutamento del quadro internazionale e le pesanti sconfitte che il
movimento comunista subisce nei principali Paesi europei, nel ’23, l’estensione della rivoluzione
proletaria in Occidente viene considerata ancora possibile, almeno da un punto di vista teorico. E
fino alla morte di Lenin, ma anche per qualche tempo dopo, il rapporto tra rivoluzione russa e
rivoluzione in Occidente continua a rappresentare un nesso inscindibile nella cultura politica dei
bolscevichi.
Al punto in cui stanno le cose, però, essi non possono più ignorare i potenti movimenti nazionalisti
che fanno presa sulla classe operaia occidentale e che organizzano i lavoratori di Inghilterra, di
Germania, di Austria e di Francia, in particolare, i quali antepongono alla solidarietà internazionale
gli interessi dei propri rispettivi Paesi.
Si rendono cioè conto che è necessario conquistare alle posizioni della 3a Internazionale gran parte
del movimento operaio occidentale ancora legato al parlamentarismo e al tradeunionismo, e
coinvolgerlo nella lotta per la difesa della repubblica sovietica. Questa loro esigenza si rivela però
in contrasto con il programma rivoluzionario degli stessi partiti comunisti appena costituiti in
141
Occidente, i quali sono impegnati in una lotta a fondo proprio contro il parlamentarismo
socialdemocratico e il tradeunionismo riformista e sono considerati nemici attivi della rivoluzione
proletaria. Oltretutto, la massa degli operai che è organizzata nei movimenti socialdemocratici,
rifiuta di avere a che fare con il Comintern e contrasta qualsiasi tentativo da parte di questo di
formare partiti comunisti di massa.
Avviene così che lo sforzo dell’Ic di dare corpo al “fronte unico” si dimostra vano. E a impedire il
successo di una simile operazione sono proprio le rigidezze non soltanto di dottrina, ma anche di
disciplina dello stesso Comintern che non è disposto a concedere ai partiti nazionali e alle loro
leadership la libertà di decidere linea politica e tattica.
L’ammissione di un partito all’organizzazione internazionale presuppone difatti l’assoluta
accettazione del programma e delle norme del Comintern e l’espulsione dal partito di chi è in
dissenso. I partiti aderenti ad esso sono messi in condizione di garantire la propria ortodossia
escludendo in maniera rigorosa gli eretici dalle loro file. Sterilizzare il partito, ridurlo a
insignificanza numerica, è considerato un male minore rispetto al diluire la sua dottrina o
all’indebolire la sua disciplina. E’ così che nel ’25, nell’Ic subentra il monolitismo ideologico: il
primato rivoluzionario dell’ottobre, la costruzione dello Stato sovietico, la sua difesa nelle
condizioni dell’accerchiamento capitalistico, diventano la pietra angolare dell’internazionalismo
proletario.
Sulla mancata rivoluzione in Occidente, salvo Gramsci e qualche altro teorico non ortodosso, non
rifletterà più nessuno per lungo tempo. Non lo farà la sinistra europea, tanto meno lo faranno i
comunisti filo-sovietici. Eppure, il principio secondo cui la rivoluzione sarebbe scoppiata prima nei
Paesi dove le forze produttive erano maggiormente sviluppate ha continuato a essere dominante nel
movimento operaio internazionale almeno fino alla fine degli anni ’40, e cesserà di avere efficacia
solo quando Mao porterà a termine la rivoluzione cinese è dimostrerà che il ripensamento di Lenin e
del Comintern dei primi anni venti aveva un qualche fondamento.
5.3 – Il fallimento della rivoluzione in Germania
Alla fine del 1918, al termine del conflitto mondiale, le organizzazioni socialiste tradizionali
dell’Europa occidentale si trovano di fronte al dilagare di agitazioni spontanee da parte di vasti
strati del proletariato e della popolazione. Si tratta di un movimento caotico, privo di strategia, che
vanta un unico e debolissimo legame unitario consistente nella tendenza a costituire consigli degli
operai e dei soldati sulla scia di quanto è avvenuto in Russia. Le formazioni politiche della sinistra
si dimostrano chiaramente incapaci di garantire direzione e sbocco a queste agitazioni di massa.
A rappresentare una delle situazioni di più acuto conflitto, e quindi di speranza, ma insieme di
maggior complessità, è sicuramente la Germania la quale, come rivela Lenin, “ha legato mani e
piedi dal trattato di Versailles e versa in condizioni tali che non può nemmeno esistere”. In effetti, a
seguito della sconfitta militare, questo Paese si trova in una situazione socio-economica gravissima:
il suo assetto produttivo è complessivamente in crisi, la quasi totalità della popolazione si ritrova a
vivere in uno stato di miseria, la disoccupazione dilaga e la delusione per la mancata coincidenza
della pace con il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, si traduce in un profondo
malessere sociale.
Con il trattato di Versailles, siglato nel giugno del ‘19, oltre a vedersi sottratti 75.000 chilometri
quadrati di territorio con 7 milioni di abitanti e tutte le colonie, la Germania viene obbligata ad
anticipare agli Stati vincitori, in conto riparazioni di guerra, ben 20 miliardi di marchi-oro.
L’ammontare totale delle riparazioni risulterà talmente elevato che per essere precisato necessiterà
di accertamenti e di calcoli che verranno compiuti nel corso degli anni.
Nel periodo successivo al primo conflitto mondiale, il Paese viene investito da una spaventosa crisi
economica i cui effetti vengono fatti ricadere principalmente sulla classe operaia e sui ceti popolari.
La borghesia tedesca non rinuncia neppure per un solo istante ad arricchirsi sulla pelle di tutti gli
altri strati della società e attraverso la speculazione finanziaria e la fuga dei capitali all’estero
trascina l’economia in una spirale inflazionistica senza precedenti.
142
In una situazione socio-economica di tal genere il clima non può che essere esplosivo. Nonostante
che in Germania, a differenza che in Russia, non esista un movimento contadino interessato a
impadronirsi delle terre dei grandi latifondisti, e il grado di disfacimento dell’esercito non sia affatto
disastroso, sebbene abbia subito una dura sconfitta, la situazione è tale da risultare insurrezionale.
Rosa Luxemburg, che guida la “Lega di Spartaco”, ritiene che il potere pubblico, l’attività
legislativa e l’amministrazione, debbano essere affidati nelle mani dei consigli degli operai e dei
soldati. E’ questo un suo convincimento perentorio, nonostante essa nutra il timore dell’immissione
nel partito di una larga maggioranza di teste calde rivoluzionarie che possono forzare (proprio come
poi succederà) il partito stesso ad avventure per le quali non è pronto a gestire e rispetto a cui la
stessa situazione politica non appare matura. Difatti, molti di coloro che aderiscono alla formazione
spartachista sono militanti esasperati che credono nella bontà della forza e della violenza. E la
presenza di questa dualità d’intenti tra vertice e base del partito diventa appunto una delle cause
delle atrocità del potere contro le agitazioni operaie e popolari.
I consigli locali degli operai e dei soldati costituiscono vere e proprie milizie permanenti
(Volkswehren) la cui forza viene stimata tra i 100.000 e i 200.000 uomini. Ad avere la supremazia
militare sono, però, i “freikorps”, cioè quei reparti composti da soldati reduci del fronte che sono
rimasti obbedienti agli ufficiali e i quali costituiscono un serbatoio di reclutamento per combattere i
rivoltosi e difendere il governo.
I moti insurrezionali vengono prevenuti con notevole abilità dal governo e l’iniziativa di lotta degli
spartachisti del gennaio ’19 porta al massacro dei migliori rivoluzionari. Nel corso delle lotte sociali
del ’18-19 muoiono 15.000 proletari e tra loro ci sono Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.
Una delle cause della sconfitta proletaria è senz’altro l’abbandono degli spartachisti allo
spontaneismo di movimento che porta all’isolamento di qualsiasi azione di piazza.
Con la proclamazione della repubblica, nel novembre ’19, ha termine l’era del potere assoluto e al
governo del Paese accede, in compagnia dei partiti della borghesia, il partito socialdemocratico. Il
nuovo governo si rivela però dipendente dai magnati del capitale e continua a essere gestito dalla
vecchia burocrazia. La nascente Repubblica di Weimar, le cui redini del potere sono tenute proprio
dalla Spd, lascia immutato sia il vecchio apparato dello Stato sia i rapporti di produzione.
Assumendo un atteggiamento mistificatorio, mette in condizioni il movimento rivoluzionario di
procedere, in contrapposizione al governo centrale, alla costituzione dei consigli degli operai e dei
soldati al fine di dare una qualche soluzione ai bisogni delle classi proletarie.
Nelle campagne, accanto ai braccianti, esiste un forte ceto di contadini proprietari e anche una
numerosa piccola borghesia. Questi ceti fanno affari d’oro proprio in forza della crisi e a buona
ragione sostengono le forze della conservazione contro il fronte riformatore.
L’esperienza tedesca dei consigli si consuma pertanto in una situazione di caos sociale e politico, di
forti contrasti e opposizioni da parte sia della borghesia che degli stessi socialdemocratici.
E’ però da rilevare che il movimento insurrezionale si rivela privo di un progetto strategico capace
di passare dal sistema capitalismo in crisi alla sperimentazione di una società fondata su principi
socialisti. Un enorme peso negativo è poi rappresentato dalle profonde divisioni che lo segnano.
Infatti, se i marinai sono su posizioni radicali, le guarnigioni militari, pur in stato di disgregazione,
sono favorevoli alla Spd, quindi al governo. La stessa gran massa dei proletari fa riferimento alla
socialdemocrazia e guarda con scetticismo alle formazioni comuniste. Mentre gli occupati sono
tendenzialmente schierati con i socialisti, a stare dalla parte dei comunisti sono solamente i
disoccupati.
Nel corso degli inevitabili scontri, il movimento operaio di sinistra si presenta diviso in ben quattro
formazioni politiche: la Spd, l’ Uspd, il kpd e il Kapd (fondato nell’aprile del ’20). Si tratta di una
spaccatura che passa prima ancora che tra masse e vertici, tra ambedue questi mondi attraversandoli
diametralmente. Se la maggioranza degli operai è favorevole per principio al socialismo, solo un
piccolo numero di essi è disposto a conquistarlo con le armi. Convinzione diffusa nel movimento
operaio è che a rappresentare gli “esperti in materia di rivoluzione” sono esclusivamente i
socialdemocratici i quali, per di più, rispetto ai comunisti sono al potere.
143
Di fatto, il partito socialista riformista, cioè la Spd, è un tenace e influente difensore della società
borghese, nonostante questa si presenti in pieno fallimento. Esso, del resto, aveva tradito la propria
funzione internazionalista già all’inizio della grande guerra e alla conferenza di Berlino delle tre
Internazionali aveva rifiutato di appoggiare la richiesta di revisione del trattato di Versailles. Con
l’entrata nel governo della Repubblica di Weimar, i suoi quadri assaporano il gusto del potere e si
scrollano di dosso i residui della tradizione rivoluzionaria. Il partito socialdemocratico sarebbe nella
possibilità di influenzare la classe operaia e di supportarla nelle sue istanze rivendicative, ma esso,
non intendendo rompere le alleanze di governo conseguite, rinuncia a sfruttare la possibilità di
determinare un cambiamento.
Nel ’21, dopo la formazione del governo Wirth, composto da rappresentanti del Zentrum, della Spd
e della Ddp (Partito popolare), e teso all’adempimento delle clausole del trattato di Versailles,
scoppia di nuovo un’ondata di proteste e di scioperi.
L’anno successivo, all’interno della Spd, dopo che si è unificata con ciò che è rimasto dell’Uspd,
con il conseguente rinnovamento dell’apparato, si sviluppa una corrente che è interessata a discutere
con i comunisti e ad agire con loro, ma nel momento in cui gli operai si scontrano con il governo, la
maggioranza del partito si schiera a difesa della borghesia.
La situazione diviene contraddittoria a tal punto che, a fronte della politica rinunciataria praticata
dalla Spd, il partito comunista dà segni di odiare i socialdemocratici con un’intensità maggiore di
quella che dimostra di avere nei confronti dei nazisti i quali sono in fase di consolidamento politico.
Quella comunista, del resto, è una formazione che a seguito delle battaglie del gennaio ’19, nel
corso delle quali sono stati assassinati i suoi massimi dirigenti, è costretta all’illegalità in quasi tutto
il territorio nazionale e ciò giustifica la sua profonda avversione verso la Spd. I comunisti
considerano poi impossibile la rivoluzione socialista senza che si sviluppi una guerra civile, e loro
obiettivo primario è il rovesciamento violento del governo guidato dal socialdemocratico Ebert. A
criticare l’estremismo di sinistra del partito comunista tedesco interviene lo stesso 3° congresso del
Comintern che si scaglia contro lo “spartachismo avventuriero”.
Nell’autunno del ’22 il Kpd mette a punto un progetto di programma il cui obiettivo è quello di
trasformare le organizzazioni riformiste in strumenti di lotta per il rovesciamento del potere
borghese. A questo scopo rivendica la trasformazione delle aziende capitalistiche in sindacati e in
trust nazionali attraverso la partecipazione dello Stato e il controllo degli organismi economici degli
operai e degli impiegati (consigli di fabbrica e sindacati professionali) in maniera di attribuire ai
consigli operai l’intero potere statale. Poi prospetta la coesistenza dei consigli con il sistema
parlamentare e, in alternativa alla coalizione borghesia-socialdemocrazia, propone il “fronte unico”.
E’ la fase in cui i consigli s’insediano nelle regioni centrali del Paese, a Berlino e nel bacino della
Ruhr, controllando la produzione e limitando fortemente il potere dei capitalisti nelle stesse
imprese.
Ai primi del ’23, la situazione precipita. La Francia e il Belgio, dopo aver rifiutato in maniera
risoluta di concedere ai tedeschi una dilazione dei pagamenti in conto riparazioni, con il pretesto
della ritardata consegna di legname, occupano militarmente la Ruhr. In conseguenza di questa
invasione la Germania subisce un collasso economico. Perderà, infatti, quasi la metà della sua
produzione di ferro, oltre due terzi di quella di ghisa e quasi il 90% di quella di carbone. Nelle case
di 30 milioni di tedeschi, cioè della metà della popolazione, fa così ingresso la fame. Il costo della
vita cresce rapidamente e in misura esponenziale a causa di una precipitosa e prolungata
svalutazione del marco.
A seguito dell’invito rivolto ai lavoratori dal governo tedesco di procedere a uno “sciopero
passivo”, si verifica un’ondata di scioperi spontanei che sfugge a qualsiasi direzione. In agosto si
mobilitano tutti i lavoratori del Paese. I proletari sono più di 20 milioni, 13 dei quali sono
organizzati nei sindacati.
Non esiste città tedesca in cui non ci si prepari allo scontro alla cui testa ci sono i comunisti. In ogni
dove vengono segnalati tentativi di saccheggio dei negozi, mentre le casalinghe mettono le mani
sulle scorte di patate nei mercati. A quel punto, però, alle agitazioni fanno seguito brutali interventi
144
della forza pubblica che provocano morti e feriti. Vengono soppressi i 40 quotidiani dei comunisti.
La polizia di Ebert giunge addirittura a offrire fino a 15 mila marchi-oro per la cattura di un
militante comunista. Lo stesso governo della grande coalizione, al fine di disarmare le centurie
operaie della Sassonia e della Turingia, non esita a richiedere l’aiuto delle famigerate “bande
antioperaie” di Hitler che già rappresentano una seria minaccia per la stessa repubblica.
Si consideri che nell’autunno del ‘23 il salario di un operaio non supera il 15-20% di quello
anteguerra e mentre i prezzi del commercio all’ingrosso crescono di 286.248 volte rispetto a quelli
di prima del conflitto, i salari vengono maggiorati di sole 87.000 volte. Mentre a metà ottobre un
metallurgico percepisce un salario di 6 miliardi e 500 milioni di marchi, a fine mese una libbra di
salsiccia affumicata costa 64 miliardi, quattro libre di pane 25 miliardi, un litro di acqua 21 miliardi.
E nel successivo mese di dicembre un giornale quotidiano viene pagato addirittura 50 miliardi di
marchi. In circolazione ci sono quasi novanta tipi di cartamoneta.
Supponendo che quelle del tempo di pace fossero uguali a 1, nel ’23 le uscite dello Stato accusano
un aumento pari a 3.500.000 volte, mentre le entrate registrano una crescita di sole 77.250 volte. Se
per le classi subalterne la bancarotta del Reich rappresenta fame e miseria (da 5 a 6 milioni di
lavoratori fanno la settimana corta o la giornata corta, mentre il numero dei disoccupati supera i due
milioni di unità), per gli ambienti capitalistici e finanziari essa costituisce fonte di profitti senza
paragoni.
In novembre, nel centro di Berlino avvengono autentici pogrom alla maniera russa di un tempo:
dalle finestre vengono scaraventati in strada mobili e stoviglie delle famiglie degli ebrei. Il
soffocamento del tentativo di una rivoluzione socialista in Germania si compie dunque attraverso
una collaborazione tra socialdemocratici, liberali e nazional-socialisti.
La sconfitta dei comunisti tedeschi costituisce però anche la dimostrazione che, nell’Occidente
capitalistico, senza la guida di un’organizzazione politica unitaria, capace di darsi precisi obiettivi
strategici e di elaborare una prospettiva di trasformazione della società, creando attorno a sé un
vasto e organico schieramento di forze sociali e ideali, ogni azione insurrezionale è condannata alla
sconfitta. In quel momento, in Germania, simili condizioni non esistono, di conseguenza, quella
rivoluzione a cui Lenin e i bolscevichi avevano affidato le prospettive di costruzione del socialismo
nella stessa Russia non si realizza.
Durante le agitazioni operaie che si svolgono in terra tedesca, i sovietici si mobilitano in campagne
di sostegno dei compagni in lotta inviando loro grano e altri generi di necessità. Lenin è
profondamente convinto della possibilità-opportunità di stabilire con una Germania sovietizzata un
proficuo e reciproco rapporto di concreta solidarietà. Ai tedeschi e ai popoli dell’Occidente invia un
messaggio esplicito: “Un’esigua minoranza di paesi imperialistici si arricchisce, mentre tutta una
serie di altri paesi è sull’orlo della rovina. L’economia mondiale deve essere riorganizzata”. Noi
“possediamo centinaia di migliaia di terre eccellenti che si possono lavorare con i trattori: voi
avete i trattori, avete il carburante e disponete di operai specializzati; proponiamo pertanto a tutti i
popoli, compresi quelli dei paesi capitalistici, di fare della ricostruzione dell’economia nazionale e
della salvezza di tutti i popoli dalla fame la pietra angolare della propria azione”.
Quando nel ’22 l’Urss sottoscrive con il governo tedesco il secondo trattato di Rapallo, Lenin
sostiene che “con i suoi 150 milioni di abitanti e il suo carattere eminentemente agricolo, in
alleanza con la Germania, con la sua industria di primo ordine”, quell’accordo può significare
“una cooperazione economica talmente possente” da “spazzare via tutti gli ostacoli” alla
costruzione del socialismo in Russia. Ed è convinto che i tedeschi possono essere “indotti ad
allearsi con la Russia”.
E’ proprio in forza di questo convincimento che i dirigenti bolscevichi si mobilitano e aiutano
concretamente il proletariato tedesco a costruire il suo “ottobre”. Questa mobilitazione prosegue
fino all’ultimo, nonostante che alcuni dirigenti, tra cui Radek, che segue da vicino quegli
avvenimenti, si siano convinti che dopo il ’19 “non è più possibile contare su un grande movimento
rivoluzionario in Europa a breve scadenza”.
145
Di fronte al fallimento della rivoluzione tedesca, Lenin lancia una feroce accusa: “A capo del
partito operaio tedesco marxista comparve una banda di furfanti matricolati, la più sudicia feccia
di mercenari del capitalismo da Scheideman e Noske a David a Legien, i più ripugnanti carnefici
della classe operaia al servizio della monarchia e della borghesia controrivoluzionaria”.
Se a riguardo del “tradimento” dei socialdemocratici non è possibile avere dubbi, il sottacere le
responsabilità degli stessi comunisti significherebbe non essere obiettivi e quindi falsificare la
storia. Come ha ben evidenziato Victor Serge, analizzando l’insuccesso della rivoluzione in
Germania, “l’errore più grave nel piano strategico del partito comunista consisteva nel compiere
preparativi unicamente in previsione della lotta finale per la conquista del potere politico,
rifiutando e addirittura opponendosi all’organizzazione di azioni parziali o di azioni per
rivendicazioni parziali con mezzi e metodi meno aggressivi… il partito non ha avuto una chiara
percezione del peso enorme della massa socialdemocratica che occorreva scuotere”.
Che il proletariato tedesco abbia dimostrato di non essere ancora maturo per costituirsi in classe
egemone e abbia dato prova di grande ingenuità politica, mi pare evidente. Credo però che a
quell’epoca, sia in Germania che nei Paesi più avanzati dell’Occidente, a non essere mature per una
rivoluzione socialista, fosse non solo la soggettività del movimento, ma le stesse condizioni socioeconomiche di quelle società pur capitalisticamente mature.
5.4 – Le esperienze di governo delle sinistre europee dopo la “grande guerra”
All’indomani della prima guerra mondiale un sesto del pianeta è investito dalla rivoluzione
proletaria il cui obiettivo, almeno per le sue avanguardie più coscienti, è la costruzione di una
società socialista. La maggioranza dello schieramento delle forze di sinistra si propone di imprimere
un cambiamento non con il ricorso alle armi, come si è fatto in Russia, ma tramite l’azione
democratica. Su questa linea di condotta le formazioni della sinistra vanno al governo in diversi
Paesi in coalizione con i partiti liberali e repubblicani.
Tra il ’17 e il ’19 si formano governi comprendenti le forze socialdemocratiche e socialiste in
Svezia, Finlandia, Germania, Austria e Belgio e nel decennio successivo in Gran Bretagna, Francia,
Danimarca e Norvegia.
Si tratta ovunque, almeno negli intenti originari, di tentativi di costruzione di una società alternativa
al capitalismo, tanto è che in alcuni casi a queste coalizioni vi partecipano anche partiti o esponenti
comunisti. Mentre però alcune di queste esperienze sono contrassegnate da sinceri tentativi di
trasformazione della realtà, ovunque la convivenza coi partiti della borghesia nella gestione del
potere favorisce il processo di integrazione dei socialdemocratici nel sistema dominante.
Un aspetto che con ferma l’iniziale volontà di cambiamento da parte di chi si cimenta in queste
sperimentazioni è rappresentato dall’obiettivo dichiarato della “socializzazione”. Si tratta di un
intervento di politica economica che si propone l’esclusione della figura del libero imprenditore e il
trasferimento dei mezzi di produzione alla proprietà collettiva e la loro gestione da parte dei
lavoratori.
E’ lo stesso Kautsky a formulare un diritto statale di prelazione per l’acquisizione delle proprietà
fondiarie. Secondo le sue teorie, sia il settore industriale che il latifondo e le foreste devono essere
espropriati immediatamente, mentre la restante proprietà rurale deve essere socializzata.
Dunque, anche i socialdemocratici, nella fase successiva alla “grande guerra”, prevedono la totale
soppressione della proprietà privata. E secondo molti degli assertori della “socializzazione”,
l’iniziativa privata deve essere sostituita da uno sviluppo estensivo della cooperazione identificando
la “socializzazione” con una unione di cooperative il cui compito è appunto quello di soppiantare il
settore a economia privata. Dai protagonisti di queste esperienze viene fatta una distinzione tra
“socializzazione globale”, che deve fondare su un piano centralizzato e su una totale eliminazione
della proprietà privata, e “socializzazione parziale” che consiste invece in un processo graduale.
146
Questi progetti di socializzazione non vengono concepiti in antitesi all’ordine capitalistico, ma
vengono fondati sull’economia di mercato in alternativa all’individualismo capitalistico: i proletari
devono sostituirsi agli imprenditori e fare il loro stesso mestiere.
Altre esperienze meritevoli di attenzione sono quelle che vengono definite del “socialismo
planista”, le quali nascono in tempi successivi alle sperimentazioni di socializzazione e si
sviluppano sulla base di una analisi critica e di una lotta politica contro il libero scambismo, cioè
contro la subalternità della maggioranza dei partiti socialdemocratici europei all’ortodossia
economica dominante. Si tratta di esperienze che trovano origine nel “socialismo gildista” e in altre
correnti di pensiero fabiane sviluppatesi in Gran Bretagna e anche nelle elaborazioni di De Man, in
Belgio, e della “scuola” di Myrdal, in Svezia. Allorquando le socialdemocrazie di questi Paesi
diventano partiti di governo, esse si prodigano a risolvere in modi diversi i problemi che si trovano
di fronte, sulla base delle rispettive particolarità nazionali. Elaborano politiche anticrisi (piani del
lavoro, politiche monetarie, politiche della spesa pubblica, politiche sociali, ecc.) che si incrociano o
addirittura anticipano il dispositivo della “regolazione keynesiana”, influenzando così gli assetti
futuri dei rispettivi Paesi (per esempio il tipo di welfare state che troverà realizzazione nel secondo
dopoguerra).
Ad adottare tali politiche, oltre alla socialdemocrazia tedesca, sono, nel ’31, le Trade Unions
britanniche; nel ‘32-33, il movimento operaio belga; nel ’34-35, la Cgt francese; e poi le
organizzazioni operaie svizzere, quelle olandesi, danesi, norvegesi e svedesi. Negli anni ’30, in
Belgio, in Francia e nei Paesi scandinavi il “planismo” diviene la base programmatica dei governi
socialisti e socialdemocratici.
Tutte queste esperienze meritano una riflessione.
Una delle testimonianze più significative di come venga intesa la “socializzazione” è senz’altro il
caso dell’Austria. Nel ’18-19, la Repubblica austriaca è sotto l’influenza determinante della
socialdemocrazia dal momento che il suo consenso elettorale raggiunge il 41,13% nell’intero Paese
e il 59,98% a Vienna. Il socialdemocratico Karl Renner diventa cancelliere, mentre Otto Bauer
viene designato al ministero degli affari esteri. E’ proprio quest’ultimo a mettere a punto un piano
che concepisce la statalizzazione dei mezzi di produzione come il compimento di un processo di
organizzazione produttiva e riproduttiva. Attraverso un’accelerazione politicamente pilotata, questo
piano punta all’emarginazione dell’imprenditore singolo e alla sua trasformazione in rentier . Si
tratta evidentemente di una teoria che si distaccava in maniera netta dalla concezione marxiana della
socializzazione.
E’ convinzione di Bauer che “se la dittatura, che dispone dell’apparato statale di produzione, è
sostituita da una democrazia, essa si trasformerà in un’organizzazione socialista della società”.
Sulla base di questa teoria viene messa a punto una legislazione che affronta cinque questioni di
fondo e precisamente: l’espropriazione delle aziende, la creazione di imprese collettivistiche, la
municipalizzazione, l’istituzione dei consigli d’azienda e l’elettrificazione. Questo progetto viene
varato unitamente a un programma di riforme nel campo della politica fiscale, della previdenza
sociale, dell’edilizia popolare, della pubblica istruzione e della sanità; misure queste che già trovano
realizzazione a livello dei comuni laddove ad amministrarli sono i socialisti.
E’ da notare che gli austromarxisti vedono nella loro partecipazione alla coalizione di governo
l’eccezione, mentre considerano la collocazione all’opposizione la regola; secondo la loro logica, al
governo si può e si deve andare solo se la socialdemocrazia diventa forza predominante nello Stato.
I socialdemocratici austriaci si dimostrano però incapaci di analizzare i meccanismi di
funzionamento del “capitalismo organizzato” e non riescono a scorgere all’interno delle sue stesse
articolazioni e dei suoi meccanismi, l’incompatibilità con l’auspicato processo di democratizzazione
dell’economia.
Nei primi anni ‘30, di fronte al dramma della disoccupazione di massa, lo stesso Otto Bauer imposta
una riflessione su socialismo e piano e si cimenta con le forme di regolamentazione del mercato
proponendo un allargamento degli ambiti di operatività della politica economica.
147
Da questo ripensamento deriva il “planismo” che, appunto, si pone l’obiettivo di creare
occupazione, aumentare il potere d’acquisto delle masse, democratizzare l’economia e
programmare le nazionalizzazioni.
A causa però della mancanza di lucidità d’analisi, il pur apprezzabile progetto di cambiamento della
socialdemocrazia austriaca (che trova non a torto espressione nella raffigurazione della “Vienna
rossa”) non si materializza. Attaccato violentemente dalla destra borghese, esso si traduce in una
pietrificazione dell’economia e in una caduta verticale della mobilità della forza-lavoro.
L’esperimento si conclude con una rivincita di quegli stessi capitalisti che il progetto di
“socializzazione” si poneva di soppiantare. La cosiddetta “terza via” degli austromarxisti si
trasforma così in tragedia.
Non diversa da quella austriaca è la sorte dell’analoga esperienza che viene compiuta in Germania
dalla Repubblica di Weimar. Anche la socialdemocrazia tedesca nutre la convinzione che sia
sufficiente appropriarsi delle istituzioni statali esistenti per governare in maniera oculata l’economia
capitalistica.
Nelle sue file è diffusa la cultura della razionalizzazione, alla cui base c’è la pretesa di ridurre la
complessità dei processi istituzionali e socio-economici alla semplice amministrazione
dell’apparato statale. Lo Stato viene concepito dai socialdemocratici tedeschi non come un’unità
sovrana separata e al di sopra della società, ma come una fra le molte istituzioni sociali, con
un’autorità non superiore a quella delle chiese, dei sindacati, dei partiti politici e dei grandi gruppi
economici e professionali.
L’epoca della Repubblica di Weimar è comunque contraddistinta da una febbrile ed esagitata
ricerca, densa di inquietanti interrogativi sul destino dell’uomo moderno, combattuto fra il desiderio
dell’estensione della prosperità e la critica dei modi della sua realizzazione.
Tra il ’18 e il ’19, in Germania viene progettata la socializzazione dell’industria estrattiva del
carbone e viene attuata la municipalizzazione di alcune aziende. Uno degli ispiratori e sostenitori di
questa esperienza è Walther Rathenau, famoso industriale e ministro della Ricostruzione e degli
Esteri. In “Economia nuova”, libro da lui scritto nel ’17, sostiene la tesi dell’estensione del controllo
collettivo sull’economia mediante l’intervento statale intendendolo appunto come strumento di
organizzazione razionale e di ricomposizione sociale. Rathenau crede nella possibilità di attuare una
pianificazione neutrale e persegue l’obiettivo di un perfezionamento della società al di fuori dei
rapporti effettivi di classe. In questa ottica punta su un incremento generalizzato della produttività
fondato sul progresso tecnico e su un migliore trattamento della forza lavoro.
Questa radicale revisione del rapporto tra istituzioni ed economia, non comporta evidentemente la
negazione del capitalismo, ma si propone il semplice miglioramento del sistema sia sul piano
sociale che su quello dell’efficienza produttiva.
Di fatto, la politica di socializzazione conferisce un certo dinamismo al sistema industriale e fa della
Germania degli anni venti un laboratorio in cui si sperimenta il “socialismo del capitale”. Si verifica
un salto nello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e si assiste alla nascita dell’“industria
culturale”.
Tutti questi cambiamenti determinano però nuovi bisogni e nuove problematiche. Il processo
capitalistico di ristrutturazione trasforma anche socialmente la Germania, provoca una divisione tra
città e periferia, modifica il costume dei suoi abitanti e approfondisce la già diffusa antinomia
cultura-civilizzazione. Un importante ruolo conservatore in questa metamorfosi lo gioca la Chiesa
cattolica, favorita dal carattere chiuso e provinciale della piccola borghesia e di un mondo agricolo
arretrato e reazionario. Il timore per le novità generano un’ansia di ritorno alle origini e questo
clima crea molteplici e profonde tensioni.
Alla fine del decennio degli anni ‘20, mentre la piccola borghesia reclama un proprio status e le
forze della conservazione si coalizzano, la sinistra viene investita da una crisi che mette a nudo le
profonde contraddizioni sia nella sua tattica che nella sua strategia. E nel vuoto che si crea, si
inserisce di prepotenza il movimento nazista.
Anche a causa dell’inadeguata analisi dei processi in atto, la socialdemocrazia non si rende conto
148
che la ristrutturazione sociale perseguita attraverso la politica di socializzazione, produce uno
spostamento del potere non a suo favore, ma a vantaggio delle forze di destra.
Anche in Svezia, nel ’21, il partito socialdemocratico va al governo e, dopo essere passato
all’opposizione, vi ritorna nei primi anni ’30. Durante il periodo in cui è al potere sperimenta un
genere di “planismo” che gli consente di ottenere rilevanti successi soprattutto sul fronte
dell’intervento nel sociale. La sua “middle way” (“terza via”) si concretizza attraverso la creazione
di servizi sociali, la ridistribuzione del reddito e anche con l’attribuzione del potere ai sindacati, più
che attraverso una politica di nazionalizzazioni. Già all’indomani della grande crisi, la
socialdemocrazia svedese mette a punto efficaci forme di lotta alla disoccupazione e strumenti di
concertazione e di arbitraggio fra padronato e sindacati (patto di Saltjobaden del ‘38), conseguendo
soddisfacenti risultati, anche se l’obiettivo del pieno impiego si realizzerà solo negli anni successivi
alla seconda guerra mondiale.
Il modello svedese, quello degli anni ‘50 e ‘60 che qualcuno a definito “socialismo della domanda”,
è proprio il prodotto delle scelte compiute negli anni ‘30.
Il compromesso storico che viene stipulato in quegli anni tra il movimento operaio e le forze del
capitalismo svedese, garantisce notevoli conquiste sociali, ma come vedremo più avanti affrontando
il tema della cogestione, comporta l’accantonamento dell’obiettivo del controllo sociale e politico
dello sviluppo produttivo.
Sia le esperienze di “socializzazione” che quelle di “planismo”, purtroppo naufragano assai
velocemente: le prime all’inizio stesso del decennio degli anni ’20, le seconde in quello successivo.
Per anni in molti si sono interrogati sulle ragioni di questo fallimento e sul perché le forze del
socialismo, dopo aver conquistato il potere, non sono riuscite a realizzare i loro obiettivi. Da tempo
ormai però queste esperienze non sono più oggetto di riflessione, nonostante che un’analisi critica
di quei mancati successi si riveli utile, ancora oggi per comprendere gli errori che sul fronte delle
scelte economiche sono stati compiuti e che sarebbe bene non ripetere.
Per quanto riguarda le esperienze di “socializzazione”, quelle compiute in Austria e in Germania, le
ragioni del loro fallimento sono molteplici. In estrema sintesi esse possono riassumersi nel modo
seguente.
Anzitutto è da rilevare l’abisso che si è registrato tra i teorici e i fautori di questa politica e le masse
dei lavoratori, cioè coloro che avrebbero dovuto essere i soggetti della attuazione di quei progetti.
Gli stessi dirigenti della socialdemocrazia, pur essendo mossi da una ferma volontà di affrontare un
simile esperimento, hanno dimostrato di non avere le competenze tecniche indispensabili a gestire
un così complesso processo. I dirigenti del movimento operaio che, a seguito della conquista del
potere, hanno conseguito posizioni di prestigio nell’apparato statale, non hanno saputo sottoporre al
proprio controllo la burocrazia e hanno tentennato nell’applicazione delle regole che essi stessi
avevano stabilito. Essendo state limitate per legge le competenze dei consigli operai, queste
strutture sono state conseguentemente ridotte a semplici esecutrici di attività economiche decise
sulla loro testa e quindi sono state relegate al disbrigo degli affari correnti. Con questa scelta è stato
esautorato l’unico soggetto di potere alternativo alla figura del capitalista che si voleva eliminare.
E’ stata questa, d’altronde, una emarginazione che ha trovato compiacenti le stesse organizzazioni
sindacali tradizionali, le quali hanno preso sempre più chiaramente le distanze da una
“socializzazione” che appariva loro nebulosa e alla quale hanno preferito un’altrettanto nebulosa
“democrazia economica” che si limitava a rivendicare consistenti miglioramenti salariali. E’ poi
mancata la capacità dello stesso schieramento di sinistra di legare a sé e di coinvolgere in un così
delicato processo di trasformazione socio-economica gli indispensabili alleati. Difatti, la piccola
proprietà che si aspettava una protezione contro lo strapotere del capitale, è alla fine rimasta delusa
dalle scelte di governo al quale ha poi tolto il suo appoggio, mentre i contadini, che avevano
sostenuto il movimento operaio nella fase di ascesa al potere, pure delusi, sono ritornati ben presto
nel campo borghese. A non essere coinvolti nei progetti sono stati anche gli intellettuali e i liberi
professionisti che, se per lunghi anni sono stati ostili al socialismo, dopo la rivoluzione si erano ad
esso avvicinati. Le stesse donne, che per tradizione erano state tenute lontano dalla politica, non
149
sono state sollecitate e convinte a esercitare quel diritto di voto che con l’avvento della repubblica
era stato loro riconosciuto.
In sostanza, sono venuti a mancare, o per meglio dire sono risultati assenti dalla politica di
“socializzazione”, molti presupposti per un’operazione alternativa al sistema. Pertanto, la tesi
secondo cui il capitalismo avrebbe potuto essere modificato, anziché essere distrutto, e sarebbe
bastato occupare gli alti comandi dell’economia per poter dare un indirizzo diverso all’economia, si
è dimostrata sbagliata. Come aveva sostenuto Marx, in assenza di una critica del modo di
produzione capitalistico, la realizzazione di una società socialista si rivela impossibile.
La ragione del fallimento delle esperienze “planiste” è invece un’altra. Come abbiamo visto, i
“piani del lavoro” dei primi anni ’30 si propongono un diverso governo dell’economia e delle
istituzioni. E’ infatti proprio sui terreni delle tecniche di politica economica, della riforma dello
Stato e della ridefinizione del nesso tra socialismo e lotta congiunturale che essi si cimentano. Non
è un caso che la lotta per il piano ad alcune componenti socialiste e comuniste sia apparsa come il
terreno di traduzione politica dell’utopia, cioè l’occasione di vera saldatura tra il movimento di lotta
e l’obiettivo finale.
Il grande limite dell’esperienza “planista”, oltre ovviamente a talune manchevolezze comuni alle
stesse esperienze di “socializzazione”, è costituito dal suo orizzonte nazionale e dal conseguente
abbandono dell’idea di un processo rivoluzionario permanente e mondiale.
Nonostante i fallimenti di queste esperienze, alla sinistra socialista e socialdemocratica
dell’Occidente europeo va riconosciuto il merito di aver sperimentato in termini concreti sul campo,
nel periodo tra le due guerre mondiali, il nodo teorico della socializzazione dei mezzi di produzione
e del controllo sociale dell’economia. Dopo di allora alla sinistra europea è mancata la sensibilità di
ripetere in chiave moderna un analogo esperimento e si è limitata semplicemente ad affrontare il
tema della democrazia economica in forme compatibili con il sistema capitalistico. Tentativi di
realizzare la socializzazione del modo di produzione sono stati invece compiuti all’esterno delle
aree capitalisticamente mature e, come vedremo, anche lì sono tutti falliti.
5.5 – La nascita del Pci e l’affermazione del fascismo
In Italia il marxismo viene recepito tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando a imperare è
il positivismo. Questo fa sì che la teoria marxiana venga assunta in una visione metafisica e
provvidenziale della storia, cioè come una sorta di “darwinismo sociale” e di “determinismo
economico”. Di conseguenza, a dominare è l’opinione secondo cui il capitalismo avrebbe segnate le
tappe della sua decadenza nel suo stesso dna e che il socialismo sarebbe un suo naturale e
inesorabile approdo.
Dal punto di vista politico e organizzativo, la caratteristica più significativa del movimento operaio
italiano di quel periodo è rappresentata dall’indiscussa egemonia dei massimalisti, i quali
costituiscono la corrente più consistente, ma dimostrano l’incapacità di andare oltre il verbalismo
rivoluzionario.
Il partito socialista e la Confederazione generale del lavoro sono naturali bacini di raccolta di tutte
le espressioni popolari radicali, le quali vi rifluiscono spontaneamente nell’intento di trovare un
soggetto unificante e una guida che fornisca loro un obiettivo. Proprio a causa di queste dinamiche,
sia il partito che il sindacato diventano luoghi di scontro permanente: dapprima la guerra si scatena
tra gli intransigenti e i riformisti, successivamente scoppia tra i riformisti e i massimalisti. Le
battaglie e le polemiche interne al movimento investono sia la base che i vertici. Per avere un’idea
di quanto è teso il clima fra i diversi schieramenti, si consideri che, negli anni a cavallo del secolo,
Antonio Labriola e Filippo Turati si odiano cordialmente e non perdono occasione di parlar male
l’uno dell’altro: “Labriola è grande soprattutto nel piccolo sentimento di ritenersi tale”, dice Turati,
mentre Labriola definisce la “Critica sociale”, diretta dal capo dei riformisti, “un giornale che è un
foglio di reclame da rigattieri”. A questa condotta litigiosa che investe l’insieme del gruppo
dirigente, corrisponde una scarsa sensibilità, se non addirittura una vera e propria sottovalutazione,
150
verso i problemi della complessa realtà nazionale e pure un’estraniazione da ogni discussione di
carattere internazionale. Difatti, il socialismo italiano di quel periodo non è per niente sincronizzato
con le esperienze europee, con quella tedesca in particolare che è sicuramente la più interessante, e
proprio per questa ragione i socialisti di casa nostra non hanno alcun peso nella polemica che si
svolge a livello internazionale.
Scrive Gramsci su “L’Ordine nuovo”: “Il partito socialista assiste da spettatore agli eventi, non ha
mai un’opinione sua da esprimere che sia in dipendenza dalle tesi rivoluzionarie”.
Il deficit politico-strategico del socialismo italiano, in particolare della corrente massimalista che
risulta maggioritaria nella gestione del partito, si manifesta in maniera palese nel corso del “biennio
rosso”, allorquando la corrente riformista, di fronte al dilagare delle lotte operaie nelle regioni del
Nord Italia, decide di perseguire la linea del sabotaggio.
Quando i bolscevichi prendono il potere in Russia, il Psi è diviso in tre correnti: accanto ai
massimalisti e ai riformisti esiste una corrente comunista che non si limita a esprimere solidarietà
agli artefici della rivoluzione d’ottobre, ma incalza il partito perché si mobiliti e imiti i fautori dei
soviet. Una simile pretesa fa precipitare i già precari equilibri compromissori conseguiti tra le varie
correnti e induce i comunisti a preparare la scissione.
Al congresso di Livorno, nel gennaio del ’21, il Psi dunque si spacca e nasce il Partito comunista
d’Italia.
Antonio Gramsci giudica in senso critico e tutt’altro che entusiasticamente la scissione di Livorno e
la definisce “il più grande trionfo della reazione” a causa del distacco dall’Internazionale del grosso
del partito socialista. Così commenta l’avvenimento su “L’Ordine nuovo”: “La nascita del Partito
comunista è legata alla persuasione radicatasi nell’avanguardia più intelligente del proletariato
che si sarebbe giunti necessariamente (alla rottura del Psi) data l’incapacità del Partito socialista
di assolvere il suo compito storico… Il massimalismo, che oggi è in rotta e in piena
decomposizione… ha logorato gli effettivi proletari in una molteplicità di azioni disordinate e
caotiche, ha sfibrato le masse, le ha illuse sulla facilità e la rapidità della storia,… ha determinato
la Caporetto della classe operaia”.
Nel corso dei decenni successivi, alcuni storici attribuiranno alla scissione di Livorno la
responsabilità di aver aperto la strada al fascismo e insieme di aver compromesso, con quella
rottura, il completamento del processo democratico nel nostro Paese provocando le condizioni per
la famosa “conventio ad excludendum” (l’esclusione dei comunisti dall’area di governo).
In effetti, la rottura si rivela in un certo senso inevitabile; dal punto di vista dei militanti che si
collocano all’estrema sinistra, è ritenuta necessaria perché parte di un processo internazionale che
vede la contrapposizione tra socialdemocrazia e comunismo, non solo a riguardo della strategia e
della tattica da seguire, ma prima ancora della concezione stessa del potere e dello Stato.
A giustificarla sono sia le delusioni per le sconfitte subite dal movimento nel ’19-20 che le
molteplici contraddizioni interne al partito, le quali continueranno a pesare anche dopo Livorno fino
a determinare un’altra scissione, quella tra massimalisti e riformisti.
A dare vita al Partito comunista d’Italia è una nuova generazione di combattenti, tutti in età al di
sotto dei trentai anni, i quali riscuotono l’adesione plebiscitaria della gioventù socialista e di coloro
che ripongono fiducia e speranze nell’Internazionale fondata da Lenin.
A dirigere il nuovo partito è Amadeo Bordiga la cui principale caratteristica è l’intransigenza
ideologica. Al fine di evitare sbandamenti e degenerazioni, egli applica in maniera rigida i principi
del materialismo storico e li eleva a steccato. Entra così presto in conflitto con Gramsci e Togliatti,
ai quali rimprovera una formazione idealistica vicina al pensiero di Benedetto Croce, e si scontra
con i bolscevichi accusandoli di essere impegnati a costruire un socialismo che altro non è che
capitalismo di Stato.
Nei due anni successivi alla sua fondazione, nel Pcd’I si ripropongono differenze di interpretazione
e di proposizione politica tali da determinare tre frazioni: alla corrente maggioritaria bordighiana si
contrappone il gruppo degli ordinovisti, cui fanno capo Gramsci e Togliatti, e quindi la componente
di destra capeggiata da Graziadei e Tasca.
151
Al congresso di Lione, nel ’24, Bordiga viene messo in minoranza e ad assumere le redini del
partito è Antonio Gramsci.
Nel ’21, in Italia, nasce anche un altro partito, quello fascista, dopo che nel ’19, a Milano, Benito
Mussolini fonda i “fasci di combattimento”.
Da dirigente socialista, direttore de “l’Avanti!” e sostenitore del neutralismo assoluto ai tempi della
guerra di Libia e dello scoppio della grande guerra, Mussolini passa al neutralismo condizionato,
dopo di che, da intransigente diventa possibilista e infine, espulso dal Psi, fonda il “Popolo d’Italia”
e fa sue le tesi dell’interventismo attivo.
Fra il ’17 e il ’18 egli viene messo a libro paga dei servizi segreti britannici: da Sir Samuel Hoare,
capo della sezione che l’intelligence ha aperto a Roma, gli vengono versate cento sterline alla
settimana, in contanti, affinché sostenga la campagna bellica contro l’Austria e la Germania.
Caratteristica principale di Mussolini è l’opportunismo. Figlio del socialismo più barricadero e
vacuo, egli sa interpretare la diffusa paura degli uomini verso il mondo moderno e incarna una
reazione al caos. Come dice Gaetano Salvemini, egli è un “genio della propaganda”.
Durante gli anni del suo dominio dimostra di essere una persona fortemente indecisa, infatti, subisce
a tal punto l’influenza altrui da dare sempre ragione all’ultimo suo interlocutore, assicurando per di
più il suo consenso a progetti completamente contraddittori tra di loro. Gli sbandamenti che in quel
periodo si registrano ai vertici del governo e dello Stato maggiore, ne sono una testimonianza. I
“giri di valzer” che egli compie sono moltissimi e smentiscono la patente di decisionista che la
propaganda di regime e una certa storiografia gli hanno affibbiato. Ebbe a dire di lui Benedetto
Croce nel dicembre del ’43: “L’uomo, nella sua realtà, era di corta intelligenza, correlativa alla
sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante di quella ignoranza sostanziale che è nel
non intendere e non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di
autocritica al pari che di scrupoli di coscienza, privo di ogni gusto in ogni sua parola e gesto,
sempre tra il pacchiano e l’arrogante”.
Nato come movimento di ex-combattenti a carattere nazionalistico, nel ’21, il fascismo si trasforma
in partito. Sulle cause della sua nascita e del suo successo si è detto e scritto molto e le
interpretazioni sono svariate. Vi è chi ritiene esso sia il prodotto dell’incubo del bolscevismo andato
al potere in Russia, chi lo considera una reazione violenta al processo di democratizzazione della
stessa società capitalistica, chi crede sia un fenomeno tipicamente italiano. In effetti, all’origine del
fascismo ci stanno molteplici ragioni.
E’ vero che di fronte alla rivoluzione d’ottobre, e ai moti insurrezionali che ne sono conseguiti
nell’Occidente europeo, la borghesia ha temuto di perdere le sue fortune e anche la sua libertà
d’iniziativa. Il pericolo di una rivoluzione comunista mondiale, se in alcuni Paesi, almeno
inizialmente, ha indotto le forze politiche al potere a mettere in campo correttivi e modifiche nel
rapporto capitale-lavoro e a dare vita a nuovi programmi sociali, alla crescita di parlamenti e
sindacati, in altri – l’Italia in primis – ha provocato l’instaurazione di regimi autoritari quale rimedio
al dilagare delle lotte operaie e contadine.
C’è chi ha sostenuto che in Europa non ci sarebbe stata una reazione come quella rappresentata dal
fascismo se la Terza Internazionale non avesse operato per la radicalizzazione dello scontro di
classe.
Che l’ascesa del fascismo sia da imputare in parte anche agli errori e alle debolezze che il
movimento operaio ha manifestato nel periodo post bellico, è fuor di dubbio. La sua incapacità di
unificare le lotte e offrire ad esse uno sbocco politico, e pure di contenere e neutralizzare la violenza
delle classi al potere, è stata documentata in modo chiaro e inequivocabile. Se non ci fosse stata la
scissione tra comunisti, socialisti di sinistra e socialdemocratici probabilmente il fascismo avrebbe
incontrato maggiori ostacoli sulla strada del trionfo. Lo stesso biografo russo di Stalin e di
Bucharin, Roy Medvedev, del resto, ha sostenuto che se l’Urss avesse seguito un’altra politica, il
fascismo non sarebbe sorto o non sarebbe diventato tanto potente.
Fatto è che sulla scena europea – se si esclude l’Italia – il regime dittatoriale sopravviene quando
l’onda rivoluzionaria è ormai infranta e rifluita. E questo ci porta a ritenere che la sua affermazione
152
è frutto non solo della paura del comunismo, ma anche del processo di stabilizzazione della
situazione economica e politica di cui il capitalismo ha bisogno per poter intraprendere una nuova
fase di sviluppo. Questa esigenza di ristrutturazione è d’altronde già manifesta negli anni precedenti
il primo conflitto mondiale e diventa acuta con la crisi finanziaria del ’29. Mentre gli Stati Uniti
intraprendono un percorso democratico (New Deal), le classi politiche dei Paesi europei, sotto il
peso delle conseguenze della guerra, si dimostrano incapaci di percorrere un analogo itinerario e
soccombono invece alle spinte populiste e autoritarie.
Per decenni in Italia è prevalsa la tendenza a far risalire la vittoria del fascismo alla arretratezza del
nostro sistema di produzione. Anche questo è un dato che ha un qualche fondamento, ma preso di
per sé non esaurisce il problema. Il fatto che il fascismo nasca proprio da noi è anche dovuto alla
particolare storia del nostro Paese, tanto è che le sue origini vanno ricercate anche nel modo in cui
si è compiuta la sua unificazione, nella maniera stessa in cui si sono sviluppate le sue classi
dirigenti, sia economiche che politiche, e nel modo in cui si è edificato il nuovo Stato.
Non va trascurato il fatto che il fascismo è nato dal nazionalismo e probabilmente senza di esso non
sarebbe esistito, o almeno sarebbe stato un episodio effimero.
Il nazionalismo è l’espressione politico-letteraria degli interessi non solo economici, ma anche
psicologici della borghesia. Il suo esercito è composto dalla media e piccola borghesia patriottarda e
i suoi generali sono i grandi capitalisti industriali e agrari. I fondatori e i teorici del nazionalismo (i
Corradini, i Papini, i Federzoni, i Maraviglia, i Rocco) esprimono netta avversione sia al liberalismo
che al socialismo ed esaltano la guerra come grande rigeneratrice morale dell’umanità; considerano
la violenza una scuola di coraggio, l’obbedienza cieca il modo attraverso il quale si annega la
personalità individuale, e invocano l’oligarchia e la dittatura come sistemi di governo. Sono loro i
veri maestri dell’ideologia fascista, mentre gli aderenti al movimento di Mussolini rappresentano il
braccio secolare e sono i semplici esecutori di questi principi e della conseguente distruzione dello
Stato democratico e dell’instaurazione della dittatura.
La politica di un Paese nazionalista diventa necessariamente una politica di violenza e di
aggressioni, una politica imperialistica destinata a minacciare qualsiasi equilibrio storico. Negli anni
precedenti al ‘14 i nazionalisti erano in linea di massima favorevoli alla Germania e avversavano la
Francia e l’Inghilterra. Questa posizione ritornerà non a caso a essere vincente con l’accendersi del
secondo conflitto mondiale.
Il nazionalismo è riuscito a penetrare largamente nella borghesia italiana formando una mentalità
politica e contribuendo non poco a creare lo stato d’animo della guerra, la quale ha poi creato le
condizioni perché un movimento di quel tipo trovasse vaste basi popolari. Suoi referenti sono gli
sbandati di ritorno dal fronte, frange di popolo scontento e deluso, quella parte della piccola
borghesia che è abituata a portare i galloni, a esercitare un’autorità, e che finito il conflitto si ritrova
in misere condizioni e alla mercè della burocrazia statale o peggio ancora priva di una prospettiva.
Come è avvenuto per il nazionalismo, anche il movimento fascista si è sviluppato con la complicità
dell’alta borghesia. E mentre il primo non divenne mai un movimento popolare, il fascismo lo
diventa in tempi rapidissimi. Di qui, la fatale necessità che i due movimenti s’incontrino e si
fondino.
Il partito fascista si autodefinisce rivoluzionario. Una tesi, questa, che è sostenuta anche dallo
storico Renzo De Felice, considerato un “revisionista”. A suo giudizio il movimento mussoliniano
sarebbe addirittura l’erede dei principi dell’89 francese. Mussolini, sempre a suo giudizio, sarebbe
stato rivoluzionario fino al 1920 e soltanto dopo sarebbe diventato fascista. Un altro storico, il
francese Francois Furet, ritiene che sia sbagliato considerare il fascismo una controrivoluzione
borghese e sostiene che la diabolicità di Mussolini consiste proprio nell’aver portato a destra l’idea
rivoluzionaria.
In effetti, il carattere dei postulati dei Fasci è chiaramente influenzato dalle idee di sinistra ed è solo
all’indomani dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne consegue che si registra il compimento
del suo totale allineamento su posizioni di destra.
153
Non va dimenticato il fatto che per alcuni mesi, dopo la nascita del fascismo, qua e là si è registrato
un vero e proprio connubio tra esponenti di spicco di questo movimento e alcuni dirigenti socialisti
rivoluzionari e che solo verso la fine del ’20 e la metà del ‘21, quando lo squadrismo agrario ha
incominciato a tracciare la sua scia di uccisioni, ferimenti e distruzione di sedi operaie, si è
registrato il distacco della maggior parte di questi poveri illusi. E va aggiunto che questi socialisti
rivoluzionari, in preponderanza ex sindacalisti, erano perfettamente consapevoli del ruolo decisivo
che essi stavano giocando nel favorire la vittoria del fascismo e la corporativizzazione dello Stato.
Quel tanto di ideologia socialista che comunque è presente nei primi tempi nel movimento fascista,
si dissolve come nebbia al sole quando hanno inizio gli attacchi alle camere del lavoro e quando
vengono distrutte tutte le organizzazioni operaie che vengono considerate dai fascisti avanguardie
della resistenza democratica al regime dittatoriale.
Ed è proprio la repressione antisocialista a caratterizzare il nascente movimento.
Suo bersaglio non sono solamente le organizzazioni contadine e operaie socialiste, ma anche quelle
cattoliche. Oltre alle Camere del lavoro, vengono assaltate e bruciate le cooperative e poi i municipi
“rossi”, bersagli questi che spesso vengono indicati agli squadristi dagli agrari e dagli industriali. I
sindacati vengono colpiti duramente perché garantiscono i “salari rossi”; le leghe perché
stabiliscono gli imponibili di mano d’opera; i municipi amministrati dai socialisti perchè
amministrano negli interessi delle masse proletarie; le cooperative perché hanno insieme una
funzione calmieratrice sui prezzi e di tesoriere del movimento operaio.
La propaganda fascista e conservatrice si scaglia in maniera accanita contro quegli operai che
vengono individuati come sovversivi e antinazionali, e perciò vengono definiti “imboscati nelle
fabbriche” e nemici degli “eroi combattenti”, dal momento che si dichiarano ostili alla guerra.
A Ferrara viene inaugurata la prima esposizione di cadaveri a scopo simbolico. Il capo dello
squadrismo cremonese Roberto Farinacci, espulso dal Psi nel ’12, considerato l’anima fascista più
vicina a Hitler, ne esalta pubblicamente l’esecuzione. L’esposizione a piazzale Loreto, a Milano, dei
cadaveri di Mussolini e di alcuni gerarchi fascisti non è dunque altro che una ritorsione degli
antifascisti alle angherie subite e una riproposizione di scenari già tristemente noti.
Non a torto la “camicia nera” è vista dal movimento operaio come simbolo di oppressione, come
sopraffazione bruta, come camicia del padrone.
Alle efferate rappresaglie, compiute contro gli esponenti e le organizzazioni della sinistra, le forze
dell’ordine non oppongono alcuna resistenza, anzi esse si rivelano complici. La situazione di
correità dello stesso Stato nelle persecuzioni e nelle rappresaglie favorisce la crescita nel
movimento operaio di formazioni chiamate “arditi del popolo”, la cui funzione è quella di far fronte
ai soprusi con il ricorso alle armi. Di esse fanno parte quei militanti tutti d’un pezzo che non sono
disposti a piegarsi alla violenza degli squadristi “neri” e i quali costituiranno negli anni a venire la
spina dorsale delle organizzazioni di sinistra che opereranno in clandestinità.
Per il movimento operaio il ventennio “nero” rappresenterà un periodo di grande sofferenza. Le
formazioni della sinistra pagheranno prezzi altissimi in termini di repressioni, di persecuzioni, di
carcere, di migrazioni, di esili. Si pensi al solo fatto che a cavallo dei decenni Venti e Trenta, i
comunisti organizzati sul territorio italiano non sono più di duemila. E non si tratta solo di prezzi
fisici, materiali, bensì anche culturali e morali poiché il pensiero marxista subisce inesorabilmente
una paralisi complessiva. Di più ancora: ai danni provocati dal fascismo e dal nazismo si
aggiungeranno quelli indotti dallo stalinismo che comporteranno non solo un offuscamento del
pensiero marxiano, ma per alcuni stessi militanti comunisti significheranno l’incarcerazione nei
gulag sovietici quando non addirittura la morte nella stessa patria del “socialismo”.
5.6 – I caratteri del regime mussoliniano
Il fascismo italiano, come abbiamo visto, è il risultato di un insieme di modificazioni che investono
la società nazionale prima, durante e dopo il primo conflitto mondiale e rappresenta la svolta a
destra delle classi dominanti impegnate a togliere di mezzo l’opposizione della classe lavoratrice.
154
Come osserva Antonio Gramsci, esso rappresenta in specifico la reazione del “popolo delle
scimmie” (così egli definisce la piccola borghesia) al montare della contestazione operaia e
contadina.
Se da principio il fascismo si presenta come un movimento “sovversivo” sostenuto dalla piccola
borghesia, dopo il suo consolidamento incontra l’appoggio prima dei proprietari agrari e poi di una
consistente parte del mondo industriale. Gli imprenditori manifatturieri non hanno certo una
vocazione fascista, anzi, per i loro stessi interessi sono spinti ad avversare qualsiasi dittatura e a
dare il loro appoggio a regimi democratico-liberali. Presi però dal panico per una possibile
rivoluzione anche nel nostro Paese, essi sostengono Mussolini poiché questi si presenta come
difensore dell’ordine costituito e garante della legge del profitto. Essendo però abituati a puntare sul
cavallo vincente a colpo sicuro, compiono questa scelta con estrema cautela, poiché verso le
violenze di quello che loro considerano il “bolscevismo nero” mostrano imbarazzo, inquietudine e
diffidenza. Mentre i proprietari agrari, piccoli e grandi, sono interessati a respingere la minaccia di
una collettivizzazione delle terre, gli imprenditori dell’industria, allarmati dalle occupazioni operaie
delle fabbriche, si prodigano a sventare il rischio di una possibile espropriazione delle loro aziende.
Se è pur vero che il fascismo non ha mai rinnegato la sua anima piccolo-borghese, godendo del
sostegno degli strati sociali intermedi, non deve sfuggire il fatto che a sfruttare la presenza di questo
movimento ai propri fini sono i grandi possessori di capitale i quali non lesinano prima a
sovvenzionare lo squadrismo e poi a dare il loro appoggio agli esponenti del regime. A sostenere
economicamente l’investitura a ministro del nazionalista Luigi Federzoni, per citare un
emblematico esempio, sono proprio gli industriali della siderurgia. Di promozioni politiche del
genere la storia ne documenta parecchie.
Con l’adesione al regime degli imprenditori industriali si salda quel blocco di potere che per un
ventennio dominerà la società italiana: il potere economico si raccorda con quello politico e quello
giurisdizionale. Lo squadrismo fascista, infatti, godendo già della tolleranza delle autorità dello
Stato e della connivenza della magistratura, può contare anche sulla benevolenza e sul sostegno
della classe imprenditoriale e finanziaria.
Non deve pertanto meravigliare il fatto che persino gli ambienti industriali e finanziari anglosassoni
intravedono nell’affermazione del fascismo una opportunità tale da far confluire nel nostro Paese i
loro investimenti.
E’ nel periodo compreso tra il ’22 e il ’26 che la borghesia italiana sostiene con maggior forza il
regime e questo avviene perchè essa ha bisogno di uno Stato che abolisca tutte le forme di
democrazia, privi le masse della loro autonomia organizzativa e intraprenda una politica estera di
tipo imperialistico per dare slancio alla propria iniziativa.
Mussolini va al governo nel ’22 grazie alle vecchie classi liberali e conservatrici che decidono di
affidarsi a lui nel momento in cui il Paese vive un’irrimediabile crisi di governo. Quando,
all’indomani della “marcia su Roma”, Vittorio Emanuele III incarica il capo dei fasci a formare un
nuovo esecutivo, il partito fascista ha già assicurato il sostegno del blocco borghese monarchico;
difatti, le “camice nere” che il 28 ottobre marciano sulla capitale, non incontrano la ben che minima
resistenza sul loro percorso proprio per decisione dell’autorità militare regia.
Mentre Giolitti si propone di usare i fascisti per combattere i socialisti, illudendosi di poterli poi
incorporare nella prassi liberale, le forze politiche della conservazione intravedono nel fascismo un
alleato non rendendosi conto che si tratta di un movimento dotato di una sua propria autonomia il
quale si muove in contrasto con la tradizione.
Gli stessi Orlando, Salandra, Croce, Bonomi e Nitti aiutano e sostengono il fascismo nel momento
in cui fa i suoi primi passi e lo considereranno un nemico solo quando esso si sarà stabilmente
consolidato al potere e sopprimerà ogni espressione democratica.
Allorquando si costituisce il primo governo Mussolini, viene addirittura prospettata
la
partecipazione all’esecutivo di due esponenti di primo piano della Cgl: si tratta dei socialisti
riformisti Bruno Buozzi e Gino Valdesi, i quali vengono esclusi dalla lista dei candidati ministri
all’ultimo momento per l’opposizione esercitata dai fascisti più intransigenti.
155
Il fascismo s’impone come forza determinante per la soluzione della crisi anche perché sa
approfittare della incapacità delle sinistre liberal-democratiche, socialiste e comuniste a trovare
soluzioni alternative praticabili. E’ infatti proprio il logoramento dei legami unitari a sinistra,
unitamente alla paralisi delle espressioni cattoliche progressiste, che apre la strada alla
controffensiva mussoliniana. Non si spiegherebbe altrimenti la rapidità con cui da movimento
minoritario, il fascismo diventa partito-Stato lasciando incredule e inermi tutte quelle stesse forze
che avrebbero dovuto opporvisi.
In quanto sistema politico, il fascismo non possiede una vera e propria consistenza ideologica. Nelle
sue molteplici espressioni esso dimostra di essere anticomunista e nazionalista, di esaltare l’ordine,
la gerarchia e l’obbedienza al capo. Maurice Dobb ritiene che esso rappresenti “il tentativo di
sopprimere l’antagonismo di classe, considerato un’illusione nata da una ideologia falsa o
pervertita, e di sostituire la coscienza di classe con il culto dell’ideale dello Stato-nazione e della
grandezza imperiale e razziale”.
Sul piano culturale esprime l’elogio dell’autorità in contrapposizione alla libertà, della
diseguaglianza, del superuomo e in certi casi della razza superiore. Insegna ai giovani a dare valore
al corpo anziché alla mente, a essere “duri”, a considerare le esercitazioni ginniche di massa come
una dimostrazione di patriottismo. Alle donne affida il compito di generare famiglie numerose
senza lamentarsi e le consiglia di starsene contente nella propria casa.
A fondamento del suo credo vi è il rifiuto degli ideali umanitari e del minuto lavoro politico
quotidiano, mentre vengono valorizzati la sensazione e il gesto estetico; l’agitazione politica viene
intesa come “ginnastica rivoluzionaria”. Nel suo vanaglorioso programma, Mussolini incita gli
italiani a “vivere pericolosamente”. Privo di una sua autonoma cultura e di una sua propria ben
definita ideologia, si assicura la formale ubbidienza degli intellettuali e consente, anzi stimola
abilmente, la più ampia liberalizzazione dell’inventiva sulla propria essenza. Ne consegue il trionfo
di una retorica della politica che è alla ricerca di una “terza via” fra capitalismo e comunismo e di
una nuova e più autentica “italianità”. Nel suo bagaglio etico culturale trovano grande spazio la
religiosa fedeltà al “duce” e la fede nei nuovi destini della patria.
Da qui le multanime immagini che esso da di sé quale movimento anarco-giacobino, rivoluzionariosindacalista, social-massimalista, clerico-reazionario, militar-imperialista, idealistico-spiritualista,
laico-radicale.
Uno dei suoi aspetti più peculiari è quello di ritenere che il conflitto sociale può essere eliminato
attraverso la soppressione dell’antagonismo di classe che viene considerato un’illusione nata e
fomentata da una falsa e pervertita ideologia, quella socialista appunto, e quindi sostituito con il
culto dello Stato-nazione.
Tra i propositi indicati dal “programma massimo ideale” stilato negli anni ’20 dal Segretariato
economico fascista di una provincia lombarda vi sono quelli di “esplicare un’azione energica e
concorde nell’intento di ottenere la piena ed assoluta armonia tra capitale e lavoro, spingendo al
massimo il rendimento dell’uno e dell’altro fattore; svolgere la propria azione in modo che i
rapporti fra la classe rappresentante il capitale e la classe rappresentante il lavoro, siano regolati
e diretti alla collaborazione fra le classi e mai alla lotta fra le classi interessate e sempre ispirate al
superiore interesse nazionale; agire per armonizzare gli interessi di tutte le classi organizzate,
nell’intento di conseguire il benessere generale”.
Nei fatti il regime smentisce se stesso e come sentenzia, nel ’23, il senatore Ettore Conti, presidente
dell’Associazione fra le società per azioni italiane, “la politica finanziaria ed economica del
governo italiano è essenzialmente quella che veniva chiesta dagli industriali e dagli uomini d’affari
italiani prima dell’inizio del governo fascista”.
Altro esempio di sconfessione dei propositi riguarda il proclamato corporativismo del regime.
Com’è risaputo, allo scopo di garantire la crescita della società civile, il fascismo si propone
l’organizzazione corporativa della società secondo cui i lavoratori sarebbero diventati
contemporaneamente amministratori e azionisti. Il teorico dell’economia ai tempi della
progettazione del fascismo è Ugo Spirito. Questi sostiene che l’azionariato diffuso creerebbe una
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proprietà anonima e romperebbe il vecchio vincolo tra l’imprenditore e la sua creatura. Con tale
proposizione il regime si adopera a separare l’economia dalla politica. Nella sua ispirazione,
dunque, il corporativismo è ben altra cosa di quella grande costruzione burocratica e parassitaria
che nel corso degli anni diventa lo Stato fascista.
Come ha scritto Sabino Cassese, “l’intervento dello Stato (fascista) nell’economia, fra le due
guerre, si svolge al di fuori dell’apparato e delle procedure corporative… Tutta la politica
economica di quegli anni cruciali venne predisposta e attuata prescindendo completamente dal
parere del Consiglio nazionale delle corporazioni, che non fu neppure interpellato quando si trattò
di creare organismi dell’importanza dell’Iri o dell’Imi”.
Di fatto, nel ventennio gli insediamenti industriali vengono in larga misura decisi dallo Stato sulla
base delle indicazioni fornite dalla Confindustria la quale diventa, secondo l’espressione di Ernesto
Rossi, il “relazionificio” dello Stato.
Ma queste non sono le sole giravolte di Mussolini e company.
Un altro esempio assai significativo riguarda i suoi rapporti con la monarchia. Obiettivo del
movimento fascista sin dalla costituzione dei fasci è la repubblica. Il regime però, pur di accedere al
potere, si allea con la monarchia fino al punto di immedesimarsi con essa. A proposto
dell’atteggiamento assunto nei confronti della casa reale, è da ricordare che all’interno del partito
insorgono non pochi contrasti tra Farinacci, Giuriati, Starace, Bottai e Federzoni, i quali vengono
però abilmente sopiti dal capo e si avrà conoscenza delle loro schermaglie solo dopo la Liberazione.
Certo è che se Mussolini avesse continuato ad agitare il drappo repubblicano sarebbe stato
sicuramente abbandonato dagli agrari, si sarebbe trovato contro l’esercito e la stessa borghesia e
avrebbe quindi dovuto abbandonare le leve del comando. La giravolta sul fronte della politica
istituzionale appare dunque giustificata, ma questo non significa che essa costituisca motivo di
onore e di coerenza e lealtà ai principi proclamati.
Le stesse iniziali inclinazioni totalitarie del movimento subiscono col passare del tempo un
congelamento a causa del sistema di compromessi che intervengono nella fase di costruzione del
regime: quelli con il re, con la Chiesa, con i centri del potere economico e con la burocrazia statale.
Per opportunità politica il “duce” si fa duttile nei confronti dei poteri forti, mentre usa il pungo di
ferro nel governare la “massa” dei soggetti deboli e avversi.
Basti ricordare la linea seguita dal regime in materia di politica salariale e sindacale. In tempi di
crisi (che durano per l’intero ventennio) a fare sacrifici sono sistematicamente chiamati coloro che
vivono del proprio lavoro.
Un primo taglio del 10% dei salari viene proposto con successo dallo stesso sindacato unico fascista
nel maggio del ’27. Un secondo, analogo, viene attuato nell’ottobre dello stesso anno su proposta
della direzione del Partito nazionale fascista. All’inizio degli anni ’30, in seguito agli effetti della
grande crisi economica mondiale, avvengono un terzo e un quarto taglio, rispettivamente dell’8%
nel novembre del ’30 e del 7% nel ’34. Altri tagli si succedono nel ’40 e nel ’42. A una riduzione
complessiva del 35% dei salari vanno aggiunte altre contrazioni variabili da fabbrica a fabbrica. E’
stato calcolato che, in media, nel corso del ventennio gli operai dell’industria abbiano perso tra il 40
e il 50% delle loro spettanze, mentre i tagli alle paghe degli occupati in agricoltura hanno superato il
50% raggiungendo in alcuni casi il 70%. Si tenga presente che il monte salari italiano nel ventennio
risulta essere il più basso d’Europa.
Su un aspetto il fascismo non si è mai smentito, ha anzi dimostrato di avere una coerenza
straordinaria: è quello che riguarda la sua matrice antidemocratica e anticomunista.
Una delle sue innovazioni è la soppressione del carattere elettivo degli organismi di governo
periferici, cioè delle autonomie locali a capo delle quali viene posto il podestà di nomina regia,
assistito da “consultori municipali” che vengono designati dal prefetto. La sua vena conformista è
tale da obbligare tutti i comuni italiani a intitolare una via a Roma.
I gruppi dirigenti dell’apparato statale e gli ufficiali dell’esercito vengono rigorosamente selezionati
in base alla garanzie ideologiche che essi offrono al regime e a essere promossi sono generalmente i
più riverenti e ottusi. I cittadini vengono educati a dipendere da qualcun altro e quindi ad adattarsi a
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un comportamento da sudditi.
Mentre nel periodo iniziale, quello che va dal ’21-22 al ’29, il regime si prodiga a imbavagliare e
poi a eliminare fisicamente le opposizioni, quando il potere sembra stabilizzato, accentua la stretta
repressiva nei confronti degli antifascisti e si impegna ad allargare l’area del consenso popolare alla
sua politica. Nel Paese viene formata una fitta rete di informatori e delatori, al fine di reperire ogni
genere di notizia su qualsiasi tipo di attività antifascista. L’Ovra (Opera Vigilanza e Repressione
Antifascista), formata da fiduciari, tra cui spiccano i “fedelissimi”, è presente ovunque, persino
all’estero. Questo servizio spionistico ha centrali a Budapest e a Monaco e opera in Austria, in
Cecoslovacchia, negli Stati Uniti (con il Ku Klux Klan), in Germania, in Francia (con le Legions
civiques, la Ligue des anciens Chefs de section e l’Action Francaise) dove gode della simpatia del
Bloc National e di Poincarè. A Parigi riesce addirittura a infiltrare alcuni suoi elementi in “Giustizia
e Libertà”.
A parere di diversi storici, l’anno in cui il regime porta a termine la svolta totalitaria è il 1938,
allorquando vengono varate le leggi razziali e siglata l’alleanza con la Germania di Hitler.
Sull’antisemitismo di Mussolini si è discusso molto e i giudizi non sono unanimi.
Lo storico Renzo De Felice ha negato, ad esempio, che il “duce” sia stato razzista e antisemita.
Certo è che il “duce” comincia a parlare di “rigenerazione della razza” negli anni ’20. Dalla
teorizzazione di un “razzismo quantitativo” dai connotati prevalentemente demografici passa
all’eugenetica e poi al “razzismo qualitativo”. Nel ’33 dà consigli a Hitler su come colpire gli ebrei,
a patto che lo si faccia in segreto e in maniera selettiva. Forte del fatto che anche nel senso comune
sono abbondantemente diffusi i pregiudizi antisemiti, nel ’38 qualifica gli italiani “di razza ariana”
e vara i provvedimenti contro gli ebrei. Le leggi antisemite e le persecuzioni che ne conseguono
vengono vissute dall’opinione pubblica con indifferenza, dato il generale clima di supina
obbedienza. Anche da parte dello stesso mondo cattolico, nelle cui file si distinguono i “bianchi
ariani cattolici”, le reazioni sono fievoli. A contestarle ci prova solo una sparuta minoranza di
impavidi, mentre tra la popolazione cresce la tendenza a dichiarare la propria “arianità”.
Anche se l’antisemitismo fascista ha caratteristiche diverse da quello nazista, la sua matrice razzista
è chiara e indiscutibile. Le leggi contro gli ebrei arrecano danni rilevanti all’Italia, sia destinando
esseri umani ai lager, sia emarginando e spesso costringendo all’emigrazione validi studiosi,
scienziati, letterati, giuristi, economisti e persino dirigenti d’azienda, privando così il Paese del loro
talento.
Un’altra caratteristica del fascismo è costituita dalla sua ambizione imperialistica che lo spinge a
intraprendere imprese belliche le quali riducono l’Italia sul lastrico. Nell’enciclopedia italiana
redatta dallo stesso Mussolini con la collaborazione di Gentile, alla voce “Dottrina del fascismo” sta
scritto: “Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di
nobiltà ai popoli…. Il nostro postulato pregiudiziale è che la pace è estranea al fascismo”.
La prima traduzione pratica di questo postulato è rappresentata dall’impresa militare in Etiopia; la
seconda è costituita dall’appoggio dato dal regime alla rivolta di Franco in Spagna; la terza e ultima
è raffigurata dal “Patto d’acciaio” con la Germania, l’asse Roma-Berlino, e dalla conseguente
entrata in guerra alla metà del ’40.
Del resto, data la chiusura dei mercati internazionali e l’asfissia del mercato interno, solo una
politica di preparazione alla guerra, come viene intrapresa dopo il ‘34, può dare ossigeno al
capitalismo italiano. Fatto è che, al pari del nazismo, anche il fascismo italiano risolve ogni
problema ricorrendo alla politica aggressiva e di guerra.
Va peraltro riconosciuto che senza l’avvento del nazionalsocialismo di Hitler, il fascismo di
Mussolini non sarebbe mai diventato un movimento internazionale.
Il fascismo è dunque strutturalmente un movimento repressivo e antioperaio. Esso rappresenta il
dominio dei gruppi più aggressivi del capitalismo italiano e incarna la dittatura del capitale
finanziario. E’ infatti il grande capitale privato il beneficiario della politica di riarmo e dei frutti
delle vittorie militari. Lo è in termini di controllo dei mercati e della stessa forza lavoro attraverso
l’introduzione di nuove forme di sfruttamento capitalistico.
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Nonostante che il regime abbia attuato una compressione del tenore di vita dei lavoratori, abbia
comportato una pesante oppressione politica e culturale su tutta la società civile e anche una
sopraffazione ideologica attraverso i miti della violenza e della razza, esso ha goduto di un largo
consenso popolare. A costituire la sua base di massa non ha concorso solo la piccola borghesia, ma
gli stessi operai e contadini, cioè quegli strati sociali i cui interessi sono stati mortificati.
La tesi sostenuta da coloro che dalla sinistra sono stati accusati di revisionismo storico e secondo i
quali il regime avrebbe avuto il consenso della maggioranza degli italiani, non è poi del tutto
infondata. In effetti, esso ha goduto di un’adesione decisamente ampia le cui motivazioni sono
molteplici.
Intanto è da considerare che Mussolini ha potuto contare sull’alleanza di due soggetti decisivi nella
formazione della coscienza collettiva: la Chiesa cattolica e il ceto intellettuale.
Al Vaticano, il fascismo non solo appare come l’argine contro il “pericolo rosso”, ma rappresenta
l’interlocutore con cui ricomporre in maniera vantaggiosa quella “questione romana” che i
precedenti governi borghesi hanno lasciato senza soluzione. E in cambio della riparazione dei
“torti” che ritiene di aver subito dallo Stato liberal-borghese, la Chiesa assicura al fascismo
l’appoggio delle masse cattoliche.
L’adesione degli intellettuali è determinata da ragioni diverse. C’è chi considera il fascismo un
soggetto politico che promette ordine e pacificazione sociale e anche il ripristino della legalità nel
Paese; chi vede in esso una incarnazione del liberalismo moderno, chi il tentativo di forzare i limiti
borghesi della rivoluzione, chi interpreta il suo corporativismo e la sua “carta del lavoro” strumenti
per una rivincita del proletariato. Da certi intellettuali Mussolini viene addirittura considerato
l’erede di Robespierre.
Il consenso popolare è anche motivato dal fatto che il regime si presenta come il difensore
dell’efficienza e degli interessi collettivi e come l’artefice di una certa giustizia sociale. Dalla
maggioranza degli italiani, quella che non sta né di qua né di là, e che De Felice definisce “zona
grigia”, Mussolini viene identificato come il “salvatore” della patria. Il “duce” sa sfruttare bene
certe tendenze collettive, sa valorizzare l’elemento popolare, sa scegliere i tempi per compiere
scelte di ordine sociale che gli procurano la stima e la fiducia degli italiani.
Al fondo, però, c’è una motivazione storica. Il processo di sviluppo dello Stato liberale italiano, sin
dai tempi di Cavour, è caratterizzato da una cronica incapacità della borghesia italiana di farsi classe
dirigente per davvero. Alla debolezza delle èlite di governo, ha corrisposto un’immaturità delle
classi popolari le quali hanno sempre avuto bisogno di riporre le loro speranze in un “capo”.
Dopo che le opposizioni sono state liquidate, Mussolini mette in moto la fabbrica del consenso.
A metà degli anni ’30, oltre ai sindacati fascisti e alle associazioni professionali, esistono in Italia
20.000 circoli ricreativi del dopolavoro, migliaia di organizzazioni di reduci, di fasci femminili, di
sezioni delle massaie rurali, di gruppi universitari fascisti, di “balilla” per maschietti, di unità di
giovani italiane per le ragazze e di circoli di figli della lupa riservati ai più piccini. Tutte queste
organizzazioni hanno lo scopo di impedire la diffusione di qualsiasi espressione autonoma
d’identità e di aggregazione di classe.
Nel Mantovano, per citare la realtà lombarda con maggiore tradizione “rossa”, l’adesione dei
lavoratori agricoli al sindacato fascista passa dalle 35.026 unità del 1930 alle 71.201 nel 1939. Nel
‘36, tra coltivatori diretti, affittuari, mezzadri, coloni, salariati e avventizi, gli occupati in agricoltura
ammontano a 103.316; secondo il Segretariato fascista, tra gli addetti all’industria, risulta iscritto al
sindacato di regime l’88% dei maschi e il 43% delle donne.
Il regime raggiunge il massimo del consenso interno con la guerra di Etiopia. E’ solo a seguito delle
grandi scelte, cioè l’alleanza col nazismo, l’intervento militare in Spagna a sostegno del franchismo
e al varo delle leggi razziali che il consenso incomincia a declinare. Anche se nel ’38, con il suo
intervento alla conferenza di Monaco, Mussolini viene considerato da molti come l’uomo della
pace, registrando uno straordinario picco di popolarità, l’affezione delle masse verso il regime entra
in crisi. Taluni storici datano tra il ’29 e il ’34 il periodo di maggior gloria del regime, altri invece
ritengono che, più che nel regime, il centro del sistema di consenso degli italiani sia rappresentato
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dallo stesso Mussolini. In un Paese in cui il carattere è merce rara e dove il conformismo e
l’opportunismo sono diffusissimi, non può meravigliare che a prevalere sia l’istintiva simpatia per il
“dritto”. Basti considerare che nel giugno del ’40 gli italiani che sono favorevoli all’entrata in una
guerra, la quale viene considerata vittoriosa in partenza, rappresentano la maggioranza della
popolazione.
A destare meraviglia è semmai l’atteggiamento di passività dei sostenitori del regime allorquando,
nel luglio del ’43, il re fa arrestare e incarcerare il “duce”. E’ stato calcolato che in quel momento
gli italiani che portano in tasca una tessera fascista o parafascista ammontano a 23-24 milioni. La
loro reazione alle disposizioni del re è nulla, si dimostrano cioè un esercito che si scioglie come
neve al sole.
Difatti, come sostiene ancora De Felice, il vero e definitivo crollo del regime avviene all’inizio del
’43, quando i bombardamenti aerei alleati colpiscono duramente la popolazione. Già tempo prima
comunque sull’opinione pubblica aveva inciso la delusione per la mancata prosperità che avrebbe
dovuto conseguire all’espansione imperiale del regime e che era stata promessa con tanta sicumera.
La presa di coscienza del fallimento e la traduzione del consenso in odio verso il sistema, avviene
quando ci si rende conto che la guerra non può assolutamente essere vinta. I disastri militari, i disagi
economici, la penuria di alimenti e, non ultimo, la corruzione del regime scatenano malcontento e
rabbia e portano a una svolta nella coscienza nazionale.
Le stesse forze economiche, che anni prima avevano sostenuto e foraggiato il fascismo, divenute
sue vittime si smarcano. A causa della impossibilità di compenetrazione fra i rispettivi regimi
autarchici, il “patto d’acciaio” con la Germania provoca una serie di competizioni e di dissidi. La
saldatura politica con i tedeschi toglie ai gruppi capitalistici italiani ogni possibilità di manovra sul
piano internazionale. La guerra contro la Francia e l’Inghilterra suscita il dissenso di alcuni gruppi
conservatori i quali prendono le distanze da Mussolini. L’entrata nel conflitto mondiale richiede poi
un ritmo produttivo che l’economia italiana non è nelle condizioni di garantire. Queste
contraddizioni interne al blocco conservatore che sorregge il fascismo diventano acute al punto da
non essere più governate e il 25 luglio del ’43 esplodono nel cuore stesso del regime: il Gran
Consiglio del fascismo mette in minoranza il “duce” e lo fa decadere. E’ il fallimento della sua
politica di guerra e della sua politica economica, del corporativismo e dell’autarchia.
Non solo il fascismo ha imposto il sacrificio della libertà politica e individuale, ma ha anche
operato contro la sicurezza economica del Paese e contro il benessere materiale degli italiani.
Mussolini si era proposto di conquistare per l’Italia “un posto al sole”, di unificare Stato e partito, di
forgiare “l’uomo nuovo fascista”; nei fatti ha distrutto il Paese e il suo ordinamento e ha fatto fare
agli uomini un percorso a ritroso nella storia.
5.7 – I comunisti di fronte al fascismo
La sinistra dimostra una pressoché totale incomprensione della natura del fascismo.
La frattura che si determina nel movimento operaio negli anni ‘20 viene vissuta dai suoi dirigenti e
militanti in maniera così sofferta da far perdere di vista, sia agli aderenti alla 2a Internazionale sia ai
comunisti, il comune pericolo che li minaccia.
Il fascismo trionfa proprio anche a causa della loro divisione e della loro incomprensione del
fenomeno.
Quando il movimento sovversivo di Mussolini irrompe sulla scena politica, la sinistra lo interpreta
come segno dell’entrata in agonia del sistema capitalistico e come la dimostrazione che esso non è
più in grado di garantire una continuità alle democrazie parlamentari e dunque la libertà ai cittadini.
Da essa non viene affatto colta la sua natura antioperaia e viene decisamente sottovalutato il suo
carattere autoritario e violento. Questo perché non si procede a un’analisi rigorosa e puntuale del
fenomeno; e ciò porta a una sua sottovalutazione che perdurerà colpevolmente negli anni.
Per la verità c’è qualche uomo politico che ne coglie i tratti di originalità e di pericolosità,
denunciandolo come principale nemico non del solo movimento operaio, ma dell’intera comunità.
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Tra questi è da ricordare Giacomo Matteotti che viene assassinato dopo la sua denuncia in
parlamento e il cui avvertimento cade nell’oblio.
Per la generalità degli esponenti della sinistra il fascismo è destinato a durare poco e agli occhi dei
più appare una parentesi, una meteora politica.
Di fronte al suo avvento al potere Bordiga sostiene che la differenza nel suo modo di governare
rispetto a quello della borghesia è cosa di cui le classi lavoratrici non devono preoccuparsi.
Allorquando lo stesso partito s’impegna in una riflessione al riguardo, si tende ad evidenziare
l’aspetto “bonapartista” del mussolinismo, mentre si lascia in ombra il ruolo giocato dalla borghesia
nel suo processo di affermazione e di crescita.
Lo stesso Comintern oscilla tra un’interpretazione che attribuisce a questo movimento il carattere di
una “dittatura terroristica” voluta dagli “elementi più reazionari del capitale finanziario” e
l’enfatizzazione del suo carattere “piccolo-borghese”.
Nella linea assunta dal VII congresso dell’Internazionale comunista, a distanza cioè di ben quasi tre
lustri dall’ascesa al potere di Mussolini e dopo due anni che Hitler domina la Germania, il fascismo
viene considerato il punto di approdo necessario e generale della logica capitalistica giunta alla sua
fase estrema. In tale interpretazione, l’aspetto che di fatto domina l’epoca, e precisamente la
divaricazione tra un settore del capitalismo mondiale, soprattutto quello americano, che risponde
alla crisi del ‘29 con una propria riforma interna, e un settore più arretrato, che invece ricorre alla
più facile e più debole soluzione dell’uso della violenza, resta del tutto estromesso dal quadro
d’analisi.
Non viene compreso che il fascismo rappresenta la soluzione reazionaria che consente alla società
capitalistica europea di uscire dalla crisi che la investe, una crisi che è insieme economica, politica e
ideale. Non viene colta la portata di questa soluzione la quale rappresenta la rigenerazione del
sistema. Si tarda a comprendere e a rispondere alla minaccia al movimento operaio che è insita in
questa soluzione, e si trascura l’importanza di ricucire il rapporto con le forze socialdemocratiche e
radicali. Queste incomprensioni e inadempienze si rivelano un imperdonabile errore.
Tra i pochi dirigenti che non condividono questo atteggiamento di superficialità e di
sottovalutazione c’è Trotzkij il quale, nel ’31-32 richiamandosi a Gramsci, sottolinea le differenze
fondamentali tra fascismo e democrazia borghese e tra fascismo e socialdemocrazia, e invita a
perseguire una unità antifascista. La sua posizione non viene però recepita dalla maggioranza del
movimento. E neppure viene preso in considerazione Radek il quale, già nel ’23, aveva sostenuto
che il fascismo non rappresenta affatto una cricca di ufficiali, ma un movimento popolare ampio,
anche se pieno di contraddizioni.
Tra i dirigenti comunisti italiani, l’unico ad avvertire il fascismo come una minaccia alla
democrazia è Antonio Gramsci. Non va dimenticato che nei primi momenti lui stesso manifesta
qualche esitazione sulla natura di questo movimento. Infatti, all’inizio, lo considera come un
tentativo di fermare la marcia della rivoluzione proletaria e si illude che presto verrà investito da
una crisi di natura scissionistica. Qualche tempo dopo, però, ne comprende la pericolosità e avverte
che esso rappresenta una nuova espressione del dominio capitalistico e che dietro la mobilitazione
demagogica della piccola borghesia si nasconde il proposito di integrare nel sistema le masse
popolari. A quel punto manifesta apertamente il suo dissenso nei confronti della linea assunta dal
partito e contesta in particolare sia le previsioni sulla sua durata sia le misure indicate per
combatterlo.
Nelle “tesi di Lione” egli sottolinea il suo carattere di movimento sociale, aspetto da tutti
sottovalutato, e denuncia l’impotenza del partito stesso nell’arginare la sua avanzata, che peraltro è
unanimemente ritenuta improbabile. Nel suo intervento alla commissione politica del congresso
così si esprime: “Quando il fascismo sorse e si sviluppò in Italia, come bisognava considerarlo?
Era esso soltanto un organo di combattimento della borghesia, oppure era anche un movimento
sociale? La estrema sinistra che allora dirigeva il partito non lo considerò che sotto il primo
aspetto e questo errore ebbe come conseguenza che non si riuscì ad arginare la avanzata del
fascismo come forse sarebbe stato possibile fare. Nessuna azione politica venne compiuta per
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impedire l’avvento al potere del fascismo. La Centrale di allora commise l’errore di pensare che la
situazione del 1921-22 potesse protrarsi e consolidarsi, e che non fosse né necessario né possibile
l’avvento al potere di una dittatura militare”.
Anni dopo scriverà: “Noi siamo tra i pochi che abbiamo preso sul serio il fascismo, anche quando
il fascismo sembrava fosse soltanto una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano
solo i luoghi comuni sulla ‘psicosi di guerra’, quando tutti i partiti cercavano di addormentare la
popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima
durata”.
La riflessione critica porta Gramsci ad affermare che la vittoria del fascismo in Italia è il prodotto
non solo degli errori, delle debolezze, delle valutazioni sbagliate del movimento operaio, e insieme
la risposta che le classi dominanti danno a una situazione di crisi per imporre una dittatura
stabilizzante degli interessi del capitale. Essa è anche il prodotto della stessa storia d’Italia, cioè del
modo in cui è avvenuto il processo di unificazione nazionale.
A suo giudizio, la borghesia italiana trova nel fascismo, oltre che uno strumento di repressione
armata, anche la propria organica unificazione. Sostiene poi che oltre a essere una forma di reazione
antioperaia, esso è anche uno strumento attraverso cui si compie il processo di ammodernamento
dell’apparato produttivo italiano, senza che ciò provochi sconvolgimenti sociali di proporzioni
catastrofiche; e che dunque esso ha una funzione di difesa dei ceti medi e di ristrutturazione
capitalistica e finanziaria. In questo senso il fascismo rappresenta una “rivoluzione passiva” o
“rivoluzione-restaurazione”.
Di diverso orientamento, almeno prima degli anni ’30, è Palmiro Togliatti il quale in un intervento
al VI congresso dell’Internazionale comunista, nel ’28, così si pronuncia: “Nel 1921, nel 1922, nel
1923, si parlava sempre del fascismo come di una forma particolare della offensiva del capitalismo
contro la classe operaia in un particolare momento e in condizioni determinate. Oggi il problema
viene da noi posto sul terreno della trasformazione reazionaria delle istituzioni politiche della
borghesia e dello Stato borghese che si compie parallelamente allo sviluppo delle contraddizioni
oggettive del mondo capitalistico… In modo molto generale si può dire che il fascismo è una forma
di reazione la quale si sviluppa soltanto in condizioni speciali e principalmente quando la grande
borghesia industriale essendo debole ha bisogno di fare ricorso a forme particolari di violenza e di
compressione politica sopra le masse per mantenere e consolidare il proprio dominio di classe…
Noi affermiamo che la instaurazione del fascismo e la trasformazione reazionaria completa che
esso fa subire alla società borghese non aprono la prospettiva di una seconda rivoluzione
democratico-borghese, ma ci dimostrano che la rivoluzione proletaria è matura, che noi stiamo
attraversando il periodo di preparazione politica della rivoluzione proletaria e non il periodo di
preparazione di una rivoluzione democratico-borghese”.
Anche Togliatti dunque non avverte che il fascismo è destinato a durare. Egli riconsidererà
criticamente queste sue posizioni più tardi, nel ’35, allorquando a Mosca terra le sue famose
“Lezioni sul fascismo” e definirà il Partito nazionale fascista il partito di tipo nuovo della borghesia
italiana. E’ appunto solo dopo un quindicennio che egli approfondisce l’analisi del fenomeno e fa
propri i suggerimenti critici di Gramsci. In queste “lezioni” sostiene che “il corporativismo in
quanto collaborazione di classe non è affatto un’invenzione del fascismo. Da un lato esso deriva
dalle correnti di estrema destra del socialismo, correnti piccolo-borghesi, antimarxiste, che erano
sorte nel seno della 2° Internazionale. D’altra parte noi lo troviamo nella destra del movimento
socialista francese, il quale riproduceva alcuni elementi di proudhonismo. Un punto di contatto del
corporativismo in quanto collaborazione di classe, si trova nell’ideologia sociale dei cattolici”. E
poi prosegue: “La politica del fascismo non diminuisce, ma invece acutizza i contrasti di classe…
Mussolini ebbe a dire, in un discorso agli operai di Milano, che il sistema capitalista deve essere
superato… e tale affermazione la si trova anche nella mozione approvata il 13 dicembre (‘34) dal
Consiglio superiore delle corporazioni...
Nel discorso fatto all’assemblea annuale del regime nel 1934 Mussolini ebbe a dire: ‘L’economia
disciplinata, potenziata, armonizzata, in vista soprattutto di una utilità collettiva dei produttori
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stessi, imprenditori tecnici, operai, attraverso le corporazioni create dallo Stato, il quale
rappresenta il tutto e cioè anche l’altra faccia del fenomeno: il mondo del consumo’. Egli prospetta
cioè un’economia organizzata la quale si stacca dal capitalismo…Il fascismo si è trovato di fronte
a una gravissima crisi economica… e ha fatto una politica la quale ha favorito la concentrazione
del capitale, una politica la quale ha portato al prevalere del capitale finanziario in tutta
l’economia del Paese…
In nessun altro Paese lo Stato è intervenuto come in Italia per far diminuire i salari nella misura e
coi mezzi che voi ben conoscete…L’imperialismo italiano: è fra i più deboli perché ci mancano le
materie prime, ecc., ma dal punto di vista dell’organizzazione, della struttura esso è, senza dubbio,
uno dei più largamente sviluppati”.
Togliatti si dice convinto che il fascismo è il segno e insieme la causa di una corruzione, di una
degenerazione profonda della società italiana nel suo insieme, un periodo di imbarbarimento che
non si supera soltanto con l’azione politica, poiché ha radici lontane e resistenti nel tessuto sociale,
ma va combattuto con gli strumenti della cultura. Rispetto però alla linea politica da seguire, le sue
divergenze con Gramsci permangono. Su “Stato operaio”, espressione del suo gruppo, infatti scrive:
“Noi escludiamo la prospettiva di una cosiddetta ‘fase transitoria’”.
Nel corso del ventennio a condurre una seria riflessione sul fascismo e sul nazismo sono compagni
singoli, non legati o comunque svincolati dall’Internazionale comunista. Si tratta soprattutto di
soggetti isolarti e tagliati fuori dal movimento. Il caso di Gramsci è tra i più emblematici, ma non è
certo il solo: a leggere il fenomeno in maniera non ortodossa sono anche intellettuali austromarxisti
e della Scuola di Francoforte del calibro di Horcheimer, Adorno, Marcuse, Fromm e Benjamin.
La superficialità analitica con cui gli organismi dirigenti della sinistra a livello internazionale hanno
affrontato l’argomento, ha causato molti danni al movimento operaio e non solo a questo. Indicativo
di tale superficialità è che per decenni non si è riflettuto su uno degli aspetti politicamente più
inquietanti di questa vicenda, e cioè che il fondatore del fascismo è da considerarsi una costola del
massimalismo della sinistra.
Se milioni di italiani per lungo tempo dopo la Liberazione hanno mantenuto una rappresentazione
edulcorata e per certi aspetti benevola del fascismo, considerandolo certo una dittatura, ma anche un
sistema di governo che avrebbe il merito di aver garantito ordine e assicurato un prestigio nel
mondo all’Italia, questo è dovuto anche alle lacune che la sinistra ha mostrato di avere sul piano
analitico e storiografico.
5.8 – La crisi della repubblica di Weimar e l’avvento al potere dei nazionalsocialisti
Istituita nel ’19, la Repubblica di Weimar è governata dal ‘24 al ‘29 da coalizioni di centro-sinistra,
nei quali il ruolo dei socialdemocratici ha un peso notevole. Alla fine degli anni ’20 i contadini, i
piccoli artigiani e i ceti intermedi, spaventati anche dai metodi violenti imposti da Stalin in Urss,
incominciano a trasferire i loro voti dall’area democratica e socialdemocratica allo schieramento
conservatore e reazionario. Quando la crisi mondiale investe il già precario assetto economico
tedesco e il governo di centro-destra si dimostra incapace di arrestare gli atti di violenza dei
nazional-socialisti di Hitler, il tacito patto tra Stato, imprenditori e sindacati salta. Dal ‘30 al ‘33 il
Paese è governato da coalizioni di centro-destra. A quel punto, però, ridotto a un’assise vociante di
ben ventinove partiti, il Reichstag perde credibilità e consenso e la repubblica muore e a prendere il
potere sono i nazionalsocialisti.
Ci sono storici che interpretano l’ascesa del nazismo come una reazione alla crisi economica del ’29
ed escludono gli effetti provocati dalle condizioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles.
Altri, invece, fanno risalire l’origine del totalitarismo di destra a prima della prima guerra mondiale,
mentre altri ancora considerano il successo nazista una risposta alla minaccia del bolscevismo. A
mio modesto avviso, così come è valso per la nascita del fascismo in Italia, anche nella ricerca delle
ragioni che hanno consentito l’affermazione del nazismo in Germania, è il caso di rifuggire dagli
stereotipi e di prendere in considerazione una molteplicità dei fattori.
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Non va intanto trascurato il fatto che già a fine Ottocento-inizio Novecento, intellettuali come Max
Weber formulano prospettive teorico-politiche che favoriscono il formarsi di una cultura che
concorre alla formazione dell’ideologia nazista. Il sociologo tedesco, infatti, elabora un sistema
teorico delle nuove tendenze elitarie prodotte dall’aprirsi del nuovo secolo e dalla crescita delle
emergenti forme dell’economia di monopolio e di capitalismo di stato. Auspica una “democrazia
dei capi” e parla con sottinteso disprezzo dello “Stato di massa”, della “democrazia puramente
plebiscitaria”, detesta le “democrazie elettorali” e si dice convinto che “non è la massa
politicamente passiva che genera il capo, ma è il capo politico che si procura il seguito e conquista
la massa con la demagogia”.
E’ da considerare poi che a favorire l’ascesa al potere, non solo in Germania ma anche in Giappone,
delle forze politiche del militarismo, quelle appunto che porteranno poi alla costituzione dell’Asse,
è la crisi economico-finanziaria del ‘29. A giocare un ruolo decisivo nel favorire la presa del potere
da parte dei nazionalsocialisti è poi l’incapacità dei governi di Weimar di offrire uno sbocco alla
crisi. Difatti, questi governi compiono scelte impopolari e sbagliate come quella di scaricare dalle
finanze dello Stato alle finanze comunali, l’assistenza ai disoccupati e ai bisognosi, categorie sociali
queste che sono in spaventoso aumento. Simili misure provocano un diffuso malcontento e una
generale disaffezione che favoriscono la demagogia hitleriana. Il sussidio erogato dai Comuni è
soggetto all’obbligo del rimborso e produce una massa di indebitati a vita, contribuendo così a
creare un senso di estraneità nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Si tratta di misure che
frantumano quello “Stato sociale” su cui sia la socialdemocrazia che i sindacati hanno puntato con
l’obiettivo di dare senso di cittadinanza alla classe operaia e garantire la fedeltà al sistema.
Nelle elezioni del 1930 per il rinnovo del Reichstag, i nazisti ottengono 107 seggi; nel ’28 ne
avevano conquistati solo 12. I loro voti passano da 800.000 a 6 milioni e mezzo. La rappresentanza
comunista sale invece appena da 54 a 77 seggi.
Nel luglio ’32, la rappresentanza nazista viene più che raddoppiata raggiungendo i 230 seggi.
Succede così che il 30 gennaio ’33, in modo legale, Hitler diventa cancelliere della repubblica
tedesca. Salito al potere indice nuove elezioni e il suo partito ottiene il 44% dei voti che aggiunti a
quelli degli alleati tedesco-nazionali, gli consentono di contare sul 52% dell’elettorato.
Anche il voto comunista, nei primi anni ’30, cresce costantemente, ma le grandi masse dei ceti
intermedi che vedono nel comunismo la propria condanna a morte, sono alla disperata ricerca di
qualcuno che le metta al riparo dal rischio che anche in Germania si affermi il dominio bolscevico.
Avviene così che elementi conservatori, nazionalisti e antirepubblicani, proprietari terrieri, Junker,
magnati siderurgici della Renania e altri industriali ancora, maturano la convinzione che Hitler può
rappresentare l’uomo che li difende da un simile pericolo.
Hitler con la sua propaganda infiamma i sentimenti nazionalisti e conservatori e nobilita i
risentimenti contro i “rossi” e i semiti. Egli considera il trattato di Versailles un’umiliazione
nazionale, attacca la democrazia di Weimar come fonte di lotta di classe, di divisioni, di debolezza,
di vanità parolaia; invoca la “vera” democrazia sotto forma di un vasto e vitale movimento di
popolo, o Volk, guidato da un capo che sia un uomo d’azione. Egli asserisce di battersi per il vero
socialismo e individua nell’antisemitismo e nell’antibolscevismo il minimo comune denominatore
per fare appello a tutte le parti e a tutte le classi.
Adolf Hitler nasce in Austria nel 1889 e a 16 anni abbandona la scuola mentre a 19 si reca nella
grande metropoli viennese dove studia belle arti senza peraltro conseguire il diploma. Con lo
scoppio della guerra si arruola volontario, poiché, così come è accaduto a Mussolini, combattere al
fronte rappresenta per lui un’esperienza eccitante, nobile e liberatoria. Terminato il conflitto
mondiale aderisce al Partito tedesco dei lavoratori (poi Partito nazional-socialista tedesco dei
lavoratori) di cui nel ‘21 diviene il capo. Al partito affianca un corpo paramilitare e, nel ’23, con le
“camice brune” organizza il putsch della birreria, che però viene represso e lui subisce una
condanna a 5 anni di prigione. Poiché, però, la repubblica di Weimar tratta i suoi nemici con molta
mitezza, egli viene liberato dopo meno di un anno. In carcere scrive il Mein Kampf che rappresenta
il suo programma politico e nei suoi discorsi isterici, imitando l’impresa mussoliniana, invita i suoi
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seguaci a tenersi pronti per marciare su Berlino.
A seguito della grande depressione provocata dalla crisi del ’29, la Germania subisce un vero e
proprio collasso economico. Mentre le forze che sono al governo del Paese, impotenti di fronte alla
crisi, accusano una caduta di credibilità, Hitler, in nome del “vero socialismo dell’uomo comune”,
diventa per larga parte del popolo tedesco il possibile “salvatore della patria”.
Quando il nazismo conquista il potere si verifica una repentino cambiamento nella mentalità dei
tedeschi. Investito da una crisi di lucidità, il mondo della cultura si dimostra incapace di resistere
all’avanzata del pensiero nazista.
Nel ‘33 i disoccupati costituiscono la grande maggioranza degli assistiti: si tratta di milioni di
persone completamente in balia del sistema comunale di assistenza alla povertà. Divenuto
cancelliere, Hitler vara un vasto programma di riarmo che in breve tempo, richiamandosi a una
legge del ‘24 adottata dal governo di Weimar, la quale istituiva l’assistenza ai poveri e fissava per
legge il lavoro coatto, assorbe gran parte dei disoccupati. E lo fa militarizzando il lavoro e
istituendo i lager quale componente essenziale della politica del lavoro. Egli può così vantare di
aver riassorbito la disoccupazione nel breve giro di due anni e di aver dato lavoro a circa otto
milioni di disoccupati. E’ da ricordare a questo riguardo che la teoria economica del nazismo nasce
anche proprio come critica all’indifferenza sociale del liberalismo. I suoi progetti stanno, però,
comodamente entro l’involucro del pensiero liberista; a caratterizzarli è la conversione di tutto il
sistema produttivo in un’economia di guerra, o “economia militare dinamica”, che comporta
un’inevitabile pianificazione, o meglio una programmazione centralizzata della produzione. Il
rapporto tra Stato e imprese risulta perciò strettissimo e il processo di razionalizzazione riguarda
non solo la produzione, ma anche i suoi sbocchi.
Al piano riguardante un nuovo ordine capitalistico europeo, che il regime nazista porta avanti, la
grande industria e i gruppi finanziari tedeschi si dimostrano fortemente interessati. Facendo uso di
tutte le possibili risorse della produzione, questo piano porta a compimento un immenso programma
di armamenti senza che il tenore di vita della popolazione venga intaccato. Mai nella storia
dell’industrializzazione si è registrato che fossero messe in pratica così rapidamente le nuove
invenzioni e che venissero impiegate percentuali così elevate di reddito nazionale per gli
investimenti. Il nazismo persegue l’obiettivo di un’anarchia assoluta: i chimici tedeschi creano la
gomma artificiale, materie plastiche, tessuti sintetici e molti altri surrogati, permettendo così al
Paese di fare a meno delle materie prime importate dall’estero.
Lo Stato nazista non ingloba dunque i monopoli, ma li aggrega e li protegge al fine di realizzare una
politica economica funzionale ai suoi progetti di conquista. Nel sistema capitalista, pertanto, il
nazismo non introduce alcuna trasformazione sostanziale, salvo organizzare l’economia in base a
principi corporativi. Nel suo sistema economico sussistono gli imperi industriali dei Thyssen, dei
Flick, dei Mannesmann. E quando ricorre alla politica di piano programmando la produzione copia
dall’Urss.
Una delle sue particolarità è quella di eliminare le obiezioni dei capitalisti alla piena occupazione.
Mentre lascia intatta la sfera imprenditoriale, trasforma profondamente il mondo del lavoro, prima
distruggendo i sindacati e poi controllando direttamente l’impiego della forza lavoro.
L’intervento del partito nell’economia si realizza attraverso il cosiddetto “complesso Goering” che
ha la funzione di offrire uno spazio nell’industria agli uomini del partito.
Sul piano finanziario i nazisti dispongono della Dresdner Bank che è la più importante impresa di
credito delle SS e la cui funzione è quella di attivare prestiti agli industriali che risultano
strettamente legati al regime. Documenti e testimonianze resi pubblici recentemente svelano che
alle industrie amiche sono stati accordati prestiti per oltre 47 milioni di marchi, mentre per favorire
singoli progetti com’è stato il caso del Reichsfuhrer, che fa capo alle SS di Heinrich Himmler, sono
stati stanziati dalla stessa banca altri 17 milioni di marchi. A partire dal ‘37, lo stesso istituto di
credito contribuisce attivamente alla spogliazione di tutti i conti bancari degli ebrei e al
finanziamento dei progetti dell’industria bellica. Esso, inoltre, intrattiene relazioni commerciali con
le imprese di costruzione che edificano i campi di sterminio.
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Oltre che per la solidità delle sue relazioni economico-finanziarie, il nazismo è reso forte anche
dalla sua ideologia che risulta più potente e meglio strutturata di quella del fascismo italiano. Il
regime tedesco utilizza elementi di dottrine diverse come “tecniche di dominio” e incoraggia
movimenti pagani anticristiani che venerano divinità germaniche; fabbrica il pensiero, manipola le
opinioni, riscrive la storia.
Una delle tesi di Hitler è che il parlamentarismo è la rovina della Germania e conseguentemente
accentra nelle sue mani il potere proclamando che “la Costituzione sono io”. E’ su questa onda che
il regime promuove il culto del fuhrer.
Sulla base del principio secondo cui “il marxismo rappresenta la grande azienda degli ebrei per la
conquista del mondo”, egli elimina rapidamente tutti coloro che hanno preso sul serio la
componente “socialista” del partito e del regime e scatena la repressione contro chiunque osi
contrastare il suo dominio. E lo fa anzitutto distruggendo l’autonomia di pensiero: “Dobbiamo
diffidare dell’intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti”, proclama. Il
capo dei nazisti odia non solo i comunisti e i semiti, ma anche l’aristocrazia, il capitalismo, il
cosmopolitismo e soprattutto l’”ibridazione”. Egli impegna i tedeschi nell’opera di distruzione dei
valori e delle istituzioni della civiltà occidentale nati nell’era delle rivoluzioni borghesi.
Il suo Mein Kampf fonda su tre principi: sul darwinismo sociale, cioè sulla lotta eterna tra forti e
deboli, che produce una selezione naturale per la conquista dello spazio vitale; sul principio
etnocentrico, secondo cui al centro dell’esistenza c’è necessariamente una data razza, un dato
popolo; sul principio della personalità, secondo il quale l’individuo superiore guida la massa stupida
e incapace.
Gran sacerdote di questa “scienza razziale” è Alfred Rosemberg il quale classifica gli ebrei come
non ariani e include fra questa “razza” chiunque abbia un antenato ebreo.
Nel ’35 il regime vara le leggi di Norimberga che privano gli ebrei di tutti i diritti di cittadinanza e
vietano i matrimoni misti tra giudei e non giudei. Due anni dopo ha inizio la persecuzione. I lager
che all’inizio erano destinati a “case di lavoro” (Arbeitshauser) per i detenuti politici, incominciano
a essere popolati anche dagli ebrei e nel ’41 ospitano anche 110.000 tedeschi non ebrei classificati
asociali. Oltre a perseguitare gli ebrei, il regime sterilizza ventimila persone dalla pelle nera e per i
malati di mente ricorre all’eutanasia.
Almeno 800 mila bambini afflitti da patologie ereditarie e da handicap vengono eliminati.
E’ da notare che la politica di selezione della razza non nasce esclusivamente sull’onda
dell’antisemitismo, cioè su base etnica, ma viene ideata anche per affrontare la questione sociale,
cioè per distruggere gli emarginati, le persone considerate “improduttive”.
Quando i nazisti, nel ’41, invadono l’Europa orientale incominciano a mandare gli ebrei a morire
nelle camere a gas con metodiche scientifiche. Alla fine del conflitto gli esseri umani asfissiati,
cremati o sottoposti a esperimenti medico-scientifici ammonteranno a sei milioni.
E’ da precisare a riguardo di questo genocidio, che se i carnefici nazisti non avessero potuto contare
sulla collaborazione attiva di gran parte del popolo tedesco, l’Olocausto non sarebbe stato possibile.
E’ stato calcolato che almeno otto milioni di persone, tra cui soldati, poliziotti e guardie carcerarie,
sono state fisicamente coinvolte nello sterminio, che mezzo milione di civili hanno preso parte
direttamente alle esecuzioni e che più di trecentocinquantamila persone hanno lavorato stabilmente
negli oltre dodicimila lager di vario tipo. Si è anche stimato che non meno di cinquanta milioni di
tedeschi erano a conoscenza degli orrori dei vari Auschwiz, Mathausen, Buchenwald, Dachau, ecc..
Una tale complicità può essere spiegata col fatto che per almeno un secolo nel codice della cultura
tedesca, da parte sia del potere politico che della Chiesa, delle scuole e persino delle famiglie, è
stato instillato un feroce antisemitismo. I pregiudizi antigiudaici vantano infatti un’antica diffusione
sin dai tempi del diffondersi in Europa del cattolicesimo e alla fine del 19° secolo essi si sono
alimentati delle teorie razziste. Non meraviglia perciò che in gran parte degli ambienti militari
nazisti trovi diffusione la convinzione che gli ebrei sono ladri, esseri sudici e maligni, e che pertanto
il trattamento loro riservato dal regime hitleriano è da ritenersi giustificato. Prova ne è che nessun
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soldato o cittadino del Reich è mai stato fucilato, imprigionato o punito per essersi rifiutato di
uccidere un ebreo.
Sulla base di studi svolti in tempi recenti, la decisione di procedere al genocidio incontra nel popolo
tedesco, anche a distanza di decenni, uno stupefacente livello di condivisione. Chi dunque giustifica
l’accaduto, sostenendo che pochi o nessuno sapeva cosa succedesse veramente nei campi di
sterminio, è da ritenersi in mala fede. Nessuno del resto può smentire che le stesse campagne
naziste degli anni ’30 contro gli zingari, gli omosessuali, gli handicappati, oltre che contro gli ebrei,
siano state accolte dall’opinione pubblica tedesca senza che si verificasse una qualche significativa
resistenza.
E pure a riguardo della politica di aggressione militare e di invasione di altri Paesi è da registrare
una vera e propria complicità tra regime e popolazione. Le guerre di espansione hitleriane si
propongono in termini chiari e inequivocabili l’obiettivo non solo di espropriare e rapinare in
maniera sistematica le comunità ebraiche di tutti i Paesi invasi dalla Wermacht (si stima che il
valore delle proprietà ebraiche finite nelle casse di guerra sia oscillato fra i 15 e 20 miliardi di
marchi tedeschi dell’epoca), ma di saccheggiare risorse e sottoporre in schiavitù le popolazioni di
vaste regioni dell’Europa. Non è un caso che tra le priorità della campagna di Russia, per limitarci a
un esempio, Hitler indichi la presa di Baku proprio perchè nel sottosuolo di quella regione esiste
petrolio in abbondanza, risorsa indispensabile a far muovere la macchina da guerra nazista.
Come ha osservato Ulrich Herbert, “la maggioranza della popolazione tedesca non si sentiva
minimamente minacciata dalla repressione della dittatura nazista che rivolgeva all’esterno”.
Difatti, dei sei milioni di ebrei sterminati, solo 150 mila sono tedeschi.
Soprattutto, però, gioca il fatto che la maggioranza degli operai tedeschi non è contraria a essere la
nazione dominante, anzi. Il collante principale del sistema nazista non è quindi soltanto l’ideologia
e il carisma seduttore del fuhrer, ma è anche e soprattutto la condizione di privilegio che deriva
dall’appartenere a uno Stato imperialista e invasore. L’ondata di misure tese a garantire uno status
sociale soddisfacente, l’illusione di realizzare una società senza classi, la distribuzione di pingui
assegni familiari, la concessione di mutui a tasso zero, l’attuazione di generose esenzioni fiscali,
fanno sì che l’adesione popolare al regime sia pressoché totale e che solamente i “diversi” e i
derelitti ne risultino esclusi. Già nel ’35, mentre da un lato Hitler procede alla segregazione e
all’annientamento dei più poveri, dei disoccupati di lunga durata, di coloro che hanno commesso
piccoli delitti contro il patrimonio, di chi è portatore di malattie considerate ereditarie e di chi è
invalido; dall’altro, con abile mossa, emette un decreto con il quale vengono cancellati tutti i debiti
degli assistiti nei confronti dei Comuni. Questo fa sì che la maggioranza del popolo tedesco chiuda
gli occhi sui processi di selezione razziale e di selezione sociale che vengono innescati e proprio in
forza dei quali possono beneficiare dei privilegi concessi.
Durante il conflitto mondiale, il regime abolisce ogni tassa per tutti i lavoratori a reddito fisso ed
esenta fino alla fine le donne dallo sforzo di guerra. All’indomani della sconfitta di Stalingrado,
nonostante le insorgenti difficoltà, i tedeschi si vedono aumentare le rendite d’anzianità, mentre ai
pensionati viene estesa la cassa malattia.
In sostanza, il regime nazionalsocialista si dimostra attento e impegnato a mantenere il consenso
della popolazione tedesca attraverso una capillare rete assistenziale e di servizi.
E’ proprio questo patto scellerato tra Hitler e il popolo tedesco che determina il corrompimento
della morale collettiva e porta a giustificare l’Olocausto.
Che il nazismo persegua il genocidio, faccia ricomparire in Europa la tortura, discrimini e sopprima
i disabili, releghi le donne al focolare domestico e ostacoli il loro accesso al lavoro nelle fabbriche
fin che la situazione economica del Paese si fa disastrosa, sono problemi che alla coscienza dei
tedeschi appaiono di secondo ordine. Che la radicalizzazione competitiva che sta alla base del
sistema faccia prevalere i peggiori e mortifichi i cittadini onesti e i virtuosi; che mentre si
incarcerano gli omosessuali, ritenuti portatori di patologia organica, Hitler coltivi rapporti carnali
con un ballerino francese, non provoca affatto alcuno scandalo. Quel che importa è che la Germania
domini il mondo intero e che il Reich, come profetizza il suo fuhrer, duri mille anni assicurando a
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ogni tedesco un avvenire di privilegio e di gloria. Goebbels, d’altronde, richiamandosi a Carlo
Magno, si propone di cancellare le premesse e le conseguenze della rivoluzione francese, cioè il
perseguimento dei valori della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza, e prospetta la Germania
come il nucleo e la garanzia di un futuro nuovo ordine europeo.
Per la verità, non tutti i tedeschi si sono lasciati plagiare dalle follie hitleriane. Anche in Germania
ci sono state testimonianze di resistenza attiva al regime. Il proletariato, ad esempio, di fronte
all’insorgere dello squadrismo nazista ha lottato duramente contro di esso. Non solo i comunisti, ma
anche centinaia di quadri del sindacato e della stessa Spd hanno pagato con l’esilio, il carcere e con
la stessa vita l’opposizione al regime. Solo che la loro capacità di resistenza si è scontrata da subito
con l’inettitudine e l’opportunismo dei vertici della socialdemocrazia, la quale ha perseverato nel
considerare come nemico numero uno il bolscevismo piuttosto che Hitler. Ed è proprio la miopia
politica di chi ha assunto il governo della repubblica di Weimar ad aver logorato le forze
democratiche e di sinistra e aperto la strada ai nazionalsocialisti.
Se nel ’44 la congiura contro il fuhrer dei generali aristocratici del vecchio esercito prussiano
fallisce miseramente, ciò non è dovuto semplicemente a un accidentale infortunio tecnico-militare,
ma proprio alla mancanza di un supporto popolare nell’opposizione al regime.
Questa constatazione non vuole affatto sminuire le responsabilità che pure ricadono sull’estrema
sinistra tedesca e sul movimento comunista internazionale nel sottovalutare la natura del nazismo.
L’esperienza del fascismo in Italia non è, infatti, servita loro ad aprire gli occhi sulla tragica realtà e
a correggere la direzione di marcia.
Di fronte all’avvento al potere di Hitler, i comunisti lo danno per spacciato in partenza. Lo stesso
gruppo dirigente dell’Internazionale comunista è addirittura convinto che, accelerando la
disgregazione del capitalismo, il nazismo avrebbe distrutto l’influenza socialdemocratica sul
movimento operaio e aperto la strada alla dittatura proletaria.
Già nel ’23, Victor Serge, valente storico comunista, così descrive il nazionalsocialismo: “Si tratta,
in definitiva, di una demagogia ingenua che specula sul sentimento nazionale, sul discredito del
socialismo riformista e del parlamentarismo, sulla miseria, sul vecchio odio nei confronti
dell’usuraio e del finanziere troppo spesso ebrei… si tratta di un fascismo degenerato, involgarito,
abbruttito. Terribili sintomi della decadenza del regime capitalistico, che non riesce neanche più a
fornire alle masse un’ideologia degna di questo nome”.
E’ opinione diffusa tra i comunisti tedeschi che sia da considerarsi una dittatura, quella della piccola
borghesia sulla grande, perciò lo stesso governo di Heinrich Bruning, il segretario dell’Unione dei
sindacati cristiani divenuto cancelliere nel ’30, e che pertanto la successione di Hitler a questo
governo sia da interpretare come un semplice e innocuo avvicendamento di leader politici. E’ solo
di fronte all’evidenza dei fatti che essi mutano atteggiamento e cominciano a considerare il nazismo
come il pericolo maggiore. E’ infatti nel ’35 che l’Internazionale comunista, smentendo la teoria del
“socialfascismo”, fa propria la linea dei “fronti popolari”, avvertendo la necessità di unificare tutte
le espressioni della sinistra e del fronte democratico per arginare l’ondata fascista che si riversa
sull’Europa e che, in forza dell’esaltazione del nazionalismo, consegue significative adesioni e
consensi in molti Paesi.
E nemmeno è da sottovalutare il fatto che, nello stesso Occidente, Hitler è ben visto e trova
appoggio negli stessi ambienti del potere. Nella prima fase della sua investitura al cancellierato,
difatti, il capo del nazismo riscuote la simpatia sia della casa reale inglese che dello stesso
Churchill. E quando il fuhrer sbraita e lancia precise minacce di aggressione, creando situazioni di
tensione in varie regioni d’Europa, i governi di Francia e di Inghilterra, avendo sottovalutato le sue
mire aggressive e non avendo lavorato per tempo alla predisposizione di soluzioni alternative, non
trovano di meglio che concedere via libera alle sue pretese. Di fronte alle nefandezze naziste, i
governi democratici dell’Occidente si sono dimostrati pusillanimi quando non addirittura complici.
Gli oppositori al regime hitleriano che erano costretti a fuggire dalla Germania e a trovare asilo
politico in altri paesi, salvo che sull’ospitalità degli Stati Uniti, hanno incontrato non pochi ostacoli
negli atteggiamenti assunti verso di loro dai governi democratici d’Europa e, fatta eccezione per
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alcuni casi particolari, molti di loro non sono riusciti a integrarsi in questi paesi proprio a causa del
comportamento remissivo che i loro governanti hanno tenuto, almeno per un certo periodo, verso il
nazismo.
Basti ricordare che la comunità internazionale era informata dell’esistenza in Germania dei campi di
concentramento fin dai tempi della loro originaria costruzione, eppure mai nessuno degli uomini di
potere ha avuto il coraggio morale di denunciarne pubblicamente l’esistenza e di condannare la loro
funzione criminale. Nemmeno la Chiesa di Roma si è mossa in difesa dei “giudei”.
Si è giunti persino al paradosso che a fornire i supporti tecnologici indispensabili a classificare e a
sterminare gli ebrei fosse la multinazionale americana Ibm.
Tutto questo comunque non sminuisce affatto la responsabilità che i dirigenti dei partiti comunisti si
sono assunti negli anni venti e nella prima metà degli anni trenta nel sottovalutare e nel non
analizzare a fondo il fenomeno.
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Capitolo 6°
La degenerazione staliniana
6.1 – Stalin, il personaggio, l’ideologia
Nel ’22, mentre Lenin si dibatte nella contraddizione tra i principi del bolscevismo e il ripiegamento
della rivoluzione russa, alla segreteria generale del comitato centrale del partito viene eletto Stalin.
Egli è portatore di una visione della rivoluzione e fautore di metodi di gestione del partito che
contribuiscono a determinare un rapporto controverso con il capo dei bolscevichi.
In occasione del 13° congresso del partito, a fine dicembre ’22 inizio gennaio ’23, Lenin, ormai
logorato dalla malattia, invia delle note ai delegati le quali non vengono però lette all’assise: una
decisione questa che trova complice Trotzkij. Il testo verrà reso noto pubblicamente solo con
l’avvento al potere di Chruscev, cioè nel ’56, e sarà considerato il suo testamento politico. In quella
missiva egli evidenzia i limiti della direzione politica del partito e precisa di non ritenere nessuno
dei dirigenti all’altezza di sostituirlo. In lotta per la sua successione sono in cinque: Trotzkij, Stalin,
Zinov’ev, Kamenev e Bucharin. E’ il caso di ricordare ancora che due di questi, Zinov’ev e
Kamenev, si erano pronunciati contrari alla rivoluzione d’ottobre. Nella lotta per conquistare il
potere ognuno di questi cinque dirigenti si presenta come il legittimo erede e il più coerente
prosecutore dell’opera del “vecchio”. Le indicazioni di Lenin non vengono però prese in
considerazione e succede così che Stalin, intessuta con abilità l’alleanza con Zinov’ev, Kamenev e
Bucharin contro Trotzkij, consolida le sue posizioni e diventa il capo assoluto.
A quel punto, Lenin sferra direttamente un attacco a Stalin e suggerisce ai delegati di togliergli
l’incarico di segretario generale del partito istituendo una direzione collegiale. Giustifica questa sua
raccomandazione con il giudizio secondo cui “Stalin è troppo rude e questo difetto, del tutto
tollerabile nei rapporti fra noi comunisti, diviene intollerabile nell’incarico di segretario generale.
Perciò, io propongo ai compagni di pensare al modo di rimuovere Stalin da quell’incarico e
nominarvi un altro”. E’ pure suo convincimento che il nuovo segretario del Pcus abbia una
propensione per il nazional-bolscevismo e coltivi manie gran-russe.
Reso noto al gruppo dirigente il Testamento di Lenin in cui veniva suggerita la sua destituzione da
segretario del partito, Stalin, con grande abilità e certo che non le avrebbero accettate poiché
l’assise era stata da lui stesso accuratamente preparata, ha formalmente presentato le sue dimissioni
al 13° congresso.
Qualcuno ha insinuato che in Stalin vi fosse un’aspirazione al potere fondata su un nascosto odio
verso il capo dei bolscevichi e che questo risentimento abbia costituito la chiave di volta della sua
personalità.
Di fatto, rispetto agli altri pretendenti, il neo segretario vanta il pregio di saper incidere più a fondo
sul partito e di soddisfare meglio gli interessi morali e intellettuali delle masse rivoluzionarie. Egli
offre tutte le garanzie desiderabili: il prestigio di un vecchio bolscevico, un carattere fermo, uno
spirito ristretto, un legame indissolubile con gli apparati che rappresenta la fonte principale della
sua influenza personale.
Dopo la morte di Lenin, il suo gruppo si dimostra elemento di mediazione dei contrasti ogni volta
che nel partito si prospetta una spaccatura. Ciò avviene nel corso della lotta tra Trotzkij e Zinov’ev
e poi in occasione di quella tra Bucharin e l’opposizione delle sinistre. Una delle sue caratteristiche
è peraltro quella di applicare all’interno del partito quella violenza che Lenin riservava soltanto
all’esterno riuscendo così a evitare rotture. Come vedremo, egli risulterà essere al tempo stesso
continuatore e affossatore dell’opera leniniana. A dire di Gyorgy Lukàcs “in una quantità di
questioni essenziali Stalin non è stato il successore di Lenin, bensì il suo contrario”.
Iosif Vissarionovich Stalin nasce nel 1879. Terminata la scuola parrocchiale di Gori, in Georgia,
frequenta per cinque anni il seminario ecclesiastico di Tiflis e qui, in un’atmosfera di conformismo
autoritario, riceve una rigida formazione culturale e religiosa che lo segnerà profondamente. In
un’intervista egli confessa di essere “diventato socialista in seminario, perché il tipo di disciplina
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che regnava mi faceva uscire dai gangheri”. Il seminario è stato per lui una scuola di metodo nel
controllo degli altri, il luogo in cui ha imparato le tecniche repressive (sorveglianza, spionaggio,
invasione della vita interiore) che avrebbe poi applicato nello Stato di polizia da lui creato. E’ in
seminario che ha imparato a essere cinico e a fingere, è dai preti che ha ereditato la sua linfa
antisemita. Egli ha sempre sostenuto di essere stato radiato dal seminario per aver diffuso il
marxismo, però c’è chi lo ha smentito sostenendo che la ragione vera della sua cacciata è dovuta al
suo rifiuto a presentarsi agli esami.
Dopo essere stato cacciato da questo istituto, perché giudicato indegno di diventare prete, trova
impiego per poco più di un anno presso l’Osservatorio astronomico della stessa città. Finita questa
esperienza lavorativa decide di diventare un “rivoluzionario di professione”.
All’indomani della rivoluzione russa del 1905, durante il suo apprendistato politico, per finanziare
l’organizzazione bolscevica, egli si dà alla pratica degli “espropri proletari” assaltando banche e
uffici governativi e per questo subisce arresti e deportazioni.
Alle prime elezioni della Duma si oppone alla decisione dei bolscevichi di parteciparvi e un anno
dopo, nel 1906, si pronuncia contro la proposta di nazionalizzazione della terra.
Nel ’24, esponendo le idee di Lenin in “Principi del leninismo”, afferma: “Si può ottenere la vittoria
definitiva del socialismo in un paese solo senza che gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati
concordino? No, è impossibile. Per abbattere la borghesia, gli sforzi di un solo paese bastano, la
storia della nostra rivoluzione lo testimonia. Perché il socialismo vinca definitivamente, per
organizzare la produzione socialista gli sforzi di un solo paese, soprattutto di un paese contadino
come la Russia, non bastano più: sono necessari gli sforzi dei proletari di più paesi avanzati....Tali
sono, in generale, i tratti caratteristici della teoria leninista della rivoluzione proletaria”.
Poco tempo dopo, nel prendere atto del fallimento della rivoluzione in Germania e in Ungheria, e
considerando l’isolamento in cui è relegata l’Urss, egli smentisce quel postulato leniniano ed
elabora la teoria del “socialismo in una Paese solo” che già lo stesso Lenin aveva abbozzato.
Morto Lenin il partito si sostituisce sempre di più ai soviet, sopprime definitivamente la funzione
dirigente dei comitati di fabbrica e concentra il potere nel Soviet supremo. A favorire la
degenerazione staliniana è anche questo processo di spoliazione del protagonismo e dell’autonomia
che la rivoluzione aveva attribuito agli istituti di democrazia diretta e che questi organismi avevano
incominciato da poco tempo a sperimentare. E’ da evidenziare che tale involuzione non è solo frutto
della volontà di accentramento del potere da parte di Stalin, ma anche la conseguenza della lunga ed
estenuante guerra civile che ha posto il nuovo governo del Paese nelle condizioni di dover difendere
il nuovo assetto dai nemici interni e dall’intervento straniero e di gettare al tempo stesso le basi di
una nuova economia alternativa a quella capitalistica. Questo duplice compito, date le difficoltà e le
insidie, non poteva d’altra parte essere assolto che con metodi dialettici e in un contesto di libera
sperimentazione, cioè in regime di ampia democrazia. Al contrario, le condizioni sfavorevoli hanno
richiesto la massima centralizzazione nelle decisioni politiche e nella selezione dei quadri,
obbligando anzi all’adozione di un’impostazione rigidamente gerarchica del rapporto tra organismi
superiori e quelli inferiori. La militarizzazione sia della società che dell’economia è difatti la
conseguenza del clima politico e sociale che si è venuto determinando a seguito dell’offensiva dei
controrivoluzionari interni ed esterni. La non presenza di un sistema pluripartitico ha poi contribuito
in maniera decisiva all’affermazione del regime autoritario e dittatoriale.
Lo stalinismo dunque non è il semplice prodotto di un uomo folle e degenerato o di un gruppo
ristretto di dirigenti politici, come qualcuno ha insistito e insiste nel sostenere, ma è il risultato di un
processo assai complesso che ha riguardato non solo un gruppo dirigente o un partito, ma la
formazione di un nuovo Stato la cui origine ha comportato una feroce lotta tra i suoi artefici e i suoi
antagonisti interni e internazionali.
Nel sottolineare questa complessità del fenomeno, non intendo certo giustificare i metodi e le scelte
che il leader georgiano ha fatto propri in nome del socialismo. Ciò che mi preme mettere in
evidenza sono le condizioni storiche entro cui egli si è trovato a operare e anche le responsabilità
non solo sue, ma quelle dei suoi collaboratori e sostenitori e degli stessi suoi avversari, di coloro
171
cioè che hanno provocato e favorito quel processo di degenerazione che ha irrimediabilmente
investito il primo tentativo di costruzione di una società alternativa al modello capitalistico. Di
coloro cioè che si erano proposti di strozzare il socialismo nella culla.
Stalin è indiscutibilmente un personaggio degenerato. Se a giudizio di molti e non solo di certi
comunisti, come vedremo più avanti, egli è stato considerato un rivoluzionario convinto, un uomo
intelligente e di talento, un tattico straordinario, da chiunque voglia essere obiettivo, un simile
giudizio non può che considerarsi limitato nell’ottica, frutto di considerazioni parziali, tendenzioso
e pregno di ideologia.
In Stalin si riscontrano un cinismo e una rozzezza che non possono affatto conciliarsi con i valori
che contraddistinguono chi vuole esaltare l’essere umano e migliorare la sua condizione
esistenziale. Sin dagli albori della sua carriera politica egli dimostra di agire con crudeltà, perfidia e
arroganza. Nella biografia di Stalin che Trotzkij sta scrivendo nel momento in cui viene
assassinato, si racconta che nella ricca biblioteca personale del georgiano c’era una copia del
“Principe” di Machiavelli i cui margini delle pagine erano piene di annotazioni, segno che aveva
studiato a fondo i consigli del teorico fiorentino e che aveva ben assimilato quel volgarizzato
precetto secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. E lo stesso Trotzkij commenta che “una prudenza
sospettosa spinge Stalin, quasi organicamente, nei momenti di decisioni gravi e di profonde
divergenze, a ritirarsi nell’ombra”. Egli appare persino paranoico, quando dimostra verso i medici
un’immotivata avversione, mentre la sua biblioteca è piena zeppa di testi di medicina.
Uno dei suoi medici ha scritto nel proprio diario che l’arteriosclerosi di cui Stalin era affetto, non
solo portò il dittatore alla morte, ma che in vita lo rese particolarmente crudele e sospettoso.
L’autopsia, infatti, ha rivelato l’estensione dei danni subiti al cervello e l’anatomo-patologo ha
dichiarato che possono avergli causato la perdita del senso del buono e del cattivo: che egli abbia
sofferto di questo male, e che le sue scelte siano state determinate più dalle opportunità che da una
lucidità strategica, è abbondantemente testimoniato dalla storia. Si consideri, comunque, che già ai
tempi della Nep, in contrapposizione alle scelte di Lenin, egli ebbe a sostenere la tesi della
neutralità del mercato.
Noto è pure il suo atteggiamento intollerante verso idee e posizioni che non combaciano con le sue:
egli giudica sprezzantemente la “rivoluzione permanente” di Trotzkij una teoria destabilizzante lo
Stato sovietico, mentre paragona il luxemburghismo alla sifilide.
Sua abitudine è quella di adeguare la decisione strategica alla decisione tattica. La teoria, nel suo
modo di pensare e di agire, non obbedisce mai a un’esigenza di analisi e di conoscenza della realtà
sociale, ma risulta essere sempre funzionale all’azione politica.
Egli è poi convinto che il segretario generale del partito, in quanto politico, possa e debba essere
considerato anche capo ideologico del partito.
Tra i suoi scritti più importanti sono da segnalare “Il marxismo e il problema nazionale”, “Principi
del leninismo”, “La rivoluzione d’ottobre e la tattica dei comunisti russi”, “Anarchismo o
socialismo” e “Del materialismo storico e dialettico”. Egli fu anche il supervisore del “Breve corso
di storia del Pc(b) dell’Urss” pubblicato nel 1938. Quest’ultimo testo giustifica l’edificazione del
socialismo in un Paese solo e presenta la rivoluzione d’ottobre come modello per tutte le rivoluzioni
socialiste. In esso si trovano raccolti i nuovi dogmi del materialismo storico dialettico, cioè il
catechismo marxista-leninista che nel periodo compreso tra la fine degli anni ’30 e la metà degli
anni ’50 ha costituito materia di studio e fonte di apprendimento da parte di tutti i partiti comunisti
del mondo.
La prima vittima di Stalin è senza dubbio Karl Marx. Egli seleziona e censura i suoi scritti fino al
punto di impedire la pubblicazione dei “Grundrisse”. Dalla teoria marxiana espelle per intero la
problematica inerente il sistema di produzione asiatico, rendendo così impossibile agli studiosi e ai
dirigenti del movimento comunista di riflettere su una delle questioni cruciali del tempo. Come
hanno denunciato diversi studiosi e critici, egli compie una simile ignobile operazione senza
peraltro avere una conoscenza conveniente al ruolo che ricopre degli scritti di Marx. C’ è chi ha
sostenuto che egli abbia “studiato” i tre volumi del “Capitale” non sui testi originali, ma su un sunto
172
dell’opera scritto da altri. A riprova della sua superficialità e della propensione al dogmatismo, ci
sta il fatto che nei suoi scritti la complessità del “Capitale” stesso risulta del tutto ignorata. Di fatto,
il pensiero marxiano viene da lui tradotto in formule e ridotto a semplici parole d’ordine. Tutta la
ricchezza di analisi e di elaborazione riguardante il rilevante concetto di alienazione, per fare un
esempio, non viene nemmeno presa in considerazione, viene anzi scientemente ignorata,
accantonata. Conseguenza di queste censure è che per decenni il movimento operaio viene
defraudato della conoscenza di importanti aspetti della teoria marxiana.
La sua concezione del materialismo storico non è solo estremamente dogmatica, essa è anche
povera e volgare. Risolve il problema fondamentale della dialettica marxista, da un lato dichiarando
che le tendenze storiche di sviluppo sono ferree leggi naturali, dall’altro affermando il puro
volontarismo e soggettivismo senza alcun nesso o mediazione.
In “Questioni del leninismo” scrive: “La vita materiale della società è una realtà oggettiva, la quale
esiste indipendentemente dalla volontà degli uomini, mentre la vita sociale è un riflesso di questa
realtà oggettiva, un riflesso dell’essere”. Da ciò trae la conclusione che la società si muove secondo
le leggi inesorabili di una realtà oggettiva e che pertanto risulta indipendente dalla volontà umana.
L’ordine socialista – sostiene – seguirà all’ordine capitalistico come il giorno segue alla notte.
Concepisce le leggi secondo i criteri della meccanica classica, non conosce la problematica posta
dal calcolo delle probabilità, dalle regolarità statistiche e, soprattutto, dalle leggi-tendenze che sono
molto più importanti per la comprensione dei processi storici. Guarda la storia dall’angolo visivo
della natura e perciò sottovaluta l’azione cosciente degli uomini.
Mentre a parole dice di volersi legare al “marxismo vivente”, di fatto costringe la teoria marxiana
nel letto di Procuste della realtà russa, riducendola a un’ideologia ufficiale: la realtà viene sublimata
in modo che si adegui alla teoria e, a sua volta, la teoria viene mistificata al punto da cancellare e
nascondere tutte le contraddizioni e tutti i conflitti.
Con Stalin il marxismo cessa di essere un metodo per indagare i fatti sociali e diviene un sistema di
verità assolute funzionali al potere della élite che domina il partito e lo Stato.
Egli rimane dipendente dell’impostazione plechanoviana secondo cui il movimento operaio è di per
sé rivoluzionario e non può non arrivare comunque al socialismo, anche in assenza della teoria
rivoluzionaria, il cui compito sarebbe esclusivamente quello di accelerare i tempi e di rendere più
agevole il cammino.
Proclamandosi continuatore dell’opera di Lenin, nei fatti imbalsama anche il suo pensiero dando
origine al “marxismo-leninismo” e facendolo diventare l’ideologia ufficiale del movimento
comunista. Mentre dapprima riduce parte notevole del pensiero marxiano a Lenin, successivamente
compie la stessa operazione nei confronti dell’artefice della rivoluzione d’ottobre, interpretando in
maniera semplificata la sua teoria e il suo insegnamento e impoverendoli e deformandoli,
sottoponendo i suoi scritti a severa censura.
Mentre Lenin ha sostenuto che “tutto il problema non sta nell’aver il potere politico, ma nel sapere
dirigere”, nei “Principi del leninismo” Stalin gli attribuisce il concetto secondo cui “tutto sta nel
conservare il potere, nel consolidarlo, nel renderlo invincibile”. Alla politica leniniana nutrita di
teoria, egli sostituisce una teoria pensata e modellata come strumento di una politica. In sostanza, di
quanto ha sostenuto il suo maestro egli fa uso e abuso ai fini esclusivi del consolidamento del suo
potere.
Del fatto che la Russia sia una realtà arretrata non si preoccupa più di tanto, anzi, in vista del
compimento della modernizzazione, trasforma questa tara in motivo di entusiasmo, proponendo la
politica da lui perseguita come modello per i comunisti di tutto il mondo.
Pure il venir meno della rivoluzione internazionale non costituisce per lui ragione di apprensione.
Mentre Trotzkij medita sulle incertezze e sulle difficoltà che ne conseguono, Stalin trae occasione
per affidare il ruolo guida del movimento internazionale all’Urss elaborando la teoria del
“socialismo in un Paese solo” che giustifica appunto con il riflusso della rivoluzione, la
stabilizzazione contemporanea del capitalismo, lo sviluppo economico e la potenza politica
dell’Urss. Esalta la forza del proletariato e la sua capacità di trascinare con sé i contadini e proclama
173
che “quella mirabile organizzazione di collaborazione dei popoli che si chiama Urss... è il
prototipo vivente della futura unione dei popoli in un’economia mondiale unica”.
Il trionfalismo è sempre alla base di tutte le sue tesi e dichiarazioni.
Stalin non sa fare un’analisi marxista della società e si comporta nel senso di evitare ogni rischio
facendo uso tattico del terrore. Considera la questione della libertà e quella dell’alienazione già
risolte nel socialismo statalistico. Nonostante il sempre maggiore sviluppo economico di interi paesi
dell’Occidente capitalistico, egli resta rigido nell’affermare l’impoverimento assoluto della classe
operaia. Ripudia categoricamente ogni critica del presente e burocraticamente fa suo un codice
etico-giuridico che esprime un dogmatismo moralistico tutt’altro che conciliabile con uno spirito
rivoluzionario, dichiarando come sua finalità la costruzione della società comunista. Nel campo
della vita intellettuale questo suo codice si traduce in una sorta di inquisizione disumanizzante.
Deviando dalla legalità socialista, egli applica il criterio della costruzione del socialismo per
decreto. Consolidato il potere sulla base di un clima di universale diffidenza, ne diviene
l’impersonificazione vivente. Mentre la maggioranza del popolo confida in lui, in nome di tutti egli
diffida di ogni singolo individuo. Invecchiato, diventa egli stesso la prima vittima del sistema che
ha imposto.
Prima di morire interviene personalmente nel dibattito sul rapporto tra marxismo e linguistica e
formula alcune tesi relative ai problemi economici del socialismo. Questi suoi interventi vengono
celebrati non solo dai comunisti dell’Urss, ma da tutti i partiti comunisti del mondo come il culmine
del pensiero marxista, come il massimo punto di riferimento per la soluzione di tutti i problemi.
Per decenni, infatti, Stalin rappresenta il modello del dirigente comunista: legge tutto, conosce tutto,
decide di tutto, trova il tempo di farsi proiettare i film e di censurarli, di giudicare i romanzi, di
valutare composizioni musicali e opere d’arte, di disporre della sorte stessa dei suoi compagni.
Come ha notato J.P.Sartre, egli è “obbligato a procacciarsi quella che, con un misto di biasimo e di
ammirazione, si potrebbe definire una incompetenza universale”.
6.2 – La concezione staliniana dell’economia e dello Stato
Dopo la morte di Lenin, per un certo periodo in Urss si registra un ulteriore e significativo
ampliamento della Nep e si assiste, anche in conseguenza di un miglioramento delle condizioni di
vita di larghi strati di popolazione, alla pacificazione della situazione sociale. Nel ’27, però, la
Nuova politica economica non è più in grado di assicurare l’incremento dei ritmi dello sviluppo
industriale del Paese e di superare la sua cronica arretratezza, perciò si fa pressante l’esigenza di
andare oltre quell’esperienza. Succede così che, dietro l’insistenza di Bucharin e dei sostenitori del
superamento delle tesi gradualiste di apertura al mercato, la Nep viene abbandonata.
Al suo posto viene adottata una politica di industrializzazione accelerata e forzata che presuppone
l’individuazione di obiettivi prioritari nel contesto d una pianificazione centralizzata. Il sistema
economico che viene adottato si configura come una gigantesca macchina tesa a privilegiare e
potenziare il settore della produzione dei “mezzi di produzione”, cioè delle macchine. Da qualche
tempo, infatti, una delle principali preoccupazioni del politbjuro è quella di aumentare la
produzione delle fonti energetiche (il carbone) e dei mezzi di trasporto e anche il chilometraggio
delle strade ferrate, e per fare questo diventa necessario disporre di impianti, di fabbriche e di
attrezzature adeguate.
Questa esigenza matura mentre si assiste a un cattivo raccolto e si registra una serie di errori nella
politica dei prezzi la quale determina un pauroso calo della produzione agricola e una penuria dei
rifornimenti alle città. La direzione del partito interpreta questa situazione di crisi come il risultato
di una polarizzazione di classe nelle campagne guidata dai contadini ricchi, i kulaki. Sul come dare
soluzione a tale problema il gruppo dirigente si divide fra chi, come Bucharin, propone il
compromesso con questa categoria di possidenti e chi invece, come Stalin, si dichiara propenso a
procedere alla loro liquidazione.
Nell’inverno ‘27-28, allorché salta il sistema della stabilità dei prezzi e viene meno l’appoggio
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creditizio, e allorquando si verifica lo sciopero delle forniture di grano, la frazione staliniana, presa
dal panico, procede alla collettivizzazione forzata delle campagne.
L’asse del suo progetto si fonda sulla garanzia dell’approvvigionamento alimentare al settore
pubblico e sull’acquisizione di eccedenze agricole per gli investimenti. Per ottenere questi obiettivi,
però, l’espropriazione delle terre ai kulaki non è sufficiente e diventa necessario prelevare le
eccedenze di produzione anche ai piccoli e medi proprietari di fondi. Ne consegue una seconda
rivoluzione, questa volta imposta dall’alto, la quale causa enormi disastri all’intero settore
dell’agricoltura.
Mentre la collettivizzazione sopprime gli stimoli alla produzione provocando una bassa redditività
di tutto il sistema agricolo, molti contadini reagiscono alle misure prese dal governo attuando forme
di resistenza attiva e passiva. Mentre fino ad allora il nuovo regime appariva favorevole ai piccoli
agricoltori individuali, con la collettivizzazione le cose cambiano e l’alleanza operai-contadini, che
costituisce il perno della rivoluzione stessa, salta. La saldatura tra città e campagna viene così
definitivamente compromessa e il ricorso alle misure repressive da parte dell’apparato poliziesco si
estende all’intero assetto dell’Urss. La collettivizzazione forzata dell’agricoltura è, infatti, il vero
atto di nascita dello stalinismo. Nel periodo fra il ‘30 e il ‘32 questo provvedimento provoca una
grande carestia che causa tra i 5 e i 10 milioni di vittime.
Mentre alcuni storici considerano la collettivizzazione delle campagne una necessità vitale per un
Paese accerchiato, male attrezzato e senza molte altre risorse all’infuori della produzione contadina,
altri ritengono che il processo di industrializzazione avrebbe potuto essere realizzato senza far
pagare prezzi tanto pesanti all’agricoltura. Certo è che lo sviluppo del settore industriale non poteva
avvenire in presenza di un sistema agricolo stagnante, mentre la massiccia mobilità conseguente alla
modernizzazione del Paese comportava inevitabilmente per la più parte del mondo contadino una
perdita di status sociale, esodi forzati e repressioni. Com’era accaduto in Inghilterra tra il XVIII e il
XIX secolo, allorquando l’imporsi del capitale ha drammaticamente spogliato le campagne gettando
i contadini in uno stato di sudditanza e di miseria, anche il potere sovietico ha riversato gli
incalcolabili costi sociali dell’industrializzazione principalmente sulle spalle della popolazione
rurale.
Pur avversando la tesi della superindustrializzazione sostenuta da Trotzkij, Stalin giustifica la
necessità di accelerare l’industrializzazione con il fatto che le potenze capitalistiche stanno
preparandosi a una guerra contro l’Urss. A suo giudizio ci si deve dunque dotare al più presto di
quella base industriale che ancora manca, privilegiando il settore della produzione dei beni capitali
rispetto a quella dei beni di consumo.
La collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione forzata avvengono più o meno in
contemporanea con l’avvio della pianificazione. Mentre la “rivoluzione agricola” procede
celermente e si conclude nella seconda metà degli anni ’30, l’avvio dell’industrializzazione registra
ritardi, soprattutto nella produzione di trattori. Stando agli studi di Viktor Danilov, i risultati della
prima fase, che dalle fonti ufficiali sono sempre stati vantati come un grande successo, non hanno in
realtà pagato economicamente.
Bisogna comunque riconoscere che con questa operazione lo stalinismo ha impedito una possibile
colonizzazione dell’Urss da parte di chi intendeva strozzare il bolscevismo sul nascere. Evidenziare
ciò non significa dimenticare che un simile risultato è stato possibile al prezzo di enormi sprechi e
dell’annientamento di milioni di persone. Mentre nelle campagne, sotto forma di socialismo
dispotico, sono stati restaurati rapporti sociali prerivoluzionari, nei settori della produzione
industriale le condizioni di lavoro non sono state diverse da quelle imposte dal capitalismo.
Dal punto di vista politico questa scelta di Stalin ha significato l’eliminazione non solo dei kulaki,
ma anche delle opposizioni e cioè la definitiva liquidazione della democrazia e l’inaugurazione di
un regime dispotico e illiberale.
Nell’autunno del ’17 Lenin aveva affermato: “Il proletariato, quando avrà vinto, agirà così:
incaricherà economisti, ingegneri, agronomi e altri specialisti – sotto il controllo delle
organizzazioni operaie – di elaborare un ‘piano’, di controllarlo, di ricercare i mezzi per
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economizzare il lavoro con la centralizzazione”. In realtà, nel ‘19, le uniche misure di
pianificazione che sono state attuate erano limitate ad alcuni rudimentali tentativi per organizzare le
industrie nazionalizzate. E’ Stalin che dà inizio alla pianificazione vera e propria dell’economia,
quella globale e centralizzata, e lo fa nel ’28 varando il primo piano quinquennale il quale fonda su
basi volontaristiche e si propone obiettivi massimali sproporzionati allo stato dell’economia
sovietica. Difatti, mancano sia il personale qualificato sia gli strumenti organizzativi adeguati per
gestirlo. La pianificazione si rivela pertanto una camicia di forza che compromette la produttività
del lavoro e ritarda l’innovazione tecnologica. Le procedure e le priorità inaugurate dal primo piano
quinquennale consistono nell’adozione di obiettivi che non corrispondono alle esigenze di uno
sviluppo economico equilibrato: la gestione amministrativa delle risorse è a breve termine, mentre
la definizione delle priorità, in una congiuntura di penurie endemiche, sconvolge le diverse branche
dell’economia. La crescita estensiva si accompagna poi a una forte inflazione e il grandissimo
sforzo di investimento viene realizzato a spese del miglioramento del livello di vita della
popolazione, venendo accordata la priorità alla produzione di attrezzature, di materie prime, di fonti
di energia piuttosto che alla produzione dei beni di consumo.
A questi errori e incongruenze si aggiunge il fatto che il carattere dell’economia russa, in larga parte
ancora semifeudale, si rivela immaturo per una simile esperienza: ampie zone dello stesso ceto
produttivo fanno resistenza alle misure di pianificazione.
L’impostazione data al piano, quindi, anziché favorire una accelerazione dello sviluppo, provoca
privazioni e miseria.
A dire di Stalin, in Urss sarebbero già stati realizzati nove decimi di socialismo, eppure – come
testimonia Trotzkij - nell’undicesimo anno della rivoluzione dilagano ancora la povertà e la
disoccupazione, le code davanti alle botteghe sono la norma, persistono l’analfabetismo, il
vagabondaggio dei fanciulli, l’ubriachezza e la prostituzione.
Se i primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre sono stati terribili e hanno comportato sovrumane
difficoltà oggettive, i tempi successivi alla collettivizzazione delle campagne e
all’industrializzazione accelerata non sono di certo meno drammatici.
Questo stato di cose non manca perciò di suscitare interrogativi e perplessità nello stesso partito.
Non tutto il gruppo dirigente bolscevico concorda con i tempi e le scelte imposti da Stalin e c’è chi,
come Zinov’ev, si batte apertamente per l’adozione di singoli piani dichiarandosi contrario alla
pianificazione generale.
Le divergenze fra questi dissidenti e Stalin danno avvio a una lotta contro la “destra” del partito
(Bucharin, Rykov e Tomskij) fautrice di uno sviluppo più armonico dell’economia e della società.
Una lotta questa che si concluderà più tardi negli anni con la condanna del gruppo dissidente:
Tomskij si suiciderà, mentre Bucharin e Rykov verranno fucilati.
Ma l’avvio della pianificazione fa registrare un’altra “grande rottura”, quella tra la scienza e il
potere politico la quale sancisce l’estensione a tutto campo del dogmatismo staliniano.
In un quadro negativo in cui gli obiettivi dei primi piani quinquennali non vengono mai raggiunti,
l’unico aspetto positivo è costituito dall’aumento impressionante del numero di operai (17 milioni
circa in più) in conseguenza dell’attuazione del secondo piano con il quale viene imposta a ritmi
forsennati l’industrializzazione. Un tale massiccio assorbimento di forza lavoro, di gran lunga
superiore alle stesse previsioni, provoca uno sbilanciamento nel pagamento dei salari e il crescere di
disuguaglianze di trattamento al punto di invertire le tendenze egualitarie adottate all’indomani
della rivoluzione. Mentre alla fine degli anni ’20 lo scarto tra le tariffe salariali più basse e quelle
più alte non andava oltre il rapporto di 1 a 3, con il nuovo corso nel sistema salariale viene
introdotto il principio del rendimento e ciò mette appunto in discussione l’egualitarismo e crea
un’aristocrazia operaia.
Questa svolta, anche in forza del fatto che il sistema produttivo risulta essere ben lontano dal
consentire un modo di lavorare secondo ritmi cadenzati, costanti e metodici come dovrebbe
implicare una politica di pianificazione, provoca fra i lavoratori una resistenza passiva che si
traduce a poco a poco in forme di assenteismo e causa una bassa produttività del sistema che col
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tempo diverrà cronica. Si tratta di un male che non può essere curato né con il ricorso al
licenziamento di chi si rende colpevole di simili pratiche antisociali (nel ’30 questo provvedimento
colpisce il 30% della popolazione occupata), né con l’impiego dei famosi “lavoratori d’assalto” (gli
udarniki). Esso dà anzi luogo a nuovi e inediti conflitti sociali.
Mentre, di fatto, si cancella la legislazione vigente del lavoro e si mortifica il ruolo del sindacato,
viene lanciata l’emulazione socialista e l’orario di lavoro quotidiano aumenta fino a raggiungere in
alcuni casi le 12 ore. Anche il riposo festivo viene ridotto e in alcuni casi persino annullato.
Significativo è il fatto che a seguito dell’applicazione di queste controverse misure, e in
conseguenza delle politiche sbagliate compiute dal regime in campo economico, tra il ‘33 e il ’34 la
popolazione dell’Urss diminuisce di circa 6 milioni di unità.
Con il peggiorare della condizione lavorativa degrada conseguentemente anche la condizione
sociale: il 40% degli inquilini risiede in una sola stanza, il 15% in una cucina o in un corridoio, il
25% vive in dormitori. E mentre una buona quantità di cittadini sovietici subiscono la fame e la
denutrizione, l’Accademia delle scienze mediche, verso la fine degli anni ’30, su ordine di Stalin
pubblica il “Libro del cibo gustoso e salutare” nel quale viene riportata una raccolta di ricette
raccomandate alle famiglie, intendendo così significare che la rivoluzione sta avvenendo anche in
cucina.
In effetti, Stalin rivaluta l’istituto della famiglia ripristinando il ruolo delle donne come madri e
mogli e assegnando loro il ruolo di sempre, cioè di responsabili dei lavori domestici.
Nella storia del socialismo reale, infatti, le donne non hanno ruoli significativamente differenti da
quelli che destina loro la società capitalistica, anzi, il sogno del sovvertimento della tradizione
maschilista si dissolse subito dopo l’ottobre come un castello di sabbia.
Non solo in Urss non nasce un movimento femminista, ma non vengono in pratica mai sperimentati
nuovi rapporti sociali tra i sessi alternativi a quelli capitalistici.
Ricordare tutto questo non vuol significare ovviamente sottovalutare il ruolo che l’ampiezza del
processo di industrializzazione ha comunque avuto nel trasformare l’Urss nell’unico Paese al riparo
dalla stagnazione e dal declino che, negli anni della grande crisi, hanno investito quasi tutto
l’universo capitalista. Non si può e non di deve dimenticare, ad esempio, che nel decennio ‘25-‘35
l’industria pesante sovietica ha più che decuplicato la produzione e che rispetto al primo piano
quinquennale gli investimenti di capitale hanno subito un considerevole aumento: dai 5,4 miliardi di
rubli del ‘29 si è passati ai 32 miliardi del ‘36. E questo mentre la produzione industriale della
Germania è in piena difficoltà e recupera i livelli produttivi del ‘29 solo in virtù della febbre di
riarmo; e mentre, nello stesso periodo, la produzione degli Usa cala di circa il 25%, quella della
Francia più del 30%; solamente quella inglese è in crescita del 3-4% grazie alle misure
protezionistiche.
Durante gli anni ’30, in sostanza, il tasso di crescita dell’economia sovietica sorpassa quello di tutti
gli altri Paesi, eccetto quello del Giappone. Non a caso, durante la crisi del ’29, il modello sovietico
viene accreditato anche in Occidente come ottimale per far uscire i Paesi non sviluppati dalla loro
condizione di arretratezza. I Paesi colonizzati, infatti, subiscono una vera e propria attrazione da
parte del modello socialista sovietico non solo perché dall’Urss viene sostenuta la causa
dell’antimperialismo, ma anche perché in questo nuovo modello si intravede la possibilità di
superare l’arretratezza economica grazie appunto alla pianificazione.
Ed è proprio la forzatura voluta a tutti i costi da Stalin che trasforma l’Urss in una grande economia
industriale in grado poi di sconfiggere il nazismo.
Se è pur vero, però, che l’adozione dei piani quinquennali col tempo garantisce al Paese dei soviet
la fuoriuscita dall’originaria condizione di sottosviluppo, la pianificazione contribuisce anche a
rendere autonomo e potente l’apparato burocratico.
A differenza di Lenin, Stalin si avvale da subito della vecchia macchina burocratica dello Stato
zarista per affermare e consolidare il nuovo potere. A favorire questo suo disegno, concorrono
oltretutto le sconfitte continue della rivoluzione in Europa e in Asia le quali, se per un verso
indeboliscono la posizione internazionale dell’Urss, per altro premiano la volontà di resistenza del
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regime e giustificano i metodi che esso adotta. Come tutte le burocrazie, anche quella sovietica
risulta separata dal resto della società.
E’ da ricordare che la grande maggioranza dei burocrati del periodo staliniano durante la
rivoluzione d’ottobre non si era affatto schierata dalla parte dei bolscevichi. Quei pochi che hanno
preso parte all’insurrezione avranno poi un ruolo di secondaria importanza nella costruzione del
nuovo Stato.
Nel corso degli anni ’30, l’apparato burocratico cresce a un tasso elevatissimo, tanto è che prima
della seconda guerra mondiale in Urss vi è un amministratore pubblico ogni due operai. A
contribuire alla centralizzazione del potere e alla sua burocratizzazione, concorre sicuramente la
carenza di quadri, di manager e di personale specializzato. L’espansione abnorme del Gosplan, il
Comitato statale per la pianificazione, è di certo il più eloquente esempio del processo di
sclerotizzazione burocratica che investe il Paese in quegli anni. E’ proprio questa nuova “borghesia
di Stato” che, attraverso una rivoluzione dall’alto, magnifica e diffonde in ogni ambito della società
l’ideologia staliniana e trasforma il Paese dei soviet in un moloch.
Mentre Lenin considera i soviet delle organizzazioni integranti della struttura statale, anzi
sostitutive dello Stato stesso, Stalin li interpreta come semplici organizzazioni delle masse
lavoratrici che alle fine finiscono per interferire nella gestione del potere statale. Infatti, alle
espressioni di democrazia diretta, a quelle masse popolari che pur definisce “pietra angolare del
marxismo”, egli privilegia i quadri dirigenti, l’apparato statale. Ai suoi occhi è lo Stato gestore dei
mezzi di produzione il fattore fondamentale della società socialista. Ogni organizzazione pubblica –
dai soviet ai sindacati, dall’esercito alla scuola, dalla stampa alle associazioni – per lui
rappresentano un apparto dello Stato, una “cinghia di trasmissione” della volontà del vertice. Egli
attribuisce alla democrazia una funzione a senso unico: le decisioni marciano dall’alto in basso e
non viceversa.
In questo modo di intendere la democrazia, egli deforma gravemente il pensiero marxiano e
definisce “socialismo edificato” la statalizzazione di tutti i principali settori della vita sociale. Nelle
fabbriche la direzione è affidata a un funzionario designato dall’apparato statale (il glavkj), unico
responsabile di fronte alle autorità superiori. Lo stesso avviene per i presidenti dei colcos i quali
vengono fatti dipendere dalle stazioni di macchine e trattori che eseguono in maniera scrupolosa le
direttive della burocrazia statale.
Per Stalin, insomma, il socialismo è la proprietà e la gestione statale dei mezzi di produzione, è la
distribuzione statale del plusprodotto, è lo statalismo totalitario. Pertanto, il socialismo non si
configura come un periodo di transizione nel corso del quale si procede alla socializzazione del
nuovo modo di produrre, ma viene considerato come processo già compiuto. Egli presuppone che lo
sfruttamento esiste solo quando si è in presenza della classe dei capitalisti, mentre esclude che
possano esistere altre forme di sottomissione.
Mentre nella concezione leniniana il capitalismo di Stato è un monopolio statale parziale e relativo,
nello stalinismo esso è totale e assoluto. Lo Stato diventa depositario di un criterio di giudizio e di
discriminazione insindacabile e la regolazione sociale non viene affidata al diritto giurisprudenziale,
ma al soggettivismo socialista di chi ha il compito di giudicare.
Parlare di estinzione dello Stato, di un indebolimento del suo potere, significa per il leader
georgiano fare un discorso controrivoluzionario. Lo stesso vale per l’estinzione della lotta di classe.
“L’abolizione delle classi – sentenzia – non si ottiene attraverso l’estinzione della lotta di classe,
ma attraverso il suo rafforzamento. L’estinzione dello Stato si farà attraverso il suo rafforzamento
massimo, indispensabile per annientare i residui delle classi che si stanno estinguendo”. E a
giustificazione di tutti i suoi appelli alla vigilanza e all’ordine ci sta il convincimento che “la lotta
di classe si esaspera quando ci si avvicina al socialismo”.
Il concetto di socialismo in Stalin si riduce dunque a soli alcuni fattori quali: l’industrializzazione,
la potenza militare, la culturizzazione, l’affrancamento dall’arretratezza delle campagne. La
soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la liquidazione del capitalismo,
indipendentemente dalle forme sociali che la nuova costituzione assume, vengono intesi come la
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realizzazione del socialismo.
Sotto la spinta delle contraddizioni che irrimediabilmente si registrano nella costruzione della nuova
società, Stalin è obbligato a rivedere e modificare le sue posizioni secondo cui, per esempio, la
pianificazione statale avrebbe dovuto abolire l’azione della legge del valore, oppure che si sarebbe
verificata necessariamente la piena corrispondenza tra forze produttive e rapporti di produzione. Ma
anche queste smentite non servono a correggere il suo dogmatismo.
Nel periodo del suo dominio alcuni economisti, per sua volontà, sottopongono a revisione la critica
marxiana della divisione del lavoro. Nel “Manuale di economia politica”, del ‘54, si può leggere: “Il
comunismo, pur eliminando la vecchia divisione del lavoro, non nega affatto la necessità di essa”.
A. Kurylev ritiene che essa possa coesistere con uno sviluppo completo della personalità, mentre
A.Andreiev e I.Timoschkov teorizzano addirittura la “eterna necessità della divisione del lavoro”.
Stalin ha in sostanza indotto in una enorme massa di sovietici, ma poi anche nei comunisti
dell’Europa dell’Est, l’idea che la divisione sociale del lavoro sia una necessità storica e sia pertanto
da considerarsi normale e inevitabile la presenza statica, nella società socialista, di operai,
contadini, intellettuali, cioè delle classi subalterne. E questo non può essere considerato altrimenti
che un vero e proprio delitto intellettuale.
Non va infine trascurato il fatto che nel periodo tra le due guerre mondiali, in Europa vengono fatti
passi avanti in talune riforme sociali concernenti problemi cruciali per una società moderna, come i
diritti della donne, l’assistenza sociale, il divorzio e l’aborto. Ebbene, in tutti questi campi la
gestione stalinista del potere, anziché competere in nome dell’emancipazione umana, segna il più
grossolano oscurantismo.
Con la gestione staliniana, dunque, il comunismo sovietico sconta non solo l’arretratezza di un
Paese ancora abbondantemente segnato dalle forme residue di economia asiatica, ma paga il prezzo
ancora più gravoso dell’incapacità, e non volontà, di elaborare e sperimentare una teoria della
transizione, in specifico, una teoria generale dell’economia socialista. Con Stalin le grandi questioni
teoriche che hanno animato il dibattito dei dirigenti bolscevichi negli anni ’20, vengono in gran
parte accantonate; con esse la famosa questione del calcolo economico in un regime socialista la
quale appariva decisiva ai fini della costruzione di un nuovo sistema.
6.3 – Il regime dittatoriale
Come abbiamo visto, quando Stalin conquista il potere si trova a dover fare i conti con molteplici
difficoltà nella costruzione del nuovo Stato e per evitare i rischi di un collasso, stringe la corda e dà
corso a quel processo che trasformerà l’Urss in un regime dittatoriale.
Egli ricorre al centralismo autocratico, metodo tipico della tradizione zarista, e trasforma il nuovo
sistema in una sorta di monarchia non ereditaria.
Per compiere una simile operazione mobilita tutti i sostenitori del suo progetto, estende un controllo
autoritario sulle masse ed emargina i suoi oppositori anche eliminandoli fisicamente. Punto di forza
del suo disegno è la conquista degli apparati del partito e la loro osmosi con la burocrazia statale e
con il ceto che dirige le attività economiche.
Egli fa del partito il soggetto supremo che tutto controlla e tutto decide.
Se è pur vero che sul piano teorico, in “Quaderni del leninismo”, egli polemizza con Zinov’ev
accusandolo di identificare la dittatura del proletariato con la dittatura del partito e di avere quindi
una posizione errata, nella pratica fa sua la tesi secondo cui a compiere le scelte politiche deve
essere il partito, mentre il ruolo delle masse è semplicemente quello di applicarle.
I soviet vengono da lui assunti non come organi di elaborazione, e quindi soggetti di decisione,
bensì come “cinghie di trasmissione” delle decisioni del partito; e pure il sindacato viene spogliato
di qualsiasi autonomia e nella sua vita interna viene soppresso
ogni residuo di democrazia.
Mentre rifiuta di considerare il movimento reale come la componente essenziale della elaborazione
teorica e politica, concepisce il pluralismo come una caratteristica esclusiva della società divisa in
179
classi. E poiché nella società post-rivoluzionaria esisterebbe – a suo dire – una sola classe, sia altri
partiti sia la presenza di tendenze o di correnti nel partito comunista vengono ritenuti inconcepibili.
Ironicamente puntualizza: “Sotto la dittatura del proletariato possono esistere due, tre, anche
quattro partiti ma a condizione che uno sia al potere e tutti gli altri in prigione”.
Quando Martov, al 2° congresso del partito, sostiene che coloro i quali accettano il programma del
partito senza entrare nelle sue organizzazioni possono e debbono essere considerati degli iscritti a
tutti gli effetti, egli ribatte con indignazione che ciò equivarrebbe a “una profanazione del sancta
sanctorum del partito” e che, al contrario, l’organizzazione politica deve essere costruita nel modo
in cui si edifica una “fortezza” le cui porte devono aprirsi solo a coloro che “ne sono degni” e che
“sono provati”.
Fin dall’inizio egli è per una concezione chiusa e monolitica del partito al punto di farlo diventare
monocefalo. Si consideri che fra il 1947 e il giorno della sua morte in Urss non si registra una
sessione plenaria del Comitato centrale del Pcus e che lo stesso Ufficio politico perde influenza
diretta sulle scelte che lui compie. A pensare per tutti è il capo, mentre la formazione di
maggioranze e minoranze non viene tollerata. Nella sua concezione, il partito ha sempre e
comunque ragione e le decisioni che esso prende sono finalizzate a salvare la rivoluzione.
Le radici delle deformazioni burocratiche e poliziesche dello stalinismo sono da ricercarsi proprio
in questa sua concezione del partito, nel suo carattere autoritario, nella crescente mole di compiti
esecutivi e organizzativi che ad esso vengono attribuiti e anche nell’eccesso di centralizzazione e
nella sua immedesimazione con lo Stato.
Stalin inserisce uomini di sua fiducia nel comitato centrale, nell’ufficio politico e in tutte le
principali organizzazioni del partito. Un tale processo ha inizio con la destituzione dei dirigenti
responsabili che non danno affidamento di fedeltà e con il soffocamento del dibattito democratico
sui problemi vitali del Paese.
Restringendo sempre più la democrazia interna, egli ha modo di manipolare le coscienze dei
militanti e attraverso il controllo delle conferenze e dei congressi fa eleggere i delegati che si
dimostrano rispettosi del suo volere.
Al centralismo democratico teorizzato e sperimentato in maniera rigorosa da Lenin, nei rapporti tra
i militanti subentrano l’intolleranza, la diffidenza e la violenza. Si afferma il metodo di risolvere i
contrasti politici interni con le espulsioni. Il dibattito interno cessa di essere reso pubblico, mentre
l’intervento delle masse viene considerato un impedimento alla realizzazione della “giusta linea
politica” di cui, appunto, il partito e i suoi dirigenti risultano essere gli artefici insostituibili.
All’interno dell’organizzazione insorgono conseguentemente lotte di cricche il cui scopo è
esclusivamente quello di conquistare la grazia del vertice, poiché le simpatie della base possono
diventare controproducenti.
Un tale perverso e degradante processo si realizza con l’assenso e la complicità della stragrande
maggioranza del gruppo dirigente, Zinov’ev, Kamenev e Bucharin compresi. A favorirlo sono
certamente i radicali e profondi mutamenti che la composizione del partito stesso subisce nel corso
del primo decennio post-rivoluzionario. Mentre nel ’17 gli iscritti al partito ammontano ad appena
24.000 unità, dopo l’ottobre essi diventano 250.000 e dieci anni dopo, nel ’27, raggiungono il
milione. Nel ’28, compresi i candidati, si arriva ai 3 milioni. All’inizio degli anni ’30, accanto ai
militanti del Pcus, si contano anche 3 milioni di iscritti all’organizzazione giovanile, il Komsomol.
Come ben si può comprendere, negli anni successivi alla rivoluzione d’ottobre il partito viene
letteralmente invaso da una massa politicamente analfabeta che di fatto subissa quella élite
politicamente e culturalmente preparata che ha guidato la rivoluzione e che ora si presenta
indebolita soprattutto a causa della guerra civile e dalle difficoltà del cambiamento sociale stesso.
Succede cioè che la massa di centinaia di migliaia e poi di milioni di nuovi aderenti al partito, nella
qualità di amministratori, dirigenti, personale di controllo, ecc., sopraffa i vecchi bolscevichi, quel
ceto politico che lo stesso Stalin considera un ostacolo alla realizzazione del suo disegno e che,
essendo la vera anima del comunismo, teme possa riprendere forza e mettere in discussione il
sistema di potere che lui ha instaurato.
180
Con l’affermarsi del modello staliniano di partito non solo viene meno il principio del centralismo
democratico nella regolazione della sua vita interna, ma diventa una chimera l’autogoverno delle
masse. Il partito viene in sostanza sottomesso in modo assoluto alla volontà del dittatore e nella sua
vita interna prevale la logica militare, anzi, alla fine degli anni ’30 viene addirittura subordinato alle
forze di polizia.
In tali condizioni viene teorizzata l’infallibilità della sua politica e quella del suo capo e ciò che
corrisponde al vero è solo quello che si ritiene serva alla rivoluzione: la verità si incarna nel partitoStato.
Mentre Lenin insisteva sulla necessità dell’autocritica, ammettendo in linea di principio la
possibilità dell’errore, Stalin avversa questa pratica sia per il passato che per il presente e il futuro.
A costituire la ragion di Stato è nei fatti il marxismo-leninismo e ogni decisione presa in funzione di
essa deve essere vissuta come obbligante.
Poiché la società sovietica è attraversata da grandi sconvolgimenti, la figura del capo viene ad
assumere quasi naturalmente il ruolo di supremo mediatore fra le parti, di guida inappellabile e
fonte vivente del diritto. A lui viene attribuita la qualità di capo onnisciente. Mentre Lenin
ammetteva serenamente di essere incompetente in molti ambiti del sapere, il dittatore georgiano,
dopo aver decretato sulle questioni politiche, interviene anche su quelle letterarie e filosofiche e
induce il comitato centrale del Pcus a pronunciarsi sui problemi della musica e della biologia.
Tra i diversi divieti da lui sanciti vi è quello relativo alla stessa applicazione del metodo di analisi
marxista alla realtà economico-sociale e politica dell’Urss. A partire dalla metà degli anni ’30,
infatti, ogni analisi delle contraddizioni tra le diverse forze sociali viene soppressa. Egli decreta
addirittura delle censure a riguardo della storia delle idee del periodo precedente alla nascita dei
partiti comunisti.
A partire dai primi anni ’30 l’autonomia della ricerca scientifica viene estremamente limitata e
progressivamente abolita. Viene sancito il sostanziale rifiuto delle rivoluzioni fisiche
contemporanee, anzitutto quella eisteiniana della relatività, giudicata “insufficientemente
materialista”. La genetica mendeliana, la cibernetica e la sociologia moderna vengono considerate
prodotti della decadenza borghese, della degenerazione capitalistica.
La ricerca matematica viene limitata e subordinata ai soli problemi tecnologici che l’Urss è costretta
ad affrontare, quali la collocazione dei centri produttivi, il trasporto delle merci, la razionalizzazione
delle catene di montaggio. Alla fine degli anni ‘40 gli scienziati dell’Urss vengono obbligati dal
regime a far proprie le teorie e le concezioni pseudoscientifiche del biologo Lysenko, il quale
sostiene che la produzione agricola può essere moltiplicata qualora vengano adottati i procedimenti
suggeriti dal biologo evoluzionista francese Lamark. Chi si oppone a tale disposizione viene
internato nei gulag.
Così come avviene nella Germania nazista, le sperimentazioni e le innovazioni artistiche, come
l’arte astratta, vengono osteggiate e messe al bando quali degenerazioni socialmente pericolose.
Viene scomunicato il jazz e condannata qualsiasi espressione nuova di letteratura e di teatro. La
letteratura, l’arte, tutta la cultura, dalla filosofia alla storiografia, vengono totalmente assoggettate
alla politica del partito. Nel ‘34, il congresso degli scrittori vara ufficialmente al dottrina del
“realismo socialista” che Andrej Zdanov, divenuto braccio destro di Stalin, successivamente eleverà
a canone ufficiale per l’intera produzione artistica e culturale. Questa teoria considera la cultura
borghese in stato avanzato di marasma e decomposizione ed estende a tutte le sfere del sapere il
dogma marxista-leninista. E’ così che la cultura viene militarizzata, perde gli elementi essenziali
della soggettività e della criticità e ogni opera artistica e letteraria viene sottoposta a censura. Scatta
di conseguenza un mercato nero delle opere letterarie proibite il cui sviluppo viene alimentato anche
dalla Cia americana, la quale favorisce l’afflusso di pubblicazioni attraverso i marinai delle navi
sovietiche che approdano nei porti occidentali.
Negli anni ’30, l’organizzazione e il contenuto dello stesso sistema educativo sovietico acquista un
deciso carattere elitario e di esclusivismo intellettuale.
181
Anziché esplorare nuove vie nella costruzione del socialismo, Stalin trova più conveniente piegare
l’arretratezza della società russa al servizio del partito.
L’”uomo nuovo comunista” deve essere ateo e disprezzare la religione sia perché essa è d’intralcio
alla costruzione del socialismo sia perché è considerata una debolezza sociale da sradicare. Anziché
aprire il fronte di guerra al bisogno di religiosità, che nell’Urss è diffusissimo date le tradizioni della
società contadina, egli cerca di “ammazzare il cristianesimo” distruggendo gli edifici delle chiese e
richiudendo nelle carceri suore e preti. Alla religione dei pope sostituisce “la religione del
socialismo, nel senso che (il nuovo sistema) è destinato a sostituire nelle coscienze il Dio
trascendentale dei cattolici con la fiducia nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà
spirituale”. Il socialismo diventa così una fede che ha i suoi ministri e i suoi praticanti. E con questo
spirito egli fa erigere il mausoleo di Lenin e incoraggia il popolo a compiere pellegrinaggi al suo
corpo imbalsamato e a organizzare processioni con icone di dirigenti di partito, morti o vivi che
siano. Si compie in questo modo la santificazione dello Stato e prende corpo conseguentemente il
culto della personalità.
Eppure, nei suoi ricordi, Molotov scrive che i generali dell’Armata rossa gli hanno raccontato che
Stalin prima di una battaglia era solito dire a mo’ di augurio: “Che dio lo voglia!” oppure “Che dio
ci aiuti”.
In un clima siffatto, le masse popolari vengono a poco a poco escluse dalla partecipazione effettiva
del potere. Nel senso comune dei sovietici viene introdotta la nozione secondo cui socialismo
significa egualitarismo e passività. A un generale senso di delusione segue quindi il diffondersi di
un atteggiamento di stanchezza e di indifferenza che favorisce il consolidamento nei posti di
comando di chi obbedisce senza chiedersi se ciò che fa sia bene o male per la comunità.
A creare questo stato di cose concorre soprattutto il fatto che l’Urss è circondata da nemici
agguerriti e spietati e un simile accerchiamento favorisce l’esasperazione dell’appello a rinserrare le
file, a prepararsi a fare sacrifici e ad affidarsi all’incrollabile determinazione del capo.
Uno dei paradossi dello stalinismo è senz’altro costituito dal fatto che a metà degli anni ’30 viene
varata la nuova costituzione la quale, in teoria, elimina i privilegi politici del proletariato, ridà lustro
alla funzione degli intellettuali, legalizza le piccole proprietà contadine, abolisce il vecchio sistema
elettorale con le sue molteplici fasi e lo scrutinio palese, facendo così compiere un passo avanti alla
rappresentatività del sistema della delega. Si tratta però di provvedimenti che sono resi impraticabili
da un articolo stesso della costituzione, il numero 26, il quale appunto vieta qualsiasi presenza di
un’opposizione legale al potere del regime.
Nonostante la stridente contraddizione tra quanto proclamato da questa carta dei diritti e la pratica
sociale ormai consolidata, la nuova norma costituzionale del ’36 suscita grande emozione ed
entusiasmo sia dentro che fuori dei confini dell’Urss. Essa viene esaltata non solo dai comunisti di
ogni continente che la considerano la più democratica del mondo e il segno tangibile della bontà del
socialismo, ma anche dalla stessa cultura progressista internazionale la quale non tralascia, in quella
occasione, di fare l’apologia dello stalinismo. E’ questo un episodio che gli avversari del
comunismo non ricordano volentieri.
6.4 – Il “socialismo” del terrore
Alcuni storici hanno insisto parecchio nell’attribuire a Lenin l’origine del terrore in Urss. Si tratta di
giudizi che di certo non possono dirsi frutto dell’obiettività storica poiché a caratterizzarli è
soprattutto la volontà di mettere in cattiva luce l’operato dei bolscevichi. Un famoso e apprezzato
politologo nostrano che ama essere considerato progressista, recentemente ha addirittura attribuito
la nascita del gulag ai bolscevichi, sottacendo il fatto che, in Russia, l’istituzione di tali strutture di
segregazione è da far risalire ai tempi degli zar e che, soprattutto nell’epoca immediatamente
precedente la rivoluzione d’ottobre, hanno rappresentato il luogo di confine e di morte di tutti
coloro che si sono ribellati al loro dominio, in particolare proprio dei bolscevichi.
Precisato questo, è da riconoscere obiettivamente che prima di Stalin, a ricorrere al metodo della
182
reclusione e della destinazione ai lavori forzati di chi si opponeva al bolscevismo, è stato
effettivamente Lenin.
Il ricercatore russo Oleg Chlevnjuk, nel suo libro “Storia del Gulag”, documenta come già nel ‘19 è
stata creata all’interno del Commissariato del popolo una sezione per i lavori forzati riguardante non
meno di 200 mila detenuti. E in base agli studi condotti da G.M. Ivanova, è stato accertato che “il
numero dei lager crebbe rapidamente: verso la fine del 1919 in tutto il territorio della Repubblica
Federativa Socialista Sovietica Russa ce n’erano 21, nell’estate del 1920 ce n’erano 49, in
novembre dello stesso anno 84, nel gennaio 1921 107, nel novembre dello stesso ’21 ne esistevano
122”. E’ all’inizio degli anni ’20 che viene costruito il gulag di Belomorkanal.
Praticamente, via via che le resistenze dei controrivoluzionari aumentano, i bolscevichi riservano
loro la sorte che prima spettava agli antizaristi e mettono così in moto la spirale del terrore. Se
Stalin definisce “nemici del popolo” tutti coloro che si oppongono al regime, Lenin chiama “insetti
nocivi” gli avversari del socialismo.
E’ del resto proprio nel ’22, come dimostra Roy Medvedev, che si celebra il processo contro il
partito dei Socialisti rivoluzionari e del quale vengono falsificati gli atti e mantenuta una certa
segretezza sulle procedure, sperimentando così quei metodi che caratterizzeranno poi i “processi
farsa” di Stalin della metà degli anni ’30.
A giudizio dello storico russo Dimitrij Volkogonov, la spietatezza non è affatto una caratteristica
esclusiva di Stalin, ma riguarda l’intero gruppo dirigente che ha fatto la rivoluzione, Lenin
compreso. Egli conclude le sue ricerche sostenendo che “è l’etica di classe che giustifica le violenze
e le trasforma in virtù”.
Coloro che sostengono la tesi secondo cui Stalin, nell’esercizio del comando, è da considerarsi un
fedele allievo di Lenin, seppur spinti dal piglio anticomunista, di certo non raccontano una falsità.
Importante per chi vuole essere obiettivo, è fare distinzione fra i comportamenti dei due leader
bolscevichi. Difatti, mentre il principale protagonista della rivoluzione d’ottobre ricorre alla
violenza nei confronti dei controrivoluzionari esclusivamente in situazioni eccezionali, cioè di
estrema conflittualità e in assenza di soluzioni alternative, il dittatore georgiano la applica in
maniera sistematica sia all’interno che all’esterno del partito.
Molti studiosi si sono interrogati a lungo su cosa avrebbe potuto succedere nell’eventualità che
Lenin fosse vissuto più a lungo. “Avrebbe proceduto pure lui nell’intensificazione della politica del
terrore? A dominare sarebbe stata la burocrazia oppure avrebbero avuto il sopravvento i soviet?”,
si sono chiesti. Si tratta di interrogativi che purtroppo sono destinati a rimanere senza risposta. E’ il
caso semmai di ricordare quanto la sua compagna Nadezda K. Krupskaia, nel ’26, ebbe a rispondere
a chi le ha posto simili quesiti: “Se Lenin fosse vivo, (ora) sarebbe di sicuro in prigione”.
Sta di fatto che l’espansione dei metodi repressivi avviene in concomitanza del processo di
industrializzazione e di collettivizzazione delle campagne, cioè nel momento in cui nella società
sovietica esplodono contraddizioni difficilmente gestibili e tensioni acutissime.
E’ proprio a seguito della liquidazione della Nep e all’insorgenza delle difficoltà di governo dei
nuovi processi economici che nella personalità di Stalin affiora l’ossessione del complotto
controrivoluzionario e prende corpo la decisione di ricorrere a mezzi coercitivi per scongiurare la
destabilizzazione del potere sovietico. E’ a questo punto che la lotta politica cessa di essere
espressione di un leale confronto di idee e di esperienze, per trasformarsi in una lotta aperta senza
esclusioni di colpi. Vecchi compagni si fronteggiano come nemici irriducibili accecati dal fanatismo
e dal disprezzo per ogni forma di tolleranza e benevolenza. Si tratta di una svolta che investe non
solo il partito ma l’intera società.
Tutti coloro che esprimono critiche e riserve sulle scelte del capo del partito vengono accusati di
fomentare la sfiducia nelle capacità della classe operaia e nella rivoluzione stessa, e vengono
appunto considerati “nemici del popolo”.
Verso la fine degli anni ’20, le vecchie opposizioni di sinistra e di destra vengono fatte scomparire:
trotzkisti e opportunisti vengono eliminati in un sol blocco; lo stesso Bucharin viene escluso
183
dall’ufficio politico; vengono fatte cadere anche le teste dei quadri del partito e dello Stato che sono
stati forgiati attraverso la stessa selezione staliniana. E tutto questo avviene senza processi pubblici.
Viene ripristinato l’uso di quegli strumenti di coercizione di massa e di quei metodi repressivi che
sono stati applicati durante la guerra civile e che da tutti vengono considerati ormai appartenenti al
passato. E’ in questo periodo e in questo clima che nasce il termine gulag, quale acronimo di
direzione centrale dei lager (strutture che, come abbiamo visto, esistevano già) per indicare il
sistema dei campi di concentramento e di lavori forzati ai quali vengono destinati i dissidenti.
Nel dicembre del ’34, in seguito all’assassinio di Sergeij M. Kirov, suo stretto collaboratore, Stalin
scatena una repressione violentissima nel confronti dei principali membri del partito. Ad essere
sospettati e accusati del delitto sono i trotzkisti, ma trenta anni più tardi Chruscev lascia intendere
che a far fuori Kirov siano stati gli uomini della Nkvd su ordine dello stesso capo del Cremlino il
quale in questo modo ha potuto giustificare l’annientamento degli oppositori. Attraverso la
celebrazione dei famosi “processi di Mosca” ha così inizio il “grande terrore” che durerà per tutto il
resto degli anni ’30. La politica repressiva di Stalin colpisce il cuore del partito e dello Stato. Tra le
varie misure poliziesche vengono reintrodotti i passaporti interni istituiti ai tempi dell’autocrazia
zarista e che erano stati soppressi dalla rivoluzione.
Mentre la sindrome del tradimento è alimentata dalla convinzione che l’Urss è una “fortezza
assediata” e che gli agenti del nemico sono presenti, come infiltrati, nei gangli stessi della società,
le “purghe” vengono legittimate e spiegate con la tesi secondo cui si sarebbe ormai prossimi allo
scoppio di una guerra contro la patria del socialismo per mano dei nazisti. Di fronte a una tale
evenienza, Stalin elimina ogni possibile oppositore che potrebbe avvalersi di un’eventuale sconfitta
militare per contestargli il potere. A giustificazione dei processi, viene proclamata la teoria secondo
cui con l’avanzata dell’edificazione socialista va inevitabilmente acutizzandosi via via la lotta di
classe.
Il terrore favorisce la diffusione della mentalità secondo cui ogni difficoltà economica, ogni
traguardo non raggiunto dal piano del partito, sono da attribuirsi all’azione di sabotaggio. E in
questo spirito Stalin fa appello alle masse dei semplici e degli onesti contro i dirigenti corrotti e
deviati, ottenendo così un largo consenso.
Il primo Paese del socialismo si trasforma in un grande campo di concentramento e il clima che vi
regna è quello della paura e della delazione. Si diffonde una cultura della menzogna e una vera e
propria educazione alla falsità.
Oltre all’istituzione del passaporto interno, vengono prese misure drastiche come la registrazione
obbligatoria presso la polizia locale; pene severissime vengono introdotte per i reati contro il
patrimonio socialista, mentre milioni di persone vengono deportate.
Lo stesso Pcus viene subordinato alle forze di polizia e, come ai tempi dell’inquisizione, la
delazione diventa elemento sufficiente a far condannare un uomo.
Nel corso dei processi farsa contro i “nemici del popolo” gli imputati confessano crimini che in
realtà non hanno mai commesso. Ad essere portati davanti ai tribunali sono per lo più compagni di
Lenin e protagonisti della rivoluzione.
Le requisitorie del procuratore capo Viscinskij contro Kamenev, Zinoviev, Trotskij e molti altri
appaiono del tutte prive di ogni attendibilità giuridica, sono assenti dati di fatto e soprattutto le
prove delle imputazioni. Unici elementi di accusa sono le confessioni degli stessi imputati, accuse
che in sostanza sono semplici illazioni.
Come tali assurde confessioni pubbliche, da parte di uomini apparentemente nel pieno possesso
delle loro facoltà e senza segni di sevizie fisiche, abbiano potuto essere ottenute nel corso della
detenzione e dei dibattimenti, è rimasto a lungo uno dei grandi misteri della storia. Solo dopo
decenni si è avuta testimonianza delle tecniche che venivano usate da chi giudicava, e si è appreso
che le torture psicologiche e i maltrattamenti materiali inflitti agli imputati erano tali da spezzare la
loro volontà e distruggere le loro capacità razionali.
Bucharin ha definito la procedura adottata dai tribunali staliniani un “principio medievale”.
184
Nel fare tutto questo Stalin prende esempio dallo zar Nicola il quale ebbe a fondare l’Okharana,
cioè la polizia segreta imperiale la quale, tra i tanti compiti di istituto, aveva anche quello specifico
di sorvegliare strettamente le scuole e i collegi e di inviare ai lavori forzati perpetui in Siberia i
possessori di scritti vietati. Il sistema che egli adotta legittima, e pratica, è l’assassinio politico come
metodo di lotta.
Come ho già detto, l’Urss si trasforma a quel punto in un vero e proprio campo di concentramento.
Eppure l’entità del “grande terrore” è generalmente ignorata, anche tra gli stessi militanti comunisti.
A essere resi pubblici sono solo i tre grandi processi di Mosca le cui informazioni, ovviamente,
sono artefatte. Ma anche quando e laddove trapela un qualche spiraglio di verità, la reazione del
popolo comunista è decisamente improntata all’abulia e all’assuefazione. E’ impressionante, ad
esempio, constatare quanta riluttanza vi sia stata nel mostrare una qualsiasi solidarietà nei confronti
di Trotzkij o di Zinov’ev o di Bucharin nel momento delle loro esecuzioni. E questo clima di omertà
e disimpegno ha caratterizzato non solo il comportamento dei comunisti sovietici, ma anche quello
dei dirigenti dei Pc di tutto il mondo, nonché di noti uomini di cultura di sinistra. Un simile
atteggiamento si registra anche a riguardo dell’esistenza dei gulag.
Con l’estensione e la razionalizzazione dei campi di concentramento, il lavoro di centinaia di
migliaia, anzi di milioni di prigionieri, assume il carattere di una resurrezione dei rapporti
schiavistici. La costruzione delle strade ferrate rappresenta uno degli esempi più eclatanti della
degradazione dell’impiego degli ospiti di queste strutture.
Tuttavia, dal “realismo socialista” il gulag viene elevato a concetto filosofico della lotta di classe
che si inasprisce nella società socialista e che comporta la liquidazione di intere classi sociali e di
infiniti “nemici del popolo”. Esso viene così assurdamente giustificato in nome degli ideali
“umanistici” della futura società comunista. In alcuni film propagandistici dell’epoca, infatti, i
gulag vengono presentati come mezzo di elevazione dei detenuti e di edificazione del socialismo.
C’è anche chi, come lo scrittore Maksim Gorkij, si presta ad avallare questa interpretazione con
testimonianze personali. Dopo aver partecipato, nel giugno del ’29, a un’ispezione dell’arcipelago
gulag delle isole Solovki, egli afferma che “i Lager come le Solovki sono indispensabili”. E sì che
in quei campi di deportazione e di lavoro, così come negli altri dispersi sul suolo russo, sono morte
per fame, per maltrattamenti, per eccesso di lavoro, per malattia, milioni di persone! Nel periodo del
suo massimo rigoglio, l’arcipelago Gulag ha contato la presenza di 476 lager con una popolazione,
nel 1950, di circa 3 milioni di reclusi.
Il dato sorprendente è che a giustificare l’esistenza di questi luoghi di tortura e di morte sono anche
i comunisti dell’Occidente.
La stessa sinistra italiana, ad esempio, ha teso per lungo tempo a minimizzare i crimini dei
bolscevichi e mentre ha addebitato ai nazifascisti tutto l’orrore dei loro fini, ai sovietici ha
rimproverato soltanto l’orrore dei loro mezzi. In alcuni libri di storia scritti da intellettuali di
sinistra, viene fatta una distinzione tra il lavoro forzato nei gulag e i campi di concentramento
nazisti: mentre per i sovietici avrebbe avuto una valenza ‘economicistica’, per i tedeschi avrebbe
significato esclusivamente uno “spreco” (eloquenti le camere a gas). Si è poi insistito sul fatto che
mentre i bolscevichi hanno ereditato l’idea e la pratica del campo di concentramento e del lavoro
coatto dallo zarismo, i tedeschi li avrebbero prodotti in proprio, con l’aggiunta dei campi di
sterminio.
Si tratta a mio avviso di distinzioni che tendono a giustificare l’ingiustificabile e che distolgono
l’attenzione dalle responsabilità.
Credo semmai sia il caso di sottolineare, a proposito delle responsabilità dei bolscevichi, che il
gulag non è un prodotto esclusivo della filosofia di un potere e di una politica dispotici. Esso è,
prima ancora, conseguenza e risultato dell’incapacità della nuova classe dirigente di esprimere e
mediare gli interessi dei vari strati sociali che hanno costituito la base del processo rivoluzionario.
Data l’arretratezza della Russia e dati i guasti della guerra voluta dal regime zarista, insieme a quelli
prodotti dalla guerra civile, questi stessi strati sociali, anziché vedere migliorate le proprie
condizioni di vita, sono stati investiti dagli effetti perversi della grave situazione economica e
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sociale la quale ha generato un esteso malcontento, nonché ribellioni e rivolte. Intendo chiarire, in
sostanza, che il gulag non è semplicemente il frutto di una volontà autoritaria e repressiva, ma si
presenta a noi come una misura certamente arbitraria e violenta, ma in un certo senso necessitata
dalla determinazione dei bolscevichi di non ritornare al passato. Non essendo essi stati capaci di
governare in regime di democrazia una situazione tanto grave e complessa, si sono trovati nella
condizione di risolvere il problema ricorrendo alla repressione di tutti i disobbedienti all’autorità
costituita. Ad aggravare questi provvedimenti ha poi concorso la fobia staliniana.
6.5 – Le vittime dello stalinismo
Il “terrore” staliniano colpisce in maniera scientifica tutte le categorie di persone sospettate di
tradire il sistema. A partire dai contadini, dai Kulaki innanzitutto, considerati classe ostile alla
costruzione del socialismo dopo che si sono ribellati alle imposizioni del regime, Stalin investe
l’intera società con le misure repressive.
A metà degli anni ’30, tramite gli organi del ministero degli interni (Nkvd) e della magistratura, dà
avvio alla lotta contro i reali o supposti atti di sabotaggio i cui autori vengono definiti “specialisti
borghesi”. Poi si scaglia contro i rappresentanti delle vecchie classi ormai moribonde. Prende
quindi di mira quei funzionari statali che si sono dimostrati indulgenti, specie sul fronte del fisco,
verso i kulaki e i nepman e che per questo vengono accusati di “deviazionismo di destra”. Dopo di
loro è la volta dei rappresentanti delle forze politiche prerivoluzionarie, dei gruppi nazionali non
russi, e quindi di tutti coloro – fra i membri del partito – che hanno assunto atteggiamenti critici nei
suoi confronti. La repressione si abbatte massiccia anche sulla categoria degli intellettuali.
Nei primi decenni del Novecento, in Russia sono sorti straordinari movimenti d’avanguardia che
rappresentano una ribollente fucina di innovazioni e di sperimentazioni in tutte le arti, dalla
letteratura alla poesia, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cinema, dall’architettura alla musica.
Gran parte di queste espressioni artistiche e letterarie si considerano pattuglie avanzate della grande
trasformazione politica e sociale in corso nel Paese e accolgono la rivoluzione d’ottobre con grande
entusiasmo diventando, ciascuna nel proprio campo, i coriferi del potere bolscevico. A mettersi al
lavoro per dare al regime una politica culturale sono, tra gli altri, Andrei Belyi, Vladimir
Majakovskji, Nikolai Gumilev, Anna Achmatova, Maksim Gorkij, Konstantin Stanislavskij,
Vsevolod Mejerchol’d, Sergej Ejzenstejn, Vsevolod Pudovkin, Kazimir Malevic, Aleksandr
Rodcenko, Vladimir Tatlin, Marc Chagall, Vasilij Kandinskij. Questo idillio tra avanguardie
culturali russe e regime sovietico dura però solo fino alla seconda metà degli anni ‘20 e si esaurisce
con l’imbavagliamento della vita intellettuale e con la repressione di chi non si mette in linea con le
deliberazioni del partito. Stalin considera “deviazionisti” molti di questi intellettuali, tra i quali vi è
Alexandr Bogdanov, e li condanna al carcere e all’isolamento. Alcuni di loro, com’è il caso di
Babel’, Pil’niak, Mandel’stam e Mejerchol’d scompaiono misteriosamente, altri come Majakovskji
si suicidano dopo aver subito umiliazioni e angherie.
A partire dal ’36, a essere travolti dalle misure violente sono i dirigenti del partito, poi tocca
all’apparato statale, compresi i funzionari dei gradi gerarchici più elevati, e quindi agli stessi solerti
artefici della macchina repressiva, cioè gli uomini della polizia segreta, a partire da Genzich G.
Jagoda e da Nikolaj Ezov.
Nel ’37 l’offensiva staliniana assume un carattere di massa e si rivela come la più massiccia e
devastante offensiva di repressione politica che la Russia abbia mai conosciuto. E prosegue per tutto
il ‘38 spegnendosi solo nel ‘39. Continua, anzi si intensifica invece la campagna antisemita che
proseguirà fino al ’53.
A subire le persecuzioni non sono solamente quei dirigenti o membri del partito che hanno
realmente commesso abusi e violazioni di legge, ma anche coloro cui viene arbitrariamente
attribuita la responsabilità di aver suscitato lo scontento popolare e di non aver attuato in maniera
rigorosa le disposizioni della direzione del partito. Chi non la pensa come Stalin viene
criminalizzato ed emarginato. Suoi nemici principali sono Trotzkij, che considera pericoloso quanto
186
Hitler, e Bhucharin: ambedue vengono fatti fuori selvaggiamente. Vittime dei processi, nella
seconda metà degli anni ’30, sono anche Zinov’ev, Kamenev, Piatakov, Radek e Rikov. Insomma,
tutti gli esponenti del vecchio bolscevismo vengono vissuti dal dittatore georgiano come spettri del
comunismo e perciò come possibili contestatori della sua leadership.
Il secondo conflitto mondiale non è ancora terminato quando Stalin, patologicamente sospettoso,
ordina la repressione di tutti coloro che, nelle fase iniziale della guerra, hanno osato alzare la voce
per criticare la sua condotta strategica. Alla conclusione del conflitto, migliaia di reduci passano
direttamente dal campo di battaglia ai lager. All’indomani del secondo conflitto mondiale ordina
l’arresto in massa dei prigionieri di guerra di ritorno dai campi di concentramento tedeschi e della
gente deportata in Germania ai lavori forzati.
Processi contro i traditori, alla maniera di quelli celebrati negli anni ’30, vengono istruiti in Georgia
e in Cecoslovacchia. Tra i condannati vi sono anche dirigenti e militanti comunisti. Interi popoli,
accusati sommariamente di aver collaborato con i tedeschi, vengono deportati in Siberia e in altre
regioni remote.
A partire dal ’48, a seguito della rottura con la Jugoslavia ha inizio un nuovo “terrore”.
Tito doveva morire. A svelare il complotto è il generale e storico Dimitri Volkogonov, consigliere
del presidente Eltsyn per le questioni militari. Ad uccidere il maresciallo jugoslavo avrebbe dovuto
essere l’agente sovietico, incaricato da Stalin, Nikolai Grigulivichin, in occasione di una sua visita a
Westminster, in Inghilterra. Grigulivich era già stato protagonista del primo attentato a Trotzkij. Il
progettato assassinio avrebbe dovuto avvenire tra il 16 e il 20 marzo del ’53, ma a causa della morte
di Stalin avvenuta il 5 marzo non se ne fece nulla.
Di quest’epoca è anche il celebre “complotto dei medici” secondo cui una diecina di luminari di
origine ebrea, stando alle imputazioni, avrebbero avvelenato Zdanov e si sarebbero apprestati ad
assassinare lo stesso Stalin.
Il dittatore georgiano, poco prima di morire, fa fucilare il relatore del piano quinquennale,
accusandolo di voler ristabilire il capitalismo. Lo stesso potente capo della polizia segreta, Lavrenti
Beria, viene minacciato di essere purgato e proprio per questa ragione sembra che egli abbia
rifiutato di prestare soccorso a Stalin quando è stato trovato riverso privo di sensi sul pavimento
della sua dacia. Alcuni storici hanno avanzato il sospetto che sia stato proprio lui ad avvelenarlo.
E’ infine da notare che i metodi repressivi adottati dal capo del Cremlino sono sopravvissuti alla sua
morte. Ancora nel ’62, a Novocherkassk, si verifica una terribile repressione, mentre negli ospedali
psichiatrici dell’Unione sovietica, anche negli anni ’60, hanno continuato a confluire i dissidenti
con diagnosi di “schizofrenia con lento decorso”.
A tentare di quantificare le vittime dello stalinismo ci hanno provato in molti. Nella maggioranza
dei casi, però, le stime che sono state avanzate obbediscono più alle persuasioni politicoideologiche dei loro autori che a una rigorosa documentazione scientifica.
Un esempio eloquente è rappresentato da quanto Stéphane Courtois sostiene in “Le livre noir du
communisme”, edito in Francia nel ’97 in funzione anticomunista. Secondo questo autore le vittime
del comunismo nel mondo sarebbero stimabili in 20 milioni nell’Unione sovietica, 65 milioni in
Cina, 1 milione in Vietnam, 2 milioni nella Corea del Nord, 2 in Cambogia, 1 nell’Europa dell’Est,
150 mila in America latina, 1.700.000 in Africa, 1.500.000 in Afghanistan, 12.000 in altri Paesi
dove i comunisti sono stati al potere. In sostanza, i martirizzati dal comunismo sarebbero più di 90
milioni. E’ da tenere presente che nello stesso libro, sia i conti che i criteri di stima variano a
seconda delle situazioni e delle circostanze e questo rende discutibili le tesi formulate. Courtois
sostiene tra l’altro che la carestia del ‘22 è stata voluta da Lenin che così facendo avrebbe
coscientemente e di proposito fatto morire di fame milioni di persone. A suo dire, l’uso dell’arma
della fame tramite la provocazione di carestie sarebbe una caratteristica tipica di tutti i regimi
“rossi”.
Altri “libri neri” sostengono che le vittime del comunismo disseminate in tutto il mondo
oscillerebbero addirittura tra gli 80 e i 200 milioni di unità.
187
Anche l’inglese Robert Conquest, sostenitore della teoria degli opposti totalitarismi (fascismo e
comunismo), ritiene che le vittime in Urss sarebbero da stimarsi in 20 milioni; gli arresti praticati da
Stalin avrebbero coinvolto circa 8 milioni e mezzo di persone, di cui solo un 10% avrebbe poi
subito l’esecuzione.
Il nostro Pietro Melograni indica in 10 milioni le vittime complessive, tra cui i contadini massacrati
o deportati, i dirigenti di partito e gli “specialisti borghesi” perseguitati e anche i fucilati o arrestati
dopo il caso Kirov; i reduci della guerra di Spagna assassinati, i militari sovietici fatti prigionieri dai
tedeschi e fatti fuori per questa onta.
Secondo altri calcoli considerati “prudenti”, i morti sarebbero da stimarsi tra i 20 e i 25 milioni;
mentre le vittime della repressione (deceduti e sopravvissuti) nella sola Federazione Russa
sarebbero state 41 milioni. Altre stime ancora, considerate da molti attendibili, calcolano che tra il
’35 e il ’45 sarebbero state arrestate 18 milioni di persone di cui 7 milioni fucilate.
La collettivizzazione forzata delle campagne sarebbe costata, secondo alcuni storici, tra i 5 e i 10
milioni di vittime. Fra l’agosto ‘37 e il novembre ‘38 il “grande terrore”, investendo da un punto
all’altro l’intero Paese, avrebbe provocato 2 milioni di morti.
A seguito delle tragiche “purghe” della fine degli anni ‘30 è nato il sistema penitenziario dei gulag
nel quale, secondo Van der Linden, sarebbero stati reclusi e sottoposti ai lavori forzati fra i 4 e i 13
milioni di persone. Sarebbero anche stati arrestati più di 6 mila scrittori, molti dei quali scomparsi
mentre altri si sarebbero uccisi. Ammonterebbero invece a 35 mila gli ufficiali dell’Armata rossa
decimati, più di quanti ne abbia uccisi la guerra.
A dire invece di due storici americani, Arch Getty e Gabor Rittersporn, i cui studi si basano sulla
consultazione degli archivi del Cremlino e sulle ricerche dello storico russo Viktor Zemkov, le
vittime del terrore staliniano, cioè i morti “documentati”, sarebbero 800 mila. Anche secondo una
corrente accademica “negazionista” degli Usa, che non è neppure di sinistra, il numero delle vittime
dello stalinismo sarebbero “appena” 800.000.
Il dissidente Andrei Sacharov ha invece quantificato le vittime in 15 milioni, mentre Aleksandr
Solzhenitsyn le ha stimate addirittura in 60 milioni, tra fucilati, torturati e deceduti per fatiche e
fame.
Le conclusioni a cui sono giunti alcuni studiosi comunisti dei Paesi satelliti e dell’Occidente,
confermano la gravità del “terrore” staliniano. Alcuni di loro hanno calcolato che, tra il ’21 e il ’53,
le vittime siano state oltre i 4 milioni, di cui 800 mila giustiziate. Lo jugoslavo M. Pajade sostiene
che nel triennio ’36-’38 i morti in Urss sono stati più di 3 milioni; mentre il polacco S. Swianiewic
calcola che alla fine degli anni ’30 gli abitanti del vasto sistema dei campi di lavoro forzato (gulag)
siano da stimarsi in 6 milioni e mezzo. Il comunista italiano Umberto Cerroni ritiene che abbiano
raggiunto i 16 milioni di unità.
I dati più verosimili restano in ogni modo quelli forniti dagli stessi studiosi russi che sono stati
elaborati in base a testimonianze documentarie.
I dati ufficiali che nel ’54 sono stati forniti a Chruscev dal Ministro dell’Interno dell’Urss e sulla cui
base è stata formulata la condanna dello stalinismo, dicono che le persone uccise sotto il regime di
Stalin sono state 353.074 nel ‘37 e 328.618 nel ‘38. Dei 1.966 comunisti delegati al 17° congresso
del Pcus, nel ’34, 1.018 sono stati arrestati, mentre dei 139 membri del comitato centrale del partito
eletti da quel congresso, 10 sono stati uccisi, 98 arrestati e poi eliminati. Dei 1.827 delegati a quella
stessa assise, al 18° congresso, cioè nel ’39, risultavano essere sopravvissuti solo 37. I prigionieri
dell’arcipelago Gulag sono stati stimati in 1.313.000 unità nel ’38 e 1.560.000 nel ’41.
Chi ha analizzato però il rapporto di Chruscev al XX congresso, ha riscontrato che sia quei dati che
gli stessi resoconti dei processi del ‘36, ‘37 e ‘38 hanno subito una falsificazione. Dopo quel
congresso, infatti, è stato fatto sparire tutto il materiale documentario di riferimento. La stessa storia
del Pcus e gli opuscoli propagandistici a essa inerenti hanno continuato a essere mistificati. Per fare
un esempio, tutte le accuse formulate nei confronti di Bucharin, Kamenev e Zinov’ev, ritenuti
“nemici del popolo”, sono state censurate. Tanto è che per decenni non è stato possibile formulare
una valutazione giuridica di quegli eventi, invalidando così la possibilità di esprimere un obiettivo
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giudizio politico su di essi. Ancora durante l’era Breznev lo storico Voganov, nel suo libro “La
deviazione di destra del Pcr(b)”, si può ancora permettere di definire Bucharin un “nemico del
popolo”.
E’ solo con l’apertura degli archivi segreti e con la pubblicazione dei rapporti dei ricercatori e degli
storiografi che si è fatta un po’ più di luce sui crimini dello stalinismo.
Da queste ricerche emerge che gli arrestati durante le “purghe” sono stati 779.056. Dal ’34, quando
erano “solo” 68.415, si è registrata una impressionante tendenza al crescendo.
Sui morti nei gulag non ci sono ancora cifre esatte. Un dato che forse può essere indicativo è che nel
‘37 la popolazione totale dell’Urss ammontava a 164 milioni, esattamente 16 milioni e 700 mila
unità in meno rispetto alle previsioni demografiche del 2° piano quinquennale 1933-38. Si tratta di
un calo demografico che lascia spazio a drammatiche interpretazioni.
Lo storico ricercatore Chlevnjuk ha documentato come tra il ‘30 e il ‘41 siano state fucilate ben 726
mila persone; siano stati deportati 20 milioni di uomini, donne e bambini, mentre altri 3 milioni di
civili siano stati inviati negli insediamenti speciali di lavoro nel corso delle operazioni di pulizia
delle frontiere.
Roy Medvedev ha fornito le seguenti cifre: tra il ‘36 e il ‘39 da 4 a 5 milioni di persone sono state
condannate per motivi politici, e almeno 400 o 500 mila di esse fucilate, mentre le rimanenti sono
state deportate in lager nei quali solo poche sono sopravissute. A suo giudizio, nella storia
dell’umanità nessun tiranno avrebbe massacrato un numero di compatrioti tanto grande quanto
quelli repressi da Stalin.
Aleksander Yakolev, dirigente della commissione per la riabilitazione delle vittime delle repressioni
creata da Eltsyn nel ‘92, ha documentato che negli anni ’30, in Ucraina e nel bacino del Volga, i
morti sono stati 5 milioni e mezzo. Ha poi rilevato che le etnie represse sono state una trentina, tra
queste la cecena, la polacca, la curda, la tedesca, la macedone, la coreana, la greca, quella cinese e
poi quella dei calmucchi, dei lettoni e dei lituani.
Lo storico Russo Dimitri Volkogonov, che nel ‘93 è stato presidente della commissione
parlamentare russa incaricata di aprire gli archivi politici, ha sostenuto che “dall’inizio della
collettivizzazione nel 1929, alla morte del ‘Piccolo Padre dei popoli’, nel 1953, hanno subito
repressioni 21 milioni e mezzo di persone: un terzo è stato fucilato e un altro terzo è morto in un
gulag. In totale, hanno perso la vita a causa dello stalinismo 14 milioni di persone”.
Dalla documentazione rintracciata negli archivi del Cremlino risulta che “l’arcipelago gulag”
comprendeva in tutto 53 campi e 426 colonie penali, ai quali vanno aggiunti ancora i “reparti
regionali” e 50 “campi speciali” per minorenni. In totale, negli anni che vanno dal ‘34 al ‘47, i
deportati sono stati oltre 10 milioni.
Secondo i calcoli che gli esperti russi hanno reso pubblici nel 2000, dal ‘17 in poi le vittime delle
repressioni staliniane sarebbero state 40 milioni.
Addossare al solo Stalin la responsabilità delle purghe e del clima di terrore creato in Urss alla fine
degli anni ‘20 e nel decennio successivo, significa interpretare i processi storici in un’ottica
ideologica, cioè come frutto dell’agire di un singolo personaggio e non invece come prodotto di
situazioni e di circostanze complesse e, soprattutto, come risultato di un protagonismo di massa.
Così come è stato per il nazismo e per il fascismo, anche le repressioni, le persecuzioni dei
dissidenti, gli assassinii di massa compiuti in Urss hanno potuto essere eseguiti solo grazie
all’impegno fisico e alla determinazione di centinaia di migliaia, anzi di milioni di persone.
Quando ci si chiede come ciò sia potuto accadere, come sia stato possibile che un progetto di
società più giusta e più umana sia degenerato al punto tale di dare luogo ai più orrendi crimini che
la storia dell’uomo ha conosciuto, non si può e non si deve dimenticare che la violenza staliniana
affonda le sue radici nella stessa tradizione rivoluzionaria borghese europea. Tra le cause che hanno
concimato l’autoritarismo dei bolscevichi e il dispotismo di Stalin vi è infatti proprio la concezione
giacobina del potere politico, aggravata per di più non solo da una fede quasi morbosa nella
necessità e possibilità di forzare lo sviluppo storico-sociale in un contesto economicamente e
socialmente arretrato, ma anche dalla radicalizzazione dello scontro voluta e determinata da chi si
189
era proposto di strozzare l’esperimento socialista sul nascere, cioè quando ancora quel progetto era
“in fasce”.
Del resto, l’avvento di un nuovo grado di civiltà non è mai avvenuto in maniera indolore. La
volontà di sopravvivenza dei vecchi poteri, l’inerzia delle strutture sociali al tramonto, la resistenza
alle novità, coniugate con l’impazienza rivoluzionaria, producono inevitabilmente situazioni gravi e
drammatiche nella quali ogni proposito di sperimentazione pacifica e democratica è destinato
inesorabilmente a soccombere. A prevalere è la violenza. E a quel punto salta ogni possibilità di
assegnare il primato alla creatività dei soggetti sociali e alla contesa democratica; s’impone invece
necessariamente il regime dittatoriale che fonda sul ricorso alla pratica autoritaria e repressiva, sul
privilegio della mediocrità nella selezione del personale politico e genera in questo modo nella
società disimpegno, diffidenza e rassegnazione.
Così commentava l’operato di Stalin, ai tempi del suo dominio, il prestigioso filosofo J. P. Sartre:
“Il pericolo esterno e le resistenze interne esigono l’indissolubile unità del gruppo dirigente. Il
culto della personalità è innanzi tutto il culto dell’unità sociale in una persona. Nessuno può
stupirsi di veder nascere questa idolatria in un regime che denuncia e rifiuta l’individualismo
borghese… Subordinando la sua persona al gruppo, il sovietico evita i vizi assurdi del
personalismo borghese”.
Tenere conto di questi fattori non può e non deve significare affatto giustificare le nefandezze
compiute dal regime staliniano. Vuol dire invece essere animati da un sincero interesse a
individuare le cause e le ragioni profonde di quella tragica esperienza, voler comprendere gli errori
che sono stati compiuti dai suoi artefici proprio per non ripeterli e per poter andare oltre la teoria e
la pratica consolidata dalla tradizione.
C’è stato e c’è ancora, purtroppo, chi giustifica in modo supino e compiacente l’operato di Stalin,
dando segno di non voler trarre le dovute lezioni dalla storia. E c’è pure chi lo giudica con una
buona dose di cinismo. Lo storico Giorgio Galli, ad esempio, in “Stalin e la sinistra: parlarne senza
paura”, sostiene che il dittatore è solo “un mostro al 12%” poiché ha causato la morte di 9 milioni di
persone contro i 75 milioni di morti causati dalle guerre mondiali. Simili atteggiamenti, a mio
giudizio, nuocciono decisamente alla stessa causa del socialismo.
Credo non si sia ancora riflettuto a sufficienza sui danni che alla sinistra sono derivati dagli
atteggiamenti omertosi e di tolleranza, quando non addirittura di aperta condiscendenza, che le
forze del movimento operaio hanno avuto nei confronti dello stalinismo. Non va dimenticato che
quando Stalin liquida Trotzkij, Zinov’ev, Kamenev e altri dirigenti ancora, la quasi totalità dei
dirigenti dei Pc del mondo, e anche degli uomini di cultura, si dimostrano riluttanti a prendere le
difese dei condannati e quei pochi che lo fanno pagano il loro gesto con la persecuzione e
l’emarginazione dal movimento. C’è stato addirittura chi ha salutato ed esaltato quegli eventi come
una “rivoluzione antiburocratica”.
Eppure, sono proprio quelle repressioni e quegli assassini che decretano l’inizio del fallimento del
primo tentativo di costruzione di una società socialista.
Così come non va sottovalutato il fatto che a differenza della rivoluzione francese, quella
bolscevica ha conosciuto un periodo di “terrore” che non è stato affatto breve e che anzi è durato
decenni e con proporzioni che non sono paragonabili a quelle del terrore giacobino.
Cosa certa è che la società sovietica, quando è uscita dalla spirale del “terrore” degli anni ’30, aveva
nulla da spartire con l’utopia comunista della “società dei liberi e degli eguali”. E non si può dare
torto a Olga Fejdenberg la quale, all’indomani della seconda guerra mondiale, di fronte alle
persecuzioni scatenate dallo zdanovismo, ha scritto che il marxismo in Urss non era affatto “una
concezione del mondo, non un metodo, ma una frusta”.
Stalin è stato l’artefice principale della sconfitta del nazismo, e questo è un fatto indiscutibile. Egli
però si è anche assunto la responsabilità di mandare alla morte milioni di persone, e anche questo
non può assolutamente essere dimenticato neanche per un istante. Va giudicato e condannato per
quel che ha fatto. E la sua condanna non può e non deve offuscare le gravi responsabilità di chi è
190
stato complice delle degenerazioni e degli irreparabili danni che egli ha procurato alla causa del
socialismo.
6.6 – La bolscevizzazione dei partiti comunisti e la politica estera dell’Urss
La repressione staliniana non viene attuata solo entro i confini dell’Urss ma investe anche i partiti
comunisti fratelli. Uno degli avvenimenti più eloquenti di questa sanguinaria prevaricazione è
costituito dall’odioso assassinio di Andrés Nin del Partito operaio di unità marxista spagnolo che
viene compiuto in nome della assurda lotta al trotzkismo, parificato da Stalin al fascismo. Di questo
omicidio si rendono complici dirigenti comunisti come Josè Diaz, Maurice Thorez, Georgi
Dimitrov e lo stesso Palmiro Togliatti, i quali lo giustificano con motivazioni pretestuose e ciniche,
prive di sensibilità umana. Non per nulla Fernando Claudin ha scritto che l’assassinio di Nin è stato
“la pagina più nera della storia del Partito comunista spagnolo”, e non solo di quello. A imperare
in quel momento nelle file del movimento comunista è infatti la “ragione del campo di
appartenenza”, un “valore” sul cui altare viene cinicamente sacrificato tutto il resto.
Le “purghe” staliniane colpiscono, oltre ai dirigenti e ai militanti comunisti dei partiti fratelli che
non intendono condividere l’operato e le direttive dell’Internazionale, anche coloro che a causa
della loro militanza antifascista hanno dovuto abbandonare i loro rispettivi Paesi di origine e
chiedere asilo politico nella “patria del socialismo”. Circa il 70% dei rifugiati tedeschi in Urss, ad
esempio, vengono richiusi nei gulag. E pure un migliaio di emigrati italiani incappano nelle
“purghe” senza neppure riuscire a capire in base a quali accuse vengono condannati. Almeno una
cinquantina di loro vengono fucilati a Levashovo e sepolti in fosse comuni, mentre altri muoiono
per le percosse subite oppure per fame. Ad alcuni sopravvissuti ai gulag, Paolo Robotti, dirigente
del Pci e cognato di Togliatti, preclude o comunque rende difficile il rientro in Italia, nell’intento di
impedire che questi sopravvissuti svelino le atrocità subite nella patria del “sol dell’avvenire”.
Robotti confessa, infatti, con vanto di aver “smascherato spesso trotzkisti e le loro conversazioni
controrivoluzionarie” e di aver steso “note e relazioni sui loro interventi nelle riunioni”. A rimanere
integro, nel periodo di permanenza in Urss, è solo il gruppo dirigente del Pci.
Il coinvolgimento dei comunisti non sovietici nella spirale repressiva messa in atto da Stalin è anche
una delle conseguenze della bolscevizzazione dei partiti affiliati alla Terza Internazionale, avvenuta
nel ’24, la quale ha comportato l’uniformazione della linea politica e dell’etica comunista a livello
mondiale.
Quando Lenin si ritira dalla vita politica, perché a causa della malattia non è più nelle condizioni
fisiche di gestire la direzione del partito e dello Stato, ai vertici del Pcus hanno inizio gli scontri tra i
vecchi bolscevichi. Attori principali di questa disputa sono Stalin, Trotzkij, Zinov’ev, Kamenev,
Bucharin e Preobrazenskij. I temi del loro contendere riguardano l’industrializzazione, la politica
agricola, il rapporto tra proletariato e contadini, il processo di accumulazione, il mercato e,
ovviamente, la direzione del partito e dello Stato. Come abbiamo già visto, a prevalere è Stalin il
quale, conquistato il potere, non solo impone una virata settaria al Pcus, ma estende ai partiti fratelli
l’obbligo di applicare nei loro rispettivi ambiti il modello rivoluzionario russo facendolo diventare
la pietra di paragone dell’internazionalismo proletario. Una simile svolta è ovviamente frutto anche
della disillusione per gli insuccessi dei partiti comunisti occidentali ai quali viene a quel punto
imposto di cambiare strategia per recuperare forza e credibilità politica.
Al 5° congresso dell’IC Zinov’ev spiega tale decisione nel modo seguente: “Bolscevizzazione
significa ferma volontà di lottare per l’egemonia del proletariato, significa odio ardente per la
borghesia, per i capi controrivoluzionari della socialdemocrazia, per il centrismo e per i centristi,
per i semicentristi e per i pacifisti, per tutti gli aborti dell’ideologia borghese. Bolscevizzazione è
creazione di un’organizzazione compatta, monolitica e fortemente centralizzata, che supera
amichevolmente e fraternamente le divergenze nelle proprie file, come ci ha insegnato il compagno
Lenin”.
191
A riguardo del processo di bolscevizzazione, nella “Storia del Partito comunista (bolscevico)
dell’Urss” si legge: “A capo della classe operaia si trovava un partito provato nelle lotte politiche
come il partito bolscevico. Soltanto un partito come il partito bolscevico, sufficientemente ardito
per portare il popolo all’assalto decisivo e sufficientemente guardingo per evitare gli scogli di
qualunque genere sul cammino del successo, soltanto un partito come questo poteva unire in un
modo così saggio, in un solo torrente rivoluzionario, dei movimenti rivoluzionari tanto diversi
quanto il movimento democratico generale per la pace, il movimento democratico per
l’occupazione delle terre dei proprietari fondiari, il movimento di liberazione nazionale dei popoli
oppressi in lotta per l’eguaglianza nazionale e il movimento socialista del proletariato per il
rovesciamento della borghesia e per l’instaurazione della dittatura del proletariato”.
A seguito della bolscevizzazione, la storia dell’Internazionale comunista è percorsa da una
permanente contraddizione: partiti creati nel cuore di un’epoca rivoluzionaria e forgiati come
avanguardie di una rivoluzione che si ritiene essere imminente, si ritrovano nei fatti ad agire in una
congiuntura di stabilizzazione relativa del capitalismo, anzi addirittura di reazione
controrivoluzionaria, dimostrandosi così inadeguati e incapaci di dare gambe ai loro progetti.
Con la bolscevizzazione viene istituzionalizzata una forma di controllo dell’esecutivo dell’Ic da
parte del partito russo. La designazione dei gruppi dirigenti dei partiti che vi aderiscono viene
demandata a una commissione nominata dall’esecutivo stesso e ogni contrasto politico che insorge
al loro interno viene regolato con la pratica dell’espulsione.
Dopo il ’27, l’Ic viene trasformata in un mero strumento della diplomazia del Cremlino e nel ’28 la
sua direzione viene completamente concentrata nelle mani della frazione staliniana. A dire di
Angelo Tasca, che dal settembre ‘28 al gennaio ‘29 fa parte del suo organismo esecutivo, “il
segretariato politico è una banda raccogliticcia, tenuta insieme da ragioni le più varie, e
organicamente incapace di fare un lavoro politico qualificato”.
Dopo la bolscevizzazione, la sopravvivenza di un gruppo dirigente non pienamente gradito
all’esecutivo e alla leadership staliniana si rivela praticamente impensabile.
Agli occhi di Stalin e dei suoi lacché ogni rivoluzione diventa tollerabile solo alla condizione che
non entri in conflitto con gli interessi dello Stato guida.
Nel corso del lustro che va dal ‘24 al ‘29 vengono compiute alcune scelte che sono considerate
fondamentali per il movimento comunista internazionale. Viene cioè sistematizzato in forma
sempre più dogmatica il “leninismo”, definito “marxismo dell’epoca dell’imperialismo e della
rivoluzione proletaria”; viene decretata la scomunica ufficiale del luxemburghismo e del trotzkismo
e viene imposto il monolitismo ideologico al “partito mondiale” della rivoluzione. Nelle tesi del 5°
congresso dell’Ic viene prescritto che “realizzare il leninismo nel Comintern significa smascherare
il trotzkismo in tutti i partiti e liquidarlo come corrente”. Viene poi affermato il principio secondo
cui i comunisti devono lottare soprattutto contro il nazionalismo delle borghesie dei rispettivi Paesi
e contro il particolarismo. Mentre viene lanciata una campagna contro questa tendenza, l’Ic –
smentendosi clamorosamente – appoggia la rivendicazione dei croati, degli sloveni e dei
macedoni alla separazione dalla Jugoslavia e alla costituzione di repubbliche indipendenti.
Non è un caso che a partire dalla fine degli anni ’20 qualsiasi sviluppo critico-evolutivo del
marxismo avvenga all’esterno della Terza Internazionale, cioè fuori e al riparo del controllo degli
stalinisti, in polemica con l’ideologia ufficiale. Questo succede per l’austromarxismo, per la Scuola
di Francoforte, per le teorie cinesi e per quelle dei Korsch, dei Trotzkij, dei Gramsci, e di altri
singoli dirigenti del movimento che operano più in dimensione personale che collettiva, e quasi
sempre in totale isolamento politico, quando non addirittura in condizioni di segregazione
carceraria. Negli ambienti dell’Internazionale, l’unica integrazione del marxismo-leninismo che
viene considerata legittima è quella apportata dagli sviluppi del pensiero di Stalin e a prevalere è il
criterio secondo cui la teoria deve servire solamente a giustificare l’azione, principio questo che,
appunto, fa dello stalinismo un sistema ideologico, cioè una dottrina decisamente in antitesi alla
teoria marxiana.
192
A mio modo di vedere, mentre si è scritto molto sui gulag e sulla politica repressiva dei bolscevichi,
si è meditato poco sulla capacità di Stalin di bloccare le menti e di anestetizzare lo spirito critico e
creativo degli individui. Più ancora che il lavoro forzato e la reclusione, è questa fondamentale
operazione di ipnosi collettiva che gli ha consentito di dominare in modo quasi incontrastato non
solo il popolo sovietico, ma anche la maggioranza dei comunisti di tutto il mondo.
La sua dittatura ha comportato uno scempio politico-culturale su scala globale e ha fatto compiere
al movimento comunista tragici errori le cui conseguenze pesano ancor oggi su di noi. Torna
pertanto istruttivo ricordare alcuni dei dissennati atti politici che hanno contraddistinto l’era
staliniana su scala internazionale.
Nel ’29, con la tesi del “socialfascismo”, viene sancita la rottura con Bucharin, da lui considerato
“di destra”, dopo di che viene imposta una sterzata nella gestione dell’organizzazione del partito e
dello stesso Ic. Obiettivo principale di questa svolta è quello di eliminare i “destri” dai partiti
comunisti, nella convinzione della supposta fine della stabilizzazione capitalistica (sono i tempi in
cui si avvertono i primi sintomi della crisi economica mondiale).
All’Ic vengono imposte strategie e politiche agricole decisamente arretrate rispetto ai processi reali.
Mentre, da un lato, viene esasperato quel processo che, imposto ai bolscevichi dai contadini al
tempo della rivoluzione d’ottobre, ha portato alla distribuzione delle terre, dall’altro, si persevera
nel considerare i lavoratori della terra degli aspiranti borghesi e pertanto potenziali nemici della
classe operaia, nonostante venga impartito al movimento l’obiettivo di costruire governi operaicontadini. Questa contraddizione fa sì che tra i programmi generali annunciati e le iniziative
politiche concrete si verifichi un distacco enorme che provoca drammatiche ripercussioni sul piano
economico e sociale.
Rispetto al problema delle alleanze in Cina, Stalin predilige un fronte democratico-borghese
antifeudale la cui egemonia viene affidata al Kuomintang di sinistra e non al partito comunista, e
impone con prepotenza questa linea all’Ic. Nel ’27, come si ricorderà, è proprio il capo del
Kuomintang, il famigerato Ciang-Kai-Shek, a silurare la rivoluzione in Cina e a dare avvio al
massacro dei comunisti. Tanto è che a partire da quella tragica esperienza, il partito comunista
cinese farà propria una strategia elaborata autonomamente in sfregio alle direttive della stessa
Internazionale.
Stalin è anche colui che enfatizza la teoria del crollo inevitabile del capitalismo elevandola a molla
della rivoluzione internazionale. Il cambiamento – secondo le sue previsioni – avrebbe dovuto
avvenire non già per mano della classe operaia dei Paesi capitalistici dell’Occidente, ma in forza
delle difficoltà insorgenti nelle grandi potenze e attraverso la conseguente rivolta dei Paesi coloniali
e dipendenti.
Negli anni ’30, il dittatore georgiano compie un gravissimo errore sottovalutando il pericolo nazista.
Egli non sa prevedere il suo successo e nemmeno sa cogliere la sua natura eversiva e anche la sua
incidenza sulla politica mondiale. Gli uomini del Cremlino non mancato certo di preoccuparsi di
fronte alle intenzioni aggressive tedesche, tanto è vero che nel ’34 l’Urss aderisce alla Società delle
Nazioni e poi cerca di promuovere alleanze e patti di mutua assistenza con altri Paesi (con la
Francia e la Cecoslovacchia), fino a proporre, più tardi, ai partiti comunisti di collaborare con
socialisti e liberali al fine di promuovere la sicurezza collettiva. Di fatto, per tutto un periodo, i capi
sovietici sottovalutano la minaccia tedesca, dichiarata nello stesso “Mein Kampf”, di voler
schiacciare il bolscevismo e annettere alla Germania vaste zone dell’Europa orientale. C’è chi
giustifica questo atteggiamento con il fatto che Stalin non voleva dare corda agli allarmismi solo
perché era consapevole che le forze armate dell’Urss non erano in condizioni di fronteggiare uno
scontro armato. Sta di fatto che correrà ai ripari con molto ritardo e per rimediare, alla fine,
sottoscriverà il patto Ribbentrop-Molotov.
La svolta di orientamenti, cioè l’avvertenza del pericolo nazista, la compie solo dopo che in alcuni
Paesi d’Europa (Francia, Italia, Spagna, Austria, Romania) tra comunisti e socialisti vengono
sottoscritti patti di “unità d’azione” antifascista. Ed è proprio a seguito di queste esperienze che
l’Internazionale fa propria la politica dei “fronti popolari”.
193
Nella stessa Cina, a quel tempo, il partito comunista è impegnato nella sperimentazione di una
nuova strategia nella lotta contro nazionalisti e giapponesi e per la conquista del potere. Questa
linea di condotta dei cinesi è frutto di una loro inedita politica di alleanze che si contrappone agli
indirizzi dell’Ic. Del resto, già prima del 7° congresso (1935), le 65 sezioni del Comintern si
trovano nelle condizioni di dover far fronte in maniera pressoché autonoma alle rispettive e
diversificate situazioni nazionali, poiché i dirigenti dell’Ic praticano ancora l’anacronistica linea del
“socialfascismo”.
Alla metà degli anni ’30, matura una situazione che è da considerarsi eloquente dal punto di vista
del livello di dialettica esistente nel movimento. L’apparato organizzativo del Comintern è
saldamente nelle mani dei funzionari della Nkvd (Commissariato nazionale degli affari interni
dell’Urss) i quali, non essendo soggetti ad alcun controllo da parte del gruppo dirigente ufficiale,
cioè dei Dimitrov, dei Togliatti e degli altri comunisti non russi, dipendono direttamente ed
esclusivamente dal capo della polizia sovietica. Si verifica cioè un vero e proprio esproprio di
autonomia, ma nessuno dei responsabili non russi dell’Ic dà segno di protestare o di lamentarsi.
La politica dei “fronti popolari” viene adottata in occasione del 7° congresso e per un verso
rappresenta una svolta storica decisiva. Essa costituisce la premessa di un positivo ripensamento
sulla questione della rivoluzione in Occidente e comporta di fatto il riconoscimento di una
autonomia di movimento da parte dei partiti comunisti nei loro rispettivi Paesi. Viene ipotizzata una
trasformazione dei governi del fronte unito antifascista in organismi tesi alla transizione graduale e
pacifica al socialismo, attraverso la conquista dell’egemonia operaia sulla coalizione delle forze
antifasciste. Una sorta cioè di via al socialismo alternativa a quella imboccata dalla Russia nel ’17.
Come puntualizzerà più tardi, nel ’47, Dimitrov all’assemblea inaugurale del Cominform, si tratta di
un’alternativa alla “dittatura del proletariato”.
La politica frontista, però, si dimostra incapace di un’autonomia progettuale, di mettere cioè a punto
un processo di trasformazione sociale, e finisce col riprodurre lo schema dell’esperienza sovietica.
Una delle condizioni della sua applicazione è, infatti, quella di garantire la difesa del primo paese
socialista quale cardine di ogni azione del movimento operaio in Occidente.
Le riforme che vengono suggerite non hanno un carattere prefigurante e non riescono affatto a
coniugare la democrazia con il socialismo. Il potere socialista appare il frutto della impossibilità del
capitalismo di sopravvivere, piuttosto che lo strumento di un progetto positivo, articolato e maturo,
di trasformazione della società.
Mentre in Francia il fronte popolare nasce nel vivo di una crisi economico-sociale e assume da
subito e direttamente la forma di una lotta per l’occupazione, per il salario, per il controllo operaio,
contro la speculazione e i sovraprofitti, e proprio per questo si intreccia a un possente e vittorioso
movimento sindacale, suscitando un clima di entusiasmo popolare, nella formulazione del 7°
congresso questa proposta di alleanze mostra invece una prevalente valenza politico-istituzionale.
Essa nasce intimamente legata a una analisi del capitalismo come sistema ossificato, incapace di
assicurare un reale sviluppo delle forze produttive e di fondare il proprio potere su una serie di
mediazioni sociali. Una diagnosi in sostanza profondamente errata.
Da una parte, Dimitrov sostiene la tesi secondo cui il capitale finanziario si fa beffe degli interessi
nazionali, dall’altra, il congresso sentenzia che la borghesia non è più in grado di rappresentare la
nazione e che spetta perciò al proletariato raccoglierne l’eredità assumendo le caratteristiche di
movimento nazionale. In una tale ottica, gli interessi del proletariato si coniugano con gli interessi
nazionali e “la rivoluzione socialista” viene considerata “la salvezza della nazione”. Si tratta di una
linea che rappresenta una trasformazione di stampo ideologico la quale mette in discussione la
natura stessa del movimento che ha dato origine alla 3a Internazionale; un movimento che si è
temprato proprio nella lotta radicale a quel militarismo nazionalista che ha provocato la grande
guerra del ‘14-’18.
Se dunque la svolta dei “fronti popolari” consente di dare origine alle vie nazionali al socialismo e
di elaborare e praticare questa linea nei paesi capitalistici, al tempo stesso essa favorisce
l’esplosione di insanabili contraddizioni sul fronte dell’internazionalismo proletario.
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Le incoerenze e i danni causati dalle scelte staliniane non si limitano però solo a questo.
Mentre con l’adozione della linea dei “fronti popolari” viene aperta, in teoria, una nuova fase di
sviluppo del movimento operaio internazionale, Stalin dà contemporaneamente inizio al periodo più
drammatico delle epurazioni e delle inquisizioni e questa contraddizione compromette alle
fondamenta ogni azione intesa a ricercare e praticare vie alternative a quella sovietica.
Se è pur vero che la politica frontista diventa occasione di mobilitazione e di educazione di grandi
masse operaie e popolari, essa sopprime in radice la strategia consiliare quale fattore di democrazia
e di autogoverno, optando per la conquista del potere statale da parte del partito.
Lo stesso movimento sindacale viene privato della sua autonomia e viene assunto a supporto e
strumento della lotta politica.
Nonostante che al 7° congresso Dimitrov abbia fatto appello a una energica iniziativa dal basso
(“Dobbiamo andare più avanti: preparare il passaggio dalla difensiva all’offensiva contro il
capitale, orientandoci verso l’organizzazione dello sciopero politico di massa”), nella coscienza
delle classi lavoratrici, la strategia frontista si è continuamente intrecciata a una messianica fiducia
nell’Urss quale fattore esterno senza il quale il salto rivoluzionario appariva impensabile. L’insieme
della sinistra europea non è peraltro stato in grado di impostare un proprio progetto per il futuro e a
gettare le fondamenta per una nuova e permanente unità. Anzi, ogni qualvolta il movimento operaio
si è trovato ad affrontare una fase offensiva della lotta di classe è andato incontro a sconfitte rapide
e desolanti, dimostrandosi incapace di sostenere uno scontro con il sistema.
Il 7° congresso dell’Ic ha in sostanza dato avvio a un processo che poi non è riuscito a portare a
compimento. Nonostante che il movimento abbia dimostrato di essere forte e vivo, non è riuscito ad
assumere una piena egemonia sul processo reale. Tanto è vero che la politica dei “fronti popolari”,
se si fa eccezione delle esperienze di Francia e Spagna, che pure si sono concluse
drammaticamente, si è imposta non prima, ma dopo la vittoria sul fascismo e comunque ha avuto in
ogni dove il carattere di una politica difensiva.
E’ noto che la guerra civile spagnola ha suscitato negli ambienti dell’antifascismo, soprattutto nel
mondo degli intellettuali, una straordinaria mobilitazione internazionale. L’esperienza fatta in
Spagna dal “fronte popolare” è infatti servita come esempio per la lotta antifascista durante il
secondo conflitto mondiale.
Nel suo libro “Bucharin e la rivoluzione bolscevica. Biografia politica 1888-1938”, lo storico
americano Stephen F. Cohen sostiene che la decisione di correre in aiuto alla repubblica spagnola
sarebbe stata imposta a Stalin nell’autunno del ‘36 da una maggioranza della direzione del partito
contro una sua iniziale resistenza. Di una simile versione dei fatti lo studioso non fornisce prove
materiali, ma la trama del suo ragionamento e delle testimonianze che porta rende verosimile la sua
tesi.
Gli storici hanno prestato, e giustamente, molta attenzione al patto “Ribbentrop-Molotov”. che nel
’38 è stato stipulato tra la Germania e l’Unione Sovietica, ma hanno decisamente trascurato quel
“trattato di amicizia” tra i due Paesi in questione che è parte degli accordi segreti e che è da
considerarsi forse più grave del patto politico stesso, poiché suscita fondate perplessità sulla
disponibilità manifestata da Stalin a realizzare un programma comune tra i due regimi.
Non è infine da dimenticare e da sottovalutare che una delle caratteristiche del dittatore georgiano è
quella di vantare uno spirito nazionalistico. Quando scoppia la guerra, Stalin non fa appello al
popolo in nome della difesa del socialismo, ma si richiama insistentemente all’orgoglio nazionale,
recupera cioè acriticamente, anzi esalta, tutta la tradizione patriarcale russa. La vittoria sul nazismo
è, infatti, segnata anzitutto da un’impronta patriottica prima ancora che socialista.
Se Stalin per lungo tempo ha sottovalutato completamente il possibile attacco dell’esercito di Hitler
alla Russia, negli anni successivi al ’40 egli ha decisamente trascurato il progetto atomico. A
differenza di Roosevelt, egli ha dimostrato di non credere affatto al valore militare del nucleare e
questo ha rappresentato un errore che ha poi segnato i rapporti internazionali.
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Dopo le decisive vittorie dell’Urss sulla Germania nazista, il dittatore georgiano si è preoccupato
non tanto dello sviluppo della rivoluzione mondiale, quanto invece dell’esaltazione dell’Urss quale
grande potenza internazionale.
Le rivoluzioni portate a compimento dai comunisti in Jugoslavia, in Albania e, più tardi, in Cina
hanno incontrato non il favore, ma la sua avversione. Essendo rispettoso dell’alleanza antifascista e
della politica di coesistenza, egli ha vissuto con preoccupazione ogni sconvolgimento politico che
non fosse concordato e deciso da Mosca. Lo scioglimento sia del Comintern che del Pc Usa trovano
giustificazione proprio in questo suo atteggiamento.
Nel ’46, rispondendo a un discorso di Churchill, egli fornisce addirittura un quadro falso delle
perdite sovietiche nel conflitto appena concluso. Parla di “circa 7 milioni di morti” quando in effetti
sono stati 20 milioni. La verità sui caduti la si conoscerà solo con l’avvento al potere di Chruscev.
Un colonnello russo in congedo ha rivelato che nel ‘48 Stalin aveva pronto un piano per invadere
l’Alaska, territorio che nel 1867 venne venduto dallo zar Alessandro II agli Usa per 7,2 milioni di
dollari di quel tempo.
Quando la rottura con l’Occidente diviene inevitabile, il “capo” dell’Urss trasforma le democrazie
popolari in un blocco politico, ideologico e militare la cui direzione è di esclusiva competenza del
Cremlino.
L’avanzata del socialismo viene considerata da lui come un’estensione della politica e dei metodi
statalistici ai Paesi satelliti, senza tenere in alcun conto le situazioni specifiche di queste realtà, il
loro grado di sviluppo economico e culturale, le loro particolari tradizioni. L’Urss viene imposta
come modello al quale attenersi nella costruzione del socialismo.
I teorici marxisti dei Paesi socialisti sono stati obbligati a far proprie le sue elaborazioni. La
stragrande maggioranza di loro non hanno osato pensare al di fuori degli schemi da lui fissati e non
hanno avuto il coraggio di denunciare le deformazioni burocratiche e reazionarie del sistema
imposto. Il monopolio dello Stato e del partito ha fatto sì che in tutti i Paesi del campo socialista si
determinasse una paralisi della ricerca sia artistica che scientifica. E un assurdo imperativo del
genere ha indubbiamente rappresentato un freno all’avanzata generale del movimento ispirato alle
teorie marxiane.
Non si dimentichi mai, però, che a prendere tutte queste decisioni non è stato il solo Iosif Stalin, ma
l’intera, o quasi, dirigenza dell’Internazionale comunista che nel corso del periodo 1919-1943 è
risultata composta da più di 700 persone.
6.7 – L’emarginazione e l’assassinio di Lev Trotzkij
La storiografia ufficiale del movimento comunista internazionale induce a pensare che le concezioni
staliniane si siano affermate in Unione sovietica con una certa facilità. In realtà, il dittatore
georgiano è stato costretto a ricorrere a un sistematico impiego di metodi repressivi sempre più
drastici prima di poter estendere il suo dominio su tutti i gangli della società. L’efferatezza dei suoi
atti non ha mancato di dar luogo, seppure in forma isolata, a manifestazioni di malcontento, a
proteste vere e proprie che hanno prodotto anche un fronte di opposizione politica. Sia agli inizi che
nel corso della sua dittatura c’è stato chi ha contestato il suo operato e gli episodi di avversione e di
antagonismo hanno avuto luogo non solo nel tessuto sociale, ma anche alla base e ai vertici dello
stesso partito. Il più illustre dei contestatori di Stalin è sicuramente stato Lev Davidovic Trotzkij.
Figlio di un kulaki di origine ebrea, non ancora ventenne, Trotzkij aderisce al movimento
rivoluzionario e per la sua attività sovversiva viene arrestato e deportato in Siberia. Di tendenze
moderate, aderisce alla corrente menscevica, in opposizione a Lenin, e si qualifica assai presto
come una persona profondamente eccentrica e ansiosa di eccellere. Egli si considera partigiano di
un partito che accoglie tutte le tendenze della socialdemocrazia e proprio per questa sua posizione
diventa bersaglio di violenti polemiche da parte del capo dei bolscevichi.
Nel 1904, in “I nostri compiti politici”, concepisce la rivoluzione russa come rivoluzione
democratico-borghese e si dice convinto che il movimento socialdemocratico sarà obbligato a
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“svolgere un ruolo di opposizione e non di governo… (e ciò) permetterà alla lotta di classe del
proletariato di svilupparsi in tutta la sua ampiezza”.
Nel giugno del 1905, alla vigilia della rivoluzione, sostiene che “condizionando tutti gli aspetti
della realtà attraverso il suo modo di produzione e il suo commercio, il capitalismo ha fatto del
mondo intero un solo organismo economico e politico” e, di conseguenza, “la produzione mondiale
si eleva non solo contro il caos degli stati nazionali, ma anche contro l’organizzazione economica
capitalistica che si è trasformata in questa barbara anarchia”. A suo avviso, l’imperialismo segna
inevitabilmente la fine del ruolo progressista della borghesia, avendo fatto della Terra un unico
mercato mondiale.
Durante la rivoluzione del 1905, è fautore dell’organizzazione dei soviet dei quali intuisce la
potenzialità democratica. Fallita l’insurrezione, viene nuovamente esiliato in Siberia, da dove fugge
all’estero rimanendovi esule fino all’agosto del ’17.
In “Storia 1905” annuncia la teoria della “rivoluzione permanente”. Rifacendosi alle riflessioni
compiute da Marx e da Engels sulla transizione dal capitalismo al socialismo, e a Parvus che ha
insistito sulla continuità tra la lotta per la democrazia e la lotta per il socialismo, egli presuppone
che la rivoluzione socialista non debba avere termine, poiché “la società non fa che mutare pelle di
continuo... in un contesto di sconvolgimenti nell’economia, nella tecnica, nella scienza, nella
famiglia, nei costumi... la società non può raggiungere una situazione di equilibrio… Rivoluzione
permanente è una rivoluzione che non transige con nessuna forma di dominazione di classe, che
non si arresta alla fase democratica, ma passa alle misure socialiste e alla guerra aperta contro la
reazione esterna, una rivoluzione che si arresta solo con la totale liquidazione della società divisa
in classi”. Una diecina di anni dopo ritornerà a meditare su questa sua tesi e la perfezionerà.
Trotzkij considera la Russia un Paese isolato dal mercato mondiale capitalistico e sotto la costante
pressione economica, politica e militare dell’imperialismo internazionale, rimarcandone il carattere
arretrato. Valuta la borghesia russa differente da quella occidentale e la ritiene un soggetto che non
è ancora modernizzato, che non vanta alcuna egemonia sul proletariato essendo succube
dell’assolutismo.
Giudica pertanto la lotta allo zarismo come la condizione per realizzare un’insurrezione che è parte
integrante della rivoluzione internazionale e stabilisce in questo modo un’interrelazione tra il
cambiamento in Russia e il cambiamento in Europa. Mostra avversione per qualsiasi forma di tutela
da parte del partito sugli operai e vede nel soviet il mezzo per la costruzione di una democrazia
parlamentare. Suo è il famoso aforisma: “la rivoluzione sarà opera degli operai o non sarà”.
Le sue tesi lo portano ad avere un rapporto conflittuale con lo stesso Lenin. Nel suo libro “La storia
falsa”, Luciano Canfora considera il contrasto tra i due leader soprattutto come frutto di una
manipolazione compiuta da Stalin. Per la verità è da ricordare, a questo riguardo, che già nel
periodo precedente la rivoluzione d’ottobre, Lenin non manifesta una grande stima verso Trotzkij e
che nel ’14 lo giudica un “transfuga”, un ballerino. “Ora collabora con Martynov (un populista) ora
proclama l’assurda teoria di sinistra della rivoluzione permanente”, commenta. E giunge poi
persino a definirlo “un piccolo giuda”. Quando gli viene chiesto da alcuni bolscevichi per quali
ragioni mantenga con lui tanta distanza, egli risponde: “E non lo sapete? Ambizione, ambizione,
ambizione”, e gli attribuisce, tra l’altro, talune sgradevoli caratteristiche che lo farebbero somigliare
a Lassalle. E pure quando i rapporti tra i due diventano collaborativi, egli non smentisce questo suo
giudizio. Nel corso di un colloquio con Gorkij sostiene: “Trotzkij cammina con noi, ma in realtà
non fa parte di noi”.
Questo suo atteggiamento prescinde dunque dall’influenza di Stalin ed è nemmeno una semplice
avversione caratteriale, bensì la dimostrazione che tra i due esistono divergenze politico-teoriche di
non poco conto. Per esempio: mentre Trotzkij, considerando i lavoratori della terra incapaci di avere
un ruolo autonomo, è critico verso la “dittatura democratica degli operai e dei contadini” che viene
perseguita dai bolscevichi, Lenin non esclude l’alleanza del partito del proletariato con quello dei
contadini in un quadro di democrazia borghese. Trotzkij, del resto, come menscevico non accetta la
teoria leninista del partito e ciò alimenta violente polemiche tra i due.
197
Nel ’17, alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, dopo che si è scontrato con i bolscevichi sulle
strategie da seguire, Trotzkij aderisce al partito di Lenin e tra i due scatta un accordo che dà avvio a
un periodo di intesa e di concordia. Per la verità, a causa dell’implicita esaltazione da parte dei
bolscevichi del carattere d’avanguardia del partito, egli esita a lungo prima di accettare la
concezione leniniana dell’organizzazione, ma alla fine si convince della sua validità, al punto di
giungere ad affermare che senza Lenin il partito bolscevico “avrebbe potuto lasciarsi sfuggire
l’occasione rivoluzionaria favorevole per molti anni”. Da quel momento diventa un sostenitore
accanito del partito di tipo leninista, pur non rinunciando alla sua autonomia di pensiero. Infatti, egli
ritiene che la presa del potere non deve dipendere soltanto da fattori oggettivi, tra cui il livello
raggiunto dalle forze produttive, ma anche da fattori soggettivi quali le tradizioni, l’iniziativa e la
combattività degli operai. Considera il proletariato russo già sotto l’influenza delle idee marxiste,
poiché è altamente concentrato, e si convince dell’inevitabile evoluzione del processo
rivoluzionario, senza soluzione di continuità, dalla realizzazione di compiti democratico-borghesi
alla realizzazione di obiettivi socialisti.
Nel vivo dello scontro rivoluzionario, egli si rivela un ottimo organizzatore e nella qualità di
presidente del soviet di Pietrogrado esercita un ruolo determinante nel conseguire il successo
bolscevico.
All’indomani della conquista del potere scrive: “I compiti del nuovo regime sono così complessi che
non potranno essere assolti se non sulla base di una competizione tra diversi metodi di costruzione
economica e politica, se non con lunghe discussioni, se non con la lotta sistematica, lotta non solo
tra mondo socialista e mondo capitalista, ma anche tra diverse correnti e tendenze all’interno del
socialismo: correnti che non mancheranno di comparire inevitabilmente non appena la dittatura
del proletariato porrà, a decine, a centinaia, problemi nuovi, non risolvibili in anticipo”.
Diviene quindi commissario del popolo agli affari esteri e in questa veste negozia la pace di BrestLitovsk. Come commissario per la guerra riorganizza le forze militari nell’“Armata rossa” e dà un
contributo decisivo alla vittoria nella guerra civile. Al fine di consolidare il potere sovietico sostiene
la militarizzazione dei sindacati e sottolinea la necessità di conseguire un rapporto di egemonia
operaia sui contadini.
E’ questo il periodo in cui, parallelamente, Lenin si avvicina alla sua teoria della rivoluzione
permanente.
Comune ai due è la consapevolezza che la prospettiva dell’ottobre rosso risiede nella rivoluzione in
Occidente. Scrive Trotzkij a questo riguardo: “Abbandonata alle sue sole risorse, la classe operaia
russa sarà inevitabilmente schiacciata dalla contro-rivoluzione appena la classe contadina si
distaccherà da questa. Essa non avrà altra possibilità che legare il destino del proprio potere
politico, e, di conseguenza, la sorte di tutta la rivoluzione russa a quello della rivoluzione socialista
in Europa”.
“Il proletariato non potrà condurre la rivoluzione se non fino al punto di tramutare la rivoluzione
russa in rivoluzione del proletariato europeo…. Se l’Europa resta immobile, la controrivoluzione
borghese non sopporterà la presenza di uno stato governato dalle masse lavoratrici in Russia e
respingerà il paese ad una situazione molto arretrata”.
All’inizio degli anni ’20, condividendo la politica leniniana, avverte la necessità di uno specifico
ruolo dei sindacati e di una loro autonomia rispetto allo Stato.
Alla vigilia del 9° congresso del partito, di ritorno da un viaggio d’ispezione negli Urali, propone di
abbandonare i metodi del comunismo di guerra.
Sulle strategie da seguire in economia, però, tra lui e il capo dei bolscevichi insorgono dei contrasti.
Lenin, partendo dal duplice problema dell’alleanza operai-contadini e della deformazione
burocratica, ritiene che si debba lasciare che l’agricoltura si sviluppi autonomamente con le sue
forze per poter sviluppare in seguito l’industria leggera e poi quella pesante, Trotzkij, invece, insiste
sull’opportunità di dare impulso all’economia sviluppando le forze produttive proprio partendo
dall’industria pesante. Il processo di industrializzazione accelerata che lui propone avrebbe una
duplice funzione: quella di riassorbire la disoccupazione e aumentare la fiducia nelle potenzialità
198
del proletariato e, contemporaneamente, quella di ridurre le tensioni sociali e consolidare in tal
modo l’alleanza tra operai e contadini.
Nel ’23, avvertendo il bisogno di incrementare la democrazia nel partito, egli sviluppa un
programma concepito come segue: possibilità, per la massa dei membri del partito, di discutere in
precedenza e liberamente sulle grandi scelte in materia economica e politica; tale discussione deve
avvenire senza che il dibattito interno sia dominato dalle decisioni e dal peso dell’apparato dei
funzionari permanenti. Riaffermazione del diritto di tendenza (cioè delle correnti) in seno al partito;
sviluppo della possibilità d’iniziativa per i membri di base del partito e per i lavoratori senza partito
in seno agli organismi sovietici; rafforzamento degli organismi sovietici e del loro carattere elettivo.
A suo giudizio, questa sarebbe la condizione per arrestare il burocratismo.
Parte di queste proposte vengono adottate dall’ufficio politico, ma col tempo il suo progetto resta
lettera morta.
Lenin, gravemente malato, è ormai fuori scena e nel suo testamento politico tornerà a dirsi convinto
che Trotzkij “non è bolscevico”. Approfittando di questo giudizio, dopo la morte del “vecchio”,
Stalin, Zinov’ev e Kamenev osteggiano con prepotenza l’ex menscevico ritenendolo il più probabile
pretendente alla successione, e attaccano a fondo le sue tesi.
Seppure Trotzkij dichiari che il modo specifico di espressione della dittatura del proletariato sia
rappresentato dal partito bolscevico, il solo in grado di rappresentare gli interessi organici delle
masse, ed enfatizzi la centralizzazione dell’esercito, della sfera economica, del partito stesso e dello
Stato, contro di lui viene scatenata un’ignobile campagna denigratoria. La direzione del Pcus, ormai
egemonizzata da Stalin, nell’intento di screditarlo del tutto, decide di utilizzare le critiche di Lenin
alla sua concezione dell’organizzazione e, soprattutto, alla sua teoria della rivoluzione permanente.
Scagliandosi contro di lui, Stalin gli rimprovera di aver avversato Lenin e lo accusa di essere contro
il vecchio bolscevismo, contro i contadini poveri, contro l’unità del partito, di non credere nella
possibilità di costruire il socialismo in una Russia isolata e di contrapporre alla teoria del socialismo
in un sol paese la tesi della rivoluzione permanente.
In effetti, Trotzkij considera la teoria del socialismo in un solo paese un’ideologia conservatrice tesa
a stabilizzare un regime fatto di privilegi sociali e politici. Ritiene che lo Stato russo si sia
sviluppato in condizioni sociali semi-asiatiche e che lo zarismo fosse “una forma intermedia fra
l’assolutismo europeo e il dispotismo asiatico, essendo forse più vicino a quest’ultimo”, per cui in
una tale situazione di arretratezza il socialismo non sarebbe stato praticabile. “La rivoluzione
socialista – puntualizza – comincia a livello nazionale, si sviluppa su quello internazionale e si
conclude su quello mondiale… Mirare a costruire una società socialista nazionalmente isolata
significa, nonostante i successi temporanei, spingere indietro le forze produttive anche rispetto al
capitalismo. Tentare di realizzare una compiuta proporzionalità tra tutti i settori dell’economia
entro i confini nazionali indipendentemente dalle condizioni geografiche, culturali e storiche di
sviluppo di un paese che costituisce una parte del mondo nel suo insieme, significa perseguire
un’utopia reazionaria”.
La rivoluzione socialista, a suo giudizio, non può dunque arrestarsi entro i confini nazionali se non
come “regime provvisorio”. E precisa: “Se lo Stato proletario continuasse a restare nell’isolamento
finirebbe per soccombere alle proprie contraddizioni”.
La critica di Trotskij verso la gestione staliniana si concentra non a torto sul fenomeno della
burocratizzazione dell’apparato dirigente del partito. In “Nuovo corso” egli accusa l’apparato di
aver “messo in luce i suoi aspetti più negativi e più intollerabili: isolamento dalle masse,
presunzione burocratica, disprezzo completo per lo stato d’animo, l’opinione e i bisogni del
partito”. Denuncia la non volontà “di porre all’ordine del giorno il problema della revisione del
regime interno”. E per rendere più efficace la sua critica a Stalin gli ricorda la differenza tra la
gestione del partito ai tempi di Lenin e la sua. “Se tutti i dibattiti e le discussioni personali che
ebbero luogo nella direzione del partito bolscevico in ottobre fossero stati stenografati, le future
generazioni potrebbero vedere attraverso quale intensa lotta interna i vertici del partito giunsero
all’audacia necessaria per l’insurrezione”. In effetti, il partito bolscevico a quel tempo celebrava
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congressi, riunioni e liberi dibattiti nel vivo della tempesta rivoluzionaria. E rimprovera appunto il
dittatore di aver inibito questa pratica.
Nello scontro con Stalin e con il suo apparato, Trotzkij si dimostra radicale nel considerare le masse
protagoniste della nuova società e rifiuta qualsiasi forma di neogiacobinismo. Se un tempo, egli
considerava “errori da riparare” le divisioni tra menscevichi e bolscevichi, ora combatte le
discriminazioni e le angherie perpetrate dalla dirigenza all’interno del partito. E se, da un lato, si
dimostra spietato con coloro che non si piegano alla disciplina rivoluzionaria, e non di rado chiede
che tali elementi vengano eliminati, dall’altro, non tollera “il conservatorismo del socialismo
propagandista”.
L’unità politica deve essere a suo giudizio la preoccupazione principale di tutti i comunisti, ma, nel
contempo, crede che essa debba essere costruita sulla base delle differenze e delle divergenze di
opinione, considerando essenziale il principio della libera lotta di frazione.
Mentre nel ’17, aderendo alla linea leniniana, aveva assunto il soviet in antagonismo alla
democrazia parlamentare e, successivamente, aveva fatto sua la tesi della soppressione delle libertà
politiche per le opposizioni, quando il gruppo dirigente staliniano stringe i cordoni della
democrazia, egli contesta il dettato della costituzione che nega la possibilità di creare partiti politici
e la pretesa del partito di selezionare i candidati alle elezioni.
Sostiene che il sistema sovietico non può essere considerato socialista in quanto è una forma di
burocratismo e di statalismo nella quale ha preso il sopravvento una casta politica che risulta
distaccata dal popolo.
Nel proporre una rapida industrializzazione del Paese che a suo avviso deve essere promossa con il
consenso dei lavoratori, e non già contro la loro volontà e i loro interessi come fa Stalin, insiste
sulla necessità di garantire un’espansione equilibrata e simultanea delle industrie dei beni di
produzione e di quelle dei beni di consumo in modo di garantire un miglioramento delle condizioni
di vita. E concepisce la stessa collettivizzazione dell’agricoltura come processo graduale da
applicarsi con il consenso dei contadini.
Denuncia poi il fatto che “l’accrescimento delle forze produttive si è accompagnato ad uno sviluppo
estremo di tutte le forme di diseguaglianza e di privilegio, come pure della burocrazia” e che
l’applicazione del “salario ‘egualitario’, sopprimendo lo stimolo individuale, diviene un ostacolo
allo sviluppo delle forze produttive”.
E spiega: “E’ impossibile ottenere uno sviluppo dell’industria senza sviluppare il mercato interno,
senza aumentare la capacità di acquisto della popolazione, in una parola senza assicurare il
miglioramento delle capacità economiche della classe contadina”, bestia da soma e maggioranza
della popolazione.
In “La rivoluzione tradita” scrive: “Non si tratta di sostituire una combriccola dirigente con
un’altra, ma di mutare i metodi stessi della direzione economica e culturale. L’arbitrio burocratico
dovrà cedere il posto alla democrazia sovietica. Il ristabilimento della libertà dei partiti sovietici, a
cominciare dal partito bolscevico, e la rinascita dei sindacati, vi sono inclusi. La libera discussione
delle questioni economiche diminuirà le spese generali imposte dagli errori e dagli zig zag della
burocrazia. I lavori di lusso, quali il palazzo dei soviet, i nuovi teatri, le metropolitane costruite per
incantare la gente, faranno posto alle abitazioni operaie... La gioventù potrà respirare liberamente,
criticare, sbagliare, maturare. La scienza e l’arte scuoteranno le loro catene”.
Considerando il pericolo burocratico come una escrescenza dell’apparato statale, e pertanto
incompatibile con lo Stato operaio, egli si dice convinto che la deformazione burocratica è destinata
a scomparire con il progresso delle forze produttive.
A suo giudizio, i progressi verso il socialismo si consolidano definitivamente e diventano
irreversibili soltanto quando il proletariato, in quanto classe, dirige il processo di industrializzazione
e quando questa sua funzione dirigente si afferma non soltanto sul piano politico, ma anche su
quello dell’organizzazione della produzione e del livello del consumo.
In sostanza, Trotzkij pensa a una democrazia sovietica articolata da una parte in autogestione
pianificata e, dall’altra, in democrazia politica.
200
Le sue divergenze con il gruppo dirigente staliniano riguardano anche la politica
dell’Internazionale. Quando l’esecutivo del Comintern, dietro pressione di Stalin e di Bucharin,
ordina ai comunisti cinesi di entrare nel Kuomintang, egli vi si oppone. E’ convinto che lo sviluppo
della rivoluzione cinese può avvenire solo per opera dei comunisti attraverso una loro autonoma
iniziativa. E quando nel ’27 l’alleanza fra Pcc e Kuomintang registra una clamorosa rottura, egli
polemizza vigorosamente con la dirigenza attribuendole la responsabilità dell’accaduto.
Stalin accusa Trotzkij di essere un “incendiario”, un “selvaggio”, un “sognatore” e questo giudizio
diventa vangelo non solo in Urss, ma in tutti i partiti comunisti del mondo.
Trotzkij si difende dagli attacchi di Stalin ribadendo che lo schieramento di opposizione cui fa capo,
condanna “risolutamente ogni tentativo di costituire un secondo partito” e che “la parola d’ordine
del ‘secondo partito’ è (proprio) la parola d’ordine del gruppo di Stalin”. La possibilità di
costituire dei partiti viene da lui prospettata nel quadro di una loro accettazione delle strutture e
delle leggi della nuova società e non in antagonismo ad esse.
A ricorrere come centrale nella battaglia che egli conduce nel partito è il motivo della ricostruzione
dei soviet e della riaffermazione delle loro funzioni originarie. “Nei soviet – precisa – c’è posto solo
per i rappresentanti degli operai, dei kholkhoziani, dei contadini, dei soldati rossi e la
democratizzazione dei soviet è inconcepibile senza la legittimazione dei partiti sovietici. Gli operai
e i contadini stessi stabiliranno, attraverso il libero suffragio, quali siano i partiti sovietici”.
Stalin però non demorde. In una riunione degli organismi dirigenti del Comintern pretende che tutti
gli intervenuti, russi e stranieri, votino una mozione che mette al bando Trotzkij senza averla fatta
leggere a nessuno. Alla riunione sono presenti anche Togliatti e Silone i quali chiedono che venga
data lettura della mozione, ma Stalin respinge con arroganza questa richiesta e loro la ritirano.
Purtroppo Trotzkij prende sul serio Stalin solo quando è troppo tardi. Così come non si è opposto
alla sacralizzazione di Lenin, che ha rappresentato l’affermazione del culto della personalità, non ha
contrastato la trasformazione per opera dello stesso Stalin del leninismo in corpo dottrinarioreligioso. E ha continuato a illudersi di poter arrestare la deriva anche quando la degenerazione
aveva ormai avviluppato l’intera società.
Mentre il 12° congresso del Pcus adotta alcune sue proposte sul rilancio dell’economia, i triunviri
classificano la sua politica come antioperaia e la delegittimano al punto di farlo apparire agli occhi
delle masse come un superindustrializzatore anticontadino.
Temendo che le sue posizioni possano avere il sopravvento, Stalin gli toglie progressivamente ogni
carica e, nel ’27, lo espelle dal partito. Due anni dopo lo bandisce dall’Urss. Quando Trotzkij viene
esiliato, in Unione sovietica, in segno di protesta per la gravità dell’atto non si fermano neppure le
maestranze di una sola fabbrica. Egli riscuote la solidarietà dei soli lavoratori ungheresi i quali
proclamano invece lo sciopero generale.
In Unione sovietica i suoi seguaci vengono sterminati fisicamente, al punto che i trotzkisti sovietici,
così come era accaduto ai cabristi cento anni prima, risulteranno essere una generazione di
rivoluzionari “senza figli”, cioè senza eredi politici diretti.
Costretto ad abbandonare il Paese, Trotzkij soggiorna prima in Turchia, poi in Francia quindi in
Norvegia.
In esilio si oppone alla tesi del “socialfascismo” e rimprovera alla dirigenza sovietica e a quella
dell’Internazionale comunista di non saper cogliere l’inconciliabilità tra socialdemocrazia e
fascismo. Sollecita quindi l’unità fra comunisti e socialdemocratici al fine di scongiurare il pericolo
di un’involuzione sociale, ma in questa lotta si trova isolato. Egli è uno dei pochi dirigenti del
movimento comunista a comprendere da subito la natura del fascismo e la sua capacità di
espandersi facendo leva sulla piccola borghesia.
Vede quindi avverarsi la previsione che aveva fatto all’inizio del secolo, secondo la quale il destino
del bolscevismo al potere sarebbe stato prima quello di costruire il dominio assoluto del partito, poi
quello del comitato centrale e quindi quello di un dittatore.
A questo riguardo ha scritto: “Il regime politico dell’Urss non è una società nuova ma la peggior
caricatura della vecchia”. “Il dominio della burocrazia sul paese come il dominio di Stalin sulla
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burocrazia hanno raggiunto una perfezione quasi assoluta”. “In un paese dove il solo imprenditore
è lo Stato, opposizione significa morte per inedia. Il vecchio principio ‘chi non lavora non mangia’
è sostituito da un principio nuovo: ‘chi non obbedisce non mangia’”.
A suo dire la burocrazia parassitaria staliniana ha distrutto la democrazia nel partito sovietico e nei
sindacati, ha privato il popolo di tutti i diritti politici e ha organizzato uno Stato di polizia. Ma per
quanto oppressiva, la burocrazia non costituisce una nuova classe di sfruttatori, ma piuttosto una
“casta privilegiata”, una “escrescenza cancerosa”.
“La divinizzazione sempre più imprudente di Stalin, malgrado quello che ha di caricaturale, è
necessaria al regime. La burocrazia ha bisogno di un arbitro supremo inviolabile e alza sulle
proprie spalle l’uomo che meglio risponde alle sue pretese di dominio... I bolscevichi più fermi e
più fedeli, il fior fiore del partito, sono nelle prigioni, negli angoli sperduti della Siberia e dell’Asia
centrale, nei numerosi campi di concentramento... Le donne vengono strappate ai loro mariti allo
scopo di spezzarli entrambi e costringerli alle abiure”.
Definisce quindi il “socialismo nazionale” di Stalin il “termidoro” sovietico e la costituzione
staliniana del ‘36 un tentativo di costruire un “bonapartismo plebiscitario”.
Considera il dittatore georgiano la più insigne mediocrità del partito bolscevico e definisce la
società sovietica una “deformazione burocratica del socialismo”, generata dalla debolezza delle
forze produttive e dalla “barbarie” culturale di massa, un prodotto pericolosamente maligno
dell’isolamento internazionale. Pur sottolineando il carattere perverso del regime, sostiene che pur
“con tutte le sue contraddizioni” esso è da ritenersi “transitorio tra il capitalismo e il socialismo o
preparatorio al socialismo”. E commenta: “Il proletariato di un paese arretrato ha dovuto fare la
prima rivoluzione socialista. Dovrà molto verosimilmente pagare questo privilegio con una
seconda rivoluzione, contro l’assolutismo burocratico”. Reclama quindi la rinascita dei sindacati
(quando anni prima si era lui stesso prodigato a integrali nella macchina governativa) e, nel
rivendicare il ristabilimento delle libertà politiche, ribadisce che perno istituzionale della nuova
società devono essere i soviet.
A fronte degli scioperi in Francia, ritiene che la rivoluzione proletaria sia all’ordine del giorno in
quel Paese, così pure in Spagna; e che la classe operaia occidentale rappresenti per il proletariato
russo, ormai imprigionato dalla burocrazia staliniana, la leva che può ridargli slancio e coscienza
dei suoi compiti. Illuso quindi del possibile rilancio della rivoluzione in Occidente, accusa Stalin di
volerla strangolare e invita i francesi a costruire i soviet.
Polemizza poi con la linea dei “fronti popolari” da lui giudicati frutto di una virata a destra, in
quanto negazione degli interessi specifici del proletariato e strumenti di difesa della democrazia
borghese in funzione del compromesso tra l’Urss e i Paesi capitalistici occidentali.
Dopo la sconfitta dei repubblicani in Spagna, alla luce della sua teoria della rivoluzione permanente,
attribuisce il fallimento di quell’esperienza alla inadeguatezza del fronte popolare e alla
responsabilità dei “neo-menscevichi staliniani” interessati solo a salvaguardare le posizioni sociali
moderate.
Nel ’36 il tribunale sovietico lo condanna a morte in contumacia. Nel ’37 egli si trasferisce
dall’Europa a Città del Messico.
Nel ’38 viene fondata la 4a Internazionale che si ispira a un progetto messo a punto da lui stesso nel
’33. Nel “Programma di transizione” egli ritorna sul tema della necessità della rivoluzione politica
in Urss, affinché sia possibile il ristabilimento della democrazia sovietica. Ancora una volta
sottolinea che i due aspetti-chiave di questa democrazia sono il ristabilimento dei soviet, in quanto
organi di potere liberamente eletti dal proletariato, e la legalizzazione dei partiti sovietici.
Le organizzazioni che fanno capo alla 4a Internazionale non riescono però a mettere radici nel
movimento operaio. Estirpato nell’Urss dall’azione repressiva di Stalin, il trotzkismo riesce a
diventare un movimento politico di una qualche importanza solo in alcune realtà operaie marginali.
Odiato da Stalin, Trotzkij diventa l’avversario dichiarato di tutti i comunisti ortodossi.
Agli occhi del capo del Cremlino egli appare più pericoloso di Hitler. Il trotzkismo, in effetti,
rappresenta la coscienza della rivoluzione, ricorda con insistenza al partito bolscevico il suo
202
impegno per una democrazia proletaria e mantiene viva nella classe operaia l’aspirazione, mai
distrutta, a essere la protagonista del socialismo.
Proprio per questa ragione, nella seconda metà degli anni ’30, esso viene considerato un male
soggettivo e la teoria della “rivoluzione permanente” viene bandita dal mondo comunista e per oltre
quaranta anni sarà considerata l’eresia delle eresie.
Nel ’40, non tollerando oltre la pur scarsa influenza teorica che Trotzkij esercita sugli orientamenti
del movimento comunista, e nell’intento di impedire una sua eventuale leadership alternativa
conseguente agli imprevedibili esiti del conflitto mondiale, pur se ormai esule oltre oceano e
politicamente inoffensivo, Stalin assolda un sicario e lo fa brutalmente ammazzare.
Qualche tempo prima di morire, il leader della 4a Internazionale ebbe ad esclamare: “Quali che
siano le circostanze della mia morte, morirò con un’intatta fiducia nel futuro comunista”. E
prendendo le distanze da non pochi dei suoi seguaci, fece sua la parola d’ordine della “difesa
dell’Urss”, che in ogni caso considerava uno “stato operaio”, seppure “degenerato”.
Trotzkij si dimostra dunque coerente con le sue idee fino alla fine dei suoi giorni. “Il socialismo –
scrive – non avrebbe alcun valore se non portasse con sé non solamente l’inviolabilità giuridica ma
anche la piena salvaguardia di tutti gli interessi della persona umana. Il genere umano non
potrebbe tollerare un abominio totalitario improntato sul modello del Cremlino”.
La sua fermezza è il prodotto di una visione aperta, non dogmatica delle vicende di questo mondo.
Egli mostra di avere grande fiducia nel futuro dell’uomo e confida nella sua capacità e
determinazione di agire e di combattere per il suo avvenire. Dinnanzi allo spettacolo di sangue e di
oppressione che caratterizza il suo tempo esclama: “Tu sei solo il presente!... La vita è bella” e si
augura che le generazioni future “possano depurarla di ogni male, di ogni oppressione e di ogni
violenza e goderla pienamente”. E’ convinto che il socialismo tenderà a creare per la prima volta
nella storia della civiltà una cultura universale. E si azzarda a fare previsioni. “Via via la lotta
politica si esaurirà nella società senza classi… gli uomini si divideranno in ‘partiti’ sulla questione
di un nuovo canale gigantesco o sulla distribuzione delle oasi del Sahara… la lotta assumerà un
carattere puramente spirituale. Non avrà niente a che fare con la ricerca del profitto, con la
volgarità, con il tradimento e con la corruzione, con tutto ciò che costituisce l’essenza della
‘concorrenza’ nella società divisa in classi”.
Ovviamente, non tutto quello che egli presagisce si realizza. Per esempio, è convinto del prossimo
avvento di una “grande epoca del marxismo americano”, cosa che invece non si è verificata. Si dice
poi certo che sarà la classe operaia a dare vita a un processo rivoluzionario partendo dalle città e
coinvolgendo le campagne, ma anche questa previsione si è rivelata una chimera.
Trotzkij non manca nemmeno di porsi degli interrogativi che rimettono in discussione non solo il
suo impegno antistaliniano, ma la sua stessa intera opera di rivoluzionario. Si interroga a fondo
sulla stabilità o meno del totalitarismo sovietico e sulla capacità e volontà del proletariato dei Paesi
occidentali di realizzare la rivoluzione. La sua introspezione è tale da giungere a considerare
l’ipotesi che, in assenza dei cambiamenti sperati, il marxismo rivoluzionario possa essere relegato a
buon diritto dalla storia nel regno dell’utopia.
In forza del principio secondo cui “la prova finale della teoria è l’esperienza” egli mette in
discussione se stesso e le idee in cui crede con inusuale spietatezza.
Come già ebbe a fare Lenin, anch’egli si batte per la creazione degli Stati uniti repubblicani
d’Europa, quale base per gli Stati uniti del mondo.
Contro il dogmatismo di Stalin difende il freudismo, si interessa a Pavlov e manifesta simpatie per
la psicologia. Si batte perché l’attività artistica non sia terreno in cui il partito detta le sue
condizioni.
Considera la pianificazione l’essenza del socialismo, poiché in un tale sistema non esiste il libero
gioco delle forze economiche, cioè la concorrenza. Sostiene la tesi secondo cui il piano non è da
considerarsi un concetto proprio del socialismo, ma che esso consente allo Stato di utilizzare le
leggi del mercato per meglio distruggerle, superando così le difficoltà; e che il mercato è il luogo in
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cui si esprime la legge del valore la quale è presente durante la transizione. A suo avviso, solo la
pianificazione permette di eliminare le crisi che sono specifiche del sistema del capitalismo di Stato.
Lo stesso Lenin aveva riconosciuto in lui colui che per primo aveva posto la necessità del piano.
Nella sua concezione del socialismo, Trotzkij distingue la statalizzazione dalla socializzazione. “La
prima – precisa – consiste nell’appropriazione da parte dello Stato delle principali forze produttive
e viene spacciata come la base della socializzazione, la seconda, invece, è l’organizzazione
cosciente delle forze produttive e presuppone il loro sviluppo”. Nel fare questa distinzione egli,
però, non coglie alcun limite nell’ordinamento economico dell’Urss, nella sua economia
collettivizzata e pianificata, nel suo modo di essere strutturata centralmente. Sembra sfuggirgli il
concetto marxiano del “general intellect”.
Nonostante la sua decisa avversione allo stalinismo e la sua poliedrica visione del socialismo,
Trotzkij non è mai stato riabilitato, nemmeno da Gorbacev.
Eppure, tutte le riforme progressiste applicate in Urss dopo il ’53 hanno rappresentato una seppur
debole eco delle rivendicazioni avanzate proprio da lui nei decenni passati. Lo stesso Mao, nel
condurre le sue campagne socio-culturali, non ha mancato di riprendere alcuni concetti
fondamentali della sua “rivoluzione permanente”.
6.8 – La condanna a morte di Nikolai Bucharin
Quella di Nikolai Ivanovic Bucharin è senza dubbio una figura contraddittoria poiché il suo
itinerario nella complessa vicenda della rivoluzione russa non è affatto lineare. Nel partito egli si
colloca su posizioni prima di sinistra poi su quelle di destra; all’inizio della costruzione del sistema
sovietico è un seguace di Lenin, al punto da venire indicato come il suo delfino, poi diventa un suo
antagonista; si allea con Trotzkij poi, col passar del tempo, lo avversa e lo tradisce; assume il ruolo
di stretto collaboratore di Stalin ma alla fine si trasforma in un suo oppositore. In sostanza, è un
personaggio che muta con facilità posizione politica.
Poco dopo aver iniziato la militanza politica nell’ala più rivoluzionaria della sinistra, egli viene
arrestato e deportato. Costretto all’esilio, soggiorna in Austria, Germania, Svizzera e poi in Svezia,
Norvegia e negli Stati Uniti. Durante questo suo pellegrinaggio conosce il capo dei bolscevichi e
con lui stringe una positiva relazione. Rientrato in Russia nel ’17 diventa uno dei principali
protagonisti della rivoluzione. Durante le trattative di pace di Brest-Litovsk è il principale portavoce
dei “comunisti di sinistra”. Nella veste di direttore della “Pravda”, sotto l’influsso del trauma di
Kronstadt, diventa un teorico del “comunismo di guerra”. Alla luce però di questa tribolata
esperienza compie una riflessione che lo porta a essere uno dei fautori della Nep di cui continuerà
ad essere uno dei più strenui difensori. “Credevamo possibile abolire i rapporti di mercato di colpo
e immediatamente”, commenta, ma l’esperienza ci ha insegnato che “proprio solo attraverso di essi
potremo giungere al socialismo”.
Lenin si rifiuta di pubblicare il suo saggio “La teoria dello stato imperialistico” la cui tesi è che
“l’economia nazionale assume sempre di più il carattere di una economia di Stato, di un trust
capitalistico di Stato”. A suo giudizio “le scienze, i partiti, la chiesa, le unioni imprenditoriali, ecc.
vengono incorporati nello Stato”. “Qui – teorizza – si rivela la dialettica della storia: lo Stato,
dapprima organizzazione unica della classe dominante, diventa un’organizzazione fra le altre, per
ritrasformarsi in organizzazione unica assorbente tutte le altre”.
Nel suo cosiddetto testamento, Lenin sostiene che Bucharin non è mai stato un vero marxista: “Non
ha preso, e penso, mai compreso pienamente la dialettica”.
Poiché da giovane Nikolai ha subito l’influenza delle idee di Bogdanov, fin che camperà dai
bolscevichi più integralisti gli verrà rimproverata una certa simpatia verso il teorico
dell’empiriomonismo (teroria per cui i fatti fisici e psichici sono considerati manifestazioni diverse
di una medesima esperienza).
204
All’indomani della rivoluzione d’ottobre e nel corso dei primi anni ’20 scrive diversi trattati tra cui:
“L’economia politica del capitalista”, “Economia del periodo di trasformazione”, “Teoria del
materialismo storico”, il “Manuale popolare di sociologia marxista”.
Si cimenta anche con le teorie filosofiche e sostiene che “tutto l’universo è o composto o derivato
dalla materia. I fenomeni non percepibili sensorialmente – come le idee – indubitabilmente
esistono, ma per quanto incorporei, dipendono in origine dalla materia, si sviluppano dalla materia
fisica. Anche i fenomeni sociali sono reali ed essenzialmente materiali. Ogni sistema sociale si
compone non soltanto dell’‘apparato materiale’ della società (utensili da lavoro, edifici, libri,
ecc..), ma anche di certi fenomeni ‘mentali’ o ‘spirituali’: idee, teorie, scienza, religione, ecc.”.
“Tutto nel mondo è connesso da un legame indissolubile… niente resta isolato, niente è
indipendente da ciò che lo circonda… il metodo dialettico di esaminare tutto ciò che esiste esige
che si considerino tutti i fenomeni nei loro indissolubili rapporti”. “L’equilibrio che riscontriamo
nella natura e nella società non è un equilibrio assoluto, immobile, ma un equilibrio mobile…
l’equilibrio si stabilisce e subito dopo viene turbato, si ristabilisce su una nuova base e viene
turbato di nuovo, e così via”.
“Lo sviluppo delle contraddizioni interne, o antagonismo di forze agenti in varie direzioni, è la
forza motrice di tutte le cose e fornisce la spiegazione di ogni mutamento nella natura e nella
società.
Nonostante l’esistenza del conflitto universale, non vi può essere dubbio che vi sia tra i fenomeni
sociali un rapporto di adattamento di una parte all’altra. Esiste insomma un certo equilibrio tra gli
elementi all’interno della società. Ciò nondimeno il conflitto è sempre presente anche nel bel mezzo
dell’apparente armonia. Un nuovo equilibrio diviene punto di partenza per una sua nuova
distruzione”.
“L’interazione fondamentale fra società e natura è la produzione sociale per mezzo del lavoro
umano: la produzione sociale è l’adattamento della società umana alla natura… Ogni fenomeno è
un anello della catena della causalità. Per capire un evento storico è necessario concepirlo come
conseguenza di una o più cause storiche precise”.
“La lotta della società con la natura, il processo di umanizzazione della natura, la penetrazione
costante di un opposto nell’altro, stanno al fondo dell’intero movimento della storia”. “Nessuna
forma di società è discesa dal cielo: ciascuna era la necessaria conseguenza di uno stadio sociale
precedente…. Nulla al mondo resta fisso e immutabile… la base di tutto è la legge del
cambiamento… qualunque fenomeno va esaminato in movimento, non in uno stato apparentemente
stazionario… tutti i fenomeni sono riducibili alla materia in movimento… Marx ha sostituito il
movimento della materia al movimento della mente (Hegel) che è conseguente”.
E dalla disquisizione filosofica passa a quella economico-sociale.
“La base della divisione delle persone in differenti classi sociali è data dai ruoli completamente
diversi da esse sostenuti nel processo produttivo”.
E sostiene che il cambiamento non deve necessariamente significare progresso: “Non è affatto vero
che l’umanità progredisca sempre”. La direzione del mutamento, nella natura come nella società,
può essere sia progressiva che regressiva, a seconda del carattere del rapporto esistente fra il sistema
e il suo ambiente.
Mentre per Lenin l’imperialismo rappresenta il “capitalismo morente”, per lui non rappresenta
affatto la fine dello sviluppo del capitale, ma una forma di riassetto dei singoli sistemi economici
nazionali dei paesi industriali in vista di un ben organizzato capitalismo di Stato, il quale tende a
eliminare l’anarchia e la disorganizzazione all’interno delle singole economie nazionali. A suo
giudizio, nell’era imperialistica, la contrapposizione tra villaggio mondiale e città mondiale assume
valore internazionale.
A differenza dei teorici del “crollo” egli è un attento osservatore delle trasformazioni strutturali che
investono i Paesi altamente industrializzati e nota come attraverso di esse lo Stato, da guardiano del
liberismo, diventa protagonista diretto dell’economia. Attribuisce dunque al capitalismo grandi
potenzialità di sviluppo e situa la fine di quel sistema solo in seguito a una nuova guerra mondiale
205
che sarebbe scaturita dalle rivolte delle colonie. In questa ottica critica in maniera sistematica le tesi
espresse da Rosa Luxemburg in ”L’accumulazione del capitale”.
Una delle colonne portanti della sua teoria della rivoluzione è la dipendenza della rivoluzione in
Occidente da fattori soggettivi e la convinzione che “il rivoluzionamento della coscienza (della
classe oppressa) ha luogo quando gli sviluppi oggettivi collocano (questa classe) in una posizione
intollerabile”.
Egli fa poi delle distinzioni tra i vari periodi della rivoluzione proletaria separando la fase della
rivoluzione ideologica, cioè della rivoluzione delle coscienze, da quella della rivoluzione politica, la
quale implica la distruzione dell’apparato statale borghese; distingue la fase della rivoluzione
economica, ossia della creazione di nuovi rapporti economici, da quella della rivoluzione tecnica, la
quale comporta lo sviluppo accelerato delle forze produttive. Ai suoi occhi, la rivoluzione proletaria
si differenzia da quella borghese in quanto il proletariato deve conquistare il potere politico prima di
creare nuovi rapporti sociali. Pertanto, intende la transizione come balzo repentino e come atto
violento da un tipo di società a un altro. “Le rivoluzioni – teorizza – sorgono quando c’è un conflitto
tra le forze produttive e i rapporti di produzione che sono assicurati dall’organizzazione politica
stabilita dalla classe dominante. Questi rapporti di produzione, impediscono, a tal punto lo
sviluppo delle forze produttive, che vanno spazzati via se si vuole che la società si sviluppi
ulteriormente”.
Ritiene però che il nuovo Stato sia soggetto a leggi analoghe a quelle valide nel rovesciato sistema
capitalistico e pertanto il processo di cambiamento deve essere graduale.
Nell’agosto del ’17 scrive che “la vittoria definitiva della rivoluzione russa è inconcepibile senza la
vittoria della rivoluzione mondiale”. Nel suo modo di pensare, infatti, la costruzione del socialismo
in un solo paese non rappresenta né un’esaltazione del nazionalismo, come avviene per altri
bolscevichi, né la volontà di proporre un modello unico di sistema sociale valido per tutti i Paesi.
Egli considera anzi un’esperienza socialista costruita senza l’ausilio di aiuti esterni una forma di
“socialismo arretrato”. L’idea dunque di una superiorità del modello sovietico è in lui totalmente
assente, mentre insiste sul principio secondo cui il socialismo deve avere un carattere umanistico.
Nonostante questa sua visione chiaramente antidogmatica, per un periodo di tempo non breve, egli
mantiene con Stalin un rapporto armonico, di non conflittualità.
Nel corso degli anni ‘20 lascia una traccia profonda nel pensiero economico sovietico. Egli insiste
su due concetti base: a) l’instaurazione dei rapporti di produzione socialisti porta con sé la
liquidazione delle categorie mercantili e, di conseguenza, il socialismo è destinato a superare
l’economia politica come scienza (“La fine della produzione mercantile è la fine dell’economia
politica” in quanto “la scienza economica è la scienza dell’economia sociale non organizzata”); b)
poiché il socialismo è l’affermazione della proprietà collettiva sui mezzi di produzione, i rapporti
tra gli uomini non sono più mediati dallo scambio e pertanto il feticismo delle merci e l’alienazione
sono destinati a scomparire.
In “Economia del periodo di trasformazione” cerca di ripresentare il socialismo di stato come un’
immagine rovesciata del capitalismo di Stato. Considera il “capitalismo organizzato” di Stato un
potente fattore per superare l’anarchia interna delle forze del mercato.
Una società – scrive – è “prima di tutto un’organizzazione di lavoro” ovvero “un organismo
produttivo” la cui esistenza dipende dal “processo materiale della produzione”. “Qualunque
mutamento nella produttività del lavoro altererà inevitabilmente l’intera vita della società”.
L’efficacia del lavoro è a sua volta determinata dal livello tecnologico delle forze produttive: se tale
livello è alto, altrettanto alta sarà la produttività del lavoro. La produttività del lavoro è l’indice o
l’espressione dell’intero equilibrio tra società e natura e determina la condizione del sistema
all’interno del suo ambiente. E’ con questo spirito che, a metà degli anni ’20, lancia al mondo
contadino la parola d’ordine “arricchitevi!”.
“Una riorganizzazione delle persone nel campo economico implica una conseguente
riorganizzazione delle persone nella struttura socio-politica della società… e ciò esige una
modificazione delle leggi, della morale, ecc.”. “Un incremento di popolazione (incremento più o
206
meno costante) non è nient’altro che un’espansione e una crescita del sistema sociale”. Viceversa,
una diminuzione della popolazione denota il regresso o il declino di una società.
Il movimento demografico, dunque, secondo il suo giudizio è indice del progresso o del regresso
sociale in quanto riflette direttamente il carattere globale del rapporto tra società e natura e
determina la direzione dello sviluppo di una società.
Attraverso l’imporsi sul mercato delle più efficienti imprese socialiste (di Stato o cooperative), le
classi imprenditoriali verrebbero eliminate o meglio superate.
Egli sostiene poi che un buon piano non è onnipotente, ma se è cattivo può essere disastroso. I danni
e il caos provocati da cattivi, ma potenti pianificatori possono essere peggiori di quelli prodotti
dall’anarchica spontaneità capitalistica.
Bucharin non concepisce il progressivo processo di socializzazione nei termini riduttivi di una
semplice sostituzione del settore privato, ma è invece convinto che sia il principio cooperativistico a
imporsi a poco a poco in ogni sfera della organizzazione sociale contribuendo alla progressiva
estinzione dello Stato. Per lui la prospettiva a lungo termine è appunto un’economia mista:
“Abbiamo già centralizzato più del necessario”, afferma, e poi critica pesantemente
l’organizzazione dell’economia sovietica.
In effetti, il processo di pianificazione che lui contesta viene attuato per un quarto di secolo senza
che da parte dei governanti venga stabilita una seria metodologia nel definire i suoi obiettivi
primari.
Le sue convinzioni e critiche sono, in sostanza, una lucida anticipazione di quanto poi accadrà.
Un altro fronte su cui Bucharin dà battaglia è quello della burocrazia. Per lui, la spiegazione degli
inconvenienti derivanti dal reimpiego, da parte del governo sovietico, dei funzionari che hanno
servito gli zar, è troppo semplicistica. A suo parere è invece la stessa economia socialista
centralizzata che richiede un immenso apparato amministrativo il quale, a sua volta, si riproduce per
propria dinamica interna.
Anche se ritiene che l’uso della forza dello Stato deve diventare superflua col crescere dello
sviluppo sociale, egli aderisce come tutti i dirigenti del partito dell’epoca alla tesi della dittatura del
proletariato. All’inizio degli anni ’20, nell’intendimento di formare l’umanità comunista col
materiale umano dell’epoca capitalista, teorizza addirittura l’applicazione della violenza proletaria,
a partire dalle fucilazioni per finire coi lavori forzati, come metodo da adottare, e contribuisce così a
creare “l’arcipelago gulag”.
Sul fronte della politica delle alleanze considera strategica per la costruzione del socialismo la
collaborazione tra operai e contadini e nel difendere il ruolo del mondo dell’agricoltura si scontra
con Trotzkij il quale invece si batte per l’industrializzazione. Una delle battaglie che egli conduce
con determinazione è quella per la tolleranza nei confronti delle correnti intellettuali. Sostiene
addirittura la tesi dell’opportunità di autorizzare la formazione di un partito politico composto
prevalentemente da uomini del mondo della cultura con funzioni di critica dei gestori del potere.
Attribuendo grande importanza ai “saperi”, non solo sollecita l’innalzamento dei livelli di
istruzione, ma si prodiga nel favorire l’iniziativa e la corresponsabilità dei singoli. Nell’arretratezza
culturale egli individua un “enorme pericolo di degenerazione”.
Tra il ‘26 e il ’27, in piena sintonia con la dirigenza staliniana, Bucharin sostiene la linea che
privilegia il mondo contadino e si scaglia contro Trotskij, Zinov’ev e Kamenev, i quali invece si
battono per un ruolo di maggior peso del proletariato. Nonostante egli si sia sempre battuto per
un’alleanza con la socialdemocrazia, nel ’28, si adegua alla linea del “socialfascismo” imposta da
Stalin al 6° congresso dell’Ic. Quando però, a fronte delle prime difficoltà nell’approvvigionamento
del grano, il governo sovietico ricorre all’uso della forza nei confronti dei contadini, egli entra in
collisione con il dittatore georgiano e assume la leadership dell’opposizione di destra. A quel punto
mette in discussione il complesso delle scelte di politica economica adottate dalla direzione del
partito e, alla tesi che sostiene il passaggio diretto ai criteri socialisti (così come era stato
sperimentato nel periodo del ‘comunismo di guerra’), contrappone il valore universale dei principi
che hanno ispirato la Nep. Nonostante ricopra la funzione di presidente del Comitato esecutivo
207
dell’Ic e continui a essere uno dei più convinti sostenitori del socialismo in un sol paese, il suo
disaccordo con il “capo” lo pone irrimediabilmente nella condizione di essere emarginato
dall’attività di partito.
Nel ’29, in una lettera inviata a Stalin, egli esprime una percezione chiarissima dei pericoli che la
dittatura fa correre all’Urss. In essa infatti sostiene che l’industrializzazione accelerata e la
collettivizzazione delle campagne non si sarebbero potute fare senza “la instaurazione di metodi
terroristi nel partito e in tutta la società”.
Successivamente, si batte per l’eliminazione di qualsiasi abuso amministrativo e, giudicando
intollerabile il regime interno al partito, invoca la legalità in ogni ambito dell’attività umana.
Reclama una maggiore razionalità e attitudine scientifica nell’affrontare i problemi, una minor
delega alle istituzioni, l’abbandono dei metodi di coercizione di massa e rivendica l’adozione di
criteri di gradualismo, persuasione e protagonismo sociale.
Allontanato dalla vita politica attiva per alcuni anni, nel ’33 viene designato redattore capo delle
“Izvestija” e inserito nella commissione che redige la famosa Costituzione del 1936, gran parte del
cui testo è scritto proprio da lui. Impegnato a trasformare la dittatura rivoluzionaria in comunità
socialista, appena venga superato lo stato di emergenza, nel ’37 viene denunciato al secondo
processo di Mosca. Condannato a otto anni di reclusione, viene imprigionato alla Lubjanka dove
scrive i suoi “Quaderni del carcere”. Nel ’38, al terzo processo, viene condannato a morte e fucilato.
Di fronte alle gravi colpe (smaccatamente false) che gli vengono attribuite (la più grave delle quali è
quella di tradimento), egli dichiara di ammettere che la mostruosità dei suoi delitti è smisurata e per
questa ragione si mette “in ginocchio di fronte al Paese, di fronte al partito, di fronte a tutto il
popolo”. Non manca peraltro di esprimere lodi a Stalin sostenendo che “per tutti è evidente la
saggia guida che al Paese è assicurata” da lui e definisce “grande e coraggiosa” la scelta politica
della “purga generale” che accompagna la celebrazione dei processi.
Fino all’ultimo egli spera di poter continuare a servire il partito, si dice anzi disposto a recarsi in
America per condurre la “lotta mortale contro Trotskij”.
Nell’attesa di essere fucilato, in carcere scrive: “Ci salva la fede che lo sviluppo va avanti. E’ come
una corrente che porta al mare. Se si esce dalla corrente si viene espulsi. La corrente va oltre le più
difficoltose rapide. Essa si muove andando avanti nella direzione nella quale si deve muovere. Il
popolo cresce, nella corrente diventa più forte e costruisce una nuova società”. Prima
dell’esecuzione scrive alla moglie: “Sento tutta la mia impotenza davanti ad una macchina
infernale che, con metodi medievali, ha acquisito forze gigantesche, fabbrica calunnie organizzate,
agisce arditamente e fiduciosa… Attualmente, la maggior parte dei cosiddetti organi del Nkvd sono
un’organizzazione degenerata di burocrati, senza idee, corrotti, ben pagati che sfruttano l’autorità
svanita della Ceka per provvedere alle ossessioni morbose di Stalin… Qualsiasi membro del Cc,
qualsiasi socio del partito può essere cancellato da costoro, trasformato in traditore, terrorista,
‘deviazionista’ e ‘spia’”. Dopo una così pungente denuncia, però, esorta così la consorte: “Ricorda
che la grande causa dell’Urss vive e questo è l’importante, mentre i destini individuali sono
transitori e miserabili al confronto”.
Nelle sue ultime riflessioni traspare l’aspirazione a realizzare una autentica legalità
postrivoluzionaria e un pluralismo politico capace di favorire un pluralismo sociale e diffondere una
cultura fondata su un “umanesimo socialista”.
Non per caso conclude: “La radice di tutto il male sta nel fatto che il partito e lo Stato sono
diventati una cosa sola”.
Bucharin appare il più lucido rappresentante di un programma politico e sociale che si potrebbe
definire alternativo a quello di Stalin e che nel momento in cui viene abbozzato viene bollato come
“deviazionismo di destra”.
Se qualcuno avesse cercato una sintesi delle sue teorie e del suo operato nella “Grande enciclopedia
sovietica”, si sarebbe accorto che il suo nome non vi appariva, come se non fosse mai esistito.
Solo nell’87, quando al potere si trova insediato Gorbacev, egli viene rivalutato da una
commissione speciale del politburo che è incaricata di occuparsi della repressione staliniana nei
208
confronti dei comunisti sovietici e stranieri. E’ dunque solo con la caduta del socialismo reale che si
creano le condizioni per la sua riabilitazione.
6.9 – Riflessioni sullo stalinismo
A criticare e opporre resistenza a Stalin, dunque, ci hanno provato non solamente gli esponenti della
socialdemocrazia europea, alla cui testa vi erano i Kautskij, gli Hilferding e i Bauer, ma anche
alcuni stessi dirigenti comunisti. Si è trattato ovviamente di un’eccezione, poiché la stragrande
maggioranza degli aderenti ai partiti che facevano capo all’Ic hanno approvato l’operato del capo
del Cremlino, anzi, ne hanno tessuto le lodi adulandone personalità e gesta.
Per citare due soli casi molto significativi dell’indiscusso consenso che il capo dell’Urss è riuscito a
conquistarsi, è da ricordare il discorso che Andrei Zdanov ha tenuto in chiusura del 18° congresso
del Pcus nel corso del quale, in omaggio al dittatore, ha proclamato: “Viva il genio, il cervello, il
cuore del partito bolscevico, di tutto il popolo sovietico, di tutta l’umanità progressiva di
avanguardia, il nostro Stalin”. Poi, merita di essere richiamato quanto ebbe ad affermare il
dirigente comunista jugoslavo Milovan Gilas, in tempi antecedenti la condanna del “titoismo” da
parte del Cremlino, e cioè che senza Stalin neppure il sole avrebbe potuto splendere come
splendeva. Un incensamento, questo, che desta meraviglia ancora oggi, non solo per la massiccia
dose di piaggeria che racchiude in sé, ma anche perché l’autore era ritenuto all’epoca uno dei più
prestigiosi intellettuali di sinistra a livello internazionale.
A denunciare che “Stalin era considerato superuomo, infallibile, come dio, in grado di sapere tutto,
vedere tutto, pensare per tutti” è stato il suo stesso successore, Nikita Chruscev, allorquando nel
’56, con il suo rapporto segreto al XX congresso del partito, ha condannato lo stalinismo.
Va certo tenuto in considerazione che i comunisti non presenti in Unione Sovietica all’epoca di
Stalin, avevano scarsa conoscenza sia dell’esistenza delle lotte intestine che si sono sviluppate in
seno al gruppo dirigente bolscevico, sia della violenta colllettivizzazione delle campagne e delle
drammatiche conseguenze che questi avvenimenti hanno avuto sulla società (processi, “purghe”,
gulag, ecc.). Molti di loro, infatti, erano convinti che non esistessero campi di concentramento, ma
semplici strutture di rieducazione; che i soviet fossero eletti ed espressione della volontà del popolo;
che la classe operaia fosse giunta veramente al potere; che quel modello di socialismo generasse
giustizia e uguaglianza.
La scarsa informazione e la fiducia cieca nella causa del socialismo, però, non possono giustificare
il diffuso atteggiamento di passività e di ingenua compiacenza che hanno regnato anche
all’indomani della rivelazione di quei crimini e per lungo tempo nelle file del movimento operaio.
Anche perché, quando i dirigenti e i militanti comunisti hanno scoperto che le cose non stavano
come credevano, non hanno inscenato alcuna manifestazione di dissenso o di protesta ma, salvo rari
casi di dissociazione, si sono prodigati ad attribuire tali “guasti” alle circostanze storiche e alle
difficoltà oggettive che la prima esperienza socialista era inevitabilmente destinata a incontrare. E si
sono pacificati giustificando il loro carattere transitorio. Pertanto, non solo le manifestazioni di
sdegno sono state assai circoscritte, ma si è addirittura manifestata una mancanza di curiosità e
d’interesse nel capire cosa era accaduto nel “paese del sol dell’avvenire”. E non si sono chiesti
come mai quel cambiamento che ha favorito la liberazione di enormi forze produttive e l’accesso
delle masse popolari alla politica, ha poi assunto un carattere di inaudita sanguinosa violenza.
Anche coloro che hanno avuto il coraggio di criticare lo stalinismo, e per la verità sono stati pochi,
si sono limitati a evidenziare le cause soggettive, a condannare i cosiddetti “errori” compiuti da un
leader megalomane, e non hanno posto l’accento sulle cause strutturali, sul sistema economico e di
potere e, soprattutto, sulle responsabilità di chi ha assecondato e sostenuto Stalin. Come ho già fatto
notare, a partecipare alle campagne repressive che reclamavano le rappresaglie nei confronti dei
dissidenti e dei traditori, ad eseguire gli arresti dei perseguitati, a comporre i troiki, cioè i tribunali
del popolo che giudicavano e condannavano i “nemici del popolo”, a gestire i gulag, hanno
partecipato non solo esponenti dell’apparato, ma milioni e milioni di persone. A fare grande Stalin,
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insomma, ad attribuirgli potenza e virtù carismatiche, è stato un intero popolo e questa verità non
può essere nascosta.
La stragrande maggioranza dei dirigenti e dei militanti comunisti di tutto il mondo, rifiutando di
scrutare e studiare il “nuovo” che stava prendendo corpo, hanno preferito assumere l’Urss come un
modello, hanno fatto propria la sua etica rivoluzionaria, e anziché aprire gli occhi sulle atrocità che
si stavano consumando, hanno magnificato in modo incondizionato i suoi dirigenti. Si sono fidati e
adeguati ciecamente a un divenire storico che prometteva progresso e hanno posto in secondo
ordine il fatto che seminava terrore. Da taluni, addirittura, il dispotismo e le repressioni sono stati
interpretati come prodotti del disperato tentativo di Stalin di scavalcare quel labirinto burocratico
che lui stesso ha meticolosamente costruito. E poiché l’Urss era sottoposta a un permanente e
drammatico stato d’assedio attuato dalle potenze capitalistiche, a dire della maggior parte dei
comunisti dell’epoca, l’operato di Stalin era giustificabilissimo. Alcuni hanno persino teorizzato che
in quelle condizioni gli stessi Lenin e Trotzkij avrebbero fatto identiche scelte.
Secondo un’interpretazione del genere, l’urgenza di difendere la rivoluzione, di superare le immani
difficoltà economiche ereditate dallo zarismo e l’impossibilità di superare in breve tempo
l’arretratezza culturale della popolazione, che precludeva la possibilità di uno sviluppo della
democrazia e delle libertà civili, non avrebbe lasciato spazio a soluzioni alternative.
Va peraltro ricordato che gli adulatori di Stalin hanno in genere inteso il movimento rivoluzionario
come sforzo selvaggio, come processo violento da imporre a tutti mediante coercizione. In questa
ottica qualcuno è giunto al punto di sostenere che il regime staliniano non è stato per niente un
totalitarismo, ma piuttosto un caso particolarmente brutale di “dispotismo asiatico”.
Anche per queste ragioni, i più si sono dimostrati incapaci di comprendere che le contraddizioni di
fondo di quel sistema, prima o poi, sarebbero inevitabilmente esplose.
Per decenni, più o meno questa è stata la “vulgata” comunista sullo stalinismo!
Ragionando sul senso comune dei militanti e simpatizzanti di partito, negli anni ’50, Gyorgy Lukàcs
così ha stigmatizzato la situazione: “Quando si trattava di prendere posizione rispetto a questi fatti
(il riferimento è appunto all’operato e al dogmatismo di Stalin), ogni persona riflessiva doveva
partire dalla situazione storica del momento, che era quella dell’ascesa di Hitler e della
preparazione della sua guerra di annientamento contro il socialismo”, pertanto “un’opposizione
avrebbe potuto divenire un aiuto intellettuale e morale per il nemico mortale”.
A un tale impianto ideologico si sono purtroppo allineati anche i comunisti italiani. Basti ricordare
che nel dare vita al “Fronte popolare”, a metà degli anni ’40, essi hanno suscitato proprio il mito di
Stalin e, successivamente, quando la possibilità di determinare un cambiamento per via elettorale è
svanito, almeno larga parte di loro, hanno coltivato la speranza che a cambiare le cose fosse
intervenuta la spallata del “baffone”.
Va detto che a creare le condizioni perché nelle file del movimento comunista e operaio attecchisse
una così cieca fiducia e deferenza verso il leader georgiano e verso il primo Paese del socialismo,
hanno concorso molteplici motivi.
Anzitutto, è da tener presente che all’indomani del fallimento dell’auspicata rivoluzione in
Occidente, e dopo l’avvento del fascismo in Europa, la presenza dei comunisti era ridotta all’osso.
Negli anni ’30, solo la Francia vantava la presenza di un partito comunista di discreta entità; in
Germania e in Italia operavano solo alcuni clandestini; in Cina, per ricostruire una struttura
organizzata, Mao è stato costretto a dare vita alla “lunga marcia”; nelle Americhe la sinistra ha
conosciuto una certa espansione, ma ai successi si sono alternate battute d’arresto e sconfitte.
Insomma, la forza del movimento comunista era di stanza in Urss e, a seguito della sconfitta in
Occidente, era rimasto solo quel regime a dare coraggio e speranza a chi continuava a lottare per il
socialismo. Quel baluardo andava pertanto difeso a tutti i costi.
Nel periodo poi della lotta al nazi-fascismo, l’Urss è apparsa agli occhi anche di chi non era
comunista come una componente fondamentale con cui stringere l’alleanza al fine di far fronte alle
minacce di Hitler. La forza del socialismo, in quel periodo, era determinata anche dal tradimento di
tutte le speranze che la socialdemocrazia aveva suscitato e poi deluso. E il suo prestigio è cresciuto
210
anche in forza degli effetti della crisi del ’29. Il collasso del capitalismo aveva sconvolto l’economia
di tutti i Paesi dell’Occidente rendendo palese agli occhi delle masse l’insostenibilità di quel
sistema. L’Unione Sovietica, invece, avendo adottato la pianificazione, procedeva con speditezza
nel suo sviluppo e l’evidente contrasto socio-economico tra i due mondi aveva spinto una parte
significativa degli intellettuali dei Paesi occidentali ad abbracciare le tesi marxiste e a militare nei
partiti del movimento operaio.
Con l’avvento del fascismo poi, la democrazia borghese si era rivelata fragile e impotente e, in quel
frangente, lo schierarsi dalla parte del socialismo significava inevitabilmente stare con l’Urss,
perciò con Stalin. Ed era appunto nell’Urss, nella grandiosa opera di costruzione di una società
nuova, che larga parte della classe lavoratrice vedeva realizzate le speranze di giustizia sociale e le
aspirazioni di un cambiamento.
E’ stato, infatti, per questi motivi che in quel periodo, a livello internazionale, si è verificata una
straordinaria diffusione dei testi classici del marxismo. Negli anni ’30, lo sforzo compiuto a livello
internazionale nel pubblicare, diffondere e studiare le opere di Marx e di Engels è stato massiccio.
L’entusiasmo per il “nuovo” che avanzava era tale che in Inghilterra diversi giovani intellettuali
avevano spinto la loro dedizione alla causa del movimento operaio fino al punto di diventare agenti
segreti dei sovietici (è il caso di Burgess, di MacLean, di Philby, di Blunt). E pure negli Usa alcuni
giovani membri delle grandi famiglie milionarie della costa orientale erano stati attratti dalle idee
comuniste (è il caso dei Lamont e dei Whitney Straight).
Va altresì ricordato che gli apprezzamenti sull’operato di Stalin e sui progressi dell’Urss non sono
stati affatto frutto dei soli comunisti. Per esempio, lo stesso Winston Churchill, noto per le sue idee
conservatrici e per la sua fobia nei confronti del bolscevismo, ha giustificato e approvato
pubblicamente le purghe staliniane e ha definito il dittatore georgiano un “abile gigante”, un uomo
di enorme genio tattico-politico.
Il nostro Alcide De Gasperi, nel luglio del ’44, parlando al Teatro Brancaccio di Roma, ebbe ad
esaltare Stalin come “il grande condottiero di popoli”. E alla prima Assemblea della Sezione
romana della DC ebbe a ribadire: “Mi riferirò adesso anche all’esperimento russo. Con ciò non
voglio menomamente diminuire il merito immenso, storico, secolare delle armate organizzate dal
genio di Giuseppe Stalin… vedo contemporaneamente i russi composti di 160 razze cercare la
fusione di queste razze superando le diversità esistenti fra l’Asia e l’Europa”.
Appare quindi chiara l’influenza che il dittatore bolscevico, nella veste di prezioso e decisivo
alleato nella lotta contro il nazi-fascismo, ha esercitato sugli stessi leader moderati e conservatori
dei Paesi occidentali. Peraltro, il suo prestigio non si è limitato a questo solo aspetto. Quando il 6
marzo ‘53 è stata annunciata la sua morte, sul “Corriere della sera”, voce indiscussa della borghesia
italiana, è apparso un articolo in cui si diceva che il capo dei bolscevichi era un uomo “il cui genio...
era frutto di buon senso, di misura, di tempestività”. Sul “Mattino”, Giovanni Ansaldo ha sostenuto
che il capo dei bolscevichi era stato “un grande restauratore di valori tradizionali delle collettività
umane: orgoglio nazionale, amor patrio, onore militare, disciplina sociale”.
Se su “l’Unità” si potevano leggere espressioni di religiosa adorazione del tipo: “Gloria eterna
all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”, sull’“Avanti!”,
Riccardo Lombardi sosteneva che Stalin “non fu un dittatore, ma il capo espresso attraverso il più
democratico dei sistemi di selezione: l’esperienza della lotta e della responsabilità”. E mentre il
socialdemocratico Giuseppe Saragat ha dichiarato che il capo del Cremlino era “una figura
gigantesca che scompare dalla scena del mondo”, il democristiano Aldo Moro ha sottolineato che
con la sua morte “un vuoto si è determinato nel mondo”.
E l’influenza del dittatore georgiano è stata tale, almeno su una pur ristretta cerchia di esponenti
politici e della cultura, da indurre, nell’86, Norberto Bobbio, a invitare Paolo Spriano a considerare
la grandezza “del vostro, e potrei dire del nostro, Stalin, venerando e terribile” al pari di Annibale,
ricordando che “la costruzione di una società socialista è gran cosa”.
211
Come si può constatare, a glorificare il fautore del “terrore rosso”, non sono stati solo gli
appartenenti al mondo comunista; solo che il ricordare una tale verità crea imbarazzo in molti falsi
moralisti, i quali, pur di non doverne rendere conto, preferiscono obliterare la storia.
L’aspetto inquietante è in ogni modo rappresentato dalle complicità con lo stalinismo che si sono
manifestate anche all’indomani della sua condanna ufficiale da parte del XX congresso del Pcus.
Si può dire che sia esistita una paradossale continuità nel tempo, per certi aspetti addirittura fino ai
giorni nostri, di una concezione del potere che ha travalicato i confini della Russia bolscevica e ha
influenzato i gruppi dirigenti di tutti i partiti comunisti. Se dopo la morte del dittatore i suoi rozzi
metodi sono stati liquidati, le sue concezioni sono purtroppo sopravvissute, anche se coltivate in
maniera camuffata.
Dopo la morte di Stalin, in Urss, ci sono stati per la verità tentativi di superare le strutture create
durante il suo regime; si è pure cercato di rompere il peso soffocante dei rapporti sociali ed
economici che ne erano derivati, i risultati però non sono stati tali da modificare alla radice la
situazione. In assenza di un rilancio della democrazia e, soprattutto, di un ripensamento del modo di
produrre, i rapporti sociali sono rimasti inevitabilmente quelli di sempre, con anzi la conseguenza di
un approfondimento delle disuguaglianze sociali e di un progressivo incremento dei privilegi della
nomenklatura.
Anche sul piano delle relazioni internazionali le dirigenze hanno continuato a ragionare come
Stalin, cioè in termini di netta contrapposizione tra Paesi del capitalismo e Paesi del socialismo, fino
a concepire come soluzione accettabile la politica dei blocchi contrapposti edulcorata dalla linea
della coesistenza pacifica. Né Chruscev né Breznev hanno mai espresso la pur minima riserva sulla
politica estera di Stalin e questa è una testimonianza di complicità molto eloquente.
Per ricordare un caso per tutti, il patto Ribbentrov-Molotov è stato difeso con le unghie e con i denti
da tutti coloro che si sono succeduti al potere. Tutti i dirigenti dell’Urss hanno sempre rifiutato di
accettare la minima critica su questo storico atto politico, nonostante che le giustificazioni via via
addotte non avessero mai persuaso nessuno. Eppure, a partire dalla fine degli anni ’70, da alcuni
degli stessi specialisti marxisti di politica sovietica, quel patto non veniva più interpretato come una
pura “astuzia diplomatica” e neppure come un “errore di calcolo”. Dietro a un atteggiamento tanto
ostinato, si maschera purtroppo l’inquietante fatto che Stalin, prima che Hitler aggredisse l’Urss,
non aveva mai considerato la Germania nazista come il nemico principale. E si è ritenuto opportuno
che questa verità rimanesse nascosta.
Zhores e Roy Medvedev, nel loro libro “Stalin sconosciuto”, hanno sostenuto che i successori del
dittatore georgiano, subito dopo la sua morte, al fine di costituirsi un “alibi storico”, per impedire
cioè che fosse accertata attraverso i documenti la loro diretta complicità con i suoi crimini, si
sarebbero premurati di occultare lo stesso archivio personale del dittatore. Insomma, si sarebbe fatto
di tutto per ingarbugliare la lettura storica di quel periodo.
E’ noto, del resto, che per anni le case editrici sovietiche hanno impedito la pubblicazione di
qualsiasi opera storico-letteraria (dagli scritti di Solzhenitsyn al racconto della Ginzburg) che
riguardasse l’esistenza dei gulag o i processi della metà degli anni ’30 e che non fosse in linea con
la versione ufficiale del Pcus. Tutti gli storici che hanno cercato di affrontare criticamente gli anni
della collettivizzazione dell’agricoltura e dell’industrializzazione forzata, sono stati criticati e
censurati.
Se è pur vero che la storia del partito comunista, pubblicata in Urss in più volumi, alla fine degli
anni ’60-primi anni ’70, denunciava chiaramente gli errori degli anni del culto, essa non
comprendeva molte delle rivelazioni che erano contenute nello stesso rapporto segreto di Chruscev.
E attorno alle pur insufficienti e parziali iniziative prese in tempi successivi e tese a superare la
censura e a esprimere un giudizio obiettivo sulla eredità delle deviazioni staliniane, è intervenuta
una preoccupante censura. Alla fine degli anni ’80, poi, una delle tendenze dei dirigenti sovietici è
stata quella di addossare le responsabilità dell’accaduto ad altri dirigenti del Comintern, in
particolare a membri della Sed e del Pc francese, cioè a Thalmann e a Thorez delle cui
responsabilità non vi è alcun dubbio. Non ha destato meraviglia, infatti, che i dirigenti di questi
212
partiti abbiano chiesto a Zagladin di non far penetrare in pubblico “alcuna idea soggetta a
discussioni” e di evitare “esagerazioni nel trattare questo o quel lato del passato”.
Nel 1988 Roy Medvedev ha dichiarato: “L’odierna decisione sulle riabilitazioni delle vittime di
Stalin manifesta al contempo due grosse carenze: il sistema giuridico sovietico resta totalmente
subordinato alle decisioni del partito e poi appare chiara una grande arretratezza anche della
nostra scienza storica. Suo compito era ed è quello di studiare scientificamente il corso degli
eventi, l’analisi dei fatti e delle circostanze concrete. Nei fatti tutte le opere storiche (o la gran
parte di esse) pubblicate in questo decennio hanno taciuto sugli avvenimenti reali. Si sono create
ampie ‘macchie bianche’”.
Fatto è che il culto di Stalin è sopravvissuto nel tempo. A fine marzo del 2006, nella città di
Volgograd, già Stalingrado, è stato inaugurato un museo dedicato al dittatore. E mentre i
negazionisti russi continuano a sostenere che egli non fu quel mostro di cui si ciancia, in un libro
scolastico adottato nel 2008 (“Storia della Russia – 1900-1945) le purghe staliniane vengono
definite una risposta “razionale” e necessaria per modernizzare la Russia.
In conclusione, la sinistra nel suo complesso non ha ritenuto opportuno che Stalin e lo stalinismo
fossero oggetto di un approfondimento analitico serio e adeguato; non ha voluto indagare a fondo e
con obiettività su quel periodo storico e neppure sull’eredità che esso ha lasciato al movimento
comunista. Invece di un ripensamento critico e autocritico, ha preferito assumere un atteggiamento
ambiguo che ha significato oblio sul piano teorico e continuità su quello pratico.
Condannare lo stalinismo avrebbe comportato una ricerca-analisi approfondita sulle cause che lo
hanno generato e sui suoi tratti essenziali i quali non sono riducibili all’esercizio della violenza, ma
investono l’organizzazione dell’economia, la struttura dello Stato, il ruolo egemone della
burocrazia, la mancata distinzione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), il carattere
militaresco e ideologico del partito, l’imbracatura della società civile, la narcotizzazione della
pubblica opinione.
Nella storia del marxismo, lo stalinismo costituisce un paradosso. Mentre il marxismo è sorto come
lotta contro il dominio dell’uomo sull’uomo, contro la reificazione e l’alienazione economica,
politica e spirituale, contro tutti i feticismi che con la loro esistenza determinano la degradazione
della persona umana, il socialismo di stampo staliniano ha mostrato disprezzo per la persona umana
e si è identificato nell’affermazione dell’onnipotenza dello Stato e della burocrazia.
Una riflessione approfondita su tutti questi aspetti non è stata compiuta e si è invece lasciato che a
esprimere biasimo e a condannare i soprusi e le violenze fossero i “nemici”, coloro cioè che non
sono affatto interessati a indagare i processi storici per trarne lezione, ma il cui intento è
esclusivamente quello di dimostrare che il comunismo è stato un’impresa criminale; coloro i quali
non fanno alcuna distinzione tra teoria marxiana, leninismo e stalinismo e che risolvono il problema
attribuendo a Stalin una patologia mentale, una natura di paranoico e di carnefice.
Le responsabilità della mancata riflessione sullo stalinismo sono dunque da imputare non solamente
alla nomenklatura sovietica, ma anche alle dirigenze dei partiti comunisti e agli intellettuali di
sinistra dell’Occidente. Non si possono, per esempio, giustificare le ostentazioni e le giravolte di un
Paul Sartre il quale nel ’56-’57, in “Fantasma di Stalin”, ha sostenuto che il socialismo realizzato in
Urss era l’unico possibile; e dopo aver visitato il Paese dei soviet, negli anni ’60-’70, ha dichiarato
che in esso regnava il più alto grado di civiltà e di libertà mai raggiunto da una società moderna.
Mentre poi, qualche anno dopo, ha cambiato idea e ha condannato in maniera perentoria l’Unione
Sovietica definendola orrida “cosa del potere”, “macchina infernale da demolire e fracassare”. E’
il suo un atteggiamento di dubbia moralità politica e che mette in discussione l’uso speculativo che
viene fatto della conoscenza e del sapere.
Non meno giustificabili sono le ambiguità dei dirigenti dei partiti comunisti dell’Europa
occidentale, compresi quelli italiani, i quali hanno avuto parte nella direzione della 3a
Internazionale e hanno conosciuto le vicende sovietiche da vicino. Togliatti, ad esempio, quando
Chruscev ha condannato lo stalinismo, ha manifestato riserve e perplessità. A “Nuovi argomenti”
ha rilasciato un’intervista nella quale ha puntualizzato: “Vi sono stati lunghi periodi di tempo in cui
213
la classe operaia, che aveva preso il potere con la rivoluzione, e il partito che la dirigeva, si
trovarono di fronte a situazioni così gravi... che l’unità della direzione politica e dell’azione dovette
essere mantenuta e fu mantenuta con mezzi eccezionali. Il grave errore commesso da Stalin fu di
avere illecitamente esteso questo sistema (peggiorandolo, anzi, perché il rispetto della legalità
rivoluzionaria era sempre stato richiesto nei primi tempi da Lenin) alle situazioni successive,
quando non era più necessario e diventava quindi solo la base di un potere personale”.
Come vedremo più avanti, il segretario del Pci non condivideva affatto la versione secondo cui tutte
le malefatte denunciate da Chruscev sarebbero da attribuire esclusivamente a Stalin, ma nell’analisi
dello stalinismo, almeno in quella circostanza, non andò oltre. E così è accaduto che anche il più
grande e il più autonomo dei partiti comunisti dell’Occidente non si è dimostrato disponibile o non
se l’è sentita di togliersi di dosso quell’ipoteca. Anche dopo la morte di Togliatti, e per tutto un
periodo di tempo, le sue capacità critiche nei confronti dell’Urss sono apparse limitate, al punto che
ancora nel maggio del ’67, sul bollettino “Propaganda” predisposto dalla direzione per i quadri del
partito, si poteva leggere: “Non vi è dubbio che il sistema socialista ha creato le condizioni per una
società ad un livello di civiltà e di moralità umana nettamente superiore a quelle capitalistiche”.
Erano gli anni in cui il leader dell’ala destra del partito, Giorgio Amendola, ammetteva
platealmente: “La critica allo stalinismo non può non essere, per noi che siamo stati staliniani
convinti, prima di tutto una autocritica, ricordandoci di quelle che sono state la ‘nostre
corresponsabilità’”. “E’ da respingere il tentativo di giustificare non solo gli errori compiuti nel
periodo 1930-40, ma persino i tradimenti e i cedimenti, addossandone tutta la responsabilità a
Stalin. Siamo stati tutti staliniani, ma non lo siamo stati tutti allo stesso modo”. “La direzione
staliniana era pienamente accettata, non soltanto per una forzata disciplina interna all’I.C.,
imposta ai partiti comunisti col metodo di una ‘bolscevizzazione’ coatta, ma perché quella
direzione era largamente compresa dalle grandi masse popolari italiane che guardavano alla
Russia di Stalin, come ad un faro che illuminava la buia notte fascista…e il Pci vedeva crescere la
sua influenza anche perché rappresentava in Italia l’Internazionale comunista... E quella durezza
che chiamavamo giacobina, era da noi esaltata come espressione di forza rivoluzionaria, e
orgogliosamente comparata alle capitolazioni socialdemocratiche di fronte al fascismo. Il terrore
appariva come indispensabile strumento rivoluzionario”. “Tra i due momenti - unità antifascista e
repressione (staliniana) - non appariva a molti di noi alcun contrasto, perché la repressione si
presentava come terrore giacobino, condizione per una energica azione antifascista, di fronte al
complotto fascista, alla catena delle provocazioni e dei tradimenti, e alla capitolazione delle
democrazie... per cui i processi di Mosca non solo non ostacolavano lo sviluppo dell’unità
antifascista, ma parevano determinare nelle grandi masse popolari una crescente fiducia nel vigore
combattivo di Stalin”.
A metà degli anni ’70, lo storico del partito, Paolo Spriano, su “l’Unità” esprimeva il seguente
giudizio: “Lo stalinismo è una degenerazione, una deformazione, che di per sé non è né di destra né
di sinistra… Accettammo come valida la tesi che gli errori e le violazioni della legalità socialista,
denunciati dal XX e dal XXII congresso del Pcus, avevano trovato una loro giustificazione
ideologica, un avallo insidioso, nella tesi, falsa, secondo la quale, via via che si procede
vittoriosamente nella costruzione del socialismo, si inasprisce la lotta di classe e si acuisce la
controffensiva, in particolare sul terreno terroristico, cospirativo, e di sabotaggio economico, della
borghesia sconfitta”.
Una riflessione autocritica questa che però non ha fatto fare al Pci, nel suo complesso, quel salto di
qualità nel ripensamento storico necessario per aprire nuovi orizzonti nella strategia del
cambiamento. Alla famosa doppiezza togliattiana, cioè a quella linea politica che ha consentito ai
comunisti italiani di battersi per la democrazia e contemporaneamente di giustificare Stalin e i suoi
successori, ha fatto seguito un processo di deideologizzazione che ha portato il partito a scadere nel
pragmatismo istituzionale. L’assenza di una riflessione approfondita sulle esperienze compiute e la
semplificazione della stessa teoria marxiana della rivoluzione non potevano che portare a un tale
esito. Già all’indomani del XX congresso del Pcus occorreva impedire che il dogmatismo
214
continuasse a prevalere sulle potenzialità critiche e creative del marxismo, ma questa avvertenza
non c’è stata. Non ci si è emancipati dallo stalinismo proprio perché non si è avuto il coraggio di
mettere in discussione la concezione del socialismo che è stata alla base degli sconvolgimenti russi.
Non è stata avvertita la necessità di riflettere criticamente sulla scelta del socialismo in un paese
solo la quale, al tempo della sua adozione, non è stata affatto oggetto di una elaborazione collegiale
e che ancora oggi rappresenta l’errore non criticato della storia del movimento comunista.
E anche quando l’esperienza del socialismo realizzato si è dimostrata fallimentare, piuttosto che
all’autocritica e all’innovazione teorica e politica, si è preferito ricusare la propria stessa matrice
storica.
Un aspetto eloquente della rinuncia a un’analisi in profondità dell’esperienza consumata dai
sovietici è costituito dall’interpretazione che si è data, e che è ancora diffusa, secondo cui la base
economica dell’Urss sarebbe da considerarsi socialista, mentre tale non sarebbe stata la sua
sovrastruttura politica. Una simile spiegazione rappresenta un vero e proprio abbaglio, poiché
dimostra l’incapacità di comprendere le vere cause del fallimento di quel sistema. Sta di fatto che
una riflessione critica approfondita sulle esperienze storiche del socialismo realizzato resta ancora
oggi da svolgere.
Lo stalinismo, a me pare, è il prodotto di una catena molto complessa di processi storici. Sostenere
come hanno fatto alcuni storiografi che esso “è alimentato di aspetti decisivi dell’azione e del
pensiero politico bolscevico del tempo di Lenin organizzati in un insieme ideologico-politico” e che
i suoi tratti distintivi sarebbero una “mentalità burocratica e gerarchica” sommata a “elitarismo e
antiegualitarismo, efficientismo e statalismo”, significa prendere in considerazione un solo aspetto
del problema e perciò rischiare di farne una caricatura. Se non si può negare che esso sia
storicamente derivato dal pensiero e dall’azione di Lenin, non si può certo identificarlo tout court
con la sua elaborazione teorica e con la sua pratica politica. Stalin ha compiuto scelte che Lenin non
si sarebbe mai sognato di fare, per esempio, la collettivizzazione forzata delle campagne, la
militarizzazione dell’economia, la statalizzazione totale, la burocratizzazione dello Stato, la
demonizzazione del dissenso nel partito, l’irreggimentazione del popolo. Mai Lenin ha lasciato
intendere di considerare il comunismo una religione politica e il partito una chiesa. Anzi, contro
simili dogmatizzazioni egli si è battuto con tutte le sue forze fino all’ultimo.
C’è stato poi anche chi si è acquietato la coscienza paragonando lo stalinismo al bonapartismo,
considerandolo cioè una inevitabile dittatura post-rivoluzionaria.
In pochi, in sostanza, hanno indagato e riflettuto sulle cause che lo hanno determinato e anche
quando questo è stato fatto non sempre l’analisi si è dimostrata all’altezza delle aspettative.
La modesta conoscenza che ho avuto la possibilità di acquisire in materia, mi porta a ritenere che
dello stalinismo si sono amplificati alcuni aspetti e se ne sono trascurati altri. Quello relativo al
culto della personalità è stato enfatizzato a dismisura, mentre si è prestata scarsa attenzione alle
forme liturgiche più sofisticate che sono sopravissute nella prassi del movimento comunista dopo la
morte di Stalin.
E’ bene precisare che il culto della personalità non è affatto l’essenza, per di più esclusiva, dello
stalinismo. Si rifletta su come sono andate le cose in Italia e in Germania negli anni ’20 e ’30 e
come ogni autoritarismo abbia comportato l’adulazione del “capo”.
In prima istanza, questa forma di culto è da interpretare come il prodotto di una fede riposta
nell’azione dello Stato e nella sua assolutizzazione. Diversamente non si comprenderebbe il perché
con la morte di Stalin esso non sia svanito, ma sia sopravvissuto confermandosi come tratto
fondamentale del sistema sovietico. Ha detto bene Roy Medvedev: “Le strutture della società
sovietica, l’esistenza di un partito unico e di una comune linea politica, la mancanza di fazioni,
spingono inevitabilmente al rafforzamento di un solo leader”. Stalin, infatti, ha rappresentato per la
stragrande maggioranza del popolo russo di quell’epoca una volontà pubblica giacobina, e
nell’immaginario collettivo ha assunto la funzione di un superpadre saggio e inflessibile di cui il
Paese aveva bisogno.
Alla base di quel culto della personalità ci stavano i gravi problemi del sistema socialista e le sue
215
prospettive, aspetti che destavano diffusa inquietudine e reclamavano una risposta risoluta: la
necessità di difendersi dalle minacce del “mondo libero”, la costruzione del socialismo in un paese
isolato e accerchiato, la guerra.
Non si deve mai dimenticare che per sopravvivere, il primo Stato socialista del mondo si è dovuto
reggere per forza su un regime autoritario, diversamente non ce l’avrebbe fatta. Lo stesso contrasto
permanente tra agricoltura e industria e le forzature compiute per garantire un loro sviluppo hanno
prodotto tensioni sociali tali da non poter essere governate altrimenti se non con la forza. La
coercizione dello stalinismo è dunque da ricercarsi non tanto e solo nell’assenza di scrupoli da parte
del dittatore, ma prima ancora nella materialità dei processi.
Nelle condizioni della Russia di quegli anni la stessa divinizzazione del “capo” è apparsa una
necessità. Messo fuori gioco lo zar e in assenza di un rapido percorso di acculturazione e di
socializzazione (del resto impraticabili, data l’estesa diffusione dell’analfabetismo e l’arretratezza
dell’economia), la burocrazia ha avuto bisogno di un arbitro supremo, di un “primo console” per
garantire stabilità al nuovo sistema.
Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, la popolazione non era neppure sfiorata dall’idea
che si potesse influire sull’indirizzo della società, poiché il destino collettivo riposava
esclusivamente sulla saggezza di Stalin, cioè di colui che continuava a essere considerato il
“padre”, il “sole”, la “guida infallibile”. Egli è stato, di fatto, il rappresentante e il simbolo di una
comunità che non ha mai posseduto, salvo che in una sua ristretta fascia, la capacità di riflessione
critica. Egli si è così rivelato il prodotto di un convincimento di massa.
Nella stragrande maggioranza gli storici hanno insistito, giustamente, sui danni materiali che la sua
tirannia ha causato e solo in pochi hanno ragionato sui danni culturali e morali. Stalin ha di fatto
fermato i cervelli, ha eliminato le teste migliori e ha promosso la mediocrità. Nel ’93, K.S.Karol,
giornalista polacco, esule dalla guerra combattuta in Unione Sovietica, ha scritto: “Non ho mai
incontrato (in Urss) dei comunisti nella nostra accezione del termine, cioè uomini e donne
politicizzati e nutriti dalla complessa tradizione del movimento operaio internazionale”. E lo
scrittore dissidente russo Viktor Erofeev, in tempi antecedenti l’avvento di Gorbacev, ha sostenuto
che “ancora oggi, dentro ogni capo della Russia c’è un piccolo Stalin… l’anima russa per sua
natura è stalinista”.
Sono testimonianze e considerazioni queste che la dicono lunga sul clima sociale entro cui lo
stalinismo si è affermato e ha dominato e ci aiutano a capire anche come sia stato possibile che la
massima autorità politica sia diventata la massima autorità filosofica e scientifica.
Stalin, d’altra parte, è anche l’autore di quel sistema che ha dato prova di essere in grado di dare
scacco al capitalismo e all’imperialismo sul terreno dell’agire concreto. Anche per questo, agli
occhi di molti, egli ha impersonato non solo la speranza ma la “nuova storia”. Forse non aveva torto
Togliatti il quale, riferendosi all’influenza di Stalin sul mondo comunista, preferiva fare uso del
concetto di “mito” piuttosto che di quello di “culto”.
Il punto è che i comunisti sia dell’Est che dell’Ovest non si sono granché preoccupati di chiarire
come mai il progetto marxiano di protagonismo sociale abbia potuto essere soppiantato da un nuovo
Cesare e non si sono conseguentemente curati di prendere lezione da quell’esperienza storica per
correggere strategia e tattica del movimento.
La loro si è dimostrata una passività culturale, prima ancora che politica. Non hanno, infatti, saputo,
o non hanno voluto, aprire gli occhi e reagire con la dovuta energia al fatto che quel sistema ha
significato non solo terrore, ma anche mortificazione e distruzione dei quadri dirigenti e delle
risorse umane. In quel tipo di società non c’era posto per uomini che lottavano contro l’alienazione
e lo sfruttamento, contro le gerarchie e i soprusi del regime. Il suo tratto dominante era la
deformazione dei rapporti sociali, della persona, della cultura in generale e della stessa teoria
marxiana in particolare. La sua componente ideologica era fondata sul potere di sottoporre a
revisione sia la storia che la teoria e l’identificazione automatica dei capi di partito con i teorici era
la regola. Gli individui venivano educati alla menzogna e alla delazione e la verità era patrimonio
esclusivo del partito.
216
Mi chiedo come, di fronte a simili aberrazioni, uomini che hanno fatto propria la teoria marxiana
abbiano potuto stare zitti e fare finta che nulla di grave fosse accaduto. Come sia stato possibile che
non si siano resi conto che la dittatura poliziesca imposta da Stalin, anziché risolvere i problemi,
superare le contraddizioni e pacificare i conflitti, com’era nei propositi, li avrebbe aggravati e spinto
la società sovietica verso una prospettiva fallimentare.
Come sia possibile giustificare il loro silenzio di fronte alla persecuzione di molti comunisti ebrei
che facevano parte di quasi tutti i partiti della 3a Internazionale.
Le atrocità di quel regime e l’atteggiamento di omertà che in molti hanno avuto verso l’operato di
Stalin, conferma la tesi dello storico sovietico Danil Granin secondo cui “fra certi aspetti del regime
staliniano e il suo nemico più acerrimo, la Germania hitleriana, esiste una serie di somiglianze
raccapriccianti”.
Quando in seno al movimento comunista lo stalinismo si è esaurito per cause “naturali”, in esso si è
aperto un vuoto che ha provocato una grave crisi d’identità. Questo è potuto succedere a causa
dell’incapacità delle generazioni di comunisti di quel tempo di analizzare e interpretare i processi
storici, di spingere in avanti l’elaborazione teorica e strategica e di individuare un percorso
alternativo nella costruzione del socialismo. Si è trattato di insufficienze e di errori che non devono
essere assolutamente ripetuti.
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Capitolo 7°
Gramsci e la rivoluzione in Occidente
7.1 – Una vita di stenti e sofferenze
Antonio Gramsci nasce in Sardegna nel 1891. Il padre è un dipendente pubblico, mentre la madre
provvede ad accudire i sette figli. A quattro anni il destino gli si accanisce contro: una
malformazione ossea gli pregiudica una normale crescita corporea e gli rende cagionevole la salute.
A lui viene fatto credere di essere caduto dalle braccia della domestica e di essere precipitato lungo
una rampa di scale, in realtà egli è affetto del morbo di Pott, cioè di una forma di rachitismo
endemica ed ereditaria, probabilmente non adeguatamente curata.
A causa delle difficili condizioni economiche della famiglia (da ragazzo egli patisce anche la fame),
è costretto a lavorare per due anni presso l’ufficio del catasto, contribuendo in questo modo a
incrementare il bilancio familiare, e a studiare privatamente. “Ho incominciato a lavorare quando
avevo undici anni – ricorderà in età adulta – guadagnando ben nove lire al mese (sufficienti per
acquistare un chilo di pane) per dieci ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e
me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo perché mi doleva
tutto il corpo”.
Già in giovane età, nel 1906, si schiera con i sardisti. Scriverà anni dopo a riguardo di questa sua
scelta: ”Io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione. ‘A
mare i continentali!’. Quante volte ho ripetuto queste parole”. Del resto, “il popolano dell’Alta
Italia pensava che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che
allo sviluppo moderno poneva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non
erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella
popolazione meridionale... L’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità
biologica. Queste opinioni già diffuse furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del
positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di verità scientifica”.
A quel tempo si arriva infatti al punto di identificare tra Orgosolo, Orune e Bitti una “zona
delinquente”, popolata da uomini – si dice – che hanno quasi succhiato col latte materno il bacillo
della criminalità. E, purtroppo, tesi tanto aberranti vengono fatte proprie anche da scrittori socialisti
ed è proprio da simili pregiudizi che trae alimento la rivendicazione sardista.
Le ragioni di questo moto di protesta sono, del resto, diverse e per certi aspetti contraddittorie,
avendo nulla in comune la disperazione del contadino affamato con i risentimenti e le pretese dei
ceti conservatori dell’isola. In pochi, però, avvertono queste differenze e nessuno ne trae le dovute
conseguenze. Si preferisce, anzi, sparare a zero sui governi, e in un clima di giacobinismo isolano
succede che il risentimento occasionale dei retrivi e l’impeto di ribellione degli oppressi finiscono
per confondersi. Sono le elezioni del 1913 a rivelare a Gramsci il carattere ambiguo della protesta
sardista.
Nel 1908 egli consegue la licenza ginnasiale a Oristano, dopo di che si iscrive al Liceo di Cagliari.
Racconta di lui un compagno di scuola: “Non aveva libri o non li aveva tutti… A volte capitava che
glieli prestassimo noi, o il professore”. Nel corso del suo soggiorno nel capoluogo sardo ai suoi
genitori scrive: “Non vado a scuola perché non ho un vestito pulito da potermi mettere”. Più avanti
negli anni ricorderà: “Per otto mesi mangiai una sola volta al giorno e giunsi alla fine del terzo
anno di liceo in condizioni di denutrizione molto gravi”.
A Marx si avvicina “per curiosità intellettuale” verso la fine del primo decennio del ‘900.
Sono gli anni in cui da Torino si fa spedire gli opuscoli della stampa socialista la cui visione fa
inorridire i suoi genitori, i quali giudicano queste pubblicazioni “letture sovversive”.
Dopo la licenza liceale si trasferisce a Torino dove si iscrive alla facoltà di lettere. Ed è proprio nel
capoluogo piemontese che, nel 1911, sposa gli ideali socialisti. Nel ’24 spiega a Giulia, sua futura
moglie, come è diventato socialista, nel modo seguente: “Ho conosciuto la classe operaia di una
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città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima
per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia”.
Nel capoluogo piemontese incontra Togliatti che di lui dirà: “Gramsci era venuto dalla Sardegna
già socialista. Forse lo era più per istinto di ribellione del sardo e per l’umanitarismo del giovane
intellettuale di provincia, che per il possesso di un sistema completo di pensiero… Io presi la
tessera il ’14, Gramsci l’aveva già da prima”.
E’ nel 1913 che Antonio si espone la prima volta pubblicamente, quando aderisce a una battaglia
antiprotezionista sottoscrivendone le tesi.
A causa del freddo e della denutrizione, a Torino si ammala gravemente. Al padre confessa, per
lettera, di prendere l’oppio per lenire il dolore fisico e alla sorella Grazietta confida: “Non ho
passato giorno senza il male di capo, senza una vertigine o un capogiro”.
Nell’aprile del ’15, dà l’ultimo esame (letteratura italiana) e il suo “garzonato universitario” si
conclude senza conseguire la laurea. Dopo alcuni mesi ha inizio la sua esperienza di “rivoluzionario
professionale”.
Nelle file del Psi subisce il fascino della predizione volontaristica di Benito Mussolini, non solo
quando questi è direttore dell’“Avanti!”, ma anche quando si proclama interventista rivoluzionario.
Questa sua presa di posizione verrà evocata polemicamente dai suoi stessi compagni negli anni
successivi.
Alla fine del ’15, viene assunto nella redazione torinese dello stesso quotidiano. Sono i tempi in cui
il Partito socialista è profondamente diviso e nelle sue file convivono non solo l’anima riformista e
quella massimalista, ma anche uno spirito corporativo e localista.
Gramsci non aderisce a nessuna di queste fazioni, poiché ai suoi occhi la classe operaia si dimostra
non favorevole alle scissioni e gli appare chiaro che tali divisioni finiscono per indebolire la forza
del movimento stesso. La sua posizione nei confronti delle dirigenze del Psi è da subito critica e si
manterrà tale fino alla scissione di Livorno.
Nel ’18 su “Il grido del popolo” scrive: “Per la solita concezione dell’‘uovo di pidocchio’ furono
trascurati i grandi problemi nazionali che interessano tutto il proletariato italiano”. E dopo il
primo confronto politico col leader della sinistra socialista italiana, Giacinto Menotti Serrati, a un
convegno a Firenze, afferma: “siamo rivoluzionari nell’azione mentre siamo riformisti nel pensiero
(...) siamo dei temperamenti più che dei caratteri”. A suo avviso è “l’amore grammaticale per la
rivoluzione” che impedisce alla teoria socialista di cogliere i segni dei tempi.
Egli ripudia in maniera decisa il marxismo evoluzionistico e fatalistico della 2a Internazionale e
critica il determinismo economico che è largamente diffuso nel Psi. Considera insopportabili i
“filistei del socialismo” perché “blateratori” di virtù sotto il segno della pigrizia mentale, perché
vedono “il futuro come solidità già sagomata” e credono “ai piani prestabiliti”. Individua
nell’economicismo, nel socialismo positivistico, nel meccanicismo e nel materialismo cosiddetto
volgare, le fonti del duplice opportunismo: quello riformista e quello massimalista. A suo giudizio,
il marxismo della 2a Internazionale trasforma “la volontà reale in un atto di fede, in una certa
razionalità della storia: ‘Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me
a lungo andare’”. Suo chiodo fisso è quello di combattere il materialismo codificato e dispensato
dalla “chiesa ufficiale” e dal “papa rosso” Kautsky, il quale purtroppo condiziona tutto il marxismo
europeo. E considera il bernsteinismo tutto movimento e niente fini. “L’elemento deterministico,
fatalistico, meccanicistico – scriverà nei Quaderni del carcere – (è) stato un’arma ideologica
immediata della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante... resa necessaria e
giustificata storicamente dal carattere subalterno di determinati strati sociali”.
Nel marxismo della 2a Internazionale egli vede la radice di quello stesso errore di pensiero che ha
portato i due gruppi antagonisti del socialismo italiano, i sindacalisti e i riformisti, a separare la
politica dall’economia, l’ambiente dall’organismo sociale. E chiarisce: “Gli uni si cristallizzano
nell’organizzazione professionale e per la stortura iniziale del loro pensiero fanno della cattiva
politica e della pessima economia; gli altri si cristallizzano nell’esteriorità parlamentare,
legiferatrice, e per la stessa ragione fanno della cattiva politica e della pessima economia”.
219
Si mostra preoccupato del fatto che il movimento operaio appare ancora lontano dalla lotta per il
potere, avendo i filistei del socialismo ridotto la dottrina socialista a uno “strofinaccio del pensiero”
e ritiene che per tale ragione è costretto a mantenere la propria coesione alimentandosi di una fede
fatalistica che rimanda la vittoria a un lontano domani. Nel criticare la 2a Internazionale, intuisce
con grande lucidità che il problema non è tanto e non solo quello di restaurare il marxismo come
filosofia, quanto invece di fondare col marxismo “una filosofia che è anche una politica e una
politica che è anche una filosofia”.
All’indomani dell’assalto dei bolscevichi al Palazzo d’Inverno, tra i proletari di Torino si diffonde il
proposito di “fare come in Russia”.
A parere di Gramsci, Lenin ha bruciato tutte le tappe di un’azione rivoluzionaria mostrando i limiti
dello stesso pensiero di Marx. Nel gennaio 1918, sul “Grido del Popolo” scrive un articolo dal titolo
“La rivoluzione contro il Capitale di Karl Marx” nel quale afferma: “La rivoluzione dei bolscevichi
è materia di ideologie più che di fatti… Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx: Il
Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari…I fatti hanno superato
le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia
avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo
Marx, affermano, con la testimonianza della azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i
canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato.
Eppure c’è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune
affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono
‘marxisti’, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di
affermazioni dogmatiche indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è
la continuazione del pensiero idealistico, del pensiero italiano e tedesco, e che in Marx si era
contaminato da incrostazioni positivistiche e naturalistiche”.
E successivamente puntualizza: “Incomincia la storia, la storia vera. Ognuno vuol essere padrone
del proprio destino, si vuole che la società sia plasmata in ubbidienza allo spirito, e non viceversa.
L’organizzazione della convivenza civile deve essere espressione di umanità, deve rispettare tutte le
autonomie, tutte le libertà. Incomincia la nuova storia della società umana, incominciano le
esperienze nuove della storia dello spirito umano”.
Sono considerazioni le sue che, da un lato, testimoniano l’esistenza in lui, a quell’epoca, di una
visione utopistica, ingenua dell’ottobre rosso; dall’altro, evidenziano la sua carica critica nei
confronti dell’interpretazione deterministico-meccanica, evolutiva del marxismo da parte della 2a
Internazionale. Egli tende cioè ad esaltare la funzione del soggetto rivoluzionario, “la tenace
volontà dell’uomo” che interviene sul processo storico e il fattore soggettivo viene da lui concepito
come fondamento della prassi.
I vecchi leader della ormai disfatta 2a Internazionale avevano infatti assunto il marxismo attraverso
una visione positivista che negava, di fatto, ogni azione volontaria degli uomini per modificare il
lento scorrere del tempo, e secondo questa loro concezione la rivoluzione socialista non avrebbe
potuto compiersi se non in quelle società dove il capitalismo aveva raggiunto il suo massimo stadio
di sviluppo. Questo suo intervento, in sostanza, è da considerarsi un atto di elogio della volontà
umana contro l’inerzia del determinismo riformistico. Per altro, evidenzia sia una relativa
conoscenza da parte sua dei testi di Marx, sia l’influenza che la vulgata del marxismo di quel tempo
ha su di lui stesso, anche se il suo rifiuto del determinismo economicistico, come abbiamo visto, è
netto.
Nella rivoluzione d’ottobre egli ripone molte speranze e rimprovera coloro i quali ne sottovalutano
le potenzialità sottolineando che “molti non riescono a calcolare quale mutamento storico sia
avvenuto in Europa nel ‘17 e quale libertà abbiano conquistato i popoli occidentali”.
A differenza dei più, però, egli affida il primato del sovvertimento del potere non già al partito, ma
al movimento di massa, sostenendo che “l’essenziale fatto della rivoluzione russa è l’instaurazione
di un nuovo tipo di Stato: lo Stato dei consigli”.
220
E se con l’articolo “La rivoluzione contro il ‘Capitale’” ha valorizzato al massimo la specificità
giacobina di quell’evento, successivamente percepisce, come nessun altro, lo scacco della
rivoluzione russa nel suo rinchiudersi nei confini di Oriente, cioè nella sua inespansività, nella sua
parzialità storico-politica e il suo sforzo è e sarà appunto quello di costruire in solitudine un oggetto
nuovo di riflessione che lo opporrà a tutto il pensiero del comunismo storicamente determinato.
Presagirà assai presto che la rivoluzione d’ottobre è destinata a produrre “il collettivismo della
miseria, della sofferenza”.
Come vedremo più avanti, egli sarà uno dei principali protagonisti del “biennio rosso” e sposerà
fino in fondo la causa dei consigli di fabbrica, proprio nello spirito di esaltare il ruolo dei soviet.
Contro la vecchia generazione dei socialisti italiani, egli difende la lotta dei giovani rivoluzionari e
seppure non condivida il disegno scissionistico dell’ala comunista (prova ne è la sua avversione alle
posizioni espresse dal consiglio di fabbrica della Fiat-Centro, dominato dai bordighiani), aderisce a
questa corrente insieme a Bordiga, Togliatti, Terracini e Tasca, e partecipa ai vari incontri che
precedono la costituzione del partito comunista.
Gramsci è pienamente consapevole che la nuova formazione sorge da una sconfitta della classe
operaia in un contesto di crisi di tutte le formazioni politiche dello Stato liberale. Non a caso
scriverà: “La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano
dall’Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione”. “Fummo
– bisogna dirlo – travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione
generale della società italiana”.
Di fronte all’insorgenza del fascismo egli non ha alcuna esitazione a ingaggiare lo scontro con esso
e appoggia la formazione degli “Arditi del popolo” nonostante che il neonato partito la sconfessi. E’
uno dei pochi che non si illude del carattere transitorio del regime mussoliniano e che si sforza di
analizzare le cause del suo successo e la sua natura politico-sociale.
Paradossalmente, all’inizio degli anni ’20, uno dei suoi fratelli, Mario, diventa primo segretario
federale fascista di Varese.
All’indomani della crisi Matteotti, nel ’24, egli sostiene che il fascismo è giunto al potere sfruttando
e organizzando “l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la
classe operaia” e che “il fatto caratteristico consiste nell’essere riuscito a costruire
un’organizzazione di massa della piccola borghesia. E’ la prima volta nella storia che ciò si
verifica. L’originalità del fascismo consiste nell’aver trovato la forma adeguata di organizzazione
per una classe sociale che è sempre stata incapace di avere una compagine e una ideologia
unitaria”. Lo considera un intreccio di “sovversivismo dall’alto” e di “sovversivismo dal basso”. Il
primo è il “sovversivismo mussoliniano”, del “capo della reazione italiana”, un misto “di illogico,
di goffo, di grottesco”; il secondo è il sovversivismo delle fasce più degradate del sottoproletariato
urbano che, in tempi di crisi, confluisce nella “malavita professionale e fluttuante”, quello degli
strati dei “morti di fame”, il fascismo popolaresco “rivoluzionario”.
Il colpo di Stato fascista, a suo giudizio, ha sovvertito e rovesciato quel tanto di ordine legale, quel
tanto di “dominio delle leggi” (presente nei Paesi occidentali come Francia e Gran Bretagna) che in
Italia si è venuto costituendo, sia pure con difficoltà, dopo la formazione dello Stato unitario.
A un certo punto però, nonostante questo suo rigore d’analisi, constatando che il regime non ha
mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna
miseria, s’illude incautamente di una sua prossima sconfitta: “Le classi medie che avevano riposto
nel regime fascista tutte le loro speranze sono state travolte dalla crisi generale”, perciò il fascismo
– sostiene – è condannato alla fine. “E’ sorretto ancora dalle forze cosiddette fiancheggiatrici… ma
non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo… Mussolini non possiede dello statista
e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori… è un fenomeno di folklore paesano”.
Mentre fino al ’26 considera il fascismo un fenomeno transitorio, quando è in carcere, coglie i suoi
aspetti di solidità e comprende che non si tratta di un fatto congiunturale, né di una semplice
controrivoluzione armata. E scrive: “Questa tendenza (il fascismo, appunto) è la espressione del
bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo
221
nazionale gli elementi per la soluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una
guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà
l’Italia fascista sarà uno strumento nella mani di uno dei gruppi imperiali che si contendono il
dominio del mondo”.
Consapevole della complessità del fenomeno e delle difficoltà di farvi fronte, si distingue ancora
una volta dai suoi compagni considerando errata l’idea secondo cui si sarebbe in presenza di una
situazione rivoluzionaria e perciò propone come alternativa immediata la soluzione democraticoborghese, cioè la costituzione di un fronte unitario delle forze antifasciste.
Nel ’21, la sua figura come dirigente politico è già affermata, eppure dagli ambienti
dell’Internazionale viene considerato non ancora in grado di stare alla testa del partito. Indicativo a
questo riguardo è il giudizio che su di lui esprime Degott: “Gramsci, molto più profondo degli altri
compagni, analizza giustamente la situazione. Comprende con acutezza la rivoluzione russa. Ma,
esteriormente, non può influire sulle masse. Per prima cosa, non è un oratore; in seconda linea è
giovane, di piccola statura e gobbo, il che ha un significato per gli uditori”.
Nonostante questi pregiudizi, nel ’22 viene designato a rappresentare il Pcd’I nell’Esecutivo
dell’Internazionale e inviato a Mosca dove vi rimane sino alla fine del ’23. Qui però si ammala e
viene ricoverato per qualche tempo nel sanatorio di Serebriani Bor, dove è degente Eugenia
Schucht, sorella di Giulia, che qualche tempo dopo diventerà sua moglie. Questo avvenimento lo
riempirà di immensa felicità. Si pensi che un anno prima aveva confidato: “Sono da molti anni
abituato a pensare che esiste una impossibilità assoluta, quasi fatale, a che io possa essere amato”.
Nel dicembre del ’23, dopo essersi ristabilito, viene spostato a Vienna con il compito di seguire da
vicino la difficile situazione del partito in Italia e di mantenere i collegamenti con gli altri partiti
europei.
Da Vienna, nel ’24, scrive: “Lo spettacolo quotidiano che ho avuto in Russia di un popolo che crea
una nuova vita, nuovi costumi, nuovi rapporti, nuovi modi di pensare e di porsi nuovi problemi, mi
fa oggi essere più ottimista sul nostro paese e sul suo avvenire”.
Nel maggio dello stesso anno abbandona la capitale austriaca e rientra in Italia dopo essere stato
eletto deputato in un collegio del Veneto.
Durante il suo soggiorno in Urss, a contatto con l’esperienza bolscevica, si è convinto della
necessità di rompere con la direzione bordighiana del partito caratterizzata da un massimalismo
intransigente.
Amadeo Bordiga, segretario del Pcd’I, è uomo non disponibile ai compromessi e si muove in
maniera autonoma rispetto alle direttive dell’Internazionale; egli si è schierato contro la
bolscevizzazione, avversa in maniera intransigente il Psi e persegue l’obiettivo di un partito “puro”.
Al potere delle strutture decentrate egli antepone il potere centrale.
Dice di lui Gramsci: “E’ una personalità troppo vigorosa ed ha una così profonda persuasione di
essere nel vero, che pensare di irretirlo con un compromesso è assurdo”. Mentre, anni dopo,
Togliatti così lo descrive: “Egli non partiva… dalla classe operaia, di cui il Partito comunista è una
parte, dall’esame delle situazioni reali in cui essa si trova e si muove e dalla determinazione,
quindi degli obiettivi concreti che ad ogni situazione corrispondono. Partiva da principi astratti,
derivati con un processo intellettualistico, e che dovevano essere buoni per tutti i tempi e tutte le
situazioni. Posto il fine ultimo della conquista del potere, scompariva la varietà delle posizioni
intermedie e del loro nesso dialettico, era negato il valore del movimento politico democratico e
dell’avanzata sul terreno della democrazia, le contrapposizioni di classe si traducevano in
contrapposizioni politiche rigide e schematiche, gli avversari diventavano tutti uguali, né era più
possibile alcuna conquista di alleati, la forma e la parola prevalevano sulla sostanza, la coerenza
diventava testardaggine, l’azione del Partito non poteva avere più alcun respiro, riducendosi a
pura esercitazione propagandistica e polemica”.
A Bordiga, infatti, viene rimproverata un’interpretazione meccanicistica del materialismo marxista
secondo cui la crisi finale del capitalismo sarebbe inevitabile, e il partito dovrebbe prepararsi ad
attendere e guidare la rivoluzione. A suo giudizio, sino a quel momento il partito sarebbe chiamato
222
a vigilare mantenendo la propria purezza rivoluzionaria, senza inquinarla in alleanze e
compromessi. La sua spinta alla chiusura settaria, piuttosto che alle vaste azioni politiche e di massa
necessarie per arrestare e sconfiggere il fascismo, era peraltro condivisa dalla maggioranza dei
dirigenti, non esclusi gli stessi Togliatti e Terracini. Negli anni del dopoguerra, infatti, Togliatti
ammetterà di aver avallato le posizioni dell’allora leader del partito che in ogni modo ha avuto il
merito di essere il primo comunista italiano a capire il pericolo dell’involuzione del regime
sovietico, il primo a denunciare apertamente l’ingerenza del partito russo nelle vicende degli altri
partiti comunisti, il primo a dichiarare che il problema della Russia consisteva nel suo assetto
economico.
Era poi convinzione di Bordiga che il diritto concesso dalla classe proprietaria agli sfruttati di
deporre ogni tanto una scheda nell’urna, non solo non avrebbe favorito l’avanzata dei lavoratori, ma
ne avrebbe smorzato lo slancio rivoluzionario.
Quando di fronte allo scatenarsi della reazione in Italia e in Europa, Lenin avverte la necessità di
realizzare in ogni paese il fronte unico dei partiti proletari, Gramsci si fa immediatamente
sostenitore di questa linea, mentre Bordiga la avversa con la sua consueta determinazione.
Nell’agosto del ’25, in una lettera polemica, Gramsci scrive a Bordiga: “A proposito di moralità
dobbiamo farti osservare che, se ce ne infischiamo della moralità borghese e di tutti i suoi
pregiudizi, per noi esiste una moralità comunista, un’etica di partito alla quale un comunista non
può e non deve venir meno…. Un capo è responsabile anche della interpretazione che dei suoi atti e
delle sue parole danno i suoi seguaci”.
E’ la rottura politica fra i due. Gramsci giustificherà così quell’evento: “Dovevamo cioè, come era
indispensabile e storicamente necessario, separarci non solo dal riformismo, ma anche dal
massimalismo che in realtà rappresentava e rappresenta l’opportunismo tipico italiano nel
movimento operaio”.
E’ da ricordare che tra Gramsci e Bordiga vi è comunque sempre stato un rapporto di profonda
amicizia che ha travalicato il contrasto politico. I due condividono insieme, tra il ’26 e il ’27, il
confino a Ustica vivendo nella stessa casa. A renderli amici è presumibilmente, oltre al reciproco
rispetto e all’antica amicizia, la comune avversione a Stalin, sia pure originata da motivazioni
diverse.
Sta di fatto che Bordiga viene messo in minoranza e a sostituirlo alla guida del partito è proprio
Gramsci, il quale si batte contro la sua scolastica e la sua tendenza a semplificare l’analisi sociale e
politica, e pure contro la sua idea di un partito dal carattere militare.
Il primo leader comunista viene cacciato dal Pcd’I nel 1930 con l’accusa di trotzkismo, etichetta di
comodo per tacciare di tradimento i dissenzienti. In realtà Bordiga non si è mai associato a Trotzkij.
Lottando contro le sue posizioni settarie, Gramsci conquista a sé faticosamente, ma gradatamente, la
maggioranza del Comitato centrale e del partito e nell’agosto del ’24, dopo il suo rientro da Vienna,
viene eletto segretario generale. Per i dirigenti dell’Internazionale egli è considerato l’effettivo
leader del partito già a partire dal ’23.
Assunta la responsabilità di “capo” del partito, tra l’autunno del ’25 e l’inizio del ’26, egli prepara il
3° congresso, quello che si svolge a Lione, in Francia. Le tesi congressuali da lui elaborate
costituiscono un documento storico, giacché determinano una svolta di prospettiva strategica del
Pcd’I, anche se risentono ancora della polemica dei tempi con la socialdemocrazia.
Cardini di queste tesi sono la fuoriuscita dal minoritarismo, l’alleanza della classe operaia con il
mondo contadino quale forza motrice della rivoluzione, la proclamazione dell’egemonia del
proletariato nella lotta antifascista e la strutturazione del partito in cellule. In esse vi è contenuta
un’analisi approfondita della formazione dello Stato unitario e del fascismo che viene considerato
soggetto decisivo della stabilizzazione del capitalismo italiano.
Al congresso, che si svolge nel gennaio del ’26, partecipano delegati di tutta Italia i quali
rappresentano l’81% degli iscritti. Le tesi presentate da Gramsci, e fatte proprie dalla maggioranza
del comitato centrale, vengono approvate con il 90,8% dei voti congressuali, mentre la sinistra di
Bordiga raccoglie il restante 9,2%. Lo stesso Gramsci viene riconfermato segretario generale.
223
Nel novembre del ’26, però, egli viene arrestato e sottoposto ad estenuanti “traduzioni”: dal confino
di Ustica è trasferito alle carceri di Milano, poi di Sulmona, di Ancona e di Bologna. Dopo una
prima condanna a cinque anni di confino, nel corso del “processone”, celebrato davanti al tribunale
speciale nel maggio-giugno ’28, viene condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di
reclusione e destinato al carcere di Turi, in provincia di Bari.
Quando sta per essere emessa la sentenza di condanna, egli si rivolge alla mamma con queste
parole: “Carissima mamma… La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei
grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”.
In carcere viene colpito da tubercolosi e pure dal “fuoco di S. Antonio” ed è costantemente
tormentato dai dolori e dall’insonnia. Soprattutto, però, egli soffre la forzata condizione di
isolamento sia dalla vita politica che dagli affetti familiari. In una lettera indirizzata alla moglie, nei
primi anni ’30, ma mai spedita, scrive: “Mi pare che se dovessi ora uscire di carcere, non saprei
più orientarmi nel vasto mondo, non saprei più inserirmi in nessuna corrente sentimentale, ma
continuerei a vivere col solo cervello e con la sola volontà, vedendo in tutti gli uomini (anche in
quelli che dovrebbero essermi vicini) non degli esseri viventi ma dei problemi da risolvere. Io non
voglio pretendere che la ragione di questo mio imbozzolamento sia da ricercare solo fuori di me, il
fatto è che da me stesso non so superare questa condizione che in un solo modo, rifugiandomi nel
puro dominio dell’intelletto astratto, facendo cioè del mio isolamento la esclusiva forma della mia
esistenza. Non ho voluto più oltre tenerti celato questo aspetto della mia vita”. Qualche tempo dopo
scrive alla cognata Tania e definisce la propria esistenza “un grande errore, un dirizzone”.
In carcere gli viene lesinata persino la carta su cui scrivere. Eppure, nonostante viva in stato di
segregazione, dopo aver ottenuto il permesso, nel febbraio del ’29 incomincia a scrivere i
“Quaderni”. A causa della rigorosa censura è costretto a parlare cifrato: nei suoi scritti, infatti, il
marxismo diventa “filosofia della praxis”, le classi vengono definite “gruppi sociali”, Stalin viene
chiamato “Giuseppe Bessarione”.
I suoi “Quaderni” sono un cantiere aperto. Si tratta di 32 fascicoli dal contenuto contraddistinto da
frammentarietà, ma tenuto insieme da un’idea centrale, di fondo: essi intendono rispondere alla
domanda “perché siamo stati sconfitti?”. Vi è in lui l’idea che il movimento operaio abbia fallito
anche per incoscienza della propria condizione. Egli si chiede: “Perché i partiti proletari italiani
sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano
passare dalle parole all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi
non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia”.
A suo giudizio il marxismo, per la classe operaia, è stato uno strumento soprattutto di propaganda,
non già di conoscenza e d’azione. Al suo operare è cioè mancato lo “gnosce quod immutabis” =
conosci quel che muterai o devi piuttosto mutare (tu stesso).
Nell’ottobre del ’33, in condizioni di salute disperate, ottiene il trasferimento dal carcere a una
clinica di Formia, dove peraltro non gli è garantita un’adeguata assistenza specialistica, ma in
compenso è costantemente piantonato da un carabiniere.
Gramsci viene formalmente scarcerato il 29 ottobre del ’34, però non viene lasciato libero di andare
in una clinica specializzata per avere assicurate quelle cure specialistiche appropriate di cui ha
bisogno. Ha il permesso di lasciare Formia solo nell’agosto del ’35, quando finalmente si trasferisce
alla clinica “Quisisana” di Roma.
Non solo le sue condizioni fisiche sono decisamente peggiorate, ma anche il suo stato psichico è
messo a dura prova. Così scrive a sua moglie Giulia che, con i due figli, vive in Urss e soffre di
depressione: “Cara Giulia, io ti ho aspettata sempre e tu sei stata sempre uno degli elementi
essenziali della mia vita, anche quando non avevo nessuna notizia precisa tua o ricevevo da te
lettere rare e senza sostanza vitale e anche quando io non ti scrivevo perché non sapevo che cosa
scriverti, come scriverti, perché mi pareva che tu non volessi darmi nessun punto di presa e di
contatto“.
Tranne che mantenere un rapporto con la cognata Tatiana il suo isolamento è totale.
224
Nonostante i terribili patimenti, egli si è sempre rifiutato di chiedere la grazia o di poter godere
dell’amnistia o del condono.
Dopo aver lottato stoicamente contro molti mali (morbo di Pott, tbc polmonare, ipertensione, angina
pectoris, gotta, ecc.) muore alle ore 4 e 10 minuti del 27 aprile 1937 per emorragia cerebrale,
esattamente due giorni dopo la fine del periodo di libertà condizionale che lo avrebbe posto in
condizioni, almeno in teoria, di piena libertà.
La sua esistenza finisce così nella solitudine, nel buio, nella mancanza di speranze tangibili. A
seguire il feretro, al suo funerale, è una sola carrozza sulla quale ci sono la cognata Tatiana e il
fratello Carlo.
E’ da sottolineare che Gramsci ha sperimentato su se stesso, sulla sua carne viva e sofferente ciò
che ha scritto e ciò che i suoi testi ci tramandano.
Di sé ha detto: “Non voglio essere compianto, ero un combattente che non ha avuto fortuna nella
lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno
lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente”.
Egli è stato un politico dalla dirittura morale ferrea. Non perdonò mai a suo padre, per fare un
esempio, la cocente umiliazione nel saperlo condannato e imprigionato, nel 1898, con l’accusa di
peculato e concussione. Nonostante fosse chiaro che quella detenzione è stata frutto della pressione
esercitata sulla magistratura dai suoi avversari politici (egli aveva sostenuto un candidato alle
elezioni che non è stato eletto e proprio per questo è stato perseguitato). Tanto è che alla fine è stato
reintegrato nel suo ruolo professionale, seppure a livello più basso. Ma questo è uno degli aspetti
che oggi sembra abbiano perduto di valore. Così come sembra essere dispersa la conoscenza del
prezioso patrimonio culturale e politico che egli ha lasciato non solo a noi comunisti, ma
all’umanità intera, essendo il suo lascito di valore universale.
Del resto, non ha mai fatto scandalo il fatto che Antonio Gramsci sia apparso per la prima volta in
tv, cioè la sua esistenza sia stata segnalata dalla Radio televisione italiana, solo nel 1967 (nella
rubrica settimanale “Almanacco”), ben trenta anni dopo la sua morte, e che per altri 12 anni sia
stato completamente ignorato.
Appare evidente e incontestabile che politici come lui, a chi detiene il potere, fanno paura non solo
da vivi ma anche da morti.
7.2 – Un comunista “eretico solitario”
Antonio Gramsci fa parte di quella esigua minoranza di dirigenti comunisti che non si sono lasciati
assoggettare dallo stalinismo, ma hanno continuato a pensare e ad agire col proprio cervello. Egli,
infatti, ha messo in discussione alla radice non solo il marxismo della 2a, ma anche quello della 3°
Internazionale, pur senza mai rinnegare la sua appartenenza al movimento comunista, anzi
dedicando alla causa l’intera sua esistenza.
Come abbiamo visto, egli esalta l’operato dei bolscevichi e appoggia e difende con entusiasmo la
loro impresa, poiché la considera una conquista di libertà per le masse e per i singoli individui, e la
identifica con la realizzazione della democrazia reale e con la costruzione di una società fondata su
nuovi principi e costumi.
E’ proprio per questa ragione che egli insiste molto sui soviet, ritenuti istituti cardine di un nuovo
modello di società, e questa sua visione del processo rivoluzionario è insieme teorica, politica,
economico-sociale e morale. In questa ottica, trova giustificazione la sua adesione alla politica,
prospettata da Lenin ed esaltata e praticata da Stalin, del “socialismo in un paese solo”. Egli l’ha
considera una scelta obbligata, imposta dal determinarsi di una nuova fase storica, quella che ha
definito con il termine “guerra di posizione”.
Se è pur vero che nel ’19, la redazione de “L’Ordine Nuovo” viene finanziata da Mosca, poiché con
i proventi delle vendite del giornale è possibile coprire non più di un quinto dei costi per la carta e
per la stampa (e ciò potrebbe indurre a pensare che egli si disponga compiacente con il Pcus per
ragioni d’interesse), a motivare questa sua posizione non è certo un tale condizionamento, bensì il
225
convincimento che l’ottobre rosso ha determinato le condizioni per la costruzione, non solo in
Russia, di una nuova civiltà. Tanto è che ancora anni dopo, quando rinchiuso nelle carceri fasciste il
suo rapporto con la dirigenza dell’Urss modifica diventando più riflessivo e problematico, egli parla
bene non solo di Lenin, ma anche di tutti i bolscevichi e degli intellettuali russi definendoli “una
élite di persone tra le più attive, energiche, intraprendenti e disciplinate”, encomiabilmente
impegnate nell’edificazione del socialismo.
Col passare del tempo e con il prendere corpo dell’esperimento sovietico, però, egli matura
gradatamente un atteggiamento critico verso quell’esperienza, in particolare, verso i gruppi dirigenti
del Pcus e dell’Internazionale, pur non abbandonando mai il convincimento che la rivoluzione
d’ottobre rappresenta per la causa del movimento operaio internazionale un ruolo decisivo.
All’inizio degli anni ‘20, pur non condividendo la linea di opposizione praticata da Bordiga, si
schiera senza esitazione contro le semplificazioni organizzative suggerite dal Comintern, contro
l’ipotesi di “fusionismo” tra Pcd’I e Psi. E nel ’26 esprime in maniera inequivocabile e formale il
suo dissenso verso le dirigenze del Pcus manifestando, tramite una lettera indirizzata al comitato
centrale, le sue preoccupazioni per i metodi con cui Stalin e Bucharin conducono la lotta contro gli
oppositori Trotzkij, Zinov’ev e Kamenev. In maniera solenne egli condanna le lotte intestine al
partito e le conseguenti scomuniche. A nome dell’ufficio politico del Pcd’I, rimprovera gli organi
esecutivi del Pcus di distruggere la loro stessa opera, di degradare politicamente e di correre il
rischio di annullare la funzione dirigente che lo stesso partito ha conseguito.
La sua lettera-denuncia viene intercettata da Togliatti, in quel momento rappresentante a Mosca del
Pcd’I, il quale decide di non inoltrarla alla direzione del partito russo e fa sapere a Gramsci che
l’unità del gruppo dirigente bolscevico è già andata perduta. Gli contesta la posizione assunta
giudicandola “troppo astratta e troppo schematica” e considera il suo ragionamento “viziato di
burocratismo”. Nei decenni successivi si scoprirà che il mancato inoltro di quella lettera-denuncia
alla dirigenza del Pcus è stato considerato una scelta opportuna dallo stesso ufficio politico del
Pcd’I e questo sta a significare che quella “rottura” politica non ha alterato solo ed esclusivamente i
rapporti tra Gramsci e Togliatti, ma anche quelli tra il gruppo dirigente e il segretario del partito. A
partire da quel momento ha inizio il suo dramma di capo emarginato. E c’è motivo di credere che
proprio in quella circostanza egli abbia intuito l’inesorabile venire meno della stessa spinta politica
della rivoluzione d’ottobre.
Due anni dopo, in carcere, critica la collettivizzazione accelerata delle campagne e si oppone alla
tesi del “socialfascismo”. In contrapposizione alle direttive di Stalin e all’atteggiamento servile
della stragrande maggioranza dei dirigenti e militanti comunisti, egli interpreta la linea del “blocco
storico” come la costruzione di uno schieramento unitario da opporre al fascismo e il cui obiettivo
deve essere quello dell’Assemblea costituente di tutte le forze popolari democratiche.
Denuncia poi come pericoli per il futuro dell’Urss la degenerazione dell’industrialismo accelerato,
la burocratizzazione e la inaudita concentrazione di potere nello Stato definendolo “Stato di
funzionari”. Lamenta che in Russia il marxismo ha assunto forme “rozze” e “superstiziose”, che il
socialismo è stato trasformato in religione di Stato e che la rivoluzione viene fatta “dall’alto”. Così
come ha condannato il “terrore” giacobino, condanna quello bolscevico e di fronte alla passività
delle masse parla di “bonapartismo”. Prende le distanze da un modo di agire burocratico e
opportunista e soprattutto esprime una concezione del centralismo democratico opposta a quella
interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale. Contesta con violenza anche la
“casta sacerdotale” presente nel partito russo. Giudica la disciplina di ferro imposta da Stalin non
un segno di forza, ma una manifestazione di debolezza.
Il suo dissenso è già chiaro alla fine degli anni ’20, ma diventa radicale negli anni ’30, quando si
rende conto che nell’Internazionale e in Urss prevalgono scelte che smentiscono gli obiettivi
originari. In carcere ha modo di riflettere a fondo sul come la realtà non corrisponde alle sue
aspirazioni e aspettative e avverte che il socialismo che si sta costruendo non è affatto frutto di una
volontà collettiva determinata dalla dialettica. Alle pratiche dello scontro duro e frontale e
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dell’eliminazione dei dissidenti, egli contrappone una concezione della realizzazione del socialismo
che non esclude il passaggio attraverso la democrazia borghese.
Nel Pcd’I si è cercato di velare, almeno fino a quando è stato possibile, il suo dissenso nei confronti
di Stalin e della politica dell’Internazionale, mentre negli ambienti russi e tedeschi c’è stato chi ha
voluto farlo apparire agli occhi di tutto il mondo filotrotzkista.
In realtà, egli ha nutrito per Trotskij rispetto, ammirazione e stima, poiché lo ha considerato un
grande capo rivoluzionario, ma al di là di questo atteggiamento non c’è mai stata occasione in cui
abbia sposato le sue tesi, anzi. Nella lotta apertasi nel gruppo dirigente bolscevico, egli si è
schierato con la maggioranza, contro Trotzkij. Si è pronunciato poi contro la sua idea circa il
carattere primario che dovrebbe essere attribuito all’industrializzazione accelerata (che lui giudica
di tipo americano) considerandola un pericolo per la stessa pianificazione economica. E se è pur
vero che nell’analizzare la politica di Stalin egli impiega anche argomenti e categorie che sono
tipici di Trotzkij, nei suoi scritti del carcere, critica a fondo il concetto lanciato da Marx nel ‘48-‘49
di “rivoluzione permanente” che viene poi ripreso ed elaborato, nel 1905, dal gruppo “ParvusBronstein”, cioè da Trotzkij. Egli giudica disastrosa questa concezione del processo rivoluzionario,
perché presuppone la guerra manovrata in un’epoca in cui, a suo avviso, è necessario condurre una
guerra di posizione. E ancora si contrappone a Trotzkij quando lo accusa di avere un pregiudizio
funesto, quello cioè di teorizzare e sperimentare i fallimentari eserciti del lavoro.
Torna semmai giusto interrogarsi sul perché nei Quaderni egli critichi Trotzkij e non invece
esplicitamente Stalin, i cui richiami sono di carattere positivo essendo da lui ricordato
semplicemente come allievo di Lenin.
E’ in ogni modo fuor di dubbio che Gramsci rappresenta una variante tattica all’apparato dottrinario
dell’ortodossia terzinternazionalista. A poco a poco egli si ritrova in polemica sostanziale con tutti i
massimi protagonisti della vicenda teorica e politica che segnano il corso del movimento operaio
(socialista e comunista) del suo tempo.
In carcere appare come un dirigente comunista che si sente solo e politicamente sconfitto, come
sottolinea lui stesso, “un’isola nell’isola” nel suo stesso movimento.
Dagli agenti della polizia segreta sovietica egli viene sorvegliato persino negli affetti più cari: la
Gpu, tramite la sorella maggiore Genia, esercita su sua moglie Julca pressioni tali da indurlo a
proporle persino lo scioglimento del rapporto coniugale. Nell’autunno del ’32, infatti, egli invita la
cognata Tania a chiedere alla moglie il consenso di separarsi, affinché essa “possa ancora crearsi
liberamente una nuova fase di vita”, intendendo così liberarla dai vincoli matrimoniali con un
comunista ritenuto in odore di dissenso e perseguitato.
Molto probabilmente, a salvare Gramsci dalle condanne del Comintern concorre paradossalmente il
suo stato carcerario. E il fatto che egli abbia potuto essere conosciuto pienamente in Urss solo dopo
l’implosione del socialismo reale, è segno che fino all’ultimo è stato considerato da quel sistema
come un soggetto pericoloso.
Ma a non tollerare il suo modo di pensare e le sue prese di posizione sono anche, almeno per un
certo periodo, i suoi stessi compagni di partito. Il suo rapporto con i comunisti italiani resta
tutt’oggi uno dei nodi da sciogliere in via definitiva poiché parte di una storiografia segnata da zone
d’ombra.
Non va del resto dimenticato che già alle elezioni politiche del maggio del ’21 egli viene candidato
dal partito, ma non viene eletto. Evidentemente non si può affermare che anche a quel tempo le sue
idee riscuotessero largo consenso tra gli stessi militanti.
Poco dopo il suo arresto nei suoi confronti si registra un atteggiamento di reiezione da parte di molti
compagni. Accusato dai tribunali fascisti di essere il “capo” dei comunisti italiani, responsabilità
che egli ovviamente nega per evitare una condanna pesante, gli viene recapitata in carcere una
lettera a firma di Ruggero Grieco in cui si svela il suo vero ruolo nel partito. C’è chi sostiene che
questo famigerato scritto non abbia influito sulla sua condanna, certo è che non ha favorito la sua
posizione giudiziaria. Dalle sue lettere dal carcere trapela il sospetto che la lettera inviatagli da
Grieco sia stata suggerita da Togliatti, il personaggio “meno stupido” che lo avrebbe danneggiato.
227
Giuseppe Berti ha avanzato il sospetto che lo stesso Grieco potesse essere una spia fascista. Un
dubbio, questo, che è stato manifestato qualche tempo prima anche da Pietro Secchia. Secondo
un’altra versione interpretativa, a smascherare Gramsci come segretario del partito agli occhi del
fascismo, sarebbe stato invece Ignazio Silone, il quale avrebbe fornito la notizia al funzionario di
polizia Guido Bellone.
Nel corso della sua detenzione, per il fatto di essersi opposto alla tesi del “socialfascismo” e di
essersi schierato in difesa dei “tre” (Leonetti, Ravazzoli e Tresso) espulsi dal partito, viene
incolpato di essere regredito su posizioni socialdemocratiche.
A fronte della tesi sostenuta dalle dirigenze del partito, secondo cui ci si ritroverebbe ad agire in una
“fase rivoluzionaria”, egli invoca un’azione comune con i partiti che lottano contro il fascismo; ed
essendo convinto che il proletariato e tutto il popolo italiano sono stati ricacciati su posizioni più
arretrate, propone l’assemblea costituente. A quel punto subisce la censura e il distacco sia della
componente del gruppo dirigente che si trova a Mosca, sia di quella emigrata a Parigi e viene isolato
dagli stessi compagni di prigione. Quando, sempre in carcere, tiene delle lezioni ai compagni
reclusi, alcuni di questi, non condividendo le sue tesi, giungono ad affermare che egli non è più
comunista e che per opportunismo è diventato crociano.
Racconterà Terracini anni dopo: “Degli incarcerati, solo Gramsci e io manifestammo dissenso dalle
posizioni del partito e dell’Internazionale sulla svolta stalinista… In quel periodo Gramsci, per i
compagni del carcere, era ormai un compagno perduto… il suo nome circolava avvolto di sospetti.
Era il nome di un compagno ai margini, se non fuori del partito”. Secondo la testimonianza di
Ercole Piacentini, nel carcere di Turi, dopo la “svolta”, Gramsci “parlava di Stalin come di un
despota e diceva di conoscere il testamento di Lenin, dove si sosteneva che Stalin era inadatto a
diventare il segretario del partito bolscevico”. Anche per questa sua posizione viene espulso dal
collettivo del carcere e preso addirittura a sassate non solo dagli anarchici, ma dai suoi stessi
compagni di partito.
Quando, nel novembre del ’34, in gravi condizioni, arriva nel carcere di Civitavecchia, nessuno dei
comunisti ivi reclusi (tra cui Pajetta, Roveda e Scoccimarro) aderisce alla proposta di Terracini di
tentare un approccio con lui.
Tra la metà del ’31 e la fine del ’33, cioè negli anni successivi alla svolta del Comintern, la politica
ereditata dalla sua segreteria viene definitivamente abbandonata dal partito.
Se è vero che il dialogo tra lui e Togliatti, almeno fino al ’32, non si è mai interrotto, il loro rapporto
è stato di certo assai complicato.
Si è scritto che, nel ’95, negli archivi del Comintern è stato ritrovato un documento secondo il quale
Gramsci avrebbe definito Togliatti un doppiogiochista e .lo avrebbe accusato di essere privo del
coraggio di prendere posizione nei momenti decisivi. Le lettere citate dal quel documento, però, non
sono mai state trovate e pertanto un tale giudizio appare opinabile. Fatto è che già nel ’24 Gramsci
ha affermato che Togliatti “non sa decidersi, com’era un po’ sempre nelle sue abitudini”.
Nella concezione e nell’etica politica fra i due è evidente una notevole differenza. Per quanto
Togliatti non condivida il pensiero di Gramsci, di lui subisce il fascino, al punto di considerarlo il
critico storico più lucido dell’Italia moderna e ancora “la coscienza critica di un secolo di storia
italiana”.
Nel ’37, il “Migliore” si oppone alla censura apposta dai sovietici su Gramsci, senza peraltro
riuscire nell’intento, e si adopera perché i “Quaderni del carcere” non siano inghiottiti dalla
burocrazia sovietica, dopo la sua morte. In “Stato operaio”, però, gli attribuisce affermazioni del
tutto inventate, del tipo “Trotzkij è la puttana del fascismo”. Si prodiga pure di tenere in ombra le
differenze politiche rispetto allo stalinismo che esistono tra loro due. Avendo letto i “Quaderni”, li
conserva con gelosissima cura, ma li sottrae per un certo periodo alla conoscenza del partito e
dell’opinione pubblica. Le riflessioni in carcere del dirigente sardo rimangono, infatti, sconosciute
sino alla fine degli anni ‘40.
228
Così come viene tenuta nascosta per anni la famosa lettera del ’26 che Gramsci ha inviato al Pcus
per criticare i comportamenti del suo gruppo dirigente: verrà pubblicata su “Rinascita” solo dopo la
morte di Togliatti, esattamente il 24 aprile 1970.
E quando, negli anni del secondo dopoguerra, i “Quaderni” vengono pubblicati, come ha
documentato Franco Lo Piparo, uno di essi risulta mancante. Quando poi lo stesso Togliatti li
commenta pubblicamente, esalta soprattutto il Gramsci del Machiavelli, del “moderno principe”, e
lo ricongiunge impropriamente a Lenin e alla sua teoria del potere, mentre mette in secondo piano
tutta la sua elaborazione sui consigli e sull’autogoverno.
Sono i tempi in cui un influente membro della direzione del partito, Emilio Sereni, definisce il
dirigente sardo un “leninista” in sintonia con l’insegnamento di Stalin e di Zhdanov.
Gli storiografi della parte politica avversa hanno ripetutamente insinuato che la presenza di Gramsci
nel movimento operaio, sia risultata a tal punto insopportabile da indurre Stalin e i suoi stessi
compagni di partito a lasciare che egli marcisse nelle carceri fasciste. Tesi questa che è da
considerarsi senza alcuna esitazione un atto di meschina propaganda anticomunista.
Come risulta dalle testimonianze e dai documenti recuperati negli archivi, il gruppo dirigente del
Pci, pur non condividendo le sue posizioni politiche, non gli ha mai lasciato mancare l’assistenza e
ha fatto reiterati tentativi di liberarlo dalla prigionia fascista. Gli stessi sovietici, magari di
malavoglia, non hanno mai desistito nel trattare con il governo italiano la sua scarcerazione.
All’indomani del suo arresto, è lo stesso Togliatti ad attivarsi per ben due volte per la sua
liberazione: lo fa nel settembre del ’27, quando, attraverso Egidio Gennari, sonda il governo russo
per un eventuale scambio con tre sacerdoti internati in Urss; e poi nel luglio del ‘28, quando
suggerisce a Bucharin di sfruttare il salvataggio di Nobile per chiederne la liberazione. Così, infatti,
gli scrive: “Compagno, l’equipaggio sovietico del Krassin ha salvato una parte della spedizione di
Nobile. Probabilmente potrà salvarne anche una seconda parte, cioè quasi l’intera spedizione.
Ecco quel che io propongo a nome dei compagni italiani che sono qui: che l’equipaggio del
Krassin avvicini Nobile per domandare che Gramsci sia restituito alla libertà e mandato in Russia,
giustificando la domanda con le condizioni di salute di Gramsci che è malato e che potrebbe
morire in prigione”.
Nell’ottobre del ’27, cioè molti mesi prima dell’arrivo a San Vittore della lettera di Grieco, è il
sottosegretario all’Interno del governo fascista, Giacomo Suardo, a respinge la proposta dello
scambio Gramsci-prigionieri. Mentre l’istanza del governo sovietico relativa al caso della
spedizione Nobile non viene ritenuta degna di considerazione dalle autorità italiane. Nel ’32 c’è un
nuovo intervento del Cremlino a favore della liberazione del leader del comunismo italiano, ma
anche questa volta non sortisce gli esiti sperati. Nel ’33 viene avanzata la proposta di scambio con
una cittadina italiana detenuta nelle carceri sovietiche, ma di nuovo la trattativa non decolla. Stessa
sorte avranno altre istanze.
A testimoniare l’indisponibilità del governo fascista, precisamente di Mussolini in persona, è niente
meno che Lord Chiloton, ambasciatore inglese a Mosca il quale nel ’37, scrive: “Vengo a
conoscenza da un membro dell’ambasciata italiana (a Mosca) che il governo sovietico ha fatto
approcci di tanto in tanto verso il governo italiano con l’intento di assicurare la liberazione del
signor Gramsci per ragioni umanitarie, ma senza ottenere alcun successo”. Viene altresì rifiutata
una mediazione tentata dal Vaticano relativa a un possibile scambio con dei preti.
Evidenziare l’ostinata indisponibilità del regime fascista, sul quale ricadono gravissime
responsabilità, a considerare l’eventualità di una liberazione di Gramsci, non significa di certo
mettere in secondo piano i contrasti esistenti tra il dirigente carcerato e i capi del Pcus e del Pcd’I, i
quali, come ho documentato, sono profondi e insanabili. E nemmeno vuol significare una volontà di
nascondere i pregiudizi e le malignità che hanno prodotto quei contrasti. Per tutti è il caso di
ricordare la testimonianza di Massimo Caprara, segretario personale di Togliatti per ben 18 anni, il
quale, accompagnando i due figli di Gramsci, nel ’47, allorquando questi sono venuti in Italia per
partecipare alle celebrazioni del padre, da Delio si è sentito rivolgere la domanda sulle ragioni per
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cui il padre Antonio aveva tradito i comunisti italiani. Quella, infatti, era la tesi che a quel tempo era
stata fatta circolare a Mosca negli ambienti del partito!
Che Gramsci, nel movimento comunista, sia stato per tutti gli anni della sua incarcerazione e per
tanti altri ancora, in odore di eresia è fuor di dubbio. Che abbia pagato la sua indipendenza critica
con la solitudine è un dato altrettanto assodato.
Diventa quindi facile comprendere come le sue drammatiche condizioni di isolamento psicologico,
politico e fisico abbiano potuto procurargli quelle ossessioni che traspaiono da alcune sue lettere e
che gettano ombre di sospetto sui suoi stessi compagni, oltre che sul Comintern.
Il primo responsabile dei suoi patimenti e della sua morte, è bene ribadirlo, è il fascismo.
Precisato questo, non vi è dubbio che nella storiografia comunista continua ad esserci un “buco
nero” ed esso è costituito dal fatto che le dirigenze del Pci non hanno detto fino in fondo come le
cose sono andate veramente. Quando qualcuno ci ha provato, è il caso di Paolo Spriano, di
Giuseppe Berti, di Umberto Cardia, alcuni dirigenti storici del partito sono andati in escandescenze:
Giorgio Amendola, ad esempio, si è particolarmente distinto in questa polemica. E ciò non ha certo
favorito le necessarie chiarificazioni, ma anzi ha alimentato a sua volta dubbi e congetture.
Che dal Pci l’elaborazione di Antonio Gramsci, specie quella del carcere, sia stata fatta sua in
maniera riduttiva e anche strumentale, è un altro dato di fatto. Per più di venti anni a prevalere è
stata l’interpretazione togliattiana la quale ha condizionato in larga misura il modo di ricezione del
pensiero gramsciano in Italia e in Europa,. Non si è trattato certo di una falsificazione dei suoi
scritti, come è stato sostenuto ancora in polemiche ingiuste e tendenziose, bensì di una loro accurata
selezione e sublimazione: non solo sono state messe in ombra le contese, ma è stata depurata o
comunque svilita tutta la tematica consiliare.
Durante il periodo berlingueriano si è andati soprattutto alla ricerca in Gramsci di riferimenti che
giustificassero il rapporto tra comunisti e cattolici e che avvalorassero la politica di “compromesso
storico”.
Chi è venuto dopo quel periodo ha sanzionato la sua sconfitta politico-culturale affidando a
esponenti liberal-democratici la reinterpretazione delle sue elaborazioni. Il fondatore di fatto del Pci
è stato così riletto in chiave democraticistica e crociana. Massimo D’Alema lo ha associato a una
cultura liberale, per certi aspetti alla corrente liberalista. E a poco è valso scrivere a ridosso del
titolo “l’Unità” che quel giornale è stato fondato da Gramsci per rendere credibile una continuità di
memoria.
In conseguenza del fatto che la sua opera è stata oggetto d’uso da parte delle varie metamorfosi
politico-organizzative di quel che originariamente era il Pci (Pds, Ds, Pd), Gramsci ha trovato poco
credito e scarsa attenzione nelle stesse formazioni che si sono proclamate di “nuova” sinistra.
Egli, pertanto, resta in un certo senso senza eredi e la sua solitudine si protrae nel tempo. Eppure
della sua elaborazione politico-culturale c’è ancor oggi estremo bisogno, poiché è il solo ad aver
riflettuto a fondo sulle ragioni della sconfitta del movimento operaio in Occidente. Egli ha
interrogato la storia nella sua durezza e irrevocabilità come nessun altro ha saputo fare e ha tentato
di indicare ai posteri la strada da percorrere per costruire la società socialista.
7.3 – Critica dell’economicismo e “filosofia della prassi”
L’opera di Gramsci è stata studiata dal punto di vista filosofico, storico, politico e biografico e i
giudizi che su di essa sono stati formulati sono i più vari. C’è chi considera il pensatore sardo un
grande testimone del ‘900, chi lo definisce l’esponente di una sorta di liberal-comunismo, chi lo
considera prigioniero del suo tempo e chi lo indica come un antiliberale. Se per alcuni è sinonimo di
saggezza, di coraggio, di sobrietà e di modestia, per altri è un rudere da buttare. Il tedesco Joachim
Ranke, per esempio, sostiene che “come teorico comunista, come politico, come stratega della
rivoluzione, non si può salvare” e si dice certo che a lui ormai non pensa più nessuno. Massimo
Salvatori, nel considerarlo “fondamentalmente leninista”, lo ritiene “inesorabilmente fuori gioco”,
mentre Lucio Colletti, dopo essersi convertito al berlusconismo, gli rimprovera di non sapere
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apprezzare “le istanze della democrazia borghese”. Alcuni storici decretano fallita la sua teoria
quale nuova religione civile d’Italia, altri, sulla base di una scansione dei tempi della sua
elaborazione, lo incolpano di giacobinismo o di antigiacobinismo a seconda delle convenienze
interpretative.
Come vedremo, allorché affronterò le sue tesi sul partito, in molti, e fra questi anche alcuni
appartenenti allo stesso campo comunista, lo accusano di organicismo e di integralismo politico.
Non va dimenticato che già Benedetto Croce ebbe a sostenere che essendo l’intento di Gramsci
“semplicemente quello di fondare un partito politico, ufficio che non ha a che vedere con la
spassionata ricerca del vero”, a ricordarlo in modo degno sarebbero bastate “le sue nobili lettere
dal carcere”. I “Quaderni”, evidentemente, agli occhi dell’illustre filosofo dovevano apparire un
prodotto di seconda scelta.
Sulla sua appartenenza politica e sulle sue convinzioni non sono mancate neppure grossolane e
volgari strumentalizzazioni. In una delle tante campagne anticomuniste del Psi di Craxi, Lerhener e
Lagorio sono giunti al punto di sostenere che prima di morire egli avrebbe chiesto l’iscrizione al
partito socialista. Da parte sua il Vaticano, in più di una circostanza, ha sostenuto la tesi secondo cui
prima di morire si sarebbe convertito al cattolicesimo.
Chi ha letto i suoi scritti, e ha vagliato le testimonianze sul suo comportamento e le prese di
posizione, sa bene che Gramsci è un marxista convintissimo e che la sua weltanschauung è ispirata
indubitabilmente ai principi del comunismo. La sua è una visione del mondo che si fonda su una
rottura netta con la cultura borghese e sul rifiuto di qualsiasi ideologismo. Suo fermo intendimento è
quello di tradurre il marxismo in una nuova civiltà e ogni sua azione appare coerente con questo
proposito.
Attraverso l’analisi dei nuovi fenomeni sociali e politici, egli contribuisce a sviluppare in modo
originale il filone teorico e politico del pensiero marxiano. Affronta gli aspetti più diversi della
storia, della politica, della letteratura, della filosofia, dell’economia e ci fornisce uno straordinario
esempio di coerenza tra pensiero e azione, tra idee professate e impegno politico. Non a caso, per
molti, Gramsci incarna il personaggio dell’eroe che resiste nella prigione fascista fino alla morte,
senza cedimenti ed enfasi, organizzando e svolgendo un lavoro intellettuale destinato anzitutto al
suo partito e alla sinistra.
La sua statura morale è fuori del comune. Dal carcere scrive al fratello Carlo: “Io non voglio fare né
il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio che ha le sue convinzioni
profonde e che non le baratta per niente al mondo”. E a un agente di custodia che ingenuamente gli
domanda se è vero che, se avesse cambiato bandiera, sarebbe diventato ministro, egli risponde che
ministro era un po’ troppo, ma sottosegretario alle Poste o ai Lavori pubblici forse avrebbe potuto
anche esserlo.
La sua modestia è tale che non firma gli articoli di giornale non già per timidezza, ma perché prova
ripugnanza per le forme esteriori, manifesta avversione per ogni forma di idolatria, a cominciare dal
culto per i nomi.
Se la sua opera fosse per davvero di scarso valore, come qualcuno sostiene, non si spiegherebbe il
perché, nei decenni scorsi, nel continente americano la sua opera sia stata oggetto di tanti dibattiti e
convegni, al punto di provocare la nascita del movimento dei “gramscisti”, i quali alle sue
riflessioni ed elaborazioni hanno dedicato e continuano ancora oggi a dedicare studi e
approfondimenti.
Gramsci è un pensatore che diffida delle lusinghe delle certezze e fa propri i principi della ricerca ,
dell’esperienza, della critica oltre che della passione. Da Romain Rolland riprende e fa sua la
massima “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” per coniugare in modo nuovo
ragione e volontà, criticismo coerente e capacità di incidere sui processi reali del mondo.
Crede nell’uomo, nel suo spirito di abnegazione, nella sua creatività, nel suo eroismo
considerandolo motore della dialettica storica.
La sua formazione, com’è risaputo, avviene all’insegna dell’idealismo gentiliano e non a caso da
giovane egli considera Croce il punto più alto raggiunto dalla filosofia mondiale. Con la maturità,
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però, il suo pensiero si ispira al socialismo scientifico e si lega alla lotta di una classe, quella del
proletariato. Egli è il primo che tenta il confronto tra il marxismo e il machiavellismo. E la sua
riflessione fornisce un importante contributo non solo a una critica costruttiva della cultura
nazionale, nel contesto di una ricostruzione della storia italiana, ma alla formazione dello stesso
pensiero europeo.
Propugna l’idea di una socializzazione della politica che, rappresentando una critica radicale di
molta parte della tradizione marxista, lo rende ostile agli occhi di chi ha ridotto la stessa politica a
teoria della conquista e dell’esercizio del potere.
Gramsci è un teorico della rivoluzione sociale che concepisce la riscossa proletaria come atto di
fondazione di una società propriamente umana.
In lui assumono grande importanza il metodo, l’analisi e la sintesi. Egli non costruisce modelli, ma
individua il campo della lotta culturale e politica e si cimenta nello scontro con grande
determinazione. L’estrema articolazione del suo metodo sta nello snidare la complessità del reale e
nell’interpretarla: “Occorre violentemente attirare l’attenzione nel presente così com’è se si vuole
trasformarlo”, occorre rintracciare “la reale identità sotto l’apparente differenziazione e
contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale
qualità del critico delle idee”, ammonisce.
E nel conseguire i suoi obiettivi diventa un assimilatore onnivoro che segue le suggestioni più
diverse senza temere contaminazioni. La sua apertura mentale lo porta a intessere il dialogo anche
con i lavoratori non socialisti, con i cattolici e con gli intellettuali d’opposizione.
Si batte contro l’utopismo, ancora largamente presente ai suoi tempi nel movimento operaio,
ritenendolo rischioso perché infonde una fiducia fatalista nel processo di cambiamento. “L’utopia –
scrive – consiste nel non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro
come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti”, invece “tutta la storia degli
uomini è lotta e lavoro per suscitare istituti sociali che garantiscano il massimo di libertà” e “la
libertà è la forza immanente della storia che fa scoppiare ogni schema prestabilito”.
Combatte con altrettanta determinazione lo schematismo e il dogmatismo. La sua è, infatti, una lotta
teorica contro ogni figurazione schematica sul piano concettuale e pratico. Il suo metodo critico,
antiscolastico lo porta a rifiutare la definizione in formule del marxismo e a mostrare insofferenza
verso le pratiche settarie. Invita a non giudicare i fatti in vista di una presunta meta, di un presunto
finalismo della storia e, di contro, a cercare di capire le ragioni dell’avversario ponendosi “da un
punto di vista critico, l’unico fecondo nella ricerca scientifica”. “La verità deve essere rispettata
sempre, qualsiasi conseguenza essa possa apportare…Sulla bugia non si costruiscono che castelli
di vento”. “E’ necessario che il lavoro di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare
formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati”. Si pronuncia
per la piena libertà d’espressione anche nelle manifestazioni artistiche.
Egli è consapevole che il marxismo è divenuto per larga parte del movimento operaio una religione,
coi suoi impliciti risvolti di dogmatismo. E denuncia che ancora nella seconda decade del ‘900, lo
stesso socialismo viene proposto senza alcuna mediazione quale “religione che deve ammazzare il
cristianesimo. Religione nel senso che è anch’esso una fede, che ha i suoi mistici e i suoi pratici;
religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia
nell’uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale”.
Le certezze teoriche e politiche a suo avviso sono destinate a rivelarsi niente più che “un fragile
articolo di fede”. E proprio per questo motivo avverte l’esigenza della critica immanente anche per
le discussioni e le divergenze all’interno del marxismo e del movimento operaio, e sostiene che il
marxismo stesso deve essere pensato come transitorio, superabile da altre dottrine quali prodotto
delle trasformazioni che investono il mondo.
La critica alla dogmatizzazione del pensiero marxiano è la stessa che egli esprime nei confronti
della religione e della psicoanalisi i cui principali fruitori sono gli umiliati e i deboli. Mentre la
religione fugge il mondo reale e si rifugia nelle fantasticherie e nel sogno, la psicoanalisi rincorre il
232
mito del buon selvaggio, proprio quando i processi di modernizzazione e la standardizzazione
dell’educazione rendono sempre più impossibili “le robinsonate”.
L’interesse di Gramsci per la religione riguarda il ruolo che essa svolge come ideologia sociale,
mentre la sua dimensione teorica e filosofica è da lui quasi del tutto ignorata. “Vivere senza
religione – sostiene – è possibile solo attraverso la scienza e la filosofia, ma la religione resta
necessaria per l’organizzazione sociale”.
La debolezza teorica intrinseca a ogni religione - e soprattutto al cattolicesimo - consiste a suo dire
nel concepire l’uomo come individuo isolato che ha in sé la causa del male, quando invece occorre
concepirlo come insieme di rapporti attivi.
Egli dunque considera la religione “la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca ‘metafisica’
apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le
contraddizioni reali della vita storica: essa afferma invero che l’uomo ha la stessa ‘natura’, che
esiste l’uomo in generale ... in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini,
uguale agli altri uomini... Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli
uomini”. L’etica religiosa rappresenta dunque l’autocoscienza dell’umanità e poiché specchia
l’uomo in dio, affermando che esso non è di questo mondo, ma di un altro mondo (utopico), diviene
funzionale alla logica della produttività e come il calvinismo diventa una religione laica.
Egli si pone anche il quesito se in una società senza classi e senza religioni, quale si può supporre
come esito di un processo rivoluzionario secolare, la concezione spiritualistica non debba assumere
necessariamente a un certo punto le caratteristiche del pensiero dominante. Pertanto considera la
possibilità che la libertà di pensiero e di coscienza possa avere un ruolo positivo nella società
liberata dallo sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili. E ritiene che “si può persino giungere
ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco, in un
mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di esse, che sono utopistiche
durante il regno della necessità, potrebbero diventare ‘verità’ dopo il passaggio (al regno della
libertà)”.
Intendendo in ogni modo la soggettività, l’idea, motore della prassi umana, egli considera illusoria
ogni rappresentazione ideologica. Le ideologie, ricorda, sono espressione della struttura e si
modificano col suo modificarsi. Purtroppo, per coloro che vi credono, queste idee non sono
illusioni, e non lo sono perché sono considerate vere sia dai dominati che dai dominanti.
In forza di questa sua visione, il processo rivoluzionario si svolge allorquando l’elemento unificante
dell’ideologia va in crisi e il movimento antagonista esce da una condizione di subalternità solo
acquisendo una cultura autonoma.
Alla luce di un tale processo di cambiamento egli imbastisce un’accesa polemica contro gli
esaltatori dell’élite e, oltre a combattere l’economicismo, contrasta sia il moderatismo, che
considera uno dei problemi decisivi della storia degli italiani, sia il pragmatismo ritenendoli un
freno allo sprigionarsi delle risorse culturali e politiche esistenti nel movimento. La campagna
antiloriana (rivolta contro l’economista Achille Loria) da lui condotta ha appunto il significato di
voler procedere alla distruzione delle “autorità costituite” in nome del rigore culturale, e aprire la
strada alla partecipazione attiva degli operai alla discussione dei problemi culturali e politici. “E’ da
pensare come, in tempi anormali, di passioni scatenate, sia facile a dei Loria, appoggiati da forze
interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà ancora
debole e gracile”. E giudicando mistificatorio e irresponsabile il modo di agire di gran parte della
sinistra del suo tempo, ammonisce: “Il parroco del villaggio affermava: ‘non si muove foglia che
Dio non voglia’. Masticabrodo affermava: ‘Tutto è determinato dagli interessi economici’. Era in
fondo la stessa concezione”.
A destare dunque la sua preoccupazione è soprattutto la perdita di egemonia sul modo di pensare
dello stesso movimento dei lavoratori e anche la diffusa mancanza di coerenza e di impegno sociale
che in esso vi riscontra.
Altro fronte della sua lotta è quello contro la passività e l’apatia. “Chi vive veramente non può non
essere cittadino e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.
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Perciò odio gli indifferenti”. Lui partigiano lo è fino in fondo, con la dovuta lucidità e verve
polemica. Scrive su l’”Avanti!” piemontese del 9 ottobre 1920: “Non è il comunismo, non è l’ideale
del proletariato che determinerà gli sconvolgimenti, la fame, la desolazione, la miseria; questo
panorama atroce è il panorama della vostra civiltà, crollata come un edificio senza abitatori
umani, è il panorama delle vostre istituzioni, ridotte a mera forma senza spirito animatore; è la
vostra guerra imperialista che ha falciato cinquecentomila giovinezze, il fiore delle forze
produttive, che di altro mezzo milione di energie hanno fatto un esercito di mendichi e di disperati;
è la vostra incapacità a ridare la pace al mondo insanguinato; è il lusso sfrenato e la sete di
godimenti che avete scatenato nei vostri ceti irresponsabili; è la barbarie, la svogliatezza del
lavoro, l’istinto bruto elementare che avete scatenato turpemente per la vostra fame di ricchezza e
di potere: questo panorama è quello della vostra decomposizione come classe di inetti, di falliti, di
sorpassati dalla storia”.
Nei “Quaderni” si nota una frequenza di richiami ai concetti di libertà, dovere, volere, autonomia,
disciplina, autodisciplina individuale e collettiva, quali principi fondamentali dell’agire. “Puoi,
quindi devi” è la sua morale, avendo piena consapevolezza delle difficoltà che un tale imperituro
comporta. Difatti, puntualizza: “Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia
pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità, ciò è veramente difficile e arduo”. Ma a
dimostrare che una simile impresa è possibile, ci sta proprio la sua stessa tragica ed eroica
esperienza di vita.
Il suo pensiero è parziale, ma profondo, fluido, dialogico, lontano da ogni ossificazione e per
comprenderlo appieno deve essere recepito con uno spirito adeguato e con una mente aperta.
Come accade per la stragrande maggioranza dei dirigenti comunisti della sua epoca, anche Gramsci
conosce assai poco dell’opera di Marx. Si suppone abbia letto solo una parte del primo libro del
“Capitale” e poi il “18 Brumaio” e la “Lotta di classe in Francia”. Ai suoi tempi, si sa, non solo
l’attività editoriale aveva uno sviluppo assai limitato, ma molte delle stesse opere del padre del
socialismo scientifico, compresi i “Manoscritti”, non si conoscevano ancora. Lui stesso ammette
che “in Italia il marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali
borghesi che dai rivoluzionari”.
Eppure, nonostante questa sua parziale conoscenza degli scritti del genio di Treviri, Gramsci si
rivela un suo fedele interprete e un valido continuatore delle sue teorie.
Come abbiamo già ricordato, Marx muore prima di ultimare “Il Capitale” e la parte che riguarda la
sovrastruttura resta incompiuta. Ebbene, Gramsci si inserisce su questo filone della sua riflessione e
contribuisce al suo sviluppo.
Il suo riferirsi a Marx è del tutto originale e costituisce una prova di autonomo e positivo
revisionismo. Per certi aspetti egli compie un’opera di riambientazione storico-nazionale della
teoria generale del capitalismo attribuendo un ruolo rilevante alla rivoluzione intellettuale. Cioè, fa
suo il marxismo come scienza politica e non più soltanto come interpretazione dell’economia e
delle leggi dello sviluppo del capitale, come hanno fatto i teorici della 2a Internazionale. Tutte le
sue note politiche sul Machiavelli sono infatti il tentativo di arricchire il marxismo di categorie che
non si ritrovano in Marx: giacobinismo, egemonia, guerra di posizione, guerra di movimento.
Egli cerca di dare una risposta agli incalzanti quesiti sollevati dal suo tempo, sia rompendo con il
positivismo, sia misurandosi con le filosofie idealistiche e con le acquisizioni scientifiche del
tempo. E nel compiere questa operazione culturale supera sia l’idealismo che il materialismo
tradizionale che lui considera espressioni della vecchia società. A suo giudizio, se l’idealismo ha il
vizio di ridurre la realtà all’idea, il materialismo tradizionale ha il torto di ridurre la realtà a materia.
Giudica il “Saggio popolare” di Bucharin una forma ossificata di marxismo, un marxismo ridotto a
catechismo. Identifica il materialismo filosofico e il fatalismo come propri di una fase iniziale di
sviluppo del socialismo e li ricollega all’arretratezza dell’ambiente storico-culturale russo.
Attraverso la critica delle tesi di Bucharin libera la “struttura”, l’economico, dall’isolamento e dalla
passività in cui ortodossi e critici borghesi l’hanno confinata ridandole quell’espansività produttiva
generale che la teoria marxiana gli aveva conferito.
234
In un articolo del 1918, scritto per il centenario della nascita di Marx, sostiene che questi “non ha
scritto una dottrinetta” e che “non è un messia il quale abbia lasciato una sfilza di parabole
gravide di imperativi categorici”.
Per lui il futuro non può essere rinchiuso entro gli schemi virtuosi di una “grammatica” della
rivoluzione, poiché la teoria marxista è in primo luogo una “metodologia dell’azione
rivoluzionaria”, una “critica del rapporto soggetto-oggetto”, una visione unitaria del mondo, “la
sola dottrina capace di guidare alla comprensione di tutto il movimento della storia e al dominio di
questo movimento da parte degli uomini associati”. Il suo marxismo è perciò lotta alla passività, è
principio di universalità, è concezione del mondo, è “storicismo assoluto”, “umanesimo assoluto”, e
si presenta come il meno ipotecato idealisticamente che “non solo comprende le contraddizioni, ma
pone se stesso come elemento della contraddizione”.
La teoria, per Gramsci, è l’esperienza storica che si fa coscienza. Tra teoria e storia egli vede un
intimo, indissolubile nesso. E intende la dialettica come il risultato della presa di coscienza
dell’esperienza storica, il risultato di una visione del divenire sociale e naturale nella sua obiettività.
In tale ottica, critica le ideologie che però considera tutt’altro che arbitrarie essendo fatti storici
reali. Ai suoi occhi, come per quelli di Marx, esse rappresentano una realtà oggettiva e operante,
anche se non sono la molla della storia. E puntualizza che non sono le ideologie a creare la realtà
sociale, ma è proprio la realtà sociale nella sua struttura produttiva a creare le ideologie. Non a caso
esse si modificano con il modificarsi della struttura. Dopo di che, spiega: “E’ ideologia ogni
particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di
problemi immediati e circoscritti. Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la
filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo
e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile”.
E considera ideologia, la stessa scienza: “In realtà anche la scienza è una superstruttura, una
ideologia... Che la scienza sia una superstruttura è dimostrato anche dal fatto che essa ha avuto dei
periodi di eclisse, oscurata come essa fu da un’altra ideologia dominante, la religione, che
affermava di aver assorbito la scienza stessa... Inoltre: la scienza, nonostante tutti gli sforzi degli
scienziati, non si presenta mai come una nuda nozione obiettiva: essa appare sempre investita da
una ideologia”.
Al pari di Marx, egli critica la filosofia e la sua funzione storico-sociale, ma a questa critica
accompagna un’avvertenza: “Che i sistemi filosofici siano stati superati non esclude che essi siano
stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da
considerare dal punto di vista dell’intero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi
fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del pensiero, emesso da un punto di
vista ‘obiettivo’, ma un giudizio dialettico-storico”. “Giudicare tutto il passato filosofico come un
delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica
che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché
suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i Paesi, alla cui stregua si giudica
tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica”.
L’originalità della sua elaborazione sta nella saldatura tra analisi strutturale delle classi e analisi
morfologica e sociologica dei gruppi. Egli considera astratta la distinzione tra i rapporti sociali di
produzione e le idee, i costumi, i comportamento morali, la volontà umana. A suo giudizio nella
concretezza storica c’è convergenza fra gli uni e gli altri, c’è una “unità reale”. Ed è proprio questa
visione unitaria di struttura e sovrastruttura che gli consente di sbaragliare ogni forma di
determinismo materialistico sia nella versione ideologica socialdemocratica sia in quella staliniana.
Egli va in sostanza alla ricerca di una strada tra due estremi, cioè tra lo storicismo idealistico, che
mette l’uomo sulla testa, e il materialismo volgare, che trova seguaci autorevoli anche tra le fila del
marxismo ufficiale.
La storia è per lui un prodotto della libera intelligenza umana e un processo che modifica se stesso,
che cambia i suoi soggetti e i rapporti tra di loro; un processo senza fine, e senza fini nel quale non
esiste un soggetto metastorico o metapolitico che ha la pretesa di definire la trama su cui si
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muovono soggetti più diversi e tra di loro conflittuali. Configura tutta la storia dell’umanità come
un processo doloroso e sanguinoso, pur tuttavia necessario ed esalta il diritto-dovere degli uomini a
lottare al fine di non lasciarsi schiacciare dalla storia che non può essere solo subita, ma deve essere
appunto fatta dall’uomo in carne e ossa.
Rifiutando ogni schematismo concettuale e pratico, Gramsci traduce il marxismo in “filosofia della
prassi” la quale rappresenta un aggiornamento della concezione storicistica della realtà. Fa risalire
questa definizione ad Antonio Labriola il quale ha appunto sostenuto che il marxismo è “una
filosofia indipendente e originale”.
La sua teoria della praxis riguarda l’agire individuale e sociale, lo sviluppo dell’operosità, è la
teoria dell’uomo che lavora. Ed è insieme la coscienza della contraddizione della società a lui
contemporanea e della necessità della costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni
umani.
Il concetto di praxis è, infatti, il punto di incontro di soggetto e oggetto della storia, cuore di una
filosofia che è al tempo stesso politica. Per lui, infatti, la filosofia non è astruseria intellettuale, ma è
prima di ogni altra cosa senso comune, modo di pensare e di comportarsi. E’ la concezione del
mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale di un intero gruppo sociale e che fonda sulla
consapevolezza della infinita varietà e molteplicità delle proposizioni e della loro finitezza e
parzialità. La filosofia della prassi non si propone di risolvere pacificamente le contraddizioni
esistenti nella società e nella storia, ma vuole essere espressione delle classi subalterne interessate a
conoscere tutte le verità e impegnate a educare se stesse all’arte del governo. Viene concepita
storicamente, cioè come fase transitoria del pensiero filosofico, avvertendo la tendenza a divenire
essa stessa una ideologia nel senso deteriore, cioè un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne.
Essendo portatrice di un nuovo umanesimo essa si pone come principio di nuova storia.
Per Gramsci il comunismo è moderno oppure non è. Nei “Quaderni”, infatti, il termine marxismo
viene talora sostituito con “pensiero moderno” o “teoria moderna”.
Egli considera la filosofia della prassi e il comunismo come i componenti della nuova riforma
popolare moderna che corrisponde ai nessi “Riforma + Rivoluzione francese, universalità +
politica”.
“La filosofia della prassi – scrive – deve creare una nuova cultura integrale che abbia i caratteri di
massa della riforma protestante e dell’Illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della
cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole del Carducci
sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emauele Kant, la politica, la filosofia in una unità
dialettica, intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo o mondiale”.
Essa presuppone cioè un passato culturale che comprende la Rinascita e la Riforma, la filosofia
tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e l’economia classica inglese, il liberalismo laico e
lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita. Essendo suoi obiettivi una
cultura superiore e l’unificazione del genere umano, non può che essere una teoria attiva capace di
svilupparsi attraverso il continuo confronto e scontro con la realtà e con gli altri orientamenti
politici e teorici in quanto deve essere in grado di assimilare, attraverso il vaglio critico, ciò che
appare valido nelle posizioni altrui. Si tratta in sostanza dell’esplicazione del concetto marxiano che
considera il proletariato erede di tutta la storia dell’umanità.
7.4 – Guerra di posizione, egemonia, blocco storico
Gramsci è uno dei pochi leader marxisti, sicuramente il primo, che affronta la tematica imposta al
movimento rivoluzionario dalla sconfitta subita nel primo dopoguerra, quella cioè della rivoluzione
in Occidente. E lo fa in sede teorica e nella sua portata complessiva.
Fin dal luglio del 1920 egli riflette, oltre che sull’esperienza torinese, sul fallimento del tentativo
compiuto dalla classe operaia in Germania, in Austria, in Baviera, in Ucraina e in Ungheria di
imitare l’“ottobre rosso” e dare così avvio alla rivoluzione nell’Europa occidentale. Da subito, ha la
percezione della gravità di questa sconfitta e individua la sua causa principale in un errore di
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prospettiva, precisamente nella sottovalutazione da parte del movimento rivoluzionario della
complessità della società capitalistica e del rapporto tra spontaneità e organizzazione in una fase
storica drammatica.
La sua critica si concentra non solo sul “pregiudizio economicistico e spontaneista” coltivato dalla
stessa Rosa Luxemburg, ma investe anche la concezione, largamente diffusa nella sinistra europea
di quel tempo, del ruolo dei consigli di fabbrica i quali risultano subalterni al sindacato e al partito.
A suo giudizio, queste strutture devono essere considerate organismi di potere protagonisti di un
nuovo assetto produttivo e di un nuovo tipo di Stato.
Egli interpreta la rivoluzione in Occidente non come spallata al sistema capitalistico e nemmeno
come processo puramente politico, ma come lungo itinerario di lotta, preparato e diretto dalla
volontà consapevole degli uomini organizzati. La sua riflessione si pone dunque al di là della
grande rottura storica operata da Lenin e affronta in un’ottica nuova e più avanzata il problema della
lotta per il socialismo. Come analista sociale e come teorico della politica, matura la convinzione
che, a differenza della Russia, in Occidente la struttura del potere è costituita da un insieme
variegato di ordinamenti politici, di assetti economici e di istituzioni culturali che è necessario
disgregare per aree differenziate se si vuole determinare il cambiamento.
Nella mancata rivoluzione in Occidente, Gramsci individua la non ancora avvenuta maturazione del
marxismo in forma di scienza politica.
Riprendendo la distinzione che Kautsky, in polemica con la Luxemburg, aveva fatto tra “strategia
dell’annientamento” e “strategia di logoramento”, e ricorrendo a una metafora militare, sostiene che
in Europa occidentale il potere non può essere conquistato con la “guerra manovrata”, vale a dire
con lo scontro di classe di rapida soluzione, come è avvenuto nel ‘17 in Russia, ma solo
ingaggiando una “guerra di posizione”.
Mentre la “guerra manovrata”, o di movimento, comporta l’attacco rivoluzionario repentino e
violento, la “guerra di posizione” implica un contrasto di classe che si protrae nel tempo e matura
sotto la direzione del partito rivoluzionario. In Occidente lo Stato è costituito oltre che dalla società
politica da una solida e articolata società civile e questa complessità non può essere trasformata con
una spallata.
Annota nei “Quaderni”: “In Oriente, lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa;
nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si
scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata,
dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte”, nelle quali sono annidati appunto i
poteri e le egemonie reali. Poiché nei paesi di democrazia occidentale è legalizzato il ruolo
dell’opposizione (salvo che nei regimi fascisti) ed esiste la libertà di pensiero, di parola, di
organizzazione, di propaganda, la strategia da seguire non può essere la stessa di quella seguita da
Lenin. “La determinazione che in Russia aveva lanciato le masse all’assalto rivoluzionario,
nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte queste superstrutture politiche create dal
più grande sviluppo del capitalismo (e ciò) rende più lenta e più prudente l’azione della massa e
domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complesse e di
lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi”. “Mi pare che Ilici (Lenin) aveva
compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in
Oriente nel ‘17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente”.
Questo concetto ricorre nei suoi scritti già nel ’24- ’25 e lo si ritrova nella relazione che lui tiene di
fronte al Comitato centrale del partito nell’agosto del ’26, cioè prima del carcere.
Egli esclude la possibilità, in Italia e in Europa centro-occidentale, di una rivoluzione in due tempi,
com’è avvenuto in Russia, cioè prima la conquista della macchina statale e poi il suo uso per
conformare la società a un disegno politico nuovo.
Precisa che la formula leninista, nell’Europa occidentale, poteva essere valida solo nel periodo
storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati, quando
cioè la società era ancora sotto molti aspetti in uno stato di fluidità. Infatti, è solo dopo il 1870, con
l’espansione coloniale europea, che la situazione subisce quel mutamento che rende complessa la
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società civile ed è proprio a seguito di tale trasformazione che la strada per la conquista del potere si
fa più difficile.
Constatato dunque che la quarantottesca formula della “rivoluzione permanente” nella parte
capitalisticamente evoluta dell’Europa risulta superata, e che la sinistra non è ancora riuscita a
trovare una sua via originale per contrapporsi al dominio del capitale e trasformare la società
secondo i suoi interessi, egli ritiene che è compito delle masse esprimere una critica radicale al
sistema del capitale e mettere il sistema stesso sotto il controllo sociale. Compito del movimento
rivoluzionario diventa quindi quello di conquistare a una a una le varie casematte attraverso le quali
il capitale non solo esercita il proprio dominio, ma fa presa sulla coscienza dei cittadini. In tale
ottica interpreta la conquista dello Stato in Occidente come una lunga lotta per la sua
trasformazione elaborando il concetto di transizione al socialismo.
Gramsci è convinto che il mutamento è determinato anzitutto dal grado di coscienza sociale, vale a
dire dalla conquista da parte del movimento rivoluzionario delle menti degli uomini, e perciò insiste
sul concetto di egemonia che ritiene essere la più grande scoperta filosofica fatta da Lenin, essendo
presenti nella sua teoria sia l’analisi della struttura di base sia il momento dell’iniziativa politica
rivoluzionaria.
Il concetto gramsciano di egemonia non si limita però solamente a un’influenza ideale, ma
comprende l’azione reale di trasformazione della società. Siamo di fronte a una riformulazione del
materialismo storico e alla riproposizione della critica marxiana dell’economia politica come
scienza storica.
Nelle sue riflessioni non c’è un unico modello di egemonia, ma sono presenti diverse sue forme
poiché considera questo concetto un problema. Pur lasciando aperta la porta alle diverse
interpretazioni e sperimentazioni, non tralascia di fissare alcuni punti fermi circa le caratteristiche
che deve avere. A suo giudizio, l’egemonia è l’agire che acquisisce il consenso dei governati e si
traduce nel governare in una cornice di comunanza con loro. E’ l’innalzamento delle masse verso le
élite, il modo stesso di pensare la democrazia. E’ la capacità di promuovere una nuova e diffusa
cultura, la capacità di direzione intellettuale e morale. In sostanza, l’egemonia deve essere esercitata
a livello politico, economico, culturale, ideale; in particolare deve investire il mondo della
produzione al fine di modificare la struttura e i rapporti reali fra gli uomini. A differenza di quanto
veniva tramandato dalla “vulgata marxista”, egli attribuisce alla lotta per l’egemonia la funzione di
intervenire contemporaneamente sia sulla struttura che sulla sovrastruttura.
Esercitata nel vivo della società civile, l’egemonia gramscianamente intesa, rappresenta una lotta a
fondo ai conformismi ed è destinata ad agire sull’insieme delle istituzioni e delle relazioni che
riguardano l’ideologia, la cultura, la vita morale, il costume, la concreta organizzazione dei rapporti
tra le persone. Poiché – come ha puntualizzato Marx – nessuna società si dissolve e può essere
sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti,
l’egemonia deve essere esercitata dal gruppo sociale che aspira a diventare dirigente non dopo, ma
prima di conquistare il potere governativo.
Poi ricorda che ogni potere dominante si compone di due elementi indissolubili che ne costituiscono
la forza: il dominio e il consenso. Il dominio esige l’esercizio della violenza, il ricorso alla
coercizione, e diventa una necessità in determinati momenti storici; il consenso, invece, è direzione
della società, è cioè l’esercizio dell’egemonia dei governanti sui governati. Si può dire che la
maggior forza non provenga affatto dalla violenza dei dominanti, ma proprio dal consenso. Il potere
esercitato attraverso il dominio non è, infatti, destinato a mantenersi a lungo nel tempo (e questo,
per Gramsci, vale anche per la dittatura del proletariato); il consenso invece garantisce più stabilità,
ma esige la capacità di rinnovare continuamente la propria legittimazione.
Poiché obiettivo della classe operaia non è dominare, ma dirigere la società, senza il consenso essa
sarebbe nell’impossibilità di governare stabilmente. Essere forza dirigente significa pertanto
ottenere il consenso attraverso le vie della persuasione e mantenere a sé subalterne le classi sociali i
cui interessi reali sono in contraddizione con il nuovo sistema in corso di costruzione.
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Con questa elaborazione Gramsci rompe con il concetto dominante nel movimento operaio e
comunista del suo tempo secondo il quale per la conquista del potere sarebbe assolutamente
necessario il ricorso all’uso della forza.
Tutta la sua elaborazione compiuta in carcere si articola intorno al tema della conquista
dell’egemonia prima della presa del potere da parte della classe operaia e la sua visione strategica
della rivoluzione proletaria presuppone un insieme di azioni che, aggredendo su tutti i punti della
società civile e della società politica il blocco di potere avversario, punta alla conquista di una
stabile egemonia da parte di un nuovo “blocco storico” che è costituito dalla classe operaia e dai
suoi alleati.
Il suo concetto di egemonia, infatti, comporta anche l’individuazione dei tratti specifici di un
processo che rende protagonista la classe operaia di rivendicazioni che sono di altri strati sociali, e
della loro stessa soluzione, in maniera di unire intorno a sé questi strati e realizzare con loro una
alleanza nella lotta contro il capitalismo determinando il suo isolamento. Egli ha in mente una
società che consegue una sua compattezza, una società che elimina non la differenza del pensiero
individuale, ma il ruolo stesso e la possibilità oggettiva del formarsi di una opposizione organizzata
al processo di cambiamento. E a questo riguardo insiste sul fatto che ogni “blocco storico”, ogni
ordine costituito ha i suoi punti di forza non solo nella capacità coercitiva dell’apparato statale, ma
anche e soprattutto nell’adesione dei governati alla concezione del mondo che è propria della classe
dominante. Perciò, anche la classe operaia deve esercitare la sua influenza sulle classi sociali con le
quali è interessata ad allearsi.
Una delle condizioni della rivoluzione in Italia è per lui l’unità del proletariato settentrionale con i
contadini meridionali. Obiettivo questo che comporta, tra l’altro, l’eliminazione di ogni residuo di
mentalità razzistica che divide il Nord dal Sud e che si scontra con il pregiudizio diffuso nelle stesse
file del movimento operaio secondo cui il Mezzogiorno sarebbe una palla al piede per sviluppo
democratico dell’Italia. “Occorre che il nostro partito distrugga nell’operaio industriale il
pregiudizio inculcatogli dalla propaganda borghese che il Mezzogiorno sia una palla di piombo
che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale”, ammonisce. Questa sua denuncia
non oscura peraltro una lucida consapevolezza da parte sua che la questione meridionale è anche e
soprattutto questione di privilegi politici accordati alla produzione manifatturiera del Nord e di
carichi fiscali, com’è il caso della tassa sul macinato, che sono stati riversati sul Mezzogiorno.
Ma la sua idea di “blocco sociale” comprende non solamente gli operai e i contadini, ma anche gli
intellettuali e tutte le forze vive interessate a promuovere il rinnovamento della società. A suo
avviso, un processo di trasformazione sociale non può essere realizzato senza questo insieme di
alleanze, poiché un partito che esprime solo la sua classe è destinato ad avere una funzione
subalterna. Per “blocco storico” dunque egli intende non semplicemente una politica di alleanze, ma
un processo molto più complesso che investe sia la struttura che la sovrastruttura, che ha carattere
politico, economico e culturale insieme.
La sua visione del processo rivoluzionario va dunque oltre la rigida contrapposizione dualista fra
proletariato e borghesia e si presenta molto più articolata e complessa.
A giustificare questo suo insistere sulla necessità di realizzare un “blocco storico” capace di dare
gambe a un processo di trasformazione strutturale e sovrastrutturale, vi è la preoccupazione per il
verificarsi di vistosi fenomeni di disgregazione sociale. Un tale processo, infatti, comporta il rischio
di un calo dell’egemonia delle classi dominanti destinato a produrre un rafforzamento dello Statoforza che, tra l’altro, premierebbe quel ceto burocratico che egli considera “la forza consuetudinaria
e conservatrice più pericolosa”.
Riprendendo la formula “rivoluzione passiva” da Vincenzo Cuoco, il quale ebbe a usarla a
proposito del tragico esperimento della Repubblica Partenopea del 1799, Gramsci presagisce la
possibilità di una “rivoluzione senza rivoluzione”, precisamente dell’avvento di grandi cambiamenti
senza il ricambio della classe dirigente sotto il segno di una sostanziale egemonia moderata dei
poteri di sempre. Egli teme cioè una “rivoluzione-restaurazione” e manifesta la preoccupazione che
le esigenze rivoluzionarie possano venire soddisfatte “a piccole dosi, legalmente,
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riformisticamente”, in modo tale da riuscire a salvare le posizioni politiche ed economiche delle
vecchie classi dominanti. E come esempio di rivoluzione passiva ricorda il Risorgimento italiano
che è stato attuato appunto senza terrore e col metodo del trasformismo, cioè attraendo e
corrompendo i ceti dirigenti del gruppo avversario.
Considera così rivoluzioni passive del suo tempo il fascismo e il fordismo quali eventi determinati
dall’alto e subiti passivamente dalle masse lavoratrici e popolari, i quali costituiscono dei tentativi
parziali del capitalismo di uscire dalla sua crisi. E paventa che di fronte a tali eventi le masse
rinuncino, almeno per un determinato periodo di tempo, ad assolvere a un ruolo cosciente ed attivo.
Pure il riformismo è da lui considerato una rivoluzione passiva. Ai quesiti “perché i partiti proletari
italiani sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando
dovevano passare dalle parole all’azione?”, egli risponde denunciando l’abdicazione al ruolo che
loro spettava: “Non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, non conoscevano il terreno
in cui avrebbero dovuto dare battaglia”. E quindi spiega che il concetto chiave di “rivoluzione
passiva” compendia la contraddizione principale dell’epoca capitalistica in cui una “produzione di
massa” e una “economia programmatica” hanno oggettivamente e implacabilmente determinato la
morte del vecchio individualismo senza che venissero realizzati i presupposti di una libera
comunità; senza cioè che si creasse un “sistema di vita originale e non di marca americana”.
Un processo, questo, che, come ben sappiamo, ha continuato a perpetuarsi fino ai nostri giorni.
7.5 – Analisi critica del fordismo e superamento dell’economia politica
Molti teorici marxisti dell’epoca di Gramsci dimostrano di non avere una visione organica della
realtà, poiché attribuiscono massima importanza alla base economica e ai rapporti di produzione e
di scambio e sottovalutano il ruolo della sovrastruttura. Caratteristica della cultura politica di quel
tempo è poi anche quella di ritenere che la lotta debba essere necessariamente sempre e comunque
antagonistica e che la contestazione sociale, per essere efficace e per evitare le trappole della
collaborazione di classe, debba consistere nella più aspra critica al sistema nella sua globalità.
Gramsci avversa questi atteggiamenti fino all’estremo, giacché li considera frutto del
massimalismo, mentre richiama l’attenzione sulle mutazioni del capitalismo, insistendo sulla
necessità di costruire segmenti democratici all’interno del suo stesso sistema, tali da aggredire sia i
meccanismi economico-produttivi che la sovrastruttura. Egli sostiene, infatti, che “se l’egemonia è
etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella
funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo… dell’attività economica”.
Verso la metà degli anni venti, egli individua un limite delle forze progressiste nella loro incapacità
di far emergere le contraddizioni che hanno investito il mondo della produzione e del lavoro nel
corso del “biennio rosso”. E fa notare come “la politica è sempre in ritardo”, anzi, “in grande
ritardo sull’economia” e come tra economia e politica si riscontri un’imperdonabile divisione. Di
conseguenza, si sforza di favorire una critica di massa su questa separazione che ai suoi occhi
rappresenta la scissione tra società e Stato, nell’intento di creare in questa maniera i presupposti per
la sconfitta di quel male largamente diffuso nel movimento che è il corporativismo. Suo fermo
convincimento è che questa dissociazione contrappone di fatto l’operaio salariato all’operaio
produttore: mentre il primo si presenta come semplice parte del processo di scambio capitalistico, il
secondo assume potenzialmente il ruolo creatore di un diverso processo produttivo.
In tale ottica, Gramsci si rivela molto critico nei confronti del sindacato il quale, a suo giudizio,
“organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime
capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro”.
I sindacati, sostiene, tendono a creare un utile equilibrio tra lavoro e capitale.
“Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito
rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito
di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica
dell’opportunismo, la pratica ‘del pane e del burro’. L’incremento quantitativo determina un
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impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il
sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, da piccola e media borghesia”. “Il
marxismo – scrive ancora – afferma e dimostra contro il sindacalismo” che un nuovo modo di
produzione non nasce “spontaneamente, ma solo perché i rappresentanti della scienza e della
tecnica, essendo in grado di far ciò per la loro posizione specifica e di classe (gli intellettuali sono
una classe che serve alla borghesia, e non sono tutta una cosa con la classe borghese), sulla base
della scienza borghese costruiscono la scienza proletaria, dallo studio della tecnica quale si è
sviluppata in regime capitalistico arrivano alla conclusione che un ulteriore sviluppo è impossibile,
se il proletariato non prende il potere, non si costituisce in classe dominante”.
Il suo pensiero – come si evince da questa riflessione critica – si sottrae alla visione economicistica
delle forze produttive e attribuisce un ruolo insostituibile alla soggettività della classe lavoratrice,
cioè dei tecnici e degli operai. Si differenzia dalla vulgata comunista del tempo e si proietta su
un’alternativa di sistema che poggia le sue fondamenta su un progetto di trasformazione del modo
di produrre.
Nella tradizione della 3a Internazionale (ma questo vale anche per la 2a) il capitalismo è un sistema
che ha raggiunto il suo apogeo e si avvia all’immobilità e al declino. Contrariando questa tesi, sulla
base di uno studio attento dell’americanismo, e differenziandosi dallo stesso Lenin, che considera il
capitalismo ormai morente, e pure da Bucharin, egli crede in una sua relativa stabilizzazione e mette
in evidenza come quel sistema sia invece destinato a vivere una nuova fioritura, poiché mostra
formidabili capacità di rinnovamento. Sostiene che a morire è solo il vecchio capitalismo,
precisamente il vecchio individualismo economico e culturale, e pertanto avversa coloro che
enfatizzano la crisi dell’industrialismo americano. Nel taylorismo-fordismo egli intravede
un’egemonia tale da consentire al sistema di svolgere un ruolo progressivo dalle dimensioni
storiche.
L’americanismo e il fordismo sono appunto da lui considerati un’espressione della cultura egemone
del centro dell’impero capitalistico, rispetto a quella, genericamente liberista, dominante ancora
nella vecchia Europa.
In “Americanismo e fordismo” sostiene che negli Usa esistono già belle pronte le “condizioni
preliminari, già razionalizzate dallo svolgimento storico” che facilitano la razionalizzazione della
produzione e del processo lavorativo. Il capitalismo americano è il solo che non si trovi di fronte i
limiti rappresentati dai residui sociali, culturali, di modi di produzione precedenti. E mentre
considera il taylorismo una forma di organizzazione dei rapporti sociali e umani, intravede nel
fordismo il punto estremo del tentativo da parte dell’industria di superare la legge tendenziale della
caduta del saggio di profitto. “La legge tendenziale della caduta del profitto – scrive – sarebbe
quindi alla base dell’americanismo, cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei
metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale”. E sottolinea che in
America è lo Stato, e non gli industriali privati, a reggere 
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Vittorio Moioli Incoerenze e “buchi neri” della sinistra vol 2