numero 1
Luglio 2008
Editoriale
Cari Soci,
Vi presentiamo Sine Limite, il giornalino storico del MSOI Roma, nella sua veste completamente nuova sia nella
grafica che nella struttura.
Sine Limite rappresenta sicuramente il risultato di un Anno Sociale intenso ed impegnativo durante il quale il
MSOI Roma ha realizzato progetti ed idee molto importanti e che ha visto non solo una sempre maggiore
adesione al Movimento, ma soprattutto una costante partecipazione alle numerose attività che sono state
pensate e organizzate.
Come Consiglio Direttivo, possiamo ritenerci sicuramente soddisfatti del lavoro svolto in questo anno, durante il
quale ci siamo ritrovati a voler diffondere maggiormente un interesse nei confronti di un movimento
studentesco a vocazione internazionale. E ci siamo indubbiamente riusciti!
Grazie alla SIOI ed al suo sostegno continuo, infatti, abbiamo potuto diffondere il senso del MSOI nelle varie
Università di Roma (La Sapienza, Roma Tre, Luiss, Lumsa), suscitando un notevole interesse tra docenti e
studenti; siamo stati inoltre accolti dalle principali Istituzioni politiche italiane, come il Quirinale, il Senato della
Repubblica, la Camera dei Deputati, ed internazionali, come il WTO; inoltre ci è stata concessa l’opportunità
di partecipare agli eventi organizzati dalla SIOI e la stessa possibilità di realizzare in sede numerose conferenze
su svariati temi concernenti problematiche internazionali.
Tra queste la conferenza su “ I poteri noti e meno noti del Presidente della Repubblica”, con l’autorevole
intervento del Prof. Tito Lucrezio Rizzo (Consigliere Capo Servizio della Presidenza della Repubblica),
continua a pag.2
In questo numero:
Tibet, la questione che
scuote la Cina
Piercarmine Pergamo
“Il desiderio di libertà ancora brucia nel cuore di
ogni tibetano, sia in Tibet che in esilio. È giunto il
momento per gli esuli di dimostrare che, anche
dopo 50 anni, desideriamo ancora tornare nella
madre patria (…) nello spirito dell’insurrezione del
1959.”
Queste sono le parole, l’obiettivo fissato nero su
bianco nel proclama del Tibetan People’s Uprising
Movement.
continua … pag. 3
Il futuro dell'ONU in Somalia
Mario Giuseppe Varrenti
Le immagini dei “peacekeepers” americani
trascinati nella polvere delle strade di Mogadiscio,
così come rievocate nel cinema dal film Black
Hawk Down (Ridley Scott, 2001) rappresentano
ancora oggi un monito per la comunità
internazionale.
continua … pag. 5
 Tibet, la questione che scuote la Cina – Piercarmine
Pergamo – pag. 3
 Il futuro dell'ONU in Somalia – Mario Giuseppe Varrenti
– pag. 5
 KOSOVO – Scenari post “indipendenza” – Edoardo
Morgante – pag. 8
 I Laogai: intervista a Toni Brandi – Eleonora Di Girolamo
& Alessandra Pellino – pag. 10
 Earth Day – Alessandra Pallottelli & Vanna Malatesta –
pag. 11
 World Food Program: un programma alimentare senza
più cibo – Matteo Mirti – pag. 13
 Camera dei Deputati: non solo affari interni –
Alessandra Pallottelli & Deborah Hussain – pag. 15
 Giornata al Senato: la politica estera nel Palazzo
Madama – Silvia Giordano – pag. 16
 Comparazione costituzione algerina e italiana: libertà
religiosa – Antonio Nardelli – pag. 18
 Un vertice “al di là delle aspettative” – Matteo Mirti –
pag. 19
 Seminari in collaborazione con l’Ambasciata USA –
Valerio Romano – pag. 22
SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Editoriale
…continua da pag.1
sulla libertà religiosa in chiave comparata ad un paese islamico come l’Algeria, con la partecipazione
della Prof.ssa Maria Cristina Ivaldi e del Dott. Ahmed Temmar, e ancora sulle prospettive di uno sviluppo
democratico nella Cina moderna, con l’intervento del Prof. Tito Lucrezio Rizzo, del Prof. Paolo Sellari e della
Prof.ssa Valeria Patruno.
Ma il nerbo delle attività del MSOI di quest’anno è stato sicuramente il ciclo di Seminari organizzati con
l’Ambasciata Americana a Roma sul tema della politica interna USA e sui rapporti bilaterali Italia e USA.
In questa occasione il Movimento è riuscito a stabilire una proficua collaborazione con l’Ambasciata
Americana che oltre a decretare il successo di questa attività ci ha permesso di prevedere ulteriori ambiti nei
quali realizzare progetti comuni.
In tutte queste occasioni abbiamo avuto il privilegio di assistere ad interventi di Docenti o di Funzionari di
altissimo livello, di visitare alcune delle principali sedi operanti nell’ambito internazionale ma soprattutto di
acquisire una maggiore consapevolezza di quello che è il mondo delle relazioni Internazionali.
Tutto questo è stato possibile certamente grazie alla rilevanza della SIOI ed al nostro esserne il suo ramo
giovanile, alla passione che noi del Consiglio Direttivo abbiamo destinato nella realizzazione dei vari progetti,
alla partecipazione costante di un soddisfacente numero di soci e all’impegno profuso in particolare da
alcuni di Voi, che hanno reputato stimolante l’adesione ad un’attività alternativa e complementare agli studi
universitari.
È su questa direzione che abbiamo considerato l’idea di dar vita nuovamente al giornalino storico del MSOI,
sulle basi proprio di questo Anno Sociale che ci ha reso manifesto il grande potenziale del Movimento.
Sine Limite è il frutto del vivo interesse che la neo Redazione ha saputo suscitare in molti di Voi, rendendoli
attivi protagonisti del Movimento.
Scrivere un articolo in Sine Limite rappresenta un elemento importante non soltanto per il MSOI, in quanto
vetrina sul Movimento e sulle sue attività, ma anche e soprattutto per gli autori che hanno così avuto
l’opportunità da un lato di cimentarsi nell’attività giornalistica, dall’altro di approfondire gli argomenti di
attualità di maggiore interesse.
In seguito a questo primo nuovo numero auspichiamo certamente una partecipazione sempre più attiva sia
ai prossimi numeri di Sine Limite sia alle attività del MSOI in generale.
Ci teniamo dunque a ringraziare innanzitutto la SIOI, senza la quale il MSOI non esisterebbe e non avrebbe
tale rilevanza, l’intera Redazione, in particolare Matteo, Pietro e Linda, per la loro dedizione nella realizzazione
di tutto questo, e, perché no, tutto il Consiglio Direttivo del MSOI, sparso fisicamente nel mondo ma presente
in ogni caso con il lavoro svolto e il sostegno ai “superstiti” romani.
Il Consiglio Direttivo MSOI Roma
Direzione Sine Limite:
00186 Roma P.zza S. Marco, 51
Sito Internet:
www.msoi.org
E-mail:
[email protected]
Redazione Sine Limite:
Pietro Costanzo, Matteo Mirti,
Eleonora Di Girolamo, Giada Dionisi,
Silvia Giordano, Deborah Hussain ,
Vanna Malatesta, Edoardo
Morgante, Antonio Nardelli,
Alessandra Pallottelli, Alessandra
Pellino, Piercarmine Pergamo, Mario
Giuseppe Varrenti, Valerio Romano.
Impaginazione Grafica:
Linda Baranciuc
Gli articoli pubblicati su questa rivista non rappresentano la posizione ufficiale
del MSOI-SIOI ma sono libera espressione del pensiero degli autori.
Questo giornale è stampato su carta certificata FSC, prodotta nel rispetto di rigorosi
standard ambientali, sociali ed economici.
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SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Tibet, la questione che
scuote la Cina
Piercarmine Pergamo
…continua da pag.1
D’altronde a distanza di tempo il Tibet rimane al
centro di rivolte e proteste.
Iniziati a marzo, i disordini di Lhasa vogliono riportare
con fermezza e decisione la questione tibetana al
centro del dibattito internazionale.
La scelta di iniziare la campagna di proteste il 10
marzo, a 49 anni dalla prima insurrezione, è
anch’esso un tassello della strategia scelta dagli
organizzatori.
Dimostrando oltretutto il fallimento del processo di
sterilizzazione religiosa attuato dalla Cina.
Questa volta, a differenza dei passati episodi di
protesta, come quello storico del 1959 e quello del
1989, le manifestazioni che i tibetani cercano di
mantenere sul piano della non-violenza sono
accompagnate e canalizzate da una straordinaria
copertura mediatica.
Tanto da sorprendere sia le cinque organizzazioni
non governative che affluiscono comunemente nel
Tibetan People’s Uprising Movement, sia i cittadini e
monaci per l’inaspettato e ampio interesse di
stampa e televisioni.
Così le olimpiadi 2008 si trasformano in spettacolare
palcoscenico per il movimento indipendentista
tibetano ed in una impensata insidia per il governo
comunista cinese.
I giochi dovevano anche, secondo l’establishment di
regime riuscire a lavare via le macchie della protesta
degli studenti a piazza Tienanmen dell’89, repressa
sanguinosamente di fronte allo sguardo dell’intera
comunità internazionale.
Il regime, quando fu Pechino, nel 2001, a vincere la
disputa per ospitare i giochi olimpici, aveva
puntato moltissimo sulla modernizzazione di
infrastrutture, sulla ristrutturazione dell’apparato
statale e sul miglioramento della situazione dei diritti
umani.
Al suo interno ha promosso l’apertura, concedendo
di viaggiare all’estero ai propri cittadini e lasciando
ai reporter e giornalisti il libero movimento nel
territorio nazionale,escludendo in un primo
momento il Tibet e il vicino Sichuan, naturalmente.
Pechino però, nelle passate settimane, per tentare
di tener fede agli impegni olimpici sulla libera
circolazione dei giornalisti, ha permesso una “visita
orchestrata” dal governo, per un gruppo di
giornalisti stranieri a Lhasa nel tempio jokhang,
luogo simbolo delle proteste.
Infatti la repressione cinese si è intensificata a
cominciare dal 14 marzo, quando alcune centinaia
di monaci di quel tempio si sono uniti in corteo e
hanno cercato di sfondare il blocco di poliziotti in
tenuta antisommossa.
Quest’opportunità che doveva dare un’immagine
di normalizzazione del Tibet è sfumata tristemente
con la precipitosa incursione di trenta monaci, i
quali hanno urlato frasi in mandarino, per farsi
capire, come “Il Tibet non è libero! Il Tibet non è
libero.”
“Vogliono obbligarci a maledire il Dalai Lama.”
“Il Dalai Lama non è responsabile della violenza.”
Ed inoltre hanno rivelato che dentro il tempio
jokhang le autorità sono riuscite ad infiltrare dei falsi
monaci, gente iscritta al partito comunista, per
usarli come interlocutori dei giornalisti. I religiosi sono
riusciti a smascherare questa sceneggiata per la
stampa estera.
La scorta ufficiale, costretta ad intervenire, ha
immediatamente allontanato il gruppo di reporter
lasciando liberi i reparti della polizia popolare
armata, in tenuta antisommossa, di circondare
nuovamente il tempio e riportare il quartiere in
isolamento totale.
La gigantesca operazione d’immagine tentata da
Hu Jintao per portare la Cina a potenza industriale
e tecnologica, allo stesso livello, insomma, degli
stati occidentali si è rivelata in una sterile ed
infruttuosa apertura che ha costretto il regime
all’usuale repressione del dissenso.
Protesta di monaci
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SINE LIMITE
Tante sono le inadeguatezze delle politiche e gli
errori del governo centrale, che invece di
riprogettare azioni più attente nei confronti
dell’originalità culturale della regione autonoma,
ha messo in atto politiche di restrizione delle libertà
religiose, indottrinamento politico forzato dei
monaci, imposizione dell’abiura del Dalai Lama.
Misure accompagnate da arresti e dure condanne
per i dissidenti, con forte stimolo all’immigrazione
han, etnia maggioritaria, in Tibet. Il contesto di
restrizioni e nequizie cui i tibetani sono costretti non
fa altro che rendere più rovente la situazione e
meno remota l’alternativa del ricorso alla violenza,
che come noto il movimento per l’indipendenza ha
più volte tenuto a precisare di non comprendere
tra gli strumenti di lotta. Il Tibetan People’s Uprising
Movement rimane fedele ad una politica
gandhiana di non violenza. Testimonianza ne è
la”Marcia Verso il Tibet, progetto di enorme peso
simbolico partito il 10 marzo da Dharamsala e
diretta in Tibet attraverso Delhi.
La marcia verso il Tibet
Il Kashag, governo tibetano in esilio nell’India
settentrionale dal 1959, ha in più momenti
dimostrato incertezza sulla posizione da tenere
rispetto alla marcia. Lo stesso Dalai Lama ha
spezzato bruscamente la spinta ideologica
chiedendo il 23 marzo ai 100 marciatori di fermarsi e
non continuare verso il Tibet. L’indecisione delle
posizioni assunte dai rappresentanti del governo in
esilio, che non esitano a condannare azioni
pacifiche come questa rischia solamente di
confondere e dividere i giovani tibetani, e indurli su
posizioni più radicali. Il ricorso a gesti estremi e alla
violenza diverrebbe così di più concreta attuazione.
Non vi è alcun dubbio che i media occidentali
abbiano sfruttato la notevole popolarità di cui
godono, negli ultimi decenni, il Dalai Lama e la
causa tibetana.
numero 1 - Luglio 2008
Se stampa e informazione avessero mantenuto toni
meno enfatici e ostili verso Pechino, come si
sarebbe orientata l’opinione pubblica? Quale
sarebbe il punto di vista degli occidentali in
materia? Nei nostri paesi la questione sarebbe
rimasta, senza dubbio, carica di emotività a causa
dell’enorme sensibilità con cui l’occidente, per i
valori e i principi conquistati storicamente, si pone
dinnanzi
a
questioni
di
indipendenza
e
autodeterminazione dei popoli. La convinzione,
perciò è che anche il dibattito sul boicottaggio
avrebbe mantenuto gli stessi toni.
Per quanto riguarda le posizioni dei paesi
occidentali sul boicottaggio, Usa e Inghilterra non
diserterebbero i giochi rischiando di alterare gli
equilibri diplomatici con un partner economico di
primo rilievo come la Cina. Sia Washington che
Londra hanno quindi confermato la presenza dei
rispettivi capi di stato e di governo all’apertura dei
giochi. Unica per ora ad aver preso in
considerazione la possibilità del boicottaggio della
cerimonia inaugurale, oltre che qualche paese
dell’est Europa, è la Francia. Sarkozy ha infatti
messo in forse la sua presenza l’8 agosto, data di
inizio delle olimpiadi, mantenendo la linea in
politica estera di non allineamento storico con cui
la Francia da sempre intende discostarsi dalle
posizioni unilaterali d’oltreoceano. Poiché a quell'
epoca la Francia avrà la presidenza di turno dell'
Unione
europea,
un'assenza
di
Sarkozy
diventerebbe un gesto simbolo di distanza a nome
di tutta l' Europa. Posizione un po’ azzardata.
Tenendo presente che non ci sono governi disposti
a sostenere in maniera convinta l’indipendenza del
Tibet, sembrerebbe di si. L’auspicio è che
trovandosi a discutere sulla possibilità di
boicottaggio, i paesi membri valutino seriamente se
e quanto gioverebbe tutto ciò a cinesi e tibetani
essendo
di
rilevanza
fondamentale
per
l’interruzione delle violenze l’apertura del dialogo e
la comprensione tra le parti.
Monaco arrestato
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SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Il futuro dell'ONU
in Somalia
Mario Giuseppe Varrenti
…continua da pag.1
Alle prime luci del 3 Ottobre 1993, il comando
statunitense lanciò un raid segreto allo scopo di
eliminare il generale Muhammad Farrah Aideed,
uno dei signori della guerra tra i maggiori
protagonisti della lotta fra bande in cui il paese era
da due anni sprofondato. L’attacco fallì costando
la vita a diciotto uomini; due elicotteri MH-60 Black
Hawk vennero abbattuti, diventando il simbolo ed il
nome con cui l’episodio verrà in seguito ricordato,
in un libro nel 1999, come già accennato in un film
nel 2001, persino in un videogame nel 2003, ma
soprattutto nei circoli di politica internazionale. Uno
spettro che a distanza di quindici anni ancora
aleggia sull’eventuale ritorno di caschi blu in
Somalia, ipotesi da qualche tempo al vaglio del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Somalia, uno stato fallito
La Somalia è quello che viene comunemente
definito uno “stato fallito”, una delle maggiori
minacce alla sicurezza internazionale dei nostri
giorni.
La
disintegrazione
delle
strutture
statali
fondamentali riporta la società ad uno stato che
ricorda quello di natura hobbesiano, in cui nessuna
autorità detiene più il legittimo monopolio della
forza fisica sul territorio, in cui scompare ogni forma
di implementazione della legge e la normale
attività economica va al collasso, in una tale
situazione il clan diventa l’unica struttura capace di
provvedere a forme di sicurezza, e gli individui in
esso cercano protezione.
L’insicurezza è direttamente accompagnata da
fenomeni di violenza e violazione dei diritti umani.
Il collasso dello stato somalo si consumò nei primi
anni ’90.
Con la fine della guerra fredda e il venir meno delle
logiche bipolari venne meno anche il sostegno
esterno al governo di Said Barre, rimosso nel 1991. Il
paese precipitò allora in una feroce lotta tra clan e
bande rivali che fece impallidire la comunità
internazionale.
L’attività
di
aiuto
umanitario
condotta
dall’operazione di peacekeeping UNOSOM I era
resa impossibile dalla violenza della lotta civile.
Spinto dagli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza,
autorizzò allora una operazione di peace
enforcement sotto il Capitolo VII della Carta
(Operazione UNITAF).
L’amministrazione Clinton, spinta da un’opinione
pubblica indignata, decise il ritiro. Francia, Belgio e
Svezia fecero lo stesso di lì a poco. Nel Maggio
1995, UNOSOM II veniva ufficialmente estinta. Le
Nazioni Unite, e lo strumento del peacekeeping,
che nei primi anni ’90 era stato rivitalizzato
dall’attività del Segretario Generale Ghali, subirono
uno smacco senza pari. Nella prima metà degli
anni ’90, oltre al fallimento in Somalia, i massacri in
Bosnia e il genocidio in Rwanda contribuirono a
gettare
ampio
discredito
sull’organizzazione
mondiale. Il 5 Ottobre 1993, appena due giorni
dopo Black Hawk Down, i rappresentanti del
Consiglio di Sicurezza si sarebbero seduti al tavolo
per discutere della situazione in Rwanda, dove
allarmanti segnali di deterioramento facevano
profilare la necessità di un dispiegamento di caschi
blu. Durante le trattative, traumatizzata dei fatti in
Somalia, la delegazione americana arrivò a
proporre l’invio di un’iniqua forza di appena cento
uomini, a fronte della richiesta del Segretariato di
ben 8.000 unità. Un compromesso fu trovato in
2.500 peacekeepers che, come il volgere degli
eventi dimostrò, non bastarono a prevenire uno dei
più terribili massacri della nostra generazione.
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SINE LIMITE
L’intero istituto del peacekeeping si atrofizzò. Dal
1995 al 1998, il numero di caschi blu nel mondo
sarebbe sceso da oltre 70.000 ad appena 10.000
unità. La riluttanza a porre i propri uomini sotto
comando ONU sarebbe stata sentita negli anni a
venire. Ancora oggi tutti questi ricordi pesano a
sfavore di un ritorno dell’ONU a Mogadiscio.
In seguito allo smantellamento di UNOSOM II, la
Somalia fu lasciata a se stessa. Dal 1991 ci sono stati
quattordici tentativi di creare un governo. Il
governo federale di transizione, quello attualmente
in
carica
e
riconosciuto
dalla
comunità
internazionale, fu costituito nel 2004 in Kenya.
Nel 2005 il governo si insediò a Baidoa, nel sud della
Somalia. Il suo esercizio del potere sul paese è stato
blando. Il territorio compreso nello stato somalo del
1991 è ora diviso in quattro entità, il Somaliland,
dichiaratosi indipendente nel 1991, il Puntland ed il
Galmudug che hanno proclamato l’autonomia
rispettivamente nel 1998 e nel 2007, e la regione del
sud, comprendente la capitale Mogadiscio. Qui,
nell’estate del 2006, imponendosi sui signori della
guerra e sul governo di transizione di Yusuf
(originario del Puntland), il partito Shabaab costituì il
governo delle Corti Islamiche. Gli Stati Uniti
lanciarono prontamente l’allarme e premettero per
l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ad un
intervento dell’alleato etiope. Nonostante le
perplessità dell’UE e dello stesso Segretariato ONU,
l’esercito di Addis Abeba entrò nella vicina Somalia
e nel giro di qualche mese rovesciò il governo delle
Corti Islamiche (Dicembre 2006).
Dal Febbraio 2007 l’esercito etiope batte la
bandiera dell’Unione Africana all’interno di una
forza di peacekeeping che ancora oggi stenta ad
assumere un carattere multinazionale. Sebbene
anche Nigeria, Malawi e Ghana abbiano promesso
supporto, per ora agli etiopi si sono aggiunti
soltanto unità dal Burundi e dall’Uganda.
Il parlamento somalo è al momento svuotato, il
governo federale di transizione non può fare a
meno del sostegno dell’esercito etiope. I signori
della guerra, sui quali le Corti Islamiche avevano
saputo imporsi, sono tornati a fare da padroni. La
Somalia è frequentemente teatro di sequestri (tra
cui anche il caso di due Italiani il 21 Maggio 2008),
negli ultimi tempi si è anche assistito alla ricomparsa
di fenomeni di pirateria (tra i più recenti il caso del
peschereccio spagnolo Playa de Bakio, assalito il 22
Aprile 2008) e, nel contesto della recente crisi
alimentare mondiale, di violente manifestazioni per
la decisione da parte dei commercianti di
accettare solo il dollaro e non più lo svalutato
scellino somalo. La FAO ha osservato che la crisi
alimentare potrebbe produrre un pericoloso
deterioramento della situazione umanitaria nel
paese.
numero 1 - Luglio 2008
L’agenda americana
Accanto all’Etiopia, sono gli Stati Uniti ad avere
consistenti interessi in gioco in Somalia. Il
radicalismo islamico è forte nel paese che secondo
alcuni avrebbe ospitato persino Osama Bin Laden.
La strategia americana poggia su due elementi: in
primo luogo il supporto incondizionato all’Etiopia, in
secondo luogo gli attacchi sporadici contro i quadri
somali di Al Quaeda. L’ultimo il 1 Maggio 2008,
quando un raid aereo ha portato all’uccisione di
Aden Hashi Ayro, militante islamico addestrato in
Afghanistan. Lo Shabaab, l’ala militare delle Corti
Islamiche, radicato nella società somala e forte di
un estesa rete di collegamenti, è stato in Marzo
inserito nella lista nera USA delle organizzazioni
terroristiche, causando per reazione una ondata di
violenze e sequestri.
L’atteggiamento americano verso il Corno d’Africa
differisce oggi rispetto a quello dei primi anni ’90.
Mentre l’operazione UNITAF, altrimenti conosciuta
come Restore Hope, poteva rientrare nella dottrina
dell’interventismo umanitario, la politica verso la
Somalia oggi rientra decisamente nella logica della
guerra al terrorismo, con tutte le limitazioni che
questo approccio implica. L’intervento etiope e gli
attacchi americani hanno certo portato a
conseguire dei successi di breve termine, la caduta
delle Corti e l’eliminazione di presunti vertici del
terrorismo, ma non lasciano aperti spiragli di luce
per il lungo periodo. Secondo Foreign Affairs, quello
americano sarebbe un “approccio erratico e
miope”, “la decisione di autorizzare l’intervento
etiope senza una più larga strategia politica è stato
un errore impressionante” che ha lasciato gli
americani in una situazione spinosa. Non sono in
pochi a comparare la presenza etiope in Somalia
con quella americana in Iraq, in entrambe i casi
non si intravede una strategia di uscita nel breve
termine, in entrambe i casi i governi sembrano nella
necessità di dover allargare il loro appoggio, quello
di transizione in Somalia verso gli islamici moderati e
il clan Hawiye.
A ciò tuttavia si aggiunge un elemento di differenza
che rende la situazione in Somalia ancora più
allarmante, il timore di una escalation regionale. La
Somalia ha già rappresentato teatro di scontro tra
Asmara ed Addis Abeba, l’Eritrea ha rifornito
militarmente sia le Corti Islamiche che l’ONFL
(Fronte Nazionale di Liberazione dell’Ogaden) e
l’OLF (Fronte di Liberazione Oromo), due gruppi che
combattono per l’indipendenza dall’Etiopia. Si è
trattato di uno scontro per procura che lancia
allarmanti presagi sul futuro equilibrio della regione.
Altra differenza è il ruolo importante giocato ora
dall’Unione Africana, e probabilmente in futuro
dall’ONU.
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SINE LIMITE
Il ritorno dell’ONU
Il governo federale di transizione di Yusuf ha
ripetutamente richiesto l’intervento delle Nazioni
Unite. Nell’Agosto 2007 il Consiglio di Sicurezza ha
richiesto a Ban Ki-moon di preparare un rapporto
sulla praticabilità di una operazione di pace. La
richiesta ha incontrato le riserve del Segretario
Generale, che si sarebbe tuttavia dichiarato pronto
a
raccomandare
la
presenza
di
27.000
peacekeepers come uno dei possibili scenari per il
rafforzamento della presenza ONU in Somalia. Una
prospettiva che comunque appare di difficile
attuabilità, si pensi che la più grande operazione di
peacekeeping dell’ONU conta 17.000 uomini
(MONUC nella Repubblica Democratica del
Congo). Inoltre, per via del previsto dispiegamento
in Ciad e Repubblica Centrale Africana, il
peacekeeping in Africa è già a corto di 20.000
uomini.
A Febbraio era stato richiesto al Consiglio di
valutare la questione della Somalia, questo aveva
però allora deciso di rimandare ogni decisione ed
estendere di altri sei mesi il mandato della missione
dell’Unione Africana.
Un altro pronunciamento a favore di un ritorno
dell’ONU in Somalia è venuto dall’Ambasciatore
sudafricano presso le Nazioni Unite, Dumisani
Kumalo. Egli ha dichiarato che la Carta parla di
mantenere la pace e la sicurezza ovunque, senza
dire “con eccezione della Somalia”. Ricordiamo
che all’interno dell’Unione Africana, il Sudafrica ha
una posizione tutt’altro che marginale.
Pesa comunque sulle prospettive dell’ONU il fatto
che la Somalia non è ancora un paese pacificato,
gli scontri sono frequenti, e le intenzioni dei militanti
verso le forze straniere per nulla rassicuranti. L’ultimo
episodio risale a fine Maggio, quando un
contingente di peacekeepers Ugandesi è stato
attaccato a Mogadiscio. Le Corti Islamiche già nel
2006 avevano dichiarato di essere pronte a
combattere ad ogni costo l’eventuale “invasione di
peacekeepers ONU”.
Nelle ultime settimane di Maggio la Gran Bretagna
aveva fatto girare una bozza in cui si invitava il
Consiglio ad accogliere il rapporto di Ban Ki Moon
sulla preparazione di una forza per sostituire
AMISOM con una missione ONU. La bozza
raccomandava inoltre di spostare il comando della
missione di monitoraggio ONU da Nairobi a
Mogadiscio.
Rimane tuttavia il diffuso scetticismo sulle possibilità
di poter lanciare una operazione prima di avere
assicurato un percorso di pacificazione al paese.
Come già accennato, una soluzione in tal senso
potrebbe essere quella di un accordo tra il governo
federale di transizione e gli islamisti moderati, e dei
segnali ci sono stati.
numero 1 - Luglio 2008
Lo scorso anno, il presidente del governo federale
provvisorio Yusuf, ottenne il passaggio di un
emendamento che avrebbe permesso anche ai
non esponenti del parlamento di poter entrare nel
gabinetto di governo. Nel Novembre 2007, Nur
Adde, ex poliziotto e capo della Mezzaluna Rossa
Somala, è stato scelto per il posto di primo ministro.
La sua disponibilità di apertura al dialogo ed il suo
passato fuori dalla politica potrebbero costituire
una valida carta per le sorti del governo federale di
transizione.
Lunedì 2 Giugno, i diplomatici del Consiglio di
Sicurezza hanno organizzato un incontro tra il
presidente somalo Yusuf e alcuni esponenti dei clan
somali. Sebbene gli estremisti dello Shabaab
abbiano rifiutato di partecipare all’incontro tenuto
a Gibuti fintantoché l’esercito etiope non avrebbe
lasciato la Somalia, il meeting può costituire un
primo passo verso un accordo. Determinante in
questo senso sarà anche la pressione su Yusuf
dell’Etiopia, in un certo senso desiderosa di
disimpegnarsi, e a sua volta l’influenza che su
questa hanno gli Stati Uniti.
Anche la Francia ha recentemente svolto un ruolo
attivo nella questione somala. Il 2 Giugno il
Consiglio di Sicurezza ha approvato una risoluzione,
su iniziativa appunto franco-americana, che, in
accordo col governo federale di transizione,
permette alle navi da guerra di reprimere i
fenomeni di pirateria fin dentro le acque territoriali
somale. La proposta di risoluzione ha seguito la
firma, all’inizio di Maggio durante una visita a Parigi,
di un accordo tra il presidente Yusuf e Sacopex,
una società militare privata francese, per la
fornitura nell’arco di 36 mesi di assistenza in diversi
settori, tra cui la creazione di una unità di guardia
costiera, il rafforzamento del sistema di dogane
marittime, il rafforzamento e la preparazione della
guardia presidenziale.
La crisi alimentare
Da non dimenticare che al quadro generale della
situazione in Somalia si aggiungono gli effetti
deteriori della recente crisi alimentare mondiale.
Una priorità cogente per la comunità internazionale
è quella di approntare dei mezzi rapidi per
sostenere l’emergenza. La FAO stima che con un
aumento del 375% dei prezzi dei cereali, 2,6 milioni
di somali, un terzo dell’intera popolazione ed il 40%
in più rispetto a Gennaio, hanno ora bisogno di
assistenza. Ed i primi ad essere colpiti sono sempre i
più poveri. Non avendo risorse sufficienti per
sfamarsi, i più indigenti sarebbero già stati costretti
a vendere i beni più essenziali, aumentando in
modo esponenziale le probabilità di una crisi
umanitaria. Prospettiva questa che potrebbe
vanificare ogni dialogo politico attualmente in
corso.
FOTO
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SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Kosovo
Scenari post “indipendenza”
Edoardo Morgante
Il 17 febbraio il Primo Ministro Hashim Thaçi dichiara
unilateralmente, al centro dei Balcani,
l’indipendenza di una regione poco più grande del
Molise, in cui operano 16 mila militari della KFOR (di
cui più di 2500 italiani) sotto mandato NATO, ciò
che resta della UNMIK e le neo-costituite ICO ed
EULEX, a guida UE.
Dichiara, dunque, l’indipendenza di uno Stato che
indipendente, di fatto, non è.
E che, considerando il contesto alla luce delle
ragioni che lo hanno reso tale, necessariamente
non sarà, almeno entro breve termine.
Alcune conseguenze rilevanti.
senza considerare i mille contrasti sorti all’indomani
dell’indipendenza degli stati africani dagli imperi
coloniali a causa dell’assurdo metodo adottato per
definirne i confini: a tavolino seguendo meridiani e
paralleli… né le mille contraddizioni, di ancor più
remota origine, insite nell’essenza stessa dell’idea di
Nazione, e che interessano ancor oggi alcuni Stati
europei, tra cui l’Italia.
Nonostante questa reazione mostri, con estrema
eloquenza, numerose possibilità di confronto, in
molti si sono, più volte, riferiti all’indipendenza del
Kosovo come ad un fatto sui generis.
Pristina (Kosovo), 17 febbraio. Festeggiamenti in seguito
all’annuncio pubblico dell’indipendenza
Pristina (Kosovo), 17 febbraio. Fatmir Sejdiu (Presidente del
Kosovo) firma la dichiarazione d’indipendenza sotto lo
sguardo di Jakup Krasniqi (Presidente del Parlamento) e di
Hashim Thaci (Primo Ministro)
Il Kosovo “indipendente e democratico”, de iure, non
esiste per tutti.
Ad un mese dalla proclamazione della nascita dello
Stato kosovaro, i Paesi che ne hanno riconosciuto
l’esistenza sono 29, di cui 18 europei, con assenze
significative: Russia, Spagna, Cipro, Israele, Cina,
India, Giappone, gli stati confinanti eccetto l'Albania.
Tra questi, alcuni sono spinti da “ragioni di ordine
interno”, ossia dall’illusione di scongiurare, o almeno
limitare, ripercussioni che la semi-legalizzazione
internazionale
dell’
auto
proclamazione
d’indipendenza potrebbe provocare all’interno dei
loro confini, dal momento che comprendono
minoranze etniche che non si identificano con
l’entità statale sovrana. E’ il caso dei baschi in
Spagna, dei turchi di Cipro, dei palestinesi in Israele,
dei magiari in Romania, dei taiwanesi e dei tibetani in
Cina, dei saharawi negli Stati settentrionali del
continente africano, dei tamil in India…
Il Kosovo, come il resto dei Balcani centrali, è una
regione molto povera, sia di risorse che di
infrastrutture,
la
cui
unica
speranza
di
sopravvivenza economica è legata al commercio
internazionale. Tuttavia, risulta importantissimo per
altre ragioni: è uno degli snodi principali delle rotte
dei traffici dell’eroina, delle armi e degli esseri
umani (donne e minori).
Mitrovica (Kosovo settentrionale), 17 marzo.
Attacchi contro forze ONU da parte di estremisti serbi ad
un mese dalla proclamazione d’indipendenza
8
SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Molte delle paure che hanno alimentato il dibattito
italiano sul Kosovo all’indomani dell’indipendenza
sono legate ai vantaggi che le mafie trarranno
dalla crisi di potere così innescata, che
inevitabilmente interesserà sia gli ambiti istituzionali
kosovari, con il riciclaggio di ex guerriglieri, terroristi
e corrotti di ogni genere, sia il rapporto
giurisdizionale tra questi e le missioni internazionali
operanti sul territorio, pur avendo, il nuovo Stato,
dichiarato di accettare il mantenimento della forza
militare e della missione civile internazionale
accordata a Kumanovo.
La costituzione di un secondo Stato di etnia
albanese, per giunta adiacente al primo,
rappresenta un elemento non irrilevante nella
prospettiva, piuttosto controversa, della sintesi di un
unico grande Stato albanese che comprenda tutti i
territori balcanici a maggioranza etnica albanese
distribuiti, oltre che nella Valle di Presevo, ancora
sotto il governo di Belgrado, in Montenegro
(provincia di Podgorica), in Macedonia (provincia
di Skopje) e in alcune zone della Grecia nordoccidentale.
La “Grande Albania” sembra a molti tecnici della
geopolitica una possibilità piuttosto remota,
soprattutto data la debolezza dello Stato che
dovrebbe guidare il processo. Una debolezza
messa prevedibilmente a nudo dalle prese di
posizione, nette, assunte dagli Usa e dalla Russia
riguardo l’indipendenza di Pristina.
Gli USA riconoscono il nuovo Stato.
E’ stato scritto che gli USA hanno sfruttato con
tempismo l’occasione d’oro per lavarsi le mani
dalla polvere balcanica, o che da tempo si stessero
muovendo per realizzare quella che ritengono
essere la migliore soluzione possibile al problema
Kosovo: nei fatti, si è verificata una coincidenza tra
uno dei più naturali sviluppi possibili e il silenzioassenso della Superpotenza, per la quale una
definitiva stabilizzazione geopolitica dell’area e una
maggiore integrazione europea rappresentano più
una minaccia che un improbabile passo verso un
mondo migliore.
La Russia, invece, si rivolge alla Serbia con profonda
partecipazione emotiva.
Non è un segreto che Mosca stia cercando di
riavvicinare un’area da tempo perduta, a cui oggi
anche l’UE guarda con crescente interesse,
facendo leva, più che su simpatie ormai
anacronistiche, sulle antipatie verso gli USA,
radicate in anni di pressioni e guerre, e ancora
diffuse, in primo luogo, tra i serbi. L’indipendenza
del Kosovo costituisce, senz’altro, una ghiotta
occasione per farsi un po’ di pubblicità e strappare
qualche accordo da una posizione di vantaggio.
Accordi fondamentali per la realizzazione di
progetti, legati all’evoluzione dell’area, di interesse
strategico primario per il Cremino. La posta in gioco
è molto alta: bypassare definitivamente l’Ucraina
con il gasdotto South Stream russo-bulgaro-serboungarico, realizzato da Gazprom e associati;
controllare l’intero business downstream dei Balcani
attraverso la messa a frutto delle opportunità di
marketing e asset strategici offerte dallo sviluppo
dell’oleodotto Costanza-Pancevo-Omisalj-TriesteGenova, di cui Gazpromneft controlla il tratto
centrale serbo-bosniaco, e del bypass “ortodosso”
russo-bulgaro-greco,
risultato
dell’opera
di
penetrazione a tutto campo condotta da Lukoil;
contrastare l’adesione della Georgia alla NATO.
Dall’autonomia all’intervento NATO
Nel 1981, un anno dopo la morte di Tito, il Kosovo
rivendica lo status di Repubblica autonoma sulla base
della Costituzione della Federazione Jugoslava del 1974
che lo definiva provincia autonoma della Repubblica
Serba. Nel 1989 Milosevic ne modifica il contenuto
abolendo l’autonomia della regione. Nel marzo del
1990 divampa, coinvolgendo l’intera Federazione, una
devastante guerra civile che termina solo nel
novembre del 1995 con l’Accordo di Dayton, che
tuttavia
non
affronta
il
problema
kosovaro.
Conseguenza di questa indifferenza da parte della
Comunità Internazionale è la costituzione, nel 1996
dell’UCK: un’organizzazione di guerriglieri albanesi che
si trasforma, in breve tempo, in movimento di
liberazione nazionale. Nel 1997 si moltiplicano gli scontri
tra UCK e nazionalisti serbi, che culminano nel gennaio
1999 col massacro di Racak. In seguito al fallimento del
negoziato-ultimatum di Rambouillet, febbraio 1999, la
NATO decide l’intervento militare, in via autonoma
rispetto all’ONU, con lo scopo formale di porre fine alle
gravi violazioni dei diritti umani commesse dal Governo
Milosevic. Con l’accordo di Kumanovo, giugno 1999,
Milosevic accetta l’introduzione di una forza militare e
di una missione civile internazionale nel Kosovo.
9
SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
I LAOGAI: INTERVISTA A
TONI BRANDI
Eleonora Di Girolamo & Alessandra Pellino
Nel seguente articolo ci occuperemo della
violazione dei diritti umani relativamente allo
sfruttamento della forza lavoro, focalizzando
l’attenzione sui Laogai cinesi. In proposito abbiamo
intervistato il dottor Toni Brandi, Presidente della
Laogai
Research
Foundation
Onlus
Italia,
organizzazione
impegnata
nella
diffusione
dell’informazione sui Laogai. Quest’anno ha curato
insieme
con
Maria
Vittoria
Cattanìa
la
pubblicazione del libro Cina. Traffici di morte,
dell’edizione Guerini e Associati. In occasione di un
suo breve soggiorno in Italia, lo abbiamo raggiunto
nell’abitazione di Roma, il 15 maggio scorso.
Nell’intervista si fa luce su un fenomeno sconosciuto
alla maggior parte dell’opinione pubblica.
D: Dottor Brandi, cosa sono i Laogai?
R: la parola Laogai è una sigla ricavata da
LAODONG GAIZAO DUI e significa riforma
attraverso il lavoro, vennero inaugurati nel 1950 da
Mao Zedong sul modello staliniano dei GU-LAG.
Attualmente i Laogai sono più di mille, non se ne
conosce il numero preciso perché coperto dal
segreto di stato, così come il numero dei detenuti e
delle esecuzioni. La funzione dei Laogai è duplice:
fornire forza lavoro a costo zero, e ciò si spiega
dalle terribili condizioni di vita nei campi e
dall’orario estenuante di lavoro che arriva sino a 16
ore al giorno, ed inoltre c’è l’indottrinamento
politico e l’autocritica.
D: Di cosa si occupa la Laogai Research Foundation
e chi è Harry Wu?
R: La Laogai Reserach Foundation originale è stata
fondata nel 1992 da Harry Wu a Washington e
ricerca e diffonde notizie sulle violazioni dei diritti
umani in Cina. Harry Wu è stato imprigionato per 19
anni in dieci diversi Laogai. Una volta rilasciato, nel
febbraio del 1979, è riuscito, grazie all’aiuto della
sorella e ad un Professore dell’Univesità di Barkeley
in California, ad ottenere nel 1985 il visto per gli Stati
Uniti, dove emigrò successivamente. All’inizio non
ha voluto ricordare quanto successo, poi si è reso
conto di dover denunciare in Occidente quello che
accadeva in Cina.
D: Quando ha conosciuto Harry Wu e ha deciso di
impegnarsi in questa battaglia?
R: Ho conosciuto Harry Wu nel 2005 e, insieme ad
altri italiani, abbiamo deciso di fondare la Laogai
Research Foundation Italia Onlus con lo scopo di
denunciare la tragedia dei Laogai. curato da noi
nell’edizione italiana.
La Laogai Research Foundation ha pubblicato diversi
libri in inglese sulla politica del figlio unico in Cina e un
altro intitolato The Communist Charity, quest’ultimo
D: Qual è la sede in Italia?
R: La sede legale è la mia vecchia casa dei Parioli a
Roma, attualmente siamo in tre o quattro,
principalmente due, che giriamo l’Italia per fare
conferenze, con circa 150 giornalisti che ci seguono
e in totale 400 persone che collaborano con noi.
D: Qual è il vostro strumento di diffusione
dell’informazione?
R: Ovviamente Internet.
D: Come reperite le vostre risorse?
R: Per il 95% provengono da me e per il restante 5%
da donazioni di privati.
D:
I
Laogai,
elemento
della
macchina
propagandistica cinese e funzionali all’economia
nazionale: chi trae vantaggio da tutto ciò?
R: Il regime comunista cinese e le grandi
multinazionali
occidentali
che
investono
e
producono in Cina.
D: Secondo Lei, nel XXI secolo, in una Cina che si è
aperta già da tempo al capitalismo e che si sta
rapidamente modernizzando, è ancora necessario
avere dei campi di rieducazione ideologica?
R: L’obiettivo dei Laogai è cambiare le persone in
persone socialiste. Nei Laogai sono rinchiusi oltre ai
criminali comuni anche i dissidenti religiosi e politici. I
detenuti devono, ogni giorno dopo l’orario di lavoro,
frequentare delle lezioni di studio finalizzate a
riformare la personalità.
D: Nell’Handbook sui Laogai del 2003-2004, edito
dalla Laogai Research Foundation di Washington, si
parla di Jiuye, forced job placement, in cosa
consiste?
R: Al termine del periodo di detenzione, qualora
l’impresa
necessiti
di
forza
lavoro,
amministrativamente
e
senza
dare
alcuna
giustificazione, la pena può essere prorogata di altri
due o tre anni.
10
SINE LIMITE
D: La stampa internazionale e le altre organizzazioni
umanitarie quale posizione stanno assumendo?
R: Amnesty International, Human Rights Watch e altre
organizzazioni
umanitarie
internazionali
hanno
condannato il sistema dei Laogai, così come nel
febbraio del 2005 è stato pubblicato un rapporto del
gruppo di lavoro dell’Onu sull’imprigionamento
illegale e il Comitato dei Diritti Sociali ed Economici
delle Nazioni Unite ha chiesto l’abolizione del lavoro
forzato.
D: L’Unione Europea e l’Italia come si stanno
comportando?
R: Devo riconoscere che il Presidente del Parlamento
Europeo, Pöttering, si sta mostrando molto sensibile al
riguardo, ma il vero problema è che chi prende le
decisioni è l’organo esecutivo, la Commissione
europea. In Italia, invece, sono state presentate
diverse interpellanze parlamentari, in una di queste,
datata 27 novembre 2006, si chiedeva al governo
italiano di intraprendere ogni sforzo affinché la
legislazione sul lavoro in Cina si adegui rapidamente
agli standards internazionali, considerando che la
Cina è parte dell’ILO; il 30 ottobre 2007 sono passate
in Parlamento tre mozioni contro i Laogai, presentate
rispettivamente da Ulivo, Udc e An.
numero 1 - Luglio 2008
D: Il boicottaggio, secondo Lei, è l’unica arma che
abbiamo a disposizione?
R: La Cina dipende da noi, i vertici dell’economia
mondiale, se solo volessero, potrebbero fare
qualcosa, semplicemente impedendo gli scambi con
un paese che non rispetta le clausole sociali e
ambientali contenute nei trattati che essa stessa ha
firmato, ma non ha ratificato.
D: Il singolo cittadino cosa può fare?
R: Può fare poco e niente, oltre al problema di non
riuscire a distinguere un prodotto realizzato nel
rispetto di tutte le normative vigenti dagli altri,
l’impossibilità è data dai costi: chi non ha grandi
disponibilità si orienta sempre verso la scelta di un
prodotto di basso costo. Ripeto è una questione
essenzialmente politica. Oggi la politica è nelle mani
della finanza, abbiamo bisogno di gente onesta e
pulita.
D: Per concludere, quali sono le sue aspettative e
considerazioni future sulla tematica Laogai?
R: Confido in voi giovani che potete cambiare la
storia perché occorre mandare avanti una classe
politica che mantenga le promesse fatte; spero che
scriviate un bell’articolo, non arrendetevi!
Earth Day: una giornata per
non dimenticare il nostro
pianeta
Riflessioni sulle politiche ambientali
USA e UE
Alessandra Pallottelli & Vanna Malatesta
D: E’ possibile distinguere un prodotto fabbricato nei
Laogai da uno proveniente da una qualsiasi industria
cinese?
R: No, non è possibile perché ogni Laogai ha due
nomi di modo che risulta impossibile identificare la
provenienza del prodotto. Manca, inoltre, la volontà
politica di fare qualcosa, di introdurre delle normative
che impediscano fraintendimenti sull’etichettatura
del prodotto ( ad esempio: il marchio CE
corrispondente a Comunità Europea viene utilizzato
in modo analogo per intendere China Export).
D: E’ possibile parlare di un’etica nel commercio?
R: Purtroppo è difficile parlare di un’etica nel
commercio, posto che ogni decisione è subordinata
alla ricerca del profitto. A livello internazionale, ad
esempio, non si adottano norme che proibiscano la
commercializzazione di prodotti realizzati con il lavoro
forzato, al fine di evitare nuove forme di
protezionismo.
Il 22 aprile si e’
celebrato l’Earth Day,
la giornata mondiale
della Terra. E’ un
appuntamento a cui
gli ambientalisti di
tutto il Mondo non
rinunciano
dal
lontano
1970,
quando,
come
reazione al disastro
petrolifero che colpì
la costa di Santa Barbara, il senatore Nelson
organizzò una manifestazione a cui parteciparono
20 milioni di americani.
Quale miglior modo di onorare questa ricorrenza se
non discutendo di politica ambientale con due
esperti del settore? Noi soci MSOI abbiamo avuto la
fortuna di incontrare il professor William Andrew
Blomquist (Dipartimento di Scienze Politiche
dell’Indiana University-Purdue University) e il
professor Raffaele Cadin (Scienze
Politiche
11
SINE LIMITE
dell’Università La Sapienza di Roma) presso
l’Ambasciata USA in Italia. I temi affrontati dai due
relatori sono stati l’evoluzione della politica
ambientale statunitense, e le scelte adottate in
materia dall’UE.
Negli Stati Uniti, fino agli anni settanta, l’interesse
verso la tutela del Pianeta e verso le problematiche
legate all’inquinamento era pressoché inesistente,
sia a livello di opinione pubblica che a livello di
legislazione federale.
E’ pur vero che il primo parco Nazionale della storia
fu quello di Yellowstone (esteso in ben tre
stati:Wyoming, Montana e Idaho) fondato nel 1872,
numero 1 - Luglio 2008
e che l’attuale sistema di aree protette presente
negli USA è il più grande del Mondo (390
unità)…ma ciò non derivava dalla consapevolezza
di una connessione tra attività umana-ambientesalute. In realtà la natura era vista come un
“paesaggio da cartolina”, lontano dall’uomo e
dalla sua quotidianità. Non dimentichiamo che in
quel tempo gli USA si stavano espandendo verso
ovest, incontrando spazi sconfinati e incontaminati,
che meritavano di rimanere tali (basti pensare alle
cascate del Niagara e al deserto del Nevada).
Solo alla fine degli anni sessanta, in seguito a vari
disastri naturali che colpirono zone abitate,
creando gravi rischi per la vita dell’uomo, maturò
una sensibilità verso questi problemi, che sfociò nel
già citato Earth Day. Sull’onda di questo neonato
interesse “ecologista”, il Congresso varò una serie di
provvedimenti volti a salvaguardare l’ambiente:
 NATIONAL ENVIRONMENTAL POLICY ACT
(1970);
 FEDERAL PESTICIDE CONTROL ACT (1972);
 TOXIC SUBSTANCES CONTROL ACT (1974);
 DANGEROUS WILD ANIMALS ACT (1976).
In soli cinque anni fu così creato un corpus
normativo e delle agenzie governative(prima fra
tutte l’EPA-Environmental Protection Agency) per
una materia che riscuoteva sempre più attenzione
da parte del popolo americano. A questa fase di
proliferazione legislativa centrale ne seguì una di
stallo in cui i vari Stati ebbero la possibilità di
adattare i loro sistemi locali (caratteristica ciclica
del sistema federale).
Nel
1997
gli
Stati
Uniti
firmarono
sotto
l’amministrazione Clinton il Protocollo di Kyoto, che
imponeva una riduzione di emissioni di gas serra,
ma non lo ratificarono. Al contrario l’Unione
Europea ne è stata la principale sostenitrice,
battendosi per la ratifica da parte degli stati
12
SINE LIMITE
membri entro il 1 giugno 2002, cosa che poi si è
verificata.
Dal 16 febbraio 2005 il Protocollo è in vigore, ma già
si parla di un Kyoto 2, come emerso dal vertice di
Bali (dicembre 2007).
Le due maggiori critiche avanzate dagli Stati Uniti
sono servite come base negoziale per la
discussione di un nuovo progetto.
Sarebbe necessario allargarne i “confini spaziali”;
come pensare, infatti, di salvare il pianeta senza
l’impegno di paesi emergenti come Cina, India e
Brasile che, con il loro sviluppo economico
impetuoso, arriveranno a produrre nel 2025 la metà
dei gas inquinanti del globo?
Kyoto non prevede nessun obbligo se non per i
paesi da lungo tempo industrializzati.
In conclusione appare chiara la sostenibilità delle
posizioni statunitensi, tuttavia è fondamentale
seguire l’approccio multilaterale, sempre promosso
dall’UE e troppo spesso ostacolato dagli USA.
Sarà compito del nuovo inquilino della Casa
Bianca rivedere le posizioni unilaterali del Paese,
sempre più isolato dopo la ratifica del Protocollo di
Kyoto da parte del governo laburista australiano.
La promessa di un reinserimento degli Stati Uniti nel
sistema internazionale di tutela ambientale,
presente nei programmi elettorali del repubblicano
John McCain, e del democratico Barack Obama,
accende
le
speranze
della
comunità
internazionale.
IMPERATIVO 2008:
RIDUZIONE DEL RISCALDAMENTO GLOBALE.
Con la campagna “Call for climate” l’Earth Day
network invita a telefonare ai propri politici per
sensibilizzarli sull’argomento; la speranza negli Stati
Uniti è arrivare ad un milione di contatti.
Per l’Italia il numero da chiamare è:
06 67601(centralino della Camera).
numero 1 - Luglio 2008
World Food Program: un
programma alimentare senza
più cibo
Matteo Mirti
Il palazzo messo a disposizione dall’Italia per
ospitare la sede del World Food Program risale agli
anni 80 e, seppur inserito in un contesto di uffici
dall’aspetto “importante”, si ha la sensazione
durante il tragitto dalla piccola Stazione delle linee
locali, che si trovi in un contesto “distante” dalla
“Città”.
Così come l’edificio del WFP, anche l’argomento
trattato durante l’incontro organizzato da MSOI
Roma con la portavoce del PAM dott.ssa Vichi De
Marchi, trattava di un problema sempre presente
nei dibattiti internazionali, in particolare in tema di
Cooperazione allo Sviluppo e di Aiuti ai Paesi in Via
di Sviluppo, ma che spesso viene sentito anch’esso
come “distante”.
Tuttavia, le “difficoltà alimentari” suscitano negli
ultimi mesi maggior interesse che in precedenza, a
seguito dei vari rapporti rilasciati dalle varie
Organizzazioni Internazionali interessate, dai quali
emerge come il prezzo dei Prodotti Agricoli sia
Aumentato di circa il doppio nel corso degli ultimi
tre mesi.
Rapporti che si sono concretizzati nella realtà delle
agitazioni popolari che si susseguono in vari paesi
quali la Somalia, dove la situazione alimentare
continua a peggiorare mentre i cruenti scontri a
Mogadiscio costringono mensilmente circa 20.000
persone ad “acquisir cittadinanza” nei campi
profughi. In Kenya si è di fronte ad una crisi
umanitaria che coinvolge più di 500.000 persone
delle quali 207.000 residenti in campi profughi.
13
SINE LIMITE
Situazioni ancor più gravi e per questo già note si
hanno in Sudan, Darfur, Uganda e altri.
In questi Stati i problemi alimentari se non sono
ufficialmente “causati” da “Instabilità Politiche”
sono da esse quantomeno enfatizzati.
Il vulcano Oldogai, che con la sua eruzione ha
provocato
problemi
all’agricoltura
della
Repubblica Unita della Tanzania sembra far
presente, sottovoce, che tempi di “magri raccolti”
sono naturali ma che lo stesso non debba dirsi di
tempi di “magra lungimiranza”.
Tra le cause rilevate e poste all’indice dalle varie
OO.II. maggior incidenza sembrano avere, oltre al
maggior costo del petrolio, altri fattori, per alcuni
versi nuovi, quali:
 La competizione tra produzione per il
consumo alimentare e produzione per le
Bioenergie.
 L’espandersi delle produzioni OGM che, data
la
loro
particolarità
non
vengono
comunemente
prodotte,
commerciate,
accettate come “aiuto”; trasformandosi in un
elemento di disequilibrio del mercato
cerealicolo
 Ulteriore causa addotta è la diversificazione
della dieta in regioni asiatiche densamente
popolate, ciò comporta uno squilibrio tra
domanda e offerta.
 E’
stata
poi
rilevata
l’influenza
dei
cambiamenti climatici verificatisi negli ultimi
20 anni, che hanno acutizzato, e spesso reso
“catastrofici” i momenti di pioggia e di siccità,
con ovvie ripercussioni su quelle agricolture
strettamente legate ai Ritmi della Natura.
 Da ultimo, anche se sottovoce, viene posto
sotto accusa il fenomeno della speculazione
finanziaria.
A fronte di tale situazione il WFP è intervenuto
conformemente al suo ruolo all’interno del sistema
delle OO.II. che si occupano di queste
problematiche, legate alle N.U. , di cui fanno parte
la FAO, e l’ IFAD.
numero 1 - Luglio 2008
Come ci è stato illustrato nell’incontro con la
dott.ssa Vichi de Marchi il WFP interviene in
situazioni di crisi umanitarie, improvvise o durature
che siano, portando un aiuto che concretamente
tende ad affrontare ed ad attenuare l’impatto dei
problemi alimentari sulle popolazione colpite. Da
questo punto di vista, misura del problema in
questione è data dall’aumento di richieste d’aiuto
che il WFP riceve, nonché dalla necessità, per lo
stesso di aumentare le proprie risorse economiche,
risorse che si basano sui contributi dei vari paesi .
Ma non è il solo WFP ad essere coinvolto da tale
problematica.
A vario titolo, con differenti motivazioni ed interessi
nonché con differenti tempi di intervento, sono
coinvolti Governi locali, OO.II., le Forze Sociali
Prevalenti (ovvero i governi delle nazioni
maggiormente) in grado di predisporre Strumenti
idonei ad intervenire sulle cause del problema nel
medio lungo periodo.
Nell’immediato, al fine di attenuare l’impatto sulle
Popolazioni, i locali Governi coinvolti, intervengono
predisponendo le c.d. “Reti di Protezione Sociale“
consistenti in interventi economici a diretto favore
delle popolazioni, nonché in riduzione della
tassazione sull’import dei prodotti cerealicoli.
Come detto il WFP è parte del sistema alimentare
delle Nazioni Unite composto in oltre dalla FAO e
dall’ IFAD. Queste due OO.II. si occupano
rispettivamente di predisporre progetti a lungo
termine miranti allo sviluppo dell’ agricoltura (FAO),
e di offrire supporto economico alle varie OO.II.
coinvolte
nonché,
tramite
la
forma
del
microcredito, ai piccoli agricoltori.
Tuttavia come detto dal Comm. Europeo allo
sviluppo, il belga Louis Michel, “questa non è una
crisi alimentare classica ma di potere d’acquisto
[…] e nel medio e lungo termine è necessario
aumentare l’offerta agricola”.
Per tale ragione WFP, FAO, IFAD, poco possono
fare senza un maggior interessamento dei governi.
14
SINE LIMITE
Camera dei Deputati:
non solo affari interni
Una giornata al Servizio Affari Internazionali alla
scoperta delle relazioni Internazionali del
Parlamento Italiano.
Alesandra Pallottelli & Deborah Hussain
In
occasione
del
Sessantesimo
Anniversario
dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, il
Movimento
Studentesco
per
l’Organizzazione
Internazionale ha promosso una serie di conferenze
nel cuore delle Istituzioni repubblicane. Il 24 aprile
scorso il MSOI con i suoi soci è approdato alla
Camera dei Deputati, ricevuto dai funzionari del
Servizio Affari Internazionali.
Oggetto della discussione era quello di fornire un
ampio quadro sull’attività del Parlamento nel settore
delle Relazioni Internazionali e sulle modalità
d’azione dei suoi organi e uffici. Il dott. Francesco
Posteraro (Vice Segretario Generale della Camera) è
intervenuto per primo evidenziando come negli ultimi
quindici anni le attività di scambio di informazioni,
assistenza e cooperazione della nostra Assemblea
con quelle omologhe dei vari paesi del globo si sono
intensificate, a livello tale da non poter più essere
considerate trascurabili dai cultori della materia.
Infatti, fino ai primi anni Novanta, la Camera era
dotata di un semplice ufficio che si occupava dei
rapporti con l’Unione Europea e delle delegazioni
presso le organizzazioni internazionali più importanti;
con un’evoluzione repentina quel settore non molto
incisivo si è trasformato in una solida struttura
amministrativa di supporto per il Presidente, per le
varie Commissioni e per gli altri organi interni.
Il Parlamento italiano in particolare negli ultimi anni
ha acquisito un peso sempre maggiore forse
comparabile a quello del Parlamento tedesco o del
Congresso americano ed ha contribuito alla
promozione e allo slancio della Conferenza dei
Presidenti dei Parlamenti europei grazie anche al suo
forte supporto amministrativo che ha permesso di
inserire in modo coerente tutti gli organi della
Camera nel settore delle Relazioni Internazionali.
La dott.ssa Cassarino si è poi soffermata sulla
composizione dell’ufficio Relazioni Internazionali.
Vediamo dunque nel dettaglio come si esplica il
sistema delle Relazioni Internazionali svolto dalla
Camera, che non ha preferenze regionali ma
riguarda tutte le aree geopolitiche.
I rapporti bilaterali con le Assemblee legislative di
paesi esteri sono rafforzati e resi stabili da protocolli di
cooperazione bilaterali; quelli firmati finora sono 23.
In attuazione di alcuni di questi protocolli si
costituiscono delle apposite Commissioni formate da
membri di entrambe le Assemblee, che si riuniscono
annualmente per la discussione di temi internazionali
e settoriali.
numero 1 - Luglio 2008
Attualmente sono operative 13 commissioni, di cui
11 create nella XV legislatura.
Sempre svolta bilateralmente è la cooperazione
amministrativa sia con Parlamenti di esperienza
datata, come l’Assemblea Nazionale francese o il
Bundestag tedesco, sia con camere di paesi da
poco affacciatisi alla democrazia,per rafforzare e
rendere efficienti le loro istituzioni rappresentative
(paesi balcanici, dell’Africa, del Medio Oriente,
ecc).
I rapporti multilaterali avvengono mediante
delegazioni presso le assemblee parlamentari
internazionali del Consiglio d’Europa (CdE),
dell’Alleanza Atlantica (NATO), dell’Organizzazione
per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa
(OSCE), dell’Iniziativa Centro Europea (INCE) e
dell’Assemblea parlamentare euro-mediterranea
(APEM). Le delegazioni italiane sono composte da
deputati e senatori designati dai gruppi
parlamentari proporzionalmente ai gruppi stessi
(mediante nomina o elezione) e sono organi delle
relative assemblee internazionali.
Le
assemblee
approvano
risoluzioni,
raccomandazioni e pareri, trasmessi ai parlamenti e
ai governi degli stati membri, affinché adottino
provvedimenti necessari alla loro attuazione.
Va sottolineato che si tratta di un’attività
distaccata e diversa da quella propria della
politica estera,a cui infatti è preposto il suddetto
Ministero e la Commissione Affari Esteri coordinata
con il Governo, essendo il Parlamento un organo
dello Stato indipendente. L’indirizzo da seguire e le
autorizzazioni per tutti gli incontri sono forniti dal
Presidente della Camera, che assicura così
l’uniformità d’azione necessaria. Comunque nella
prassi, le linee guida seguite nelle relazioni con i
parlamenti esteri e con le organizzazioni
internazionali non si discostano da quelle seguite
dalla politica estera governativa.
Gli organi della Camera nei primi due anni hanno
effettuato una media di 600 incontri internazionali
l’anno. Nell’ambito delle relazioni bilaterali si
inseriscono i protocolli di collaborazione bilaterale
che spesso prevedono l’istituzione di commissioni di
gruppi di deputati che svolgono attività di
collaborazione con i paesi stranieri su temi specifici
attraverso il confronto tra le due legislazioni.
I deputati partecipano anche a missioni di
osservazioni elettorali per la promozione della
democrazia e dei diritti umani,in questo ambito
l’OSCE svolge in particolare attività di monitoraggio
elettorale in tutti i paese aderenti fra i quali l’Italia.
Un altro settore importante è quello della
cooperazione euro mediterranea nonché l’ambito
delle conferenze internazionali a cui la camera
partecipa attraverso delegazioni di deputati.
Le delegazioni parlamentari sono in tutto cinque:
Consiglio d’Europa,UEO,NATO,OSCE,INCE.
La loro attività si svolge prevalentemente
nell’emanazione di risoluzioni, raccomandazioni o
15
SINE LIMITE
numero 1 - Luglio 2008
Giornata al Senato:
la politica estera nel
Palazzo Madama
direttive su temi specifici. Il Consiglio d’Europa è
l’organo più importante insieme alla NATO.
Le delegazioni sono organismi bilaterali formate da
18 deputati e 18 senatori e non esauriscono la loro
attività con la legislatura ma solitamente hanno
una proroga di 6 mesi per assicurare una continuità
della rappresentanza italiana nel panorama
internazionale.
La
dott.ssa
Califano
si
è
ulteriormente
soffermata
ad
illustrare
più
dettagliatamente l’attività della NATO dell’OSCE e
dell’INCE.
Periodicamente si svolgono conferenze dei
presidenti di assemblea per la ricerca di soluzioni
condivise a problematiche comuni. Le prossime
conferenze in previsione sono: dell’Unione Europea
(Lisbona
giugno
2008);
delle
Assemblee
parlamentari europee (Strasburgo maggio 2008);
delle Camere basse dei paesi del G8 (Hiroshima
settembre 2008, Roma nel 2009); dei paesi euromediterranei; dei paesi aderenti all’iniziativa
adriatico-ionica (edizione 2008 in Croazia, 2009 in
Italia); Conferenza mondiale dei Presidenti dei
Parlamenti UIP in ambito ONU, che si riunisce ogni 5
anni a New York (la prossima nel settembre 2010).
Inoltre, si svolgono conferenze interparlamentari
tematiche organizzate da parlamenti nazionali, a
cui la Camera è invitata a partecipare.
In tutti questi consessi l’Italia svolge un ruolo di
primo piano, basti pensare che il Presidente
dell’Unione Interparlamentare Mondiale per il
triennio 2005-2008 è Pier Ferdinando Casini.
Queste possono anche essere considerate ulteriori
sedi
di
discussione
per
stati
lontani
ideologicamente e su importanti questioni di
politica internazionale.
Il contatto tra le classi politiche di più paesi non è
però solo un aspetto delle relazioni internazionali,
ma anche un’occasione di confronto culturale e di
formazione professionale utili ai parlamentari di
tutto il mondo, per farli uscire dal “provincialismo”
di cui sono spesso accusati soprattutto quelli
italiani. Ecco poi un modo per far partecipare le
opposizioni al dibattito internazionale, restituendo
democraticità per colmare il deficit imputato all’UE.
IL SITO. Si possono reperire informazioni aggiornate
sulle attività estere della Camera discusse finora
navigando sul suo sito www.camera.it. Dalla home
page cliccate sulla sezione “EUROPA-ESTERO” e
date spazio alla vostra curiosità!
Silvia Giordano
In occasione del 60° Anniversario della Costituzione, il
MSOI ha organizzato una serie di incontri presso le
Istituzioni politiche italiane che hanno proiezione
all’estero.
In questa direzione, al Presidenza della Repubblica e
le due Camere del Parlamento, risultano le più
interessanti, al fine di scoprire le potenzialità di organi
che, ufficialmente si occupano di politica interna,
ma che hanno anche un ruolo fondamentale nella
definizione della politica estera dello Stato italiano.
L’8 febbraio il MSOI Roma ha partecipato alla
Giornata del Senato che si è articolata in due
momenti: la mattina si è svolta una conferenza,
tenuta da alcuni responsabili del Servizio Affari
Internazionali, presso una delle sale più grandi della
Biblioteca del Senato in Piazza Minerva; nel
pomeriggio è seguita la visita presso Palazzo
Madama, uno dei palazzi più antichi e prestigiosi di
Roma. Grazie alla compagnia di una guida del
Palazzo, siamo riusciti a comprendere i veri
meccanismi del cerimoniale: i segreti per riconoscere
i parlamentari differenti in ogni legislatura, con un
particolare opuscolo che indica nome, gruppo
politico e soprattutto fotografia, il ruolo di ogni stanza
del palazzo, anche quelle più nascoste e di solito non
facenti parte di una visita guidata. E via via
addentrandoci nelle parti più “calde” di Palazzo
Madama, fino all’Aula, incredibilmente affascinante,
nel quale i vari schieramenti trovano un proprio
collocamento, e dove giorni prima il Governo era
caduto.
Il seggiolino del misfatto, dello champagne e della
mortadella, si trovava proprio sotto i nostri occhi. In
realtà, come abbiamo facilmente compreso, quello
si trattava di un ennesimo episodio di disordine, quasi
di routine nell’Aula del Senato, come della Camera,
come illustratoci dalla nostra guida.
Il Senato, come detto, non ha soltanto un potere
pregnante nella politica interna ma anche in politica
estera.
Il Vice-Segretario Generale del Senato Avv. Giuseppe
Castiglia, che ha accolto la delegazione di circa
trenta studenti del MSOI Roma, ha spiegato come il
motore del potere estero sia, per ragioni storiche e
logistiche, di esigenze di rapidità d’azione, segretezza
e unità, il Governo, che più incarna le caratteristiche
idonee per esercitarlo.
Nella nostra forma di governo, di tipo parlamentare,
il Governo deve però rispondere al Parlamento, fin
dal suo insediamento e, nel caso degli affari esterni,
per la stipulazione di accordi internazionali o la
partecipazione ad organizzazioni internazionali.
16
SINE LIMITE
Fin dall’adesione al Patto Atlantico, il numero delle
discussioni in sede parlamentare sono aumentate a
dismisura, sino alle crisi di governo succedutesi
proprio in materia di politica estera. Il Vice-Segretario
Castiglia ha illustrato alla sua giovane audience una
serie di esperienze significative, che hanno
gradualmente portato a un cambiamento del ruolo
del Parlamento, sempre più presente nella sfera
internazionale.
Uno tra gli esempi rilevanti di attività internazionale
delle
Camere
è
sicuramente
l’Unione
Interparlamentare, una vera e propria organizzazione
internazionale che riunisce i rappresentanti dei
Parlamenti di centocinquanta paesi e che ha trovato
in Italia uno dei suoi padri fondatori, l’On. Giulio
Andreotti. L’attuale Presidente, con un solo mandato
per una durata di tre anni, è l’On. Pier Ferdinando
Casini, a sottolineare ancora una volta il ruolo di
primo piano del sistema italiano in questo campo.
Nel prosieguo della conferenza, i tre funzionari del
Senato hanno definito un quadro del ruolo della
Seconda Camera del Parlamento italiano nella
politica estera. La Dott.ssa Agostini, Responsabile
Servizio Affari Internazionali del Senato, ha illustrato
nel dettaglio le attività internazionali del Senato,
cominciando da un excursus storico-giuridico degli
articoli della Costituzione che disciplinano le
competenze di politica estera. Da una parte la
delimitazione delle competenze a livello nazionale,
dall’altra anche un rafforzamento della dimensione
parlamentare anche a livello europeo, seppur
gradualmente, dal Trattato di Roma del 1957 al
Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, e in
fase di ratifica nei vari Stati membri dell’Unione
Europea e nonostante il risultato negativo del
referendum irlandese, che ha posto le basi per una
nuova crisi in seno al processo costituente europeo.
Del processo di adeguamento delle disposizioni dei
Trattati e sul potenziamento dei Parlamenti ne ha
parlato, in maniera chiara e allo stesso tempo
dinamica, il Dott. Gianniti, Responsabile Ufficio
Europeo del Senato, che ha da subito reso
manifesta la mancanza nell’ordinamento nazionale
di una disposizione costituzionale che renda
effettiva l’integrazione europea, a differenza di
molti paesi che hanno subito adeguato il loro
sistema alla nuova organizzazione sopranazionale.
numero 1 - Luglio 2008
Oltre alle disposizioni costituzionali e legislative,
nella prassi si è sviluppata una forma alternativa di
intervento
parlamentare,
più
nota
come
diplomazia parlamentare, che rappresenta un
canale privilegiato, seppur alternativo, della
politica estera, i cui attori, i parlamentari, si trovano
così a contatto direttamente con le situazioni e gli
interlocutori dei paesi esteri con cui lo Stato italiano
interagisce.
Indagini conoscitive, incontri con personalità
estere,
interventi
ad
alcune
conferenze
intergovernative, partecipazione strutturata alle
Assemblee Parlamentari internazionali, ecc.; tutte
queste attività rientrano nella sfera internazionale
del Parlamento, e in particolare del Senato, in un
momento storico in cui il dialogo tra Stati supera la
via ufficiale e istituzionale per favorire un legame
più profondo con la base democratica, cioè la
società civile.
La Dott.ssa Lai, Responsabile della Delegazione del
Senato presso la NATO, ha illustrato il sistema delle
delegazioni
parlamentari,
generalmente
bicamerali.
L’Italia
è
membro
di
cinque
Assemblee
Parlamentari: Consiglio d’Europa, UEO (Unione
dell’Europa Occidentale), OSCE (Organizzazione
per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), INCE
(Iniziativa Centro Europa) e NATO (Organizzazione
del Trattato Nord-Atlantico), una delle sedi di
dialogo parlamentare più attive.
Riguardo al bacino mediterraneo, di grande
interesse soprattutto per l’Italia, la dimensione
parlamentare ha assunto un ruolo pregnante, non
solo nella NATO, con il Gruppo Speciale
Mediterraneo, ma soprattutto con l’Assemblea
Parlamentare Euro-Mediterranea (APEM).
Il Partenariato Euro-Mediterraneo, o Processo di
Barcellona, è nato nel 1995 e a tutt’oggi riunisce
trentanove membri, i ventisette Stati membri dell’UE
e dodici paesi mediterranei (Albania, Algeria,
Autorità Palestinese, Egitto, Israele, Giordania,
Libano, Marocco, Mauritania, Tunisia, Siria e
Turchia).
La posizione di rilievo dell’APEM risulta chiara dal
ruolo di “apri-pista” che questa ha assunto nel
dialogo tra Stati come Israele,
Palestina
e
Siria, che politicamente
17
SINE LIMITE
risentono di equilibri precari, dovuti all’insanabile
questione israelo-palestinese e all’aggravarsi della
situazione
con
l’esponenziale
sviluppo
del
terrorismo islamico. Grazie alla sede parlamentare
del Processo di Barcellona infatti hanno trovato un
pacifico confronto, seppur con difficoltà e ostacoli,
entità politicamente opposte, per la definizione di
una politica comune diretta alla salvaguardia del
Mediterraneo, come
area
storicamente
e
culturalmente
legata,
ma
politicamente
attanagliata da difficoltà.
Numerose critiche sono state avanzate nei
confronti delle attività internazionali delle Camere,
in relazione soprattutto al tema dei costi della
politica, ma queste vengono meno nel momento in
cui si stila un bilancio dei risultati che la
cooperazione parlamentare è riuscita ad ottenere,
e continua a farlo, anche in condizioni difficilmente
gestibili, come nel caso del Partenariato EuroMediterraneo. È indubbio come il canale
parlamentare sia risultato infatti privilegiato nella
creazione di dialoghi tra Stati sovrani, come quelli
del bacino mediterraneo, le cui vie ufficiali hanno
spesso evidenziato forti mancanze. Per un quadro
delle prospettive e degli effettivi spazi che la
dimensione parlamentare può intraprendere in
quest’area, bisogna attendere gli sviluppi del
Vertice di Parigi del 13-14 luglio, in cui saranno
definite le linee del nuovo progetto di
cooperazione internazionale nel Mediterraneo,
promosso dal Presidente francese Nicolas Sarkozy,
e stabilito ormai nel raggio d’azione europeo.
Comparazione costituzione
algerina e italiana: liberta’
religiosa
Antonio Nardelli
In occasione della celebrazione dei sessant’anni
della Costituzione Italiana, tra le attività svolte, il
gruppo giovanile della SIOI ha organizzato una
tavola rotonda che aveva come protagonisti
Monsieur Ahmed Temmar -Dottore in Legge presso
l’università di Blida (Algeria),esperto in diritto
costituzionale e in diritto internazionale pubblico- la
Prof.ssa Maria Cristina Ivaldi -docente docente
Diritto ecclesiastico, Dottore di ricerca in materie
ecclesiastiche alla facoltà di Scienze Politiche della
Sapienza (Roma)- e naturalmente gli studenti del
Movimento. L’obiettivo è stato quello di affrontare il
tema della libertà religiosa, comparando la
costituzione algerina a quella italiana.
L’intervento del dott. Temmar si è focalizzato sulle
varie tappe che hanno portato, dall’indipendenza
del 1962 ad oggi, all’adozione di quattro diverse
Carte Costituzionali.
Premettendo che in tutte l’Islam è religione di Stato,
numero 1 - Luglio 2008
in quella del 1963 ci si è soffermati sugli articoli 4 e 10:
l’articolo 4 sottolinea la tolleranza di altre forme
religiose, l’articolo 10 invece mira a combattere
discriminazioni di razza, sesso e religione; e
soprattutto afferma la libertà religiosa unicamente
per la presenza di un nutrito drappello di ex
colonizzatori europei, perlopiù francesi. Nella
Costituzione del 1976 non ci sono indicazioni precise
circa la libertà religiosa. Ambedue le Carte
Costituzionali
-continua
Temmarsono
programmatiche
in
quanto
concretizzano
un’ideologia,
quella
socialista.
Il
cammino
democratico del giovane Stato compie un passo in
avanti quando il partito socialista sancisce la
separazione tra Stato e partito. L’articolo 28 della
Costituzione del 1989 sottolinea il divieto di
discriminazione per razza, sesso e opinioni.
La libertà religiosa non è espressamente menzionata
ma si considera compresa in quella di opinione. In
più può essere eletto Presidente solo una persona
nata in Algeria e di religione musulmana. In
conclusione , la Costituzione del 1996, così come le
Carte Costituzionali precedenti, decreta in sostanza
l’Islam come religione di Stato, ed anche in questo
caso la libertà religiosa è garantita in modo indiretto,
inserita in quella di opinione. D’altra parte, in
quest’ultima Carta Costituzionale, è evidente la
contrapposizione tra gli articoli che indicano l’Islam
come religione di Stato e quelli che assicurano,
anche se indirettamente, la libertà confessionale.
Concretamente in Algeria esistono molte chiese, ma
in realtà nessuno è stato mai perseguitato per motivi
religiosi; pertanto, anche se in maniera indiretta, la
libertà religiosa è riconosciuta. Infine lo studioso
mette in evidenza come la legislazione algerina sia
pienamente ispirata a quella francese, fatta
eccezione per il “codice della famiglia”, introdotto
nel 1984, che invece si rifà alla sharia - termine che si
usa per riferirsi alla Legge, per l'Islam è d'origine
divina, contenuta nel Corano e nella Sunna del
fondatore dell'Islam, Maometto- a seguito di varie
pressioni dell’ala islamica.
La professoressa Ivaldi interviene soffermandosi sul
concetto di laicità, sottolineando la concezione
italiana, racchiusa nella sentenza della Corte
Costituzionale 203/1989, e quella francese. La prima
evidenzia la neutralità dello Stato rispetto alle scelte
religiose dei cittadini, ma esprime un favor religionis,
cioè un favore verso per chi è religioso; la
concezione francese invece relega la religione nella
sfera privata del cittadino: ad esempio il solo tipo di
matrimonio valido è quello civile, persino il codice
penale punisce il sacerdote o altro ministro di culto
che celebra prima il matrimonio religioso. Ciò è in
contraddizione con il concordato del 1801, stipulato
da Napoleone, che è tutt’ora in vigore in alcune
regioni, tra cui l’Alsazia. Discutibili, inoltre, sono le
leggi recenti che vietano simboli religiosi, come ad
esempio il velo.
18
SINE LIMITE
Un vertice “al di là delle
aspettative”
Matteo Mirti
Nel momento in cui gli affamati si cibano di armi, si
indicono “Vertici ad alto livello” che ormai altro non
fanno se non ricordarsi che un vecchio dissenziente
dell’ordine economico internazionale vi è sempre
stato.
Tuttavia oggi il suo dissenso viene ascoltato, per
timore o consapevolezza che in fondo le ragioni di
quel dissenso potrebbero divenire anche nostre.
Vi è la infatti la consapevolezza che non si tratta di
una crisi alimentare classica ma di potere
d’acquisto, e di come ciò tocchi non solo paesi
notoriamente o storicamente in difficoltà ma
anche quei paesi ritenuti economicamente sicuri,
poiché il problema consiste nella necessità di
aumentare la quantità del “bene cibo”
Tale consapevolezza ha portato Capi di Stato e di
Governo ad incontrarsi nel vertice FAO tenutosi a
Roma il 3/4/5 giugno 2008.
Nei vari interventi che si sono susseguiti nel corso del
vertice, è possibile notare, come d’altronde è
naturale che sia, le diverse posizioni assunte dai vari
soggetti interessati.
Il vertice è stato aperto dal Presidente della
Repubblica Italiana, il quale fa presente come sia
necessario che lo Stato in quanto tale si assuma
maggiori responsabilità, ricoprendo un ruolo
maggiormente attivo, ritenendo che il solo sistema
economico, le sole regole del mercato economico,
pur se dotate di virtù equilibratrici, non siano in
grado da sole di affrontare e risolvere una
situazione di crisi generata da cause che non
sembrano riconducibili alle sole dinamiche
economiche.
Anche se da un punto di vista prettamente
economico, peraltro obbligato dalla situazione di
emergenza e dal compito di fronteggiare tale
emergenza, che è ad essi proprio, sia il segretario
generale delle N.U. sia il direttore della FAO nei loro
interventi hanno chiesto un maggiore impegno
finanziario dei governi nello stanziamento dei fondi
da destinare alla gestione della crisi.
numero 1 - Luglio 2008
I due organismi internazionali si trovano nella poco
piacevole posizione di essere gravati del compito,
a loro demandato dalla comunità internazionale in
quanto tale, di gestire tali problematiche al fine di
cogliere gli obbiettivi del millennium goals; tuttavia
le azioni che intraprendono a tal fine sono
strettamente vincolate dalle decisioni che gli Stati
assumono, in quanto enti sovrani e finanziatori.
Non a caso, infatti, i loro interventi hanno
sottolineato da una parte la drastica diminuzione di
finanziamenti avutasi negli ultimi anni e dall’altra i
comportamenti protezionistici assunti dai vari
governi, in materia.
A tale richiesta non potevano non rispondere
positivamente i governi delle maggiori nazioni,
soprattutto europee. Sia per una base culturale di
queste ultime caratterizzata da una maggiore
sensibilità ai diritti dell’uomo che, se interpretati
estensivamente comprendono tali problematiche,
sia per una situazione agraria dell’UE per alcuni
versi incerta.
Il Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana
nel suo intervento ha proposto di non conteggiare
nei bilanci UE gli aiuti umanitari stanziati dai singoli
governi.
Proposta che appare efficace al fine di affrontare
l’emergenza, tanto che ha trovato appoggio da
parte della Francia, (la quale a sua volta oltre a
promettere nuovi fondi propone una commissione
di esperti su tutti i campi per studiare il problema ) e
il plauso da parte dell’ ONU e della FAO che
vedono in essa una concreta possibilità di risposta
alle loro richieste di finanziamenti.
Un vertice ad alto livello avente ad oggetto il
problema della fame nel mondo, non poteva non
lasciare spazio agli interventi dei rappresentanti di
quei popoli che vedono la propria personalità
manifestarsi agli occhi del mondo con i caratteri
propri della fame.
Ma la fame è causa di debolezza.
E tali sono stati molti dei loro interventi che si sono
risolti nell’auspicare pace per quei popoli.
Tuttavia alcuni hanno con forza rivendicato una più
lusinghiera considerazione da parte delle OO.II.. (
vedi intervento del presidente del Senegal), mentre
altri, come il Presidente Mugabe, non hanno
esitato ad indicar nei comportamenti tenuti nei loro
confronti da alcuni stati come la GB la causa delle
loro difficoltà umanitarie.
Sebbene molti di tali stati soffrano non solo di crisi
umanitarie ma soprattutto di crisi democratiche
(Mugabe è già da tempo considerato “persona
non gradita” presso molti Stati ) le posizioni da loro
assunte e testè ricordate pongono il dubbio circa la
reale capacità di alcuni aspetti strutturali del
sistema internazionale di governare in maniera
equilibrata l’interazioni tra i vari soggetti che
compongono la comunità internazionale.
Dubbio che si può scorgere anche nelle parole,
volutamente provocatorie, del presidente Iraniano.
19
SINE LIMITE
Ulteriore indizio a conferma della fondatezza di tali
dubbi è rappresentato dalle parole di Luca Alinovi ,
economista senior della FAO, che prendendo atto
delle molte idee e iniziative emerse durante il
vertice si pone il problema se queste servano a
snellire e salvare la struttura alimentare dell’ONU
(FAO, PAM, IFAD ) o a renderla inoperante, e ciò,
anche se qui il problema viene visto da un
particolare punto di vista, per aspetti strutturali del
sistema che non sembrano in grado di funzionare
correttamente.
Il vertice non è stato appannaggio dei solo
rappresentanti degli stati, non essendo questi ultimi i
soli soggetti interessati da tali problematiche.
Questi anzi sembrano sempre più ricoprire un ruolo
secondario nel processo di crescita di un mondo
globalizato come è quello attuale, che vede
l’economia assumere un ruolo sempre più rilevante
nei processi decisionali.
L’economia presa in sé ha un che di astratto e
poco definito, tuttavia nel corso del vertice sono
emersi chiaramente alcuni aspetti di essa
considerati come possibili artefici del problema in
questione.
L’influenza del settore energetico nelle economie
dei vari paesi spinge, già da alcuni anni, la ricerca
di fonti energetiche alternative principalmente al
petrolio.
Alternativa che è stata individuata nei biocarburanti.
Questi vengono considerati tra le principali cause
dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli
registrati negli ultimi anni, tanto che hanno
occupato un ruolo centrale nel dibattito.
Tuttavia si registrano anche posizioni a difesa di
questi.
In questo senso è andato l’intervento del Presidente
Brasiliano Lula che ha rivestito i panni dell’avvocato
difensore dei biocarburanti . Difesa, nella sostanza
di una delle principali voci economiche del Brasile,
ovvero il bioetanolo ricavato però dalla canna da
zucchero.
Proprio su questa differenza si è basata la linea
difensiva predisposta da Lula e tendente a
dimostrare come le“capacità energetiche” proprie
numero 1 - Luglio 2008
della canna da zucchero, maggiori di quelle
proprie dei cereali, facciano si che siano necessari
minori superfici agricole da destinare alla loro
produzione, senza così influire sulla produzione di
cereali per il consumo.
Tutto ciò non è valso ad alleggerire la posizione dei
biocarburanti a cui viene contestato, da una parte,
la capacità di costituire una valida alternativa al
petrolio, come afferma tra gli altri, Stefan
Targemann, direttore OCSE per il commercio e l’
agricoltura.
Da un diverso e più rilevante punto di vista, i
biocarburanti vengono attaccati indirettamente.
Nello specifico si contestano gli incentivi alla
produzione dei biocarburanti promossi da molti
paesi, tra i quali gli Stati Uniti, ove forte in tal senso è
stata la spinta dei movimenti ambientalisti e dei
così detti “falchi Nazionalisti”. Preoccupati i primi di
trovare un’alternativa all’inquinante petrolio, i
secondi di rendere energicamente indipendente la
propria nazione con il risultato di rafforzarla
economicamente.
Secondo Jaques Diouf sono state proprio tali
politiche attuate in passato a far si che circa 100
milioni di tonnellate di cereali passassero dal
consumo umano alla produzione di biocarburanti.
Tuttavia destinare del grano alla produzione di
biocarburanti anziché al consumo umano da solo
non può spiegare come e perché attualmente vi
sia un problema di materiale carenza di cibo.
I cambiamenti climatici, anch’essi indicati tra le
cause della crisi, permettono di spiegare il perché
di mancati raccolti e conseguenti diminuzioni di
scorte alimentari, ma non permettono di capire a
fondo il problema.
Se il problema riguarda la sproporzione tra le
persone da sfamare e le quantità di cibo a ciò
destinate, aspetto di sicuro rilievo non può che
essere
rappresentato
dall’aumento
della
popolazione in zone come l’India e la Cina..
L’innalzamento del tenore di vita in queste aree fa
si che un numero sempre più consistente di persone
che in passato potevano permettersi un pasto al
giorno, abbiano ora la possibilità di due pasti al
giorno.
Ovviamente tale situazione crea, concorrendo con
le altre cause, uno squilibrio tra domanda ed
offerta.
Secondo l’economista Paul Collier (in passato
capoeconomista
della
Banca
Mondiale)
pretendere che tali popolazioni mangino di meno
è insensato, ed indica, quale risposta al problema,
gli OGM, i quali permetterebbero di aumentare la
produzione riequilibrando il rapporto tra domanda
e offerta. In questo senso egli ritiene necessario che
l’UE adotti le colture OGM, il che ne favorirebbe lo
sviluppo.
Sempre al fine di aumentare la produzione
adeguandola all’offerta, varie sono state le
20
SINE LIMITE
proposte venute
economico.
numero 1 - Luglio 2008
da
esponenti
del
mondo
Steve Hank professore alla Johns Hpkins University,
individua la soluzione, al fine di far abbassare i
prezzi, nel libero mercato che presuppone che gli
stati si astengano da comportamenti protezionistici,
come già indicato in molti interventi politici nel
corso del vertice.
Lennart Bage, presidente IFAD, punta sullo sviluppo
della microagricoltura in zone quali l’Africa, tramite
lo strumento dei microcrediti e lo sviluppo di
tecniche di coltivazione, le quali non escludono gli
OGM.
Nel corso del vertice molti sono stati gli interventi,
soprattutto durante le varie conferenze di settore,
che hanno trattato di un effetto particolare che
deriva dallo squilibrio tra domanda ed offerta,
ovvero la Speculazione finanziaria.
Molti ritengono, come ad esempio Marianne
Fischer Boel Commissario UE all’Agricoltura, che
l’aumento dei prezzi sia legato ad una fortissima
speculazione sulle commodities sui quali si sono
spostati gli investimenti globali. Investimenti fatti
attraverso lo strumento finanziario dei Futures,
strumenti che permettono di acquistare un bene al
prezzo di mercato corrente al momento di acquisto
ma di perfezionare l’acquisto con la consegna del
bene in un momento successivo, momento in cui è
ben possibile che il valore di mercato di quel bene
sia aumentato con ovvi guadagni per l’acquirente.
Strumenti che se applicati alle commodities
sembrano richiedere, per ottenere un buon
margine di guadagno, che qualcuno abbia fame!.
La conferenza ad alto livello, in definitiva, più che
individuare delle cause specifiche della situazione
di crisi, sembra mettere in luce, stando ai molti
interventi ed ai vari argomenti trattati, come vi
siano un coacervo di aspetti legati a vari settori che
hanno portato a tale situazione.
Difficile individuare quali tra essi abbiano
maggiormente contribuito alla situazione di crisi.
Tale varietà di aspetti legati al problema si riflette
anche nel documento finale della conferenza nel
quale vengono riaffermati quelli che sono i principi
e gli obbiettivi già stabiliti durante la conferenza del
1996, ovvero di ridurre della metà, entro il 2015, il
numero delle persone che vivono in uno stato di
denutrizione e di non utilizzare il cibo come
strumento di pressione politica ed economica. Si
pone il compito di controllare i cambiamenti
energetici e climatici nonché l’attuale aumento dei
prezzi. A tal fine viene evidenziato come sia
necessario un’azione coordinata tra tutti i soggetti
internazionali coinvolti.
Si individuano una serie di misure da adottare
nell’immediato, ed altre da realizzare nel medio
lungo periodo.
Viene affermato come nell’immediato vi sia la
necessità che le organizzazioni delle Nazioni Unite
mettano a disposizione maggiori risorse al fine di
migliorare i programmi di aiuto già attivi in materia.
Vengono
individuate
misure
di
supporto
economico ai paesi interessati al fine di facilitare la
stabilizzazione dei prezzi, come ad esempio una
semplificazione delle procedure necessarie per
ottenere
finanziamenti
da
parte
delle
organizzazioni internazionali operanti in tale settore.
Una seconda linea di azione, mira allo sviluppo
delle capacità agricole delle piccole media
aziende, attraverso anche un aumento della
ricerca sulle tecniche produttive.
Nel lungo periodo viene evidenziata la necessità
che i governi pongano maggiore attenzione ai
problemi dell’agricoltura e della pesca, tenendo
particolarmente presenti le piccole realtà e il loro
accesso ai mercati, ciò tanto nei paesi attualmente
colpiti in maniera diretta dal problema quanto
negli altri. Si afferma la necessità che si giunga ad
una conclusione dei negoziati WTO del Doha
Round.
Estremamente
rilevante
appare
infine,
l’affermazione della necessità di sviluppare le
politiche future all’interno di una struttura, di una
schema, che abbia come suo elemento centrale
l’uomo.
Concretamente però il documento finale del
vertice FAO omette di indicare il modo in cui tali
obbiettivi devono essere realizzati, e non potrebbe
essere differentemente giacché ogni Stato Sovrano
ha interessi propri, legati in maniera troppo stretta
alle dinamiche economiche, che mal si conciliano
con un interesse collettivo seppur rilevante e
potenzialmente in grado di investire l’intera
Comunità Internazionale. Il vertice tuttavia è
andato al di là delle aspettative, almeno dal punto
di vista del direttore della FAO, limitandosi a
raccogliere la considerevole cifra di 8 miliardi di
dollari di finanziamenti nella forma del “pagherò”.
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SINE LIMITE
Seminari in collaborazione con
l’Ambasciata U.S.A.
Valerio Romano
La politica interna, le coinvolgenti battaglie
elettorali, la foreign policy e i rapporti con l’Italia, gli
impegni ambientali, le nuove frontiere scientifiche,
sono solo alcuni dei molteplici temi affrontati nella
serie di interessanti conferenze svoltesi nell’ambito
di questa iniziativa. Ospitata nel sontuoso Palazzo
Margherita in Via Veneto, sede dell’Ambasciata
USA, e più di rado al “Centro Studi Americani” in via
Caetani, la delegazione M.S.O.I. si è resa partecipe
di un vivo e attento dibattito sui differenti aspetti
trattati, cercando di sviluppare e stimolare, anche
per questioni considerate maggiormente “spinose”,
il punto di vista degli esperti relatori statunitensi che
hanno presieduto agli incontri. E’ doveroso
esplicare in via introduttiva il sincero e apprezzato
interessamento che tali incontri hanno stimolato,
soprattutto per ciò che riguarda l’analisi più
approfondita della realtà politica americana e il
modo in cui gli USA si pongono nel sistema delle
relazioni internazionali. La straordinaria importanza
degli argomenti trattati nei seminari ha aperto un
vasto portale sulla scena internazionale e ha
alimentato l’interesse per affrontare con maggiore
informazione i problemi con cui dovremo misurarci
nell’immediato futuro.
Il primo incontro di questa iniziativa, che ha trattato
la politica interna USA e soprattutto i rapporti
bilaterali USA-Italia, è stato effettuato con una
modalità di videoconferenza tra le varie
delegazioni M.S.O.I. d’Italia ( Roma - Milano Napoli), e ciò ha dato un’impronta più dinamica
alla conferenza. Il Dottor Morgan Hall, diplomatico
della sezione politica dell’Ambasciata, ha
concentrato il proprio intervento introduttivo sul
modello di democrazia statunitense, sulla volontà di
garantire o costruire la pace in quei paesi del
Medio Oriente che si trovano in situazioni di
conflitto o post-conflitto, con un chiaro riferimento
all’Afghanistan e all’Iraq, e di ristabilirvi un regime
politico democratico che permetta più facili e sicuri
rapporti economici. Tali tematiche e il tono con cui
esse sono state affrontate ha lasciato trasparire una
fermezza di posizioni rispetto al ruolo ormai
secolare, attribuito agli Stati Uniti, di “poliziotto
internazionale”, di garante della pace e di modello
ideale di democrazia occidentale. Lo svilupparsi
dell’incontro
e
l’approccio
estremamente
diplomatico del relatore, ha dato la possibilità ai
delegati M.S.O.I. di porre domande rispetto a due
questioni maggiormente biasimate o censurate
che riguardano i rapporti USA-Italia: la base militare
numero 1 - Luglio 2008
di Vicenza, frutto di numerose polemiche da parte
dei cittadini vicentini e non solo, e il
comportamento che il governo degli Stati Uniti
assume in relazione al tipo di governo che si ha in
Italia. Riguardo al primo aspetto, la base NATO di
Vicenza, amministrata dagli americani, che si pone
come sentinella USA sia nell’area balcanica che
mediorientale, sembra aver ricostruito nel nostro
paese uno spartiacque tra filo e anti americani,
uno scontro tra affidabilità e inaffidabilità nei
confronti di un alleato storico. Pur contando i
numerosi attacchi ricevuti soprattutto dal Partito
Radicale,
il
provvedimento
sulla
presenza
americana in Italia è stato approvato dal secondo
governo Berlusconi e si parla oggi di un eventuale
ampliamento di tale struttura nell’ottica di una
maggiore sicurezza. Il dottor Hall ha spiegato che, i
disagi , le preoccupazioni espresse dai cittadini di
Vicenza, e i relativi sacrifici richiesti dovrebbero
essere giustificati dall’interesse collettivo della
NATO, di cui l’Italia è membro fondatore dal 1949,
e quindi dalla necessità di garantire anche la
difesa stessa del nostro paese. E’ stato infatti posto
più volte l’accento sull’aspetto dell’”impegno”, del
“Patto Atlantico” e quindi del dovere di rispettare le
clausole militari in esso contenute (specialmente le
previsioni dell’articolo 5) per rafforzare il sistema
occidentale
di
difesa
dalle
minacce
contemporanee del terrorismo, e di argine dal
timore di un’Europa Orientale da troppo tempo
rimasta nell’ombra.
Alla domanda fatta al Dottor Hall, ossia se
l’approccio degli USA fosse mutato nei confronti
dell’Italia ove vi fosse stato un cambiamento di
governo (oggi realmente attuato), ha prodotto
anch’essa una risposta decisamente neutrale. Hall
ha infatti affermato che obiettivo fondamentale
delle nostre relazioni bilaterali è quello dell’alleanza
e della collaborazione politica ed economica, e
che di fatto il governo degli USA non muterebbe
mai la propria posizione rispetto ad un governo di
centrodestra o centrosinistra, come poi spiegato
chiaramente anche dall’Ambasciatore Ronald
Spogli nella presentazione del sito della Missione
Diplomatica USA in Italia.
La tematica delle primarie americane, oggetto di
numerosi incontri si è sviluppata soprattutto intorno
al tema della comunicazione politica, delle
strategie elettorali e di come esse abbiano
influenzato il comun sentire e lo spirito degli
Americani, stimolando una forte partecipazione
politica. La conferenza ha toccato quattro aspetti
fondamentali : il processo delle primarie, i conteggi
progressivi con il conseguente clima di attesa,
l’attività propagandistica dei volontari e dei
militanti di partito, le attività di lobbying sul gruppo
dei grandi elettori per ottenere voti.
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SINE LIMITE
Il Prof. Teodori, moderatore del dibattito, ha
spiegato come le primarie del 2008 abbiano avuto
un ampio margine di apertura e quindi abbiano
visto la presenza non solo di numerosi candidati
indipendenti,ma anche di personalità provenienti
dalla cosiddetta “seconda fila” di partito. Altro
elemento fondamentale, forse per la prima volta
nella storia degli USA, è dato dal fatto che il denaro
non è risultato decisivo per gli esiti elettorali, ma
sono certamente aumentati i minimi contributi
offerti dalla popolazione per il proprio candidato
preferito tramite versamenti. Terzo punto da
prendere in considerazione è stato l’impatto delle
nuove tecnologie sul processo elettorale.
Il Prof. Cristian Vaccari dell’Università di Bologna ha
invece posto un quesito di fondo sul senso delle
primarie: sono uno strumento di selezione
democratica oppure sono semplicemente un
gioco costoso che priva quindi le elezioni di
legittimità? La risposta può essere: entrambe le
cose, anche se come già detto, il denaro sembra
perdere la propria importanza rispetto al “carisma”
e alla capacità di saper raccogliere intorno a se la
folla.
L’aspetto più interessante e divertente è stato però
fornito da John Aravosis, esperto di “political blogs”
e quindi delle nuove frontiere di comunicazione
politica. E’ noto che all’interno dei blogs, ormai
diffusi a macchia d’olio nel web, sia forte la critica
verso i mezzi convenzionali d’informazione, ed in
particolare i media televisivi e la stampa, critica
che sembra essersi ormai diffusa anche in Italia
attraverso siti di “disinformazione” e aditi politici di
qualunquismo. Aravosis ha spiegato come la
partecipazione democratica si esprima oggi
attraverso la Rete e come proprio per le primarie
(soprattutto per i Democratici) siano stati
fondamentali i siti di “social network” quali
Myspace e Facebook o siti come Youtube, dove
poter vedere e commentare video musicali o
satirici dedicati ai candidati alla Casa Bianca.
numero 1 - Luglio 2008
La Dottoressa Colleen Graffy (sezione “Affari
Europei” del Dipartimento di Stato) ha invece
parlato quale funzionario diplomatico, di come gli
USA siano attenti anche a ciò che avviene in
Europa, attraverso il loro centro di studio a Bruxelles.
È importante infatti, ai fini della formulazione di
politiche internazionali di cooperazione, che gli USA
abbiano un punto stabile di integrazione nella
realtà europea.
Nel secondo incontro svoltosi in Ambasciata,il
Dottor Geoffrey Wiggin, Consigliere Ministeriale
degli “Agricultural Affairs”, ha spiegato con grande
dettaglio la politica americana sugli OGM. Il
relatore ha concentrato il suo intervento su due
aspetti fondamentali: la disinformazione della
popolazione
riguardo
agli
Organismi
Geneticamente Modificati, i benefici e gli eventuali
danni dell’utilizzo degli OGM come nuova fonte di
fabbisogno alimentare. Le nuove frontiere della
Biotecnologia,
hanno
permesso
moltissime
applicazioni
in
relazione
alla
tecnologia
transgenica, che è il metodo più comune di
produzione di OGM. Il Dottor Wiggin ha spiegato
come il procedimento utilizzato nella biobalistica,
chiamato “gene gun”, preveda il bombardamento
all’interno delle cellule vegetali di microproiettili
ricoperti di DNA. È questo il metodo di produzione
del cereale OGM più diffuso negli USA, il “BT corn”.
Altri metodi di immissione del nuovo embrione negli
organismi vegetali, sono quelli definiti “naturali”,
perchè derivanti dall’azione di un parassita esterno
o attraverso l’esposizione dei vegetali a raggi Xgamma o ultravioletti. Si è subito posta
all’attenzione la viva preoccupazione che questa
nuova frontiera della scienza ha suscitato negli
ambienti
dell’Unione
Europea,
decisa
ad
intraprendere nuovi e personali metodi di
lavorazione degli OGM. Il problema del timore che
gli OGM hanno causato nella popolazione
maggiormente disinformata è stato affrontato dal
Dottor Wiggin, partendo da un esempio
elementare e ricorrente nella storia scientifica: la
differenza tra scoperta ed uso della scoperta.
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SINE LIMITE
Si è infatti dimostrata l’indubbia innovazione
portata dall’energia elettrica e dalla fisica nucleare
alla vita umana, pur considerando gli scetticismi
iniziali; il problema da considerare è invece come
giudicare l’utilizzo che l’uomo ha fatto delle nuove
scoperte, e la indubbia incoerenza non può che
portare all’esempio chiave della bomba atomica.
Wiggin ha ribadito che si deve sempre operare un
riscontro tra benefici e rischi nel momento in cui si è
di fronte ad una nuova scoperta e ove fosse
dimostrato che i secondi sono quasi del tutto
inesistenti, è importante far conoscere al
consumatore (e in questo caso si è sottolineato il
problema dell’UE) se un prodotto è etichettato
come OGM, e quindi esprime una maggiore
garanzia. Negli USA, la fiducia negli OGM è solida
perché esistono comunque Agenzie che ne
garantiscono il corretto utilizzo ed effettuano i
necessari controlli per evitare rischi alla salute
umana: la “FDA”, Agenzia per la sicurezza degli
alimenti, e la “EPA”, Agenzia per la protezione
dell'ambiente. È da considerare anche l’”USDA”,
che assicura che la biotecnologia non danneggi la
produzione agricola e quindi provochi le proteste
degli agricoltori o danni alla fauna. Gli USA,
facendo quindi molta attenzione all’aspetto dei
controlli e della precauzione, sono diventati fra i
massimi produttori di mais (il massimo produttore
rimane il Messico), soia (soy beans) e cotone
attraverso la transgenesi, con notevoli benefici per
l’economia americana. I problemi che gli
Americani hanno dovuto affrontare sono stati
causati dalla viva opposizione del Corpo Forestale
Americano e dai piccoli agricoltori. Il procedimento
di impollinazione degli organismi vegetali, ha
prodotto infatti una crescita spropositata dell’erba
circostante alla base delle foreste, inducendo il
rischio di incendi; per minimizzare tali rischi la
numero 1 - Luglio 2008
Forestale si è rifiutata di accettare questa
biotecnologia produttiva. L’altro problema, di
natura socio-economica, è determinato dal fatto
che la produzione OGM ha spogliato l’agricoltore
della maggior parte dei propri compiti nel processo
di crescita vegetale, come avviene nell’agricoltura
classica. Se per gli Stati Uniti il problema sembra
semplicemente quello di uno spostamento di
competenze (che si riduce alla preparazione del
terreno di coltura) che porta comunque un lieve
incremento della produzione e dei benefici per gli
stessi agricoltori, il discorso è ben diverso per i paesi
in via di sviluppo. La volontà di esportare questo
innovativo modello di produzione soprattutto nel
continente africano, mette in luce il costo oneroso
della coltura OGM a carico delle zone più povere e
gli effetti devastanti che essa avrebbe sui
microagricoltori sparsi nel territorio, che non
avrebbero la possibilità di usufruirne, e che quindi di
fronte ad un nuovo sistema agricolo perderebbero
anche la capacità di essere competitivi. Un altro
grande problema posto dal Dr. Wiggin, è stato
quello della resistenza climatica da innestare agli
OGM, perché essi possano resistere alle specifiche
condizioni dell’Africa. Egli ha concluso il proprio
intervento auspicando la possibilità di introdurre
comunque gli OGM nel continente per risolvere il
problema della fame, (come è accaduto in
Indonesia grazie alla produzione di riso) e sperando
che l’UE acceleri il processo di introduzione degli
OGM anche a fronte degli elevati costi economici
ma in vista di futuri benefici.
L’ultimo incontro cui ho partecipato,svoltosi nella
settimana dell’ ”Earth Day” , ha visto il Prof.
W.A.Blomquist e il Prof. Raffaele Cadin de La
Sapienza di Roma, affrontare l’argomento della
politica ambientale degli USA e dell’UE nelle nuove
prospettive di riduzione dell’inquinamento e dei
livelli di sviluppo sostenibile.
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