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Direttore: Francesco Gui (dir. resp.). Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy. Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Enrico Mariutti, Daniel Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo. Proprietà: “Sapienza” ‐ Università di Roma. Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le Aldo Moro, 5 ‐ 00185 Roma tel. 0649913407 – e ‐ mail: [email protected] Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice ISSN 1973‐9443 Eurostudium3w luglio-settembre 2011
Indice della rivista luglio ‐ settembre 2011, n. 20 MONOGRAFIE E DOCUMENTI Melchiorre Gioia e la Rivoluzione
Dalle anticipazioni letterarie del Caligola al programma democratico del 1796
di Pietro Themelly p. 4 p. 45 Berlino capitale
Dalla Repubblica democratica alla Germania riunificata
di Costanza Calabretta *** UN MANIFESTO PER VENTISETTE PAESI.
LA TRADUZIONE DEL MESSAGGIO DI VENTOTENE NELLE
p. 84 LINGUE UFFICIALI DELL'UNIONE EUROPEA
Introduzioni dei docenti e traduzioni
Grecia / Ελλάδα
Presentazione a cura di / Пαρουσίαση: Paola Maria Minucci p. 85 Traduzione di/ Μετάφραση του τόμου με επιμέλεια του: Χρήστου Μπιντούδη p. 85
Inghilterra / England
Presentazione a cura di / Presentation: Maria Antonietta Saracino Traduzione di/ Translation: Mary Wardle p. 89 p. 89 Irlanda / Éire/Ireland
Presentazione / Cur i láthair / Presentation: Maria Antonietta Saracino (Gaeilge) p. 113 2
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Presentazione / Cur i láthair / Presentation: Maria Antonietta Saracino (English) p. 140 Traduzione di / Arna aistriú agus mhaoirsiú ag / Translation: eTeams International (Gaeilge) p. 113 Traduzione di / Arna aistriú agus mhaoirsiú ag / Translation: Mary Wardle (English) p. 140 Lettonia / Latvija
Presentazione / Prezentācija: Pietro U. Dini Traduzione / Tulkošanas: Ieva Kļaviņa p. 142 p. 142 p. 162 p. 162 Lituania / Lietuva
Presentazione / Pristatymas: Pietro U. Dini Traduzione di / Iš italų kalbos verte : Simonas Jurkevičius Malta / Malta/ Malta
Presentazione a cura di / Preżentazzjoni/ Presentation: Joseph M. Brincat Traduzione di / Traduzzjoni/ Translation: George Mallia Presentazione / Cur i láthair / Presentation: Joseph M. Brincat (English) Traduzione di / Traduzzjoni/ Translation: Mary Wardle (English) *** p. 184 p. 184 p. 208 p. 208 RESOCONTI E RECENSIONI
Federico II di Prussia e lo stato sociale
di Federico Maiozzi p. 211 Rahat, Gideon, Reuven Y. Hazan, and Richard S. Katz (2008),
“Democracy and Political Parties: On the Uneasy Relationships between
Participation, Competition and Representation”, Party Politics, 14:6, 663683
by Lorenzo Kamel p. 216 3
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Melchiorre Gioia e la Rivoluzione Dalle anticipazioni letterarie del Caligola al programma democratico del 1796 di Pietro Themelly Il testo a cui si rivolge in questa sede una rinnovata attenzione venne redatto quasi certamente nella Piacenza ducale tra 1792 e 1794 da Melchiorre Gioia (1767‐1829), allora un anonimo sacerdote poco più che ventenne, destinato, com’è noto, a divenire in breve un protagonista della vita intellettuale italiana tra l’età delle Riforme e quella della Restaurazione, insieme ai suoi conterranei Gian Domenico Romagnosi e Pietro Giordani. La tragedia Caligola, a lungo dimenticata, è stata sottoposta all’interesse degli studiosi solo grazie ad un contributo di Paolo Bosisio del 1983, che in quell’occasione presentava anche la prima edizione critica del testo, rimasto ancora tra le carte manoscritte del piacentino custodite presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano1. La pièce costituisce inevitabilmente solo un frammento marginale di quella vastissima produzione che avrebbe compreso, nello sviluppo dei decenni successivi, tanto le indagini in materia economica e amministrativa dell’età napoleonica, quanto le grandi tesi teoriche della Restaurazione2. L’opera, tuttavia, stesa prima dell’ingresso dei francesi nella Cfr. Paolo Bosisio, Melchiorre Gioia e il teatro. Con il testo del Caligola, tragedia inedita, in Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a M. Vitale, Giardini, Pisa, 1983, v. I, pp. 440‐529. Il manoscritto è conservato in Biblioteca Nazionale Braidense, Milano AF. XIV. VII (1). 2 Per una prima indagine complessiva sulla produzione gioiana vedi Giovanni Semprini, Melchiorre Gioia e la sua dottrina politica, Libreria editrice Italia, Genova, 1934; un altro quadro globale è in Pietro Barucci, Il pensiero economico di Melchiorre Gioia, Giuffrè, Milano, 1965. Molto utili i contributi del relativamente recente Melchiorre Gioia (1767‐1829). Politica, società, economia, tra Riforme e Restaurazione. Atti del Convegno di studi, Piacenza, 5‐7 aprile 1990, in «Bollettino Storico Piacentino», LXXXV, 1990, (d’ora in poi abbreviato in Convegno 1990). Per una presentazione d’insieme vedi Joseph Stuart Woolf, Melchiorre Gioia (1767‐1829) interprete dei suoi tempi, ivi, pp. 377‐86. Per una compiuta bibliografia gioiana, Manola Perugi Morelli, Saggio di 1
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penisola, sembra già delineare embrionalmente il programma politico elaborato dal piacentino nel corso del triennio patriottico italiano dell’ultimo Settecento. Tutti quei primi scritti, come tra poco si accennerà a conclusione di un rapido sguardo d’insieme sull’itinerario gioiano, rivelano come l’esperienza della Grande Rivoluzione abbia costituito un elemento essenziale nella dinamica intellettuale del nostro autore ponendo le premesse d’una concezione della storia come progresso che ispirò tutta la sua vita. Di tali scritti, ovvero della iniziale meditazione politica del nostro, il Caligola, tragedia in cinque atti, costituisce sicuramente un significativo punto di avvio. Il Caligola e gli scritti politici del Triennio nel quadro dell’itinerario gioiano Le ristrettezze della famiglia avviarono Melchiorre alla carriera ecclesiastica e lo spinsero ad entrare nel celebre Collegio Alberoni di Piacenza (1784). La filosofia scolastica che ispirava quel seminario determinò le forme del suo pensiero e la struttura del suo discorso. Al tempo stesso, oltre alla lezione dei Padri della Chiesa, il Collegio lo introdusse al metodo sperimentale e all’ascolto, grazie alla forza espansiva dell’Aufklärung cattolica, dell’insegnamento degli autori moderni, dei sensisti francesi e dei filosofi inglesi del sentimento3. Le venature della tradizione giansenista si unirono alle motivazioni dei Lumi ispirando profondamente la sua cultura. Studi recenti hanno mostrato infatti come Gioia, sviluppando i temi della autonomia della coscienza, sia andato ben oltre “l’ingenuità” del sensismo di Condillac e sia approdato a quella complessa concezione dell’esperienza umana che egli mutuava dall’antropologia di Bentham4. Sempre nel Collegio di Piacenza ebbe la prima notizia della Rivoluzione, mentre nel 1792 pronunciò i voti. Un appunto manoscritto del 1793 testimonia il favore accordato dal giovane sacerdote ai “regicidi” nel corso del drammatico processo a Luigi XVI5. Le voci che correvano sul suo bibliografia di Melchiorre Gioia, ivi, pp. 387‐455. Oltre ai contributi di seguito indicati in nota cfr. anche la voce redatta da Francesca Sofia, in «Dizionario Biografico degli Italiani», Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, LV, 2000, pp. 133‐40. 3 Robertino Ghiringhelli, La formazione di Melchiorre Gioia nella Piacenza di fine Settecento: gli anni al Collegio Alberoni (1784‐1793), in Convegno 1990, cit., pp. 63‐80. Vedi anche Luigi Mezzadri, Il Collegio Alberoni di Piacenza (1732‐1815). Contributo alla storia della formazione sacerdotale, Edizioni Vincenziane, Roma, 1971; Giuseppe Berti, Atteggiamenti del pensiero italiano nei Ducati di Parma e Piacenza dal 1750 al 1850, Cedam, Padova, 1962; Giovanni Felice Rossi, La filosofia nel Collegio Alberoni e il neotomismo, Collegio Alberoni, Piacenza, 1959. 4 Francesca Sofia, Melchiorre Gioia e la Statistica, in Convegno 1990, cit. p. 253. 5 Vittorio Anelli, Melchiorre Gioia giacobino: un documento inedito e poco noto, in «Bollettino Storico Piacentino», LXXII, 1977, pp. 95‐109. 5
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“giacobinismo” lo avrebbero condotto, nel marzo 1797, davanti ad un tribunale piacentino della Piacenza granducale e di lì in carcere6. Gli scritti del Triennio, con i loro accenni ricorrenti alle teorie humiane sulla genesi delle idee religiose7, spiegano attraverso quale itinerario culturale Gioia si sia distaccato dal magistero ecclesiastico e abbia ben presto rinunciato al sacerdozio8. Sono sempre questi scritti che rivelano un altro tema costante dello “enormemente frastagliato”9 pensiero gioiano. Già annunciato nel Caligola, in essi veniva riproposto con forza il problema della costruzione del consenso, una procedura politica funzionale a far convergere le inclinazioni dell’opinione con i progetti delle élite. Solo nell’ambito di un programma largamente condiviso si sarebbe potuto decretare la fine degli abusi d’Antico Regime e avviare un processo di sviluppo generale i cui benefici si sarebbero riversati su tutti. Si sosteneva, in tal modo, l’esigenza di uno stato fondato sui principi di giustizia e di utilità sociale, eretto a tutela dei diritti individuali. Era questo, per Gioia, il compito della Rivoluzione. Pertanto alla adesione entusiastica al nuovo corso si accompagnava una perenne riserva critica nei confronti delle inadeguatezze della classe dirigente francese e locale, documentata peraltro anche dall’intensa attività giornalistica svolta da Melchiorre nel corso delle vicende della Repubblica cisalpina. Un’attività notoriamente destinata a incappare non solo nella repressione del governo ducale, ma anche in quella della successiva repubblica giacobina. I periodici fondati dal patriota, trasferitosi a Milano cisalpina subito dopo la liberazione dal carcere piacentino, subirono inesorabilmente tutti la stessa sorte. Il più celebre fra essi, il «Monitore italiano»10, foglio di “una società di Nel corso della stesura di una significativa Dissertazione, sulla quale vedi infra il paragrafo Il programma del 1796‐1797, la Curia piacentina, col pretesto che Gioia aveva celebrato messe a scopo di lucro, lo chiuse nelle carceri del Sant’Uffizio per ordine del duca nel marzo 1797. Fu liberato nel giugno dello stesso anno, dopo la proclamazione della Repubblica. Cfr. G. Semprini, op. cit., p. 12; per altre notizie vedi Giorgio Fiori, La famiglia ed il periodo piacentino di Melchiorre Gioia: contributo biografico, in Convegno 1990, cit., pp. 49‐80. 7 Lo stesso Gioia nelle Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico, Milano, 22 fruttidoro, anno VIII (9 settembre 1800) ora in Opere minori di Melchiorre Gioia, Ruggia, Lugano, vv. 17, vedi, v. X, pp. 1‐209, a p. 214 nella nota d’autore indica nella Storia della religione naturale di David Hume una delle opere che avevano contribuito ad orientare criticamente il suo pensiero in materia di fede. 8 “Da giansenista, ad incredulo, ad ateo; si ricordi come il Gioia, non appena giunto a Milano, si fosse spogliato dell’abito talare […]” Franco Catalano, Melchiorre Gioia e il passaggio economico‐
sociale dal Settecento all’Ottocento, in «Belfagor», V, 1950, p. 637. 9 Aurelio Macchioro, La «philosophia naturalis» gioiana dell’economia, in Convegno 1990, cit., p. 270. 10 I primi 21 numeri del «Monitore italiano», pubblicato a Milano per i tipi di Mainardi, sono ora in Opere minori, cit., v. I, 1832, pp. 169‐264. Una rara raccolta completa del periodico è in Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, Roma. 6
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uomini liberi” nella definizione di Ugo Foscolo, il quale insieme a Gioia e a Giacomo Braganze aveva dato inizio alle pubblicazioni il 20 gennaio 1798, veniva soppresso dopo soli tre mesi, il 13 aprile dello stesso anno. Le vicende della testata, espressione di una opposizione liberale e costituzionale molto severa nei confronti della politica direttoriale, dello stesso Bonaparte e della classe dirigente cisalpina, si inserivano nel quadro degli eventi conclusisi con il “cosiddetto” colpo di stato del 24 germinale (13 aprile 1798), un atto con il quale il governo di Parigi, per opera del generale Brune, comandante militare a Milano, epurò il Corpo legislativo, il Direttorio e la stampa. Si ponevano così le premesse per la svolta autoritaria imposta di lì a poco, il 30 agosto 1798, dall’ambasciatore Trouvé e formalizzata, com’è noto, con una riscrittura della Costituzione. La Cisalpina passava allora, secondo le notazioni di Carlo Zaghi, da un sistema democratico‐liberale ad un regime liberale‐conservatore11. Tali ragioni avrebbero decretato anche la fine, dopo soli quattro numeri, de «Il Censore»12, un giornale di cui il patriota di Piacenza era l’unico estensore. Nonostante il successivo allineamento di questi alle posizioni governative nel gennaio 1799, con l’esplicito sostegno al nuovo testo costituzionale13, una sorte non dissimile toccò anche alla «Gazzetta Nazionale della Cisalpina»14. Pur sovvenzionata dal governo, si spense anch’essa dopo soli cinque numeri, il 18 febbraio 1799, proprio il giorno in cui Gioia lanciava un altro foglio, il «Giornale Filosofico‐Politico»15, la cui incessante requisitoria avrebbe condotto il patriota al secondo arresto, questa volta ad opera dei rivoluzionari, peraltro anch’essi in fase di normalizzazione. La condanna veniva emessa il 17 aprile, solo 11 giorni prima dell’ingresso a Milano degli austro‐russi. Rientrato dopo Marengo nella vita politica della seconda Cisalpina, Gioia otteneva nell’aprile 1801, per interessamento del ministro Francesco Pancaldi, la carica di “istoriografo della Repubblica” e, successivamente, con il passaggio dalla Repubblica al Regno d’Italia (maggio 1805), veniva nominato, a partire dal 1807, direttore dell’Ufficio statistico del Ministero dell’Interno. Tuttavia i rapporti con l’autorità furono sempre difficili. Il piacentino rinunciò deliberatamente alla qualifica di funzionario, dichiarando di voler lavorare Su questi problemi vedi Carlo Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, in Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, v. XVIII, Utet, Torino, 1986, pp. 119‐230; Id., Il Direttorio francese e la Repubblica cisalpina, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma, 1992. 12 «Il Censore. Giornale filosofico‐critico di Mel. G.», Pirotta e Maspero, Milano (22 agosto‐6 settembre 1798, nn. 1‐4). Ora in Opere minori, cit., v. III, pp. 3‐83. Una riedizione del Programma, in I giornali giacobini italiani, a cura di Renzo De Felice, Feltrinelli, Milano, 1962, pp. 94‐101. 13 Infra, n. 36. 14 «Gazzetta Nazionale della Cisalpina», in Opere minori, cit., v. XIII, pp. 173‐272 (nn. 1‐5). 15 «Giornale Filosofico‐Politico», in Opere minori, cit., v. XIII, pp. 273‐477 (nn. 1‐10). 11
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come “semplice particolare”. Nel 1810‐1811 fu sottoposto – ancora! ‐ a misure di polizia e, minacciato d’espulsione, preferì ritirarsi “in esilio” a Castel San Giovanni, un piccolo centro nei pressi di Piacenza16. Da quel momento in poi la sua vita si avviava verso la conclusione dell’età napoleonica e l’avvio della Restaurazione, in cui si sarebbe manifestata la forza della sua riflessione politica, economica ed altro ancora. Nel complesso, l’esperienza intellettuale del nostro autore, come è stato sottolineato da studi recenti, può essere sintetizzata citando le seguenti, maggiormente significative elaborazioni. In un’opera d’interesse economico, redatta tra l’autunno 1801 e l’inverno 1802, Sul commercio de’ commestibili e caro prezzo del vitto17, ispirata dalla lettura di Claude‐Adrien Helvétius e Jeremy Bentham, Gioia avanzava la sua concezione utilitaristica dell’agire sociale, funzionale al progresso collettivo18. Seguendo questa ispirazione, sempre nel 1802, pubblicava il Nuovo Galateo, un’opera ristampata e rimaneggiata più volte (1820, 1822, 1827), destinata a divenire ‐ nella definizione di una pluralità, vuoi di contemporanei, vuoi di studiosi recenti ‐ il “manifesto dell’etica laica nella Milano della Restaurazione”, il codice di comportamento di una rinnovata civiltà “alla ricerca del proprio egoistico vantaggio”19, o la “nuova Bibbia della borghesia”, come fu polemicamente definita quando fu messa all’Indice. Confrontando le due prime redazioni, si può constatare come il Nuovo Galateo tenesse conto non solo delle trasformazioni delle forme di governo, ma anche del mutamento dei sistemi economici. Peraltro, mentre l’edizione del 1802 risultava ispirata all’avvento di Napoleone e proponeva una lettura critica del costume, tanto della società d’Antico Regime quanto di quella rivoluzionaria, nell’edizione del 1820, precocemente ispirata dall’affermazione dell’industrialismo, si celebravano i valori di quest’ultimo e si prescrivevano i comportamenti di una società di mercanti e di scienziati, in rotta di collisione con i centri del potere tradizionale20. Cfr. G. Semprini, Melchiorre Gioia e la sua dottrina politica, cit., pp. 70‐2 e passim; Marco Meriggi, Melchiorre Gioia fra Stato e Società civile dall’età napoleonica alla Restaurazione, in Convegno 1990, cit., p. 124 e ss. 17 Sul commercio de’ commestibili e caro prezzo del vitto. Opera storico‐teorico popolare di M. G. istoriografo della Repubblica cisalpina, Presso Pirotta e Maspero, Milano 1801‐1802, poi in Opere minori, cit., v. XII, pp. 1‐352. 18 F. Sofia, voce Gioia, cit., p. 136. 19 Ibidem. 20 Vedi Inge Botteri, Dalla «grazia» alla «ragion sociale»: il «Nuovo Galateo» di Melchiorre Gioia, in Convegno 1990, cit., pp. 157‐202; M. Meriggi, cit., pp. 123‐48. 16
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Anche la Logica statistica (1808)21, destinata ad essere più volte accresciuta e ristampata, nonché i trattati Del merito e delle ricompense (1818‐19)22 rivelano un’attenzione costante verso i problemi della società e nei confronti di quelli altrettanto complessi che regolano i rapporti tra governanti e governati. La concezione utilitaristica, già formulata nei primi scritti della seconda Cisalpina, costituisce il nucleo concettuale di queste opere, nelle quali si avanza una “teoria premiale” quale presupposto per la costruzione dello stato moderno. Ogni individuo, per sua propria natura, conteso tra l’affannosa tensione al piacere e la fuga dal dolore, soddisfatti i bisogni è alla perenne ricerca di una felicità addizionale. La sua natura corrotta e le modeste capacità d’analisi lo rendono incapace di scelte consapevoli e di un pieno coinvolgimento morale e pubblico alla vita associata. È dunque necessario un intervento regolativo della classe dirigente, il cui compito è quello di guidare il processo di sviluppo razionale dello stato, volto a “massimizzare la felicità collettiva” tramite risarcimenti o premi individuali, garantendo così con l’interesse del singolo quello generale23. Si delineava, come si preciserà più avanti, un sistema che, pur fondato sulle ricompense proporzionate ai diversi livelli di merito e quindi sull’idea della diseguaglianza, scopriva in quell’idea e in quel criterio una nuova forma di eguaglianza. Compito della classe dirigente era quello di fissare, con la valutazione razionale delle risorse individuali, i criteri di una riscritta giustizia sociale che avrebbe potuto ridisegnare in forme inedite la fisionomia della comunità. Si può cogliere in questi ultimi scritti l’antitesi che sarà al centro del pensiero dell’ultimo Gioia: al modello dell’Antico Regime, una forma di civiltà sorretta da una economia arretrata, diretta da ceti ormai in declino, sopravvissuta nella “superstizione”, si contrappone la società del lavoro, dei traffici, dell’industria. È quest’ultima una società dominata dal conflitto tra l’imprenditore e le supreme responsabilità regolatrici dello stato. “Sulla scia di Bentham l’individualismo diventa pianificatore”24: si delinea un “protezionismo di confine”, limitato alle industrie nascenti, tollerante di un’area interna di libero scambio, un colbertismo sui generis, stimolatore di un sistema d’incentivazioni “spontanee” e di “civiche remunerazioni”: queste, Logica statistica abbassata da M. G. alla capacità de’ giovani agricoltori, artisti, commercianti, novizi in ogni altra professione privata o pubblica, Presso Pirotta e Maspero, Milano 1808. 22 Del merito e delle ricompense. Trattato storico e filosofico di M. G. autore del nuovo prospetto delle scienze economiche, Pirotta‐Ruggia, Milano e Filadelfia [ma Lugano], 1818‐1819. 23 Francesca Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici apparati tra età rivoluzionaria e restaurazione, Carucci, Roma, 1988, v. I; Ead., Melchiorre Gioia e la statistica, in Convegno 1990, cit., pp. 249‐268. 24 A. Macchioro, L’economia politica di Melchiorre Gioia, in «Studi storici», IV, 1963, 4, p. 697. 21
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canalizzando le esigenze tanto dei consumatori che dei produttori, avrebbero dovuto sollecitare nell’ambito nazionale lo sviluppo dell’industria25. In tal modo il compito della classe dirigente assumeva una valenza pedagogica e civile. Erano soprattutto queste le considerazioni che avrebbero garantito al pensiero di Gioia di rimanere vivo nella memoria delle generazioni dell’Ottocento. L’opinione colta italiana, infatti, apprezzò in modo particolare le sue lezioni di economia politica e di scienza amministrativa, ovvero gli scritti destinati a ispirare, nel 1824, a Milano, quegli «Annali di Statistica»26 continuati poi dall’opera di Romagnosi e di Cattaneo. Altrettanto importante, ai fini della divulgazione delle idee gioiane, fu l’attività pubblicistica nella quale il patriota di Piacenza riversò, come si è già ricordato, il suo impegno civile e la sua incessante polemica. Furono proprio gli scritti giornalistici che resero popolare il suo pensiero e che rimangono alla base di quelle edizioni luganesi dell’opera omnia27 destinate a costituire il punto di collegamento tra la memoria del Settecento rivoluzionario e le lotte dell’Ottocento risorgimentale. Esposte queste considerazioni generali sull’itinerario culturale e politico di Melchiorre Gioia, è opportuno ritornare ora nell’ambito più circoscritto dei problemi specifici di questo intervento, funzionale a chiarire i rapporti tra la tragedia Caligola e il progetto democratico formulato dal patriota piacentino a partire dal 1796. Il Caligola, questo componimento “alfieriano”28 in cinque atti, mai rappresentato, né sui palcoscenici delle “repubbliche sorelle”, né in epoche successive, e redatto, come si è ricordato, prima dell’ingresso dell’Armée d’Italie Vedi A. Macchioro, L’economia politica, cit., p. 688. Gioia, al tomo VI del Nuovo prospetto delle scienze economiche, descrive nei particolari il sistema di “civiche remunerazioni” con le quali la classe dirigente si propone di sollecitare tanto il mercato quanto la produzione. Ad esempio: “Vogliasi promuovere il consumo della seta. Se non si vuole arrivare a privilegi, coercizioni ecc. occorrerà creare un sistema di incentivi spontanei: si tratta di un sistema di incentivi a contenuto civile, analogo ma opposto al sistema che faceva onor di rango nelle società nobiliari e di clero; i nuovi onori di rango stimoleranno nuove gerarchie di valori o ne saranno come il marchio. Così si potrebbero autorizzare i contadini a vestire nastri serici al cappello, più larghi dei nastri permessi alle classi cittadine […]”, Nuovo prospetto delle scienze economiche ossia somma totale delle idee teoriche e pratiche di ogni ramo d’amministrazione privata e pubblica, divise in altrettante classi unite in sistema ragionato e generale da Melchiorre Gioia autore delle «Tavole statistiche», Gio. Pirotta, Milano, 1815, t. VI, p. 69. 26 A. Macchioro, La «philosophia naturalis», cit., p. 280. 27 Alle già citate Opere minori vanno aggiunte le Opere complete di Melchiorre Gioia, seconda collezione contenente le opere principali, Ruggia, Lugano, 1838‐40, vv. 16. 28 “Il Caligola è, nelle intenzioni e nell’attuazione, una tragedia di stampo alfieriano, rispettosa delle norme tradizionali e vicina sotto ogni aspetto al suo modello ideale”. P. Bosisio, Melchiorre Gioia e il teatro, cit., p. 451. Non diverso il giudizio di Federico Doglio, Teatro e Risorgimento, Cappelli, Bologna, 1972, pp. 11‐12. 25
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nella penisola, trasporta il dramma letterario sul terreno politico. Il tirannicidio, il grande tema settecentesco celebrato poi anche dal teatro patriottico29, andava oltre, nel testo gioiano, la tradizionale ispirazione prepolitica e individualistico‐
elitaria che aveva interpretato le inclinazioni e il gusto di tutta un’età. Nello svolgimento degli atti, il consueto programma cospirativo abitualmente risolto nel gesto di Bruto si trasforma ormai, nel segno della vicenda rivoluzionaria francese, in una iniziativa estesa a tutta la società civile. S’intravedono, già nel primo atto, i nuovi interrogativi in merito ai problemi della direzione politica, affiorano inedite e larvate le ipotesi relative all’alleanza tra gruppi sociali diversi30. Il regicidio, giustificato nel corso di tutta la tragedia come momento congiunturale della necessità, trova, nella conclusione del dramma, la sua attualizzazione come mero atto esecutivo di una nuova volontà sovrana, quella del “senato”, il depositario ormai del potere costituente31. Sembrerebbe profilarsi già qui, in un testo pensato nel clima del 1793 giacobino, l’esigenza di un organo istituzionale autonomo e indipendente e insieme garante degli interessi generali, capace di temperare e riequilibrare l’esercizio delle volontà soggettive, indirizzandole verso future certezze legali. In altri termini, con il coinvolgimento e con il consenso del senato alla lotta di liberazione, s’annunciano quelle idee che saranno proprie dello stato liberale dell’Ottocento. Le intuizioni e gli spunti affidati alle allusioni sceniche del Caligola si sarebbero precisati nelle pagine di una Dissertazione, contrassegnata col motto Omnia ad unum, destinata in breve ad essere premiata e a divenire celebre, alla cui scrittura Gioia si accinse verosimilmente fin dall’autunno 1796 nella sua Piacenza, nell’imminenza dell’arresto32. Il patriota, nell’occasione, auspicava uno stato unitario a regime parlamentare, rispettoso in materia di fede, capace di aggregare gruppi e forze sociali diverse. Emergeva l’esigenza di ridisegnare la società su criteri dinamici, ispirati ai valori del lavoro, dell’impegno, del talento. In tal modo si delineava tra 1796 e 1797 l’ipotesi di un sistema idoneo a garantire l’equa corrispondenza tra i meriti e le ricompense. Compito della classe dirigente era quello di costruire una società giusta e imparziale, finalmente in grado d’essere il reale referente del singolo. Una società fondata sull’eguaglianza di tutti di fronte alla legge, capace pertanto di riconoscere e valutare razionalmente, secondo criteri paritetici ed egualitari, i diversi livelli Sul problema si indica qui soltanto: Paolo Bosisio, Tra ribellione e utopia. L’esperienza teatrale nell’Italia delle Repubbliche napoleoniche (1796‐1805), Bulzoni, Roma, 1990; Pietro Themelly, Il teatro patriottico tra Rivoluzione e Impero, Bulzoni, Roma, 1991; Beatrice Alfonzetti, Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701‐1801), Bulzoni, Roma, 2001. 30 Il Caligola, atto V, 6. 31 Ivi, atto V, 2. 32 Supra, n. 6. 29
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delle diseguaglianze sociali, assegnando a ciascuno le competenze specifiche dei propri diritti e dei propri doveri. Con questa dottrina Gioia, tramite il risarcimento delle aspettative individuali, non solo pensava di assicurare il successo e lo sviluppo del “vascello dello stato”, ma intendeva anche definire e regolare l’ambito dei diritti della persona umana e quello altrettanto importante dei doveri del cittadino. Il carattere “premiale” della legge trovava così, già in quest’opera, il suo limite nell’orizzonte altrettanto proporzionato della perequazione fiscale. In tal modo il piacentino si richiamava idealmente alle grandi speranze dei “padri costituenti”, che in Francia, nel 1790, avevano allora per la prima volta tentato d’impostare i difficili problemi relativi alla questione contributiva33. Questo progetto di rinnovamento e di riaggregazione sociale sembrerebbe prescindere da un coinvolgimento diretto e consapevole della società civile, come peraltro traspare dagli orientamenti sul merito e la ricompensa dell’ormai vecchio Gioia della Restaurazione che abbiamo qui sopra brevemente ricordato. Il patriota di Piacenza attribuiva dunque alla classe dirigente il compito di guidare la trasformazione sociale. Era necessario canalizzare le tendenze particolaristiche e orientare gli impulsi e gli istinti individuali che fermentavano nel profondo della comunità. Le energie potenziali disperse nella compagine sociale avrebbero così potuto essere finalmente dirette verso un progetto largamente condiviso. Accanto alla Dissertazione, i primi scritti gioiani documentano, tuttavia, incertezze e oscillazioni e delineano due orientamenti procedurali contrapposti. L’idea della autodeterminazione e della ricostruzione comunitaria dal basso si scontra, addirittura nelle stesse opere, a volte a poche pagine di distanza, con il criterio dell’intervento dall’alto, un intervento che corre il rischio di tradursi nella manifestazione di una volontà sopramessa a quella della società civile. Si profila, per fare un solo esempio nell’ambito dei problemi relativi alla costruzione della coscienza nazionale, un pedagogismo ambivalente che più avanti ripenseremo sotto la formula “eccitare o istruire”. A questo proposito Gioia da una parte esorta la classe dirigente a innescare un processo autonomo e insieme dialettico, interno alla società, funzionale a sviluppare le capacità critiche individuali, prefigurando la società stessa come il motore della trasformazione. Dall’altra, invece, il piacentino invita l’élite dei patrioti a privilegiare quelle tecniche idonee a costruire il consenso tramite un’opera di mera regia delle emozioni. Anche le questioni istituzionali testimoniano la stessa compresenza di motivi. A volte, persino negli scritti più tardi di quelli da noi presi in esame, John F. Bosher, French Finances 1770‐1795: From Business to Bureaucracy, Cambridge University Press, Cambridge (GB), 1970. 33
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l’aspirazione democratica sembra prevalere. Si delinea, ad esempio, un concetto di rappresentanza in forte contrasto con quello formulato dalla teoria termidoriana dell’anno III soprattutto grazie alle grandi tesi di Siéyes del luglio 1795. Questa inedita categoria politica era stata intesa dall’abate di Fréjus come uno strumento idoneo al riequilibrio dei poteri e come un meccanismo tecnico funzionale a depotenziare la volontà generale del popolo francese34. Per Gioia invece, ancora nel settembre1800, il modello rappresentativo era considerato una semplice procedura finalizzata a perpetuare il principio della sovranità nazionale. Nell’opuscolo Idee sulle opinioni religiose l’intervento dall’alto è ritenuto come un momento necessario per garantire, in una società ormai più articolata e complessa, la dinamica della libertà. L’operetta s’ispirava addirittura al modello antico, “puro”, “ateniese” della democrazia. Gli elementi di controllo e di direzione coesistevano con gli organi della sovranità popolare, fino a prefigurare l’idea del “mandato imperativo” rousseauiano: “[…] il popolo aveva senza contraddizione la suprema autorità, […] era questa assemblea che controllava o rigettava le leggi che i capi proponevano […] esercitava tutta l’autorità che caratterizza il popolo sovrano”35. Ma anche in questo caso, in ragione di un antico pessimismo circa la natura umana, risorgeva insopprimibile quella paura della libertà che documentava, sin dal 1796‐’97, le perenni oscillazioni di Gioia. Il patriota di Piacenza infatti, pur essendosi distaccato dal modello direttoriale del 1795, finiva per accettare la Carta dell’anno III. Attribuiva, tuttavia, a quest’ultimo modello costituzionale una funzione d’ordine pragmatico e congiunturale. La Carta, sia pur imperfetta, offriva un quadro di riferimenti certi che avrebbero potuto porre al riparo le risorte speranze del popolo italiano da una pericolosa fase costituente. La coesistenza di questi motivi, l’incertezza tra gli auspici della libertà e le necessità dell’autorità, “momenti storici – è stato osservato ‐ d’un eterno contrasto”, veniva meno nell’opuscolo I partiti chiamati all’ordine36, pubblicato nel gennaio 1799, un’opera che segnava una svolta nel pensiero del patriota di Piacenza. Sopravviveva, tuttavia, ancora qualche sussulto democratico mai I Discours du 2 thermidor an III di Emmanuel‐Joseph Sieyès, sono ora in Paul Bastid, Les Discours de Sieyès dans les débats constitutionnels de l’an III, Hachette, Paris, 1939, pp. 17‐18, 32 e ss. Vedi inoltre Bronislaw Baczko, Le contrat social des Français: Sieyès et Rousseau, in The French Revolution and the Creation of the Modern Political Culture, v. I, The Political Culture of the Old Regime, Keith Michael Baker ed., Pergamon Press, Oxford, 1987, pp. 493‐515. Assai utile il rapido quadro d’insieme di K.M. Baker, Sieyès, in Dizionario critico della Rivoluzione francese, a cura di François Furet e Mona Ozouf, Bompiani, Milano, 1988, pp. 294‐303. 35 Idee sulle opinioni religiose, cit., p. 158. 36 I Partiti chiamati all’ordine dal cittadino Melchiorre Gioia, presso Pirotta e Maspero,Milano, 14 nevoso a. VII (3 gennaio 1799), ora in Opere minori, cit., v. I. 34
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sopito, documentato ad esempio, in quell’opuscolo sulle opinioni religiose della tarda estate 1800 che abbiamo appena richiamato. Nello scritto su I partiti nondimeno ormai si indebolivano i convincimenti democratici e venivano poste le premesse d’una traiettoria politica diversa37. A un modello, che pur con qualche contraddizione, rimaneva fondato sulla libertà politica e sul contratto sociale, si è sostituito, o si sta sostituendo, un modello fondato sulla libertà civile, sulla garanzia del godimento di spazi individuali tutelati da un’autorità superiore. In una prospettiva che è già napoleonica, con la sfiducia nell’autoregolamentazione della comunità, si invoca l’intervento di una forza esterna, d’una magistratura atta ad assicurare l’ordine e la libertà38. Queste dichiarazioni, datate dunque gennaio 1799, anticipavano le scansioni canoniche della nuova età fissate dai grandi eventi del “18 Brumaio” e della battaglia di Marengo (9 novembre 1799, 14 giugno 1800). Si crede che per comprendere tale evoluzione e per riannodare in breve le fila del nostro discorso risultino significative alcune sia pur rapide considerazioni su le tre operette redatte da Melchiorre Gioia a Milano tra il maggio e il luglio 179839. Questi trattatelli si continuano l’uno nell’altro e costituiscono un insieme coerente e una fonte di grande interesse. La “trilogia”, più che la storia di una rivoluzione, è in realtà il diario del suo fallimento. In quei mesi la crisi economica, istituzionale e politica della Cisalpina era acuita dai riflessi della svolta autoritaria che in Francia si sarebbe conclusa appunto il 18 brumaio dell’anno VIII. Milano, come si è accennato, viveva la stagione dei colpi di stato. Il movimento patriottico si disperdeva, lo stesso Gioia, minacciato d’arresto, aveva cercato rifugio in campagna. In questo clima scrisse quegli opuscoli. Cominciava ad incrinarsi la sua fiducia nella rivoluzione democratica. La “trilogia” propone un consuntivo dell’attività repubblicana: esamina concretamente gli interventi legislativi, le misure politiche, le relazioni con la Grande Nation, i problemi del consenso e i rapporti tra la classe dirigente e la La critica severa contro l’estremismo e al contempo l’ambigua, polisensa giustificazione d’un “potere […] vigoroso quando gli ostacoli sono gagliardi” (I Partiti, cit., p. 29) sollevarono le proteste del gruppo democratico. Pietro Custodi, il giorno dopo l’apparizione del pamphlet, annotava nel Diario: “Gioia ha pubblicato un opuscolo […] egli declama in esso contro il partito caduto, loda in più luoghi il partito dominante e non lo rimprovera in alcuno: finisce col panegirico della seconda Costituzione”. Vedi Un Diario inedito di Pietro Custodi (25 agosto 1798‐3 giugno 1800), a cura di Carlo Antonio Vianello, Giuffrè, Milano, 1940, pp. 87‐89. 38 I Partiti chiamati all’ordine, cit., p. 35 e ss. 39 Quadro politico di Milano. Di Mel. G., presso Pirotta e Maspero,Milano, 30 fiorile anno VI (19 maggio 1798), poi in Opere minori, cit., III, pp. 85‐121; Apologia al Quadro politico di Milano di Mel. G. ,presso Pirotta e Maspero, Milano 30 aprile anno VI (18 giugno 1798), poi in Opere minori, cit., v. III, pp. 123‐218; Cos’è il patriottismo? Appendice di Mel G. al Quadro politico di Milano, presso Pirotta e Maspero, Milano, 30 messidoro anno VI (18 luglio 1798), poi in Opere minori, cit., v. III, pp. 219‐255. 37
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società civile. Gli scritti sono caratterizzati da un’incessante, monotona requisitoria. Le responsabilità investono tutti, nell’alto e nel basso della società: il Direttorio esecutivo, le Assemblee, gli intellettuali ed i gruppi patriottici, la società civile nel suo complesso. Nelle prime pagine del Quadro politico di Milano, il trattatello che inaugura la “trilogia”, la rappresentazione della tempesta delle passioni suscitate dalla “rivoluzione democratica” appare ancora illuminata dalla speranza di trovare una rotta di salvezza per il “vascello dello stato”. Gli scritti del Triennio si erano mossi in quella direzione, avevano cercato di stabilire dei confini, di sottoporre gli impulsi e i bisogni individualistici al controllo della ragione ed alle leggi della repubblica. Tuttavia la lettura degli opuscoli del 1798 rivela il progressivo affievolirsi di quella speranza. Avanza la sfiducia nell’operare umano. Le incessanti spinte vitali, sfuggite al controllo, si sono trasformate in energia negativa: l’errore e il disordine dominano il mondo ed hanno penetrato non solo le masse ma anche l’élite dei patrioti. Si profila un’età nella quale solo pochi saggi interpreti della ragione – la classe dirigente del futuro ‐ tenteranno di assumersi la responsabilità di guidare dall’alto la comunità umana. Al di là delle contraddizioni e dei ripensamenti, l’esame degli scritti gioiani del Triennio rivela nonostante tutto la sostanziale tenuta di quella concezione progressiva che resta il tratto caratterizzante della sua vita. L’annuncio letterario della rivoluzione: Il Caligola. Il Caligola costituisce, come accennato, una delle rare testimonianze di scrittura teatrale compiute da Gioia nell’arco del decennio 1792‐1801, che documentano, anche sul piano letterario, la sua grande passione politica. Insieme alla nostra tragedia, tra il 1792 e il 1794 Melchiorre stendeva probabilmente anche il Tiberio, un dramma d’intonazione alfieriana, di cui oggi ci restano solo poche carte incompiute che ne tradiscono lo stato d’abbozzo.40 Una sorte diversa, perlomeno sotto il profilo editoriale, sarebbe più tardi spettata alla Giulia41, la tragedia della guerra civile, un’opera considerata monocorde, irrigidita in un antagonismo schematico42, per taluni addirittura una prova “mediocrissima”43, e Il manoscritto composto da cinque stesure frammentarie e irrisolte è in Biblioteca Nazionale Braidense, Milano, A.F. 14.7 (2). 41 La Giulia, ossia l’interregno della Cisalpina. Tragedia del cittadino Melchiorre Gioia, in Opere minori, cit., v. V, pp. 137‐207, il testo è ora in Federico Doglio, Teatro e Risorgimento, Cappelli, Bologna, 1972, pp. 55‐100. 42 Così F. Doglio che tuttavia pur ne riconosceva il carattere originale e la capacità di rappresentare “il clima e il senso di quel tempo ansioso e spietato”.Vedi Id., Teatro e Risorgimento, cit., p. 12. La stessa incertezza di giudizio anche in P. Bosisio, Melchiorre Gioia, cit., 40
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che invece, recentemente rivalutata44, a noi sembra esprimere compiutamente, proprio forse in virtù di quell’antagonismo schematico che ne esalta il carattere biografico, il senso di dramma dei tempi, la consapevolezza del fallimento vissuto da tutta una generazione. Scritta probabilmente nell’estate‐autunno del 1800, nel clima della seconda Cisalpina e uscita a stampa solo nel 1801, la pièce rievocava il tragico epilogo degli ideali rivoluzionari e dell’Italia patriottica. Nell’eco del 1799 ritornava, tra le pagine del dramma, l’antico grido che era stato giacobino: ”libertà o morte”45. La tragedia Caligola, come si è ricordato, rimasta manoscritta tra le carte gioiane custodite presso la Biblioteca Nazionale di Milano e solo parzialmente edita nel 1878 da Lorenzo Fovel46, veniva presentata in edizione critica da Paolo Bosisio nel 1983. Lo studioso milanese indicava la possibile stesura dell’opera “tra gli ultimi mesi del 1792 e il 1794”, fondando questa ipotesi soprattutto in ragione dell’ispirazione alfieriana che sorreggeva il testo47. Un’ispirazione che, a giudizio dello storico del teatro, sarebbe stata poi disattesa dai nuovi orientamenti letterari maturati dal piacentino a partire dal triennio rivoluzionario ed in particolare esplicitati in una celebre Memoria sulla organizzazione dei teatri nazionali48. Una dissertazione quest’ultima sulla quale torneremo più avanti nella sezione relativa ai problemi politico‐pedagogici. Valga qui ricordare soltanto che il testo della Memoria, contrassegnato dal motto virgiliano Italiam Italiam, venne steso dal patriota lombardo in occasione di un concorso bandito a Milano nell’ottobre 1797 il cui fine era quello di promuovere un’integrale riforma del teatro. Tra i tanti e diversi spunti proposti da questo contributo emergeva anche con forza la necessità di un rinnovamento dell’esperienza teatrale a partire dai suoi contenuti. Si prefigurava la nascita p. 448; Vanda Monaco, La repubblica del teatro (momenti italiani 1796‐1860), Le Monnier, Firenze, 1968, p. 41. 43 Tale il giudizio di F. Momigliano riportato da P. Bosisio in Melchiorre Gioia, cit., p. 446. 44 Una significativa correzione di giudizio veniva avanzata da P. Bosisio nel 1990 che considerava la Giulia degna di “essere rivalutat[a] come uno fra i più interessanti e originali lavori drammaturgici prodotti in Italia nel periodo giacobino”. Vedi Id.,Tra ribellione e utopia, cit., p. 304. 45 La Giulia, cit., Atto V, 4. 46 Lorenzo Fovel pubblicava solo il primo atto del Caligola nell’oposcolo Per le nozze auspicatissime del signor Gio. Battista C.te Viola colla signora Anna Favaretti, L. Bortolotti e C., Milano, 1878. 47 P. Bosisio, Melchiorre Gioia, cit., p. 467. 48 Il manoscritto della Memoria è presso l’Archivio di Stato di Milano, «Sezione Autografi», cart., 175. Il testo può leggersi ora in Pietro Magistretti, Memoria postuma di Melchiorre Gioia sull’organizzazione dei teatri nazionali, Pirola, Milano, 1878. 16
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d’un teatro popolare e borghese, ispirato ai valori della interiorità e della quotidianità. La lezione d’Alfieri sembrava ormai dimenticata49. Nello specifico, l’opera qui almeno parzialmente rivisitata rievoca le vicende della congiura del 41 d.C., ordita da alcuni elementi della classe dirigente romana, guidati dal tribuno Cassio Cherea, ai danni del dissoluto imperatore Caio Caligola, colpevole d’aver instaurato, confidando nell’assenso popolare, un governo assoluto. Il commento di Paolo Bosisio premesso all’edizione mette in evidenza la rigorosa derivazione alfieriana del testo, che pur risente l’influenza del Bruto e de La morte di Cesare di Voltaire e in parte già s’ispira ai coevi drammi “rivoluzionari” di M. J. Chenier. Muovendosi sulla scia del grande astigiano – osserva sempre il curatore ‐ la tragedia si incentra esclusivamente sulla drammatica sequenza del tirannicidio, motivando nei dialoghi dei primi atti le ragioni di fondo che conducono al gesto omicida. Non diversamente, la profonda conoscenza delle fonti, in particolare dell’opera di Svetonio, Dione Cassio e Giuseppe Flavio50, non limita mai, alfierianamente, la libertà di ricostruzione della vicenda. I classici, a volte recuperati quasi alla lettera, sono sempre funzionali alla caratterizzazione personale. È questo il caso del ricorso a Svetonio, che si rivela utile per ricostruire con piglio originale i tratti “macabri”, “violenti” e la personalità deviata, quasi al limite della follia, di Caligola. Le fonti sono sempre, dunque, plasmate per accentuare, in una progressiva tensione, l’incalzare stesso degli eventi e condurli, inesorabilmente, verso la catastrofe conclusiva. Sempre per Paolo Bosisio il Caligola è il dramma della coscienza che non riesce a risorgere e che costituisce l’acre amarezza, che fu anche di Gioia, di scoprire l’uomo incapace di innalzarsi da “assassino”ad “eroe”. L’opera pertanto estende la sua critica rassegnata ad ogni inclinazione individuale, risolvendosi in una mera condanna d’ordine morale, che preclude ogni possibile sbocco politico. Tale pessimismo sottrae così – ancora secondo lo studioso lombardo ‐ il disegno dell’autore alla contingenza storica e trasfigura i pensieri e le azioni dei protagonisti nei caratteri rappresi propri delle maschere. Per indicare qui il solo esempio relativo alla meccanica ormai disumanizzata dello scontro tiranno‐eroe, il Caio Caligola di Gioia si rivela per Bosisio come una forza integralmente malvagia, come il tiranno “efferato per definizione”, simbolo di una immoralità elementare, incapace, non diversamente dagli altri protagonisti, di riconoscersi in quel dibattito interiore proprio anche dei grandi eroi negativi. Così anche Cherea, il tribuno tirannicida, diviene il simbolo d’un eroismo “assoluto”, configurandosi come l’antagonista “simmetrico al Su questa Memoria gioiana e più in generale sul concorso milanese indetto per la riforma del teatro nazionale vedi P. Themelly, Il teatro patriottico, cit., pp. 7‐53. 50 Cfr. SUET, Cal., 55‐56‐57; DIO C., Hist. Rom., LIX, 29‐30; JOS. FLAV., Antiq.Jud., XIX, 13‐14‐15. 49
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tiranno”51. La tragedia del pur precoce Gioia sembrerebbe quindi circoscritta, nonostante qualche impennata, nell’alveo di un’esercitazione letteraria giovanile, in definitiva lontana dagli sviluppi futuri del suo pensiero. Tracciato così, con autorevole conforto, il quadro di riferimento letterario e culturale che definisce l’ambito del Caligola, si sente opportuno ricostruire con qualche ulteriore precisazione le dinamiche storico‐politiche che strutturano l’opera, a cui peraltro si è già accennato agli inizi di questa presentazione. Il testo sembra risentire ancora del dibattito settecentesco sulla città antica; tuttavia, nella rappresentazione della Roma imperiale del primo secolo, Gioia raffigura il crollo dei valori e dei ruoli tradizionali, la fine del mondo antico. A questo proposito particolarmente efficace si rivela la descrizione posta a conclusione del dramma, che idealmente si richiama alle scene introduttive, rafforzandone il significato d’insieme. Nella chiusura dello scritto, il presagio della rovina dell’impero, destinato a sgretolarsi pezzo a pezzo52, sembra alludere alla contemporanea disgregazione della società d’Antico regime. La fine della civiltà romana aveva avuto, si legge fin dal primo atto, la sua origine remota con la crisi degli ideali pubblico‐civili della cittadinanza e con il venir meno dell’idea stessa della legge intesa come norma di carattere universale e insieme impersonale53. La crisi di questo processo si manifestava nella figura di Caio Caligola, tiranno nella sua più intima natura, non in ragione del suo potere illimitato, bensì nell’aver piegato la legge ad un uso arbitrario, personale. Despota dunque Caio, più che monarca assoluto, nella misura in cui non riesce a garantire un interesse condiviso, a conquistare nell’adempimento delle sue funzioni il traguardo che compete all’esercizio della sua carica54. Non è un caso che il giovane Gioia contrapponga emblematicamente a Caligola la figura di Seneca, colui che aveva perorato la causa del perfetto sovrano, il monarca non solo assoluto ma anche illuminato, capace di porsi al servizio dell’impero e di essere il garante della legge giusta55. Gli episodi della storia antica richiamati nella tragedia giustificavano così la ricerca, tutta orientata nel presente, di nuove garanzie di legalità istituzionale. Spingevano a rintracciare nei nuovi referenti della sovranità quel “transfert della sacralità”, volendo mutuare una felice espressione di Mona Ozouf, grazie al quale si sarebbe potuto assolvere e giustificare con l’antico anche il nuovo tirannicidio. Si è già fatto cenno all’investitura legale e P. Bosisio, Melchiorre Gioia, cit., pp. 451‐456. Vedi anche Id., L’esperienza teatrale di Melchiorre Gioia tra teoria e prassi drammaturgica, in Convegno 1990, cit., pp. 105‐121. 52 Caligola, Atto V, 7. 53 Ivi, Atto I, 3. 54 Ibidem. 55 Ivi, Atto I, 2. 51
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istituzionale del tirannicidio, alle perenni incertezze del tribuno Cherea a compiere, “con la scure”, quel gesto tremendo56. Un gesto che, per quanto meditato e atteso dallo stesso regicida, poteva realizzarsi solo in seguito all’approvazione del “senato” tramite un suo “decreto”. Era quella risoluzione assembleare che sanciva l’affermazione di un nuovo potere sovrano fondato da un atto costitutivo che era insieme politico e religioso57. L’illegalità era legalizzata. Spettava dunque alla classe dirigente raccogliere, come si preciserà tra poco, tutte le voci di una protesta estesa ormai oltre il coagulo elitario della setta, un fermento articolato e diffuso in tutta la società. Tramontata l’idea della congiura, nel messaggio del Caligola s’inauguravano le vicende storiche della rivoluzione. Al momento esplosivo, “anarchico” della conquista della libertà, all’aspirazione a “divenire liberi” si susseguivano gli affannosi interrogativi necessari per affrontare i problemi del “rimanere liberi”58. Insorgevano le questioni relative alla costruzione della società rigenerata. La nuova classe dirigente doveva dunque interpretare le aspettative e i bisogni sociali e insieme formulare con chiarezza gli obiettivi del suo programma. Già nel corso del primo atto il giovane Gioia tratteggia il possibile configurarsi di un sistema di alleanze all’interno della civitas e delinea il suo progetto politico. “Il naufragio universale”59 della Roma imperiale nell’età di Caligola rendeva attuale il problema della legge, riproponendone il carattere impersonale e la sua natura di norma equa e giusta. Come a dire che l’antico principio del diritto romano risorgeva nel presente con la rivoluzione e veniva tradotto, anche dal patriota lombardo, nell’idea dell’eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge della nuova repubblica. Era l’acquisizione di questo concetto che consentiva di intuirne lo svolgimento nel criterio della diseguaglianza sociale dei meriti che costituirà, com’è ormai noto, un elemento strutturale della sua futura dottrina. Era addirittura lo scettico Senzio, il console latore del “decreto”60 a Cherea, a definire i compiti del nuovo stato. Propugnava un organismo politico capace di porre fine ai conflitti e agli scontri, fondato sulla legge e non sull’arbitrio, sui diritti dell’individuo, sui suoi meriti personali61 e, come più in generale richiama il senso stesso della tragedia, sul Ivi, Atto V, 6. Ivi, Atto V, 2. 58 Piero Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, ora in Id., Risorgimento senza eroi, Einaudi, Torino, 1969; Luigi Russo, Alfieri politico, in Id., Ritratti e disegni storici, Laterza, Bari, 1946; Umberto Calosso, L’anarchia di Vittorio Alfieri, Laterza, Bari, 1924. 59 Caligola, Atto I, 2. 60 Ivi, Atto V, 2. 61 Ivi, Atto I, 2. 56
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modello della sovranità rappresentativa, una categoria politica funzionale al riequilibrio dei poteri. È sempre quel “naufragio universale” che tuttavia rivela come la memoria del passato repubblicano, sicuramente nel contesto romano, potenzialmente nel presente settecentesco, sia ancora viva non solo per una minoranza di “giusti”, ma per la maggioranza della popolazione (“ei sono i più”): per una moltitudine di “cittadini oscuri” che vivono “lungi dal trono” nei “casolai […] ove il travaglio ferve giornaliero”62. La descrizione dei caratteri del “popolo” e le iniziative prese dalle folle nello svolgimento scenico testimonia anche in quest’opera giovanile, nonostante le consuete ambivalenze, il proporsi di quella concezione dinamica e positiva del progresso storico che sempre ispira il pensiero del piacentino. Le vicende della tragedia descrivono il processo, difficile e faticoso, attraverso il quale i ceti subalterni raggiungono la loro emancipazione, autodeterminandosi. La conquista dell’autonomia resta, anche qui, un processo indotto dall’esterno che si compie grazie all’iniziativa concorrente della classe dirigente. Gioia, a suo modo, cercava di superare l’antica irriducibilità tra i due popoli: quello dei sensi e quello della ragione, ovvero l’antitesi tra “l’intendere” della classe dirigente e il “sentire” ceti popolari. Questa divaricazione si esprimeva nella idea della giustapposizione di due universi distinti. Indubbiamente il piacentino pensava che sarebbe spettato ai patrioti più consapevoli tentare di penetrare le profondità sociali per trasformare, grazie alla luce della ragione, le spinte istintive e emozionali delle masse in idee‐forza utili per la causa del progresso. Nondimeno le attese delle folle anonime rappresentate nella metafora della Roma imperiale tradivano delle motivazioni costruttive: le “plebi” non potevano essere per Gioia soltanto dei semplici aggregati del tutto inconsapevoli e involontari. L’abisso scavato tra i due popoli iniziava ad essere colmato. Quasi ad avvertenza del lettore, nell’esordio del primo atto, il “popolo” se pur configurato ancora convenzionalmente come una entità corale e indistinta, instabile e irrazionale, si rivela tuttavia animato di una energia potenziale, a suo modo capace di renderlo vigile e di fargli comprendere i propri reali interessi63. Gli eventi della tragedia documentano come anche negli assembramenti a tutta prima casuali fosse presente nel profondo di ciascuna coscienza individuale una consapevolezza politica destinata a risvegliarsi in seguito a uno stimolo, all’enunciazione d’un programma. Il giovane patriota intuiva l’autonomia costitutiva propria di ogni singola coscienza e tuttavia pensava che per le masse brute questo processo dovesse essere innescato dalle élite. Ivi, Atto I, 1. Ivi, Atto I, 2. 62
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Nella Piacenza granducale, il giovane sacerdote auspicava dunque, anche per l’Italia, una trasformazione irreversibile, estesa organicamente a tutta la società civile. Nella conclusione del dramma, “il popolo”, fino ad allora una massa corale di sfondo raramente partecipe, sempre incerto ed esitante, soggiogato dal carisma della figura imperiale più che dalla demagogia tirannica di Caligola, improvvisamente si riscatta. È il monito di Sabino a renderlo consapevole, a innescare la “scintilla”64. Questi, tribuno e capo dei rivoltosi, promesso sposo di Giulia sorella di Caligola, verso la quale tuttavia l’imperatore indirizza la sua concupiscenza, mescolando vendetta personale e impegno politico, arringa la folla. Il popolo, in bilico tra la nostalgia delle origini e l’ansia del futuro, ormai persuaso che il tiranno ha tradito gli interessi di Roma, infangandone le leggi e la tradizione, finalmente diviene protagonista e corre in armi al Campidoglio65. Accanto al popolo che seguirà il richiamo della élite spiccano nella tragedia anche le figure simboliche delle classi medie. Tra i tanti congiurati (“quanti Catoni, Cassi, Cimbri e Bruti/ cavalier, senator, plebei, patrizi”) è lo stesso Caligola a individuare anche una “donzella” e un “sofista”. Quest’ultimo, rappresentante dell’intellettualità ribelle, ha impugnato “la penna invece del brando”66. Alcuni dialoghi del terzo e quarto atto documentano i sentimenti e le aspirazioni di una società che ormai, come quella italiana settentrionale, rifiuta i condizionamenti dell’Antico regime e vive già la sua vigilia rivoluzionaria67. Balena nella tragedia il nuovo concetto di patria, luogo ideale per la piena realizzazione della persona umana, valore supremo al quale tutti gli altri devono essere sacrificati68. La cospirazione s’iscrive così in un processo sinfonico di fermento e di attese, di conflitti e tensioni sociali. Lo stesso Campidoglio, nell’ora del tirannicidio, è teatro di disordini e devastazioni. La” plebe” ha riempito i Fori gridando “a Caio morte”, dall’altra si replica invece “morte ai ribelli”. Infrante le statue innalzate a Caligola s’atterrano anche quelle di Bruto e di Catone69. Il Ivi, Atto V, 7. Ibidem. 66 Ivi, Atto V, 6. 67 “Qual v’ha famiglia che non conti almen/ una vittima? Un giorno sol, un giorno/ havvi, in cui non rosseggia il sol nel sangue?/vanno degli avi all’urne i cittadini/ a versar muti e ognor tremanti il pianto./ Del Tebro sulle sponde erran le figlie/ de’ padri per raccor l’esangui spoglie./ Erran per mari ignoti esuli illustri/ […] Dopo tanto macello, di perigli/ mi parli tu? Ne parli a me ma sia/ grande il periglio: dunque è di noi degno”. Atto III, 1. Vedi anche, Atto I, 2; Atto III, 2; Atto IV, 5. 68 “[…] Ma dì, chi ti diè la vita, dì?/ la Patria./ Chi sopra tutto amar si dee?/ La Patria.” Atto III, 1. 69 Ivi, Atto V, 2. 64
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“Tempio” e il Campidoglio, con il loro alto significato politico e religioso divengono, in conclusione del dramma, il grande palcoscenico sul quale convergono e agiscono tutti i nuovi e diversi protagonisti della rivoluzione: Caligola tiranno, i sacerdoti, i senatori, i supremi magistrati, le milizie, i ribelli in catene, i cavalieri e i patrizi, le figure simboliche delle classi medie, le plebi70. Le scene sembrerebbero suggerire che lo scontro tra le parti è inteso probabilmente come il prerequisito della dinamica storica. Questa idea di sviluppo che nasce dallo scontro, nel “frastuono” corale delle ultime scene che rende assai bene l’idea di un processo in fieri, per potersi perpetuare doveva essere trasferita e insieme decantata nel contesto ordinato e a suo modo libero di un inedito dibattito prefigurato dalle nuove istituzioni rappresentative. L’adesione alla rivoluzione. Il programma del 1796‐1797 Le prime riflessioni esplicitamente politiche di Melchiorre Gioia coincidono con l’arrivo dei francesi in Italia e testimoniano una fase di speranze che si conclude nella progettazione di una società democratica. Nella ricordata Dissertazione, scritta tra l’autunno 1796 e la primavera‐estate 1797, in occasione di un “celebre” concorso bandito dall’Amministrazione Generale della Lombardia sul tema Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia?71, Gioia disegna la struttura di quello che definiamo il suo modello democratico; lo correderà di particolari in altri scritti, ai quali si farà riferimento più avanti. Alla base del modello sono tanto le ragioni dell’economia, quanto quelle della libertà politica e dell’autonomia della coscienza. S’impone un’idea pacifica della rivoluzione, un progetto di redistribuzione della ricchezza ispirato dall’idea delle ricompense proporzionali ai meriti: emerge il quadro di una società che si ricostituisce su un contratto tra eguali, nella quale la coesistenza di voci diverse produce nuove prospettive politiche, nuove forme di civiltà e di cultura. Si coglie l’auspicio d’una comunità che non rinuncia al rispetto della persona umana e sia insieme capace di attrarre gruppi e interessi diversi. La Repubblica cisalpina così rigenerata avrebbe attratto a sé, per forza di “riverbero”, gli altri stati italiani sino a costituire la comunità nazionale. Nelle sue linee complessive il modello suggeriva la costituzione di uno stato libero, laico e moderno che avrebbe risolto i problemi secolari della storia italiana. Era Ivi, Atto V, 6. Dissertazione di Melchiorre Gioia sul problema dell’Amministrazione Generale della Lombardia «Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia» Premiata a giudizio della Società di Pubblica Istruzione di Milano. I omnia ad unum, Milano l’anno I della Repubblica cisalpina. (D’ora in poi abbreviata in Dissertazione). Il Testo può leggersi ora in Armando Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi d’un «celebre» concorso (1796), Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma, 1964. Vedi v. II, pp. 1‐130. 70
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un’ipotesi ormai lontana dagli ideali “eroici” del 1793; tuttavia questo distacco non segnava né un arretramento, né una rinuncia72, costituiva, invece, la speranza della democrazia del futuro. Gli studi attenti al pensiero politico del Triennio non hanno – a nostro parere ‐ messo pienamente in rilievo l’originalità del modello gioiano. Nel patriota di Piacenza coesistono, come si è già accennato e come si vedrà meglio più avanti, due anime e due culture. Le ambivalenze del suo pensiero sono state interpretate entro un’angolatura moderata e tradizionalista. Ci sembra opportuno valorizzarne gli aspetti innovativi. Certamente segnate dal tempo sono le interpretazioni di derivazione idealistica e gentiliana che proiettano verso una conclusione autoritaria la dinamica delle élite73. Altre, invece, vicine all’interpretazione classica del processo risorgimentale, hanno visto in Melchiorre Gioia il “tramite prezioso” tra la generazione dei Lumi e il movimento patriottico e nazionale dell’Ottocento74. Questi studi sono stati attratti dai problemi istituzionali, dalla polemica antifederalista75, ma sono anche attenti a cogliere i riflessi della trasformazione della cultura e dell’economia tra Settecento e Ottocento76. Il giudizio prevalente è – lo ripetiamo ‐ quello di moderatismo. Possono cogliersi comunque delle oscillazioni tra il “moderatissimo” tra i giacobini di Delio Cantimori77 e il “moderato” per Luigi Salvatorelli. Per quest’ultimo la moderazione di Gioia ha una connotazione dinamica: l’azione politica del piacentino non deve essere considerata “pour le peuple” ma “par le peuple”. Ciò sottintende una considerazione non subalterna degli strati profondi della società: “Gioia mira, acconsentendo temporaneamente a qualche debolezza del popolo, non a dominarlo ma a liberarlo ed elevarlo […] perciò tiene come a condizione primaria ad avere con sé il popolo nell’opera di trasformazione”78. “[…] Uccidendo Robespierre, essi avevano ucciso, per un secolo, la Repubblica democratica” Albert Mathiez, La Rivoluzione francese, v. III, Il Terrore, Einaudi, Torino, 1950, p. 334. 73 G. Semprini, ha colto, per fare un solo esempio, nel rifiuto gioiano della “folla anonima” e della “maggioranza di assemblee caotiche” l’aspirazione ad una concentrazione “dei propositi e dei poteri della nazione in pochi”. In tal modo nel piacentino si potrebbe riconoscere “uno dei migliori rappresentanti della nostra tradizione politica, come un pioniere dell’Italia rinnovata dal fascismo”. Vedi G. Semprini, Melchiorre Gioia e la sua dottrina politica, cit., p. 5. 74 Vedi l’Introduzione di Carlo Morandi a Melchiorre Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia ed altri scritti politici, Zanichelli, Bologna, 1947, p. XXIII (ripubblicato in Id., Scritti storici, a cura di Armando Saitta, Istituto Storico italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma, 1980, v. II, pp. 277‐290). 75 Ibidem. 76 F. Catalano, Melchiorre Gioia e il passaggio economico‐sociale dal Settecento all’Ottocento, cit., pp. 636‐656. 77 Delio Cantimori, Studi di storia, Einaudi, Torino, 1959, p. 632. 78 Luigi Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Einaudi, Torino, 1941, p. 120. 72
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Queste interpretazioni sono state mantenute, pur con qualche variante79, fino ad anni a noi più vicini. Diverso invece il giudizio di Silvio Lanaro, che accentua la natura statica del moderatismo del nostro autore. La “ragione” diventerebbe più che un’esigenza di rinnovamento, uno “strumento di ratifica dell’esistente”. Nella Dissertazione, secondo lo studioso, si possono cogliere le radici del compromesso moderato degli anni Trenta‐Cinquanta dell’Ottocento80. Seguendo le suggestioni di questa prospettiva, alcuni sono giunti ad una condanna senza appello non solo del patriota di Piacenza ma di tutta una età81. Inoltre, anche quanti si muovono, in Italia, nell’ambito della storiografia classica della rivoluzione sottovalutano quello che a noi sembra un reale processo di rinnovamento. L’intervento di Stefano Nutini al convegno gioiano del 1990 coglie una innegabile compresenza di temi, ma ne esaspera alcuni rispetto ad altri. Soffermandosi sugli aspetti formali del moderatismo, sottolinea lo spostamento di Gioia sulle posizioni della normalizzazione autoritaria. Per l’autore tali tendenze, che si accentuano nel corso del 1798‐’99, inquinano già la Dissertazione del 1796; in questa l’ispirazione democratica è sostanzialmente soffocata dal prevalere dei temi che anticipano il Gioia degli anni maturi, quelli dell’età napoleonica e della Restaurazione82. Entrando ancor più nel merito della Dissertazione, così essa salutava l’avvento della rivoluzione, ovvero l’avanzata irreversibile d’una forza pari a quella del “fuoco che incenerisce quanto le si para davanti”: “La libertà è la tromba dell’Angelo che risveglia i morti dal sepolcro, è la voce di Dio che Renzo De Felice, ad esempio, sulla scia di L. Salvatorelli pone in rilievo la sensibilità di Gioia per le “esigenze popolari”, per le sorti della rivoluzione (vedi I giornali giacobini italiani, a cura di R. De Felice, Feltrinelli, Milano, 1962, pp. XLII, L); Mario Themelly accentua le istanze di un progressive del “moderatismo” gioiano nella prospettiva già ottocentesca d’un progetto liberale unitario (vedi M. Themelly, Il dibattito sulla nazionalità in Italia tra la Rivoluzione francese e i regni napoleonici, in Literarische Tradition und nationale Identität, herausgegeben von F. Wolfzettel und P. Ihring, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 1991, pp. 73‐100. 80 Silvio Lanaro, Ideologia e cultura nell’età del Risorgimento, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da Vittore Branca, Utet, Torino, 1986, v. III, p. 617. 81 È questo il caso di Marco Cerruti che, a conclusione delle sue osservazioni sugli scritti teatrali di Gioia del 1797‐1798 afferma: “Certo questo ceto intellettuale […] che vivrà di fatto fino al Congresso di Vienna […] ci si offre come il prototipo […] di un quadro di esperienze che avranno modo di ricomporsi […] ogni volta che un potere abbastanza monolitico, tendenzialmente totalitario e preoccupato della gestione delle masse si ripresenti sulla scena della storia: si pensa qui, come è ovvio, soprattutto al Ventennio fascista, oggi molto indagato sui rapporti che intercorsero tra potere e cultura […]”. M. Cerruti, «L’inquieta brama dell’ottimo». Pratica e critica dell’Antico (1796‐1827), Flaccovio, Palermo, 1982, p. 77. 82 “[La Dissertazione è] strutturata […] su un particolarissimo equilibrio tra le istanze radicali e quelle già decisamente orientate in senso moderato, ma con un maggior peso per quest’ultima componente […]” Stefano Nutini, Melchiorre Gioia a Milano tra giacobini e moderati, in Convegno 1990, cit., p. 91. 79
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chiama gli esseri dal nulla”83. L’eredità del recente passato, per quanto innovativa, non sembrava contenere del tutto le premesse del presente, né a rispondere alle sue esigenze, pur nel rifiuto, come si illustrerà subito più avanti, del radicalismo giacobino. Se la filosofia dei Lumi e le profonde trasformazioni di quegli anni erano pur sembrate schiudere una nuova era felice, all’instaurazione di quest’ultima non potevano bastare tuttavia né una monarchia seppur riformata, né un governo ancora pervaso di chiusure aristocratiche, né i programmi ispirati alla democrazia diretta84. La rivoluzione e i suoi nuovi protagonisti imponevano una dimensione diversa nel modo di pensare, di vivere, di aggregarsi. Era in procinto di sorgere infatti una società che per definirsi aveva bisogno di creare, grazie al contributo di tutte le energie disponibili, le sue strutture politiche. Gioia avvertiva in altre parole la necessità di andare oltre le alleanze tradizionali, fossero anche quelle indicate dai vittoriosi esempi del tempo. L’esigenza che tutti gli uomini si associno, la richiesta del “consenso” tra le parti sociali ricorre significativamente in questa opera85. Intorno alla repubblica si dovevano raccogliere tutte le classi interessate al progresso, anche i nuclei disponibili dell’aristocrazia e del clero. Su questi gruppi avrebbe poggiato la futura classe dirigente nazionale86. Individuate le forze, come realizzare il progetto? Come liberarsi dei superstiti tiranni? Solo armandosi della “clava d’Ercole”? Si poneva a questo punto, insomma, il problema della strategia da seguire, che investiva il significato stesso del metodo rivoluzionario. Sempre per la Dissertazione, la recente esperienza suggeriva di respingere le soluzioni proposte dagli estremisti: tanto la via degli “entusiasti”, di coloro che credono necessario un “battesimo di sangue”, che vogliono mostrare i “pugnali tinti del sangue dei re”, ed “apprezzano la libertà” solo se “acquistata in faccia alla morte”, quanto la norma dei “meno impetuosi” che confidano nel tempo lungo e sperano nel futuro87. Entrambe le proposte erano insoddisfacenti: occorreva accelerare il corso degli eventi senza correre i rischi della guerra civile. Gioia non vuole Dissertazione, cit., p. 52. “Una assemblea popolare è il teatro in cui vengono a contesa le più grandi passioni, l’avidità degli uomini cupidi, l’interesse degli inquieti, l’orgoglio degli ignoranti, l’ambizione degli usurpatori. […] La democrazia assoluta è dunque anch’essa uno scoglio contro cui va a rompere la libertà”. Ivi, p. 23. 85 Ivi, pp. 16 e ss. 86 “Le misure che vi ho proposto riguardo ai nobili, agli ecclesiastici ed agli altri ordini della società, che sebbene comuni e triviali non lasciano d’essere utili ed efficaci, dimandano una pronta esecuzione per arrivare all’ultimo scopo a cui tendono. Queste misure promovendo e mostrando i vantaggi della libertà e dell’eguaglianza tendono ad eccitare il desiderio di partecipare ed allargare il campo della rivoluzione”. Ivi, p. 102. 87 Ivi, pp. 84‐85. 83
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usare un metodo ed un linguaggio radicali, non vuole presentarsi con la “falce per distruggere”, ma neppure vuole “paralizzare la rivoluzione”88. Solo la necessità giustifica l’uso della forza, ma questa deve essere unita alla prudenza ed al buon senso: “abbiate una mano di ferro ma impiegatela rare volte; slanciatevi con tutto l’impeto contro de’ nemici terribili, ma trascurate quelli che non hanno che la voglia di essere dannosi”89. Andando oltre il radicalismo intransigente e il moderatismo rinunciatario, il futuro autore de Il merito e le ricompense afferma che “la voce dell’interesse è più forte di quella del cannone”90. Solo usando il linguaggio della ragione e le motivazioni dell’utilità si potranno raccogliere intorno al progetto repubblicano tutte le classi interessate al progresso. L’adesione agli ideali della rivoluzione non significa la rinuncia alla riflessione critica. L’eguaglianza resta “un’idea madre che influisce sopra tutte le altre”91, ma non deve degradarsi in egualitarismo. In armonia con la cultura del tempo, Gioia scopriva la bellezza della varietà, della sfumatura, della distinzione, l’irripetibilità dell’individuo, la peculiarità che è “né corpi, negli spiriti, né cuori”92. Queste suggestioni non contrastavano con la lezione autentica della Grande Rivoluzione, ma si arricchivano della sua esperienza. Addirittura lo scrittore scopriva nella diseguaglianza, come più volte si è già accennato, la possibilità d’una più profonda eguaglianza. Sul piano della dottrina politica, ciò voleva dire che alla naturale ineguaglianza degli uomini doveva corrispondere la sola eguaglianza di fronte alla legge. Per “eguaglianza di fronte alla legge” intendeva dire che gli stessi delitti dovevano essere colpiti dalla stessa pena, e che sulle eguali ricchezze dovevano gravare eguali tributi. Ma rivoluzionariamente aggiungeva che eguali avrebbero dovuto essere “le ricompense”, stipendi, salari e paghe, proporzionali ai diversi livelli di “meriti”: Ivi, p. 103. Ivi, p. 105. 90 “La voce dell’interesse più forte e più estesa di quella del cannone, perché si sparge per tutte le classi, non è esposta ai capricci delle fortune, non ha l’apparenza di comando, non s’oppone ai dettami della giustizia popolare e si fa sentire anche da quelli che sostengono la tirannide, la voce dell’interesse io dico combinata col timore dell’infamia chiamerebbe intorno alla nuove repubbliche gran parte delle città d’Italia, ed il restante cadrebbe per debolezza. Conviene dunque che raggiriamo l’attenzione sugli ostacoli e sulle risorse d’una interna rivoluzione”. Ivi, p. 87. 91 “L’eguaglianza è una idea madre che influisce sopra tutte le altre e loro comunica una direzione verso d’un centro comune che è l’affezione degli uomini; mettendo tutti a parte delle sensazioni tutte della società, facilita il passaggio alle emozioni più dolci del cuore umano”. Ivi p. 47. 92 Ivi, p. 28. 88
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il diritto d’eguaglianza altro non richiede se non che tutti i cittadini, qualunque sia la loro origine, il loro culto, la loro professione, siano soggetti alle stessi leggi, che le stesse virtù conducano agli stessi onori, che agli stessi delitti sia fissata la pena istessa, che gli aggravi siano divisi in ragione delle facoltà ed i vantaggi in ragione del merito, che tutti i cittadini possano elevarsi a qualunque dignità, purché abbiano le qualità richieste per esercitarle e che ne siano irrevocabilmente esclusi allorquando ne sono privi. Per altro questa parzialità preziosa, questa ineguaglianza necessaria fondata sul diverso grado di capacità è ben diversa da quella a cui ha dichiarato guerra la filosofia, ineguaglianza che annientando ogni idea di virtù riducendo tutto a un ingiusto livello, sostituisce al merito naturale figlio delle personali qualità un merito fittizio figlio del capriccio, dell’irragionevolezza, dell’azzardo […].93 Dall’eguaglianza del “cittadino” di fronte alla legge ci si avvicinava, con l’intuizione della proporzionalità delle “ricompense” e dello “smembramento” delle ricchezze parassitarie, allo stato socialmente garantista dei moderni94. Una precoce teoria, per così dire, dell’uguaglianza delle opportunità, alla quale alcuni studiosi hanno rivolto non poche critiche. Gioia, in ogni caso, non peccava per originalità. Considerazioni consimili a quelle del nostro autore avevano avuto precedenti francesi ed italiani. In armonia con la Dichiarazione dell’89, e pur entro una ragionevole varietà di accentuazioni, spunti analoghi erano circolati anche nel Triennio. Nella diseguaglianza dei meriti – è stato osservato ‐ si disegnava il quadro “ottimistico” di una società aperta, meritocratica, inadatta o riluttante ad adoperarsi per il concreto miglioramento delle condizioni di vita delle classi inferiori, che restavano in una posizione di svantaggio incolmabile95. Malgrado ciò resta innegabile, sia consentito notarlo, che la teoria della diseguaglianza dei meriti e dell’eguaglianza proporzionale delle retribuzioni contribuiva a rompere gli equilibri statici della società d’Antico regime e spicchi come una vittoriosa conquista dei tempi. Nel discrimine tra i due secoli l’idea d’eguaglianza assume rilievo e si divarica. Nel 1796, lo stesso anno della Dissertazione, la Congiura degli Eguali e la Repubblica d’Alba facevano scaturire dal tema dell’eguaglianza le prime enunciazioni della moderna democrazia sociale. Le istanze gioiane dell’eguaglianza proporzionale delle retribuzioni s’iscrivono anch’esse in una traiettoria di lungo periodo, sia pure con esiti non Ibidem. “L’eguaglianza che cieca sulle persone non ravvisa che i talenti, il merito e la virtù che fa scomparire quelle distinzioni odiose da cui vengono allontanate e divise le classi […] l’eguaglianza che apre a tutti il varco all’ingrandimento in ragione delle loro facoltà, smembra le grandi ricchezze dalle quali nasce l’insolenza da una parte e l’avvilimento dall’altra […]; l’eguaglianza io dico fa rifluire tutti i beni sopra tutte le classi della società” Ivi, pp. 46‐47. 95 Luciano Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796‐1799), Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 229‐231. Vedi anche Id., “Mente, cuore, coraggio, virtù repubblicane. Educare il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796‐1799), Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 127‐129. 93
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del tutto coincidenti. Alcuni studiosi ne hanno prospettato le ambiguità. Hanno colto nella elaborazione tardo settecentesca della disparità delle fortune il germe di un “orientamento che sarebbe divenuto tipico del pensiero liberale”96, d’una sua possibile chiusura in una sfera individualistica. Nel nostro caso siamo di fronte ad un pensiero che ci sembrerebbe ingiusto mortificare entro una prospettiva unilaterale. Nella dinamicità della diseguaglianza emergono oscillazioni e tensioni. Solo la ricostruzione di un progetto politico in tutte le sue articolazioni può rendere chiara l’ispirazione che lo sorregge. Gli scritti del patriota di Piacenza lasciano intravedere le prime linee, seppure incerte, di un modello diverso da quelli che l’Ottocento definirà socialista o liberale. Si prospetta quella che crediamo sia l’autentica eredità della Grande Rivoluzione: un impegno per i problemi del nostro tempo, un’ipotesi per il futuro. Nel progetto di Gioia, come per quasi tutti gli uomini del tardo Settecento, la strategia sociale resta peraltro alquanto confusa e generica. Si è comunque osservato quanto l’autore insista sulla necessità che i processi di trasformazione muovano dal basso, con quale forza richieda una reale collaborazione (“associazione”) tra le classi per la realizzazione del benessere collettivo. La repubblica dell’eguaglianza nasce dalle ceneri della società tradizionale, impone una nuova cultura, una nuova economia, la perequazione e la redistribuzione della ricchezza97. Il concetto d’eguaglianza ispira la Dissertazione e sorregge al tempo stesso l’idea di nazione, che costituisce il tema dominante dello scritto. Eguaglianza non significa soltanto perequazione delle ricchezze, ma anche fine dei contrasti tra le classi98. L’eguaglianza diviene il fondamento di una organizzazione politica e non etnico‐territoriale dello stato: “alla voce dell’eguaglianza l’italiano ravvisando i suoi simili sentirà svilupparsi in petto la sociale virtù. La nobiltà getterà gli stemmi […] il popolo si innalzerà al livello della nobiltà”99. La costruzione di questo modello rivoluzionario avrebbe reso possibile la dilatazione egemonica della Repubblica cisalpina, la creazione d’una “sola Repubblica indivisibile”, il conseguimento della “pubblica felicità”100. La nazione non costituiva solo un nesso politico, ma esprimeva il rapporto Salvatore Veca, Libertà e eguaglianza. Una prospettiva filosofica, in Alberto Martinelli, Michele Salvati, Salvatore Veca, Progetto ’89. Tre saggi su libertà, eguaglianza, fraternità, Il Saggiatore, Milano, 1989, in particolare pp. 27‐54. 97 Dissertazione, cit., pp. 73‐74. 98 Ivi, pp. 46‐47. 99 Ivi, p. 73. 100 “Nasceranno de’ paragoni favorevoli alla Repubblica, si spargerà un fermento universale foriero di rivoluzione […] le rivoluzioni scoppieranno rapidamente le une dopo le altre e l’Italia intera verrà rigenerata nel battesimo della libertà”. Ivi, p. 125. Vedi anche p. 68. 96
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affettivo che si forma tra gli uomini associati nella stessa impresa101. Le vicende della rivoluzione, storicizzando il tema rousseauiano del Contratto, l’arricchivano di sentimenti e di interessi, davano forza all’idea di libertà e di socialità: nasceva quello che nella Dissertazione viene evocato come “l’entusiasmo per la patria”102. I rapporti tra Stato e Chiesa costituiscono un altro elemento essenziale del disegno. Accanto ai temi dell’eguaglianza proporzionale delle retribuzioni, l’idea di tolleranza si pone come pilastro dello stato liberale moderno, inteso come possibile luogo di convivenza di professioni religiose e di idee politiche diverse. Già nella Dissertazione si trovano i primi tentativi di collocare adeguatamente la realtà religiosa nel rapporto con le istituzioni pubbliche. Saranno, tuttavia, gli scritti del Triennio ad offrire soluzioni sempre più circostanziate a questi problemi. Gioia aveva conseguito una concezione laica del mondo, che si esprimeva in una distaccata professione relativistica103. Lo studio della Storia della religione naturale di David Hume, a cui si è già accennato, insieme alle riflessioni su L’Origine di tutti i culti di Charles‐François Dupuis, ispiravano le sue idee sulla genesi umana delle religioni104. Volendo citarlo letteralmente, l’autore coglieva nelle diverse raffigurazioni della divinità l’”ipostatizzazione” dei bisogni e dei desideri degli individui105. Ravvisava, comunque, nell’idea di Dio creatore dell’universo, e in quella d’un premio o d’una condanna eterna, “l’unica base della morale popolare”, una legge che può tenere a freno la società con maggiore efficacia di quanto non possa fare la legge civile: “Io non veggo come si possa far argine alle passioni, se non rinforzando l’idea della causa prima, d’una vita futura”106. Lontanissimo da tutte le chiese, l’ex sacerdote piacentino rimaneva però rispettoso dell’esperienza religiosa, considerata come patrimonio inaccessibile dell’individuo. L’uomo ha un “diritto primario” alle proprie scelte, “il fine della vita associata è la felicità”. E perciò: con quale autorità i legislatori osavano rendersi arbitri della felicità altrui, prefigurandola secondo il loro criterio Ivi, p. 47. “Dai sentimenti di libertà, di eguaglianza e dalla folla dei beni che ne emergono, trae origine e acquista forza l’entusiasmo verso la patria […]”. Ibidem. 103 Vedi Idee sulle opinioni religiose e sul clero cattolico, cit., pp. 86 e passim; La causa di Dio e degli uomini difesa dagli insulti degli empi e dalle pretensioni di fanatici, Pirotta e Maspero, Milano [1800], ora in Opere minori, cit., v. X, p. 106. 104 Vedi in proposito supra n. 7 e la nota d’autore a p. 14 in Idee sulle opinioni religiose, cit. Oltre alle opere di D. Hume e Ch. Dupuis il piacentino si richiamava anche agli scritti di Guillaume‐
Thomas‐François Raynal, in particolare alla sua Histoire philosophique (1770) e all’ Essais sur les Eloges (1773) di Antoine‐Léonard Thomas. 105 Idee sulle opinioni religiose, cit., pp. 11‐30; 51‐68. 106 La causa di Dio, cit., pp. 248, 252. 101
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discutibile e probabilmente erroneo almeno quanto quello che essi volevano distruggere? 107 Questa rivendicazione dei diritti dell’individuo nei confronti di ogni autorità esterna ispirava la pratica della tolleranza, presupposto della vita civile: “Siccome ciascuno ha diritto alla sua maniera di pensare perché nessuno ha quello di sottomettere gli altri alle sue idee […] nulla vi ha di più importante per la società, di più conforme ai diritti dell’uomo e del cittadino che la mutua tolleranza”108. La società che la rivoluzione tendeva ad instaurare sembrava a Gioia la più vicina agli ideali della Chiesa delle origini: perciò egli pensava che il pontefice avrebbe dovuto, prima o dopo, abbandonare la sovranità temporale e benedire a Roma la costituzione di una “repubblica popolare”109. La professione di tolleranza si univa sì con la polemica contro il cattolicesimo, accusato di degradarsi in clericalismo, d’impoverirsi in pratica devota o di rimanere superstizione. Tuttavia Gioia respingeva la pratica della scristianizzazione. Nei giorni caldi della primavera 1798 (distruzione delle immagini, parodia delle processioni110) l’autore si scaglia contro il “branco d’Atei […] che s’agita in Milano”. L’ateismo “non combina con le basi della società perché “il popolo ha bisogno di credere come il baco da seta di filare”111. Nelle Idee sulle opinioni religiose egli ribadiva la sua condanna non esitando ad affermare che “la superstizione è meno dannosa dell’ateismo”112. La nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, in questa prospettiva, veniva considerata come una “suprema esigenza dei bisogni dello stato”, a patto, però di rispettare la sorte dei monaci delle disciolte corporazioni. Quanti chiedevano di uscire dai chiostri potevano essere restituiti alla società civile purché fossero garantiti da un adeguato sistema di pensioni. Era altrettanto necessario che I frati e le monache: lettera al Consiglio de’ Seniori, Milano 15 fiorile anno VI repubblicano, (4 maggio 1798), poi in Opere minori, cit., v. II, pp. 306‐311. 108 Idee sulle opinioni religiose, cit., p. 71; vedi anche pp. 68‐81. 109 Ivi, pp. 198‐203. 110 La legge del 4 ottobre 1797 attribuiva al Direttorio cisalpino eccezionali poteri di controllo nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche e dell’attività pastorale. Furono queste le premesse dello scontro che segnò Milano e i dipartimenti nel corso della primavera‐estate 1798. L’ondata scristianizzatrice che dopo la svolta di fruttidoro coinvolse anche la Cisalpina trovò tenace resistenza nella popolazione che insorse a difesa del culto tradizionale. Per un quadro generale vedi Carlo Zaghi, Potere, Chiesa e Società. Studi e ricerche sull’Italia giacobina e napoleonica, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1984, pp. 71‐108; 210‐224. Vedi anche Gianvittorio Signorotto, La vita religiosa a Milano durante il periodo rivoluzionario, in Pratiques religieuses dans l’Europe révolutionnaire (1770‐1820). Actes du Colloque, Chantilly 27‐29 novembre 1986, Brepols, Turnhout 1988, p. 123 e ss. 111 La causa di Dio, cit., pp. 214, 219. 112 Idee sulle opinioni religiose, cit., p. 80. 107
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fosse tutelata la scelta di coloro che volevano continuare a vivere nelle comunità113. Concludendo sul punto, nel corso di queste pagine si sono ricostruite le linee strutturali del modello gioiano, ponendo in evidenza gli aspetti innovativi e la tensione democratica che, sia pure con qualche incertezza, caratterizzano la Dissertazione sulle future sorti dell’Italia. Va peraltro osservato che se alcuni studiosi, come si è già osservato, hanno messo in risalto l’ispirazione moderata di quei primi scritti, altri ne hanno evidenziato il tono paternalistico. Queste ultime riflessioni critiche hanno il loro fondamento. Ricorre certamente nell’opuscolo del 1796‐’97 un pedagogismo in una certa misura ambivalente. Torneremo tra poco sul doppio registro gioiano in materia d’istruzione pubblica (“eccitare” o “istruire”?). È necessario, comunque, tener presente che già nella Dissertazione si possono cogliere le prime incrinature del suo modello democratico. La classe dirigente cisalpina era accusata di non saper rappresentare “il personaggio di attore” nel teatro della rivoluzione114, di non aver diffuso e radicato nella società civile principi e valori nuovi e di avere, in questo modo, alimentato la controrivoluzione. Egualmente responsabile della crisi era “il popolo” ignorante non abituato alla libertà. Queste ragioni suggerivano di evitare i rischi di una fase costituente e di adattare la Costituzione francese dell’anno III “applicata alle circostanze”. Di fatto, l’esigenza di una delega del potere popolare sovrano e, soprattutto, la tentazione di affidare la propria “debolezza” ad una alta tutela segnano sin dal 1796 il pensiero del nostro autore. Così, nella Dissertazione, il “popolo” avrebbe dovuto rivolgersi ai suoi rappresentanti nell’”atto dell’elezione”: A voi dunque commetto la cura della mia felicità e ratifico fin dal presente quelle leggi che mi proporrete ad osservare […]. Vi commetto una funzione che è circondata di pericoli e di danni, giudicate se confido nella vostra virtù. Pupillo debole, privo di giudizio, impetuoso per sentimento, […] mi riposo interamente sulla sagacità de’ miei tutori. 115 «Eccitare» o «istruire»? “Io convengo che sia fissata una pensione a chi crede di rimettersi in libertà […] proporzionata all’età, cioè maggiore nella vecchiaia […] ma [di] coloro cui o la passione o il pregiudizio […] rendono necessaria la solitudine […]. [Di questi] la legge [deve] rispettare la libertà e non sforzarli sull’orlo della tomba a lodare i tiranni[…]”. I frati e le monache, cit., pp. 310‐311. 114 Dissertazione, cit., p. 107. 115 Ivi, p. 112. 113
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L’incompiuto Saggio sui pregiudizi popolari116 del 1798, comparso a puntate negli ultimi numeri de «Il Monitore italiano», prima che il periodico fosse costretto a sospendere la pubblicazione117, rivela le difficoltà dei tempi anche se idealmente si collega ancora alla prima fase della produzione gioiana, al momento delle speranze. Il Saggio ripropone l’antica contrapposizione tra ragione e passioni, un’opposizione che si riflette nella divaricazione tra classe dirigente e masse popolari. Tuttavia, nei suoi passi più felici, suggerisce la possibilità d’uno sviluppo di questa tesi. La “ragione” propugnata dalle élite, prerequisito per la costruzione del nuovo stato, riesce finalmente a non essere più intesa soltanto come una verità sovrapposta, ma comincia a definirsi come il risultato di un dibattito a cui partecipa tutta la società civile. In tal modo, ai due popoli è possibile trasformarsi in una unica nazione. Il Saggio testimonia la convinzione, in Gioia, della sussistenza di un universo prelogico, la percezione dell’incidenza delle spinte che provengono dal fondo della coscienza individuale: sentimenti, paure, passioni. Le vicende umane appaiono fondate tanto sulla ragione quanto sugli affetti e sulle emozioni. Pochi mesi dopo, l’autore affermerà che anche i vincoli associativi dai quali sorgono i partiti politici sono legati alla sfera dei sentimenti118. Spetta, tuttavia, alla ragione esercitare la funzione regolativa che sola potrà imprimere alle spinte affettive e alle pulsioni una traiettoria progressiva. Ove manchi questo intervento, i sentimenti diventano prigioni di lunga durata. I principi sui quali era fondato l’Antico regime erano radicati nelle leggende e nelle superstizioni dell’animo popolare, ed erano stati assunti come verità mai sottoposte alla riflessione critica. Non diversa era la vicenda della società che si proclamava illuminata dalla ragione. Alle nuove teorie dei filosofi offerte all’intelligenza del volgo era accaduto ciò che avviene agli oggetti visti attraverso un’acqua mobile e fangosa: I colori, i lineamenti appaiono sbiaditi, confusi, deformi, a segno che non è più possibile distinguerli. Se le idee di libertà, di eguaglianza, di proprietà, di sicurezza, brillano nell’animo del filosofo d’un lume vivo […] all’opposto nella mente del popolo si confondono con le idee di dissolutezza, arbitrio, licenza, disordine. 119 Il contrasto tra cuore e intelletto, lo scarto tra i “due popoli”, tra i filosofi e il volgo, poteva essere colmato soltanto rendendo tutti gli uomini realmente autonomi, non certo con la sola trasmissione e divulgazione delle dottrine. Ogni Il Saggio è ora in I giornali giacobini italiani, cit., pp. 82‐94. Vedi supra note 10 e 11. 118 L’accentuazione delle componenti psicologiche nella genesi dei partiti sfociava nella svalutazione della stessa attività politica. Cfr. I partiti chiamati all’ordine, cit., in particolare pp. 5‐
6. 119 Saggio sui pregiudizi popolari, cit., p. 83. 116
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teoria doveva essere sottoposta al dibattito; i nuovi convincimenti dovevano nascere dalla discussione nelle assemblee e nelle piazze, dallo scontro delle idee, dal confronto dei pareri diversi: […] La verità sta di sotto e conviene acuire lo sguardo per vederla […]; la verità esce dalla frizione e dell’urto, la verità, io dico, non brilla che nella libera discussione delle idee, nel fermento delle opinioni, nel procedimento franco dello spirito che […] paragona, giudica, sceglie, si spoglia delle opinioni per acquistare dei principi e distrugge per fabbricare. 120 Questa idea di “verità” intesa come processo in continuo svolgimento ha indubbiamente una sua circolazione nel pensiero gioiano di quegli anni. Sempre nel 1798, nel primo numero de «Il Censore» ‐ il foglio soppresso nel settembre da Trouvé ‐ compaiono le riflessioni sulla censura, o meglio su ciò che Gioia, nell’esordio della testata dal titolo di per sé significativo, intende con questo nome. La situazione della Cisalpina era drammatica. Il futuro sembrava minacciato tanto dalle “controforze” della reazione, quanto dalle cieche aspirazioni d’un radicalismo velleitario: “Uno spirito di vertigine s’introduce nella Repubblica, e la Costituzione ora si riguarda come cattiva, ora come ottima […] qui si grida è necessaria la riforma, là abbasso i riformisti”121. Erano necessari l’intervento e la direzione dell’élite. Questa, tuttavia, non doveva agire come una forza sopramessa alla società, ma doveva innescare dal basso un processo autonomo fondato sull’esercizio della critica, sul dibattito, sulle capacità di trovare soluzioni caso per caso: la funzione regolativa dell’élite, in altre parole, che coincide con il concetto di censura. A riprova, accanto ai problemi della prassi rivoluzionaria, il direttore dell’esordiente «Il Censore» avanza una concezione del mondo sorretta da uno spirito critico e antidogmatico, in grado di rispondere pienamente alle esigenze della verità : La censura appoggiata alla filosofia, o, per impiegare un’espressione che non faccia timore ad alcuno, alla ragione, la censura discute usi e leggi […]. Scopo del Censore è di schiarire la ragione popolare […] cercando d’unire più solidi argomenti che inutili discorsi […] sottomettere alla discussione varie leggi principali, onde, svelati i loro difetti vengano emendate […]. Questa discussione fa conoscere al popolo i vantaggi e gli aggravi della Repubblica, al magistrato lo spirito della legge […] al politico i gradi di forza e di debolezza del governo […] al filosofo lo stato dÈ pregiudizi e delle passioni e la speranza reale od illusoria di diffondere le sue teorie nella massa del popolo […]. Uomini che pretendono d’essere repubblicani per sentimento, non per imitazione, fanno le meraviglie come si possono censurare leggi già sancite, e poco manca che nell’eccesso del loro zelo non confondano un critico con un ribelle […]. 122 Ivi, pp. 91‐92. «Il Censore», cit., mercoledì 22 agosto 1798, in Opere minori, cit., v. III, p. 18. 122 Ivi, pp. 9‐13. 120
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Queste istanze, che sembrano ispirare la Weltanschauung gioiana, sono state generalmente sottovalutate. Gli studi sono stati attenti a ricostruire le inclinazioni tradizionaliste che caratterizzano innegabilmente il pensiero del patriota di Piacenza. Particolare attenzione è stata riservata a quegli aspetti elitari della sua teoria politica che determinavano il ruolo subalterno dei ceti popolari123. In tal modo è stato possibile scorgere nell’intellettuale della Cisalpina il futuro funzionario napoleonico124. Tutte notazioni che trovano, lo si è appena accennato, largo riscontro nelle fonti. Più volte e in diverse occasioni l’autore invita la classe dirigente ad usare “destramente la meraviglia per procacciarsi rispetto e venerazione”125. È “l’entusiasmo che apre la strada alla ragione”, sono le “grandi passioni”, le “idee confuse” che, accortamente suscitate e guidate, possono colmare l’abisso che separa l’intendere delle élite dal sentire delle masse: È necessario più di eccitare che di istruire, conviene organizzare piuttosto dei teatri che delle accademie, dei circoli, delle scuole […]; se le scienze si restringono ad un piccolo numero di persone, il teatro ravvolge nella sua sfera di attività tutte le classi […] e, colle attrattive del sentimento, seduce la ragione. Il governo per mezzo del teatro [potrebbe] disporre prontamente i cittadini all’introduzione d’una nuova legge […], all’inseguimento di un progetto azzardante. 126 Si delineano, così, le contraddizioni del pensiero gioiano in relazione ai problemi del consenso e della direzione politica. Tuttavia gli studi, tanto in Francia quanto in Italia, hanno messo in evidenza ormai da tempo il carattere monistico della pedagogia rivoluzionaria, scaduta sempre in pedagogismo e orientata, nelle strette della necessità, a costruire in tempi brevi un’opinione uniforme. Era necessario utilizzare tutti i canali di diffusione capillare e di massa, in particolare anche quelli che, tramite la regia dell’emotività, potevano giungere là dove non arrivavano il libro e la scuola, ossia le grandi ipoteche repubblicane sul futuro. Si finiva per privilegiare l’instabilità degli affetti sulle consapevolezze della ragione e sul solido fondamento degli interessi127. Questo S. Nutini, Melchiorre Gioia, cit. M. Cerruti, «L’inquieta brama dell’ottimo», cit., p. 75. 125 Dissertazione, cit., p. 104. 126 Melchiorre Gioia, Memoria sull’organizzazione dei teatri nazionali, cit., pp. 46‐48. Anche nel nell’Apologia al quadro politico di Milano, Gioia ribadisce l’esigenza “ad eccitare” più che ad “istruire”. Una istruzione compiuta con metodologie critiche e razionali “fa cervelli superficiali e presuntuosi” quella invece conseguita utilizzando la spinta dei sentimenti rende gli “uomini profondamente appassionati per la virtù, entusiasmati per la patria, pazzi per la gloria”. Vedi, Apologia, cit., p. 153. 127 Sui problemi della istruzione pubblica rivoluzionaria si indicano qui soltanto alcune opere esemplari richiamate nel nostro discorso: Bronislaw Baczko, Une éducation pour la democrazie, Garnier Frères, Paris, 1982; L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane, cit.; Francesco Pitocco, La 123
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“assalto politico alla coscienza”, senza un esame attento delle fonti, può essere interpretato tanto come un momento della lotta di liberazione interiore, quanto come la pratica della servitù volontaria128. In realtà, l’analisi richiede una valutazione attenta e circostanziata. In Italia, per esempio, secondo le indicazioni di celebri studiosi, alcuni gruppi minoritari, tenendo fermo il nesso “rivoluzione‐istruzione” e rifiutando il pedagogismo, propugnavano la soluzione dei problemi reali della comunità, quelli della terra, del pane e del lavoro. La loro sconfitta fu segnata dagli eventi, in pratica dal crinale di fine secolo, che soffocò un progetto del quale rimane difficile verificare tutti gli esiti possibili, l’effettiva capacità di realizzazione129. Un fenomeno minoritario in ogni caso. Il quadro così tracciato consente di cogliere con maggiore chiarezza la forza ed i limiti di Melchiorre Gioia, di capire come egli testimoni la temperie di allora. Su un terreno propriamente politico la compresenza della regia dell’emotività e del momento della autodeterminazione della società civile rivela le contraddizioni e le debolezze proprie di tutta un’età, non solo del patriota di Piacenza. Non si può, tuttavia, chiedere agli uomini di scavalcare i loro tempi, di essere quello che non potevano essere. Nella valutazione complessiva dell’attività del patriota, almeno nel Triennio, qui presa in esame, si riflette un’età di transizione: nell’uomo confluiscono due culture, due modi d’essere. Questa dualità ricorre con frequenza negli scritti degli anni della Cisalpina. Al contrasto tra eguaglianza e diseguaglianza, fra tradizione e progresso, tra moderazione e risolutezza, tra libertà e autorità, tra sentimento religioso e laicità dello stato si aggiunge quello tra ragione e passioni. La lettura del Saggio sui pregiudizi ha messo in evidenza il primato attribuito alla ragione per poter realizzare un modello esemplare di civiltà e per consentire una sempre più vasta dilatazione dei “Lumi” in tutti gli strati della costruzione del consenso rivoluzionario: la festa, ora in Id., Festa rivoluzionaria e comunità riformata, Bulzoni, Roma, 1986. R. De Felice, Istruzione pubblica e rivoluzione nel movimento repubblicani italiano del 1796‐1799, ora in Id., Il Triennio giacobino in Italia, Bonacci, Roma, 1990, pp. 179‐204. 128 Myriam Revault D’Allonnes, Rousseau et le jacobinisme: pédagogie et politique, in «Annales historiques de la Révolution française», 1978, 234, p. 605. 129 Si indicano qui soltanto: Armando Saitta, Struttura sociale e realtà politica nel progetto costituzionale dei giacobini piemontesi (1796), ora in Id., Ricerche storiografiche su Buonarroti e Babeuf, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma, 1986, pp. 83‐128; Id., La questione del giacobinismo italiano, ora in Furio Diaz‐Armando Saitta, La questione del giacobinismo italiano, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma, 1988, pp. 41‐112; Id., Spunti per uno studio degli atteggiamenti politici e dei gruppi sociali nell’Italia giacobina e napoleonica, in «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea», 1971‐1972, pp. 269‐292; L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane, cit.; Vittorio Criscuolo, Albori di democrazia nell’Italia in rivoluzione (1792‐1802), Franco Angeli, Milano, 2006. 35
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società. Era questo il compito della rivoluzione. Al tempo stesso, sempre il Saggio, scoperte le passioni, mostrava la necessità d’una loro guida per trasformarle da energie negative in forze motrici della storia. S’è già visto, nel brano tratto da «Il Censore», come la ragione, per affermarsi, abbia bisogno di prendere contatto con il suo contrario; come l’élite, nella sua opera di direzione, non imponga una verità già costituita, ma debba aprire un processo interattivo, un dibattito tra eguali. Anche gli scritti che affrontano il problema religioso sono rispettosi dell’alterità della coscienza: propongono la pacifica coesistenza d’idee politiche e religiose diverse. L’esistenza d’un superiore momento di direzione non menoma la libertà e la sovranità dell’assemblea dei credenti130. In questa riflessione emerge con grande forza il tema del recupero della diversità. Non più rifiutata, come lo era ancora nella cultura di quel secolo, la diversità è invece accettata e assimilata tanto nell’ambito conoscitivo, quanto nell’altro, delle inclinazioni e della volontà. Da una parte si confermava l’orizzonte dell’esercizio propriamente teoretico della ragione, dall’altra sembrava schiudersi l’ambito della ragione nel suo uso pratico, la prospettiva che questa potesse elaborare le spinte degli istinti come elementi per la ricostruzione di un’esistenza più equilibrata. Gioia intuiva la possibilità di stabilire un nuovo rapporto tra ragione e passioni, ma non riusciva ad esprimerlo sul piano dottrinale. Da questo nasceva la sua ambivalenza, il suo rimanere sulla frontiera che separava due mondi e due culture, il Settecento illuminista e i nuovi fermenti destinati a maturare nell’Ottocento. La difficoltà di far propria la lezione più avanzata di quegli anni, di conquistare l’orizzonte della “ragione dialettica”, d’una ragione, cioè, capace di nutrirsi del suo contrario, di riassorbire su un piano più alto, armonizzandoli, idee e sentimenti, suggerisce la collocazione storica di Melchiorre Gioia. Accanto ad una sostanziale ispirazione progressista si poneva una debolezza teorica, insieme a quelle oscillazioni che, sul versante politico, sono state messe in evidenza dalla storiografia. All’incertezza della teoria doveva aggiungersi la sequenza negativa degli eventi che avrebbero accentuato la divaricazione tra essere e dover essere, tra il mondo della sensibilità e quello dell’intelletto. L’analisi dei testi della stagione rivoluzionaria di Melchiorre Gioia, segmento di un più ampio itinerario intellettuale e politico, rivela nonostante le “Il vescovo raccoglieva la voce degli altri preti […] ma non esercitava alcun potere senza il consenso dell’assemblea cristiana. Il popolo aveva senza contraddizione la suprema autorità e gli Apostoli stessi mostrarono col loro esempio che senza il consenso dell’assemblea generale nulla si doveva decidere […]”. Non diverso era il rapporto tra il gruppo dirigente e l’assemblea di base nell’ordine civile e politico: “la più perfetta eguaglianza –continua Gioia‐ esige la mano di un magistrato superiore che la mantenga, e l’ordine richiesto nelle pubbliche deliberazioni, mostra la necessità d’un presidente almeno per raccogliere le voci, ricevere le petizioni”. Idee sulle opinioni religiose, cit., pp. 158‐159. 130
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contraddizioni una concezione del mondo dinamica e progressiva, capace di riflettersi nel suo ideale di militanza pubblico e civile. Di tale itinerario complesso ed avvincente il Caligola, qui riproposto nei suoi momenti più significativi, costituisce il precoce quanto fin qui forse troppo trascurato punto di partenza, che stimola auspicabili, ulteriori sviluppi di studio e di riflessione. La Rivoluzione suscitava nell’Italia ancora non direttamente coinvolta in essa fermenti e aspirazioni già per alcuni aspetti mature, consapevoli e cariche di potenzialità. 37
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Appendice Si riproduce qui di seguito parzialmente la seconda scena del primo atto, insieme alla settima del quinto, tratte dalla già ricordata edizione della tragedia Caligola curata da Paolo Bosisio. La scelta ha privilegiato le sequenze narrative funzionali a esplicitare l’analisi proposta in questo contributo. Le espressioni più significative contenute nel testo sono state evidenziate, all’inizio delle singole scene, fra parentesi quadra. Per l’esemplare edizione critica del testo completo, si rimanda a P. Bosisio, Melchiorre Gioia e il teatro. Con il testo del Caligola, tragedia inedita, in Studi di lingua e letteratura lombarda, offerti a M. Vitale, Giardini Pisa, 1983, vol. I, pp. 440‐529. CALIGOLA ATTO PRIMO SCENA SECONDA [“nel naufragio universale”; “non è estinta affatto la virtude”] Scena, la Reggia di Cajo in Roma Cherea Perdona, amico, or avanzar non lice. Senzio Perché? Chi il vieta al Console di Roma? Cherea Cajo gliel vieta Senzio A ragion? Cherea L’ignoro. Sol ti so dir che nella scorsa notte non stese l’ali mai su Cajo il sonno. Più dell’usato inquieto andava errando di stanza in stanza, ed or pregava il Sole sorgesse presto a illuminar il mondo, or volle guardie a nuove guardie aggiunte. Gl’Astrologi, cui tema accresce fede, fece più volte a se venir davanti, onde saper del viver suo la meta. 38
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Fortuna ognor gli predicevan essi, ma sentiva ei nel cor opposto grido; e ognora il suo terror sorgea più forte. Ora appiattarsi il vidi sotto l’are de’ Numi, e l’udii sospiroso pace pregar, ed ora oscirne furibondo con brando in mano e di ferirsi in atto. Ma più che re codardo, cesse il brando a delatori suoi in folla accorsi. Dall’innocente sangue che il tiranno sparge ogni dì, cred’io salza una furia armata di pugnal, e fiera grida: «Bevi tiranno il sangue, o versa il tuo». Di ribelli parlò, disse il Senato fucina di congiure, e i suoi sospetti o s’appoggino al ver, o da corrotta fantasia s’inalzin, spento lo vuole. Ma tu, Senzio, se dimandar mi lice, a che qui vieni in tanto insolit’ora? Appena albeggia e vuoi da Cajo udienza? Senzio Vengo a depor queste già illustri insegne di consolato, or d’ogni spregio oggetti. D’onta, vendetta, rabbia, ma pur troppo d’inutil rabbia io fremo, or che il tiranno tra schiavi astringe cavalier, patrizi e a pugnar sull’arena Senatori. La sola infamia ora è agli onor scabello: sulla sedia curul montan liberti; le lance di giustizia è in man di schiavi; dai bordelli di Roma escon censori, e dal circo un cocchier passa al Senato. Nel naufragio universal de’ tribunali sormontan, a nostr’onta, i segni e i nomi. Merto non è che t’orna il crin d’alloro, ma di vil mimo, o meretrice il voto. A chi del public’oro, e delle armate affidato è il regime? Ai delatori. Quindi ignoto è il dover, ignoto il diritto; legge non v’ha, stassi l’arbitrio in seggio. A mercato son posti e vita e onore li compra il ricco, o li rapisce il forte. Avidità proconsolar dissangua le provincie, tutto è Sicilia e Verre. 39
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Sorgono intanto da tutte bande lai, ma titolate arpie vegliano intorno al trono, e solo all’oro apron la via. Tra magistrati sì corrotti e vili poss’io restar? Di: chi mi salva da tanta infamia, dì? Cherea La tua virtude, che da altrui corrutela acquista lustro, qual tempio che più augusto appar, se sorge infra rovine, e sterili campagne. Ami la patria tu? Torre t’è forza l’onore di servirla ai scellerati. Abborri il vizio? A lui grandeggia avanti virtù qual face e tromba, la sozzura del vizio mostra, e al popol la dice. Assoluto voler condanni? Ebbene, cessa di reagir, eccol più forte. Pregi il valor? Ammiri un’alma grande? Tra gl’urti d’opposti voler andrai. In questo giorno in cui vorrà il tiranno tuffar nell’altrui sangue il suo terrore tua consolar autorità de’ farsi ai buoni scudo, ai scellerati inciampo. Ritardi, preghi, onor, zelo apparente, consigli, finto amor, pietà verace son arme forti, e al posto tuo ben degne. Senzio Ma merta forse un popol guasto e vile sacrifizj? La fe’, l’onor scomparve. Più di donzella non sta il pudore a guardia, non veglia più lo sposo ai maritali dritti; senza rossor fa mercimonio infame della figlia il genitore. Cittadinesco sangue impunemente spargon l’ira, il livor; pugnal sul petto di te, di me, d’ognun s’inalza, ed ove malsicuro è il pugnal, piomba il veleno. Allor che corri incontro ad un amico, un delator paventi, indi t’è forza or sereno comporre, or mesto il volto, e sempre tal che gl’altrui sensi esprima. Quei già si fieri cittadin di Roma non al tiranno sol, ma umil la fronte 40
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bassan per fino ai vili suoi liberti, vie alteri più, quanto che servon essi. L’amistà di costor, il loro sorriso un detto lor, un guardo a caro prezzo si compra, onde all’orecchio del tiranno facian suonar del compratore il nome. Chi dal fango d’infamia il piè ritorce? Chi non piegasi umil? Cherea L’alme Romane. Senzio Ove trovi costor? Cherea Longi dal trono, né casolai de’ cittadini oscuri, ove il travaglio ferve giornaliero E sono i più; né grandi a te simili; né numerosi allievi di Sofia, fermi all’onor su lubrico terreno. Senti nel foro Seneca tuonare d’innocenti a favor, di morte a fronte. Vedi Demetrio, cui fece il tiranno offrir molt’oro d’amistade in prezzo e che cancella l’onta rispondendo al messaggier: «Va dire al tuo padrone, che per corromper me non basta il trono». Vedi Quintilia, cui dolori atroci né pianto al ciglio, né al cor segreto tranno: il tiran la guata e n’ha rossore. Costanti spose e tenere donzelle non seguir nell’esilio i loro amanti? No, non è estinta affatto la virtude, per l’ombre il giuro di Grecia che muore per non si far alla calunnia appoggio, di Cano‐Giulio che, a morir dannato, al tiranno risponde: «Io ti ringrazio». Pe’ vivi della patria illustri eroi e Cridio, Negro, Trassea Vespasiano, ed altri tanti giovani incorrotti cui la virtù sta a cor, non il favore. De’nostri vizj (e sian pur molti) il fonte nel popol no, ma né suoi capi è fisso. Fa ch’essi di virtù calchino l’orme, e l’istinto, il dover, riconoscenza 41
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la folla incalzerà sui passi loro… Guasti i costumi son? Sta dunque al posto, ove sei di virtù mastro ed esempio. Senzio In altri tempi sì, ma adesso è vano. Quel popolo che tu caldo d’onore, sensibile all’onor pingi e difendi, stancò l’Olimpo i Numi allor che a Cajo mostrava il dado incerto or vita or morte. Afranio dar sua vita, Atanio a fronte de’ gladiatori pugnar fecero voti, se scendeva dal ciel salute a Cajo che poi volle eseguiti i voti loro, riconoscenza di tiranno degna, ma giusta pena di sì vile infamia! Cherea Io mel rammento, o Senzio, ma il tiranno, del suo regno all’alba, allora non era di sangue cittadin cosperso e brutto; verd’era di Germanico memoria e dolce speme entrava in cor Romano che sue virtù, sue gloriose gesta sarien al figlio e luce e scorta e meta; desir di libertà si fece forte… Senzio E fu deluso; eppur plausi s’udiro… Cherea Né plausi popolar non v’ha di gioja stilla, ma grande orror, e maggior speme: orror che d’atre rimembranze sorge, speme che l’avvenir abbella e invita. L’odio che accompagnò Tiberio in tomba fruttò rispetto e amor pel successore. Il tiranno li accrebbe destramente con fallaci promesse lusinghiere, e il popol che ragion di rado ascolta e cede sempre d’entusiasmo ai moti, un idolo si finse e ai piedi gli cadde. Ma l’incanto scomparve, e orror sottentra: ai gladiator l’altr’ier fea plauso Cajo, e il popol lo punì restando muto. Al soffio dell’orgoglio ira s’accese allor entro quel cor di sangue, e un solo capo bramò al popol Roman, ché un solo 42
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colpo lo balzerebbe al suolo. I plausi plebei, non lodi, inchiesta sono, e tali che la speme torna indietro illusa, il popol tace. [……………..] Privato cittadino io non m’arrogo arbitro farmi dei destin di Roma; magistrati vi son, benché sian muti: di legge esecutor non assassino, s’ho da ferir da loro attendo il cenno. [……………..] Senzio Oh patria! Oh Roma! Vive ancor la speme di trarti dall’abisso, e porti in alto spettacolo d’invidia alle nazioni. Il Senato ergerà la fronte e i regi tremanti attenderan da lui lor sorte. [……………..] ATTO QUINTO SCENA SETTIMA [“Tutto l’impero vacilla;” “Sol può far fronte militar coraggio e libertà civile”; “Al Campidoglio, andiamo al Campidoglio”] Detti, popolo con brandi, indi Sabino e seguaci. Popolo Che grido! Che tumulto è questo?... misero Cajo! Coperto di ferite! Ucciso! Chi mai l’uccise? Sabino Oh fossi stato io quello! …e che! Romani, in voi rabbia si desta allor che Roma è salva? Di pugnali, v’arma pietà per vil tiranno estinto? Sorgete difensor de’ suoi delitti? Di libertà, di gloria a segno spente son le faville in voi ch’odio giurate a chi di libertà v’apre la via? Di mente vi fuggir i tolti averi, l’onor offeso, i buoni spenti o spersi, conculcato il Senato, vilipesa 43
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la maestà del già Romano impero? La legge che tremenda de’ costumi, de’ diritti stava a guardia, fu sbandita. Mandò il tiran di Romolo tra i figli diffidenza, terror, discordia, e morte. Le seguir i delitti, alta la fronte e d’infamia caterva abominanda. Il teatro, arsenal de’ vostri vizj, d’istrioni ribolle e spettatori, che aspiran d’impudenza al primo vanto. Il campo di Marte, d’onor fucina e di vittorie illustri, ora è deserto. La nostra gioventù degenerata getta via l’armi: ove son le legioni? Sparve il terror che stava alle frontiere e apparver regie insegne in suol Romano. Sul Reno battute e sul Danubio le nostre aquile invan chieggon sul Tebro armi. L’ombra di Varo sanguinosa in Roma grida che risorga Arminio, la cacciò dalla tomba e fier s’avanza verso l’Italia da immenso stuol seguito. Da tumulti civil l’Illiria è scossa; vampa di ribellion scorre le Gallie; Pitti e Scozzesi sul Tamigi in armi Gente mai vinta, chè morir non teme. La Mauritania piange il suo re ucciso a tradimento, e chiama alla vendetta i re vicini. Ardito il Parto nega d’obbedir or che siam noi vili… Tutto l’impero vacilla; ridenti i barbari suonan l’ora fatal di sua caduta. Sol può far fronte militar coraggio e libertà civile. Al Campidoglio a farne giuro io vo’; qui resti il vile. Popolo Al Campidoglio, andiamo al Campidoglio. 44
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Berlino capitale. Dalla Repubblica democratica alla Germania riunificata
di Costanza Calabretta Berlino non conosce tregua e questa è una vera delizia. R. Walser1 1. La scelta: Berlino torna capitale Gli eventi del biennio 1989‐‘90, che videro il crollo della Repubblica democratica tedesca e la successiva riunificazione della Germania, resero necessario riaprire la questione della capitale. Bonn o Berlino? La città renana di Bonn era capitale della Repubblica federale tedesca dal 1949, secondo uno statuto provvisorio, perché per il Bundestag “gli organi guida della Repubblica federale trasferiranno la loro sede nella capitale della Germania, Berlino, non appena elezioni nazionali, libere, trasparenti, pantedesche si terranno nell’intera città e nella zona d’occupazione sovietica. Il Bundestag allora si riunirà a Berlino”2. Ancora nel 1988, il presidente della Repubblica federale, Richard von Weizsäcker, aveva dichiarato che Bonn non sarebbe mai dovuta divenire capitale della Germania, ricordando come l’abbandono di Berlino fosse conseguenza della dolorosa divisione del paese, che attendeva ancora una soluzione3. Se Bonn prima di divenire capitale aveva incarnato la tipica città di provincia, Berlino dal XII sec. era stata capitale di diversi regimi politici, prima R. Walser, Storie che danno da pensare, Adelphi, Milano, 2007. M. Görtemaker, Die Berliner Republik. Wiedervereinigung und Neuorientierung, Bebra Verlag, Berlin, 2009, p. 47. 3 W. Süss, R. Rytlewski (hrsg), Berlin. Die Hauptstadt, Nicolai Verlag, Berlin, 1999, p. 214. 1
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prussiani e poi tedeschi: l’elettorato del Brandeburgo, il regno di Prussia, il Reich tedesco guglielmino, la Repubblica di Weimar, il Terzo Reich nazista, la Repubblica democratica tedesca. Con la Guerra fredda, oltre ad essere nel settore orientale l’effettiva capitale della Rdt, Berlino divenne “ancora una volta il punto focale della storia tedesca, autentica capitale anche della Repubblica federale occidentale”4, vista l’intensità drammatica che ebbe la divisione (con il blocco del settore occidentale e il ponte aereo del 1948, con la costruzione del Muro nel 1961). Simbolo dello status quo della bipartizione tedesca, le sorti della città si dimostrarono, anche in senso prospettico, strettamente saldate con quelle della nazione. Nel 1981 lo espresse Richard von Weizsäcker (allora ancora sindaco di Berlino Ovest), dichiarando che “da Berlino deve venire la risposta alla domanda: da dove vengono i tedeschi, e in che direzione andranno. […] Berlino giace geograficamente, politicamente e spiritualmente al centro della Germania, quello che succede a noi è decisivo per il destino di tutti i tedeschi”5. Concetti simili, che ribadivano l’importanza di Berlino, li espresse anche il cancelliere Kohl: “nell’indimenticabile notte fra il 2 e il 3 Ottobre 1990, quando a mezzanotte fu festeggiata l’unità tedesca, stavo con tanti altri di fronte all’edificio del Reichstag. Tutti sentimmo, ancora una volta, che Berlino era stata il punto focale della divisione tedesca ed era diventata il simbolo del desiderio di unità. Sarebbe stato solo una logica conseguenza, che il Trattato di Unificazione del 31 agosto 1990 stabilisse Berlino capitale della Germania”6. Il percorso si sarebbe rivelato più lungo e meno scontato. Il Trattato di Unificazione dell’agosto 1990 riconobbe Berlino unita come nuovo Land. L’articolo 2 al paragrafo 1, sancì che “la capitale della Germania è Berlino. La questione della sede del Parlamento e del governo sarà decisa dopo la realizzazione dell’unità tedesca”, chiamando il Bundestag a pronunciarsi in merito. Così il Trattato risolveva soltanto apparentemente il problema della futura capitale della Germania unita. Infatti, la definizione di Berlino come capitale, rinviando la decisione sulla destinazione della sede di governo e Parlamento, rispondeva all’aspetto più superficialmente simbolico della questione senza affrontarne il dato pratico. 7 Berlino sarebbe tornata ad essere capitale effettiva della Germania, ospitando anche le sedi governative, o avrebbe avuto solo un ruolo simbolico‐
rappresentativo? L’articolo 2 era nato dall’opposizione dei Länder Nord Reno‐
Vestfalia, Assia e Baviera, che, difendendo gli interessi di Bonn, volevano Ivi, p. 211. K.E. Till, The Memory, Politics, Place, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2005, p. 32. 6 W. Süss, R. Rytlewski (hrsg), Berlin. Die Hauptstadt, cit., p. 221. 7 E. Collotti, Dalle due Germanie alla Germania unita, Einaudi, Torino, 1992, p. 292. 4
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restasse sede del governo e del Bundestag. Temevano che il ritorno di Berlino a capitale avrebbe significato il ritorno al centralismo autoritario, dunque una crisi del modello federale incarnato con efficacia da Bonn. I Länder dell’Est e Lothar de Maizierè (l’ultimo presidente della Rdt) avrebbero voluto attribuire a Berlino il ruolo di capitale effettiva già nel Trattato di Unificazione, ma furono costretti ad accettare lo stop. Il dibattito che si aprì fu ampio ed ebbe una forte risonanza nell’opinione pubblica. Si intrecciarono questioni storiche e simboliche, aspetti economici e vanità provinciali. Bonn – prima del 1949 priva di qualsiasi rilevanza simbolica – era stata sede della prima democrazia tedesca di successo, a differenza della Repubblica di Weimar. Il raggiunto benessere economico, il ruolo avuto nella costruzione della comunità europea, la stabilità delle istituzioni democratiche, erano gli aspetti più evidenti del successo che la Repubblica federale poteva vantare, e la riunificazione era solo l’ultimo coronamento. Bonn, nei quarant’anni da capitale, aveva progressivamente perso il suo carattere di provvisorietà, e si era identificata, agli occhi dei tedeschi e degli osservatori internazionali, con la seconda democrazia tedesca. Per i sostenitori di Bonn, Berlino rimandava ai capitoli più infelici della storia tedesca: il militarismo prussiano, il fallimento della Repubblica di Weimar, il nazismo, la divisione, l’occupazione sovietica e la Repubblica democratica. Berlino incarnava i retaggi dei peggiori difetti tedeschi come la mania di grandezza nazionale. La modestia di Bonn aveva trovato espressione anche nelle forme architettoniche scelte, perché “si era desistito consapevolmente dall’architettura rappresentativa e dal pathos, favorendo invece la modestia e la funzionalità”8. Caratteristiche per altri fin troppo enfatizzate, come per lo storico Karl Heinz Bohrer che parlò della “miseria delle forme simboliche della Repubblica di Bonn, che coltivava la modestia programmatica di un ricco paese di provincia senza ambizioni nazionali”9. I sostenitori di Berlino, riferendosi alla metà occidentale, ricordavano come fosse stata in prima linea durante la Guerra fredda, un baluardo di frontiera, che aveva tenuto viva la speranza e la fiducia nel sistema occidentale, con un ruolo significativo nel fondare l’amicizia con gli Stati Uniti. Di Berlino era rilevante, oltre alla vivacità culturale e sociale, la posizione geografica, decentrata verso Est. La scelta di Berlino poteva sottolineare la discontinuità rappresentata dall’89, offrendo riconoscimento ai Länder dell’Est, e sottolineandone l’apporto alla costruzione della nuova Germania. Bonn si presentava come una scelta in linea con la continuità della quarantennale W. Süss, R. Rytlewski (hrsg), Berlin. Die Hauptstadt, cit., p. 215. E. Banchelli (a cura di), La cortina invisibile. Mutazioni nel paesaggio urbano tedesco dopo la Riunificazione, Bergamo University Press, Bergamo, 1999, p. 146. 8
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esperienza della Repubblica federale, sottolineando la validità dei valori che questa aveva espresso. Berlino si offriva come ponte verso l’Europa dell’Est che stava approdando alla democrazia e all’economia di mercato. Il ministro dell’Interno della Rft, Wolfgang Schäuble, parlò della città come simbolo dell’unità e della libertà, della democrazia e dello Stato di diritto in tutta la Germania, dal ponte aereo fino al 17 giugno 1953, dalla costruzione del Muro nell’agosto 1961 fino al 9 novembre 1989 e al 3 ottobre dello scorso anno. L’unità tedesca e l’unità europea si determinano a vicenda, pertanto la decisione per Berlino è anche una decisione per il superamento della divisione dell’Europa. 10 All’opposto, figurando il ritorno a Berlino come un ritorno del nazionalismo e dunque un pericolo per l’integrazione europea, il socialdemocratico Peter Glotz ammonì il cancelliere Kohl: con il voto per Berlino lei devia dall’Europa delle Patrie. Bonn è la metafora della seconda Repubblica tedesca. Bonn deve rimanere sede del governo e del parlamento federale. 11 La questione della capitale aveva anche implicazioni economiche. Berlino, cronicamente depressa per l’assenza di un florido settore industriale, avrebbe beneficiato del trasferimento. La riunificazione, del resto, aveva privato la città dei finanziamenti che il settore Est riceveva in quanto capitale della Rdt, e che quello Ovest si vedeva assegnati dalla Repubblica federale, per presentarsi come vetrina del ricco Occidente. Bonn, dal canto suo, non voleva perdere i posti di lavoro legati alle attività governative. Se Bonn fosse rimasta capitale della Germania riunificata si sarebbe però corso il rischio di creare una concentrazione di potere, in grado di oscurare il federalismo, perché ad Ovest sorgevano la maggior parte delle grandi industrie, le roccaforti economiche, tecnologiche, bancarie. Il 20 giugno 1991 fu la data fissata per sciogliere il nodo: il Bundestag era chiamato a pronunciarsi. Se i protagonisti politici storici – Kohl, Brandt, Vogel, Genscher, Schäuble – si schierarono per Berlino, a favore di Bonn erano la maggior parte dei politici del Nord Reno‐Vestfalia, i socialdemocratici post‐
nazionali, come Oscar Lafontaine, e quasi tutta la Csu. La questione aveva diviso i partiti anche a livello interno, così i deputati si mossero in ordine sparso: l’esito della votazione era quanto mai aperto. La mozione “completamento dell’unità”, o “mozione Berlino”, vinse con una maggioranza ristretta: 338 sì contro 320 no. Il voto divise al suo interno i partiti, e rispecchiò anche divisioni geografiche, religiose, generazionali. Se i rappresentanti del Land Nord Reno‐Vestfalia votarono compattamente contro A. Winkler, Grande storia della Germania, Donzelli, Roma, 2004, p. 685. Ibidem. 10
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Berlino, l’opposto fecero quelli provenienti dai Länder dell’Est. Nei partiti di Csu e Spd prevalsero i voti per Bonn, mentre in quelli di Cdu, Fdp, Pds/Linke Liste, Bündnis 90/Grünen quelli per Berlino. Fra le numerose linee di divisione, i deputati cattolici erano più per Bonn, mentre quelli protestanti o aconfessionali per Berlino. Il voto rifletté anche spaccature generazionali, perché “la maggioranza dei membri del Bundestag dell’Ovest più giovani, che erano cresciuti con Bonn come capitale, votarono per mantenere lo status quo, mentre i loro colleghi più anziani votarono per lo spostamento”12. Lo scarso margine di vittoria di Berlino rispecchiò la durezza dello scontro. In un momento in cui la priorità doveva essere la ricomposizione del tessuto nazionale, sembrò che la riunificazione tedesca non avesse fatto dei passi in avanti notevoli. Se per il quotidiano «Die Zeit» “i tedeschi non erano ancora in patria nella casa tedesca”13, per il settimanale «Der Spiegel», dal contestato voto di sfiducia contro Willy Brandt, nessuna scelta del Parlamento ha risvegliato così tante emozioni, completamente diverse rispetto al 1972 e come mai prima lo strappo ha attraversato i partiti. 14 Attenti, e più benevoli, gli osservatori internazionali: per «Le Monde», “la scelta di Berlino non doveva essere interpretata come l’appassionato ritorno di un nazionalismo tedesco”15, mentre «The Guardian» parlò di “una soluzione felice”16, l’unica che permetteva il completamento dell’unità tedesca. Dopo il voto del 1991 i sostenitori di Bonn non si arresero, sperando che il nuovo Bundestag, da eleggere nel 1994, avrebbe riconsiderato la questione. I sostenitori di Berlino divennero più attivi nella promozione della città, insistendo sulle sue potenzialità economiche. Molti investitori si erano già spostati, in attesa dell’arrivo di ambasciate, fondazioni, istituzioni, che la capitale doveva ospitare. Alcuni, oltre a scrivere una lettera aperta a Kohl, fondarono un gruppo di pressione, l’iniziativa “Berlino 1998” – l’anno in cui era previsto il trasferimento del Bundestag. Nell’aprile del 1994 vennero, infine, fissati l’entità e il termine dei lavori, assicurandone la copertura finanziaria. L’operazione fu fortemente voluta da Kohl, appena rieletto cancelliere, che annunciò che lo spostamento del governo si sarebbe compiuto entro il 2000. Sembrava un tempo lontano, eppure arrivò, nonostante la recessione economica e il debito pubblico che gravava sulle casse federali dopo i costi della E.A. Strom, Building the New Berlin. The Politics of Urban Development in Germany’s Capital City, Lexington Books, Boston, 2001, p. 160. 13 M. Görtemaker, Die Berliner Republik, cit., p. 51. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 52. 16 Ibidem. 12
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riunificazione. A rendere i piani sempre più concreti fu Klaus Töpfer, ministro “responsabile per il trasferimento a Berlino e la compensazione di Bonn”. Bonn si assicurò una ricca buona uscita: doveva ricevere 3.4 billioni di DM e rimanere sede di alcune agenzie governative. Per Berlino si profilava un compito gravoso: diventare una sola città, dopo la lunga divisione, assumere il ritrovato ruolo di capitale, proiettarsi a livello internazionale come metropoli, fungendo da collegamento con l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest. Berlino era chiamata ad invertire la sorte avuta durante la Guerra fredda, trasformandosi nel “luogo dove vedremo se la Germania ha avuto successo nel trovare la via dalla tragedia della divisione alla nuova identità”17 – disse il direttore per lo sviluppo urbanistico della città, Hans Stimmann, uno dei protagonisti di questa stagione. Diventare una sola città non bastava, perché Berlino, da capitale, si doveva concretizzare come luogo della ricostruzione identitaria della Germania. “La prima rappresentazione architettonica di uno Stato non sono gli edifici di Stato, ma è la città, nella quale si trovano: la capitale”18. Questa è il luogo “dove prende corpo il volto di una nazione, che risponde in misura speciale per il suo destino. […] Incarna l’identità nazionale e la consapevolezza storica”19. Gli anni Novanta furono gli anni dei lavori in corso: Berlino divenne il più grande cantiere europeo, dove si metteva in scena la creazione della metropoli del futuro. Riunificata la Germania occorreva rendere il più possibile omogenei i due settori della città, che si erano sviluppati in modo concorrenziale durante la Guerra fredda. Ad assumere un’importanza cruciale fu la zona centrale, il Mitte, che nella spartizione della città dopo la seconda guerra mondiale, era rientrato in larga parte nel settore orientale, quello dell’Urss. Qui passava anche il tracciato del Muro: dopo la sua rapida demolizione occorreva confrontarsi con gli inediti spazi, prima abbandonati e inutilizzabili, che aveva liberato nel centro della città. L’area che era ineluttabilmente centro, per la sua storia e per il persistere delle funzioni centrali più rappresentative, e allo stesso tempo desolante periferia per il suo carattere incompiuto e il senso di abbandono e di degrado, si presentava nella parte rimasta ad Ovest come uno spazio, il Zentraler Bereich, in cui predominava il vuoto. 20 Cit. in B. Ladd, The Ghosts of Berlin, The University of Chicago Press, Chicago‐London, 1997, p. 216. 18 J.D. Gauger, J. Stagl (hrsg), Staatrepräsentation, Dietrich Reimer Verlag, Berlin, 1992, pp. 192‐
193. 19 B. Binder, Streitfall Stadtmitte. Der Berliner Schlossplatz, Böhlau Verlag, Köln, 2009, p. 41. 20 C. Mazzoleni, La costruzione dello spazio urbano: l’esperienza di Berlino, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 43. 17
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Rispetto al settore orientale del centro, invece, il confronto da sostenere era con l’eredità della Rdt, che lo “volle cambiare completamente, ne fece un luogo centrale dell’auto rappresentazione del nuovo sistema sociale e politico”21. La riunificazione doveva segnare la discontinuità anche nello spazio urbano. Era stata una rivoluzione, e “una rivoluzione che non produce uno spazio nuovo non si compie fino in fondo”22. La ricostruzione venne ad implicare “ampie questioni di auto rappresentazione nazionale. Si tratta, nulla di meno, di restituire dopo quarant’anni il centro perso dalle due metà della riunificata Germania”23. I diversi concorsi urbanistici indetti negli anni Novanta (per l’Isola della Sprea, Alexanderplatz, Potsdamer Platz, Friedrichstrasse) contribuirono a trasformare il Mitte in “un luogo di scavi e passaggi. Terra di nessuno, terra dei musei, terra di speculazione, terra di pianificazione cittadina. [...] Nel centro della città, tutto è più spinoso”24. Le priorità erano ridefinire gli spazi centrali della città, decidere il destino dell’eredità della Rdt – i suoi monumenti, i nomi delle strade, ma anche i suoi edifici governativi –, nonché scegliere come e dove costruire le sedi delle istituzioni della Germania riunificata. 2. L’Isola della Sprea: il centro politico della Rdt Il centro di Berlino capitale della Rdt era compreso fra Alexanderplatz e Marx‐
Engels‐Platz, posta sul versante occidentale dell’Isola della Sprea. Alexanderplatz fu pensata come una grande area pedonale, raccolta attorno alla stazione della metropolitana. “Invece di una forma geometrica chiusa c’è una configurazione mutevole di edifici […] Aperta, ampia e spesso ventosa, è una piazza che apre la città, e ne mostra l’accesso”25. A delimitarne i confini erano edifici con funzioni commerciali, turistiche, amministrative, disposti in modo da formare fondali prospettici. Il fulcro dell’assetto urbanistico era rappresentato dalla Torre della televisione, completata nel 1969, che “trasmetteva ‘un clima ipermoderno, disinvolto rispetto la tecnica e ottimista’, ma doveva naturalmente anche simboleggiare la capacità di rendimento dello Stato tedesco‐orientale”26. La Marx‐Engels‐Platz costituiva invece il centro politico della capitale. Qui si concentravano gli edifici del Consiglio di Stato, del R. Czada, Von der Bonner zu Berliner Republik, Westdeutscher Verlag, Wiesbaden, 2000, p. 52. H. Lefebvre, La produzione dello spazio, vol. I, Moizzi Editore, Milano, 1976, p. 73. 23 A. Assmann, Geschichte im Gedächtnis. Von der individuellen Erfahrung zur öffentlichen Inszenierung, C.H. Beck, München, 2007, p. 117. 24 K. Hartung, Neue Namen, «Die Zeit», 25 marzo 1994. 25 N. Huse, Unbequeme Baudenkmale. Entsorgen? Schützen? Pflegen?, C.H. Beck Verlag, München, 1997, pp. 65‐66. 26 F. Hertweck, Der Berliner Architekturstreit, Gebr. Mann Verlag, Berlin, 2010, p. 221. 21
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ministero degli Esteri, del Palazzo della Repubblica (dove si riuniva la Volkskammer, il Parlamento della Rdt) e della Reichsbank (sede del Comitato centrale della Sed, il partito di unità socialista al governo del paese dal 1946). Dopo la riunificazione, la posizione centrale della Marx‐Engels‐Platz, e la concentrazione di edifici legati alla Rdt resero imprescindibile il confronto con quest’area. L’Isola della Sprea fu individuata come il “secondo centro politico”27 della città – il primo era l’ansa della Sprea, così chiamata per la conformazione che prende il fiume, e posta nel settore occidentale, oltre la Porta di Brandeburgo. All’inizio degli anni Novanta furono elaborati diversi progetti, volti a riscrivere la fisionomia dell’area: alcuni deputati volevano edificarvi la sede del Bundestag; Volker Hassemer, senatore della città allo sviluppo urbanistico e all’ambiente, pensava alla Cancelleria. Il gruppo di lavori Spreeinsel (Isola della Sprea), che iniziò a riunirsi nel 1992, propose di concentrare in quest’area almeno quattro ministeri fra i principali, poi ridotti a tre. Alla luce di queste disposizioni si tenne il concorso urbanistico internazionale per l’ ”Isola della Sprea – centro città”. Nella primavera del 1994 si chiuse la seconda fase, dopo aver analizzato i lavori di più di mille concorrenti. Fu l’architetto tedesco Bernd Niebuhr a risultare vincitore. Il suo progetto prevedeva la realizzazione di un edificio di grandi dimensioni con finalità culturali, laddove sorgeva il Palazzo della Repubblica, da abbattere. Da abbattere era anche il ministero degli Esteri della Rdt, mentre quello federale avrebbe occupato, in due edifici, l’area dell’edificio del Consiglio di Stato (anch’esso destinato all’abbattimento); il ministero degli Interni sarebbe stato collocato nella Reichsbank e in una nuova costruzione prospiciente. L’indicazione del Bundestag di procedere al recupero degli edifici preesistenti per ospitare le nuove strutture governative – scelta motivata da ragioni economiche – costrinse a rivedere il progetto di Niebhur. Nel 1995, solo un anno dopo la vittoria, aveva già perso validità: si decise di lasciare in piedi l’edificio del Consiglio di Stato e di assegnare al ministero degli Esteri l’edificio della Reichsbank, mentre quello degli Interni sarebbe stato spostato nel settore Ovest di Berlino, nel quartiere di Moabit. Non si placarono le polemiche, innescate dalla centralità geografica dell’area, che si faceva nuovamente centralità politica e rappresentativa rispetto all’intera nazione. A differenza del concorso per l’ansa della Sprea, qui il luogo era ancora più occupato dai sedimenti delle fasi di potere del passato, gli attori da parte del governo federale non erano così potenti, gli attori del Senato di Berlino non così concordi. Anche la dimensione dei campi d’azione della politica cittadina era peggiore, o almeno confusa, M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, Bauwesen, Berlin, 1999, p. 45. 27
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con un’inedita composizione di attori non ufficiali, della società civile, che si articolava in un aggiuntivo pubblico di specialisti consolidati ed esperti, dotati di risorse private. 28 L’elemento dell’area che suscitò più polemiche, fu però il Palazzo della Repubblica, che aveva rappresentato, insieme alla Torre della televisione di Alexanderplatz e alla Stalinallee, una delle più significative realizzazioni architettoniche della Rdt. Fino al 1950 al suo posto sorgeva lo Schloss, la residenza cittadina degli Hohenzollern, la dinastia che aveva fatto di Berlino la capitale della Prussia e poi del Reich tedesco. Lo Schloss, costruito già a metà Quattrocento, nel punto in cui si incontravano le due città gemelle di Berlino e Cölln, dopo l’ingrandimento e il rifacimento del primo decennio del Settecento, venne riconosciuto come “il più bel palazzo barocco a nord delle Alpi”. Oltre alle facciate riccamente decorate, l’architetto Schlüter aggiunse un cortile racchiuso nelle nuovi ali occidentali, mentre a metà Ottocento fu rinnovata ed ingrandita la cupola. Né la Repubblica di Weimar né il nazismo agirono per trasformare o demolire lo Schloss, ma lo riutilizzarono come sede amministrativa. Durante la seconda guerra mondiale l’edificio aveva subito ingenti danni, che, tuttavia, non ne rendevano impossibile la ricostruzione. La scelta di procedere al suo abbattimento fu presa da Walter Ulbricht, segretario generale della Sed. L’atto rappresentava una liberazione dal passato tedesco prussiano, con cui il nuovo stato si poneva in netta discontinuità, denunciandone il militarismo e l’autoritarismo. Architetti e urbanisti, sia dell’Est che dell’Ovest, sostennero in polemica con Ulbricht che “le rovine reggevano ancora il confronto con la Basilica di San Pietro di Michelangelo e che la ricostruzione non avrebbe causato dei costi insostenibili”29. Dopo la demolizione (durata dal settembre al dicembre del 1950), dello Schloss fu salvato solo il portale da cui Karl Liebknecht aveva annunciato la Repubblica socialista, nel novembre 1918, mentre crollava il Reich guglielmino e la Germania chiedeva l’armistizio per uscire dalla Prima guerra mondiale. La piazza lasciata dallo Schloss venne intitolata a Marx e Engels, e secondo la volontà di Ulbricht doveva essere “la più grande piazza di dimostrazioni, dove trovano espressione la voglia di lotta e di ricostruzione del nostro popolo”30. Il modello a cui doveva assomigliare questa piazza per le parate, un forum di celebrazione del socialismo tedesco‐
orientale, era la Piazza Rossa di Mosca. Nel 1972 Honecker, nuovo segretario della Sed, si fece promotore di una sostanziale revisione dell’area, lanciando la costruzione del Palazzo della Ivi, p. 51. M. Mönninger (hrsg), Das Neue Berlin, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1991, p. 76. 30 A. Assmann, Geschichte im Gedächtnis, cit., p. 124. 28
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Repubblica. Per Honecker l’edificio era testimonianza della “impressionante forza della nostra società socialista, della nostra cultura nazionale socialista, del senso del nostro lavoro, che è al servizio del bene degli uomini”31. La costruzione dell’edificio, inoltre, avrebbe rappresentato una soluzione urbanistica nuova per il centro città, andando ad occupare solo una parte dell’enorme piazza delle parate e lasciando un vasto spazio adibito a parcheggio (fig. 1). In questo modo, secondo lo storico Joachim Fest “con l’abbattimento non era andato distrutto solo lo Schloss, ma l’insieme di uno spazio […] Berlino rimaneva una città con un parcheggio come centro”32. Realizzato da un collettivo di architetti guidato da Heinz Graffunder, il Palast era un parallelepipedo, lungo 185 metri, largo 85, e con un’altezza compresa fra i 25 e i 32. Era rivestito in marmo bianco e superfici di vetro color bronzo, secondo lo stile architettonico del modernismo internazionale, che caratterizzò l’architettura della Rdt fra gli anni Sessanta e Settanta. Stile e materiali lo rendevano dissonante rispetto agli edifici storici affacciati sul Lustgarten e sull’Unter den Linden, ma lo integravano nel complesso governativo costituito dall’edificio del Consiglio di Stato e del ministero degli Esteri. Non solo la posizione, ma anche la doppia funzione che assolveva, sede della Volkskammer (l’assai poco influente Parlamento della Rdt) e casa del popolo, rese il Palast un luogo così rilevante. Punto d’incontro per la cittadinanza, era una sorta di agorà pubblica e di centro culturale e ricreativo, con ristoranti, centro giovani, auditorium, teatro, sala concerto, spazi espositivi, piste da bowling. Tre erano gli ambienti principali, la grande sala, la sala plenaria dove si riuniva la Volkskammer e i foyer. Centro dell’edificio era la grande sala, che offriva posto fino a 5 mila persone, dove avevano luogo le celebrazioni del giorno del partito della Sed, i congressi dell’organizzazione giovanile della Rdt, la Freie Deutsche Jugend, ma anche grandi concerti ed eventi. Dall’inaugurazione nel 1976, alla chiusura nel 1990, fu visitato da circa 70 milioni di ospiti, numero significativo che segnala il successo che riscosse fra la popolazione. Dopo il crollo della Rdt fu automatico chiedersi se il Palazzo poteva restare in piedi o doveva essere abbattuto, per lasciare il posto a nuove strutture. L’alta concentrazione di amianto, scoperta all’indomani della Riunificazione, fu la causa che spinse alla chiusura dell’edificio, già a fine 1990. La decisione sulle sue sorti spettava al governo federale, che dopo la riunificazione era diventato proprietario anche del terreno su sui sorgeva. Il risanamento era troppo costoso, e, dopo la chiusura, la decisione che vide Cit. in M. Sabrow (hrsg), Erinnerungsorte der Ddr, C.H. Beck, München, 2009, p. 180. M. Mönninger (hrsg), Das Neue Berlin, cit., p. 78. 31
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concordi sia il governo federale che quello cittadino, fu di procedere all’abbattimento. Il progetto vincitore del concorso architettonico per l’Isola della Sprea, come abbiamo visto, ne prevedeva l’abbattimento, destinando l’area ad altre finalità. La posizione dei cittadini tedesco‐orientali era decisamente diversa da quella del governo federale e dei cittadini dell’Ovest, che guardavano al Palazzo della Repubblica con estraneità e sospetto. I cittadini dell’ex Rdt ne enfatizzavano il ruolo come luogo di incontro, dove magari avevano festeggiato il matrimonio, il compleanno, o avevano assistito a concerti o spettacoli teatrali. Il Palast aveva rappresentato “una casa, a cui erano legati i ricordi, del tutto personali e prevalentemente piacevoli di molte persone”33. Più che la nostalgia per la Rdt a spingere alla difesa del Palast era la volontà di conservare i ricordi ad esso connessi. La battaglia per la sua conservazione divenne “il tentativo di salvaguardare la memoria all’interno del discorso pubblico sulla storia, di esercitare una funzione correttiva delle posizioni ufficiali”34. I cittadini tedesco‐
orientali sottolineavano, inoltre, che nella sala plenaria si era riunito il primo Parlamento liberamente eletto della Rdt, dopo il crollo del Muro, e che qui il nell’agosto 1990 era stata votata l’adesione alla Repubblica federale. Il Palazzo poteva essere un “luogo della memoria” della nuova Germania, simbolo e celebrazione di un evento felice come la Riunificazione. Stabilita la demolizione del Palazzo, restava aperta la domanda su cosa avrebbe potuto sostituirlo. Nel 1992 il pubblicista Friedrich Dieckmann aveva proposto che sull’area venisse riedificato lo Schloss degli Hohenzollern, “per superare il peggior errore del 1950”35. Lo storico Joachim Fest interpretò “la ricostruzione come riparazione politica per ‘l’atto di barbarie’ di Ulbricht”36. L’architetto Tilmann Buddensieg profilò la rinascita dello Schloss come la possibilità di “festeggiare il crollo del sistema orientale”37. Dopo la ricostruzione dello Schloss, “ben presto non ci si sarebbe più accorti, che un tempo non era stato lì”38, le lancette della storia sarebbero state riportate indietro, condannando all’oblio la Rdt. Principale sostenitore dell’iniziativa, una sorta di gruppo di pressione, fu la Förderverein Berliner Schloss (associazione a sostegno dello Schloss di Berlino), fondata nel 1992. Se la demolizione del Palast era un atto di rivincita simbolica, il ritorno dello Schloss ristabiliva il legame con M. Sabrow (hrsg), Erinnerungsorte der Ddr, cit., p. 184. E. Banchelli (a cura di), Taste the East. Linguaggi e forme dell’Ostalgie, Bergamo University Press, Bergamo, 2006, p. 65. 35 E. François, H. Schulze (hrsg), Deutsche Erinnerungsorte, C.H. Beck, München, 2001, p. 673. 36 Ibidem. 37 Ivi, p. 675. 38 Deutsches Nationalkomitee für Denkmalschuzt, Verfallen und vergessen oder aufgehoben und geschützt?Dokumentation der Tagung, Berlin, 1995, p. 28. 33
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l’eredità prussiana, implicando il salto ad una rassicurante epoca precedente, non segnata dalla divisione della Guerra fredda. Le ragioni per la ricostruzione erano anche architettoniche: solo lo Schloss poteva restituire al centro di Berlino una coerenza visiva. […] Il centro della città aveva bisogno delle facciate del palazzo per aiutare a curare le ferite e per creare un’identità urbana coerente. 39 La residenza degli Hohenzollern era per l’affascinante forza e monumentalità, un rappresentante del barocco specificatamente tedesco, che sta degnamente a fianco di San Pietro a Roma, del Louvre a Parigi. Domina il centro di Berlino, la piazza, che contribuisce a creare, la strada, che a questo conduce, la Berlino antica, in cui si può vedere incarnato il passato di Berlino, dà l’idea di Berlino. 40 (fig. 2). Queste motivazioni illustrano come il retaggio prussiano abbia giocato un ruolo di primo piano nella battaglia sul Mitte, suscitando la domanda su quale sia il significato politico e simbolico della Prussia per la Germania riunificata. L’eredità dello stato prussiano, da cui è partita la prima unificazione tedesca, e che ha dato alla nazione la dinastia regnante, è ancora duplice e ambivalente. La prima lettura interpreta la Prussia come uno stato connotato da un efficiente militarismo, artefice di un sistema di valori il cui posto centrale era occupato dall’onore. La Prussia è vista come responsabile per la degenerazione della politica tedesca nel Secondo e nel Terzo Reich, e per alcuni il nazismo va posto in una linea di continuità quasi diretta. Dall’altro lato la Prussia rappresentò l’illuminismo, nelle arti come nella scienza. I due lasciti della storia prussiana sono da mettere in relazione, perché ”il fondamento militare dell’esistenza della Prussia non è pensabile senza la fioritura culturale che le dà dignità e durata”. La Prussia storica è stata una sintesi di illuminismo e di potenza, di forza bellica e di energia civilizzatrice. 41 Nessuna città tedesca quanto Berlino, che fu capitale del primo stato prussiano, porta i segni del suo stile – pensiamo all’Isola dei Musei, con gli edifici di Schinkel, al Duomo, o all’Unter den Linden che si apre con la Neue Wache e si chiude con la Porta di Brandeburgo. Il retaggio prussiano sembra presentarsi come un bacino da cui è sempre possibile attingere, con modalità diverse, ma in fondo per finalità simili. Pensiamo alla Sed, che verso la metà degli anni Settanta rivalutò la memoria tradizionale prussiana. Lo scopo era di rafforzare la legittimità storica della B. Ladd, The Ghosts of Berlin, cit., pp. 64‐65. A. Assmann, Geschichte im Gedächtnis, cit., p. 124. 41 G.E. Rusconi, Berlino. La reinvenzione della Germania, Laterza, Roma‐Bari, 2009, p. 18. 39
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Repubblica democratica, rivendicarne un’identità autentica che affondava le radici nella Prussia, per contrapporsi alla Repubblica federale. Così si motivò il recupero delle figure di Bismarck o di Federico II, la cui statua venne ricollocata nel 1980 lungo l’Unter den Linden. Negli anni Novanta il recupero dell’eredità prussiana divenne un modo per declinare un racconto rifondativo della Germania, come aveva espresso Manfred Stolpe, presidente del Land del Brandeburgo, dichiarando che la Germania aveva bisogno dei Prussiani, per trovare la propria identità e prendere coraggio in se stessa42. Associata allo Schloss, tuttavia, l’eredità prussiana sembrò costituire più una nuova linea di divisione, di frattura, che uno strumento per rafforzare l’unità e l’identità tedesca. Nel 2002 il Bundestag, con un’ampia maggioranza, optò infine per la ricostruzione dello Schloss, concordando con i suggerimenti della Commissione di esperti che si era riunita dal 2000. Il nuovo palazzo doveva essere ricostruito sulla base delle volumetrie dello Schloss, con tre facciate (versante nord, sud e ovest), oltre al cortile di Schlüter. La quarta facciata, il tetto e gli spazi interni sarebbero stati ricostruiti con forme e materiali moderni. I sostenitori dello Schloss insistevano sul valore della struttura esterna per dare un nuovo orientamento al centro della città, ma riconoscevano l’insensatezza di ricrearne gli ambienti interni. Se aveva già sollevato dubbi la decisione di ricostruire il simbolo della monarchia in una nazione democratica, la scelta di ricreare gli ambienti interni (pensiamo alla sala del trono, ad esempio) avrebbe aumentato le perplessità. I contrari allo Schloss, provocatoriamente, già si erano chiesti quando sarebbe tornato il re… Seguendo il parere della commissione di esperti, si decise di dare allo Schloss ricostruito una funzione museale, assegnando all’edificio anche il nuovo nome di Humboldt‐Forum. Seguendo lo slogan “il mondo nel centro di Berlino”, l’Humboldt‐Forum è stato destinato ad ospitare collezioni di opere d’arte e allestimenti temporanei, aggiungendo un ulteriore tassello all’immagine della capitale tedesca come centro di cultura internazionale, amplificato dalla posizione di fronte all’Isola dei Musei. La decisione del Bundestag non placò le polemiche dei cittadini tedesco‐
orientali, soprattutto dopo che, fra il 2003 e il 2005, il Palazzo della Repubblica, liberato dall’amianto, fu riaperto per ospitare mostre, eventi, visite guidate. Nel 2006 il Bundestag diede avvio ai lavori di abbattimento, mentre si moltiplicavano le veglie di protesta. Fu quasi scontato mettere in luce come la nuova Germania riunificata si fosse dimostrata simile alla vecchia Rdt: l’abbattimento del Palast della prima era diverso da quello dello Schloss della seconda? Nel 2008, mentre veniva completata la rimozione, si concludeva anche E. François, H. Schulze (hrsg), Deutsche Erinnerungsorte, cit., p. 679. 42
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il concorso per l’Humboldt‐Forum, vinto dall’architetto italiano Franco Stella. Corpi ricostruiti e corpi di nuova costruzione sono stati disegnati per occupare il volume dello Schloss, e soprattutto si costruisce per la prima volta un cortile, denominato Schloss‐Forum, che attraversa tutto l’edificio nel suo asse mediano. […] Di questo luogo, che comunque può definirsi un cortile di palazzo o un atrio d’ingresso all’Humboldt‐Forum, si può dunque dire con certezza che sarà una piazza centrale della città, un luogo che per misura e figura può ricordare, fra gli esempi più noti, la Piazza degli Uffizi a Firenze. 43 Queste le ambizioni, ma ad oggi la ricostruzione non è ancora iniziata, slittando al 2014, anche se i costi saranno più alti di quelli previsti. Nel febbraio 2009, intanto, è stato creato l’Humboldt‐Box, un’istallazione temporanea che ospita esposizioni artistiche contemporanee, ed occupa solo una parte dell’area che prima era del Palast. Accanto ad essa è rimasta una spianata verde, che attende la ricostruzione dello Schloss/Humboldt‐Forum, e continua a testimoniare il vuoto lasciato dal Palazzo della Repubblica. Se le sorti del Palazzo furono uno dei casi più discussi nella contesa per l’eredità della Rdt, gli altri edifici della Marx‐Engels‐Platz non furono dimenticati nella riorganizzazione urbanistica dell’area. L’edificio del Consiglio di Stato (Staatsratsgebäude) costituì uno dei luoghi più rappresentativi del potere della Sed, sede di incontri, anche internazionali, fra i vertici politici. Costruito fra il 1962 e il 1964, fu realizzato su uno scheletro d’acciaio, rivestito in pietra naturale e dotato di ampie vetrate (fig. 3). Nella facciata principale fu inserito il portale, salvato alla demolizione dello Schloss, da cui Karl Liebknecht aveva annunciato la libera Repubblica socialista nel 1918. Salvato dalla demolizione di cui fu vittima lo Schloss, il portale andò a fronteggiare il Palazzo della Repubblica, che dello Schloss aveva preso il posto, secondo una scelta “di programmatico pathos”44. Attraverso la ricollocazione del portale di Karl Liebknecht, la Rdt si poneva in una linea di continuità con la Repubblica di Weimar e con il socialismo tedesco. Inoltre, quest’operazione aveva rappresentato una “contro‐dimostrazione architettonica alla contemporanea ristrutturazione dell’edificio del Reichstag”45, che stava intraprendendo la Repubblica federale in quegli stessi anni. Se la Repubblica federale stabiliva dei tratti identificativi con la sede del Parlamento tedesco realizzata dal Kaiser Guglielmo I, la Repubblica democratica rilanciava l’identificazione con la http://europaconcorsi.com/projects/82021‐Berliner‐Schloss‐Humboldt‐Forum. Senatsverwaltung für Stadtentwicklung und Umweltschutz, Hauptstadt Planung und Denkmalpflege. Die Standorte für Parlament und Regierung in Berlin, Schelzky&Jeep, Berlin, 1995, p. 139. 45 Deutsches Nationalkomitee für Denkmalschutzt, Verfallen und vergessen oder aufgehoben und geschützt? Materialien zur Tagungsexkursion, Berlin, 1995, p. 45. 43
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rottura rivoluzionaria del ’18, che aveva abbattuto proprio il regime guglielmino – uno dei tanti esempi di come l’architettura e l’urbanistica siano stati terreni di concorrenza durante la divisione della città. Dopo la Riunificazione si ipotizzò l’abbattimento dell’edificio del Consiglio di Stato. L’assenza di un dibattito pubblico sulle sue sorti portò l’urbanista Bodenschatz a definire la scelta “un atto di violenza alla cultura della pianificazione democratica”46. Nel 1995, proteste cittadine e ragioni economiche, lo salvarono dall’abbattimento. L’edificio divenne sede del ministro Töpfer, “responsabile per il trasferimento a Berlino e la compensazione di Bonn”. Il palazzo fu aperto alla cittadinanza, e divenne un luogo in cui era possibile informarsi sui lavori per la pianificazione di Berlino capitale. Nel 1998 vi si trasferì, in attesa della nuova sede, il cancelliere Schröder. Si concluse così la vicenda istituzionale dell’edificio, che oggi è sede di un’università privata di marketing e management – paradossi della storia. Se l’edificio del Consiglio di Stato fu salvato, la stessa sorte non toccò al ministero degli Esteri della Rdt (fig. 4). Terminato nel 1966, il nuovo edificio separava Marx‐Engels‐Platz dalla Friedrichstadt, l’antico quartiere che gravitava attorno a Friedrichstrasse. La monolitica struttura in cemento armato, era suddivisa in tre fasce orizzontali, per 145 metri di lunghezza e 45 di altezza. “La facciata a cortina di elementi in alluminio congiunti era la prima realizzazione di questo tipo nella Rdt”47, e si dice che, per il suo biancore l’edificio “sia stato identificato con la luce del socialismo”48. A differenza del Palazzo della Repubblica e dell’edificio del Consiglio di Stato, non si levarono molte voci in sua difesa, quando nel 1995 cominciò il suo abbattimento. Non c’era una chiara idea su cosa l’avrebbe sostituito, ma diverse associazioni spinsero perché qui tornasse a sorgere l’Accademia dell’architettura progetta da Schinkel, che la Rdt aveva demolito nel 1962. Ora, dopo l’abbattimento del ministero degli Esteri, si poteva riavvolgere il nastro della storia. Così nel 2006 iniziò la ricostruzione del Accademia di Schinkel, destinata ad ospitare conferenze, incontri internazionali, esposizioni sull’architettura e l’urbanistica. Il ministero degli Esteri della Repubblica federale tedesca finì alle spalle della Marx‐Engels‐Platz, nelle immediate vicinanze del luogo dove era sorto quello della Repubblica democratica. Andò ad occupare l’edificio che era stato della Reichsbank, ovvero una delle prime grandi costruzioni del Terzo Reich a Berlino, esempio della prima fase dell’architettura nazista nella capitale. La Rdt R. Lautenschläger, Die Abrisswut unterbrechen, «Taz», 15 giugno 1994. Deutsches Nationalkomitee für Denkmalschutz, Verfallen und vergessen oder aufgehoben und geschützt..., cit., p. 17. 48 Senatsverwaltung für Stadtentwicklung und Umweltschutz, Hauptstadt Planung und Denkmalpflege, cit., p. 139. 46
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non ebbe timore di recuperare l’edificio, tolti i simboli nazisti, prima come ministero delle Finanze, e poi come sede del Comitato centrale della Sed – l’organismo più importante dello Stato. La Germania riunificata decise di mantenere pressoché intatta la fisionomia esterna dell’edificio, se non per l’ampliamento delle finestre. Nel rinnovo guidato dall’architetto Hans Kollhoff, particolare rilevanza fu data al recupero dei cortili interni e alla creazione di una terrazza giardino. Per gli interni si scelse di ricorrere al “consapevole uso del colore”49, per mantenere leggibili le stratificazioni storiche dell’edificio: le grandi pitture monocrome di Günther Merz dovevano rendere visibile la rottura della nuova appropriazione degli spazi all’interno dell’edificio. Agli strati dei precedenti periodi nazista e della Rdt veniva aggiunto uno strato significativamente diverso della Repubblica Federale. 50 A segnalare la frattura fra la Germania riunificata e i precedenti regimi, si aggiunse la realizzazione di un nuovo edificio, adiacente alla sede storica (fig. 5). Gli architetti Reimann e Müller crearono “un significativo contrasto fra la chiusura del vecchio edificio e l’apertura del nuovo cubo. Il volume del nuovo edificio indebolisce la monumentalità delle facciate della Reichsbank”51, privilegiando la trasparenza e la leggerezza delle strutture in vetro e alluminio. Se ci allontaniamo dall’Isola della Sprea, pur restando nel Mitte, emergono altri casi di edifici istituzionali usati dalla Rdt, poi recuperati dalla Repubblica federale, dopo aver realizzato delle modifiche architettoniche. Non furono abbattuti, ma solo dotati di nuove facciate due edifici governativi della Rdt, il ministero per la Cultura Popolare e quello per il Commercio con l’Estero. Il ministero per la Cultura Popolare, eretto fra il 1961 e il 1964, lungo l’Unter den Linden, fu una delle prime realizzazioni nell’arteria principale del centro di Berlino, nel quadro della ricostruzione post‐bellica. L’edificio, costruito seguendo lo stile modernista professato dalla Rdt degli anni Sessanta, occupava la superficie dell’ex ministero della Cultura, di fine Ottocento poi distrutto nei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Tra il 1994 e il 1996 l’edificio della Rdt fu ristrutturato e ampliato, per ospitare gli uffici del nuovo governo federale. Come fu una delle prime costruzioni a documentare la nuova strategia urbanistica della Rdt, così fu anche una delle prime su cui si concentrò la svolta politica del 1990 e il passaggio agli standard occidentali. Nella ristrutturazione venne eliminato l’allineamento uniforme delle finestre e l’uguaglianza dei piani, introducendo una gerarchia, mentre il rivestimento della facciata, prima in acciaio e vetro trasparente, venne sostituito da una massiccia e solida superficie in lastre di pietra. www.kollhoff.de/archiv. M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 102. 51 Ibidem. 49
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L’architetto ha scelto la via sicura della moderazione conservatrice nella ricopertura di questa facciata. Attraverso il linguaggio dei materiali pregevoli, dell’effetto compatto della costruzione, della sobrietà nel trattamento della facciata, l’ex edificio della Rdt è stato riposto in una sorta di nuovo, sicuro “guardaroba” e il passato recente è divenuto invisibile. 52 Il ministero per il Commercio con l’estero della Rdt, anche esso lungo l’Unter den Linden, ha avuto una sorte simile. Diventato sede di uffici per i deputati, fra il 1993 e il 1995 ha subito dei profondi lavori di ristrutturazione. È stato salvato lo scheletro in cemento armato, ma non la facciata, sostituita, anche questa volta, con un rivestimento di pietra naturale. Ciò che ha avuto luogo, in questi casi, è un’operazione di cosmesi, un maquillage architettonico, che, incidendo sulle forme esteriori delle strutture, ha stabilito un nesso concettuale non solo con il cambiamento di destinazione d’uso degli edifici, ma con la discontinuità degli attori coinvolti. Ricostruire le facciate, quindi ciò che si offre alla vista quotidianamente, equivale a denunciare l’avvenuto mutamento di contenuto delle strutture, che transita nel loro cambiamento formale. La scelta di abbandonare il modernismo sviluppato dalla Rdt, per tornare a rivestimenti tradizionali – chiamati da alcuni conservatori – si motiva con la rivalutazione dell’eredità prussiana, e con la propensione per un’omogeneizzazione estetica del centro storico. L’edificio del ministero delle Finanze, all’angolo fra la Leipziger e la Wilhelmstrasse, è un altro caso di doppio recupero (fig. 6). Progettato negli anni Trenta, dietro l’austera facciata in marmo e cemento, si nascondeva il ministero dell’Aviazione del Maresciallo Göring. La sua apparenza esterna è moderna nella sue facciate salde e massicce ma tradizionale nella sua costruzione in pietra e nelle monumentali entrate delle corti. Una guida del Terzo Reich lo definì un “documento in pietra che mostra la risvegliata volontà militare e la ristabilita prontezza militare della nuova Germania”. 53 La sua estetica non rimandava ad un messaggio innocuo, dunque, ma, sopravvissuto in buono stato ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, la Rdt ne fece la sede di una dozzina di nuovi ministeri. Chiamato “Casa dei Ministri”, fu qui che venne proclamata la nascita della Repubblica democratica tedesca, nel 1949. Per celebrare l’evento, nel 1952 Max Lingner ornò la loggia con un murale di 25 metri. Nell’illustrare la costruzione del socialismo in Germania, furono scelte figure di operai e contadini che sfilano, esibiscono i loro attrezzi di lavoro, di giovani che suonano fisarmoniche o chitarre gioiosamente. Il 17 giugno 1953, nella sollevazione popolare partita dai cantieri E. Banchelli (a cura di), La cortina invisibile, cit., p. 94. B. Ladd, The Ghosts of Berlin, cit., p. 146. 52
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della Stalinallee, era verso quest’edificio che si diressero i manifestanti, chiedendo di essere ascoltati da Ulbricht. Con la caduta del Muro, l’edificio divenne la sede della Treuhand (l’amministrazione fiduciaria a cui fu affidato il compito di gestire il patrimonio industriale dell’Est, procedendo alle riconversioni e alle privatizzazioni). Visto che le politiche economiche introdotte causarono un alto tasso di disoccupazione, divenne uno degli edifici meno amati dai berlinesi dell’Est. Rinnovato negli interni vi si trasferì il ministero delle Finanze federale. Non tutti si mostrarono favorevoli: l’edificio sembrava troppo compromesso con il nazismo e con la Rdt, troppo gravato dai corsi e ricorsi storici. Paradossalmente, l’edificio dal passato più pesante fu quello meno toccato dai lavori di recupero, tanto da apparire immutato esteriormente. Nel 1993, in occasione della commemorazione del quarantesimo anniversario del 17 giugno, una gigantografia dell’artista berlinese Wolfgang Rüppel, dove erano rappresentati gli operai in rivolta, venne esposta sul marciapiede sottostante la facciata nord dell’edificio, in modo da suggerire una sorta di rispecchiamento dei mosaici di Marx Lingner. I passanti avrebbero così potuto contemplare in un’architettura tipica del Terzo Reich, ora sede del più importante ministero della nuova Germania, un’opera figurativa che esaltava la vittoria del socialismo, e una fotografia che richiamava alla memoria i fatti del 1953 e la rivolta contro i dirigenti della Rdt. Difficile trovare esempio migliore di superfetazione di memorie e di riciclaggio permanente degli edifici! 54 Le richieste di bilanciare quest’operazione condotta rispetto alla memoria della Rdt, con una che ricordasse anche il passato nazista dell’edificio – qui vennero pianificati i bombardamenti di Guernica, Rotterdam, Coventry – non trovò seguito. La Germania riunificata, dunque, non si fece scrupolo di recuperare edifici usati dalla Repubblica democratica (e dal nazismo ancor prima), pur volendo rendere visibile il cambiamento avvenuto con degli interventi architettonici. Riguardo l’Isola della Sprea, invece, abbiamo visto come la scelta è stata di darle una nuova connotazione, meno legata alla politica statale (l’unica istituzione rimasta è il ministero degli Esteri). 3. L’ansa della Sprea: il centro politico della Germania riunificata La scelta di situare lungo l’ansa della Sprea il “fulcro dell’urbanistica della capitale”55, con le funzioni parlamentari e governative, fu presa dalla Commissione consultiva del Bundestag nell’agosto 1991, dopo aver scartato altre aree della città inizialmente preferite, come l’ex aeroporto di Tempelhof e R. Robin, I fantasmi della storia, Ombre corte, Verona, 2005, pp. 152‐153. M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 34. 54
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la Marx‐Engels‐Platz. L’ansa della Sprea era posta oltre la Porta di Brandeburgo, dunque al polo opposto dell’Unter den Linden rispetto all’Isola della Sprea. L’area era caratterizzata dalla presenza del Reichstag, indicato come sede del Parlamento federale nel 1991, e da un ampio spazio libero alla sua destra (circa 142 mila mq). Dopo le ingenti distruzioni della seconda guerra mondiale, l’area era caduta in uno stato d’abbandono, perché qui passava il tracciato del Muro che divideva il settore Est da quello Ovest della città. L’area aveva un rilevante significato nella fisionomia della città: era una cerniera, fra la vecchia Berlino prussiana, che si sviluppava a est della Porta di Brandeburgo e l’espansione occidentale, oltre il Tiergarten. Collocare qui i nuovi edifici governativi rappresentava la possibilità di superare attivamente la divisione della Guerra fredda, proprio dove, solo pochi mesi prima, correva il tracciato del Muro. Il trasferimento del quartiere governativo, inoltre, rappresentava il nucleo generativo di altri cambiamenti urbanistici, forgiando il carattere di Berlino. Verso nord‐ovest, si sarebbe aperta un’altra zona di intensi lavori, come quelli per la Leherter Bahnhof, o Hauptbahnhof, la stazione centrale di Berlino, il cui nuovo allestimento fu inaugurato nel 2006. Nel 1993 il Bundestag bandì il concorso pubblico per la sistemazione dell’area. A risultare vincitore fu la coppia di architetti tedeschi Axel Schultes e Charlotte Frank, con il progetto Band des Bundes. Il nome già rimandava al suo punto di forza: Band, cioè nastro, elastico, vincolo. I nuovi edifici dovevano disporsi secondo un asse verticale est‐ovest, che attraversando la Sprea congiungeva la vecchia Friedrichstadt (il centro prussiano) con il quartiere occidentale di Moabit, oltre il Tiergarten (fig. 7). Oltre ad esaltare una visione unitaria dell’area, si rafforzava la saldatura fra le due metà della città. L’attenzione per l’area dell’ansa della Sprea non era nuova, come aveva dimostrato il concorso Hauptstadt Berlin, lanciato dalla Repubblica federale nel 1957, con l’intento di ridisegnare la città nella sua interezza, nonostante la divisione. Una delle scelte comuni a molti progetti fu proprio “la formazione del quartiere deputato alle funzioni governative con strutture edilizie a fascia lungo la Sprea”56. Le tesi programmatiche formulate dal concorso non ebbero seguito, ma anni dopo la Repubblica federale tornò a manifestare interesse per l’area. Nel 1985 il cancelliere Kohl la indicò come luogo dove far sorgere il museo storico tedesco di Berlino Ovest. Del museo voluto da Kohl non si fece più nulla, soprattutto perché il crollo del Muro intervenne a rimescolare le carte. Si era, però, confermata l’attenzione verso quest’area, investita da un processo di assegnamento collettivo di significato che si delineava progressivamente, ma restava sospeso, in attesa, e si sarebbe concretizzato solo con la riunificazione. C. Mazzoleni, La costruzione dello spazio urbano: il caso di Berlino, cit., p. 223. 56
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Bisognò attendere i lavori per i nuovi edifici governativi, perché l’ansa della Sprea, resa marginale dalla quarantennale presenza del Muro, tornasse alla sua centralità, e anzi divenisse il punto di cristallizzazione della ricostruzione dell’unità statale. Dei tanti cantieri della Berlino degli anni Novanta, questo, viste le funzioni degli edifici in costruzione, fu il più significativo nel rafforzare il nesso fra unità nazionale e istituzioni politiche democratiche. La sede della Cancelleria è una creazione ex novo, che sorge lì dove Kohl avrebbe voluto il museo storico tedesco, e Speer aveva progettato l’Adolf‐
Hitler‐Palais, nel 1938. Nel 1994 il concorso pubblico si chiuse con due progetti vincitori ex aequo. Fu il secondo, ancora una volta di Schultes e Frank a prevalere, proponendo un edificio moderno, che sviluppava ulteriormente la tradizione architettonica dell’ultima fase di Bonn capitale. Non fu ininfluente il fatto che il primo progetto mostrò delle spiacevoli somiglianze con quello di Albert Speer per l’Adolf‐Hitler‐Palais, con il recupero di forme classiche e monumentali. Schultes e Frank, invece, hanno dato all’edificio la forma di un parallelepipedo, con un cubo al centro e due ali laterali, di altezza più ridotta (fig. 8). Come fu concepita la nuova Cancelleria, quali le sue linee guida? Secondo le loro stesse parole, gli architetti volevano evitare il “torpore della facciata”, di ogni facciata, dare forma allo spazio, forzare i fronti occidentali e orientali della Cancelleria, asserire la luminosità della pietra57. L’elaborato linguaggio formale – con l’alternanza di spazi concavi e convessi, di forme sferiche e filiformi – conferisce alla Cancelleria una struttura incisiva e originale. La realizzazione di pietre angolari verticali – con un profilo unitario, allungato, asimmetrico e arrotondato – sviluppano un sorprendente effetto di profondità spaziale. […] La riconoscibilità degli uffici – la Cancelleria ha elevato la riconoscibilità a criterio irrinunciabile – è stata resa dal tetto arcuato come dal contrasto fra i muri chiusi del lato nord e sud e quelli del lato est e ovest.58 Il disegno spezzato e le ampie superfici in vetro hanno contribuito a stemperare l’imponente massa dell’edificio, ma non a mettere a tacere le voci critiche. Il risultato finale è stato raggiunto dopo diverse mediazioni – come segnala anche l’intervento di Kohl, che chiese di elevare l’altezza del cubo centrale. L’ex cancelliere Schmidt vide nelle dimensioni della struttura un monumento alla grandezza tedesca, tale da confermare i sospetti dei francesi http://www.schultesfrankarchitekten.de/ W. Süss, R. Rytlewski (hrsg), Berlin. Die Hauptstadt, cit., p. 625. 57
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sul rinascente nazionalismo tedesco59. Chi vide nell’edificio una monumentalità eccessiva spinse il paragone fino alla Cancelleria di Hitler, realizzata da Speer a Wilhelm‐Strasse, e si lamentò per la scomparsa dello stile modesto e umile della Repubblica federale di Bonn. Gli architetti replicarono alle critiche parlando di paura della grandezza, un’esperienza pagata a caro prezzo durante il secolo scorso che è diventata istintiva, un tipo di ansietà tedesca che distorce le misure, offusca ogni senso della giusta misura, rende ciechi di fronte alle proporzioni, e che troppo spesso – solo per essere dalla giusta parte – unisce le forze con la paura di ogni cosa di nuovo. 60 La volontà che la struttura della Cancelleria trasmettesse l’immagine di un nuovo inizio, era stata invece, il principale motivo ispiratore di Schultes e Frank. La Cancelleria, inaugurata nel 2001 con Schröder, è stata affettuosamente ribattezzata dai berlinesi la “lavatrice”, per il cubo centrale e la superficie di vetro circolare, che ricorda un oblò. L’ironia dell’appellativo segnala una certa disinvoltura, in fondo non intimidita dalle dimensioni monumentali dell’edificio, che risulta oggi integrato con successo nell’ansa della Sprea e nella città. Del Band des Bundes fanno parte anche la Paul‐Löbe‐Haus, la Marie‐
Elisabeth‐Lüders‐Haus e la Jacob‐Kaiser‐Haus. Il primo edificio, intitolato all’ultimo presidente democratico della Repubblica di Weimar, sorge sulla sponda ovest della Sprea. Qui si concentra il lavoro delle commissioni, che svolgono il lavoro tecnico su cui si basano i pronunciamenti dell’aula plenaria del Parlamento. Lungo 200 metri, per 100 di larghezza, sulle lastre di vetro del lato occidentale si riflette l’immagine della Cancelleria, sottolineando l’interazione sinergica tra l’attività legislativa del parlamento e quella esecutiva del governo. Al centro del Band des Bundes, fra la Cancelleria e la Paul‐Löbe‐
Haus, il progetto di Schultes e Frank aveva previsto il Bürgerforum, una sorta di agorà, pensata per far incontrare e dialogare società e politica, con caffè e gallerie. Le difficoltà finanziarie e lo scarso interessamento di Kohl – preferiva lasciare isolato l’edificio della Cancelleria affinché risaltasse di più – hanno impedito la realizzazione della struttura, al cui posto è rimasta una zona alberata. La Paul‐Löbe‐Haus e la Marie‐Elisabeth‐Lüders‐Haus, progettati dall’architetto tedesco Stephan Braunfels (autore anche della Pinakothek der Moderne di Monaco), sono collegati da un ponte, chiamato Sprung über die Spree (fig.9). Oltre a sottolineare l’unità architettonica dei due edifici – costruiti con gli V. Paolo, La nuova Cancelleria: monumento alla ‘grandezza tedesca’, «Corriere della Sera», 10 febbraio 2001. 60 http://www.schultesfrankarchitekten.de/ 59
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stessi materiali e seguendo un disegno omogeneo – rappresenta efficacemente l’avvenuta riunificazione di Berlino, realizzando un collegamento fra le due sponde della Sprea, prima impossibile per la presenza del Muro. È la sua struttura, esile, sospesa fra i due edifici, a sfidare il passato e a consegnarci il nuovo messaggio di unità della città. Dedicato ad una politica liberale, la Marie‐Elisabeth‐Lüders‐Haus è il centro informazioni e servizi del Parlamento, con la biblioteca, l’archivio, la documentazione della stampa e i servizi scientifici. Sotto il livello della biblioteca, in uno spazio vuoto, sono conservati dei segmenti di Muro. Ognuno riporta un anno, dal 1961 al 1989, e il numero di persone morte lungo il confine, nel tentativo di superarlo. I segmenti, in ordine cronologico, sono disposti in modo da seguire il tracciato originario del Muro, secondo un allestimento realizzato da Ben Wargin, nel 2003. Attraversando l’ansa della Sprea, si incontra un altro monumento per le vittime del Muro (fig. 10). Nel 1971, dei cittadini posero delle croci bianche, in ricordo di chi tentò di fuggire dalla Rdt attraversando la Sprea. Nel 1995 il memoriale delle Weisse Kreuze fu spostato, ed oggi si trova in un punto di convergenza, fra la Paul‐Löbe‐Haus, la Jacob‐
Kaiser‐Haus e il Reichstag. Segno che – nel superamento anche urbanistico della divisione, nella creazione di un nuovo quartiere governativo – la memoria delle vittime del Muro non è stata scalzata, ma si è scelto di lasciarla incastonata nella città, e in uno dei suoi luoghi più simbolici. Lungo la Dorotheenstrasse, alle spalle del Reichstag, si trova l’ultimo edificio, la Jacob‐Kaiser‐Haus, dal nome del politico di centro della Repubblica di Weimar, co‐fondatore del partito della Cdu. Costituito da otto case, a cui hanno lavorato cinque gruppi di architetti, è l’edificio di maggiori dimensioni, che spinge il Band des Bundes fino al vecchio cuore prussiano della città. Ospita i gruppi parlamentari, i loro collaboratori, i vicepresidenti del Bundestag, gli stenografi, l’ufficio stampa, il centro regia, lo studio per la televisione parlamentare. Se “l’ansa della Sprea, il tratto più conosciuto della capitale tedesca in patria e all’estero, è la storia di successo della pianificazione della capitale della nuova Berlino”61, non sono mancate critiche al progetto di Schultes e Frank. Molte delle obiezioni si concentrarono sull’eccessiva monumentalità degli edifici e sulla loro disposizione troppo schematica. Se per i detrattori era una sistemazione che ricordava scelte autoritarie, per i sostenitori era aperta, accessibile, e democratica. Le strutture del Band des Bundes sono state accusate anche di essere “esteticamente incompatibili con l’aura del classicismo prussiano che dà l’impronta ancora ad una parte considerevole del centro M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 83. 61
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storico berlinese”62. Più che la compatibilità con il centro prussiano, la ricerca degli architetti si è concentrata sulla reinvenzione di un discorso nazionale, che superasse la semplice riproposizione di un orgoglio o di una nostalgia storicista. Per definire uno stile adatto agli edifici governativi si è scelto di privilegiare la modernità e la funzionalità, recuperando l’eredità di Bonn. La solennità e la monumentalità non sono attribuite unanimemente al Band des Bundes. Al contrario altri hanno indicato come il complesso degli edifici governativi e parlamentari sorti accanto al Reichstag non ha nulla della imponenza, oscillante tra pomposità e autorevolezza, di molti omologhi edifici governativi o di rappresentanza popolare del resto d’Europa. La politica berlinese non intende trasmettere più l’idea della potenza, della sede degli arcana imperii, ma di trasparenza, comunicazione, vicinanza ai cittadini. 63 Le ampie superfici a vetri degli edifici si offrono come una “metafora della costituzione democratica – il popolo ha il diritto di guardare i governanti negli occhi”64. Le linee guida, che prescrivevano “l’apertura democratica, l’integrazione nella città, la considerazione di criteri ecologici e ambientalistici, come il confronto artistico con la superata divisione est‐ovest”65, hanno trovato effettiva realizzazione. La sistemazione dell’ansa è riuscita a livello urbanistico, nella voluta ricucitura della città, con la Sprea che contribuisce a movimentare il disegno lineare degli edifici, evitandone la pedanteria. L’incontro fra le ampie superfici di vetro e la superficie riflettente dell’acqua, conferisce una particolare luminosità agli edifici, le cui forme articolate non danneggiano l’immagine di omogeneità del complesso. Vista la composizione del Band des Bundes resta da analizzare il fulcro dell’area, il Reichstag. Da sempre è un edificio a cui ben si adattano i superlativi: 13.500 mq di superficie, due concorsi e dieci anni di lavori per costruirlo dal 1884 al 1894, circa lo stesso tempo per il restauro negli anni Sessanta, con la spesa di somme sempre molto alte. Edificio simbolo della Germania, le sue vicende sono state tormentate e difficili. Il Reichstag, cioè il Parlamento imperiale, l’assemblea legislativa del Reich del Kaiser Guglielmo I, fu presto piegato ai voleri del cancelliere Bismarck. Il Kaiser Guglielmo II non nascose il suo scarso entusiasmo per l’edificio, legato all’ostilità che provava per l’istituzione – l’aveva chiamato persino Reichsaffenhaus, cioè casa delle scimmie imperiali. Nel pieno della Prima Guerra Mondiale, fece apporre sulla facciata principale la dedica “Dem Deutschen Volke” (“al popolo tedesco”), cercando di G.E. Rusconi, Berlino. La reinvenzione della Germania, cit., p. 15. Ivi, p. 12. 64 M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 84. 65 Ibidem. 62
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accontentare, con un gesto simbolico, il desiderio di democrazia che si andava rafforzando fra le trincee. Le difficoltà che incontrò l’architetto Paul Wallot nel definire lo stile e la forma dell’edificio, furono legate alla difficoltà che comportava il dover creare un simbolo del parlamentarismo tedesco, intorno al quale c’era ben poco consenso. Lo stile architettonico scelto si richiamava al tardo Rinascimento italiano, con una facciata riccamente decorata, che comprendeva anche elementi barocchi, un ampio colonnato all’ingresso e quattro massicce torri laterali. L’elemento più moderno e apprezzato dai contemporanei fu la cupola, di vetro e acciaio (fig. 11). Era un edificio che non poté decidere cosa voleva essere. O piuttosto, era supposto essere espressione dell’unità imperiale e allo stesso tempo un monumento del parlamentarismo, ma diventò semplicemente un esempio della profonda divisione nell’Impero tedesco e dell’impotenza del Parlamento di diventare padrone in casa propria. 66 Lo storicismo monumentale dell’edificio rappresentava una duplice simulazione: da una parte esso cerca di dare alla giovane nazione l’illusione di una tradizione, dall’altra conferisce al Parlamento privo d’influenza un’apparenza esteriore grandiosa. 67 Negli anni della Repubblica di Weimar l’attività del Parlamento, che pure era il reale centro del potere, fu poco incisiva, per gli alti livelli di scontro politico e faziosità. L’incendio del 1933 permise ad Hitler di reagire inaugurando lo stato di emergenza, che sospese i diritti fondamentali in vigore, e costituì così una tappa fondamentale nell’imposizione del regime nazista. L’ormai irrilevante Parlamento tedesco si riunì nell’edificio dell’Opera Kroll di Berlino, mentre l’architetto Albert Speer propose ad Hitler di abbattere il Reichstag, per la realizzazione di due grandi assi viari. Racconta di essersi scontrato con il Führer e con la sua “inopinata e violenta resistenza: a lui il palazzo piaceva. L’idea di Hitler, però, era di utilizzare l’edificio a scopi sociali”68. Alla fine della seconda guerra mondiale il Reichstag divenne bersaglio dei bombardamenti alleati, nella cruciale battaglia di Berlino. La celebre foto di Evgenij Chaldej – la bandiera rossa issata sul tetto da un anonimo soldato, sullo sfondo di una città devastata e in fiamme – divenne l’icona internazionale della sconfitta tedesca. M.S. Cullen, Der Reichstag. Die Geschichte eines Monuments, Frölich und Kaufmann, Berlin, 1983, p. 38. 67 P. Oswalt, Berlino città senza forma, Meltemi, Roma, 2006, p. 112. 68 A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, Milano, 1995, p. 183. 66
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Con la Guerra fredda e la spartizione della città, il Reichstag si trovò nel settore britannico, ma a ridosso del confine. Le strutture governative si trasferirono a Bonn, ma il Reichstag rimase un avamposto – almeno a livello simbolico – della Repubblica federale. Nel settembre 1948 più di 350 mila berlinesi si riunirono di fronte all’edificio, ancora semi distrutto, per manifestare contro il blocco di Berlino per opera dell’Urss. La ricostruzione dell’edificio, iniziata a metà anni Cinquanta, divenne un gesto simbolico, dalla forte risonanza nelle due parti della città, perché iniziare i lavori per il suo restauro, rappresentava un auspicio e una spinta alla riunificazione. L’operazione, diretta dall’architetto Paul Baumgarten, si concentrò sia sulle facciate, da cui furono rimossi alcuni elementi decorativi, che sullo spazio interno, con un nuovo allestimento della sala plenaria. Nel 1971, conclusi i lavori, si inaugurò la mostra “Domande sulla storia tedesca”, visitata da più di dieci milioni di persone, fino al 1994. Quale edificio poteva essere più adatto del Reichstag – “un curioso luogo della memoria: incendiato, bombardato, svuotato, inutilizzato per la metà dei suoi cento anni”69 – per ospitare domande sulla storia della Germania? Il 20 dicembre 1990, alla presenza dell’ex cancelliere Willy Brandt, il nuovo Bundestag eletto nelle prime elezioni pantedesche, si riunì nell’edificio del Reichstag. Non era stata, tuttavia, ancora presa la decisione di spostare le istituzioni politiche da Bonn a Berlino, né tantomeno quella di tornare ad usare il Reichstag come sede del Parlamento. Neanche il voto su Berlino capitale, del giugno 1991, sciolse automaticamente la questione. Se la Presidente del Bundestag, Rita Süssmuth, aveva già indicato l’edificio come “futuro centro delle sedute parlamentari di Berlino, con un utilizzo centrale attraverso il plenum del Bundestag”70, la scelta fu presa solo nell’ottobre 1991, dopo lunghe discussioni. Alcuni misero in luce come le esigenze del Bundestag, che aveva bisogno di numerosi uffici, non trovavano un adeguato spazio nell’edificio del Reichstag. Il portavoce della Spd, Conradi, si schierò fra i contrari non per ragioni di funzionalità, ma di rappresentatività. L’edificio era “guglielmino, massiccio, scostante. A Bonn la nuova sala plenaria aperta, di Günter Behnisch, indicava l’autoconsapevolezza di una repubblica democratica. L’edificio del Reichstag sollecitava altre associazioni: mausoleo, palazzo, fortezza”71. Nonostante l’iniziale scetticismo, alla fine anche la Spd optò per l’utilizzo del Reichstag, in una linea di continuità con la storia tedesca. La scelta si offriva, però, anche come atto di riscatto rispetto al nazismo, e di emancipazione dalle potenze alleate, che nel dopoguerra avevano interdetto l’uso del Reichstag per M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, Bre Bra Verlag, Berlin, 1999, p. 321. Ivi, p. 311. 71 Ivi, p. 313. 69
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qualsiasi attività politica. Nel febbraio 1992, il Parlamento indicò i primi criteri per il restauro dell’edificio, che doveva esprimere trasparenza, apertura, vicinanza al cittadino. I principi ispiratori delle istituzioni democratiche, venivano trasposti nelle linee guida dell’intervento architettonico. Nel febbraio 1993 furono scelti i tre vincitori ex equo del concorso pubblico: lo spagnolo Calatrava, l’olandese Pi de Bruijn e l’inglese Norman Foster. La scelta finale ricadde sul progetto di Foster, che si basava su tre concetti: primo: legare armonicamente l’allestimento di un tempo e la sostanza architettonica storica. Secondo: realizzare un parlamento architettonicamente moderno e funzionale. E terzo: progettare seguendo un concetto ecologico, orientato al futuro per l’ansa della Sprea. 72 L’architetto inglese, estremamente prolifico, ha ormai al suo attivo diverse realizzazioni internazionali: il grattacielo di Al Faisaliah a Riad, Arabia Saudita, la copertura del cortile grande del British Museum a Londra, il Millennium Brigde ancora a Londra, l’aeroporto internazionale di Hong Kong, il grattacielo della Commerzialbank di Francoforte (il più alto in Europa). Con il suo stile, contraddistinto dal ricorrente uso di acciaio e vetro, e dall’ottima padronanza della tecnologia, ha realizzato edifici tanto moderni da conferirgli l’appellativo di architetto hi‐tech. Prima che si avviassero i lavori di Foster, altri eventi ebbero come epicentro l’edificio del Reichstag. La sala plenaria divenne sede del lutto nazionale per la morte di Willy Brandt, nell’ottobre 1992. Nello stesso anno, di fronte alla facciata principale dell’edificio, fu inaugurato un monumento alla memoria dei deputati della Repubblica di Weimar uccisi dai nazisti. È composto da 96 sottili tavolette di ghisa, poste una accanto all’altra, che riportano i nomi dei deputati, il partito di appartenenza, la data e il luogo in cui sono morti. Eretto grazie al coinvolgimento dei cittadini raccolti nell’Iniziativa Prospettiva Berlino, è un segno della memoria significativo per i contenuti e la posizione, ma discreto nella sua presenza. Più d’impatto – anche a livello mediatico – fu l’intervento artistico di Christo, tre anni più tardi, quando impacchettò il Reichstag. Il primo progetto per il suo impacchettamento, venne presentato da Christo nel 1971, ma perché si potesse realizzare bisognò aspettare la caduta del Muro. Christo, e la moglie Jeanne‐Claude, sono stati esponenti del movimento artistico del nuovo realismo, fondato a Parigi nel 1960. Interessati a sviluppare “nuovi approcci percettivi al reale”73, i coniugi si sono dedicati alla Land art, intervenendo sul paesaggio con azioni temporanee ed effimere, che ne modificavano la sostanza percettiva. Il loro gesto artistico consiste soprattutto Ivi, p. 317. D. Riout, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Einaudi, Torino, 2002, p. 172. 72
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nell’impacchettare i monumenti simbolo – le Mura Aureliane di Roma, il Pont Neuf di Parigi – o nello stendere teli – lungo le montagne rocciose del Colorado, presso le isole di Biscayne. L’attenzione di Christo per il Reichstag derivava dal fatto che “Berlino è il luogo dell’incontro fisico fra Est e Ovest, di due sistemi di valori e stili di vita, ha la struttura più ricca e plurale di ogni città del mondo. Il Reichstag è situato ai limiti di quello spazio e si innalza in un’area aperta, stranamente metafisica”74. Molti politici occidentali si mostrarono scettici sulla serietà dell’impresa, o timorosi che l’edificio venisse oltraggiato. Inoltre sarebbe stata necessaria anche l’autorizzazione della Rdt, per poter lavorare alla facciata posteriore, a ridosso del confine. Pensato a partire dalla situazione storica della divisione di Berlino, l’impacchettamento è stato possibile solo al termine di quella fase. Nel 1993, mentre si definivano i concorsi per il Reichstag, si tornò a parlare del progetto di Christo, e si mise in luce come avesse una forza espressiva artistica, che non ridimensionava il Reichstag, ma – al contrario – gli conferiva una nuova dimensione: con la copertura dell’edificio del Reichstag prima della ricostruzione della casa del Parlamento si rende visibile il nuovo inizio nella storia dell’edificio. Il progetto troverà attenzione mondiale e riconoscimento e sarà segno di una nuova Germania aperta. 75 Queste saranno anche le motivazioni che porteranno ad approvare il progetto, nel febbraio 1994, seppur con un’esigua maggioranza. Il Bundestag stesso arrivò a pronunciarsi su quest’operazione artistica, poiché chiamava in causa le questioni dell’identità e della storia della nazione tedesca. Per il capogruppo della Cdu, Schäuble, l’edificio era troppo importante con il suo significato, per poter essere oggetto di un esperimento. La Spd, invece, era a favore dell’operazione, che avrebbe segnato “un nuovo capitolo nella storia della democrazia parlamentare tedesca”76. Come Brandt aveva espresso già anni prima, l’impacchettamento del Reichstag “potrebbe dimostrare che la Germania ha di nuovo raggiunto una relazione disinvolta con la sua storia”. 77 Per circa dieci giorni, da fine giugno ai primi di luglio del 1995, il Reichstag impacchettato fu preso d’assedio dai curiosi – circa 5 milioni solo di tedeschi sopra i 16 anni (fig. 12). L’operazione di Christo fu uno dei maggiori B. Ladd, The Ghosts of Berlin, cit., p. 82. M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, cit., pp. 284‐285. 76 Cit. in B. Ladd, The Ghosts of Berlin, cit., p. 94. 77 Ibidem. 74
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successi di un’opera d’arte, e Platz der Republik si trasformò in un’area di festa, una “Woodstock tedesca”78. L’aspetto più rimarchevole dell’opera di Christo e Jeanne Claude era il modo in cui interveniva nel quotidiano sospendendolo. Con le sue funi blu e l’involucro argenteo a semplificare le superfici sottostanti, il palazzo del Parlamento così avviluppato sembrava quasi un enorme dono misterioso depositato in quel luogo da visitatori interplanetari. 79 Paradossalmente i teli di nylon che avevano coperto il Reichstag, l’avevano reso più visibile nel panorama quotidiano, rivelando ciò che solitamente restava nascosto. L’intervento di Christo era un evento artistico, una sorta di happening prolungato, la cui forza risiedeva nella sua imminente conclusione, che avrebbe riportato l’edificio al punto di partenza, al grado zero. Il Reichstag divenne un oggetto da contemplare, e il suo impacchettamento, invece di svilirne l’aspetto simbolico, l’esaltò. Agli occhi delle folle che gli passeggiavano attorno l’evento artistico assolveva il Reichstag dalla sua storia passata, emancipando il potenziale parlamentare dell’edificio dall’incubo di antichi fallimenti del governo rappresentativo. Uscendo dalla sua copertura di nylon, esso poteva rinascere a nuova vita. 80 Per l’architetto Bruno Flierl l’azione di Christo “aveva rimosso ‘le fratture storiche’ dell’edificio”81, liberandolo dal peso del passato. Concettualmente, velare il Reichstag ebbe un altro effetto salutare: ammutolì l’abituale voce della politica, la memoria dei discorsi dalle sue finestre, dell’innalzamento della bandiera tedesca o sovietica sul suo tetto e della retorica politica ufficiale al suo interno. 82 Con le settimane fra il giugno e il luglio 1995, si realizzò una cesura, un rito di passaggio, dopo le quali poterono cominciare i lavori di restauro e rinnovo della struttura. Per la facciata esterna del Reichstag, Foster non propose cambiamenti sostanziali: la sfida fu quella di creare all’interno dell’edificio degli spazi moderni e funzionali, senza alterarne la struttura. Il dibattito pubblico, più che sull’allestimento interno, si avvitò sulla questione della cupola. Già nel 1988, il sindaco di Berlino Ovest, Eberhard Diepgen, aveva proposto di ricostruirla, più alta della precedente, in modo che potesse essere vista con chiarezza da Berlino M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, cit., p. 289. C.S. Maier, Il crollo. La crisi del comunismo e la Germania dell’Est, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 526. 80 Ivi, p. 527. 81 M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 88. 82 A. Huyssen, Present Pasts. Urban Palimpsest and the Politics of Memory, Stanford University Press, Stanford, 2003, p. 36. 78
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Est, denunciando il clima di contrapposizione della Guerra fredda. La cupola, in quanto aspetto più visibile dell’edificio, divenne l’oggetto su cui si focalizzò maggiormente l’attenzione pubblica, e fu motivo di polarizzazione del dibattito. Non tutti erano concordi con la sua ricostruzione, perché “l’edificio deve mostrare le sue ferite”83, che la nuova cupola poteva far dimenticare. I deputati della Cdu, invece, si espressero per la ricostruzione della vecchia cupola, realizzata da Wallot, perché rispondeva al bisogno di identificazione nazionale. Soprattutto il deputato Schneider della Cdu parlò della cupola storica come di un “simbolo della sovranità popolare”, di un “monumento della democrazia, che non aveva bisogno di alcuna trasformazione. […] Solo così il Reichstag poteva tornare ad avere la sua posizione dominante nell’urbanistica”84. Foster intervenne a dimostrare la sua ostilità rispetto alla cupola realizzata da Wallot, definendola “solo un simbolo vuoto, un elemento di copertura sovradimensionato”85. Elaborò un progetto che prevedeva una struttura cilindrica, una “torre di luce”, perché il nuovo Parlamento nell’edificio del Reichstag doveva realizzare un nuovo segno, che fosse espressione della storia complessiva (cioè il Reichstag) ma anche espressione del nuovo inizio (Bundestag nel Reichstag). Sosteniamo che il cilindro di vetro, nella sua chiarezza e trasparenza, è un segno adeguato per una democrazia aperta e un paese volto al futuro. 86 Foster testò più di venti forme di cupole diverse – vennero paragonate agli oggetti più disparati, un’arnia, un gelato rovesciato, una bolla di sapone – tanto che si parlò della cupola come di una “nuova questione tedesca aperta”87. Il nuovo Bundestag, nel 1995, chiuse la questione. Si espresse a favore di una cupola a forma di semisfera, alta 25 metri oltre il tetto, che sarebbe diventato una piattaforma panoramica. All’interno della cupola, due rampe a spirale dovevano salire fino alla sommità, rendendola così visitabile. Al centro sarebbe stato collocato un imbuto con specchi semovibili per raccogliere la luce del sole. La cupola, ecologica – come gli altri edifici del Band des Bundes – in questo modo avrebbe funzionato anche come accumulatore di luce e energia, tanto che si scrisse che “la giovane principessa ecologia è stata incoronata nell’edificio del Reichstag come motivo di rappresentazione nazionale”88. Nonostante la decisione finale fosse stata presa, e Foster avesse cominciato i lavori, i sostenitori del ritorno alla cupola di Wallot continuarono ad essere scettici, e a M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, cit., p. 292. Ivi, p. 295. 85 Ivi, p. 293. 86 Ibidem. 87 Ivi, p. 300. 88 M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 89. 83
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parlare della nuova cupola di vetro come di un corpo estraneo, inadeguato per il Reichstag. Dopo lo smantellamento dell’opera di Christo, iniziò il lavoro di Foster. Nella fase di rimozione delle vecchie strutture presenti nell’edificio, furono trovati dei graffiti realizzati da soldati sovietici nei primi giorni di maggio del 1945. La maggioranza socialdemocratica, nonostante l’opposizione della Cdu, scelse di conservarli, come “testimonianza di inconfondibile valore di una storia non imposta dall’alto, ma fatta dagli individui e scritta con le loro stesse mani”89. Un alto elemento da definire era la presenza dei simboli nazionali, ossia un’aquila che doveva svettare sulla parete alle spalle del seggio del presidente del Bundestag. Foster cercò di realizzare una forma moderna e snella, che fosse in volo, “come una fenice, che è risorta dalle ceneri, come il Parlamento, come il Reichstag stesso”90. Realizzò 180 varianti dell’uccello, tutte cassate dalla Commissione, che insistette per quella realizzata da Gies per l’ex Parlamento di Bonn – nonostante l’architetto fosse stato un seguace del nazismo, e la sua aquila fosse chiamata affettuosamente la “gallina grassa”. Foster si arrese, ma non mancò di definire l’azione “molto reazionaria”91. Un’ultima polemica riguardo il nome dell’edificio, una questione di principio tipicamente tedesca, come la definì la Presidente del Bundestag, Rita Süssmuth92. Reichstag era il nome storico dell’edificio, legato all’epoca della sua costruzione, quando qui si riuniva il Parlamento espressione del Secondo Reich tedesco. Nel marzo 1999, a ridosso dell’inaugurazione, fu trovato il compromesso: ufficialmente la dizione sarebbe stata “sala plenaria nell’edificio del Reichstag”93. Per tutti, berlinesi, turisti, osservatori internazionali, è rimasto il Reichstag, senza le pedanti specificazioni, ma dietro al nome che nell’uso è immutato, a nessuno sfugge il cambiamento sostanziale della Germania. Il 19 aprile 1999 il Bundestag festeggiò il suo ritorno nel palazzo del Reichstag ultimato (fig. 13). Foster, dopo quattro anni di lavori, consegnò la chiave simbolica dell’edificio al Presidente federale Wolfgang Thierse. Nel suo discorso, cercando forse un effetto rassicurante, mise in luce la continuità con la Repubblica federale di Bonn, interpretando lo spostamento a Berlino come il momento di una “civilizzazione felice”, che doveva sostanziarsi con uno “sguardo critico alla nostra storia”, storia che continuava a condurre al Reichstag. L’edificio, che ha compiuto i primi dieci anni di nuova vita, ha E. Banchelli (a cura di), Taste the East, cit., p. 175. M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, cit., p. 323. 91 Ibidem. 92 Ivi, p. 320. 93 Ibidem. 89
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incontrato un grande successo di pubblico: con circa tre milioni di persone l’anno è il Parlamento più visitato al mondo94. L’intreccio di aura storica, eccellente grado di notorietà, disposizione urbanistico‐architettonica e possibilità di fruizione aperta al pubblico, ha posto tutte le premesse, affinché il nuovo domicilio del Bundestag possa diventare un simbolo, sinonimo della nuova fase berlinese della Repubblica Federale. 95 La cupola, l’elemento intorno al quale più si è dibattuto, è diventata la cartina tornasole del successo dell’edificio. Attraverso uno spettacolare e virtuosistico uso del vetro, Foster reinterpreta la forma della cupola, antico simbolo del Parlamento tedesco, introducendovi un elemento che la lega fortemente alla città storica e alla città contemporanea, l’assenza di materiale, l’idea della trasparenza: un grosso scheletro filiforme di forma cilindrica in cui tutto è visibile in qualsiasi ora del giorno e della notte; un contatto diretto con la città, garantito da un percorso elicoidale e da piani sospesi come dischi volanti che fluttuano nel vuoto; un simbolo di speranza, una testimonianza di accoglienza in cui nulla più è nascosto o buio; e, soprattutto, un contatto diretto con il cielo e con la luce. 96 La forza simbolica della cupola era stata messa in luce già dal cancelliere Schröder nel 1998, prima che i lavori all’edificio venissero ultimati. Sul Reichstag, che a breve diventerà il Bundestag tedesco, si inarca una cupola di vetro. Questo è più che un dettaglio architettonico. Deve essere un simbolo per la nuova apertura e per il rinnovamento democratico di questo edificio carico di storia. Può diventare un simbolo per la moderna comunicazione di apertura cittadina. 97 Se il nuovo allestimento interno del Reichstag non ha trovato espressione nella facciata esterna – rimasta pressoché immutata – il cambiamento si è sostanziato nella cupola, che è diventata la nuova firma della Repubblica di Berlino: un luogo di potente identificazione e di irresistibile stupore. Disegnata come un’allegoria della trasparenza politica più che come un’attrazione turistica, la cupola di Foster invita letteralmente i soggetti della nazione a guardare alla loro capitale nuovamente. Consapevolmente cosmopolita, ricodifica l’aureo e il monumentale nelle speranze di liberare il presente dall’incantesimo del passato. 98 Il Reichstag, come la città di Berlino stessa, Deutscher Bundestag, Fatti. Il Bundestag in breve, Berlin, 2006, p. 4. M.W. Guerra, Hauptstadt einig Vaterland, cit., p. 112. 96 M. Del Vecchio, D. Fondi (a cura di), Ricognizioni berlinesi. Oltre il Muro, Edizioni Kappa, Roma, 2001, p. 124. 97 M.S. Cullen, Der Reichstag. Parlament, Denkmal, Symbol, cit., p. 291. 98 L. Koepnick, Forget Berlin, in «The German Quarterly», n. 4/2001, p. 350. 94
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è emblema di questo mix di creatività e esitazione allo stesso tempo. […] Incarna con successo le tensioni fra il poco amato passato imperiale (il rivestimento esterno dell’edificio), un presente burocratico e funzionale della Repubblica Federale (la sala plenaria per il Bundestag), e il desiderio di avere un’immagine di trasparenza democratica, che rimarca lo status di Berlino come capitale. 99 Il Reichstag del 1999 non si distingue per quel “guazzabuglio di prestiti storici”100, che fu proprio del primo edificio. La confusione stilistica del 1894 ha lasciato il posto a due momenti architettonici distinti, raccolti in una struttura unitaria. Fra le facciate e la cupola si delinea, più che una sintesi fra passato e presente – materie rimaste distinte – una loro diretta messa in comunicazione, più che una ricomposizione forzosa della loro dialettica, un atto di giustapposizione. La cupola del Reichstag, inoltre, è l’elemento che mitiga il contrasto fra i due stili architettonici – fra la modernità e il prussianesimo – fungendo da trait d’union con le ampie superfici in vetro dei nuovi edifici del Band des Bundes. La combinazione può risultare improbabile, suggestiva, più o meno riuscita architettonicamente. È difficile, però, non vedere come abbia contribuito a creare una nuova estetica dello stato, come abbia trasmesso un’immagine diversa della politica. Del resto, dopo l’Unificazione, l’architettura e il design urbano di Berlino sono state ossessionate dal dotare la nuova capitale di ‘un richiamo emotivo aggiunto alla rappresentazione dello Stato’. Sia se consideriamo il rinnovamento del vecchio edificio del Reichstag o la costruzione della nuova Cancelleria, la Berlino del post Muro è diventata il luogo in cui le politiche democratiche e l’architettura solenne si suppone vadano nuovamente a braccetto. 101 Vista dalla cupola del Reichstag, la scommessa della Germania di ricomporre a Berlino – anche a livello spaziale‐architettonico – i momenti contrastanti del passato tedesco, sembra vinta. A. Huyssen, Present Pasts, cit., pp. 75‐77. P. Oswalt, Berlino città senza forma, cit., p. 112. 101 L. Koepnick, Forget Berlin, cit., p. 347. 99
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Galleria fotografica Figura 1 Palazzo della Repubblica, con l’area adibita a parcheggio di fronte. Alle sue spalle la Torre della televisione di Alexanderplatz, 1981. www.bild.bundesarchiv.de 77
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Figura 2: Ricostruzione virtuale dello Schloss. Nell’angolo a destra il palazzo del Consiglio di Stato, e in fondo la Torre della televisione, 2008. http://www.art‐magazin.de Figura 3: Edificio del Consiglio di Stato, con il portale di Liebknecht salvato dallo Schloss, 2004. http://commons.wikimedia.org 78
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Figura 4: Ministero degli Esteri della Rdt, 1972. www.bild.bundesarchiv.de Figura 5: Al centro: nuovo edificio del ministero degli Esteri federale, alle sua sinistra facciata dell’edificio storico della Reichsbank. Nell’angolo in basso a sinistra l’edificio del Consiglio di Stato, mentre nell’angolo a destra lavori di ricostruzione dell’Accademia dell’architettura di Schinkel. 2004. http://de.wikipedia.org 79
C. Calabretta, Berlino capitale
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Figura 6: Ministero delle Finanze federale, lungo Wilhelm‐Strasse, 2006. it.wikipedia.org/wiki 80
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Figura 7 Band des Bundes. Dal basso verso l’alto: edificio della Cancelleria, Paul‐Löbe‐Haus e Marie‐Elisabeth‐Luders‐Haus. Nell’angolo in alto a destra il Reichstag, 2005. www.stadtentwicklung.berlin.de Figura 8: Edificio della Cancelleria, progettato da Schultes&Frank, 2005. http://de.wikipedia.org 81
C. Calabretta, Berlino capitale
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Figura 9: Sprung über die Spree: ponte fra la Paul‐Löbe‐Haus e la Marie‐Elisabeth‐Luders‐Haus, progettato da Stefan Braunfels, 2010. (Foto dell’autrice) Figura 10: Memoriale delle Weisse Kreuze sulla Spree. Alle sue spalle la Marie‐Elisabeth‐
Luders‐Haus, 2009. www.aviewoncities.com 82
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Figura 11: Il Reichstag progettato da Paul Wallot, 1882. de.wikipedia.org Figura 12: Il Reichstag impacchettato da Christo, 1995. www.christojeanneclaude.net Figura 13: Il Reichstag con cupola trasparente di Foster, 2009. http://commons.wikimedia.org 83
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Un Manifesto per ventisette paesi.
La traduzione del messaggio di Ventotene
nelle lingue ufficiali dell’Unione europea
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Ελλάδα Το Μανιφέστο του Βεντοτένε, η Ελλάδα και η Ευρωπαϊκή Ένωση Paola Maria Minucci Ημετάφραση του Μανιφέστου του Ventotene στις γλώσσες της Ευρωπαϊκής Ένωσης κι ακόμα περισσότερο η μετάφραση και η διάδοσή του στην Ελλάδα, αποτελούν μια σημαντική στιγμή περισυλλογής. Η πορεία της Ελλάδας προς την Ευρώπη σημείωσε μια ιστορική εξέλιξη σε σχέση με των υπολοίπων χωρών, και ιδιαίτερα με της Ιταλίας. Τα χρόνια που στην Ιταλία κυκλοφορούσε το μανιφέστο, η Ελλάδα βρισκότανε υπό την πίεση ενός άγριου εμφύλιου πολέμου που δεν άφηνε χώρο για ιδεολογικούς και πολιτικούς στοχασμούς, αν εξαιρέσει κανείς κάποιες μεμονωμένες και σποραδικές εκδηλώσεις. Στην Ιταλία, στα χρόνια 1940‐1943, κατά τη διάρκεια της εξορίας στο νησί Βεντοτένε με την κατηγορία της συνωμοσίας εναντίον των δυνάμεων του κράτους, ο Αλτιέρο Σπινέλι συνέτασσε μαζί με τους Ερνέστο Ρόσι και Εουτζένιο Κολόρνι το έγγραφο που επρόκειτο να αποτελέσει τη βάση του μελλοντικού Ευρωπαϊκού Ομοσπονδιακού Κινήματος, Το σχέδιο ενός
μανιφέστου για μια ελεύθερη και ενωμένη Ευρώπη, πιο γνωστό ως Μανιφέστο του
Βεντοτένε. Σ’εκείνο το μανιφέστο, επιβεβαιωνότανε η καταδίκη του πολέμου, της ιδεολογίας Κράτους‐έθνους και της αρχής της απόλυτης επικυριαρχίας, στοιχεία που στο παρελθόν είχανε ευνοήσει τη γέννηση των ολοκληρωτικών καθεστώτων στην Ευρώπη και είχανε απειλήσει την ειρήνη. Το τέλος του πολέμου άφηνε άλυτα πολλά προβλήματα που θα μπορού‐ σαν να αποτελέσουνε τη σπίθα για νέες συγκρούσεις∙ μονάχα η συγκρό‐ τηση μιας Ευρωπαϊκής ομοσπονδίας θα ήταν ικανή να τα επιλύσει, απορ‐ ρίπτοντας κάθε εθνικιστική αξίωση στο όνομα του γενικού καλού. Η ομοσπονδιακή ιδέα του Σπινέλι και των συντρόφων του δυσκολεύτηκε να ριζώσει στην Ευρώπη. Έτσι, υπερίσχυσε η πολιτική των μικρών βημάτων κι ως εκ τούτου, μετά το δεύτερο παγκόσμιο πόλεμο, κατά τη δεκαετία του ’50, γεννήθηκαν στην Ευρώπη η ΕΚΑΧ, η ΕΟΚ και η ΕΥΡΑΤΟΜ. Τι συνέβαινε στην Ελλάδα εκείνα τα χρόνια; 85
P.M. Minucci, Το Μανιφέστο του Βεντοτένε Eurostudium3w luglio-settembre 2011
Οι αλλαγές που σημειώθηκαν από το 1974 έως σήμερα είναι τόσο εκπληκτικές που παρουσιάζουν από πολιτικής, οικονομικής και κοινωνικής απόψεως ένα εντελώς καινούριο έθνος. Τη δεκαετία του ’50, όμως, δεν είχαν υλοποιηθεί ακόμη οι οικονομικές προϋποθέσεις για την προσχώρηση της χώρας στην Ευρωπαϊκή Οικονομική Κοινότητα. Η ελληνική οικονομία υπέφερε εξαιτίας των διαρθρωτικών αδυναμιών της, ενώ τα επίπεδα παραγωγικότητας βρισκόντουσαν κάτω από τα ευρωπαϊκά πρότυπα. Επίσης, υπήρχε η χρόνια διαμάχη με την Τουρκία εξαιτίας του Κυπριακού ζητήματος. Τη δεκαετία του ’60 η Κυβέρνηση Καραμανλή, πεπεισμένη πως η ευρωπαϊκή ολοκλήρωση αποτελούσε ένα απαραίτητο βήμα για τη διαφύλαξη της ειρήνης, τη σταθερότητα και την ανάπτυξη, πάσχισε προκειμένου η χώρα να καταφέρει να συμπεριληφθεί στην Ευρωπαϊκή Οικονομική Κοινότητα. Το 1961 η Ελλάδα είχε συνάψει με την Κοινότητα μια συμφωνία σύνδεσης με σκοπό τη θέσπιση τελωνιακής ένωσης και την εναρμόνιση της αγροτικής πολιτικής εν όψει μιας πιθανής μελλοντικής προσχώρησης. Με το πραξικόπημα του 1967 και την εγκαθίδρυση του καθεστώτος των συνταγματαρχών στην Ελλάδα, αναστελλότανε προσωρινά το Σύνταγμα και συλλαμβάνονταν πολιτικοί και αντιφρονούντες. Η διεθνής κοινότητα δεν είχε διακόψει τις διπλωματικές σχέσεις με τη χώρα αλλά πολύ σύντομα οι καταδικαστικές αντιδράσεις καθιστούσανε αισθητή την παρουσία τους. Μεταξύ των στόχων της νέας υπερεθνικής οικονομικής και νομικής τάξης πραγμάτων, που είχε θεσπιστεί στην Ευρώπη μετά το δεύτερο παγκόσμιο πόλεμο, υπήρχαν, πράγματι, ο σεβασμός των ανθρώπινων δικαιωμάτων και των βασικών ελευθεριών, καθώς και η μάχη ενάντια στην πιθανή επιστροφή των ολοκληρωτικών καθεστώτων στην Ευρώπη. Εν τω μεταξύ, τον Δεκέμβρη του 1969 η Ελλάδα αποβάλλεται από το Ευρωπαϊκό Συμβούλιο εξαιτίας της παραβίασης των ανθρωπίνων δικαιωμάτων που είχε διαπράξει η χούντα∙ πολλές από τις βοήθειες που η Ευρωπαϊκή Ένωση είχε υποσχεθεί διαγράφονται∙ το μεγαλύτερο μέρος των πολιτιστικών, επιστημονικών και εμπορικών εκδηλώσεων ακυρώνεται∙η συμφωνία σύνδεσης με την ΕΟΚ «παγώνει» έως το 1974, τη χρονιά δηλαδή που πέφτει το δικτατορικό καθεστώς και αποκαθίσταται η δημοκρατία. Ο Spinelli – που την εποχή εκείνη ήτανε μέλος της Επιτροπής ‐ υπήρξε ένας από τους πιο πεπεισμένος υποστηρικτές της αναστολής των συμφωνιών σύνδεσης εναντίον της Ελλάδας των συνταγματαρχών. Σε διεθνές επίπεδο το καθεστώς είχε τη σιωπηλή υποστήριξη των ΗΠΑ που απασχολούνταν με τον ψυχρό πόλεμο με την ΕΣΣΡ. Η θέση της Ελλάδας στα σύνορα με το ανατολικό μπλοκ, την καθιστούσε ένα σημαντικό πιόνι της διεθνούς σκακιέρας. Οι ΗΠΑ, βάση του δόγματος 86
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Τρούμαν, προσφέρανε χρηματοδοτήσεις για να στηρίξουνε την ελληνική οικονομία. Μετά την πτώση του συνταγματαρχικού καθεστώτος το 1974, που καθορίστηκε από την τουρκική εισβολή στην Κύπρο, ο Κωνσταντίνος Καραμανλής, έχοντας επιστρέψει από την εξορία, αποκαταστούσε στη χώρα τις ελευθερίες και επανατοποθετούσε στην ημερήσια διάταξη της πολιτικής ατζέντας τον ευρωπαϊκό φάκελο. Η προσχώρηση στην ΕΟΚ παρουσιαζότανε απαραίτητη για τη σύνδεση της Ελλάδας με τη Δύση, για την ισχυροποίηση της δημοκρατίας και την ενίσχυση της ασφάλειας. Η Ελλάδα, έχοντας απελευθερωθεί από το δικτατορικό καθεστώς, ικανοποιούσε τώρα τις πολιτικές προϋποθέσεις για την αποδοχή της στην ομάδα των Εννιά. Τον Ιούνιο του 1975, μερικές ημέρες μετά την ψήφιση του νέου Συντάγματος, η ελληνική κυβέρνηση υπέβαλλε στην Κοινότητα την αίτηση ένταξης. Τα αιτήματα ένταξης της Ελλάδας, της Ισπανίας και της Πορτογαλλίας εκείνα τα χρόνια επέτρεπαν το ξεκίνημα της διαδικασίας διεύρυνσης της Ευρωπαϊκής Οικονομικής Κοινότητας στο Νότο και επικύρωνανε οριστικά το δεσμό μεταξύ Ευρωπαϊκής κοινότητας, δημοκρατίας και σεβασμού των ανθρωπίνων δικαιωμάτων. Οι διαπραγματεύσεις για την ενσωμάτωση της Ελλάδας ξεκινούσανε στις Βρυξέλλες το 1976. Ήτανε τα δύσκολα χρόνια της πετρελαϊκής κρίσης και του οικονομικού μαρασμού, που συνοδεύτηκαν από υψηλά επίπεδα ανεργείας και πληθωρισμού. Παρόλες τις ανησυχίες, από την πλευρά των χωρών της βόρειας Ευρώπης για την πιθανή μαζική συρροή Ελλήνων μεταναστών, και από την πλευρά των χωρών της νότιας Ευρώπης εξαιτίας του φόβου τους για τον ανταγωνισμό των ελληνικών αγροτικών προϊόντων, που βρισκόντουσαν σε χαμηλές τιμές, το 1979 υπογραφότανε στην Αθήνα η συμφωνία προσχώρησης της χώρας στην Ευρωπαϊκή κοινότητα και το 1981 η Ελλάδα γινότανε μέλος της Κοινότητας. Ο Giscard d’Estaing επιβεβαίωνε πανηγυρικά πως η Ευρώπη, με την προσχώρηση της Ελλάδας, επέστρεφε στις ρίζες της που βρισκόντουσαν στην Ελλάδα. Από το 1999 η Ελλάδα αποτελεί μέρος των χωρών της ζώνης του ευρώ, καθώς και της συνθήκης Σέγκεν, ενώ κατά τη διάρκεια του πρώτου εξαμήνου του 2003 ανέλαβε την Προεδρία της ΕΕ. Η ελληνική οικονομία σημειώνει έναν από τους υψηλότερους δείκτες ανά‐ πτυξης σε ολόκληρη την Ευρωπαϊκή Ένωση. Από το 1994 έως σήμερα το ακαθάριστο εγχώριο προϊόν αυξήθηκε με ρυθμό της τάξεως του 4% ετησίως∙μ’ αυτόν τον τρόπο μειώθηκε ακόμη περισσότερο η απόκλιση από τις υπόλοιπες βιομηχανοποιημένες χώρες, χάρη και στις ευρωπαϊκές 87
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χρηματοδοτήσεις. Το 2004 μεγάλο διεθνή αντίκτυπο, υπό την έννοια της αποδοτικότητας και της εικόνας, είχε η διοργάνωση των Ολυμπιακών Αγώνων στην Αθήνα. Η απόδοση του Μανιφέστου στα ελληνικά προσπάθησε να λάβει υπ’όψη της κυρίως τις ανάγκες του αναγνώστη∙ως εκ τούτου έθεσε ως στόχο της μια μετάφραση που να είναι κατά το δυνατόν αναγνώσιμη στη γλώσσα άφιξης. Το βασικό νόημα δεν προδόθηκε ποτέ, παρόλο που κάποτε θεωρήθηκαν απαραίτητες είτε κάποιες διασαφηνιστικές αποδόσεις των εννοιών, είτε μια πιο ελεύθερη μετάφραση εκεί όπου αποδείχθηκε αδύνατη ή δυσκολονόητη η κατά λέξη απόδοση. Αναγνωρίζοντας τη σημασία που αυτό το Μανιφέστο είχε κυρίως στα χρόνια που συντάχθηκε, η μετάφραση προσπάθησε να διατηρήσει το ίχνος της εποχής, προτιμώντας ξεπερασμένους όρους στη θέση των πιο σύγχρονων. 88
P.M. Minucci, Το Μανιφέστο του Βεντοτένε Eurostudium3w luglio-settembre 2011
England The Manifesto: from one island to another Maria Antonietta Saracino This is the English translation of a document famously written on a tiny island in the Tyrrhenian sea between 1941 and 1942. The text exudes civil and political passion and is couched in rich, flowing ‐ at times emphatic, for example in the case of Eugenio Colorniʹs preface ‐ Italian prose. There is a fervour to its language, as if the conditions imposed, the physical limitations inflicted by imprisonment on its authors ‐ intellectuals but also militant politicians ‐ somehow induced them to adopt more resounding, more marked tones to express themselves. It is as if they sought to give greater force to their words and to the substance of their thoughts as these took on the form of a great forward‐ looking project, precisely on the island of Ventotene. It looks to the future not only of Italy but of the whole of Europe with extensive, appropriate references to the rest of the world. It foresees the birth of a hegemony‐ free European Federation with a single currency and no custom tariffs, free emigration for its citizens and one single foreign policy: Europe as a civil place of cohabitation for free individuals rather than a tool in the hands of others. Sixty years on, the Manifesto is still extraordinary in its far‐sightedness and in the clarity with which it anticipates many of the problems facing us and the world we live in today. We are also struck by the force of the tones used to outline this world of ours, they are the tones of the spoken word. Despite the fact that the text is written, we are struck by the force that echoes orality, the energy of the voice. Because this Manifesto ‐ unlike Marx and Engels’ more famous document of 1848, also written on an island, and, according to historians, a source of inspiration for the Italian document which does, however, clearly set out to broaden its vision compared to the earlier work–brings with it the energy of ‘thinking together’; it brings us the product of the common project of the three great intellectuals who wrote it but it also brings us the different tones of voice. For the scholar of British culture, and inter‐cultural relations in general, some of the issues raised by the Ventotene Manifesto are particularly thought‐
provoking. While praising ‘the courageous combativeness of Great Britain, even at the most critical time, when it stood alone against the enemy’, the text forgets neither the Irish question nor the issue of defending minorities; it anticipates the question of Indian independence and reflects on the failure of the great colonial 89
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endeavours. And, starting with the blow struck by the racial laws, introduced in Italy by the Fascists in 1938, it touches on the folly of racism and desire for dominance implicit in imperialism. It draws a model of globalization, in the true sense of the word, that is to say with the world viewed as the heritage of all human beings: “Due to global economic interdependence, the living space needed by any people wanting to maintain a living standard in line with modern civilization is now the entire world”. In making this text available to an English‐speaking audience, this translation has a twofold objective. The first, as is always the case with chronologically distant texts, is that of bringing it closer to the contemporary reader, who speaks a different language and inhabits a different culture, preserving its readability: the text clearly uses archaic vocabulary and also has a rather formal register, as can be seen in expressions such as “contratti di lavoro iugulatori” (oppressive work contracts, where “iugulatore” literally refers to something that strangles or chokes) or “la ferula totalitarian” (the totalitarian rod or ferule). There are also many examples of metaphorical language such as “the straw house built by Fascist corporatism”. The second objective of the translation is to adapt the complex Italian in which it is written, with its many long subordinate clauses, especially in the case of Eugenio Colorni’s above mentioned preface, to the rigour and conciseness of a language such as English. This English translation of the Ventotene Manifesto is the third to appear in Italy over recent years, a sign of the increasing interest in this text and the message it conveys. While the two previous versions were motivated by militant interest and passion and ‐ as they are available on the internet ‐ have the merit of bringing the Manifesto to a wide audience of English‐ language readers, the translation presented here is the product of an institutional initiative. The Lazio Region has adopted the Ventotene Manifesto as part of its Statute and is promoting, together with the “Sapienza” University of Rome, the translation of the text into all the languages of the European Union. And so, one hundred years on from the birth of Altiero Spinelli, the man who inspired it, the Manifesto takes on a lea ‐ ding role in our institutions and universities, in history books but also in literary anthologies. We read and study it today not only for its political and civil content, but also as a literary and human document of exceptional importance. 90
M.A. Saracino, The Manifesto: from one island to another Eurostudium3w luglio-settembre 2011
Preface Eugenio Colorni (Rome 1944) These documents were conceived and written on the Island of Ventotene between 1941 and 1942. In this extraordinary environment, in the grips of the strictest discipline, having to struggle for every piece of fragmented information, with the despondency of forced inertia and anxiety over our forthcoming liberation, some of us began to re‐evaluate all the problems that had been the very motivation for past actions and the attitude adopted towards the struggle. Our distance from actual political activity gave us a more detached point of view, leading us to reconsider traditional positions, trying to identify the reasons for past failures not so much in technical errors of parliamentary or revolutionary tactics or in a generally ‘immature’ situation but rather in the inadequacy of the overall approach and the fact that the struggle had been deployed according to traditional rifts with too little attention being paid to new elements that were redefining the world. As we prepared to fight the imminent great battle, we felt the need not only to correct past errors, but also to redefine the terms of the political problem, having freed our minds of doctrinal preconceptions and party myths. And so it was, for some of us, that we came to develop the central idea of the essential contradiction, responsible for the crises, wars, suffering and all the exploitation that afflict our society: this contradiction was the existence of geographically, economically and militarily distinct sovereign states, considering other states as rivals and potential enemies, all living in a permanent, mutual condition of bellum omnium contra omnes. There are several reasons why this idea, not new per se, was considered innovative at the time and in the context in which it was developed: First of all, the internationalist solution, that features in the manifesto of all progressive political parties, is considered by these parties, in a certain sense, as a necessary and almost automatic consequence of reaching the goals that each of them sets out. Democrats believe that establishing, in each country, the regime that they each advocate, while transcending all cultural and moral frontiers, would doubtlessly lead to that unitary awareness that would in turn represent the premise they deem indispensable for the free union of people, including the political and economic spheres. On the other hand, the Socialists 91
E. Colorni, Preface Eurostudium3w luglio-settembre 2011
believe that the establishment of dictatorial regimes of proletarian rule in the different states will automatically lead to a collectivist international state. However, an analysis of the modern concept of state and of all the interests and feelings that this entails, clearly illustrates that, although similarities between regimes can facilitate cordial relations and collaboration between states, it is by no means certain that they will lead either automatically or progressively to unification, as long as there are collective interests and feelings defined by the maintenance of a unity enclosed within individual borders. We know through experience that chauvinist feelings and protectionist interests can easily lead to clashes and rivalry even between two democracies; and there is nothing to say that a rich socialist state must necessarily pool its resources with another much poorer socialist state, simply because they are both governed by similar regimes. The abolition of political and economic borders between states does not therefore necessarily derive from the contextual establishment of a given regime within each state: it is a problem per se, to be dealt with separately with tailor‐
made means. It is true that one cannot be a socialist without also being an internationalist but this is true on ideological grounds rather than out of political or economic necessity and the socialist victory in individual states does not automatically lead to an international state. The federalist thesis was also highlighted independently because the existing political parties, with a history of internal struggles within each nation, tacitly assume through habit and tradition that the national state must of course exist and they therefore consider problems of international order as questions of ʺforeign policyʺ to be resolved through diplomatic channels and agreements between the various governments. This attitude partly causes and partly comes from the concept mentioned above, whereby once power has been gained in a specific country, agreement and union with likeminded regimes in other countries follow automatically, with no need for political struggle expressly dedicated to this precise aim. But the authors of this document held the deep‐rooted conviction that whoever decides to tackle the problem of international order as the main issue of this historical period and considers its solution as the unavoidable premise for solving all the institutional, economic and social problems that afflict our so ‐ ciety, must necessarily consider all issues of internal political conflict and the attitude of individual political parties from this point of view, even as far as the tactics and strategies of daily struggle are concerned. A new light is cast on all these issues ‐ from constitutional liberties to class struggle, from planning to gaining power and implementing it ‐ if viewed from the premise that the main objective is a united international order. Indeed, 92
E. Colorni, Preface Eurostudium3w luglio-settembre 2011
political manoeuvring, supporting one or other of the forces involved, stressing one political slogan over another, changes dramatically if the essential goal is considered to be the seizing of power and the implementation of specific reforms in each individual state on the one hand or the establishing of economic, political and moral premises for the foundation of a federal system embracing the entire continent on the other. Another reason, and perhaps the most important, was the fact that while the ideal of a European federation, a prelude to a global federation, might have seemed a remote utopia only a few years ago, it appears today, at the end of this war, as an achievable goal, almost within reach. The drastic shift of people provoked by this war in all the countries who experienced German occupation, the need to rebuild an economy nearing total collapse on a new basis and to re‐
evaluate all problems relating to political borders, tariff barriers, ethnic minorities etc., the very nature of this war, with the national element so often overshadowed by ideology, in which small and medium size states gave up much of their sovereignty in favour of stronger states and the Fascists replaced the concept of ʺliving spaceʺ with that of ʺnational independenceʺ should all be seen as factors that render the issue of a federal organization of Europe, in the aftermath of the war, ever more topical. The issue is of interest to forces from all social classes, for both economic and ideal reasons. It can be approached through diplomatic negotiation and popular action, promoting related studies among the educated classes and provoking a de facto state of revolution from which it will then be impossible to retreat. It can also be achieved by influencing the executive of the victorious states and by spreading the message among the defeated states that only in a free and united Europe will they find salvation and freedom from the disastrous consequences of defeat. Our Movement was born for this very purpose. We have been motivated to create an autonomous organization, with the objective of promoting the idea of a European Federation as an achievable goal in the immediate post‐war years because of the priority, the pre‐eminence of this problem over all others affecting our immediate future and the certain knowledge that, if the situation is allowed to return to old nationalistic patterns, the opportunity will be lost for ever, ruling out lasting peace and welfare for our continent. We are fully aware of the difficulties facing us and the power of the forces who seek to obstruct us, but we believe this to be the first time that this problem has been taken up as an issue for political struggle, not as some remote ideal but rather as a pressing, tragic necessity. Our Movement has now survived two difficult years as an underground organization under Fascist and Nazi oppression: our supporters are all from the 93
E. Colorni, Preface Eurostudium3w luglio-settembre 2011
rank and file of anti‐Fascist activism and believe in the use of armed struggle to obtain freedom. We have already paid the heavy price of imprisonment for the common cause: we are not and do not want to be a political party. As is becoming increasingly clear, our Movement seeks to influence the different political parties both from without and within, not only to foreground the internationalist cause, but also, more importantly, to bring about a situation whereby all political problems will be viewed from this new, as yet little explored, perspective. We are not a political party because, although we actively promote all research into the institutional, economic and social framework of the European Federation and although we take an active role in the struggle to bring this about, taking care to identify favourable forces within a future political system, we do not wish to comment officially on institutional details such as the extent of economic collectivization, the extent of administrative devolution etc. etc. which are inevitable features of the future federal organism. All these problems are openly discussed at length within our movement and all political persuasions, from Communism to Liberalism, are represented. Indeed, almost all our members are active in one or other of the progressive parties and are all united in promoting the basic principles of a free European federation, not based on any form of hegemony or totalitarian system, but with the structural solidity that makes it something more than a simple League of Nations. These principles can be summarized as follows: one single federal army, monetary union, the abolition of tariff barriers and emigration restrictions between states belonging to the Federation, direct representation of citizens within federal assemblies, one common foreign policy. In these first two years, our Movement has gained popularity among anti‐
Fascist groups and parties. Some of them have pledged their support and goodwill publicly. Others have asked us to cooperate on their manifestoes. It is perhaps not too presumptuous to say that the merit is in part ours, if the problems of the European Federation appear so often in the Italian underground press. Our review, «LʹUnità Europea», follows domestic and international affairs closely, adopting an entirely independent stance. These documents, the product of the development of the ideas which gave birth to our Movement, represent however only the opinion of their authors and are not a statement of the Movementʹs position. They are merely intended as a suggestion of topics to debate for those who want to rethink all the problems of international politics while bearing in mind recent ideological and political experiences, the results of the latest research in economics and down‐
to‐earth, realistic future perspectives. They will soon be followed by further 94
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research. We hope they will lead to a flurry of ideas and that, in the present atmosphere, fuelled by the impelling need for action, they will stand as a clear contribution to increasingly determined, enlightened and responsible action. The Italian Movement for the European Federation Rome 22nd January 1944 95
E. Colorni, Preface Eurostudium3w luglio-settembre 2011
Towards a Free and United Europe. A draft Manifesto Altiero Spinelli – Ernesto Rossi I. The Crisis of Modern Civilisation Modern civilization has elected the principle of freedom as its foundation, whereby man must not be a mere instrument in the hands of others, but rather an autonomous centre of life. Acting according to this code, all aspects of society that do not reflect this principle are now under scrutiny, part of a great historical trial. 1) The equal right to organize themselves into independent states has been granted to all nations. Every people, as defined by their ethnic, geographical, linguistic and historical features, was required to find the instrument best suited to their needs within the state organization created specifically for them according to their conception of political affairs, without outside influence. The ideology of national independence was a powerful incentive to progress. It helped replace petty parochialism with a widespread sense of solidarity against foreign oppression. It removed many of the obstacles that hampered the free movement of people and goods. It brought the institutions and systems of the more advanced populations to the less developed, within the borders of each new state. However, this ideology bore within it the seeds of capitalist imperialism that our generation has seen grow and grow, leading to totalitarian states and the outbreak of world wars. The nation is no longer considered the historical product of coexistence among men who, following a lengthy process, have achieved a greater harmony in their customs and aspirations and view their state as the most effective way of organizing collective life within the context of all human society: in fact, it has become a divine entity, an organism whose sole concern is its own existence A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 96
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and development, without a second thought for the harm it may cause others. The absolute sovereignty of these national states has led to the desire of each to dominate over the others, since they feel threatened by their strength, and each nation feels the need for increasingly vast territories as part of their ʺliving spaceʺ to guarantee their right to free movement and self‐sufficiency, without needing to rely on others. The only way to placate this desire for domination is through the hegemony of the strongest state over all the other subordinate nations. As a result, the state has turned from being the guardian of the freedom of its citizens into a master who has relegated all his subjects into servitude, and has every faculty at his disposal to make them as war effective as possible. Even in periods of peace, considered as pauses during which to prepare for subsequent, inevitable wars, the objectives of the military class in many countries now predominate over the objectives of the civilian population, rendering free political systems increasingly difficult to operate. The main objective of education, scientific research, industry and administration has become that of increasing the military strength of the nation. Mothers are only useful in so far as they produce soldiers and as such are awarded prizes in much the same way as prolific animals at agricultural shows. Children are trained from the very earliest age to handle weapons and to hate foreigners. Individual freedom is non‐existent since everyone has some part to play in the military system and is constantly recruited for national service. The continuous succession of wars forces men to abandon their families, their jobs, their property, and even sacrifice their own lives for values that no one truly understands. The results of decades of effort to increase the common good are destroyed in just a few days. It is the totalitarian states who have unified all forces most coherently, through the highest degree of centralization and autarchy and have thus proved themselves as the most suitable bodies for today’s international environment. As soon as one nation takes a step towards a more marked form of totalitarianism all the others will follow behind, dragged in the wake by their will to survive. 2) The equal right of all citizens to contribute to the definition of the stateʹs will has been established. This right was to have been the synthesis of the changing economic and ideological needs of all freely determined social classes. This form of political organization made it possible to correct or at least mitigate many of the more strident injustices bequeathed by previous regimes. But developments such as freedom of the press, freedom of assembly, and the continuous extension of suffrage, made it increasingly difficult to defend former privileges, while maintaining a representative system. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 97
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Gradually the disinherited learned to use these tools to launch an attack on the acquired rights of the privileged classes. Duty on unearned income and inheritances, higher tax bands for greater wealth, tax exemptions for low incomes and essential goods, free public education, increased spending for social security and insurance, land reforms and industrial safety all threatened the privileged classes in their well‐fortified citadels. Even the privileged classes who had supported equal political rights, could not accept the deprived using them to achieve a de facto equality with a very real content of actual freedom. When the threat became all too serious at the end of the First World War, it was only natural for these privileged classes to welcome with open arms and support the fledgling dictatorships that removed the legal weapons from their opponents’ hands. Moreover, the creation of huge industrial and banking groups and trade unions with whole armies of workers under the same banner ‐ groups and trade unions who put pressure on government to come up with policies that would best defend their specific interests ‐ threatened to reduce the state into a series of economic fiefdoms, each in bitter opposition to the other. To best exploit the general public, these groups adopted the liberal‐democratic system as their tool thereby undermining its prestige until there grew the conviction that only a totalitarian state, abolishing all individual liberties, could in some way resolve the conflicts of interest that the existing political institutions could no longer contain. Indeed, subsequently, the totalitarian regimes consolidated the overall position of the various social categories at the levels that each had achieved and precluded all legal means of further alterations to the status quo through the use of police control over every aspect of civilian life and the violent suppression of all dissidents. All this guaranteed the survival of a totally parasitic class of absentee landowners and rentiers whose sole contribution to social productivity was cutting off the coupons from their bonds. It assured the future of monopolists and the whole chain of companies who exploit their customers, causing the savings of small‐time investors to vanish into thin air. It strengthened the plutocrats, behind the scenes, who pull the politiciansʹ strings to run the state machine to their own, exclusive advantage, under the guise of pursuing higher na ‐ tional interests. The vast fortunes of the few have been preserved along with the poverty of the masses, excluded from enjoying the fruits of modern culture. And so we have the substantial preservation of an economic regime in which the material resources and work force, which ought to be deployed to satisfy the fundamental needs for the development of essential human energies, are instead redirected to satisfy the utterly futile wishes of anyone who happens to be able to pay the highest price. It is an A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 98
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economic regime where the power of money is perpetuated within the same class, because of the right of inheritance, becoming a privilege that has absolutely no relation to the social value of the services actually offered and where the range of proletarian opportunity is so restricted that workers are often forced to allow themselves to be exploited by whoever offers them any form of employment. In order to keep the working classes in their place and submissive, the trade unions have been transformed from independent organizations of struggle, whose leaders enjoyed the trust of their members, into bodies for police surveillance run by employees chosen by the ruling class and answerable solely to them. Any improvements made to this economic regime are always dictated purely by military expediency which has merged with the reactionary aspirations of the privileged classes to create and consolidate these totalitarian States. The permanent value of a critical approach has been asserted against authoritarian dogmatism. All assertions had to be proved or else disappear. The greatest achievements in all fields of our society are due to the methodicalness underlying this open‐minded perspective. But this spiritual freedom has not withstood the crisis brought on by totalitarian states. New dogmas to be accepted either through an act of faith or through hypocrisy are gradually taking over in all fields of knowledge. Although nobody can define what a “race” is, and the scantest understanding of history reveals the absurdity of the very notion, physiologists are required to believe, demonstrate and convince others that one belongs to a chosen race, simply because imperialism needs this myth to excite hate and pride in the masses. The most obvious concepts of economic science must therefore become anathema thus allowing autarchic policy and trade balance along with some of the other old favourites of mercantilism to be presented as extraordinary new breakthroughs. Due to global economic interdependence, the living space needed by any people wanting to maintain a living standard in line with modern civilization is now the entire world. But the pseudo‐science of geopolitics has been conjured up with the intention of proving the validity of the living‐space theory and providing a theoretical guise for imperialist oppression. Essential historical facts are falsified, in the interests of the ruling class. Libraries and bookshops are purged of any works considered unorthodox. Once again the shadows of obscurantism threaten to suffocate the human spirit. The social ethic of freedom and equality has itself been undermined. Men are no longer considered free citizens who can turn to the state to achieve their collective goals. They are now servants of the state, and it is the state that A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 99
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defines their goals, while the will of the state is obviously that of those who wield power. Men are no longer subjects in their own right, but are organised hierarchically and forced to silently obey the authorities presided over by an appropriately idolised leader. Out of its own ashes, the caste‐based regime is reborn, as overbearing as ever. Having triumphed in a number of countries, this reactionary, totalitarian civilization has finally found in Nazi Germany sufficient strength to proceed to its logical conclusion. After careful preparation, boldly and unscrupulously exploiting the rivalries, egoism and stupidity of others, dragging other European vassal states along behind them ‐ Italy foremost ‐ and allying themselves with Japan, which has identical plans in Asia, they have set about their campaign of oppression and domination. Their victory would represent the definitive consolidation of totalitarianism in the world. All its characteristics would be exasperated in the extreme, and progressive forces would be condemned to the role of mere negative opposition for many years. The traditional arrogance and hard line of the German military class can give us an idea of what their dominance would be like if they won the war. The victorious Germans might affect a gloss of generosity towards other European populations, formally respecting their territories and political institutions, and so govern by satisfying the false patriotic sentiments of those who set a higher price on the colour of the border flag and the nationality of prominent politicians than on the power relationships and true business of the stateʹs institutions. Whatever its guise, there would only be one reality, with society being divided once again between Spartans and Helots. Even a compromise between the opposing factions, would be a further step forward for totalitarianism because all the countries that managed to escape Germanyʹs clutches would be forced to adopt the very same forms of political organization to prepare themselves adequately for the renewal of hostilities. Although Hitlerʹs Germany has toppled smaller states one after the other, its actions have pressed increasingly powerful forces to enter the fray. The courageous combativeness of Great Britain, even at the most critical time when it stood alone against the enemy, forced the Germans up against the valiant resistance of the Russian Army, giving America time to mobilize its endless productive re ‐ sources. This struggle against German imperialism is closely linked to the struggle of the Chinese against Japanese imperialism. Vast numbers of men and immense wealth are already lined up against the totalitarian powers whose strength has reached its apex and can now only gradually wane. The opposing forces, on the other hand, have already overcome the hardest challenges and they are growing in strength. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 100
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With every passing day, the allied war‐effort arouses the desire for freedom even in the countries that had yielded under violence and lost their way under the pressure of the blow. It has even aroused the desire for freedom among the population of the Axis countries who realize they have been dragged into a hopeless situation, for no better reason than to satisfy their rulersʹ lust for power. The slow process, whereby vast numbers of men meekly allowed themselves to be shaped by the new regime, adjusted to it and thereby contributed to its consolidation, has stopped and the reverse process has begun. This huge wave, which is slowly swelling up, brings together all the progressive forces, the more enlightened sections of the working class unswayed by either terror or flattery from their ambitions for a better life, the more perceptive intellectuals, offended by the degradation imposed on intelligence, entrepreneurs, ready for fresh challenges, who want to be free from restrictive red tape and national autarchy, and, finally, all those who, through an inborn sense of dignity, do not know how to bow down under the humiliation of servitude. The salvation of our civilization is now entrusted to all these forces. II. Post‐war Tasks. European Unity Germanyʹs defeat, however, would not automatically bring about the reorganization of Europe in line with our ideal of civilization. In the brief but intense period of general crisis (with the states battered and bruised and with the masses anxiously awaiting a new message, like malleable, burning, molten matter, ready to take on new forms under the guidance of serious internationalists), the classes most privileged under the old national systems will try, underhandedly or violently, to dampen the wave of internationalist feelings and passions and will contribute ostentatiously to the reconstruction of the old state institutions. And it is likely that the British leaders, possibly together with the Americans, will try to move in this direction, so as to restore a policy of balance‐of‐power, seemingly in the immediate interests of their respective empires. All the reactionary forces ‐ in other words, the administrators of the institutions necessary in nation states, the highest ranks of the armed forces right up to the monarchy in the countries that have one, the capitalist monopolies that have tied their profits to the fortunes of the state, the great landowners and church hierarchy, whose parasitic income is guaranteed only by a stable, conservative society ‐ and, in their wake, the endless retinue of people who depend on them or who are simply blinded by their traditional A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 101
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power, all these forces can already feel the boat sinking and are trying to jump overboard to save themselves. If the boat does go down, they would suddenly lose all the privileges they have become accustomed to and would be exposed to the assault of progressive forces. THE REVOLUTIONARY SITUATION – OLD AND NEW TRENDS Emotionally, the fall of the totalitarian regimes will represent the advent of ʺfreedomʺ for entire populations; all restraint will disappear and, automatically, widespread freedom of speech and assembly will take over. It will be a triumph for democratic tendencies with their countless nuances, ranging from extremely conservative liberalism to socialism and anarchy. These beliefs are based on trust in the ʺspontaneous generationʺ of events and institutions and the absolute goodness of any impetus from the rank and file. They do not want to force the hand of ʺhistoryʺ, or ʺthe peopleʺ, or ʺthe proletariatʺ, or whatever other name their god goes by. They hope for the end of dictatorships, imagining this moment as the restitution to the people of their inalienable right to self‐
determination. The crowning touch for them is a constituent assembly, elected by the most extensive suffrage, with scrupulous regard for the rights of voters, to decide what kind of constitution to have. If the population is immature, the result will be a poor constitution and amendment will only be possible through constant persuasion. Democrats do not shy away from violence on principle but aim to use it only when the majority is convinced there is no other solution, when it is, in other words, little more than a near superfluous ʺdotʺ over an ʺiʺ. They are, therefore, suitable leaders only in times of ordinary administration, when the majority of the population is convinced of the soundness of its main institutions, with need for only a few slight inconsequential changes. In revolutionary times, when institutions, rather than being administered, must be created, democratic rule fails miserably. The pitiful impotence of democrats during the Russian, German and Spanish revolutions are three among the most recent examples. In such cases, after the demise of the old state apparatus, along with its laws and administration, a large number of popular assemblies and representative bodies immediately spring up, under the same guise as the old regime, or scornful of it, and become points of convergence and centres of agitation for all the progressive so ‐ cialist forces. The population does indeed have some fundamental needs to satisfy, but does not know precisely what it wants and what to do. A thousand bells ring in its ears. With its millions of minds, it does not know which way to turn, and disintegrates into a myriad factions, all in competition among themselves. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 102
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Just when the utmost decisiveness and courage is needed, democrats lose their way, not having the support of spontaneous popular backing, but rather a troubled riot of passions. They think it their duty to create consensus, presenting themselves as zealous preachers, when what is really needed are leaders with a clear objective in mind. They waste the opportunities to consolidate the new regime by setting up straightaway new bodies that really need longer periods of preparation and are more suited to relatively tranquil times. They provide their opponents with the weapons which they in turn use to overthrow them. With their thousands of factions, they do not stand for renewal, but rather the confused ambitions of paralysed minds, as they lay the ground for reactionary tendencies. The political methodology of democrats is to be considered a dead weight during a revolutionary crisis. While the democrats whittle away their initial popularity as champions of freedom with their ceaseless war of words, with no credible political and social revolution, the pre‐totalitarian political institutions would inevitably re‐form, and the struggle would once again develop along the old lines of class conflict. The principle that sees the class struggle as the root of all political problems has always been the fundamental guideline of factory workers in particular, and has helped give consistency to their politics for as long as the fundamental institutions were not being questioned. But it becomes an instrument that isolates the proletariat, once the need arises to totally reorganise society. These workers, having been educated within the class system, can only see the demands of their own class or, even worse, of their own professional category with no thought as to how their interests are related to those of other social classes. Alternatively, they aspire to a unilateral dictatorship of the working class to achieve the utopian collectivization of all the material means of production, trumpeted as the supreme cure‐all by centuries of propaganda. This policy has no hold over any other class but the workers, who thus deprive the other progressive forces of their support, or leave them at the mercy of the skilfully organized reaction which crushes the proletarian movement. Among the various proletarian groups who adhere to class politics and collectivist ideals, the communists have recognized the difficulty of obtaining a sufficient following to lead them to victory and so, unlike the other popular parties, they have turned themselves into a strictly disciplined movement, exploiting the Russian myth to organize the workers and, without being dictated to by them, uses them for all kinds of political tactics. This attitude makes the communists more efficient than the democrats during a revolutionary crisis. But their tactic of keeping the workers as distant as possible from the other revolutionary forces, preaching that their ʺrealʺ revolution is yet to come, makes them a sectarian element and a weak spot at A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 103
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the critical moment. Furthermore, their total dependence on the Russian state, which has repeatedly used them to pursue its national policies, prevents them from undertaking any long‐term political activity. They always need a Karoly, a Blum or a Negrin to hide behind, only to fall flat on their faces along with the democratic puppet in question, because power is achieved and maintained, not simply through cunning, but by being able to address the needs of modern society systematically and responsibly. If in the future the struggle were to remain restricted within traditional national boundaries, it would be very difficult to escape the old contradictions. The nation states have already planned their respective economies in such detail that the main question would soon become which group of economic interests, in other words which class, should have control over the plan. The progressive front would soon crumble in the fight between economic categories and classes. In all likelihood, the reactionaries would stand to gain the most. An authentically revolutionary movement must spring from those who have criticized the old political framework: it should be able to cooperate with democratic and communist forces and more generally with all who contribute to the downfall of totalitarianism without, however, becoming ensnared by the political practices of any of them. The reactionary forces have capable men and leaders, trained to govern and who will fight relentlessly to maintain their supremacy. When their backs are up against the wall, they will know how to mask their true nature, proclaiming themselves champions of freedom, peace, general welfare and the impoverished. Already in the past we have seen how they worked their way into popular movements, paralyzing and deflecting them, transforming them into the exact opposite. Without doubt, they will be the most dangerous obstacle. They will try to play on the restoration of the nation state. This will allow them, in turn, to play on the most widespread feeling among the population, a feeling so damaged by recent events and so easily manipulated to reactionary ends: patriotism. In this way they can even hope to confuse their opponents’ minds more easily, since the only political experience to date for the popular masses has been within the national context and, therefore, it is relatively easy to channel both them and their more short‐sighted leaders into the reconstruction of the states destroyed in the storm. If they succeed in this, the forces of reaction will have won. These states might well appear to be broadly democratic and socialist: it would only be a question of time before power fell back into the hands of the reactionaries. National jealousies would resurface, and every state would once again try to fulfil its needs exclusively through the use of armed force. Sooner or later the A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 104
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main objective would be that of trying to convert the whole country into a series of armies. Generals would be giving orders again, monopoly holders would once again profit from autarchies, bureaucracy would multiply and priests would keep the masses quiet. All initial achievements would shrivel away to nothing when faced with the need to prepare for war again. The most pressing problem, without whose solution progress is merely an illusion, is the definitive abolition of the division of Europe into national, sovereign states. The collapse of most of the continent’s states under the German steamroller has already meant a common destiny for the people of Europe: they will either all succumb to Hitlerʹs dominion, or, after his fall, they will all enter a revolutionary crisis where they will not find themselves separated and defined by solid state structures. People are in general far better disposed than in the past towards a federal reorganization of Europe. The harsh experience of recent decades has opened the eyes of even those who refused to see, and has brought about many changes favourable to our ideal. All reasonable men recognize the fact that it is now impossible to maintain a balance of power among independent European states with militarist Germany on a par with other countries, nor can Germany be carved up into small pieces or kept at heel once it is conquered. Manifestly, no European country can remain on the sidelines while the others fight, with all declarations of neutrality and non‐aggression pacts becoming null and void. We now have the demonstration of how pointless, not to say harmful, organizations such as the League of Nations are: they claimed they could guarantee international law without the need of a military force to impose its decisions while all the time respecting the absolute sovereignty of member states. The non‐intervention policy has turned out to be absurd, with every population supposedly left free, as it was, to choose the despotic government they thought best, almost as though the domestic constitution of each individual state was of no fundamental interest to all the other European nations. The multiple problems poisoning international life throughout the continent have proved unsolvable: the drawing up of new borders in areas with mixed populations, the defence of ethnic minorities, sea access for landlocked countries, the Balkan question, the Irish problem, and so on. All these issues would find easy solution in the European Federation, just as small states in the past solved their corresponding problems when they became part of a vaster national unity, exchanging their bitterness for problems of inter‐provincial relations. Moreover, the end of the sense of security produced by the impregnability of Great Britain, with the British being advised to aspire to “splendid isolation”, the dissolution of the French army and the disintegration of the Republic itself after the first serious clash with the German forces (a state of affairs which, one A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 105
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would hope, will dampen the chauvinistic attitude of absolute Gallic superiority), and above all the awareness of the risk of total submission are all circumstances that will favour the constitution of a federal regime, bringing the current anarchy to an end. It must also be said that since Britain has accepted the principle of Indian independence and since France has potentially lost its whole empire by admitting defeat, it will be easier to find a basis of agreement for a European solution over colonial possessions. On top of all this there is the disappearance of some of the most important dynasties, and the basic fragility on which the surviving dynasties are built. It is important to remember that these dynasties, supported by powerful interests and considering the various countries as their own traditional prerogative, represented a serious obstacle to the rational organization of the United States of Europe, that can only be based on the republican constitution of all the federated countries. Once the demarcation of the Old Continent is superseded, and all of humanity is united in one common design, it will become increasingly obvious that the European Federation is the only conceivable guarantee for peaceful cooperation in American‐Asian relations, awaiting a more distant future when global political unity might become a reality. Therefore, the dividing line between progressive and reactionary parties no longer coincides with the formal lines indicating a more or less advanced democracy, a more or less developed form of socialism, but rather with a very new, substantial line: on one side are those who see the old objective of struggle, in other words the conquest of national political power, and who will, albeit involuntarily, play into the hands of the reactionary forces, by allowing the incandescent lava of popular passions to set in the old moulds with past absurdities resurfacing, while on the other side are those who see their main duty as the creation of a solid international state, who will direct popular forces towards this goal, and who, even if they gain national power, will use it above all as an instrument to bring about international unity. Through propaganda and action, all the while seeking to establish all possible agreements and links among the individual movements which are doubtless being formed in the various countries, now is the time to put down the foundations for a movement capable of mobilizing all forces to build the new organism which will be the grandest, most innovative creation in Europe for centuries; capable of setting up a solid federal state, with a European armed service at its disposal rather than national armies; capable of crushing economic autarchies, the backbone of totalitarian re ‐ gimes; that will have sufficient institutions and means for its deliberations on the maintenance of common order to be executed in the individual federal sates, while allowing each state to retain the necessary autonomy for a plastic organization and development of A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 106
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political activity according to the specific characteristics of the various populations. If a sufficient number of people in the main European countries understand this, then victory will soon be theirs, for both circumstances and public opinion will be on their side. They will be faced with parties and factions discredited by the disastrous experience of the last twenty years. Since it will be time for new action, it will also be time for new men: from the MOVEMENT FOR A FREE AND UNITED EUROPE. III. Post‐war Tasks. The Reform of Society A free and united Europe is the prerequisite for the development of modern civilization, with a totalitarian era representing a setback. As soon as this era comes to an end, the age‐old battle against social inequalities and privileges will be fully restored. All the old conservative institutions that stood in its way will either have collapsed or will be crumbling and their critical condition will have to be exploited bravely and with conviction. To meet our needs, the European revolution must be socialist in nature, in other words, its goal must be the emancipation of the working classes and the guarantee of a decent quality of life for them. Guidance cannot come, however, from the purely doctrinaire principle whereby private ownership of the material means of production must be abolished as a rule and tolerated only temporarily for as long as it is impossible to eliminate it entirely. When the working classes first had their utopian dream of freedom from the yoke of capitalism, it took the form of the wholesale nationalization of the economy. But once this dream is achieved, it does not produce the longed for results but rather leads to a regime where the entire population is ruled over by the restricted group of bureaucrats running the economy. The truly fundamental principle of socialism (and not its hurried and erroneous interpretation as general collectivization) is that economic forces, rather than dominating man, should be ruled over by him, like the forces of nature, guided and controlled by him as rationally as possible, so that the general population does not fall victim to them. The immense forces of progress, born of individual interests, must not be spent in the backwaters of routine only to find ourselves faced with same insoluble problem of having to rekindle the spirit of initiative using salary differentials and other similar tactics. The forces of progress must be extolled and extended, with more opportunity for development and employment and, at the same time, we must strengthen and improve the banks through which these forces are channelled towards the most advantageous objectives for the whole of society. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 107
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Private property must be abolished, limited, revised, or extended analysing each case individually and not according to any dogmatic principle. This directive is a natural consequence of the development of a European economic situation freed from the nightmares of militarism or national red tape. Rational solutions must prevail over irrational ones for everyone, including the working class. Wanting to outline the content of this directive in greater detail, while realising that the benefits and practicalities of every point in the programme will now always be evaluated in relation to the inevitable premise of European unity, we wish to highlight the following points: a) Companies operating an enforced monopoly and, therefore, in a position to exploit consumers, cannot be left to private ownership: for example, energy companies or industries that while providing collective benefits also require protective duties, subsidies, preferential orders etc. to survive (at present, the best example of this kind of industry in Italy is the steel and iron industry); and companies which, because of the large amount of capital invested, the high numbers of employees, or because of their dominant role in the sector can blackmail national institutions, imposing the policies most beneficial to themselves (for example, the mining industries, large banks, large arms manufacturers). Nationalization will definitely have to be introduced on a vast scale in these areas, regardless of acquired rights. b) In the past, certain elements of the legislation governing private property and inheritance led to the accumulation of wealth in the hands of a few, privileged members of society. In a revolutionary crisis it would be as well to redistribute this wealth more equally, thereby eliminating the parasitic classes and giving the workers the means of production they need to improve their economic situation and achieve greater independence. We are thus proposing an agrarian reform which will greatly increase the number of landowners by handing over the land to those who actually farm it together with an industrial reform which will extend workersʹ share ownership in non‐
nationalized sectors, through cooperative enterprise, employee profit‐sharing, and so on. c) The young should be given all necessary assistance to reduce to a minimum the gap between the different starting positions in the struggle to survive. State schools, in particular, should provide realistic opportunities of being able to study beyond the compulsory leaving age for the most worthy students rather than for the richest. The number of students trained in each discipline, with a view to their proceeding to learn different trades or qualify in liberal and scientific professions, should be in line with market demand, so that average salaries are roughly equivalent across all professional categories, regardless of each category’s internal pay‐scale based on individual skills. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 108
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d) The near limitless potential of modern technology to mass produce essential goods now guarantees, with relatively low social costs, that everyone can have food, housing, clothes and that basic level of comfort that helps maintain human dignity. Human solidarity towards those who succumb in the economic struggle must not, therefore, take on the humiliating form of charity that produces the very same evils it seeks to erase but should consist in a series of measures to guarantee a decent standard of living for everyone, unconditionally, whether they can work or not, but without affecting the stimulus to work and save. In this way, people will no longer be forced to accept oppressive work contracts through poverty. e) The freedom of the working classes can only be achieved once the conditions described above have been met. They must not be abandoned once again to the economic policies of monopolistic trade unions who simply transfer the oppressive methods usually used in high‐capital environments to the factories. The workers must return to being free to choose their own representatives so as to negotiate collectively the conditions under which they will work, and the state must provide the legal means to guarantee the implementation of the terms negotiated. But it will be possible to successfully challenge all monopolistic tendencies once these social changes have been brought about. These changes are needed both to create widespread support among all classes of citizens interested in the welfare of the new institutional system and for politics to be strongly influenced by the ideal of freedom and a firm sense of social solidarity. With this premise, political freedom will have substance as well as form for all because the vast majority of citizens will have sufficient independence and education to be able to exert continuous and effective control over the ruling class. At this stage, it would be superfluous to dwell at length on the constitutional institutions, as we cannot yet foresee the circumstances under which they will be set up and run and thus can only repeat what everyone already knows about the need for representative bodies, the law‐making process, the independence of the judiciary, with the substitution of its members to safeguard the impartial application of new legislation and freedom of the press and right of assembly to guarantee enlightened public opinion and the opportunity for all citizens to take an active part in the life of the state. There are two questions, however, that need to be considered more carefully because of their particular significance to our country at the present time: the relationship between church and state and the system of political representation. A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 109
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a) The Treaty that sealed the end of the Vaticanʹs alliance with Fascism in Italy will no doubt be abolished in favour of a totally secular state where the supremacy of that state in all civil matters will be unequivocally established. All religious faiths will receive equal respect, while the state will no longer finance the various religious denominations. b) The straw house built by Fascist corporatism will be blown away along with the other elements of the totalitarian state. There are those who believe that something can be salvaged from the present construction and put to use in the new constitutional order. We do not agree. In totalitarian states, the corporative chambers are the final insult of police control over the workers. Even if the corporative chambers were an honest expression of the will of the various categories of production, the representative bodies of the various professional categories would never be qualified to negotiate issues of general policy and, where more specifically economic questions are concerned, they would become oppressive bodies within the categories with the most powerful trade unions. The unions will cooperate extensively with those state bodies appointed to resolve any problems directly involving the workers, but they will have absolutely no legislative power, as this would lead first to feudal anarchy within the economic system, and ultimately to renewed political despotism. Many of those who were naively seduced by the lure of corporatism, can and should be seduced by the renovation programme. But they must realize the absurdity of the solution suggested by their confused daydreaming. Corporatism can only really exist in the form given by totalitarian states, to regiment the workers under the control of officials who monitor their every move in the interests of the ruling class. The revolutionary party cannot be improvised amateurishly at the decisive moment, but must start developing at least its main political framework, with its general guidelines and the first directives for action. It must not be a miscellaneous collection of factions, temporarily united only in their dissent, in other words united by their anti‐Fascist past and simply waiting for the fall of the totalitarian regime, each ready to go their own separate way once this goal is reached. The revolutionary party, on the other hand, knows that only then will its real work begin. It must therefore be made up of men who agree on the main issues for the future. Wherever there are people oppressed by the present regime, it must intervene with methodical propaganda. With whatever problem is the most pressing for individuals and classes as its starting point, it must demonstrate how this problem is linked to others, and indicate its true solution. But from this gradually increasing circle of sympathizers, it must single out and recruit into the movement only those who have chosen the European revolution as the A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 110
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main goal of their lives, those who put in the necessary work with determination, day after day, carefully monitoring its ongoing, effective results, even in the most desperate illegal situations and who will, ultimately, be the solid network that will act as a bedrock to the more fleeting ranks of sympathizers. Although no opportunity or context should be neglected in its efforts to spread the word, the revolutionary party must be active first and foremost in those environments best suited for the spreading of ideas and the recruitment of combative men and specifically among the two most sensitive social groups of the current panorama, who will be decisive for the future: in other words, the working class and the intellectuals. The former are those who bowed the least under the totalitarian rod and will be best prepared to reorganize their ranks. The latter, and the younger intellectuals in particular, are those who feel most spiritually suffocated and disgusted with the present despotism. Inevitably, other social groups will gradually be seduced by the general movement. Any movement which fails to form an alliance between these two forces, is condemned to sterility. For, if the movement is made up solely of intellectuals, it will lack the mass strength to crush reactionary resistance and it will distrust and be distrusted by the working class: despite being inspired by democratic sentiment, in the face of difficulties, it will be inclined to drift towards a position of mobilisation of all the other classes against the workers and therefore a return to Fascism. If, on the other hand, the movement is supported only by the proletariat, it will lack the clarity of thought that only intellectuals can bring and that is fundamental in identifying new goals and new solutions: the movement would be held to ransom by the old class system, viewing everyone as a potential enemy, and would slip and fall on the doctrinaire communist solution. During the revolutionary crisis, it is up to this movement to organise and guide the progressive forces, using all the popular bodies which form spontaneously as incandescent melting pots in which to mix the revolutionary masses, not to organise plebiscites, but rather to await guidance. It derives its vision and certainty of what is to be done not from some pre‐emptive form of as yet non‐existent popular consensus, but rather from the knowledge that it represents the deep‐rooted needs of modern society. In this way it draws up the basic guidelines of the new order, the first social discipline for the undefined masses. The new state is formed through this dictatorship of the revolutionary party, allowing a new, true democracy to take shape around it. There is no need to fear that such a revolutionary regime will automatically lead to renewed despotism. This only comes about if the movement has shaped a submissive society. But if the revolutionary party A. Spinelli, E. Rossi, Towards a Free and United Europe 111
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proceeds with a firm hand from the very beginning in creating the conditions for freedom, whereby every citizen can truly participate in the life of the state, then it will evolve, despite possible secondary political crises, towards a progressive universal understanding and acceptance of the new order and, therefore, with a greater likelihood of working effectively and having free political institutions. The time has now come to recognise that we must rid ourselves of the cumbersome burdens of the past and be ready to face whatever the future might bring, however different it is to what we expected. We must get rid of the incompetent among the old and stimulate new energy among the young. As they begin to lay the foundations of the future, those who have perceived the reasons for the current crisis in European civilization and have therefore inherited the legacy of all movements dedicated to promoting human dignity ‐ movements shipwrecked either on their lack of a common goal or their lack of means by which to achieve it ‐ these people are now seeking each other out and are meeting together. The road ahead is neither smooth nor certain. But we must follow it and so we shall! Altiero Spinelli ‐ Ernesto Rossi
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Éire Ó oileán go hoileán Maria Antonietta Saracino I, Ulysses an teideal a thug Altiero Spinelli ar chuid a haon dá chuid scríbhinní dírbheathaisnéiseacha, Come ho tentato di diventare saggio (Conas a d’fhéach mé dul in eagna), a foilsíodh tar éis a bháis i 1984. Ar ndóigh ba Ulysses an t‐ainm cleite a roghnaigh Spinelli dó féin nuair a chuaigh sé leis an bPáirtí Cumannach. Ulysses, as an laoch fáin a spreag a chomrádaithe, i bhfocail Dante, “Breathnaigh as a dtáinig sibh: ní dhearnadh sibh le maireachtáil mar ainmhithe ach chun suáilce agus eolas a lorg”; ach as ainm laoch an tsárshaothair freisin a bhí scríofa ag duine de na scríbhneoirí Éireannacha is cáiliúla, James Joyce. Cosúil le Joyce, a chaith blianta múnlaitheacha a shaoil ar oileán, ba ar oileán bídeach sa Mhuir Thoirian idir 1941 agus 1942 a scríobh Altiero Spinelli an Forógra Ventotene a chuirtear i láthair anseo ina chéad aistriúchán Gaeilge. Tá an téacs lán de phaisean sibhialta agus polaitiúil agus scríobhtar é i bprós saibhir líofa na hIodáilise. Tá díograis sa teanga a úsáidtear, agus shílfeadh duine gur ghlac na húdair toin níos fuaimní, níos soiléire mar gheall ar na dálaí agus na teorainneacha fisiceacha a gearradh orthu ‐ intleachtóirí ach polaiteoirí iorghalacha freisin ‐ chun iad féin a chur in iúl. Tá sé ar nós go raibh siad ag iarraidh brí níos tréine a thabhairt dá gcuid focal agus do shubstaint a gcuid smaointe de réir mar a d’éirigh siad seo ina dtionscadal ollmhór fadradharcach, go díreach ar oileán Ventotene. Díríonn sé ar an todhchaí, ní amháin ar thodhchaí na hIodáile ach ar thodhchaí iomlán na hEorpa, agus tagairtí cuí fairsinge don chuid eile den domhan. Réamhfheiceann sé giniúint Chónaidhm na hEorpa neamhspleách ó mhórcheannas le hairgeadra aonair agus gan aon taraifí custaim, le saoirse gluaiseachta dá saoránaigh agus le haon pholasaí eachtrach amháin: an Eoraip mar áit céileachais shibhialta do shaoránaigh seachas uirlis i lámha dhaoine eile. Seasca bliain ina dhiaidh sin, is ábhar iontais fós an forógra mar gheall ar a fhadradharcacht agus as an tsoiléire lena ndéanann sé na fadhbanna amach roimh ré atá os ar gcomhair agus os comhair an domhain sa lá atá inniu ann. Cuireann brí na dton a úsáidtear le cur síos ar an domhan iontas orainn, mar is toin an fhocail labhartha iad. In ainneoin an fhíorais gur téacs scríofa atá ann, cuireann cumhacht mhacalla na béalaireachta ‐ fuinneamh an ghutha ‐ iontas orainn. Mar tá fuinneamh a bhaineann le ‘smaointeoireacht i gcomhar’ ag an M.A. Saracino, Ó oileán go hoileán
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bhForógra seo ‐ neamhchosúil le doiciméad níos cáiliúil Marx agus Engels de 1848, ar scríobhadh ar oileán freisin é, agus a bhí ina inspioráid don doiciméad Iodáileach, de réir na staraithe; tugann sé toradh chomhthionscadal na trí intleachtóirí móra ar scríobh siad é dúinn ach tugann sé na toin gutha éagsúla dúinn freisin. Do scoláire an chultúir pholaitiúil, agus an chaidrimh idir‐chultúrtha go ginearálta, spreagann roinnt de na saincheisteanna a ardaíonn an Forógra Ventotene smaointeoireacht ar leith. Cé go dtugann sé bunús le misneach na Breataine Móire le linn an chogaidh, ní dhéanann an téacs dearmad ar ábharthacht cheist na hÉireann ná ar cheist chosaint na mionlach; réamhfheiceann sé ceist neamhspleáchais na hIndia agus machnaíonn sé ar fhaillí na móriarrachtaí coilíneacha. Agus ag tosú le buille mór na ndlíthe ciníocha a tugadh isteach san Iodáil ag na Faisistithe i 1938, machnaíonn sé ar bhaois an chiníochais agus ar an dúil le forlámhas atá intuigthe san impiriúlachas. Cuireann sé síos ar shamhail an domhandaithe, de réir chiall iomlán an fhocail, is é sin an domhan mar oidhreacht an chine dhaonna iomláin: ‘Mar gheall ar idirspleáchas eacnamaíoch domhanda, is é an spás cónaithe a theastaíonn anois ó chine ar bith atá ag iarraidh caighdeán maireachtála a choinneáil ar aon dul le sibhialtacht na linne seo ná an domhan iomlán’. Tá dhá chuspóir ag an aistriúchán seo, agus an téacs seo á chur ar fáil do lucht léitheoireachta na Gaeilge. Is é an chéad cheann, agus is amhlaidh i gcónaí a bhíonn maidir le téacsanna atá imigéiniúil de réir ama, ná é a dhéanamh níos inrochtana do léitheoir na haimsire seo, a labhraíonn teanga dhifriúil agus a chónaíonn i gcultúr difriúil, agus a éascaíocht léimh a choimeád; is léir go n‐
úsáideann an téacs foclóir ársa agus tá sainréim rud beag foirmiúil aige, agus go leor samplaí de theanga mheafarach. Is é an dara cuspóir den aistriúchán ná an Iodáilis choimpléascach ina bhfuil sé scríofa, agus ina bhfuil a lán fochlásal fada, a chur in oiriúint le teanga mar an Ghaeilge, nach bhfuil ina teanga oifigiúil den Aontas Eorpach fós, ach atá á húsáid faoi láthair ag an gCúirt Bhreithiúnais Eorpach. Is comhartha fosta é an chéad aistriúchán Gaeilge den Fhorógra Ventotene
den spéis sa téacs seo atá ag dul i méid agus sa scéala a chuireann sé in iúl agus tá sé mar aidhm aige an Forógra a chur ar fáil do lucht léitheoireachta níos leithne. Is toradh an aistriúchán ar thionscnamh institiúideach. Ghlac an Réigiún Lazio leis an bhForógra Ventotene mar chuid dá Reacht agus i gcomhar le hOllscoil na Róimhe ‘La Sapienza’ tá aistriúchán an téacs go gach teanga an Aontais Eorpaigh agus go Gaeilge á chur chun cinn aige. Céad bliain tar éis breith Altiero Spinelli, an duine a bhí ina inspioráid leis, tá an Forógra ar thús cadhnaíochta inár n‐institiúidí agus inár n‐ollscoileanna, i leabhair staire agus i M.A. Saracino, Ó oileán go hoileán
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gcnuasaigh liteartha freisin. Léann muid é agus déanann muid staidéar air ní hamháin mar gheall ar a ábhar polaitiúil agus sibhialta, ach mar dhoiciméad liteartha agus daonna de thábhacht eisceachtúil. M.A. Saracino, Ó oileán go hoileán
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Brollach Eugenio Colorni (an Róimh 1944) Ceapadh agus scríobhadh na doiciméid seo ar Oileán Ventotene idir 1941 agus 1942. Sa timpeallacht neamhchoitianta seo, i ngreim an smachta is déine, agus muid ag streachailt chun gach blúire faisnéise a fháil, agus éadóchasach le táimhe éigeantach agus imní orainn mar gheall ar ár saoradh a bhí le teacht, thosaigh daoine againn athbhreithniú a dhéanamh ar na fadhbanna go léir a bhí ina spreagadh le gníomhartha san am a chuaigh thart agus ar an dearcadh a glacadh i leith na streachailte. Mar gheall ar an achar eadrainn féin agus gníomhaíocht pholaitiúil iarbhír bhí tuairimí níos scoite againn, agus mar gheall air sin rinne muid athbhreithniú ar sheasaimh thraidisiúnta, agus d’fhéach muid cúiseanna le hearráidí san am a bhí caite a shainaithint ní amháin maidir le hearráidí teicniúla na hoirbheartaíochta pairlimintí nó réabhlóidí nó i gcás a bhí ‘neamhaibí’ go ginearálta ach maidir leis an easnamh ar an gcur chuige foriomlán agus an fíoras go gcuireadh an streachailt i bhfeidhm de réir na scoilteanna traidisiúnta agus le haird róbheag á tabhairt do ghnéithe nua a bhí ag sainiú an domhain as úire. Agus muid ag ullmhú chun an cath mór ar tí tarlú a throid, mhothaigh muid go raibh sé riachtanach ní hamháin na hearráidí san am a chuaigh thart a choigeartú ach chun téarmaí na faidhbe polaitiúla a shainiú as úire, tar éis réamhthuairimí foirceadlacha agus miotais an pháirtí a chur ónar n‐intinní. Agus sin mar a tharla sé, maidir le cuid againn, gur tháinig muid chun an smaoineamh lárnach den chomhbhréagnú eisintiúil sin a fhorbairt, rud a bhí freagrach as géarchéimeanna, cogaí, angar agus as an dúshaothrú a dhéanann leatrom ar ár sochaí: agus is é an rud a bhí sa chomhbhréagnú seo ná na stáit cheannasacha leithleacha ó thaobh geografaíochta, ó thaobh eacnamaíochta agus ó thaobh a n‐arm a bhí ann, stáit a bhreathnaigh stáit eile mar choimhlinteoirí, agus gach stát acu ag maireachtáil i gcomh‐riocht buan de bellum omnium contra omnes. Breathnaíodh go raibh an smaoineamh seo nuálaíoch san am sin agus sa chomhthéacs ina bhforbraíodh é, cé nach raibh sé nua per se, agus tá roinnt fáthanna leis sin: 1)
Sa chéad dul síos, breathnaíonn na páirtithe polaitiúla forchéimnithe uile ar an réiteach idirnáisiúntach, rud atá i bhforógra gach páirtí acu, mar thoradh riachtanach agus intuigthe, ar dhóigh áirithe, ar bhaint amach na spriocannaa leagann gach ceann acu amach dóibh féin. Creideann 116
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daonlathaithe go mbeadh sé mar thoradh ar an réimeas a mholann gach ceann acu a bhunú i ngach tír, agus gach teorainn chultúrtha agus mhorálta á tarchéimnniú, ná go mbeadh feasacht aonadach ann a sheasfadh don bhonn a mheasann siad nach féidir dá éagmais le haghaidh aontas saor na ndaoine, agus na réimsí polaitiúla agus eacnamaíocha san áireamh. Ar an taobh eile de, creideann na Sóisialaithe go mbeadh sé mar thoradh intuigthe ar réimis deachtóra de rialú prólatáireach a bhunú sna stáit éagsúla ná go mbunófaí stát comhchoiteann idirnáisiúnta. Léiríonn anailís ar choincheap nua‐aimseartha an stáit agus na leasanna agus mothúcháin uile a chuimsítear ann, áfach, gur féidir le cosúlachtaí idir réimis caidreamh cairdiúil agus comhoibriú idir Stáit a éascú ach nach bhfuil sé cinnte ar dhóigh ar bith go mbeadh aontú uathoibríoch nó forchéimnitheach ina thoradh orthu, chomh fada agus atá leasanna agus mothúcháin chomhchoiteanna ann a shainítear trí aontacht a choinneáil atá cuimsithe laistigh de theorainneacha aonair. Tá a fhios againn ónar dtaithí féin gur féidir le mothúcháin sheobhaineacha agus leasanna cosantacha coimhlint agus iomaíocht a chruthú fiú idir dhá daonlathas; agus níl aon riail ann a luann go gcaithfidh stát saibhir sóisialach a chuid acmhainní a chomhthiomsú le stát sóisialach eile níos boichte, díreach mar gheall go bhfuil siad á rialú ag réimis chomhchosúla. Dá bhrí sin ní gá go dtagann díothú teorainneacha polaitiúla agus eacnamaíocha idir stáit ó bhunú comhthéacsúil réimis áirithe i ngach stát: is fadhb í per se le déileáil léi go leithleach le modhanna saincheaptha. Tá sé fíor nach féidir le duine a bheith ina shóisialaí gan bheith ina idirnáisiúntach ach is fíor é seo ar fhorais idé‐eolaíocha seachas ar fhorais aon riachtanais pholaitiúil nó eacnamaíoch agus níl sé intuigthe go mbíonn stát idirnáisiúnta ina thoradh ar bhua sóisialach i stáit aonair. 2)
Leagadh béim ar an téis chónaidhmeach go neamhspleách freisin mar ghlacann na páirtithe polaitiúla atá ann go tostach de bharr cleachtaidh agus traidisiúin, mar gheall ar na streachailtí inmheánacha laistigh de gach náisiún, go gcaithfidh an náisiúnstát a bheith ann agus dá bhrí sin breathnaíonn siad ar fhadhbanna an oird idirnáisiúnta mar cheisteanna a bhaineann le “polasaí eachtrach” agus atá le réiteach trí chainéil thaidhleoireachta agus comhaontuithe idir na rialtais éagsúla. I bpáirt is cúis an dearcadh seo leis an gcoincheap thuasluaite agus i bpáirt tagann sé ón gcoincheap céanna, trína leanann comhaontú agus aontas le réimis ar aon intinn i dtíortha eile nuair a fhaightear cumhacht i dtír áirithe, gan aon ghá le streachailt pholaitiúil a dhírítear go sainráite ar an aidhm bheacht seo. Ach ba é an prionsabal creidimh daingean a bhí ag údair an doiciméid seo ná go gcaithfidh aon duine a shocraíonn chun tabhairt faoi fhadhb an oird 117
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idirnáisiúnta mar phríomhshaincheist na tréimhse stairiúla seo agus a mheasann go bhfuil a réiteach ina bhonn dosheachanta chun na fadhbanna institiúideacha, eacnamaíocha agus sóisialta a dhéanann leatrom ar ár sochaí a réiteach, go gcaithfidh an duine sin breathnú ar gach saincheist de choimhlint pholaitiúil inmheánach agus ar sheasamh na bpáirtithe polaitiúla aonair ón dearcadh seo, fiú maidir le hoirbheartaíocht agus straitéisí na streachailte laethúla atá i gceist. Tugtar na saincheisteanna seo chun solais as úire ‐ ó shaoirsí bunreachtúla go dtí an streachailt idir aicmí, ó phleanáil go gabháil cumhachta agus á feidhmiú ‐ má bhreathnaítear orthu ón bhonn gur ord idirnáisiúnta aontaithe an príomhchuspóir. Ar ndóigh, tagann iompú an‐shuntasach ar ionramháil pholaitiúil, ar thabhairt tacaíochta do cheachtar de na fórsaí atá i gceist, agus ar bhéim a chur ar shluaghairm pholaitiúil amháin thar cheann eile, má mheastar an bunchuspóir ná chun cumhacht a ghabháil agus leasuithe sainiúla a fhorfheidhmiú i ngach stát aonair ar an taobh amháin nó chun boinn eacnamaíocha, pholaitiúla agus mhorálta a bhunú mar bhunshraith le córas cónaidhmeach a chuimsíonn an ilchríoch iomlán ar an taobh eile. 3)
Is í cúis eile a bhí ann, agus b’fhéidir an cúis is tábhachtaí, ná cé go bhfacthas idéal na cónaidhme Eorpaí, mar rédhréacht de chónaidhm dhomhanda, mar útóipe chianda roinnt blianta ó shin, tá cuma ar an scéal anois, ag deireadh an chogaidh seo, go bhfuil sé ina sprioc indéanta, sprioc insroichte beagnach. An trombhogadh daoine spreagtha ag an gcogadh seo i ngach tír a bhí faoi fhorghab háil na Gearmáine, an gá le geilleagar ar tí chliste iomláin a atógáil ar bhonn nua agus le gach fadhb a bhain le teorainneacha polaitiúla, bacainní taraife, mionlaigh eitneacha srl. a athmheasúnú; nádúr an chogaidh seo é féin, agus an ghné náisiúnta go minic faoi scáil na hidé‐
eolaíochta, nuair a ghéill stáit bheaga agus mheánmhéide cuid mhór dá mórcheannas i bhfabhar stát níos tréine agus nuair a chuir na Faisistithe coincheap an “neamhspleáchais náisiúnta” in ionad “spás maireachtála”, ba chóir na rudaí seo a mheas mar fhachtóirí a dhéanann saincheist eagrúchán cónaidhmeach na hEorpa in iarmhairtí an chogaidh níos ábhartha fós. Is ábhar spéise an tsaincheist d’fhórsaí as gach aicme shóisialta ar chúiseanna eacnamaíocha agus idéalacha araon. Is féidir cur chuige trí idirbheart taidhleoireachta agus ghníomh pobail, trí staidéir a chur chun cinn i measc na n‐aicmí oilte agus trí staid de facto na réabhlóide a spreagadh óna mbeidh sé dodhéanta cúlú ansin. Is féidir é a bhaint amach trí thionchar a imirt ar fheidhmeannas na stát buach agus tríd an scéala a scaipeadh i measc na stát briste nach mbeidh siad in ann slánú agus saoirse ó iarmhairtí tubaisteacha an bhriste a fháil ach amháin san Eoraip atá saor agus aontaithe. 118
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Bunaíodh ár nGluaiseacht le haghaidh an chuspóra cheannann céanna seo. Spreagadh muid chun eagraíocht uathrialach a chruthú, agus an cuspóir aici idé na Conaidhme Eorpaí a chur chun cinn mar sprioc indéanta sna blianta go díreach tar éis an chogaidh mar gheall ar thosaíocht agus ró‐oirirceas na faidhbe seo thar gach fadhb eile a rachaidh i bhfeidhm orainn go luath amach anseo agus mar gheall ar an eolas cinnte, má ligtear don staid dul ar ais chuig seanphatrúin an náisiúntachais, go gcaillfear an deis go deo, rud a chuirfeadh síocháin agus leas buanmharthanach ár n‐ilchríche as an áireamh. Tá muid lán‐eolasach faoi na deacrachtaí atá os ar gcomhair agus faoi chumhacht na bhfórsaí ar mian leo bacainní a chur romhainn, ach creideann muid gur seo an chéad uair a tugadh faoin fhadhb seo mar shaincheist na streachailte polaitiúla agus ní mar idéal cianda éigin ach mar riachtanas práinneach tragóideach. Mhair ár nGluaiseacht dhá bhliain dheacracha chuige seo mar eagraíocht faoi choim faoi chos ar bolg na bhFaisistithe agus na Naitsithe: tagann ar dtacadóirí ó ghnáthbhaill an ghníomhachais fhrith‐fhaisistigh agus creideann siad in úsáid na streachailte faoi airm. D’íoc muid praghas trom na príosúnachta cheana féin ar son na comhchúise: níl muid inár bpáirtí polaitiúil agus níl aon fhonn orainn bheith inár bpáirtí polaitiúil. Mar atá sé ag éirí níos soiléire, tá ár nGluaiseacht ag iarraidh tionchar a imirt ar na páirtithe polaitiúla éagsúla, ní hamháin chun cúis an idirnáisiúnachais a thabhairt sa tulra, ach chomh maith leis sin, chun staid a chruthú trína mbreathnófar gach fadhb pholaitiúil ón bpeirspictíocht seo, ar a bhfuil beagán scrúdaithe déanta go fóill. Cé go gcuireann muid taighde ar chreatlach institiúideach, eacnamaíoch agus sóisialta na Cónaidhme Eorpaí chun cinn agus cé go nglacann muid páirt ghníomhach sa streachailt chun seo a réadú, agus cúram á ghlacadh againn chun fórsaí báúla a shainaithint laistigh de chóras polaitiúil sa todhchaí, ní páirtí polaitiúil atá ionainn mar ní mian linn trácht oifigiúil a dhéanamh ar shonraí institiúideacha ar nós méid na comhsheilbhíochta eacnamaíche, méid na déabhlóide riaracháin srl. srl. atá ina ngnéithe dosheachanta na horgánachta cónaidhmí sa todhchaí. Déantar plé fada ar na fadhbanna uile seo go hoscailte laistigh dár ngluaiseacht agus déantar gach áiteamh polaitiúil a ionadú, ó Chumannachas go Liobrálachas. Ar ndóigh, tá ár mbaill gníomhach i gceann amháin nó eile de na páirtithe forchéimnitheacha agus tá siad go léir aontaithe i gcur chun cinn na mbunphrionsabal de chónaidhm shaor Eorpach, nach mbeidh bunaithe ar aon chineál mórcheannais nó córas ollsmachtach, ach leis an daingne struchtúrach a dhéanann níos mó ná Conradh na Náisiún aisti. Is féidir na prionsabail seo a achoimriú mar a leanas: aon arm cónaidhmeach singil, aontas airgeadaíochta, bacainní taraife agus srianta imirce 119
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a dhíothú idir stáit sa Chónaidhm, ionadú díreach na saoránach laistigh de thionóil na cónaidhme, aon pholasaí eachtrach amháin. Sa chéad dá bhliain seo, tá ár nGluaiseacht i mbéal na ngrúpaí frith‐
fhaisistithe agus páirtithe eile. Gheall cuid acu a dtacaíocht agus a ndea‐thoil dúinn go poiblí. D’iarr cuid eile acu orainn comhoibriú a dhéanamh leo ar a bhforógraí. B’fhéidir nach bhfuil sé ró‐bhaothdhóchasach le rá go bhfuil sé tuillte dúinn i bpáirt, má bhíonn fadhbanna na Cónaidhme Eorpaí i bpreas faoi choim na hIodáile chomh minic. Leanann ár n‐iris, «L’Unità Europea», cúrsaí intíre agus idirnáisiúnta go dlúth, agus seasamh iomlán neamhspleách á ghlacadh. Ní léiríonn na doiciméid seo, atá ina dtoradh ar fhorbairt na smaointe a spreag ár nGluaiseacht, ach tuairimí a n‐údar agus níl siad mar ráiteas seasaimh na Gluaiseachta. Níl mar chuspóir acu ach ábhair díospóireachta a mholadh dóibh siúd ar mian leo athbhreithniú a dhéanamh ar fhadhbanna uile na polaitíochta idirnáisiúnta agus eispéiris idé‐eolaíochta agus pholaitiúla úrnua, torthaí an taighde is déanaí ar eacnamaíocht agus perspictíochtaí réadúla praiticiúla á gcoinneáil i gcuimhne. Leanfar leo le taighde breise gan rómhoill. San atmaisféar atá ann faoi láthair, agus an géarghá le gníomhú atá ina spreagadh leis, tá súil againn go mbeidh an‐smaointeoireacht mar thoradh orthu agus go measfar iad mar chúnamh soiléir le gníomhú atá ag éirí níos diongbháilte, níos eagnaí agus níos freagrach. An Ghluaiseacht Iodáileach do Chónaidhm na hEorpa An Róimh, 22ú Eanáir 1944 120
E. Colorni, Brollach
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Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe Dreacht‐Fhorógra Altiero Spinelli ‐ Ernesto Rossi I. Géarchéim shibhialtacht na linne seo Thogh sibhialtacht na linne seo prionsabal na saoirse mar a bunshraith, trí nach féidir leis an duine a bheith ina uirlis i lámha daoine eile, ach ionad neamhspleách na beatha. Agus ag gníomhú de réir an chóid seo, tá gach gné na sochaí nach léiríonn an prionsabal seo anois faoi scrúdú, cuid de thriail mhór stairiúil. 1) Tugadh an ceart cothrom do gach náisiún iad féin a eagrú i stáit neamhspleácha. Iarradh ar gach cine, agus iad sainithe de réir a ghnéithe eitneacha, geografaíochta, teangeolaíocha agus stairiúla, an ionstraim is fóirsteanaí dá gcuid riachtanas a fháil laistigh den eagrúchán stáit a cruthaíodh go sainiúil dóibh de réir a gcoincheapa féin de chúrsaí polaitiúla, gan aon tionchar seachtrach. Ba dhreasacht chumhachtach do dhul chun cinn ná idéeolaíocht an neamhspleáchais náisiúnta. Chuidigh sé le braistint na dlúthpháirtíochta in éadan chos ar bolg coimhthíoch a chur in áit an pharóisteachais bheagintinnigh. Bhain sé an chuid is mó de na constaicí a chuir bacainní roimh shaorghluaiseacht daoine agus earraí. Chuir sé institiúidí agus córais na ndaonraí níos forbartha ar fáil do dhaonraí beagfhorbartha, laistigh de theorainneacha gach stáit nua. Ach laistigh den idé‐eolaíocht seo, áfach, bhí máthair an impiriúlachais chaipitlíoch a d’fhás agus a d’fhorbair le linn ar nglúine, a raibh stáit ollsmachtacha agus briseadh amach cogaí domhanda ina dtoradh air. Ní mheastar an náisiún níos mó mar thoradh stairiúil de chómhaireachtáil idir daoine a bhfuil comhchuibhiú níos mó bainte amach acu ina A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 121
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nósmhaireachtaí agus a n‐ardaidhmeanna, trí phróiseas fada, agus a bhreathnaíonn ar a stát mar an dóigh is éifeachtaí chun an saol comhchoiteann a eagrú i gcomhthéacs na sochaí daonna iomlán: i ndáiríre, tá sé anois ina aonán diaga, orgánacht a bhfuil a maireachtáil agus forbairt féin mar phríomhchúraim aici, gan aon mhachnamh ar an dochar a dhéanfaí do dhaoine eile. Is é an rud a tháinig as mórcheannas absalóideach na stát seo ná an fonn chun ceannas a ghabháil ar a chéile, ós rud é go mothaíonn siad faoi bhagairt ag a neart, agus creideann gach stát go bhfuil gá acu le críocha níos mó mar chuid dá “spás maireachtála” chun a gceart ar shaorghluaiseacht agus neamhthuilleamaíocht a ráthú, gan an gá le bheith ag brath ar dhaoine eile. Is í an t‐aon dóigh chun an fonn forlámhais seo a shásamh na trí mhórcheannas an stáit is mó thar na fo‐
stáit eile. Mar thoradh air seo, d’iompaigh an stát ó bheith ina chaomhnóir ar shaoirse a saoránach le bheith ina mháistir a bhfuil a ghéillsinigh curtha i ndaoirse aige, agus a bhfuil gach cumas ar a réir aige chun iad a dhéanamh chomh éifeachtach agus is féidir ó thaobh cogaidh de. Fiú i dtréimhsí síochána, a measadh mar shosanna ina ndéantar ullmhúchán le haghaidh cogaí dosheachanta ina dhiaidh sin, tá smacht ag cuspóirí na haicme míleata i go leor tíortha anois thar cuspóirí an daonra shibhialta, rud a dhéanann saorchórais pholaitiúla deacair le hoibriú. Is é príomhchuspóir an oideachais, an taighde eolaíoch, an tionscail agus an riaracháin anois ná neart míleata an náisiúin a mhéadú. Níl aon úsáid ag máithreacha ach chun saighdiúirí a tháirgeadh agus dá bhrí sin bronntar duaiseanna orthu sa dóigh chéanna agus a bhronntar ar ainmhithe torthúla ag seónna talmhaíochta. Tugtar oiliúint ar pháistí ó aois óg airm a láimhseáil agus cuirtear fuath ina gcroí i gcoinne eachtrannach. Níl aon saoirse aonair ann ós rud é go bhfuil páirt ag gach duine sa chóras míleata agus déantar iad a earcú i gcónaí le haghaidh seirbhíse náisiúnta. Cuireann cogadh leanúnach ar mhuin chogaidh brú ar fhir a dteaghlaigh, a jabanna, a maoin a thréigeadh agus fiú a saoil féin a íobairt ar son luachanna nach dtuigeann duine ar bith go fírinneach. Scriostar torthaí fiche nó tríocha bliain d’iarrachtaí an leas coiteann a mhéadú i gcúpla lá. Is iad na stáit ollsmachtacha a chomhaontaigh na fórsaí uile sa dóigh is comhtháite, tríd an gcéim is airde de lárú agus d’átarcacht agus sa dóigh sin chruthaigh siad gur iadsan na comhlachtaí is oiriúnaí do thimpeallacht idirnáisiúnta na linne seo. Chomh luath agus a ghlacann náisiún amháin céim i dtreo cineál ollsmachtachais níos follasaí leanfaidh na náisiúin eile ina dhiaidh, ag sraonadh leo sa mharbhshruth mar gheall ar a dtoil maireachtála. 2) Socraíodh ar cheart cothrom gach saoránaigh le cur le sainmhíniú thoil an stáit. Bhí an ceart seo in ainm a bheith ina shintéis ar riachtanais eacnamaíocha agus idé‐eolaíochta athraitheacha na n‐aicmí sóisialta a A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 122
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dhearbhaítear gan bhac. Mar gheall ar an gcineál eagrúcháin pholaitiúil seo bhí sé indéanta cuid mhór de na héagóracha a thiomnaigh iar‐réimis a choigeartú nó a mhaolú. Ach d’éirigh sé níos deacra na hiarphribhléidí seo a chosaint agus san am céanna córas ionadaíoch a choinneáil, mar gheall ar fhorbairtí mar shaoirse an phreasa, saoirse tionóil agus síneadh leanúnach na vótála comhchoiteann. De réir a chéile d’fhoghlaim siad siúd a cuireadh as oidhreacht chun na huirlisí seo a úsáid chun ionsaí a lainseáil ar chearta faighte na n‐aicmí gustalacha. Bhí dleacht ar ioncam agus ar oidhreachtaí neamhthuillte, bandaí cánach níos airde ar rachmas níos mó, díolúintí cánach ar ioncaim ísle agus agus ar earraí ríthábhachtacha, oideachas poiblí saor, caiteachas méadaithe ar shlándáil shóisialta agus ar árachas, leasuithe chóras na talún agus sábháilteacht tionsclaíoch, bhí na rudaí seo ina mbagairt do na haicmí gustalacha ina ndúnfoirt dhaingnithe. Ní raibh na haicmí gustalacha féin a thug tacaíocht do chearta polaitiúla cothroma, sásta go n‐úsáidfeadh na haicmí díothacha iad chun comhionannas de facto a bhaint amach ina mbeadh fíorghné na saoirse iarbhír ann. Nuair a d’éirigh an bhagairt seo róthromchúiseach ag deireadh an Chéad Chogadh Domhanda, bhí sé nádúrtha go gcuirfeadh na haicmí gustalacha seo fáilte agus tacaíocht roimh na deachtóireachtaí nuíosacha a bhain na hairm dhleathacha as lámha a gcéilí comhraic. Ina theannta sin, cruthaíodh grúpaí baincéireachta agus tionsclaíocha ollmhóra agus ceardchumainn le hairm iomlána d’oibrithe faoin mbratach céanna ‐ grúpaí agus ceardchumainn a chuir brú ar rialtais polasaithe a cheapadh a dhéanfadh a leasanna sainiúla a chosaint sa dóigh is fearr ‐ agus bhí bagairt ann go laghdófaí an stát ina shraith feod eacnamaíoch, gach ceann acu go dubh i gcoinne a chéile. Chun an pobal i gcoitinne a dhúshaothrú sa dóigh is fearr, ghlac na grúpaí seo leis an gcóras liobrálachdhaonlathach mar a n‐uirlis agus sa dóigh sin bhain siad an bonn dá ardcháil go dtí go raibh an áitiús ann nárbh fhéidir na coinbhleachtaí leasa a réiteach nach raibh na hinstitiúidí polaitiúla a bhí ann ábalta a shrianadh ach i stát ollsmachtach. Ar ndóigh, ina dhiaidh sin, rinne na réimis ollsmachtacha suíomh foriomlán na gcatagóirí sóisialta éagsúla a chomhdhlúthú ag na leibhéil a bhí bainte amach ag gach ceann acu agus chuir siad bacainn roimh gach caoi dhlíthiúil le hathruithe breise a dhéanamh don status quo trí úsáid rialú na bpóilíní thar gach gné den saol sibhialta agus trí na heasaontóirí a chur faoi chois le foréigean. Ráthaigh na rudaí uile seo gur mhair aicme iomlán seadánach de thiarnaí talúin neamhchónaitheacha agus cíosaithe agus ba é an t‐
aon chúnamh a rinne siad le táirgeacht shóisialta ná na cúpóin a ghearradh óna mbannaí. Chuir sé todhchaí na monaplaithe agus slabhra na gcuideachtaí a A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 123
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dhúshaothraíonn a gcustaiméirí in áirithe, agus mar gheall air seo d’imigh coigiltis na n‐infheisteoirí mionscála ar neamhní. Neartaigh sé na plútacráit, agus iad faoi choim, a bhfuil focal sa chúirt acu leis na polaiteoirí chun meaisín an stáit a oibriú ar a sochar eisiatach féin, ar scáth leasanna náisiúnta níos airde a bhaint amach. Caomhnaíodh saibhris ollmhóra an dreama bhig in éineacht le bochtaineacht na coitiantachta, a coinníodh amach ó thaitneamh a bhaint as torthaí chultúr na linne seo. Agus dá bhrí sin caomhnaítear réimeas eacnamaíoch go suntasach ina ndírítear na hacmhainní ábharacha agus an lucht saothair, nach mór dóibh a úsáid chun freastal ar bhunriachtanais le haghaidh fuinnimh daonna ríthábhachtacha a fhorbairt, ar mhianta go huile éadairbheacha aon duine atá in ann an praghas is airde a íoc. Is réimeas eacnamaíoch é ina ndéantar cumhacht an airgid a bhuanú laistigh den aicme chéanna, mar gheall ar cheart na hoidhreachta, a éiríonn ina phribhléid nach bhfuil aon bhaint aici le luach sóisialta na seirbhísí a thairgtear iarbhír agus nuair atá raon na ndeiseanna don phrólatáireacht chomh teoranta go mbíonn brú ar oibrithe go minic géilleadh don dúshaothrú ag cibé duine a thairgeann aon chineál fostaíochta dóibh. D’fhonn aicmí an lucht oibre a choinneáil síos agus géilliúil, athraíodh na ceardchumainn ó eagraíochtaí neamhspleácha na streachailte, a raibh iontaoibh a mball ag a gceannairí, go comhlachtaí le haghaidh faireachas na bpóilíní arna reáchtáil ag fostaithe a roghnaítear ag an aicme cheannais agus atá freagrach dóibhsean amháin. Tá aon fheabhsuithe ar an réimeas eacnamaíoch seo deachtaithe i gcónaí ag seiftiúlacht mhíleata amháin atá cumaiscthe le hardaidhmeanna frithghníomhacha na n‐aicmí gustalacha chun na stáit ollsmachtacha seo a chruthú agus a chomhdhlúthú. Dearbhaíodh luach buan an chur chuige chriticiúil in éadan an dogmachais údarásaíoch. Ba cheart go ndearnadh gach dearbhú a chruthú nó a chur ar neamhní. Tá mórghníomhartha i ngach réimse ár sochaí ina dtoradh ar an gcríochnúlacht atá ina bunús leis an bpeirspictíocht oscailte seo. Ach níor sheas an tsaoirse spioradálta seo in aghaidh na géarchéime a chruthaigh na Stáit ollsmachtacha. De réir a chéile tá dogmaí nua atá le glacadh trí ghníomh creidimh nó trí fhimíneacht ag dul i gceannas i ngach réimse eolais. Cé nach bhfuil aon duine in ann ‘cine’ a shainiú, agus léiríonn an tuiscint is gainne ar stair áiféis an choincheapa féin, iarrtar ar fhíseolaithe a chreidiúint, a thaispeáint agus a chur ina luí ar dhaoine eile gur le cine áirithe iad, go simplí de bhrí go bhfuil an miotas seo de dhíth ar an impiriúlachas chun fuath agus bróid a spreagadh i measc na coitiantachta. Caithfidh coincheapa is soiléire na heolaíochta a bheith ina rudaí gráiniúla mar gheall air sin agus dá bhrí sin ligtear do pholasaí átarcach agus chomhardú na trádála chomh maith le roghanna eile an mharsantachais a bheith léirithe mar fhorbairtí suntasacha A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 124
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nua. Mar gheall ar neamhspleáchas eacnamaíoch domhanda, is é an spás maireachtála a theastaíonn ó phobal a bhfuil caighdeán maireachtála ar aon dul le sibhialtacht na linne seo de dhíth orthu ná an domhan iomlán. Ach cruthaíodh bréageolaíocht na geopholaitíochta agus an rún aici bailíocht theoiric an spáis mhaireachtála a chruthú agus scáth teoriciúil a sholáthar do chur faoi chois an impiriúlachais. Falsaítear fíricí stairiúla ríthábhachtacha, ar mhaithe leis an aicme cheannais. Glantar aon oibreacha a mheastar neamhortadocsach ó leabharlanna agus siopaí leabhar, Bagraíonn scáileanna an diamhróireachais chun an spiorad daonna a phlúchadh arís eile. Baineadh an bonn d’eitic shóisialta féin na saoirse agus an chomhionannais. Ní mheastar fir mar shaoránaigh shaora níos mó atá in ann brath ar an stát chun a spriocanna comhchoiteanna a bhaint amach. Is seirbhísigh an stáit iad anois, agus is é an stát a shainíonn a spriocanna, agus is léir gur toil an stáit toil na ndaoine a bhfuil an chumhacht á húsáid acu. Níl fir ina ngéillsinigh a thuilleadh ina gceart féin, ach tá siad eagraithe go cliarlathach agus cuirtear brú orthu umhlú do na húdaráis ar a bhfuil ceannaire i gceannas a ndéantar dia beag de go hiomchuí. As a luaithreach féin, beirtear an réimeas ceast‐bhunaithe, chomh rómháistriúil agus a bhí sé riamh. Tar éis an bua a bhaint amach i roinnt tíortha, faoi dheireadh tá neart imleor faighte ag an tsibhialtacht fhrithghníomhach ollsmachtach seo i nGearmáin na Naitsithe le dul ar aghaidh chuig a conclúid loighciúil. Tar éis ullmhúchán cúramach a dhéanamh, agus iomaíochtaí, féinspéis agus dobhrántacht daoine eile a dhúshaothrú go dána agus gan scrupall, agus stáit vasáilleacha Eorpacha eile ag sraonadh leo ina ndiaidh ‐ agus an Iodáil ar thosach ‐ agus iad féin á gceangail don tSeapáin, a bhfuil pleananna coibhéiseacha aici san Áise, chuir siad tús lena bhfeachtas chos ar bolg agus ceannais. Léireodh a mbua comhdhlúthú deifnídeach an ollsmachtais sa domhan. Dhéanfaí gach ceann dá thréithe a ghéarú tharr na bearta, agus dhéanfaí fórsaí forchéimnitheacha a dhaoradh chun páirt an fhreasúra dhiúltaigh a ghlacadh le blianta móra le teacht. Tugann díomas traidisiúnta agus líne crua aicme mhíleata na Gearmáine léiriú dúinn faoi chruth a ceannais dá mbeadh bua aici sa chogadh. B’fhéidir go gcuirfeadh an Ghearmáin bhuach craiceann na flaithiúlachta ar a seasamh i leith daonraí eile na hEorpa, agus meas á thabhairt go foirmeálta ar a gcríocha agus institiúidí polaitiúla, agus sa dóigh sin rialódh siad trí mhaoithneachas tírghrácha bréagacha na ndaoine sin a shásamh a chuireann praghas níos airde ar dhath bhrat na teorann agus ar náisiúntacht na bpríomhpholaiteoirí ná ar chaidreamh cumhachta agus ar fhíorghnó institiúidí an stáit. Cibé craiceann a chuirfí uirthi, ní bheadh ach aon réadúlacht ann agus is í sin sochaí a roinnfí idir Spartaigh agus Héalótaí uair amháin eile. A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 125
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Bheadh comhréiteach idir na grúpaí freasúracha féin ina chéim chun cinn don ollsmachtas mar chuirfí brú ar gach tír nach raibh faoi fhorghabháil na Gearmáine na cineálacha eagrúcháin pholaitiúil ceannann céanna a ghlacadh chun iad féin a ullmhú d’athnuachan na cogaíochta. Cé gur leag Gearmáin Hitler na stáit níos lú ceann i ndiaidh a chéile, chuir a cuid gníomhaíochtaí iallach ar fórsaí atá ag éirí níos cumhachtaí dul isteach sa choimhlint. De bharr troid misniúil na Breataine Móire, fiú ag an uair ba chriticiúil nuair a bhí sí léi féin i gcoinne an namhaid, bhí ar na Gearmánaigh dul i ngleic le cur i gcoinne gaisciúil Airm na Rúise, rud a thug a ndóthain ama do Mheiriceá chun a cuid acmhainní táirgthe a chruinniú le chéile. Tá nasc dlúth ag an gcomhrac seo i gcoinne impiriúlachas na Gearmáine agus comhrac na Síneach i gcoinne impiriúlachas na Seapáine. Tá líon ollmhór fir agus saibhreas mór cheana féin i gcoinne na cumhachtaí ollsmachtacha, a bhfuil barr a gcumhachtaí bainte amach acu agus nach féidir ach dul i léig de réir a chéile anois. Tá na dúshláin is deacra sáraithe cheana féin ag na fórsaí atá á chur in aghaidh, ar an lámh eile, agus iad ag dul i neart. Le gach lá a théann thart, músclaíonn iarracht chogaidh na gComhghuaillithe mian na saoirse fiú amháin sna tíortha a ghéill faoi fhoréigean agus a chaill a mbealach faoi bhrú an bhuille. Mhúscail sé mian na saoirse fiú amháin i measc daonra i dtíortha na hÁise a thuigeann gur tarraingíodh isteach i gcás gan dóchas, gan fáth ar bith leis ach chun santú cumhachta a rialaitheoirí a shásamh. Tá deireadh tagtha leis an bpróiseas mall, inar lig líon ollmhór fear don réimeas nua iad a mhúnlú go ceansa, a fuair cleachtach air agus a chabhraigh chun é a dhaingniú dá bharr, agus tá tús curtha leis an bhfrithphróiseas. Tugann an tonn ollmhór seo, atá ag borradh de réir a chéile, le chéile na fórsaí forchéimnitheacha, na codanna níos éagnaithe d’aicme an lucht oibre nach bhfuil faoi smacht ag sceimhle nó plámás uaillmhianta chun saol níos fearr a bheith acu, na hintleachtóirí níos grinne, ar rud gránna leo an díghrádú a leagtar ar an intleacht, fiontraithe, atá réidh dúshláin nua a thabhairt orthu féin, atá ag iarraidh a bheith saor ón rómhaorlathas sriantach agus ón átarcacht náisiúnta, agus, ar deireadh, iad siúd nach bhfuil a fhios acu conas géilleadh roimh náiriú an daoirse de bhar mothúchán den dínit atá iontu ó dhúchas. Tá slánú ár sibhialtachta ar iontaoibh na bhfórsaí sin ar fad anois. II. Cúraimí iarchogaidh. Aontacht Eorpach Ní dhéanfaí atheagrú ar an Eoraip i gcomhréir lenár idéal den sibhialtacht go huathoibríoch i ndiaidh an Ghearmáin a chloí áfach. Sa tréimhse ghearr ach A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 126
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tréan den ghéarchéim ghinearálta (leis na stáit briste brúite agus na daoine ag fanacht go himníoch ar theachtaireacht nua, cosúil le hábhar solúbtha, dóiteach, leáite, atá réidh chun foirmeacha nua a ghlacadh chucu féin faoi threoir idirnáisiúnaithe dáiríre), déanfaidh na haicmí a raibh na pribhléidí ba mhó acu faoi na seanchórais náisiúnta iarracht, go calaoiseach nó le foréigean, chun tonn na mothúchán agus na bpaisean idirnáisiúnach a mhaolú agus cuirfidh siad mar dhea leis na seaninstitiúidí stáit a athdhéanamh. Agus is dócha go ndéanfaidh ceannairí na Breataine, in éindí leis na Meiriceánaigh b’fhéidir, iarracht dul sa treo seo, chun beartas de chóimheá na cumhachta a aischur, chun leasa láithreach a nimpireachtaí faoi seach de réir dealraimh. Braitheann na fórsaí frithghníomhacha ar fad ‐ i bhfocail eile, riarthóirí na n‐institiúidí atá riachtanach sna náisiúnstáit, na céimeanna is airde sna fórsaí armtha suas chomh fada leis an monarcacht sna tíortha sin a bhfuil monarcacht acu, na monaplachtaí caipitlíocha a cheangail a mbrabúis le cinniúint an stáit, na húinéirí talún móra agus cliarlathas na heaglaise, nach bhfuil a gcuid ioncaim seadánaigh cinnte ach amháin nuair atá sochaí cobhsaí coimeádach ann ‐ agus, á leanúint, lucht coimhdeachta gan deireadh na ndaoine atá ag brath orthu nó atá dallta go simplí ag a gcumhacht traidisiúnta, braitheann na fórsaí seo ar fad cheana féin go bhfuil an bád ag briseadh agus iad ag iarraidh léim thar bord chun iad féin a shábháil. Má théann an bád síos, chaillfeadh siad go tobann na pribhléidí ar fad a bhfuil cleachtadh acu orthu agus bheidís nochtaithe chun go ndéanfadh na fórsaí dul chun cinn ionsaí orthu. AN CÁS RÉABHLÓIDEACH ‐ SEANTREOCHTAÍ AGUS TREOCHTAÍ NUA Go mothúchánach, is éard a bheidh i gceist le titim na réimeas ollsmachtach ná teacht na “saoirse” do dhaonraí iomlána; tiocfaidh deireadh le gach srian agus, go huathoibríoch, rachaidh saoirse cainte agus tionóil forleathan i mbarr réime. Is bua a bheidh ann don chlaonadh daonlathach leis na miondifríochtaí do‐áirithe atá leis, ón liobrálachas thar a bheith coimeádach go sóisialachas agus ainrialachas. Tá na creidimh seo bunaithe ar iontaoibh in “uathghiniúint” na n‐imeachtaí agus na n‐institiúidí agus dearbhmhaitheas spreagadh ar bith ó na gnáthdhaoine. Níl siad ag iarraidh brú a chur ar “stair”, nó “na daoine”, nó “an phrólatáireacht”, nó cibé ainm eile atá acu ar a dhia. Tá siad ag súil le deireadh na ndeachtóireachtaí, ag samhlú gurb é seo an tráth a dhéanfar an ceart doshannta féinchinntiúcháin a thabhairt ar ais don phobal. Is é barr na maitheasa dóibh tionól bunreachta, tofa leis an gceart vótála is leithne, leis an aird is mó ar chearta na vótálaithe, chun cinneadh a dhéanamh ar an gcineál bunreachta a bheidh acu. Mura bhfuil an daonra aibí, is A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 127
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drochbhunreacht a bheidh mar thoradh leis agus ní bheifear in ann leasú a dhéanamh air ach le háitiú síoraí. Ní fhanann daonlathaithe amach ón bhforéigean de phrionsabail ach bíonn sé mar aidhm acu gan é a úsáid ach amháin nuair atá tromlach díobh cinnte dearfa de nach bhfuil réiteach ar bith eile ann, nuair nach bhfuil mórán eile i gceist leis, i bhfocail eile, ach an “ponc” sa bhreis ar “i”. Is ceannairí oiriúnacha iad i dtréimhsí gnáthriaracháin amháin, nuair atá formhór den daonra cinnte dearfa de go bhfuil a bpríomhinstitiúidí slán, agus gan gá ach le roinnt athruithe beaga neamhiarmhartacha. I dtréimhsí réabhlóideacha, nuair atá gá le hinstitiúidí a chruthú, seachas iad a riaradh, teipeann rialú daonlathach go hainneasach. Tá éagumas bocht na ndaonlathaithe le linn réabhlóidí na Rúise, na Gearmáine agus na Spáinne ar trí shampla i measc na cinn is déanaí. Sna cásanna mar sin, tar éis do sheanfhearas an stáit dul i léig, chomh maith lena dlíthe agus a riaracháin, bunaítear líon mhór de thionóil pobail agus comhlachtaí ionadaíocha láithreach, sa riocht chéanna leis an sean réimeas, nó tarcaisneach air, agus éiríonn siad ina bpointí comhchruinnithe agus ionaid comhghríosaithe do na fórsaí sóisialacha forásacha ar fad. Tá roinnt riachtanais bhunúsacha le sásamh ag an daonra go deimhin, ach níl a fhios aige go beacht a bhfuil uaidh agus a bhfuil sé ag iarraidh a dhéanamh. Tá ceol mór ina chluasa. Leis na milliúin aigne atá aige, níl a fhios aige cén treo le dul, agus briseann sé suas i go leor faicsin, iad ar fad i gcomórtas lena chéile. Díreach nuair atá diongbháilteacht agus misneach iomlán ag teastáil, téann daonlathaithe ar strae, gan uath‐thacaíocht an phobail acu, ach paisin chorrach chíréibeacha ina áit. Ceapann siad go bhfuil dualgas acu teacht ar chomhdhearcadh, cuireann siad i láthair mar shoiscéalaithe díograiseacha, nuair a theastaíonn i ndáiríre ceannairí agus sprioc soiléir ar intinn acu. Cuireann siad na deiseanna chun an réimeas nua a dhaingniú amú trí chomhlachtaí nua a bhunú láithreach, nuair a theastaíonn tréimhsí ullmhúcháin uathu i ndáiríre agus iad níos oiriúnaí i dtréimhsí sách suaimhneacha. Cuireann siad na hairm ar fáil dá gcéilithe comhraic a mbainfear úsáid astu chun tonnbhriseadh a dhéanamh orthu ina dhiaidh sin. Agus na mílte faicsin acu, ní sheasann siad don athnuachan, ach a mhalairt, uaillmhianta scaipthe na n‐
intinn marbh, agus iad ag réiteach an bealach i gcomhair claonta frithghníomhacha. Caithfear modheolaíocht pholaitiúil na ndaonlathaithe a mheas mar thromualach le linn géarchéime réabhlóidí. Agus na daonlathaithe ag cailleadh an tóir a bhí orthu ar dtús ón saoirse a bhaint amach i gcath síoraí na bhfocal, gan réabhlóid pholaitiúil shóisialta inchreidte ar bith, thiocfadh na hinstitiúidí polaitiúla réamh‐ollsmachtacha le chéile arís, agus arís eile bheadh coimhlint ann ag leanúint seanlínte an chomhraic aicme. A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 128
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Bhí an prionsabal faoina bhfuil an streachailt aicmeach ina bhunús leis na fadhbanna polaitiúla ar fad riamh mar threoir bhunúsach oibrithe na monarchana go háirithe, agus chabhraigh sé chun comhsheasmhacht a thabhairt dá gcuid polaitíochta chomh fada agus nach bhfuil ceist ann maidir leis na hinstitiúidí bunúsacha. Ach éiríonn sé ina ionstraim a dhéanann leithlisiú ar an bprólatáireacht, chomh luath agus a bhíonn gá le hatheagrú iomlán a dhéanamh ar an sochaí. Ní féidir leis na hoibrithe seo ach éileamh a n‐
aicmí féin a fheiceáil tar éis oideachas a fháil laistigh de chóras na n‐aicmí nó, níos measa fós, a gcatagóir ghairmiúil féin gan cuimhneamh ar an gcaoi a bhfuil baint ag a leasanna féin le leasanna na n‐aicmí sóisialta eile. Mar mhalairt ar sin, bíonn deachtóireacht aontaobhach aicme an lucht oibre mar uaillmhian acu chun comhsheilbhíocht Útóipeach na modhanna táirgthe ábhartha ar fad a bhaint amach, fógartha sna ceithre hairde a bheith ina ardréiteach ar na bhfadhbanna ar fad tar éis na céadta bliain de bholscaireacht. Níl greim ag an mbeartas seo ar aicme ar bith eile seachas na hoibrithe, a bhaineann a dtacaíocht ó na fórsaí forchéimnitheacha dá bharr, nó a fhágann faoi ghrás an fhrithghnímh a eagraítear go sciliúil a chuireann an ghluaiseacht phrólatáireach faoi chois. I measc na grúpaí prólatáireacha éagsúla a chloíonn leis an bpolaitíocht aicmeach agus idéil na comhsheilbhíochta, d’aithin na cumannaithe an deacracht a bhaineann le lucht leannta dóthanach a fháil chun an bua a thabhairt dóibh, agus mar sin, neamhchosúil leis na páirtithe eile an phobail, tá siad tar éis iad féin a iompú i ngluaiseacht thar a bheith riailbhéasach, ag baint sochar as miotas na Rúise chun na hoibrithe a eagrú agus, gan iad a bheith ag deachtú leo, baintear úsáid astu ar mhaithe le bearta polaitiúla de gach cineál. De bharr an dearcaidh seo bíonn na cumannaithe níos éifeachtaí ná na daonlathaithe le linn géarchéime réabhlóidí. Ach lena mbeart de na hoibrithe a choinneáil chomh fada agus is féidir ó na fórsaí réabhlóideacha eile, ag rá go bhfuil a réabhlóid “dáiríre” fós le teacht, is gné aicmiúil iad agus pointe lag ag an nóiméad criticiúil. Ina theannta sin, os rud é go bhfuil siad ag brath go huile agus go hiomlán ar an Stát Rúiseach, a bhain úsáid astu arís agus arís eile chun a bheartais náisiúnta a bhaint amach, ní féidir leo tabhair faoi ghníomhaíochtaí polaitiúla fadtéarmacha ar bith. Caithfidh Karoly, Blum nó Negrin a bheith acu i gcónaí chun iad a cheilt, ach teipfidh go hiomlán orthu in éindí leis an bpuipéad daonlathach atá i gceist, mar gheall go ndéantar cumhacht a bhaint amach agus a choinneáil, ní le gliceas amháin, ach trí bheith in ann dul i ngleic le riachtanais an tsochaí nua‐aimseartha go córasach freagrach. Dá bhfanfadh an streachailt teoranta laistigh de theorainneacha náisiúnta traidisiúnta amach anseo, bheadh sé thar a bheith deacair éalú ó na seanbhréagnuithe. Tá an mhionphleanáil déanta cheana féin ag na náisiúnstáit A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 129
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ar a ngeilleagar faoi seach gurb é an phríomhcheist a bheadh ann go luath ná cén grúpa de leasanna eacnamaíocha, i bhfocail eile cén aicme, a mbeadh smacht acu ar an bplean. Thitfeadh an fronta forchéimnitheach go tapaigh sa throid i measc catagóirí eacnamaíocha agus aicmí. Is dócha gurb iad na frithghníomhaithe is mó a bhuafaí. Caithfidh gluaiseacht réabhlóideach údarach a theacht uathu siúd a rinne cáineadh ar an seanchreat polaitiúil: ba chóir go mbeadh sé in ann comhoibriú le fórsaí daonlathacha agus cumannacha agus go ginearálta leo siúd a chabhraíonn le treascairt an ollsmachtachais gan a bheith gaistithe ag cleachtais pholaitiúla ceachtar acu áfach. Tá fir agus ceannairí cumasacha ag na fórsaí frithghníomhacha, atá oilte chun rialú agus a throidfidh gan staonadh chun a n‐ardcheannas a choinneáil. Nuair atá a ndroim le balla, beidh a fhios acu conas a bhfíornádúr a cheilt, agus iad ag fógairt go bhfuil siad ag cosaint na saoirse, na síochána, an leasa ginearálta agus na mbocht. Chonaiceamar cheana féin roimhe seo an chaoi a ndearna siad a mbealach isteach i ngluaiseachtaí an phobail, ag baint an bheatha astu agus á gcur ar treo eile, iad a chlaochlú ina ghluaiseacht chontrártha ar fad. Níl dabht ar bith faoi ach go mbeidh siad ar an mbac is dainséaraí. Déanfaidh siad iarracht sochar a bhaint as aischur an náisiúnstáit. Ligfidh sé seo dóibh, ina dhiaidh sin, sochar a bhaint as an mothúchán is forleithne i measc an phobail, mothúchán a bhfuil an oiread sin damáiste déanta air ag imeachtaí le déanaí agus atá chomh héasca le láimhseáil chun críche réabhlóide: an tírghrá. Ar an mbealach seo is féidir leo a bheith ag súil leis go mbeidh sé níos éasca dóibh intinní a gcéilí comhraic a chur trí chéile, os rud é nach bhfuil taithí polaitiúil i measc na coitiantachta go dtí seo ach laistigh den chomhthéacs náisiúnta agus, dá bharr, tá sé sách éasca chun iad féin agus a gceannairí a bhfuil dearcadh níos gearrthéarmaí acu araon a threorú chun na stáit a scriosadh sa stoirm a athdhéanamh. Má éiríonn leo é seo a dhéanamh, is ag fórsaí an fhrithghnímh a bheidh an bua. D’fhéadfadh sé go maith go mbeidh cuma daonlathach sóisialach don chuid is mó ar na stáit seo: ní bheadh ann ach ceist ama sula mbeadh an cumhacht ar ais i lámha na bhfrithghníomhaithe. Thiocfadh éad náisiúnta chun cinn arís, agus dhéanfadh gach stát iarracht a gcuid riachtanais a chomhlíonadh trí úsáid a bhaint as forneart armtha amháin arís eile. Luath nó mall is é an príomhchuspóir a bheadh ann ná an tír iomlán a iompú ina shraith d’airm. Bheadh ginearáil ag tabhairt orduithe arís, bheadh sealbhóirí monaplachtaí ag baint brabúis as átarcachtaí arís eile, thiocfadh méadú ar an maorlathas agus bheadh sagairt ag coinneáil na daoine ciúin. D’imeodh gach rud a mbainfí amach ar dtús san aer nuair a bheadh gá le bheith ag ullmhú chun cogaidh arís. A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 130
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Is í an fhadhb is práinní, nach bhfuil ach seachmall i gceist leis an dul chun cinn mura bhfuil réiteach uirthi, ná deireadh críochnaitheach ar an Eoraip a bheith roinnte ina stáit náisiúnta, ceannasacha. Tá comhchiniúint in ann do mhuintir na hEorpa cheana féin tar éis don chuid is mó de stáit na hilchríche titim roimh ghalrollóir na Gearmáine: is é go ngéillfidh siad ar fad roimh thiarnas Hitler nó, tar éis dó titim, rachaidh siad ar fad isteach i ngéarchéim réabhlóideach áit nach mbeidh siad roinnte agus sainmhínithe agstruchtúir daingne stáit. Tá an pobal i gcoitinne i bhfad níos báúla d’atheagrú cónaidhmeach ar an Eoraip ná mar a bhí said roimhe seo. D’oscail taithí crua le fiche nó tríocha bliain anuas súile fiú amháin iad siúd nach raibh ag iarraidh a fheiceáil, agus tá go leor athruithe ann dá bharr atá fabhrach dár idéal. Aithníonn gach fear réasúnta nach bhfuil sé indéanta anois cothromaíocht cumhachta a choinneáil i measc stáit Eorpacha neamhspleácha leis an nGearmáin mhíleatach ar aon chéim le tíortha eile, ná ní féidir an Ghearmáin a roinnt suas ina phíosaí beaga nó a choinneáil faoi smacht tar éis í a chloí. Is léir nach féidir le tír Eorpach ar bith fanacht ar na taobhlínte agus na cinn eile i mbun troda, agus gach fógairt neodrachta agus socrú neamhionsaithe ar neamhní go hiomlán. Léiríodh dúinn anois easpa éifeacht na n‐eagraíochtaí cosúil le Conradh na Náisiún, gan trácht ar an dochar a dhéanann siad: mhaígh siad go mbeadh siad in ann dlí idirnáisiúnta a chinntiú gan gá le fórsa míleata chun a gcinntí a fhorchur agus meas acu ar cheannas iomlán na mballstát at t‐
am go léir. Chonacthas nach raibh ciall ná réasún le beartas na neamhidirghabhála, le gach daonra fágtha saor mar dhea mar a rinneadh chun an rialtas forlámhach a mheas siad a bheith ar an gceann is fearr, beagnach ar nós nach raibh suim bhunúsach ar bith i gcomhdhéanamh inmheánach gach stáit aonair do na náisiúin Eorpacha eile. Cruthaíodh go bhfuil na fadhbanna iolracha atá ina nimh don saol idirnáisiúnta ar fud na hilchríche gan réiteach: teorainneacha nua a tharraingt i gceantair a bhfuil daonraí measctha iontu, mionlaigh eitneacha a chosaint, rochtain ar an bhfarraige do thíortha talamhiata, ceist na mBalcán, fadhb na hÉireann, agus mar sin de. Bheadh réiteach éasca ar na ceisteanna seo ar fad i gCónaidhm na hEorpa, díreach mar a rinne stáit níos lú a gcuid fadhbanna comhfhreagracha a réiteach san am atá thart nuair a d’éirigh siad ina chuid d’aontas náisiúnta níos mó, ag malartú fadhbanna de chaidrimh idir‐chúigeacha ar a searbhas. Lena chois sin, is dálaí iad an deireadh le mothú na slándála a cruthaíodh de bharr dothreascarthacht na Breataine Móire, agus na Briotanaigh á moladh le huaillmhian de ‘aonaránú aoibhinn’, díscaoileadh airm na Fraince agus díscaoileadh na Poblachta í féin i ndiaidh na céad choimhlint shuntasach le fórsaí na Gearmáine (scéal a dhéanfaidh maolú ar an dearcadh seobhaineach de bharr feabhais iomlán na Fraince, bheifeá ag súil leis), agus thar gach rud eile A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 131
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feasacht maidir leis an mbaol ar ghéilleadh iomlán i bhfáth le réimeas cónaidhmeach a bhunú, ag cur deireadh leis an ainrialachas reatha. Caithfear a rá freisin os rud é gur ghlac an Bhreatain leis an bprionsabal de neamhspleáchas don India agus os rud é go bhféadfadh sé go bhfuil a himpireacht ar fad caillte ag an bhFrainc trí admháil gur buaileadh í, beidh sé níos éasca chun teacht ar bhunús comhaontaithe i gcomhair réiteach Eorpach maidir le coilíneachtaí. Anuas ar an méid seo ar fad tá roinnt de na ríshleachta is tábhachtaí ag dul ar ceal, agus na ríshleachta a maireann tógtha ar leochaileacht bhunúsach. Tá sé tábhachtach a choinneáil i gcuimhne go raibh na ríshleachta seo, agus tacaíocht acu ó leasanna cumhachta agus a mheasann tíortha áirithe a bheith ina sainphribhléid thraidisiúnta acu féin, mar bhac suntasach roimh eagrú réasúnach Stáit Aontaithe na hEorpa, nach féidir a bhunú ach ar bhunreacht poblachtach na dtíortha cónaidhme ar fad. I ndiaidh críochú na sean‐Ilchríche a chur i leataobh, agus an daonnacht ar fad aontaithe i gcomhdhearadh amháin, beidh sé níos soiléire agus níos soiléire gurb í Cónaidhm na hEorpa an t‐aon rud gur féidir a samhlú a dhéanfaidh cinnte go mbeidh comhoibriú síochánta ann sna caidrimh Meiriceánacha‐na hÁise, ar feithimh todhchaí níos faide uainn nuair a d’fhéadfadh aontacht pholaitiúil domhanda a bheith ann i ndáiríre. Dá bhrí sin, níl an líne deighilte idir páirtithe forchéimnitheacha agus frithghníomhacha ar aon dul leis na línte foirmiúla a chuireann daonlathas níos airde nó nach bhfuil chomh hard nó cineál sóisialachais forbartha nó nach bhfuil chomh forbartha in iúl a thuilleadh, ach líne an‐suntasach nua: ar taobh amháin iad siúd atá in ann an seanchuspóir streachailte a fheiceáil, i bhfocail eile gabháltas na cumhachta polaitiúil náisiúnta, agus a bheidh ag cabhrú leis na fórsaí frithghníomhaithe, cé go ndéanfar é seo go hainneonach, trí ligean do laibhe ghealbhruthach phaisin an phobail fuarú sna seanmhúnlaí leis an míréasún a bhí ann roimhe seo ag teacht chun cinn arís, agus ar an taobh eile tá na daoine sin a bhraitheann gurb é an príomhdhualgas atá orthu ná stát idirnáisiúnta láidir a chruthú, a dhéanfaidh fórsaí an phobail a dhíriú i dtreo na sprice seo, agus a bhainfidh úsáid as cumhacht náisiúnta, má éiríonn leo é a bhaint amach, mar ionstraim chun aontacht idirnáisiúnta a bhaint amach thar rud ar bith eile. Le bolscaireacht agus le gníomhartha, agus ag déanamh iarrachta i gcónaí chun na comhaontuithe agus na naisc ar fad gur féidir a bhunú i measc na ngluaiseachtaí aonair atá á bhunú gan dabht sna tíortha éagsúla, anois an t‐am chun bunsraith a leagadh i gcomhair gluaiseachta a bheidh in ann na fórsaí ar fad a slógadh chun an torgánach nua a chruthú a bheidh ar an rud is galánta, is nuálaí a cruthaíodh san Eoraip leis na céadta bliain anuas; atá in ann stáit A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 132
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chónaidhmeacha láidir a bhunú, le seirbhís armtha Eorpach ar fáil dó seachas airm náisiúnta; atá in ann átarcachtaí eacnamaíocha, cnámh droma na réimeas ollsmachtach, a chur faoi chois; a mbeidh a ndóthain institiúidí agus acmhainní aige chun go gcuirfear i gcrích a chinntí maidir le gnáthord a choinneáil sna stáit chónaidhmeacha aonair, agus cead a thabhairt do gach stáit an fhéinriail atá riachtanach a choinneáil i gcomhair eagraíochta atá plaisteach agus gníomhaíochtaí polaitiúla a fhorbairt de réir tréithe sainiúla na ndaonraí éagsúla. Má thuigeann a ndóthain daoine sna príomhthíortha Eorpacha an mhéid seo, ansin beidh an bua acu go luath, mar beidh na dálaí agus dearcadh an phobail araon ar an taobh céanna leo. Beidh páirtithe agus faicsin ina gcoinne atá díchreidiúnaithe de bharr taithí thubaisteach an fiche bliain seo a chuaigh thart. Os rud é gur aimsir gníomhartha nua a bheidh ann, is aimsir fir nua a bheidh ann freisin: ón nGLUAISEACHT AR MHAITHE LE hEORAIP SHAOR CHOMHAONTAITHE. III. Cúraimí iarchogaidh. Athchóiriú an tsochaí Is réamhriachtanas í Eoraip shaor chomhaontaithe chun sibhialtacht nua‐
aimseartha a fhorbairt, agus is céim siar atá i gceist le réimeas ollsmachtach. Chomh luath agus a thiocfaidh an réimeas seo chun deireadh, déanfar an seanchath i gcoinne neamhchomhionannas sóisialta agus pribhléid a aischur go hiomlán. Beidh na seaninstitiúidí coimeádacha a sheas mar bhac roimhe tar éis titim nó beidh siad ag titim agus beidh gá sochar a bhaint as an mbail chriticiúil atá orthu go cróga agus le háitiús. Caithfidh an réabhlóid Eorpach a bheith sóisialta chun ár riachtanais a chomhlíonadh, i bhfocail eile, caithfidh fuascailt aicmí an lucht oibre agus caighdeán maireachtála fiúntach a chinntiú dóibh a bheith mar aidhm leis. Ní féidir le treoir a theacht ón bprionsabal lomtheagascach amháin áfach áit a gcaithfear fáil réidh le húinéireacht phríobháideach ar na modhanna ábhartha táirgthe mar riail agus gan cur suas leis ach go sealadach fad agus nach féidir fáil réidh leis go hiomlán. Nuair a bhí an bhrionglóid Útóipeach de shaoirse ó chuing an chaipitleachais ag aicmí an lucht oibre dén chéad uair, is i bhfoirm náisiúnú coiteann ar an ngeilleagar a bhí sí. Ach chomh luath agus a bhaintear amach an brionglóid seo, ní bhíonn na torthaí a rabhthas ag súil leo ann ach réimeas ina bhfuil an daonra iomlán á rialú ag an grúpa teoranta maorlathaithe atá ag stiúradh an gheilleagair. Is é prionsabal bunúsach an sóisialachais i ndáiríre (agus ní an tuiscint deifrithe mícheart air mar chomhsheilbhíocht ghinearálta) ná gur chóir go mbeadh fir ag rialú na fórsaí eacnamaíoch, seachas a bheith ina thiarna orthu, ar A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 133
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aon dul le fórsaí an nádúir, treoraithe agus rialaithe ar an mbealach is réasúnaí agus is féidir, le nach mbeidh an pobal i gcoitinne thíos leo. Is gá nach bhfanfaidh fórsaí móra an dul chun cinn, a eascraíonn as suimeanna aonair, i marbhuisce na ngnáthamh agus gan toradh leis ach an fhadhb dofhuascailte romhainn arís go bhfuil gá le spioraid an tionscnaimh a athghríosú arís ag baint úsáide as difríochtaí sa tuarastal agus bearta eile cosúil leis sin. Caithfear fórsaí an dul chun cinn a adhmholadh agus a shíneadh, le níos mó deiseanna i gcomhair forbartha agus fostaíochta agus, ag an am gcéanna, caithfimid na bruacha lena ndéantar na fórsaí seo a dhíriú i dtreo na cuspóirí is mó buntáiste don tsochaí san iomlán a neartú agus a fheabhsú. Caithfear fáil réidh le maoine príobháideacha nó iad a theorannú, a leasú nó a shíneadh ag déanamh anailíse ar gach cás ina aonair agus ní de réir prionsabal dogmach ar bith. Is toradh nádúrtha í an treoir seo ar fhorbairt ar staid eacnamaíoch Eorpach atá saor ó thromchodladh an mhíleatachais nó rómhaorlathas náisiúnta. Caithfidh réitigh réasúnacha a bheith i réim in áit cinn neamhréasúnacha do chách, lena n‐áirítear aicme an lucht oibre. Ag iarraidh níos mó sonraí a léiriú maidir le hábhar na treorach seo, agus san am céanna ag tuiscint go ndéanfar leasanna agus praiticiúlachtaí gach pointe sa chlár a mheas anois i gcomhthéacs an bhoinn dosheachanta d’aontacht Eorpach, is mian linn béim a leagadh ar na pointí seo a leanas: a) Ní féidir cuideachtaí a oibríonn monaplacht fhorghníomhaithe agus a bhfuil sé ar chumas acu sochar iomarcach a bhaint as tomhaltóirí dá bharr a fhágáil in úinéireacht phríobháideach: mar shampla, cuideachtaí fuinnimh nó tionscadail a chuireann leasanna comhchoiteann ar fáil ach a dteastaíonn dualgais chosantacha, fóirdheontais, orduithe tosaíochta srl. uatha san am céanna chun fanacht slán (faoi láthair, is í tionscail na cruach agus an iarainn an sampla is fearr den chineál tionscail seo san Iodáil); agus cuideachtaí atá in ann institiúidí náisiúnta a chur faoi dhúmhál mar gheall ar an méid mhór caipitil atá infheistithe, an líon mhór fostaithe, nó a ról ceannach san earnáil, ag gearradh na mbeartas is mó buntáiste dóibh féin (mar shampla, tionscail na mianadóireachta, bainc mhóra, déantóirí móra airm). Is cinnte go mbeidh gá le náisiúnú a thabhairt isteach ar scála ollmhór sna réimsí seo, beag beann ar chearta faighte. b) San am atá thart, bailíodh saibhreas i measc roinnt bheag baill faoi phribhléid den tsochaí mar thoradh ar ghnéithe áirithe den reachtaíocht a rialaíonn maoine príobháideacha agus oidhreacht. I ngéarchéim réabhlóideach bheadh sé chomh maith céanna an saibhreas seo a dháileadh ar bhealach níos cothroime, ag fáil réidh leis sin leis na haicmí seadánacha agus ag tabhairt na modhanna táirgthe do na hoibrithe a theastaíonn uathu chun a staid eacnamaíoch a fheabhsú agus níos mó neamhspleáchais a bhaint amach. Mar A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 134
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sin is athchóiriú talmhaíochta atá á mholadh againn a méadóidh líon na n‐
úinéirí talún go mór tríd an talamh a thabhairt dóibh siúd a dhéanann feirmeoireacht air go hiarbhír chomh maith le hathchóiriú tionsclaíoch a dhéanfaidh sciar úinéireachta na noibrithe sna hearnálacha nach bhfuil náisiúnaithe a shíneadh, trí chomhfhiontraíocht, brabúis a roinnt le fostaithe agus mar sin de. c) Ba chóir gach cúnamh a thabhairt don aos óg chun go mbeidh an bearna is lú ann sna staideanna tosaigh difriúla sa streachailt chun maireachtáil. Ba chóir go ndéanfadh scoileanna stáit, go háirithe, deiseanna réalacha a chur ar fáil le bheith in ann staidéar a dhéanamh i ndiaidh na haoise éigeantaí fágála do na mic léinn is fiúntaí seachas iad siúd is saibhre. Ba chóir go mbeadh líon na mac léinn a chuirfear faoi oiliúint i ngach disciplín, agus é mar aidhm leis go leanfaidh siad ar aghaidh chun ceirdeanna éagsúla a fhoghlaim nó céim a bhaint amach i ngairmeacha liobrálacha agus eolaíocha, i gcomhréir le héileamh an mhargaidh, sa chaoi go mbeidh na tuarastail ar an meán cothrom a bheag nó a mhór thar na catagóirí gairmiúla ar fad, beag beann ar scála pá inmheánach gach catagóire bunaithe ar scileanna aonair. d) Déanann cumas na teicneolaíochta nua‐aimseartha chun earraí riachtanacha a olltáirgeadh, atá beagnach gan teorainn, cinnte gur féidir le gach duine bia, tithíocht, éadaigh agus an leibhéal bunúsach compoird sin a chabhraíonn chun dínit daonna a choinneáil a bheith acu, le costais sóisialta cuíosach íseal. Caithfidh sé, mar sin, nach mbeidh dlúthpháirtíocht daonna i leith iad siúd a ghéillfidh sa streachailt eacnamaíoch i bhfoirm mhéalach na carthanachta a chruthaíonn an t‐olc ceannann agus atá sé ag iarraidh fáil réidh leis ach ba chóir go mbeadh sraith de bhearta i gceist leis chun caighdeán fiúntach maireachtála a chinntiú do gach duine, gan choinníoll, más féidir leo a bheith ag obair nó murar féidir, ach gan tionchar a imirt ar an spreagadh chun a bheith ag obair agus ag coigilt. Ar an mbealach seo, ní chuirfear iallach ar dhaoine glacadh le conarthaí oibre leatromach de bharr bochtanais. e) Ní féidir saoirse aicmí an lucht oibre a bhaint amach ach nuair a dhéanfar na coinníollacha a dhéantar cur síos orthu thuas a chomhlíonadh. Caithfidh sé nach ndéanfar iad a thréigeadh arís le beartais eacnamaíocha na gceardchumann monaplach nach ndéanann ach na modhanna leatromacha a bhaintear úsáid aistriú sna timpeallachtaí ard‐chaipitil a aistriú chuig na monarchana. Caithfidh na hoibrithe dul ar ais chuig an tsaoirse a bheith acu a gcuid ionadaithe féin a roghnú chun idirbheartaíocht a dhéanamh i dteannta a chéile ar na coinníollacha faoina mbeidh siad ag obair, agus caithfidh an stáit na modhanna dlíthiúla a chur ar fáil lena chinntiú go gcuirfear na téarmaí a ndéantar idirbheartaíocht orthu i bhfeidhm. Ach beifear in ann dúshlán a A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 135
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thabhairt ar na treochtaí monaplacha ar fad go rathúil chomh luath agus a bhainfear amach na hathruithe sóisialta seo. Tá na hathruithe seo ag teastáil chun tacaíocht leathan a chruthú i measc aicmí na saoránach ar fad ar suim leo leas chóras nua na ninstitiúidí agus le go mbeidh tionchar láidir ag idéal na saoirse agus mothú láidir den dlúthpháirtíocht shóisialta ar an bpolaitíocht araon. Leis an mbonn seo, beidh substaint chomh maith le foirm ag saoirse pholaitiúil do gach duine mar gheall go mbeidh a ndóthain neamhspleáchais agus oideachais ar fhormhór mór na saoránach chun rialú leanúnach éifeachtach a dhéanamh ar an aicme cheannais. Ag an bpointe seo, ní gá a bheith ag machnamh an iomarca ar na hinstitiúidí bunreachtúla, mar gheall nach féidir linn na dálaí a thuar fós faoina dhéanfar iad a bhunú agus a rith agus dá bhrí sin nach féidir linn ach athrá a dhéanamh ar a bhfuil ar eolas ag gach duine cheana féin faoin gá atá le comhlachtaí ionadaíocha, an próiseas chun dlíthe a dhéanamh, neamhspleáchas na mbreithiúna, agus ionadaíocht a dhéanamh ar a gcuid baill chun cur i bhfeidhm neamhchlaonta na reachtaíochta nua a chosaint chomh maith le saoirse an phreasa agus an ceart chun tionóil chun dearcadh poiblí eagnaí a chinntiú le deis ag na saoránaigh ar fad chun páirt ghníomhach a ghlacadh i saol an stáit. Tá dhá cheist ann, áfach, a bhfuil sé riachtanach iad a mheas níos cúramaí mar gheall ar an tábhacht ar leith a bhaineann leo dár dtír faoi láthair: an caidreamh idir an Eaglais agus an Stát agus an córas d’ionadaíocht pholaitiúil. a) Cuirfear deireadh leis an gConradh a rinne cinnte go mbeadh deireadh le comhaontas na Vatacáine le Faisisteachas san Iodáil gan dabht i bhfabhar stát atá go hiomlán saolta áit a dhéanfar ardcheannas an stáit sin sna gnóthaí sibhialta ar fad a bhunú go haonchiallach. Tabharfar an meas céanna ar gach creideamh reiligiúnach, agus ní dhéanfaidh an stát na sainchreidimh éagsúla a mhaoiniú a thuilleadh. b) Leagfar an teach tuí a tógadh le corparáideachas Faisisteach chomh maith leis na gnéithe eile den stát ollsmachtach. Tá daoine ann a chreideann gur féidir rud éigin a tharrtháil ón bhfoirgníocht reatha agus a chur ag obair san ord bunreachtúil nua. Nílimid ar aon intinn leo. Sna stáit ollsmachtacha, is iad na seomraí corparáideacha masla deireadh smacht na bpóilíní ar na hoibrithe. Fiú amháin dá mba rud é gur léiriú macánta ar thoil na gcatagóirí táirgthe éagsúla a bhí sna seomraí corparáideacha, ní bheadh comhlachtaí ionadaíocha na gcatagóirí gairmiúla éagsúla incháilithe chun idirbheartaíocht a dhéanamh ar cheisteanna beartais ghinearálta agus, chomh fada agus atá ceisteanna a bhaineann níos mó leis an ngeilleagar go sonrach i gceist, iompóidh siad ina gcomhlachtaí leatromacha laistigh de na catagóirí ina mbeadh na ceardchumainn is cumhachtaí. Rachaidh na ceardchumainn i mbun A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 136
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comhoibrithe go forleathan leis na comhlachtaí stáit sin a cheapfar chun fadhbanna ar bith a bhfuil baint díreach ag na hoibrithe leo a réiteach, ach ní bheidh cumhacht reachtúil ar bith acu, mar gheall go mbeadh ainrialachas feodach laistigh den chóras eacnamaíoch mar thoradh leis seo ar dtús, agus forlámhas polaitiúil athnuaite sa deireadh. Is féidir go leor acu sin ar mealladh go soineanta iad leis an gcorparáideachas a mhealladh leis an gclár athnuachana, agus ba chóir é seo a dhéanamh. Ach caithfidh siad áiféis an réitigh a moladh dóibh lena n‐aislingeacht scaipthe a thuiscint. Ní féidir le corparáideachas a bheith ann i ndáiríre ach na bhfoirm a thugann na stáit ollsmachtacha, chun na hoibrithe na hoibrithe a eagrú faoi rialú oifigeach a dhéanann monatóireacht ar gach a dhéanann siad chun leasa na haicme ceannais. Ní féidir an páirtí réabhlóideach a seiftiú go hamaitéireach ag uair na cinniúna, ach caithfidh sé tús a chur le forbairt ar a phríomhchreat polaitiúil ar a laghad, lena threoirlínte ginearálta agus na treoracha tosaigh i gcomhair gnímh. Ní féidir leis a bheith ina bhailiúchán ilchineálach d’fhaicsin, gan ach a bheith aontaithe go sealadach trí bheith ag cur i gcoinne, i bhfocail eile aontaithe de bharr a staire frith‐Fhaisisteach agus ag fanacht le go dtitfidh an réimeas ollsmachtach, gach ceann acu réidh chun a mbealach féin a thógáil nuair a bhainfear amach an sprioc seo. Tá a fhios ag an bpáirtí réabhlóideach, ar an lámh eile, nach mbeidh an fhíorobair ach ag tosú ansin. Caithfidh sé a bheith comhdhéanta mar sin d’fhir atá ar aon intinn maidir leis na príomhcheisteanna don todhchaí. Áit ar bith a bhfuil an réimeas reatha ag caitheamh go leatromach le daoine, caithfidh sé idirghabháil a dhéanamh le bolscaireacht chríochnúil. Agus cibé cén fhadhb is práinní do dhaoine aonair agus d’aicmí mar phointe tosaigh aige, caithfidh sé an chaoi a bhfuil nasc idir an fhadhb seo le cinn eile a léiriú, agus an fíor‐réiteach atá air a chur in iúl. Ach ón gciorcal taobhaitheoirí seo a bheidh ag méadú de réir a chéile, caithfidh sé gan ach iad siúd a bhfuil an réabhlóid Eorpach roghnaithe acu mar príomhaidhm a saol a aithint agus a earcú chuig an ngluaiseacht, iad siúd a dhéanann an obair atá riachtanach go díograiseach, lá i ndiaidh lae, ag déanamh monatóireachta ar a chuid torthaí leanúnacha éifeachtacha, fiú amháin sna cásanna mídhleathacha gan dóchas agus a bheidh, ar deireadh, ina líonra daingean a bheidh mar bhuncharraig do na taobhaitheoirí nach bhfuil chomh buan. Cé nach bhfuil deis nó comhthéacs ar bith ar chóir faillí a dhéanamh air ina iarrachtaí chun an focal a scaipeadh, caithfidh an páirtí réabhlóideach a bheith gníomhach ar dtús báire sna timpeallachtaí sin is oiriúnaí chun smaointe a scaipeadh agus fir throdacha a earcú agus go sonrach i measc an dá ghrúpa sóisialta is íogaire sa chomhthéacs reatha, a bheith cinniúnach don todhchaí: i A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 137
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bhfocail eile aicme an lucht oibre agus na hintleachtóirí. Tá an chéad dream a luadh orthu siúd is lú a d’umhlaigh faoi shlat an ollsmachtachais agus is iad is fearr a bheidh ullamh chun ia féin a atheagrú. Tá an dara dream a luadh, agus go háirithe na hintleachtóirí níos óige, orthu siúd is mó a bhraitheann iad féin a bheith á múchadh go spioradálta agus déistin orthu leis an bhforlámhas reatha. Ní féidir ach go ndéanfaidh an ghluaiseacht ghinearálta grúpaí sóisialta eile a mhealladh de réir a chéile. Tá gluaiseacht ar bith nach n‐éiríonn leis comhaontú a bhunú idir an dá fhórsa seo daortha don neamhtháirgiúlacht. Mar gheall, mura bhfuil ach intleachtóirí amháin sa ghluaiseacht, ní bheidh an láidreacht aici chun frithghníomhartha a chur faoi chois agus beidh drochmhuinín aici as aicme an lucht oibre, agus drochmhuinín acu aisti: in ainneoin spreagadh a fháil ón gcreideamh sa daonlathas, beidh claonadh aici titim ar staid de na haicmí ar fad eile a chruinniú le chéile i gcoinne na hoibrithe agus filleadh ar an bhFaisisteachas dá bharr. Ar an lámh eile, más rud é nach bhfuil tacaíocht ag an ngluaiseacht ach ón bprólatáireacht, beidh an soiléireacht ó thaobh smaointe de nach féidir ach le hintleachtóirí a thabhairt leo in easnamh agus is rud bunúsach é sin chun spriocanna nua agus réitigh nua a aithint: bheadh an ghluaiseacht ar fuascailt ag seanchóras na n‐aicmí, ag feiceáil namhaid féideartha i ngach duine, agus sleamhnóidh sí agus thitfeadh sí ar an réiteach lomtheagascach cumannach. I rith na géarchéime réabhlóidí, is faoin ngluaiseacht seo atá sé na fórsaí forchéimnitheacha a eagrú agus a threorú, ag baint úsáide as comhlachtaí ar fad an phobail a thagann le chéile astu féin mar chama ghealbhruthacha a ndéanfar an choitiantacht réabhlóidí a mheascadh iontu, ní chun pobalbhreitheanna a eagrú, ach chun fanacht ar threoir. Déanann sé a fhís agus a chinnteacht maidir lena bhfuil le déanamh nó ó fhoirm réamhghabhálach éigean de chomhdhearcadh pobail nach bhfuil ann fós, ach ón eolas go léiríonn sé riachtanais domhain‐fhréamhacha an tsochaí nua‐aimseartha. Ar an mbealach déanann sé treoirlínte bhunúsacha an oird nua a tharraingt, an chéad smacht shóisialta don choitiantacht gan sainmhíniú. Bunaítear an stát nua trí dheachtóireacht seo an pháirtí réabhlóidí, ag ligean d’fhíordhaonlathas nua foirmiú timpeall air. Níl gá ar bith le bheith eaglach go mbeidh forlámhas athnuaite mar thoradh uathoibríoch le réimeas réabhlóideach mar sin. Ní tharlaíonn sé seo ach más rud é go ndearna an ghluaiseacht sochaí ghéilliúil a mhúnlú. Ach má leanann an páirtí réabhlóideach ar aghaidh go daingean ón tús chun dálaí a chruthú don tsaoirse, áit gur féidir le gach saoránach rannpháirtíocht go fírinneach i saol an stáit, ansin tiocfaidh sé chun cinn, in ainneoin géarchéimeanna polaitiúla tánaisteacha féideartha, i dtreo tuiscint uilechoiteann A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 138
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forchéimnitheach agus an t‐ord nua a ghlacadh agus, dá bharr, le dóchúlacht níos mó ann go n‐oibreoidh sé go héifeachtach agus go mbeidh institiúidí polaitiúla saor aige. Tá sé in am anois a aithint go gcaithfimid ualaí neamhéasca an am atá thart a chur uainn agus a bheith réidh chun aghaidh a thabhairt ar an méid a thiocfaidh amach anseo, is cuma cé chomh difriúil agus a bheidh sé ón méid a mbeimid ag súil leis. Caithfimid fáil réidh leo siúd atá neamhinniúil i measc na sean agus fuinneamh nua a spreagadh i measc na n‐óg. Agus iad ag cur tús le bunsraith na todhchaí a leagadh síos, tá na daoine sin a d’aithin na fáthanna atá leis an ngéarchéim reatha sa sibhialtacht Eorpach agus a thagann in oidhreacht mar sin ar leagáid na ngluaiseachtaí ar fad atá tiomanta chun dínit daonna a chur chun cinn ‐ gluaiseachtaí a briseadh mar gheall nach raibh sprioc comónta acu nó mar gheall nach raibh na modhanna acu chun é a bhaint amach ‐ tá na daoine sin ar tóir a chéile anois agus ag buaileadh lena chéile. Níl an bealach ar aghaidh mín ná cinnte. Ach ní mór dúinn é a leanúint agus leanfaidh muid é! A.S. E.R. A. Spinelli, E. Rossi, Ar Mhaithe leis an Eoraip Shaor Aontaithe 139
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Ireland From island to island Maria Antonietta Saracino I, Ulysses, is the title Altiero Spinelli gave to part one of his autobiographical writings, Come ho tentato di diventare saggio (How I tried to become wise), posthumously appeared in 1984. Ulysses was indeed the pseudonym Spinelli had chosen for himself when he joined the Communist Party. Ulysses, after the wandering hero who, in Dante’s words, urged his comrad es to “Consider what you rose from: you were not made to live like animals but for the pursuit of virtue and knowledge”; but also the name of the hero of the masterpiece written by one among the most famous of Irish writers, James Joyce. Just like Joyce, who spent his formative years on an island, it was as well on a tiny island in the Tyrrhenian sea that between 1941 and 1942 Altiero Spinelli famously wrote the Ventotene Manifesto which is being presented here in its first Gaelic translation. The text exudes civil and political passion and is couched in rich, flowing, Italian prose. There is a fervour to its language, as if the conditions imposed, the physical limitations inflicted by imprisonment on its authors ‐ intellectuals but also militant politicians ‐ somehow induced them to adopt more resounding, more marked tones to express themselves. It is as if they sought to give greater force to their words and to the substance of their thoughts as these took on the form of a great forward‐looking project, precisely on the island of Ventotene. It looks to the future not only of Italy but of the whole of Europe with extensive, appropriate references to the rest of the world. It foresees the birth of a hegemony‐free European Federation with a single currency and no custom tariffs, free emigration for its citizens and one single foreign policy: Europe as a civil place of cohabitation for free individuals rather than a tool in the hands of others. Sixty years on, the Manifesto is still extraordinary in its far‐sightedness and in the clarity with which it anticipates many of the problems facing us and the world we live in today. We are also struck by the force of the tones used to outline this world of ours, they are the tones of the spoken word. Despite the fact that the text is written, we are struck by the force that echoes orality, the energy of the voice. Because this Manifesto – unlike Marx and Engels’ more famous document of 1848, also written on an island, and, according to historians, a 140
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source of inspiration for the Italian document – brings with it the energy of ‘thinking together’; it brings us the product of the common project of the three great intellectuals who wrote it but it also brings us the different tones of voice. For the scholar of political culture, and inter‐cultural relations in general, some of the issues raised by the Ventotene Manifesto are particularly thought‐
provoking. While underlying the courage of Great Britain during the war, the text does not forget the relevance of the Irish question nor the issue of defending minorities; it anticipates the question of Indian independence and reflects on the failure of the great colonial endeavours. And, starting with the blow struck by the racial laws, introduced in Italy by the Fascists in 1938, it touches on the folly of racism and desire for dominance implicit in imperialism. It draws a model of globalization, in the true sense of the word, that is to say with the world viewed as the heritage of all human beings: “Due to global economic interdependence, the living space needed by any people wanting to maintain a living standard in line with modern civilization is now the entire world”. In making this text available to a Gaelic speaking audience, this translation has a twofold objective. The first, as is always the case with chronologically distant texts, is that of bringing it closer to the contemporary reader, who speaks a different language and inhabits a different culture, preserving its readability: the text clearly uses archaic vocabulary and also has a rather formal register, with many examples of metaphorical language. The second objective of the translation is to adapt the complex Italian in which it is written, with its many long subordinate clauses, to a language such as Gaelic, not yet one of the official languages of European Union, but one that is currently being used by the European Court of Justice. This first Gaelic translation of the Ventotene Manifesto is also a sign of the increasing interest in this text and the message it conveys and it aims at bringing the Manifesto to a wide audience of readers. The translation is the product of an institutional initiative. The Lazio Region has adopted the Ventotene Manifesto as part of its Statute and is promoting, together with the University of Rome “La Sapienza”, the translation of the text into all the languages of the European Union as well as into Gaelic. One hundred years on from the birth of Altiero Spinelli, the man who inspired it, the Manifesto takes on a leading role in our institutions and universities, in history books but also in literary anthologies. We read and study it today not only for its political and civil content, but also as a literary and human document of exceptional importance. 141
M.A. Saracino, From island to island
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Latvija Latvieđu lasî tâjam Pietro U. Dini Ar Lazio reģiona atbalstu pirmo reizi Ventotenes manifests tiek publicēts latviešu valodā. Īsumā iepazīstināt latviešu lasītāju ar manifesta autoru ‐ Altiero Spinelli (1907‐1986) ‐ nav viegls uzdevums. Kāpec? Tapēc, ka Latvijas vēstures un kultūras kontekstā grūti nosaukt cilvēku, ko varētu pielīdzināt Spinelli un ar ko apzīmētu intelektuālu personību, kas tik nešķirami saistīta ar Vienotas eiropas projektu, kas vēlāk pārtapa par eiropas federālistu kustību. Rīgas humānistu vidē 16. gadsimtā jau varēja just eiropeisku atmosfēru. Apliecinājumi par piederību eiropai Latvijā izpaudās dažādos veidos un kļuva par aizmetni dažu intelektuāļu prātos latviešu tautas ilgajā atdzimšanas posmā, vēlāk uzplaukstot kā Tautas Frontes eiropeiskie atslēgas vārdi Baltijas identitātes protesta divu gadu laikā (1988‐1989). Un tomēr ‐ tā kā bieži vien nācās koncentrēties uz savas neatkarības apstiprināšanu vai atkārtotu apstiprināšanu un tādējādi, radot vajadzību rūpēties par vietēja mēroga attiecībām cīņā ar varenajiem kaimiņiem, varētu šķist, ka Latvijas vēsturei nav bijis pietiekami laika radīt domātājus, kuri vēlētos izveidot tādu eiropas federācijas projektu, kurā būtu ietverts arī pašu dzimtenes liktenis. Latvijas ilgajā atdzimšanas posmā XIX un XX gadsimtā intelektuāļu aprindās vienotas eiropas skatījums nebija svešs, bet notikumi 20. gadsimta pirmajā pusē novērsa uzmanību no šādas perspektīvas. Savukārt latviešu lasītājam noteikti ir vieglāk saprast apstākļus, kas veicināja manifesta ideju rašanos un tā saturu, ko Altiero Spinelli uzrakstīja, atrodoties sešpadsmit gadu ilgā ieslodzījumā Ventotenes salā. Ieslodzījumu un izsūtīšanu trimdā pazina arī latviešu intelektuāļi. Tieši atrodoties uz salas (kur pēc paša vēlēšanās atrodas viņa pelni), kas nošķirta no pasaules un cilvēku tirdzniecības, Spinelli izdevās “atklāt federālismu“. Tātad ‐ ko paveica Altiero Spinelli? Šis vīrs, kas bija fiziski spēcīgs un masīvs (ne velti viens no viņa pseidonīmiem pagrīdes vidē bija Pantagruel “milzis”), ir iesaukts pat par eiropas Mozu. Tik tiešām − Spinelli bija aizrautīgs eiropas ideju aizstāvis. Pamatojoties uz Mazzini idejām, viņš “pēckara tumsas gados” radīja eiropas federācijas projektu, ar ko bija jāpieliek punkts karadarbībai Vecajā kontinentā. Vairāk nekā citi Spinelli pielika pūles, lai ideju par eiropas federāciju izplatītu sentimentālā un utopiskā vidē un lai tai 142
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piešķirtu politiskas programmas konkrētību. Pēckara laikā Spinelli ietvēra eiropas federālismu progresīvo politisko spēku kultūras debatēs, kā arī katrā savā rakstā un politiska rakstura darbībā. Viņa nodoms attiecībā uz eiropas federālisma ideju bija pasniegt to kā “brīnumzāles” un “revolūciju”, lai uzvarētu suverēnas valstis un izveidotu eiropas savienotās valstis. Kad Spinelli rakstīja, ka “tirānu laiks” tuvojas beigām pēc postījumiem un masu slepkavībām, viņš uzsvēra to, kas bija noticis Rietumeiropā, un, protams, nevarēja paredzēt, ka šāds režīms no turienes neilgā laikā tiks ieviests eiropas rietumu daļā un vidusdaļā. Pat ja Altiero Spinelli federālisma projekts tiktu īstenots laikā, kad tas radās, tas būtu varējis nošķirt tā saukto Centrāleiropu (tādējādi arī Latviju, Lietuvu un Igauniju) no aizmirstības, kas ilga pusgadsimtu un kas ir puskontinenta jaunākās politiskās vēstures pamatā. Par laimi, vēsture vismaz vienu reizi ir bijusi apzinīgāka par cilvēka neapdomību, un no 2004. gada 1. maija eiropas Savienība (kuras dibinātājs ir Spinelli) ir kļuvusi par realitāti arī Latvijas Republikai. 143
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Priekšvārds Eugenio Colorni (Roma 1944. Gads) Šo rakstu pamatidejas radās un tos uzrakstīja 1941. un 1942. gadā Ventotenes salā. Šajā īpašajā vidē stingra režīma slazdos uzspiestas apātijas skumjās ar nepacietību gaidot atbrīvošanu, uztverot informāciju un mēģinot to padarīt pēc iespējas pilnīgāku, dažu cilvēku prātos brieda pārdomas par visām problēmām, kuras bija izraisījis karš. Nošķirtība no politiskās dzīves sniedza neatkarīgāku skatījumu un rosināja apsvērt tradicionālo nostāju, meklēt pagātnes neveiksmju iemeslus ne tik lielā mērā parlamenta vai revolucionārās taktikas tehniskajās kļūmēs vai situācijas vispārējā “nesagatavotībā”, bet gan nenobriedušā vispārīgā nostājā un tajā, ka cīņa veikta paralēli ierastajiem ieplaisājušajiem principiem, pievēršot pārāk maz uzmanības jaunajiem notikumiem, kuri attīstījās, mainot realitāti. Gatavojoties veiksmīgi cīnīties lielajā kaujā, kas iezīmējās tuvākajā nākotnē, vajadzēja ne tikai labot pagātnes kļūdas, bet arī atteikties no politisku problēmu formulējumiem, atmetot doktrīnu aizspriedumus vai partijas mītus. dažu cilvēku prātos radās galvenā ideja par to, ka svarīga pretruna, kas vainojama pie krīzēm, kariem, nelaimēm un izmantošanu, kas valdīja mūsu sabiedrībā, ir suverēnu ģeogrāfiski, ekonomiski un militāri noteiktu valstu eksistence, kuras, uzskatot citas valstis par konkurentēm un iepējamām ienaidniecēm, attiecībā uz citām apvienojās situācijā, ko var izteikt šādi ‐ perpetuo bellum omnium contra
omnes (visu karš pret visiem). Šī ideja, kas pati par sevi nebija jauna, ienesa jaunas vēsmas minētajos apstākļos un situācijā, kurā tā radās, un tās rašanās motīvi ir dažādi. 1) Pirmkārt, internacionālisma ieviešanu, kas dominē visu progresīvo politisko partiju programmā, tās uzskata zināmā mērā par vajadzīgām un gandrīz automātiskām sekām, lai sasniegtu katras partijas izvirzītos mērķus. Demokrāti uzskata, ka, katrā valstī ieviešot savu ierosināto režīmu, neapšaubāmi veicinātu tādas vienotas apziņas veidošanos, kas, pārvarot robežas kultūras, kā arī morālajā jomā kļūtu par priekšnoteikumu, ko tie uzskata par neaizstājamu, lai panāktu brīvu tautu apvienību politiskajā un ekonomiskajā mērogā. Savukārt sociālisti uzskata, ka proletariāta diktatūras režīma ieviešana dažādās valstīs radītu starptautisku kolektīvisma valsti. Analīzē par modernas valsts jēdzienu un apvienotām interesēm skaidri norādīts, ka, neraugoties uz to, ka iekšējā režīma analoģijas var atvieglot draudzīgu attiecību un sadarbības veidošanos valstu starpā, tas nepavisam 144
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nenozīmē to, ka tas automātiski un progresīvi ved uz apvienošanos, kamēr eksistē kolektīvas intereses, kas saistītas ar atsevišķas vienības uzturēšanu noteiktās robežās. No pieredzes zinām, ka šovinistiskas izpausmes un protekcionisma intereses var viegli izraisīt sadursmi un konkurenci arī divu demokrātiju starpā, un nav teikts, ka bagātai sociālistiskai valstij noteikti būtu jāpieņem tas, ka pašu resursi tiek nodoti kopīgā īpašumā ar citu, nabadzīgāku sociālistisku valsti tikai tāpēc, ka tajā valda pašu režīmam analogs iekšējs režīms. Tādējādi politisku un ekonomisku robežu atcelšanai valstu starpā nav jārodas tāpēc, ka minēto iekšējo režīmu vienlaicīgi ievieš katrā valstī, bet tā ir neatkarīga problēma, kas jārisina ar atbilstīgiem iedarbīgiem līdzekļiem. Cilvēks nevar būt sociālists, vienlaicīgi neesot arī internacionālisma piekritējs, bet tas iespējams vairāk ideoloģiskas saiknes, nevis politiskas un ekonomiskas vajadzības dēļ, un pēc sociālistiskas uzvaras atsevišķas valstis nebūt neveidojas par starptautisku valsti. 2) Tas, kas turklāt autonomā veidā lika uzsvērt federālisma tēzi, bija fakts, ka esošās politiskās partijas, kas saistītas ar pagātnes cīņām katrā valstī, ieraduma vai tradīciju dēļ ir pieradušas noteikt visas problēmas, sākot no noklusētā pieņēmuma par nacionālu valsti, un uzskatīt starptautiska mēroga problēmas kā “ārpolitikas” jautājumus, kas jārisina diplomātiskā veidā un panākot vienošanos atsevišķu valdību starpā. Šāda attieksme daļēji ir iemesls, daļēji sekas iepriekš norādītajai attieksmei, pie kuras pieturoties uzskata, ka ja reiz attiecīgajā valstī ir apturēti vadības groži, saskaņa un apvienošanās ar līdzīgiem režīmiem citās valstīs notiek pati par sevi un tam nav vajadzīgs veltīt īpašu politisku cīņu. Savukārt šo rakstu autori bija cieši pārliecināti: ja kāds vēlas risināt starptautiskas iekārtas problēmu, piemēram, tā vēsturiskā perioda galveno problēmu, un uzskata tās risinājumu par būtisku priekšnoteikumu visu mūsu sabiedrībai aktuālo institucionālo, ekonomisko un sociālo problēmu risināšanai, būtu jāņem vērā visi jautājumi, kas attiecas uz iekšējām politiskām pretrunām un katras partijas nostāju, arī attiecībā uz ikdienas cīņā piemēroto taktiku un stratēģiju. Visas problēmas, sākot no konstitucionālās brīvības līdz sabiedrības šķiru cīņai, no plānošanas līdz varas iegūšanai un tās izmantošanai, iegūst jaunu nozīmi, ja tās formulē, ņemot vērā priekšnoteikumu, ka pirmais mērķis, kas jāsasniedz, ir vienota iekārta starptautiskā mērogā. Tai pašai politiskajai rīcībai, atbalstam no viena vai kāda cita politiskā spēka, viena vai cita saukļa uzsvēršanai var būt diezgan atšķirīga nozīme, saskaņā ar kurām par svarīgu mērķi uzskata varas iegūšanu un noteiktu reformu īstenošanu katrā atsevišķā 145
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valstī, vai ekonomisko, politisko un morālo priekšnoteikumu izveidošana, lai nodibinātu federālu iekārtu, kas aptver visu kontinentu. 3) Vēl viens iemesls, iespējams, vissvarīgākais, bija tāds, ka eiropas federācijas ideāls, pasaules federācijas prelūdija, kas pirms pāris gadiem likās kā tāla utopija, šodien, karam beidzoties, ir sasniedzams un gandrīz pavisam tuvs mērķis. Kopējā tautu sajaukumā, ko šis konflikts radīja visās vācu okupācijai pakļautajās valstīs, vajadzībā atjaunot ekonomiku uz jauniem pamatiem, kas ir gandrīz pilnībā izpostīta, aktualizēt visas problēmas, kas saistītas ar politiskajām robežām, muitas barjerām, etniskajām minoritātām u.c., šajā karā, kurā nacionālais faktors ir bijis tik bieži ideoloģiski pārspīlēts, kurā mazas un vidējas valstis atteicās no ievērojamas daļas to suverenitātes spēcīgāku valstu labā, un kurā no pašu fašistu puses jēdziens “dzīvības telpa” tika aizstāts ar saukli “nacionālā neatkarība”‐ visos šajos faktoros ir elementi, kas kā nekad agrāk šajā pēckara laikā aktualizē eiropas federālās iekārtas problēmu. Tas var ieinteresēt visu sociālo šķiru spēkus ekonomisku vai ideoloģisku iemeslu dēļ. Federālai iekārtai varēs tuvināt diplomātisku pārrunu ceļā un aģitējot tautu, veicinot izglītotajās šķirās tām aktuālu problēmu pētīšanu un provocējot revolucionāras darbības, pēc kuru īstenošanas vairs nebūs iespējams atgriezties atpakaļ, ietekmējot uzvarētājas valstis vadošajās jomās un zaudētājās valstīs sludinot, ka tikai brīvā un apvienotā eiropā tās var rast glābiņu un novērst sakāves smagās sekas. Tieši tādēļ ir radusies mūsu Kustība. Tas ir pārākums un prioritāte attiecībā uz visām tuvākā laikmeta problēmām un drošība, ka gadījumā, ja ļausim situācijai vēlreiz nostiprināties vecajās nacionālisma sliedēs, uz visiem laikiem zaudēsim iespēju, un mūsu kontinentā nevarēs valdīt ilgstošs miers un pārticība. Tas viss mums ir licis izveidot autonomu organizāciju, lai veicinātu eiropas federācijas ideju kā īstenojamu mērķi pēckara laikā. Neslēpjam šīs problēmas grūtības un to spēku varu, kas darbojas pretējā virzienā, bet uzskatām, ka tā ir pirmā reize, kad šī probēma tiek izvirzīta politiskās cīņas arēnā nevis kā tāls ideāls, bet gan kā neatliekama, dramatiska vajadzība. Mūsu Kustība, kura slepus eksistē jau divus gadus fašisma un nacisma apspiestībā, kuras dalībnieki nāk no antifašisma aktīvistu rindām un vēlas ar ieročiem rokās cīnīties par brīvību, kas jau ir samaksājusi ar brīvību kopīga mērķa labad, mūsu Kustība nav politiska partija un negrib par tādu kļūt. Precīzāk, tā vēlas darboties dažādās politiskajās partijās un tās ietekmēt, līdz tiek aktualizēts internacionālisms, bet galvenokārt līdz visas tā politiskās dzīves problēmas tiek pasniegtas no šī jaunā skatpunkta, pie kura līdz šim nav bijis pierasts. 146
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Mēs neesam politiska partija, lai arī, aktīvi veicot visus pētījumus, kas attiecas uz institucionālo, ekonomisko un sociālo eiropas Federācijas iekārtu, un aktīvi piedaloties cīņā par tās īstenošanu un mēģinot izzināt, kuri spēki varētu darboties tās labā turpmākajā politiskajā apvienībā, nevēlamies oficiāli izteikties par institūcijām, par ekonomiskās kolektivizācijas un administratīvās decentralizācijas svarīgākajiem vai mazāk svarīgiem jautājumiem utt., kas būs raksturīgi turpmākajai federālajai struktūrai. Minētās problēmas plaši un brīvi apspriežam mūsu kustības iekšienē, un visas politiskās tendences, no komunistiskajām līdz liberālajām, tiek ietvertas mūsu kustībā. Gandrīz visi mūsu biedri piedalās kādā no progresīvajām politiskajām partijām: visi piekrīt aizstāvēt brīvas eiropas Federācijas pamatprincipus, kuras pamatā nav kādas valsts pārākums, ne arī totalitārisma sistēmas, un kurai piemīt strukturāls pamatīgums, kas to nepārvērš par vienkāršu tautu sabiedrību. Minētos principus var raksturot šādi: vienots federālais karaspēks, monetārā vienība, muitas robežu atcelšana un emigrācijas ierobežojumu atcelšana to valstu starpā, kas ir Federācijas dalībnieces, iedzīvotāju tieša pārstāvniecība federālās apvienībās, vienota ārpolitika. Šajos divos dzīves gados mūsu Kustība ir plaši izplatījusies antifašisma grupu un politisko partiju vidū. dažas no tām mums ir publiski izteikušas savu piekrišanu un atbalstu. Citas mūs ir aicinājušas sadarboties savu programmu formulējumu izstrādē. Varbūt vairs nav pārsteidzīgi apgalvot, ka daļēji, pateicoties mums, eiropas Federācijas problēmas tik bieži apspriež Itālijas pagrīdes presē. Mūsu žurnāls “eiropas vienotība” uzmanīgi seko līdzi notikumiem iekšpolitikā un ārpolitikā, izsakot par tiem absolūti neatkarīgu spriedumu. Šie raksti, kas ir ideju izstrādes rezultāts un pamats mūsu Kustības dzimšanai, pārstāv autoru viedokli un nekādā gadījumā nav pašas Kustības nostāja. Tie ir tikai tematu priekšlikumi diskusijai tiem cilvēkiem, kas vēlas pārdomāt visas starptautiskās politiskās dzīves problēmas, ņemot vērā neseno ideoloģisko un politisko pieredzi, jaunākos ekonomikas zinātnes rezultātus, nākotnes saprātīgākās perspektīvas. drīzumā tiks veikti citi pētījumi. Mēs vēlamies, lai rastos idejas, kas pašreizējā satrauktajā atmosfērā ieviestu skaidrību un veicinātu izlēmīgu, apzinātu un atbildīgu rīcību. Eiropas federācijas kustība Itālijā Romā, 1944. gada 22. janvārī 147
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Brīvai un vienotai Eiropai Manifesta projekts Altiero Spinelli – Ernesto Rossi I.
Modernās Civilizācijas krīze Modernās civilizācijas pamatā ir brīvības princips, kas paredz, ka cilvēks nedrīkst būt tikai instruments citu rokās, bet gan autonoma būtne. Visi tie sociālās dzīves aspekti, kas neatbilda minētajam principam, tika pakļauti pārbaudei lielā vēsturiskā procesā. 1) Ir atzīts, ka visām tautām ir vienlīdzīgas tiesības izveidot neatkarīgu valsti. Visām tautām, kuras nosaka pēc to etniskajām, ģeogrāfiskajām, lingvistiskajām un vēsturiskajām īpašībām valsts organizācijā, kas izveidota, ņemot vērā šo tautu specifisko politiskās dzīves jēdzienu, bija jāatrod instruments, kas vislabāk piemērots pašu vajadzībām bez jebkādas ārējas iejaukšanās. Nacionālās neatkarības ideoloģija bija spēcīgs progresa virzītājspēks, kas palīdzēja pārvarēt uzskatu aprobežotību, veidoja lielāku solidaritāti cīņā pret svešzemju apspiedējiem. Tā iznīcināja daudzus šķēršļus, kas traucēja cilvēku un preču apriti, un mazāk attīstīto tautu katrā jaunās valsts teritorijā tā veicināja attīstītāko tautu institūciju un iekārtu ieviešanu. diemžēl mūsu paaudze ir bijusi aculieciniece tam, kā kapitālisma impērijas aizmetņi attīs tās un izveido totalitāras valstis, un izraisa pasaules karus. Pašlaik tautu vairs neuzskata par vēsturisku cilvēku kopienu veidojumu, kas ilgstošā procesā ir radījis līdzīgas tradīcijas un izvirzījis līdzīgus mērķus, un uzskata savu valsti par visefektīvāko kolektīvās dzīves organizāciju visā sabiedriskajā iekārtā. Tieši otrādi ‐ tā ir kļuvusi par dievišķu vienību, par organismu, kam ir jādomā tikai par savu eksistenci un attīstību, nekādā veidā neņemot vērā ļaunumu, ko tā var nodarīt citiem. Nacionālo valstu absolūtā suverenitāte radīja vēlēšanos valdīt, jo 148
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katra valsts jūtas citu varas apdraudēta un uzskata aizvien plašāku teritoriju par savu “dzīves telpu”, kur tai ir brīvas pārvietošanās tiesības un kur tā ir pilnīgi neatkarīga. Šo vēlmi valdīt varētu apspiest tikai visspēcīgākā valsts, kas valdītu pār visām pārējām. Tā visa rezultātā valsts vairs nav civilās brīvības sargs, bet ir pārtapusi par verdzībai pakļauto iedzīvotāju saimnieku, un tās varā ir visas iespējas, kas vajadzīgas, lai nodrošinātu maksimālu efektivitāti militārajā jomā. Arī miera periodā, ko uzskata tikai par pārtraukumu, kurā gatavojas nenovēršamajiem turpmākajiem kariem, daudzās valstīs militārā šķira valda pār civilo sabiedrību, padarot aizvien sarežģītāku politisko sistēmu brīvu funkcionēšanu. Civilās politikas izpausmju, tādu kā skola, pētniecība, ražošanas administrācija, darbība ir sarežģīta un galvenokārt ir vērsta uz karaspēka varas palielināšanu. Mātes tiek uzskatītas par karavīru ražotājām, un tās apbalvo pēc tiem pašiem kritērijiem, pēc kuriem izstādēs apbalvo auglīgus zvērus; bērnus jau no agrām dienām māca apieties ar ieročiem un ienīst svešzemniekus. Individuālās brīvības gandrīz nav, jo visi pieder pie kāda militāra veidojuma, un tiek nepārtraukti iesaukti karaspēkā. Biežo karu dēļ vīriešiem ir jāpamet ģimene, darbs, īpašumi un jāziedo dzīve mērķiem, kuru nozīme un jēga nav izprotama. Tikai dažās dienās tiek izpostītas vairāku gadu desmitu pūles vairot kolektīvo pārticību. Totalitārās valstis ir tās, kas vissaskaņotākajā veidā ir sasniegušas visu spēku apvienošanos, īstenojot maksimālu koncentrāciju un augstāko autarķijas pakāpi, un tāpēc izrādījās vispiemērotākās mūsdienu starptautiskajai videi. Ja viena tauta sper soli pretim akcentētākam totalitārismam, tai nekavējoties sekos citas valstis, kuru vēlme izdzīvot liek izvēlēties tādu pašu ceļu. 2) Ir atzītas visu iedzīvotāju vienlīdzīgas tiesības piedalīties valsts gribasspēka veidošanā. Tam bija jāveido visu sociālo grupu brīvi izteikto, ekonomiski mainīgo un ideoloģisko vajadzību sintēzi. Šāda politiska organizācija ļāva labot vai mazināt iepriekšējā režīma lielāko konfliktu netaisnības. Preses un asamblejas brīvība, kā arī vēlēšanu tiesību paplašināšana aizvien vairāk sarežģīja veco privilēģiju aizsardzību, vienlaikus saglabājot valdības reprezentatīvo sistēmu. Nabadzīgākā šķira pakāpeniski iemācījās izmantot visus šos līdzekļus, lai cīnītos par tiesībām, kuras bija tikai pārticīgajai šķirai. Ienākumu, kas nav saistīti ar darbu, un mantojuma aplikšana ar sociālo nodokli, pieaugošas nodevas par lielākiem ienākumiem, minimālu ienākumu un neaizvietojamu preču atbrīvošana no nodokļiem, skološana valsts skolā par brīvu, sociālās apdrošināšanas izmaksu palielinājums, zemes reformas, fabriku un ražotņu kontrole ‐ tas viss apdraudēja priviliģētās šķiras to nostiprinātajos cietokšņos. Pat tās priviliģētās šķiras, kuras atbalstīja vienlīdzīgas politiskās tiesības, nevarēja atzīt to, ka zemākajām šķirām bija tiesības izmantot 149
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vienlīdzību, kas tām piešķirtu patiesu brīvību. Pirmā pasaules kara beigās draudi kļuva pārāk nopietni, un bija tikai dabiski, ka pārticīgo šķiras ar dedzību uzņēma un atbalstīja diktatūras ieviešanu, kas viņu pretiniekiem atņēma juridiskos ieročus. No otras puses, gigantisko rūpniecisko un banku kompleksu, kā arī arodbiedrību veidošanās, apvienojot strādnieku pulkus, grupas un apvienības, kas izdarīja spiedienu uz valdību, lai noteiktu tādu politiku, kas nepārprotami atbalstītu to īpašās intereses, apdraudēja pašas valsts iznīcināšanu daudzos ekonomiskajos magnātos, kuri skarbi cīnījās savā starpā. Liberālās, demokrātiskās iekārtas kļuva par instrumentu šādu grupu rīcībā, lai ietekmētu sabiedrību, tomēr aizvien vairāk zaudēja savu prestižu. Tādējādi izplatījās pārliecība par to, ka tikai totalitāra valsts, kurā būtu atcelta individuāla brīvība, varētu kaut kādā veidā atrisināt interešu konfliktus, ko vairs nevarēja paveikt pašreizējās politiskās institūcijas. Patiesībā vēlāk totalitārie režīmi, vispārīgi runājot, nostiprināja dažādas sociālās kategorijas tādā līmenī, ko tie pakāpeniski bija sasnieguši, izmantojot policijas spēkus katrā iedzīvotāju dzīves jomā un brutāli iznīcinot visus nepiekāpīgos. Šie režīmi aizliedza izmantot visas juridiskās iespējas esošās situācijas turpmākai koriģēšanai. Tādējādi tika nodrošināta absolūti parazītiskas šķiras eksistence. Tie bija neesošu zemju īpašnieki, ienākumu iekasētāji, kas veicināja sociālo ražošanu, monopola vadītāji un ķēdes veikali, kas izmantoja patērētājus un lika izgaist nelielu investoru naudai, plutokrāti no aizkulisēm izrīkoja politiķus, lai vadītu visu valsts mehānismu savās interesēs, izliekoties strādājam augstāko nacionālo interešu labā. Tikai daži sakrāja lielu bagātību, toties lielas masas kļuva nabadzīgas ‐ tām nebija nekādu iespēju baudīt modernās kultūras augļus. Tika saglabāts ekonomikas režīms, kurā materiālie resursi un darbaspēks, kas būtu jāvelta fundamentālu vajadzību apmierināšanai, lai attīstītu dzīvības enerģiju, tā vietā tika novirzīts uz tādu cilvēku bezjēdzīgu vēlmju apmierināšanu, kuri spēj par to samaksāt visaugstāko cenu; ekonomikas režīms, kurā, izmantojot mantošanas tiesības, naudas vara mūžīgi nonāk tās pašas šķiras rokās, kļūstot par privilēģiju, zaudējot sniegto pakalpojumu faktisko sociālo vērtību. Proletariāta iespēju joma joprojām ir tik ierobežota, ka strādnieki, lai nopelnītu iztiku, ir spiesti pieņemt jebkuru darba piedāvājumu. Lai strādnieku šķiras padarītu rīcībnespējīgas un paklausīgas, arodbiedrības no brīvām cīņas organizācijām, kuras vadīja cilvēki, kas bija ieguvuši savu sabiedroto uzticību, pārveidoja par policijas uzraudzības struktūrām, kuras vadīja valdošās šķiras izvēlēti un tai pakļauti darbinieki. Ja šādā ekonomikas režīmā veic uzlabojumus, to vienmēr diktē tikai militāras prasības, kas, saplūstot ar priviliģēto šķiru reakcionāriem mērķiem, ir veicinājušas totalitāro valstu rašanos un nostiprināšanos. 150
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3) Kritikas gara pastāvīga vērtība ir sevi pierādījusi pretstatā autoritāram dogmatismam. Visam apstiprinātajam bija jābūt patiesam un pamatotam vai arī bija jāizzūd. Šī attieksme veicināja sabiedrības lielākās uzvaras visās jomās. diemžēl gara brīvība neizturēja totalitāro valstu radīto krīzi. Visās zinātnes jomās virsroku gūst jaunas dogmas, kas tiek pieņemtas ticības vai liekulības dēļ. Lai arī viselementārākie vēsturiskie jēdzieni rasi definē kā kaut ko absurdu, imperiālistiem ir vajadzīgs mīts, ka cilvēks pieder noteiktai rasei, lai radītu masās ienaidu un lepnumu. Saprotamākie jēdzieni ekonomikas zinātnē ir jāuzskata par anatēmu, ja autarķijas politiku, tirdzniecības bilances un citus vecus merkantilisma faktorus pasniegtu kā neordinārus mūsu laika atklājumus. Pateicoties savstarpējai ekonomiskai atkarībai visās pasaules daļās, katrai tautai, kas vēlas saglabāt modernajai civilizācijai atbilstošu dzīves līmeni, par dzīves telpu kļūst visa pasaule. Taču ir izveidota ģeopolitikas pseidozinātne, kas vēlas pierādīt dzīves telpu teorijas derīgumu, lai imperiālistu vēlmei valdīt piešķirtu teorētisku likumīgu pamatojumu. Vēstures būtiskie fakti ir mainīti vadošo šķiru interesēs. No bibliotēkām un grāmatveikaliem pazūd visi darbi, kurus neuzskata par ortodoksāliem. Neskaidrība atkal draud nožņaugt cilvēka garu. Ir apdraudēta pati brīvības un vienlīdzības sociālā ētika: cilvēkus vairs neuzskata par brīviem pilsoņiem, kas izmanto valsti kolektīvu mērķu sasniegšanai, bet viņu mērķus nosaka tie cilvēki, kuriem ir vara, un šī vara tiek definēta kā valsts griba. Cilvēki vairs nav tiesiski subjekti, valdošajā hierarhijā tiem bez iebildumiem jāpakļaujas augstākstāvošām personām, kuras savukārt vada dievībai pielīdzināts vadītājs. Tas ir arī pamats kastu režīma atdzimšanai. Šī reakcionārā totalitārā civilizācija pēc uzvaras vairākās valstīs beidzot ieguva varu nacistiskajā Vācijā. Pēc rūpīgas sagatavošanās drosmīgi un bez vilcināšanās, izmantojot sāncensību, egoismu, citu cilvēku muļķību, satricinot pēc sevis citas eiropas vasaļu valstis (pirmo no tām Itāliju) un sadarbojoties ar Japānu, kurai bija tādi paši mērķi Āzijā, Vācija metās sagrābt varu. Tās uzvara nozīmētu galīgu totalitārisma nostiprināšanos pasaulē. Visas tā īpašības tiktu maksimāli nostiprinātas, un progresīvie spēki uz daudziem gadiem nonāktu neizdevīgā opozīcijā. Tradicionālā vācu militārās šķiras iedomība un neiecietība rada priekšstatu par to, kāds būtu to varas raksturs pēc uzvaras karā. Uzvarētāji vācieši varētu arī būt augstsirdīgi pret eiropas tautām, formāli respektējot to teritorijas un politiskās institūcijas, vienlaicīgi apmierinot cilvēku neīstās patriotiskās jūtas, kā arī izcilu politiķu godkārību, kuri vēlas nokļūt uzmanības centrā, nevis interesējas par varas attiecībām un faktisko valsts institūciju saturu. Lai kā maskēta, realitāte vienmēr ir tāda pati: atjaunots cilvēces sadalījums “spartakos” un vergos. Arī kompromiss starp abām cīnītāju pusēm 151
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nozīmētu turpmāku soli pretim totalitārismam, jo visas valstis, kas būtu izbēgušas no Vācijas varas, būtu spiestas pieņemt tādus pašus politiskās organizācijas veidus, lai pienācīgi sagatavotos turpmākajam karam. Bet ja Hitlera Vācija ir varējusi sakaut mazākas valstis vienu pēc otras, šī rīcība ir likusi aizvien spēcīgākiem pulkiem iziet kara laukā. drošsirdīgās Lielbritānijas cīņas spars arī viskritiskākajā brīdī, kad tā bija palikusi viena cīņā ar ienaidnieku, lika vāciešiem saskarties ar spēcīgo krievu karaspēka izturību un deva Amerikai laiku, kas tai bija vajadzīgs, lai mobilizētu savus nebeidzamos produktīvos resursus. Šī cīņa pret vācu imperiālismu ir cieši saistīta ar ķīniešu cīņu pret japāņu imperiālismu. Lielas cilvēku masas jau ir nostājušās pret totalitāro varu, kuras spēks ir sasniedzis kulmināciju un var tikai pakāpeniski izzust. Turpretim pretspēki ir izturējuši smagākos brīžus un atgūstas. Katru dienu sabiedroto karš atmodina vēlmi iegūt brīvību arī valstīs, kas bija pakļautas vardarbībai un kuras bija pazaudējušas savu ceļu saņemtā trieciena dēļ. Tas atmodināja šādu vēlmi tajās tautās, kas ir militārās alianses (Roma‐
Berlīne‐ Tokija) varas dalībnieces un apjauš, ka ir nonākušas bezcerīgā situācijā, lai tikai apmierinātu savu vadītāju alkas pēc varas. Lēnais process, kura dēļ lielas cilvēku masas pasīvi ļāva sevi veidot jaunajam režīmam, pielāgojās tam un pat veicināja tā nostiprināšanos, ir apturēts, un ir sācies pretējais. Šajā milzīgajā vilnī apvienojās visi progresīvie spēki, strādnieku šķiras gaišākie prāti, kas neļāvās izmisumam un mānīgām cerībām sevi iznīcināt centienos pēc augstāka dzīves līmeņa; intelektuāļi, kurus aizskāra apzināta inteliģences iznīcināšana, uzņēmēji, kas bija gatavi uzņemties jaunas iniciatīvas, gribēja atbrīvoties no birokrātiskiem slazdiem un nacionālās autarķijas, kas apgrūtināja viņu aktivitātes, un visi pārējie, kas iedzimta lepnuma dēļ neprata padoties kalpības pazemojumam. Šodien mūsu civilizācijas glābšana ir uzticēta visiem šiem spēkiem. II. Pēckara uzdevumi. Eiropas vienotība Vācijas sakāve tomēr nevarētu automātiski sakārtot eiropu saskaņā ar mūsu civilizācijas ideālu. Īsajā intensīvajā vispārīgās krīzes periodā (kurā valstis būs izpostītas, kurā tautas masas nepacietīgi gaidīs jaunu rīkojumu kā kausēta viela, ko viegli ieliet jaunās veidnēs, spējīga pakļauties nopietnu internacionālistu vadībai) šķiras, kas bija vairāk priviliģētas vecajās nacionālajās sistēmās, negodīgā vai vardarbīgā veidā mēģinās neitralizēt emociju vilni, internacionālisma kaislības un sāks stūrgalvīgi rekonstruēt vecās valsts struktūras. Iespējams, ka angļu vadītāji, vienojoties ar amerikāņiem, mēģinās virzīt lietas šajā jomā, lai atgūtu varas līdzsvaru politikā, acīmredzami savu impēriju tūlītējās interesēs. Konservatīvie spēki, tas ir, nacionālo valstu 152
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fundamentālo institūciju direktori, augstākie bruņoto spēku pārstāvji, ja iespējams, monarhijas, monopolistu kapitālisma grupas, kas ir savus ieņēmumus guvušas no valsts ieņēmumiem, lielu zemes platību īpašnieki un garīdznieku hierarhijas, kas savus parazītiskos ieņēmumus var gūt tikai stabilā konservatīvā sabiedrībā, kā arī tās cilvēku masas, kas no tiem ir atkarīgas vai kuras vienkārši ir maldinājusi tradicionālā vara. Visi šie reakcionārie spēki jau jūt, ka struktūra plaisā, un cenšas izglābties. Sabrukums tiem pēkšņi atņemtu visas garantijas, ko tie līdz šim baudījuši, un tie tiktu pakļauti progresīvo spēku uzbrukumam. REVOLUCIONĀRĀ SITUĀCIJA: VECĀS UN JAUNĀS TENdENCES Totalitāro režīmu sabrukums daudzām tautām nozīmēs brīvības iegūšanu, izzudīs visi ierobežojumi, un automātiski valdīs plaša vārda un asamblejas brīvība. Tas būs demokrātisko tendenču triumfs. Šādām tendencēm ir neskaitāmas nianses, sākot no ļoti konservatīva liberālisma līdz sociālismam un anarhijai. Tās tic “spontānai” notikumu un institūciju izveidošanai un absolūtai zemāko šķiru labvēlībai. Tās negrib par savu dievu uzskatīt “vēstures”, “cilvēka”, “proletārieša” vai kādu citu vārdu. Tās cer uz diktatūru beigām, iedomājoties to kā loģisku pašnoteikšanās tiesību atdošanu tautai. To lielākais sapnis ir konstitucionāla asambleja, ko ievēl plaša mēroga vēlēšanās un visprecīzāk respektējot vēlētāju tiesības, kuri nolemj, kādu konstitūciju vēlas. Ja tauta ir nenobriedusi, konstitūcija nebūs izdevusies, bet to labot varēs tikai ar konstantu pārliecināšanu. demokrātiskie grupējumi būtībā nenoliedz vardarbību, bet vēlas to izmantot tikai tad, kad vairums būs pārliecināts par tā nozīmību, proti, tieši tad, kad tas ir gandrīz paviršs punkts, ko uzlikt uz “i”. Tādēļ viņi ir piemēroti vadītāji tikai parastas administrācijas laikmetam, kad tauta kopumā ir pārliecināta par fundamentālo institūciju derīgumu, kurās būtu jāveic izmaiņas tikai mazsvarīgos aspektos. Revolucionārā laikā, kad institūcijas būtu nevis vienkārši jāadministrē, bet gan jāizveido, demokrātiskā prakse piedzīvo neveiksmi. Trīs neseni piemēri demokrātu nožēlojamajai bezspēcībai ir krievu, vācu un spāņu revolūcijas. Šādās situācijās, kad vecais valsts aparāts ar saviem likumiem un savu administrāciju ir kritis, nekavējoties uzplaukst asamblejas un tautu delegācijas, kurās visi progresīvie sociālie spēki saplūst kopā un veic aģitēšanu, izliekoties, ka respektē iepriekšējo likumību vai to nonievā. Tautai ir dažas fundamentālas vajadzības, bet precīzi tai nav zināms, ko tā grib un kā rīkoties. Tūkstošiem zvanu skan tās ausīs. Ar miljoniem prātu tai neizdodas sevi definēt un tā sadalās daudzās tendencēs, straumēs un frakcijās, kuras cīnās savā starpā. Brīdī, kad vajadzīga vislielākā izlēmība un drosme, demokrāti novirzās no ceļa, 153
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jo tiem nav spontāna tautas atbalsta, bet tikai neskaidrs kaislību satraukums. Par savu pienākumu viņi uzskata vienprātības sasniegšanu, un uzvedas kā pārliecinoši sprediķotāji, savukārt viņiem kā vadītājiem būtu jāsaprot, kur tie grib nonākt. Viņi zaudē labvēlīgas iespējas jaunā režīma nostiprināšanai un pat mēģina izveidot konkrētas struktūras, kurām vajadzīga ilgāka sagatavošanās un kuras būtu vairāk pielāgotas tūlītējai darbībai nosacīta miera periodos. Viņi dod saviem pretiniekiem ieročus, ar kuriem vēlāk paši tiek iznīcināti. Ar savām tūkstoš tendencēm tie pārstāv nevis gribu veikt atjaunošanu, bet apjukušu, vāju apņemšanos un vēlmes, kas valda visu prātos, kuras apturot, tiek sagatavota labvēlīga augsne reakcijas attīstībai. demokrātijas politiskās metodes ir smaga nasta revolucionārās krīzes periodos. demokrāti savās nebeidzamajās diskusijās pakāpeniski zaudēs savu sākotnējo popularitāti, un, ja nenotiks nopietnas sociālas un politiskas revolūcijas, viņi nenovēršami sāks atjaunot totalitārismu veidojošas politiskās institūcijas, un atkal atsāksies cīņa attiecībā uz vecajām šķiru opozīcijas shēmām. Princips, kas paredz, ka šķiru cīņa ir priekšnoteikums visu politisko problēmu samazināšanai, ir kļuvis par fundamentālu faktoru, jo īpaši fabriku strādniekiem, un ir veicinājis to politikas satura izveidi, pirms tika apšaubītas būtiskas institūcijas. Tas pārvēršas par proletariāta izolēšanas instrumentu, kad tiek uzspiesta vajadzība pārveidot visu sociālo organizāciju. Strādnieki, kas izglītoti šķiru sistēmā, pazīst tikai savas šķiras vai kategorijas īpašās prasības, nedomājot par to, kā tās savienot ar citu šķiru interesēm, vai arī tiecas pēc savas šķiras vienbalsīgas diktatūras, lai īstenotu utopisko visu ražošanas materiālu līdzekļu kolektivizāciju, ko laicīgā propaganda norāda kā brīnumzāles pret visām nelaimēm. Šī politika neiedarbojas ne uz vienu šķiru, izņemot strādniekus, kuri tādā veidā nesniedz atbalstu citiem progresīvajiem spēkiem vai ļauj tiem krist prasmīgi organizētas reakcijas nežēlastībā, lai apturētu pašu strādnieku kustību. Ņemot vērā dažādās proletāriešu tendences, kuras radušās no klasiskās politikas un kolektīvā ideāla, komunisti atzina, ka ir grūti mobilizēt spēkus turpmākām cīņām un atšķirībā no citām tautas partijām, tie ir pārveidojušies par stingri disciplinētu kustību, kas izmanto krievu mītu, lai izrīkotu strādniekus, bet nepieņem to noteikumus un izmanto strādniekus visneatbilstošākajās darbībās. Šāda attieksme revolucionārajās krīzēs padara komunistus iedarbīgākus par demokrātiem. Paturot strādnieku šķiru pēc iespējas vairāk atšķirtu no citiem revolucionārajiem spēkiem, sprediķojot, ka to “īstā revolūcija” vēl tikai priekšā, veido sektantisku elementu, kas izšķirīgos brīžos pavājina progresīvos spēkus. Turklāt viņu absolūtā atkarība no Krievijas, kas tos ir atkārtoti izmantojusi savas nacionālās politikas īstenošanai, liek tiem veidot jebkādu politiku, kam nav ne mazākās iespējas attīstīties. Viņiem vienmēr ir jāslēpjas aiz Karolija, Blūma un Negrina, lai pēc tam viegli aizietu iznīcībā kopā ar izmantotajām demokrātu marionetēm. Varu iegūst un saglabā 154
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ne tikai ar viltību, bet ar spēju organiski un vitāli izpildīt modernās sabiedrības vajadzības. Ja cīņa paliktu tradicionālajās nacionālajās robežās, būtu ļoti sarežģīti izbēgt no vecajiem strupceļiem. Nacionālās valstis tiešām ir jau tik pamatīgi izplānojušas savu ekonomiku, ka drīzumā galvenais uzdevums būtu noskaidrot, kurai ekonomikas grupai, tas ir, kurai šķirai, būtu jāvada uzraudzības plāns. Progresīvo spēku vienotība viegli tiktu iznīcināta ekonomisko šķiru un kategoriju juceklī. Visdrīzāk reakcionāri būtu tie, kas gūtu vislielāko izdevību. Īstai revolucionārai kustībai būs jārodas starp tiem, kas nav mācējuši kritizēt vecos politiskos apgalvojumus; tiem būs jāsadarbojas ar demokrātiskajiem spēkiem, ar komunistiem un ar visiem, kuru darbība panāktu totalitārisma sabrukumu, tai pašā laikā neiesaistoties nevienā no iepriekšminētajiem spēkiem. Reakcionārajiem spēkiem ir spējīgi līderi, kas ir mācīti komandēt un kas nežēlīgi cīnīsies, lai saglabātu savu pārākumu. Grūtā brīdī tie pratīs maskēties un pasludinās sevi par brīvības, miera un vispārējas labklājības, kā arī nabadzīgāko šķiru atbalstītājiem. Jau pagātnē redzējām, kā tie izmantoja tautas kustības un paralizēja, novirzīja, pārveidoja tās par kaut ko pretēju. Neapšaubāmi tas būs visbīstamākais spēks, ar ko būs jārēķinās. Tādējādi viņi varētu arī cerēt vieglāk apslāpēt pretinieku idejas, jo tautas masu līdz šim vienīgā politiskā pieredze ir tāda, kas veidojās nacionālajā vidē, un tāpēc ir samērā viegli tās un to tuvredzīgākos vadoņus ievirzīt vētras sakauto valstu atjaunošanā. Ja tiktu sasniegts šis mērķis, reakcija uzvarētu. Šīs valstis varētu būt ļoti demokrātiskas un sociālistiskas, varas atgriešanās reakcionāru rokās būtu tikai laika jautājums. Atdzimtu nacionālā greizsirdība, un katra valsts atkal gribētu īstenot savas vēlmes tikai ar bruņoto spēku palīdzību. Būtisks uzdevums būtu pārvērst tautas par karaspēkiem. Ģenerāļi atkal komandētu, monopolisti gūtu labumu no autarķijām, birokrātija pieaugtu, priesteri rūpētos par tautas masu pakļāvību. Visas sākotnējās uzvaras zaudētu nozīmi salīdzinājumā ar vajadzību atkal sagatavoties karam. Būtiskākā problēma, kas ir jāatrisina (ja tas neizdodas, jebkurš cits progress ir tikai šķietamība), ir galīgi atcelt eiropas sadalījumu nacionālās, suverēnās valstīs. Kontinenta lielākās daļas valstu sabrukums, atrodoties vāciešu varā, ir jau apvienojis eiropas tautas uz kopējas zemes: vai nu tās visas kopā pakļausies Hitlera vadībai vai nu pēc viņa režīma sabrukuma tajās visās sāksies revolucionārā krīze, kurā tās nebūs nelokāmi atdalījušās valstu struktūras. Jau tagad kopējā nostāja par eiropas federālu reorganizāciju ir spēcīgāka nekā agrāk. Rūgtā pieredze, kas gūta pēdējās desmitgadēs, ir likusi saprast situāciju un ir palīdzējusi nobriest daudziem apstākļiem, kas labvēlīgi mūsu ideālam. Visi saprātīgi cilvēki šobrīd atzīst, ka nevar saglabāt varas līdzsvaru starp eiropas valstīm, kamēr militārajā Vācijā līdztekus citām valstīm valda vienlīdzīgi noteikumi, nevar arī sadalīt Vāciju atsevišķās teritorijās un valdīt 155
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pār to, kad tā tiks uzvarēta. Ir pierādījies, ka neviena valsts eiropā nevar palikt neitrāla, kamēr pārējās cīnās: neitralitātes apliecināšana un pakti pret agresiju nav nekam derīgi. Ir pierādīts, cik neproduktīvas un pat ļaunprātīgas ir tādas organizācijas kā, piemēram, Nāciju līga, kas solīja nodrošināt starptautiskās tiesības, bez militāriem spēkiem īstenojot savus lēmumus un respektējot absolūtu dalībvalstu suverenitāti. Absurds izrādījās neiejaukšanās princips, saskaņā ar kuru katrai tautai bija jādod brīvība pašai izvēlēties despotisku valdību, tā it kā katras atsevišķas valsts konstitūcija neradīja būtisku interesi visās citās eiropas valstīs. daudzas problēmas, kas saindēja kontinenta starptautiskās attiecības, izrādījās neatrisināmas: mēģinājumi noteikt robežas teritorijās, kurās dzīvo dažādas tautas, svešu etnisku grupu aizsardzība, to valstu piekļuve jūrai, kuras atrodas kontinenta iekšienē, Balkānu jautājums, īru problēma, utt. Visi šie jautājumi eiropas Federācijā tiktu atrisināti vieglākā ceļā, tāpat kā pagātnē ‐ mazās valstis, kas kļuva daļa no lielākas nacionālās apvienības, zaudēja savu skarbumu, jo radās attiecību problēmas starp dažādām provincēm. No otras puses, pazūdot drošības sajūtai, ko izraisīja Lielbritānijas nepieejamība, kas angļiem radīja “izcilo izolētību”; Francijas Republikas un tās karaspēka izjukšana, saskaroties ar pirmo nopietno vāciešu karaspēku uzbrukumu (tā rezultātā, cerams, tika satriekta viņu šovinistiskā pārliecība par absolūto gallu pārākumu); un jo īpaši risks nokļūt verdzībā ‐ tie visi ir apstākļi, kas veicina federāla režīma izveidošanu, kurš, savukārt, pārtrauks pašreizējo anarhiju. Tas, ka Anglija jau ir atzinusi Indijas neatkarību, un ka Francija, iespējams, ir zaudējusi, atzīstot savas impērijas sakāvi, ļauj vieglāk rast pamatu vienoties par eiropas sakārtošanu jautājumā par koloniju īpašumiem. Šīm pārmaiņām pievienojas dažu svarīgāko dinastiju izzušana, un ieplaisā izdzīvojošo dinastiju pamati. Jāņem vērā, ka šīs dinastijas, kuras atbalstīja ietekmīgas personas, uzskatīja vairākas valstis par savām tradicionālajām privilēģijām, un tas bija nopietns šķērslis eiropas apvienoto valstu racionālai organizācijai, kuras pamatā var būt tikai visu federālo valstu republikāniska konstitūcija. Un, kad, šķērsojot Vecā Kontinenta horizontu, apvienosies visas tautas, kas veido cilvēci, būs jāatzīst, ka eiropas Federācija ir vienīgā iespējamā garantija, ka attiecības ar Āzijas un Amerikas tautām var attīstīt pēc mierīgas sadarbības principa, gaidot turpmākus notikumus, kuros kļūst iespējama visas pasaules vienota politika. Robeža starp progresīvo spēku un reakcionāru partijām vairs nav tāla no formālas demokrātijas, nedz arī lielāka vai mazāka ieviešamā sociālisma, visticamāk veidojas jauna līnija, kas nošķir partijas dalībniekus divās daļās. Pirmo cīņas mērķis ir nacionālās politiskās varas iekarošana, un tie ir spiesti sadarboties ar reakcionārajiem spēkiem, ļaujot nostiprināties kvēlojošām tautas kaislībām vecajās formās, tādējādi ļaujot 156
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atdzimt absurdajiem pieņēmumiem. Otrie ir tie, kuru galvenais uzdevums ir stipras starptautiskas valsts izveidošana, piesaistot šā mērķa realizēšanai tautas spēkus un, iekarojuši nacionālo varu, izmantos to starptautiskas vienotības sasniegšanai. Ar propagandu un darbību, mēģinot nostiprināt visos iespējamajos veidos vienošanos un saiknes starp atsevišķām kustībām dažādās valstīs, jārada pamati kustībai, kas spētu mobilizēt visus spēkus jauna organisma izveidošanai, kas būs vislielākais un jaunākais veidojums eiropā gadsimtu gaitā. Tas radīs spēcīgu federālu valsti, kurai piederēs eiropas karaspēks nacionālo karaspēku vietā; kas galīgi sašķels ekonomiskās autarķijas, totalitārā režīma mugurkaulu; kam būs pietiekami līdzekļu atsevišķās federālās valstīs pieņemt savus lēmumus, kuri paredzēti kopējās kārtības uzturēšanai, atstājot pašām valstīm autonomijas tiesības, kas ļaus tām elastīgi veidot un attīstīt politisko dzīvi saskaņā ar dažādu tautu specifiskajām īpašībām. Ja galvenajās eiropas valstīs būs pietiekams skaits cilvēku, kas to sapratīs, īsā laikā uzvara tiks gūta, jo situācija un kopējā nostāja būs tiem labvēlīga. Tiem būs jācīnās ar partijām un grupējumiem, kas būs bijuši pakļauti pēdējā divdesmitgadē gūtajai iznīcinošajai pieredzei. Pienāks laiks jaunai kustībai, un pienāks laiks arī jauniem cilvēkiem: LAIKS KUSTĪBAI PAR BRĪVU UN VIeNOTU eIROPU. III. Pēckara uzdevumi. Sabiedrības reforma Vienota un brīva eiropa ir nepieciešamais priekšnoteikums, lai nostiprinātu moderno civilizāciju, kura ir apturējusi totalitārisma ēru. Minētās ēras beigās pilnībā atdzims vēsturiskā cīņa pret sociālo nevienlīdzību un privilēģijām. Visas vecās konservatīvās struktūras, kas neļāva īstenot šo procesu, jau būs vai tiks sagrautas. Šī krīze ir jāizmanto drosmīgi un izlēmīgi. Lai izpildītu mūsu prasības, eiropas revolūcijai būs jābūt sociālistiskai, tas ir, tās mērķim jābūt strādnieku šķiru emancipācijai un cilvēcīgāku dzīves apstākļu īstenošanai. Orientēšanās šiem pasākumiem šai virzienā nav atkarīga tikai no doktrīnas principa, kas paredz, ka jāatceļ ražošanas materiālo līdzekļu privātīpašums un tas jāsaglabā tikai īslaicīgi, ja nav citas izvēles. Vispārējā valsts vara pār ekonomiku ir bijusi pirmā utopiskā forma, kādā strādnieku šķira iedomājās atbrīvoties no kapitālistiskā jūga. Kad tā ir īstenota, tā tomēr nav cerētā piepildījums, bet gan tieši otrādi ‐ veidojas režīms, kurā visa tauta kalpo konkrētai birokrātu šķirai, kas vada ekonomiku. Patiesi fundamentāls sociālisma princips, kurā kopīga kolektivizācija nav bijis nekas cits kā sasteigts un kļūmīgs secinājums, paredz, ka ekonomiskajiem spēkiem nav jāvalda pār cilvēku, bet ‐ kā dabas spēkiem ‐ tie jāvada un jākontrolē cilvēkam 157
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visracionālākajā veidā, līdz lielas masas nekļūtu to upuri. Lieli progresa spēki, kas rodas no individuālām interesēm, nedrīkst pazust pelēkajā rutīnā. Pretējā gadījumā radīsies tā pati neatrisināmā problēma: kā uzjundīt iniciatīvas garu, izmantojot algu palielinājumu un ieviešot citus līdzīgus noteikumus. Progresa spēki jāpieņem un jāpaplašina, tiem jāatrod lielākas attīstības un izmantošanas iespējas un vienlaicīgi jānostiprina un jāuzlabo elementi, kas minētos spēkus vada uz visai sabiedrībai izdevīgiem mērķiem. Privātīpašums ir jāatceļ un jāierobežo. Šāda nostādne dabiski iekļaujas eiropas ekonomikas dzīves veidošanas procesā, kas ir atbrīvota no militārisma murgiem vai nacionālā birokrātisma. Racionālam risinājumam pat strādnieku apziņā jāaizstāj iracionālais. Vēlēdamies jo īpaši izskaidrot šīs nostādnes saturu un uzsverot programmas katra punkta izdevīgumu, kā arī veidu, kā tas tiks īstenots, tos vienmēr vērtējot attiecībā uz nenovēršamo priekšnoteikumu ‐ eiropas vienotību ‐ mēs gribētu uzsvērt šādus aspektus. a) Uzņēmumi, kas veic monopolistisku darbību, tādējādi izmantojot patērētāju masas, vairs nedrīkst atrasties privātīpašumā, piemēram, elektroenerģijas nozares uzņēmumi vai tādi, kam ir jāizdzīvo vienotu interešu dēļ, bet kuriem, lai tie pastāvētu, nepieciešama muitas aizsardzība, subsīdijas, pasūtījumi, kam piemēro atvieglojumus, utt. (šāda veida ievērojamākais piemērs līdz šim ir bijusi metālapstrāde Itālijā), un tie uzņēmumi, kas investētā kapitāla apjoma dēļ, nodarbināto strādnieku skaita dēļ vai nozares svarīguma dēļ var šantažēt dažādas valsts struktūras, uzspiežot tām sev izdevīgāku politiku (piemēram, ieguves rūpniecība, vērienīgas banku iestādes, lieli bruņotie spēki). Šī ir joma, kurā būs neapšaubāmi jāveic nacionalizācija plašā mērogā, neraugoties ne uz kādām iegūtajām tiesībām; b) Pagātnē īpašumtiesības un pārmantošanas tiesības ļāva dažām priviliģētajām personām uzkrāt bagātības, kas revolucionārās krīzes laikā būs jāsadala vienlīdzīgā veidā, lai iznīcinātu parazītiskās šķiras un lai sniegtu strādniekiem ražošanas līdzeklus, kas tiem vajadzīgi, lai uzlabotu ekonomiskos apstākļus un sasniegtu lielāku neatkarību. Tāpēc domājam par lauksaimniecības reformu, kas paredz piešķirt zemes platības tās apstrādātājiem, ievērojami palielināsies zemes īpašnieku skaits, kā arī par rūpniecības reformu, kas paplašinās strādnieku īpašumtiesības nozarēs, kas nepieder valstij, izmantojot kooperatīvu vadību, darbinieku līdzdalību peļņas sadalē u.c.; c) Jānodrošina visi vajadzīgie nosacījumi, lai jauniešiem maksimāli palīdzētu jau sākuma pozīcijās garajā dzīves cīņā. Jo īpaši valsts skolās būs jāpiedāvā reālas iespējas studēt visiem, nevis tikai bagātākajiem studentiem, ļaujot iegūt augstākus grādus; tie būs jāsagatavo visās studiju nozarēs, 158
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arodskolās, daļēji profesionālajās skolās, kā arī brīvajā mākslā un dažādās zinātnes jomās, skolām būtu jāsagatavo noteikts studentu skaits atbilstoši tirgus prasībām, lai vidējais atalgojums būtu aptuveni vienlīdzīgs visās profesiju kategorijās, pat ja kādā kategorijā varētu būt atšķirīgs atalgojums, atkarībā no dažādām individuālām spējām; d) Gandrīz neierobežots potenciāls neatliekamās vajadzības preču ražošanā vairumā, izmantojot modernu tehniku, par salīdzinoši nelielām sociālajām izmaksām ļaus visiem nodrošināt gan dzīves telpu, gan uzturu un vajadzīgo minimālo komfortu, kas vajadzīgs, lai saglabātu cilvēka pašcieņu. Cilvēces solidaritāte pret tiem, kas ir pakļauti ekonomiskajai cīņai, nedrīkstētu izpausties veidā, kas pazemo un rada to pašu ļaunumu, kura sekas mēģina labot. Drīzāk būtu jāveic pasākumu kopums, kas bez nosacījumiem garantē pieklājīgu dzīves līmeni visiem, nemazinot stimulu strādāt un krāt. Tādējādi neviens izmisuma dēļ vairs nebūs spiests pieņemt despotiskus darba līgumus; e) Strādnieku šķiras atbrīvošana var notikt, ja tiks īstenoti iepriekšējos punktos minētie nosacījumi. Šīs šķiras nedrīkst atstāt monopolistu arodbiedrību ekonomikas politikas važās, kas vienkārši darba pasaulē ievieš liela kapitāla varas metodes. Strādniekiem atkal jāļauj brīvi izvēlēties priekšnieku, lai kopīgi vienotos par noteikumiem, ko tie vēlas ieviest savā darbā, un valstij būtu tiem jāpiešķir juridiski līdzekļi, lai garantētu noslēgtajā līgumā paredzēto noteikumu ievērošanu. Visas monopolistiskās tendences varēs efektīvi sagraut, kad tiks īstenota sociālā transformācija. Šīs ir pārmaiņas, kas vajadzīgas, lai izveidotu plašu iedzīvotāju grupu, kas ir ieinteresēta jaunajā kārtībā un vēlas cīnīties, lai to saglabātu, kā arī dot politiskajai dzīvei paliekošu brīvības zīmogu, ko iespiedusi spēcīga sociālās solidaritātes izjūta. Uz šiem pamatiem politiskā brīvība varēs tiešām iegūt reālu, nevis tikai formālu nozīmi visiem, jo iedzīvotāju masa būs neatkarīga un pietiekami informēta, lai veiktu nepārtrauktu un efektīvu valdošās šķiras kontroli. Būtu pavirši ilgstoši kavēties pie konstitucionālām iestādēm, jo, nevarot paredzēt apstākļus, kuros tām būs jārodas un jādarbojas, mēs tikai atkārtosim to, ko visi jau zina par vajadzību izveidot pārstāvniecības iestādes, par likumu pieņemšanu, tiesnešu neatkarību, kuri stāsies pašreizējo vietā, lai godīgā veidā piemērotu augstāku iestāžu izdotos likumus, par preses un asociācijas brīvību, lai informētu sabiedrību un sniegtu visiem iedzīvotājiem iespēju faktiski piedalīties valsts dzīvē. Tikai divos jautājumos ir jāprecizē idejas, jo tie šobrīd ir sevišķi svarīgi: valsts attiecības ar baznīcu un politiskās pārstāvniecības raksturs. a) Vatikāna noslēgtā alianse ar fašismu ir noteikti jāatceļ, lai apstiprinātu valsts patiesi laicīgo raksturu un lai nepārprotamā ceļā noteiktu valsts 159
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pārākumu civilās dzīves jomā. Reliģiozā ticība būs vienlīdz jārespektē, bet valstij vairs nedrīkst noteikt reliģiju sadalījumu; b) Fašisma kāršu namiņš, kas izveidots uz korporatīviem pamatiem, sabruks kopā ar citām totalitārās valsts daļām. Ir tādi, kas uzskata, ka no šī sabrukuma nākotnē varēs iegūt materiālu jaunai konstitucionālai kārtībai. Mēs tam nepiekrītam. Totalitārisma valstīs korporatīvās palātas ir veikls triks, ar kā starpniecību policija kontrolē strādniekus. Pat ja korporatīvās palātas būtu dažādu kategoriju ražotāju atklāta izpausme, profesionālo kategoriju pārstāvniecības iestādes nekad nevarētu iegūt tiesības, lai vienotos kopējās politikas jautājumos. ekonomikas jautājumos tās kļūtu par varas un privilēģiju iestādēm, pārstāvot arodbiedrību spēcīgākās kategorijas. Arodbiedrībām būs plašas sadarbības funkcijas ar valsts iestādēm, kuras atbildīgas par to jautājumu risināšanu, kas tiešā veidā saistīti ar arodbiedrībām, bet ir absolūti izslēgts, ka tām uzticēs jebkādu likumdošanas varu, jo tā rezultātā ekonomiskajā dzīvē izveidotos feodālā anarhija, kas atjaunotu politisko despotismu. daudzus, kas bez aizspriedumiem pieņēma korporatīvisma mītu, varēs iesaistīt struktūru atjaunošanā; bet tiem jāapzinās, cik absurds ir to vēlamais risinājums. Korporatīvismu var precīzi izteikt tikai tādā veidā, ko sniedz totalitārās valstis, lai vadoņi disciplinētu katru strādnieku kustību valdošās šķiras interesēs. Revolucionāru partiju nevarēs nemākulīgi organizēt izšķirošajā brīdī, tai jau tagad ir jāizveido vismaz sava galvenā politiskā nostāja, jāieceļ tās vadītāji un direktori, kā arī jānosaka sākotnējā rīcība. Tai nav jābūt vienveidīgai tendenču masai, kuru apvieno tikai negatīvais uz neilgu laikposmu (tas ir, to antifašisma pagātne un totalitārisma režīma sabrukšanas gaidīšana), režīms, kas gatavs iet katrs savu ceļu, tiklīdz mērķis būs sasniegts. Revolucionārā partija toties zina, ka tikai pēc tam sāksies tās darbs, un tāpēc tā jāveido cilvēkiem, kas vienojušies par galvenajām nākotnes problēmām. Tās propagandai jāiespraucas visur, kur pastāv pakļautība pašreizējam režīmam, un jāsāk no problēmas, kas ir vissāpīgāko pārdzīvojumu avots atsevišķiem cilvēkiem un šķirām un jāparāda, kāds var būt īstais risinājums. Bet no partijas piekritējiem kustības organizācijā jāiesaista tikai tie, kuriem eiropas revolūcija ir to dzīves galvenais mērķis; tie, kas disciplinēti katru dienu īsteno vajadzīgo darbu, slepus tai nodrošina nepārtrauktu un efektīvu drošību, arī izteikti nelegālās situācijās, un tādējādi veido ciešu strādnieku tīklu, pārliecinot mazāk aktīvos piekritējus. Neatstājot novārtā nevienu iespēju un nevienu jomu, lai sludinātu savu pārliecību, tai jāvērš sava darbība, pirmkārt, uz to vidi, kas ir nozīmīga kā ideju izplatīšanas centrs, un uz divām sociālajām grupām, kas ikdienā ir visaktīvākās un izlēmīgas nākotnes izšķirošajās situācijās, jāatzīst ‐ strādnieku šķira un intelektuāļu aprindas. Pirmā ir tā, kas vismazāk ir 160
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pakļāvusies totalitārisma triecienam, un kas būs gatava reorganizēt savas rindas. Intelektuāļi, jo īpaši jaunieši, ir tie, kurus garīgi visvairāk nospiež valdošais despotisms. Pakāpeniski kopējā kustība nenovēršami piesaistīs arī citas šķiras. Jebkura kustība, kuru neizdodas īstenot šo spēku alianses uzdevumā, ir lemta iznīcībai. Ja intelektuāļu kustībai nebūs vajadzīgā spēka, lai sagrautu reakcionāru pretestību, strādnieku šķira tai neticēs arī tad, ja tā apelēs pie demokrātiskām jūtām. Mobilizējot citas šķiras pret strādniekiem, tiks panākta draudošā fašisma atjaunošanās. Ja tā balstīsies tikai uz proletariātu, tai nebūs domu skaidrības, ko var radīt tikai intelektuāļi, un kas ir vajadzīga, lai atšķirtu jaunus uzdevumus un jaunus ceļus: tā paliks ieslodzīta vecajās šķirās, redzēs ienaidniekus visur un ņems vērā komunistu doktrīnas risinājumu. Revolucionārās krīzes laikā tieši šai kustībai ir jāorganizē un jāvada progresīvie spēki, izmantojot tautas vienības, kas veidojas spontāni, piemēram, dedzīgas plūsmas, kurās sajaucas revolucionārās masas, lai nevis radītu tautas nobalsošanu (plebiscītu), bet gaidot, kad tās tiks vadītas. Tas veido priekšstatu un drošību par to, ko veic nevis vēl neesošas tautas gribas ziedošanās, bet vēlme pārstāvēt modernās sabiedrības svarīgākās prasības. Šādā veidā tiek sniegti jaunās kārtības pirmie noteikumi, pirmā sociālā disciplīna lielām masām. Izmantojot šo revolucionārās partijas diktatūru, veidojas jauna valsts, un ap to ‐ jauna patiesa demokrātija. Nav jābaidās no tā, ka šāds revolucionārs režīms noteikti pārvērtīsies par atjaunotu despotismu. Tas var attīstīties, ja veidojas pakalpīga sabiedrība. Bet, ja revolucionārā partija darbosies noteikti no paša sākuma, lai radītu apstākļus brīvai dzīvei, kurā visi iedzīvotāji var piedalīties valsts dzīvē, veidosies vispārīga izpratne par jauno kārtību, pat ja radīsies mazsvarīgas politiskās krīzes. Ir pienācis brīdis, kad jāatmet viss vecais, kas rada šķēršļus ceļā uz jauno, kas ir tik atšķirīgs no visa, ko varēja iedomāties, un jārada jaunas enerģijas jauniešu vidū. Tie, kas ir uztvēruši pašreizējās eiropas civilizācijas krīzes motīvus, mēģina apvienoties un plānot nākotni. Tāpēc tie mācās no cilvēces attīstības mantojuma, lai skaidri apzinātos mērķi un līdzekļus tā sasniegšanai. Ceļš, kas ejams, nav ne viegls, ne drošs. Bet mērķim ir jāseko, un mēs to darīsim! Altiero Spinelli – Ernesto Rossi Ventotenes sala, 1941.gada vasara 161
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Lietuva Latvieđu lasîtâjam Pietro U. Dini Tai pirmasis „Ventotenės manifesto“ leidinys lietuviškai, jo išleidimu rūpinosi Italijos Lacijaus regiono administracija. Užduotis bent jau glaustai pristatyti Lietuvos skaitytojui leidinio autoriaus Altiero Spinelli (1907‐1986) asmenybę nėra nei paprastas, nei lengvai įvykdomas. Kodėl? Todėl, kad istoriniamesocialiniame Lietuvos kontekste nepavyktų aptikti veikėjo, kurį būtų galima sugretinti su Spinelli ir kuris būtų idealiai tinkamas, siekiant nušviesti intelektualią asmenybę, glaudžiai susijusią su pirmuoju vieningos Europos projektu Europos federalistinio judėjimo įsikūnijimu. Lietuvoje europietiškosios savimonės ištakos bei įvairios jos formos vienu ar kitu laikotarpiu išreikštos šešių šimtmečių tėkmėje, pradedant nuo Krikšto 1386‐1387 metais ir baigiant europietiškais Sąjūdžio šūkiais 1988‐1989 metais Baltijos identiteto protesto laikotarpiu. Tačiau Lietuvos istorija daugeliu atveju buvo labiau nukreipta į nepriklausomybės susigrąžinimą, norom nenorom labiau orientuota į santykių su galingais kaimynais puoselėjimą, tad Lietuvos istorijai tarsi nebeužteko pakankamai laiko pagimdyti Europos federacijos idėjų mąstytojus, kurie būtų galėję europietiškosios federacijos idėją susisieti su savojo krašto likimu. Du ilgus lietuviškojo atgimimo šimtmečius ‐ nuo XIX‐ojo iki XX‐ojo amžiaus, ‐ Lietuvos elitui nebuvo svetima vieningos Europos vizija, tačiau skaudūs pirmosios XX amžiaus pusės įvykiai (Vilniaus ir Klaipėdos statuso klausimai) atitraukė dėmesį nuo šių gairių. Žymiai paprasčiau Lietuvos skaitytojui bus perprasti tą aplinkybių kontekstą, kuriame suvešėjo Manifesto idėjinis gimimas bei konkretus išdėstymas. Altiero Spinelli tai atliko per 16 tremties metų Ventotenės saloje. Juk lietuvių šviesuomenei tremtis buvo puikiai pažįstama realybė. Būtent saloje ‐ toli nuo likusio pasaulio ir žmonių tarpusavio bendravimo ‐ Spinelli (čia, vykdant jo paties pareikštą valią, ilsisi jo pelenai) padarė savąjį „federalizmo atradimą”. Kas gi buvo tasai Altiero Spinelli? Šis tvirtai sudėtas, stambus vyras (neveltui vienas jo pseudonimų pogrindžio sąlygomis buvo „Pantagriuelis”) netgi pelnė Europos Mozės apibūdinimą. 162
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Iš tiesų, Spinelli buvo didis europietiškumo šalininkas. Niūriais pokario metais, vedamas Giuseppe Mazzini (filosofas, politikas, suvienytos Italijos karalystės šalininkas ‐ Vert.) įžvalgų, jis sukūrė tokį europietiškosios federacijos eskizą, kurio dėka Senajame kontinente kariniai konfliktai turėjo pasibaigti. Spinelli labiau nei kiti politikai pasižymėjo savo pastangomis įteisinti bei suteikti utopinei bei sentimentaliajai europietiškosios federacijos idėjai konkrečią politinę programą. Pokario metais jis įtraukė Europos federalizmą į pažangiųjų politinių jėgų kultūrinių svarstymų terpę, siekė šio tikslo savo rašytiniais veikalais bei politine veikla. Europietiškojo federalizmo projektą Spinelli įsivaizdavo kaip savotišką „panacėją” ar „revoliuciją”, kurios tikslas ‐ atsisakyti suverenių valstybių bei sukurti Jungtines Europos Valstybes. Kai Spinelli rašė, jog „tironijų valanda” bei sugriovimai, žudynės eina į pabaigą, jis turėjo galvoje tai, kas įvyko Vakarų Europoje ir, be abejo, negalėjo numatyti to politinio režimo, kuris netrukus įsigalėjo Vidurio ir Rytų Europoje. Tuo atveju, jeigu federalinis Altiero Spinelli projektas būtų įgyvendintas tokiu spartumu, kurį numatė pats jo kūrėjas, galimas daiktas, jo vykdymas būtų ištraukęs vadinamąją „Vidurio Europą” (vadinas, taipogi ir Lietuvą, Latviją, Estiją) iš tos daugiau kaip pusę šimtmečio trukusios užmaršties, būdingos pusės kontinento nūdienos istorinei politikai. Laimei, istorija bent šį kartą buvo įžvalgesnė už žmogiškąjį neįžvalgumą, ir nuo 2004‐ųjų metų gegužės pirmosios Europos Sąjunga (vienas jos krikštatėvių bei kūrėjų buvo ir Spinelli), pagaliau tapo realybe ir Lietuvos respublikai. 163
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Įžanga Eugenio Colorni (Roma, 1944) Sie raštai gimė ir buvo suredaguoti Ventoteno saloje 194 ir 1942 metais. Toje išskirtinėje aplinkoje ‐ itin griežto režimo gniaužtuose informacijos srautą tekdavo papildyti tūkstančiais įvairiausių būdų, nors ir slėgė priverstinio neveiklumo liūdesys ir nerimas dėl artėjančio išvadavimo, kai kurių žmonių sąmonėje brendo problemų, paskatinusių veiksmą ir požiūrį į kovą ‐ permąstymo procesas. Didelis atstumas iki konkretaus politinio gyvenimo suteikė galimybę žvelgti nepriklausomu žvilgsniu, persvarstyti tradicines pozicijas, ieškant praeities nesėkmių priežasčių ne tiek techninėse parlamentinės bei revoliucinės taktikos klaidose ar “nesubrendusios” situacijos kontekste, kiek bendrųjų įžvalgų nepakankamume sutelkiant kovą įprastinėse lūžio srityse ir nekreipiant dėmesio į naujus realybės pokyčius. Ruošiant didįjį ateities mūšį, kuris jau ryškėja netolimoje ateityje, buvo juntamas ne šiaip būtinumas ištaisyti praeities klaidas, o blaivia nuo doktrinieriškų prietarų ar partinių mitų galva apsvarstyti politikos problematiką. Štai tokiu būdu kai kurių žmonių protuose išsirutuliojo svarbi mintis, jog egzistencinė prieštara, gimdanti mūsų visuomenę smaugiančias krizes, karus, skurdą ir išnaudojimą ‐ tai egzistavimas suverenių valstybių, kurios geografiniu, ekonominiu ir kariniu požiūriu mato kitas valstybes kaip konkurentes bei potencialias priešininkes, sugyvena abipusės pagarbos principu, bet tik “perpetuo bellum omnium contra omnes” situacijos požiūriu. Priežasčių, dėl kurių tokia ‐ šiaipjau nenauja ‐ idėja įgijo naujumo aspektų būtent tose sąlygose ir tame kontekste, kuriame ji buvo puoselėjama, būta keleto: 1)Internacionalistinis sprendimo būdas įrašytas į visų pažangių partijų programas ir tų partijų požiūriu traktuojamas tam tikra prasme kaip privaloma ir kone savaiminė užsibrėžtų tikslų siekimo pasekmė. Demokratai mano, kad įvedus režimą dėl kurio jie kovoja kiekvienoje atskiroje valstybėje, formuotųsi vieninga visuomeninė nuomonė, ji savo ruožtu, peržengusi kultūros bei moralės ribas, taptų būtina prielaida laisvų tautų sąjungai politikos ir ekonomikos srityse. Tuo tarpu socialistai iš savo pusės galvoja, jog proletariato diktatūros režimo įtvirtinimas atskirose valstybėse savaime atvestų į internacionalinės kolektyvistinės valstybės sukūrimą. 164
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Šiuolaikiškos valstybės koncepcijos, su ja susijusių interesų ir jausmų analizė aiškiai rodo, kad nepaisant tam tikrų vidinių režimo sąlygų, kurios gal ir gali palengvinti draugiškus bendradarbiavimo santykius tarp valstybių, bet anaiptol neužtikrina savaiminio ir progesyvaus susivienijimo tol, kol egzistuoja kolektyvinis interesas išlaikyti uždaras sienas. Iš patirties žinome, kad šovinistiniai jausmai ir protekcionistiniai interesai gali lengvai atvesti prie konkurencinio susidūrimo tarp dviejų demokratinių valstybių. Ir vargu ar turtinga socialistinė valstybė būtinai sutiks dalytis savo gėrybėmis su kita, gerokai skurdesne socialistine valstybė vien todėl, kad abejose veikia panašus politinis režimas. Žodžiu, politinių ir ekonominių sienų panaikinimas tarp valstybių nėra būtinai susijęs su analogiško režimo įvedimu kiekvienoje iš valstybių. Tai greičiau atskirai spręstinas klausimas. Iš tiesų, neįmanoma būti socialistu ir tuo pat metu nebūti internalcionalistu, bet dėl ideologinių, o ne politinių ar ekonominių sumetimų. Socializmo pergalė atskirose valstybėse nebūtinai veda prie internacionalinės valstybės sukūrimo. 2) Individualiai akcentuoti federalizmo tezes skatino tai, jog egzistuojančios politinės partijos, praeityje vykdžiusios politinę kovą kiekvienos atskiros valstybės viduje, tradicijų ir papročių dėka įprato sieti šį klausimą su būtina tautinės valstybės prielaida bei vertinti tarptautinės sąrangos reikalus kaip “užsienio politikos” problematiką, tinkamą spręsti diplomatijos priemonėmis bei tarpvalstybiniais susitarimais. Tokia pozicija iš dalies yra priežastis, iš dalies ‐ pasekmė to požiūrio, kuris aiškina, jog paėmus į rankas valdžios svertus savo šalyje, susitarimai ar sąjunga su draugiškais režimais kitose valstybėse yra savaiminis dalykas, nereikalaujantis imtis jokios tam tikslui skirtos politinės kovos. Šių raštų autorių įsitikinimu, norint, kad tarptautinės sąrangos klausimas taptų esmine nūdienos problema ir kad jos sprendimas taptų būtina visų institucinių, ekonominių, socialinių mūsų visuomenės uždavinių sprendimo prielaida, reiktų visus vidinius partijų nesutarimus, kiekvienos partijos požiūrį į kasdienės kovos taktiką ir strategiją orientuoti būtent šia kryptimi. Visi klausimai, ‐ konstitucinių laisvių ir klasių kovos, planavimo, valdžios perėmimo ir jos panaudojimo, ‐ nušvistų naujoje šviesoje tuo atveju, jeigu būtų sprendžiami darant prielaidą, kad svarbiausias siektinas tikslas ‐ vieninga tarptautinė valstybinė sąranga. Politinė veiklos manevrai, vienų ar kitų veikiančių jėgų rėmimas, vieno ar kito šūkio akcentavimas taptų visiškai skirtingi, priklausomai nuo to ar svarbiausiu tikslu būtų laikomas valdžios perėmimas ir numatytų reformų vykdymas atskirose valstybėse, ar ekonominių, politinių, moralinių federalinės valstybės aprėpiančios visą kontinentą, būdingų prielaidų kūrimas. 165
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3) Kita ‐ bene pati svarbiausia – aplinkybė buvo ta, kad europietiškosios federacijos idealas kaip pasaulinės federacijos preliudija, vos prieš keletą metų buvo nepasiekiama utopija, o šiandien, šio karo pabaigoje, atrodo ranka pasiekiamas tikslas. Visiška tautų ir šalių sumaištis, kurią sukėlė vokiečių okupacija, būtinumas sukurti naują pamatą beveik absoliučiai sunaikintai ekonomikai, vėl iškelti visas valstybinių sienų, muito barjerų atkūrimo, etninių mažumų ir kitas problemas, pats pobūdis šio karo, kuriame nacionalinius motyvus nusvėrė ideologiniai, mažos ir didelės valstybės buvo priverstos atsisakyti savo suverenumo spaudžiamos kitų, galingesnių valstybių, o “gyvybinės erdvės” sąvoka fašistų dėka buvo pakeista “nacionaline nepriklausomybe”, ‐ visi šie elementai sako, kad pokaryje Europos federalinės sąrangos klausimas yra aktualus kaip niekada iki šiol. Juo galėtų būti suinteresuotos visas socialines klases atstovaujančios jėgos ‐ ir dėl idealų ir dėl ekonominių paskatų. Tikslo link galima būtų artėti diplomatinių derybų arba visaliaudinių bruzdėjimų būdu, išsilavinusių klasių tarpe skatinant su juo susijusių problemų studijas arba žadinant iš esmės revoliucinę situaciją, kuriai susidarius, jau nebebūtų įmanoma sugrįžti atgal; taip pat ‐ darant tam tikrą įtaką valstybių ‐ nugalėtojų vadovaujantiems sluoksniams, o nugalėtose valstybėse aiškinant, jog tik suvienytoje ir laisvoje Europoje galima bus išsivaduoti ir išvengti katastrofiškų pralaimėjimo pasekmių. Būtent todėl ir gimė mūsų judėjimas. Minėto klausimo viršenybė ir pirmumas tarp kitų epochos, į kurią žengiame, klausimų ‐ tai įsitikinimas, kad tuo atveju, jeigu leisime vėl įsigalėti senoms nacionalistinio pobūdžio klišėms, proga bus prarasta amžinai, ir nei taika, nei gerbūvis ilgam nebeįsigalės mūsų kontinente, ‐ visai tai mus paskatino sukurti savarankišką organizaciją, kurios tikslas ‐ skelbti Europos Federacijos idėją, kaip artimiausių pokario metų tikslą. Mes neslepiame ir patys nesislepiame už šio sumanymo sunkumų ar galingų jėgų, kurios veiks prieš mus. Bet mes tikime, kad pirmą kartą politinės kovos lauke iškyla tokia problema jau nebe kaip tolimas idealas, o kaip tragiškas, nenumaldomas būtinumas. Mūsų judėjimas jau du metus gyvuoja sunkiomis pogrindinės veiklos sąlygomis fašistinės ir nacistinės priespaudos kontekste; šio judėjimo dalyviai atėjo iš antifašistinės kovos gretų, jie visi ‐ už ginkluotą kovą dėl laisvės, kai kurie jų bendro tikslo vardan jau sumokėjo didžiulę laisvės atėmimo kainą; šis mūsų judėjimas vis tik nėra ir neketina būti politine partija. Jis žada dirbti su įvairiomis politinėmis partijomis bei tų partijų viduje ne vien tik tam, kad būtų ryškus jo tarptautinis pobūdis, bet ir tam, kad visos politinio gyvenimo problemos būtų matomos šiuo visiškai nauju regėjimo kampu, prie kurio iki šiol buvome menkai įpratę. 166
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Mes nesame politinė partija, nors ir skatiname domėtis institucinėmis, ekonominėmis, socialinėmis Europos Federacijos problemomis, nors ir aktyviai dalyvaujame kovoje dėl jos sukūrimo bei siekiame suvokti, kokios jėgos galės galės ją remti ateities politinėje konjuktūroje, mes neketiname oficialiai pasisakyti dėl institucinių scenarijų, dėl didesnio ar mažesnio ekonominės kolektyvizacijos laipsnio, dėl didesnio ar mažesnio administracinės decentralizacijos laipsnio ir visų kitų dalykų, kurie lems būsimąjį federalinį organizmą. Siekiame, kad mūsų judėjimo viduje šios problemos būtų plačiai ir laisvai aptartos, ir kad mes galėtume atstovauti visas politines kryptis, ‐ pradedant komunistine ir baigiant liberaliąja. Iš tiesų, prijaučiantieji mums darbuojasi beveik visose progesyviosiose partijose: visi pritaria kovai dėl pamatinių laisvosios Europos Federacijos principų, kurių ramsčiu nebūtų įvairios hegemonijos ar totalitariniai režimai, o struktūrinis jų tvirtumas imtų ir peraugtų dar vieną Tautų Sąjungą. Tuos principus galima būtų apibendrinti keliais punktais: vieninga federalinė kariuomenė, bendri pinigai, muitinių ir emigravimo iš vienos Federacijos valstybės į kitą panaikinimas, tiesioginis piliečių atstovavimas federalinės valdžios oragnuose, bendra užsienio politika. Per dvejus gyvavimo metus mūsų judėjimas plačiai paplito tarp įvairių antifašizmo grupių ir partijų, Kai kurios jų viešai pareiškė pritarimą ir simpatijas. Kiti pakvietė mus bendradarbiauti kuriant programines nuostatas. Nebus akiplėšiška tvirtinti: ta aplinkybė, jog Europos Federacijos problemos taip dažnai aptarinėjimos pogrindinėje Italijos spaudoje ‐ tai ir mūsų nuopelnas. Mūsų laikraštis „L‘Unita Europea“ (it. ‐ Europos vienybė) dėmesingai seka vidaus ir tarptautinės politikos įvykius bei pateikia visiškai nepriklausomus jų vertinimus. Šiaip ar taip, čia pateiktas veikalas ‐ vaisius tų idėjų, kurių dėka gimė mūsiškis judėjimas ‐ neatspindi jų autorių nuomonės ir nėra laikytinas paties judėjimo pozicija. Jis tiesiog siūlo diskusijų temas tiems, kurie turi noro permąstyti visas tarptautinės politikos problemas, vertinant naujos ideologinės bei politinės patirties, naujausių ekonomikos mokslo rezultatų bei racionalesnių, išmintingesnių ateities perspektyvų šviesoje. Šį veikalą greitai papildys kiti. Mes tikimės, kad tokioje nenumaldomo būtinumo veikti atmosferoje jie paskatins idėjų brendimą bei turės aiškinamąjį poveikį dar ryžtingesnei, sąmoningesnei, atsakingesnei veiklai. Italijos judėjimas už europos federaciją 1944 sausio 22, Roma 167
E. Colorni, Įžanga Eurostudium3w luglio-settembre 2011
Už laiSVą ir vieningą Europą Manifesto Projektas I. Šiuolaikinės visuomenės krizė Šiuolaikinė visuomenė savo pamatu pasirinko laisvės principą, kuris teigia, jog žmogus, užuot buvęs kitų įrankiu, turi tapti savarankišku gyvenimo centru. Įtvirtinus šį kodeksą, buvo sukurptas grandiozinis istorijos teismas visiems šio principo nesilaikantiems socialinio gyvenimo aspektams. 1) Buvo įtvirtinta visoms tautoms vienoda teisė steigti nepriklausomas valstybes. Kiekviena tauta, nustačiusi savo etninius, geografinius, lingvistinius, istorinius ypatumus, suvokusi sau tinkamą politinio gyvenimo koncepciją, privalėjo pati susikurti valstybės mechanizmą, kuris geriausiai atitiktų jos poreikių patenkinimą nepriklausomai nuo bet kokio poveikio iš išorės. Nacionalinės nepriklausomybės ideologija tapo galingu pažangos varikliu; ji padėjo įveikti menkaverčius atskirų individų interesus solidariai suvienydama prieš užsienio grobikų priespaudą; panaikino daugelį kliūčių žmonėms ir prekėms judėti; labiausiai atsilikusioms tautoms kiekvienos naujos valstybės teritorijoje perteikė kitų ‐ pažangesnių tautų ‐ institucinę sąrangą. Tačiau ši ideologija atnešė kapitalistinio imperializmo užkratą, mūsų karta savo akimis išvydo jo išbujojimą, atvedusį iki totalitaristinių valstybių susiformavimo ir pasaulinių karų protrūkio. Todėl tauta jau nebelaikoma istoriniu žmonių tarpusavio sambūvio produktu, kuris laikui bėgant, vienodėjant papročiams ir siekiams, tapo pačia efektyviausia kolektyvinio gyvenimo organizacijos forma visos žmonių visuomenės ribose. Ji tapo dieviškąja esybe, organizmu, pajėgiančiu rūpintis savo paties egzistencija ir vystymusi, visiškai nemąstančiu kitiems padaroma žala. Absoliutus nacionalinių valstybių suverenumas atvedė prie troškimo 168
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dominuoti kitų sąskaita, kadangi kiekviena valstybė jaučia kitos grasinančią galybę ir savo „gyvybinei erdvei“ priskiria vis platesnes teritorijas, suteikiančias galimybę laisvai judėti bei užsitikrinti pragyvenimo priemones nepriklausant nuo kitų. Šį dominavimo troškimą tegali nuslopinti kitOs, žymiai galingesnės valstybės hegemonija. Tokiu būdu valstybė iš piliečių laisvių puoselėtojos peraugo į šeimininkę, disponuojančią jai patarnaujančiais vasalais taip, kad būtų maksimaliai užtikrinta jos karinė galia. Netgi taikos laikotarpiai laikomi tam tikromis pauzėmis, reikalingomis ruoštis naujiems neišvengiamiems karams, jų metu kariškių valia daugelyje valstybių tapo svaresnė negu civilių, nors šitai gerokai apsunkina politinių valstybės įsipareigojimų ‐ švietimo, mokslo, gamybos, administracijų veiklos ‐ užtikrinimą, nes viskas skirta karinei galiai stiprinti. Motinos laikomos kareivių gimdytojomis, jos netgi skatinamos remiantis tais pačiais kriterijais, kuriais apdovanojamos vaisingos gyvulių patelės; vaikai nuo mažens pratinami prie ginklų ir neapykantos kitataučiams; minimaliai ribojamos asmens laisvės, nes sukarintoje aplinkoje visi bet kuriuo metu gali būti šaukiami atlikti karinę prievolę. Nuolat pasikartojantys karai skatina apleisti šeimą, darbą, turtą ir galiausiai ‐ paaukoti netgi gyvybę vardan tikslų, kurių reikšmės niekas nebesupranta. Tokiu būdu per kelias dienas sunaikinama viskas, kas buvo dešimtmečiais didelių pastangų dėka sukurta kolektyviniam gerbūviui pasiekti. Totalitarinės valstybės ‐ tai tos valstybės, kurioms pavyko efektingiau suvienyti visas pastangas, pasitelkiant maksimalų centralizacijos ir autarchijos lygį, kuo geriau prisitaikyti prie šiuolaikinės tarptautinės situacijos. Pakanka, kad kuri nors tauta žengtų vieną žingsnį į priekį dar didesnio totalitarizmo link, kitos tautos bematant paseks jos pavyzdžiu, stumiamos tokio paties išlikimo poreikio. 2) Įtvirtinta vienoda visiems piliečiams teisė formuoti valstybės valią. Ji tapo savotiška visų laisvai išreikštų socialinių klasių kintančių ekonominių ir ideologinių poreikių sinteze. Tokia politinė sandara suteikia galimybę pataisyti arba bent jau sušvelninti pačių aštriausių iš praeities paveldėtų režimų neteisingumus. Tačiau spaudos laisvė, laisvė jungtis į visuomenines asociacijas, progresyvus balsavimo sistemos išplėtimas gerokai apsunkino senųjų privilegijų gyvastį, išlaikant tą pačią reprezentacinę sistemą. Beturčiai netrukus išmoko pasinaudoti šiais svertais tam, kad atsigriebtų savo teises iš pasiturinčiųjų klasių. Socialiniai nedarbinių pajamų, paveldėjimų, progresyviniai stambaus turto mokesčiai, mokesčių panaikinimas mažai uždirbantiems ir pirmojo būtinumo turtui, nemokamas švietimas, gerėjantis socialinis aprūpinimas ir pensijos, žemės ūkio reformos, pramonės kontrolės 169
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perėmimas tapo grėsme privilegijuotųjų sluoksniui pačioje tvirčiausioje jo citadelėje. Tuo pat metu su politinių teisių lygiava sutikęs privilegijuotųjų sluoksnis neįstengė susitaikyti su tuo, kad neturtingųjų klasė galės iš tiesų pasinaudoti ta sukurta lygiava bei suteiks jai konkretų tikrosios laisvės turinį. Pasibaigus Pirmajam pasauliniam karui, toks pavojus tapo pernelyg grėsmingas, todėl visiškai natūralus dalykas, kad privilegijuotieji pasitiko karštais plojimais bei parėmė diktatūros įsigalėjimą, kuris išplėšė jų priešininkams iš rankų legalius ginklus. Kita vertus, gigantiškų pramoninių ir bankinių kompleksų susikūrimas iš vienos pusės, profsąjungų, subūrusių po savo sparnu ištisas darbuotojų armijas ‐ iš kitos, ir vienų ir kitų reikalavimai vykdyti kiekvienai pusei palankią politiką grėsė pačios valstybės suirimu į daugybę tarpusavyje aršiai kovojančių ekonominių grupių. Tos grupės, išnaudodamos demokratinę ‐ liberalią santvarką savo kolektyviniams interesams pasiekti, ėmė palaipsniui vis labiau prarasti savo prestižą, todėl ėmė plisti nuomonė, jog tiktai totalitarinė valstybė pajėgs kokiu nors būdu išspręsti tą interesų konfliktą, kurio egzistuojančios politinės institucijos daugiau nebemokėjo suvaldyti. Totalitariniai režimai iš tiesų sutvirtino visų socialinių kategorijų teises jų išsikovotų pozicijų ribose, tačiau primetė piliečių gyvenimui policijos kontrolę, žiauriai susidorojo su nepritariančiais bei uždraudė bet kokią legalią galimybę tolimesnėms visuomeninėms korekcijoms. Tokiu būdu savąją egzistenciją susitvarkė absoliučiai parazitinio pobūdžio sluoksnis: viskam abejingi žemvaldžiai, socialiniai išlaikytiniai, monopolistų sluoksniai ir vartotojus išnaudojančios, pasisavinčios smulkias piliečių santaupas bendrovės, užkulisiuose pasislėpę plutokratai prisidengiantys aukštais nacionalinių interesų pretekstais, bet tampantys už virvučių politikus tam, kad valdytų visą valstybės aparatą asmeninės naudos principais. Šitaip buvo išsaugoti kolosalūs turtai vieniems, užtat kitiems atimta bet kokia galimybė pasinaudoti moderniosios kultūros vaisiais. Iš esmės buvo išgelbėtas ir ekonominis režimas, jo materialinės gėrybės bei darbo jėga, tačiau užuot patenkinęs esminius poreikius gyvybinei žmonijos energijai vystyti, jis tenkina nereikšmingus įgeidžius tų, kurie pajėgia susimokėti. Toks ekonominis režimas, kai paveldėjimo teisė bei pinigų galia sukasi vis tame pačiame socialiniame sluoksnyje galiausiai virsta privilegija visiškai neatitinkančia realios socialinių patarnavimų vertės; tuo pat metu labai apribojamos galimybės darbo žmonių, kuriems išgyvenimo vardan belieka belieka sutikti su siūlančių bet kokį darbą išnaudojimu. Tam, kad išlaikyti supančiotą pavergtąją darbininkų klasę profesinės sąjungos ‐ laisvosios kovos organizacijos, vadovaujamos asocijuotų narių pasitikėjimą turinčių asmenų ‐ buvo paverstos policinės priežiūros organais, o 170
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jų prievaizdais paskirti tarnautojai iš šeimininkaujančios grupės, kuriai jie ir atsakingi. Jeigu toks ekonominis režimas ir neprieštarauja kokiai nors visuomenės korekcijai, ją paprastai nulemia karinio pobūdžio poreikiai, sutampantys su reakciniais privilegijuotų sluoksnių ketinimais įsteigti ar sutvirtinti vieną ar kitą totalitarinę valstybę. 3) Autoritarinio dogmatizmo akivaizdoje sutvirtėjo kritinė dvasia bei nuolatinė jos vertė. Visai tai, kas buvo bandoma įtvirtinti, turėjo pasiteisinti arba išnykti. Šis objektyvaus požiūrio metodiškumas buvo įtvirtintas platesnių mūsų visuomenės iškovojimų dėka kiekvienoje srityje. Tačiau šis dvasingas laisvamaniškumas neatsilaikė prieš krizę, iškilusią dėl totalitarinių valstybių atsiradimo. Visose mokslo srityse įsigalėjo naujos dogmos, ‐ jomis teko tikėti ir sutikti arba sutikti veidmainiškai netikint. Nors niekas nežino, kas yra rasė, o patys elementariausi istorijos teiginiai sako, kad tai yra absurdas, iš tikėjimo fiziologijos meistrų buvo reikalaujama tikėti, įrodyti ir įtikinti, jog ta ar ana priklauso išrinktųjų rasei, nes imperializmui šis mitas būtinas tam, kad sužadintų masėse neapykantą ir išdidumą. Patiems iškiliausiems ekonomikos mokslo postulatams nieko nelieka kaip užsitraukti prakeiksmą, nes jie privalo pateikti autarchijos politiką, subalansuotus mainus ir kitus atgyvenusius merkantilizmo įrankius kaip nepaprastus nūdienos atradimus. Dėl visų pasaulio kraštų ekonomikos tarpusavio sąsajų gyvybinė kiekvienos, šiuolaikišką gyvenimo lygį palaikyti trokštančios tautos gyvybine erdve tapo visas Žemės rutulys, todėl susiformavo geopolitikos pseudomokslas, ketinantis įrodyti gyvybinių erdvių teorijos vertingumą tam, kad suteiktų imperializmo užkariavimams teorinį rūbą. Istorija iš esmės klastojama viešpataujančios klasės patogumui. Bibliotekos ir knygynai išvalomi nuo ortodoksiškais pripažintų kūrinių. Obskurantizmo sutemos vėl grąsina užgniaužti žmogiškąjį dvasingumą. Socialinės laisvės ir lygybės etikos autoritetas sugriautas. Žmonės jau nebelaikomi laisvais piliečiais, kurie savo valstybe naudojasi kolektyviniams tikslams siekti, nes valstybės valia tampa valdžią savo rankose sutelkusiųjų valia. Žmonės jau nebėra teisės subjektai, jie, priklausomai nuo hierarchinės padėties, privalo be jokių atsikalbinėjimų paklusti aukštesniajai valdžiai, kurios kulminacija tampa iki dievybės pakeltas vadas. Kastų režimas veržliai atgimsta iš savo paties pelenų. Tokia reakcinė ‐ totalitarinė visuomenė, triumfališkai nugalėjusi daugelyje šalių, savo galybę galiausiai įkūnijo nacistinėje Vokietijoje, jai ir priskirtinos šių žabangų pasekmės. Kruopščiai pasirengusi, drąsiai, be skrupulų pasinaudojusi kitų nesutarimais, savanaudiškumu, kvailybe, prigriebusi drauge su savimi kitas valstybes ‐ vasalus, o pirmiausiai ‐ Italiją, susivienijusi su Japonija, siekiančia panašių tikslų Azijoje, ji metėsi į užkariavimus. Jos pergalė reikštų galutinį totalitarizmo sutvirtėjimą pasaulyje. Visi jos ypatumai būtų 171
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maksimaliai užaštrinti, o pažangiosios jėgos būtų pasmerktos ilgalaikei negatyviai opozicijai. Tradicinė vokiečių kariškių arogancija ir nesukalbamumas gali mums paaiškinti jų viešpatavimo pobūdį tuo atveju, jeigu karas baigtųsi jų pergale. Jeigu nugalėtų, vokiečiai galbūt netgi galėtų būti Europos tautų atžvilgiu apgaulingai mielaširdingi, formaliai gerbti jų teritorinį vientisumą, politines institucijas, patenkindami tokiu būdu kvailus patriotinius jausmus, kurie verčia atsižvelgti į pasienio stulpų spalvas ar į politikos veikėjų tautybę, o ne į jėgų santykį ir į realųjį valstybės aparato turinį. Kad ir užmaskuota, tikrovė būtų visvien ta pati: atnaujintas žmonijos pasidalijimas į spartiečius ir helotus. Netgi kompromisinė išeitis tarp kariaujančių pusių reikštų dar vieną žingsnį totalitarizmo link, nes visos šalys, išvengusios Vokietijos glėbio, būtų priverstos perimti tas pačias politinės organizacijos formas bei adekvačiai ruoštis naujam karui. Bet kadangi hitlerinei Vokietijai pavyko vieną po kito sumušti mažąsias valstybes, jos veiksmai privertė žengti į karo areną vis galingesnes jėgas. Drąsi Didžiosios Britanijos priešprieša netgi kritiškiausiu momentu, kai ji liko viena priešo akivaizdoje, privertė vokiečius susidurti su įnirtingu sovietinės kariuomenės pasipriešinimu bei tuo pat metu suteikė Amerikai laiko, kad galėtų įjungti neišmatuojamus pramonės resursus. Ši kova prieš vokiškąjį imperializmą glaudžiai sutapo su kinų tautos kova prieš japoniškąjį imperializmą. Daugybė žmonių bei turtų jau yra nukreipti prieš totalitarizmo galybę, šios jėgos jau pasiekė savo kulminaciją, dabar jos tegali būti laipsniškai panaudotos. Tuo tarpu priešiškosios jėgos jau peržengė kritinį momentą ir vėl yra pakilimo taške. Sąjungininkų kova kasdien žadina vis didesnį išlaisvinimo troškimą netgi tose šalyse, kurios buvo priverstos paklusti prievartai ir susmuko nuo patirto smūgio; tą patį troškimą ji žadina netgi Ašies jėgų tautose: jos susigriebė, kad yra valdovų įstumtos į beviltišką padėtį dominavimo troškimams patenkinti. Lėtas procesas, kurio dėka daugybė žmonių pasyviai sutikdavo su naujuoju režimu, prie jo prisitaikydavo ir tokiu būdu jį sustiprindavo, sustabdytas. Šioje didžiulėje lėtai sukilusioje bangoje atsidūrė visos pažangiosios jėgos, šviesiausioji darbo klasės dalis, ji nesileido įbauginama ar suviliojama aukštesniųjų gyvenimo formų siekiais; sąmoningiausi intelektualiųjų sluoksnių atstovai, pasibaisėję išminties nuosmukiu; iniciatyvų kupini verslininkai, trokštantys išsivaduoti iš biurokratijos ir nacionalinių autarchijų gniaužtų, kaustančių kiekvieną judesį; visi tie, kurie įgimto orumo dėka neįstengia lenkti stuburą žeminančioje vergijoje. 172
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Visoms šioms jėgoms šiandien yra patikėtas mūsų visuomenės išgelbėjimas. II. Pokario užduotys. Europos vienybė Vokietijos sutriuškinimas neatvestų Europos prie savaiminės pertvarkos pagal mūsų visuomenės idealųjį pavyzdį. Trumpos ir intensyvios bendro pobūdžio krizės metu (sugriautose valstybėse liaudies masės neramiai lauks naujoviškų žodžių, jos taps karšta, išsilydžiusia materija, įtariai laukianti, kol įgaus naują formą, kuri nesipriešins internacionalistiškai nusiteikusių žmonių vadovavimui), senųjų nacionalinių sistemų privilegijuotieji visuomenės sluoksniai bandys patyliukais arba jėga sumenkinti internacionalistinių jausmų ir aistrų bangą bei atkakliai sieks atkurti senuosius valstybės organus. Tikėtina, kad anglų vadovybė, susitarusi su amerikiečiais, bandys veikti šia kryptimi: atstatyti jėgų pusiausvyros politiką jų pačių artimiausių imperinių interesų vardan. Konservatyviosios jėgos ‐ nacionalinių valstybių svarbiausiųjų institucijų vadovai, ginkluotųjų pajėgų viršūnės, išlikusios tebeegzistuojančiose monarchijose, tos monopolistinio kapitalizmo grupės, kurios susiejo savo pelno likimą su nacionalinėmis valstybėmis, stambieji žemvaldžiai ir ekleziastinė hierarchija, galinti tik stabiliai konservatyvioje visuomenėje užsitikrinti savo parazitinio pobūdžio įplaukas ir visas pulkas iš paskos tų, kurie yra nuo šių grupių priklausomi arba yra apakinti tradicinės jų galios, ‐ visos tos reakcinės jėgos, jau šiandien girdinčios, kaip girgžda rūmas, bandys išsigelbėti. Griūtis iš jų atimtų visas iki šiol turėtas privilegijas bei pasmerktų progresyviųjų jėgų antpuolio pavojui. REVOLIUCINĖ SITUACIJA: NAUJOS IR SENOS SROVĖS Totalitarinių režimų griūtis daugeliui tautų išreikštų laisvės atėjimo jausmus, išnyktų bet kokie apribojimai, vėl savaime įsiviešpatautų pačios plačiausios žodžio ir dalyvavimo laisvės. Tai bus demokratinių tendencijų triumfas. Šios tendencijos pasižymi daugybe įvairių atmainų ‐ nuo labai konservatyvios laisvosios prekybos politikos iki socializmo bei anarchijos. Jos tiki spontaniškąja įvykių ir institucijų evoliucija, absoliučiu gerumu tų impulsų, ateinančių iš apačios. Jos nenori skubinti nei istorijos, nei tautos, nei proletariato ir kitokių savo dievybių. Jos linki, kad baigtųsi diktatūra, įsivaizduodamos tą pabaigą kaip amžinos apsisprendimo teisės sugrąžinimą tautai; jų svajonių apvainikavimu taptų steigiamoji asamblėja, išrinkta kiek įmanoma platesne 173
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balsų dauguma, kiek įmanomai kruopščiau gerbiant rinkėjų teises; ta asamblėja ir nuspręstų, kokią pasirinkti konstituciją. Jeigu tauta dar nesubrendusi, pasirinktų griežtą pagrindinį įstatymą, bet taisytų jį tik tuo pat metu vykstant aiškinamajam ‐ įtikinėjimo darbui. Demokratai prievartos iš principo neatsisako, bet žada griebtis jos tik tais atvejais, kai dauguma būtų įsitikinusi prievartos būtinumu, kitaip tariant, kai jos naudojimą nenulemtų vienas taškas ant „i“; tokios direktyvos būtų taikomos tik įprastinės administracijos laikotarpiu, kai tauta iš esmės yra įsitikinusi pagrindinių institucijų tinkamumu, koreguojant jas neesminiais klausimais. Revoliucinių laikotarpių metu, kai institucijos turi būti ne administruojamos, o kuriamos, demokratinės praktikos principas tampa visiškai nebetinkamas. Apgailėtina demokratų negalia rusų, vokiečių, ispanų revoliucijų metu ‐ tai trys naujausi pavyzdžiai. Tokiose situacijose, kai subyra senasis valstybės aparatas, knibždėte knibžda daugybė liaudies asamblėjų ir atstovų institucijų, į jas jungiasi, jose blaškosi visos progresyvios socialinės jėgos, kiekviena su savo įstatymais ir administracijomis, jos arba stengiasi panėšėti savo logika į buvusias arba jas niekinti. Tauta reiškia esminius poreikius, bet tiksliai nežino, ko pageidauti, ko imtis. Tautos ausyse ‐ tūkstančio varpų gausmas. Ji su savo milijonais galvų nesugeba orientuotis ir subyra į atskiras tarpusavyje kovojančias grupes. Būtent tuo momentu, kai reikalingas aiškus apsisprendimas ir drąsa, demokratai jaustųsi pasimetę neturėdami spontaniško, plataus liaudies pritarimo, o viso labo drumzliną aistrų verpetą. Manydami, kad jų pareiga ir yra gauti šį pritarimą, jie prisistatytų kaip įkalbinėjantys pamokslininkai kaip tik tada, kai reikalingi vadovai, išmanantys, kurlink reikia vesti. Jie praleistų palankias naujo režimo sutvirtinimo progas, stengdamiesi, kad institucijos, reikalaujančios ilgo paruošimo bei labiau tinkančios ramybės laikotarpiams, veiktų tuoj pat. Jie suteiktų savo priešininkams metų metus, kuriais pastarieji pasinaudotų tam, kad juos pačius nuverstų. Savo daugialypėmis veiklos kryptimis jie atstovauja ne aiškią valią atsinaujinti, o miglotus, nedrąsius visų pageidavimus, kurie, savo ruožtu, vienas po kito patirdami paralyžių, patys ruoštų palankią dirvą reakcingoms jėgoms vystytis. Politinė demokratų metodologija revoliucinių krizių metu taptų bereikšmiu baląstu. Tuo metu, kol demokratai alintų beprasmiškose diskusijose savo pirminį laisvės šalininkų populiarumą nepasiūlydami jokios rimtos socialinės ir politinės revoliucijos, neišvengiamai vėl atgimtų ikitotalitarinės politinės institucijos, ir kova vėl atsinaujintų pagal senąsias klasių susidūrimo schemas. Principas, pagal kurį klasių kova tampa galutiniu visos politinės problematikos tikslu, suteikė esminę nuorodą fabrikų darbininkams ir tapo naudingu jų politikos pagrįstumui tol, kol nebuvo sutvarkytos svarbiausios 174
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institucijos; bet šis principas tampa proletariato izoliacijos įrankiu tada, kai atsiranda būtinybė pakeisti ištisą visuomenės struktūrą. Klasiniu principu išauklėti darbininkai tesugeba regėti savo klasės arba netgi kategorijos reikalavimų smulkmenas, visiškai nesirūpindami kitais visuomenės luomais arba siekia vienpusiškos jų klasės diktatūros tam, kad galėtų įgyvendinti utopinę visų materialių gamybos priemonių kolektyvizaciją, kurią pasaulietinė propaganda siūlo kaip vienintelį receptą visoms blogybėms išspręsti. Ši politika nesugeba įsitvirtinti nė viename kitame sluoksnyje, išskyrus tą vieną ‐ darbininkų, tokiu būdu jis lieka be kitų pažangių jėgų paramos arba palieka jas reakcijos malonei, kuriai belieka apsukriai veikti ir smogti į paširdžius visam proletariato judėjimui. Tarp įvairių proletarinių tendencijų būtent komunistai ‐ klasinio pobūdžio politikos ir kolektyvizmo idealų sekėjai‐ pripažino sunkumus bandant užsitikrinti papildomų pergalei reikalingų jėgų paramą ir todėl, skirtingai negu kitos tautinės partijos, persikūnijo į griežtai disciplinuotą judėjimą, įkvėptą rusiško darbininkų telkimo mito, tačiau juo neseka, o tik taiko pačiais neįtikimiausiais atvejais. Tokia pozicija revoliucinių krizių atvejais komunistams suteikia daugiau veiksmingumo negu demokratams, tačiau siekdami, kiek įmanoma, išlaikyti darbininkų klasę kuo toliau nuo kitų revoliucinių jėgų, pamokslaudami apie savo „tikrąją“ revoliuciją, kuri esą dar tik įvyks ateityje, jie lemiamais momentais tampa sektantiniu, viską silpninančiu elementu. Be to, jų absoliuti priklausomybė nuo rusų valstybės, kuri savo ruožtu juos pačius ne vieną kartą išnaudojo savo nacionalinės politikos tikslams, kliudo vykdyti kokią nors minimaliai pastovią politiką. Jiems vis prireikia slėptis už Krolyj, Blum, Negrin nugarų, kol galų gale žlunga visi drauge su savo demokratinėmis marionetėmis, nes valdžią tenka iškovoti ir išlaikyti ne šiaip paprasčiausių gudrybių dėka, o pasitelkus gebėjimą darniai bei gyvybiškai reaguoti į šiuolaikinės visuomenės poreikius. Jeigu rytoj kova tebeliktų tradicinės nacionalinės erdvės ribose, būtų labai sunku išvengti buvusių prieštarų. Nacionalinės valstybės jau ėmėsi taip esmingai planuoti savo ekonomiką, jog labai greitai svarbiausiuoju klausimu taptų išsiaiškinti, kuri ekonominių interesų grupė arba kuri klasė turėtų griebtis to plano vykdymo vadžių. Pažangiųjų jėgų frontas paprasčiausiai subyrėtų klasių ir ekonominių kategorijų tarpusavio rietenose. Naudos iš viso to greičiausiai turėtų reakcijos atstovai. Tikrasis revoliucinis judėjimas turės iškilti tarp tų, kurie sugebėjo kritiškai įvertinti senąsias politines nuostatas, jam teks bendradarbiauti su demokratijos jėgomis, su komunistais, ir su visais, kurie prisideda prie totalitarizmo sunaikinimo, bet nesileidžia sugundomi nė vienos šių jėgų. 175
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Reakcinės jėgos turi savo žinioje išsilavinusių žmonių, lanksčių bei vadovauti sugebančių darbuotojų, kurie aršiai kausis, kad išlaikytų savo viešpatavimą. Sunkiausiais momentais jie prisistatys pakeitę išvaizdą, apsiskelbs laisvės, taikos, visuotinio gerbūvio, pačių neturtingiausiųjų rėmėjais. Praeityje turėjome progos matyti, kaip jie įsiskverbė į liaudies judėjimus, juos paralyžiavo, suklaidino, suteikė jiems visiškai priešingą pobūdį. Be abejonės, jie taps ta pavojingiausia jėga, su kuria teks susidurti. Tos jėgos pabandys remtis nacionalinių valstybių atkūrimu. Todėl jos galės paveikti populiariausius, labiausiai naujųjų judėjimų pažeistus, ir lengviausiai reakciniams tikslams panaudojamus ‐ patriotizmo ‐ jausmus. Šitaip jos tikėsis paprasčiausiu būdu sujaukti priešininkų idėjas, juk vienintelę liaudies masių įgytą politinę patirtį riboja nacionalinė erdvė, būtent todėl būtų pakankamai nesudėtinga liaudies mases bei labiausiai netoliaregius jų vadovus pastūmėti valstybių, kurias sumaitojo uraganas, atkūrimo link. Jeigu šis tikslas būtų pasiektas, reakcija švęstų pergalę. Netgi regimai demokratiškose, socialistinėse valstybėse valdžios sugrįžimas į reakcininkų rankas vis vien būtų tik laiko klausimas. Vėl atgimtų nacionalinė nesantaika, ir kiekvienai iš tų valstybių vėl rūpėtų savo poreikius patenkinti tiktai ginklo jėgos pagalba. Esminiu, daugiau ar mažiau skubiu uždaviniu vėl taptų tautų pavertimas kariuomenėmis. Generolai vėl imtųsi vadovauti, monopolistai vėl pelnytųsi iš autarchijos, biurokratija vėl išsipūstų, kunigai vėl stengtųsi ugdyti masių paklusnumą. Visi pirmosios pergalės iškovojimai subliukštų būtinybės vėl ruoštis naujam karui akivaizdoje. Pirmiausiai reikia išspręsti galutinį ir negrįžtamą Europos susiskaldymo į suverenias nacionalines valstybes problemą, kurios neišsprendus, bet kokia pažanga tebus tik iliuzija. Daugumos Europos valstybių žlugimas po vokiškuoju volu jau suteikė bendrumo Europos tautų likimams, dabar jiems visiems drauge teks arba susitaikyti su hitlerine viešpatyste arba visiems drauge, atėjus tos viešpatystės galui, žengti link revoliucinės krizės nesusikaldžius, nesustingus tvirtose savo pačių valstybinėse struktūrose. Dabar protai jau yra žymiai palankiau nusiteikę Europos federalinės reorganizacijos klausimu nei praeityje. Skausminga paskutiniųjų dešimtmečių patirtis atvėrė akis netgi tiems, kurie to nenorėjo matyti, ir subrandino daug palankių mūsų idealui aplinkybių. Visi išmintingi žmonės jau pripažįsta, kad nebegalima išlaikyti Europos nepriklausomų šalių pusiausvyros tarp militaristinės Vokietijos ir kaip atsvaros ‐ kitų valstybių, nebegalima ir trupinti Vokietijos į gabalus, primynus koja jai krūtinę po kiekvieno pralaimėjimo. Tapo galutinai aišku, kad nė viena Europos šalis negali likti nuošalėje tuo metu, kai kitos šalys kovoja tarpusavyje, nes tarpusavio nepuolimo ir neutralumo deklaracijos nebeteko jokios vertės. Nūnai yra įrodytas menkas reikalingumas, jeigu ne žalingumas tokių organizmų kaip 176
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Jungtinės Tautos, pretendavusio užtikrinti tarptautinę teisę be karinės jėgos, pajėgiančio priversti laikytis savo sprendimų išlaikant absoliutų valstybių ‐ narių suverenumą. Absurdiškas yra nesikišimo principas, reikalaujantis suteikti kiekvienai tautai galimybę turėti reikalų su savuoju despotiniu režimu kaip ji pati išmano, lyg kiekvienos atskiros valstybės sąranga nebūtų tapusi gyvybiniu visų kitų Europos šalių reikalu. Jau nebeišsprendžiamomis tapusios daugialypės problemos, nuodijančios tarptautinį kontinento gyvenimą ‐ pasienio ribos mišrių tautybių gyvenamose vietose, tautinių mažumų gynimas, neturinčių išėjimo prie jūros valstybių klausimas, Balkanų klausimas, Airijos klausimas ir t.t. ‐ visos jos būtų pačiu paprasčiausiu būdu išspręstos Europos Federacijos rėmuose, panašiai, kaip tai nutikdavo su panašaus pobūdžio mažų valstybėlių problemomis po to, kai jos, įsiliejusios į stambesnius nacionalinius junginius bei praradusios savo pirminį priešiškumą, susidurdavo su santykių tarp įvairių provincijų reikalais. Iš kitos pusės, saugumo pojūčio pabaiga, susijusi su negalimumu užpulti Didžiąją Britaniją, kuris savo ruožtu pasmerkė anglus „splendid isolation“, prancūzų kariuomenės ir pačios respublikos žlugimas jau pirmojo galingesnio vokiečių pajėgų smūgio akivaizdoje (viliantis, kad tokia baigtis gerokai sumenkino šovinistinį įsitikinimą gališkuoju pranašumu) ir rūstus visuotinės vergovės pavojaus pojūčio suvokimas, ‐ visi šie dalykai paskatins kurti federalinį režimą, kuris padarytų galą dabartinei anarchijai. Ta aplinkybė, kad Anglija jau sutiko su Indijos nepriklausomybės reikalavimu, o Prancūzijos pralaimėjimas iš esmės reiškia ir visos jos imperijos sutriuškinimą, padės greičiau pereiti prie europietiškų susitarimų dėl kolonijų. Prie viso to derėtų pridurti ir kai kurių pagrindinių dinastijų išnykimą ir išlikusių ‐ pamatų trapumą. Reikia turėti omenyje, jog būtent dinastijos ir kai kurių šalys ‐ tradicinės jų rėmėjos su visais iš to išplaukiančiais interesais ‐ iki šiol buvo rimta kliūtimi racionaliai Jungtinių Europos valstybių organizacijai, kuri gali remtis tik respublikos tipo visų ją sudarančių federalinių valstybių konstitucija. Ir tada, žvelgiant anapus Senojo kontinento horizonto, kai vieninga pasaulėžiūra sujungs visas žmonijos tautas, tektų pripažinti, kad Europos Federacija būtų vienintele garantija, užtikrinančia taikingą Azijos ir Amerikos tautų kooperaciją, belaukiant, kol tolimesnėje ateityje taptų įmanoma viso žemės rutulio politinė vienybė. Ribą, skiriančią pažangiąsias ir reakcines partijas, nusako jau nebe didesnė ar mažesnė demokratija, gilesnis ar menkesnis socializmo įtvirtinimas, o naujoji esminė takoskyra tarp tų, kurie įsivaizduoja, jog egzistencinis tikslas ‐ tai nacionalinės politinės valdžios perėmimas, suteikiantis galimybę ‐ tegu ir nesąmoningai ‐ karštai išsiveržusiai tautinių emocijų lavai sustingti senosiose formose, o praeities absurdui vėl atgimti ir tų, kurie regės svarbiausiuoju savo 177
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uždaviniu tvirtos tarptautinės valstybės sukūrimą, kurie nukreips šio tikslo link liaudies pajėgas, o iškovoję politinę valdžią, ją pirmučiausiai panaudos kaip tarptautinės vienybės sudarymo instrumentą. Pasitelkus propagandą ir veiksmus, bandant visais įmanomais būdais nustatyti susitarimus ir ryšius tarp atskirų judėjimų, ‐ patarieji, be abejonių, jau formuojasi, ‐ derėtų jau dabar pastatyti pamatus judėjimui, pajėgiančiam mobilizuoti visas jėgas bei sukurti naują organizmą, kuris taptų pačiu didingiausiu ir naujoviškiausiu kada nors per paskutinius šimtmečiais gimusiu Europoje. Jo reikės tam, kad suręsti tvirtą federalinę valstybę, disponuojančią Europos karinėmis pajėgomis vietoje nacionalinių kariuomenių, pajėgiančią ryžtingai nutraukti totalitarinių režimų stuburkaulį ‐ ekonominę autarchiją, turinčią pakankamai organizmų ir priemonių, užtikrinančių tiesioginių nutarčių bei įsakymų vykdymą atskirose federalinėse valstybėse, paliekant valstybėms autonomijos teises, kurios garantuotų lankstumą ir politinio gyvenimo raidą pagal savitus kiekvienos tautos ypatumus. Jeigu svarbiausiose Europos valstybėse atsiras pakankamai daug veikėjų, kurie visa tai suvoks, greitai pergalė bus jų rankose, nes situacija ir nuotaikos bus palankios jų veiklai. Jie susidurs su paskutiniųjų dviejų dešimtmečių patirties sumaitotomis partijomis bei tendencijomis, tai bus naujų žmonių iš JUDĖJIMO UŽ LAISVĄ IR SUVIENYTĄ EUROPĄ valanda. III. Pokario uždaviniai. Visuomeninė reforma Laisva ir suvienyta Europa ‐ tai būtina šiuolaikinės visuomenės, kurios totalitarizmo era sustabdyta, prielaida. Šios eros pabaigoje bematant prasidės istorinis procesas prieš nelygybę ir socialines privilegijas. Visos šį vyksmą stabdžiusios senos konservatyviosios institucijos bus žlugusios arba žlungančios, ir šia jų krize teks drąsiai bei ryžtingai pasinaudoti. Europietiškoji revoliucija tam, kad atitiktų mūsų poreikius turės būti socialistine, turės iškelti sau darbo klasių emancipacijos ir žmoniškesnių gyvenimo sąlygų sukūrimo klausimus. Kompaso rodykle, rodančia, kokių šia kryptimi derėtų imtis priemonių negalės tapti grynai doktrinieriškas principas teigiantis, jog privačią gamybos priemonių nuosavybę turės būti iš principo panaikinta arba galės būti toleruojama tik laikinai, tais atvejais, kai nebus įmanoma be jos apsieiti. Visuotinis ekonomikos suvalstybinimas buvo pirmoji darbininkų klasės įsivaizduojama utopinė forma išsivaduojant iš kapitalistinio jungo, jos pilnutinis įgyvendinimas atveda ne į trokštamą tikslą, o į sukūrimo tokio režimo, kuriame visi gyventojai tarnauja siaurai biurokratų ‐ ekonomikos administratorių ‐ klasei. 178
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Tikrasis fundamentalus socializmo principas (visuotinė kolektyvizacija tebuvo pernelyg skubi ir klaidinga išvada) yra tas, kuris teigia, jog ekonomikos jėgos neturi užgožti žmonių, jos turi būti natūraliai pajungtos, suvaldytos ir kontroliuojamos pačiais racionaliausiais metodais tam, kad didžiosios masės netaptų jų aukomis. Gigantiškos pažangos jėgos, trykštančios iš individualiojo intereso gelmių neturi būti užgęsintos negyvame rutinos tradicijų telkinyje, o paskui iškilti neišsprendžiama iniciatyvumo atgaivinimo problema, bandant atlyginimų diferenciacijos ar kitokius panašius metodus; atvirkščiai, šias jėgas būtina pagirti ir išplėsti, suteikiant joms didesnių vystymosi ir užimtumo galimybių tuo pat metu stiprinant bei tobulinant kelius, kurie veda link vis naudingesnių kolektyvinių tikslų. Privati nuosavybė iš principo turi būti panaikinta, apribota. Ši direktyva savaime įsiterpia formuojantis europietiško ekonominio gyvenimo procesui, išsivadus iš militarizmo ar nacionalinės biurokratijos košmaro. Racionalusis sprendimas turi išstumti iracionalųjį darbuotojų sąmonėje. Norėdami smulkiau pateikti šios direktyvos turinį, o taip pat suvokdami, jog dabar kiekvieno programinio punkto priimtinumą bei taikymą teks vertinti europietiškosios vienybės rėmuose, pabrėšime šiuos punktus: a) Negalima palikti privatiems asmenims įmonių, kurios vykdydamos aiškiai monopolistinio pobūdžio veiklą, gali išnaudoti vartotojų mases; pavyzdžiui, elektros energijos pramonės įmonės siekia išsilaikyti vardan kolektyvinių interesų, tačiau joms būtini protekcionistiniai mokesčiai, parama, išskirtiniai užsakymai ir t.t. (pats ryškiausias šio tipo pavyzdys yra Italijos juodosios metalurgijos pramonė); o taipogi tos bendrovės, kurios dėl didelių kapitalo investicijų, dėl jose dirbančių darbininkų skaičiaus ar dėl savo dominuojančios padėties viename ar kitame pramonės sektoriuje galėtų šantažuoti valstybės organus primesdamos joms palankią politiką (pvz, kalnakasybos pramonės bendrovės, stambūs bankai, didelės laivybos kompanijos). Tai ir yra ta sritis, kurioje, be abejonės, teks imtis plačios nacionalizacijos, neatsižvelgiant į įgytas teises. b) Tos ypatybės, kuriomis praeityje pasižymėjo nuosavybės teisė ir paveldėjimo teisė, suteikė galimybių keleto privilegijuotų asmenų rankose sukaupti turtus, kuriuos teks tolygiai išskirstyti revoliucinės krizės metu, eliminuoti parazitinius sluoksnius, darbo žmonėms suteikti jiems būtinus gamybos įrankius, tokiu būdu pagerinant jų ekonomines sąlygas bei sudaryti sąlygas pasiekti labiau nepriklausomą gyvenimą. Čia turime galvoje žemės ūkio reformą, kuri perduos žemę ją dirbantiems ir labai padidins savininkų skaičių, pramonės reformą, kuri išplės dirbančiųjų teises nesuvalstybintuose sektoriuose steigiant kooperatyvinį valdymą, dirbančiųjų akcinius paketus ir pan. 179
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c) Jaunimui reikalinga parama, kuri iki minimumo sumažintų atotrūkį tarp įvairių starto pozicijų kovoje už pragyvenimą. Valstybinė mokykla turės teikti realias galimybes tęsti mokslą iki pačių aukščiausių pakopų labiausiai to vertiems, o ne turtingiausiems; kiekvienoje mokslo šakoje ji turės paruošti įvairioms profesijoms, liberaliai, mokslinei veiklai tokį žmonių skaičių, kuris atitiktų rinkos poreikius ir kad vidutiniai atlyginimai daugiau ar mažiau būtų vienodi visoms profesinėms kategorijoms, kokie bebūtų apmokėjimo neatitikimai kiekvienos kategorijos viduje, priklausomai nuo asmeninių sugebėjimų. d)Pasitelkusi šiuolaikinę techniką, beveik neribota masinė pirmojo būtinumo reikmenų gamyba už nedidelius socialinius kaštus pajėgi aprūpinti visus maistu, būstu, apranga ir minimalius patogumus, būtinus siekiant išlaikyti žmogiškąjį orumą. Žmonių solidarumas tų, kurie neatlaiko žudančios ekonominės kovos atžvilgiu, turės progos pasireikšti ne žeminančia labdara, sukeliančia tą patį blogį, kurio pasekmių siekiama išvengti, o socialinio aprūpinimo priemonėmis, užtikrinančiomis besąlygiškai visiems ‐ galintiems ir negalintiems dirbti ‐ padorų pragyvenimo lygį, nesumažinant poreikio dirbti ir taupyti. Tokiu būdu, skurdas nebeprivers paklusti smaugiančio darbo sutartims. e)Darbininkų klasės išlaisvinimas gali vykti tik įgyvendinus ankstesniuose punktuose minėtas sąlygas: nepaliekant jų monopolistinių profsąjungų ekonominės politikos valiai, nes jos paprasčiausiai perduoda darbininkų stovyklai prievartinius metodus, būdingus stambiajam kapitalui. Darbo žmonės privalo atgauti galimybę laisvai pasirinkti savuosius patikėtinius tam, kad galėtų kolektyviai aptarti darbo sąlygas, o valstybė turės suteikti teisines priemones, užtikrinančias susitarimų laikimąsi. Visas monopolistines tendencijas bus galima sėkmingai užgniaužti tik įvykdžius minėtus socialinius pokyčius. Visas monopolistines tendencijas bus galima sėkmingai užgniaužti tik įvykdžius minėtus socialinius pokyčius.
Šie pakitimai yra privalomi tam, kad vadovaujantis naująja tvarka, būtų galima kurti labai platų ja suinteresuotų piliečių sluoksnį ir suteikti politiniam gyvenimui vieningą, socialinio solidarumo jausenos prisotintą laisvės ženklą. Ant šių pamatų politinės laisvės galės iš tikrųjų įgauti konkretų, o ne vien tik formalų turinį, jis galios visiems, nes piliečių masės turės nepriklausomybę ir pakankamai žinių, kurios leis vykdyti nuolatinę bei efektyvią valdančiosios klasės kontrolę. Neverta aptarinėti konstitucinių institucijų, neturint galimybių numatyti, kokiomis sąlygomis joms teks atsirasti ir veikti, bet tepakartosime, jog visa tai, ką visi jau žino apie reprezentacinių organų būtinumą, apie įstatymų leidybą, apie prokuratūros, kuri užims dabartinės vietą nepriklausomumą užtikrinant 180
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nešališką išleistų įstatymų laikymąsi, apie spaudos ir susivienijimų laisvę, galimybę apšviesti visuomenės nuomonę ir suteikti visiems piliečiams veiksmingą galimybę dalyvauti valstybės gyvenime. Būtina patikslinti tik dviejų klausimų esmę dėl jų ypatingos svarbos mūsų šaliai šiuo momentu: apie valstybės ir Bažnyčios santykius ir apie politinio atstovavimo pobūdį: a) Konkordatas, kuriuo Vatikanas Italjoje sudarė sutartį su fašizmu turėtų būti, be jokių abejonių, panaikintas, kad būtų galima įtvirtinti grynai pasaulietinį valstybės pobūdį ir užtikrinti neginčijamą valstybės viršenybę civilinio gyvenimo srityje. Visi religiniai tikėjimai turės būti vienodai gerbiami, bet valstybė daugiau nebeprivalės rūpintis kultų biudžetais. b) Kartoninė lūšna, kurią fašizmas surentė drauge su korporatyvine santvarka, subyrės į šipulius drauge su kitomis totalitarinės valstybės dalimis. Kai kas teigia, jog ir šiuos griuvėsius rytoj bus galima panaudoti kuriant naująjį konstitucinę sąrangą. Mes tuo netikime. Totalitarinėse valstybėse korporaciniai rūmai yra apgaulė, vainikuojanti policinę darbo žmonių kontrolę. Tačiau jeigu korporaciniai rūmai ir būtų nuoširdi įvairių kategorijų gamintojų išraiška, įvairių profesinių kategorijų atstovybės organams niekada nepakaktų kvalifikacijos derėtis bendrosios politikos srityje, o svarstant grynai ekonominius klausimus, jie taptų galingesnių profsąjungų spaudimo organais. Profesinėms sąjungoms derėtų imtis bendradarbiavimo su valstybės organais, kuriems pavesta spręsti tiesiogiai jas liečiančias problemas, atmetant, žinoma, galimybę, kad joms būtų patikėta įstatymų leidžiamoji funkcija, kadangi išryškėtų feodalinė ekonominio gyvenimo anarchija, o jos pasekme taptų vėl atgimęs politinis despotizmas. Daugelis tų, kurie leidosi naiviai įtikinami korpotyvizmo mito galės ir turės susivilioti atsinaujinimo darbais, tačiau jiems teks atsižvelgti į jų pačių miglotai svajotos išeities absurdiškumas. Konkretus korporatyvizmo gyvavimas yra galimas tik totalitarinių valstybių sukurta forma, kuria valdininkai naudoja drausminti darbo žmones valdančiosios klasės labui. Revoliucinė partija negali būti diletantiška improvizacija lemiamu momentu, ji turi jau dabar pradėti formuoti bent jau esmines politines nuostatas ‐ bendraisiais bruožais ir pirmosiomis veiklos direktyvomis. Ji neturėtų atstovauti išsiskaidžiusias tendencijas, laikinai susijungusias antifašistinės praeities rėmuose, laukiančias totalitarinio režimo žlugimo, o kai tikslas bus pasiektas ‐ pasirengusias išsibarstyti kiekviena savo keliu. Revoliucinė partija žino, kad iš tikrųjų jos veikla prasidėtų tik tada, todėl jos gretose turėtų būti žmonės, sugebantys susitarti dėl svarbiausiųjų ateities problemų. Ji su savo metodiška propaganda privalo prasiskverbti visur, kur tik yra dabartinio režimo pavergtųjų ir, kaskart pasirinkdama išeities tašku problemą, 181
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kuri yra pati skaudžiausia atskiriems asmenims ir klasėsms, parodyti kaip ji siejasi su kitomis problemomis bei kokia galėtų būti tikroji išeitis. Tačiau iš nuolat didėjančios savo rėmėjų stovyklos partija kviesis ir verbuos tik tuos, kurie europietiškąją revoliuciją pavertė svarbiausiuoju savo gyvenimo tikslu, kurie drausmingai kasdien vykdytų savo darbą, įžvalgiai siektų saugios bei efektyvios veiklos netgi pačiomis sunkiausiomis pogrindžio sąlygomis, sudarytų tvirtą tinklą, suteikiantį atsparumo netgi pačiai nepastoviausiai prijaučiančiųjų stovyklai. Nepraleisdama nė vienos galimybės, nė vienos dirvos, tinkamos paskleisti savąjį žodį, ji turi savo veikla atsigręžti pirmiausiai į tuos sluoksnius, kurie galėtų būti svarbiausiais idėjų platinimo ir kovingų vyrų verbavimo centrais, o taip pat ‐ į dvi socialiniu požiūriu jautriausias grupes šiandien, lemiamas ‐ rytoj: darbininkų klasę ir intelektualus. Pirmoji yra ta, kuri yra mažiausiai plakama totalitarizmo rykštės ir kuri labiausiai bus pasiruošusi pertvarkyti savo gretas. Intellektualai ‐ ypač jaunesnieji ‐ labiausiai jaučiasi smaugiami dvasiškai, labiausiai pasibjaurėję viešpataujančiu despotizmu. Visuotinis judėjimas pamažu neišvengiamai įtrauks ir kitus sluoksnius. Bet koks judėjimas, kuris patirtų pralaimėjimą telkdamas šias jėgas į sąjungininkus, būtų pasmerktas nederlumui, nes, tuo atveju, jeigu būtų sudarytas vien iš intelektualų, liktų be masių jėgos, būtinos nušluoti reakcijos pasipriešinimą, būtų nepatiklus darbininkų klasės atžvilgiu ir jai pačiai nekeliantis pasitikėjimo; ir netgi jeigu ir būtų akinamas demokratinių jausenų, tačiau sunkumų akivaizdoje, kilus visų kitų klasių mobilizacijai prieš darbininkus, nuslystų link fašizmo restauracijos. Jeigu remtųsi tik proletariatu, tuo atveju stigtų minties aiškumo, kurį galėtų suteikti tik intelektualai ir kuris yra būtinas tam, kad įžvelgti naujus uždavinius ir naujus kelius. Judėjimas liktų senovinio klasicizmo kaliniu, visur regėtų priešus ir paslystų ant doktrinieriško komunistų požiūrio. Būtent šiam judėjimui revoliucinės krizės metu teks telkti ir vadovauti pažangiosioms jėgoms, panaudojant visus liaudiškuosius organus, kurie savaime susidaro –tarsi puodai su žarijomis, kuriuose maišosi revoliucinės masės, laukiančios savo vedlių, užuot skelbusios plebiscitus. Šis judėjimas semsis pasaulėžiūros ir tikrumo dėl savo paties veiklos anaiptol ne iš išankstinio dar neegzistuojančios tautos valios šventumo, bet iš sąmoningos valios atstovauti pačius giliausius šiuolaikinės visuomenės poreikius. Jis teiks pirmąsias naujosios tvarkos direktyvas ‐ pirminę beformių masių socialinę discipliną. Ši revoliucinė partijos diktatūra suformuos naują valstybę ir naują ją supančią tikrąją demokratiją. Neverta baimintis, kad toks revoliucinis režimas turėtų būtinai nukrypti naujo despotizmo link. 182
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Nukryps, jeigu jis atsirado modeliuojant vergišką visuomenę. Tačiau jeigu revoliucinė partija nuo pirmųjų savo žingsnių tvirta ranka kurs sąlygas laisvam gyvenimui, kuriame visi piliečiai iš tiesų gali dalyvauti valstybės gyvenime, jos evoliucija pasuks ‐ netgi jeigu tektų patirti antrinę politinę krizę ‐ visų pažangaus supratimo ir pritarimo naujajai tvarkai linkme, jos veiklumo ir laisvųjų politinių institucijų galimybių augimo linkme. Šiandien yra tas momentas, kai tenka išmokti atsisakyti senos, pernelyg varžančios naštos, pasiruošti sutikti jau ateinančias naujoves, visiškai nepanašias į įsivaizduotas, atmesti senas ir netinkamas, vėl sužadinti jaunimo energiją. Šiandien vieni kitų ieško ir vieni su kitais susitinka, pradėdami austi ateities scenarijų visi tie, kurie įžiūrėjo šiandieninės Europos visuomenės krizę ir perėmė palikimą tų visų žmoniją iškėlusių judėjimų, sužlugusių nesutarus dėl tikslo ir dėl priemonių tam tikslui pasiekti. Kelias, kurį teks nueiti nėra lengvas, nėra saugus. Tačiau jis turi būti nueitas ir bus nueitas. Altiero Spinelli ‐ Ernesto Rossi 183
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Malta L‐ideat ta’ Spinelli u Malta Joseph M. Brincat Il‐Manifest ta’ Ventotene ġie miktub minn Altiero Spinelli, zagħżugħ komunist, u Ernesto Rossi, ekonomista liberali li ħaddan is‐soċjaliżmu tat‐tip Ingliż, fis‐sajf tal‐1941, u ġie stampat bil‐ħabi f’Ruma f’Lulju 1943 minn Eugenio Colorni, meta l‐belt kienet okkupata min‐Nazisti. Il‐fatt li nkiteb fi gżira‐ħabs jolqotna għax juri kif ambjent żgħir u magħluq nissel viżjoni vasta bbażata fuq il‐liberta. It‐
tlieta kienu ġew turufnati f’Ventotene minn Mussolini, u għalhekk id‐
dokument hu reazzjoni qawwija kontra loppressjoni nazi‐faxxista. Il‐klima politika ta’ dak iż‐żmien kienet mitlufa fiċ‐ċpar tal‐biża’ mill‐istati dittatorjali u mwegħra bil‐faqar tal‐popli. Il‐fehmiet li riedu jsibu soluzzjoni għall‐gwaj tas‐seklu kienu tnejn: ir‐restawr tal‐istati demokratiċi u l‐idea tal‐
komuniżmu internazzjonali immexxi mill‐Unjoni Sovjetika. Spinelli u Rossi taw messaġġ ġdid biex l‐unita u l‐liberta tal‐Ewropa jgħelbu r‐razziżmu nazi‐
faxxist, imma l‐Manifest tagħhom, skond il‐Professur Francesco Gui tal‐ Universita ta’ Ruma La Sapienza, irribatta wkoll il‐Manifest ta’ Marx u Engels billi sostna l‐prinċipju tal‐liberta u poġga l‐bniedem bħala “ċentru awtonomu ta’ ħajja” biex l‐ekonomija tkun sottomessa għall‐bniedem u mhux bil‐maqlub. B’fużjoni ta’ ideat liberali u soċjalisti pproponew partit federalista rivoluzzjonarju li kellu jafferma ruħu malli jaqa’ n‐nazi‐faxxiżmu u qabel ma jirkupraw irreazzjonarji. Imma f’Awwisu 1943 Spinelli, Rossi u Colorni telqu din l‐idea u, bl‐għan li jiġbru flimkien il‐partiti tar‐Reżistenza, f’Milan waqqfu l‐
Moviment Federalista Ewropew. Wara l‐Gwerra d‐diviżjoni bejn progressisti u reazzjonarji kienet bejn min ried jibni Federazzjoni Ewropea mill‐ewwel, u min ried li tinbena bil‐mod. Kienet it‐tieni tendenza li sabet il‐kunsens, imma Spinelli qatt ma abbanduna l‐
idea tiegħu, u baqa’ jitħabat favur kostituzzjoni Ewropea sal‐14 ta’ Frar 1984 meta l‐Parlament Ewropew approva l‐proġett ta’ trattat tal‐Unjoni Ewropea li baqa’ jġib ismu. Spinelli miet sentejn wara. U f’Malta? Wara l‐Gwerra, Malta kienet kolonja Ingliża u fl‐ewwel snin it‐
tilwima kienet jekk ir‐rabta mal‐Ingilterra kelliex tissaħħaħ jew tinħall, bl‐
integrazzjoni jew bl‐indipendenza. Għal raġunijiet differenti ma jidhirx li Altiero Spinelli kellu kuntatti mal‐politiċi tagħna. Il‐Partit Nazzjonalista kien minn dejjem iħaddan ideat ewropeisti, anzi jgħid li l‐idea fondamentali ta’ 184
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Spinelli, li moviment Ewropew iwaqqaf il‐gwerer bejn l‐istati, kienet diġa ġiet espressa minn Ernesto Manara, wieħed mill‐pijunieri tal‐partit. Fil‐Gazzetta di
Malta tal‐20 ta’ April 1892 kiteb “La formazione degli stati uniti d’Europa che oggi i governi e le classi dirigenti ritengono utopia ...”, u wera biċ‐ċar il‐viżjoni tiegħu, li kienet taqbel ma’ dik mazzinjana u l‐invokazzjoni espressa favur il‐
Federazzjoni Demokratika Ewropea fl‐1867 mill‐Kungress internazzjonali għallpaċi f’Ġinevra. F’Malta kolonja dik l‐idea ma setgħetx tiżviluppa f’azzjoni imma l‐Partit Nazzjonalista kien iqisha bħala ħelsien mill‐ħakma Ingliża. Peress li jipprofessa twemmin demokratiku Kristjan, mexa fuq il‐passi ta’ Schuman, De Gasperi u Adenauer, għax Spinelli kien marbut mal‐partiti tax‐xellug. Il‐Partit Laburista Malti, min‐naħa tiegħu, għalkemm kellu affinita ideoloġika ma’ Spinelli, ma jidhirx li kkoltiva kuntatti mas‐soċjalisti Taljani, għax ipprefera l‐
mudell laburista Ingliż, u mill‐1971 sostna l‐ideal talpaċi fil‐Mediterran, fejn ir‐
rwol ta’ Malta kellu jkun li sservi ta’ pont bejn l‐Ewropa t’Isfel u l‐Afrika ta’ Fuq. Għalkemm qatt ma ddikjara politika deċiża kontra l‐idea ta’ Ewropa magħquda, l‐ MLP wera aktar xettiċiżmu milli entużjażmu, speċjalment meta poġġa fuq l‐ixkaffa t‐talba għall‐adeżjoni fl‐1996. Il‐Partit Nazzjonalista ħabrek biex Malta tersaq lejn l‐Unjoni tal‐ Ewropa. Mal‐kisba tal‐Indipendenza fl‐1964 George Borg Olivier wera x‐xewqa li pajjiżna jidħol fil‐Komunita (li twaqqfet u ssaħħet bejn l‐1951 u l‐1957), imma kien jaħseb li sakemm l‐Italja kienet ġewwa u l‐Ingilterra le, Malta kellha għażla diffiċli u għalhekk mexa b’passi żgħar. Fl‐1965 daħħalha fil‐Kunsill tal‐Ewropa u fl‐ 1970 iffirma l‐ewwel trattat ta’ assoċjazzjoni mal‐Komunita. Ilmoviment favur l‐adeżjoni ssemma mill‐Kunsill Malti tal‐Moviment Ewropew fl‐1975 u baqa’ jikber meta ddikjaraw ruħhom favurha entijiet importanti bħall‐Kamra tal‐Kummerċ fl‐1979, il‐ Konfederazzjoni tat‐Trade Unions fl‐1981 u fl‐1987, u l‐
Federazzjoni tal‐Industrji Maltin fl‐1986. Taħt it‐tmexxija ta’ Edward Fenech Adami l‐Partit Nazzjonalista żied ir‐ritmu u fil‐Kunsill Ġenerali tal‐1990 iddiskuta l‐implikazzjonijiet politiċi, ekonomici u soċjali tas‐sħubija, u għadda riżoluzzjoni li tħeġġeġ lill‐Gvern biex minnufih jitlob formalment li Malta ssir membru sħiħ tal‐Komunita Ewropea. Fl‐1995 l‐Unjoni ħalliet barra lil Malta u lil Ċipru millgrupp tal‐membri ġodda u fl‐1996 tela’ l‐Partit Laburista u ssospenda l‐proċess. Fl‐elezzjoni tal‐1998 is‐sħubija kienet l‐iskop ewlieni, il‐Partit Nazzjonalista rebaħ l‐elezzjoni u d‐diskussjonijiet infetħu fl‐2000. Fit‐8 ta’ Marzu 2003 sar referendum u Malta daħlet membru fl‐1 ta’ Mejju 2004. Fl‐
ewwel tas‐sena 2008 Malta adottat l‐ewro u hekk daħlet ukoll f’dik l‐unjoni monetarja li ssemmiet fiddaħla tal‐Manifest. 185
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Preżentazzjoni Eugenio Colorni (Ruma 1944) Dawn il‐ħsibijiet twieldu u nkitbu fil‐gżira ta’ Ventotene, fis‐snin 1941 u 1942. F’dak l‐ambjent mhux normali, fis‐sikkatura ta’ dixxiplina iebsa ħafna, permezz ta’ informazzjoni li kienet tinġabar b’elf prekawzjoni, fid‐dwejjaq ta’ għażż furzat u l‐ħerqa li l‐ħelsien ma jdumx, kien qed jimmatura f’xi mħuħ proċess ta’ tgħarbil tal‐problemi kollha li kienu sawru l‐iskop innifsu tal‐azzjoni li twettqet u tal‐mod kif kellha ssir it‐taqbida. ’Il‐bogħod kif konna mill‐ħajja politika konkreta, stajna nħarsu b’distakk akbar, u naraw li kien hemm bżonn li jiġu riveduti ilpożizzjonijiet tradizzjonali, u li r‐raġunijiet tal‐fallimenti tal‐passat ma kienux jinstabu tant fl‐iżbalji tekniċi ta’ tattika parlamentari jew rivoluzzjonarja, jew f’xi «immaturita» ġenerika tas‐
sitwazzjoni, daqskemm f’nuqqasijiet tal‐impostazzjoni ġenerali. Rajna li kien żball il‐fatt li konna tqabadna skont is‐soltu linji tal‐firda, bi ftit li xejn attenzjoni għall‐fatti ġodda li kienu qed ibiddlu r‐realta. Fit‐tħejjija biex nikkumbattu b’effiċjenza l‐battalja kbira li kienet tidher ġejja fil‐futur, konna nħossu l‐bżonn mhux biss li nikkoreġu l‐iżbalji tal‐
imgħoddi, iżda li nerġgħu infasslu t‐termini tal‐problemi politiċi b’moħħ meħlus minn prekonċetti dottrinarji jew millmiti tal‐partiti. Kien b’dan il‐mod li, f’moħħ xi wħud, bdiet taqbad l‐art l‐idea ċentrali illi l‐kontradizzjoni essenzjali, responsabbli għall‐kriżi, għall‐gwerer, għall‐miżerji u l‐isfruttamenti li jkiddu s‐soċjeta tagħna, hi l‐eżistenza ta’ stati sovrani, magħżulin ġeografikament, ekonomikament, u militarment, li jaraw lill‐istati l‐
oħrajn bħala konkorrenti u għedewwa potenzjali, u jgħixu l‐wieħed mal‐ieħor f’qagħda dejjiema ta’ bellum omnium contra omnes (kulħadd kontra kulħadd). Ir‐
raġunijiet għala din l‐idea, li fiha innifisha mhix ġdida, ħadet bixra ta’ novita fil‐
kundizzjonijiet u fl‐okkażjoni li fihom inħasbet, huma varji: 1) L‐ewwelnett, is‐soluzzjoni internazzjonalista, li tidher fil‐programm tal‐
partiti politiċi progressisti kollha, titqies minnhom, f’ċertu sens, bħala konsegwenza neċessarja u kważi awtomatika tal‐kisba tal‐għanijiet li kull wieħed minnhom irid jilħaq. Id‐demokratiċi jidhrilhom li t‐twaqqif, fl‐ambitu ta’ kull pajjiż, tar‐reġim propost minnhom, iġib żgur miegħu il‐formazzjoni ta’ dik il‐kuxjenza unitarja li, waqt li tissupera l‐fruntieri fil‐qasam kulturali u morali, tkun il‐premessa li huma jqisu indispensabbli għal għaqda ħielsa ta’ popli anki fil‐qasam politiku u ekonomiku. U s‐soċjalisti, min‐naħa tagħhom, 186
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jaħsbu li t‐twaqqif ta’ reġimi ta’ dittatura talproletarjat fid‐diversi stati, fiha innifisha twassal għal stat internazzjonali kollettivista. Issa, analiżi tal‐kunċett modern ta’ stat u tal‐interessi u s‐sentimenti kollha marbutin miegħu, turi biċ‐ċar li, għalkemm ix‐xebh fir‐reġim intern jista’ jħaffef ir‐relazzjonijiet ta’ ħbiberija u ta’ kollaborazzjoni bejn stat u stat, mhux bilfors iwassal awtomatikament, u lanqas progressivament, għall‐unifikazzjoni, sakemm jibqgħu jeżistu interessi u sentimenti kollettivi marbutin maż‐żamma ta’ għaqda magħluqa ġewwa l‐fruntieri. Nafu mill‐esperjenza li sentimenti xovinistiċi u interessi protezzjonistiċi jistgħu faċilment iwasslu għall‐konflitt u għall‐kompetizzjoni wkoll bejn żewġ demokraziji; u mhux bilfors stat soċjalista għani sa jaċċetta li jaqsam irriżorsi tiegħu ma’ stat soċjalista ħafna ifqar minnu, sempliċiment għax fih jiggverna reġim bħal tiegħu. L‐abolizzjoni tal‐fruntieri politiċi u ekonomiċi bejn stat u ieħor, mela, ma tiġix neċessarjament mit‐twaqqif fl‐istess żmien ta’ reġim intern partikolari f’kull stat; iżda hija problema għaliha, li trid tiġi attakkata b’mezzi xierqa u tajbin għaliha. Tassew, ma tistax tkun soċjalist bla ma tkun ukoll internazzjonalist; iżda dan minħabba rabta ideoloġika, iżjed milli minħabba ħtieġa politika u ekonomika; u mir‐rebħa soċjalista fl‐istati individwali ma joħroġx neċessarjament l‐istat internazzjonali. 2) Barra minn hekk, dak li kien jimbotta biex wieħed jaċċentwa b’mod awtonomu t‐teżi federalista, kien il‐fatt li l‐partiti politiċi eżistenti, marbutin ma’ passat ta’ taqbidiet miġġielda fl‐ambitu ta’ kull nazzjon, huma mdorrijin, b’konswetudni u bi tradizzjoni, li meta jiżnu l‐problemi kollha jitilqu mill‐
presuppost taċitu tależistenza tal‐istat nazzjonali, u jikkunsidraw il‐problemi tas‐sistema internazzjonali bħala problemi ta’ ≪politika barranija≫, li jridu jkunu solvuti b’ħidmiet diplomatiċi u ftehim bejn id‐diversi gvernijiet. Dan l‐
atteġġament huwa inparti kawża, inparti konsegwenza ta’ dak li semmejna l‐
ewwel, jiġifieri li, ladarba wieħed ikollu rriedni tal‐kmand f’pajjiżu, il‐ftehim u l‐għaqda ma’ reġimi bħalu f’pajjiżi oħrajn hija ħaġa li tiġi waħedha, mingħajr il‐
ħtieġa li tinbeda ġlieda politika iddedikata apposta għalhekk. Bil‐maqlub, fl‐awturi ta’ dawn il‐kitbiet kienet rabbiet l‐għeruq il‐
konvinzjoni li min irid iqis il‐problema tas‐sistema internazzjonali bħala dik ċentrali tal‐epoka storika ta’ issa, u jikkunsidra ssoluzzjoni tagħha bħala l‐
premessa neċessarja għas‐soluzzjoni talproblemi kollha istituzzjonali, ekonomiċi, soċjali li qed jagħfsu fuq is‐soċjeta tagħna, irid bilfors jikkunsidra minn dan l‐angolu lkustjonijiet kollha li għandhom x’jaqsmu mal‐kuntrasti politiċi interni u l‐imġiba ta’ kull partit, ukoll fejn tidħol it‐tattika u l‐istrateġija tat‐taqbida ta’ kuljum. Il‐problemi kollha, minn dik tal‐libertajiet kostituzzjonali sa dik tal‐ġlieda tal‐klassi, minn dik tal‐pjanifikazzjoni sa dik tar‐rebħa tal‐poter u l‐użu tiegħu, jidhru f’dawl ġdid jekk jitqiesu bil‐premessa, bħala punt tat‐tluq, 187
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li l‐ewwel għan li jrid jintlaħaq hu dak ta’ sistema unitarja fil‐kamp internazzjonali. L‐istess manuvra politika, li tfittex l‐appoġġ ta’ waħda jew loħra mill‐partijiet fit‐taqbida, li tisħaq iżjed fuq fehma politika milli fuq l‐oħra, tieħu xejriet differenti sew, skont jekk wieħed jikkunsidrax bħala skop essenzjali l‐kisba tal‐poter u t‐twettiq ta’ ċerti riformi fl‐ambitu ta’ kull stat għalih, jew inkella l‐ħolqien tal‐premessi ekonomiċi, politiċi, morali għat‐
twaqqif ta’ sistema federali li tħaddan il‐kontinent kollu. 3) Raġuni oħra ‐ u forsi l‐iżjed importanti ‐ kienet ġejja mill‐fatt li l‐ideal ta’ Federazzjoni Ewropea, preludju għal Federazzjoni Dinjija, waqt li seta’ jidher utopija mbiegħda ftit snin biss ilu, illum, fi tmiem din il‐gwerra, jidher li huwa għan li jista’ jintlaħaq u li kważi qiegħed viċin. Fit‐taħlita sħiħa ta’ popli li ġab miegħu dan il‐konflitt fil‐pajjiżi kollha li waqgħu taħt l‐okkupazzjoni talĠermaniżi, fil‐bżonn li tinbena mill‐ġdid fuq pedamenti ġodda ekonomija li għoddha tfarrket għal kollox, u li jitqiegħdu fuq ilmejda l‐problemi kollha li għandhom x’jaqsmu mal‐konfini politiċi, mal‐barrieri tad‐dwana, mal‐
minoranzi etniċi, eċċ.; fil‐karattru nnifsu ta’ din il‐gwerra, li fiha l‐element nazzjonali inqabeż hekk sikwit mill‐element ideoloġiku, li fiha rajna stati żgħar u medji jirrinunzjaw għall‐biċċa l‐kbira tas‐sovranita tagħhom favur l‐istati aktar b’saħħithom, u li fiha min‐naħa tal‐faxxisti nnifishom ilkunċett ta’ ≪spazju vitali≫ ħa post dak ta’ «indipendenza nazzjonali». F’dawn l‐elementi kollha wieħed jilmaħ dati li jirrendu attwali bħal qatt qabel, f’dan iż‐żmien ta’ wara l‐gwerra, il‐problema tassistema federali tal‐Ewropa. Forzi li ġejjin mill‐klassijiet soċjali kollha, għal raġunijiet kemm ekonomiċi kemm ta’ ideali, jistgħu ikunu interessati fiha. Wieħed ikun jista’ joqrob lejha bis‐saħħa ta’ trattativi diplomatiċi u bissaħħa ta’ qawmien popolari; billi jiffavorixxi fost il‐klassijiet kolti listudju tal‐problemi marbutin magħha, u billi jipprovoka stat ta’ rivoluzzjoni, li meta jseħħ ma jkunx iżjed possibbli terġa’ lura; billi tinfluwenza l‐isferi diriġenti tal‐istati rebbieħa, u tmexxi fl‐istati telliefa l‐kelma li biss f’Ewropa ħielsa u magħquda huma jistgħu isibu s‐
salvazzjoni tagħhom u jevitaw il‐konsegwenzi diżastrużi tat‐telfa. Proprju għalhekk twieled il‐Moviment tagħna. Inqisu din il‐problema bħala prinċipali, li tiġi qabel kull ħaġa oħra, meta nqabbluha mal‐oħrajn kollha li għandna f’din l‐epoka li deħlin fiha; ninsabu żguri li, jekk inħallu l‐qagħda terġa’ tibbies fil‐forom qodma nazzjonalistiċi, l‐okkażjoni tintilef għal dejjem, u ebda paċi u ġid li jdum ma jista’ jinkiseb fil‐kontinent tagħna; huwa dan kollu li ġagħlna noħolqu organizzazzjoni awtonoma, bil‐ħsieb li nġibu ’l quddiem l‐
idea tal‐Federazzjoni Ewropea bħala għan li jista’ jintlaħaq fis‐snin li ġejjin ta’ wara l‐gwerra. M’aħniex nagħlqu għajnejna għad‐diffikultajiet li għandna quddiemna, jew għall‐qawwa tal‐forzi li sa jaħdmu kontriha; iżda naħsbu li din hi l‐ewwel 188
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darba li dil‐problema qed titqiegħed fuq il‐mejda tal‐ġlieda politika, mhux bħala ideal imbiegħed, iżda bħala ħtieġa traġika u urġenti. Il‐Moviment tagħna, li issa ilu sentejn jgħix ħajja moħbija diffiċli taħt l‐
oppressjoni faxxista u nazista; li l‐imseħbin fih ġejjin minn fost il‐militanti tal‐
antifaxxiżmu u huma lkoll magħquda fil‐ġlieda armata għall‐ħelsien; li diġa ħallas bil‐qares tal‐ħabs għall‐kawża komuni; il‐Moviment tagħna ma hux u ma jridx ikun partit politiku. Hekk kif qiegħed dejjem iżjed jiddistingwi ruħu b’mod ċar, huwa jrid jaħdem fuq id‐diversi partiti politiċi u fi ħdanhom, mhux biss biex jisħaq iżjed fuq it‐talba internazzjonalista, imma wkoll u fuq kollox biex il‐problemi kollha tal‐ħajja politika tiegħu jiġu mistħarrġa wara li nitilqu minn dan l‐angolu viżwali ġdid, li ftit li xejn konna mdorrijin bih sa issa. M’aħniex partit politiku għaliex, ukoll jekk naħdmu attivament b’risq kull studju li għandu x’jaqsam mas‐sistema istituzzjonali, ekonomika u soċjali tal‐
Federazzjoni Ewropea, ukoll jekk nieħdu sehem attiv fil‐ġlieda għat‐twettiq tagħha u nħabirku biex niskopru liema forzi jistgħu jaħdmu favurha fil‐qagħda politika futura, ma rridux nesprimu fehmitna uffiċjalment fuq id‐dettalji istituzzjonali, fuq il‐livell akbar jew iżgħar ta’ kollettivizzazzjoni ekonomika, fuq għandhiex tkun kbira jew żgħira d‐deċentralizzazzjoni amministrattiva, eċċ. eċċ., li għandhom jikkaratterizzaw l‐organiżmu federali futur. Inħallu li fi ħdan il‐Moviment tagħna dawn il‐problemi jiġu diskussi b’mod wiesa’ u ħieles, u li t‐
tendenzi politiċi kollha, minn dik komunista sa dik liberali, ikunu rappreżentati fostna. Fil‐fatt, dawk li ngħaqdu magħna huma kważi lkoll attivi f’xi wieħed mill‐partiti politiċi progressivi: ilkoll jaqblu fuq ilħidma b’risq dawk li huma l‐
prinċipji bażilari ta’ Federazzjoni Ewropea ħielsa, li ma tistrieħ fuq ebda eġemonija, u lanqas fuq sistemi totalitarji, u li jkollha dik is‐solidita strutturali li ma tfaqqarhiex billi tniżżilha għal sempliċi Soċjeta tan‐Nazzjonijiet. Dawn il‐prinċipji jistgħu jitqassru fil‐punti li ġejjin: armata waħda federali, għaqda monetarja, tneħħija tal‐barrieri tad‐dwana u tal‐limitazzjonijiet għall‐
emigrazzjoni bejn l‐istati tal‐Federazzjoni, rappreżentanza diretta taċ‐ċittadini f’kull assemblea federali, politika barranija waħda. F’dawn is‐sentejn ta’ ħajja, il‐Moviment tagħna infirex ħafna fost il‐gruppi u l‐partiti politiċi antifaxxisti. Uħud minnhom esprimewlna pubblikament l‐
adeżjoni u s‐simpatija tagħhom. Oħrajn sejħulna biex nikkollaboraw fit‐tiswir tal‐programmi tagħhom. Forsi m’aħniex prużuntużi meta ngħidu li hu sa ċertu punt mertu tagħna jekk il‐problemi tal‐Federazzjoni Ewropea jiġu ttrattati daqshekk spiss fl‐istampa klandestina Taljana. Il‐ġurnal tagħna, L’Unita
Europea, isegwi b’attenzjoni l‐ġrajjiet tal‐politika interna u internazzjonali, waqt li jieħu pożizzjoni dwarhom b’indipendenza assoluta ta’ ġudizzju. Dawn il‐kitbiet, frott tal‐elaborazzjoni ta’ ideat li wasslet għattwelid tal‐
Moviment tagħna, ma jirrappreżentawx, madankollu, ħlief l‐opinjoni ta’ dawk 189
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li kitbuhom, u bl‐ebda mod ma jfissru li l‐ Moviment innifsu ħa xi pożizzjoni. Għandhom biss il‐ħsieb li jipproponu temi ta’ diskussjoni lil dawk li jixtiequ jerġgħu jaħsbuha fuq il‐problemi kollha tal‐ħajja politika internazzjonali waqt li jagħtu każ tal‐esperjenzi ideoloġiċi u politiċi l‐iżjed reċenti, tarriżultati l‐aktar aġġornati tax‐xjenza ekonomika, tal‐prospettivi li laktar jagħmlu sens u huma raġonevoli għall‐ġejjieni. Ma jdumux ma jkunu segwiti minn studji oħrajn. L‐awgurju tagħna huwa li jqajmu ferment ta’ ideat; u li, fl‐atmosfera preżenti tikwi bil‐ħtieġa urġenti tal‐
azzjoni, jagħtu kontribut ta’ kjarifikazzjoni li jirrendi l‐azzjoni dejjem aktar deċiża, konxja u responsabbli. Il‐Moviment Taljan għall‐Federazzjoni Ewropea Ruma, 22 ta’ Jannar 1944 190
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GĦAL EWROPA ĦIELSA U MAGĦQUDA PROĠETT TA’ MANIFEST I. Il‐Kriżi taċ‐ċiviltà moderna Taċ‐ċivilta moderna poġġiet bħala l‐pedament tagħha l‐prinċipju tal‐liberta, li jgħid li l‐bniedem m’għandux ikun sempliċi strument f’idejn ħaddieħor, iżda ċentru awtonomu ta’ ħajja. B’dan il‐kodiċi f’idejna, beda proċess storiku grandjuż ta’ dawk l‐aspetti kollha tal‐ħajja soċjali li ma kinux jirrispettawh. 1) Ġie magħruf li n‐nazzjonijiet kollha għandhom dritt indaqs li jorganizzaw ruħhom fi stati indipendenti. Kull poplu, li jintgħaraf mill‐
karatteristiċi etniċi, ġeografiċi, lingwistiċi u storiċi tiegħu, kellu jsib fl‐
organiżmu statali maħluq minnu u għalih, skond ilkonċezzjoni partikolari tiegħu tal‐ħajja politika, l‐istrument biex jissodisfa bl‐aħjar mod il‐bżonnijiet tiegħu, indipendentement minn kull indħil barrani. L‐ideoloġija tal‐
indipendenza nazzjonali kienet ħmira qawwija tal‐progress; għenet biex jingħelbu l‐piki lokali mistmerra bis‐saħħa ta’ sens ta’ solidarjeta usa’ kontra loppressjoni tad‐dominaturi barranin; warrbet ħafna mill‐ostakli li kienu jxekklu ċ‐ċirkolazzjoni tan‐nies u tal‐merkanzija; fit‐territorju ta’ kull stat ġdid wasslet fost il‐popolazzjonijiet l‐aktar arretrati l‐istituzzjonijiet u s‐sistemi tal‐
popolazzjonijiet l‐aktar ċivili. Iżda fiha kienet iġġorr iż‐żerriegħa tal‐ imperjaliżmu kapitalista, li lġenerazzjoni tagħna rat jikber daqs ġgant, sa ma ssawru l‐istati totalitarji u faqqgħu il‐gwerer dinjin. In‐nazzjon issa m’għadux ikkunsidrat bħala l‐prodott storiku tal‐għajxien flimkien ta’ bnedmin li, wara li waslu, bis‐saħħa ta’ proċess twil, għal għaqda akbar ta’ drawwiet u aspirazzjonijiet, isibu fl‐istat tagħhom l‐għamla l‐iżjed effikaċi biex jorganizzaw ilħajja kollettiva fil‐kwadru tas‐soċjeta umana kollha; minflok, sar entita sovrumana, organiżmu li jrid jaħseb biss għall‐eżistenza 191
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tiegħu u għall‐iżvilupp tiegħu, bla ma jħabbel rasu xejn mill‐ħsara li dan jista’ jagħmel lill‐oħrajn. Is‐sovranita assoluta tal‐istati nazzjonali wasslet għall‐
volonta ta’ dominju ta’ kull wieħed minnhom, għax kull wieħed iħossu mhedded mill‐qawwa tal‐oħrajn u jqis ≪spazju vitali≫ tiegħu territorji dejjem iżjed vasti, li jippermettulu jiċċaqlaq liberament u jiżgura li jkollu l‐mezzi ta’ eżistenza bla ma jiddependi minn ħadd. Din ir‐rieda ta’ dominju ma tistax issib kwiet ħlief fl‐eġemonija tal‐istat l‐aktar b’saħħtu fuq l‐oħrajn li jsiru kollha lsiera tiegħu. B’konsegwenza ta’ dan, l‐istat, flok dak li jħares il‐liberta taċ‐ċittadini, inbidel f’sid ta’ sudditi qaddejja, mogħni bil‐poteri kollha biex jilħaq l‐ogħla effiċjenza fil‐qasam tal‐gwerra. Anki f’perijodi ta’ paċi, li jitqiesu bħala żmien ta’ preparazzjoni għall‐
gwerer li jiġu żgur għax inevitabbli, ir‐rieda tal‐klassi militari f’bosta pajjiżi llum tirbaħ fuq dik tal‐klassi ċivili, u tagħmilha dejjem iżjed diffiċli li s‐sistemi politiċi liberi jaħdmu: l‐iskola, ixxjenza, il‐produzzjoni, l‐organiżmu amministrattiv huma qabel kollox immirati biex iżidu l‐potenzjal tal‐gwerra; l‐
ommijiet qed jiġu kkunsidrati bħala wellieda ta’ suldati, u għalhekk ippremjati bl‐istess kriterji li jippremjaw il‐bhejjem għammiela fil‐fieri; it‐tfal jiġu mgħallmin sa minn eta l‐aktar tenera s‐sengħa tal‐armi u jimtlew bl‐odju lejn il‐
barranin, il‐libertajiet individwali jiġu fix‐xejn, ladarba kulħadd militarizzat u msejjaħ il‐ħin kollu biex jagħti servizz militari; il‐gwerer waħda wara l‐oħra jġagħluk tabbanduna lfamilja, l‐impjieg, dak li tippossjedi, u tissagrifika ħajtek stess għal objettivi li ħadd ma jaf tassew is‐siwi tagħhom; fi ftit jiem jinqerdu r‐
riżultati ta’ ħafna snin ta’ xogħol liried iżid il‐ġid kollettiv. L‐istati totalitarji huma dawk li wettqu bil‐mod l‐aktar koerenti l‐
unifikazzjoni tal‐forzi kollha, billi użaw il‐massimu ta’ ċentralizzazzjoni u ta’ awtarkija, u għalhekk urew li huma l‐organiżmi liżjed addattati għall‐ambjent internazzjonali tal‐lum. Biżżejjed li nazzjon wieħed jagħmel pass ’il quddiem lejn totalitariżmu aktar aċċentwat, biex jimxu warajh l‐oħrajn imkaxkrin fl‐istess radda mill‐volonta li jibqgħu jeżistu. 2) Ġie rikonoxxut id‐dritt li ċ‐ċittadini kollha għandhom, indaqs, li jsawru l‐volonta tal‐istat. Din kellha għalhekk tiġbor fiha l‐bżonnijiet ekonomiċi u ideoloġiċi, li jinbidlu maż‐żmien, tal‐kategoriji kollha soċjali, liberament espressi. Organizzazzjoni politika bħal din ippermettiet li jkunu kkoreġuti jew almenu mnaqqsin ħafna mill‐inġustizzji l‐aktar kbar li ntirtu mir‐reġimi tal‐
passat. Iżda lliberta tal‐istampa u ta’ assoċjazzjoni, u l‐firxa progressiva tad‐dritt tal‐vot, kienu qed jagħmluha dejjem iżjed diffiċli li jibqgħu il‐privileġġi qodma, waqt li titwaqqaf is‐sistema rappreżentattiva. Dawk li ma kellhom ebda proprjeta ftit ftit tgħallmu jinqdew b’dawn l‐
għodod biex jagħtu s‐salt lid‐drittijiet li kienu akkwistaw il‐klassijiet għonja; it‐
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taxxi soċjali fuq dħul mhux ġej minn impjieg u fuq is‐suċċessjoni, ir‐rati progressivi ta’ taxxa fuq ġid kbir, l‐eżenzjoni tal‐qligħ minimu u tal‐prodotti ta’ ħtieġa ewlenija, l‐iskola pubblika bla ħlas, iż‐żieda fin‐nefqa għall‐għajnuna u l‐
assikurazzjoni soċjali, ir‐riformi tal‐biedja, il‐kontroll tal‐ fabbriki, kienu jheddu lill‐klassijiet privileġġjati fiċ‐ċittadelli l‐iżjed fortifikati tagħhom. Imma l‐klassijiet privileġġjati, anki dawk li kienu qablu malugwaljanza tad‐drittijiet politiċi, ma setgħux jaċċettaw li l‐klassijiet foqra jinqdew b’dawn l‐
istrumenti biex jiksbu dik l‐ugwaljanza tassew li kienet tagħti kontenut konkret ta’ ħelsien veru lil dawk id‐drittijiet. Meta, wara tmiem l‐ewwel gwerra dinjija, it‐theddida saret gravi wisq, kien naturali li dawn il‐klassijiet ċapċpu bil‐ħerqa u appoġġaw id‐dittatorjati, li kienu ħatfu l‐arma tal‐liġi minn idejn l‐għedewwa tagħhom. Min‐naħa l‐oħra, il‐formazzjoni ta’ kumplessi industrijali u bankarji kbar ħafna u ta’ għaqdiet tal‐ħaddiema li ġabru taħt tmexxija waħda eżerċti sħaħ ta’ ħaddiema, għaqdiet u kumplessi li kienu jagħfsu fuq il‐gvern biex jiksbu l‐
politika li l‐aktar taqdi l‐interessi partikolari tagħhom, kienet thedded li tkisser lill‐istat innifsu f’għadd ta’ baruniji ekonomiċi li dejjem jiġġieldu bejniethom. Issistemi demokratiko‐liberali, li kienu qegħdin isiru l‐għodda li biha jinqdew dawn il‐gruppi biex jisfruttaw aħjar il‐kollettivita kollha kemm hi, bdew jitilfu dejjem iżjed il‐prestiġju tagħhom, u b’hekk xterdet il‐konvinzjoni li l‐istat totalitarju biss, bit‐tneħħija tal‐libertajiet popolari, seta’ b’xi mod isolvi l‐
konflitti ta’ interessi li l‐istituzzjonijiet politiċi eżistenti ma kienx qed jirnexxilhom jikkontrollaw. Fil‐fatt, imbagħad, ir‐reġimi totalitarji kkonsolidaw, kollox ma’ kollox, il‐
pożizzjoni tad‐diversi kategoriji soċjali fil‐qagħda li kienu laħqu, u bil‐kontroll polizjesk tal‐ħajja kollha taċ‐ċittadini u bl‐eliminazzjoni vjolenta ta’ kull min ma jaqbilx, neħħew kull possibbilta legali li s‐sitwazzjoni li fiha kienu l‐affarijiet tirranġa. B’hekk ġiet żgurata l‐eżistenza tal‐klassi għal kollox parassitarja tas‐
sidien tal‐art assenteisti u ta’ dawk li jgħixu bir‐renti li kienu jikkontribwixxu għall‐produzzjoni soċjali billi jaqtgħu biss iċ‐ċedoli tat‐titoli tagħhom; tal‐
klassijiet monopolistiċi u tal‐kumpaniji b’ħafna friegħi li jisfruttaw lill‐
konsumaturi u jġibu fix‐xejn il‐flus ta’ dawk li jfaddlu xi somma żgħira; tal‐
plutokrati li, mistoħbijin wara l‐kwinti, jiġbdu l‐ispag li jċaqalqu l‐pupazzi tan‐
nies tal‐politika biex jidderieġu l‐magna kollha tal‐istat għall‐vantaġġ esklużiv tagħhom infushom, waqt li taparsi qegħdin ifittxu l‐ogħla interessi nazzjonali. Jibqgħu ma jinbidlux il‐ġid kolossali tal‐ftit u l‐miżerja tal‐massa, eskluża minn kull possibbilta li tgawdi l‐frott tal‐kultura moderna. Ma jintmissx, fil‐linji sostanzjali tiegħu, reġim ekonomiku li fih ir‐riżervi materjali u l‐forzi tax‐
xogħol, li jmisshom ikunu indirizzati biex jissodisfaw il‐bżonnijiet fondamentali għalliżvilupp tal‐enerġiji vitali tal‐bniedem, jintużaw minflok għassodisfazzjon 193
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tax‐xewqat l‐iżjed futili ta’ dawk li jistgħu iħallsu logħla prezzijiet; reġim ekonomiku li fih, bid‐dritt tas‐suċċessjoni, is‐setgħa tal‐flus tibqa’ ddur għal dejjem fl‐istess klassi soċjali, u tinbidel fi privileġġ li ma jaqbel xejn mas‐siwi soċjali tal‐kontribut li fil‐fatt jagħtu, u l‐possibiltajiet proletarji jibqgħu hekk fil‐
baxx li, biex jgħixu, l‐ħaddiema sikwit iridu bilfors iħallu jisfruttahom lil min joffrilhom kwalunkwe possibilta ta’ impjieg. Biex jinżammu immobilizzati u sottomessi l‐klassijiet tal‐ħaddiema, l‐
għaqdiet tal‐ħaddiema inbidlu: minn organiżmi ħielsa li jiġġieldu, immexxijin minn individwi li kienu jgawdu l‐fiduċja talmembri, saru organi ta’ għassa polizjeska, taħt it‐tmexxija ta’ impjegati magħżulin mill‐grupp li jiggverna u li kienu responsabbli lejh biss. Jekk issir xi bidla f’reġim ekonomiku bħal dan, tkun dejjem iddettata biss mill‐bżonnijiet tal‐militariżmu li saru ħaġa waħda mal‐aspirazzjonijiet reazzjonarji tal‐klassijiet ipprivileġġjati li jwaqqfu u jikkonsolidaw l‐istati totalitarji. 3) Kontra d‐dommatiżmu awtoritarju, afferma ruħu l‐valur permanenti ta’ l‐ispirtu kritiku. Dak kollu li kien jingħad, ried jispjega r‐raġunijiet tiegħu jew jisparixxi. Ir‐rebħiet il‐kbar tas‐soċjeta tagħna f’kull qasam nafuhom lil dan l‐
atteġġjament spreġudikat użat b’mod metodiku. Iżda dan il‐ħelsien ta’ l‐ispirtu ma felaħx għall‐kriżi li welldet l‐istati totalitarji. Dommi ġodda li jridu jiġu aċċettati bil‐fidi, jew bl‐ipokrisija, qegħdin jagħmluha ta’ padruni fix‐xjenzi kollha. Għalkemm ħadd ma jaf x’inhi razza, u t‐tagħrif storiku l‐aktar elementari juri l‐assurdita tal‐idea, il‐fiżjoloġi qegħdin jintalbu jemmnu, juru u jikkonvinċu li wieħed jappartjeni lil razza eletta, sempliċement għaliex l‐ imperjaliżmu jeħtieġ dan il‐mit biex ikebbes fil‐kotra l‐odju u l‐kburija. Il‐kunċetti l‐aktar evidenti tax‐xjenza ekonomika jridu jitqiesu anatemi biex il‐politika awtarkika, liskambji bbilanċjati u l‐istrumenti qodma tal‐merkantiliżmu jiġu ppreżentati bħala skoperti straordinarji ta’ żminijietna. Minħabba l‐interdipendenza ekonomika tal‐inħawi kollha tad‐dinja, id‐dinja kollha hija spazju vitali għal kull poplu li jrid iżomm il‐livell ta’ ħajja li jaqbel maċ‐ċivilta moderna; iżda nħolqot it‐taparsi xjenza tal‐ġeopolitika, li trid turi l‐konsistenza tat‐teorija tal‐
ispazji vitali, biex tagħti libsa teorika lir‐rieda ta’ ħakma tal‐imperjaliżmu. L‐istorja tiġi ffalsifikata fid‐dati essenzjali, fl‐interess tal‐klassi li tiggverna. Il‐bibljoteki u l‐ħwienet tal‐kotba jiġu ppurifikati mixxogħlijiet kollha li ma jitqisux ortodossi. Id‐dlam tal‐oskurantiżmu qiegħed mill‐ġdid jhedded li jifga l‐ispirtu tal‐bniedem. L‐istess etika soċjali tal‐liberta u tal‐ugwaljanza qed tiġi mminata. Il‐bnedmin ma għadhomx jitqiesu ċittadini ħielsa, li jinqdew bl‐istat biex jilħqu aħjar l‐għanijiet kollettivi tagħhom. Huma qaddejja tal‐istat, li jiddeċiedi hu liema għandhom ikunu l‐għanijiet tagħhom, u ma għandniex xi ngħidu, tittieħed dejjem bħala volonta tal‐istat ilvolonta ta’ dawk li għandhom 194
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is‐setgħa f’idejhom. Il‐bnedmin mhumiex iżjed persuni mħarsa mil‐liġi, imma, ġew imqiegħda f’ġerarkiji, u għandhom jobdu bla ma jargumentaw lill‐
awtoritajiet superjuri li fil‐quċċata tagħhom hemm kap meqjus qisu alla. Irreġim tal‐kasti jerġa’ jitwieled prepotenti mill‐irmied tiegħu stess. Din iċ‐ċivilta totalitarja reazzjonarja, wara li ttrijonfat f’għadd ta’ pajjiżi, fl‐
aħħar sabet fil‐Ġermanja nazista l‐qawwa li jidhrilha li għandha twassalha sa l‐
aħħar konsegwenzi. Wara tħejjija metikoluża, approfittat ruħa b’awdaċja u mingħajr skrupli mir‐rivalita, mill‐egoiżmi, mill‐istupidita ta’ ħaddieħor, u kaxkret warajha stati oħrajn Ewropej suġġetti għaliha ‐ l‐ewwel fosthom l‐Italja ‐ u waqt li ssieħbet mal‐Ġappun li għandu għanijiet jixxiebhu fl‐Asja, intefgħet għax‐xogħol tal‐ħakma. Ir‐rebħa tagħha tkun tfisser ilkonsolidament aħħari tat‐
totalitariżmu fid‐dinja. Il‐karatteristiċi tiegħu kollha jkunu eżasperati għall‐
aħħar, u l‐forzi progressivi jkunu kkundannati għal żmien twil għal sempliċi oppożizzjoni negattiva. L‐arroganza u l‐intransiġenza tradizzjonali tal‐klassijiet militari Ġermaniżi tista’ diġa tagħtina ħjiel ta’ kif tkun il‐ħakma tagħhom, wara gwerra rebbieħa. Il‐Ġermaniżi, rebbiħin, ikunu jistgħu anki jippermettu kisja leqqiena ta’ ġenerożita lejn il‐popli l‐oħrajn Ewropej, jirrispettaw formalment it‐territorji u l‐
istituzzjonijiet politiċi tagħhom, biex b’hekk jiggvernaw waqt li jissodisfaw is‐
sentiment patrijottiku stupidu li jħares lejn l‐ilwien tal‐arbli tal‐fruntieri u lejn in‐nazzjonalita tan‐nies tal‐politika li jitilgħu fuq il‐palk, minflok lejn ir‐
relazzjoni tal‐forzi u lejn il‐kontenut effettiv tal‐organiżmi tal‐istat. Tilbes liema maskra tilbes, ir‐realta tibqa’ dejjem waħda: tiġdid tal‐qasma tal‐umanita bejn Spartjati u Iloti. Barra minn dan anki soluzzjoni ta’ kompromess bejn il‐partijiet fil‐ġlieda, tkun tfisser pass ieħor ’il quddiem tat‐totalitariżmu, għax il‐pajjiżi kollha li jkunu ħarbu mill‐għafsa tal‐Ġermanja, ikunu mġiegħlin jadottaw l‐istess forom ta’ organizzazzjoni politika li għandha hi, biex jitħejjew kif għandu jkun għal meta terġa’ tibda l‐gwerra. Iżda l‐Ġermanja ta’ Hitler, jekk setgħet twaqqa’ wieħed wieħed listati minuri, bl‐azzjoni tagħha ġagħlet jidħlu fit‐taqbida forzi dejjem iżjed qawwijin. Il‐kumbattivita qalbiena tal‐Gran Britannja, anki filmument l‐iżjed kritiku meta kienet baqgħet tieqaf lill‐għadu waħedha, ġagħlet lill‐Ġermaniżi jmorru jitħabtu kontra r‐reżistenza qawwija tal‐armata Sovjetika u tat żmien lill‐Amerika biex tibda lmobilitazzjoni tar‐riżorsi produttivi bla tarf tagħha. U din it‐taqbida kontra l‐imperjaliżmu Ġermaniż intrabtet mill‐qrib ma’ dik li lpoplu Ċiniż qed jiġġieled kontra l‐imperjaliżmu Ġappuniż. Mases immensi ta’ nies u rikkezzi jinsabu diġa skjerati kontra lpotenzi totalitarji; il‐qawwiet ta’ dawn il‐potenzi waslu fil‐quċċata tagħhom, u ma 195
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jistgħux issa ħlief jittieklu progressivament. Dawk ta’ kontrihom, bil‐maqlub, diġa ssuperaw il‐mument tal‐agħar depressjoni, u jinsabu telgħin ’il fuq. Il‐gwerra tal‐alleati tqajjem mill‐ġdid kuljum dejjem iżjed irrieda tal‐
ħelsien, ukoll fil‐pajjiżi li kienu batew il‐vjolenza u baqgħu mitlufin bid‐daqqa li qalgħu; u tqajjem saħansitra rieda bħalha fl‐istess popli tal‐potenzi tal‐Assi, li qegħdin jintebħu li lmexxejja tagħhom qed ikaxkruhom lejn qagħda ddisprata, sempliċement biex tkun sodisfatta r‐regħba għall‐ħakma ta’ dawk ilmexxejja. Il‐proċess li kien għaddej bil‐mod, li bis‐saħħa tiegħu mases enormi ta’ bnedmin kienu qed iħallu lir‐reġim il‐ġdid jagħġinhom passivament, billi jadattaw ruħhom għalih u b’hekk isaħħuh, issa waqaf; beda minflok il‐proċess kuntrarju. F’din il‐mewġa kbira li bil‐mod qed tiġma’, hemm il‐forzi progressivi kollha, dawk ta’ moħħ iżjed miftuħ fost il‐klassijiet tal‐ħaddiema li ma ħallew la tterrur u lanqaz it‐tħajjir inessihom l‐aspirazzjoni tagħhom għal forma ogħla ta’ ħajja; l‐elementi l‐aktar konxji tal‐klassijiet intellettwali, offiżi bid‐degradazzjoni li għaliha ġiet suġġetta l‐intelliġenza; imprendituri li jħossuhom kapaċi jidħlu għal inizjattivi ġodda u jixtiequ jeħilsu mix‐xedd tal‐burokrazija u mill‐awtarkiji nazzjonali, li jxekklu kull ċaqliqa tagħhom; dawk kollha, fl‐aħħarnett, li, għax għandhom minn qaddishom sens ta’ dinjita, ma jafux jgħawġu x‐xewka ta’ daharhom fl‐umiljazzjoni tal‐qaddejja. F’idejn dawn il‐forzi kollha qiegħda llum is‐salvazzjoni taċċivilta tagħna. II. Ix‐Xogħol ta’ wara l‐gwerra. L‐Għaqda Ewropea It‐telfa tal‐Ġermanja ma twassalx pero awtomatikament għas‐sistemazzjoni tal‐
Ewropa skont lideal tagħna taċ‐ċivilta. Fil‐perijodu qasir u intens ta’ kriżi ġenerali (li fih l‐istati jkunu mitfugħin flart imfarrkin, li fih il‐ mases popolari jkunu jistennew bil‐ħerqa l‐kelma ġdida u jkunu materja maħlula, taħraq nar, li tista’ titferra’ f’forom ġodda, u jkunu kapaċi jilqgħu il‐gwida ta’ nies tassew internazzjonalisti), il‐klassijiet li l‐aktar kellhom privileġġi fis‐sistemi nazzjonali l‐antiki, jippruvaw bil‐qerq u bil‐vjolenza li jmewtu l‐mewġa tas‐sentimenti u tal‐passjonijiet internazzjonalisti, u fid‐dieher jagħtuha għall‐bini mill‐ġdid tal‐
organiżmi statali lantiki. U huwa probabbli li d‐diriġenti Ingliżi, forsi bi ftehim ma’ dawk Amerikani, jippruvaw jimbuttaw l‐affarijiet lejn dik in‐naħa, biex jerġgħu jaqbdu l‐politika tal‐ekwilibrju tal‐poteri, f’dak li jkun jidher l‐interess immedjat tal‐imperi tagħhom. Il‐forzi konservattivi, jiġifieri: id‐diriġenti tal‐istituzzjonijiet fondamentali ta’ l‐istati nazzjonali; l‐ogħla gradi tal‐forzi armati, li fil‐quċċata tagħhom hemm, fejn għadhom jeżistu llum, il‐monarkiji; dawk il‐gruppi tal‐kapitaliżmu monopolista li rabtu x‐xorti talprofitti tagħhom ma’ dawk ta’ l‐istati; il‐
proprjetarji l‐kbar tal‐art u l‐ġerarkiji ekkleżjastiċi għoljin li biss minn soċjeta 196
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stabbli konservattiva jistgħu jaraw assigurat id‐dħul tagħhom parassitarju; u warajhom il‐kotra bla għadd ta’ dawk li jiddependu minnhom jew li anki huma biss mgħammxin mis‐setgħa tradizzjonali tagħhom; dawn il‐forzi reazzjonarji kollha diġa mil‐lum qed iħossu li l‐bini qed iżaqżaq, u jfittxu li jsalvaw. Meta jaqa’, dan iċaħħadhom f’daqqa waħda mill‐garanziji kollha li kellhom sa issa, u jesponihom għall‐assalt tal‐forzi progressisti. IS‐SITWAZZJONI RIVOLUZZJONARJA: KURRENTI QODMA U ĠODDA Il‐waqgħa tar‐reġimi totalitarji tkun tfisser sentimentalment għal popli sħaħ il‐
miġja tal‐«ħelsien»; ikun għab kull rażan, u awtomatikament jirrenjaw libertajiet wiesgħa tal‐kelma u ta’ assoċjazzjoni. Ikun it‐trijonf tat‐tendenzi demokratiċi. Dawn għandhom sfumaturi bla għadd, li jinfirxu mill‐ liberaliżmu konservattiv ħafna sas‐soċjaliżmu u l‐anarkija. Jemmnu fil‐«ġenerazzjoni spontanja» tal‐ġrajjiet u tal‐istituzzjonijiet, jemmnu li l‐impulsi li jiġu minn isfel huma assolutament tajbin. Ma jridux jisfurzaw iżżejjed l‐«istorja», il‐«poplu», il‐
«proletarjat» u kull isem ieħor li jagħtu lill‐alla tagħhom. Jittamaw b’qalbhom kollha li jintemmu ddittatorjati, waqt li jaħsbu li dan ifisser li l‐poplu jerġa’ jikseb iddrittijiet impreskrittibbli ta’ awtodeterminazzjoni. Il‐quċċata talħolm tagħhom hija assemblea kostitwenti eletta b’vot mill‐aktar wiesa’ u b’rispett mill‐aktar skrupluż tad‐drittijiet tal‐eletturi, li mbagħad tiddeċiedi x’kostituzzjoni għandha tingħata. Jekk il- poplu huwa immatur, tingħata waħda ħażina; iżda din tkun tista’ tiġi rranġata biss b’ħidma ma taqta’ xejn ta’ konvinzjoni. Id‐demokratiċi m’humiex kontra l‐vjolenza, bħala prinċipju; iżda jridu jużawha biss meta l‐maġġoranza tkun konvinta li hi indispensabbli, jiġifieri proprjament meta m’hi xejn aktar ħlief tikka tista’ tgħid bla bżonn li titqiegħed fuq l‐«i»; huma għalhekk diriġenti tajbin biss fi żminijiet ta’ amministrazzjoni ordinarja, meta l‐poplu hu kollox ma’ kollox konvint li l‐istituzzjonijiet fondamentali huma tajbin, li jridu biss jiġu mirquma f’xi aspetti relattivament sekondarji. Fi żminijiet rivoluzzjonarji, meta l‐istituzzjonijiet ma jridux biss jiġu amministrati, iżda jridu jiġu maħluqin, ilprassi demokratika tfalli bil‐kbir. L‐
impotenza li ġġiblek ħasra taddemokratiċi fir‐rivoluzzjoni Russa, Ġermaniża, Spanjola, huma tlieta mill‐eżempji l‐iżjed reċenti. F’sitwazzjonijiet bħal dawn, meta jkun waqa’ l‐apparat statali l‐qadim, bil‐liġijiet u l‐amministrazzjoni tiegħu, jinbtu immedjatament, b’wiċċ ta’ legalita antika, jew b’disprezz tagħha, kwantita ta’ assemblejiet u rappreżentanzi popolari li fihom jinġabru u jħambqu l‐forzi kollha soċjali progressisti. Il‐poplu tassew għandu xi bżonnijiet fondamentali x’jissodisfa, iżda ma jafx sew xi jrid u x’għandu jagħmel. Elf 197
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qanpiena jdoqqu f’widnejh. Bil‐miljuni ta’ rjus tiegħu ma jafx fejn jaqbad jagħti rasu, u jitfarrak fi kwantita ta’ tendenzi jitqabdu bejniethom. Fil‐mument meta jkun hemm bżonn l‐akbar deċiżjoni u qilla, iddemokratiċi jħossuhom mitlufin, għax ma jkollhomx warajhom kunsens popolari spontanju, iżda biss tbaqbiq imċajpar ta’ passjonijiet. Jaħsbu li dmirhom hu li jiffurmaw dak il‐kunsens, u jippreżentaw ruħhom bħal predikaturi li jħeġġu, meta jkunu meħtieġa kapijiet li jmexxu u jafu fejn iridu jaslu. Jitilfu l‐okkażjonijiet favorevoli għat‐tisħiħ tar‐reġim il‐ġdid, għax jippruvaw iħaddmu mill‐ewwel organi li għandhom bżonn preparazzjoni twila, u li huma mfassla għal perijodi ta’ kwiet relattiv; jagħtu lillavversarji tagħhom armi li mbagħad dawk jużawhom biex iwarrbuhom; jirrappreżentaw, insomma, fl‐elf tendenza tagħhom, mhux ir‐rieda ta’ tiġdid, iżda x‐xewqat fiergħa u konfużi li jsaltnu fl‐imħuħ kollha, li, billi jipparalizzaw lil xulxin, iħejju art tajba għall‐iżvilupp tar‐reazzjoni. Il‐metodoloġija politika demokratika tkun biss ta’ piż fi kriżi rivoluzzjonarja. Waqt li d‐demokratiċi jfettqu fuq it‐tifsir tal‐kliem u b’hekk jherru l‐
popolarita li kienu ġabu għall‐ewwel bħala kampjuni tal‐liberta, fejn m’hemmx rivoluzzjoni politika u soċjali serja, jerġgħu jibdew jinbnew immankabilment l‐
istituzzjonijiet politiċi pre‐totalitarji, u t‐taqbida terġa tibda tiżviluppa skont l‐
iskemi l‐qodma talġlieda bejn il‐klassijiet. Il‐prinċipju li ma jħallix li l‐problemi politiċi kollha jirriduċu ruħhom fl‐
aħħar mill‐aħħar għall‐ġlieda tal‐klassi, ikkostitwixxa ddirezzjoni fondamentali l‐aktar fost il‐ħaddiema tal‐fabriki, u sewa biex jagħti konsistenza lill‐politika tagħhom, sakemm ma kienx hemm kustjoni ta’ istituzzjonijiet fondamentali; iżda jinbidel f’għodda ta’ iżolament tal‐proletarjat meta jkun hemm il‐ħtieġa li tiġi ttasformata l‐organizzazzjoni tas‐soċjeta kollha kemm hi. Ilħaddiema, imrawma b’mod klassista, ma jafux jaraw, allura, ħlief it‐talbiet partikolari tal‐
klassi, jekk mhux tal‐kategorija, tagħhom, bla ma jħabblu rashom kif jgħaqqduhom mal‐interessi tal‐klassijiet l‐oħrajn; inkella jaspiraw għad‐
dittatura unilaterali tal‐klassi tagħhom, biex iwettqu l‐kollettivizzazzjoni utopistika tal‐għodda kollha materjali tal‐produzzjoni, indikata minn propaganda sekolari bħala l‐aqwa rimedju għat‐tbatijiet kollha tagħhom. Din ilpolitika ma taqbad art fl‐ebda klassi oħra, ħlief dik tal‐ħaddiema, li b’hekk iċaħħdu lill‐forzi progressivi l‐oħrajn mill‐appoġġ tagħhom, jew iħalluhom jaqgħu taħt idejn ir‐reazzjoni li torganizzahom bil‐għaqal biex iddgħajjef is‐
sinsla tal‐istess moviment proletarju. Fost id‐diversi tendenzi proletarji, segwaċi tal‐politika klassista u tal‐ideal kollettivista, il‐komunisti għarfu d‐diffikulta li tikseb biżżejjed forzi warajk biex tirbaħ, u għaldaqstant ‐ bil‐maqlub talpartiti popolari l‐oħrajn ‐ inbidlu f’moviment b’dixxiplina riġida, li jisfrutta l‐mit Russu li jrid jorganizza l‐
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ħaddiema, iżda ma jħallihomx jiddettawlu huma, u jużahom f’manuvri ta’ kull xorta. Dan l‐atteġġament jirrendi l‐komunisti, fil‐kriżijijiet rivoluzzjonarji, iżjed effiċjenti mid‐demokratiċi; iżda, billi huma jżommu kemm jista’ jkun ’il bogħod il‐klassijiet tal‐ħaddiema mill‐forzi rivoluzzjonarji l‐oħra ‐ għax jippridkaw li r‐
rivoluzzjoni «vera» tagħhom għad trid tiġi ‐ jikkostitwixxu, fil‐mumenti deċiżivi, element settarju li jdgħajjef kollox. Barra minn hekk, id‐dipendenza assoluta tagħhom mill‐istat Russu, li użahom darba wara l‐oħra biex jilħaq l‐
għan tal‐politika nazzjonali tiegħu, ma tħallihom jiżvolġu ebda politika b’kontinwita. Dejjem għandhom bżonn jistaħbew wara xi Karoly, xi Blum, xi Negrin, biex imbagħad faċilment jitkissru flimkien mal‐pupi demokratiċi użati; għax is‐setgħa tinkiseb u tinżamm mhux bil‐ħżunija biss, iżda bil‐ħila li twieġeb b’mod strutturat u vitali għan‐neċessita tas‐soċjeta moderna. Jekk għada l‐ġlieda tibqa’ ristretta għall‐qasam nazzjonali tradizzjonali, ikun diffiċli ħafna li wieħed jaħrab id‐dilemmi l‐antiki. L‐istati nazzjonali infatti diġa ppjanaw mill‐qiegħ l‐ekonomiji rispettivi tagħom, tant li l‐kustjoni ċentrali ssir malajr dik li tagħraf liema grupp ta’ interessi ekonomiċi (jiġifieri liema klassi) għandu jżomm f’idejh it‐tmun tal‐pjan. Il‐front tal‐forzi progressisti jitfarrak faċilment fit‐taqtigħa bejn klassijiet u kategoriji ekonomiċi. Blakbar probabbilta ir‐reazzjonarji jkunu dawk li jgawdu minn dan. Moviment tassew rivoluzzjonarju jrid jinbet minn fost dawk li għarfu jikkritikaw il‐forom politiċi l‐qodma; irid ikun jaf jikkollabora mal‐forzi demokratiċi, ma’ dawk komunisti, u b’mod ġenerali ma’ kull min jikkopera għat‐tmermir tat‐totalitariżmu; iżda bla ma jħalli ebda forza minnhom taqbdu fix‐xibka tal‐prassi politika tagħha. Il‐forzi reazzjonarji għandhom nies u diriġenti ta’ ħila u li tgħallmu jikkmandaw, li jikkumbattu bil‐kbir biex iżommu s‐supremazija tagħhom. Fil‐
mument gravi jagħrfu jippreżentaw ruħhom mibdulin tajjeb ħafna, jistqarru li huma jħobbu l‐ħelsien, is‐sliem, il‐ġid ta’ kulħadd, il‐klassijiet l‐iżjed foqra. Diġa fl‐imgħoddi rajna kif iddeffsu wara l‐movimenti popolari, u pparalizzawhom, għawġulhom it‐triq u bidluhom sewwasew fil‐maqlub ta’ dak li riedu. Bla dubju jkunu l‐forza l‐aktar perikoluża li magħha jkunu jridu jissieltu. Il‐punt li fuqu jridu jagħfsu l‐aktar ikun ir‐restawrazzjoni talistat nazzjonali. B’hekk ikunu jistgħu jinsistu fuq is‐sentiment popolari l‐iżjed mifrux, l‐iżjed offiż mill‐movimenti reċenti, l‐iżjed wieħed li tista’ tużah faċilment għal għanijiet reazzjonarji: is‐sentiment patrijottiku. B’dan il‐mod jistgħu ukoll jittamaw li jsibuha eħfef iħawdu l‐imħuħ tal‐avversarji, meta tqis li għall‐qtajja’ popolari l‐unika esperjenza politika li kisbu sa issa hi dik li qed tiżviluppa fl‐ambitu nazzjonali, u għalhekk hi ħaġa aktarx ħafifa li tindirizza 199
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kemm lilhom u kemm lil dawk fost il‐kapijiet tagħhom li jaraw biss sa mneħirhom lejn it‐triq tar‐rikostruzzjoni tal‐istati mwaqqgħin mir‐riefnu. Jekk dan l‐għan jintlaħaq, ir‐reazzjoni tkun rebħet. Anki jekk dawn l‐istati jistgħu jidhru demokratiċi u soċjalisti ħafna; ir‐ritorn tas‐setgħa f’idejn ir‐
reazzjonarji tkun biss kustjoni ta’ żmien. Terġa’ tqum l‐għira bejn in‐
nazzjonijiet, u kull stat iqiegħed mill‐ġdid issodisfazzjon tal‐esiġenzi tiegħu fil‐
qawwa tal‐armi biss. Fi żmien aktarx qasir jerġa’ jinħass dmir ewlieni li il‐popli isiru eżerċti. Il- ġenerali jerġgħu jibdew jikkmandaw, il‐monopolisti japprofittaw mill‐awtarkiji, il‐qtajja’ tal‐burokrazija joktru, u l‐qassisin iżommu l‐kotra kwieta. Dak kollu li jkun inkiseb fl‐ewwel żmien jinxef bħalli xejn, quddiem il‐ħtieġa ta’ tħejjija mill‐ġdid għall‐gwerra. Il‐problema li qabelxejn trid tiġi solvuta, u jekk infallu f’dan kull progress ieħor ikun biss tal‐parenza, hi l‐abolizzjoni definittiva tattqassim tal‐Ewropa fi stati nazzjonali sovrani. Il‐waqgħa tal‐biċċa l‐kbira tal‐istati tal‐kontinent taħt ir‐
romblu kompressur Ġermaniż diġa għaqqdet flimkien ix‐xorti tal‐popli Ewropej, li, jew kollha f’daqqa joqogħdu għall‐ħakma Ħitlerjana, jew kollha f’daqqa jidħlu, bil‐waqgħa tagħha, fi kriżi rivoluzzjonarja li fiha ma jsibux ruħhom imwebbsin u magħżulin fi strutturi statali solidi. Bħalissa l‐imħuħ huma diġa iżjed lesti jilqgħu ir‐riorganizzazzjoni federali tal‐Ewropa milli kienu fl‐imgħoddi. L‐esperjenza ħarxa ta’ dawn l‐aħħar deċenni fetħet għajnejn ukoll min ma riedx jara, u mmaturat ħafna ċirkustanzi li jaffovorixxu l‐ideal tagħna. Il‐bnedmin raġonevoli kollha issa jirrikonoxxu li ma jistax jinżamm ekwilibrju ta’ stati Ewropej indipendenti, bil‐Ġermanja militarista tgħix magħhom b’kondizzjonijiet indaqs mal‐pajjiżi loħra, u lanqas ma jista’ jkun li taqsam il‐Ġermanja f’biċċiet meta tkun mirbuħa u żżomm sieqek fuq għonqha. Deher b’mod evidenti u bil‐provi li ebda pajjiż fl‐Ewropa ma jista’ jinqata’ għalih waħdu waqt li l‐oħrajn jiġġieldu, u li ma jiswew xejn id‐dikjarazzjonijiet ta’ newtralita u l‐patti ta’ non‐aggressjoni. Illum rajna l‐inutilita, anzi l‐ħsara, li jagħmlu organiżmi tat‐tip tas‐Soċjeta tan‐ Nazzjonijiet, li ppretendiet li tiggarantixxi dritt internazzjonali mingħajr qawwa militari kapaċi li timponi d‐
deċiżjonijiet li tieħu, u waqt li tirrispetta s‐sovranita assoluta tal‐istati parteċipanti. Irriżulta assurd il‐prinċipju ta’ non‐intervent, li jgħid li kull poplu għandu jitħalla ħieles li jagħżel il‐gvern dispotiku li jrid, bħallikieku l‐
kostituzzjoni interna ta’ kull stat individwali ma kinitx ta’ interess vitali għall‐
pajjiżi l‐oħra kollha Ewropej. Bla soluzzjoni jidhru l‐ħafna problemi li qed javvelenaw il‐ħajja internazzjonali tal‐kontinent ‐ il‐linja tal‐konfini fiż‐żoni b’popolazzjoni mħallta, id‐difiża tal‐minoranzi etniċi, l‐iżbokk għall‐baħar tal‐
pajjiżi li jinsabu fl‐intern, il‐kustjoni tal‐Balkani, il‐kustjoni Irlandiża, eċċ. ‐ li ssib fil‐Federazzjoni Ewropea s‐soluzzjoni l‐iżjed sempliċi ‐ kif sabuha fl‐
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imgħoddi l‐problemi simili tal‐istati ċkejknin li daħlu jagħmlu sehem mill‐
għaqda usa’ nazzjonali wara li warrbu l‐imrar, għax inbidlu fi problemi ta’ relazzjonijiet bejn id‐diversi provinċji. Min‐naħa l‐oħra, it‐tmiem tas‐sens ta’ sigurta li kien ġej millfehma li l‐
Gran Britannja kienet inattakkabbli, u li kien ta’ lill‐ Ingliżi l‐idea li jgħixu fi «splendid isolation», il‐mod kif sfaxxat larmata u l‐istess repubblika Franċiża ma’ l‐ewwel ħbit serju talqawwiet Ġermaniżi (riżultat li wieħed jittama naqqas sewwa lkonvinzjoni xovinista tas‐superjorita gallika assoluta) u speċjalment l‐
għarfien ta’ kemm kien gravi l‐periklu ta’ jasar ġenerali, huma kollha ċirkostanzi li jiffavorixxu l‐kostituzzjoni ta’ reġim federali, li jġib fi tmiemha l‐
anarkija li hawn bħalissa. U l‐fatt li l‐ Ingilterra issa aċċettat il‐prinċipju tal‐
indipendenza Indjana, u li Franza, bir‐rikonoxximent tat‐telfa, prattikament tilfet l‐imperu kollu tagħha, jagħmluha ħaġa eħfef li tinsab ukoll bażi ta’ ftehim għal soluzzjoni Ewropea fil‐possedimenti kolonjali. Ma’ dak li semmejna rridu nżidu fl‐aħħarnett li xi dinastiji ewlenin m’għadomx jeżistu, u li dawk li fadal qed jistrieħu fuq pedamenti fraġili. Ta’ min jagħti każ, infatti, li d‐dinastiji, li kienu jqisu d‐diversi pajjiżi prerogattiva tradizzjonali tagħhom, kienu jirrappreżentaw, flimkien mal‐interessi qawwija li kienu jistrieħu fuqhom, ostaklu serju għall‐organizzazzjoni razzjonali tal‐iStati Uniti tal‐Ewropa, li ma jistgħux jinbnew ħlief fuq il‐kostituzzjoni repubblikana tal‐pajjiżi kollha mseħbin. U meta, lil hinn mix‐xefaq tal‐kontinent l‐antik, wieħed iħaddan f’viżjoni sħiħa l‐popli kollha li jiffurmaw l‐umanita, wieħed bilfors jagħraf li l‐Federazzjoni Ewropea hija l‐unika garanzija konċepibbli biex ir‐relazzjonijiet mal‐popli Asjatiċi u Amerikani jkunu jistgħu iseħħu fuq bażi ta’ koperazzjoni paċifika, sakemm jasal futur iżjed imbiegħed, li fih issir possibbli l‐unita politika tad‐dinja kollha. Għalhekk illum il‐linja li tifred il‐partiti progressisti mill‐partiti reazzjonarji ma tinsabx matul il‐linja formali li tiġi stabbilita aktar jew anqas demokrazija, jew aktar jew anqas soċjaliżmu, iżda matul il‐linja ġdida fjamanta u sostanzjali li tifred lil dawk li jikkonċepixxu bħala għan essenzjali tal‐lotta l‐
għan antik, jiġifieri l‐kisba tassetgħa politika nazzjonali ‐ u li, ukoll jekk involontarjament, jaqgħu għal‐logħba tal‐forzi reazzjonarji billi jħallu tibbies il‐
lava ħamra nar tal‐passjonijiet popolari fil‐forma l‐qadima, u jħallu jqumu mill‐
ġdid l‐assurditajiet antiki ‐ u dawk li jaraw bħala dmir ċentrali l‐ħolqien ta’ stat internazzjonali solidu, li jmexxu lejn dan l‐għan il‐forzi popolari u, wkoll meta jirbħu l‐poter f’pajjiżhom, jużawh l‐ewwel u qabel kollox bħala għodda biex isseħħ l‐għaqda internazzjonali. Bil‐propaganda u bl‐azzjoni, waqt li wieħed ifittex li jistabbilixxi b’kull mod ftehim u rabtiet bejn il‐movimenti individwali li ċertament qegħdin jissawru fid‐diversi pajjiżi, jeħtieġ li minn issa jitqiegħdu l‐pedamenti ta’ 201
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moviment li jkun jaf iqanqal il‐forzi kollha ħalli jwelled l‐organiżmu ġdid li jkun il‐kreazzjoni l‐iżjed grandjuża u l‐iżjed innovatriċi li nibtet fl‐Ewropa għal sekli sħaħ; biex iwaqqaf stat federali b’saħħtu, li jkollu forza armata Ewropea minflok l‐eżerċti nazzjonali; ifarrak b’deċiżjoni l‐awtarkiji ekonomiċi, li huma is‐sinsla tar‐reġimi totalitarji; ikollu l‐organi u l‐mezzi suffiċjenti biex jara li jiġu esegwiti fl‐istati federali individwali iddeċiżjonijiet tiegħu li ttieħdu bil‐ħsieb li tinżamm l‐ordni komuni, imma li jħalli lill‐istati infushom dik l‐awtonomija li tippermetti artikolazzjoni flessibbli u l‐iżvilupp ta’ ħajja politika skont ixxejriet partikolari tad‐diversi popli. Jekk fil‐pajjiżi Ewropej ewlenin ikun hemm numru kbir biżżejjed ta’ nies li jifhmu dan, ir‐rebħa tkun f’idejhom fi żmien qasir, għax is‐sitwazzjoni u l‐qlub ikunu favorevoli għall‐ħidma tagħhom. Huma jkollhom quddiemhom partiti u tendenzi diġa lkoll skwalifikati mill‐esperjenza diżastruża tal‐aħħar għoxrin sena. Billi tkun waslet is‐siegħa ta’ ħidmiet ġodda, tkun ukoll issiegħa ta’ bnedmin ġodda: tal‐MOVIMENT GĦALL‐EWROPA ĦIELSA U MAGĦQUDA. III. Ix‐Xogħol ta’ wara l‐gwerra. Ir‐riforma tas‐Soċjetà Ewropa ħielsa u magħquda hija premessa neċessarja għat‐tisħiħ taċ‐ ċivilta moderna, li tagħha lepoka totalitarja tidher bħala waqfa. It‐tmiem ta’ din l‐
epoka jerġa’ mill‐ewwel jiftaħ bis‐sħiħ ilproċess storiku kontra d‐diżugwaljanza u l‐privileġġi soċjali. L‐istituzzjonijiet konservattivi l‐antiki kollha li ma kinux qed iħalluh iseħħ ikunu waqgħu jew waslu biex; u dil‐kriżi tagħhom trid tiġi sfruttata b’kuraġġ u determinazzjoni. Ir‐rivoluzzjoni Ewropea, biex tissodisfa l‐ħtiġijiet tagħna, trid tkun soċjalista, jiġifieri trid taħdem għall‐emanċipazzjoni tal‐klassijiet tal‐ħaddiema u tiksbilhom kondizzjonijiet ta’ ħajja iżjed umani. Madankollu l‐boxxla li turi x’deċiżjonijiet għandhom jittieħdu għal dan l‐għan ma tistax tkun il‐prinċipju purament dottrinarju li jgħid li l‐proprjeta privata tal‐mezzi materjali tal‐
produzzjoni trid tkun per prinċipju abolita u ttollerata biss b’mod proviżorju, meta proprju ma jistax isir mod ieħor. Li l‐ekonomija kollha tgħaddi f’idejn l‐
istat kienet l‐ewwel forma utopistika li fiha l‐klassijiet tal‐ħaddiema raw il‐
ħelsien tagħhom mill‐madmad kapitalista; iżda, meta titwettaq għal kollox, ma twassalx għall‐iskop li noħolmu, iżda għat‐twaqqif ta’ reġim li fih il‐
popolazzjoni ssir qaddejja tal‐klassi ristretta tal‐burokati li jmexxu l‐ekonomija. Il‐prinċipju tassew fondamentali tas‐soċjaliżmu, u li tiegħu dak tal‐
kollettivizzazzjoni ġenerali ma kienx għajr deduzzjoni mgħaġġla u ħażina, huwa dak li jgħid li l‐forzi ekonomiċi m’għandhomx jiddominaw lill‐bnedmin, iżda ‐ kif jiġri lillforzi naturali ‐ għandhom huma jkunu sottomessi, iggwidati, ikkontrollati b’mod l‐iżjed razzjonali, sabiex il‐kotra l‐kbira tan‐nies ma tisfax 202
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vittma tagħhom. Il‐forzi kbar tal‐progress li joħorġu mill‐interess individwali, m’għandhomx jinħlew flilma qiegħed tar‐rutina biex imbagħad isibu ma’ wiċċhom ilproblema bla soluzzjoni ta’ kif terġa’ tqajjem l‐ispirtu ta’ inizjattiva bid‐differenzi fil‐pagi, u bil‐provvedimenti l‐oħra bħalhom; bil‐maqlub, dawk il‐forzi għandhom ikunu eżaltati u mifruxin bl‐offerta ta’ opportunita akbar ta’ żvilupp u ta’ impjieg, u fl‐istess ħin iridu jissaħħu u jkunu pperfezzjonati lħitan ta’ lqugħ li jmexxuhom lejn miri iżjed vantaġġużi għallkollettivita kollha. Il‐proprjeta privata għandha tkun abolita, limitata, ikkoreġuta, estiża kas kas, mhux b’mod dommatiku bħala prinċipju. Din iddirettiva tidħol b’mod naturali fil‐proċess ta’ formazzjoni ta’ ħajja ekonomika Ewropea meħlusa mill‐
inkubi tal‐militariżmu u talburokratiżmu nazzjonali. Is‐soluzzjoni razzjonali trid tieħu post dik irrazzjonali, anki fil‐kuxjenza tal‐ħaddiema. Billi nixtiequ nindikaw b’mod iżjed dettaljat il‐kontenut ta’ din id‐direttiva, u billi nagħrfu li l‐konvenjenza u l‐mod ta’ twettiq ta’ kull punt programmatiku jridu dejjem jiġu ġġudikati f’relazzjoni mal‐presuppost illum indispensabbli tal‐għaqda Ewropea, qegħdin nisħqu fuq ilpunti li ġejjin: a) Ma jistgħux jitħallew iżjed f’idejn il‐privat l‐impriżi li, billi jwettqu ħidma neċessarjament monopolistika, ikunu f’qagħda li jisfruttaw il‐massa tal‐
konsumaturi; ngħidu aħna l‐industrji talelettriku, l‐impriżi li jridu jinżammu ħajjin għal raġunijiet ta’ interess kollettiv iżda li, biex jieqfu fuq saqajhom, jeħtieġu dazji protettivi, sussidji, ordnijiet favorevoli, eċċ. (l‐eżempju l‐aktar ċar ta’ dan it‐tip ta’ industrja fl‐Italja sa issa hi s‐siderurġija); u l‐impriżi li minħabba l‐kobor tal‐kapitali investiti u l‐għadd ta’ ħaddiema li għandhom, jew minħabba l‐importanza tas‐settur li jiddominaw, jistgħu jirrikattaw lill‐organi tal‐istat u jimponu l‐politika l‐iżjed vantaġġuża għalihom (per eż.: l‐industrji tal‐minjieri, istituti bankarji kbar, armamenti kbar). Dan huwa l‐qasam li fih wieħed għandu bla dubju jimxi lejn nazzjonalizzazzjoni fuq skala kbira ħafna, bla ma jħares xejn lejn il‐jeddijiet miksubin. b) Il‐karatteristiċi li kellhom fil‐passat id‐dritt tal‐proprjeta u ddritt tas‐
suċċessjoni, ħallew jinġemgħu f’idejn ftit privileġġjati rikkezzi li jaqbel li jitqassmu waqt kriżi rivoluzzjonarja b’sens ta’ ugwaljanza, biex jiġu eliminati l‐
klassijiet parassitarji u biex il‐ħaddiema jingħataw l‐għodda tal‐produzzjoni li jeħtieġu, biex itejbu l-kundizzjonijiet ekonomiċi u jaslu għal aktar indipendenza fil‐ħajja. Qegħdin naħsbu, jiġifieri, f’riforma agrarja li tgħaddi l‐art lil min jaħdimha u b’hekk tkabbar bil‐bosta l‐għadd tal‐proprjetarji, u f’riforma industrjali li testendi l‐proprjeta tal‐ħaddiema fis‐setturi mhux statali, bit‐
tmexxija koperattiva, ishma tal‐ħaddiema, eċċ. ċ) Iż‐żgħażagħ għandhom jingħataw għajnuna bi provvedimenti meħtieġa biex jitnaqqsu kemm jista’ jkun id‐distanzi bejn ilpożizzjonijiet tat‐tluq fit‐
taqbida tal‐ħajja. B’mod partikolari, liskola pubblika għandha tagħti l‐
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possibilitajiet effettivi biex jitkompla l‐istudju sal‐livelli superjuri lil min hu l‐
iżjed maqtugħ għalihom, u mhux lil min għandu l‐flus; u għandha tħejji f’kull fergħa ta’ studji, li jwasslu għad‐diversi snajja’ u għad‐diversi attivitajiet liberali u xjentifiċi, numru ta’ individwi li jikkorrispondi mat‐talba tas‐suq, hekk li l‐
ħlasijiet medji jirriżultaw imbagħad bejn wieħed u ieħor indaqs għall‐kategoriji professjonali kollha, ikunu xi jkunu d‐differenzi fil‐ħlas fi ħdan kull kategorija, skont iddiversi ħiliet individwali. d) Il‐possibbilta kważi bla limiti tal‐produzzjoni bil‐massa talġeneri ta’ ħtieġa ewlenija, bit‐teknika moderna, tippermetti llum li, b’nefqa soċjali relattivament żgħira, kulħadd ikollu x’jiekol, fejn joqgħod u x’jilbes, bil‐
kumdita minima neċessarja biex jinżamm issens ta’ dinjita umana. Is‐solidarjeta umana lejn dawk li joħorġu tellifin fil‐ġlieda ekonomika, ma jkollhiex, għalhekk, għalfejn tintwera bil‐forom tal‐karita li huma dejjem umiljanti u li xorta jġibu t‐tbatija li jkunu qed jippruvaw ineħħu l‐konsegwenzi tagħha, iżda f’sensiela ta’ provvedimenti li jiggarantixxu bla kundizzjonijiet lil kulħadd, lil min jista’ jew ma jistax jaħdem, livell ta’ għajxien deċenti, mingħajr ma jnaqqsu l‐ħajra għax‐xogħol u t‐tifdil. B’hekk ħadd ma jkun iżjed imġiegħel mill‐miżerja biex jaċċetta kuntratti ta’ xogħol li jgħallquh. e) Il‐ħelsien tal‐klassijiet tal‐ħaddiema jista’ jseħħ biss jekk jitwettqu l‐
kundizzjonijiet li semmejna fil‐punti preċedenti: u mhux jekk jitħallew jaqgħu f’idejn il‐politika ekonomika tal‐għaqdiet monopolistiċi tal‐ħaddiema, li sempliċiment iġorru fil‐qasam talħaddiema l‐metodi għakkiesa karatteristiċi, l‐
ewwelnett, tal‐kapitali l‐kbar. Il‐ħaddiema jridu jerġgħu ikunu ħielsa li jagħżlu ’l min jafdaw biex jinnegozja f’isimhom ilkoll il‐kundizzjonijiet li taħthom jagħtu xogħolhom, u l‐istat għandu jipprovdi l‐mezzi talliġi biex jiggarantixxi li l‐ftehim milħuq jiġi osservat; iżda t‐tendenzi monopolistiċi kollha jistgħu jiġu kkumbattuti b’mod effikaċi, ladarba jkunu seħħu dawk il‐bidliet soċjali. Dawn huma l‐bidliet meħtieġa biex noħolqu madwar l‐ordni lġdid firxa wiesa’ ta’ ċittadini li jridu jżommuh ħaj, u biex tingħata lill‐ħajja politika marka b’saħħitha ta’ ħelsien, mimlija b’sens qawwi ta’ solidarjeta soċjali. Fuq dawn is‐sisien, il‐libertajiet politiċi jkunu jistgħu tassew ikollhom kontenut konkret, u mhux biss formali, għal kulħadd, billi l‐massa taċ‐ċittadini jkollha indipendenza u tagħrif suffiċjenti biex teżerċita kontroll kontinwu u effikaċi fuq il‐klassi tal‐gvern. Ikun żejjed li nieqfu nikkonsidraw l‐istituzzjonijiet kostituzzjonali, peress li ma nistgħux nobsru l‐kundizzjonijiet li fihom iridu jinbtu u jaħdmu, u nkunu biss qed nirrepetu dak li kulħadd diġa jaf fuq il‐bżonn ta’ organi rappreżentattivi, fuq it‐tiswir tal‐liġijiet, fuq l‐indipendenza tal‐maġistratura li tieħu post dik ta’ issa għallapplikazzjoni imparzjali tal‐liġijiet, fuq il‐liberta tal‐
istampa u ta’ assoċjazzjoni biex iddawwal l‐opinjoni pubblika u tagħti liċ‐
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ċittadini kollha l‐possibbilta li jieħdu sehem effettiv fil‐ħajja tal‐istat. Fuq żewġ kustjonijiet biss huwa meħtieġ li jitfissru aħjar l‐ideat, minħabba l‐importanza partikolari tagħhom f’dan il‐mument li fih jinsab pajjiżna: ir‐relazzjonijiet tal‐
istat mal‐knisja u l‐karattru tarrappreżentanza politika: a) Il‐konkordat li bih fl‐Italja l‐Vatikan għamel alleanza mal‐faxxiżmu għandu bla dubju jkun abolit biex ikun affermat il‐karattru purament lajk tal‐
istat, u biex tkun iffissata b’mod ċar u ċert issupremazija tal‐istat fuq il‐ħajja ċivili. Kull twemmin reliġjuż għandu jkun irrispettat, iżda l‐istat ma għandux joqgħod iqabbel il‐kulti. b) Id‐dar tal‐kartapesta li bena l‐faxxiżmu bis‐sistema korporattiva taqa’ biċċiet flimkien mal‐partijiet l‐oħrajn tal‐istat totalitarju. Hemm min jaħseb li għada pitgħada minn dawn il‐fdalijiet wieħed jista’ jieħu l‐materjal għall‐ordni kostituzzjonali ġdid. Aħna dan ma nemmnuhx. Fl‐istati totalitarji, il‐kmamar korporattivi huma l‐farsa li tiġġustifika l‐kontroll polizjesk fuq il‐ħaddiema. Anki li kieku l‐kmamar korporattivi kienu l‐espressjoni sinċiera tad‐diversi kategoriji tal‐produtturi, l‐organi ta’ rappreżentanza tad‐diversi kategoriji professjonali ma jistgħu qatt ikunu kwalifikati biex jinnegozjaw kustjonijiet ta’ politika ġenerali, u fil‐kustjonijiet iżjed proprjament ekonomiċi dawn jsiru organi ta’ tgħakkis tal‐kategoriji l‐iżjed b’saħħithom bħala unions. L‐għaqdiet tal‐ħaddiema jingħataw funzjonijiet wesgħin ta’ kollaborazzjoni mal‐organi statali inkarigati biex isolvu l‐problemi li jolqtuhom l‐aktar direttament, iżda hu bla dubju eskluż li jiġu fdati b’xi funzjoni leġiżlattiva, għax ir‐riżultat ikun anarkija fewdali fil‐ħajja ekonomika, li tispiċċa f’dispotiżmu politiku mġedded. Ħafna li inġenwament inqabdu mill‐mit tal‐korporattiviżmu, jistgħu u għandhom jiġu mħajrin jersqu lejn il‐ħidma ta’ tiġdid; iżda jeħtieġ jintebħu kemm hi assurda s‐soluzzjoni li b’mod konfuż kienu ħolmu huma. Il‐
korporattiviżmu ma jistax ikollu ħajja konkreta ħlief fil‐forma li ħa fl‐istati totalitarji, biex jirriġmenta lill‐ħaddiema taħt uffiċjali li jikkontrollaw kull ċaqliqa tagħhom fl‐interess tal‐klassi fil‐gvern. Il‐partit rivoluzzjonarju ma jistax jitwaqqaf malajr malajr b’mod dilettantesk f’mument deċiżiv, iżda jeħtieġlu sa minn issa jibda jissawwar almenu fl‐atteġġament politiku ċentrali tiegħu, fit‐tmexxija ġenerali u fl‐ewwel linji ta’ azzjoni. Huwa ma jridx jirrappreżenta massa eteroġenja ta’ tendenzi, magħqudin biss b’mod negattiv u għal ftit żmien, jiġifieri magħquda biss għax kienu antifaxxisti u għax qed jistennew il‐waqgħa tar‐reġim totalitarju, u mbagħad, malli jintlaħaq dak l‐għan, jitferrxu kullħadd għal rasu. Għall‐
kuntrarju l‐partit rivoluzzjonarju jaf li proprju dak il‐ħin tibda il‐ħidma vera tiegħu; u jrid għalhekk jitwaqqaf minn nies li jkunu jaqblu fuq il‐problemi prinċipali tal‐futur. 205
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Irid jidħol bil‐propaganda metodika tiegħu kulfejn hemm nies li huma mgħakksin mir‐reġim tal‐lum, u, waqt li jieħu bħala punt ta’ tluq il‐problema li minn darba għall‐oħra tinħass bħala dik li ġġib l‐akbar tbatija lill‐individwi u lill‐klassijiet, juri kif din hija konnessa ma’ problemi oħra, u jbassar liema tista’ tkun is‐soluzzjoni vera tagħhom. Iżda mill‐isfera dejjem tikber ta’ dawk li jissimpatizzaw miegħu, irid jagħżel u jirrekluta għall‐organizzazzjoni tal‐
moviment lil dawk biss li għamlu r‐rivoluzzjoni Ewropea l‐iskop ewlieni ta’ ħajjithom; li b’mod iddixxiplinat ikunu jistgħu iwettqu jum wara jum ix‐xogħol meħtieġ, jipprovvdu b’mod għaqli għas‐sigurta kontinwa u effikaċi tiegħu, ukoll fis‐sitwazzjonijiet ta’ illegalita l‐aktar iebsa, u hekk jinsġu x‐xibka b’saħħitha li tagħti konsistenza lill‐isfera iżjed fraġli tas‐simpatizzanti. Ukoll jekk ma jittraskura ebda okkażjoni u ebda qasam biex jiżra’ l‐kelma tiegħu, il‐partit irid iwettaq il‐ħidma bieżla tiegħu l‐ewwelnett f’dawk l‐
ambjenti li huma iżjed importanti bħala ċentru ta’ tixrid ta’ ideat u bħala ċentru ta’ reklutaġġ ta’ nies kumbattivi; qabelxejn lejn iż‐żewġ gruppi soċjali l‐iżjed sensittivi filqagħda tal‐lum, u deċiżivi f’dik ta’ għada; jiġifieri l‐klassi talħaddiema u dik tal‐intellettwali. Il‐klassi tal‐ħaddiema kienet dik li l‐anqas li qagħdet għas‐swat totalitarju, u li kienet l‐iżjed pronta biex terġa’ torganizza l‐
membri tagħha. L‐intellettwali, partikolarment iż‐żgħażagħ, huma n‐nies li jħossuhom l‐iżjed fgati flispirtu u ddiżgustati mid‐dispotiżmu li qed isaltan. Ftit ftit, klassijiet oħrajn ikunu inevitabbilment miġbudin lejn il‐moviment ġenerali. Kwalunkwe moviment li ma jirnexxilux joħloq alleanza minn dawn il‐
forzi huwa kkundannat għall‐isterilita; għax jekk jibqa’ moviment ta’ intellettwali biss ikun nieqes mill‐forza ta’ massa li hi neċessarja biex tegħleb ir‐
reżistenzi reazzjonarji, la jafda lill‐klassi tal‐ħaddiema u lanqas ikun fdat minnha; u anki jekk ispirat minn sentimenti demokratiċi, dawn faċli jiżżerżqu, quddiem id‐diffikultajiet, għal fuq il‐qiegħa tal‐mobilitazzjoni tal‐klassijiet l‐
oħrajn kollha kontra l‐ħaddiema, jiġifieri lejn restawrazzjoni faxxista. Jekk iserraħ biss fuq il‐proletarjat, ikun nieqes minn dak il‐ħsieb ċar li jiġi biss mingħand l‐intellettwali, u li hu indispensabbli biex wieħed jagħraf sewwa x‐
xogħol ġdid u t‐toroq ġodda: jibqa’ priġunier tal‐klassiżmu l‐antik, jilmaħ għedewwa kullimkien, u jiżżerżaq lejn is‐soluzzjoni dottrinarja komunista. Matul il‐kriżi rivoluzzjonarja, dan il‐moviment għandu jorganizza u jmexxi l‐forzi progressisti, waqt li juża dawk l‐organi popolari kollha li jissawru spontanjament bħala gruppi entużjasti li fihom jitħalltu l‐mases rivoluzzjonarji, mhux biex joħorġu plebixxiti, iżda biex jistennew lil min jiggwidahom. Huwa jġib il‐viżjoni u ċ‐ċertezza ta’ dak li jeħtieġ isir mhux bil‐konsagrazzjoni minn qabel min‐naħa tar‐rieda popolari li għadha ma teżistix, iżda għax konxju li qed jirrappreżenta l‐esiġenzi profondi tas‐soċjeta moderna. B’dan il‐mod jagħti l‐
ewwel direzzjonijiet lis‐sistema l‐ġdida, jagħti l‐ewwel dixxiplina soċjali lill‐
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kotra bla direzzjoni. Permezz ta’ din id‐dittatura tal‐partit rivoluzzjonarju jissawar l‐istat il‐ġdid, u madwaru d‐demokrazija ġdida u vera. M’għandux ikun hemm biża’ li reġim rivoluzzjonarju bħal dan jispiċċa jsir dispotiżmu ġdid. Jiġrilu hekk jekk irawwem tip ta’ soċjeta servili. Iżda jekk il‐
partit rivoluzzjonarju jibda joħloq b’id soda, sa mill‐ewwel passi, il‐
kundizzjonijiet għal ħajja ħielsa, li fiha ċ‐ċittadini kollha jistgħu tassew jieħdu sehem fil‐ħajja tal‐istat, levoluzzjoni tiegħu issir fid‐direzzjoni ta’ komprensjoni u aċċettazzjoni progressiva tal‐ordni l‐ġdid min‐naħa ta’ kulħadd, anki jekk jista’ jgħaddi minn kriżijiet politiċi sekondarji, u għalhekk jimxi fid‐direzzjoni ta’ possibbilta dejjem akbar li jaħdem, li jġib istituzzjonijiet politiċi liberi. Wasal il‐mument li fih hemm bżonn narmu t‐tagħbijiet qodma li saru ingombranti, li nżommu ruħna lesti għall‐ġdid li ġej, li se jkun tant differenti minn dak kollu li wieħed kien ħaseb, niskartaw linkapaċi fost ix‐xjuħ u nqajmu enerġiji ġodda fost iż‐żgħażagħ. Illum li qed nibdew ninsġu n‐nisġa tal‐futur, infittxu u niltaqgħu ma’ dawk li lemħu r‐raġunijiet tal‐kriżi preżenti taċ‐ċivilta Ewropea, u li għalhekk jilqgħu il‐wirt tal‐movimenti kollha li jgħollu ’l fuq lill‐
umanita, li nkaljaw għax ma fehmux l‐għan li jrid jintlaħaq jew il‐mezzi biex jaslu għalih. It‐triq li rridu nimxu mhix ħafifa, lanqas ma hi fiż‐żgur. Iżda rridu nimxuha, u hekk sa nagħmlu! Altiero Spinelli – Ernesto Rossi 207
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Malta Spinelli’s legacy and Malta Joseph M. Brincat Altiero Spinelli, a young communist, and Ernesto Rossi, a liberal economist who embraced English socialist ideals, wrote the Ventotene Manifesto in the summer of 1941 and two years later Eugenio Colorni published it secretly in Rome in July 1943, when the Italian capital was under Nazi occupation. The fact that it was written in a prison‐island shows how a cramped and oppressive environment can sometimes inspire a broad vision of freedom. The three men had been sent over to the small island of Ventotene and interned with other opponents of the regime by Mussolini, which explains why the document is essentially a strong reaction to Nazi‐fascist oppression. In those days the political climate was dominated by a strong fear of dictatorial states and threatened by widespread poverty all over Europe. Hopes for solving the troubles of the times centred mainly around two contrasting ideals: the re‐establishment of the democratic states and the international notion of communism under the guidance of the Soviet Union. Spinelli and Rossi conceived a third way forward based on the convinction that unity and freedom in all Europe could defeat Nazi‐fascist racism. Professor Francesco Gui of the University of Rome “La Sapienza” stresses the fact that their Manifesto also forestalled the Manifesto of Marx and Engels by upholding the principle of freedom and by placing the human person at the “autonomous centre of life” so that the economy would be at the service of man and not the other way round. By blending socialist and liberal ideals they proposed the creation of a new revolutionary and federalist party that would establish itself strongly right after the fall of Nazi‐fascism and before the reactionaries could recover. After the Second World War disagreement between the progressive and the reactionary factions revolved around those who wanted to establish a European Federation immediately and those who preferred a long‐term solution. It was the latter trend that found favour, but Spinelli never abandoned his ideal and kept on battling for a European constitution until the 14th February 1984 when the European Parliament approved the project of a treaty for the European Union which still bears his name. Spinelli died two years later. In post‐war Malta, a British colony, the fundamental issue was whether ties with Britain should be strengthened by integration or dissolved by 208
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independence. For different reasons Altiero Spinelli does not seem to have had direct contacts with Maltese politicians. The Nationalist Party strongly embraced European ideals since its birth. In fact one of its early stalwarts, Ernesto Manara, had expressed the conviction that a European movement would stop wars between the various states (one of Spinelli’s fundamental concepts) before the end of the 19th century. In the “Gazzetta di Malta” of the 20th April 1892 he wrote: “La formazione degli stati uniti d’Europa che oggi i governi e le classi dirigenti ritengono utopia, ...” and he therefore showed his adherence to Mazzini’s vision and to the invocation in favour of the European Democratic Federation proclaimed at the first International Peace Congress held in Geneva in 1867. In colonial Malta that idea could not develop into action but the Nationalist Party used to see it as a step towards freedom from British rule. As it professed Christian Democratic ideals, the PN followed the steps of Schuman, De Gasperi and Adenauer rather than Spinelli’s, who was linked to the parties of the left. On the other hand, the Malta Labour Party, in spite of its ideological affinity with Spinelli, does not seem to have cultivated direct contacts with Italian socialists because it preferred the English Labour model. Besides, since 1971, it upheld the ideal of peace in the Mediterranean, where Malta’s role could be that of a bridge between Southern Europe and North Africa. Although it never openly declared a hostile policy against European Union, the MLP showed more scepticism than enthusiasm, especially when it shelved Malta’s application for membership in 1996. The Nationalist Party worked hard for closer ties between Malta and the European Union. On attaining independence in 1964, Prime Minister George Borg Olivier expressed the wish that Malta would join the Community (which had been founded and strengthened between 1955 and 1957), but he believed that so long as Italy was a member but Britain was not, Malta would have to face a difficult decision and so he opted for a step by step approach. In 1965 Malta joined the Council of Europe and in 1970 Borg Olivier signed the first treaty of association with the Community. Action towards full membership was mentioned by the Malta Council of the European Movement in 1975 and the trend gained ground when important bodies declared themselves in its favour, like the Chamber of Commerce in 1979, the Confederation of Trade Unions in 1981 and 1987, and the Federation of Maltese Industries in 1986. Under the leadership of Edward Fenech Adami the Nationalist Party increased its tempo and during the General Council of 1990 the political, economic and social implications of full membership were discussed. As a result a resolution was passed urging the Government to apply immediately for full membership of the European Comunity. However, in 1995 the Union left out Malta and Cyprus from the group of new members and in 1996 the Malta Labour Party was 209
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elected and suspended the process. Membership of the EU became the prime issue of the 1998 elections, the Nationalist Party was brought back to power and discussions opened in 2000. On the 8th March 2003 a referendum was held and Malta became a member on the 1st May 2004. On the 1st of January 2008 Malta adopted the Euro and consequently entered the monetary union which had been mentioned in Colorni’s preface of the Manifesto of Ventotene. 210
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Federico II di Prussia e lo stato sociale di Federico Maiozzi Federico II di Hohenzollern, primo re di Prussia, è uno dei personaggi più affascinanti che la storia abbia mai conosciuto. In vita ebbe modo di essere giovane ribelle, re illuminato e spregiudicato, musicista, militare, saggista, studioso di Lettere e di Storia. Al di là degli aspetti più romanticheggianti della sua figura, il valore intellettuale e politico del personaggio mantiene comunque tutto il suo interesse indiscusso, anche ai nostri giorni. Visse come è noto nel pieno del XVIII secolo, un’epoca nella quale gli ultimi legami col Medioevo venivano distrutti o ridimensionati dalla nascita e dallo sviluppo degli stati moderni, ma in cui le caratteristiche proprie della nostra società contemporanea erano ancora per buona parte da delinearsi. In virtù della sua importanza, complessità e modernità, in occasione del trecentesimo anniversario della nascita, che cadrà esattamente il 24 gennaio 2012, sono in corso, e lo saranno fino a tutto l’anno venturo, una serie di iniziative volte sia a divulgare la conoscenza del sovrano prussiano presso un pubblico il più vasto possibile, formato da studenti, studiosi ed appassionati, sia ad approfondire, tramite ricerche storiografiche, socio‐economiche e giurisprudenziali, il pensiero e l’opera del grande monarca. In questo contesto si inserisce la presentazione del volume in fase di pubblicazione Federico il grande e l’Europa, tenutasi a Roma il 19 ottobre 2011 presso la Sapienza, nel corso di un convegno dal titolo ”Le origini dello Stato Sociale”. Sono intervenuti all’incontro l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, attualmente presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, l’on. Rocco Buttiglione, vice‐presidente della Camera dei Deputati, i professori della Sapienza Mario Caravale, Fulco Lanchester, Eugenio di Rienzo e Pietro Pastorelli, insieme al professor Achatz von Müller, dell’Università di Basilea. Parimenti importante è stata la partecipazione del professor Gregor Vogt‐Spira, docente di filologia classica all’Università di Marburgo, nonché direttore generale del Centro Culturale Italo‐Tedesco di Villa Vigoni, cui si deve l’edizione del volume. Vogt‐Spira, ha coordinato il lavoro di ricerca che ha permesso la stesura del volume insieme al professore Bernd Sösemann, storico tedesco, docente presso la libera università di Berlino fino al 2010, ed ora collaboratore del centro di Villa Vigoni. Oltre alla presentazione del libro, la finalità del convegno ‐ che è stato introdotto dal rettore della Sapienza, Luigi Frati, e dal direttore del 211
F. Maiozzi, Federico II di Prussia
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Dipartimento di Teoria dello stato, Teresa Serra – è stata anche di fornire spunti di riflessione su studi recenti che tendono a rileggere l’opera di Federico II di Prussia in campo sociale, evidenziandone sia gli elementi di innovazione che quelli di continuità con gli assetti ereditati dal passato. Ecco il perché del riferimento allo stato sociale presente nel titolo di un convegno dedicato alla figura di un uomo vissuto più di cento anni prima l’operato di Otto von Bismarck, il gran cancelliere considerato tradizionalmente, come sottolineato dal prof. Di Rienzo, il fondatore dello stato sociale nell’accezione contemporanea del termine. Finite le presentazioni, il professor Lanchester ha dato la parola a Giuliano Amato. Egli ha subito sottolineato l’opportunità di una riflessione sul tema dello stato sociale all’epoca di Federico II, purché tuttavia si tengano in preventiva considerazione non solo la figura dai caratteri unici nella storia di Federico, ma anche le peculiarità dell’Europa dell’epoca, che a differenza di quella attuale non era un complesso di nazioni e non lo sarebbe stata per molto tempo ancora. Sottolineato questo, l’intervento si è concentrato sull’argomento. Ad avviso di Amato, Federico II emanò in realtà pochi decreti specifici sullo stato sociale, mentre ne emanò molti sullo stato nel suo complesso. Lo stato, per il celebre monarca di età illuministica, doveva avere infatti come fine ultimo il benessere dei suoi cittadini, ed ogni norma emanata era tenuta a seguire questa regola generale. In un certo qual modo, ogni legge federiciana era quindi “sociale”. Di certo, o almeno molto probabilmente, ha proseguito Amato, non era solo la bontà d’animo a spingere Federico ed i suoi amministratori a perseguire un simile progetto, ma anche l’intenzione di privare le varie confessioni cristiane della funzione assistenziale verso gli indigenti. La cura diretta dei bisognosi, senza intermediari, per uno stato che aspirava ad essere assoluto, costituiva una questione cruciale. Da un lato, perciò, si eliminavano o ridimensionavano gli ordini religiosi e le chiese, poteri potenzialmente ostili –a voler usare una terminologia illuministico‐risorgimentale ‐ alla nazione, oltre che fra loro tenacemente ostili. Dall’altro, si aveva la possibilità di ricondurre all’interno della comunità statale persone che ne erano del tutto al di fuori. Con “indigenti” si indicavano infatti sia i miseri che i malati, che i criminali. Un simile processo di statalizzazione dell’assistenza, che in Italia, come ha ricordato il relatore, abbiamo avuto con l’unità nazionale ottocentesca, può esser dunque ricondotto tanto a finalità umanitarie che politiche. Tuttavia appare innegabile che in ambiente prussiano federiciano si sia sviluppato un concetto di stato come associazione che trae la sua legittimità nel perseguire il benessere dei suoi membri. Concetto che rimane perfettamente attuale ancora oggi. Discutibile resta invece, ha terminato Amato, l’esclusione totale di soggetti 212
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privati dalle questioni sociali. Grazie alla maggiore elasticità di un sistema misto pubblico‐privato ben gestito, non solo si ottengono risparmi di spesa, ma anche risultati migliori rispetto ad un’organizzazione del tutto privata o del tutto statale. Nel prosieguo del dibattito, l’on. Buttiglione ha ripreso le tematiche del collega Amato, soffermandosi però non tanto sulle questioni tecnico‐giuridiche quanto su quelle culturali che furono alla base dell’emanazione e dell’applicazione delle norme federiciane. Fondamentale è considerare l’ambiente culturale prussiano, avendo ben presente l’idea di prussianità. Quest’ultima costituiva un insieme di valori, comunemente accettati dalla maggior parte della popolazione, basati su disciplina, probità, spirito di sacrificio e rispetto dell’autorità, cui si accompagnava l’ideale del buon governo. Ed è proprio a questo complessivo codice morale che si deve l’obbedienza dei sudditi prussiani a Federico, monarca che non solo impegnò la Prussia in numerose guerre su ampia e piccola scala, ma emanò riforme così radicali, nella percezione della società del tempo, che non è certo sarebbero state accettate da un altro popolo del XVIII secolo. Il vicepresidente della Camera si è poi mostrato parzialmente critico sulla posizione dell’onorevole Amato riguardante il modello assistenziale prussiano. Egli ha fatto notare che è vero che sono stati estromessi i soggetti privati dalla gestione dell’assistenza, ma è altrettanto vero che lo stato prussiano non entrava quasi mai in contatto col singolo cittadino, ma lo aiutava e controllava tramite enti intermedi quali le comunità di villaggio o la famiglia, grosso modo come accade oggi. Di conseguenza non si può parlare di Stato prussiano come “assoluto”. Una critica, quella di Buttiglione, che, anche alla luce degli interventi successivi, ha mostrato una sua fondatezza, benché almeno in parte da ridimensionare: in quel “quasi mai” vanno infatti inserite categorie numericamente rilevantissime, quali quella degli indigenti e soprattutto quella dei militari, ammontanti al cinque per cento della popolazione prussiana (donne e bambini compresi) chiamato alle armi. Al che si potrà obiettare che l’esercito prussiano era territoriale, e dunque anche nel reclutamento dell’esercito avrebbero potuto intervenire le comunità locali. In realtà, queste ultime non avevano alcun potere decisionale sui reggimenti dislocati nei territori da esse amministrati. Tale potere era invece prerogativa del re, primo funzionario dello stato centrale. Una tematica estremamente interessante che richiederebbe tuttavia un ulteriore approfondimento in merito all’effettiva natura del neo‐costituito Regno di Prussia settecentesco, vista la complessità della questione, non esauribile in un convegno, per quanto ben curato. 213
F. Maiozzi, Federico II di Prussia
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I professori Caravale e Pastorelli si sono invece soffermati sul Codice Civile federiciano, emanato nel 1794, otto anni dopo la morte del monarca, e con contenuti in buona parte alterati. Nella sua forma originale, il Codice risultava di grande interesse, alla luce della volontà espressa di coniugare il diritto universale degli uomini – sia consentita questa forzatura kantiana ‐ con il diritto consuetudinario delle singole comunità locali. Il re vi era riconosciuto come figura fondamentale per la promulgazione e l’attuazione delle leggi, in piena linea col diritto romano. Al tempo stesso emergeva un elemento di forte novità: il sovrano non è la legge, bensì colui che la scrive e la emana, ma è tenuto al contempo a rispettarla. Era infatti prassi federiciana, non solo in ambito legale, che il monarca indicasse precedentemente le modalità cui si impegnava ad attenersi nella realizzazione di un dato progetto, fosse questo una riforma burocratica, o anche, in misura più limitata per ovvi motivi, una guerra. Entrambi i professori hanno fatto notare come questa impostazione, pur rimanendo fonte di ottimi spunti, contenesse un elemento di forte debolezza: il grande margine interpretativo lasciato al sovrano, che gli consentiva una discrezionalità tale da autorizzarlo a scavalcare tranquillamente gli embrionali checks and balances previsti dal Codice. Traendo spunto da questo, il professor von Müller ha iniziato il suo intervento, molto apprezzabile perché ha dato una lettura diversa della figura di Federico rispetto a quella fornita dai colleghi. Lo studioso ha infatti posto l’accento sulla doppiezza del personaggio storico. Federico è infatti conosciuto, anche da chi di storia sa ben poco, come un grande stratega, eppure, le sue strategie non rappresentavano rivoluzioni del modello esistente, bensì perfezionamenti non privi degli stessi punti deboli, primo fra tutti l’eccessiva complessità di esecuzione delle manovre militari, che risultavano lente e prevedibili. Inoltre, la discrezionalità interpretativa contenuta nelle leggi federiciane – ha proseguito von Müller – consentiva per un verso al sovrano di migliorare la sua immagine all’estero, dando al tempo stesso qualche concessione ai prussiani più progressisti, senza però perdere potere, ma anzi accrescendolo. Alquanto suggestiva la citazione di Maria Teresa d’Austria riferita dal docente di Basilea: “Federico è un uomo cattivo”. Forse il valore di questa fonte per giudicare Federico non è molto alto, dal momento che Maria Teresa aveva dolorosamente perduto la Slesia a favore di Federico stesso. Tuttavia di giudizi così perentori dell’imperatrice verso altri contemporanei se ne contano pochi: un altro è quello verso la figlia Maria Antonietta, ultima regina di Francia prima della Rivoluzione. Una linea critica è stata mantenuta anche dal professor Di Rienzo, in quello che è stato l’ultimo intervento del convegno. Egli ha sostenuto la tesi che, nel caso si voglia individuare un anticipatore dello stato sociale, questi sia 214
F. Maiozzi, Federico II di Prussia
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Napoleone III e non Federico II. Il Bonaparte, a parere del relatore, fu un dittatore progressista, quasi di sinistra, diremmo oggi. Egli infatti intraprese un’opera possente di migliorie non solo normative e burocratiche, ma anche tecniche. Costruì scuole, ospizi, ed ospedali moderni, gratuiti o molto economici. Seppe guadagnarsi l’appoggio della piccola e media imprenditoria rurale grazie alla rete di ferrovie, che aumentò e potenziò notevolmente, dando la possibilità ai soggetti interessati di allargare i loro mercati di vendita ed acquisto di prodotti, processo che ebbe significativi effetti sull’economia nazionale. Queste sue iniziative innovatrici ebbero una forte eco in ambiente germanico, il quale, stando sempre a Di Rienzo, crebbe culturalmente rifacendosi non tanto alla tradizione federiciana, quanto a quella bonapartista. La maggiore lacuna di Napoleone III, ha concluso il professore, fu invece la gestione delle forze armate francesi, che vennero umiliate nella guerra franco‐
prussiana del 1870. Il docente imputa a questo evento la visione negativa che generalmente si ha di Napoleone III come monarca, benché i suoi meriti siano stati tanto grandi quanto i suoi demeriti, che è discorso che potremmo fare anche per Federico II di Prussia. In conclusione, come accennato precedentemente, lo scopo del convegno non era quello di far totale chiarezza su questioni tanto complesse ed articolate, ma di fornire sia precisi spunti di riflessione, sia validi strumenti, “in primis” il volume presentato, utili per formare in chi fosse interessato una conoscenza quanto più possibile approfondita su un personaggio di primo piano della storia europea come Federico II. Malgrado i suoi difetti, le sue carenze e doppiezze, l’optimus princeps seppe fare di uno stato regionale povero come la Prussia una potenza europea di prim’ordine, la quale, pur non avendo origini tedesche, divenne il nucleo sul quale si sarebbe fondato uno dei più potenti stati nazionali dell’età contemporanea, che oggi, come ha fatto notare il professor Lanchester, dovrebbe apprestarsi a guidare l’intera Unione Europea verso un’Unione compiutamente politica. Vale a dire federale sì, ma con una leadership adeguata appunto alle caratteristiche dello stato federale, che prevede robuste istituzioni sovranazionali. Ad oggi e nel prossimo futuro, per motivi culturali, economici e politici, tale ruolo di guida potrà essere esercitato, ritiene il prorettore Lanchester, soltanto dalla Germania. 215
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Rahat, Gideon, Reuven Y. Hazan, and Richard S. Katz (2008), “Democracy and Political Parties: On the Uneasy Relationships between Participation, Competition and Representation”, Party Politics, 14:6, 663‐683 By Lorenzo Kamel In the article, the authors address the question if intra‐party democracy is likely to further or impede the advancement of the democratic values competition and representativeness on the system level of democracy (Rahat, Hazan, and Katz 2008, 663). One would expect that parties like, for example the European green parties, which are very inclusive, lead to more democratic results. Contrary to this assumption, however, the authors find that “the parties that are most internally democratic produce lists of candidates that are least representative and experience only medium levels of competition” (Rahat, Hazan, and Katz 2008, 663). This finding is not only of high theoretical, but also of practical relevance, when we theorize about important factors for democratization. In addition, some European foundations seek to foster internal democracy abroad, like ‐ as the authors mention ‐ the Swedish IDEA. When we believe the finding of the authors, however, this policy does not foster democracy, but actually hinders it. In the following, I will argue that the authors need to put their finding in proportion. The finding is heavily impeded by two biases that they should have at least discussed: 1) a value bias concerning their definition of democracy and 2) a selection bias in testing their hypothesis with a possible outlier case. First of all, the authors do not explicitly elaborate which concept of democracy they rely on and what lead them to choose this concept. This, however, needs to be made an explicit choice, as it limits the findings and researchers need to be aware of this. Obviously, with the factors inclusiveness, participation and representation, they rely on the “hegemonic” definition of democracy in Western Political Science by Robert Dahl, which leans to the side of liberal definitions of democracy. That the authors chose the liberal definition of Dahl is puzzling, when we remember that highly inclusive parties like the European Green parties were founded in a time, when models of participatory or deliberative democracy developed. The theoretical development of such models of democracy, as well as the practical development of such parties, which mirror deliberative and participatory models of democracy, reflect a certain trend, towards which Western democracies are moving. Subsequently, it 216
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might be a biased choice to measure democracy with the liberal definition of Dahl. Indeed, in their findings the authors then reject the social capital hypothesis of Putnam, which exactly reflects more republican or deliberative models of democracy. In other words, by starting out with a liberal definition of democracy, they end up with rejecting more republican or deliberative models of democracy. Second, the authors set up two hypotheses, namely that 1) competition “as measured by our indicators, will be greater with the all‐inclusive selectorate of a membership ballot than with the selectorate of a small party committee, but greatest of all if the selectorate is made up of elected party delegates” and 2) that party “lists selected by a small committee will be more balanced with regard to gender than will lists chosen by a large body of elected party delegates , which in turn will be more balanced than lists chosen by a membership ballot” (Rahat, Hazan, and Katz 2008, 667). So, their independent variable is the inclusiveness in candidate selection, while their dependent variables are competitiveness and representation. The paper then proceeds to test these hypotheses with the case of the Israeli party system. Like in the case of the chosen definition of democracy, this choice is not explained. However, this choice might be actually problematic, especially when testing the impact of the variable inclusiveness in candidate selection on the representation of women. Israel can in fact be regarded an outlier case here, when we consider that the representation of women in the parliament with 14.2% is relatively much lower than in other Western democracies. The authors might have found different results when testing their hypotheses with a European case. European democracies have been going through the process of socialization on “gender mainstreaming” policies. Thus, we can expect the publics to be almost as highly aware of this topic, as is the political elite. However, this might not be the case in Israel. It could be that the political elite represented in party committees is more aware of the importance of this issue than the broad membership. Consider also the case of the European, highly inclusive Green parties, which contradict the finding of the authors, as not only their party heads are mainly women, but also their lists include a high proportion of women or are often even dominated by women. 217
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