IL PUNTO
Le notizie di LiberaUscita
Aprile 2007 - N° 34
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
525 –Lo stato e la chiesa in rotta di collisione
526 - Se il codice penale non vale in sacrestia
527 - Romero un vescovo scomodo e dimenticato
ARTICOLI E INTERVISTE
528 - I parlamentari cattolici e l'obbedienza ai vescovi - di G. Alberigo
529 - I cento chiodi in mano ai vescovi - di Eugenio Scalfari
530 - Le false risposte del diritto naturale - di Gustavo Zagrebelsky
531 - Otto per mille:cattolici e laici uniti contro le ingerenze della CEI
532 - L’offensiva della chiesa - di Paolo Flores D'Arcais
533 - Nessuna terapia senza il consenso del paziente – di Gianluca Borghi
534 - Il testamento biologico val bene un atto di fiducia – di Maurizio Mori
535 - Il dolore inutile – di Franco Toscani
536 - Così ho aiutato Moana a morire - di Aldo De Luca
ANCORA SU WELBY
537 - Welby: GIP rigetta la richiesta di archiviazione della procura
538 - Welby, salviamo il dottor Riccio - di Furio Colombo
539 - Welby: e noi assumiamoci le spese del processo -di F. Orlando
CONVEGNI E DIBATTITI
540 - Problematiche di fine vita: scienza e diritti – convegno a Modena
541 - Laicità: garanzia di democrazia e libertà - convegno a Roma
542 - L’Italia è una repubblica: laica! – convegno a Roma
543 – Assemblea studentesca sull’eutanasia – Milano
544 - Anche in Italia l'eutanasia - conferenza a Firenze
PER SORRIDERE...
545 - Le vignette di Altan – Obiezione di coscienza
LiberaUscita
Associazione per il testamento biologico e l’eutanasia
Sede: via Genova 24, 00184 Roma
Telefono e fax: 0647823807
Sito web: www.liberauscita.it - email: [email protected]
525 - LO STATO E LA CHIESA IN ROTTA DI COLLISIONE – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di lunedì 30 marzo 2007
Caro Augias, Benedetto XVI ha indicato una serie di valori che «non sono negoziabili» e che
impongono ai legislatori cattolici di «presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti
della natura umana». Le note della Cei incalzano, si susseguono ormai quasi
quotidianamente, l'ultima, la più pesante, diffusa ieri l'altro.
La Pontificia Accademia per la vita ha «raccomandato una coraggiosa obiezione di
coscienza» ai credenti, in particolare a «medici, infermieri, farmacisti e personale
amministrativo, giudici e parlamentari ed altre figure professionali direttamente coinvolte
nella tutela della vita umana, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la
mettono in pericolo». Un invito a cittadini e magistrati a non rispettare le leggi dello Stato e ai
parlamentari a non ispirarsi alla Costituzione ma alla legge trascendente del Signore.
L'Associazione Nazionale Magistrati ha risposto: «E' la Costituzione la tavola dei valori cui
un magistrato deve fare riferimento nell’esercizio delle sue funzioni», e il Consiglio Superiore
della Magistratura ha ribadito: «Le toghe sono tenute solo al rispetto della Costituzione».
Ambedue hanno fatto riferimento ad una sentenza della Corte Costituzionale che nel 1987
negò ad un giudice il diritto di fare obiezione di coscienza su un caso di aborto. Uno dei tre
poteri dello Stato si è dunque già pronunciato.
A mio parere la Chiesa cattolica con i suoi interventi illegittimi, coadiuvata dai «teodem», dai
«teocon» e dagli «atei devoti», sta operando per rompere il patto di amicizia e fraternità del
popolo italiano, sancito solennemente con la Costituzione.
Ivo Bagni - ivo.bagni@tele2. it
Risponde Augias
Lo stesso argomento è stato affrontato pochi giorni fa su questo giornale da Stefano Rodotà
con parole molto allarmate: «siamo ormai di fronte, ha scritto, ad un conflitto tra due poteri,
lo Stato e la Chiesa, non governabile con le categorie tradizionali dell'ingerenza più o meno
legittima delle gerarchie ecclesiastiche o con il riferimento al Concordato».
La linea politica dettata da Benedetto XVI è chiaramente visibile. Messi da parte gli inviti alla
cautela che vengono, autorevolmente, dall'interno stesso della Chiesa, il papa tedesco
punta scopertamente allo scontro diretto. "La rottura è netta, ha aggiunto Rodotà. Viene
posto un limite esplicito al potere del Parlamento di decidere liberamente sul contenuto delle
leggi, con l'ulteriore ammonimento che, qualora quel limite non fosse rispettato, si
troverebbe di fronte alla rivolta dell'intera società cattolica».
Mai che io ricordi o abbia letto si era arrivati a una così forte tensione dopo il concordato
mussoliniano del 1929.
Altrettanto allarmate sono le parole di Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte
Costituzionale, nel suo recente libro “Imparare democrazia” (Einaudi ed.): «Il prodotto {delle
ultime prese di posizione} è la 'politica in nome di Dio' che vediamo diffondersi nelle e tra le
nostre società con tutto il suo potenziale di intolleranza e violenza». Se l'azione politica, che
per sua natura è flessibile e conciliatoria, viene esercitata in nome di 'principi non negoziabili'
il risultato inevitabile è lo scontro come dimostra ampiamente la storia spesso sanguinosa
della stessa Chiesa.
Viene da chiedersi se un così pericoloso accanimento si manifesti in nome della fede o di
interessi più immediati.
526 - SE IL CODICE PENALE NON VALE IN SACRESTIA – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di lunedì 16 aprile 2007
Egregio dottor Augias, vivo nel basso Lazio, in un paese molto piccolo in cui i valori della
tradizione e della cristianità sono forti e vivi.
Il parroco, come il farmacista, il sindaco, il maresciallo e il medico condotto, rappresenta
ancora un forte punto di riferimento sia per le persone anziane che per gli adolescenti.
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Purtroppo, qualche anno fa, in situazioni ancora misteriose il parroco è stato trovato morto
impiccato nella sua piccola e umile dimora. Nessuno ha dato spiegazioni ai fedeli.
Il mistero è rimasto e rimane. Restano interrogativi sul contenuto di un biglietto lasciato dal
vecchio parroco e sequestrato al momento del ritrovamento del cadavere. Dopo qualche
mese è arrivato un altro parroco più giovane.
Purtroppo quest'ultimo, constatate le sue difficoltà a gestire la piccola e vivace comunità, ha
pensato di convocare un'assemblea pubblica e di accusare un nutrito gruppo di fedeli di tutti
i mali che affliggevano a suo parere la parrocchia additandoli pubblicamente come pedofili,
gay, ecc.
Da quel giorno si sono create forti spaccature all'interno della comunità parrocchiale,
spaccatura spinta e voluta fortemente dal parroco stesso e dai suoi nuovi seguaci. Molti
fedeli sono stati costretti a cambiare parrocchia, altri sono stati ricoperti di maldicenze di
ogni tipo in ogni luogo pubblico del paese. Interrogato, il vescovo non risponde.
Saranno anche piccole storie di una piccola provincia ma io vedo in tutto ciò un affanno, una
crisi, un desiderio di non capire ciò che rende diversa e lontana la chiesa in cui sono
cresciuto.
Lettera firmata
Risponde Augias
Non so se condividere le conclusioni del lettore. Un giovane parroco in difficoltà in una
comunità forse indocile, che reagisce accusando è probabilmente un uomo ancora inesperto
che si trova a gestire una situazione più difficile del previsto. A disagio, spaventato, ha
risposto rifugiandosi dietro le 'certezze' che gli hanno inculcato in seminario. Credo che
anche i fedeli dovrebbero avere maggiore misericordia, talvolta.
Un altro lettore (il signor Guido Caruso - [email protected]) mi fa invece notare
quanto sia grave la notizia contenuta in un servizio di Franca Selvatici (Rep. Il.4 u. s.).
Esistono disposizioni recentissime (De delictis gravioribus è del 18 maggio 2001) che
vincolano tutti i vescovi al segreto sugli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti sui minori. Vi è
compreso in particolare il peccato contro «il sesto comandamento» rivelato «nell'atto o in
occasione o con il pretesto della confessione quando è finalizzato a peccare con il
confessore stesso».
Questo è molto più grave del disagio provato da un giovane parroco di fronte alla sua nuova
comunità. Sotto quel documento ci sono le firme dell'allora capo del Santo Uffizio
(Ratzinger) e del segretario dello stesso organismo Bertone. E' una disposizione che
contrasta palesemente con il codice penale ma più ancora con lo spirito che dovrebbe
improntare ogni comunità.
Il parroco lussurioso di Firenze ha potuto continuare per anni ad 'operare' anche perché una
disposizione assurda ne ha coperto i misfatti. Con quale animo Bagnasco, ora capo dei
vescovi italiani, può dire che i Dico portano alla «pedofilia e all'incesto», essendo certamente
a conoscenza di disposizioni come queste, degne del Medio Evo?
527 - ROMERO UN VESCOVO SCOMODO E DIMENTICATO – DI CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di giovedì 26 aprile 2007
Caro Augias, ho letto dei due attori fermati dagli agenti che scortano l'Arcivescovo
Bagnasco. Sequestrate le armi giocattolo e i distintivi fasulli, c'è stata una denuncia per i due
malcapitati che devono rispondere di procurato allarme. La prudenza non è mai troppa e
dopo le minacce ricevute a seguito delle affermazioni di Monsignore contro l'omosessualità
come devianza che condurrebbe alla pedofilia e all'incesto, una scorta è legittima.
Nello stesso giorno ho letto su 'Adista Documenti' le parole che padre Turoldo dedicò, marzo
1981, ad un altro Arcivescovo, Monsignor Romero; nonostante le ripetute minacce e le
richieste di aiuto da parte sua, è stato lasciato solo dalla Chiesa, fino alla morte.
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«Amico, qui ti devi fermare - scriveva Padre Turoldo - E medita. E rileggi. E cercai anzi,
cerchiamo di capire: siamo tutti coinvolti... E’ stata stroncata una messa, e nessuno è andato
a terminarla. Pure in mezzo a tanti viaggi! E non occorreva neppure fare discorsi: bastava
andare. Dire solo: un fratello nell'episcopato è stato ucciso mentre celebrava, perciò noi
andiamo a terminare la messa.
Bastava solo questo. Forse il mondo avrebbe cambiato faccia... Perché poi, non si trattava
neppure di un assassinio sacrilego, infatti non era stato ucciso un vescovo perché vescovo,
ma è stato ucciso un vescovo perché «si è fatto popolo».
Sarebbe bello che ognuno si mettesse in ascolto di queste parole pronunciate 26 anni fa e
sentire quello che hanno da dire.
Alberto Stucchi - [email protected]
Risponde Corrado Augias
Il 24 marzo 1980, Monsignor Romero, arcivescovo di San Salvador, veniva ucciso mentre
diceva messa, al momento dell'elevazione. Il giorno prima aveva esortato i soldati a
disubbidire agli ordini di chi li usava per una feroce repressione della popolazione. Il suo
assassinio chiama in causa la 'Teologia della Liberazione' guardata con forte sospetto dalle
gerarchie vaticane a cominciare da papa Giovanni Paolo II.
L'aspetto eccezionale di questa vicenda è che Romero era stata fatto vescovo in quanto
conservatore, vicino all'Opus Dei, allineato con il potere dominante. Poi accadde un fatto
sconvolgente. Il suo amico padre Rutilio Grande e due contadini con lui, nel marzo 1977
vennero assassinati. Il trauma lo portò a una rottura radicale, spezzò in due parti la sua vita,
due periodi segnati da concezioni opposte del sacerdozio, del cristianesimo.
Con lui la Teologia della Liberazione diventò un'esperienza di vita totale. Dopo le prime
minacce diceva: «Se mi uccidono risorgerò nel popolo». Simbolo di una Chiesa che si mette
a fianco dei poveri, Romero in America Latina viene chiamato santo.
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Il Vaticano però, che ha sfornato santi a centinaia, su Romero va con i piedi di piombo
nonostante il postulatore della causa sia una figura di sicuro spicco come il vescovo di Temi
Vincenzo Paglia. Si deve accertare, a quel che sembra, che l'omicidio sia stato compiuto 'in
odium fidei' e non per motivi politici, si vuole essere certi che un'eventuale beatificazione non
venga strumentalizzata in una zona del mondo così difficile.
Anche Giovanni Paolo II avvertì più volte Romero a guardarsi dai comunisti; l'arcivescovo
rispose: «Santità, nel mio paese ci sono molti anticomunisti che sono tali non perché sono
cristiani ma perché difendono i loro privilegi».
528 - I PARLAMENTARI CATTOLICI E L'OBBEDIENZA AI VESCOVI - DI G. ALBERIGO
da: la Repubblica di lunedì 30 marzo 2007
La Conferenza Episcopale Italiana ha inaugurato la stagione successiva alla lunga
presidenza Ruini con una "Nota" del Consiglio di presidenza, che adempie un annuncio
pubblicato dallo stesso cardinale Ruini il 13 febbraio scorso. Il testo riguarda la famiglia
fondata sul matrimonio e le iniziative legislative in materia di unioni di fatto, come recita il
titolo. In realtà il cuore dell'atto è costituito dalle eventuali norme che il Parlamento italiano
potrebbe esaminare per regolare le «coppie di fatto». Infatti alla famiglia il Consiglio di
presidenza della Cei - costituito tutto da celibatari che della famiglia hanno solo
un'esperienza remota...- dedica in tutto qualche veloce riga priva di qualsiasi novità. Il che
non è privo di interesse poiché è proprio il rapporto sponsale tra uomo e donna che la Bibbia
indica come il "modello" della stessa relazione tra il Cristo e la Chiesa. E' deludente che i
Vescovi non abbiano colto l'occasione per toccare tanto argomento con maggiore afflato.
Ma l'attenzione era tutta concentrata sulle prospettive di iniziative parlamentari di cui si parla
da settimane. Vero è che secondo l'orientamento della Segreteria di stato vaticana,
espresso dallo stesso cardinale Bertone, la Cei dovrebbe dedicarsi agli aspetti pastorali
della vita cristiana nel nostro Paese, ma l'ombra della presidenza Ruini è lunga e persistente
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e almeno questo atto ne risente abbondantemente. Soprattutto alcuni passaggi della parte
"politica" del documento sono estranei a qualsiasi spirito pastorale, come quando si
vorrebbe negare che il diritto possa dare forma giuridica o riconoscimento a tipi di
convivenza: affermazione paradossale, estranea a qualsiasi sana concezione del diritto.
Entrando nel vivo dell'argomento, la nota formula «una parola impegnativa» rivolta
«specialmente ai cattolici che operano in ambito politico». Dopo aver citato un passo della
recente esortazione di Benedetto XVI sull'impegno dei Vescovi a essere fedeli alla loro
responsabilità nei confronti del gregge, la Nota afferma che «sarebbe incoerente quel
cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto».
Seguono due ampie citazioni di atti della Congregazione per la dottrina della fede, emesse
quando essa era diretta dall'allora cardinale Ratzinger, quasi che fossero atti del Papa
stesso, dato che poi Ratzinger è stato eletto a successore di Pietro. L'atto si conclude
affidando le riflessioni che precedono «alla coscienza di tutti e in particolare a quanti hanno
la responsabilità di fare le leggi».
Qual è la portata di questo documento? E' proprio vero, come alcuni sostengono, che
obbligherebbe i parlamentari cattolici a negare la loro approvazione a norme che
regolassero le «unioni di fatto» (neologismo orrendo, che vorrebbe caricaturare rapporti di
amore spesso non meno intenso che nel matrimonio-sacramento!)? Il Consiglio di
Presidenza impone «obbedienza» su questo argomento? I parlamentari credenti sono tenuti
a prestarla?
La semplice formulazione di questi interrogativi aiuta a comprenderne l'assurda
improponibilità. E' improponibile che dei membri di un parlamento liberamente eletto
possano essere vincolati a un'obbedienza estranea alle loro convinzioni di coscienza. E'
quasi incredibile che i Vescovi vogliano impegnare la loro autorevolezza su questo
argomento, mentre trascurano di invitare i parlamentari a negare il loro voto a atti di guerra,
ben più anti evangelici delle unioni di fatto. E' altrettanto incredibile che i Vescovi chiedano
impegno in questa circostanza, mentre non hanno fatto niente di simile a favore della
deplorevole condizione degli extracomunitari. D'altronde i cattolici italiani hanno già
sperimentato l'inanità di richieste analoghe quando il "non expedit" avrebbe voluto imporre
l'astensione dalle elezioni per "punire" l'Italia che nel 1870 aveva annesso Roma, eliminando
il potere temporale dei papi. La piena cittadinanza dei cattolici italiani è stata guadagnata
con la disobbedienza a quella imposizione.
In realtà si ha l'impressione che anche tra i membri della Presidenza della Cei abbia
serpeggiato qualche dubbio, che affiora anche nelle pieghe della "Nota", che comunque non
è stata sottoposta al consenso dell'intero episcopato italiano. L'invito conclusivo ai
parlamentari «affinché si interroghino sulle scelte coerenti da compiere e sulle conseguenze
future delle loro decisioni» ha un tono che riecheggia quanto aveva dichiarato qualche
giorno prima Bagnasco quando aveva detto che la nota non sarebbe stata usata come «una
clava». Né è superfluo rileggere quanto il Concilio Vaticano II ha solennemente richiamato a
proposito del fatto che «gli imperativi della legge divina l'uomo li coglie e li riconosce
attraverso la sua coscienza che egli è tenuto a seguire fedelmente».
Bisogna augurarsi che questo atto sia inteso nella sua intenzione esortativa, evitando che
abbia effetti laceranti nel Paese e nella comunità cattolica in seno alla quale migliaia di
fedeli, spesso coppie unite nel sacramento del matrimonio, hanno manifestato la loro ansia
per un episcopato che sembrerebbe pronto a esprimersi solo in congiunture politicoparlamentari.
In questi giorni la nazione e i cattolici in modo speciale, hanno preso commiato, con
rimpianto e con riconoscenza, da Nino Andreatta che nell'ultimo mezzo secolo è stato uno
dei più impegnati esponenti della vita pubblica. Da credente Andreatta ha servito la
Repubblica con grande lealtà e ha promosso in molte circostanze la vita cattolica, rifiutando
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fermamente, come già prima De Gasperi, conflitti che in qualche circostanza comportamenti
ecclesiastici poco avveduti avrebbero potuto innescare.
Secondo questo spirito tutti gli italiani, cattolici e non cattolici, non possono che augurare
all'Episcopato con la guida di Bagnasco e nella prospettiva di una equiparazione allo statuto
delle altre conferenze del mondo, una sempre più avvertita, feconda e serena percezione
dei bisogni della comunità nazionale e dell'annuncio evangelico in modo che ciascuno possa
offrire il meglio di sé e del proprio patrimonio di vita.
529 - I CENTO CHIODI IN MANO AI VESCOVI - DI EUGENIO SCALFARI
da: la Repubblica di domenica 1 aprile 2007
Dobbiamo purtroppo tornare per l'ennesima volta su un tema che continua ad essere
fragorosamente riproposto dalle gerarchie ecclesiastiche: quello cioè dei Dico, della tutela
della famiglia, del rapporto tra l'Episcopato e il laicato cattolico politicamente impegnato. È di
ieri la più recente dichiarazione del presidente dell'Episcopato, monsignor Bagnasco,
secondo il quale se si dice sì ai Dico seguendo i criteri dell'opinione pubblica e non quelli
etici, diventa poi difficile motivare un no alla pedofilia e all'incesto. Il capo della Cei richiama
così ancora una volta i parlamentari cattolici all'obbligo religioso e morale di schierarsi contro
le convivenze di fatto e in particolare contro quelle tra coppie omosessuali.
Ad attutire l'effetto di così sconvolgenti "esortazioni" si fa notare da chi cerca di costruire un
ponte tra la posizione clericale e quella laica che la "Nota" emanata dalla Cei non prevede
sanzioni specifiche contro i parlamentari cattolici che non obbediranno alle ingiunzioni dei
Vescovi. Tutto cioè verrebbe lasciato alla consapevole decisione dei singoli. Comprendiamo
le buone intenzioni dei "pontieri" che però non trovano conferma nei testi e nei
comportamenti.
La "Nota" della Cei e le successive dichiarazioni del successore di Ruini parlano
esplicitamente dell'obbligo dei parlamentari cattolici di conformarsi alle indicazioni della
Chiesa ed escludono che si possa invocare in materia il principio della libertà di coscienza.
Rivolgersi in questo modo a membri del governo e del Parlamento è aberrante e
profondamente offensivo per i destinatari e per le istituzioni da essi rappresentate. Chi è
stato eletto dal popolo ha come solo punto di riferimento la Costituzione. Volergli imporre un
obbligo di obbedienza ad un potere religioso è il massimo dell'ingerenza ipotizzabile. Affiora
(l'abbiamo già scritto altre volte ma dobbiamo purtroppo ripeterci) un fondamentalismo
teocratico che snatura la missione stessa della Chiesa. L'Episcopato italiano si sta
muovendo su una strada sempre più stretta e piena di rischi.
Ieri in parecchi cinema di Roma è stato proiettato il film di Olmi intitolato "Centochiodi". Il
regista non ha mai nascosto i suoi sentimenti di cristiano e di cattolico; proprio per questo
assume maggior rilievo un film che denuncia la povertà spirituale di una Chiesa sempre più
lontana dai sentimenti di fratellanza dei "semplici" e dall'amore verso il prossimo.
Nelle sale dove il film è stato proiettato ci sono stati alla fine applausi corali da parte del
pubblico. Non era mai accaduto per un film di carattere religioso e mai con significati
polemici nei confronti d'una Chiesa che ragiona sempre più sulla base dei dogmi e dei
divieti. L'Episcopato italiano rifletta con serietà sulla via che ha intrapreso, densa di rischi e
di pericolose tentazioni.
(la seconda parte dell’articolo di Scalfari, trattando temi squisitamente politici, è stata
volutamente omessa per la natura apolitica della nostra associazione. gps)
530 - LE FALSE RISPOSTE DEL DIRITTO NATURALE - DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
da: la Repubblica di mercoledì 4 Aprile 2007
Forse, la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la
contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da
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dentro di noi. La filosofia, con la sua presunzione, ha distrutto la possibilità di ragionare così
semplicemente.
Ma più della filosofia, è il tempo attuale, il tempo in cui perfino la "natura" dell'essere umano
può essere il prodotto del suo "artificio" - potenza della genetica - ; il tempo in cui il dentro e
il fuori di noi, il soggetto e l'oggetto che siamo diventati si confondono, a rendere vana quella
distinzione. Ciò non di meno, continuiamo a ragionare così: anzi, ci aggrappiamo ancor di
più a quella distinzione, come a un'assicurazione. Forse, ne abbiamo un bisogno "naturale",
per non cadere preda della vertigine di un soggetto che, al tempo stesso, è oggetto di sé
stesso; un soggetto avvolto e sprofondato così in un circolo vizioso esistenziale.
Il pensiero religioso vede in ciò la bestemmia dell'uomo che vuole farsi Dio, cioè imitare
l'unico che, secondo un'interpretazione del libro dell'Esodo (3, 1-6), può dire di "essere colui
che è" in forza solo della sua potenza. Non stupisce dunque affatto che proprio quando è
diventato insostenibile, il binomio natura-artificio sia stato riscoperto, per trovare in esso la
norma delle azioni umane, una norma che assegna al naturale il primato sull'artificiale,
sinonimo di inganno, abuso, adulterazione.
Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e
diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie – diceva già
Aristotele –, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso
modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella
che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi. La
storia del "diritto naturale" è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per
morto.
Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un momento di rinascita:
quando la legge fatta dagli uomini secondo le loro mutevoli convenzioni appare ingiusta, le
si contrappone la legge obbiettiva della natura, che nessuno può alterare. Così si fa da parte
della Chiesa cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia,
sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all?antico, in tema di famiglia,
contraccezione, aborto, ecc. In questo modo, essa viene a proporsi come grande
rassicuratrice che dispensa certezze etiche, in un mondo – si dice – moralmente sfibrato dal
famigerato "relativismo", sinonimo di puro edonismo, scetticismo antirazionalista, nascosto
sotto i panni accattivanti della tolleranza.
Il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a
veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l'avallo della legge fatta
dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre uguale e valida per
tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro
piacimento?
Sennonché, qui incominciano le difficoltà. Il diritto naturale non è affatto il terreno del
consenso che abbraccia l'umanità intera in nome di una giustizia universalmente
riconosciuta. Al contrario, è il terreno dei più radicali conflitti. Innanzitutto, che cosa è la
"natura" alla quale ci appelliamo? Se ci volgiamo al passato, vediamo una grande
confusione. Per qualcuno, i cristiani ad esempio, è opera di Dio; ma per altri, gli gnostici, è
opera del demonio. I primi ameranno la natura, come Dio ha amato il creato (Gen 1, 31: "E
Dio vide che era cosa buona, molto") e trarranno la
convinzione di dover rispettarla così com'è; i secondi la odieranno come cosa corrotta e
faranno di tutto per non farsi prendere dalla sua bassezza.
Indipendentemente da Dio e dal demonio, poi, per alcuni la natura è madre
benefica e per altri, matrigna malefica. La visione dell'illuminismo protoromantico era quella
dell'armonia della vita naturale, guastata dalla civiltà, ma Giacomo Leopardi nutriva ogni
genere di disperazione verso quella che "per costume e per istinto è carnefice impassibile e
indifferente della sua propria famiglia, de' suoi figliuoli e, per così dire, del suo sangue". "È
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funesto a chi nasce il dì natale", canta alla luna il pastore errante dell'Asia: e chi, nella sua
vita, non ha mai pensato così?
Che cosa, poi, vediamo dentro il diritto naturale? Alcuni, come gli stoici, il regno
dell'uguaglianza e della dignità umana.
I Padri della Chiesa svilupparono questa visione nell'idea di uguaglianza e fratellanza dei
figli di Dio (non senza limitarla, però, ai soli credenti in Cristo). D'altra parte, Aristotele
considerava la schiavitù conforme alla natura. Per i sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo
Platone, "la natura vuole padroni e servi", la giustizia naturale essendo "l'utile del più forte".
Spencer, il filosofo del cosiddetto darwinismo sociale, era sulla stessa linea, quando
affermava che solo la natura assicura i necessari ricambi. Se lo Stato interviene a favore dei
bisognosi e degli ignoranti, con ospedali e scuole, fa solo sopravvivere – a danno della
collettività che li deve poi mantenere –i soggetti più deboli della razza umana", i "parassiti".
Questa idea, applicata non agli uomini ma alle razze, ha permesso perfino di affermare che i
razzisti sono i veri difensori del diritto naturale. Sono esempi raccolti a caso. Mostrano con
evidenza che non esiste una natura da tutti riconoscibile. Si può parlare di natura, e quindi di
legge naturale, solo dall'interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i
sistemi e le visioni appartengono alle culture, non alla natura. Possono perciò essere
differenti, spesso antitetici. Si discute, in questi tempi, di eutanasia.
Il papa Benedetto XVI ripete instancabilmente la sua convinzione: "Nessuna legge può
sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in
netto contrasto col diritto naturale. Dalla natura derivano principi che regolano il giudizio
etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale"?
(12. 2. 2007). La "Esortazione apostolica" Sacramentum Caritatis del 15 marzo, ribadendo la
"Nota" della Cei del 28 marzo, richiama ulteriormente il valore vincolante della "natura
umana": insomma, un martellamento.
Ma, leggiamo che cosa diceva un opuscolo nazista del 1940, dal titolo Du und dein Volk ("Tu
e il tuo popolo"), in tema di "eliminazione dei malriusciti" e delle "razze decadenti":
«Dovunque la natura sia rispettata, le creature che non possono competere con i più forti
sono eliminate dal flusso della vita. Nella lotta per l'esistenza questi individui sono distrutti e
non possono riprodursi. Questa è chiamata selezione naturale […] Nel caso degli esseri
umani, il completo rifiuto della selezione ha condotto a risultati indesiderabili ed inaspettati.
Un chiaro esempio è l'incremento delle malattie genetiche. In Germania, nel 1930, c'erano
circa 150.000 persone in istituti psichiatrici e circa 70.000 criminali in carceri e prigioni. Essi
erano, tuttavia, solo una piccola parte del numero reale di handicappati. Il loro numero è
stimato in oltre mezzo milione. Essi richiedono un'enorme spesa da parte della società», che
si traduce in danno per la parte sana, tanto più perché li si lascia liberi di riprodursi. "La
carità diventa una piaga", concludeva quel testo, ispirato alla natura.
Noi leggiamo con orrore queste parole, ma non in nome della natura tradita; in nome invece
della cultura, della civiltà, dell'umanità o della religione: tutte cose che non hanno a che
vedere con la natura, intesa nella sua dura realtà; appartengono al campo della libertà, non
a quello della necessità. Che sia così, che la natura possa essere apprezzata solo dal punto
di vista di qualche visione del mondo e non dal punto di vista di una pretesa essenza
meramente esistenziale dell'essere umano, è riconosciuto nella relazione che il teologo della
Casa pontificia, Wojciech Giertych, ha recentemente tenuto (12 febbraio di quest'anno) al
Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall'Università del Papa, l'Università
lateranense.
In un passo finale, si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o
sociologico bensì, con Tommaso d'Aquino, teologico. Che cosa è l'essere umano dovrebbe
comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto
naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un'intuizione metafisica delle finalità
dell'esistenza, un'intuizione di fede : "La realizzazione pratica dell'ethos del diritto naturale
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non è possibile senza la vita della grazia". Fides et gratia, dunque, come presupposto per il
discorso cristiano sulla natura: che cosa c'è di più "innaturale" di questa visione della natura,
dal punto di vista di chi – legittimamente, si presume ancora – non è credente?
Ecco, come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: chi è privo di fede e
grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle
ipotesi, uno da convertire con l'aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si
possa riconoscere un valore da prendere in considerazione. Al più, povero lui, per il suo
bene gli si potrà proporre, cieco com'è di fronte all'autentica natura umana, la peregrina e
umiliante idea di fidarsi, di essere e agire (secondo le parole del papa Benedetto XVI) veluti
si Deus daretur, come se Dio esistesse, cioè, più precisamente, secondo ciò che la Chiesa
stessa dice di Dio. Senza però – lo si è visto – che ne sia davvero capace, privo come è di
grazia e fede.
Non c'è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare così i drammatici problemi
dell'esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. Un grande giurista del secolo
scorso, cattolico per giunta, ha scritto che evocare il diritto naturale nelle nostre società,
dove convivono valori, concezioni della vita e del bene comune diverse, significa lanciare un
grido di guerra civile. Aveva ragione.
Non siamo a questo, ma non ci siamo molto distanti quando, come di recente, si incita a
disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche
(medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della
convivenza civile sotto il diritto. Questo incitamento, per quanto nobili a taluno possano
sembrarne le motivazioni, è sovversivo; è espressione della pretesa di chi ha l'ardire di porsi
unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione. La democrazia è sempre aperta
alla ridefinizione delle regole della convivenza, ma concede questo potere a tutti, e quindi a
nessuno in particolare e unilateralmente.
La rinascita del diritto naturale corrisponde a un'esigenza sulla quale molti, credenti e non
credenti, possono concordare con facilità: che non tutto ciò che è materialmente possibile
sia anche moralmente lecito. La tecnologia, alimentata da economia e concorrenza, è come
travolta dalla sua stessa potenza, e questa potenza pare diventare il fine supremo. A sua
volta, ciò che noi chiamiamo globalizzazione, cioè quella superficie tutta liscia su cui
tecnologia ed economia scorrono senza incontrare ostacoli, ha bisogno di assopimento delle
coscienze, di nichilismo e conformismo, affinché la sola logica del mercato possa affermarsi.
Ma non è la natura, l'ancora di salvezza di cui abbiamo bisogno. Essa è una risposta falsa,
ingannatrice e aggressiva al tempo stesso, che divide pretestuosamente il campo degli
uomini di buona volontà, che avrebbero invece molto da ragionare insieme nella ricerca di
ciò che è buono e giusto. Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La
legge naturale che ne deriva è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire
nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: una legge dalla quale
la Chiesa sembra allontanarsi vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura
che sollevano sì dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della libertà.
531 -OTTO PER MILLE:CATTOLICI E LAICI UNITI CONTRO LE INGERENZE DELLA CEI
da: agenzia Adista, delle comunità cristiane di base - comunicato n° 33831 del 2 aprile 2007
Un'iniziativa "per rispondere alla ‘crociata' clericale della Conferenza episcopale italiana, e
alla acquiescenza di gran parte del parlamento ad essa".
La rivista MicroMega, subito dopo la diffusione della Nota della Cei, lancia due appelli
affinché "tutti i cittadini democratici" devolvano "l'otto per mille alla ‘Unione delle chiese
metodiste e valdesi' che le libertà e i diritti civili degli individui ha sempre rispettato e anzi
promosso, e che si è impegnata ad utilizzare i proventi dell'otto per mille esclusivamente in
opere di beneficenza e non a scopo di culto o di sostegno per i ministri e le opere della
propria confessione religiosa".
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Il primo appello è firmato da "atei, agnostici e comunque non credenti", il secondo da
personalità cattoliche, tra cui una decina di preti. Di seguito i testi integrali con i rispettivi
sottoscrittori. È possibile firmare l'appello sul sito www.micromega.net.
1° appello
Di fronte all'offensiva clericale volta a limitare irrinunciabili libertà e diritti civili degli individui
(che andrebbero invece decisamente ampliati), e alla subalternità e passività dello Stato
nelle sue istituzioni parlamentari e governative, noi cittadini, benché non credenti in alcuna
religione, in occasione della dichiarazione dei redditi invitiamo tutti i cittadini democratici a
devolvere l'otto per mille alla "Unione delle chiese metodiste e valdesi" che le libertà e i diritti
civili degli individui ha sempre rispettato e anzi promosso, e che si è impegnata ad utilizzare
i proventi dell'otto per mille esclusivamente in opere di beneficenza e non a scopo di culto o
di sostegno per i ministri e le opere della propria confessione religiosa.
Paolo Flores d'Arcais, Umberto Eco, Margherita Hack, Vasco Rossi, Giorgio Bocca,
Simone Cristicchi, Andrea Camilleri, Dario Fo, Michele Santoro, Oliviero Toscani, Franca
Rame, Ferzan Ozpetek, Lidia Ravera, Umberto Galimberti, Lella Costa, Luciano Canfora,
Bernardo Bertolucci, Mario Monicelli, Eugenio Lecaldano, Gennaro Sasso
2° appello
Noi cittadini cattolici, che tentiamo di testimoniare nella vita sociale ed ecclesiale una fedeltà
la più coerente possibile al Vangelo e quindi critici e scandalizzati nei confronti di una politica
dei vertici ecclesiastici sempre più tesa a usare il potere che deriva dal danaro, dalle
clientele, dalle influenze politiche, dal dominio sulle coscienze per condizionare la politica
degli stati e in particolare di quello italiano, riteniamo legittimo e forse doveroso negare a
questo potere ecclesiastico il sostegno dell'8 per mille Irpef.
Invitiamo tutti i cittadini italiani i quali, nonostante le intrinseche contraddizioni rispetto al
principio di laicità, desiderassero comunque devolvere l'otto per mille a una espressione
religiosa, a fare la scelta della "Unione delle chiese metodiste e valdesi" che le libertà e i
diritti civili degli individui ha sempre rispettato e anzi promosso, e che si è impegnata ad
utilizzare i proventi dell'otto per mille esclusivamente in opere sociali e non a scopo di culto o
di sostegno per i ministri e le opere della propria confessione religiosa.
don Enzo Mazzi, Giovanni Franzoni, don Vitaliano Della Sala, don Raffaele Garofalo, don
Gianni Alessandria, don Roberto Fiorini, don Franco Barbero, Francesco Zanchini, don
Bruno Ambrosini, don Aldo Antonelli, Domenico Jervolino
532 - L’OFFENSIVA DELLA CHIESA - DI PAOLO FLORES D'ARCAIS
da: la Repubblica di giovedì 5 aprile 2007
La modernità che conosciamo, la modernità occidentale che porta alla democrazia, si fonda
sull'idea di autonomia dell'uomo. Autos nomos, l'uomo che è legge (nomos) a se stesso
(autos). L'uomo è dunque sovrano, stabilisce la propria legge, anziché riceverla dall'Alto e
dall'Altro, da un Dio trascendente. L'uomo è libero proprio perché non è più costretto ad
obbedire a norme che gli vengono imposte dall'esterno (eteros nomos, eteronomia), ma in
realtà dai poteri terreni che quella volontà divina pretendono di incarnare (Papi e/o Re). La
premessa della modernità è l'autonomia, la sua promessa è la sovranità dell'autogoverno.
Il lungo papato di Karol Wojtyla ha costituito una ininterrotta denuncia e critica di questa
modernità (modernità incompiuta, si badi: le democrazie realmente esistenti sono ben lungi
dal realizzare la sovranità dei cittadini). Il Papa polacco ha denunciato l'illuminismo come
l'alambicco che ha prodotto - proprio a partire dalla pretesa dell'autonomia dell'uomo - il
nichilismo morale e di conseguenza i totalitarismi del XX secolo e i loro omicidi di massa.
Voltaire all'origine dei Lager e del Gulag, insomma! Tanto Wojtyla quanto il suo successore
hanno fatto dunque propria la celebre frase di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è
permesso".
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Joseph Ratzinger, che di Papa Wojtyla è stato del resto il principale ideologo, sta solo
radicalizzando l'anatema di Giovanni Paolo II contro la modernità, e lo sta inquadrando in
una vera strategia culturale e politica. In una efficace crociata oscurantista, che ha oggi
nuove possibilità di successo (almeno parziale) grazie anche al clima di fondamentalismo
cristiano che sta accompagnando negli Usa la presidenza Bush.
La chiave di volta di questa strategia è l'idea che - di fronte alla crisi di valori che sta
portando il mondo globalizzato al tracollo, attraverso conflitti incontrollabili e sfiducia delle
democrazie in se stesse - "solo un Dio ci può salvare". Il vero scontro di civiltà vede dunque
da una parte le religioni nel loro insieme, e dall'altra l'inevitabile deriva nichilista di ogni
società che voglia fare a meno di Dio (e di una "legge naturale" che coincide però
puntualmente con la legge di Dio).
Il discorso di Ratisbona, che ha spinto più di un governo islamico a scatenare contro il Papa
il fanatismo delle folle, era in realtà un invito ai monoteismi (Islam compreso, e anzi Islam più
che mai) a fare fronte comune contro la vera minaccia che incombe sulla civiltà: l'ateismo e
l'indifferenza, e insomma un laicismo che pretende di escludere Dio dalla sfera pubblica e
dalla elaborazione delle leggi.
Ratzinger ovviamente non mette tutte le religioni monoteiste sullo stesso piano: alla religione
cristiana nella sua versione "cattolica apostolica romana" riserva il primato che gli verrebbe
dalla capacità, che solo il cattolicesimo realizza in modo compiuto, di essere una religione
non solo della fede ma anche del logos. Una religione, cioè, capace non solo di assumere la
rivelazione divina ma anche di inverare in sé la ragione umana e la sua tradizione, da
Socrate in avanti. Una religione del vero illuminismo, della ragione "rettamente intesa".
Ma se la dottrina della Chiesa di Roma e del suo Sommo Pontefice costituiscono una Verità
che non è solo di fede ma anche di ragione, ne consegue la pretesa che parlamenti e
governi non promulghino leggi in conflitto con tale dottrina, poiché sarebbero leggi in
violazione della "natura umana", di quell'animale razionale che è e deve essere l'uomo. E
contro natura, come sappiamo, sono secondo la Chiesa cattolica l'aborto, la contraccezione
(compreso il preservativo), il divorzio, la ricerca scientifica con cellule staminali,
l'omosessualità, e ovviamente l'eutanasia (cioè la decisione di un malato terminale,
sottoposto a sofferenze inenarrabili, che la sua tortura non venga prolungata).
In tutti questi ambiti, che con il progresso scientifico vanno allargandosi, Ratzinger continua
a ripetere che un parlamento e un governo, che approvassero leggi "contro natura",
diventerebbero ipso facto illegittimi, anche se eletti con tutti i crismi della democrazia
costituzionale. E' la stessa posizione che Wojtyla aveva già affermato di fronte al parlamento
polacco (il primo eletto democraticamente dopo mezzo secolo!), arrivando a definire l'aborto
"il genocidio dei nostri giorni".
Pronunciate nel contesto polacco, parole del genere stabiliscono una raccapricciante
equazione tra olocausto e aborto, tra una donna che abortisce e una SS che getta un
bambino ebreo in un forno crematorio. Queste cose venivano - ahimè - perdonate a Wojtyla
(anche dal mondo laico) per via del suo "pacifismo". Joseph Ratzinger ha invece avviato una
fase nuova: è convinto che la crisi delle democrazie offra alla Chiesa maggiori e insperati
spazi di influenza, sia presso la classe politica sia presso i cittadini.
La strategia è esplicita anche nei tempi e nei luoghi: l'Italia è considerata l'anello debole,
dove sperimentare inizialmente questa vera e propria "riconquista", per passare poi alla
Spagna, senza perdere le speranze per una futura azione in Germania. La Francia, allo
stato attuale, sembra ancora troppo radicata nella sua laicità repubblicana, perché una
crociata culturale e politica oscurantista sia ipotizzabile. Il cuore di questa strategia, cioè il
fronte comune delle religioni contro l'illuminismo dell'uomo autonomo, è destinata
all'insuccesso.
Ogni religione pretende di essere "più vera" delle altre, il conflitto seguito al discorso di
Ratisbona non resterà l'unico. Ma i danni che questa nuova santa alleanza cattolico-islamica
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(e di parti crescenti dell'ebraismo, oltre che dei protestantesimi di nord e sud America) sta
producendo nella sua pars destruens contro la democrazia sono già ingenti. In Italia il 70%
dei cittadini si è dichiarato a favore dell'eutanasia, ma la Chiesa è riuscita a bloccare perfino
una legge incredibilmente moderata sulle coppie di fatto.
E per il 12 maggio è prevista una gigantesca manifestazione clericale di massa benedetta
dalla conferenza episcopale italiana. E come da copione, anche quella spagnola annuncia
una nuova fase offensiva. Mentre il mondo laico, per disattenzione o per opportunismo, tace
(e l'attacco contro la scienza darwiniana intanto dilaga, dalla Casa Bianca alla cattedrale di
Vienna).
533 - NESSUNA TERAPIA SENZA IL CONSENSO DEL PAZIENTE – DI G.LUCA BORGHI
da: Ecologisti per l’Ulivo, n° 12, marzo 2007
L'esercizio della libertà terapeutica come espressione della sovranità dell'individuo sul
proprio corpo: il diritto, dunque, a scegliere il tipo di cura ritenuto più adeguato al proprio
organismo e alla propria infermità.
Ritengo si debba partire da qui per affrontare il delicato tema del testamento biologico. Un
tema che non attiene al solo ambito medico ed etico-morale, ma anche alla responsabilità
della politica. Ogni persona deve poter essere protagonista delle scelte riguardanti la propria
salute e deve essere messa in grado di accettare così come rifiutare – “consenso informato”
– l’intervento medico e ciò che comporta, attraverso l’istituto della dichiarazione anticipata di
volontà.
Ho potuto constatare personalmente il crescente interesse per questo tema nel corso di tre
iniziative che ho promosso lo scorso primo marzo a Bologna, Modena e Reggio Emilia, a cui
hanno partecipato Luigi Manconi, sottosegretario alla giustizia, e Mario Riccio, anestesista
dell'Ospedale Maggiore di Cremona (colui che ha staccato il respiratore automatico di
Piergiorgio Welby).
È stata l’occasione per presentare la prima ricerca italiana sul Testamento biologico
commissionata da A buon diritto - Associazione per le libertà e condotta da Enzo Campelli e
Enza Lucia Vaccaro dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Il sondaggio ha
coinvolto un campione composto da 266 medici, la maggioranza dei quali oncologi e
anestesisti-rianimatori, operanti in 19 ospedali italiani distribuiti in ogni area geografica della
penisola.
Questo in sintesi l’esito: solo il 10% dei medici italiani si dichiara contrario, mentre la metà si
esprime favorevolmente. Il 40% invece non vuole o non sa pronunciarsi, anche perché poco
informato sull’argomento.
Scendendo nel dettaglio della ricerca, emerge una spaccatura nel proprio livello di
consapevolezza della materia: il 42% degli intervistati lo giudica “scarso”, il 33% lo reputa
“sufficiente”, mentre il 20% afferma di avere una buona preparazione sull’argomento. Solo in
otto casi (3%) si dichiara un grado di informazione “approfondito”. Esigua appare anche la
diffusione del tema come oggetto di discussione tra gli operatori del settore e nel rapporto
medico-paziente: solo il 47% dichiara di aver affrontato il tema con i colleghi, mentre il 19%
del campione ha avuto occasione di partecipare a riunioni o convegni scientifici.
Ma è soprattutto con i pazienti che non si discute di direttive anticipate: appena il 15% dei
medici intervistati ne ha discusso con gli ammalati, sebbene quasi la metà sostiene che con
la dovuta pubblicizzazione, chiunque potrebbe essere interessato alla redazione del proprio
testamento biologico.
Alcuni elementi di riflessione riconducibili all’interrogativo: quali sono i casi in cui il
testamento biologico va applicato? Il 7% degli intervistati sostiene che non vada applicato “in
nessun caso”, il 35% che vada applicato solo in caso di stato vegetativo permanente, il 28%
lo prefigura in relazione all’eventuale perdita di coscienza in seguito a patologie inguaribili,
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l’11% in tutti i casi di incapacità del paziente, il 12% in tutti i casi di patologia che il paziente
sia in grado di prefigurare.
Un ruolo fondamentale tra i medici italiani lo assume il “fiduciario”, il soggetto terzo che in
caso di sopravvenuta incapacità del paziente ne rappresenti la volontà rispetto ai trattamenti
medici da assumere. Il 53% promuove questa figura, mentre i contrari non raggiungono il
30%. Significativo è anche il riferimento al fatto che questa figura consentirebbe di porre
rimedio al problema della “distanza temporale” fra il momento della redazione del
testamento e quello della sua applicazione.
534 - IL TESTAMENTO BIOLOGICO VAL BENE UN ATTO DI FIDUCIA – DI M. MORI
da: l’Unità di giovedì 29 marzo 2007
Finalmente qualcosa di nuovo sul Testamento biologico! Le critiche mosse al Testamento
hanno preso corpo in una proposta concreta chiamata “Atto di fiducia nel medico”.
Presentata un po' in sordina e senza troppo rilievo come conclusione di un articolo su
Avvenire di giovedì 22 marzo, l'idea di un documento attestante l'Atto di fiducia nel medico è
intellettualmente e culturalmente stimolante, e merita di essere esaminata con attenzione.
Grazie ad essa, i difensori della tradizionale visione ippocratica e paternalista della medicina
hanno oggi un nuovo «vessillo» sotto cui radunarsi. L'idea va sviluppata e resa operativa in
un vero e proprio documento analogo alle varie versioni di Testamento biologico oggi
diffuse.
Si potrà, poi, discutere sul nome con cui indicare il nuovo documento: quello scelto - Atto di
fiducia nel medico - sottolinea la stima al medico, ma ha il difetto di lasciare intendere
(almeno per implicazione) una mancanza di fiducia da parte di chi non lo sottoscrive. Questa
conclusione sarebbe eccessiva e fuori luogo.
La fiducia nel medico - nelle sue competenze tecniche e nella sua onestà morale - è
condivisa da tutti. Ma chi sottoscrive il Testamento biologico chiede che tra i valori del
medico ci sia anche il rispetto per le scelte dell'interessato: chiede che il medico abbia a
cuore e si prodighi per tutelare le volontà del cittadino malato, perché le persone non
vogliono mettere i propri valori e il proprio cervello all'ammasso, ma esigono che siano
rispettati anche nelle situazioni estreme di fine-vita.
È vero che questo nuovo valore mette in crisi il modello ippocratico in cui il medico era
l'unico titolare delle decisioni - una sorta di «dio» cui tutto era demandato - e che la perdita
di questo «status» può essere dolorosa per molti professionisti. Ma resta un errore il lasciar
credere che ciò indichi una perdita di fiducia nel medico. Per questo è urgente trovare un
nuovo nome alla nuova proposta, che altrimenti, potrebbe venire chiamata “Atto di
subordinazione al medico”.
A parte le discussioni sul nome, l'idea di avere un Atto contrapposto al Testamento biologico
è di grande interesse. Mostra con chiarezza come la nostra società sia abitata da stranieri
morali: siamo cittadini con valori opposti, e il rispetto civile comporta il riconoscimento che
ciascuno ha diritto di realizzare i propri fintanto che non reca danno ad altri.
Non esistono più valori sicuramente condivisi che implicitamente determinano il da farsi. Ci
sono, invece, opzioni diverse: ecco perché è bene che ciascuno abbia il proprio «passaporto
morale» cui sono consegnati i propri valori: il Testamento biologico, l'Atto di fiducia nel
medico, o altri ancora.
Non c'è contrapposizione tra i vari documenti, ma complementarità e sinergia: chi propone
l'Atto di fiducia nel medico ha diritto di esigere che sia seguita la propria volontà consistente
nell'affidarsi al medico di fiducia. Va benissimo che sia così. Ma lo stesso diritto vale per chi
sottoscrive il Testamento biologico, in cui l'interessato esige che siano seguite le proprie
volontà - anche ove fossero diverse da quella del medico. Non si riesce a capire come e
perché chi propone l'Atto di fiducia nel medico possa pretendere che questo Atto debba
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valere comunque per tutti i cittadini, anche per coloro che non intendono subordinare il
proprio volere a quello del medico.
Ho segnalato la nuova idea dell’Atto di fiducia nel medico come contributo all'importante
Convegno organizzato dal senatore Ignazio Marino a chiusura della fase di approfondimento
in vista della nuova legge sul Testamento biologico.
La Commissione entrerà presto nella fase propositiva e decisionale, considerando le varie
proposte di legge con le diverse opzioni aperte al riguardo. La possibilità di sottoscrivere
anche un eventuale Atto di fiducia nel medico è interessante perché depone a favore di una
normativa «leggera», che preveda poche clausole e la vincolatività della richiesta.
Infatti, chi vuole affidarsi totalmente al medico sottoscriverà l'Atto, mentre chi ha idee
diverse circa la propria fine darà le proprie indicazioni potendo contare su un medico pronto
a rispondere alle legittime richieste del paziente. Né il medico potrà eccepire appellandosi
alla cosiddetta «obiezione di coscienza», dal momento che la crescente frequenza del
ricorso a questa clausola è preoccupante e sembra diventare un comodo espediente per
evitare di fornire alcuni dei servizi offerti dalle nuove tecniche mediche.
(Maurizio Mori è Presidente della Consulta di bioetica, Milano)
535 - IL DOLORE INUTILE – DI FRANCO TOSCANI
da: l’Ateo n° 3 – maggio 2007
Ciò che noi definiamo “dolore” è il prodotto di un meccanismo evolutivo che permette,
attraverso un sistema di premi/punizioni, il riconoscimento e la valutazione delle esperienze
essenziali alla vita animale, e di adattare i comportamenti alle circostanze. E’ il dolore che ci
avverte che stiamo facendo qualcosa di sbagliato come afferrare un oggetto rovente; che un
certo movimento è oltre le nostre possibilità; che qualcosa di pericoloso sta avvenendo nel
nostro corpo per cui è meglio digiunare che abbuffarsi. Quei rari sventurati che per motivi
congeniti non percepiscono il dolore sono destinati a malattie, incidenti e morte precoce.
Il dolore è anche uno degli elementi determinanti per fissare nella memoria le cose che non
si devono scordare. Lo schiaffo del genitore fa sì che il bambino, anche dopo anni, ricordi la
lezione. Il dolore era largamente usato nell’alto medioevo e nelle consuetudini giuridiche
germaniche per garantire che l’evento fosse ben saldo nella memoria degli interessati, ed
era questa la funzione del ceffone (la paumèe) che il cavaliere riceveva durante la sua
investitura, perché non si scordasse il codice di comportamento del suo nuovo stato. E’ stata
per secoli la frustata del maestro a inculcare nozioni, regole e valori al discepolo.
Il significato del dolore, il suo “senso”, è stato per millenni solo di ordine metafisico, ed è solo
da poco che i suoi meccanismi biologici sono stati cercati ed individuati.
Alcmeone di Crotone (V secolo a.C.), fu il primo a formularne una teoria razionale,
attribuendolo all’alterazione dell’isonomia, l’armonia tra gli organi. Erofilo ed Erasistrato di
Chio (III sec. a.C.) dimostrarono l’esistenza di nervi motori e sensoriali, ed il loro
collegamento al cervello, permettendo a Galeno (II sec. D.C.), di postulare l’origine
neurologica del dolore. Ma è Cartesio, che nonostante le sue fantasiose teorie anatomiche
ed ontologiche, lo interpretò come risposta condizionata, un riflesso “meccanico”
fondamentale per la conservazione dell’integrità dell’organismo.
In effetti, il dolore è ben più di un messaggio nervoso. Esso è il risultato di una complessa
interazione tra percezione e psiche: cioè, una faccenda assolutamente soggettiva.
L’influenza dell’esperienza, del carattere, dell’umore, delle emozioni, delle aspettative, del
valore ad esso attribuito, delle circostanze esterne ed interne è sostanziale, e spiega come
mai un identico stimolo possa produrre, in soggetti diversi, dolori di intensità diversissime.
Oggi il concetto di “soglia del dolore” è uno dei fondamenti delle discipline che se ne
occupano.
Il dolore è elemento naturale e necessario. Tuttavia esistono situazioni dove esso non
funziona come dovrebbe. In alcuni casi non ci avverte in tempo di malattie pericolose, né
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riesce a farci cambiare abitudini come avviene nel caso del diabete o dell’ipercolesterolemia;
e talvolta è presente senza una causa, o permane a lungo anche quando ciò che l’ha
causato si è definitivamente allontanato. La minaccia senza allarme, e l’allarme senza
minaccia. In questi casi, a cosa serve il dolore? E a cosa serve il dolore puramente o
prevalentemente psichico, la “sofferenza”?
In sostanza: quale è il senso, il significato del dolore?
Su questi interrogativi si apre una infinita serie di porte metafisiche, antropologiche,
epistemologiche. E teologiche.
Il dolore è usato come metafora di tutto ciò che nel mondo è spiacevole, non solo
fisicamente, ma anche moralmente. Il dolore rappresenta il male. Ma come dare una
giustificazione convincente alla presenza del male nel mondo, soprattutto all’interno di una
cultura pre-scientifica? E’ concepibile la co-esistenza di Dio e quella del dolore? E se c’è
Dio, perché c’è il dolore e il male?
Si potrebbe affermare che l’esistenza stessa delle religioni è spiegabile col tentativo di dare
risposta a queste domande. Ciò che è fondamentale per la comprensione dell’atteggiamento
della medicina nei confronti del dolore è esaminare come le religioni giudaico-cristiane, sino
a ieri la principale (o, forse, la sola) chiave interpretativa dell’universo nel mondo
occidentale, lo hanno giustificato, dal momento che l’ethos religioso ha plasmato
l’atteggiamento – e quindi le azioni, le “cure” – che la società e l’individuo hanno nei suoi
confronti.
Il dolore - afferma la Bibbia – è punizione divina per chi non rispetta la legge di Dio. Anche
se oggi si tende a mitigarne il significato attribuendo questa posizione alla necessità politica
di compattare il popolo di Abramo minacciato dall’impero babilonese, l’idea che il dolore
provenga da Dio (e che chi soffre, in fondo, se lo meriti) ha permeato tutta la nostra cultura.
E’ il peccato originario di Adamo ed Eva che ha causato dolore morte, per loro e per tutti i
loro discendenti.
E la punizione è tanto terribile da colpire non solo i malvagi, ma anche coloro che ai
comandamenti divini vi obbediscono: sul giusto per antonomasia, Giobbe, fuori da ogni
apparente logica giuridica per una scommessa tra Dio e il Demonio. Colpisce anche gli
innocenti, i neonati, che non sono ancora in grado di peccare. Perfino sul Dio-uomo Cristo,
che certo non può essere in alcun modo considerato “peccatore”! E continuano a colpire
l’umanità, nonostante il sacrificio di Cristo, che quel peccato originale l’avrebbe
definitivamente mondato.
La colpa è perdonata, ma la punizione resta.
Se il dolore è giusta punizione, allora è anche mezzo di catarsi, e chi soffre deve gioirne
perché attraverso la sofferenza sarà redento. Cosa sono poche ore di agonia confronto alla
beatitudine eterna?
Non solo: il dolore accomuna l’uomo a Dio, sperimentando le sofferenze di Cristo, e quindi, il
sofferente, imago Christi, concorre anche alla redenzione altrui. Il dolore è segno della
predilezione di Dio: e quindi lo si accetti, non lo si combatta. E se stenta a venire per conto
suo, perché non dargli una mano con scapolari e cilici?
Il dolore è essenza dell’universo, è necessità fondante dell’esistenza umana? Ma allora, se
persino Dio si sottrae alla implorazione di Sé stesso-suo figlio nell’orto dei Getzemani e tace;
se persino Dio si manifesta sofferente come un qualsiasi peccatore, esigendo la nostra
compassione in cambio della Sua, come possiamo, noi mortali, massa damnationis,
rifiutarlo?
E quale dovere o giustificazione avrebbero mai i medici per combatterlo?
Questa dottrina, conosciuta come “Dolorismo” ha permeato la cultura occidentale. Oggi è
forse un po’ passata di moda e, almeno nella comunicazione di massa, di esortazioni al
masochismo se ne fanno poche, probabilmente più per il cambiamento della mentalità della
gente che per la timidissima revisione di Giovanni Paolo II.
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Ciononostante, venti secoli di dolorismo hanno lasciato traccia, ed il tentativo di rendere
accettabile al (buon) senso comune uno dei più complessi ed insolubili rovelli teologici ha
portato ad una serie di posizioni altrettanto indimostrabili quanto bizzarre.
Tra le più comuni sta la tesi che il dolore è necessario per comprendere la serietà della vita,
che attraverso l’esperienza del dolore diventa più attraente ed interessante; e che il dolore è
indispensabile per far sorgere una coscienza morale.
Sebbene sia ovvio che lo star male renda ancor più apprezzabile lo star bene, si farebbe
fatica a sostenere che per dar valore alla libertà si dovrebbe tutti sperimentare il carcere, o
che per capire che non è giusto rubare sarebbe indispensabile essere stati derubati!
La medicina non è stata immune da questo modo di pensare, che si intravede da aforismi
del tipo “Si deve soffrire se si vuole guarire”, “Il medico pietoso fa la piaga purulenta”,
oppure “Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì”.
Sedare dolorem sarà anche stato sempre considerato opus divinum: tuttavia ben poco la
medicina si è sforzata di provvedervi. A parziale sua discolpa sta il fatto che il dolore è un
sintomo importante, uno degli elementi cruciali per individuare e monitorare una malattia,
tanto più quando l’unico strumento diagnostico disponibile erano le mani e gli occhi del
medico.
Oggi però abbiamo a disposizione mezzi di indagine molto precisi, ed il sintomo dolore è
utile solo per un primo inquadramento diagnostico: ciononostante, l’abitudine a sottostimarlo
e a curarlo poco e male è ancora la regola.
Eppure è da molto tempo che si conoscono farmaci analgesici di grande efficacia.
Il succo essiccato del Papaver Somniferus, pianta originaria dell’Asia Minore, e chiamato
“oppio” da Teofrasto, era conosciuto ed usato dai Sumeri nel terzo millennio a.C. ed è
nominato nel papiro egizio di Ebers, della metà del secondo millennio, e in alcune tavolette
assire del settimo secolo. Probabilmente era conosciuto anche da Omero, che cita un
phàrmakon usato da Elena per lenire il dolore proprio e quello degli eroi che la
circondavano. Ippocrate, Democrito, Galeno e Plinio ne parlano nei loro scritti, ed Andreas,
medico di Tolomeo Filopatore, lo prescriveva nella pratica oftalmica.
Dioscoride, vissuto nel I sec. D.C., conosce l’uso dell’oppio, della cannabis, del solanum e
del giusquiano, e ne fa uso per rendere il malato insensibile al dolore. L’hakim Albucasi ne
descrive minuziosamente la estrazione dalla capsula del papavero. Gli Arabi l’introdussero
in tutta l’Asia e i crociati ed i medici ebrei in Occidente, dove era caduto nell’oblio durante i
secoli bui. Raimond de’ Viviers, medico di Clemente VII, ne consiglia l’uso regolare al
pontefice. Nel ‘500, Paracelso, grande prescrittore e consumatore in proprio di oppio (che
definiva “chiave dell’immortalità”) ne raccomandava l’uso per gli effetti sonniferi ed
analgesici. In pieno ‘600, l’inglese Thomas Willis dimostrò che esso agisce sul sistema
nervoso centrale, deprimendo le funzioni della corteccia. Sydenham, uno dei padri della
medicina moderna, inventore e degustatore del laudano (una soluzione alcolica di oppio)
scrisse nel 1680: “Tra i rimedi che la Misericordia Divina ha donato all’uomo per lenirne le
sofferenze, nessuno è così universale ed efficace come l’oppio”. Tra i suoi allievi, Dower, più
noto come corsaro al servizio della corona d’Inghilterra, inventò la “polvere di Dower”,
somministrata ai feriti della sua ciurma dopo la battaglia. “Spugne soporifere”, a base di
oppio erano usate da alcuni chirurghi fino al Seicento.
E’ noto che gli interventi chirurgici sono molto dolorosi: ciò malgrado, anche l’anestesia ha
stentato ad essere accettata.
L’etere fu scoperto da Raimondo Lullo nel ‘200, ma non fu utilizzato fino al XIX secolo. Il
Paré, uno dei più grandi chirurghi del passato, respinse ogni forma di anestesia. Nel XVII
secolo il barbiere-chirurgo Bailly de Troyes cercò di anestetizzare i suoi pazienti, ma le
corporazioni mediche insorsero e lo fecero condannare da un tribunale.
Nell’ottocento viene scoperto ed utilizzato il protossido d’azoto, l’etere, e il cloroformio, e,
grazie a loro, l’anestesia permise lo sviluppo della chirurgia moderna, nonostante
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idroterapeuti, omeopati e suffragette vi si opponessero giudicandola come pratica innaturale.
Anche la religione entrò nella polemica: quando nel 1847 James Young Simpson la
introdusse nella pratica ostetrica, il clero calvinista scozzese considerò il parto indolore un
insulto alla Bibbia. Young si difese sostenendo che persino il Padreterno addormentò
Adamo quando gli tolse la famosa costola, ma ci volle la Regina Vittoria, aiutata dal
cloroformio a partorire il suo ottavo figlio, a mettere a tacere la protesta.
Tutto ciò è cosa del passato?
Assolutamente no: oggi si conosce tutto sull’uso degli analgesici, sui loro meriti e sul modo
di usarli. L’anestesia è un cardine della moderna medicina, ed altre discipline, come l’
algologia e la medicina palliativa, hanno fornito conoscenza e regole per il controllo del
nemico atavico.
Eppure in molti paesi, tra i quali l’Italia, il dolore è sottostimato, poco considerato e
pochissimo curato, tanto che il Ministero della salute ha intrapreso azioni concrete per
convincere i medici a trattarlo.
Medici cattivi? Crudeli? Ignoranti? Mala sanità? Assolutamente no: semplicemente figli
inconsapevoli di un modo d’essere e di pensare vecchio di secoli.
La causa di una tale chiusura è da ricercarsi nella tradizione medica che attribuiva un valore
religioso all’opera del medico. Essa si fondava sul riconoscimento del carattere divino della
physis, la natura universale, matrice di ogni cosa. Tutto ciò che è parte della natura, le sue
regole e leggi, erano ritenute intrinsecamente giuste e pertanto dotate di valenza etica. Il
dolore è tanto più necessitas naturae, quanto più anatomia e fisiologia ne dimostrano la
“naturalezza”. Se è naturale, allora è anche buono. Questo atteggiamento non può che
essere stato potenziato dalla tradizione cristiana e dalla sua visione salvifica del dolore.
Inoltre non va dimenticato che l’etica medica riteneva più importante il dovere di guarire
rispetto al dovere di sedare il dolore: infatti, la salute, - il fine dell’Arte - era definita dal buon
funzionamento del corpo (come previsto, appunto, dalle leggi della natura), e solo in
seconda battuta dal benessere (cioè dalla assenza di sofferenza). Questo era pertanto
eventuale conseguenza della ritrovata salute, e non poteva essere perseguito
indipendentemente, o magari al posto di essa.
Oggi l’etica medica sta cambiando, ma il processo non si è ancora completato. E’ il singolo
individuo che deve decidere, secondo le proprie convinzioni e le proprie antropologie,
quanto dolore è disposto a sopportare, che sia o meno provvisto di senso trascendente.
Il senso lo diamo noi alle cose del mondo, e questo può mutare da persona a persona e da
epoca ad epoca.
Non ci sono ontologie. Se qualcuno “sceglie” di credere che ci siano, esse devono valere
solo per lui.
Edonismo? Forse, e perché no? Ciascuno decida per sé, ne sia responsabile e
consapevole. Ed orgoglioso delle proprie scelte e della propria unicità. E forse il dolore
cesserà di essere un tormentone fisico e metafisico.
(Franco Toscani, Medico Palliativista, Direttore scientifico della Fondazione “Lino Maestroni”,
Istituto di ricerca in medicina palliativa, è socio onorario di LiberaUscita)
LiberaUscita
536 - COSÌ HO AIUTATO MOANA A MORIRE - DI ALDO DE LUCA
Intervista ad Antonio Di Ciesco - da: il Messaggero di lunedì 2 aprile 2007
«Antonio, ti chiedo di farmi una promessa per una cosa che richiede tanto amore e sacrificio.
Arriverà un momento in cui non sarò più in grado di potermi difendere e la mente sarà
offuscata e il mio corpo sarà torturato e usato contro il mio volere. Non voglio trovarmi in un
letto con tubi dappertutto e non sarò più padrona di me stessa. Allora dovrai aiutarmi ad
andare, dovrai mettere fine alle mie sofferenze. So di chiederti molto ma so anche che tu
capisci e sai che lo voglio, non mi lasciare sola ora, non mi abbandonare, promettimelo».
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«Cerco di dissuadere Moana, cercando un appiglio qualunque, una alternativa, una
possibilità all’inevitabile. Ma più cerco un appiglio più prende forma la vera, cruda, brutale
realtà. Il tempo è compiuto e illudersi non porta nulla. Le prometto che non resterà mai sola
e che manterrò la promessa, farò quello che mi ha chiesto e sarà lei a farmi capire quando».
«Ti voglio bene Antonio, ti amo. Mi mancherai e mi mancherà tutto quello che abbiamo fatto
insieme. Sono stanca, mi rendo conto di non essere più me stessa... aiutami, proteggimi e
metti fine alle sofferenze. Il momento che tu onori la promessa è arrivato».
«Io e Moana restiamo vicini e ci stringiamo, in silenzio. Sappiamo tutti e due cosa sta per
accadere. L’infermiera ci trova abbracciati, dice che è ora di dormire. Quando esce ci
guardiamo, ci abbracciamo, i baci sono un addio. Poco dopo si addormenta tra le mie
braccia. Facendo entrare piccole bolle d’aria attraverso il tubicino della flebo lei non si
accorge che la vita l’abbandona. E con essa anche le sofferenze».
Lione, clinica “Hotel de Dieu”. E’ la notte del 15 settembre del 1994.
Nel libro che ha scritto e che sta per essere pubblicato, così Antonio Di Ciesco, il marito,
racconta perché e come aiutò Moana Pozzi a morire. Eutanasia, ecco dunque dopo 13 anni
da quel 15 settembre la verità, clamorosa. Era stata colpita da un tumore al fegato,
fulminante, devastante, invasivo: quando i medici dell’ospedale di Lione le fecero sapere
che non c’era alcuna speranza, che la sua vita era appesa per qualche mese ancora, non di
più, lei volle smettere di vivere prima di imboccare il tunnel del martirio finale.
E la “prova d’amore” la chiese a Antonio Di Ciesco, quel giovanotto romano che aveva
conosciuto tre anni prima, nel giugno del 1991, a Lampedusa, dove lei era andata spinta
dalla sua passione per le immersioni e dove lui invece sbarcava l’estate come istruttore sub.
Fu quasi amore a vista. Al ritorno Antonio si trasferì nell’attico di Moana, sulla Cassia. La
loro storia d’amore fin dal principio però fu clandestina. Anche quando qualche mese dopo,
volarono a Las Vegas dove si sposarono, 27 anni lui, 30 lei. Per tutti Antonio era il
fedelissimo assistente di Moana, sempre al suo fianco. Il segreto del loro matrimonio fu
svelato proprio dal Messaggero in occasione della morte di Moana.
Antonio Di Ciesco: perché tutta quella segretezza?
«Perché era talmente bello stare insieme senza che nessuno lo sapesse, una specie di
gioco, un segreto tutto nostro che serviva anche a proteggere la nostra vita privata, la nostra
felicità... la mia famiglia però lo sapeva che ci eravamo sposati e Moana l’aveva detto alla
mamma».
E ora, parliamo della morte di Moana Pozzi. Quando si accorse di avere un tumore?
«Non subito. Nell’estate del 1994, noi andammo a fare un viaggio in India. Moana era
affascinata da quel paese e non ci era mai stata, volle conoscere anche un santone... In
India però Moana stette male, in particolare disturbi gastrointestinali... ma non ci
preoccupammo tanto, eravamo in India, era quasi normale. E infatti non interrompemmo il
viaggio che durò in tutto quasi un mese. Quando tornammo a Roma però stava ancora
male, non si era ripresa, era dimagrita, debolissima».
E allora andaste in ospedale?
«Non a Roma però, perché Moana non voleva assolutamente che girasse la notizia di
Moana in ospedale, Moana ammalata, voleva la massima riservatezza...».
E avete deciso andare in Francia, a Lione.
«Sì, nell’ospedale di Lione dove Moana periodicamente andava per normali controlli di
routine. Lì fece una serie di analisi, accertamenti e approfondite ricerche. Alla fine la
diagnosi, un verdetto terribile: tumore al fegato, dilagante...».
I medici dettero qualche speranza?
«Poche, però informarono Moana che avrebbero comunque provato con la chemioterapia...
vediamo come reagisce, ci dissero».
E quali furono i risultati?
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«I risultati furono nulli, non ci fu alcun miglioramento come se la chemioterapia non l’avesse
mai fatta».
E Moana che reazione ebbe?
«Volle parlare con il primario, al colloquio c’ero anch’io. E gli disse: professore, voglio la
verità, tutta la verità. Sia sincero fino in fondo, quanto mi resta da vivere? Il professore
rispose: due, tre mesi...».
A quel punto?
«A quel punto Moana si rese conto che per lei era finita e che era anche inutile accanirsi con
le cure»
E le chiese subito di aiutarla a morire?
«No, qualche giorno dopo, in ospedale. E me lo chiese più o meno con le parole che poi ho
usato nel libro... il suo cuore smise di battere che era l’alba».
Sarà stato un momento terribile, drammatico...
«Devo dire che è stata una decisione presa con serenità, se mi è concesso di usare la
parola serenità in un momento così. Il nostro era un legame fortissimo, carico di amore e
proprio l’affetto profondo che ci legava mi ha permesso di condividere la decisione che lei
considerava inevitabile, l’unica».
Antonio Di Ciesco lo rifarebbe quello che ha fatto?
«Sì, non ho cambiato idea, non mi sono pentito. E’ stata una scelta giusta, che mi è costata
ma non c’era rimedio...».
Perché raccontarla solo oggi la verità, dopo 13 anni?
«Per mettere la parola fine sui misteri della morte di Moana, specie sulla leggenda che non
fosse morta ma solo sparita volontariamente. Quando lessi sui giornali che addirittura era
stata aperta una inchiesta sulla misteriosa morte, dissi: basta, ora racconto la verità».
Domanda cattiva. Un libro oggi per far parlare di sé, per magari fare un po’ di soldi con il
libro?
«Non avrei aspettato tredici anni se fossero stati questi i motivi».
E’ consapevole che dopo questa intervista potrebbe essere convocato da un magistrato,
magari anche denunciato, l’eutanasia è ancora un reato in Italia...
«Sono consapevole. Sono sereno e al magistrato non potrei che confermare quello che dico
ora. Non credo di aver fatto niente di male, ho solo rispettato la volontà di Moana, una scelta
che ho condiviso. L’eutanasia è una possibilità che dovrebbe essere concessa a tutti in casi
estremi come quello di Moana, la mia Bambi... sì, nell’intimità la chiamavo così, perché era
un cucciolo, dolcissimo, era una donna speciale, l’amavano tutti, le chiedevano gli autografi
anche i bambini, era pulita, perbene, sincera, era bellissima...».
Glielo ripeto, nel suo interesse. E’ consapevole che in qualche modo si sta
autodenunciando?
«Glielo ripeto, sono sereno e pronto a confermare tutto al magistrato».
Antonio Di Ciesco nel libro racconta anche che Moana fu cremata a Lione al Cimitiere de la
Guillotiere. E le ceneri furono prese in consegna dall’allora compagno della madre di Moana,
la signora Giovanna. Di Moana Antonio conserva solo la sua macchina, la famosa Mercedes
nera interni di pelle rossa, data di immatricolazione 1977. Moana Pozzi, una leggenda ora
senza più misteri.
537 - WELBY: GIP RIGETTA LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DELLA PROCURA
Il primo aprile i Carabinieri di Cremona hanno notificato al dr. Mario Riccio l’invito ad
eleggere domicilio e nominare un difensore di fiducia in relazione al procedimento relativo
alla morte di Piergiorgio Welby, per il quale la Procura di Roma, in ottemperanza a quanto
disposto dal GIP dr. La Viola, ha proceduto all’iscrizione del nominativo del medico nel
registro delle notizie di reato con l’ipotesi di “omicidio del consenziente”.
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Il GIP, infatti, nei giorni scorsi, non ha ritenuto di dover dar seguito alla richiesta di
archiviazione avanzata in data 6 marzo 2007 dal sostituto Procuratore dr. Gustavo De
Marinis, controfirmata dal Procuratore Capo della Repubblica di Roma dr. Giuseppe Ferrara,
ed ha ordinato la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero per l’iscrizione del dr. Mario
Riccio nel registro degli indagati cosicché allo stesso sia garantito di poter interloquire, con
la necessaria difesa tecnica, in sede di udienza camerale che verrà fissata nei prossimi
giorni ed all’esito della quale lo stesso GIP dr. La Viola deciderà se archiviare il
procedimento, ordinare al PM di effettuare ulteriori indagini oppure ordinare al PM di
formulare coattivamente l’imputazione a carico del medico.
La Procura di Roma, richiedendo l’archiviazione del procedimento “atti relativi alla morte di
Piergiorgio Welby”, aveva ribadito che a proprio avviso - anche a seguito degli accertamenti
compiuti in sede di consulenza collegiale medico-legale che avevano escluso qualsiasi
rilievo causale della sedazione in relazione al decesso - non era ravvisabile alcuna ipotesi di
reato nei fatti accaduti la sera del 20 dicembre 2006.
Il dr. Mario Riccio ha nominato proprio difensore di fiducia l’avv. Giuseppe Rossodivita.
Commento. Si ripete la sceneggiata già vissuta in occasione del ricorso presentato da Welby
per essere autorizzato a staccare la spina: la Procura gli dà ragione e il GIP se ne lava le
mani. Malgrado la Costituzione e le leggi dello Stato vietino esplicitamente le cure contro la
volontà del paziente, prima la giudice Salvio dichiara “inammissibile” la richiesta di Welby,
ora il GIP La Viola respinge la proposta della procura di archiviare il procedimento penale
contro il dr. Riccio. Non basta il proscioglimento da parte dell’ordine dei medici di Cremona,
non basta che la consulenza medico-legale abbia accertato che il dr. Riccio si sia limitato ad
eseguire la volontà di Welby praticandogli poi una normale sedazione, evidentemente la
pressione mediatica esercitata dalla Chiesa è tale che i magistrati non se la sentono di
assumersi la responsabilità di decidere. Ora però che il procedimento è “incardinato”, la
decisione prima o poi dovrà esserci. Staremo a vedere.(gps)
538 - WELBY, SALVIAMO IL DOTTOR RICCIO - DI FURIO COLOMBO
da L'Unità di martedì 3 aprile 2007
Ci sono molte ragioni - umane e civili - per non dimenticare il caso di Piergiorgio Welby, la
sua sofferenza, la sua residua ma forte voce che non ha smesso richiedere agli esseri
umani che gli stavano intorno di intervenire e di porre fine, per dovere morale e secondo la
legge, al suo disumano dolore.
Qualcuno lo ha fatto. Lo ha fatto l’appello ostinato dei radicali, di Marco Cappato, a cui in
molti ci siamo uniti, medici, giuristi, politici, cittadini di tutta Italia.
Uno di loro, uno di noi, il medico anestesista Mario Riccio, lo ha fatto.
Seguendo scrupolosamente il poco che le norme italiane indicano e consentono per
rispettare la dignità e la volontà di una persona che non può più soffrire, il Dottor Riccio ha
fermato la macchina-tortura che stava comunque portando Welby alla morte, però più lenta,
più indecorosa, capace solo di alimentare un dolore sempre più grande.
Ora - nonostante la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica e del
Procuratore Generale di Roma, il Tribunale della stessa città annuncia di voler processare il
medico e lo accusa di omicidio di persona consenziente, cioè di reato gravissimo. Non
diremo che la decisione annunciata - se presa - avrà un fondamento teologico e non
giuridico, per il rispetto sempre dovuto alla Magistratura.
Diremo che è tempo per tutte le persone guidate da un senso di umanità e solidarietà di
essere presenti, attive e impegnate a sostenere due cause: la dignità del malato Welby, che
aveva chiesto a lungo e invano - come in un film dell’orrore - che si ponesse fine alla sua
sofferenza.
E l’atto di umanità da medico e da cittadino, compiuto a nome di tutti noi, dal medico Riccio,
in base alla sua conoscenza, competenza e coscienza.
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Chi di noi ha provato gratitudine - e anche riscatto per la propria incapacità di accorrere in
aiuto - quando il Dottor Riccio è intervenuto, adesso ha l’impegno di essergli accanto e
sostenerlo.
È giusto scrivere queste cose sul giornale di quella sinistra che della solidarietà, del
soccorso, della dignità, del rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre
fatto la sua bandiera.
Propongo al nostro giornale di aprire una sottoscrizione: un fondo di difesa per sostenere al
livello più alto le ragioni umane morali e civili che hanno guidato il Dottor Riccio nella sua
decisione e nel suo intervento che ha posto fine al dolore.
In un mondo impegnato - anche con le sue migliori risorse tecnologiche - a creare dolore,
occorre difendere Riccio ma anche il simbolo alto di ciò che ha fatto. Contribuisco a questo
appello con 1000 euro. Ma anche un solo euro sarà contributo di testimonianza dovuta. È
una buona, nobile, umanissima causa in cui nessuno deve tacere.
539 - WELBY: E NOI ASSUMIAMOCI LE SPESE DEL PROCESSO -DI F. ORLANDO
da: Europa di mercoledì 4 aprile 2007
Cara Europa, quando morì Piergiorgio Welby, il 20 dicembre scorso, nella sacra commedia
dell’arte su tavole infrante, leggi e “valori” violati, eutanasia, accanimento, preti e radicali, si
profilò un rinvio a giudizio per il dottor Mario Riccio, che aveva “staccato la spina”. Poi il
cancan politico-religioso-giudiziario sembrò rientrare, la procura di Roma chiese
l’archiviazione del “caso Riccio”.
Ora un gip “misirizzi”, come diceva Montanelli dei primi della classe, chiede invece
l’iscrizione del medico nel registro degli indagati, con l’accusa di “omicidio del consenziente”.
E noi, fautori della dignità dell’uomo nella morte, dobbiamo subire quest’ennesimo affronto?
Massimo Dell'Alba - Roma
Risponde Orlando
Caro Dell’Alba, un magistrato che interpreta una norma e adotta un provvedimento non fa
affronti, tutt’al più sbaglia a interpretare la norma e adotta provvedimenti inappropriati.
Questo però lo stabiliranno gli altri magistrati, non noi. Del resto, nulla è cambiato nei 90
giorni dalla morte di Welby, salvo Ruini. Non è cambiata la posizione del gip Laviola, che già
prima della morte di Welby, di fronte a una richiesta di parere del tribunale civile, aveva
espresso un orientamento coerente con la sua decisione di oggi. Ciò nonostante, a favore
del “distacco della spina” si erano pronunciati non solo il tribunale civile e l’ordine dei medici
ma, come s’è detto, anche la procura. La quale ora insiste, non meno del gip, il cui
provvedimento risponde forse a esigenze tecniche, nella richiesta di archiviazione: perché,
come avevano scritto il procuratore Ferrara e il pm De Marinis, «nessun addebito deve
muoversi a chi, in presenza di un’impossibilità fisica del paziente, abbia materialmente
operato il distacco del ventilatore automatico, in quanto l’azione è stata operata per dare
effettività al diritto del paziente»: diritto all’autodeterminazione, che «trova la sua fonte nella
Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall’ordinamento italiano e ribadite, in
fonte di grado secondario, dal codice di deontologia medica».
Così stando le cose, fra l’applauso dei clericofascisti di An al gip (guai a chi spreca la carità
per gli umili invece di riservarla tutta ai potenti, che possono comprarla), e l’urgenza,
sottolineata da altri, di uscire dal medioevo ideologico facendo subito una legge contro
l’accanimento terapeutico (la ministra Turco e il presidente Prodi ascoltano?), così stando le
cose, dicevo, a noi cittadini è riservato un ruolo, solo apparentemente modesto: mettere
mano al portafoglio e inviare un contributo, sia pure piccolo, all’Associazione “Luca Coscioni”
che si trova, senza mezzi, a dover sostenere le spese processuali.
Su Europa del 27 dicembre lanciammo questo invito ai lettori, che in maggioranza sono
cattolici, e dunque conoscono i doveri della solidarietà umana. Che le cose andassero in
modo non del tutto rassicurante per il generoso anestesista cremonese, infatti, s’era capito
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anche allora: «Sono più di novanta giorni che Piergiorgio è morto – dice ora la moglie Mina –
e non ce l’- hanno ancora restituito», benché l’autopsia abbia rilevato che non aveva più
nemmeno i muscoli interni e sarebbe vissuto (si fa per dire) solo pochi giorni.
I lettori che vorranno solidarizzare con Mina Welby, col dottor Riccio e con l’on. Cappato
potranno servirsi del c/c postale n. 41025677 intestato “Associazione Luca Coscioni”, via di
Torre Argentina 76, 00186 Roma.
Il nostro aiuto ai compartecipi di questo dramma servirà anche a dare coraggio al legislatore
riformista e ai tanti medici che vorrebbero usare la carità verso chi la invoca, ma sono
schiacciati tra i fulmini dell’obiezione di coscienza e quelli delle legge-non-legge. Che, come
l’idra, ha tante teste: per una che ne tagli, altre dieci sono pronte a stritolarti
540 - PROBLEMATICHE DI FINE VITA: SCIENZA E DIRITTI – CONVEGNO A MODENA
Mercoledì 28 marzo 2007, presso l’associazione culturale “L’incontro”, nel quadro di una
serie di conferenze sul tema: “Parliamo di salute e di diritti”, la sezione modenese di
LiberaUscita è stata protagonista di un riuscito Incontro su “Problematiche di fine vita:
scienza e diritti”.
L’iniziativa, che era stata pubblicizzata dall’associazione “L’incontro” attraverso la sua
tradizionale rete informativa, è stata annunciata dalla stampa locale sulla Gazzetta di
Modena del 27 Marzo. Il giorno 24 gli attivisti di LiberaUscita avevano informato
dell’evento la cittadinanza allestendo un tavolo nel centro storico e distribuendo 750
volantini.
Nonostante la grande offerta di iniziative che caratterizza la città di Modena, per cui molto
spesso le presenze non sono molto numerose, più di 50 persone hanno partecipato
all’incontro. Sei gli iscritti a LiberaUscita presenti .
Il pomeriggio si è aperto con l’introduzione della presidente dell’associazione ospitante, la
quale ha accennato alla grande rilevanza del tema proposto e di come la direzione del
centro culturale avesse deciso di chiedere “lumi” a LiberaUscita per illustrare l’argomento.
Quindi ha brevemente presentato la relatrice dott.ssa Maria Laura Cattinari, coordinatrice di
LiberaUscita per l’Emilia Romagna.
Ecco la sintesi della relazione di Maria Laura, durata circa 40 minuti.
Dopo una doverosa premessa sul significato del nostro impegno, Maria Laura ha messo a
fuoco la realtà nuova con cui il cosiddetto “mondo sviluppato” si confronta da alcuni decenni.
Da un lato il progresso scientifico-tecnologico che produce i fenomeni di Bios-Abios (vita non
vita), dall’altro lato la crescente richiesta di una maggior estensione della libertà individuale,
di più ampi diritti civili, di un più ampio diritto all’autodeterminazione.
E’ seguita una sintetica analisi informativa sugli articoli di legge che disciplinano oggi la
materia nel nostro paese, facendo notare come, in base a quanto sancito in linea di principio
dalla nostra Costituzione (art. 13 e 32) e dalla convenzione di Oviedo (art. 5, 6, 9), i cittadini
italiani abbiamo già oggi il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, anche se già
avviato.
Si è aperta quindi una non breve parentesi sulla controversa e sofferta vicenda di Piergiorgio
Welby e sui risvolti talora raccapriccianti che hanno riportato alla memoria il tribunale
dell’Inquisizione.
E’ seguita una breve sintesi e spiegazione di tutti temi che notoriamente rientrano tra le
“problematiche di fine vita”: terapia del dolore, accanimento terapeutico, consenso informato,
testamento biologico, eutanasia attiva, suicidio assistito.
La relazione si è soffermata in particolare sul testamento biologico spiegando di che cosa si
tratta, come è nato, dove è già una realtà operante e a che punto siamo oggi in Italia
nell’iter che dovrebbe portare in breve al suo riconoscimento per legge, nonostante
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l’opposizione di coloro che sono contrari alla sua approvazione in quanto
l’autodeterminazione del paziente porterebbe alla “deresponsabilizzazione” del medico.
Maria Laura ha speso quindi qualche parola in più sul suicido assistito e sulla realtà
svizzera, visto che il programma dell’incontro prevedeva la proiezione del video prodotto da
Exit-Suisse. La proiezione del video non è stata comunque integrale per dare spazio al
dibattito.
Tutti gli intervenuti hanno mostrato grande interesse per i temi trattati e profonda
convinzione che si deve difendere in ogni modo l’autodeterminazione della persona di fronte
alla malattia e al morire. In realtà molti desideravano sapere cosa poter fare oggi in concreto
per tutelare il loro diritto. E’ stato loro consigliato di:
- esigere la terapia del dolore in caso di ricovero;
- redarre il proprio testamento biologico, tenerlo nel portafogli, darne copia al proprio medico
curante, eventualmente autenticarne la firma presso un notaio, darne copia ai propri
fiduciari;
- parlare con amici e conoscenti e invitarli a fare la stessa cosa;
- valutare la possibilità di associarsi a Dignitas;
- dare forza alle associazioni oggi impegnate per la legalizzazione del testamento biologico e
la depenalizzazione dell’eutanasia;
- esigere dai propri rappresentanti politici un pronunciamento chiaro e un impegno fattivo su
dette materie.
Alle ore 18 l’incontro si è concluso con la soddisfazione degli organizzatori di entrambe le
parti, con tanti modelli di testamento biologico distribuiti e con tanti (e sempre graditi)
complimenti alla nostra Maria Laura, la quale non ha mancato di rivolgere un grazie del tutto
particolare alla dr.ssa Maria Elinda Giusti, componente del comitato direttivo di
LiberaUscita, senza il cui contributo ed impegno non sarebbe stato possibile realizzare
l’iniziativa.
541 - LAICITÀ: GARANZIA DI DEMOCRAZIA E LIBERTÀ - CONVEGNO A ROMA
Venerdì 30 marzo 2007, alle ore 16, presso la sala Gonzaga di via della Consolazione 4,
Roma, si è svolto il convegno: "Laicità: garanzia di democrazia e di libertà nella ricerca
scientifica", organizzato dal Circolo Uaar “Gianni Grana” con il patrocinio del Comune di
Roma, Politiche alla multietnicità e all'intercultura.
Relatori la scienziata Margherita Hack (socia onoraria di LiberaUscita) e il prof. Piergiorgio
Donatelli, docente di bioetica all’Università “La Sapienza” di Roma. Coordinatrice Vera
Pegna, rappresentante della "Federazione Umanista Europea" presso l'OSCE.
Dopo gli interventi di saluto della delegata del sindaco di Roma, Franca Eckert Coen, e del
segretario dell’Uaar di Roma, Francesco Paoletti, Margherita Hack ha svolto una dotta e
argomentata relazione sul ruolo e sull’importanza della scienza in generale, partendo dalle
scoperte dell’uomo sull’origine del pianeta terra in cui vive e sull’universo di cui il pianeta
terra è un microscopico frammento. La Chiesa ha sempre contrastato la scienza ogni volta
che dimostrava, con la logica dei fatti e della ragione, l’inconsistenza di affermazioni
dogmatiche, quali, ad esempio, “la terra è il centro dell’Universo”. Ci sono voluti tre secoli
per riabilitare Galileo, chissà quanti ne dovranno trascorrere per Giordano Bruno. E chissà
cosa avverrà quando la scienza, forse entro questo secolo, riuscirà a dare una spiegazione
al mistero della vita umana.
Il prof. Piergiorgio Donatelli ha svolto una vera e propria lezione sulla “immoralità” dell’etica
cattolica e sulla assurdità di fissare principi immutabili derivanti da un “ordine naturale” che
non esiste.
Al dibattito che è seguito, dopo l’intervento della dr.ssa Chiara Lalli a nome dell’associazione
“Luca Coscioni”, è intervenuto il segretario di LiberaUscita, dr. Giampietro Sestini, il quale
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si è soffermato sulla incompatibilità fra il “diritto di Dio” e il “diritto degli uomini”, il primo
essendo eterno ed immutabile, il secondo mutevole nel tempo e nello spazio.
Il “diritto di Dio” non ammette il pluralismo e l’autodeterminazione, il “diritto degli uomini” è
fondato sul rispetto delle minoranze e sul principio di autodeterminazione delle singole
persone, anche di quelle che rifiutano il “dono” della vita quando la vita non è più degna di
essere vissuta.
Sestini ha quindi rilevato la connessione fra l’inizio dell’offensiva clericale contro la laicità,
accusata di “relativismo” e “nichilismo”, e la spaccatura politica del Paese. In altre parole,
sino al momento della caduta dell’impero sovietico la Chiesa poteva imporre i suoi diktat
soltanto alla Democrazia Cristiana, la quale però per governare il paese doveva trovare un
compromesso con i partiti laici (PSI, PSDI,PRI, PLI), tanto che allora è stato possibile
approvare – contro il parere della Chiesa – leggi laiche come il divorzio e l’aborto.
Oggi, in un sistema “bipolare” ove gli equilibri politici si misurano in termini di 24.000 voti, la
Chiesa può imporre i suoi diktat sia al centrodestra che al centrosinistra, ambedue
consapevoli che le oltre 25.000 parrocchie possono influire sul risultato elettorale.
Per fare fronte a questa antistorica e anticostituzionale offensiva della gerarchia cattolica
(peraltro non condivisa da gran parte delle comunità di base della Chiesa), è necessario che
le associazioni, i gruppi, i movimenti e le persone che pongono la laicità a fondamento della
convivenza civile facciano sentire la loro voce in modo unitario e pubblico, superando i
piccoli distinguo e le piccole rivalità che purtroppo li contraddistinguono.
Sestini, infine, si è augurato che Papa Ratzinger, in coerenza con i suoi predecessori che
nel 1870 scomunicarono i cattolici che parteciparono alla elezione del Parlamento italiano
costruito sulla caduta dello Stato Pontificio e nel 1948 scomunicarono i cattolici che votarono
per il Fronte Popolare contro la Democrazia Cristiana, a maggior ragione scomunichi i
cattolici che non rispettano le leggi di Dio, ossia i divorziati, le divorziate, i concubini, le
concubine, le donne che hanno fatto ricorso all’aborto e alla pillola del giorno dopo e alla
fecondazione assistita, gli uomini che usano il preservativo, gli omosessuali, le lesbiche, i
pedofili (anche se preti), le coppie di fatto, i malati terminali che invocano la fine delle loro
sofferenze, i medici che li aiutano, le coppie dello stesso sesso che vorrebbero adottare
bambini abbandonati, coloro che hanno tentato di suicidarsi e non ci sono riusciti, e così via.
Se ciò avvenisse, sarebbe interessante contare quanti sarebbero i politici “teo-con” e “teodem” non toccati dall’anatema.
542 - L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA: LAICA! – CONVEGNO A ROMA
Il 2 aprile 2007 a Roma, nella sala delle Colonne della Camera dei Deputati, via Poli 19, si è
tenuto il convegno “L’Italia è una Repubblica: laica!”, indetto dalla Consulta romana per la
laicità delle istituzioni.
Relatori: Sergio Lariccia (sessant’anni di privilegi e libertà delle confessioni religiose),
Daniele Garrone (il conflitto fra religioni e libertà religiosa), Federico Orlando (i politici in
ginocchio), Antonia Baraldi Sani (la scuola in appalto), Piergiorgio Donatelli (l’etica cattolica:
disumana e antimoderna).
Mario Di Carlo ha introdotto e Mario Alighiero Manacorda ha moderato il dibattito.
Sono intervenuti, fra gli altri, dom Giovanni Franzoni, socio onorario di LiberaUscita, e
Giampietro Sestini, segretario della stessa associazione.
543 – ASSEMBLEA STUDENTESCA SULL’EUTANASIA – MILANO
Riceviamo dal ns. vice-presidente, prof.ssa Maria Di Chio, il seguente resoconto.
Cari amici, il 14 aprile u.s. ho partecipato, come rappresentante di LiberaUscita, ad
un'assemblea studentesca sull'eutanasia presso il Liceo Bottoni di Milano. L'assemblea,
formata dagli alunni delle tre classi superiori, è iniziata alle 10, 30 e terminata alle 13, con la
pausa per l'intervallo alle 11 circa. Troppo poco il tempo per 5 relatori! Ho parlato per prima
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io e ho cercato di chiarire definizioni e concetti e di dare un'informazione veloce sulla
situazione nel mondo e in Italia. Gli studenti hanno dimostrato abbastanza interesse tranne
nelle ultime fila, da cui proveniva un brusio incontrollabile, nonostante i richiami del
professore organizzatore. Mi hanno rivolto alcune domande, dimostrando che si rendevano
conto dei problemi e avevano capito i concetti base.
Poi ha parlato il prof. Mario Palmaro, docente di filosofia presso un'università cattolica, che
ha argomentato contro l'eutanasia, sostenendo che non si basa sul principio di autonomia,
ma sul criterio di qualità della vita.
L'avvocato Caterina De Tilla, che rappresentava la Fondazione Veronesi, ha parlato
brevemente del testamento biologico.
Infine il dott. C. Betto e il dott. A. Noto, medici rianimatori in due ospedali di Milano, hanno
parlato delle difficili situazioni che devono gestire da soli per la mancanza di linee guida
comuni da seguire. A parte il brusio sul fondo, penso che la maggior parte degli alunni sia
riuscita ad avere idee più chiare sull'argomento.
Cordiali saluti
Maria Di Chio
544 - ANCHE IN ITALIA L'EUTANASIA - CONFERENZA DI FIRENZE
Riceviamo da Meri Negrelli, nostra coordinatrice per la Toscana, il seguente resoconto.
Giovedì 19 Aprile u.s. a Firenze si è tenuta la conferenza “Anche in Italia l’eutanasia?,
organizzata dal Comune di Firenze e dall’associazione Terzo Millennio.
Purtroppo lo sciopero del quotidiano Repubblica, che doveva pubblicizzare la notizia, ci ha
po’ penalizzato ma nonostante ciò la partecipazione del pubblico è stata buona.
La conferenza si è aperta con l’introduzione del notaio Luigi Aricò, socio di LiberaUscita, il
quale da tempo si è offerto di autenticare le sottoscrizioni di testamento biologico al costo
simbolico di un euro.
Ha fatto seguito la relazione dell’avvocato Fabio Conti che ha illustrato la questione dal
punto di vista giuridico.
Il dott. Viligiardi ha illustrato in modo molto chiaro gli aspetti inerenti la questione medica e
soprattutto la situazione negli ospedali con particolari riferimenti ai reparti di pronto soccorso
e rianimazione.
Margherita Hack, socia onoraria di LiberaUscita, si è invece soffermata sul tema del
testamento biologico e sulla necessità di difendere il principio della autodeterminazione della
persona di fronte alla malattia.
Il dott. Marco Cerruti, professore di bioetica nella diocesi di Firenze, ha svolto un intervento
chiaramente contrario all’eutanasia ma contrario anche all’accanimento terapeutico,
secondo la linea della Chiesa Cattolica ma comunque non privo di alcune contraddizioni.
Il nostro presidente Giancarlo Fornari ha tenuto una relazione chiara e circostanziata, ha
corretto alcune inesattezze contenute negli interventi precedenti ed ha infine illustrato il
disegno di legge per la legalizzazione del testamento biologico che la nostra associazione
ha presentato in parlamento per il tramite del sen. Giorgio Benvenuto.
Ringrazio tutti i soci di LiberaUscita che erano presenti ed in particolare Giancarlo Fornari
che si è reso disponibile per la conferenza e i soci Francesco Porcellati e Gennaro Cilento,
venuti appositamente da Napoli.
Cari saluti.
Meri Negrelli
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545 - LE VIGNETTE DI ALTAN – OBIEZIONE DI COSCIENZA
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IL PUNTO - Centro Studi Calamandrei