GIANCARLO BUONOFIGLIO
GIOACCHINO BRUNO
PERCORSI ONTOSTORICI
*** 2012 ***
Ma in che cosa consiste l'umanità
dell'uomo?
M. Heidegger
ARCHEONTOLOGIA
PREMESSA
Una prefazione non è mai semplice. A volte può essere più
complessa del libro stesso; a volte il libro stesso può anche
lasciarle il posto. Cercare di giustificare in poche righe il
senso della propria fatica è un'impresa che non rende
giustizia e il più delle volte è destinata al fallimento. Prima
che interessare il lettore e annunciare oscure verità, una nota
introduttiva deve perciò soddisfare due sole condizioni:
sintetizzare i contenuti e giustificarne l'uso.
Per quanto riguarda la prima questione è presto detto. E' mia
intenzione focalizzare l'interesse degli studiosi nell'opera di
Gioacchino Bruno, non solo per le inappuntabili competenze
sviluppate in ambito etnoantropologico (confermate dai
numerosi incarichi anche istituzionali e della gestione del
museo storico etnoantropologico di Floridia, nella provincia
di Siracusa) ma anche e soprattutto per la poliedricità del suo
lavoro creativo, che spazia dalla fotografia alla scultura, dal
disegno alla scrittura all'incisione della materia, tutto teso
come vedremo alla ricerca dell'assoluto e dell'essere, che è
poi il sacro di ogni civiltà. E' questa infatti la ragione del
titolo data alla presente monografia percorsi ontostorici, e
del neologismo pensato per delucidarne l'opera e il lavoro di
ricercatore a tutto tondo, archeontologia. Avuto in mano i
suoi documenti di camminatore/raccoglitore instancabile di
memorie antiche, il problema ontologico mi si è infatti
presentato assolutamente dominante in tutte le discipline che
ha maneggiato. Ancora una volta presente in questo
straordinario ritaglio geografico, l'essere non ha mancato di
fare sentire la propria voce nei percosi epocali di una parola,
di un gesto, di un segno: come desiderio di verità, apertura,
dis/corso che spinge al di là delle limitazioni del tempo e
dell'esistenza, nello spazio del nulla dove avviene la
rivelazione delle cose, la conversione dello sguardo.
Attraverso un onto/scavo nel sacro della cultura, libero
finalmente dalle variabili indipendenti col quale di volta in
volta viene nominato (dio, materialismo, libertà, sostanza,
Logos).
La giustificazione dei contenuti è invece per natura più
complessa e articolata; si tratta non solo di dare un senso al
proprio lavoro ma di motivarne la divulgazione. Nello
specifico di questo studio sull'opera di Gioacchino Bruno,
l'intenzione nient'affatto secondaria e a partire proprio dalla
significazione delle cose propria dell'archeologia, è quella di
avvertire il lettore di una possibile risemantizzazione del
mondo, un decentramento antropologico -già in parte
avvenuto, grazie anche alle nuove teconologie di massa e ai
mercati globali- da compiersi nella sintassi di una rinascita
storica,
attraverso
lo
scavo
archeontologico
nella
sedimentazione dei significati ancestrali. Niente di diverso
dalle profezie nietzscheane, con la differenza che l'alito della
nuova epoca già si sente. E sembra davvero non esserci
scampo o possibilità di salvezza.
II-2012,
G. Buonofiglio
NOTA INTRODUTTIVA
La prima volta che ho incontrato Giocchino Bruno mi ha
chiesto di camminare assieme per i sentieri di Pantalica.
Declinai cordialmente l'invito, spiegando che tra i miei
orizzonti culturali non mi vedevo a sfacchinare tra rovine,
steppaglie e sassi pur meravigliosi come quelli del territorio
Ibleo; i paesaggi e la storia di quesi luoghi me li portavo
dentro nei miei anni di studi e interminabili letture. Credo di
avere perduto un'opportunità unica, vittima dell'arroganza
della cultura e del pensiero. Solo più tardi compresi il valore
di quell'invito, ed oggi quasi arrossisco alla mia protervia di
scrittore sedentario tronfio di ricerche cieche vissute nelle
ombre dei libri e muffe da biblioteche. Ci sono uomini che
camminano e che nel loro cammino incontrano molto piu'
del pensiero, il mondo e la vita stessa. Grazie anche
all'amicizia di Gioacchino ho infatti imparato ad amare e a
rispettare questa strordinaria terra ed ho compreso la vera
natura del pensiero e della filosofia, che non per niente è
nata nella scenografia di questi sentieri, tra i profumi degli
aranceti, la luce del sole, la storia che trasuda dalle rovine, i
chiaroscuri del paesaggio, la bonarietà della gente. Con
imperdonabile ritardo mi sono venute in mente le parole di
Nietzsche sulle orme tracciate dal viandante, al seguito non
tanto di un astratto pensiero teoretico ma della verità stessa,
nell'aperto assolato in cui ogni cosa assume un senso e un
significato. E a proposito dell'andare incontro, ancora di più
forse la lezione di Heidegger che concepiva il pensiero, la
ricerca dei fondamenti e del vero come un cammino,
nient'affatto ideale ma concreto, vissuto, tonale. Il pensiero e
una visione del mondo nascono proprio da questo
avvicinarsi alle cose, dal muoversi tra radure spesse volte
impervie, alla ricerca in fondo dell'essere che è poi il nulla
nella sua ultima trasmutazione. Io, e lo scrivo con infinita
malinconia, mi sono fermato a metà strada, guardando dal
mio comodo empireo di idee lo scorrere delle cose, senza
avere assaporato la freschezza del pensiero mattutino, sentito
la brina delle idee depositarsi sul volto, o sfiorare come
Nietzsche-Zarathustra i venti della verità. Gioacchino è
invece uno di quegli uomini -ancora e nonostante tutto- in
perenne movimento. E' possibile vederlo nelle ore più
impensate a scarpinare per i monti, o scalare gli altopiani
della Val di Noto, lo potete trovare in posti quasi inumani e
invivibili teso a raccogliere con la macchina fotografica e
più spesso con le mani lo scorrere del tempo, a eternare in
qualche modo la poesia, l'arte e la bellezza di un panorama
che solo un occhio attento e vigile può assorbire. Ci sono
uomini che camminano e camminando fanno il pensiero,
incontrano la vita e la storia, che ragionano con le mani e
con le mani ap/prendono (Gettando il progetto-gettato crea
l'apertura storica in cui l'uomo entra in rapporto con gli
enti, li ordina e li fa apparire nella presenza. Heidegger) in
fondo la vita stessa. I sentieri nei quali si muove e vive
Gioacchino Bruno prima che fisici e limitatamente locali e
geografici sono come delle linee tese tra finito e infinito; e
questo desiderio inappagato di assoluto -più o meno
dominante in ogni uomo- si sente in tutta la sua opera,
perennemente alla ricerca di un equilibrio tra presente e
passato, il niente e il tutto, deietto in un mondo (a dire il vero
felicemente imprigionato) che è poi il destino dell'esserci.
Gioacchino mi ha raccontato di quando i contadini che lo
incontravano nel suo girovagare nella campagne lo
rimproveravano ironizzando: c'è la semina, il raccolto, le
olive (u travagghiu), e lui rispondeva che il reperto accanto
al tramezzino che aveva appena rac/colto era effettivamente
oro, il nulla certo ma pure il tutto (Il nulla non è un
oggetto... né un ente... il nulla è la condizione di possibilità
di rivelare l'ente come tale... il nulla non è solo il concetto
opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente
all'essenza dell'essere stesso. Heidegger). Il tesoro è la
roccia, cercava di spiegare, una casa rupestre è un patrimonio, e che sotto quei buchi c'era una città dimenticata (la
Sortino Medievale, o Sortino Diruta come la chiama). E così
credo sia sempre stata sempre la sua vita, dall'alba fino
all'oscurità, quando nella profondità della parola e del
silenzio si finisce nell'ultima trascendenza del linguaggio e
della visione (La parola nomina la regione aperta dove
abita l'uomo. L'apertura del suo soggiorno lascia apparire
ciò che viene incontro all'essenza dell'uomo e, così
avvenendo, soggiorna nella sua vicinanza. Il soggiorno
dell'uomo contiene e custodisce l'avvento... e secondo la
parola di Eraclito questo è δαιμον, il dio... l'uomo in quanto
parla abita nella vicinanaza del dio. Heidegger). Perché
pure l'ombra ha un suo fascino e una dignità estetica
(L'ombra è la luce, mi ha detto sbalordendomi con un
ossimoro paradossale degno di Heidegger). Altro non fa un
archeontologo, se non lasciare che come il vento che sibila
sulla pelle, sia l'essere stesso a venirgli incontro nella luce
ombreggiata, portandolo verso le cose stesse (zu den sachen
selbst!). Gioacchino Bruno custo/disce nella casa-museo di
Floridia reperti unici e di sicuro interesse (ne ha catalogati
assieme e per merito del padre Nunzio, oltre 9000), e il suo
lavoro di custode/bibliotecario consiste non solo nella
memoria dei resti ma nel dare voce al passato di questa terra.
Non è padrone di ni/ente, Gioacchino, incurante degli idola
del possesso e soddisfatto da una vecchia casa padronale (La
Casa dell'Artigianato in Sortino) che ha trasformato in un
non/luogo abitando però il quale (fuori di sé, tra gli enti,
nelle cose) una volta tanto anche l'uomo più umile ha una
possibilità di ricerca, di verità; dove si e-siste in
un'atmosfera magica e ricca di cultura che è poi il
raccogliere ascoltando che rende cosa la cosa. Un sasso delle
rovine di Pantalica è solo un sasso, ma se te lo racconta
Gioacchino, in quel sasso senti millenni di storia, la vita,
quasi echeggiare le urla di dolore che ha assorbito nei secoli.
E questo muoversi atavico del com/prendere, il camminare
tra le cose, ha il nome antico di libertà; e la libertà in quanto
tale espone strutturalmente al destino come l'essenza stessa
della verità. Non è una dimensione culturale questa dello
stare fuori, ma uno spazio vivo, un'atmosfera, una caverna
infinita che rovescia in maniera radicale il rapporto tra l'ente
e l'essere, l'uomo e la sua storia. In essa ci si trova, si respira,
si vive e qualche volta pure si muore. Annulla in una parola
la differenza ontologica tra l'Io e il mondo, l'uomo e il dio. E
questo è un atto nascostamente politico: Chi ha scorto
l'universo non può pensare ad un uomo... Anche se
quell'uomo è lui. Quell'uomo è stato lui. E ora non gli
importa la sorte di quell'altro... Perché egli ora è nessuno;
come scrive Borges a proposito di quell'altro raccoglitore di
tracce che è il bibliotecario, ricettacolo di passato, custode di
una mitologia. Gioacchino ha vissuto e vive da uomo libero
(come il padre, stimatissimo esponente della cultura siciliana
e il nonno rimpianto artista locale), nel sacro dei contenuti e
dei simboli della sua gente, appagato dalla storia e dalla
memoria che conserva. Camminando all'aperto tra l'essere e
l'ente -come fa Gioacchino Bruno con un metodo quasi
monacale che è etica nella sostanza- alla fine ci si abitua alla
luce, a vedere con occhio attento (La luce è tutto per me, si
deve modellare, è l'inchiostro di china, la macchina
fotografica è la penna) significando e a sua volta
significandosi, perché l'aperto è qualcosa che dà senso ma
che non ha senso; è un accecamento, un limite strutturale che
però espone nella vita e nelle cose (analitica trascendentale:
scioglie il conoscere negli elementi sostanziali cercando in
esso i concetti puri a priori, in una dimensione della
coscienza che non è lineare ma circolare). Oltre non si può
andare nella chiarìta di questo crepuscolo ontologico
(L'essere, aprendosi nella radura, viene al linguaggio. Esso
è sempre in cammino verso il linguaggio.... Il linguaggio si
eleva a sua volta nella radura dell'essere. Solo il linguaggio
è in quel mondo misterioso che pur sempre ci domina.
Heidegger) e l'unica lilbertà concessa è di accettare l'essere
come destino, superando anzi pure forse questa fragilità al
punto che Gioacchino ha cercato di vincere le naturali
limitazioni del corpo imparando, grazie alla lezione del
nonno paterno, ad usare la mano babba, sforzandosi di non
perdere le potenzialità della mano sinistra. Tra un bicchiere
di rosso e un altro (altra meraviglia di questa terra, che
Bachelard avrebbe apprezzato) una sera mi ha sbalordito
dicendo che il materiale, la vita la calpestiamo, la viviamo
ma non la capiamo, che in fondo siamo ciechi che vivono in
un mondo che non conoscono. Mi spiegava, ed era in fondo
una metafora del suo lavoro e dell'esistenza che quando
scavi e trovi una moneta sembra un sasso; sta alla cultura e
alla passione dell'uomo di averne cura, com/prenderlo,
ripulirlo e liberare la moneta come a scavare in significati
misteriosi e sconosciuti. E solo allora ti accorgi che quella
pietra era oro. Maneggiandola da tutti i lati, rivivendola
proprio come un fenomenologo alle prese con la variazione
eidetica, cercando di darle un senso.
Ma è venuto il momento di lasciare la parola all'opera di
Gioacchino Bruno. In questa onto/monografia a lui dedicata
proverò non solo a metterne in luce il lavoro di archeologo
diplomato sul campo, ma quello di artista/ricercatore
completo, dedicando una sezione del libro alla fotografia,
una alla scultura della pietra, una al modellamento
dell'argilla e del disegno, sulla base di seminari tematici
tenuti proprio da Bruno presso associazioni culturali. Con la
speranza di portare in luce aspetti ancora sconosciuti della
sua scienza e di interessare gli studiosi più attenti. Ho
coniato un neologismo per raccontare la figura di questo
straordinario personaggio
poliedrico,
attribuendogli
il
mestiere paradossale di archeontologo, e credo che sia
davvero appropriato. Il lavoro di Gioacchino non è solo da
archeologo e appassionato di museografia e museologia, è
davvero più complesso e articolato. Si tratta di un ricercatore
eclettico,
fotografo,
scultore,
modellatore,
grafico,
disegnatore, pittore, scrittore e chissà che altro, la cui opera è
giusto che abbia a suscitare interesse presso anche le più
austere accademie. Credo sinceramente che ne valga la pena.
E' però ora di andare. Il sole si alza e il cielo si colora dei
toni del giorno. Come sempre Gioacchino sarà da qualche
parte a camminare -è l'unica regola che credo abbia mai
seguito- di mattina presto (alle cinque e mezza!) a fare un
passo in piu' tra passato e futuro, nelle cose e nel tempo, nel
non senso di una giornata il cui segreto fondamentale (come
ha spiegato raccontandomi dei mali della sua epoca) sembra
essere di non dormire mai, nel bisogno inarrestabile di
calarsi nel mondo come parte di una storia che trascende la
stessa individualità. Non esiste altra via per testimoniare
l'essere e annunciare la verità.
Carta storico/topografica della Sicilia secondo le "ultime" osservazioni, come è scritto nella
mappa datata 1754. Sono delineate le tre valli (Val di Noto, Val Demone, Val di Mazzara)
ANTROPONTOLOGIA
Techne e po/etica in Gioacchino Bruno
Gli antropologi lavorano nel tempo, cercando di salvare
dalle macerie della storia significati profondi delle civiltà;
gli antropontologi i significanti, inserendosi nella catena
semiotica alla ricerca del segno che crea e cristallizza nelle
epoche il mito. L'antropontologia non è metafisica, l'essere è
sì un universale ma concreto/immanente nel suo costante
ripresentarsi in ogni segno rilevante delle attività umane;
anch'essa può essere una scienza di studio empirico, ma a
condizione
di
riconoscere
nell'essere
non
un'entità
sovraumana, ma nelle diverse civiltà i caratteri eterni e
immutabili che definiscono il sacro. (E con la parola sacro
dobbiamo intendere quanto c'è di immutabile nelle cose
rendendole quello che sono, e in quanto tale oggetto di
rispetto e venerazione.) L'essere è ciò che con/segna i
significanti in una significatività globale che dà loro un
senso e un significato, e l'apporto dell'uomo non è comunque
marginale. Proprio come il contadino che decide di vangare
il suo campo, e confida nell'aiuto di dio. Ma non per questo
lascia a dio il compito di lavorargli la terra... Sa che il suo
lavoro non basta, che tante e tante altre cose occorrono
perché esso vada a buon fine; ma sa anche che il suo lavoro
è
insostituibile
(E.
Severino).
Qualcosa
di
simile
all'antropologia culturale (mutuata da Durkheim e Mauss) di
Lévi-Strauss, che cercava le costanti universali nelle diverse
società umane (strutture dello spirito), ma individuandole
non in quello che le molteplici forme di vita hanno in
comune, quanto nel carattere sistematico delle relazioni. Le
costanti non sono insomma per gli antropontologi generiche
somiglianze, ma consistono nell'invarianza nascosta delle
relazioni che intercorrono tra le variabili. Come si è detto il
segno nella suo significare però l'essere nelle cose.
L'antropontologia concentra la sua attenzione proprio in
queste costanti, cercando nelle strutture mitologiche dello
spirito umano il fondamento di una comunità che ha il nome
del sacro. E nella sacralità l'essere immutabile che è nei
frammenti della memoria a significarli, rinvenibile negli
esercizi essenziali dei manufatti culturali al di là delle
geografie e del tempo.
*******
Naturalmente
in
questo
processo
di
ricognizione
grammaticale non secondari sono gli strumenti e l'apparato
scientifico culturale del ricercatore. Prima tra tutte l'abilità di
com/prendere con un colpo d'occhio non tanto la storia di un
sito archeologico ma l'unità d'insieme del paesaggio.
Gioacchino Bruno nel suo approccio anche estetico, che è
nella sostanza sintesi (così scrive nei diari: Volgendo lo
sguardo verso il bacino idrografico dell'Anapo noto che il
territorio di Sortino ne è al centro... fornendo acqua perenne
alle varie industrie umane), non per niente è stato uno dei
maggiori promotori (nonché scopritore di siti sconosciuti)
della rivalutazione del suo territorio, che nel tempo avrebbe
portato la necropoli di Pantalica ad essere inserita
dall'UNESCO tra i patrimoni dell'umanità. Lo strumento
principe col quale lavora Bruno è l'occhio, naturalmente
addestrato dalla cultura e coadiuvato dalle strumentazioni.
Disegna, fotografa, prende appunti e sintetizza con lo
sguardo il progetto di lavoro che metterà nero su bianco
nella carta archeologica, che ritiene essere lo strumento
essenziale per ritrovare i segni della memoria storica e per
tutelare l'equilibrio e l'armonia del paesaggio. Nello
specifico della carta geografica, il suo metodo di studio si
avvale (quando è possibile) di foto aeree, utili per trarre
indicazioni importanti sull'assetto dell'ambiente del passato e
delle infrastrutture (strade, necropoli, villaggi rupestri,
sistemi di drenaggio) più antiche che hanno lasciato tracce
significative sulle superfici del terreno. Non secondaria è la
ricognizione degli archivi alla ricerca di vecchi documenti e
di cartografie che documentino il passato, come pure la
ricognizione sul campo. Quest'ultima in particolare risulta
essere assolutamente determinante, per la ricchezza di
frammenti -i cocci- reperibili che sono poi i segni tangibili
delle civiltà: ho esaminato cave, cozzi, ruderi, grotte alla
ricerca di prove e indizi che consentissero di ipotizzare la
presenza di insediamenti e attività umane scomparse. Quasi
un calarsi nel passato per poter meglio cercare, vivendo a
volte come un primitivo anche per mesi (come gli è capitato
di fare nel corso degli scavi della Diruta Medievale,
dormendo nelle grotte, all'interno di una bottega artigiana
delle concerie e riscaldandosi col fuoco), ma con
l'eccitazione e il conforto di dare un contributo di rilievo alla
sua terra. E tale contributo è stato essenziale tanto dall'avere
ridisegnato con maggiore precisione la carta geograficostorica di Sortino (rieleborando più matrici topografiche
I.G.M. che riunivano le quattro vecchie carte indipendenti e
adiacenti, comprensive di un censimento dei crolli geologici
-la Sortino Diruta- e urbanistici -l'ubicazione della chiesa
Madre, della chiesa Sant'Agata e del Castello e la sua torre-,
degli immobili privati, delle discariche abusive), allargando
e stimolando il turismo che si muove verso la Sicilia sudorientale, impegnandosi (su richiesta dei dirigenti della
Provincia) nell'elaborazione di un testo unico dei beni
artistici, monumentali, storici e etnoantropologici di tutto il
comprensorio della Val d'Anapo, nonché l'idea progettuale
del museo dell'Antiquarium sortinese presso l'ex convento
dei frati Carmelitani in Sortino e la bonifica della zona
Cugno del Muro.
Plastico antica rete viaria del sud est della Sicilia
*******
Si diceva dell'antropontologia, è bene puntualizzare ancora.
Il tempo non è un accessorio tra gli altri ma il significante
ultimo e fondamentale dell'essere umano (Sein und Zeit).
Gettato nell'attualità come semplice presenza, cosa tra le
cose e preso nel ciclo delle nascite l'uomo, l'esserci (l'essere
nell' umano) si muove nello iato tra vita e morte, dove tutto
corre
inarrestabile.
Ma
l'esserci
(l'uomo)
non
è
semplicemente nel tempo ma è tempo, il suo essere è
temporale; la dimensione storica è strutturalmente umana e
non delle cose che non hanno una dignità propriamente
ontologica (perché il mondo ha la finalità nell'essere umano,
pur decentrato, esiste come insieme di enti utilizzabili per la
progettualità dell'esserci), nel senso dell'avere in sé la causa
della propria esistenza. L'esserci è una causa prima (in
quanto progetto/aprente nella parola/segno lo spazio di
significatività in cui sedimenta il senso delle cose), ma anche
un causato (come fondamento senza fondamento), un
paradosso ontologico che muove dalla dinamica della parola
a quella della morte, dalla possibilità alla necessità. Il
linguaggio (il segno) apre al mondo i significati e organizza
il senso di quella rimandatività simbolica che è il tessuto
culturale di una comunità, mentre il tempo (il verbo) esprime
propriamente l'azione (il fare, la poiesis) che ordina
strutturandolo il dinamismo interno della mondanità. Nella
nostra struttura linguistica la totalità delle predicazioni
presenta gli oggetti come il prodotto ontico del tempo
(dell'essere inteso alla maniera tomista come l'atto che fa di
un ente non solo un ente logico ma reale), operando il
passaggio dal piano dal linguaggio a quello delle cose che le
determina per quelle che sono. Facciamo un esempio: in
ebraico verbo si scrive po'-al' e significa azione, agire,
operare; la radice pe + 'ayin + làmed si trova anche in pòel
che vuol dire operaio. Come dire: prodotto e produttore,
opera e operaio non sono solo uniti da un legame
causa/effetto, ma essendo riconducibili ad uno stesso
principio poietico (il tempo, il verbo essere che li preserva
nell'esistenza) sembrano confluire in un unico significato
(una cosa e/siste, significa, solo in rapporto ad un ente
capace di utilizzarla, di aprire la significatività in cui si
colloca il senso dei significati). E se questa è la natura del
fenomeno (chiamato in questo contesto antropontologico
segno, sedimentazione noumenica dell'assoluto) nella sua
rimandatività temporale, dobbiamo allora dedurre che nulla
esista oltre la manifestazione fenomenica della cosa? Il
fenomeno (il segno/frammento) non ha il significato
squalificato di antitesi alla cosa in sé; significa piuttosto
manifestazione, fulgore, ri/velazione; non è opposto
all'essere ma è l'esistenza nella sua mitogia concettuale, il ci
dell'essere (una forma).
*******
Naturalmente
il
fenomeno
come
segno/frammento
dell'essere riesce in qualche modo a confluire nella materia
utilizzando i linguaggi propri della tradizione locale,
con/segnando alla modernità non il passato della storia ma
attualizzando nel presente il senso sempre attuale delle cose,
l'ottica assolutizzante di un vissuto mitologico che proietta
nel contesto moderno la verità dell'essere. Come uno spazio
in cui si apre lo scenario del mondo all'interno di un gioco
simbolico di segni/parole/colori che sono una panoramica
perspicua della realtà. Proprio questa deve essere stata la
ragione che ha portato non solo Gioacchino Bruno (all'epoca
segretario della Pro-Loco Pantalica di Sortino), ma artisti e
conoscitori del territorio come Sebastiano Pane e Alessandro
Rapisarda, alla realizzazione di un monumentale murale nel
giardino pubblico della zona Piano del Castello nel territorio
sortinese, raffigurante scorci di vita quotidiana ambientati
nella Sortino Diruta. Oltreché naturalmente il sostegno
dell'amministrazione nella persona del sindaco, Orazio
Mezzio e dell'assessore prof. Franco Giuliano, come pure il
contributo di artisti (di talento, ad esempio Mario Matera) e
concittadini. Il lavoro fu davvero incredibile per l'estensione,
si presentava in una lunghezza di 41m, 3m in altezza, per
una superficie complessiva di 123mq. Villa delle Rose è un
Scena che raffigura il Castello
sito importante per la posizione geografica che ricopre; era
l'antico Piano del Castello nella Sortino Diruta, posto nel
cocuzzolo di uno sperone roccioso delimitato a sud e a nord
da profondi dirupi. Il luogo fortificato con un fossato e mura
alte aveva un portale d'ingresso e la sua piazza d'armi. Il
nome moderno (bellissimo e suggestivo), prima denominato
Cimitero Vecchio (in quanto fu trasformato in cimitero dopo
il terremoto e sulla base della legge che imponeva ai comuni
di costruire i camposanti ad una certa distanza dai centri
abitati) fu dato da una scolaresca d'asilo che aveva le aule
presso il monastero di Montevergine, e piantò sul terreno un
campo di rose. Anticamente era la pozza/piazzale, ed il
murale fu anche perciò denominato Piazzale del Castello,
per secoli di proprietà della famiglia feudataria dei Gaetani.
Negli anni i resti funebri furono trasportati nel cimitero
nuovo e il portale (che sembra avesse la forma ad arco e
dotato di un cancello in ferro; ma tale informazione arriva
dai racconti degli anziani di Sortino e non è stata
documentata) fu abbattuto. Quando il sindaco di allora (con
delibera della giunta n. 138 del I Marzo 1999) ha bonificato
l'area (che l'incuria aveva trasformato in una discarica
abusiva) intonacando il vecchio muro a nord con un grande
pannello bianco, fu naturale pensare di dipingerlo. Il primo
progetto che Gioacchino Bruno presentò venne rifiutato
dall'amministrazione per mancanza di fondi e solo dopo anni
rinacque l'interesse. I sei paesaggi (Concerie, Castello del
feudo, quartiere Curditta, abitazioni del ceto medio-alto del
S.Sofia Fuori le Mura
Curditta situato all'epoca nella parte superiore del centro
abitato, chiesa di Santa Maria del Soccorso, uscita indenne
dal terremoto e successivamente adibita a deposito agricolo)
Scena che raffigura le botteghe artigiane delle concerie
vennero dipinti a base di idropittura al plastico e inseriti in
una cornice litica e si dispiegava in sei sezioni raffiguranti la
vita dell'epoca. L'opera, che cominciò nel Maggio del 1999,
durò sei mesi e fu pure imbrattata col ducotone con un atto
vandalico. Ma ancora oggi il piazzale viene visitato da
turisti, considerando anche la bellezza del panorama, e
utilizzato nel corso delle cerimonie pubbliche. E così
nonostante tutto oggi l'antica Sortino rivive grazie anche a
Giocchino Bruno in un eterno presente, davvero al di là delle
scelleratezze dell'epoca moderna, come un monumento
all'attualità di una storia da non dimenticare. Sembra
insomma che Salvo Sequenzia abbia affondato la penna nella
maniera più giusta e acuta quando scrive di Gioacchino che
Abitazioni rupestri esplorate nel 1998
Chiesa rupestre di S. Maria del Riposo
all'ansia descrittiva dell'occhio analitico sostituisce lo
sguardo sbigottito dell'artista, che sottomette la rigidità
della visione alla spumeggiante ventata di una fantasia che
sfuma i contorni dell'immagine originaria per coglierne il
senso riposto; armando un impulso di curiosità, di
conoscenza totale, e quasi spreme volontà di colloquio con
l'oscurità dei millenni, in un disperato bisogno di fermare il
transito dell'effimero nel riverbero della visione, dove la
forma si sfrangia, e il muto silenzio della Grande Madre,
minaccioso e terribile, si trasforma in smagante richiamo di
Eros, energia rigenatrice del mondo, invito sensuoso
dell'Amante Universale, richiamo di una Grazia fatua e
ineffabile che, dal fondo di ere remote, chiede la comunione
di senso, di sensi, nella stupefazione dell'uomo che si
arrende all'irrazionale panico, a un'inattesa aura che salva.
Quartiere Curditta
*******
Una tensione analogico/ontologica della materia (dall'essere
all'esserci, all'essere-qui-ora) che significa solo nell'orizzonte
umano come chiamata nella deiezione, un richiamo oltre il
getto della coscienza pro-gettuale della temporalità scaduta.
Il tempo che per l'uomo è linerare nelle cose dell'arte
(ovvero quei di/segni, prodotti estetici che segnano
l'indefinito nelle specifiche manifestazioni dell'essere) è
invece ciclico. Sottratti alla dimensione strettamente
esistenziale nascita, putrefazione e morte sono nel segno
poetico condensati in un unico pres/ente (presso l'ente, la
cosa), senza spazio né tempo. Ancora una volta è il tempo a
intervenire annullandosi nel processo poetico: il segno
(incisione nel divenire, graffio e memoria nella storia) è
appetito, desiderio di esistenza, di fermare il proprio essere
nell'immobile e sempre uguale, nell'attimo impossibile
dell'eternità. Superando la storicità degli eventi ma anche il
linguaggio scaduto nella chiacchera, la lingua poetica dura e
si conserva; è la qualità che ha il prodotto di superare la
natura limitata del produttore, di usarlo, annullarlo e
nell'ultima delle alienazioni trascenderlo. E questo è il valore
del segno nel rapportarsi all'uomo (Solo l'opera fa
dell'artista un maestro d'arte. L'artista è l'origine dell'opera.
L'opera è l'origine dell'artista. Heidegger) e nel mondo, in
cui apre e fonda l'orizzonte mitologico in cui ogni ente
appare. Il suo senso non può allora trovarsi nel contenuto
(che è ciò che una comunità/forma di vita, sulla base di una
rete di credenze e convinzioni condivise e concordate,
riconosce come valori, una forma), né tanto meno nel
significato inteso quale rappresentazione contingente di un
fenomeno storicamente determinato, ma deve piuttosto
consistere nel significante, nella parola/segno vuota dei
riferimenti ontici (ripulita dalla colonizzazione culturale
operata dall'idea sul linguaggio) e libera da ogni
sedimentazione semantica. Dalle interessate connotazioni
mondane. Nella tecnica (τέχνη, uno dei modi della άλητεύειν, di rendere manifesto l'ente) propriamente, che è
ciò che permette alle cose di assumere un significato.
Contenuto del segno poetico è l'abilità di dominare una
tecnica che nello scorrere delle epoche e delle idee si
afferma oltre le contigenze storiche configurandosi come
verità dell'essere. Il produrre, il fare, la poiesis non sono
tanto un bisogno e-sistenziale di comprendere e costruire un
mondo, ma la pulsione erotico/biologica di dilatarsi oltre il
finito e la temporalità (annullando la differenza welt-erde,
mondo-terra) dando voce all'essere che s-vela i significanti
in una diversa semantizzazione. La techne, il fare, la
manualità produttiva è attività che unisce l'uomo e l'essere
(la parola e la cosa, in quanto è il nome/segno a rendere cosa
la cosa) in un unico destino, annullando e appropriandosi in
una storia di reciproca appartenenza. Travolto dal segno
dell'essere (Che il ci, l'illuminazione come verità dell'essere,
accada questo è decreto dell'essere stesso. Heidegger), il
poeta (nel senso del fare con una connotazione ontologica) è
costituito dalla poesia (nella catena significante dei
significati che aprono al senso) in quanto è la poesia a porlo
nella propria apertura storica. Il segno poetico è un risalire
rischiarante/occultante, un custo/dire e ri/velare ciò che
viene alla luce dal fondo dell'essere, dalla cristallizzazione
della materia; un cammino a ritroso (Zeit und Sein) nel quale
l'uomo è appropriato all'essere e l'essere consegnato
all'uomo, una condivisa appropriazione/espropriazione in cui
è l'uomo a scomparire, a mortificarsi e annullarsi. Il
produttore di segni è nessuno, uno strumento (nel senso che
l'essere si serve dell'uomo per l'accadere che è l'essere
stesso) dell'essere che vuole e non vuole annunciarsi. La
testimonianza di una verità che annulla i significati e s/fonda
in nessi logico/temporali; in cui segno e significato si
separano per ricostruire
una
nuova
unità
lessicale.
Combinando e ricombinando, distruggendo e ricostruendo il
linguaggio fino a sedimentare la consistenza di una pietra.
*******
Salvare le cose dalla degradazione temporale e dall'usura
della memoria. Non solo però; per un antropontologo si
tratta non di portare alla luce patrimoni sommersi delle
civiltà ma di far rivivere quei luoghi risignificandoli nel
tempo presente. Come sarebbe dovuto accadere nel desiderio
di Gioacchino Bruno per la Sortino Medievale, attualizzando
la storia e storicizzando il presente. La storia della scoperta
di questa città sotterranea ha qualcosa di magico, e una parte
del merito va riconosciuta al nonno paterno (pittore
dotatissimo) che veniva incaricato dai sacerdoti di realizzare
opere da esporre nelle parrocchie e del restauro dei beni. Gli
capitò infatti un giorno di imbattersi (così leggo nei diari di
Gioacchino Bruno) in un quadro tutto nero rappresentante
un paese dipinto con in alto la dicitura "Sortino antica
destrutta nell'anno 1693 per vementissimi terremoti. A 9 e
11 Gennaro". Capì subito che si trattava di qualcosa di
Tela che rappresenta l'antico sito di Sortino precedente il terremoto. L'opera è conservata
presso la chiesa di S.Sofia
eccezionale. Chiese e ottenne al parroco don Campagna di
poterlo pulire, e con stupore comparve oltre i fumi che lo
ricoprivano l'antico abitato con chiese e monumenti. Con
l'intervento del vescovo di Siracusa, al quale avevo
comunicato l'importanza del quadro, e con il contributo di
una ditta di Priolo cominciò il restauro vero e proprio. Il
quadro è stato un compaggio di viaggio, uno stimolo
straordinario che mi muoveva, aiutato dal manoscritto del
Gurciullo (studiando con minuzia tale i caratteri calligrafici
da arrivare a riprodurne in un manoscritto la grafia come gli
amanuensi dell'epoca), alla ricerca dei resti rappresentati (il
dipinto come si usava a quel tempo è dotato di un dettagliato
glossario della mappa). Cominciai a perlustrare il territorio
alla ricerca della vecchia Sortino. Ogni giorno aggiungevo
Legenda del quadro storico con l'indicazione di strade, chiese, ponti e piazze
nuovi tasselli, leggevo e disegnavo mappe sempre più
dettagliate. La prima fu quasi ricalcata dal quadro e venne
inserita nel volume "Chiese, conventi e palazzi di Sortino"
ad opera del parroco Giuseppe Salonia, e inserita dalla
dott.ssa Beatrice Basile, funzionario e ricercatrice della
Sovrintendenza di Siracusa, nei documenti ufficiali. E in un
altro passo dei suoi taccuini si può anche leggere: Avevo
scoperto Sortino antica attraverso un quadro... fui
folgorato! C'era la legenda indicante i nomi di chiese e
strade, i ponti, le sorgenti, i quartieri. Mi misi subito alla
ricerca dei resti; accumulai foto, disegni, mi misi a leggere
il manoscritto del parroco Gurciullo (edito nel 1749).
Accrescevo le mie conoscenze dei luoghi. Nel 1993, nella
ricorrenza dei trecento anni della distruzione ad opera del
terremoto, assieme a Luigi Ingaliso cominciai la stesura di
un libro "Ricognizione topografica, tra storia e leggenda".
Lo stampai a mie spese e con l'aiuto di alcuni negozianti e
di liberi cittadini. Il libro, che è anche un diario dei lavori, è
stato investito di riconscimenti autorevoli, ed è giunto in più
occasioni all'attenzione della stampa non solo locale
(Giornale di Sicilia, Diario, Agorà, Zomerkavantiespecial).
Quando si scava nel tempo capita a volte di trovare tesori, e
così raccogli i cocci, cataloghi i reperti, di/segni le mappe,
segni gli oggetti. Metti ogni cosa insieme e cerchi di
ricostruire la storia, le vite di quell'antico abitato. Vorresti
sentire le voci delle persone che le hanno adoperate, vedere
le mani che le hanno afferrate e gli occhi per le quali hanno
pianto o sorriso; e così ripercorri la storia di una, cento,
mille vite. E faresti di tutto per dare loro una voce, un'altra
opportunità; perché la morte e la fine delle cose non riesce
ad accettarla un antropontologo, il suo compito è di dare
nuova vita, nominando e risignificando gli oggetti trovati.
Estrarre il pres/ente che è in ogni cosa, con/segnarlo alla
luce affinché racconti non il passato ma il futuro, come una
Prima mappa topografica eleborata sulla base del quadro e delle cartine altimetriche IGM,
pubblicata nell'opuscolo Sortino Diruta
traccia poetica da seguire nei sentieri sempre impervi
dell'esistenza. Il lavoro di Gioacchino Bruno, e in particolare
proprio negli scavi della Sortino Medievale ha proprio
questa caratteristica. Nei disegni ci senti i cadaveri
insanguinati, schiacciati dalle mura crollate (come scrive lo
storico Sebastiano Pisano Baudo) nel terremoto del 9-11
Gennaio 1693, ci vedi i corpi affondati nella melma,
seminudi terrorizzati e assiderati. E allora Gioacchino scava
con le mani e col piccone senza fermarsi perché c'è sempre
una possibilità di salvezza, anche dopo centinaia d'anni. Si è
detto del tempo e della tecnica nella ricognizione
antropontologica; è impressionante davvero vedere non solo
la passione del raccoglitore metodico, ma la quantità della
mole del lavoro prodotto (dai diari ai progetti di recupero,
dalle conferenze ai disegni della città, dallo scavo sul campo
al plastico minuzioso della Diruta, in scala 1:250).
Gioacchino ha ricostruito Sortino Vecchia in ogni modo,
vincendo le naturali erosioni della memoria e sfidando non il
tempo aulico della storia, ma il suo; prima con lo scavo, poi
con disegni e fotografie, poi con un plastico e con la
compilazione dettagliata di diari, infine con la parola.
Facendo in qualche modo rivere gli antichi quartieri
Curditta, Mandrazzu, Carcarone, Cunserie e Cava. Ed è
interessante notare la povertà dei mezzi con cui ha lavorato
Gioacchino (per lo più solo, ma a volte con amici e volontari
dell'associazione SiciliaAntica da lui fondata) nell'estrarre la
vita dalle macerie, proprio come se si trovasse nel mezzo del
sisma, tra i rantoli di disperazione della sua gente, scavando
con le mani e con oggetti di fortuna presi sul luogo:
piccozze, triangoli, secchi, zappe, cariole, manicole, picconi,
rastrelli, pale, livellatori, scope in ferro, rotoli di lenza. Ma
nulla è improvvisato, perché il metodo (la tecnica)
scientifico di ricerca -come quando in un cataclisma si
organizzano i soccorsi non facendosi prendere dal panico ma
seguendo regole consolidate- è sempre presente. Come si
vede nei documenti autografi che riguardano ad esempio
l'insediamento Bassomedievale, in contrada Costa Sortino a
150 metri dalla cappella di S. Francesco di Paola.
Anticamente era denominato Quartiere Curditta (il quartiere
più ricco e nobile, situato sotto il Piano del Castello, e così
chiamato in quanto era la prima fonte d'acqua che
Plastico di Pantalica
s'incontrava nella parte alta e che in estate diventava un
rigagnolo defluendo come una fontanella, una cordicella, la
curditta), nei pressi del monastero di S. Benedetto, nel ciglio
del precipizio denominato anticamente Barriera.
Individuabile sulla Carta d'Italia I:25.000, foglio 274,
quadrante IV, orientamento: S.O. Monte Pancali. Particella
120, foglio 39. Dietro permesso dei proprietari e con
l'autorizzazione della Sovrintendenza di Siracusa, nella
primavera del 1998 ho iniziato una complessa opera di
pulizia di due abitazioni rupestri. Il sito s'inquadra in un
paesaggio a gradoni, in declivio verso sud; si può
raggiungere mediante una trazzera privata imboccando la
strada per S. Francesco di Paola; dove termina la trazzera,
sulla sinistra si sviluppa l'insediamento indagato. Sembra
insomma che per quanto il cuore ci metta il suo, la testa
debba comunque fare la sua parte, e nulla sia lasciato al
caso. Ma il cuore si sente nella ricognizione dello sguardo
-assolutamente dominante- che abbraccia il tutto, e tale
visione è marginalmente attuale perché sfonda le macerie del
tempo e rac/coglie come in una fotografia antica la vita
dell'epoca. Non è un occhio che storicizza o surcodifica, è
un vedere libero dal presente, immerso e realmente partecipe
del passato. Il cuore lo senti nella luce delle fotografie, nel
segno che incide la carta, nella caparbietà della riproduzione
minuziosa dei reperti; lo senti nelle mani che afferrano gli
oggetti, quando li porta alla luce e li pulisce. Mentre con le
dita toglie non detriti di terra ma significati e incrostazioni
semantiche e culturali.
Mappa turistica dell'area archeologica di Pantalica elaborata sulle cartine topografiche
dell'IGM, in previsione dell'apertura del punto informazione
*******
Se
il
fenomeno
poetico
consiste
pertanto
nella
concentrazione (l'apertura in cui si annuncia l'essere)
dell'essere nel tempo, il produttore di segni/manufatti agendo
con la sua tecnica nel ricettacolo fenomenico (segno) non
solo imita l'inimitabile processo della creazione, ma opera
nella natura del sacro. E non c'è differenza alcuna tra un
nome e l'altro perché nello spazio dell'essere che annulla le
differenze e sopprime la molteplicità, il fare poetico è il
prodotto di un'unica grande opera. I poeti hanno composto
una sola parola, i musici il medesimo suono, gli scrittori lo
stesso libro (I pensatori essenziali dicono sempre la stessa
cosa... questo non vuol dire che dicano cose eguali... essi
dicono questo solo a chi è disposto a seguirli nel pensare...
Rifugiarsi nell'eguale non è pericoloso. Heidegger). Dando
voce nella sintesi storica al libro/museo infinito e universale
Plastico della Sicilia antica con i nomi di tutte le località maggiori
che più dall'individualità dell'ente, viene alla luce dal nulla
dell'essere fondando i mondi storici (mitologici e simbolici)
entro cui gli enti si rapportano. E gli uomini che nulla sono
paragonati all'eternità, incapaci di conservare il proprio
essere
nel
tempo
e
di
continuarsi
oltre
i
limiti
dell'individualità spaziale, nelle mani di una natura che non
manca di fare sentire il suo peso, appaiono davvero come
l'ombra grottesca di una predicazione poetica che li
trascende infinitamente.
Le origini del mito
ontopoiesi della verità o teatro ideologico?
A questo punto della nostra discussione sull'antropontologia
è bene dilungarsi su una questione di primaria importanza
nel lavoro di un archeologo, il mito e le mitologie delle
civiltà. L'argomento è essenziale in quanto il mito è
l'orizzonte di senso in cui il materiale raccolto non solo
viene catalogato e inserito in un contesto culturale, ma senza
il quale i reperti è impossibile che vengano alla luce. Il mito
va oltre lo scavo perché è già nello scavo stesso, nelle mani e
nella testa dello storico, nella cultura e negli occhi del
cercatore a muoverne il piccone. E in ogni colpo lo senti
echeggiare, come un urlo e un grido quasi di liberazione.
Macerie presso l'ingrottato basso del nucleo Grotte Cannata
Si è detto che la poetica fonde e custodisce un mondo, e la
costruzione di un mondo (una forma) è un atto politico e
mitologico
(una
metafisica
colonizzatore/colonizzato
dei
dei
modi
costumi).
Il
dell'essere
mito
è
la
correlazione totale che unisce i termini della relazione
dell'essere-nel-mondo (significante-segno-significato; come
un trionfo bacchico... in cui non c'è membro che non sia
ebbro. Hegel), una percezione globale fondante le istituzioni
di un popolo, un sistema particolare che edifica sulla base
di una catena semiotica preesistente (R. Barthes). Fornisce
cioè un'immagine naturale del reale, costituendosi attraverso
la dissoluzione dei caratteri storici delle cose, dove le cose
perdono il ricordo della loro fabbricazione a significare
l'insignificanza umana, l'assenza. La mitologia partecipa
attivamente al fare del mondo, è un accordo col mondo non
quale esso è ma quale vuol diventare. E' portatrice di verità:
capace nel suo metalinguaggio di ripensare l'alienzazione dai
contenuti
fondamentali
a
cui
la
cultura
globale
surrettiziamente espone, e la sua rivelazione è un atto etico e
di libertà. Il mito è lo spazio del sacro, ombra delle
espressioni culturali e quadratura del pensiero significante.
Non però un agire sui simulacri di una forma di vita, alla
maniera di Schopenhauer -in quanto principio di causa che
ordina le rappresentazioni condizionate dalle forme apriori
della coscienza (tempo, spazio, causalità) secondo la
necessità fisica, logica, matematica e morale- ma lo sfondo
tramandato nel quale si può distinguere il vero dal falso e il
giudizio costruire una visione ordinata delle cose.
E' con Vico che nasce la scienza moderna del mito, inteso
non come rivelazione di verità ancestrali, ma espressione
della genuina visione del mondo dei primitivi. Il diffondersi
dello studio scientifico e su base antropologica comincia
però coi viaggiatori e studiosi del XVIII (Ch. De Brosses, A.
F. Lafitau) e J.J. Rousseau, per arrivare a Creuzer
(Simbolismo e mitologia dei popoli antichi, 1810-12) il quale
Aratura primordiale; inchiostro su cartoncino
vedeva nel mito l'immagine raffigurata dei simboli originari
che racchiudono le immutate verità delle cose. Per J.J.
Bachofen incarnava la lingua primordiale, mentre U. Von
Wilamowitz-Moellendorf e M.P. Nilsson (autori criticati
dalle allucinazioni mistiche filologiche di R. Guénon)
cercavano nei miti i segni storici del materiale mitologico.
Cassirer (Filosofia delle forme simboliche, 1923-29;
Simbolo, mito e cultura, postumo 1979) arrivò a concepire
l'autonomia semantica del simbolismo, portatore di una
verità mitopoietica (il linguaggio dimenticato), rinvenibile
nelle somiglianze e analogie che si trovano nei racconti sacri
di popolazioni diverse in tempo e spazio (A. Bastian, Th.
Achelis, F. Boas). Secondo Malinowski il mito come
sviluppo drammatico del dogma (in Sesso, cultura e mito,
1962) era una fantasia narrata per indurre condotte e
comportamenti morali e religiosi, mentre per R. Otto e la
Scuola Fenomenologica una categoria del sacro nella sua
rivelazione storica. Van der Leeuw lo assimilò alla parola
stessa, come la forma che crea la realtà in un proprio tempo
che è un non tempo (Fenomenologia della religione, 1933),
ravvisando in esso dei riti messi in atto, un modello
archetipico del profondo o mandala vissuti sul piano
razionale (Eliade). Frobenius propendeva per concezione
autonoma, forma compiuta analoga a quella musicale
(Introduzione all'essenza della mitologia, 1940-41) nella
quale i mitologemi espongono il materiale originario che la
fantasia mitopoietica elabora con regole affatto evolutive,
perché svolge una funzione simbolica che consiste nel
fondare collocando l'uomo nel suo contesto, dandogli un
senso e assumendone a sua volta uno.
Studio della pavimentazione lastricata a mosaico antistante la chiesa Madre, vista dall'alto;
china su carta
Più moderna e interessante per comprendere il lavoro di
Gioacchino Bruno è l'Antropologia Culturale di LéviStrauss, che dava al pensiero mitico il compito di procedere
alla presa di coscienza dei paradossi della lingua, fornendo
una sintesi e un modello logico per risolvere le
contraddizioni semantiche; cercava destrutturandole nelle
unità costitutive del mito gli elementi essenziali di un
linguaggio (Il crudo e il cotto, 1964). I mitemi,
China su carta; suino
propriamente, gli elementi di un discorso nella loro
apparizione storica, dal sottosuolo originario archetipico che
danno loro una regolarità logica capace di evitare la
dispersione dei segni nella formazione sistematica degli
oggetti che vanno a costituire. Archiviando informazioni e
contenuti (Ma l'archivio è anche ciò che fa si che tutte
queste cose non si ammucchino all'infinito in una
moltitudine amorfa... e non scompaiano per casuali
accidentalita' eterne; ma che si raggruppino in figure
distinte, si compongano le une con le altre secondo
molteplici rapporti... -che- come stelle vicine ci vengano in
realtà da molto lontano. M. Foucault) sono nella sostanza
una riscrittura nella forma più comprensibile di cose
Stemmi per la lapide UNESCO in occasione della nomina a Patrimonio dell'Umanità di
Siracusa e Pantalica. La scultura si trova nella facciata del Municipio Vecchio di Sortino.
Eseguita in pietra di Comiso, 2x1,70m circa
inenunciabili. Guénon, su questo punto, era già stato molto
chiaro: Mutea era la dea del silenzio, sposa di Ermes
(l'apritore di porte/significati da cui la parola ermeneutica:
theorein -τεωρός vuol dire custo-dire- divide la radice
-εορέιν- con ermeneus -έρμηνεύς interprete, da Ερμής
messaggero-. Parola che assorbe la dicotomia: ειρη vuol dire
assemblea e allude al parlare in pubblico; 'ερημια significa
solitario, deserto da cui έρημίας solitudine che rinvia al
rientro circolare in sé, mentre ειών rimanda al parlare
dissimulato, chiaroscurato, alla finzione dell'ironia) e padre
di Sileno; allundendo ad un'assonanza tra mito e muto
portatrice di un ontologico divieto della parola all'accesso
della verità (mito significa silenzio, muthos viene da mu,
muto e indica la bocca chiusa; il verbo muein rinvia alla
chiusura della bocca, al tacersi. Se da muô è poi derivato il
verbo muêo -che significa iniziare ai misteri, istruire senza
parole-, allora mustêrion -mistero- è ciò che si deve cogliere
in silenzio, non nel linguaggio ma nel suo rovescio).
Vengono davvero in mente le parole di Heidegger: La
chiamata non racconta storie e chiama tacitamente. Essa
chiama nel modo spaesato del tacere; e ciò perché la voce
della chiamata non giunge al richiamo assieme alle
chiacchere pubbliche del sì, ma lo trae fuori da esse
richiamandolo al silenzio del poter-essere esistente. La
radice della parola mito rimanda insomma alla sospensione
Pulizia concerie con l'aiuto di volontari, inizio anni '90
della parola e richiama all'idea dell'annullamento del
linguaggio codificato; sembra invitare il raccoglitore di
segni/parole a scavare oltre la sedimentazione culturale
operata sugli enti/manufatti del mondo, di strato in strato
nella materia fino all'originario e silenzioso dire (die sage)
inaccessibile al linguaggio quotidiano. Ora più che mai,
nell'epoca globale della colonizzazione semantica, operata
attraverso l'imposizione di significanti dispotici che ha
portato alla spiritualizzazione dei fatti umani in un campo
sovraumano surcodificante formando sistemi metafisici
alienanti -teatri ideologici (Deleuze)-, è forse necessario
dissolvere non solo l'Io e la catena dei significanti che lo ha
costruito (dall'essere del ci a ci dell'essere) ma le
parole/segni assordanti della comunicazione di massa nel
paradosso del silenzio poetico. In uno spazio di pre/senso
che rovescia la storia dell'uomo (L'uomo storico viene
preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non
soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui
abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come
fondamento di una nuova posizione storica, ma si
esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere.
Heidegger), per dare una nuova possibilità all'essere e in
definitiva alla verità. Il mito è esattamente ciò che regola
questi processi di semantizzazione del mondo, come la
grammatica che delimita i confini del linguaggio. Fissa
l'orizzonte
possibile
degli
enti
denominandoli
(Il
denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il
cartellino con il nome. Wittngenstein), attraverso l'uso di
regole/giochi linguistici e abitudini arbitrarie (Seguire una
regola è analogo ad ubbidire a un comando. Wittngenstein)
ma consolidate nella forma di vita di appartenenza. Ed è
proprio
contro
le
grammatiche
del
quotidiano
che
Wittngenstein invitava a scavare, nella vita vissuta e
maneggiata che sola insegna a giudicare, ad imporsi come
fondamento dei giudizi. E il giudizio può darsi solo
collocandosi in queste credenze, che sono lo sfondo nel
quale si collocano il vero e il falso; nel mito tali credenze
calcificano e diventano senso comune, di/segni assoluti,
l'aperto in cui è possibile una wetltanschauung, una visione
del mondo.
Scultura preistorica risalente al periodio che precede l'insediamento dei siculi
*******
Il valore
del mito è naturalmente presente
anche
nell'attualizzazione dell'antico operata da Gioacchino Bruno,
servendosi delle mitologie del suo tempo per indurre il
proseguimento degli scavi e ottenere quel minimo di
collaborazioni senza le quali il passato rimane tale e il
presente inesorabilmente povero. Organizzò allora proprio in
una delle grotte che erano oggetto di scavo, in occasione
della ricorrenza natalizia, un presepe vivente (mito moderno
contestualizzante), che gli consentì di perseverare nella
ripulitura della grotta (Ero stato pochi giorni prima a
fotografarne il degrado, non potevo guardare quello schifo,
dovevo fare qualcosa... Con Andrea Murè iniziai a tagliare
Pulizia Grotta Fezza, ingresso di Sortino Antica sotto il piano del Castello
le piante dei fichi d'india; il proprietario del terreno ci
prestò una gossa ascia per frantumare la vecchia auto
bruciata che vi era stata abbandonata. Cominciai a pulire
vicino a un tramezzo, mi misi a togliere pietre, trovai
qualche reperto con l'ausilio di una piccozza; nel giro di un
mese comparve il pavimento... il proprietario mi disse che
era meglio coprire il buco con le pietre che avevo raccolto.
Aiutato da Salvatore Marchese e Sergio Terranovo continuai
a togliere terra nella parte alta, e anche là venne alla luce
un pavimento in calce. Oggi la grotta ha il nome "Fezza", è
pulita e visitabile) e di concentrare l'interesse della
Grotta Fezza, allestimento tipico in occasione del presepe vivente
cittadinanza partecipandola nella storia di Sortino. Con tutta
probabilità, senza l'artficio (che poi artificio non è) del mito
della natalità il lavoro non sarebbe continuato. Così racconta
Gioacchino gli eventi: L'idea nacque per portare le persone
a vedere la grotta che avevo ripulito. In quel tempo ero
segretario della Pro-loco sortinese... nel giro di poche
settimane realizzai scritti e disegni. Andai a pulire e il 5
Gennaio portai dentro il materiale d'arredo nella grotta più
alta, la mattina del 6 mi accorsi che avevano rubato tutto.
Non mi arresi e il presepe si fece ugualmente. La
manifestazione fu un successo ma la grotta risultò piccola
per contenere l'affluenza, così l'anno dopo per l'allestimento
scelsi la "Fezza". Durante i lavori di preparazione della
grotta andavo a perlustrare le zone vicine, portavo con me i
ragazzi
e
indicavo
loro
le
testimonianze
storico-
archeologiche. Lavoravo alacremente. Un giorno mi misi a
scavare accanto al muro della grotta superiore e
comparvero reperti; li esposi in loco il giorno del presepe
attaccando sulle pareti disegni e fotografie inerenti lo scavo.
Il presepe era una scusa, avevo infatti raggiunto il mio
scopo che era di mostrare l'opera di rivalutazione dell'area.
Se avessi organizzato una mostra senza la Madonna e San
Giuseppe non sarebbe venuto nessuno... La manifestazione
si tenne, non sempre organizzata da me, fino al 2003. Fu
l'ultimo anno, i soldi erano finiti. Ecco un esempio di come
il mito raccoglie inter/esse anche nelle persone culturalmente
meno preparate, predisponendo un teatro di significati in cui
l'eterogeneità dei singoli confluisce e in qualche modo
concorda parole/segni/cose in uno spazio estetico condiviso
di valori/simboli che dà un senso raccogliendo in una
medesima forma di vita. E' una specie di magia in cui
davvero si viene avvolti in un'atmosfera sacra che
com/muove e libera il sentimento. E il sacro non è nella
pantomima ideologica della rappresentazione, ma nel
condividere in maniera viscerale un linguaggio simbolico
che trascende il tempo e la stessa individualità.
Grotta Fezza, ingresso, pulizia e studio durante i lavori di allestimento
*******
I miti sono qualcosa di simile all'imperativo di Kant e al
formalismo etico dietro il quale non rimane che l'abisso
(Come criterio di giudizio impieghiamo altri giudizi.
Wittgenstein), lo spazio in cui si apre lo scenario del mondo,
il senso e la possibilità di una comprensione. Una tonalità,
un museo dello spirito nel quale si dispiegano le questioni
essenziali. Il senso di vero/falso può darsi solo all'interno di
questo gioco di lingua/segni, piuttosto che in un codice
astrattamente normativo, in un contesto di regole stabilite
che sono una panoramica perspicua della realtà, nel quale si
annulla il confine tra la grammatica e l'esperienza, Io e
mondo ed è impossibile accedere al significante primo (E'
così difficile trovare l'inizio, l'arché, e non tentare di andare
più indietro. Wittgenstein).
*******
Nello specifico del mito che riguarda il territorio sortinese,
viene alla luce nel suo significato di raccogliere le credenze
calcificate in un contesto che le sintetizza in un senso
comune, dando una dignità etnica e dunque una storia
aggregante alla popolazione. Un immaginario fondante -un
Totem- nel quale il senso di appartenza ad una comunità
Figura fittile, San Sebastiano, trovata nella bonifica di Cugno del Muro
confluisce in un gioco linguistico fantastico piuttosto che in
un codice astrattamente normativo. Si è visto infatti, che
proprio sulla base del mito, all'alba del disastro del 1693, gli
abitanti di Sortino sopravvissuti al sisma non ricostruirono la
cittadina nel vecchio sito ma sul monte Aita (più in alto) e
non solo per le maggiori garanzie di reggere a un nuovo
terremoto che la terra di quel posto assicurava. Sembra
piuttosto che le credenze sulla maledizione di Xuto -che la
leggenda vuole come fondatore di Xutinum- figlio di Eolo
siano state determinanti. Racconta la storia che Xuto alla
guida di una popolazione sicula, arrivò ad Erbesso ai
marigini del torrente Ciccio (oggi Guccione) stabilendosi
stanzialmente in quel posto. La tradizione vuole che Xuto
nel visitare il tempio di Proserpina vi trovò un tesoro e
pensando che la dea, moglie di Plutone, non ne avesse
bisogno, depredò il luogo di culto. A causa del sacrilegio,
Xuto non fu punito subito ma scese sulla città la maledizione
della dea, la quale predisse un'enorme catastrofe su Xutinum
tale da inghiottirla nella terra. L'immaginario popolare ci ha
poi messo il suo nei secoli, tanto che le cronache raccontano
(Samuele Cultrera ad esempio) di un certo padre
Michelangelo che si era presentato prima del cataclisma al
convento dei Cappuccini, avvertendo dell'imminenza del
terremoto; fu imprigionato nelle mura e a nulla valsero gli
strali di avvertimento che lanciava dalle grate. Padre Andrea
Gurciullo (nelle Notizie della chiesa di Sortino)
invece
di
suor
Cesaria
Celona
del
scrive
monastero
di
Montevergine, la quale predisse che la tragedia si sarebbe
verificata un anno esatto dopo la sua morte; la suora morì il
9 Gennaio 1693 e la coincidenza rimane indelebile nelle
pagine del Gurciullo. Un evento che viene forzatamente fatto
coincidere a posteriori con lo scorrere delle cose, e che
dunque si radica nella simbologia mitologica dell'epoca,
significando e inserendo anche lo straordinario in un codice
di comprensione da parte della comunità.
*******
E' per questo che Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche
ripete che la metafisica non è vera ma ha comunque un senso
e il suo senso consiste nell'uso dei termini che le sono
propri; come pure che com/prendere significa padroneggiare
una
tecnica,
seguire
una
regola.
Il
processo
epistemologico/cognitivo è il frutto di comportamento e
addestramento, un'abitudine che dipende dalla natura
dell'uomo che applica quelle regole, e tali regole devono
comunque essere conforme alla sua natura. Tenendo a mente
che una comunità abbia concordato nell'assumere una regola
non è un compromesso a tavolino, ma una prassi che si
colloca in quella specifica forma di vita che è l'essere
nell'umano, nelle diverse geografie e culture in cui si
dispiega. Col linguaggio, anche e soprattutto con quello
proprio dell'antropologia, non solo conosciamo il mito ma lo
costruiamo attivamentre con giochi linguistici che sono
relazioni pre/linguistiche soggette a loro volta a regole. Tali
regole sono per Wittgenstein somiglianze e famiglia (in un
museo schedature tematiche), estensioni di un concetto a una
classe di oggetti. Comp/prendere è allora padroneggiare una
tecnica, e si esplica come un'abilità manifesta ottenuta nel
darsi e nel seguire una regola, ponendola a principio
normativo del tutto, come paradigma di correttezza per le
ulteriori applicazioni della regola stessa. Seguire una regola
non significa interpretare, perché ogni interpretazione
rimanda ad un'altra all'infinito, ma si pone come problema di
Fase di lavorazione tecnica del plastico in gesso
natura ontologica (Interpretare significa solo sostituire un
segno
con
un
altro
segno.
Wittgenstein).
Questa
applicazione è frutto di un'abitudine, di un addestramento (e
l'influenza dell'abitudine non basta da sola a spiegare
l'applicazione di una regola, perché essa ci deve sembrare
naturale, inserita nella forma di vita di appartenenza, nel
fondo mitologico aggregante di una comunità). Se
l'applicazione
paradigmatica
è
soggetta
a
regole
grammaticali, allora è possibile intendere e prevedere il
senso di una parola prima che venga enunciata (ovvero se si
trova in un orizzonte mitologico di senso) semplicemente
seguendo le regole grammaticali (e dunque ontologiche) a
cui tale termine è soggetto (metodo essenzialmente
antropontologico).
L'accordo
nell'applicazione
paradigmatica di regole deve essere concepito come una
coincidenza
nelle
relazioni
simboliche
prodotte
spontaneamente da un popolo, che concepisce al di là dei
tempi e dei luoghi somiglianze (vedere qualcosa come
qualcos'altro è percepire somiglianze interne all'oggetto con
altri oggetti). Dove ogni cosa può assumere un senso.
Sempre per Wittgenstein il senso consiste (nelle Ricerche
Filosofiche) nell'uso di quel termine e la verità è un luogo
linguistico di segni in cui gli uomini concordano, sulla base
della forma di vita che condividono, ciò che è vero e ciò che
è falso. Seguire una regola è pertanto un vero e proprio salto
nel buio (posizione osteggiata da Russel, Frege e il
platonismo
matematico),
un'originaria
interpretazione
indimostrabile (come gli anapodittici di Aristotele e
l'imperativo in Kant) dotata però di senso; laddove il senso è
qualcosa che è dato dall'esterno, un porre la regola come
paradigma di correttezza e universalità. Seguire una regola
in termini antropologici è un agire che caratterizza il modo
dell'essere nell'umano; una regola si segue ciecamente, è un
addestramento avvenuto nel linguaggio ad opera di
un'abitudine che deve sembrare naturale (si deve radicare nei
comportamenti simbolici di una comunità). Una regola deve
essere seguita più volte in più circostanze e da un insieme di
persone per essere considerata valida, e così dare forma ai
costumi etico/estetici di un popolo. La concor/danza
nell'applicazione paradigmatica di regole è concepita come
un convenire degli individui nelle relazioni simboliche;
questo convenire è una concordanza da cui solo può
generarsi ciò che è vero o falso; è il riconoscersi in un Totem
comune, è un'induzione normativa (argomento rilevante
nell'epistemologia popperiana) che fa sì che una regola o una
parola/segno assuma un valore paradigmatico, quando cioè
viene accettata pubblicamente e condivisa da una pluralità di
regole così divenendo paradigmatica. E' una decisione (puro
formalismo simile a quello kantiano), un'abitudine, un
addestramento a reagire in un certo modo a certi segni;
l'addestramento non può calare dall'alto, ma si deve
innestare naturalmente nel nostro sistema di vita: ci deve
sembrare naturale (deve inserirsi nella nostra mitologia, nel
nostro
essere
simbolico
prelinguistico),
deve
essere
concepita come una coincidenza nelle relazioni simboliche
spontaneamentre prodotte dai membri di un gruppo sociale.
E' il luogo in cui gli uomini concordano ciò che è vero o
falso sulla base di quella specifica forma che condividono.
L'antropontologo scava e estrae dalle pietre del tempo i
reperti. Mette i cocci del passato in una situazione storica e li
raccoglie otticamente/semanticamente in uno spazio di senso
costituito dalle relazioni simboliche che si muovono in una
comunità. A tale contenitore normativo e significante
(archivio mitologico: nel senso di un ambiente in cui si
concorda il vero e il falso di una narrazione) diamo il nome
di museo. Il museo, nel raccogliere ontologie, è un lasciar
Selezione di collari ovini per l'esposizione permanente del museo
essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la verità
l'esserci (in quanto già sempre gettato nell'apertura storica)
che entra in questo modo in rapporto con gli altri enti
(Heidegger, dell'Essenza della verità, V cap.); ciò che
originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la
totalità dell'ente degli enti. E' uno spazio che non ha ma che
dà senso (agli enti allamano-sottomano/oggetti uso-per),
come
in
un
raccogliere
cielo/terra/mortali/divini
teleologico
che
pragmatico
procede
alla
distruzione/costruzione semantica di una cultura e di una
civiltà, in cui si aprono i significati secondo un'opportunità
(bewandtnis), che è la generale corrispondenza tra le cose in
un fine che tutte le raccoglie, secondo una cospirazione
pragmatica. Nel mito propriamente in cui ogni oggetto può
essere codificato e significato, abitando il quale l'uomo eksiste proteggendo la verità. Salvo Sequenzia, a proposito di
Gioacchino Bruno, così scrive in una pagina illuminata:
L'occhio indagatore di G. B., spirito inquieto di ricercatore
archeologo e di artista tentato dalla fascinazione di
linguaggi diversi e di plurime cifrature espressive, percorre
ignoti orizzonti temporali, indugia su residui di epoche e di
miti, si nabissa per lente spirali nel segreto del creato, sino
a riportare alla luce, fissandoli con abile capacità
illustrativa ed evocativa, idoli di civiltà scomparse che si
rivelano in reperti di immemorabile tempo, in sinistre,
enigmatiche figurazioni che schiudono una percepibilità
mitica e fantastica del mondo. Sono queste le parole da cui
partire per comprendere le pulsioni culturali (e l'iter
burocratico) che avrebbero condotto il 7 Maggio del 2001
all'istituzione del museo etnoantropologico di Floridia,
dedicato al padre di Gioacchino, Nunzio Bruno artista,
fotografo, conoscitore raffinato della storia del territorio e
ricercatore di spessore (nonché raccoglitore instancabile ed
esteta che ha trasformato la villa di Floridia in una vera e
propria casa/museo archeologica che ancora -grazie anche
alla madre di Gioacchino, signora 'Nzina- protegge
dall'incuria valorizzandole le migliaia di reperti della
collezione di famiglia) scomparso nel 2009. Il museo di
Floridia è situato nell'ex caserma/carcere dei carabinieri
adiacente la chiesa Madre riadattata secondo -e nel rispetto
della pianta originale- i disegni di Giocacchino Bruno, che
prevedevano l'unificazione dei vani al fine di realizzare un
ampio locale in cui ospitare la carretteria (il locale più
Selezione di punte di trapano
importante); tali vani saranno poi messi in comunicazione
con l'ex carcere per mezzo di un'apertura. Niente è lasciato
al caso; Bruno nella ricognizione dell'ambiente e con
l'occhio teso a sviluppare il percorso visivo così ha disposto
gli spazi sulla base di un'idea evolutiva del lavoro: 1) sala
accoglienza; 2) ambiente scienze rurali e ambiente della
civiltà contadina (oggetti che riguardano il lavoro in
campagna: aratro a chiodo ibleo, falci, zappe, forche, pale...;
materiale che riguarda l'agricoltura e la caseifazione: caldaia,
fiscelle, collari incampanati...; uno spazio è poi dedicato
all'apicultura: arnia, marchiatori, smielatori...); 3) galleria
degli studiosi; 4) ambiente delle materie prime (maestro
d'ascia, fabbro, cavapietre... mestieri che hanno portato alla
realizzazione di manufatti indispensabili al sostentamento);
5) cortile; 6) ambiente domestico (destinato ad accogliere il
Prima esposizione riguardante il ciclo del grano, 2005
telaio e il silos cannizzu); 7) stanza del carretto siciliano
(impreziosita da un tornio per la lavorazione del legno del
XIX sec., appartenuto al mastru fa carretta don Salvatore
Rizza); 8) angolo delle collezioni. Guardando i progetti e gli
schizzi di Gioacchino colpisce non tanto il rigore sitematico
dell'impianto,
quanto
la
disposizione
concettuale
e
l'itinerario culturale degli oggetti esposti. Leggo tra i suoi
appunti: Un museo è innegabilmente sede della vicenda
storica degli oggetti che esibisce, ma anche della storia di
sé stesso, delle ragioni culturali e artistiche che lo fecero
nascere, dalle decisioni che vi riunirono le cose, del modo
col quale vennero raccolte, assommate, esposte e spiegate.
Nel termine stesso di raccogliere è implicita la volontà di
scegliere qualcosa da un tutto e classificarlo ordinatamente
accanto ad altre cose selezionate con analogo criterio, sia
esso estetico, scientifico, etnografico o quant'altro. Proprio
questo è il punto: il museo è anche la storia di sé stesso. E'
Pannello con punteruoli, scalpelli e contenitori vari, 2005
uno spazio in cui si apre lo scenario di un mondo, il senso,
la possibilità di una comprensione e dunque dove si
dispiegano
le
questioni
fondamentali.
Nell'apertura
mitologica in cui è possibile il giudizio e dove le credenze
diventano
senso
comune,
una
visione
del
mondo;
raccogliendo secondo un'ottica prospettica il materiale
repertato ed organizzato semanticamente seguendo quelli
che sono giochi di lingua, denominando gli oggetti ed
inserendoli nello specifico di una forma di vita (Il
denominare/raffigurare è simile ad attaccare ad una cosa il
cartellino con il nome; Wittegentein). Ed è proprio in questo
raccogliere
denominante
che
si
rivela
l'attività
dell'antropontologo, con un agire nient'affatto arbitrario
Tornio XIX sec., esposizione 2005
perché si fonda nella natura stessa degli uomini che
concordano in un medesimo gioco di regole il vero e il falso
sulla base della cultura di appartenenza. Il museo è allora
propriamente uno spazio artificiale e mitologico, la
spiritualizzazione
in
un
campo
sovraumano
dei
surcodificanti primari che fondano simbolicamente i sistemi
metafisici (i concetti, i valori, i costumi), un raccogliere
teleologico di significanti e quasi un addestrare l'occhio: A
tal riguardo emerge con tutto il peso della sua
responsabilità, il ruolo fondamentale di colui che deve
organizzare gli oggetti in un sistema espositivo significante
di tutto ciò. Selezionare e ordinare un'esposizione per
decodificare i significati e per recuperare nella loro
definizione storica i tratti salienti di un percorso, cioè
l'itinerario di visita che induce a incontrare gli oggetti
nell'ordine
stabilito
dal
curatore
(G.
Bruno).
L'antropontologo istituisce allora nel suo percorso museale
Ricostruzione camera da letto del massaro, 2005
le regole paradigmatiche, quali risultato di un accordo nelle
relazioni simboliche di una comunità e come concor/danza
nella verità storica. Concepito come una grammatica
dell'essere che è nelle cose/reperti, il museo fissa l'orizzonte
possibile di un termine/segno (la verità, lo spazio
ontologico)
delineando
i
limiti
di
sensatezza
della
denominazione degli oggetti nel relazionarli (passaggio dalle
parole alle cose) alla realtà. Quando Gioacchino appunta che
emerge con tutto il peso della sua responsabilità il ruolo
fondamentale di colui che deve organizzare gli oggetti in un
sistema operativo, allude proprio al ruolo ontologico della
grammatica del vedere, nel fatto che essa non si fonda più
nella struttura della realtà (ma è semmai tale grammatica a
fissarne la struttura), non però come qualcosa di arbitrario
perché si attiene alla natura di chi se ne serve, ai
comportamenti di chi nello specifico di un linguaggio (nel
nostro caso etnoantropologico) si conforma alle regole
grammaticali. E difatti sottolinea sempre Gioacchino che la
prima difficoltà da risolvere consiste nell'individuazione del
percorso, in base al racconto che evince dalla collezione.
Gli obiettivi che bisogna focalizzare sono le linearità del
racconto e le singolarità di alcuni oggetti. Da una
collezione generica e eterogenea bisogna far emergere un
tema o un racconto che crei armonia e faciliti la
comprensione degli oggetti, dove il fattore umano costituisce
il motivo della loro preziosità. Alludendo al fatto che posti
gli oggetti un uno spazio comune, saranno poi quegli stessi
reperti (sulla base di un significante condiviso) a
riorganizzarsi secondo regole autonome, che vanno al di là
di una semantica brutalmente sedimentata in significati che
regolano in maniera essenziale il rapporto nome/cosa (e
dunque surrettiziamente il passaggio dalla parola alla cosa),
come una relazione deterministica e induttiva, che è poi
l'ottica e la cultura con cui ordiniamo le cose, una credenza.
E allora definito il filo narratore, che unifica la quantità
degli oggetti, fra essi emergeranno alcuni (di solito i più
ricchi di qualità estetiche e storiche), che svolgeranno un
ruolo cardine nell'articolazione del percorso (G. Bruno).
Carretteria, esposizione 2005
Come infatti l'occhio che percepisce ha regole proprie che
prescindono dal fatto cognitivo (è esperienza di tutti che,
nonostante la coscienza dell'integrità del legno, posto un
bastone in acqua questo è comunque percepito dall'occhio
come spezzato), così i reperti (l'essere nell'ente/reperto) pur
contestualizzati in un'ottica culturale (inventario) atta a
costruire un codice di lettura (e in esso un'assiomatica
sociale, una metafisica dei costumi che imprigiona l'essere
nell'umano in identificazioni immaginarie asservite in ultima
analisi
alla
produzione
capitalistica)
apre
a
flussi
decodificanti distruttivi che superano gli sbarramenti dei
codici linguistici (Deleuze). Certamente il museo è un teatro
ideologico/mitologico,
ma
gli
oggetti
predispongono
aperture che rompono il monolite significante/significato e
offrono nuove possibilità di lettura all'interpretazione. Oltre
la dispotica mitologia surcodificante, liberando come in uno
scavo ontologico il segno per mostrarlo in ogni angolo,
quelli finora inaccessibili alla lettura metafisica delle cose a
cui l'irrigidimento semantico ci ha abituati. E allora il
problema rilevante messo in luce da Gioacchino Bruno,
come si devono esporre gli oggetti?, ripercorre in qualche
modo i sentieri della domanda fondamentale perché l'ente e
non piuttosto il nulla? Libera l'essere dalle catene e conduce
su sentieri inesplorati al seguito delle tracce della storia.
Angolo dedicato al mestiere del calzolaio
*******
Compito dell'antropontologia è la distruzione di tali miti e
credenze, di smascherare le confusioni concettuali operate
col linguaggio nel suo reperimento fazioso di termini che
intendono spiegare la causalità dei fenomeni, il passaggio
dalle parole alla realtà (Hume). E allora Wittgenstein parla
legittimamente di ruolo ontologico della grammatica, quello
che fissa l'orizzonte possibile di un termine (la verità, lo
spazio
ontologico),
i
confini
della
sensatezza
dei
segni/parole. Se dunque la grammatica non si fonda più nella
struttura della realtà, non è comunque qualcosa di arbitrario:
la grammatica (la lingua museale delle cose) si attiene alla
natura di chi se ne serve, ai comportamenti di chi nel
linguaggio segue le regole grammaticali. Non si possono
insegnare i giochi linguistici se il referente non condivide la
nostra mitologia, che è l'abisso pre/linguistico e simbolico di
un gruppo sociale (un Totem), come pure non c'è una
relazione magico/causale tra segno e l'oggetto significato (e
tra la parola e la cosa denotata). Questo si verifica solo nello
spazio (archivio) pre/culturale del mito (inventario), dove
significante e significato si uniscono a fondare le istituzioni
(schedatura), il sacro di una civiltà (L'uomo storico viene
preparato alla prossimità della verità dell'essere. Non
soltanto ogni antropologia e soggettività si trova qui
abbandonata... e viene ricercata la veità dell'essere come
fondamento di una nuova posizione storica, ma si
esperimenta e prova in quella svolta del rapporto all'essere.
Heidegger).
Il circolo ermeneutico
antropontologia come ermeneutica dell'essere nell'uomo
Il mondo è un tessuto di enti (um-welt), un contesto di
rimandi
che
trova
nel
chi
dell'esserci
la
propria
giustificazione e il proprio senso (Heidegger). E' nell'uomo
che il mondo ha il principio di ragione e fondamento
(grund), inteso come causa finale dei rimandi, quello che
non trova più opportunità in qualcos'altro; l'a-che-fare
primario privo di fondamenti (ab-grund). E' vero che il
mondo si regge sull'esserci, ma l'esserci non si regge su niente (è sospeso nel nulla), nemmeno su se stesso. Il principio
di ragione è certamente sufficiente, ma la ragione non è mai
sufficiente a se stessa: dietro ogni morale e alle forme di vita
che la presuppongono (anche solo come giudizio sintetico a
priori) si muove il vuoto dell'assenza, un salto nel buio
legittimato però dalla forma di vita di appartenenza. La
mondanità (che è la contestualizzazione del mondo) rinvia
dunque, attraverso la struttura generale dell'opportunità,
all'esserci come causa finale, nel senso che i rimandi è là che
si orientano come principio (in-grazia-di -cui) e fine (invista-di-cui) rivelando l'uomo nella dinamica ambigua di
apertura/chiusura, luce/ombra, avanti/indietro, senso/non
senso. Se qua ci fermassimo da Protagora non ci saremmo
però mossi gran che. Secondo Heidegger tuttavia l'uomo non
è solo la misura di tutte le cose perché il rapporto col mondo
prima che ontologico è ermeneutico, ed ha una natura
semantica. Tradotto in termini generali questo significa che
tra interprete e cosa interpretata si apre uno spazio di
accordo mitologico che è un orizonte di senso. L'apertura ha
Plastico in costruzione
un'esistenza propria e là si giunge ad opera del linguaggio e
della visione per mezzo dei quali è possibile incontrare il
mondo; considerando che la visione (sicht) non è altro che
un allargamento ontologico della parola. Perciò linguaggio e
interpretazione, ascolto (Chi vuol comprendere deve essere
pronto a lasciarsi dire qualcosa. Heidegger). L'interprete
parla
all'ascolto
dell'essere
e
l'essere
si
appropria
dell'interprete in uno spazio di gioco che mortifica l'uomo
nel suo desiderio trascendente di verità. L'essere non è infatti
una conquista positiva, ma si presenta come avere da essere,
fallimento pro-gettuale; toglie il respiro e la parola. Perché
nell'ascolto del silenzio nulla v'è più da dire e niente si può
enunciare, come nella verità di quella voce che è detto/non
detto, il vero/non vero, il senso/non senso. Il mondo va
vissuto piuttosto che pensato o contemplato; nel mondo ci si
trova (befindlichkeit) storicamente a vivere, da sempre
Plastico su committenza, 50x70cm
gettati in un ci affettivo e tonale. L'uomo non è affatto dentro
un contenitore ma fuori, in una relazione esistenziale (erotica
come in-essere) nell'aperto tra gli enti (Questa familiarità
col mondo non pretende necessariamente una perspicuità
teoretica delle relazioni che costituiscono il mondo stesso.
Heidegger), nel trovarsi concreto che non è più l'apriori
kantiano ma un esistenziale, una struttura dell'esserci;
nell'essere gettati nella situazione di un pro- (pre, vor) getto
che
condiziona
anticipandole
comprensione
e
interpretazione. Anche la comprensione (e quindi la visione)
si rivela quindi fortemente tonalizzata, come un trovarsi a
comprendere in una pre-comprensione da sempre familiare,
un versthen che è in una stimmung, in un'atmosfera.
*******
Tra gli scritti di Gioacchino Bruno a proposito dell'idea della
realizzazione del plastico che raffigura la Sciuttinu vecchia,
trovo appuntato: L'idea nasce dal bisogno. Mi serviva
vedere a tre dimensioni la Costa Sortino (così si chiama
attualmente la contrada dove si trovano i resti del sito
archeologico); in questa costa a grandi gradoni prospicienti
il fiume Guccione si scorgono qua e là innumerevoli
testimonianze architettoniche intagliate nella roccia: grotte
grandi e piccole, grotte naturali e artificiali, anfratti
perfezionati, nicchie ed archi portanti, tramezzi e pavimenti,
tanti modelli di canalette per l'acqua, scale costruite e
intagliate, gradoni e gradini, testimonianze dell'antico
villaggio rupestre (diventato Borgo e poi Comune). Dopo
averla perlustrata diverse volte nella totalità, mi sono
dedicato a porzioni di essa, per studiarla fino in fondo.
Successiva alla ricognizione dei testi e documenti e quella
sul campo, viene insomma il momento della ricostruzione,
attraverso un'archeoermeneutica dei linguaggi del passato
che si sono assorbiti attraverso una consuetudine che ha reso
familiari quei codici estetici. Sopra si è sottolineato come
Gioacchino abbia talvolta vissuto nello scavo e nelle grotte,
quasi a calarsi anche con le emozioni nella vita dell'epoca.
Da questa che Heidegger chiama familiarità (essere-in) col
mondo è potuta svilupparsi agevolmente la ricostruzione del
sito, con una naturalezza che va al di là della comprensione
intellettuale delle cose. Una visione globale che è derivata a
Bruno nell'essere-già nel mondo antico, in quella relazione
di familiarità che è un trovarsi (befindlichkeit) in una
situazione. Condizione necessaria per ogni possibile
Primo plastico in argilla, 40x30cm
successiva comprensione delle cose, essendo il comprendere
sempre prederminato da una precomprensione, da una
relazione
precedente
familiare
con
l'oggetto
affatto
intellettuale. Se allora partiamo dalle parole di Heidegger:
Ciò in cui l'esserci in questo modo si è già sempre compreso,
o di volta in volta si comprende, è ciò con cui esso è
originariamente
familiare,
viene
facile
pensare
alla
naturalezza con la quale G. Bruno abbia potuto sviluppare il
plastico Come un puzzle -nella memoria- che si deve
comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie...
traformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione pianta,
cartina, plastico, sculture per vedere quello che non cìè più
nella sua totale integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa
che non c'era -questo fu lo stimolo, io volevo vederlo-.
Condizione
necessaria
all'antropontologo
nella
sua
archeoricostruzione è insomma il trovarsi in una situazione
immerso in una dimensione globale preintellettuale, come
una lingua o un vestito che si porta addosso dalla nascita, da
cui sola può nascere un'interpretazione. Simile ad un circolo
(ontologico
prima
che
ermeneutico)
che
avvita
la
conoscenza intellettuale in quella prefamiliare. Proprio
questo è il senso con cui accostarsi alla più corretta lettura di
questo illuminante passo di Gioacchino: L'archeologo vuole
scendere verso scale sempre più dettagliate per capire
l'aspetto locale, individuale e concreto del singolo contesto,
che spesso conferma ma più spesso ancora smentisce le
certezze delle grandi sintesi... esse appaiono agli occhi degli
esperti (dall'archeologo al topografo allo stratigrafico) in
modo assai più netto, vivace e drammatico che non nelle
fonti letterarie. Intuizione che delinea non solo una
precondizione intellettuale di una ricognizione archeostorica,
ma una precisa intenzionalità tonale/estetica pure nella
successiva ricostruzione globale. Lavorando al plastico
concepito come un puzzle da assemblare, sembra insomma
essere stata assolutamente determinante la condizione
ontologica
dell'essere-nel-mondo
da
parte
del
progettista/scultore. Riordinando in una relazione di senso
gli enti che vengono ambientati non in un contesto fisico o
spaziale,
ma
primariamente
familiare/affettivo,
in
un'atmosfera semantica che si organizza attorno all'uomo e
alla sua storia. Una vita scandita ogni giorno dal lavoro e
dalla fatica, fatta di case finalizzate al recupero delle energie
e di attrezzi che -tutti nessuno escluso, pure quelli ludici nel
significato di indurre uno svago rigenerante- avvolgevano
l'essere nell'umano negli esercizi di sostentamento del
quotidiano. L'in-grazia-di-cui di cui parla Heidegger, in
quanto senso di tutti gli enti che gravitano intorno all'uomo
con un'intenzionalità pratica (come enti/attrezzi/utensili
allamano/sottomano), entrano perciò in relazione non tanto
con l'uomo inteso come essenza biologica o metafisica, ma
nell'essere nell'umano che nello specifico del mondo rurale,
era il lavoro. Significante primo sostantivante l'essenza
stessa dell'uomo in ogni epoca (ed oggi nell'era globale di
una surcodificazione strumentale agli interessi capitalistici di
una ristretta elité che controlla i sistemi primari della lingua
attraverso
l'informazione
di
massa,
scomparso
tale
significante dal senso comune delle cose, si sono amplificati
malesseri sociali a detrimento dei diritti fondamentali).
Come in puzzle Gioacchino ha proceduto nella costruzione
del plastico, ed ogni tessera è portatrice di uno specifico
lavoro, di una singola attività: Così facendo blocco dopo
blocco fino alla fine. Mentre intagliavo i gradini facevo pure
le case, i muretti a secco delle strade; intagliavo e coloravo,
tracciavo e scavo. Man mano che realizzavo mi davo tante
spiegazioni di tutto quello che avevo letto in merito al paese
distrutto. Assemblando, riunendo, unificando in un senso
comune gli oggetti che è l'utilizzabilità delle cose. Una sedia
è in una stanza in modo molto particolare; non sta in
qualsiasi punto ma in un posto preciso, e dunque è stata
programmata per stare vicino al tavolo, secondo un
orientamento di senso. Le cose, tutte e nessuna esclusa, sono
sistemate seguendo un ordine e se qualcosa è fuori posto
nella stanza l'abitante/proprietario si accorge subito che
questo qualcosa è stato spostato, in quanto l'ha collocato in
quel posto perché là deve stare, è stato concepita per stare là
Primo plastico completato
e non altrove. Come le cose non sono dentro la stanza come
semplice-presenza, così nella ricostruzione a posteriori di
uno spazio non geometrico ma ontologico e esistenziale i
reperti vengono sistemati l'uno presso l'altro secondo una
profonda familiarità. L'in essere delle cose definisce
propriamente le forme e le strutture del ci, cioè le forme
della presenza dell'esserci, che sono indirizzate alla prassi
del quotidiano negli esercizi del lavoro. Il plastico si
configura allora non come un restringimento dell'originaria
conformazione storica, ma in quanto bisogno (l'idea nasce
dal bisogno) di allargare la prassi come a dilatare la
familiarità con le cose: Le carte sono importanti, ma non
tutti hanno la competenza per trasformare linee, punti,
stelle, cerchi e forme di una carta topografica in cose.
Facendo il plastico per me l'ho fatto per tutti (G. Bruno).
*******
Nel mondo, aperto come maglia di enti (enti che hanno
nell'esserci il referente), la totalità dei rimandi si organizza
in quell'opportunità (bewandtnis) che è il cospirare delle
cose, il loro organizzarsi per un fine comune. Il
comprendere, nascendo da questa opportunità (presente
come un'incognita) genera la significatività (bedeutsamkeit)
come condizione di possibilità dell'interpretare (e del
comprendere). Questa significatività è non altro che la
totalità
di
opportunità
come
viene
concepita
dalla
comprensione, l'in-vista-di-cui, ciò per cui si apre un mondo,
il luogo ontologico che dischiude i significati (Nella
comprensione dell'in grazia di cui è contenuta anche la
significatività che in essa si fonda... La significatività è ciò
in vista di cui viene schiudendosi il mondo in quanto tale. In
grazia di cui e significatività sono dischiusi nell'esserci.
Heidegger). Ogni senso possibile ricade sull'uomo perché il
suo senso è un non senso, il suo fondamento (grund) una
mancanza di fondamento (ab-grund), il suo essere il nulla
(Lo sfondo è accessibile solo come senso, anche se fosse
l'abisso stesso della mancanza di senso. Heidegger). In
quanto l'essere non è una sostanza trascendente ma la
presenza immanente di un'assenza surcodificante nelle cose.
Quando Heidegger annuncia l'esserci come pro-getto,
rivelandolo nella dinamica chiaroscurale dell'avanti/indietro,
del detto/non detto, visto/non visto (di un pro- che ricade su
di sé, di un comprendere che ritorna circolare al suo trovarsi:
L'esserci significa se stesso... il proprio essere e il proprio
poter essere. Heidegger) allude al circolo (ontologico prima
che ermeneutico) ineliminabile che configura l'uomo come
desiderio di realizzare e realizzarsi, attuare e attuarsi (progettualità). L'ente che nel richiamo avverte il peso
dell'essere, si delinea allora come una possibilità gettata e
deietta, l'esserci prigioniero del suo ci.
Centro del paese della Sortino Medievale, dal libro di Gioacchino Bruno
*******
Tra le carte di Gioacchino Bruno è venuto alla luce un passo
che chiarisce bene, nel suo ricostruire plasticamente un
mondo, come l'organizzazione dello spazio fisico abbia
disposto
una
causa
finale
attorno
a
cui
gli
enti
oggetti/attrezzi/utensili cospirano a significarsi; e l'uomo
-come una calamita che li attrae ordinandoli in un
significato- in quanto ciò in vista di cui si apre il senso delle
cose: Lo sviluppo degli oggetti esposti deve seguire, per
quanto
possibile,
l'evoluzione
dell'uomo...
gli
utensili/attrezzi/macchine che deteniamo alloscopo di
tutelarli e renderli fruibili, sono stati concepiti e prodotti
dall'uomo, dopo una serie di esperienze di vita vissuta a
contatto con la natura, conoscenze delle materie prime che
risalgono a milioni di anni. Il legno, la terracotta, il ferro
hanno
permesso
all'uomo
di
agevolare
l'approvvigionamento alimentare. La pietra, il vetro, il
rame, lo stagno... hanno contribuito a facilitare la "vita". La
vita appunto; dura come a volte sa essere, sempre faticosa,
scandita dai cicli sfiancanti dell'aratura o del raccolto, tra le
puzze delle stalle e con la schiena rotta. Facilitata
dall'ingegno dei maestri artigiani, dall'intagliatore di pietra al
maestro d'ascia, al fabbro, dal ceramista al carrettiere e
addolcita dai sapori che la terra sa dare. Il miele degli
apicoltori (diffussimo e di qualità nel territorio sortinese), i
dolci (sanfurricchi ottenuti dalla lavorazione del miele, e la
'nfigghiulata a base di fichi secchi o più raramente all'epoca
di salsicce), i formaggi (ovini, di mucca o d'asino), il pane, il
vino. Abbellita dai canti e dalla musica agropastorale (ad
esempio col friscalettu, flauto artigianale che accompagnava
i pastori nelle trasumanze), meravigliosa, profonda, vera. E
in tutto questo ci sentivi la vita, le mani che ogni giorno
aravano e impastavano sapori e odori, e gustavi ogni cosa, te
Particolare del plastico, parte centrale del paese
la tenevi stretta, perché la miseria, la fame erano in agguato
e la morte la respiravi ineffabile ogni gorno. L'essere-allamorte avvolgeva il paesaggio come una nube di placida
rassegnazione, e il tempo era un'attesa che liberava dalla
malattia e dal peso dell'esistenza. Nel plastico di Gioacchino,
ricercatissimo e minuzioso in ogni parte ci senti davvero
l'assoluto dei valori estetici e esistenziali del mondo antico,
la desolazione dell'uomo di fronte alla ineluttabilità della
fine, ma pure una calma inumana, non certo di
rassegnazione, quanto di tacita consapevolezza di essere
parte del ciclo vitale, come quando all'imbrunire si torna a
casa a riposare e capita di non svegliarsi. Nella scultura ci
vedi l'angoscia chiaroscurata di certi quadri di Hopper, ma
pure la calma serenità di un paesaggio desolato di Carrà in
cui è l'essere nell'umano che incombe a renderlo quasi
inumano nei silenzi, o le città senz'anima con urla che non si
sentono ma che avverti come in un brivido di Sironi.
*******
Il comprendere è ciò per cui l'esserci progetta il proprio
essere su delle possibilità che ricadono su se stesse,
prigioniero di una pre-comprensione che lo tiene legato nella
sua situazione, nei pre-giudizi e nei pre-concetti. La mente
non è una tabula rasa ma plena; il comprendere un
movimento che si rigetta su di sé, in un pro- che limita il
bisogno di infinito. E questa non è in fondo la dinamica
hegeliana dell'idea? Secondo Hegel è infatti il movimento è
il cuore della dialettica e il motore della realtà: l'essere non è
una sostanza più o meno irrigidita, ma uno streben, il dover
essere nel richiamo imperativo alla coscienza, autoprocesso
e automovimento; lo spirito un'autogenerazione che crea la
propria determinazione per superarla chiaramente in una
circolarità che fonde il finito e l'infinito, il principio e la fine,
il particolare e l'universale. Il reale ha per Hegel una
venatura malinconica, è un processo che si autocrea
distruggendosi (da operari sequitur esse, a esse sequitur
operari) nel riflettersi in se stesso. Come nel percorso che
porta dal seme all'uomo, anche nello spirito è sempre la
stessa realtà (idea) che va attuandosi (come essere in sé,
fuori di sé, in sé e per sé); e questo significa che si passa
dialetticamente dai limiti dell'intelletto (tesi) alla ragione, la
quale smuovendone la rigidità rovescia (antitesi) quanto era
là venuto in luce, fino all'infinito dove s'incontra lo
speculativo (aufheben) che è il momento dell'incesto
Reperto trovato durante la bonifica di Cugno del Muro, 2009
filosofale e dell'unità dei contrari (sintesi), la riaffermazione
del positivo mediante la negazione del negativo propria delle
antitesi dialettiche (Il mistico che toglie e conserva, che è
come un trionfo bacchico in cui non c'è membro che non sia
ebbro. Hegel). Di questa struttura risentono ovviamente
anche le proposizioni filosofiche, per le quali è l'essere
stesso (l'è, la copula) ad esprimere assumendolo il
movimento dialettico in cui il soggetto passa nel predicato a
costruire un'identità dinamica (togliendo e superando la
differenza di entrambi). Più che altrove è forse in questo
delirio che viene alla luce la circolarità di senso che unisce
l'uomo al mondo (come senso e finalità), all'essere e alla
verità. Il senso è un cerchio chiuso/aperto sostanziale
all'uomo, non ha senso ma dà senso proprio come
l'interpretazione che si muove nel pre- e deve avere già
Reperti provenienti dalla pulizia dello smontaggio macerie all'interno del nucleo Cannata
compreso quello che desidera interpretare. In questa
meccanica
Io/mondo/Io
nell'identificazione
autocomprensione
dell'avanti/indietro,
circolare
(e
che
di
muove
evidente
comprensione
dal
e
comprendere
all'opportunità e dall'opportunità al comprendere), emerge la
significatività che gravita attorno al senso dell'uomo, e che
fa dell'esserci la condizione della possibilità ontica della
svelabilità dell'ente, quasi il motore immobile (mobile)
dell'universo aristotelico/tolemaico. Gettato nella tonalità
emotiva (stimmung) ognuno avverte l'essere come un peso
(come aver da essere), una possibilità da attuare, trovandosi
in una comprensione articolata come visione (sicht, spectio)
e che risente inevitabilmente di quella familiarità col mondo
che oscilla tra l'in-grazia-di-cui (pre, pro, vor) e in-vista-dicui (in quanto, als) tra il dentro e il fuori, il chiuso e l'aperto.
Per essere chiari: il comprendere si articola in una sicht che è
il
comprendere
nella
forma
progettuale,
mentre
la
significatività si rivela come pro-spettiva, visione del
mondo. Sfondo mitologico-culturale.
*******
E' forse proprio questa la chiave di lettura per spiegare
l'enorme quantità del lavoro di Gioacchino Bruno e la mole
Miscellanea reperti della Sortino Antica
degli scritti (appunti, diari, note, taccuini, schizzi, fotografie,
sculture) che fanno parte dell'archivio di famiglia. Il peso
dell'essere, la vita nella sua insostenibile pesantezza: Io sono
un creativo, devo fare qualcosa, di comuntinuo, che riempia
il tempo, che produca curiosità, che aiuti a comprendere le
attività dell'uomo. Devo fare qualcosa che sia utile, che
serva, che abbia uno scopo concreto. Si parte dall'uomo e si
torna all'uomo, non esiste un'archeolettura senza questo
fondamentale
presupposto,
non
può
darsi
alcuna
interpretazione: Selezionare e ordinare... per decodificare i
significati e per recuperare la loro definizione storica...
l'itinerario che induce a incontrare gli oggetti nell'ordine
stabilito dal curatore/archeologo. All'interno di un circolo di
apprendi/mento che muove dall'Io alle cose in un'unità di
senso che unisce l'uomo e il mondo. L'interpretazione di
un'epoca deve avere in qualche modo già compreso ciò che
va a interpretare, e l'occhio per quanto dilatato dall'obiettivo
della ricerca e dalla sensibilità estetica a fatica riesce ad
aprire spiragli, come a calarsi in una storia a cui da sempre
appartiene e a cui è possibile la confidenza delle domande
(E' ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della
storia economica e sociale antica si giochi sul significato da
attribuire a questi piccoli siti. G. Bruno). E lo fa con le mani
intagliando e incidendo la materia, perché per Gioacchino
Bruno ragionare è scavare (Non si tratta di fare una
scommessa, quanto di fissare sul terreno l'esito di un
ragionamento. G. Bruno), interrogare la pietra, impastare
l'argilla, incidere il gesso cercando di estrarne una lingua
profonda sedimentata nei terricci, quella che nei secoli ha
raccolto i segni fondamentali dell'esistenza. E solo allora è
possibile lo studio di un sito archeologico, la sua scoperta,
fino all'ultima elaborazione concettuale del plastico. Per
prima cosa feci un miniplastico in argilla della montagna
con su scolpite delle piccolissime case. Preparai pio le carte
per fare i modelli. Come materiale scelsi dei pannelli di
gesso (50x70x8), quelli che si utilizzavano per le
tramezzature di ambienti. Partendo dalla base, cioè la parte
alta del fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi
rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie
di scalinata, calcolai che successivamente dovevo intagliare
le case... La posizione del Castello, dominante su tutto, con
al suo fianco la torre, adesso si poteva ammirare in 3D...
Per la parte manuale ho impiegato 12 mesi, mentre il
progetto nella sua totalità è stato sviluppato nel corso di
cinque anni. E' stato acquistato dal Gal Val d'Anapo per
esporlo nell'Antiquarium sortinese, presso il convento del
Carmine di Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso
dell'aiuto
dell'artista
Vincenzo
Pane.
Attualmente
è
posteggiato accanto all'ufficio tecnico del comune di Sortino
(G. Bruno).
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E dunque: la conoscenza nasce dalla sicht, ma la visione è
solo un particolare modo di vedere e il vedere a sua volta del
comprendere. La più importante forma della sicht è la
umsicht (vista, sguardo orientato, visione pragmatica) del
besorgen (circospezione del pro-curare), che corrisponde alla
pratica col mondo ed è in termini ottici l'esplorazione
dell'ambiente per fini pratici, la visione globale panoramica
di una situazione, l'uso della visione globale e panoramica
per prendersene cura. Questo per dire che anche una scienza
come quella filosofica, che privilegia il primato della visione
(come contemplazione e teoria, la speculazione), può avere
origine nel vissuto concreto e situazionale, storico (con ciò
intendendo che è solo dalla visione pragmatica che può
emergere una visione particolare come quella teoretica).
Perché così è la natura dell'uomo: se vuole il cielo deve
cercare in terra, se desidera l'essere nel nulla, se cerca la
teoria deve sprofondare nella prassi. Allora: l'esserci è un
progetto gettato, una possibilità mai attuata; la visione ha
una vocazione al ritaglio e il linguaggio la pulsione a
Grotte Cannata con rilievo del terreno all'ingresso
autocensurarsi. Alcuni derivati della sicht (hinsicht, ansicht,
aussicht) manifestano questa inedeguatezza della prassi
visiva a cogliere l'insieme e la totalità dell'ente; l'aspetto è
propriamente la percezione del particolare, quella che lascia
venire incontro lo specifico del mondo che già ci appartiene
e conosciamo. Esiste naturalmente anche un vedere libero
dalla rimandatività (l'ispezione, hinsicht o inspectio), ma è
comunque un comprendere privo di finalità pratica (procurante) e di intenzionalità. Come dire: cerchi l'essere? E'
nella forma di vita umana che devi guardare, nella sua
mitologia e istituzioni; vuoi comprendere il senso di qualche
cosa? Ebbene il senso è un esistenziale ed è perciò
nell'esserci che devi sprofondare; guardi il cielo alla ricerca
della verità e non ti accorgi che è nella terra che devi
scavare. Ma questo già Kant (e ancora prima Socrate) lo
aveva anticipato quando rinveniva nell'essere umano (e
quindi nella sfera pratica) la causa noumenica inaccessibile
teoreticamente. Torniamo però all'aspetto; questa struttura ha
due fondamentali articolazioni, l'in quanto (als, per il quale
qualche cosa è percepita per un uso particolare e pragmatico,
ed appartiene quindi alla umsicht) e il pre- (vor-). Da parte
sua il comprendere è il modo (come in quanto) con cui
l'esserci progetta il proprio essere su delle possibilità (Il
comprendere nel suo carattere progettuale costituisce quella
che chiamano spectio dell'esserci. Heidegger), ma l'in
quanto risolto nell'ottica del comprendere (nella sicht)
diventa pro-spectio (vorsicht), prospettiva, getta cioè la sua
ombra
sul
futuro
guardando
al
passato
e
così
determinandolo. La vosicht è il modo di estrarre da un
contesto un ente allamano assumendolo come in quanto, per
un uso pragmatico (qualcosa in quanto qualcos'altro, che è la
struttura della rimandatività). L'interpretazione si muove
nell'in
quanto
come
la
comprensione
nel
pre-
(Nell'interpretazione il comprendere si appropria del
compreso; l'in quanto è la struttura del compreso.
Heidegger), ed è un modo di vedere secondo un'ottica, un
interesse e una passione. Ma è proprio in questa polarità tra
Pulizia Grotta Fezza, 6 Gennaio 1994: "Allora mi misi a togliere la terra nella parte più
alta, anche qui trovai il pavimento in calce"
attività e passività (pre- e in quanto) che viene alla luce il
pro-getto, il procedere statico all'interno di una sicht (pro-)
che ha nell'esserci concreto e fattuale (-getto) il suo senso e
il suo non senso; perché il senso (lo spazio ontologico inteso
come condizione di possibilità) gravita attorno all'uomo
(l'essere, la verità, la libertà) come l'in vista di cui che rende
possibile la comprensione di qualche cosa (Senso è l'in vista
di cui che si struttura in pre-possesso, pro-spezione, preconcetto di quel progetto a partire dal quale qualcosa
diventa comprensibile in quanto qualcos'altro. Heidegger). E
questo qualcosa in quanto qualcosa, che è il perimetro entro
cui si muove l'interpretazione pragmatica, trova nell'esserci
il senso e la finalità e nella umsicht il fondamento (l'in
quanto ermeneutico che si articola in vorhabe pre-possesso o
trovarsi, vorsicht pro-spezione o comprensione, vor-griff
pre-concetto o parlare). Tradotto in termini più generali ciò
significa che quello che cerchiamo dobbiamo in qualche
modo averlo già compreso, bisogna sapere quello che si
cerca per poterlo trovare, nel senso dell'apriori in base al
quale delle cose conosciamo unicamente ciò che in esse vi
mettiamo.
*******
Nello specifico del plastico di Sortino Diruta si sente
davvero tutta la storia di questa terra nel suo ciclo naturale e
dello scorrere archeovisivo del panorama nelle diverse
epoche, dagli albori dei primi insediamenti, fino quasi ai
gorni nostri. E il circolo uomo/mondo lo vedi negli intagli e
nei colpi di pennello, nella cura dei manufatti in cui la mano
dell'autore si percepisce come un segno che incide i
significati, e nella minuziosità di un paesaggio in cui avverti
quasi i mutamenti geologici, l'acqua che scorre, le crepe
aperte nella terra. Così Gioacchino Bruno descrive la
mutazione
socioantropologica
avvenuta:
Il
processo
evolutivo dell'uomo abitante l'isola di Sicilia ha seguito il
processo di conoscenza che è progredito nell'intero bacino
mediterraneo.
Basandoci
sulle
ricerche
scientifico-
archeologiche si può affermare che più di 20.000 anni fa
l'uomo abitava le grotte, era un raccoglitore ed un
allevatore; nonché cacciatore, ossia si nutriva di frutti e
bacche, frequentava i litorali costieri per raccogliere frutti
del mare e crostacei. Conosceva la trasformazione del latte
(caseificazione) e aveva negli ovini una bastevole riserva di
proteine e vitamine derivante dal consumo delle carni.
Sfruttava le pelli per ripararsi dal freddo, ed utilizzava le
ossa per produrre utensili vari. Diversi autori antichi
riferiscono che durante le prime colonizzazioni fatte dai
Fenici e dai Micenei, un certo Jolao portò in Sicilia la
cultura della coltivazione della terra, che i Sicani ed i Siculi
fecero propria. Con l'agricoltura arrivò in Sicilia pure la
tecnica di come costruire le capanne. Queste quattro
esperienze hanno innescato un processo che permetteva agli
abitanti di una certa area di stabilirsi stanzialmente in un
luogo.Premettendo che il posto scelto doveva avere almeno
due caratteristiche fondamentali: 1) l'acqua potabile nelle
strette vicinanze; 2) una modesta area vegetativa che
permetteva la sussistenza. Il fuoco, l'argilla e la scoperta di
metalli sempre più duri permisero all'uomo di progredire
nelle tecniche descritte. I vari popoli che hanno colonizzato
la nostra isola hanno portato usanze che i siciliani nel
tempo hanno poi assorbito. Il Medioevo è stato l'anticamera
della cultura materiale siceliota. Il feudalesimo, i Baroni, la
religione ed il popolo siciliano hanno radicato determinate
usanze, praticandole fino alla II guerra mondiale. Da quel
periodo è iniziato, in Sicilia come nel resto d'Europa, un
processo nuovo, "l'industrializzazione", che ha comportato
la modifica delle pratiche di vita quotidiana consolidate da
secoli. -Il mio scopo è proprio quello di far conoscere tale
iter socio-etno-antropologico (documentato con cartine
geografico/storiche i diversi passaggi delle civiltà).L'allevamento del bestiame è stato il primo passo che
l'uomo ha fatto per usufruire del mondo animale e vegetale
che lo circondava, e conservare riserve alimentari per i
momenti di carestia. Di conseguenza il formaggio e la
ricotta possono dirsi alimenti primordiali. A seguire,
partendo dal Medio Oriente (Mezzaluna Fertile), la
coltivazione della terra fece in modo da rendere stanziali gli
insediamenti umani; a cominciare dai primi stazionamenti
preistorici, i Villaggi. Il progresso delle attività collaterali a
questi stanziamenti ha portato a intrecci di varie tecniche e
l'uso di svariati materiali reperiti sul posto. L'intreccio è ad
esempio un'arte antichissima, come pure i primi vasi di
terracotta che sono stati eseguiti facendo il calco su canestri
di materiale vegetale aggrovigliato; la corda che veniva
usata dai siculi per calarsi nelle ripide pareti a strapiombo
e scavare le celle funeraie. L'intreccio di verghe per formare
un contenitore ad olio e vino, che sono pure essi prodotti di
una tradizione antichissima. E a seguire il telaio, il bottaio,
lo stagnino. Per favorire lo scambio di merci e prod9otti tra
le varie comunità, fu fondamentale la realizzazione di un
mezzo di trasporto, il carretto, coi tre maggiori artigiani che
concorrevano alla sua realizzazione: il carradore, il fabbro
e il maestro d'ascia.
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L'esserci non è però un soggetto trascendentale e statico, ma
circolare, dinamico e vivo; nella sua parte si trova il tutto,
nel presente il passato e nel passato il futuro. Tale continuo
rincorrersi e fuggirsi è in definitiva la meccanica
Piattino in latta di epoca Medievale, rinvenuto nella pulizia di Grotta Fezza
dell'ermeneutica: l'interprete oscillando nel cerchio tra
chiuso e aperto, tra finito e infinito, si muove ambiguo di
qua e di là verso il polo dell'in vista di cui (ritrovandosi ad
ogni momento come finalità) e quello dell'in grazia di cui
(per amore di), con un movimento proiettato nel mondo
come apertura. Nell'intreccio di questi due anelli che apre lo
spazio di senso, nulla è affidato al caso ma ogni cosa trova
una giustificazione e una ragione, compreso lo spazio di
gioco in cui si colloca l'uomo scavando in sé alla ricerca
dell'essere; in quanto l'essere è presente da sempre
nell'esserci come enigma e problema, mentre l'interpretare è
un ricordare e il ricordare un ricordarsi (Bisogna farsi
coraggio e cercare ciò che attualmente non sappiamo, il che
vuol dire che ciò di cui abbiamo perso il ricordo dobbiamo
sforzarci di ridestare nella memoria. Platone). Perché la
domanda è prima di ogni altra cosa desiderio, anelito,
bisogno, e il peso dell'essere si manifesta come necessità di
superarsi e vincersi. L'interpretazione portando sempre
nuove aperture conduce l'uomo tra gli enti, nel mondo come
pure nel nulla, in un processo di rinascita che ekstaticamente ritorna in-sistente in sé, annulla l'essere e a
volte pure uccide.
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Come in un circolo l'antropontologo nella ricostruzione di un
ambiente, di una storia, di un popolo interpreta i reperti il
paesaggio, le carte, li interroga, fa domande, pone questioni.
Apre un varco all'essere lasciando venire incontro le cose per
quello che sono. Costruisce uno spazio mitologico in cui
mette in relazione pensieri e oggetti, e la relazione è la mano
o il pensiero del repertante che afferra i cocci e li sistema
contestualizzandoli in un ambiente (um-welt, in un mondo),
che è poi la sua casa, il chi dell'esserci. Dove per una volta
non si sente la mano dell'uomo se non come allocazione
delle cose; e allora l'essere lo senti come differenza,
problema, nulla, mancanza, silenzio, angoscia. Ma forse
ancora di più avverti la desolazione dell'assenza (e
guardando il lavoro di Gioacchino è impressionante davvero
trovarsi davanti ad una ricognizione di paesaggi in cui
manca quasi sempre la figura umana), tutto gli ruota attorno
ma solo in quanto significante e il peso della domanda
fondamentale sembra non riuscire a portarlo. Così costruisce
chiese (e anche nella Diruta se ne contano dodici più due
monasteri), progetta altari, innalza crocifissi, rincorre U
Nummu Ru Gesu (processione sortinese nella quale nella
notte del venerdì santo si porta in spalle per la cittadina il
crocifisso scampato al terremoto del 1693). La processione,
appunto. Al seguito di un dio sfuggente e impalbabile, che
non si sente e non c'è; lo disegni, lo scolpisci, lo intagli ed
hai la sensazione che sia là con te. Poi però torni a casa e la
vita ha di nuovo il sopravvento. Senti che tutto ti si
attorciglia addosso, e sai che il peso non puoi reggerlo,
cerchi un senso alle cose e ti accorgi che quel senso sei tu; e
vorresti urlare la tua disperazione, liberarti dalle catene di
questo maledetto circolo, dal tuo destino. Ma sai che non
puoi; ti metti a lavorare con maggior fatica, costruisci, scavi,
intagli, progetti, zappi, raccogli, semini, mungi, studi, cerchi,
ami. Sulle tracce di un'assenza, il cui fascino si dispiega tutto
nella presenza di qualcosa che manca, un significante vuoto
che pur essendo nulla muove ogni cosa dandole un senso. Là
dove in fondo senti di poter trovare pure il tuo.
E' attaccatu, ca corda, a 'na culonna, commu 'nna casa ri
Ponziu Pilatu, e 'ntantu, tutta a genti s'inculonna rarreri a
statua ri Gesù attaccatu (G. Briganti).
Non diversamente Gioacchino Bruno fa la sua processione
di progetti che si susseguono, e il mistico e il religioso lo
vedi però non nella devozione da cui si sente libero ma nella
cura meticolosa dell'artigiano, nell'ostinazione di salvare la
sua storia e la sua gente, di dare una voce a chi non ne ha
mai avuta, una possibilità non di redenzione da spirito libero
qual è ma di semplice sopravvivenza. E così, non contento
del plastico ricostruisce ancora: Adesso vorrei farne uno in
legno, rappresentando la realtà di oggi, ruderi e sentieri
attuali. Utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello
precedente in gesso, che mostra come era il paese nel XVI
sec., con le case e le chiese. Sarebbe un'ottima base per
avviare campagne di ricerche, per rintracciare le spoglie
nascoste da terra e pietre. Proiettando nuovamente l'ombra
del passato sul futuro, liberando per una volta dai catenacci
una visione imbrigliata nei limiti imposti dalla cultura della
relazione tra segno e significato, il suo occhio di
scopritore/apritore archeoermeneuta di piccole verità (Ed è
ben noto quanto l'interpretazione di gran parte della storia
economica e sociale antica si giochi sul significato da
attribuire ai piccoli siti. G. Bruno). Perché la verità, che è
poi l'essere nella sua fenomenologia, è fatta di inezie, spesso
di cose o oggetti trascurabili, nel niente in fondo che
significano. Ma è là, nel nulla appunto senza tempo del
sacro, che bisogna scavare; dove è la vita a segnare i confini
degli oggetti, non più la cultura o una lingua incapace di
sprofondare al di là delle abitudini semantiche. Solo allora
l'interpretazione è autentica, e tutto assume finalmente una
ragione e un senso.
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La dinamica dell'esserci muove allora dal dentro al fuori e
dal fuori al dentro; dall'esserci bisogna uscire perché è un
circolo chiuso (legato alla struttura del pre-: come vorsicht
che è un vedere libero da in quanto e che avendo già visto
proietta l'ombra sul futuro de-terminandolo, come vorgriff
nel senso che essendo gettati nella totalità di opportunità
possediamo da sempre una serie di possibilità da
concettualizzare, e come vorhabe che è l'avere già in
potenza), ma anche rientrare perché è un circolo aperto
(come articolazione dell'in quanto e possibilità di aprire il
mondo ai suoi significati, l'ipostasi del singolo nell'unità
circospettiva e pratica del tutto). Il rapporto con l'essere non
è mai chiaro e lineare, ha piuttosto una zona d'ombra
mediata dall'ermeneutica; il senso si dà e non si dà, dice e
non dice con parole che non sono parole. Il circolo non è
quindi assolutamente vizioso, dal cerchio si può anche uscire
Grotte Cannata, Bassomedioevo, quartiere Curditta in Sortino Diruta
portandosi fuori nel nulla, là dove niente ha più senso (Ciò
che è decisivo non è uscire dal circolo, starci dentro alla
maniera giusta. Heidegger; con una libera adesione al gioco
del destino e della necessità). L'essere umano è un cerchio
che non è un cerchio, la possibilità dell'impossibilità, può
superare e superarsi, liberare e liberarsi (Tuttavia bisognerà
assolutamente evitare di indicare ontologicamente con
questo fenomeno qualcosa come l'esserci. Heidegger); e
questo è il non senso di una libertà che si sottrae
accettandola ad ogni forma di necessità, che schiaccia il
destino e umilia in definitiva ogni possibile metafisica. E' tra
necessità e libertà che si chiudono allora i confini del senso;
l'ermeneutica si è rivelata come una continua tensione di
possibilità, la chiave per rompere il circolo: il suo compito
non è quello di chiuderlo, ma di aprire all'essere quando e
nei modi ad esso piacerà di manifestarsi.
Anche per l'antropontologo si ripropone insomma lo stesso
problema che a suo tempo Platone evidenziò: se è vero che
l'anima è gravida di significati, chi vi ha depositato il seme
della verità? Ma questo, com'è noto, è il passaggio storico
dalla
maieutica
all'anamnesi
(all'innatismo).
Sembra
comunque più accettabile il luogo socratico del lasciar
aperto il problema. Platone lo chiude (alla domanda
fondamentale risponde: perché l'ente è un bene!), non lo
risolve. L'apertura garantisce per lo meno la possibilità
(all'enigma, all'essere) di s/velarsi (quando vorrà) da sé.
Interpretare nel linguaggio di Gioacchino Bruno vuol dire
scavare, togliere i corpi dalle macerie, dare una sepoltura e
un nome a chi è morto così, schiacciato non dal terremoto
ma dall'oblio della memoria. E quella ricostruita nel plastico
sembra davvero una città dei morti; come nella necropoli di
Pantalica dove il silenzio tombale si avverte in ogni parte
come un vuoto che ti assorbe l'anima sepellendo pure quella.
La vita la senti solo nello scavo artificiale, unico segno
dell'uomo che rimane; l'avverti vibrare nel segno artigiano
che ha scolpito, nella mano poetica che ha intagliato, nella
tensione dei colore. Oltre l'occhio e il cuore davvero non
possono andare. Si potrebbe proseguire oltre, ma è forse ora
di lasciare spazio all'opera di Bruno, con le dettagliate
ricostruzioni storiche e le fotografie degli esercizi dell'arte.
Termina allora qua la prima parte del testo dedicata alla
presentazione archeontologica del suo lavoro; e non trovo
altro modo per chiuderla se non con le annotazioni
dell'illustre Sebastiano Pisano Baudo, storico sensibile e
profondo conoscitore della storia siciliana. Quelle che
seguono sono infatti parole che echeggiano nei manufatti del
nostro ricercatore; le senti ovunque come un sibilo che soffia
pungente nella notte. Nel contemplare le rovine delle città
vetuste, il pensiero corre per la sua lunga serie dei secoli,
che batterono le ali su quelle reliquie e dal sermone dei
sassi attinge la visione, che gli fa rivivere davanti la folla
degli scavatori delle rocce prima, di tanti popoli poi, che in
epoche diverse vi soggiornarono con determinati interessi,
gare, contrasti, costumanze, leggi, istituzioni, e delle
generazioni che vi lasciarono i cadaveri e dei profanatori
infine che vi passarono fra mezzo, ed aiutarono nella loro
febbre devastatrice, l'opera lenta del tempo e dell'oblio
(Storia di Sortino e dintorni, ed. S. Scolari).
Delucidazione sul significato dell'essere in antropontologia
Due parole per chiarire il senso della terminologia applicata
nel presente studio in ambito antropologico sono necessarie;
rimandiamo in altro luogo una discussione più estesa, che ci
porterebbe fuori dai limiti della presente ricerca. E' una
scienza paradossale l'antropontologia, ma solo da un punto
di vista formale, dall'ottica del principio di ragione. La
ragione è però ideologia e la morale una violenza alla natura,
un'ostacolo a ciò che ha anche solo il profumo della verità.
Figura antropomorfa intagliata nella mensola di un carretto siciliano
Non si può scindere il destino dell'uomo da quello
dell'essere, l'essere ritorna sempre anche quando gli vuoi
mettere le catene, se lo crocifiggi. La sua indagine è
assolutamente necessaria e un archeologo ne deve tenere
conto. Si è detto infatti che l'antropontologo è alla ricerca del
sacro che è nelle cose e abbiamo dato a tale presenza il nome
di essere. L'antropontologia non è una scienza metafisica
perché in quanto l'essere che da senso e preserva
nell'esistenza non coincide con il dio storico della tradizione,
ma con un significante immanente nell'esistenza degli enti
del mondo che le significa (senza tuttavia avere significato
alcuno) nominandole per quelle che sono. Come presenza di
un'assenza nel tessuto della mondanità. Essere e ente (esserci
in quanto essere nell'umano) sono uniti inscidibilmente in
medesimo spazio ontologico che coinvole l'uomo e la storia
Figura intagliata nella mensola di un carretto siciliano
come necessità per il suo accadere. Aristotele ha così scritto
nel Περι ερμενιας: In se stessi... e detti di per sé i verbi sono
nomi e significano qualcosa... ma non significano ancora se
è o non è. Ché l'essere o il non essere non è un segno della
cosa, neppure se si dica ente senza aggiungere altro. Infatti
per se stesso non è nulla ma in più significa una certa
congiunzione (3-19,25). All'interno della più articolata teoria
dell'enunciazione e in virtù di una supposta corrispondenza
tra piano delle cose e piano del linguaggio, l'essere prima di
prendere altra collocazione è per Aristotele un verbo.
Assunta questa fondamentale acquisizione, va però oltre e
dice che il verbo: a) significa qualcosa; b) il significato che
assume consiste nell'appartenenza a qualcos'altro; c) è
collocato nel tempo. Disinteressandoci del punto a) che ci
porterebbe lontani dai limiti preposti, dobbiamo invece
concentrare l'attenzione sui punti b) e c). Nel primo b)
Aristotele precisa che il verbo di per sé non attesta
l'esistenza di ciò che significa, ma che solo dall'unione col
nome dà luogo ad un'asserzione che rimanda alla realtà delle
cose. Ora, poiché ogni verbo acquista significato nel
contesto di una proposizione, e se ogni proposizione è
formata da soggetto-verbo-predicato (o soggetto-verbo
laddove il predicato viene sottinteso), si delinea il secondo
punto c) per il quale l'essere non è nulla di per sé (op.cit. 16b-24) ma significa solo in una congiunzione di termini. Il
verbo `όν, che la tradizione ha caricato di tensioni teoretiche,
stando alle parole di Aristotele, non è nulla di rilevante,
assolutamente privo di determinazioni, sotto l'aspetto logico-
semantico non ha alcun significato oltre quello di specificare
la funzione di copula, sotto quello ontologico non equivale
alla proposizione τό `όν `έστιν. Il verbo è certo un nome, ma
quel tipo particolare di nome che temporalizza ciò che
significa (E' ciò che in più significa il tempo). Dire che
l'essere è collocato nel tempo, significa affermare che è il
tempo stesso da intervenire (quando si consideri il verbo
come segno della predicazione intesa come struttura della
cosa) nella semanticità del verbo sostanziandosi. Si è così
raggiunta una fondamentale equazione tra essere e tempo.
Scheletro di un carretto abbandonato in contrada Mascalucia
Per ricondurre il discorso in ambito antropontologico, è bene
sottolineare il valore ontico del verbo essere, spostando
l'attenzione direttamente nelle cose. Nella proposizione (ad
esempio) io sono uomo, io e uomo si identificano, sono
convertibili. Questo significa che affinché l'Io/soggetto possa
entrare nel mondo (assumendo una specifica collocazione
esistenziale) ed esistere, determinandosi storicamente come
uomo (predicato), deve parteciparsi dell'essere e delle sue
aperture ontologiche (le categorie, e nello specifico il
genere). L'è perciò non è solo copula, ma nell'accezione
propriamente ontologica specifica l'essere come esistenza
(L'essere è l'atto grazie al quale una cosa non è solo logica
ma reale. Tommaso d'Aquino), di modo che quando diciamo
Socrate è musico dobbiamo pure intendere esiste Socrate
musico. L'Io soggetto è infatti sempre qualcosa di
determinato e non un universale astratto (è questo uomo,
questo musico), ed il modo che ha di rapportarsi con il
predicato è del tutto accidentale (non è necessario che sia un
uomo o un musico). L'essere allora è nelle cose e le
mantiene in un eterno presente, nello spazio aperto del senso
e dei significati. E' un non/significante di per sé vuoto ma
capace di connotazione ontologica. Quando si scava in
antropologia e si trova un reperto in quel reperto la sostanza
che lo ha preservato per millenni è ciò che fa in modo che
ancora e-sista (ek-sista nel mondo), presente come ai tempi
della sua produzione, appunto l'essere nel suo significare
preservandola la cosa, nominandola per quella che è.
Propriamente la presenza di un'assenza, il ni-ente, il nulla
(iato mitologico tra il segno e il signifcato) che precede la
struttura
culturale
(ordinandola
nella
catena
segno-
significante-significato) di un oggetto (Non è un oggetto, né
un ente... il nulla è la condizione che fa possibile la
rivelazione dell'ente come tale per l'essere esistenziale
dell'uomo. Il nulla non è soltanto il concetto opposto a
quello di ente, ma appartiene originariamente all'essenza
dell'essere stesso. Heidegger). Che è poi uno dei nomi con
cui la tradizione ha identificato il dio (belimah, nulla, è una
parola che compare una sola volta nella Bibbia, Gb. 26, 7:
Egli distende il settentrione sul vuoto e tiene sospesa la
terra sul nulla; la radice beli+mah significa senza alcunché,
ciò
che
non
ha
qualità,
ovvero
l'inafferrabile
e
l'indeterminato proprio di una divinità). Essere e (è) nulla
dunque, in quanto limite critico di ogni possibile linguaggio,
il luogo poetico nel quale le parole perdono i significati
sedimentati per rivivere in una nuova decodificazione
lessicale. Il nulla è uno spazio concreto e storico nella sua
astoricità, la radura di ogni lingua dove la parola e la cosa
Chiodi rinvenuti durante la bonifica di Cugno di Muro, epoca Medievale
trovano il modo di conciliarsi. Come un ponte che supera lo
iato semantico e ontologico col mondo e apre uno spazio
comune di senso, l'aperto mitologico che lascia venire
incontro le cose nominandole/di-segnandole. Un terreno di
significatività (contestualizzazione pragmatica di una totalità
di opportunità) e verità (concor/danza in una forma di vita)
in cui è sempre la parola poetica a condurre i giochi (di
lingua). Nell'ultima trascendenza del linguaggio che è un
Raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è
detto, rimane non detto (Heidegger). Al di là della
colonizzazione semantica e dell'irrigidimento di un senso (il
Logos che tutto raccoglie in un uni-verso che umilia
l'originaria ambivalenza delle parole e imprigiona nei
significati
già
codificati
dalla
tradizione,
da
una
visione/ritaglio ottico del mondo) che estrae dall'orizzonte
della
verità
le
originarie
paradossali
ambivalenze
ontologiche in un uni-verso concepito come teatro
metafisico per gli esercizi in fondo del potere.
Glossario minimo
(per una corretta comprensione del testo)
Essere: è ciò che è immanente nelle cose e le preserva nel
tempo per quello che sono. E' la vita nella sua profondità,
quanto di significativo c'è negli enti/oggetti e che li specifica
singolarmente come quegli oggetti e non altri. E' ciò che
rende qualcosa immortale, che la segna al di là delle
stratificazioni culturali, che fa attraversare alla cosa i limiti
del tempo in un eterno presente (è il nome della permanenza
nella cosa che la rende tale, confermata dalla sua
ripetizione). L'essere come differenza, come vuoto, non
pienezza e non sostanza che il linguaggio ripercorre
seguendo tracce impercorribili e non trovando cose.
Esserci: al di là dell'articolata terminologia heideggeriana, è
da intendersi nel presente testo come l'uomo privato della
significazione operata dalla metafisica, è un modo per
nominarlo al di là della sua storia culturale, della catena di
significanti che lo ha cristallizzato ideologicamente come è
oggi. In quanto essere nell'umano, come sostanza dell'uomo;
appunto essere e tempo.
Ente: gli enti sono gli oggetti del mondo. Anche l'uomo è un
ente, ma significato/sostanziato dal suo ci, dal suo essere qua
ora non come semplice presenza, ma in quanto finalità,
senso e misura delle cose.
Segno: è una traccia dell'essere in tutto ciò che esiste, l'eco
lontano delle cose, portatore della memoria di un oggetto e
di una cultura, di una visione del mondo. All'origine di ogni
linguaggio non c'è la parola parlata ma un'archeoscrittura
primaria; e dunque alla metafisica si sostituisce la
grammatica (grammatologia), ed essa sola accede all'essere
come differenza (Derrida).
Significante: se il segno è pieno il significante è vuoto. E'
come una voce, un'assenza, una materia informe che apre ai
significati senza averne alcuno. E' il significato svuotato del
referente ontologico, la parola senza la cosa, pura
predisposizione alla significazione di un oggetto. Possibilità,
apertura,
luce,
originaria
ambivalenza.
Il
pensiero
occidentale non ha mai sopportato tale vuoto della
significazione, in quanto non/luogo, non/valore, cercando
un'identità tra il codice e la struttura sintattica.
Significato: è un'ideologia, la cosa nominata secondo
un'ottica culturale, privazione di altre possibilità di senso,
principio di realtà imposto nella catena semantica,
decodificazione autoritaria dei segni nel ritaglio del Logos
(che risolve gli ossimori dell'essere nell'equivalenza di un
uni-verso), significante dispotico nella lingua e nel pensiero,
è il risultato di un addestramento/addomesticamento ottenuto
attraverso il linguaggio.
GIOACCHINO BRUNO
RICERCHE ARCHEONTOLOGICHE NEL
TERRITORIO SIRACUSANO
SORTINO DIRUTA
TRA LEGGENDA E REALTA'
(stralci dal libro di G. Bruno e L. Ingaliso)
Il testo -stampato e oggetto di attenzione da parte della
Sovrintendenza- si presenta come un diario di lavoro
seguente le analisi del quadro (commissionato dal parroco
Gurciullo nel 1749 ad un pastore, per conservare una
ricostruzione grafica del paese antecedente il terremoto)
ritrovato e ripulito della Sortino Medievale, per divulgare la
ricostruzione storico-topografica operata sul campo, nonché
con l'ausilio degli antichi autori come Gurciullo (le
Memorie), della città vecchia ai tempi del massimo fulgore
economico che ebbe tra il XII e il XIV sec. Vengono qui
forniti alcuni stralci del libro utili alla comprensione del
metodo di lavoro di Gioacchino Bruno inserite nelle pagine
seguenti. Il lettore è comunque invitato alla lettura integrale
dell'opera. Dalle indagini di Bruno e Ingaliso sono venuti
alla luce l'antica divisione dei quartieri (Collina, Curditta,
Mandrazza, Carcarone), i quattro ponti (uno dei quali
collegava Sortino a Serramezana, il ponte Nuovo; gli altri
erano ponte dei Mulini, ponte Guccione, ponte dei Canali),
le dodici chiese e le strade principali. Le abitazioni, scavate
nella roccia del colle, erano di circa 75 mq; i muri esterni
erano in pietra o in calce e i pilastri in tufo; il tetto sostenuto
da travi inserite nel muro con fori praticati nella roccia;
sopra le travi si mettavano filari di canne con una
sovrapposizione in calce, e il tutto veniva ricoperto da tegole
collegate alla roccia con uno scavo in cui erano inserite
mattonelle di tufo. Nel complesso Sortino viene alla luce
come un centro di benessere economico, all'avanguardia
anche per quel che concerne la pulizia e l'igiene con largo
uso del sapone, e ricercato soprattutto per la produzione del
miele, ma anche per l'olio e la vite.
Presumibilmente il sito dove sorgeva Sortino "vecchia" era
già abitato da molti secoli, cioè prima dell'effetiva nascita
del paese. Fra l'Ottocento e il Mille d.C. i Siculi della vicina
Erbesso si trasferirono nella valle del fiume Guccione, oggi
chiamato fiume Ciccio, ubicata a nord dell'antica cittadina
iblea.
"Era l'antica Xuthia situata sulle coste d'un monte appiè d'un'alta, ed aspera rupe...", Andrea
Gurciullo
Col passare del tempo il paese si estese prima verso il
centro della valle e poi verso ovest dando così origine ai sei
quartieri di Sortino. Intorno al 900 d.C. i Saraceni
costruirono nella sommità del paese un castello e una torre
alta circa 15 metri, adiacente lo stesso.
Scacciati i Saraceni, il castello e il feudo di Sortino furono
affidati nel 1282 dal re Pietro al barone Perrello di Modica.
Nel 1477 Sortino e il suo feudo furono comprati da Guidone
Gaetani. Il nucleo originario del paese era situato ai piedi
del Piano del Castello (l'attuale Cimitero Vecchio o Villa
delle Rose).
La torre e il Castello dei Gaetani - lato est
Le difficoltà d'accesso a questo quartiere -Curditta- quando
Sortino si estese, obbligarono il marchese Guidone Gaetani
a far costruire la "Scala Nova".
Importantissima era la "Via del Corso", che iniziando dalla
chiesa di S. Antonio conduceva sino alle mura orientali del
paese dove vi era la porta del "Mprimmo" che apriva la
strada per Siracusa.
L'altra via principale del quartiere
(Cunsarie) era
conosciuta come "Strada del Piano del Guastella" che
divideva lo stesso quartiere soprastante della "Collina" e
collegava anche il centro del paese con la parte periferica
di esso.
La devozione nei confronti della Santa (Santa Suffia) era
tale, che la prima chiesa costruita a Sortino fu proprio
quella dedicata alla Santa Patrona.
Quartiere Mandrazza, porta del "Mprimmo". Si vedono a sinistra la Chiesa e l'Ospedale, a
destra il Convento di S. Francesco
Nella seconda metà del XVI secolo si crearono a Sortino
molti ordini religiosi, fra cui i più importanti costruirono
conventi e monasteri.
L'ordine religioso dei frati Cappuccini costruì al di sopra
del quartiere della Collina un convento iniziato nel 1550 e
ultimato nel 1556.
L'altro convento importante, all'interno del paese, era quello
dei Carmelitani, posto nel quartiere delle Concerie.
Resti delle fondamenta del Castello e della Torre
Nel paese oltre ad essere presenti congregazioni maschili ve
ne erano anche di femminili, che erano raggruppate nei due
monasteri del paese: quello di S. Benedetto, sito nel
quartiere "Curditta", al limite del confine orientale di
Sortino, e quello di S. Bernardo, detto di Montevergine,
posto più in alto del castello nel quartiere "Cava".
Il giorno 9 Gennaio del 1693, prima della mezzanotte,
Sortino tremò. Cadde la torre e parte del castello... crollò il
campanile della chiesa madre, il ponte dei Canali e il ponte
del Guccione, la chiesa di S. Sebastiano fu schiacciata da
un enorme masso, i danni più gravi li subirono gli abitanti
della parte più alta del paese.
Chiesa di Santa Maria del Soccorso
La domenica giorno 11, intorno alle 17 replicò la scossa,
ma fu breve e leggera; quando non erano trascorse le ore
21, accompagnato da un ruggito spaventevole di vento, e da
terribile fragore, una scossa violentissima durata 4 minuti
fece traballare la terra, e in poci istanti gran parte della
città fu distrutta.
Al monastero di S. Benedetto, la comunità numerosa,
radunata per i ringraziamenti al Signore per averli salvati,
passò in un momento dalla vita alla morte schiacciata da un
enorme masso ruzzolato dalla rupe soprastante.
Dalla città si sollevò un nuvolone di polvere che ben presto
si mischiò alla copiosa pioggia, e tutta Sortino fu avvolta
sotto il manto della morte e solo qualche fulmine faceva
intravedere con la sua agghiacciante luce, l'orrore e la
totale distruzione che stringeva il paese.
Successivamente si decise di costruire la nuona Sortino alla
sommità del colle Aita "dietro e sopra la selva e luoco dei
padri Cappuccini e sotto e sopra collaterale al venerabile
monastero di Montevergine...".
Concerie
Particolare della costruzione del tetto delle case della Sortino Vecchia
GIORNALE DI SCAVO
Soprintendenza ai BB. CC. e AA. di Siracusa-Siciliantica.
Comune di Sortino- Cava del Marchese
Adiacenze con le antiche fondamenta della Torre del Castello
Si inserisce il giornale completo di scavo tenuto da
Gioacchino Bruno per tutta la durata dei lavori. Il taccuino è
estremamente interessante in quanto documenta in maniera
completa
con
mappe,
disegni,
fotografie,
appunti,
l'allocazione e la struttura del Castello della Sortino Diruta
-costruito intorno al X sec. dai Saraceni e munito di una
torre adiacente- e dell'area circostante. Importante anch'essa
perché per costruire la rocca i Saraceni cacciarono dalla
parte alta gli abitanti, che andarono a stanziare sotto il
costone del convento dei Cappuccini, fondando il quartiere
della "Collina". Proprio sotto il Piano del Castello si
estendeva il quartiere più ricco e nobile del paese, il
"Curditta" che aveva all'interno la "Piazzitella", un centro di
ritrovo per i nobili e notabili. Fondamentale fu anche la
scalinata "Nova" (trecento scalini e poiché era stancante
percorrerla d'un fiato fu scavata circa a metà del tragitto
nella roccia una nicchia/riparo dedicata a S. Maria del
Riposo) che Guidone Gaetani, il marchese, fece erigere per
collegare agilmente il quartiere con il resto del paese. Ma
soprattutto
tale
documentazione
è
interessante
per
comprendere la tecnica archeovisiva in tutte le fasi, dalla
scoperta alla fissazione delle idee nel cartaceo. Il terreno che
è di un privato cittadino, fu messo a disposizione per gli
studi con la massima disponibilità dal proprietario. A questo
scavo, com'era nei progetti di Bruno, ne sarebbe seguito un
altro nella parte inferiore del sito bonificando la zona in
contrada Costa Sortino.
COSTA SORTINO PROPRIETA' CANNATA
Rilievo abitazioni rupestri Bassomedioevo Sortino Diruta
Quartiere Curditta – adiacente Monastero San. Benedetto
1998-1999
I lavori di scavo e di bonifica interessarono l'area territoriale
di Sortino Diruta, in C.da Costa Sortino, che si estende a sud
dell'odierna città, per un perimetro ancora godibile di circa
3,14 km alle coordinate geografiche Lat.37° 09' 09' N –
Long. 15° 01' 51'' E, mirando alla fruizione dell'antico sito
della Sortino medievale. Come si legge dalla relazione
presentata da Gioacchino Bruno, nelle vesti di presidenteresponsabile archeologico, il sito venne abbandonato dopo i
terremoti del 9 e 11 Gennaio del 1693 che rasero al suolo i
paesi della Val di Noto. Nei secoli a venire la zona ebbe uno
sfruttamento soprattutto agricolo, vista l'abbondanza di acque
fornita dal fiume Guccione, affluente dell'Anapo e dalle sue
sorgenti. Nonostante la mano dell'uomo abbia inciso nelle
modifiche
geoarchitettoniche
alcune
cellule
si
sono
preservate e costituiscono dunque un'occasione di studio
rilevante della Sortino Diruta nella sua struttura tipica di
borgo medievale rupestre degli Iblei. Una di queste cellule è
proprio l'area denominata "Grotte Cannata", registrata al
foglio 39, particella 120. L'area costituiva il quartiere più
ricco e antico e conserva i ruderi di abitazioni medievali
contigue ricavate nella roccia, nonché le vie d'accesso con
viottoli e scale scolpite nella roccia. Dagli scavi è venuto
fuori che le abitazioni poggiavano infatti direttamemente
sulla roccia, mentre le pareti venivano fabbricate con pietre e
calce. Alcune si estendevano su due piani e per questo
venivano chiamate "Domus Palaciate" (Case a Palazzata). La
pianta delle abitazioni e i ruderi sono ancora evidenti e
disegnano molto bene il tessuto urbano medievale. Oltre ad
una rilevanza archeologica, storica e paesaggistica quest'area
presenta un valore naturalistico di primo piano. Bonificare
questo sito è stato molto importante per il territorio sortinese
in quanto è da considerarsi come l'anello storico e
archeologico mancante tra Pantalica e Sortino. Il lavoro,
svolto come sempre con professionalità e sotto l'egida della
Sovrintendenza nella persona della dott.ssa Basile, si è
avvalso dell'apporto di intelligenze come il prof. Mangiameli
per quel che riguarda l'inquadramento geologico strutturale, e
dell'occhio supervisore della dott.ssa Beatrice Giaccotto,
l'avv. Sebastiano Papa, il sindaco dott. Orazio Mezzio, sig.
Nuzzo Mosca.
Il lavoro su questo ritaglio di terra è stato imponente. La
documentazione è molto articolata e dettagliata ma non è
stato possibile introdurla in questo studio. Meriterebbe una
pubblicazione a parte.
Naturalmente l'interesse etnoantropologico di Gioacchino
Bruno l'ha spinto sempre più nel territorio. Tra i suoi
interventi si ricordano anche: Bonifica Sortino Diruta sotto il
Castello; Bonifica della zona Cugno di Muro; Pulizia e
ripristino del sentiero sotto il convento dei Cappuccini.
SEGNI ONTOPOIETICI
Si inseriscono in queste pagine fotografie realizzate da
Gioacchino Bruno di rocce, pietre, scorci di panorama,
piante, acqua, alberi, fiori. Sono immagini che ha raccolto
con una sensibilità attenta e poetica. Non sempre la scultura
è stata eseguita dalla sua mano, ma nell'estetica moderna
(come ad esempio accade nell'Arte Concettuale, dove
l'oggetto è assente) il dato oggettivo, la cosa, l'opera nella
sua fisicità è stata sostituita da un'immagine senza corpo
riproducibile, e non si sa oramai se in questa immagine
artefatta ci sia davvero la perdita dell'aura o semmai un
arricchimento dovuto proprio alla risemantizzazione della
cosa percepita, possibile proprio perche' inesistente come
riferimento cultuale, eterea senza profondità o spessore. La
tecnica, e in particolare quella fotografica (come bene
appunta Walter Benjamin) ha reso fattibile il superamento
dell'oggetto artistico inteso semplice presenza, in quanto
l'unicità non è più fondamentale ai fini della godibilità della
percezione, ma forse addirittura un ostacolo alla sua
diffusione e fruizione (cosa che i fotografi delle modelle
delle riviste patinate conoscono bene quando creano
un'immagine di donna elaborata ad un punto tale da non
avere più nessuna relazione con il corpo originario; o nel
cinema digitale in cui gli attori spesse volte non esistono ma
sono elaborati dal software). Come quando si riproduce la
Gioconda e la si rielabora moltplicandola (Warol), o quando
il museo perde le mura e diventa non virtuale, ma fluttuante
al di là dello spazio e del tempo. Essenziale è piuttosto
l'occhio dell'artista e la sua capacità di incorniciare, di
sedimentare materialmente le forme e i colori nello spazio
fisico di un riquadro fotografico, dove la cornice è offerta
dal rettangolo e dalla carta su cui viene impressa l'immagine.
Mentre l'oggetto, l'opera vive nel ritaglio ottico del
fotografo, nella rivalutazione estetica di quello spacifico del
mondo colto e fermato dall'obiettivo. E allora anche il sasso
fotografato è una scultura, scavato dall'occhio, rivalutato
dalla cultura, colto dalla sensibilità dello scatto. Si è superato
insomma ampiamente il concetto mistico di aura dell'opera,
tanto che oggi il senso del prodotto artistico si trova proprio
nella riproducibilità e nella massificazione delle immagini
che spaziano anche negli strati poveri della popolazione.
Nella perdita dell'aura si assiste come alla perdita della
metafisica dell'oggetto, la sua idea e solo allora quelle forme
poetiche riescono finalmente a vivere nella vita reale
ampliandola di contenuti. Meglio che nella fisicità dell'opera
è forse proprio nelle istantanee fotografiche che l'essere
riesce a fluttuare coi suoi codici linguistici e attraversare lo
spazio e il tempo (Nella fotografia il valore di esponibilità
comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. W.
Benjamin). Paradossalmente oggi il valore estetico della
Gioconda del Louvre è de/limitato dalla corporeità e
co/stretto nelle stanze del museo, potrebbe anche scomparire
e conservare comunque una possibilità di significazione. La
guardiamo in fotografie e in quelle fotografie c'è molta più
verità dell'opera che nell'opera stessa (Privando l'arte del
suo fondamento cultuale, l'epoca della sua riproducibilità
tecnica estinse anche e per sempre l'apparenza della sua
autonomia. W. Benjamin). E' un paradosso, certo. Ma
l'essere ama i paradossi e quando interviene scompagina i
codici di lettura, ridefinisce il senso, presenta le cose in
un'altra ottica. E può anche accadere talvolta che annulli le
cose,
rendendo
possibile
nella
vacuità
impalbabile
dell'oggetto una diversa e più ampia espressione.
________________________________________________
Le tre sezioni che seguono (scultura della pietra, manipolazione dell'argilla,
fotografia) derivano da un ciclo di lezioni che Gioacchino Bruno ha tenuto
dal 2010 al 2011 in Sortino presso l'associazione culturale PiuSicilia. Le
dispense ai corsi si aprivano con una mia presentazione, riproposta nel
presente testo. Le fotografie pubblicate a seguire (bellissime ed epressive)
andrebbero viste nel colore originale, purtroppo le esigenze di stampa non
hanno permesso che il bianco/nero.
ASPETTI PSICO-ANTROPOLOGICI NELLA
MANIPOLAZIONE DELLA PIETRA
PiùSicilia è un'associazione nuova nel nostro territorio, ma
già si è distinta per manifestazioni a carattere culturale e
sociale di rilievo. I dirigenti mi hanno coinvolto
chiedendomi una presentazione a questo corso di scultura,
e da subito ho accettato con entusiasmo. In primo luogo
perché ritengo che sia un'iniziativa seria e di qualità, ma
soprattutto un'opportunità per molti giovani; in secondo
luogo perché la preparazione tecnica (e storica), nonché il
talento riconosciuto da incarichi di prestigio, di Gioacchino
Bruno a cui è affidata la responsabilità delle lezioni, sono
una garanzia di successo. Non mi addentro in questioni
complesse in merito alla pietra, alla sua lavorazione e ai
suoi significati; mi limito invece, e con piacere, a
puntualizzare alcuni aspetti strettamente culturali inerenti
alla manualità e alla manipolazione di oggetti, cose e
attrezzi che hanno una storia millenaria. Siciliana certo, per
sua naturale conformazione geologica e per l'antico legame
che unisce gli isolani alla loro terra, ma non solo etnica
locale; perché la manualità, il fare inteso come istinto
arcaico
e
quasi
mitologico
(l'a-che-fare
primario
heideggeriano), attività semantico/ordinativa dell'Io e del
mondo è il nucleo costitutivo non solo della vita psichica
di un individuo, ma la grammatica stessa di una comunità.
Se da una parte la crescita evolutiva di una persona
(emotiva ma anche brutalmente neurologica) matura e si
forma nel padroneggiare una tecnica già dalle primissime
ore di vita, dall'altra sedimenta nelle strutture simboliche e
sociali di un popolo, espandendosi amplificata nell'etica e
nei costumi. Anche in quelli religiosi. Non per niente
etologi di fama hanno rilevato che la maturazione
neuronale dei primati (scimmie, gorilla, macachi fermi ad
uno stato primordiale) è stata mutilata proprio dai limiti
della gestualità che l'assenza del pollice impone loro;
mancanza che non ha fatto sviluppare le aree intellettuali
dell'encefalo ed ha impedito alla psiche di dilatarsi nelle
forme più alte della vita culturale e sociale. Di vincere
come l'uomo in qualche modo il braccio di ferro con la
morte (angoscia primaria), manipolando -già dalla sua
prima comparsa sulla terra- la durata e la solidità della
pietra nella sublimazione simbolica che esorcizza la
precarietà della vita nell'eterno. Tutti sanno che i bambini
imparano giocando con le mani (e nel gioco costruiscono
relazioni e metodo, quasi un rito a cui ubbidiscono con una
serietà grave e imperativa; proprio come lucidamente
sintetizza Wittgenstein laddove chiarisce che seguire una
regola è ubbidire ad un comando) come pure gli animali, e
che la conoscenza prima che un fatto intellettuale è sempre
arcaicamente
gestuale.
La
parola
precede
infatti
condizionandola la visione, così come la manualità precede
formandolo il pensiero e le sue strutture. Sfugge spesso
tuttavia che la formazione dell'Io non è un processo
unicamente
cognitivo;
perché
attraverso
il
fare
-l'apprendere- non solo cresce e si costruisce l'integrità
della
persona,
ma
si
scava
frantumandola
nella
sedimentazione della sintassi del quotidiano, incidendo
davvero come uno scultore o un maestro artigiano nella
stratificazione delle cose e nel modo abitudinario di
interpretarle (processo invero analogo alla variazione
eidetica
husserliana).
Manipolazione
linguistico/semantico/ermeneutica che colpo dopo colpo,
incisione dopo incisione affonda nel taglio luce/ombra fino
alla verità delle cose. Proprio come scrive Platone nel
Fedro: Allorché un uomo, vedendo la bellezza di quaggiù e
rammentandosi la vera bellezza, metta le ali e desideri,
così alato di levarsi in volo... allora si ristora e riscalda e,
cessando di soffrire, si sente lieto e felice. Perché anche in
una pietra è racchiusa e conservata una storia, ma
soprattutto un'opportunità: come possibilità gestuale di
uscire dai limiti antropocentrici dell'Io e dal suo gravame
metafisico, per la produzione di un mondo. Costruendo nei
riti apotropaici del travaglio quotidiano (tessuti di gesti
intesi come processi di autoregolazione sprituale che
portano nell'arte -e meglio ancora nella tecnica- significati
epocali) un Totem comune in cui si concentra l'ethos e si
attuano
le
relazioni
simboliche
di
una
comunità.
Nell'elaborazione artistica o artigianale (e nella sua lingua
archetipica
quale
distruzione
fenomenologica
di
incrostazioni culturali millenarie) si trova perciò sempre il
linguaggio primitivo di una civiltà, in cui risuona colpo
dopo colpo l'eco di epoche lontane; segni/graffi/erosioni
(naturali o artefatti) che stratificano la storia mitologica e
simbolica di un popolo, cristallizzata -proprio come in una
pietra- in un inconscio collettivo (Jung). Scavando e
scalpellando, graffio dopo graffio, incisione dopo incisione
per Portare alla luce... il sistema degli assiomi e dei
postulati che definiscono il miglior codice possibile,
capace di dare una significazione comune a elaborazioni
inconsce che ineriscono a spiriti, società e culture scelti
tra quelli maggiormente lontani luno dall'altro (LéviStrauss). Perché anche nel chiaroscuro di un comune sasso
da sempre è in fondo la vita stessa che si presenta all'uomo
come problema e peso, qualcosa che deve essere realizzato,
progettato/manipolato. E si può scolpirlo liberando l'Io
verso l'autocoscienza dai pregiudizi della sua storia e della
sua cultura. Proprio come il nostro essere-nel-mondo.
Analogamente ad una pietra immune alla lacerazione del
tempo, sgranata tuttavia dai venti, corrosa dall'acqua,
maneggiata dall'uomo; sempre (tutto sommato) uguale a se
stessa, al di là delle epoche, davvero oltre l'ineluttabilità
della morte. Con l'illusione ma anche la certezza di estrarre
dalla terra e dai suoi frutti -lavorandola e travagghiandolail senso delle cose; sfiancati da una fatica che però in
qualche modo eterna l'Io.
Balconata intagliata da G. Bruno
Insegna scolpita a mano da G. Bruno, posta nella facciata del Municipio di Sortino
Angolo di Sortino
Posa della pietra monumentale davanti al Municipio Nuovo
Pietra rocciosa
DALLA CRETA ALLA PIETRA
TRA MITO E CREAZIONE ARTISTICA
Altrove e sempre in relazione alle ottime lezioni d'arte di
Gioacchino Bruno, si è sottolineato (a dire il vero con
qualche enfasi) che l'artista è l'arteficie di una nuova
mitologia, il demiurgo di una rigenerata epoca storica. Nel
presente ciclo didattico sulla lavorazione della creta, il
binomio arte/creazione non potrà scindersi dall'identità che
sussiste tra la materia e la coscienza, la filosofia e l'arte. Non
esiste altra disciplina creativa, antica e davvero primitiva
come la lavorazione della terra, in cui l'unione di reale e
ideale confluiscano nell'anima del mondo (Schelling) in
assoluta sinergia e per la messa in opera della verità. Un
pensiero manuale di una materia e una forma che sono dentro
come fuori di noi, in un impasto che perde fisicità e scioglie
dissolvendosi nella fattualità del tempo; un tempo che
nell'arte è ciclico, come l'anello che muove dalla nascita alla
putrefazione e dalla putrefazione alla ri/nascita attraverso il
solve et coagula (processo fisico e mentale che porta la
materia ad assumere finalmente una forma) della produzione
creativa. L'artista operando nella creta, non tanto per
in/formarla quanto per coinvolgerla nella propria amalgama
vitale, interviene nell'elementarità della sua chimica fino a
farle raggiungere quasi la perfezione della pietra e del
cerchio filosofale. Perché le forme che la terra assume sono
comunque il prodotto di uno scavo archetipico (mentale e
fisico) di riconduzione all'unico simbolico che ribolle in
fondo nella profondità dell'essere. Lavorando l'argilla per
dominarla nella sua brutalità accade che l'infinita energia e
l'infinito movimento in essa contenuti possano trovare il
momento della immobilità, che permette di cristallizzare
l'attimo impossibile, irripetibile e paradossale dell'eterno. La
forma propriamente, che sedimenta dalla distruzione delle
forme e irrigidisce nella instabilità di una materia che soffoca
nell'equilibrio e nella stasi. Si può -è vero- anche imporre
culturalmente una forma nei processi creativi, ma solo per
fare della rigidità una disarmonia caotica, e in essa una
radicale trasformazione interiore. Anche le severe costruzioni
geometriche non sono solo la sintesi di una spazialità che
ritorna all'originario eidetico, ma una stabilità molecolare, il
convergere sincronico di segni che hanno come i mandala
primariamente una connotazione temporale/rituale. Sono
tempo e non spazio, il tentativo o la tentazione di sottrarre il
tempo alla gretta esistenzialità: fuori accelerando al
parossismo, dentro (nella condensazione sferica delle
trasformazioni interiori) rallentando fino alla fissità della
forma. Una danza interiore che induce all'annullamento del
tempo, in quella condizione mitologica preintellettuale che
genera l'eterno ritorno. Realizzare la pietra dal fango
significa allora nell'opera d'arte raggiungere l'equilibrio delle
tensioni primigenie (La nostra Opera è la conversione e il
cangiamento di un essere in un altro essere, come di una
cosa in un'altra cosa, della debolezza in forza... della
corporeità in spiritualità. N. Flamel), lo stato nel quale il
mutamento del Sé opera per il mutamento del mondo; dove
la coscienza perde il carattere del particolare egocentrico e
assume quello universale (l'unum ego sum et multi in me di
B. Valentino). Isomorficamente nelle asperità proprie della
terra e nell'interiorità dell'operatore alla realizzazione di una
trasformazione alchemica demiurgica della materia prima.
L'oro, la pietra filosofale, è allora anche il simbolo della
ricchezza spi/rituale, un estrarre dall'ombra alla luce e dal
piombo all'oro che coinvolge nell'unico destino l'opera e la
vita, l'uomo e la sua storia. Ripetendo nell'arte i processi
della creazione, per trasformare poieticamente il mondo.
Travagliata riduzione fisica della materia, dall'informe alla
forma e dalla forma all'informe in un circolo presemantico
che porta alla liberazione poetica, alla triangolatura del
circolo. In una conflittualità perenne tra apertura e
occultamento, visto e non visto, detto non detto, tra vero e
falso (come nel frammento 53 di Eraclito: Conflitto/di tutte
cose padre/di tutte cose re/alcuni foggiò dèi/uomini
altri/servi alcuni/altri liberi/fece). Propriamente l'opera d'arte
è un portare alla luce scavando dal pozzo dell'essere, nei
manufatti di quella téchne (la cui funzione secondo
Heidegger è di ri-velare e custo-dire) che estrae dalla terra i
significati pre/formati nel fondo chiaroscurato dell'esistenza.
Un pensiero manuale che incide archeologicamente la
materia per liberarne l'infinità dei significati; separando,
solvendo e sublimando la coscienza fino alla sua
dissoluzione nella primordiale pietra filosofale.
Operazione
prima
dell'amalgama
terra/acqua
è
la
separazione. La separazione è il momento della morte,
dell'odio e della distruzione, del travaglio che conduce al
bianco della rinascita, alla ricomposizione (del nero e del
bianco, del bene e del male), del molteplice nell'uno.
Separare significa estrarre il mercurio dal corpo, rompere le
barriere, passare dallo stato non individuato alla forma
prima. Con una circolare eccitazione dei sensi che muove la
pulsione creativa nello spazio fondamentale della libertà. Il
nero è il momento nel quale il seme deve morire nella terra
per fruttificare, l'oscurità dei sensi, la cecità dell'intelletto;
tossico aceto filosofale che percuote, tramortisce e in qualche
modo uccide. Si comincia allora modellando dalla nigredo, il
colore più nero del nero, dalla putrefazione o mortificazione
ermetica, dalla putrefactio del Sé (o melanosi) e dal mondo
(o materia al nero). Dalla terra, all'acqua, all'aria, al fuoco la
materia si smaterializza fino a raggiungere la consistenza
filosofale. Quattro sono le fasi dell'opera (nigredo, albedo,
rubedo, citrinitas), come quattro sono le stagioni e le età
dell'uomo; in una ciclicità continua e perpetua che porta ogni
istante a redimersi nel suo opposto: dalla morte alla nuova
rinascita, dal nero al bianco. Si determina un nuovo solve e
s'impone un nuovo coagula dell'Io, passando per la
distruzione, il caos, il nulla, fino all'essere nella sua essenza.
L'artista modella l'impasto cercando di trasformare e fermare
il tempo, per superarlo e tuttavia al culmine del processo
annulla lo spazio e scopre che ogni cosa è tempo. Passando
dalla dissoluzione alla resurrezione ogni cosa si redime dalla
materialità, e la creta modellata perde e recupera l'ombra
rigenerandosi finalmente nell'arte e nella poesia. Mentre
dalla
maturazione
psichica
che
nella
trasformazione
mitologica assume il nome di libertà, la materia si scopre con
un instabile e quasi violento equilibrio: concentrazione del
tempo nel non tempo, dove l'umanità si annulla nella
spazialità individuale e si fonde col tutto. Cambiare se stessi
per ricreare il mondo, per ek-sistere (e l'essere coincide
-ereignet- con il suo accadere storico) pietrificati nel tempo e
nella storia, scultori/scopritori della verità (La verità, come
illuminazione e nascondimento del'ente, accade in quanto
poetata. Heidegger). Perché il linguaggio artistico/poetico è
autonomo e indipendente dagli uomini e dalla loro storia e
l'artista
è
arteficie
e
artefatto,
solo
l'ente
che
appropriandosi/espropriandosi della parola poetata si trova a
parlare e a creare come una necessità epocale per l'accadere
storico dell'essere.
Accade così che l'amalgama della terra attraverso i manufatti
della
cultura
manipolati
nella
fanghiglia
mitologica
pre/formale e preintellettuale porti alla luce l'essere, e
nell'essere l'origine archetipica e trascendentale della vita
stessa.
Sortino, Chiesa Madre
Autoritratto
LUCE SPAZIO VERITA'
Ancora una volta Gioacchino Bruno ha colto nel segno. Da
artista sensibile e interessato alle problematiche in primo
luogo tecniche della fotografia, legate alla visione e alla
percezione, mi ha chiesto un intervento teoretico in merito
alla luce e al suo significato, focalizzando il suo obiettivo
pratico su una questione di primaria importanza nella nostra
cultura e civiltà. Perché -e non si può davvero dargli tortoanche la visione e la percezione hanno una storia e una
cultura, e la comprensione dei fenomeni che portano alla
formazione di un'immagine aiuta comunque alla maturazione
del
linguaggio
estetico.
Certamente
accresce
la
consapevolezza tecnica e forgia in qualche modo il gusto. E
allora, come Gioacchino insegnerà con la consolidata
passione agli allievi a dare dignità estetica ad un oggetto
attraverso l'uso consapevole e ragionato della luce, così
proverò a chiarire agli iscritti di questo corso il senso dei
fenomeni visivi che andranno a interessarli. In relazione
naturalmente alla luce che dà loro un senso e un significato,
la ragione stessa di esistere. Una statura ontologica. La
nostra ottica, il nostro mondo percepito è, nondimeno delle
altre esperienze sensoriali, vittima dei pregiudizi di una
cultura secolare che da Platone in poi ha svalutato e svilito il
fenomeno e nel fenomeno la vita stessa. La comprensione di
tale primario ritaglio semantico della visione credo aiuti ad
una maggiore consapevolezza anche del mezzo strettamente
tecnico fotografico. Il percepito (l'oggetto colto con lo
sguardo) non è kantianamente un'allucinazione mera ombra
della cosa in sé, apparenza condizionata da parte delle
intuizioni intellettuali che sole aprono al misterioso mondo
noumenico, ma è uno spazio di vita concreto vissuto e tonale
(stimmung) che nei chiaroscuri della visione apre alla nonascostità, all'essere e alla verità nella sua essenza. L'occhio
non inganna, è piuttosto il ponte verso l'essenza vera delle
cose, il reale nella sua manifestazione empirica. Una verità
non più concepita intellettualmente come un'idea, pallido
contenuto di pensiero, ma controllata dalla saggezza della
percezione. Propriamente la luce è ciò che rende possibile la
presenza di ogni cosa (la forma, i volumi, le espressioni, i
caratteri), la condizione di possibilità di tutto ciò che anela
all'essere; alle volte anche drammaticamente, perché quella
del portare alla luce può anche essere un'esperienza
terrificante come la folgorazione avvenuta sulla via di
Damasco, sempre comunque ambigua nella sua impalpabile
sfuggente contraddittorietà. Non è un ente o un'idea, la luce,
ma piuttosto una necessità cooriginaria all'essere (di un
oggetto) nel suo apparire, nell'apparenza capace di velarsi e
nascondersi, di essere e in qualche modo non essere. Come la
verità, che Heidegger non per niente traduce nelle sue
allucinazioni filologiche come s-velamento, chiaroscuro,
paradossale gioco di luce-ombra. Perché (ed è questa
un'esperienza banale comune a tutti) la luce è un abbaglio
che pur permettendo la visione non è a sua volta fruibile
dalla vista; lascia vedere ma a sua volta acceca e quasi
disturba l'occhio. Proprio quel che accade per l'errore che è
parte della verità, e la deformità nondimeno costitutiva
dell'ordine e dell'armonia. E' (anche) in questo che consiste il
mestiere della fotografia: nel fermare l'inafferrabile, cogliere
nelle vibrazioni dei chiaroscuri della vita l'eterno stesso nella
sua impossibile assurda attualità. Sub specie aeternitates (in
quel in-der-welt-sein che nello scoperto illumina il ci
dell'esser-ci, direbbe Heidegger). Come la luce è ciò che
lascia essere nell'apertura dell'essere rendendo libero per la
verità l'esserci (l'uomo in quanto già da sempre gettato nella
sua dimensione storica), così l'esistenza stessa è di per sé uno
stare-fuori
nella
verità
dell'essere,
come
ciò
che
originariamente permette ad un'umanità di rapportarsi con la
totalità delle cose (L'essenza della verità, vista alla luce di
quella della verità, si mostra come un ek-sporsi all'ente nel
suo dis-velarsi. Heidegger). Naturalmente l'esistenza non è
luce o ombra; è piuttosto una specie di chiaroscuro (in cui
oscilla la primaria tensione libertà/verità) nel quale l'apertura
-la luce appunto- si configura come ciò che lascia-essere
l'ente, lo spazio ontologico nel quale ogni valore ed ogni
significato assumono un senso (una forma, un volume, un
carattere). Uno spazio però privo di fondamento e che dà
tuttavia uno scopo alle cose, una possibilità di esistenza, ai
significati di significarsi secondo quella comune dimensione
estetica e simbolica che è il contenuto della nostra storia e
della nostra cultura. Mentre l'uomo (l'esserci), il soggetto
percettivo, non è tanto l'ente privilegiato che entra in uno
strutturale rapporto con la totalità, ma là gettato nel mondo
dall'essere in modo che possa ek-sistendo proteggere la
verità. In una dimensione appunto luminosa. Nella chiarìta
come possibilità di esistenza delle cose, condizione della
svelabilità del vero; custodendo la verità dell'essere a cui da
sempre appartiene. Con la possibilità reale, negli esercizi
della visione (primo tra tutti la tecnica fotografica) di
risignificare l'esistenza del mondo, risemantizzando gli
oggetti culturalizzati e incrostati nella sedimentazione dei
significati, per sottrarli alla dittatura del segno, alla nevrosi
semantica dell'Io. Ma anche col pericolo reale di esporsi alla
sua vendetta.
In quanto già-sempre-presenti interessati al mondo, immersi
nel
trovarsi
pre/teoretica
tonalizzato,
abbiamo
una
in
un'atmosfera
precisa
familiare
percezione
della
significatività globale prima ancora di comprendere i singoli
significati, mentre i singoli significati è solo collocandosi
nella dimensione preintellettuale di un ente capace di
significarli interpretandoli, che assumono una dignità
ontologica, un senso; nel trovarsi immerso in una dimensione
che trascende la storia individuale. E dunque la visione,
intesa
come
luogo
della
comprensione,
è
sempre
condizionata e predeterminata dalla familiarità di una
pre/comprensione che la precede orientandola, facendo
venire incontro quegli enti che sono propri dello specifico di
un interesse; condizionata da un ottica angolare, da un
ritaglio semantico. La visione vede unicamente degli aspetti
della realtà e ordina il veduto secondo una pro-spettiva che è
la costruzione teoretica di un mondo. La prassi visiva non
vede il tutto, ha una vocazione alla selezione percettiva, e la
visione non è mai assoluta, ma sempre inserita in un contesto
vissuto e tonale. In un circolo vizioso nel quale il problema
non è uscire fuori dal circolo, ma starci dentro alla maniera
giusta: orientati, e-sposti pro-gettualmente, liberamente
collocati (l'essenza della verità come libertà intesa come
lasciar essere) nell'aperto di un non/senso o di un pre/senso,
che chiama all'evocazione e all'ascolto di una luce mitologica
che precede anticipandola, per poi finalmente chiuderla, la
storia dell'uomo. Dimensione estetica dell'apparire che salva
l'uomo dalla tentazione apostatica del dissolvimento nel
nulla: dove la vita è sottratta all'immobilità della morte e la
verità recupera la sua ombra, l'errore.
Per concludere: la luce è uno spazio che lascia venire
incontro (begegnen lassen) dalla radura (lichtung, chiarìta)
dell'essere gli enti; seppure chiaroscurata (lichtenden
bergens) in una circolarità scaduta la percezione fenomenica
tende però nella sua dilatazione preintellettuale a conciliare
soggetto e predicato, ad annullare la differenza ontologica tra
l'uomo e il dio (Hegel). La libertà si delinea come il
momento estetico più alto, nel quale si aprono le origini
teogoniche dell'umanità. Noi in quanto enti che avvertono il
peso dell'essere (pro-getto deietto) come possibilità di un
problema da progettare (Il nulla, innanzi a cui l'angoscia
porta, svela la nullità che definisce l'esserci, in quel
fondamento che esso è in quanto essere gettato nella morte.
Heidegger) sfidiamo da sempre il destino, per ritornare alla
dimora preegoica del linguaggio, alla ricerca di quella terra
che custodisce il senso del mondo. Perennemente in attesa
della sua storica e materialistica aurora (L'uomo storico
viene preparato alla prossimità della verità dell'essere...
ogni specie di antropologia e di soggettività si trova qui
abbandonata... e viene ricercata la verità dell'essere come
fondamento di una nuova posizione storica. Heidegger).
Anche in un'istantanea fotografica echeggia allora la
possibilità di risignificare un'antropologia paralizzata dalla
sua storia metafisica; attraverso un uso sapiente della luce
che proietta la visione verso le cose stesse ed espone nel
chiarore di quella libertà che è in fondo l'essenza stessa
dell'assoluto. Operando creativamente per la messa in opera
della verità (La verità, come illuminazione e nascondimento
dell'ente, accade in quanto poetata. Heidegger) e comunque
memori sempre del fatto che l'artista è l'origine dell'opera,
l'opera è l'origine dell'artista.
IL CORPO IN ANTROPONTOLOGIA
SEMIOTICA ARCHEOANATOMICA
Ascoltate, fratelli, la voce del corpo.
Esso parla del senso della terra.
F. Nietzsche
Se gli antropologi hanno guardato con interesse ai modi del
sostentamento umano nei risvolti sociali ed economici
all'interno di una comunità, con un occhio pure attento alle
strumentazioni, per l'antropontologia il corpo segnato dal
significante del lavoro, piegato e trasformato dagli oggetti
culturizzati dalla funzione, modificato dagli utensili risulta
essere di primaria importanza nella ricognizione ontologica.
Nello specifico di questo studio che si articola nella vita del
siracusano, si cercherà di mettere in luce proprio le
corrispondenze tra i segni anatomici e quelli prodotti dall'uso
quotidiano degli oggetti. La Sicilia sud-orientale è emersa
dal Terziario; a sud dell'Etna, in particolare nei Monti Iblei
che culminano nel monte Lauro (m.955) sono affiorati
terreni di natura calcarea, com'è chiaro dalle numerose
caverne, grotte cave presenti nell'area. Appunta Gioacchino
Bruno
che
i
primi
uomini
utilizzavano
pietre,
preferibilmente dure come ossidiane e selci, scheggiate a
forma di raschiatoi, accette, coltelli, lancie e punte per le
frecce. Accanto a questa prima rudimentale attrezzatura, si
delineò anche la necessità di effettuare scambi di merci con
le tribù vicine, dato che non in tutte le località della Sicilia
orientale abbondavano quelle pietre. Nacquero allora i primi
commerci facilitati dalla scoperta della ruota; regolati dagli
albori, cosa fondamentale, non dalla mediazione di un valore
simbolico come la moneta o l'oro, ma dallo scambio delle
materie prime in particolare. L'uomo preistorico, abitatore
inizialmente di caverne e grotte, tenderà successivamente a
scendere a valle verso la costa, seguendo il corso dei fiumi e
così disporre in ogni momento dell'acqua. Lungo le piane
costiere costruì capanne e frasche rinforzate poi con
palizzate; inalzò quindi in paludi e laghi palafitte. Il fuoco,
scoperto forse anche in seguito alle frequenti eruzioni
vulcaniche, facilitò la vita e riscaldò gli inverni. La vita di
relazione fu quindi arricchita dal linguaggio verbale e non
più gestuale, sempre più articolato e utile alle funzioni
diversificate dei bisogni della comunità. E' chiaro da questa
prima analisi la precarietà dell'uomo e gli sforzi compiuti per
vincere le asperità del quotidiano e in sostanza esorcizzare la
morte. Essendo ogni oggetto e lo spazio circostante un luogo
marchiato da una disperazione ontologica nella precarietà
del vivere, da manipolare per la sopravvivenza, si
eleborarono tecniche prima che per il sostentamento per la
coservazione del corpo in ogni circostanza. La vanga, la
zappa, la falce messoria (utile a mietere i cereali falciandoli
dalla terra), il falciolo, la falce fienaia, il rastrello, la forca o
tridente (che serviva a spandere, rivoltare e ammucchiare
l'erba falciata), il falciolo, la scure, la roncola, la sega. Il
corpo veniva svuotato dai significati imposti dai bisogni
primari, e prima ancora dagli attrezzi/utensili e dalla loro
specificazione
produttiva.
Ed
era
un
corpo
quindi
strumentalizzato, surcodificato, ridotto all'essenza nel lavoro
come capitale sociale, portatore di un significato che
trascende la carne e appesantito dalla metafisica. Corpo
come macchina ri/poduttiva, sfiancato dalle maternità,
sformato, intossicato dall'idea, sepolto dall'ideologia; un
corpo irrigidito nei significati, corpo organico votato alla
riproduzione o alla fatica, carico dei segni della specie, e
dunque dell'essere nell'umano nella sua pensantezza, con
l'insostenibile presenza del dio assente.
Ascia; porta quagghiu, contenitore ligneo per la confezione della ricotta
Scaldino in rame; bilanciere
Il corpo senza organi, sver/gognato dalla carne, è quello che
nelle mani produce comunque l'essere, come un teatro
ideologico, di/segnato dal significato di una colpa che non
ha, piegato dalla malattia, alienato, sconfitto dalla divinità,
schiacciato dal peccato, ricettacolo di un'anima che non c'è,
di uno spirito che lo umilia e abbrutisce, che lo rende
schiavo. Un corpo con le catene, immolato sul legno di una
virtù che trascende e paralizza la vita, che la disprezza, che è
anatomizzato e svilito ad organo dalla scienza, ridotto a
simulacro da una croce che intossica nel sangue come un
veleno che scorre nelle vene; il corpo come merce, accumulo
di sudore, fatto da mani che impastano la vita come una
richiesta di salvezza, lingua che gusta, occhi che godono,
orecchie
che
ascoltano.
Il
corpo
come
ricettacolo,
anestetizzato, imprigionato, il corpo decentrato e mortificato,
sfiancato, decodificato, semantizzato, il corpo/funzione,
avulso dal piacere, ospedalizzato, patologizzato come
organismo da sanare, forza/lavoro da sfruttare, carne da
redimere, inconscio da liberare. Il corpo piegato da una
sacralità simbolica, santuario ideologico da ricodificare.
Abitando il mondo il corpo assorbe abitudini e forme, attrae
oggetti che si significano nelle mani, trascendendosi
nell'oggettività di pure cose per ricomporsi semanticamente
in oggetti uso-per, dove ogni gesto ha una precisa funzione e
assume un senso, e dunque il corpo come funzione nelle
dis/funzioni. Marchiato dalle malattie, che lo segnano come
una traccia indelebile nella carne, scolpito nell'infermità dalla
memoria e dal passato. Le società arcaiche iniziavano alla
vita sociale con la tortura, des/signando il corpo come
portatore dei segni della comunità, e dunque nelle
deformazioni con/segnavano l'uomo al gruppo. E questo
fluttuare del simbolo nei corpi produceva comunque una
circolazione di senso, divenendo il mondo e non più il corpo
atomizzato
in
un
altare
ideologico
il
significante
determinante dell'essere nell'umano. Quando Gioacchino
Bruno ad esempio a proposito delle suppellettili, scrive che
erano modeste, che mancavano armadi e rare erano le sedie,
dilungandosi poi in un dettagliato inventario degli oggetti del
passato (il letto era posto su due cavalletti e alcune tavole; la
pentola più comune era in terracotta e poggiava sul fuoco,
alzata da una catena; piatti, scodelle, caraffe, contenitori per
l'acqua e il vino, bicchieri, bottiglie e cucchiai erano in legno
o terracotta, raramente in vetro; per l'illuminazione si
adoperavano lumini ad olio, mentre le candele in cera erano
un lusso; rari erano gli attrezzi in ferro), mette in evidenza il
corpo, in quanto essere in un mondo che lo circonda
significandosi negli esercizi della sua anatomia animale,
come trascendenza di significati, sblocco e uso delle cose. E
dunque il corpo primitivo pre/industriale si manifestava
come fuori di sé, nell'apertura o relazione tra l'Io e il mondo,
ottenuta non da una comunanza intellettuale ma con l'uso
delle mani, nella presa che rende l'oggetto accessibile
all'ispezione, significandolo e significandosi, e dunque la
cosa, l'oggetto/utensile come già carica di significati
antropologici. Nell'afferrare un oggetto l'uomo cercava e
cerca ancora una possibilità di salvezza o redenzione, la
vittoria sulla morte, manipolandolo per riempire lo iato
angoscioso che separa l'Io e il mondo. Le mani afferrano,
analizzano, compongono e scompongono con una sequenza
di gesti che abituano non solo alla cosa/oggetto ma al mondo
stesso; e così nascono abitudini che fanno riconoscere le cose
come enti per l'esserci e creano autocoscienza, indicando al
corpo i limiti ma anche le possibilità dell'Io. Perché il senso
delle mani non sta nello scheletro o nei muscoli, nei tendini o
nei neuroni, ma negli oggetti che può afferrare, e le cose
prima che nello spazio e nel tempo si dispongono secondo
l'orientamento dato dal corpo nei suoi esercizi produttivi.
L'abitudine è un sapere che nasce ed è già nelle mani nel
prendersi cura delle cose, come uno spazio culturale
orientato e caricato di sedimentazioni simboliche. Secondo
un'apertura mitologica, ordinatrice delle cose e custude di un
senso, dato da un campo in cui il corpo può muoversi
pre/sente con una progettualità finalizzata in ultima analisi
alla
conservazione
della
vita,
pur nelle
aberrazioni
ipercodificanti dell'ideologia (Gli strumenti, già all'epoca
paleolitica, possono essere considerati come concetti di
pietra, essi collegavano i bisogni e i pensieri degli uomini a
livello di realtà delle cose. A. Gehlen, Le origini dell'uomo e
la tarda cultura, 1975).
Pentola in rame, XIX sec.
Rubinetto in rame; quarara, caldaia per la lavorazione della ricotta
Botte; chiave di carro intagliata
E questo essere parte di un sistema simbolico che coinvolge
l'anatomia umana modificandola, si vede bene dalle analisi di
Gioacchino Bruno che dedica all'aratro e all'aratura, nella più
estrema forse delle esperienze del corpo sfiancato dal lavoro,
che è il peso del giogo (diviso a seconda dellla specie
animale in giogo da corna, fissato dietro le corna con una
cinghia in cuoio lunga 3-4 metri e larga 1,5-2 centimetri, o da
nuca). Dopo una circospezione del terreno/campo che
divideva la terra in lèggia (non troppo fertile), pisanti (dura
da lavorare), ranni, il lavoro di aratura iniziava con la
rumpitina (si rompevano i timpuna di terra), e generalmente
si arava a ventaglio da destra verso sinistra trasversalmente,
mentre si seminava in senso inverso. Si arava con l'aratro a
du', che era fatto in legno con vomere in ferro, trainato da
due bestie. Gli animali erano tenuti insieme dallo iochu,
giogo, asta in legno lunga 1,5 metri. L'attrezzo veniva
appoggiato ai panneddi (cuscinetti allungati in cuoio o
olona), riempiti di paglia e cuciti intorno ai maniuna, pezzi di
legno piegati ad arco. Per legare direttamente il giogo
all'animale si usavano i paiari (cinghie che partivano dalle
estremità dei paneddi, passavano sotto il collo) che si
collegavano al centro del giogo, dove c'era un anello in ferro
o legno duro (cuddaru) che serviva per trattenere la pèrcia,
l'asta dell'aratro lunga 4 metri circa. Nella parte superiore
della pèrcia c'erano dei buchi in cui andava infilato chiodo
che, insieme alla tavuletta e al cugnu, serviva a regolare
l'angolatura dell'aratro. A seconda dell'angolatura, un aratro
poteva essere puntìu o chianu, appuntito o piano. La punta
inferiore della pèrcia era intagliata in modo da incastrarsi in
una fessura a metà circa dell'aratro, costituita dalla
vòmmaria, il vomere, la parte metallica appuntita destinata a
smuovere le zolle. Questa era la parte più importante
dell'attrezzo. Per guidare i muli, e più raramente i buoi, il
contadino si serviva di due corde che terminavano al capistru
dell'animale da tiro, ed erano collegate alla manuzza (manico
o impugnatura dell'aratro). Per la pulizia dell'aratro si
utilizzava il varbùscia, un bastone in legno con paletta in
ferro ad un'estremità e un pezzo di corda all'altra, che serviva
anche per spronare gli animali. Un tipo di aratro più recente è
quello a sulu, più leggero e maneggevole, costruito quasi
esclusivamente in ferro e tenuto insieme da saldature e
bulloni. Per condurlo bastava un solo animale collegato a un
bilanciere, tramite un gancio al centro incastrato in un anello
posto nella parte anteriore dell'aratro.
Già da questa ricognizione fenomenologica si vede come
l'essere nell'umano si dilati in un campo che circonda il
corpo e che il corpo può utilizzare come una sua funzione,
come un organo sog/giogato. In tale spazio esistenziale le
cose non sono più semplici cose, ma cose/utensili, oggetti
d'uso per i bisogni del corpo, senso dei rimandi che
collegano culturalmente gli oggetti. Avvicinandoli come ciò
che è allamano (zu hand), e trascendendosi come ordine di
senso delle cose, la coscienza si forma proprio maneggiando
gli oggetti che si offrono alla manualità, a cui si applica
l'intenzionalità del bisogno. La mano esplora il mondo, nutre
il corpo, lo accarezza e nella possibilità dell'afferrare le cose
dà modo di svilupparsi alle attività cerebrali superiori. Il
gesto mosso dalla mano è un segno significante, progetto,
etica; è il veicolo delle intenzioni che tendono a ordinare le
cose, a creare una relazione col mondo. Il mondo/ambiente è
allora proprio una rete di significati già costituiti, retaggio di
altri che prima di noi lo hanno abitato lasciando tracce del
loro essere vissuti. Venire al mondo significa venire in un
certo mondo già popolato di significati; e noi siamo liberi in
quanto donatori di senso, da cui deriva che l'attribuizione di
un significato non è un'operazione puramente intellettuale
ma dipende prima di tutto dal corpo nel suo essere nel
mondo intenzionalmente, progettualmente, con una finalità
pratica.
Coltello/forchetta; trapano a mano, XIX sec.
Il mondo è il luogo in cui afferriamo gli oggetti per la nostra
salvezza, è uno spazio vivo ma sovrastrutturato da una
metafisica delle idee, marchiato da una disperazione antica
che cerca nell'elaborazione di tecniche sempre più raffinate
di sfuggire alla morte (magari pure alzando al cielo il Totem
del capitale come segno della benevolenza divina). Uno
spazio allora dominato prima che dalle idee dal desiderio,
dalla sessualità che è in fondo una visione e un modo di stare
nel mondo; dalla carne che ha il potere di trasformare le idee
in cose. Il corpo portatore di una memoria, come superficie
di scrittura che assorbe le leggi della comunità tatuandolo
(cicatrici, deformità, vaccinazioni, battesimi). Incarnando un
significato dispotico che annulla l'ambivalenza, la sua
disponibilità ad altre aperture di senso, il corpo non dice più
nulla di sé, ma del significante che l'ha di/segnato (e infatti il
potere si mantiene fino a quando si fanno funzionare i corpi
secondo un regime di segni, come nel segno della croce).
Compito del significante
Rasula, raschiatoio per la zappa; cucchiaio in legno
tiranno è quello di svuotare di senso tutti gli altri segni del
corpo (se il corpo è una scena di questo significante, o/sceno
è ciò che scopre le tracce rimosse dalla nostra storia
simbolica). E così nel segno che annulla l'ambivalenza
simbolica la riproduzione sessuale diventa riproduzione
sociale, il corpo femminile valore di scambio, in quanto
corpo/merce
dispensatore
di
piacere
garantisce
la
circolazione dei beni e le relazioni sociali, mentre la
differenza sessuale trascende il significato biologico e
diventa esercizio per il potere. Il corpo soddisfa i suoi
bisogni nell'uso delle cose, e negli oggetti non c'è alcuna
metafisica
ma
una
trascendenza
di
significati
che
sedimentano in quello principale preminente del lavoro (A
prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia.
Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa
imbrigliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e di
capricci teologici. Marx). Il feticismo della merce nasce
proprio col valore di scambio, ossia con l'ingresso della
merce nel mercato, dove i rapporti sociali si mascherano
sotto forma di qualità e si deteriorano nell'egoismo del
possesso.
Coltellino per l'incisione del legno
Arcolaio, scorcio; macchina per affilare i coltelli
Aratro
semiotica fenomenologica di un significante
Il corpo porta i segni della rappresentazione sociale, come un
marchio nel quale si contraggono abitudini e la grammatica
del lavoro quale timbro da codificare in tutti gli esercizi della
vita umana. Esiste una mistica del quotidiano, soprattutto
nell'essere il corpo una funzione per la produzione (Il corpo
è un carniere di segni, il segno è un corpo disincarnato. J.
Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1976), che
vuol dire mani che hanno cura della terra e dei suoi frutti,
che hanno assorbito a livello cultuale il significante
Collare bovino intagliato con scene rituali antropomorfe
determinante della fatica. Mani che pregano, che si
detergono la fronte, mani che nutrono e a/mano, che
proteggono, ma sempre comunque dolenti e stanche. Le mani
afferrano le cose e in esse la vita come a fare una domanda,
immerse nel mondo, in un mondo che non solo circonda
l'uomo ma si partecipa della vita stessa; raccolgono la terra,
il chi (dell'esserci, senza volto o risposta), dove la vita si
dissolve come in granelli che scivolano dalle dita e la
domanda rimane sospesa nel nulla, nel silenzio. E allora le
mani afferrano oggetti e nell'afferrare vanno al di là del
segno
surcodificato
nelle
cose
allamano/sottomano,
interpretano come un richiamo e un'esortazione a uscire dalle
catene dei significati già codificati. Perché è la vita a
chiamare, ad ordinare il vissuto, a orientare, a dare una
Disegno in sezione di un collare incampanato ovino
speranza di salvezza e redenzione. E la salvezza non la trovi
nelle idee o nella fede, ma nelle mani che cercano scavando
nella terra, nella prassi e nella totalità dell'esistenza, come un
occhio che raccoglie il tessuto di relazione tra gli oggetti, il
contesto dei rimandi in cui vive il senso autentico delle cose
e dunque dell'uomo. E questo senso del sacro lo avverti nella
domanda, nel chi, nel nulla (il problema dell'essere posto
nell'esserci come interrogativo), nelle dita che afferrano gli
oggetti ipercodificandoli a loro volta, com/prendono il
mistero che è nelle cose, uccidono il significante e gli
mettono un nome sulla tomba. Gesti quotidiani ripetitivi,
dovuti più alla natura dell'attrezzo che all'anatomia del corpo,
gesti simbolici che delimitano il confine dei significanti, che
tolgono l'ambivalenza e delimitano un confine, stabiliscono
un dominio di trascendenza dell'oggetto, facendone valore e
visione del mondo. Mani che parlano della vita, che magari
si alzano disperate al cielo, ma che ogni giorno portano le
cicatrici della fatica, che implorano il dio assente della
salvezza mentre sepelliscono gli affetti. Mani che conoscono
la morte, ma che in qualche modo vincono sull'ineluttabilità
della fine; così che quando la fatica ti spezza la schiena e il
sudore scorre copioso sulla fronte capisci che il tuo posto è la
terra, e allora la rispetti perché è là che riposa la tua verità
Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete
a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze (F.
Nietzsche).
L'aratro è stato lo strumento principale per ridurre la fatica
nei campi e dunque la condanna nell'esistenza, come un
insieme di tecniche e un raccoglitore di significati che si
muove nel mondo, afferrato dalle mani, segnate dai calli che
le ripercorrono come una grammatica dell'esserci, il ci
dell'uomo, quello in cui sedimenta una coscienza e dove una
coscienza
prima
che
tecnica
diventa
linguaggio ed
espressione (Cassirer). Come una finalità sulle cose inserita
nel bisogno della conservazione, costituendo relazioni
culturali
(mani,
terra,
erba,
frutti,
animali,
cielo/terra/mortali/divini), dove si toglie il di più dal suolo, si
scava, si semina la comprensione e si raccoglie l'essere come
un progetto in cui l'esserci trasforma il corpo, lo nutre, lo
mantiene in vita e delle volte lo ammala e lo uccide. L'aratro
lo si controlla stando dietro (scrive Gioacchino Bruno nella
sua analisi fenomenologica dell'attrezzo). Ve ne sono di due
tipi; il più antico, che si può considerare come un'evoluzione
della zappa, era l'aratro a chiodo (derivato dall'Oriente del IV
millennio). Quello più tardo, più pesante, fornito di un
vomere modellato per rivoltare il solco, compare dal I sec. ed
era più adatto per i suoli di alto spessore. Interessante era
l'uso
dello
strumento
in
relazione
al
corpo,
nelle
modificazione che la struttura anatomica veniva ad assumere.
Nel processo di produzione del frumento le prime fasi della
lavorazione della terra restavano affidate alla forza degli
animali da tiro, buoi o muli, aggiocati all'aratro di legno. I
bovini erano preferibilmente impiegati sui terreni pesanti o
incolti (gerbi), in quanto col loro passo lento e poderoso e la
loro struttura robusta permettevano di vangare e sollevare
(ammassari) una maggiore quantità di zolle. Gli animali si
legavano al giogo (iocu) per mezzo di due strisce intessute di
cordicella ricavata dall'intreccio della foglia di palma nana.
Queste giunture che si facevano passare sotto il collo dei
buoi erano dettere paiuli. L'aratro ibleo, era a chiodo (aratru a
chiovu), trainato da una coppia di buoi (paricchia), ed aveva
una struttura interamente in legno composta dal giogo, la
bure e il ceppo a cui era attaccato il vomere di ferro. Al
centro dell'asta del giogo (che assolveva la duplice funzione
di congiungere gli animali da tiro tra loro con il timone; e
dunque il giogo era il punto di integrazione con l'animale ed
era posto alla base delle due naturali gibbosità delle bestie),
in un'apposita scanalatura, si applicava una correggia in
cuoio (cunseri) che tratteneva un anello in ferro di forma
ellittica (maniuni o mariuni), all'interno della quale si
introduceva un'estremità della pertica fermata da una
chiavarda (chiavigghia o chiavi). La bure (pertica) era una
stanga sottile e lunga più di tre metri che collegava il ceppo
al giogo. La base dell'aratro era composta dalla stegola
(manuzza) che fungeva da impugnatura e permetteva la
manovra da parte del contadino, e dal dentale (puntale o
dintali) alla cui estremità si inseriva il vomere (ommara) in
ferro con la punta in acciaio, a forma semiconica. Il giogo
(nei suoi sistemi alternativi di fissaggio del giogo sul collo
degli animali), prevedeva il ricorso al varruneddu e al
sidduni. Ai fini di un'aratura ottimale era determinante
l'esatta misurazione dell'angolo che si veniva a formare tra la
pertica e il dentale. Bisognava tenere sempre l'aratru
aggarbatu e mai a puntuni, per evitare che gli animali
facessero troppa fatica nella trazione. La tinnigghia, un'asse
di ferro ricurva talvolta appiattita, traforata o filettata
introdotta nel ceppo fungeva da profime, ovvero da
regolatore della profondità del vomere. Alla tinnigghia si
assicurava la bure tramite un cardiddu. L'estremità inferiore
curidda della pertica si incastrava nella cavità aperta del
gomito del dentale, saldata da un cuneo in legno, il cugnu.
Questo piccolo artificio si rivelava un fondamentale
elemento mobile a garanzia della stabilità e dell'equilibrio di
tutta la struttura. Nei casi in cui ad esempio il vomere non
solcasse sufficientemente la terra, l'aratore poteva sistemare
u cugnu (posto sotto la cudidda della pertica) ristabilendo la
corretta distribuzione dei pesi e della forza. Due redini erano
collegate alla manuzza e servivano a orientare la direzione
attraverso la cavezza (capistru) o la nasiera (naseri), che
erano una sorta di freno. L'uso di questo tipo di aratro a due
animali venne meno con l'avvento dell'aratro a forbice a
scocca, per il quale bastava un solo mulo. Intorno agli anni
trenta fecero la prima comparsa gli aratri in ferro, disegnati
secondo la forma del vecchio strumento, saldati per lo più in
un unico pezzo.
Evoluzione dell'aratro
Da questa grammatica dell'aratro è evidente come le mani, il
corpo, l'anatomia del contadino partecipino dell'attrezzo
modificandolo
e
a
sua
volta
modificandosi
antropologicamente. Il corpo umano è centrale in tutto il
contesto strumento/terra/sostentamento, e pone all'evidenza il
mondo come un contesto di rimandi costituito dagli
oggetti/enti come uso-per, come aver-da-essere, un'esistenza
articolata nella polarità in-grazia-di (umwillen: il corpo e il
suo sostentamento come finalità, causa efficiente) e in-vistadi (woraufhin: in quanto orizzonte, finalità del produrre,
l'orizzonte/raccolto in cui riorganizzare l'insieme dei rimandi,
il tessuto culturale). E dunque l'esserci, l'uomo, come ingrazia-di-cui, intenzionalità che di causa in causa, utensile
dopo utensile rimanda come in un circolo alla vita umana,
alla conservazione e alla salvezza. Le cose, gli utensili tutti,
sono inseriti in un'opportunità (bewandtnis), che è la
generale corrispondenza di tutte le cose, un organizzarsi
degli oggetti in un fine che tutti li raccoglie. L'in-essere
appunto, nel trovarsi familiare (vertrauen) non circondati ma
significati dalle cose, abitati, abituati fino a prendere
abitudini, ritmi e sistemi di vita, a innalzare Totem e farsi
portatori di codici simbolici. E/sistere vuol dire esserci
(Dasein) in una relazione di senso, nella vita nei suoi esercizi
quotidiani; nel corpo segnato dalla stanchezza dell'essere in
un mondo, dove in indica il fatto che il soggetto non esiste se
non in relazione ad un altro, ed è tale relazione a generare gli
oggetti e l'oggetto è l'effetto della relazione.
Finimenti in cuoio e ferro per il giogo equino
Anima della cavagna (contenitore per la ricotta); ferro a carbone
Il mondo è un contesto di rimandi, l'opportunità quale
tessuto della relazione chiarisce che tali rimandi sono
orientati sulla base della struttura dell'esserci, dell'esserci in
quanto chi, in-grazia-di-cui. La relazione col mondo si
delinea allora propriamente come una grammatica degli
utensili, una rete allamano, che vuol dire l'utilizzabilità, la
maneggiabilità delle cose (una cosa è in relazione ad un'altra
in quanto -als- rinvia ad altro per segno, morfologia o
significato); perché l'esserci è nel mondo per fare qual/cosa,
vivere, produrre, sostentarsi, amare. Questo qualcosa di
antropoietico è ed era il lavoro che forma e redime, dà un
orizzonte di senso e una possibilità, un orientamento totale
che va dalla luce del mattino al tramonto del sole, appunto
nei chiaroscuri (lichtenden bergens) di un giornata fatta di
rimandi
e
sensi/non
sensi
e
in
cui
cresciamo
e
com/prendiamo, ci troviamo (befindlichkeit) a vivere. E il
lavoro, in quanto significante surcodificante e il corpo
stremato dalla fatica come santuario ideologico raccolgono il
di-verso nell'uni-verso (U. Galimberti), assorbono i corpi e li
modificano nell'anatomia e nella fisiologia, fagocitano i
simboli e li decodificano come una loro funzione, ingoiano
parole e le trasformano in un linguaggio tecnico. Attraverso
la mano (hand) che afferra la vita quasi con sacralità e con la
cieca speranza non di una redenzione, ma di raccogliere nella
terra seminandoli i frutti dell'assoluto, dell'essere.
La salvezza è data certamente dal lavoro, ma non in quanto
accumulo di capitale finalizzato a confermare l'uomo come
parte di un processo divino (L'etica protestante e lo spirito
del capitalismo. M. Weber), piuttosto come fluttuazione del
corpo quale produttore di valori e degli accumuli di
eccedenze nella comunità; quasi una mistica economica che
portava -ad esempio nella Sortino Medievale- a vivere per lo
più di scambi e nei tempi più antichi addirittura nella
distruzione della parte maledetta della merce prodotta.
L'eccedenza (il potlàc di cui parla Mauss e la dépense di
Bataille), l'accumulo di beni non più scambiabili e utili solo
ad arricchire il singolo, creando squilibri all'interno della
comunità e la formazione del potere. Il potlàc era infatti la
distruzione artificiosa della ricchezza e in essa dell'autorità,
un sacri/ficio, un fare il sacro e la sacralità consisteva nella
distribuzione (dell'essere nelle cose) in eguale misura, dando
modo al simbolo e all'essere di vivere l'ambivalenza e di
fluttuare
liberamente
nel
gruppo
sociale,
senza
la
ipercodificazione del corpo come funzione per la produzione
e la trascendenza simbolica delle cose nel loro valore di
scambio (ad esempio l'oro). Mauss nel Saggio sul dono.
Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche,
racconta che per i primitivi le merci non erano cose, ma fatti
sociali, e dunque tendevano a far passare il simbolo della
prosperità nella comunità.
Affumicatore per l'allevamento delle api
L'epoca moderna, attribuendo un valore ideologico alla
merce prodotta, una trascendenza, ha fatto in modo che i beni
della terra e della fatica fossero invece scambiati per il loro
valore cultuale (significato dal simbolo sovrastrutturante e
religioso del denaro o dell'oro), interdicendo lo spreco e la
distruzione
della
parte
maledetta;
ha
risolto
cioè
l'ambi/valenza primitiva nell'equi/valenza che annulla le
differenze (U. Galimberti), in quanto portatore di un
significante autoritatrio e dispotico che annulla i flussi dei
significanti trascendendo le cose. Marx sarebbe stato molto
chiaro su questo punto: Una merce si trova in forma
generale di equivalente in quanto viene esclusa da tutte le
altre merci. E' solo nel momento in cui questa esclusione si
limita ad un genere specifico di merci, la forma unitaria
relativa di valore del mondo delle merci ha raggiunto la sua
consistenza oggettiva e validità generalmente sociale.
Carretto siciliano e particolare di un laterale
Platone, e tutta la mistica economica da lui derivata, col tò
agathòn (ciò che rende buona una cosa e la fa essere o non
essere) ha mosso ad una metafisica della merce cercando
nella trascendenza il valore e il senso delle cose. E' proprio
nell'oro che Marx ha rinvenuto tale trascendenza, che chiama
equivalente generale, il totem di un'identificazione sociale,
appunto una pre/valenza. Nel grano (significante/sinonimo di
denaro che allude ad una scambiabilità in moneta del cereale,
e in essa ad una condivisione di un simbolo comune) e
dunque nella cerealicoltura estensiva (già dall'età spagnola e
borbonica), che la Sicilia ha fornito a buona parte della
Penisola, dalla semplice produzione finalizzata allo scambio
al mercato la degenerazione nel simbolo dispotico è evidente
in tutta la storia della comunità isolana, con la de/formazione
dei borghi rurali concentrati in mulini e macine, in
cittadine/città di commercio.
Mensole, casci ri fusu e chiavi di carro
Queste dinamiche sociali tese ad un'equità nel gruppo di
appartenenza sono ben visibili anche nella storia sortinese,
ripercorrendo la quale come ha fatto Gioacchino Bruno, è
venuto alla luce che il quartiere nobile della Diruta (Curditta)
era praticamente isolato come una fortezza dal resto della
cittadina, e che il simbolo di comunione tra ricco e povero
era il senso del religioso (si incontravano solo in occasione
delle ricorrenze cristiane), a cui però il povero non si sentiva
vincolato, nonostante la legislazione tendente a conservare la
subordinazione sociale, ad immolarsi fino all'estremo. E
infatti sottolinea Gioacchino Bruno che In tali ricorrenze il
nobile concedeva l'elemosina e il povero la riceveva. La
religione (possiamo affermare) poneva il ricco e il povero
sullo stesso piano, ma nel contempo li diversificava
rafforzando quel divario sociale esistente tra le due classi. Il
contadino non aveva col signore altri rapporti diretti; infatti
chi amminastrava il suo patrimonio erano i notai, che
registravano i donativi dovuti dal contadino al proprietario.
Tale attività veniva esplicata all'interno del paese nella
cosiddetta "Casa comunale", una costruzione fatta edificare
dal Gaetani nel 1749 dove erano custoditi i registi notarili.
Nel 1646 la Sicilia fu investita da una inesorabile carestia...
A tale castigo divino Sortino non poté sottrarsi e i cittadini
dopo un anno di stenti, spinti dalla fame, si ribellarono al
marchese, e nel 1647 incendiarono la Casa comunale con
ciò che conteneva. L'economia del paese era basata
sull'arboricoltura (vite e ulivo), la pastorizia per la
produzione di latticini, il miele, e l'artigianato con una
compenetrazione straordinaria tra arti e mestieri in
particolare in occasione della costruzione delle chiese. Nel
museo di Nunzio Bruno sono conservati e valorizzati gli
strumenti di lavoro dell'epoca. Per lo più oggetti manuali, in
cui si avverte ancora la fatica della presa, la stanchezza della
manipolazione.
Molletta per carbone; piatta per la raccolta dell'olio (la forma dell'oggetto deriva più che
dall'anatomia umana dalla funzione di travaso a cui era preposto)
Frammenti dell'essere, questi attrezzi d'uso, che sono come
segni di una scrittura primitiva, scambiati per fare circolare
un senso che li trascende, strumenti di un equivalente
generale che di volta in volta assegna ai loro nomi un valore.
E il valore consisteva nel sedimetare nel significato sociale
del lavoro e della ricchezza prodotta, la relazione dello
scambio. L'oggetto prima di essere un mezzo di sussistenza
aveva un significato dinamico sociale che garantiva nell'uso
la sopravvivenza della comunità (La struttura del villaggio
non fa che confermare il gioco raffinato delle istituzioni,
esso rappresenta e assicura il mantenimento dei rapporti tra
gli uomini e l'universo, tra la società e il mondo
soprannaturale, tra i vivi e i morti. Lévi-Strauss). Proprio
l'opposto di quanto è avvenuto nella modernità in cui il
surcodificante è diventato autoritario/preminente all'interno
del codice: i bisogni primari sono risolti in un'etica alta che
umilia però la vita, in una trama di simboli e parole che
hanno alienato l'uomo da se stesso, espropriato della terra,
ridotto ai margini della produzione economica, umiliato da
un dio che si fa sentire con una voce crudele
I missionari impararono che il mezzo più sicuro per ottenere
le conversioni consisteva nel fare abbandonare ai Bororo il
proprio villaggio per un altro in cui le case fossero disposte
in linee parallele. Disorientati, senza potersi più riferire ai
punti cardinali, privati del piano che costituisce una prova
del loro sapere, gli idigeni persero rapidamente il senso
delle loro tradizioni, come se il loro sistema sociale e
religioso fosse troppo complesso per potere fare a meno
dello schema reso manifesto dalla disposizione del villaggio
e continuamente evocato attraverso i loro gesti quotidiani
(Lévi-Strauss).
Macchinetta per tappare le bottiglie, epoca XX sec.; tosa equini meccanica del XX sec.,
ultima esposizione del museo
Il passaggio dall'essere al dio ha comportato proprio questa
degradazione dei simboli e in essi delle elementari strutture
delle società, dall'ambivalenza fluttuante del simbolo
(symbàllein), nel dia-bàllein di un significato supremo che
impone come reali i segni del suo codice, sopprime ogni
forma di reversibilità simbolica e trasforma in Diavolo
l'alterità (e la felicità, l'eudaimonia, nel daimonion, il
demoniaco), ogni tensione che il Logos non riesce a
comprendere e redimere. Una deformità conforme alla
metafisica dei costumi (e poi del diritto e delle leggi), che fa
della carne e della sessualità il veicolo di un sistema di segni
prepotente che trascende la verità biologica del corpo e lo
trasforma in un gioco di potere. Servendosi del corpo
sfiancato dalla fatica, umiliato come santuario ideologico e
fonte dell'alienazione e funzione dell'autorità; passaggio
storico/culturale e antropologico che Marx conosceva bene
La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con la carne
cotta o mangiata col coltello e forchetta è una fame diversa
da quella che divora carne cruda aiutandosi con le mani,
unghie, denti. La produzione non produce perciò solo
l'oggetto del consumo, ma anche il modo del consumo, essa
produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente.
La produzione crea quindi il consumatore, perché non
fornisce solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno
al materiale.
Dima, sagoma per intagliare la chiave di carro
Braciere completo
Contenitore di sostanze chimiche per la disinfestazione di alberi da frutto
Ruota di un carretto
Dall'essere al dio
degenerazione antropontologica nel diritto e nelle leggi
Il passaggio dall'essere a dio ha naturalmente prodotto una
degradazione dei simboli originari nelle forme di culto
popolare, e questo è visibile anche nella storia del territorio
della Diruta e della sua devotissima gente e nelle leggi e
norme che ne regolavano la vita. Gli stralci di banni et
ordinationi, estratti dal Libro rosso di Sortino di Lidia
Messina riproposti in queste pagine rendono bene l'idea di
come il passaggio ontologico dell'essere in un significante
dispotico surcodificante abbia certamente dato un collante e
una identità alla vita comunitaria, nello specificare il diritto
come derivato essenzialmente e giustificato in quello
biblico/canonico, ma anche contribuito allo svilimento
dell'uomo comune e dei suoi diritti basilari nei confronti del
baronato feudatario, come è ad esempio avvenuto nel
periodo di governo della famiglia Gaetani (1477-1796).
Per quelli che biastemano il nome di Dio
Primo perché appartiene al buon governo primariamente
osservare a far osservare lo culto divino e la religione
cristiana per lo presente banno si provede, ordina e
comanda da detto signore di detta terra di Sortino che non
sia persona alcuna di qualsivoglia stato, sesso, grado e
condizione... che presuma biastimare il nome di Dio, della
Beata Vergine Maria e i suoi Santi, ne fare lo diavolo Santo
nello cospetto d'uno o più officiali o in chiesa o nella piazza
e nei luoghi pubblici sotto pena nelle Prammatiche sopra ciò
fatte, oltre di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta
terra.
Che non si venda vino a minuto senza licenza del gabellotto
Item che non sia persona alcuna cittadina ne forastiera...
che presuma in detta terra vendere vino a minuto senza
licenza del gabellotto del vino o da detto signore.
Che non si passeggi di notte
Item che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado e
condizione così citatina come forastiera tanto privilegiata
quanto non privilegiata presuma né vogli andare a tempo di
notte passiando per detta terra né stari a cantonera né ad
altri parti di detta terra con lo sappularo miso con la facci
immarrata o stravestito, come sole andare lo iorno sotto la
pena di remigare due anni sopra le regie galere e questo
s'intende dalle due ore di notte fino che sono lo pater nostro.
Dopo l'Ave Maria non stiano nelli molini donne
Sotto la pena di onze 4 applicate all'erario fiscale di detta
terra per ogni controventore.
Per l'ingarzati
Banno... con lo quale si ordina, provede e comanda che
nessuna persona... ne deggia stare ingarzato con donne in
qualsivoglia maniera, pretesto e colore sotto la pena di onze
10 per ogni controventore... e le donne sotto la pena della
frusta e non ostante che non siano presi infraganti, ma basta
che si provi detta controvenzione con testimoni.
Quelli che sono prosecuti de' furto non possono andare di
notte
Sotto la pena di onze 4 per ogni controventore.
Che non si possono assettare ne stare all'infrascritti lochi
prohibiti
Nessuna persona... si possa trattenere et assettare nelle vie e
lochi infrascritti taliando e tentando donne... sotto la pena di
onze 4.
Che non si possa vendere carne ne bestiame senza licenza
del gabellotto
Di non potere chiudere terreno
Banno per li luoghi chiusi
Perché la temerarietà delle persone è arrivata a segno tale
che nessuno può custodirsi quello che è suo per causa che
molti indiscrizionati poco timorosi di Dio della giustizia
entrano e vanno discorrendo nelli luoghi chiusi e patronati
con rubbare di più.
Banno per li bestimatori
Banno che non si possa portare cortelli meno di un palmo
Che non si possa sparare ai porci
Perché... la poca descrizione delli genti che tengono porci in
questa terra è arrivata a segno tale che le genti non sono
padroni del suo, in maniera che s'ha ormai perduto l'orticelli
ed altri che tengono innanzi le loro case per loro deporto...
s'ordina... che nessuna persona... presuma sparare a porci
nelli loro orti.
INTERVISTA
dis/correndo con Gioacchino Bruno
Allora Giacchino è venuto il momento di farti delle
domande. Ho portato con me uno di quei vinelli di casa che
avvicinano all'essere e rendono piacevole il mio soggiorno in
Sicilia; mentre lo sorseggiamo voglio chiederti alcune cose.
Che cos'è l'antropologia?
L'antropologia è la scienza che studia le tracce dell'uomo; tali
tracce sono le materie prime essenziali e di facile reperibilità,
come il legno e la pietra che sono quelle più comuni, mentre
il ferro e la terracotta risultano più recenti e eleborate. Sono
questi gli elementi basilari che fusi a volte insieme fanno
l'essenziale per il quotidiano; proprio nei manufatti elaborati
come utensili c'è l'uomo e la sua storia, ed è possibile estrarre
la vita vera. Una volta la casa con tutte le supellettili te la
costruivi in proprio e negli attrezzi si assorbiva non solo la
tecnica e gli usi di quella specifica comunità, ma la storia
stessa di una persona e della sua famiglia. Tali oggetti
venivano ereditati per generazioni, perché non si conosceva
il consumo e c'era solo l'essenziale. Non si può descrivere a
parole
cosa
significhi
maneggiare
quei
manufatti,
ripercorrere con le mani le emozioni suscitate da
quell'artigianato.
Trovi appropriata la definizione di antropontologia che ho
dato del tuo lavoro?
Bhe sì, anche se lo sai che non amo speculazioni
eccessivamente intellettuali. Se però intendi con questo
neologismo nella ricognizione dell'oggetto la ricerca della
verità sono d'accordo. Una volta gli attrezzi te li costruivi
con le mani, e ciò che rimane sono tracce/frammenti che nel
piccolo concentrano e raccontano l'ambiente più ampio.
Quando scopro un reperto nuovo, avulso da un contesto e
che non ho mai maneggiato, mi trovo davanti al mistero e
cerco di coglierne afferrandolo e adoperandolo certamente la
funzione pratica, ma in essa il senso globale delle cose. Se
questa traccia del passato è l'essere immanente e assente di
cui parli, mi sembra la definizione più corretta.
C'è differenza tra artigianato e arte?
L'artigiano esegue lavori su commissione, per danaro. Il
committente è stato importante per l'affinamento delle
tecniche perché piu' facoltoso era piu' l'artigiano si
trasformava in artista. L'artista segue invece il suo istinto, è
libero; può essere considerato un'evoluzione culturale
dell'artigiano.
Cos'è per te questa terra?
È la mia vita, qua c'è tutto da scoprire. Più di tre giorni
lontano non riesco a stare; mi riempe di felicità e appaga
ogni mio interesse. Come quando ho scoperto palmenti
arcaici (vasche intagliate nella roccia in cui avveniva la
pigiatura dell'uva). Già da molti anni avevo fatto una ricerca,
e quando mi sono trovato davanti alla roccia impermeabile
ho avuto un'emozione fortissima. Si trattava di vere opere
d'arte: una vasca intagliata in una tomba paleocristiana,
un'altra in contrada Favara all'interno di una tomba
Castellucciana (così sono chiamati oramai i reperti simili a
quelli trovati in quei luoghi e da cui hanno assunto il nome)
nelle vicinanaze di Noto.
Che cos'è il sacro?
Il sacro è rispetto della tradizione, della vita. Il sapere e la
conoscenza scavano sempre nella terra, dove riposa la nostra
storia e in cui è depositata la memoria dei nostri cari. Il sacro
è ciò che è permanente, che rimane, di significativo. Dunque
l'essenziale, l'essere.
Ho visto la tua documentazione, soprattutto le cartografie mi
hanno stupito per la meticolosità; qual è il metodo con cui
lavori?
L'interesse prima di tutto e il piacere della scoperta. Quando
ho prodotto le carte del territorio l'intenzione era quella di
rilassarmi dal mestiere di fotografo, esercitando la mia
passione di ricercatore. Diciamo che è stato molto naturale
per me. In questo ambiente mi ci trovo da sempre, già da
quando abitavamo a Floridia, avevo 6-7 anni e mio papà
permetteva solo a me di toccare i vasi in ceramica che
trovava nelle sue ricerche. Da piccolo sono stato educato
all'amore nel toccare un vaso; e quanto mi piaceva sentire la
storia di un corpo in quel coccio, vederci le mani che lo
avevano maneggiato o immaginarci le labbra che lo avevano
dissetato. Quando mi trovo davanti ad un territorio nuovo,
osservo prima di tutto i segni dell'uomo, come può essere un
masso geologicamente fuori posto. Questa cosa stimola la
mia curiosità, perché qualcuno deve avercelo portato; cerco
allora informazioni nei documenti su insediamenti umani e
comincio a produrmi materiale visivo con disegni, fotografie
e plastici perché voglio ricostruire quel sito come era
all'origine. E' così in ultimo disegno carte senza i segni
dell'attuale urbanizzazione; e sono carte che non esistono nei
documenti perché nessuno aveva mai pensato a farle.
Com'è nata l'idea della casa/museo di Floridia?
Non è stata un'idea ma un percorso lineare. Mio padre
Nunzio comprò appositamente una villetta già nel 1972 che
successivamente ampliò in modo da contenere le migliaia di
oggetti che aveva raccolto. Da che ho memoria la mia casa è
sempre stata un museo ed è da sempre che respiro la storia
che trasuda da tutto quello che mi circonda. La casa in cui
vivo non può essere che una casa/museo.
Mi racconti di tuo padre Nunzio e di tuo nonno Gioacchino?
Nunzio, mio padre è stato un'ossessione e un'ombra, severo e
a volte rude, quasi un orso come spesso capita alle persone di
talento ma un esempio con la consapevolezza e il rispetto che
portava al lavoro, tanto da farmi travagghiare come un mulo.
Mi ha aperto non solo allo studio dell'entonoantropologia,
ma è stato anche il mio maestro di bottega e da lui ho
imparato i rudimenti del disegno e le tecniche della
fotografia. Ad esempio mi ha insegnato a spuntinare, a fare
dell'unghia una tavolozza, prendere i grigi col pennellino e
riempire i bianchi lasciati dal pulviscolo sull'immagine
stampata. Il corpo ha una possibilità infinita di partecipare al
fatto creativo, credo di averlo compreso allora. Mio nonno
Gioacchino mi ha insegnato a ad ampliare proprio le
possibilità del corpo, ad usare ogni parte stimolando la mia
curiosità ed educando la mia fisicità per la realizzazione di
un prodotto estetico (mi ricordo mentre dipingeva le
scenografie con una scopa, con una vitalità creativa di getto e
senza ripensamenti); è stato il mio maestro di pittura ma
soprattutto mi ha dato una visione estetica del mondo. Grazie
a lui ho imparato a costruirmi gli strumenti di lavoro da solo,
come gli artifici per ottenere degli ellissi perfetti con due
chiodi e una cordicella, e lavoravamo in sinergia
intellettuale, tanto da avere impiantato nella sua casa una
camera oscura.
Tieni seminari e lezioni soprattutto in associazioni culturali
o come guida per scolaresche e studiosi nel museo di
Floridia; è importante tramandare il tuo sapere?
Certo, tutti leggiamo il libretto d'istruzioni di una macchina
fotografica, di un qualsiasi utensile o di un elettrodomestico;
poi però bisogna ampliare le conoscenze con la pratica e il
lavoro. Certe cose te li crei tu con l'esperienza acquisita; le
novità che si introducono nella tecnica si devono tramandare,
e l'espediente è appunto l'insegnamento.
Alla luce hai dedicato un intero ciclo di lezioni, cos'è la
luce?
La luce è la mia vita, non solo per mestiere, trovandomi da
sempre in una terra assolata e calda. E' ciò che consente ad
una cosa di essere vista e vissuta, è la vita che c'è in quella
cosa. La luce è l'ombra e pure l'ombra è prodotto dalla luce;
l'artista in generale percepisce i chiaroscuri e modella i toni
per ottenere un volume, il corpo dell'oggetto. E' energia la
luce, calore, istinto in un fotografo, tanto che io usavo
l'hassemblad
senza
esposimetro,
facendomi
guidare
dall'esperienza.
Un'ultima domanda; le mani, è corretto dire che sei un
pensatore che trae ispirazione, conosce con le mani? Questo
interesse credo sia centrale nel tuo lavoro anche di
fotografo, come si vede nella bella mostra fotografica sui
contenitori nella storia contadina iblea che hai tenuto nel
2008 nel museo di Floridia
Il tatto percepisce quello che sfugge all'occhio, ad esempio
un chiodino che spunta da un legno. L'occhio può ingannare
come il legno che vede spezzato nell'acqua, il tatto, la presa
no. Quando trovo un attrezzo nuovo, sconosciuto (e non sono
tanti dopo tutti questi anni di ricerca) capisco cos'è prima di
tutto cercando il manico, che in genere è la parte liscia e a
misura della mano. Se trovi il manico, quando lo afferri
capisci cos'era quell'oggetto e la sua funzione, come una
grammatica che è interna alla cosa e la delimita nelle
funzioni e nell'uso. Cominci a maneggiarlo, cerchi di usarlo e
ne scopri la funzione. Pinza, martello e sega sono stati e sono
gli attrezzi minimi elementari eleborati sull'anatomia e sulla
base dei movimenti della mano nel contesto produttivo
artigianale. La pinza nella forma, nel materiale e nella
struttura racconta la mano quando afferra, il martello il
movimento verticale, la sega quello orizzontale; analizzare
un utensile è ripercorrere un lavoro, gli esercizi della mano
che con quel lavoro ha sostentato il corpo.
NOTA AUTOBIOGRAFICA
di Gioacchino Bruno
Nasco a Solarino in una casa all’angolo con il Corso principale; era il 1963,
la casa… non me la ricordo. Quando avevo due anni la famiglia si trasferì a
Floridia in via IV novembre 22. Era il periodo in cui si giocava per strada, il
posto più lontano si trovava ad un isolato di distanza ed era l’antica uscita
del paese prima che costruissero il ponte sul Torrente Mulinello. In questo
luogo denominato localmente “u vadduni”, cioè il vallone, vi era la bottega
del fabbro, che ferrava i cavalli e i muli e ricordo pure il bottaio. Da ragazzi
ci andavamo per riempire la giornata, ma c’erano le botteghe artigiane e i
gestori non volevano che scorrazzassimo per le vie. Allora ci dirigevamo per
la “trazzera” che scendeva al “vadduni”, presso una “gebbia”, una grande
vasca piena di acqua melmosa per tirare le pietre alle rane. Non siamo mai
scesi più di tanto, rammento che era impraticabile, piena di rovi e cespugli.
Una vecchia trazzera abbandonata. Per strada si giocava a palla raramente
perché il gruppo era formato da molte ragazze. Frequentavo all'epoca la
piazza grande vicino la chiesa Madre e ogni tanto andavo al Carmine. Questo
fu un periodo di gioco sfrenato. Tutti i giorni andavo a consumare le scarpe
di ginnastica. Un paio durava due tre mesi.
Quando avevo otto/nove anni mio padre portò la famiglia in una campagna
appena acquistata. C'era una distesa di spine alte due metri, era un roccaro. Il
terreno l'aveva ottenuto con pochi soldi. Costruimmo le fondamenta della
casa; dopo un anno di lavori ci trasferimmo in campagna, era il 1972 e io
avevo nove anni. Questo è il periodo in cui spostammo gli oggetti che si
trovavano in una vecchia casa in via IV novembre, vicino dove abitavamo (al
numero civico 22 vivevamo, al 26 c’erano gli oggetti, al 32 lo studio
fotografico). Mio fratello iniziò a correre con la bicicletta. Io lavoravo in
campagna, piccoli lavoretti pomeridiani, c’era sempre la ricompensa. Mia
sorella studiava.
Mio papà, fotografo, mi portava a fare i matrimoni. Verso i dodici anni
facevo già le prime fotografie; il mio momento veniva dopo il taglio della
torta quando gli sposi si fanno ritrarre con parenti e amici. Io avevo la
macchina fotografica, mio papà dirigeva le operazioni e lo ricordo mentre
urlava i nomi delle persone che doveva fotografare. Mi diceva “Jack si
prontu”. Così ho iniziato ad usare la 6x6, all'epoca c’era la Rolleiflex, una
biottica; poi comprò l’Hasselblad e aveva una Nikon F che non mi ha mai
fatto toccare. In seguito l’ha cambiata per una Rolleiflex con il motorino per
l’avanzamento della pellicola. Dopo pochi anni mi insegnò a caricare la
pellicola nella macchina. Fatto questo ero pronto per uscire da solo a fare
fotografie. L’occasione fu un compleanno: chiamò mia mamma e mi disse
“Gioacchino tuo padre non c’è, torna tardi da Catania, devi andare a fare un
compleanno in via Tizio numero tot”. Partii per il mio primo compleanno,
avevo 13 anni. Quell'anno mi iscrissi alla Scuola d’Arte di Siracusa.
A 16 anni mio papà mi mandò da solo a riprendere un matrimonio. Questo è
il periodo nel quale ho conosciuto Cettina, la mia compagna; c’era la radio a
Floridia e mio padre era l’organizzatore. Io trasmettevo nel pomeriggio e mi
alternavo con un amico, Salvo Romano. Arrivò quindi la chiamata alle armi
e dovetti rinuciare agli studi. Fui spedito a Viterbo, poi a Siracusa presso il
34 CRAM dell’aviazione e infine a fare da sponda con il distretto del
Villaggio Miano e Testa dell’Acqua dove c’erano i radar. Mi congedai il 27
agosto del 1983, il giorno dopo nasceva mio figlio Nunzio.
Iniziò una nuova vita. Avevo finito il militare, ero padre e sapevo
fotografare. "Bene eccoti macchina fotografica e flash e vai a sfamare la tua
famiglia", così disse mio padre. Mi convinsi ad aprire una succursale dello
studio a Belvedere perché c’era un immobile mezzo libero. I muri erano di
nonno Felice, il papà della mamma di Cettina. Aprii lo studio ma lavoravo
poco. Dopo un anno decisi di aprire a Sortino, che già frequentavo da
professionista visto che là c’era una succursale gestita da mia zia Celina.
Liberammo la casa del Corso al civico 93 da tutte le cose che vi erano
custodite. Comprammo delle scaffalature in metallo rosse e nere e una
scrivania. Avevo una Hasselblad CM500 ed un flash Metz 60. Utilizzavo la
Pentax K1000, una 35 mm come macchina di riserva, ma quest’ultima non
era mia e acquistai una Reflex, la Nikon FA, che fu la mia prima macchina. Il
mio archivio fotografico risale al 1984, perché fu allora che iniziai a
fotografare per passione. Ad oggi ho collezionato 1000 fogli di acetato, ogni
foglio contiene 8 strisce, ogni striscia contiene 6 negative 24x36 non sempre
piene. Dopo Mascalucia mi trasferii a Floridia sopra lo studio, quando la
radio fu chiusa, in Corso Vittorio Emanuele 326 al secondo piano.
Mi spostai definitivamente a Sortino nel 1987. Avevo una famiglia e uno
studio fotografico, lavoravo da matti. Per hobby facevo foto del paese.
Iniziai a leggere la bibliografia della storia sortinese e di Pantalica,
accompagnavo la lettura con passeggiate esplorative. I primi anni li ho
dedicati a Pantalica grazie alle conoscenze di un carissimo amico, Enzo
Fraello. Poi ho scoperto le trazzera che si intrecciano nelle vallate e con esse
le diversità delle contrade. Finché è venuto alla luce il quadro antico che
raffigura il vecchio paese di Sortino prima della distruzione del terremoto del
1693. Da quel momento una grande forza interiore mi ha spinto a fare delle
domande, erano le risposte che dovevo cercare. Cercare dovunque nei libri,
nei disegni e nei dipinti, nei manoscritti, nel terreno, nel sapere degli
anziani, discutendo con gli uomini di cultura. A casa disegnavo quello che mi
mancava per comprendere meglio l’assetto urbanistico del vecchio sito,
realizzando mappe via via sempre più dettagliate. Dopo due/tre anni che
avevo fotografato ogni cosa, cominciai a farmi un'idea archeovisiva degli
scorci della vecchia città; dove avevo già perlustrato ritornavo per guardare il
panorama con un’altra luce. Vedere e cercare, accumulare più informazioni
per meglio elaborarle e così trovare risposte alle mie domande.
Intramezzavo le escursioni verso le rovine della Sortino Antica con
passeggiate, finché una volta mentre mi aggiravo per la Lardia incontrai la
dottoressa Beatrice Basile della Soprintendenza di Siracusa (persona
meravigliosa); andavo quindi alla Fiumara per incontrare pastori e contadini,
da Serramezzana a Gesolino. Belle esperienze quelle di Farina e Favara, non
di meno le ricerche della Carrubba, la Costa Giardini, il monte Buongiovanni
e la sua cava, Santo Mauro e Vallonazzo. Come pure la passeggiata con
Nuzzo Mosca presso la Necropoli di Cava Rovettazzo. Perlustrai i Cugni a
visitare neviere e di nuovo a camminare alla scoperta di cave e pirreri, di
abbeveratoi e cisterne, di grotte e spelonche, di nicchie e gradini intagliati,
abitazioni rupestri intonacate e affrescate, cascate di calcare solidificato, saie
e canalette, paratori e mulini, torchi e macine, discariche abusive e colate di
cemento, ecc. ecc.
Nel 1993 in occasione del 300° anniversario del terremoto del 1693 ho
voluto racchiudere in un opuscolo le mie ricerche; mandai le pagine in
stampa con l’aiuto economico di amici e conoscenti, “Sortino Diruta”, lo
scrissi con Luigi Ingaliso. Alla presentazione del libro tenuta ai Cappuccini
feci pure una mostra di fotografie sulla Sortino Vecchia.
Per lunghi anni non ho frequentato assiduamente Floridia e con essa la Villa
Museo, ci andavo una domenica si e tre no. Mi impegnai invece nel sociale,
insieme ad amici costituimmo un’associazione dal nome “Spazio Arte
Giovani”, esperienza che mi ha fatto conoscere non solo come fotografo. E'
di quel tempo un'opera che avevo nel cuore: la storia di Sortino raffigurata
in un grande murale. Nacque così “Sortino nel tempo”, un'opera di 35 metri
circa, alta 3 metri, dipinta nel muro perimetrale della palestra adiacente la
Chiesa Madre di Sortino. Io ne curai il progetto e i disegni, la parte pittorica
fu eseguita da Sebastiano Pane e Alessandro Rapisarda aiutati da Mario
Matera e Roberto Sequenzia. Un altro murale importante fu quello che
realizzai presso La Villa delle Rose, lungo 42 metri e alto 3,50. Tracciai 6
scene; le due scene centrali ripercorrevano il quadro della Sortino Diruta,
mentre le scene laterali, due a destra e due a sinistra, rappresentavano scene
della Sortino Diruta attuale, cioè i ruderi archeologici. Questo dipinto
intitolato “Sortino Diruta” fu eseguito con Sebastiano e Alessandro, sempre
con l’aiuto di Mario Matera.
In questo periodo impiantai una camera oscura per la stampa in Bianco &
Nero; presi una casa in affitto per centomila lire al mese nella Scalinata dei
Cappuccini, all’angolo con via Roma. Due stanze una al primo e una al
secondo, con cucina e bagno in miniatura. Oggi questa casa non c’è più,
l’hanno demolita.
Lo studio del vecchio paese di Sortino, nel 1998 mi portò a pulire diverse
case della Sortino Antica e tutto il materiale trovato si trova oggi presso il
deposito archeologico comunale (e tale deposito è nato proprio dalla
necessità di custodire la quantità crescente dei reperti). Il materiale di ricerca
ha permesso all’Amministrazione Comunale di preparare un progetto per
rivalutare il Convento del Carmine, convertirlo in deposito archeologico ad
esposizione permanente, un Antiquarium. Nacque come Antiquarium
medievale. Il progetto per finanziare il restauro fu accettato e si rimodernò il
Convento.
Negli anni 90 ricoprendo la carica di segretario della Pro-Loco Pantalica
Sortino, ideai la celebrazione del presepe vivente presso una grotta della
Sortino Diruta.
Nel 1994 cominciai a realizzare il plastico in scala della Costa Sortino; scelsi
il gesso come materia per intagliare la topografia del vecchio paese e
posizionare case chiese e strade nelle tre dimensioni, visto che avevo già
prodotto uno studio cartografico. Un anno di lavoro culminato in una
esposizione presso il Circolo Rinascita. La presentazione del plastico mi ha
permesso di mettere in mostra anche parte dei lavori artistici che avevo
prodotto negli anni addietro.
Nel 2007 custituii il Circolo SiciliAntica sede di Sortino per agevolare il
processo di salvaguardia del nostro patrimonio culturale.
Lo stesso anno mi chiamò mio padre dicendo che avrei dovuto fare un
progetto per il nuovo museo che sarebbe nato a Floridia nella ex-caserma dei
Carabinieri e vecchio Carcere. Naturalmente mio padre aveva una collezione
enorme di reperti e io non facevo altro che accrescerla. Da tempo leggevo
dei lavori agricoli e pastorali degli iblei e avevo una certa familiarità con gli
oggetti. Quando andavo a Floridia a trovare la mia famiglia c’era sempre un
lavoro da fare, qualcosa da spostare o da sistemare (sono stato io ad avere
pulito le collezioni, centinaia forse di più, con l'aiuto e il sostegno di mia
madre, che così mi spronava: “Forza Gecchi puliziamu ca avveniri a
scuola”). Iniziammo a sistemare mobili per l’esposizione, restaurammo
oggetti in ferro e legno. Venne il giorno della consegna delle chiavi,
andammo a vedere i locali; erano in pessime condizioni, specialmente il
carcere. Serviva una restaurata. Cosa che si completò nel giro di un anno. Si
cominciò a mettere qualche oggetto, i locali ancora erano della Pro-loco che
se ne serviva per esposizioni. Tempo addietro mio padre era stato incaricato
di esporre qualche oggetto. L’esposizione piacque a tutti, tanto che ci
invitarono di arricchirla con altri esemplari che si trovavano a Villa Museo.
La politica si rese conto che era necessario ufficializzare le nostre raccolte;
fu così che il Comune di Floridia la Provincia di Siracusa e l’Associazione
Xiridia firmarono un protocollo d’intesa col quale concedevano i locali
dell’ex carcere e del piano terrano della ex stazione dei Carabinieri di
Floridia per 30 anni più 30. Mio padre mi spinse a proporre un progetto per il
museo. Nella mia idea si sarebbero dovuti restaurare i locali, smantellare
l’esposizione primaria per consentire i lavori di manutenzione. Ci misi
l'anima, mi procurai cassette in legno, smontai l’esposizione selezionando il
materiale per tipologia: martelli con martelli, seghe con seghe. Come i lavori
furono completati iniziai a separare gli oggetti per ciclo produttivo, pensai
alla dislocazione dei mobili in base agli oggetti che avrebbero contenuto. Si
completò il museo e si fece l’inaugurazione. All’Associazione Xiridia che
gestiva il museo di Floridia la Provincia stanziò una cifra. Con la burocrazia
e le scadenze mio padre non riusciva però a dialogare, fu mia sorella che
lavorava presso la Provincia di Siracusa ad aiutarlo nella gestione delle carte
dell’Associazione. Mio padre morì nel 2009, il museo continua ad essere
aperto con una esposizione permanente rivoluzionata.
Oggi sto aprendo un laboratorio a Sortino (Centro Studi Sicilia Antica) per
facilitare la raccolta degli oggetti antichi, tutelarne la storia e promuovere la
conoscenza della tradizione. La mia idea è di muovere a un progetto di
valorizzazione del territorio sulla base delle ricerche fino ad ora sviluppate.
Mostre fotografiche: aprile 1989 “Attimi fotografici”, galleria De Santis,
Como. Novembre 1990 “I quattro canti di Sortino”, Circolo rinascita Sortino.
Agosto 1995 “Sortino Diruta”, Circolo rinascita Sortino. Agosto 1996
“Pantalica”, Villa museo Floridia. ottobre 2005 “Pantalica è Sortino”,
Antiquarium sortinese. Ottobre 2007, “Valorizzazione di Sortino diruta”, ex
Palazzo comunale Sortino.
Fornitura fotografica: 1989 “Sortino nei soprannomi” di Giuseppe Rossitto.
1990 “Chiese conventi e palazzi di Sortino” di Giuseppe Salonia. 1995
“Storia di Sortino e dintorni”, nuova edizione, di Sebastiano Pisano Baudo.
1999 “Ciclopi e ciminiere” di Paolo Mangiafico. 2001 “Sortino”, edito da
GAL Val d’Anapo, a cura di Massimo Papa. 2004 “Il libro rosso di Sortino”,
a cura della Dottoressa Lidia Messina. 2007 “Sortino ieri e oggi” di Padre
Amodeo G. Iaia. 2009 “Antiquarium sortinese”, Comune di Sortino.
Mostre tematiche: novembre 2007 “I doni e i giochi nella tradizione di
Ognissanti”, museo della civiltà contadina iblea, Floridia. Marzo 2008 “I
contenitori nella cultura materiale iblea”, museo Floridia. Novembre 2008
“Vino botti e bottai”, museo Floridia. novembre 2009 “Dall’ulivo all’olio”,
museo Floridia. Settembre 2011 “L’amore per il Collezionismo” Sala
polifunzionale presso il Museo della Civiltà Contadina di Floridia.
Plastico Sortino Antica
onto/memorie 21 Gennaio 2012
L’idea nacque dal bisogno. Mi serviva vedere a tre dimensioni la “Costa
Sortino”, così si chiama attualmente la contrada dove si trovano i resti del
sito archeologico di Sortino Antica. La puoi chiamare “Sortino Medievale”,
“Sortino Diruta”, o più comunemente “Sciuttinu Vecchia”. In questa costa a
grandi gradoni prospicienti il Fiume Guccione, si scorgono qua e là
tantissime testimonianze architettoniche intagliate nella roccia, grotte grandi
e piccole; grotte naturali e artificiali; anfratti perfezionati; nicchie ed archi
portanti; tramezzi e pavimenti; e poi i tanti modelli di canalette per l’acqua;
scale costruite ed intagliate; gradoni e gradini; testimonianze dell’antico
Villaggio rupestre diventato borgo e poi comune. Dopo averla perlustrata
diverse volte nella sua totalità, mi sono dedicato a porzioni di essa, per
studiarla fino in fondo. Grazie alla collaborazione dei miei familiari ho
potuto esercitare un hobby così impegnativo. Dopo aver scattato migliaia di
foto e realizzato centinaia di disegni e mappe, decisi di vedere il paese come
era fatto. Così pensai di fare un plastico. Il parto fu laborioso. Per prima cosa
feci un mini plastico della montagna con su scolpite delle piccolissime case,
lo feci in argilla. Plastico che ancora conservo. A questo punto preparai le
carte per fare i modelli. Come materiale scelsi pannelli di gesso, 50x70x8,
quelli che si utilizzano per le tramezzature di ambienti. Partendo dalla base,
cioè la parte alta del Fiume Guccione, iniziai a intagliare i blocchi
rispettando le linee della quota altimetrica. Feci una specie di scalinata,
calcolai che successivamente dovevo intagliare le case. Mentre intagliavo
gradini facevo pure i muretti a secco e le strade; intagliavo e coloravo,
tracciavo e intagliavo. Man mano che realizzavo mi spiegavo tutto quello
che avevo letto. La posizione delle strade dava finalmente delle chiare
risposte alla topografia generale. La posizione del Castello dominante su
tutto con al suo fianco la torre adesso si poteva ammirare in 3d. Le carte
sono importanti, ma non tutti hanno la competenza per trasformare linee,
punti, stelle cerchi e forme di una carta topografica in cose. Facendo il
plastico per me l’ho fatto per tutti. Per la parte manuale ho impiegato 12
mesi, mentre il progetto nella sua totalità l’ho sviluppato nell’arco di 5 anni.
È stato acquistato dal Gal Val D’Anapo con 5 milioni di lire, per essere
esposto nell’Antiquarium sortinese, presso il Convento del Carmine di
Sortino. Per la parte pittorica mi sono avvalso dall’aiuto di Vincenzo Pane.
Attualmente è posteggiato fra l’ascensore e l’entrata dell’Ufficio Tecnico del
Comune di Sortino. Adesso che mi ritrovo un laboratorio meraviglioso
vorrei farne uno in legno, rappresentando la realtà di oggi, cioè ruderi e
sentieri attuali. Possibilmente utilizzando la stessa scala, 1:250, di quello
precedente in gesso che mostra come era il paese nel XVI sec., con le case e
le chiese. Sarebbe una bella base per avviare campagne di ricerche, per
rintracciare le spoglie nascoste da terra e pietre. La costa com’è ora, con i
ruderi conosciuti intagliati ed evidenziati. Come un puzzle che si deve
comporre. Il luogo lo porti a casa con le fotografie, la conoscenza te la
danno i libri; trasformi tutto in tratto, disegno, mappa, sezione, pianta,
cartina, plastico, sculture per vedere quello che non c’è più nella sua totale
integrità. Lo fai rivivere, realizzi qualcosa che non c’era, questo fu lo
stimolo, io volevo vederlo.
Di Gioacchino Bruno
BIBLIOGRAFIA MINIMA
F. Giuliano, Il castello di Sortino (con interventi, fotografie e disegni di G.
Bruno), Comune di Sortino, 2000
Lidia Messina, Libro Rosso di Sortno, Archeoclub, 2003
Lidia Messina-Concetta Corridore, Sortino e la famiglia Gaetani, La
Ediprinteditrice, 1988
S. Pisano Baudo, Sortino e dintorni, Lentini 1910
Andrea Gurciullo, Memorie Spettanti a Sortino, Catania, 1794
Gioacchino Bruno-Cristian Isabella, U Nummu Ru Gesu, Xiridia 1995
Gioacchino Bruno-Luigi Ingaliso, Sortino Diruta, 1993
Paolo Mangiafico, Ciclopi e Ciminiere, Prova d'Autore, 1999. Pagg. 46-51
Dionisio Mollica, Sortino: archeologia, storia, arte, tradizioni, Tipografia
Invernale Floridia, 2001 (fotografie di G. Bruno)
Giuseppe Rositto, Sortino nei soprannomi, Cuecm, 1989 (fotografie G.
Bruno)
Giuseppe Salonia, Chiese, conventi e palazzi di Sortino, Arti grafiche
Marchese, 1990 (fotografie G. Bruno)
Luigi Lombardo, La valle dell'Anapo e i Leontinoi, Grafiche Cosentino,
2006
Vincenzo Pane, Sortino Diruta, Tesi di Laurea Accademia di Belle Arti
Catania anno 2003/2004, relatore prof. S. Todisco
Per quanto riguarda la rassegna giornalistica, diversi quotidiani già dal 1995
si sono occupati in più occasioni del lavoro di Gioacchino Bruno; tra gli altri
si ricordano La Sicilia, L'Aperiodico e La Gazzetta del Sud.
Gioacchino Bruno
Reperibile a Sortino (SR) presso il laboratorio di via Roma 13
[email protected]
Giancarlo Buonofiglio; tra le sue pubblicazioni: Il demoniaco nella nevrosi ossessiva; Il
linguaggio delle emozioni, manuale storico/critico di psicoanalisi; Kandinskij, dinamiche
storiche di una piramide spirituale; Non desiderare la donna d'altri; Decalogo ad uso di
chi proprio non può fare a meno di vivere (in stampa). [email protected]
Le fotografie e i disegni nel testo sono di Gioacchino Bruno
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Proprietà letteraria Giancarlo Buonofiglio
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gioacchino bruno - Giancarlo Buonofiglio