NIETZSCHE POLITICO O IMPOLITICO?
Che al pensiero di Nietzsche possa essere attribuito un significato politico1 è
cosa scontata: è di fatto accaduto, sia pure con intenzioni e modi talvolta
esecrabili, talvolta per lo meno discutibili. Di una tale discussione potrà essere
oggetto tanto un Nietzsche di destra, teorico del “radicalismo aristocratico”
(secondo la formula creata da Georg Brandes2) e profeta del germanesimo (come
1
La bibliografia sul nesso tra filosofia e politica nel pensiero di Nietzsche si è fatta, negli ultimi
anni, particolarmente nutrita. Ci limitiamo a segnalare i contributi più recenti: R. Escobar,
Nietzsche e la filosofia politica del XIX secolo, Milano, il Formichiere, 1978; S.E. Aschheim, The
Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, Berkeley-Los Angeles-London, University of California
Press, 1992; K. Ansell-Pearson, An Introduction to Nietzsche as Political Thinker. The Perfect
Nihilist, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; H. Ottmann, Philosophie und Politik bei
Nietzsche, Berlin-New York, De Gruyter, 19992; T. Shaw, Nietzsche’s Political Skepticism,
Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2007; H.W. Siemens-V. Roodt (a cura di),
Nietzsche. Power and Politics, Berlin-New York, De Gruyter, 2008.
2
Georg Brandes (pseudonimo di Morris Cohen) (1842-1927), danese di famiglia ebrea, fu critico
letterario e tenne a Copenhagen delle affollate conferenze su Nietzsche. Su di lui pubblicò due
saggi: Radicalismo aristocratico. Dissertazione su Friedrich Nietzsche, apparso sulla “Deutsche
Rundschau” del 1890, e Friedrich Nietzsche, in Uomini e opere, pubblicato nel 1893. Con ciò
contribuì alla conoscenza di Nietzsche nei paesi scandinavi e, in particolare, alla sua influenza su
Ibsen e Hamsun. Dell’attività di Brandes Nietzsche ebbe notizia. In un frammento (16[63]) della
primavera-estate 1888 egli scrive, intendendo evidentemente far pubblicare la nota su qualche
giornale: «Gli amici del filosofo Friedrich Nietzsche accoglieranno con interesse la notizia che, lo
scorso inverno, il brillante danese dott. Georg Brandes ha dedicato a questo filosofo tutto un ciclo
di lezioni all’università di Copenhagen. L’oratore […] ha saputo suscitare vivo interesse in un
pubblico di più di trecento persone, per la nuova e audace maniera di pensare propria del filosofo
tedesco» (NF, KSA, 13, 506-507). In Ecce homo egli osserva, lamentando al solito la mancata
comprensione da parte dei compatrioti: «In quale università tedesca sarebbe oggi possibile tenere
un corso di lezioni sulla mia filosofia, come fece a Copenhagen nella primavera scorsa il danese
dottor Georg Brandes, che ha provato con ciò ancora una volta la sua qualità di psicologo?» (EH,
KSA, 6, 363). Brandes avviò con Nietzsche uno scambio epistolare. Di rilievo particolare sono la
lettera in cui egli gli contesta il suo antisocialismo e antianarchismo e il suo atteggiamento,
mutatosi da amicizia in ostilità, nei confronti di Paul Rée (15-17 dicembre 1887, KGB, III/6, 129132); e quella in cui gli consiglia vivamente la lettura di Kierkegaard (all’epoca non ancora
tradotto in tedesco): «C’è uno scrittore nordico le cui opere la interesserebbero, se soltanto esse
fossero tradotte: Søren Kierkegaard; egli visse tra il 1813 e il ‘55, ed è a mio avviso uno degli
psicologi più profondi che esistano in generale» (11 gennaio 1888, KGB, III/6, 143-144).
Nietzsche spedì a Brandes in dono le sue opere, e questi lo ricambiò inviandogli il suo
Romanticismo tedesco (uscito in seconda edizione nel 1883). Importante è la riflessione ispirata a
Nietzsche da questo libro, che egli comunica all’autore in una lettera del 27 marzo 1888: «Il suo
“Romanticismo tedesco” mi ha fatto riflettere su quanto tutto questo movimento abbia raggiunto
propriamente il suo scopo soltanto come musica (Schumann, Mendelsohn, Weber, Wagner,
Brahms): come letteratura è rimasto una grande promessa. I Francesi sono stati più fortunati»
(KGB, III/5, 279).
1
lo voleva Alfred Baeumler), quanto un Nietzsche di sinistra3, ispiratore della
Ideologiekritik grazie al metodo genealogico, maestro del sospetto e dello
smascheramento,
secondo
un
modello
che
accomuna
la
Dialettica
dell’illuminismo e la ricezione di Nietzsche in Francia4 e in Italia a partire dagli
anni sessanta. Che, invece, nel pensiero di Nietzsche sia contenuta una compiuta
teoria della politica dev’essere negato con decisione. Questo non significa che la
filosofia nietzschiana si precludesse esiti politici: di ciò Nietzsche stesso fu
consapevole, e proprio qui sta, forse, uno degli aspetti del suo pensiero che oggi ci
risultano più scomodi. Si può affermare, in questo senso, che tutta la filosofia
nietzschiana sia percorsa da un’ispirazione politica, e la celebre dichiarazione
d’intenti contenuta nella Prefazione alla II Considerazione inattuale (Sull’utilità e
il danno della storia per la vita) – «Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo
servire la storia» (HL, KSA, 1, 245) –, in quanto corrisponde ad un preciso
impegno nei confronti del presente (il senso della filologia classica non può
consistere che nell’agire nel tempo «in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in
tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo», HL, KSA, 1,
247), corrisponde, di fatto, ad un programma politico. Così, almeno, la intende
Karl Löwith, che ha dunque buon gioco nel contrapporre al falso inattuale
Nietzsche l’inattuale autentico Burckhardt, la cui fede nella storia e il cui culto
del passato gli consentono di prendere definitivamente congedo da una filosofia
della storia di persistente ispirazione hegeliana (e, perciò, cristiana), in cui il
presente è la rappresentazione conciliata della contraddizione posta dal passato,
che non apre, perciò, alcuna drammatica frattura con il presente stesso. Mentre
l’antistoricismo della II Inattuale, che privilegia la vita – e quindi il presente –
contro la storia, continuerebbe ad avere «la sua ultima ragione storica nella
religione cristiana, che di tutte le ore di una vita umana ritiene l’ultima la più
3
Sulle interpretazioni di Nietzsche da destra e da sinistra cfr. S.E. Aschheim, op. cit., pp. 164200.
4
Sul contributo che la ricezione francese ha dato alla costruzione di un Nietzsche di sinistra in
quanto maestro dello smascheramento si veda J. Rehmann, Postmoderner Links-Nietzscheanismus.
Deleuze & Foucault. Eine Dekonstruktion, Bonn, Argument, 2004.
2
importante», cosicché «la coscienza storica del “nuovo tempo” si rivela alla
riflessione storica come essa stessa qualcosa di estremamente storico»5.
Nietzsche stesso, dicevamo, è consapevole dei possibili esiti politici del
proprio pensiero. Ne è riprova il ricorrere di immagini che, in molti dei frammenti
che si sforzano di definire il concetto di volontà di potenza, stabiliscono un
parallelo tra società, morale, mondo fisico e mondo politico. Si legge in un
frammento (10[53]) dell’autunno 1887:
Più naturale è la nostra posizione in politicis: vediamo problemi di
potenza, di un quantum di potenza contro un altro quantum. Non
crediamo a un diritto che non riposi sulla potenza per farsi valere:
consideriamo tutti i diritti come conquiste con la forza. (NF, KSA,
12, 483)6
Difficile distinguere, a questo punto, gli esiti politici del pensiero
nietzschiano dalle interpretazioni politiche che ne sono state date. Varrà qui la
pena soltanto di accennare al fatto che proprio Heidegger, pensatore più che mai
compromesso in politicis, si prese la cura di attaccare l’interpretazione politica di
Baeumler – che aveva dissociato la volontà di potenza, in quanto dottrina
autenticamente politica e germanica, dall’eterno ritorno dell’uguale, ridotto a
pura e semplice dichiarazione di anticristianesimo7 – sulla base di un’errata
5
K. Löwith, Jacob Burckhardt. Der Mensch inmitten der Geschichte, in Sämtliche Schriften, vol.
7, Stuttgart, Metzler, 1984, pp. 69-70.
6
A conferma dell’unitaria ispirazione politica della filosofia di Nietzsche, si confronti questa
affermazione con quella contenuta ne Lo stato greco, scritto compreso nelle Cinque prefazioni per
cinque libri non scritti, opuscolo di cui Nietzsche aveva fatto omaggio a Cosima Wagner in
occasione del Natale 1872: «La violenza fornisce il primo diritto, e non esiste un diritto che nel
suo fondamento non sia arroganza, usurpazione e violenza» (GS, KSA, 1, 770). E si veda anche
GM, KSA, 5, 358: «Il “diritto” è stato a lungo un vetitum, un’empietà, un’innovazione, si fece
innanzi con violenza, come violenza a cui ci si adattò unicamente con vergogna dinanzi a se
stessi». Sul rapporto tra diritto e potenza nel pensiero di Nietzsche si veda V. Gerhardt, Pathos
und Distanz. Studien zur Philosophie Friedrich Nietzsches, Suttgart, Reclam, 1988, pp. 98-132.
7
L’eterno ritorno dell’uguale è per Baeumler estraneo alla filosofia di Nietzsche pensata come
sistema; di più, questo pensiero non sarebbe neppure filosofia, ma una «concezione religiosa».
Questo motiverebbe l’intenzione nietzschiana di procedere oltre Così parlò Zarathustra con la
progettazione di un testo sistematico sulla volontà di potenza (cfr. A. Baeumler, Nietzsche der
Philosoph und Politiker, Leipzig, Reclam, 1931, pp. 81-82). Dell’eterno ritorno come esperienza
religiosa parla anche Giorgio Colli, che lo definisce una «folgorazione mistica» in cui viene
3
interpretazione di Eraclito. Fraintendendo la dottrina dell’eterno ritorno Baeumler
parla, secondo Heidegger, contro la propria stessa interpretazione della volontà di
potenza, che egli vorrebbe intendere in senso metafisico, ma in realtà «interpreta
in senso politico». L’eterno ritorno di Nietzsche è dunque «in contrasto con la
concezione della politica di Baeumler»8. Come che sia, ogni esito politico del
pensiero di Nietzsche va letto sullo sfondo di quanto affermato nel Crepuscolo
degli idoli:
Tutte le grandi epoche della cultura (Cultur) sono epoche di
decadenza politica: ciò che è grande nel senso della cultura è stato
non politico (unpolitisch), addirittura antipolitico (antipolitisch).
(GD, KSA, 106)9
Vale a dire, ogni senso politico della filosofia di Nietzsche va letto sullo
sfondo di questa contrapposizione tra Kultur e Politik, che sta a significare lo
smembramento dell’identità hegeliana di cultura e Stato:
penetrato fino in fondo il «segreto della grecità» (cfr. G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano, Adelphi,
1974, pp. 197-198).
8
M. Heidegger, Nietzsche, Pfullingen, Neske, 1961, vol. I, p. 31. Secondo Heidegger, Baeumler
intende Eraclito come se questi avesse insegnato «l’eterno fluire delle cose nel senso del loro
“andare sempre avanti”»; mentre il senso profondo della filosofia di Eraclito è «che non
necessariamente esiste una contraddizione tra la tesi “l’essere è divenire” e la tesi “il divenire è
essere”» (ibid., vol. I, p. 30).
9
Il termine unpolitisch è, com’è noto, assurto a fama universale grazie all’interpretazione datane
da Thomas Mann sul finire della I guerra mondiale; con esso lo scrittore intende caratterizzare la
Kultur germanica di contro alla Zivilisation delle democrazie borghesi. La Zivilisation è per Mann
una commistione di politica e letteratura: è il «borghese eloquente» e «l’avvocato letterato»; essa
non è altro che la «marcia trionfale, l’espansione dello spirito politicizzato e intriso di letteratura
fino a trasformare in una sua colonia tutto il mondo abitato. L’imperialismo della civilizzazione è
l’ultima forma di quell’idea unificatrice romana contro la quale la Germania ‘protesta’» (Th.
Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen, Frankfurt a.M., Fischer, 1983, p. 51). Prima di Mann,
tuttavia, già Hans Vaihinger aveva fatto ricorso al concetto di antipolitico per spiegare la presa di
posizione nietzschiana contro il socialismo: «La tendenza antisocialista di Nietzsche cresce di
quando in quando fino all’antipolitico, nel senso che egli si rivolge in generale contro lo Stato e la
vita dello Stato. Nello Stato moderno, infatti, il socialismo di Stato va mano nella mano con la
burocrazia, e in forza di innumerevoli regolamenti la libertà dell’individuo viene repressa» (H.
Vaihinger, Nietzsche als Philosoph, Berlin, Reuther & Reichard, 1902, p. 76).
4
La cultura e lo Stato – non ci si inganni in proposito – sono
antagonisti: “Stato di cultura” è soltanto un’idea moderna. L’una
cosa vive dell’altra, l’una cosa prospera a spese dell’altra. (Ibid.)
Solo sulla base di questa sua natura impolitica è possibile intendere l’unico
concetto politico che Nietzsche abbia almeno tentato di definire: quello di grande
politica (große Politik). Non si vorrebbe essere tentati dal simbolismo (per altro
postumo) delle date, ma che il frammento intitolato La grande politica (25[1]) sia
stato scritto tra la fine del dicembre 1888 e i primi del gennaio 1889 (dunque a
pochi giorni dal crollo psichico) esercita una forte tentazione in tal senso.
Tentazione, tra l’altro, accresciuta dalle parole che aprono il frammento: «Io porto
la guerra» (NF, KSA, 13, 637), un’evidente allusione alle parole di Gesù in Mt 10,
34: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a
portare la pace ma la spada». Non si può non pensare ai biglietti della follia
spediti agli amici, pochi giorni dopo, da Torino, e firmati alternativamente
Dioniso
e
Il
crocifisso.
A
dispetto
di
queste
suggestioni,
tuttavia,
l’argomentazione del frammento è oltremodo lucida. Questa guerra, spiega
Nietzsche, non viene portata «tra popolo e popolo», poiché non v’è nulla che egli
disprezzi di più dell’«esecrabile politica animata dagli interessi delle dinastie
europee», che si fa «un principio e quasi un dovere» «dell’egoismo, anzi della
presunzione dei popoli l’uno contro l’altro». E neppure dev’essere intesa come
una guerra «tra i ceti», poiché ciò presupporrebbe l’esistenza di ceti superiori e
ceti inferiori; ma, dal momento che non esistono oggi ceti superiori, non ne
esistono per conseguenza neppure di inferiori. Questa guerra passa attraverso le
categorie rappresentate da «popolo, ceto, razza, professione, educazione,
istruzione». È una guerra resa necessaria dal fatto che la volontà non è più libera,
in quanto il suo affermare e negare si limitano all’affermazione di «ciò che si è» e
alla negazione di «ciò che non si è»; è una guerra contro la «volgarità del
numero», che parla «a favore dei “cristiani”». Conseguenza, questa, del fatto che
«per due millenni» gli uomini sono stati educati ad un «controsenso fisiologico»,
5
la denigrazione degli istinti, e che, pertanto, la decadenza di tali istinti è divenuta
un dato di fatto. Si tratterà, dunque, di «una guerra come tra l’ascesa e il declino,
tra volontà di vita e sete di vendetta contro la vita». Poiché, com’è noto, Nietzsche
identifica quest’ultima con il ressentiment che costituisce l’aspetto specificamente
nichilistico del cristianesimo, la grande politica, in quanto mira a rimettere in
auge la vita istintuale nel suo significato fisiologico, si presenta come una precisa
Gegenbewegung avversa al nichilismo:
La grande politica vuole affermare la fisiologia sopra tutti gli altri
problemi; vuole creare una potenza abbastanza forte per allevare
(züchten) l’umanità come un tutto superiore, con spietata durezza
contro la degenerazione e il parassitismo della vita – contro ciò che
corrompe, avvelena, calunnia, manda in rovina… (NF, KSA, 13,
638)
La grande politica è «guerra mortale al vizio», dove per quest’ultimo si
intende lo screditamento degli istinti imposto dalla morale cristiana. La grande
politica è, in questo senso, il progetto di una nuova Kultur che dovrà consentire la
selezione «delle razze, dei popoli, degli individui» in base alla loro volontà di
futuro (ibid.)10. È da sottolineare come Nietzsche identifichi la presentita
catastrofe dell’Europa con la propria personale catastrofe. Egli parla in prima
persona: «Io porto la guerra». Questa identificazione la si coglie pienamente in un
altro frammento (25[6]) dello stesso periodo, che è in realtà una diversa stesura
del capitolo conclusivo di Ecce homo, Perché io sono un destino:
10
Che Nietzsche elabori, in questo programma, suggestioni provenienti da letture tardopositivistiche è evidente. Il richiamo alla fisiologia è indice, secondo D. Losurdo, di una «tendenza
a leggere in chiave naturalistica la storia e il conflitto», e se, per fisiologia, egli intende quel
complesso di scienze «che prendono le mosse dalla natura e dal corpo», ad esse egli affida il
compito di liquidare una volta per sempre l’idealismo ossia, nel suo intendimento, l’intera eredità
della Rivoluzione francese; cfr. D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia
intellettuale e bilancio critico, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 626-629. Discutere la
possibilità che questo richiamo alla fisiologia rappresenti un’adesione al programma di
un’eugenetica razzista porterebbe troppo al di là dei limiti di questo intervento.
6
Conosco la mia sorte. Al mio nome si legherà un giorno il ricordo di
qualcosa di immenso, di una crisi, come non ce n’è stata ancora sulla
terra, di una profondissima collisione di coscienze, di una decisione
evocata contro tutto ciò che era stato creduto, preteso, consacrato.
(NF, KSA, 13, 639)
Fin qui il frammento coincide con il testo di Ecce homo. Ma, a questo
punto, il frammento prosegue:
E con tutto ciò non c’è in me niente del fanatico; chi mi conosce, mi
ritiene uno studioso semplice, forse con un po’ di cattiveria, che sa
essere allegro con tutti. (Ibid.)
Queste parole, di quasi rassegnata modestia, sono sostituite nel testo
pubblicato, a sottolineare la volontà di identificazione con un destino che non è
più quello del semplice studioso, dal celebre proclama: «Io non sono un uomo,
sono dinamite» (EH, KSA, 6, 365). Come ha osservato Löwith, «il destino
dell’Europa coincide nel sentimento e nel pensiero di Nietzsche con lui stesso».
Questo è ciò che, della riflessione nietzschiana, è propriamente politico; e «questa
prospettiva politica non si colloca ai margini della filosofia di Nietzsche, ma al
suo centro»11. In questo centro sta l’idea-cardine del radicalismo aristocratico.
«Non parlo mai alle masse», prosegue il testo di Ecce homo, che insiste
sull’identificazione con Gesù: «Io sono un lieto messaggero (ein froher
Botschafter) quale mai si è visto» (EH, KSA, 6, 366) (e stavolta è la versione
scartata del frammento a sottolineare il senso universale della propria sorte: «per
quanto sia anche destinato a essere l’uomo della catastrofe», NF, KSA, 13, 640).
Quel che il lieto messaggero annuncia è la fine della «millenaria menzogna»,
ossia della morale: è la «guerra degli spiriti» in cui deve trasformarsi tutto ciò che
11
K. Löwith, Der europäische Nihilismus. Betrachtungen zur geistigen Vorgeschichte des
europäischen Krieges (1940), in Sämtliche Schriften, vol. 2, Stuttgart, Metzler, 1983:
Weltgeschichte und Heilsgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, pp. 508-509.
7
sinora è andato sotto il nome di politica, e a cui seguirà ogni genere di cataclismi
fisici e politici:
Avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e
valli che si spostano, come mai prima si era sognato […] tutti i centri
di potere della vecchia società salteranno in aria – sono tutti fondati
sulla menzogna: ci sarà guerra, come mai prima sulla terra. (EH,
KSA, 6, 366)
Il brano si conclude con un proclama nel quale diagnosi storico-politica e
destino personale tornano ad identificarsi: «Solo a partire da me ci sarà sulla terra
grande politica» (ibid.). Date le premesse poste nel brano, si deve concludere che
la visione nietzschiana della politica, anzi della grande politica, è interamente
determinata dalla posizione nei confronti della morale. Politica è la lotta per lo
smantellamento della morale; questo smantellamento passa, in primo luogo,
attraverso la separazione delle passioni dall’ornamento (Aufputz) morale che
viene loro applicato, in modo che, tramite esse, torni a parlare direttamente la
natura. In un frammento (9[75]) dell’autunno 1887 Nietzsche scrive:
Un periodo in cui ripugnano le antiche mascherate e le acconciature
morali (Moral-Aufputzung) delle passioni (Affekte): la natura nuda,
in cui le quantità di potenza (Macht-Quantitäten) sono
semplicemente riconosciute come decisive (come determinatrici
della gerarchia); in cui il grande stile ritorna in auge, come
conseguenza della grande passione. (NF, KSA, 12, 375)
In altre parole, questa separazione è opera della volontà di potenza, in cui si
riconosce l’essenza di una natura nuda12, privata cioè dei falsi orpelli della
12
In un frammento (14[79]) della primavera 1888 che ha per titolo Volontà di potenza/Filosofia e,
come una sorta di sottotitolo, «Quanti di potenza. Critica del meccanicismo», Nietzsche sostiene
che occorre sbarazzarsi dei «concetti popolari» di «“necessità”» e «“legge”». Essi presuppongono
che ogni accadimento si realizzi in virtù della costrizione o della libertà, mentre in natura è
determinante soltanto «il grado di resistenza e il grado di prepotere»; ogni pensiero che ponga la
natura come qualcosa di diverso dal puro e semplice scontro di quanti di forza (come avviene
nell’ipotesi meccanicistica che spiega la natura sulla base del concetto di causa) è un pensiero
morale: «Ma noi non portiamo una “moralità” nel mondo per il fatto di fingerlo obbediente» (NF,
KSA, 13, 257-258). In un altro frammento (14[81], Critica del concetto di “causa”) dello stesso
8
morale. Riconoscere questa natura significa essere capaci di grande stile. Volontà
di potenza, grande stile, grande passione, grande politica sono espressioni quasi
sinonime che stabiliscono tra loro forme di mediazione. La violenza reclamata
dalla «guerra degli spiriti» contro la morale è quella stessa violenza con cui gli
uomini meglio riusciti sottomettono, innanzitutto, le proprie passioni. Nietzsche
identifica questa classe di uomini con gli aristocratici. Già questo basta ad
intendere come essi costituiscano per lui una categoria morale e non meramente
sociale; la genealogia di questa categoria è infatti ricostruita in Al di là del bene e
del male e nella Genealogia della morale. La definizione del typos
dell’aristocratico è il risultato della definizione dell’uomo del grande stile, che
Nietzsche è venuto man mano costruendo già negli anni precedenti. Non potendo
qui soffermarci sull’intero sviluppo di questo concetto, che ha la sua origine già
nelle Considerazioni inattuali13, prendiamo in esame almeno il modo in cui esso
viene proposto nella Gaia scienza. Qui, nell’af. 290 (Una cosa sola è necessaria),
Nietzsche afferma:
“Dare uno stile” al proprio carattere: è un’arte grande e rara.
L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la
sua natura in fatto d’energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto
questo in un piano artistico, finché ogni cosa non appare come arte e
ragione, e perfino la debolezza incanta l’occhio. (FW, KSA, 3, 530)
È in ciò implicita una violenza, e un atto di arbitrio, a cui corrisponde una
passione che è il segno delle nature dominatrici:
Infine, quando l’opera è compiuta, si rivela che fu la costrizione
imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come
periodo Nietzsche parla di «quanti di energia (Kraft-Quanta) la cui essenza consiste nell’esplicare
potenza su tutti gli altri quanti di energia» (NF, KSA, 13, 261). Circa il fatto che questa natura
della volontà di potenza come scontro di quanta di forza, e dunque come principio plurale,
smentisca l’interpretazione heideggeriana della stessa volontà di potenza come principio unico
posto a fondamento del reale, e dunque come ens metaphyisicum, cfr. W. Müller-Lauter,
Nietzsche-Interpretationen I. Über Werden und Wille zur Macht, Berlin-New York, De Gruyter,
1999, pp. 38-44. Rimando inoltre al mio Nietzsche, Madrid, Biblioteca Nueva, 2004, pp. 380-393.
13
Rimando, per questo, di nuovo al mio Nietzsche, cit., pp. 115-124.
9
nel piccolo: se il gusto era buono o cattivo, ha meno importanza di
quel che si pensi – è sufficiente che esso sia un gusto unitario! Saranno
le nature forti e dominatrici a godere in una tale costrizione, in una tale
vincolata disciplina e compiutezza sotto una propria legge, la loro
gioia più sottile; la passionalità del loro possente volere (die
Leidenschaft ihres gewaltigen Wollens) si addolcisce allo spettacolo di
ogni natura stilizzata, di ogni natura vinta e ridotta in servitù. (Ibid.)
In un frammento (14[61]) della primavera del 1888, intitolato “Musica” e il
grande stile, Nietzsche descrive la grandezza di un artista come la sua capacità di
grande stile, che ha in comune con la «grande passione» «il fatto che disdegna di
piacere, che dimentica di persuadere, che comanda, che vuole». Quel che segue è
la definizione compiuta del grande stile: «Dominare il caos che si è, costringere il
proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco,
matematica, legge»14. Nietzsche definisce gli uomini capaci di ciò «uomini della
violenza» (Gewaltmenschen): «intorno ad essi si forma un deserto, un silenzio,
una paura come di fronte a un grande sacrilegio» (NF, KSA, 13, 247). Il contesto
in cui Nietzsche colloca l’espressione Gewaltmenschen indica chiaramente come
egli derivi il termine da Burckhardt15. Questo Gewaltmensch ha i tratti
inconfondibili del tiranno rinascimentale – del Gewaltherrscher – tratteggiato da
Burckhardt nella prima parte della Civiltà del Rinascimento in Italia, intitolata Lo
Stato come opera d’arte (Der Staat als Kunstwerk), in cui l’agire soggettivo e
14
Gioverà anche solo accennare al fatto che attorno a questo concetto ruota, per buona parte,
l’interpretazione heideggeriana della volontà di potenza come arte; cfr. M. Heidegger, Nietzsche,
cit., vol. I, pp. 146-162.
15
Nella seconda parte del frammento citato (14[61]), Nietzsche si chiede: «Perché un musicista
non ha mai costruito finora come l’architetto che creò il Palazzo Pitti?» (NF, KSA, 13, 247). In un
frammento (11[197]) della fine di agosto del 1881 aveva esplicitato la sua fonte: «“Evitare tutto
quanto è grazioso e piacevole, come un uomo violento che disprezza il mondo (als ein
weltverachtender Gewaltmensch)” dice Jacob Burckhardt vicino a Palazzo Pitti» (NF, KSA, 9,
520). Ancora, successivamente, in un frammento (25[117]) della primavera 1884: «Si è
considerato “impersonale” ciò che era l’espressione delle persone più possenti (Jacob Burckhardt
con buon istinto davanti a Palazzo Pitti). “Uomo della violenza” (Gewaltmensch)» (NF, KSA, 11,
44). Entrambi i passi rimandano al Cicerone, in cui Burckhardt scrive, a proposito di Brunelleschi
e di Palazzo Pitti: «Viene naturale la domanda chi fosse quest’uomo dispotico, spregiatore del
mondo (der weltverachtende Gewaltmensch), che grazie ai mezzi di cui disponeva, cercava di
tenersi lontano da tutto ciò che fosse piacevole e leggiadro» (J. Burckhardt, Der Cicerone. Eine
Einleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens, vol. I, in Gesammelte Werke, vol. IX, Basel,
Schwabe, 1958, p. 149).
10
arbitrario del signore diviene forma oggettiva nello Stato: «L’illegittimità,
circondata da continui pericoli, isola il tiranno: l’alleanza più onorevole ch’egli
possa stringere, è quella degli uomini superiori, senza riguardo alla loro origine».
Delegittimato al governo dalla propria origine, spesso umile, il tiranno
rinascimentale trova nell’arte la propria, nuova, legittimazione: «Assetato di
gloria e desideroso di trionfi e di monumenti, egli apprezza l’ingegno e se ne
giova. Col poeta e con l’erudito si sente sopra un terreno nuovo, e quasi in
possesso di una nuova legittimità»16.
La capacità di legittimarsi attraverso l’arbitrio e la capacità artistica sono,
per Nietzsche, i tratti essenziali dell’aristocratico. La figura burckhardtiana del
Gewaltherrscher fornisce il modello di un’aristocrazia della Kultur capace di un
esercizio della bellezza per il quale le masse non hanno intelligenza. Il proclama
di Ecce homo – «non parlo mai alle masse» – ha il senso di una dichiarazione
politica in quanto si richiama ad una presa di posizione estetica: è il punto, in altre
parole, in cui il grande stile si traduce in grande politica, e rende quest’ultima
comprensibile solo sulla base del primo17. A riprova di ciò, consideriamo il modo
in cui Nietzsche spiega l’origine dello Stato nella seconda dissertazione della
Genealogia della morale. Esso è il risultato di uno spaventoso atto di arbitrio,
«meccanismo stritolatore e senza scrupoli», grazie al quale una «materia grezza di
popolo e di semianimalità» viene impastata e, finalmente, «dotata di una forma».
Gli autori di questa violenza sono descritti con parole volutamente crude:
Un qualsiasi branco d’animali da preda (Raubthiere)18, una razza di
conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la
forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su
16
J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien. Ein Versuch, in Gesammelte Werke, vol.
III, Basel, Schwabe,1955, p. 5.
17
Così Heidegger, sebbene non sul fondamento di un’analisi prettamente politica: «Il grande stile
può essere creato soltanto con la grande politica, e la grande politica ha l’intima legge della sua
volontà nel grande stile» (Nietzsche, cit., vol. I, p. 185).
18
Il testo tedesco ha in realtà irgend ein Rudel blonder Raubthiere, e cioè: «un qualsiasi branco di
biondi animali da preda». Il passo sta dunque in analogia con la «bionda bestia germanica» della
prima dissertazione della Genealogia della morale (GM, KSA, 5, 275 e 276).
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una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora
informe, errabonda. In questo modo ha inizio sulla terra lo “Stato”.
(GM, KSA, 5, 324)
In maniera tacita, Nietzsche indica il suo contrappunto polemico; come
sempre, Rousseau: «Penso che sia liquidata quella fantasticheria che lo [sc. lo
Stato] faceva cominciare con un “contratto”» (ibid.). E, sempre in maniera tacita,
indica anche il suo riferimento; che è, ancora una volta, Burckhardt. L’opera di
questi dominatori «è un’istintiva plasmazione di forme, espressione di forme»;
essi sono «gli artisti più spontanei, più inconsapevoli che esistano» (GM, KSA, 5,
325). Insomma, un concreto richiamo alla formula burckhardtiana dello Staat als
Kunstwerk. E, se ci fosse bisogno di una verifica, pochi passi dopo Nietzsche
chiama i creatori dello Stato «artisti della violenza» (Gewalt-Künstler) (ibid.):
termine che è un calco evidente del Gewaltmensch e del Gewaltherrscher di
Burckhardt. Qui, però, assistiamo nuovamente al modo in cui tematica politica e
tematica estetica figurano intrecciate, e sostanzialmente coincidenti, con la
tematica morale. Quella stessa «forza attiva» che spinge i Gewalt-Künstler ad
edificare Stati li spinge anche a crearsi la «cattiva coscienza» e ogni ideale
negativo. Questa forza attiva è l’«istinto della libertà» – «(per esprimermi nel mio
linguaggio: la volontà di potenza)» (GM, KSA, 5, 326). Sia detto per inciso, se
politica e morale sono per Nietzsche due risvolti dello stesso problema, la
Genealogia della morale – insieme magari ad Al di là del bene e del male – è
l’autentico libro politico (sia pure con tutte le limitazioni accennate all’inizio) di
Nietzsche. La libera creazione della cattiva coscienza è il risultato
dell’applicazione a se stessi della «natura plasticamente formatrice e tirannica»,
della «segreta tirannide su se stessi», della «crudeltà di artisti». E questo risultato
può essere colto come bellezza, anzi come «la bellezza». Una bellezza, dunque,
che si discrimina come tale in riferimento ad altri stati interni (perciò estetica e
morale si trovano a coincidere) avvertiti come brutti:
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Che cosa, infatti, sarebbe “bello”, se prima la contraddizione non
fosse divenuta cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse
detto a se stesso: “Io sono brutto”? (Ibid.)
La distinzione bello/brutto (nel suo duplice senso estetico e morale) è
insomma il risultato di una dimidiazione del sé che ha la sua ragione nella
smisurata forza, libertà, generosità e grandezza d’animo riconosciute ai
dominatori. Vale a dire, è un trasferimento al soggetto «uomo» in generale («lo
stesso uomo, il suo intero, animalesco, antico sé», ibid.) di quel sentimento che,
letto in questo caso nel suo significato sociale, nell’ultimo capitolo di Al di là del
bene e del male (Che cos’è aristocratico?) e nella prima dissertazione della
Genealogia della morale, Nietzsche definisce come pathos della distanza (Pathos
der Distanz). È questo il sentimento che definisce la natura dell’aristocratico.
Questo tema ci dà conferma, innanzitutto, della sostanziale unità della
riflessione nietzschiana. Pur nella diversità degli argomenti, può esser fatto ancora
valere come un essenziale avvertimento metodologico quanto Nietzsche aveva
affermato nella Filosofia nell’epoca tragica dei Greci, dichiarando la propria
indifferenza ai primordi della filosofia «poiché ovunque inizio significa rozzezza,
mancanza di forma, vuoto e bruttezza, e poiché in ogni campo hanno importanza
soltanto gli stadi superiori» (PHG, KSA, 1, 806). Non ha un senso diverso
l’affermazione che si legge in Al di là del bene e del male: «La classe aristocratica
è stata sempre, in principio, la casta barbarica» (JGB, KSA, 5, 206). Il che
significa, tenendo presente quanto detto sopra a proposito dei Gewalt-Künstler,
che la forma presuppone sempre l’informe come condizione e continua a
conservarlo, per così dire, nella propria ombra. Come conferma la Genealogia
della morale:
Sono le razze nobili ad aver lasciato su tutte le loro orme la nozione
di “barbaro”, ovunque siano esse passate; il loro superiore livello di
cultura tradisce ancora una consapevolezza di questo fatto e persino
un orgoglio a questo riguardo. (GM, KSA, 5, 275)
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Ciò che determina lo scarto tra forma e mancanza di forma è il pathos della
distanza. E forma è in questo caso, innanzitutto, la forma della vita sociale: una
società «che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di
valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù» (JGB,
KSA, 5, 205). Gli aristocratici sono dunque gli autori della prima forma sociale.
Senza questa originaria manifestazione esteriore, senza questa dimidiazione di
fatto, non potrebbe prodursi quella interiore dimidiazione, di cui si è detto più
sopra, che si traduce in termini specificamente morali. Se il pathos della distanza
non nascesse innanzitutto «dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante
ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e
strumenti», non potrebbe nascere neppure «quel desiderio di un sempre nuovo
accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa» (ibid.). Siamo con ciò di
fronte ad un rovesciamento per cui il supposto primato nietzschiano della morale
sulla politica si rivela in realtà come primato della politica? Non proprio. Già
l’accenno all’altezza di sguardo, nel brano appena citato, è rivelatorio. Nietzsche
non usa qui – o, piuttosto, non presume di usare – argomenti politici, ma
psicologici o fisiologici. La continuità che si stabilisce tra Al di là del bene e del
male e la Genealogia della morale riguardo al tema dell’aristocratico porta
all’evidenza l’autentico interesse che muove Nietzsche alla stesura di questi due
testi. Il secondo è l’esito inevitabile del primo, e l’obiettivo finale della ricerca –
secondo quanto Nietzsche afferma nella Prefazione della Genealogia della morale
– è l’esposizione dei suoi «pensieri sull’origine dei nostri pregiudizi morali» (GM,
KSA, 5, 248)19. Questa esposizione inizia, di fatto, con l’analisi dell’origine del
19
Va da sé che l’inizio di questa ricerca può essere spostato molto all’indietro. Di fatto, come
Nietzsche stesso afferma nella Prefazione alla Genealogia della morale, almeno fino a Umano,
troppo umano. Questa precisazione gli serve anche per prendere le distanze dall’amico di quel
tempo, Paul Rée, del cui libro sull’Origine dei sentimenti morali (1877) egli ammette, in
definitiva, un’influenza su Umano, troppo umano, dichiarando che da quel «libriccino chiaro,
pulito e accorto, pure saputello» gli era venuto l’impulso a manifestare le sue prime ipotesi «sulla
genesi della morale» (fase che corrisponde, appunto, a Umano, troppo umano); ma dichiarando
anche, con postuma fermezza: «Forse non ho mai letto nulla, cui dentro di me avessi detto a tal
punto no, frase per frase, conclusione per conclusione, come a questo libro» (GM, KSA, 5, 250).
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concetto di buono contenuta in Al di là del bene e del male, basata sull’essenziale
distinzione tra una «morale dei signori» e una «morale degli schiavi»:
Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una
stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava
coscienza della propria distinzione da quella dominata – oppure in
mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. (JGB,
KSA, 5, 208-209)
La designazione di buono è il modo in cui il dominatore avverte se stesso,
attraverso i propri sentimenti («gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima»),
come appartenente al grado più alto della gerarchia. Qui è all’opera il pathos della
distanza, espressione in cui il termine pathos sta ad indicare il sentire se stesso,
proprio dell’aristocratico, come determinato dalla distanza: «L’uomo nobile
separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati
d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza» (JGB, KSA, 5, 209). Sul lato
opposto, quello della morale degli schiavi, vengono messi in luce quelle qualità
«che servono ad alleviare l’esistenza ai sofferenti»: «la pietà, la mano
compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l’operosità, l’umiltà,
la gentilezza» (JGB, KSA, 5, 211). Nel complesso, una visione negativa
dell’umanità, «forse una condanna dell’uomo unitamente alla sua condizione»
(ibid.). Per conseguenza, solo la morale aristocratica può essere una morale
positiva, che rivendica con orgoglio a se stessa una visione affermativa dell’uomo
in generale. Solo gli aristocratici possono chiamare se stessi «“Noi veritieri”»
(“Wir Wahrhaftigen”): «così i nobili chiamavano se stessi nell’antica Grecia»
(JGB, KSA, 5, 209).
Su questo punto si innesta, con maggior precisione e ricchezza di argomenti,
l’analisi della prima dissertazione della Genealogia della morale. Richiamandosi
a Teognide di Megara, definito «portavoce» (Mundstück) dell’aristocrazia greca,
Nietzsche osserva come l’aristocratico greco chiamasse se stesso ejsqlovı, ossia
«qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero». All’opposto, i termini
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kakovı e deilovı designano «il plebeo in contrapposizione all’ajgaqovı» come
mentitore e codardo (GM, KSA, 5, 263). Nietzsche riproduce qui, pressoché alla
lettera, la posizione della silloge teognidea. E, anzi, riprende i temi già svolti nella
Dissertatio de Theognide Megarensi, l’esercitazione con cui, nel 1864, si era
congedato dal “ginnasio” di Pforta. In essa egli osservava come Teognide
discriminasse una parte del popolo come «toùs agathoùs ossia gli ottimati, gli
uomini dabbene, depositari di tutto il culto religioso (omnis erga deos religio
pietasque)», e un’altra come «toùs kakoùs o deiloùs, gravati di ogni perversione
morale, di ogni empietà e scelleratezza» (KGW, I/3, 455). Teognide illumina
insomma «illam superbam Doriensis nobilitatis persuasionem» (KGW, I/3, 459),
che soltanto la nuova oligarchia del denaro, nutrita dei patrimoni accumulatisi con
i proventi dei traffici marittimi, scalza dal potere minando quei valori (la «erga
deos religio pietasque») dei quali l’aristocrazia era stata fondatrice e custode.
Una polemica antiborghese, quella di Nietzsche, che si fa carico di tutte le
ambiguità del caso, non esclusa l’esaltazione dell’origine ariana di ogni
aristocrazia di contro all’origine pre-ariana della classe plebeo-borghese.
Ambiguità che diventa esplicito segno ideologico quando lo sguardo passa dalla
Grecia inattuale agli imminenti destini dell’Europa:
Chi ci garantisce che la moderna democrazia, l’ancor più moderno
anarchismo, e specialmente quella tendenza alla “commune”, alla
forma più primitiva di società, che è oggi comune a tutti i socialisti
d’Europa, non debba significare essenzialmente un enorme
contraccolpo – e che la razza dei conquistatori e dei signori, quella
degli ariani, non sia per soccombere anche fisiologicamente? (GM,
KSA, 5, 264).
Si tratta di un evidente venir meno, da parte di Nietzsche, alla propria
dichiarazione di impoliticità, alla necessità di guardare alla politica da una
prospettiva inattuale per poterne recuperare il senso autentico. È questo
smottamento della impoliticità ad essere, in Nietzsche, propriamente politico. Ma
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si tratta, anche, di quella inevitabile resa dei conti con la storia che ogni pensiero,
per quanto inattuale, deve affrontare come un destino. Ed è, alla fine dei conti,
grazie anche a queste inconciliabili contraddizioni che leggere Nietzsche, e
comprenderlo, ci si presenta ancora oggi come un compito del pensiero.
Carlo Gentili
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1 NIETZSCHE POLITICO O IMPOLITICO? Che al pensiero di