00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 ',)(6$'(//$75$',=,21( ,PLVWHULGL0LWKUD 7+8/(62&, 1HPLORVSHFFKLRGL'LDQD VHWWHPEUHRWWREUH 62&,(7$¶ 'LVRFFXSD]LRQHLQSLOOROH 12:59 Pagina 1 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 12:59 Pagina 2 EDITORIALE di Lodovico Ellena ......................................3 RIVOLUZIONE E TRADIZIONE RIPOPOLAMENTO di Alessandro Murtas ..................................6 STORIA E CONTROSTORIA NAZIONALSOCIALISMO di Matteo Pastori ......................................12 CURIOSITÀ GIUDEO MASSONICHE di Marco Linguardo ..................................14 GLI UFO ESISTONO DAVVERO? di Massimo Buzzurro ................................18 DIFESA DELLA TRADIZIONE I MISTERI DI MITHRA di Alessandro Riccardi ..............................24 LA MODERNA RELIGIONE DELLA SCIENZA di Michele Russo ......................................34 PLATONE - SECONDA PARTE di Matteo Pastori ......................................38 THULE SOCI ISLANDA di Lodovico Ellena ....................................48 PELLEGRINAGGIO A NEMI di Antonella Tucci ....................................56 PERCORSI AL FEMMINILE LE DANZE SACRE FEMMINILI di Antonella Tucci ....................................60 RECENSIONI UNO SCRITTORE BENITENZIONATO di Valerio Raimondi ..................................68 SOCIETÀ DISOCCUPAZIONE IN PILLOLE di Enrico Gavassino ..................................74 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 12:59 Pagina 3 Editoriale di Lodovico Ellena Di quando in quando si levano voci sempre più numerose relative ai costi della macchina politica nazionale, costi che al di là delle percentuali e dei confronti con analoghe strutture di altri Stati hanno un che di mortificante. E tutto nella - quasi - assoluta indifferenza della popolazione, troppo distratta e preoccupata invece dell’ultimo flirt di qualche ballerina o degli sviluppi di qualche truculenta inchiesta di cronaca. E dei privilegi parlamentari - esponenziali ed in buona parte del tutto ingiustificati, delle legioni di auto blu, delle campagne elettorali milionarie (carine quelle di sedicenti ambientalisti che sterminano foreste per far circolare le loro facce su tonnellate di manifesti giganti), del costo di certi detenuti che meriterebbero invece di spaccare pietre per tre vite e della decadenza culturale chissenefrega. Si dice che ognuno ha il governo che si merita, vero, ma altrettanto vero il fatto che esistano minoranze in lentissima crescita a cui tutto ciò comincia a stare sempre più stretto, al punto di avvertire con sempre maggiore chiarezza un prurito ogni giorno più insopportabile ed irritante. Mai come nelle ultime tornate elettorali infatti la convinzione, anche da bar, che alla fine tutta questa classe politica sia roba scaduta e puzzolente si và facendo strada, ma in conclusione manca alla fine il modo per manifestare quell’urlo feroce che sempre più “elettori” sentono crescere dal loro profondo. Un ruggito di rivolta, di protesta, un rigurgito di nausea, di disgusto contro tutta questa classe politica nella sua interezza senza più l’ombra di una qualsiasi dignità. E che si tratti di una colossale truffa, rossa, bianca o nera la si voglia vedere lo dimostra il fatto che la prima delle riforme da farsi non è mai stata né mai sarà fatta, ossia la riduzione dei costi di questa intera classe politica. Rileggere Fidel Castro potrebbe diventare a questo punto un interessante stimolo che al di là della collocazione ideologica del personaggio, sulla quale si potrebbe comunque a lungo dibattere, sarebbe invece utile ginnastica intellettuale per trascendere categorie e idee preconfezionate. Perché non è più questione di simboli, bandiere o gadget, piuttosto è qui in gioco il futuro economico, politico, religioso, ludico e sociale di tutto: e o si trova la forza di dare un poderoso calcio a questo complesso sistema di privilegi, sperperi, assurdità, intrallazzi e meschine parrocchie fagocitanti tonnellate di briciole, o quel calcio continueremo a prenderlo invece tutti noi giorno dopo giorno: consenzienti e genuflessi. Questa politica, questa destra questa sinistra questo centro sono un cancro sociale, e o si è parte del problema o si è parte della soluzione. Si cominci quindi a riflettere e a far riflettere ovunque su di una elementare evidenza: cosa giustifica che milioni di euro vengano divorati da questa politica e dai suoi effetti collaterali? Cosa giustifica che deputati, senatori, ministri o sottosegretari debbano avere stipendi, pensioni e premi per migliaia e migliaia di euro mensili? Cosa giustifica che parlamenti nazionali e regionali consumino una quantità tale di ricchezza che potrebbe invece essere distribuita in ben altro modo al popolo? Da questi elementari ma rivoluzionarie fatti deve muovere il primo passo per la rinascita di questo malridotto paese e chi non li persegue oggi più che mai è un truffatore del popolo: rosso, verde o nero si dica. Siamo governati da truffatori che producono leggi per legittimare la propria truffa: aiuto. 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 12:59 Pagina 4 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 12:59 Pagina 5 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:00 RIPOPOLAMENTO L’Uomo di Thule apprende ogni giorno, nello scontrarsi con la realtà quotidiana, i diversi aspetti del mondo moderno a cui si è votato combattere, per Istinto sovrasensibile, che come tutti gli aspetti sottili è legato al Sangue, anche nel suo aspetto biologico. Tra questi vi è lo sradicamento dal Suolo che l’uomo bianco, Europeo nel nostro caso, ha subito e portato avanti dal tardo IX secolo in poi. Nel frangente di anni che ci separano da quando il “mito della città” si affacciò preponderante, inteso come modello di “modernismo” e “progresso”, inteso come “fumo e cemento” e non più come Polis, Capitale, centro propulsore di Politica, Arte e Cultura miranti verso l’Alto, ci sono state delle rivolte, sul Suolo Patrio, che traevano origine da quella misteriosa forza insita nel Sangue e nel Suolo. E’ a questa forza che dobbiamo richiamarci e riallacciarci, in una graduale purificazione dalle scorie moderniste che nel migliore dei casi si sono tenute sotto controllo nell’ambito del nostro vivere. Sia chiaro che non si vuole rigettare ciò che costituisce un arricchimento della vita e nemmeno ciò che i nostri Avi hanno creato non per porci al servizio di un sistema tecnocratico ma per avanzare in una maggiore conoscenza delle leggi naturali, e mai comunque con la presunzione di “dominio” delle stesse, vero sacrilegio dell’era moderna. Come ogni mezzo anche la tecnologia deve essere messa al servizio di un Ordine superiore che s’incarni nell’identificare ogni aspetto della Vita con la comunione del sangue e quindi del suolo. Oggi che la stessa agricoltura, quella che fu arte definibile come alchimia della terra, quella Scienza che aveva nei suoi maestri i Contadini la cui vita era scandita dalla sua semina e dal suo raccolto, dalla luce del Sole che riscaldava sé, il suo lavoro e dava vita alla sua opera, viene sottoposta uno schema meramente economico e globalista a detrimento degli ultimi resti di un contadinato europeo che si trova alla triste scelta del “adattarsi o scomparire”. Questo ha come riflesso lo spopolamento dei piccoli centri e l’annichilimento della Fedeltà all’Ethnos abbagliati dalle luci di quel grande centro commerciale di multirazzialità militante che sono ormai diventate le capitali e i capoluoghi europei. Anche in questo triste scenario la Thule non si deve lasciar travolgere dagli eventi ma pianificare una 6 Pagina 6 di Alessandro Murtas (Avatar) Resistenza Attiva, che alla fine, con gli adeguati mezzi, non potrà che costituirne un argomento di lotta centrale. Fin dai primordi della Thule Italia vi è stata un’aspirazione a lungo termine alla creazione di un attivo centro agro-urbano, che costituisse la cellula di un nuovo quanto Ancestrale modello di società. Un progetto ambizioso, un sogno ancor prima di un’idea, ma come tutto ciò che nasce dalle menti degli Uomini Contro il Tempo, che ancora muovono la loro Guerra Santa, e si riuniscono sotto il Nero Stendardo della Thule Italia, non irrealizzabile. Vi è da pianificare un metodo per giungere all’obiettivo datosi: - Con le escursioni i Fratelli devono imparare a conoscere il proprio territorio, la propria storia e a sentire scorrere in se la voce degli Avi oltre che a costituire un lavoro di documentazione comune all’Associazione. - Individuano punti di forte riferimento Storico, Mitico e Archetipico del proprio Territorio, a cui ogni Sezione Regionale deve richiamarsi. E’ importante trovare in ogni regione un luogo geografico in cui siano presenti al massimo questi aspetti, che faccia da centro di riferimento spirituale, in cui ritrovarsi nelle ricorrenze o nelle festività solstiziali: un Castello, una Foresta, una Necropoli, un luogo in cui si svolse una rilevante battaglia significativa nella difesa del Suolo Europeo contro i suoi nemici ecc.. - Si rendono così conto di come questi stessi luoghi, siano spesso non abbastanza curati, non abbastanza ricordati, a volte abbandonati. Di come vicino ad essi possano esserci centri abitati che vanno vieppiù spopolandosi; e qui si ritrova una certa logica: dove un tempo abitavano gli Eroi oggi non c’è commercio, non c’è traffico, non c’è caos, automaticamente quel luogo sta fuori dal Grande Circolo mercantile. Ecco che gli spiriti deboli sono attratti verso il basso e vanno incontro a questo circolo. E’ qui che la Thule può pensare di intervenire. Ripopolare e ampliare con Uomini e Donne Europei quei centri che hanno “perso” il carattere Tradizionale (in realtà questo carattere in sé non può mai essere perso bensì solo momentaneamente scordato), e renderli di nuovo centri della Tradizione. E’ indubbio che un simile progetto comporta mezzi e capacità, questi mezzi e queste capacità sono portati da menti umane, le menti Rivoluzione e Tradizione 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:00 Pagina 7 umane sono attratte o respinte da ciò che è in sintonia degni di essere così definiti. con il loro spirito, con la propria vocazione. Ecco allora Da un punto di vista economico esso dovrebbe nascere che il primo passo, nel momento in cui si ritiene di essere facendo leva su progetti di “moneta locale”, che già sia pronti, per attrarre a questo progetto chi effettivamente in Italia che in altre parti d’Europa si sono visti ha non solo volontà di “popolare” ma ancor prima chi realizzati e alcuni perdurano tutt’ora. Innestarsi nel metta a disposizione le proprie capacità in termini luogo geografico individuato con questo punto di tecnici, intellettivi, organizzativi e anche finanziari partenza potrebbe anche servire a creare prima il (quest’ultimo aspetto da non sottovalutare) starebbe nel terreno adatto, su cui operare in seguito su più larga farlo conoscere. La limatura verrà attratta dalla scala con i futuri Coloni. Inoltre per poter avere calamita. A quel punto si potrà porre in atto un vero e elementi su cui basare il progetto è d’obbligo lo studio proprio progetto realizzativo. della nascita, dell’organizzazione e delle eventuali Fin da ora siamo però chiamati ad esporre alcuni punti cause del fallimento, di progetti simili creati in passato, fondamentali: o attuali (es. visitare centri come Monte Verità, anche Il tipo umano che deve essere parte attiva in questo se non completamente consoni a ciò che noi abbiamo progetto deve sentire sinceramente la spinta a riallacciarsi in vista, è utile per quanto riguarda questi aspetti oltre alle forze ancestrali rigettando categoricamente quello importante della strutturazione). qualunque ambientalismo modaiolo o multietnico. Non solo quindi instaurare un sistema economico e Avere chiaro in mente che un simile centro deve essere sociale in linea con i nostri principi, ma dare anche dei la trasformazione in chiari riferimenti realtà dell’Idea educativi e spirituali, E’ un progetto Aristocratico, nel senso primordiale del poiché i primi aspetti e i totalizzante a cui Thule termine, è la volontà eterna della si richiama: Essere secondi non sono l’Ordine che riunisce assolutamente slegati nascita-rinascita dei primordiali elementi etnici del quelli che saranno i tra loro ma fanno nostro Popolo progenitori di una vera e riferimento a un’unica propria generazione che sarà chiamata a sbaragliare visione del mondo, a un’unica visione dell’uomo che a non solo un vecchio sistema di idee ma lo stesso cui noi aspiriamo. vecchio modello di uomo. Ecco la nostra aspirazione: Sarebbe la formazione di un’Elite nel vero senso del L’Uomo Nuovo (vedi Essere e Divenire vol. I ). termine, microsocietà composte di famiglie che si E’ un progetto Aristocratico, nel senso primordiale del differenzino in tutto, dagli aspetti esterni a quelli più termine, è la volontà eterna della intimi, in un mondo che si fa sempre più subnascita-rinascita dei primordiali elementi etnici del umanizzato, che darebbero domani il colpo di grazia nostro Popolo, il Popolo Bianco, identificati alla vecchia società anti-etnica per la creazione del loro spiritualmente come uomini totali, in cui ogni aspetto nuovo Ordine. E’ un progetto che ha la sua logica della vita sia legato indissolubilmente allo scopo della eterna, la logica della selezione naturale. Al suo loro esistenza: restare fedeli al Sangue e al Suolo. interno sarebbe data la Formazione, in ogni aspetto, a Appare chiaro che si tratta quindi di un qualcosa che chi all’esterno troverà un mondo da cui avrà la non può rivolgersi a qualunque nostro connazionale, sensazione di essere stato salvato, e per questo non ne tanto meno a qualunque essere umano. Non è quindi perderà mai il contatto, proprio per rendersi conto di un progetto razzista, è qualcosa di più, è un progetto cosa non dovrà mai diventare, a cosa ci è chiamati ad ur-neoantropico. abbattere, per quali motivi egli dovrà essere orgoglioso Questo è ciò che possiamo definire come “Colonia”, da e sprezzante di quella massa amorfa che altri chiamata “isola rifugio”, bastione elitario di una indirettamente, o direttamente, minaccerà il nuovo nuova alba, che nasca prima localmente e che poi si mondo, mondo che già nel suo nascita dichiara guerra diffonda come massima espressione di lotta al sistema al vecchio a cui vuol fare da contro altare. Con il antietnico ovunque esistano ancora Uomini Bianchi passare dei decenni questi uomini raccoglieranno non Alessandro Murtas / Ripopolamento 7 00_Cop+Gloss+edito+ripopolamento_1-9.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:00 RIPOPOLAMENTO solo gli ultimi europei degni di chiamarsi tali, ma (purtroppo) gli ultimi europei che non discendano da una “felice unione multirazziale”, ecco perché si tratta di una missione per salvare tutto ciò che possiamo chiamare con il termine di “Umano”. E’ indubbio che se una simile idea vede prendere i primi passi nella realtà, raccoglierà l’entusiasmo dei nostri simili, e non solo entro i confini dell’Italia, il primo carattere che assumerà sarà proprio quello d’Esempio. Nel mezzo di una società dei consumi, livellatrice nella stessa biologia del sangue, in cui si uniformeranno anche i gruppi sanguigni dalla nascita, staranno immacolate nella loro purezza, nel loro esempio, nella loro spinta verso l’Alto questi centri basati su modelli opposti, a partire da quelli legati all’Agricoltura e sul consumo degli alimenti localmente prodotti, su un lavoro e artigiano che sarà inteso come atto sacro e inviolabile, sarà l’Arte, e a guidare l’apprendimento e il perfezionamento delle tecniche saranno Maestri. In cui in ogni componente sarà impartita una formazione Gerarchica,Guerriera, Etnica nel senso più ampio, conforme all’anima Indoeuropea e che si richiami ai Valori dello Spirito propri ai nostri Avi il cui Sangue, le cui ceneri o il cui corpo è stato riassorbito nel Suolo da cui ci si nutre. Sarà educazione della propria salute fisica e mentale, dagli aspetti dell’alimentazione, a quelli sportivi, a quelli familiari: si dovrà intervenire su tutto quello che riguarda la nascita, la crescita e la morte degli Uomini e delle Donne che avranno lasciato alle loro spalle un mondo a cui non appartengono, delle generazione che da essi si dovranno susseguire ed aver ragione proprio su quel mondo che vedranno crollare intorno a loro, restando sicuri della propria Superiorità che dimostreranno in una lotta attiva fuori dai confini Patri, della Patria di Thule. Un mondo in cui il figlio tornerà ad assomigliare al padre. 8 Rivoluzione e Tradizione Pagina 8 di Alessandro Murtas (Avatar) Pubblicita?.qxp:Gabbia_Th 5-10-2007 7:56 Pagina 64 THULE - ITALIA SUL WEB h t t p : / / l a z i o . t h u l e - i t a l i a . o r g / http://piemonte.thule-italia.org/ http://lombardia .thule-italia.org/ 01_Storia_Nazion_10-13_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:00 Pagina 10 01_Storia_Nazion_10-13_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:00 Pagina 11 01_Storia_Nazion_10-13_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 Pagina 12 NAZIONALSOCIALISMO Diverse opinioni Premessa Assistiamo ormai da tempo ad un opera di falsificazione del “fenomeno nazionalsocialista” riconducibile a ciò che viene comunemente ed ipocritamente riconosciuto come studio storico oggettivo. L’utilizzo di libri quali “Behemoth struttura e pratica del nazionalsocialismo” di F. Neumann e “La politica sociale del Terzo Reich” di T. Mason” come testi di studio nelle Università Italiane a discapito di testi con concezioni di differente taglio sul tipo dell’ottimo “Comunismo Gerarchico” di S. Michelacci oppure de “L’ordinamento economico Nazionalsocialista” di R. Dubail ci fanno intuire cosa la cultura imperante intenda per “oggettività”. Viene da pensare che oggi, a oltre sessanta anni dalla disfatta dei “regimi fascisti”, si moltiplichino le attenzioni a evidenze storiche non appunto oggettive ma più che altro riconducibili a feticci o totem che devono conseguentemente essere la personificazione del male e dell’oppressione. Ciò a beneficio non solo della sinistra tradizionale e radicale ma della stessa socialdemocrazia più o meno liberale che in tal modo assegna l’opportuna etichetta esorcizzante di quelle vicende che furono “la negazione della libertà soggettiva e personale”. Oggigiorno, inoltre, completano l’operazione di tabula rasa quella serie di articoli raffazzonati e scandalistici che riportano il sentito dire, oppure qui programmi televisivi che ripropongono il sensazionalismo a sfondo torbido di History Channel, o peggio ancora la storia parlata in pillole di Radio24. Tutti echi mediatici che vanno a rivestire il substrato pseudoculturale dell’odierna concezione modernista ed egualitarista senza sé e senza ma di fenomeni storici e spirituali quali il Nazionalsocialismo o il Fascismo. La tesi che noi riporteremo di seguito sarà invece in antitesi con le attuali “vere” culture della sinistra o della destra borghese liberaldemocratica, che utilizzano da tempo e a spada tratta tutte le argomentazioni disponibili attingendole a piene mani dagli svariati testi che in molti casi sembrerebbero addirittura creati a tavolino! Affermeremo come il Nazionalsocialismo sia stato effettivamente “Rivoluzionario”, come lo sia stato oggettivamente, e come sia stato nel senso radicale 12 di Matteo Pastori (Angriff) veicolo rivolto al capovolgimento dei valori egualitaristi e borghesi. Come l'esperienza tedesca, già a pochissimi mesi dalla presa del potere, fosse riuscita a dare immediata operatività al proprio disegno politico e a innestare senza traumi sul tessuto nazionale la propria visione del mondo. In particolare cercheremo di analizzare il fenomeno Nazionalsocialista nelle sue organizzazioni e di come, strumentalmente, si sia voluto porre gli accenti sottolineando esclusivamente le forme “compromesse” al fine di far passare sotto silenzio il fermento che contraddistingueva tutti i campi, dal filosofico all’artistico, dal legislativo al sociale. Allo scopo di capire quale sia la base del nuovo ordinamento Nazionalsocialista è necessario avere una chiara comprensione di cosa significhi il termine “Comunità del Popolo” ovvero la Volksgemeinschaft. LA VOLKSGEMEINSCHAFT «C'è un simpatico aneddoto di un uomo che, giunto in un cantiere, domandò a tre persone dello stesso gruppo di lavoro che cosa stessero facendo. Il primo rispose: "trasporto pietre", il secondo: "guadagno i miei soldi", il terzo: "costruisco una cattedrale" (1). Queste risposte rispecchiano tre concezioni dell'essenza del lavoro che si possono trovare in tutte le classi sociali: la proletaria, la borghese e la nazionalsocialista». Mentre i primi due lavoratori hanno in mente esclusivamente la propria condizione personale, il terzo «si considera parte del tutto»(2), partecipa attraverso il suo lavoro alla realizzazione di qualcosa di grande, e ne è artefice quanto i suoi diretti superiori, il capocantiere o l'architetto; il terzo operaio incarna invece il perfetto Volksgenosse del nazionalsocialismo, un uomo che ha abbandonato il particolarismo classista per fondersi nella comunità nazionale. Il nazionalsocialismo intese perseguire con tutti gli strumenti necessari un obiettivo primario e fondamentale: cancellare la divisione per classi della società tedesca e creare in sua vece una compatta comunità popolare stretta attorno ai valori della stirpe. Al centro di questo sistema il riferimento non è più l’individuo borghese o lo Stato contrattualistico, pertanto non la società comunemente intesa (Gesellschaft) “… bensì il Volk e lo spirito del Volk, il quale realizzandosi come continuità dell’idea in atto, Storia e Controstoria 01_Storia_Nazion_10-13_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 Pagina 13 può assumere forma giuridica o politica. Il Nazionalsocialismo afferma che il diritto è immanente nel principio unitario del Volk come naturale ordine di vita e secondo sua natura organizza e regola forme ed ordinamenti di attività sociale. Anzi, non la forma giuridica è l’elemento costitutivo e decisivo della realtà sociale, ma questa sta nel contenuto politico; onde quelle forme possono essere applicate anche quando il contenuto politico muti.”(3) tramite quindi la Volksgemeinschaft o comunità di popolo, cioè, giuridicamente, quella comunità composta di elementi che abbiano un carattere nazionale omogeneo, conscia nella totalità della propria unità storica e del proprio destino comune in un definito complesso territoriale. In base a tale concezione la comunità rappresenta anche un complesso politico unitario non frazionato in quanto l’agire del singolo è l’agire per il bene comune, e il Volk diviene in tal modo entità politica, tutti i cui membri formano una entità che viene definita appunto Volksgemeinschaft. “Dunque le leggi che governano la Comunità Popolare emergono dalle intime necessità spirituali, politiche e materiali che si sono sviluppate attraverso una comune esperienza storica. Quindi in senso Nazionalsocialista la legge non è l’espressione dell’autorità dello Stato, al quale il Popolo deve sottomettersi come una massa passiva ed inerte. In armonia col concetto della Comunità Popolare la legge è parte della vita del Popolo. Il legislatore delinea (4) e dà una espressione organica alla percezione (5) di ciò che è giusto o ingiusto, al sentimento (6) di ciò che è bene e ciò che è male, che è inerente all’animo (7) del Popolo. Quindi il punto di partenza della concezione Nazionalsocialista del diritto è il Popolo, non lo Stato. Compito dello Stato è assicurarsi che la legge sia messa in atto”. In merito ai concetti sopra riportati sembra evidente che per quanto riguarda la sfera privata, ovvero il sacro ed inviolabile diritto privato, il Volk diventa entità politica e creatrice del diritto tramite i valori ispirati dallo spirito immanente del Volk stesso: la forma giuridica nonché il diritto risultano quindi contigue alla stessa Volksgemeinschaft, in un ottica di INTERESSE COMUNE e non più PERSONALE. Il diritto privato diventa così la norma che interessa la tutela del singolo, ove non si vadano a ledere gli interessi della comunità che risultano comunque preponderanti. “La sfera privata dell’uomo è nella sua essenza apolitica, egli diventa entità politica in quanto è considerato in funzione di membro della comunità, quindi l’essenza della politicità può essere trovata soltanto nella Volksgemeinschaft!”(7), in quanto nell’ottica dell’interesse comunitario “Un Volk non è una somma meccanica od aggregato di singoli in sé autonomi e finiti, ma è piuttosto una personalità unitaria superiore, realtà superindividuale realizzata attraverso le condizioni comuni di vita: la comunità delle origini, delle vicende, degli ordinamenti, della lingua, del contenuto spirituale, dei valori, dei fini della coscienza, della volontà. In altri termini il Volk è il fondamento della vita e del destino dei suoi membri, ognuno dei quali perfeziona in esso le proprie determinazioni personali e la ragione della propria vita.”(8) Se pertanto nella Volksgemeinschaft si afferma il sistema giuridico come fusione fra politica e diritto si deve anche ritenere che in essa sia immanente uno spirito obbiettivo, il quale si manifesta in termini giuridici come VOLONTA’ COMUNE, intesa non come somma o risultante di singoli voleri particolari, ma come principio di forza propria della comunità operante in maniera organizzata ed unitaria. Lo Stato diviene quindi nella sua territorialità il contenuto e la forma della Gefolschaft (seguito) con a capo la Führung (Governo o guida) attuata dalle strutture del Partei (partito) e secondo una logica gerarchica avente a capo un Führer in una struttura di comando piramidale (Führerprinzip). La Volksgeimenschaft diventa quindi espressione del Volk e dello Stato come forma giuridica e organizzativa. Note bibliografiche: (1) Geadelte Arbeit - Gedanken zum 1. Mai, «Deutsche Adria Zeitung» n°108, 1° maggio 1944. (2) Ibidem. (3) Sonia Michelacci, Comunismo Gerarchico, Edizioni di AR. pp. 138-139. (4) Tratto da “Diritto e legislazione Tedeschi” www.thule-Italia.org biblioteca digitale “Liberamente” (5) Ibidem. (6) Ibidem. (7) Ibidem. (8) Ibidem. (9) Sonia Michelacci, Comunismo Gerarchico, cit., p. 140. (10) Ibidem, pag. 141. Matteo Pastori / Nazionalsocialismo - Diverse opinioni 13 02_Storia_Curiosita?_14-17_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 Pagina 14 CURIOSITA’ GIUDAICO MASSONICHE Trovo piacevole sottoporre ai lettori brani estratti da libri che pur nella loro complessità e sobrietà spesso nascondono curiosità a pochi note. In questo caso trattasi di tre brani estratti da “Misteri e Segreti del B’nai B’rith” di Emmanuel Ratier che ho voluto includere sotto il titolo di Curiosità giudaico massoniche. L’Olocausto nella foto sbagliata L'Anti Defamation League of B'nai B'rith ha pubblicato diversi opuscoli e svariati voluminosi rapporti sul tema dell'Olocausto e della sua rimessa in discussione, in modo da combattere efficacemente i progressi del revisionismo. Le due principali opere diffuse sono: Reinventare la grande menzogna e Gli apologeti di Hitler. La propaganda antisemita e il "revisionismo" storico. Si noterà che il secondo rapporto, ritenuto il rappresentante della "verità vera" sull'Olocausto, presenta in copertina una "foto ingannevole". Si tratta della famosa foto di un bambino ebreo con un berretto, le braccia alzate, con un gruppo di soldati tedeschi dietro di lui. Una foto universalmente nota, che si crede essere stata scattata durante l'insurrezione nel ghetto di Varsavia e che simbolizza ammirabilmente l'Olocausto dei bimbi ebrei durante la seconda guerra mondiale. Tuttavia è assai meno noto che questa foto non è stata presa nel ghetto di Varsavia ma al suo esterno, in prossimità della stazione e che il ragazzino della foto, che si chiamava Tsvi Nussbaum, non è stato gasato ma è vivo dal momento che abita a New York dove esercita la professione di medico. Il boicottaggio del regime nazional-socialista Molto stranamente, i Fratelli del B'nai B'rith, quegli stessi che avrebbero dovuto essere sciolti dal momento che erano sistematicamente denunciati, prima dell'arrivo alla Cancelleria di Adolf Hitler, come "gli ufficiali dello stato maggiore della dominazione mondiale giudaica", furono esentati da questa procedura a differenza di tutte le altre obbedienze massoniche che furono praticamente sciolte subito o dovettero autosciogliersi, comprese le Logge tradizionali, come la Gran Loggia simbolica o le Logge di perfezionamento del Rito scozzese, molti dirigenti 14 di Marco Linguardo (MThule) delle quali erano simpatizzanti del programma hitleriano. Dimenticanza ancor più sorprendente se si pensa che, dopo l'avvento del cancelliere Adolf Hitler, molte organizzazioni ebraiche avevano fatto appello al boicottaggio economico e militare della Germania. Il 5 gennaio 1935, appoggiato dal Fratello del B'nai B'rith Samuel Untermyer (Presidente della Lega antinazista), Alfred M. Cohen, Presidente dell'Ordine internazionale del B'nai B'rith, aveva decretato "a nome di tutti gli ebrei, frammassoni e cristiani" il boicottaggio totale del Reich. Questo appello era stato preceduto da altri due, proclamati al Madison Square Garden il 7 marzo 1934 e il 6 settembre 1933 sotto forma di un Cherem. In tale occasione furono ritualmente accesi due ceri neri e si soffiò tre volte nello schofar (il corno di ariete), mentre il rabbino B. A. Mendelson pronunciava la formula di scomunica: "A nome dell'assemblea dei rabbini ebrei ortodossi degli Stati Uniti e del Canada e di altre associazioni di rabbini che ci sostengono nella nostra azione, profittiamo della nostra riunione annuale, in quanto guide d'Israele, per istituire un cherem su tutto quanto è fabbricato in Germania. A partire da oggi, ci asterremo da qualunque commercio di materie prime provenienti dalla Germania. Saremo vigilanti per quanto riguarda l'uso di merci tedesche, che siano destinate a uso personale o commerciale [...] La validità di tale decisione durerà fino alla fine del regime di Hitler, allora il cherem avrà la nostra benedizione". Volendo evitare fastidi ai suoi Fratelli d'oltre Atlantico, il B'nai B'rith rifiutò a lungo di aderire ufficialmente a questa azione, anche se essa fu praticata da numerosi suoi membri. Solo all'inizio del 1939, col Consiglio generale ebraico, che guidava la campagna per il boicottaggio delle merci tedesche, il Comitato esecutivo del B'nai B'rith adottò una risoluzione per il "boicottaggio organizzato generale" e creò anche un Comitato di boicottaggio del B'nai B'rith nazionale. Bisogna dire che i dirigenti internazionali del B'nai B'rith non avevano brillato per la finezza della loro analisi dal momento che, il 29 gennaio 1933, vigilia dell'entrata di Hitler alla Cancelleria, il presidente americano del B'nai B'rith, Alfred M. Cohen, dichiarava: "Per fortuna sembra che l'hitlerismo sia in declino"! Si basava sul rapporto del Dr. Leo Baeck, presidente del distretto VIII: "La Storia e Controstoria 02_Storia_Curiosita?_14-17_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 grande ondata d'antisemitismo comincia già a calare; non si può più parlare di un pericolo nazionalsocialista imminente negli stessi termini con cui se ne parlava sei mesi fa". Allo stesso modo, il B'nai B'rith Magazine (marzo 1933) indicava: "[Hitler] è circondato da uomini imparziali [...] Hindenburg e Von Papen. Il peso delle responsabilità può fare evolvere il più irresponsabile dei demagoghi, anche se pazzi e perversi". Si ignorano ancora oggi le ragioni per le quali Hitler si oppose direttamente allo scioglimento del B'nai B'rith, reiterando la sua decisione nel 1935, quando Heinrich Himmler gli chiese di farlo, non comprendendo tale clemenza: "Dopo lo scioglimento volontario di tutte le Logge massoniche in Germania, sussiste solo più l'U.O.B.B. Contro questa organizzazione non è stata fatta nessuna reale azione, secondo le istruzioni date dal Fuhrer nell'estate del 1935 nel quadro dei suoi programmi di politica estera". Alcune logge del B'nai B'rith decisero poco a poco di autosciogliersi a partire dalla primavera del 1933, altre non le seguirono, rispettando le consegne del Gran Presidente dell'Ordine in Germania, il Dr. Leo Baeck. Ripiegandosi la comunità ebraica sempre più su se stessa, essa ricominciò a funzionare in base ai principi di solidarietà, e di conseguenza il ruolo benefico delle Logge si accrebbe. A quell'epoca, il 60% del bilancio delle Logge fu consacrato all'aiuto fraterno, a profitto delle vedove e degli orfani. Ciò fece sì che le associazioni filantropiche dipendenti dal B'nai B'rith e sovvenzionate dall'Ordine poterono continuare la loro attività. Si spiega così, senza dubbio, il fatto che le Logge lottassero per mantenere il loro statuto legale senza esitare, come è raramente detto, a intentare processi, con qualche successo, alle istituzioni locali e governative nazional-socialiste. In Baviera, l'esecutivo del Comitato dei deputati israeliti domandò l'annullamento della confisca di documenti fatta illegalmente dalla polizia di Monaco (sotto la diretta direzione di Himmler) il 12 maggio 1933 nella sede di 54 organizzazioni ebraiche, tra cui due Logge del B'nai B'rith (Munchen Loge, Jasaia Loge). Esso doveva ricevere soddisfazione, dal momento che i locali e la maggioranza dei documenti sequestrati furono resi il 13 luglio 1933. Tuttavia, il 20 luglio dello stesso anno la polizia bavarese interveniva allo stesso modo a Pagina 15 Norimberga, in particolare nelle sedi della Maimonidas-Loge e della Jakob-Here-Loge. Di nuovo i responsabili del B'nai B'rith si rivolsero al Ministro dell'Interno di Monaco e ottennero, dopo molte difficoltà, che i loro locali e le loro biblioteche fossero resi nell'aprile del 1934. Allo stesso modo, la giustizia fece annullare la decisione della polizia di chiudere la WaltherRathenau-Loge di Mönchen-Gladbach, presa nel febbraio 1934, dopo che il B'nai B'rith si era appellato contro questa decisione. Per capire il mantenimento di questo stato di diritto, bisogna sapere che le decisioni relative al B'nai B'rith in Prussia e a Berlino erano soggette all'autorità del capo della Gestapo Rudolf Diels. Quest'ultimo, un tempo membro di un partito costituzionale (non nazional-socialista), doveva adoperarsi, nel limite delle sue competenze, per proteggere le Logge del B'nai B'rith, come pure quelle di altra obbedienza, opponendosi così direttamente alle direttive di Himmler. Nelle sue memorie, Diels riporta: "Proibii in seguito nuove 'operazioni' condotte dalle SD, le quali erano in pratica dirette contro le Logge, in particolare quelle ebraiche, e contro l'Azione Cattolica". Questa protezione è stata confermata dall'ex segretario della Gran Loggia dell'Ordine, Alfred Goldschmidt, che ha riportato come Diels si fosse recato di persona, accompagnato dai suoi subordinati, alla sede del B'nai B'rith a Berlino per proteggerne i locali da un'"azione violenta" delle S.A. È solamente il 19 aprile 1937 che l' R.S.H.A. della Gestapo, in virtù di un'ordinanza del 10 aprile, decretò lo scioglimento di tutte le logge ed associazioni femminili, giovanili o di qualunque finalità associate al B'nai B'rith, come l'Accademia per le scienze del giudaismo o l'Associazione per le statistiche degli ebrei. I beni dell'Ordine (logge, alberghi, ristoranti, case di riposo ecc.) furono requisiti in 79 città; i presidenti, segretari e tesorieri furono provvisoriamente interrogati. A quell'epoca funzionavano ancora settanta logge così come 25 capitoli femminili. Il rabbino Leo Baeck, Gran Presidente del distretto della Germania, che avrebbe potuto emigrare in Inghilterra o negli Stati Uniti, rifiutò coraggiosamente questa possibilità e rimase a Berlino. Alla fine, nel 1943, fu deportato nel ghetto di Theresienstadt dove attese, Marco Linguardo / Curiosità giudaico massoniche 15 02_Storia_Curiosita?_14-17_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 Pagina 16 CURIOSITA’ GIUDAICO MASSONICHE senza conoscere i rigori della deportazione, la fine della guerra. Nel 1943 i Fratelli tedeschi rifugiati a Londra ricevettero l'autorizzazione a creare una sezione indipendente, la sezione 1943 della Prima Loggia (la più importante di Londra) con una propria amministrazione, sue elezioni ecc. Il 30 maggio 1943, i Grandi Ufficiali e il Consigliere furono insediati dal Gran Presidente Julius Schwab, lui stesso discendente da una vecchia famiglia di Francoforte, con il consenso del distretto britannico e della Suprema Loggia di Washington. Divenne quindi una Loggia indipendente e da allora ha conservato un proprio statuto, essendo, al di fuori degli U.S.A., la Loggia più numerosa. II Fratello Albert Pike Come rileva Yann Moncomble, seguendo altri storici specialisti di cose massoniche, esisterebbe almeno una relazione diretta tra Frammassoneria regolare e B'nai B'rith. Nel 1874 (pare il 12 settembre) sarebbe stato firmato a Charleston un accordo di "mutuo riconoscimento" tra Armand Levy per il B'nai B'rith e Albert Pike, capo supremo del Direttorio dogmatico del Rito scozzese antico ed accettato, per la massoneria universale. Quando Albert G. Mackey, considerato "il più informato massone d'America", 33° e Gran maestro dei Royal and Select Masters della Carolina del Sud, Gran Priore dell'Arca Reale di Chicago e Segretario generale del Consiglio Supremo della giurisdizione meridionale degli Stati Uniti, divenne Segretario generale del Consiglio supremo Materno del Rito scozzese antico ed accettato "egli persuase Pike ad affiliarsi all'Ordine; questi divenne ben presto Gran Ispettore sovrano e decise di consacrarsi al Rito, riuscì a ricostruire da capo a fondo l'organizzazione, rivide o riscrisse i suoi gradi, intrattenne una vasta corrispondenza; inoltre scrisse la Bibbia del Rito scozzese, Morals and Dogma, vera montagna di materiale che non portò mai a termine né forse mai avrebbe potuto terminare". Secondo la stessa fonte, Pike, che era membro d'onore della maggior parte dei Consigli del mondo, fu ricevuto al Supremo Consiglio di Francia nel 1889 e, "sebbene americano, Pike è universalmente riconosciuto come una delle più alte, se non la più alta, autorità 16 di Marco Linguardo (MThule) massonica". L'accordo firmato tra Pike, che per l'occasione usò il suo nome massonico - Limoude Ainchoff - ed Armand Levy indica: «Noi, il Grande Maestro, il Conservatore del Santo Palladio, il Patriarca Supremo della massoneria di tutto l'Universo, con l'approvazione del grande e Serenissimo Collegio dei massoni Emeriti, come l'esecuzione dell'atto del Concordato concluso tra Noi ed i tre Concistori federali supremi del B'nai B'rith d'America, Inghilterra e Germania, che è da Noi firmato oggi, abbiamo preso questa risoluzione: una sola clausola: "La Confederazione Generale delle Logge Israelite Segrete è fondata a partire da oggi sulle basi che sono esposte nell'Atto del Concordato" Giurato sotto la santa Volta nel Grande Oriente di Charleston, nella valle cara al Maestro Divino, nel primo giorno della Luna Ticshru il 12 Giugno del 7° mese dell'anno 00874 della Vera luce». Ciò spiega forse perché il Ku Klux Klan fu a lungo risparmiato dal B'nai B'rith. Fondato da Albert Pike, generale dell'armata confederata, e dai dirigenti massoni di alto grado del Sud, il KKK, che negli anni venti contava tra i tre e i cinque milioni di affiliati, non era oggetto di critiche virulente da parte dell'A.D.L. e del B'nai B'rith. In occasione di un dialogo stabilito tra il presidente dell'Ordine Adolf Kraus e il Mago imperiale H. W. Evans, quest'ultimo scrisse una lettera aperta sbalorditiva: "Ogni uomo che sia americano di nascita o per naturalizzazione, cristiano o giudeo di religione, bianco o nero di razza ogni uomo che contrae un dovere di fedeltà con questo paese, senza riserve e remore, che è interamente devoto alla sua bandiera, non è il nemico ma l'amico del Cavaliere KKK [...]. Se fosse permesso applicare a un ebreo uno dei titoli qualificanti dell'Ordine dei Cavalieri del Ku Klux Klan, si potrebbe dire che è egli stesso un 'Klansman' e che è stato lui a mantenere e a mostrare il 'Klanismo' pratico". Ciò permette di leggere a sua volta, nelle pubblicazioni del B'nai B'rith, dichiarazioni ugualmente sorprendenti: "Il Klu KIux Klan può diventare uno strumento di progresso e di beneficenza, utile sia al Paese che ai suoi cittadini, se comincerà a eliminare dal suo seno qualche migliaia di fanatici che lo gettano nell'intolleranza, nella viltà e nel crimine". Storia e Controstoria 02_Storia_Curiosita?_14-17_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:01 Pagina 17 La Fortezza di Heinrich Himmler La Fortezza di Heinrich Himmler prima traduzione italiana di "Heinrich Himmlers Burg" Das weltanschauliche Zentrum der SS Bildchronik der SS-Schule Haus Wewelsburg 1934-1945 e di Heinrich Himmler's Camelot entrambi di Stuart Russell. La traduzione e l'edizione italiana è stata da noi curata e ampliata con due appendici assenti nelle edizioni originali. 264 pag, 272 immagini, copertina cartonata. ISBN 978-88-902781-0-5 Dalla quarta di copertina: "Su una lingua di roccia calcarea che spicca alta sulla tranquilla valle dell’Almetal, ca. 14 km a Sud di Paderborn, si erge la mitica Fortezza di Wewelsburg, immersa nella trama delle leggende di cui fu protagonista. Quando l’allora Comandante delle SS del Reich, il Reichsführer Heinrich Himmler, visitò per la prima volta la Fortezza - il 3 novembre 1933 - rimase subito affascinato sia dall’imponente costruzione a tre torri che dalla singolare sezione a pianta triangolare dichiarando già la stessa sera ad una ristretta cerchia di persone il suo desiderio di voler acquisire la Fortezza per le SS. L’opinione pubblica seppe ben poco sui progetti e sulle intenzioni di Himmler, e poco seppe anche delle riunioni fra i più alti Führer delle SS nella Fortezza di Wewelsburg il cui fulcro era la possente torre Nord con la sottostante sala centrale delle iniziazioni delle SS, che ancor oggi il popolo chiama “Walhalla”. Questo sepolcro, sul cui significato nei culti e riti delle SS non si è mai smesso di fare congetture, è rimasto illeso esattamente come si è salvata la sovrastante sala dei “Comandanti Superiori di Divisione delle SS”, chiamata “Obergruppenführersaal” – costruita per essere la sala di rappresentanza più importante destinata ai massimi livelli dirigenziali delle SS – nonostante la Fortezza, in quel momento ancora in fase di ristrutturazione, fosse stata fatta saltare il 31 marzo 1945 per ordine di Himmler stesso. Oggi il sepolcro e la sala dei Gruppenführer, con tutti i loro ornamenti ben conservati (“il sole nero”) e gli originali fregi, costituiscono un notevole richiamo per molte migliaia di visitatori. Nella sua prefazione, il Dr. Bernhard Frank, che dal 1935 al 1939 lavorò nella Wewelsburg in qualità di scienziato (dal 1943 fu Comandante delle SS nell’Obersalzberg), fornisce piena conferma di quanto descritto nel libro: “Il libro ‘La Fortezza di Heinrich Himmler’ strappa finalmente gli avvenimenti storici della Wewelsburg dall’oblio ed dalle false interpretazioni" 03_Storia_Ufo_18-21_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:02 Pagina 18 GLI UFO ESISTONO DAVVERO? Nonostante il relativamente breve periodo di tempo in cui il nazionalsocialismo è stato al governo in Germania, è sempre più sorprendente scoprire come l’evoluzione tecnologica sia riuscita ad avanzare in modo così clamoroso. Altrettanto clamorosi sono stati i tentativi di nascondere alcune scoperte, salvo poi farle proprie , da parte dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto angloamericani. Si vuol fare riferimento all’apparato tecnologico aerospaziale sviluppato dal Reich. A partire dal 1945 un sodalizio scientifico-militare anglo-americano-canadese chiamato TG (Gruppo Tripartito) iniziò a progettare velivoli non convenzionali dalle forme più stravaganti. Gli anni successivi la fine del conflitto hanno visto una vera e propria gara, nella più assoluta segretezza, tra potenze nello studio e nella sperimentazione di ufo per scopi militari. Ben presto, però, l’arroganza statunitense finì per indispettire gli altri due partner. Fu così che verso la fine degli anni ’40 Gran Bretagna e Canada abbandonarono il progetto con il fine di creare un sodalizio a due, con base presso il Chalk River nella Columbia Britannica (Canada) . Il risultato fu clamoroso da un lato, sfortunato dall’altro: nel 1947 un velivolo anglocanadese sorvolò indisturbato il territorio degli Stati Uniti, salvo poi schiantarsi nei pressi di Roswell, nel Nuovo Messico. Le autorità USA, evidentemente imbarazzate, insabbiarono la vicenda, inventando la leggenda degli extraterrestri, sequestrando il velivolo e cominciando a studiarlo. Tra le altre cose, il velivolo era arrivato indisturbato nei pressi della base aerea di White Sands, sede del 509° stormo bombardieri USAF, l’unico allora abilitato a trasportare ordigni nucleari. Senz’altro un bello smacco. Com’è stato possibile un risultato del genere? Alcuni studiosi sono convinti che tali conoscenze derivino dalle ricerche dei massimi esperti del settore del Terzo Reich. La Germania aveva iniziato a lavorare su tali progetti dalla fine degli anni ’30, dapprima nella base di Peenemunde, poi, dopo il bombardamento di questa, nella base sotterranea di Niedersachswerfen, nei pressi di Nordhausen. I pionieri di questa ricerca furono Richard Miethe ed Hans Kammler. Il dottor Miethe, grande amico di Von Braun, aveva originariamente fatto parte della squadra che si 18 di Massimo Buzzurro occupava delle V1 e V2, ma parimenti aveva cominciato a lavorare su un progetto relativo ai dischi volanti. Dopo il bombardamento di Peenemunde, il suo progetto fu trasferito, per motivi di sicurezza, nei pressi di Breslavia. La storia è piuttosto confusa sul nome che Miethe scelse per il suo velivolo. Talvolta si è parlato di Kugelblitz (“fulmine globulare”) insieme a nomi come Vril e Diskus. In realtà, si suppone che il velivolo si chiamasse Haunebu, un termine occulto collegato all’albero del karma germanico ed alla dottrina ariosofica sulle origini polari della razza ariana. Miethe, assieme ai suoi assistenti, sviluppò il progetto di tre dischi Haunebu: Mark I, Mark II e Mark IV. Essi non dovevano sfruttare solo la potenza dei motori (di tipo convenzionale a pistoni nel Mark I, di tipo turboreattore negli altri), ma soprattutto il cosiddetto effetto Coanda, ovvero un fenomeno che garantiva che ogni corrente di spinta dei motori, invece di dissiparsi, desse luogo ad un complesso energetico compatto verso il bordo di fuga del disco, ove le correnti si sarebbero combinate aumentando la spinta in avanti. Il disco caduto a Roswell nel 1947 era un’evoluzione del Mark IV di Miethe. Ci sono diverse testimonianze a supporto del fatto che i Mark II e IV volarono effettivamente in veste di prototipi. Tuttavia, non ci fu mai per loro un impiego bellico, a differenza della “cretura” di Hans Kammler: il Feuerball, ribattezzato dai piloti alleati Foo Fighter. Simili ad un elicottero senza coda, propulso da reattori montati sulle estremità delle pale del rotore, i Foo Fighters erano dotati di paracadute di recupero e potevano essere lanciati in aria come un razzo, anche da rampe mobili. Il primo avvistamento sarebbe avvenuto il 22 novembre 1944. Il tenente della RAF, Edward Schluter, stava pilotando un caccia Bristol Fighter sul Reno, nella zona di Strasburgo, quando notò dieci sfere di colore rosso fiamma che sembravano tenersi al passo con l’aereo; a questo punto il radar di bordo smise di funzionare e Schluter fece ritorno alla propria base, frastornato da quanto aveva visto. Quattro giorni dopo il ten. Giblin stava volando sulla zona di Mannheim quando una solitaria ma enorme palla di luce arancione si avvicinò all’aereo. Gli avvistamenti continuarono per i due mesi a seguire, tanto che la notizia di misteriose nuove armi tedesche Storia e Controstoria 03_Storia_Ufo_18-21_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:02 Pagina 19 fu riportata dal “New York Herald & Tribune” il 2 gennaio 1945. Stranamente i Foo Fighters non vennero dotati di un armamento di bordo e si limitarono ad essere solo un’arma psicologica; ben presto le aviazioni alleate compresero che non rappresentavano una seria minaccia. Si suppone, però, che i ricercatori tedeschi avessero voluto far dotare, come arma di bordo, il cosiddetto Paplitz. Il Paplitz fu prodotto dall’Elektro Akoustic Institute di Namslau, installato su un aereo convenzionale nel marzo del ’45 e collaudato. Il Paplitz era il prototipo di un disturbatore elettromagnetico localizzato che serviva ad interrompere il sistema d’iniezione dei motori convenzionali; un apparecchio per disturbare le comunicazioni radio ed un congegno d’inseguimento a raggi infrarossi che poteva agganciarsi agli scarichi dei motori. Visti i tempi, ormai vicini alla fine del conflitto, e dal momento che non si sarebbero mai registrate perdite di aerei imputabili ai Foo Fighters, tale avanzato sistema d’arma non venne mai montato ed il progetto di Kammler non venne prodotto in serie. Una domanda, però, nasce spontanea: che cosa aveva mandato in tilt il radar dell’aereo di Schluter?. (per maggiori informazioni, Gary Hiland,“I segreti perduti della tecnologia nazista”, Newton Compton). Massimo Buzzurro / Gli UFO esistono davvero? 19 03_Storia_Ufo_18-21_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:02 Pagina 20 GLI UFO ESISTONO DAVVERO? Storia e Controstoria di Massimo Buzzurro 03_Storia_Ufo_18-21_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:03 Pagina 21 Massimo Buzzurro / Gli UFO esistono davvero? 21 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:03 Pagina 22 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:03 Pagina 23 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:03 Pagina 24 I MISTERI DI MITHRA Il territorio italico è stato oggetto nel corso dei millenni a stratificazioni di ogni tipo: non solo la storia ha lasciato pagine di testimonianze che dall’ottocento in poi l’archeologia sta sfogliando, ma anche la spiritualità ha lasciato evidenti tracce di una continua presenza e di una continua ricerca, attraverso forme diverse, spesso solo nel nome, del Principio. Sicuramente la civiltà che più di tutte ha lasciato la propria traccia è quella romana, con documenti, edifici e monumenti. L’approccio verso il sacro ha subito diversi mutamenti nella storia romana, per via soprattutto delle influenze di numerose popolazioni con le quali è venuta in contatto. Dalle divinità Italiche al Cristianesimo si è passati anche attraverso un pantheon ereditato dai greci e da una religione misterica che perdurò dal I secolo a.C. fono al V secolo d.C.: il Mitraismo. Il mitraismo romano è un prodotto sincretico di provenienza indo-iranica; il nome del dio Mitra appare per la prima volta in un documento, datato intorno al 1400 a.C. , stipulato tra il Regno di Mitanni hurrita e gli Ittiti. Questo trattato è stato garantito e validato dalla presenza di cinque divinità indo-iraniche: Indra, Mitra, Varuna e i due cavalieri Ashvin. Mitra dunque fa parte delle divinità induiste, ed appare nei Veda come una delle divinità solari, gli Aditya1, dio dei contratti, dell’onestà e dell’amicizia, nonchè governatore delle ore diurne. Negli inni vedici Mitra è sempre nominato assieme al fratello (gemello) Varuna tanto che spesso si ricorre all’appellativo “Mitravaruna”: Mitra genera la luce dell’alba mentre Varuna è il signore delle sfere celesti e del ritmo cosmico e nei rituali tardovedici si prescrive una vittima sacrificale bianca per Mitra, nera per Varuna. Rappresentano anche rispettivamente il sacerdozio e il potere regale e nel Shatapatha Brahmana2 vengono descritti, come due-inuno, come “il Consiglio ed il Potere”. di Alessandro Riccardi (Gargoyle) Dall’India alla Persia: Zurvanismo e Mazdeismo. Nel periodo predinastico persiano era sviluppata la religione Zurvanista, che ruotava attorno a Zurvan, “il tempo assoluto”. Questi aveva offerto per mille anni un sacrificio con lo scopo di avere un figlio, ma non appena gli pervenne il dubbio dell’utilità del sacrificio, concepì3 due figli: grazie al sacrificio offerto concepì Ohrmazd (Ahura Mazda), mentre a causa del dubbio sul sacrificio concepì Ahriman. Zurvan decise di nominare re il primogenito: Ohrmazd conobbe il pensiero del padre e lo condivise col fratello Ahriman il quale ruppe la matrice e ne uscì. Quando dichiarò a Zurvan di essere suo figlio, questi dubitò in quanto era tenebroso e puzzolente, mentre avrebbe dovuto essere profumato e lucente. Nacque dunque Ohrmazd con tali caratteristiche, e Zurvan volle consacrarlo re: ma Ahriman ricordò al padre il voto di nominare re il primogenito, e per non violare il voto Zurvan accordò il regno ad Ahriman per 9000 anni. Una statua del dio Zurvan 1 Figli di Aditi e Kashyapa, nel Rig-Veda erano sette (Mitra, Varuna, Aryaman, Bhaga, Daksha, Anśa, Sūrya - il sole - e Ravi): diventano otto negli Yajur Veda (Taittirīya Samhita), e nei Brahmana furono portati fino a dodici per rappresentare i mesi dell’anno. Gli Aditya, suddivisi a loro volta in Marut, Rbhus e Viśve-devā, fanno parte della categoria dei Deva (le 33 divinità ordinate che si contrappongono agli Asura, i 33 demoni caotici) e proteggono dalle sciagure. 2 Uno dei commentari in prosa che spiegano le formule e i riti. Vi è uno o più Brahmana per ogni Veda. 3 Eznik, Contro le Sette. Questi era consapevole dell’ermafroditismo di Zurvan anche se altri autori più tardi parlano di una “madre” o di una “sposa” di Zurvan. 24 Difesa della Tradizione 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Secondo alcune fonti siriache Zurvan (zaman i akanarak “tempo illimitato” quindi rappresentazione del tempo stesso) è circondato da tre dèi, sue ipostasi: Ašōqar, Frašōqar e Zārōqar che sono richiami agli avestici aršōkara (che rende virili), frašōkara (che rende splendidi) e maršōkara (che rende vecchi): un richiamo alle tre età dell’uomo ma anche alla suddivisione del tempo zurvanico di 9000 anni in cicli di 3000. Questa tripartizione temporale si ritrova nelle Upanishad e in Omero, oltre che essere presente come formula appellativa nei testi phelevi in cui Zurvan è colui che “era, è e sempre sarà”. Dopo la nascita do Ohrmazd ed Ahriman, Zurvan tramite le ipostasi Ašōqar, Frašōqar e Zārōqar offre ai gemelli i simboli della sovranità: al primo il barsom, strumento ricavato da un ramo sacro, al secondo zatspram, un arnese fatto della stessa sostanza dell’ombra. I gemelli iniziano dunque la creazione: tutto ciò che Ohrmazd creava era buono e retto, mentre ciò che veniva creato da Ahriman era cattivo e tortuoso. Entrambe le divinità sono creatrici, elemento essenziale ripreso in futuro da numorosi miti e leggende in cui è presente Dio e l’Avversario di Dio. Vengono creati mēnōk (il mondo celeste) e gētik (il mondo materiale). Viene creata Spandarmat, la Terra, la quale, dall’accoppiamento con Ohrmazd nasce Gayomart; durante la sua morte (che dura trent’anni), dal suo corpo nascono i sette metalli (i pianeti). Il suo seme è purificato alla luce del sole, e un terzo di esso cade sulla terra facendo nascere il rabarbaro, da cui nasce la prima coppia umana: Mǎsye e Mǎsyane. Ohrmazd chiede alle fravashi, spiriti preesistenti che risiedono in Cielo, di accettare un’esistenza fisica sulla Terra per combattere le forze del Male. Ahriman e le sue schiere demoniache entrano in gētik, il mondo materiale, contaminandolo con le loro creazioni nocive e stabilendo la loro dimora nel corpo dell’uomo. E’ importante una fase dell’aggressione di Pagina 25 Ahriman verso il mondo materiale: questi uccide, avvelenandolo, il Toro primordiale Abudad dal cui midollo nascono le piante alimentari e medicinali, e dal cui sperma vengono prodotti gli animali utili all’uomo; anche Gayomart viene ucciso da Ahriman, ma non prima di aver trasmesso la rivelazione alla prima coppia Mǎsye e Mǎsyane che l’hanno comunicata ai loro discendenti. Dall’impostazione Zurvanista nasce la religione Mazdeista che pone come centrale il dualismo Ahura Mazda (Ohrmazd) – Ahriman (Angra Mainyu). La divinità principale è Ahura Mazda, a cui sono subordinati gli Amesha Spenta4, gli spiriti immortali. E’ anche il protettore di tutte le creature e secondo la tradizione mazdeista costruì il palazzo Vara di Yima per proteggerle dal diluvio. Il Mazdeismo è fortemente influenzato dalle tradizioni indo-iraniche, ma assistiamo ad una modificazione di “classi” fra la corrente indiana e quella iranica. Nell’India vedica i deva (vedi dèi) sono contrapposti agli asura (figure demoniache), mentre in Persia alcuni asura vengono divinizzati come deva: è così che nasce il termine Ahura Mazda (ahura è il corrispettivo del sanscrito asura, mazda deriva dal greco mègistos, “il più grande”). Un’immagine del dio Ahura Mazda 4 Questi sono Vohu Manah (buon pensiero, preposto agli esseri animati), Asha Vahishta ( l’ottima legge, preposto al fuoco), Khshathra vairya (il dominio desiderabile, preposto ai metalli) , Armatay (pietà, preposto alla terra), Haurvatat (integrità, preposto alle acque), Ameretat (immortalità, preposto alle piante). Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra 25 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 26 I MISTERI DI MITHRA Il mazdeismo è la religione principale durante l’Impero persiano della I dinastia Achemenide (648 – 330 a.C.). L’Avesta è il testo sacro ed è diviso in gāthā; le yasna sono liturgie sacramentali mente gli yasht sono inni rivolti alle singole divinità. Ahura Mazda è accompagnato da altre divinità quali Mitra (sole), Mah (luna), Zam (terra), Atar (fuoco), Apam Napat (acqua), Vayu (vento). Sotto Antaserse II troviamo la presenza di una trinità: Ahura Mazda, Mitra come dio del Sole, dei contratti e della redenzione, e Anahita, dea delle acque, della fecondità e della procreazione. Il mazdeismo subì diverse modificazioni sotto diversi imperatori: nello Yasna dai sette capitoli inizia un processo complesso di adattamento ed integrazione di diversi contenuti del mazdeismo. Nel Mihr Yasht assistiamo alla biforcazione che porterà allo sviluppo del Mitraismo: l’esaltazione del dio Mithra. Nel tempo la sua figura aveva subito un ruolo sempre minore, ma nell’inno citato Ahura Mazda proclama che «Quando ho creato Mithra dai larghi pascoli, l’ho reso degno di venerazione e di rispetto come me stesso». Alla fine dell’inno, per riunire i due dei, viene citata la formula “Mithra-Ahura”, replica del binomio vedico “Mitravaruna”. Mithra subisce comunque delle modificazioni: non è solo il dio dei contratti, ma anche il violento e crudele dio della guerra: con la sua mazza, vazra, massacra furiosamente i deva e gli empi. E’ un dio solare associato alla luce, ha mille occhi e mille orecchi, provvede a tutto il creato e garantisce fertilità ai campi e al bestiame. Ahura Mazda e gli Amesha Spenta gli costruiscono un palazzo al di sopra del monte Harā. Dopo essersi lamentato di non essere adorato dalle creature, nonostante sia loro protettore, attraverso delle preghiere, viene accontentato e viene nominato come sacerdote di Mithra, Haoma; in seguito Ahura Mazda prescrive il rito proprio del culto di Mithra, e lo compie in prima persona nella Casa del Canto in Paradiso. Mithra è adorato come la luce che illumina il mondo intero. L’inno termina con queste parole: «nella pianta barsom noi adoriamo Mithra e Ahura, i di Alessandro Riccardi (Gargoyle) gloriosi [Signori] della Verità, liberi per sempre dalla corruzione: [adoriamo] le stelle, la Luna e il Sole. Adoriamo Mithra, signore di tutte le genti.» Il Mitraismo in occidente. Il culto di Mitra fu introdotto in occidente da pirati della Cilicia che, vinti e catturati da Pompeo nel 67 a.C., diffusero il culto5. Viene però descritto un culto misterico, e probabilmente il processo attraverso cui il dio iranico esaltato nel Mihr Yasht si sia trasformato nel Mitra dei Misteri è opera di uno sviluppo cultuale nell’ambiente dei magoi che si stabilirono in Mesopotamia e in Asia minore. La mitologia e la teologia dei Misteri mitriaci sono accessibili attraverso monumenti istoriatim netre i poco numerosi documenti letterari si riferiscono al culto e alla gerarchia dei gradi iniziatici. La religione mitriaca si propaga soprattutto attraverso i militari, probabilmente a seguito dell’associazione del Mithra iranico come dio della guerra. Passando attraverso la Grecia intorno al II secolo a.C. Mithra fu identificato con il dio solare Apollo – Helios. Qui il sincretismo tra Helios e Mitra diviene mitraismo a tutti gli effetti. Tuttavia il culto non si sviluppò se non quando arrivò, nel I secolo a.C., a Roma. L’origine del dio differisce dalla versione mazdeica ed hindu: uno dei miti narra che Mitra nacque da una roccia6 (de petra natus), con un pugnale in una mano, una fiaccola nell’altra, indossando un berretto frigio. Un altro mito narra che il dio decide di venire al mondo incarnandosi nel ventre della divinità vergine Anahita7, e nasce in una grotta. Nel culto mitriaco i festeggiamenti per la nascita del dio erano celebrati il 25 dicembre, durante il solstizio d’inverno (in persiano chiamato Shab-e Yalda), come si conviene ad dio della luce. Nella sua vita compie diverse gesta: prima fra tutte soggioga il sole e lo introduce ai suoi misteri: le due divinità stipulano un patto nel quale Mitra riceve in dono una corona luminosa, e banchettano assieme. In seguito colpisce con una freccia la roccia, facendone 5 Plutarco, Pomp., 24, 5 Così come l’antropomorfo Ullikummi hurrito-hittita e il mostro ermafrodita Agditis ellenico, che diviene, dopo la castrazione, Cibele. 7 Il più grande tempio mitriaco è quello Seleucide situato a Kangavar del 200 a.C. Questo è dedicato ad “Anahita, la immacolata vergine madre del signore Mithras” 6 26 Difesa della Tradizione 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 scaturire acqua. Cattura un toro e, portatolo nella sua caverna dopo aver superato delle difficoltà causate da uno scorpione e da un serpente mandati dal dio malvagio Ahriman per ostacolarlo, e lo sgozza. Dal corpo del toro, come abbiamo visto precedentemente nella mitologia zurvanica nell’episodio dell’avvelenamento del toro primordiale Abudad, nascono tutte le erbe e le piante salutari, dal midollo il grano che dà il pane, dal suo sangue la vite, e dallo sperma gli animali utili all’uomo. Al termine del suo mandato, dopo 33 anni, il Dio sarebbe salito in cielo con l’aiuto del sole. Il culto assunse sempre più importanza senza tuttavia divenire mai religione ufficiale: dapprima tramite militari e schiavi per poi arrivare sino agli imperatori. Nel II-III secolo d.C. giunse al massimo splendore, Pagina 27 tuttavia nasceva il forte contrasto con l’altra religione monoteista del tempo, il Cristianesimo. Nel 313 d.C. l’editto di Costantino segna una prima vittoria cristiana, mentre la restaurazione pagana di Giuliano Imperatore (361 – 363 d.C.) permise una ripresa del culto mitriaco che fermò almeno la distruzione dei templi. Con la sconfitta di Eugenio per mano di Teodosio nel 394 d.C. la religione cristiana prevalse su quella mitriaca. Sui templi vennero erette chiese e basiliche. Il tempio e il rito Il tempio mitriaco riproduce fedelmente gli aspetti chiave del mitraismo: questo si trova in luoghi sotterranei che rappresentano una grotta la spelunca, la cui volta è dipinta con astri e costellazioni per Un’immagine della tauroctonia completa di tutti gli elementi Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra 27 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 28 I MISTERI DI MITHRA rappresentare il macrocosmo nel microcosmo. In fondo alla spelunca è situata l’immagine del dio dipinta, in bassorilievo e in forma statuaria. Questi posizionato al centro, con il sole alla sua sinistra e la luna alla sua destra, nell’atto di sgozzare il toro8: con una mano tiene le froge dell’animale, mentre con la destra gli affonda il pugnale nella gola. Dalla ferita cola del sangue che viene leccato in prossimità del petto da un cane, e da un serpente in basso. Uno scorpione attacca i testicoli del toro con le chele tentando di avvelenarne il seme. Il serpente e lo scorpione sono mandati da Ahriman affinché il sacrificio sia vanificato, impedendo al sangue e allo sperma di fecondare la terra. La coda del toro, che rappresenta la fine della colonna vertebrale contenente il midollo, termina con delle spighe di grano. Il Volto di Mitra è rivolto verso il sole, come per chiedere il permesso del sacrificio permesso accordato per mezzo di un messaggio portato da un corvo in volo, e il suo mantello, come gonfiato dal vento, racchiude la volta celeste. Ai lati sono presenti due dadofori gemelli, Cautes e Cautopates: il primo con una fiaccola alzata, il secondo con la fiaccola abbassata. Assieme a Mitra rappresentano i tre momenti del giorno: l’alba, il mezzogiorno, il tramonto. Ai lati della spelunca erano presenti delle strutture murarie rialzare sulle quali i fedeli seguivano il rituale e assistevano al banchetto e le pareti laterali erano affrescate con scene inerenti i gradi iniziatici. Oltre la spelunca erano presenti altre stanze adibite alla cerimonia del battesimo dell’iniziato, alla preparazione del cibo per il banchetto, e alla vestizione del Pater. Mentre grazie ai reperti archeologici ci è possibile conoscere la struttura del tempio e la scala gerarchica dei gradi iniziatici, i cui simboli sono presenti in affreschi e mosaici in mitrei sparsi in tutta Europa, non ci è possibile conoscere il rituale vero e proprio in quanto questo non produceva atti scritti ma veniva tramandato solo oralmente. di Alessandro Riccardi (Gargoyle) L’interno del Mitreo del Circo Massimo a Roma I gradi iniziatici del mitraismo erano sette, accessibili solo agli uomini: Corax (corvo), Nymphus (ninfo o sposo) , Miles (soldato), Leo (leone), Perses (persiano), Heliodromos (corriere del sole) , Pater Patrum (padre). Quest’ultimo, massimo grado del mitraicismo, era abbreviato in Pa.Pa. Ogni grado iniziatico era associato ad un pianeta e a particolari simboli identificativi e la struttura iniziatica è rispondente ad altre strutture tradizionali. 8 La tauroctonia mitriaca rappresenta anche il quadro astrale del passaggio dall’età del Toro a quella dell’Ariete, fedele dunque a quella dottrina dei cicli temporali cardine della dottrina zurvanista. Il tempo dunque indicato dall’iconografia, ossia il Sole che muore al tramonto in Toro e risorge all’alba nell’età dell’Ariete, è databile, secondo la precessione degli equinozi, a circa 3.742 anni fa, nel 1.796 a.C. Ciò rende ipoteticamente valide le ipotesi secondo cui le origini mitriache risalirebbero intorno al 1.500 a.C. 28 Difesa della Tradizione 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Il grado più basso è quello di Corax e rappresenta la morte iniziatica del neofita; in Persia si usava esporre i cadaveri su torri fuunerarie affinché venissero mangiati dai corvi. Il neofita muore e rinasce in un corso spirituale: i suoi peccati sono lavati con l’acqua con il battesimo per immersione9 nell’apposita stanza del tempio. Il neofita si desta dal buio del sonno e si dona al nuovo cammino nella luce di Mitra. Il grado di Corax è sotto la protezione di Mercurio, ed alcuni simboli ad esso associati sono il corvo, il cadduceo, l’ariete. Il secondo grado è quello di Nymphus, o crisalide: così come dalla crisalide nasce la farfalla, dal Nymphus nasce l’iniziato a Mitra: era il suo sposo, o il suo amante. L’iniziato offriva alla statua di Mitra una coppa d’acqua: la coppa era il suo cuore, l’acqua il suo amore. Il Nymphus è sotto la protezione di Venere, ed alcuni simboli ad esso associati sono il serpente e la lucerna. Il terzo grado era occupato dalla figura del Miles; questo grado rappresenta la duplice battaglia. Dapprima il nofita doveva combattere con la spada contro un uomo per conquistare la corona: in seguito veniva spogliato e veniva fatto inginocchiare nudo, con le mani legate e bendato, a rappresentare la sottomissione all’autorità religiosa e l’abbandono della materialità della vecchia vita. Gli veniva offerta una corona sulla punta della lancia, e dopo l’incoronazione veniva tolta la benda e tagliate le corde con un colpo secco di lancia, per rappresentare la liberazione dalla materialità del mondo. Il Miles, come segno di rinuncia all’intelletto ed accettazione di Mitra come unica guida, toglieva la corona e la poggiava sulla spalla pronunciando la frase “Mitra è la mia unica corona.”10 Passata tale fase, il Miles iniziava la vera battaglia, quella contro la parte più bassa di se stesso. Il terzo grado è sotto la protezione di Marte e alcuni simboli associati sono lo scorpione, l’elmo, la lancia. Pagina 29 L’iniziazione del Miles in un affresco di un mitreo Con questo grado termina il gruppo dei “servitori” del rito ed inizia il gruppo dei “partecipanti” al rito. Al quarto grado, l’iniziato accede ad un livello di comprensione superiore inerente il mondo fenomenico, passaggio che si può compiere esclusivamente con un vero atto di forza interiore. E’ il grado di Leo, rappresentativo dell’elemento del fuoco, gradino per entrare nella porta del non commensurabile. I Leones non toccavano acqua durante i rituali ma veniva offerto loro del miele per lavarsi le mani e con lo stesso veniva unta loro la lingua11: erano i custodi del fuoco 9 A volte il battesimo avveniva con il sangue della vittima sacrificale la quale, nonostante la tauroctonia risulti iconograficamente logica, non era realizzabile in virtù della ristretta dimensione del tempio. La vittima sacrificale era spesso un agnello. 10 Tertulliano, De corona 11 Il miele era il cibo dei beati e dei neonati. Cfr. Porfirio, De antro nimph Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra 29 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 30 I MISTERI DI MITHRA sacro e servivano durante il banchetto rituale i cibi preparati dai gradi inferiori. Il banchetto rituale, a base di pane e vino simbolo del frutto del sacrificio del toro (grano dal midollo e vite dal sangue), rappresentava l’ultima cena di Mitra con i suoi compagni sulla terra prima di salire in cielo con il Sole. Il grado di Leo è sotto la protezione di Giove e alcuni simboli ad esso riferiti sono il cane, la folgore, l’aquila. Il quinto grado, quello di Perses, è rappresentato dal dadoforo Cautopates ed è il Custos delle grotte mitriache. Simbolo tipico dell’iniziato è l’arma con cui Perseo decapitò la Gorgone, che rappresenta la vittoria dell’aspetto più basso dell’iniziato. Attraverso questa vittoria l’iniziato aveva diritto ad essere affiliato alla razza persiana, l’unica razza degna di ricevere la Rivelazione della saggezza del Magio (magoi). Essendo sotto la protezione della Luna, l’iniziato veniva purificato con il miele in quanto, nell’antico Iran, si riteneva che la Luna ne fosse la fonte12. Altri simboli rappresentativi del grado di Perses sono la civetta, la falce di luna, la brocca. Heliodromos è il sesto grado, rappresentato da Cautes, con la torcia alzata a rappresentare il levar del sole. Heliodromos rappresenta l’alba e il viaggio del sole nel cielo nelle ore diurne. In questo grado l’iniziato rappresentava il sole durante il banchetto rituale, vestito interamente di rosso, colore della vita, del sole e del fuoco. E’ sotto la protezione del Sole ed è simbolicamente raffigurato da una corona a sette raggi, la torcia, il gallo, il globo. Il settimo e massimo grado della gerarchia iniziatica mitriaca è il Pater Patrum (Pa.Pa.). Egli rappresenta l’Età dell’Oro attraverso Saturno13, è il rappresentante di Alessandro Riccardi (Gargoyle) di Mitra sulla terra, la personificazione della luce paradisiaca. Era la guida dei gradi inferiori, vestiva pantaloni persiani rossi, cappello frigio rosso e un bastone, simbolo del carico spirituale. Il suo grado è sotto la protezione di Saturno. Tale struttura gerarchica ci è stata tramandata da documenti e con l’aiuto di iscrizioni, affreschi e decorazioni presenti nei mitrei: circa il rituale si fa riferimento a “vociferazioni” presenti in documenti successivi il bando della religione mitriaca, pertanto appare difficile separare la realtà dalla fantastica necessità di demonizzare il mitraicismo da parte della chiesa romana. Gli apologeti cristiani polemizzano spesso contro i sacramenti mitriaci definendolo “ispirati da Satana”. Tertulliano e Luciano parlano della conclusione dell’iniziazione al grado di Miles con la marchiatura a fuoco sulla fronte dell’iniziato14, o purificato con una torcia ardente15. Il combattimento con la spada iniziale del Miles probabilmente avveniva contro un fantoccio (a rappresentare la facilità della battaglia materiale, della piccola guerra santa, a confronto con la battaglia spirituale, la Grande Guerra Santa), il che potrebbe confermare lo sdegno in un testo dello storico Lamprida quando parla dell’Imperatore Commodo che macchia di sangue i Misteri di Mitra16 (che avrebbe ucciso, nel ruolo di Pater, un Miles invece di simularne l’esecuzione). Anche se in Grecia il mitraicismo non ha lasciato tracce archeologiche rilevanti, una traccia documentaristica riguardo il rituale proviene proprio dal territorio ellenico; il rituale17 è inserito in una raccolta di manoscritti ermetici su trentasei fogli di papiro, acquistati in Egitto dal console generale di .12 L’espressione “Luna di miele” denota la continuità della fertilità e dell’amore nella vita matrimoniale, che oggi giorno è associato al mese dopo il matrimonio. 13 Virgilio, BUCOLICHE, ECLOGA IV: “Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, iam nova progenies caelo dimittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet fave Lucina: tuus iam regnat Apollo.” (Già arrivò l’ultima età della predizione dei cumani, nasce per intero una grande serie di secoli; e già ritorna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno, già una nuova progenie è mandata giù dall’alto cielo. Tu, casta Lucina, proteggi il bambino che nasce ora dove per la prima volta cesserà l’era delle armi: già regna il tuo Apollo.) 14 Tertulliano, De praescr. haret. 15 Luciano, Mennipus 16 Lamprida, Commodus 17 Armando Cepollaro (a cura di), Il rituale di Mithra, grande papiro magico di Parigi, Atanòr 30 Difesa della Tradizione 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 31 un’azione mistico-magica. Il mistero mitriaco ha una posizione trascendente nei confronti dell’uomo il quale non giunge mai, anche se scala gerarchicamente i gradi da corax a pater, ad assimilarsi al dio21, ma va solo alla ricerca della sua protezione chiedendo ed invocando la sua amicizia al fine della propria salute spirituale. Il testo del rituale è pervaso di riferimenti simbolici planetari ed astrali attraverso i quali il teurga compie l’ascensione all’empireo attraverso le sette sfere di fuoco. Tali porte si schiudono solo in virtù di formule sacramentali, lasciando proseguire l’iniziato attraverso il suo viaggio alla fine del quale è dvo-ja, due volte nato. Il frasario magico non può essere interpretato letteralmente: è composto da frasi e sillabe evocatorie ed invocatorie dotate di potenza e forza visualizzante nel regno vedico e in quello delle forme: simili ad un mantra, a parole di potere. Il rituale è composto da un’iniziale formula propiziatoria, da una preghiera invocatoria cui seguono nove Logos. Il rituale termina con l’istruzione per l’impiego del rituale magico e l’istruzione per l’azione rituale. Mitraicismo e Cristianesimo. Il Pater Patrum Svezia M. d’Anastasi e dallo stesso ceduti alla Biblioteca Nazionale di Parigi nel 185718: scritto in forma greca, è databile tra il la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C19. L’elemento cardine del rituale è la volontà dell’iniziato ad imitare il dio che muore e risorge per divenire partecipe della sua energia ultraterrena20, attraverso Leggendo quanto esposto finora sono evidenti diversi elementi comuni fra la religione Cristiana e lo Zurvanesimo/Mazdeismo/Mitraicismo: il cristianesimo è l’ultima grande religione in ordine temporale ed ha risentito delle influenze della spiritualità preesistente. Anche il giudaismo e l’islamismo contengono elementi comuni22. L’aspetto trinitario divino (nell’aspetto, non nella definizione), elementi della genesi del mondo e dell’uomo (la coppia primordiale Mǎsye-Mǎsyane), il libero arbitrio tra bene e male (Ohrmazd-Ahriman), il diluvio (da cui per salvare le creature viene costruito il palazzo Vara di Yima). Nello Zoroastrismo (riforma del Mazdeismo da parte di Zarathustra) c’è la figura 18 Papyrus Anastasii, n° 574 del Supplement grec du Recueil magique, Departement des manuscrits, Biblioteca Nazionale di Parigi. Il rituale mitriaco si estende dalla riga 42 del fogl. 7 recto alla riga 16 del fogl. 10 verso. 19 APATHANATISMOS: Rituale mithriaco del Gran Papiro di Parigi – prima traduzione dal greco con una introduzione, un commento ed un’appendice; in “UR”, Roma, anno I, Aprile 1927, n. IV. 20 Bousset, Kyrios Kristos; Göttingen, 1921 21 Accade il contrario in altri misteri come quello di Attis, di Sabi, di Osiris. 22 Elementi comuni si riscontrano non solo per quanto concerne la cultualità solare/patristica: vi sono profondissime comunanze anche con la cultualità lunare/matristica di cui non ci occuperemo in questo articolo. Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra 31 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 32 I MISTERI DI MITHRA di Saoshyant, futuro Salvatore degli uomini, nato da una vergine: questi assieme ad Ohrmazd, sacrificando il toro Hatayos dà via al Rinnovamento finale (frašo-kereti) durante il quale verranno resuscitati tutti gli uomini per prendere parte alla battaglia finale tra bene e male. La nascita di Mitra da una vergine in una grotta il 25 dicembre (la Chiesa stabilirà la nascita di Cristo lo stesso giorno nel IV secolo d.C.) con la visita del nascituro da parte dei Re Magi, magoi persiani, l’episodio della roccia colpita da cui scaturisce acqua (ritrovato in Mosè e Pietro), il periodo di permanenza sulla terra di 33 anni, l’ultima cena con il pane e il vino (frutti del sacrificio del corpo e del sangue del toro) e successiva ascesa in cielo, corrispondenza del nome del massimo grado (Papa, dall’abbreviazione di Pater Patrum, Pa.Pa.). Mitra è anche ritenuto essere il Salvatore degli uomini e nel giorno del Giudizio giudicherà le anime che verranno destinate nel paradiso23 o nell’inferno. Nel rituale si nota l’analogia nei tre momenti iniziatici dei gradi inferiori del mitraicismo e i sacramenti: battesimo (corax), comunione (nymphus), Cresima (Miles). Anche in altri elementi del Cristianesimo si nota la sovrapposizione con il culto di Mitra. Oltre alla figura del Cristo anche quella dell’Arcangelo Michele offre immediate analogie con Mitra: l’Arcangelo Michele è un angelo guerriero, protettore degli spadaccini, il cui colto si trova in presenza di grotte e cavità naturali. Tale culto nasce dalla leggenda del cacciatore che, ferito un toro bianco, lo insegue dentro una grotta dove appare l’Arcangelo. Michele, nell’iconografia in cui uccide il drago (o il demonio), rappresenta la vittoria sugli stati più bassi dell’essere nella costante Grande Guerra Santa, mentre nell’iconografia in cui appare con la bilancia rappresenta la psicostasia, la pesatura delle anime durante il Giudizio Universale; tutti elementi ben presenti nella storia di Mitra e del suo rituale. Il culto iranico di Mithra era stato in grado di unire di Alessandro Riccardi (Gargoyle) l’eredità iranica al sincretismo greco-romano: i misteri di Mitra avevano integrato ed assimilato correnti specifiche dell’età imperiale romana, come l’astrologia, speculazioni escatologiche, culto solare. Ma nonostante leredità orientale la lingua liturgica era il latino e i capi dei Misteri provenivano dalle popolazioni italiche e da quelle delle province romane: erano inoltre assenti pratiche mostruose ed orgiastiche. Queste qualità stabilirono il successo del mitraicismo tanto da spingere Ernest Renan a citare la frase “se il cristianesimo fosse stato fermato nella sua espansione per via di qualche malattia mortale, il mondo sarebbe stato mitriaco”24. Ma la Grande ruota gira, i cicli si compiono: a nulla potè la spiritualità mitriaca contro il naturale decadimento che avanza con le età cosmiche. Nel III secolo d.C. i culti solari popolari di Mitra ed Apollo iniziarono a fondersi nel sincretismo del Sol Invictus: Aureliano, figlio di una sacerdotessa del Sole, rende ufficiale il culto nel 274 d.C. Costituisce un nuovo corpo di sacerdoti (pontifex solis invicti) ed attribuisce al Sol invictus le vittorie in Oriente. La perdita della Dacia e le invasioni dei popoli del Nord, che distrussero molti templi, contribuirono al declino del culto. La crescita del cristianesimo favoreggiata da Costantino e la vittoria di questo a Ponte Milvio (l’onirico episodio del “in hoc signo vinces”) segna la fine del mitraicismo. In seguito l’Imperatore Giuliano cercò di restaurare il culto e di limitare l’avanzata della religione cristiana, ma il decreto di Teodosio del 391, nel quale venivano vietati culti non cristiani, ne sancì definitivamente la fine. I templi vennero distrutti, o nel migliore dei casi sopra di essi vennero erette chiese e basiliche. Tuttavia, grazie alla sopravvivenza archeologica dei templi e al sincretismo religioso del culto mitriacocristiano, abbiamo la possibilità di percorrere a ritroso le origini della spiritualità25, in un cammino che ci riporti all’unione con l’unico Principio generatore rappresentato nei millenni con tanti volti, tante forme, tanti nomi. 23 Dal sanscrito paradesha, “paese supremo”, altopiano del primo popolo di lingua sanscrita, culla dei primi uomini pensanti divini. Successivamente pairidaeza in iranico da pairi“attorno” diz- “creare”. 24 Ernest Renan, Marc Aurèle, p. 579 25 Vedi escursioni dell’Associazione Culturale Thule Italia - Gruppo Escursionismo Archeologico - Sezione regionale LATIVM, presso il monte Soratte, (Rivista Thule Italia n° 19 e 20 del 2007) e presso il Mitreo di S.Prisca. 32 Difesa della Tradizione 04_Difesa_Mithra_22-33_ultimo.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:04 Pagina 33 Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra 33 05_Difesa_Scienza_34-37_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:05 Pagina 34 LA MODERNA “RELIGIONE DELLA SCIENZA” Alcuni retroscena di un equivoco plurisecolare La scienza è antioligarchica F. W. Nietzsche fondamentalmente democratica e Non è certo impresa facile affrontare una questione come quella dello sviluppo scientifico e delle sue conseguenze tecnologiche nella modernità, ma l’importanza del fenomeno motiva il nostro tentativo di inquadrarlo e di delinearne anche solo brevemente tratti distintivi e ombre. È cosa piuttosto nota che a partire dal XVI secolo, soprattutto in Europa, una serie di eventi, di scoperte, di riflessioni abbiano dato una forte spinta accelerativa alla conoscenza dei meccanismi e delle leggi naturali, conoscenza alla quale hanno fatto seguito applicazioni pratiche sotto forma di apparecchiature, di macchine e in generale di applicazioni finalizzate ai più disparati scopi, diffuse in una quantità mai vista sino ad allora. La cosiddetta scienza e soprattutto la sua versione applicativa che è la tecnologia sono in effetti i caratteri distintivi della civiltà moderna in rapporto alle civiltà precedenti: uno sguardo critico sulla modernità deve pertanto passare attraverso un’analisi attenta del fenomeno scienza-tecnologia. Noi, però, se da un lato siamo sospettosi verso l’autocelebrazione della modernità e dei suoi fasti, non intendiamo per contro assumere quelle posizioni bigotte e retrive diffuse in certi ambienti sedicenti tradizionalisti o conservatori di rifiuto della novità per partito preso, che vedono nel personal computer un instrumentum diaboli o contrappongono al darwinismo i miti dell’Antico Testamento. Ora, nessuno potrebbe seriamente pretendere di negare gli innumerevoli vantaggi che sono derivati da questo immenso fenomeno: la scienza moderna è finalizzata soprattutto ad applicare in forme pratiche le leggi e i principi enucleati in sede teorica, a rendere cioè semplicemente più comoda e più agiata la vita dell’uomo, e in ciò sembra decisamente essere riuscita nel suo intento. Un confronto tra la medicina antica o medioevale e quella moderna è sufficiente ad avere la 34 di Michele Russo (Aries) misura del cambiamento. Lo scopo del nostro discorso non sarà quindi un’impossibile requisitoria contro evidenti successi, quanto piuttosto indagare se dietro tutto questa gloria e questo fasto vi siano dei lati oscuri o delle mancanze. E a nostro parere, a ben guardare, ve ne sono abbastanza per poter affermare che i costi superano i guadagni. A cominciare dai termini vi è oggi molta confusione: quando si parla di scienza viene spesso implicitamente sottointeso l’aggettivo “moderna”, quasi che prima del 1500 l’umanità vivesse nell’ignoranza. Questa prima distorsione si basa sull’idea, arbitraria e infondata, che sia scientifica soltanto quella conoscenza di natura sperimentale, mentre il sapere non misurabile in termini matematici sia soltanto favola e opinione. A partire da questo equivoco, i cui principali responsabili furono Francis Bacon e René Descartes, gli uomini hanno iniziato a prestare un’attenzione smisurata allo studio della natura nei suoi aspetti esclusivamente materiali - peraltro per la brama di un suo sfruttamento economico, non certo di una sua pura conoscenza - tralasciando in misura progressiva quelle branche del sapere come la metafisica, la psicologia o l’etica che fino ad allora componevano un tutto organico. È pur vero che nell’ultimo secolo alcune discipline come la psicologia sono tornate in voga, ma appunto scisse e sconnesse da una vera metafisica - che dopo la fine dell’idealismo tedesco del XIX secolo non esiste più -, e impostate sul modello epistemologico proprio delle scienze positive, vale a dire in una prospettiva strettamente materialista ed empirista. Peraltro forse è opportuno ricordare che moltissime teorie e spiegazioni oggi correntemente accettate non hanno alcunché di sperimentale: basti pensare alla teoria della gravitazione universale di Isaac Newton, a quella dell’evoluzione di Charles Darwin o a quella della relatività generale di Albert Einstein. Con ciò non intendiamo entrare nel merito sostenendo che simili teorie non siano valide, ma soltanto che la sperimentabilità è un criterio per nulla scientifico, e pertanto che ritenere la scienza - in quanto sperimentale - più oggettiva e più veritiera del sapere speculativo è assolutamente infondato. Di pari passo ai progressi della scienza positiva si è Difesa della Tradizione 05_Difesa_Scienza_34-37_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:05 assistito nell’era moderna al tramonto del sapere metafisico e di ogni scienza sacra: tradizioni millenarie che diedero luogo a miti, religioni, riflessioni filosofiche sono state espunte dall’orizzonte del sapere occidentale come inutili e infondate chiacchiere, oppure si sono trasformate in sterili elucubrazioni, prive di ogni dignità e autorevolezza e ridotte a un giuoco di finezza logica. Il riflesso e la conseguenza di questa desertificazione metafisica e spirituale, di questa perdita di un significato forte dell’esistenza è il caos morale che oggi possiamo facilmente osservare. L’uomo moderno, tutto contento per essersi “liberato dall’oppressione religiosa”, illusosi con facilità di essere un homo faber “artefice del proprio destino”, si è ridotto in realtà nella più infamante condizione di servilismo: l’agire degli uomini nella attuale prospettiva materialista si configura infatti come un agire asservito agli aspetti più bestiali e vili dell’esistere, alle sue brame più cieche e insaziabili, ai suoi orizzonti più meschini e spregevoli. Eliminare ogni riferimento a piani della realtà diversi da quello materiale come hanno fatto le scienze e le filosofie della modernità ha reso l’uomo un essere i cui soli scopi sono soddisfare bisogni e perseguire piaceri. Guardando a un siffatto degrado in ogni uomo normale nascerebbe spontaneo l’interrogativo “ma è questa una esistenza degna di essere vissuta?”, domanda che probabilmente sfiora molti, ma che dimentichiamo con facilità grazie a tutte quelle distrazioni che proprio la tecnologia si premura di darci. Occorre poi notare come l’uomo moderno, ben lungi da quella serietà e da quel sobrio razionalismo con cui si raffigura, è in realtà in ogni ambito vittima inconsapevole di superstizioni e credenze irrazionali, sul piano morale come su quello politico e culturale, e non per ultimo su quello scientifico. Il materialismo e il progressismo sono due buoni esempi di queste credenze assurde. Il concetto di materia, elemento centrale in quasi tutte le filosofie moderne comprese quelle di tendenza più idealistica, è uno dei concetti più sfuggenti e oscuri di tutta la storia del pensiero umano. Secondo Aristotele - che a questo proposito si rifaceva a Platone, il quale a sua volta interpretava un assioma autoevidente che il pensiero tradizionale greco aveva fatto suo sin dalle Pagina 35 origini - della materia in senso stretto non può esservi scienza, ma solo opinione: la materia infatti è “essere in divenire”, vale a dire in costante mutamento, e perciò inafferrabile dal pensiero, che invece può studiare solamente l’essere immobile. Di fronte a una tesi scientificamente rigorosa come questa ogni materialismo trova delle serie difficoltà a controbattere, e così la taccia di arretratezza ed evita di confrontarvisi seriamente: peraltro, anche studiando le varie filosofie materialiste che pure si legittimano appellandosi alla scienza, difficilmente si troverà una definizione “scientifica” della materia, entità che sembra piuttosto svolgere il ruolo di mito fondativo, se non addirittura di rozza superstizione. In questo senso il noto principio di indeterminazione di Heisenberg non fa che confermare l’aspetto sfuggente e scientificamente poco conoscibile della “materia”, confermando tra le altre cose il concetto Aristotelico. Un altro dei più profondi equivoci della modernità è il progressismo, quella confusa convinzione per cui il presente è meglio del passato e il futuro sarà meglio del presente. Progresso, evoluzione, positivismo, ottimismo - teorizzati in sede filosofica, tra gli altri, da Herbert Spencer nel secolo XIX - sono stati il motore degli immensi cambiamenti occorsi nei tempi ultimi e stanno alla base della rivoluzione industriale nonché del sorgere di quelle prospettive politiche quali il socialismo o il liberalismo. Che il progressismo o l’evoluzionismo non siano dati di fatto, ma miti insensati e vaghe aspirazioni, sintomatici più di stolto ottimismo che non di scientificità, sarebbe evidente anche a un bambino: la loro diffusione nell’età moderna rende però l’idea di come gli uomini oggi non si siano affatto “liberati dalla superstizione religiosa” come vanno vantandosi, e abbiano semplicemente sostituito un ordine di illusioni provvidenziali con un altro equivalente, incentrato su simili promesse escatologiche riguardanti il destino terreno. D’altro canto da quando ha cominciato a prendere piede una visione progressista sono anche state avanzate in risposta delle prospettive decadentiste. Bisogna però notare che il progresso come la decadenza non sono fatti ma punti di vista: la storia mostra come le civiltà e gli uomini cambiano Michele Russo / La moderna “religione della scienza” 35 05_Difesa_Scienza_34-37_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:05 Pagina 36 LA MODERNA “RELIGIONE DELLA SCIENZA” semplicemente, migliorando sotto certi aspetti e peggiorando sotto altri. Su di un piano metastorico è sì lecito speculare se le sorti dell’universo consistano nel suo ripetersi ciclico, nel suo riassorbimento nel creatore, nella sua redenzione o che altro, ma quando tali discorsi vengono affrontati da chi non ne ha le competenze finiscono per essere banalizzati e condurre a esiti fuorvianti. Ciò basti a dire che progressismo o decadentismo sono legittime opinioni ma non certo verità scientifiche, e come sia quindi opportuno prendere le distanze non solo dal progressismo ottuso di matrice illuminista, ma pure da quel pessimismo tanto in voga tra molti tradizionalisti, sempre pronti a lamentare le nequizie del kaliyuga e attendere la redenzione da una nuova età dell’oro. Tornando al progressismo vale la pena ricordare come esso serva tutt’oggi a giustificare e coprire il fallimento evidente delle ideologie della modernità e delle istituzioni che di esse sono manifestazione: infatti, illusi che il futuro riservi ancora innumerevoli maraviglie per le quali vale la pena di sacrificare il presente, gli uomini d’oggi non si accorgono della situazione disastrosa i cui li ha condotti quella stessa civiltà che promette loro un roseo futuro. Questo vale, per esempio, in riferimento alla devastazione dell’ambiente naturale provocata dalla odierna diffusione anomala della tecnologia: gli uomini hanno sempre consumato risorse e inquinato il proprio habitat, ma quando il fenomeno raggiunge proporzioni tali da mettere a repentaglio la sopravvivenza degli uomini stessi, allora è opportuno interrogarsi se questo progresso sia davvero un miglioramento. Un ultimo aspetto oscuro della moderna tecnologia è la profondissima distanza che si è venuta a creare tra i costruttori e i fruitori della stessa: in epoche passate gli strumenti erano più rozzi, ma chi li utilizzava ne conosceva, in linea di massima, anche il processo produttivo: ciò permetteva di padroneggiarli e non subirli passivamente, di ripararli o ricostruirli nel caso si guastassero. Io che scrivo queste righe sul mio portatile non ho la minima idea di come avvenga l’elaborazioni dei dati che darà luogo alle parole sullo schermo o sul foglio stampato: inoltre, nel caso il computer si guastasse, non sarei in grado di fare molto più di una scimmia, e il mio lavoro dipenderebbe 36 di Michele Russo (Aries) dall’intervento di un tecnico riparatore. Questo che apparentemente sembra un dettaglio insulso ha in realtà conseguenze enormi sulla psicologia dell’uomo moderno: è uno degli elementi che contribuiscono a fare di esso un essere passivo, un servo, che però, inconsapevole del suo stato, si bea della comodità e dei lussi che gli vengono forniti. È impossibile in questa sede trattare analiticamente tutti gli aspetti del problema in questione, ma i pochi cenni fati possono bastare per rendere l’idea dell’importanza dell’argomento e delle sue implicazioni etiche ed esistenziali. Occorre precisare, peraltro, che le nostre critiche non sono rivolte più di tanto agli scienziati e alla scienza, quanto piuttosto ai divulgatori che banalizzano e strumentalizzano il sapere e la ricerca per scopi politici e sociali quando non commerciali, che fanno di Galilei ed Einstein i profeti della loro religione, che festeggiano il compleanno di Darwin come il “Natale dei laici”(1). Quando si divulga l’ipotesi che l’uomo sia imparentato con le scimmie non si afferma una verità scientifica, ma si propaganda un’etica, una visione del mondo e un modello comportamentale: basti pensare che Karl Marx, quando pubblicò il Capitale, intendeva dedicarlo a Darwin: e Marx non era certo uno scienziato naturalista. A questo cicalare disordinato e plebeo noi opponiamo ferma la certezza antica che il valore di una teoria scientifica non si misura dal numero di persone che vi credono. Che la credibilità di una scienza non si misura dalla sua utilità applicativa. Che la grandezza di una civiltà non dipenda dalla speranza media di vita. Noi non siamo antiscientisti od oscurantisti. Noi crediamo che le scienze e le tecniche non siano qualcosa da giudicare, frenare o liberalizzare, ma debbano essere considerate quali saperi strumentali, quindi sempre al servizio di qualcosa e mai a dominio di alcunché. Quello che noi critichiamo è il ruolo di dominio che la scienza moderna ha invece acquisito nell’orizzonte dei saperi: infatti se da un lato essa risponde molto bene alle domande circa il “come” avvengono i fenomeni, d’altro canto non è minimamente in grado – né potrebbe esserlo – di spiegare il “perché” di quei fenomeni, di motivarne l’esistenza. Il problema è che la Difesa della Tradizione 05_Difesa_Scienza_34-37_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:05 Pagina 37 scienza attuale - o per meglio dire la sua vulgata elude quella domanda, quel “perché”, pretendendo di rispondere con la più dogmatica delle asserzioni: l’essere è un “dato di fatto”. Quando un simile atteggiamento intellettuale diventa – come è diventato – modello generale di comportamento, il risultato non può che essere il riduzionismo etico, la banalizzazione dell’esistenza, l’annichilimento del senso dell’esistere a mero dato di fatto, l’autolimitazione della ricerca umana. Noi – lo ripetiamo – non siamo antiscientisti. Crediamo che la ricerca scientifica debba sempre essere promossa, ma non nei termini specialistici, tecnicistici e settorializzati nei quali opera oggi, ma integrata con gli altri ambiti del sapere, e la nostra ambizione è verso quella “chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici” auspicata da Friedrich Nietzsche(2). Noi ci opponiamo alla divulgazione della scienza, alla sua banalizzazione, al suo diventare una fede laica e una superstizione. Noi ci opponiamo alla diffusione abnorme della tecnologia che trasforma gli uomini in servi inetti e che mette a rischio il nostro ecosistema. (1) E’ tutto vero: il 12 febbraio, col patrocinio di diversi enti culturali tra cui le Università, si è celebrato il “Darwin Day” (sic!), giornata di rievocazione della “nascita del messia” (1809), dedicata a convegni ed eventi su evoluzionismo e scienza. Anche così nascono le nuove religioni! (2) Cfr. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I 1. Michele Russo / La moderna “religione della scienza” 37 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 Pagina 38 “PLATONE” Parte Seconda di Matteo Mazzoni (Chrysokarenos) Dobbiamo innanzitutto dichiarare, per onestà intellettuale, che la nostra “esegesi tecnica” del pensiero platonico attinge completamente dallo studio dell’ottimo ricercatore Franco Trabattoni, sebbene la sua interpretazione verrà da noi reinserita in una visione del mondo originale che egli riterrebbe da sé lontana. In particolar modo, i testi del Trabattoni cui abbiamo attinto sono: “Platone” e “La filosofia antica”, editi da Carocci. Nella prima parte del presente articolo abbiamo esaminato la dottrina platonica delle idee, sottolineandone l’aspetto di necessità etica, funzionale alla condizione politica ed alla debolezza del sentire comune nell’antica Atene. Dunque, il carattere ontologico delle idee platoniche, in tale ottica viene ad essere sminuito. Tempo fa, discutendo con alcuni Associati, concordammo nell’individuare il carattere funzionale della metafisica: fui piacevolmente sorpreso da tale accordo d’opinioni. Difatti, negando la possibilità della conoscenza perfetta del cosmo da parte dell’uomo, la metafisica può però continuare a sussistere come veicolo funzionale all’affermazione di principi adatti ad agire sulla condizione umana del proprio tempo. Tutte le metafisiche in sé possono reggersi in piedi. Condizione perché una metafisica non si riduca ad elucubrazione mentale, sta nella sua applicabilità nei diversi rami del reale. Non oseremo mai affermare con una certezza infondata che Platone davvero fosse convinto, come noi, della relatività e della funzionalità della metafisica, perché sarebbe un puro fantasticare, un insulto alla storiografia filosofica. Eppure la nostra sensazione rimane questa: Platone pose il suo sistema filosofico intero, pose la sua metafisica, concentrandosi sull’unico e vero obiettivo importante: la rifondazione etica e soprattutto politica della sua Atene, tentando però contemporaneamente, come è ovvio che fosse, di presentare un pensiero il meno confutabile possibile. Se la dottrina delle idee, con la sua affermazione dell’esistenza di principi etici stabili che esistono realmente, non avrebbe convinto Platone sulla sua utilità ad incidere sul pensiero e sulla tenuta esistenziale di chi ne venisse a contatto e soprattutto di chi ne venisse convinto, molto semplicemente crediamo intimamente che Platone l’avrebbe abbandonata per proporre qualcos’altro, senza troppe 38 preoccupazioni relative a ciò che è vero e ciò che non lo è, perché Platone, come vedremo, nel fatto che l’uomo, in questo mondo, possa raggiungere la verità assoluta, non credette affatto. La reminiscenza. La dottrina delle idee viene posta da Platone conciliando due visioni contrapposte: quella di Eraclito e quella di Parmenide. Eraclito è il filosofo del “tutto scorre”, della realtà in continuo mutamento. Parmenide è colui che pose l’”essere” come stabile, immutabile, incorruttibile. Non è utile qui approfondire ulteriormente questi due autori. Basta notare che Platone credette nella natura mobile e transuente del mondo materiale. Ma la sua necessità di affermare l’esistenza e la stabilità di principi etico – estetici (le idee) lo ha indotto a ricondurre tali principi ad un mondo celeste, dove le regole che dominano il mondo materiale vengono a decadere, e dove alla dimensione del divenire vengono sostituiti gli attributi dell’essere di Parmenide. Parallelamente a tale suddivisione dei “mondi” Platone divise anche la conoscenza umana in due generi: al mondo sensibile corrisponde l’opinione (doxa), una conoscenza che s’appoggia sui sensi e che risulta incerta ed instabile come il mondo materiale che conosce; al mondo “celeste” corrisponde invece la scienza (episteme), conoscenza di carattere intellettivo, stabile e certa. Ma come l’uomo conosce le idee? La sua è una conoscenza che può essere davvero intellettiva, stabile e certa? Si tratta di una visione intuitiva delle idee, oppure si tratta di una conoscenza dialettica? Qui entra in gioco la dottrina della reminiscenza. In cosa consiste? In breve, presupponendo una esistenza umana prenatale, una sorta di soggiorno nel mondo celeste ove sono le idee, ove dimorano gli dei, Platone, attraverso il personaggio di Socrate (nel “Menone”, nel “Fedone”, nel “Fedro” e nel “Timeo”), mette in luce una fase dell’esistenza dell’anima umana ove questa si trova in un diretto contatto con le idee (idea, ricordiamolo, significa “visione”), potendone avere dunque conoscenza piena, diretta. Solo con il trauma della nascita, tale conoscenza viene Difesa della Tradizione 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 persa. Con la venuta dell’uomo nel mondo sensibile, l’anima “dimentica” ciò che aveva conosciuto nel mondo delle idee. In questa esistenza materiale, dunque, la sfida che l’uomo deve affrontare sta nel “ricordare” quanto dimenticato con la nascita in un corpo fisico. Nella prima parte del presente scritto, avevamo fatto notare come l’aspetto “maieutico” del personaggio platonico di Socrate, sembrerebbe non trovare riscontro nel Socrate storico. In effetti, il “far nascere le idee” è un elemento inserito da Platone come funzionale alla dottrina della reminiscenza. Socrate, convinto il proprio interlocutore della sua ignoranza, tenta, in senso vero e proprio, di far “nascere” in chi gli sta di fronte il “ricordo” di quella conoscenza che l’uomo ha posseduto nello stato prenatale, e che tornerà a possedere pienamente dopo la morte. Questo aspetto del pensiero Platonico per noi è molto importante perché, lo si ricordi, sottolinea una teoria della conoscenza che si caratterizza in maniera non razionale: l’uomo non impara nulla, ma semplicemente ricorda. Inoltre Platone, introducendo tale forma di conoscenza, che si configura come un portare alla luce un sapere innato e preesistente, apre le porte alla coscienza del fatto che è solo in una dimensione spirituale che l’uomo può fondare la propria conoscenza, poiché nel mondo degli dei e delle idee sono le sue radici. Alla dottrina della reminiscenza Platone accompagna la credenza nella metempsicosi, che da più parti, forse non a torto, è stata vista come la prova maggiore dell’influenza dell’orfismo e dei suoi culti nel pensiero platonico. L’anima, secondo il nostro ateniese, attraversa in alternanza fasi di esistenza celeste a fasi di incarnazione terrena. In verità, non sapremo mai se Platone introdusse tale aspetto perché realmente influenzato dall’orfismo o se per ragioni filosofiche di offrire una dottrina il meno confutabile possibile e di rafforzare l’idea dell’immortalità dell’anima. In fondo, poco ci interessa in questo scritto: se davvero il nostro scopo è quello di interpretare Platone come esempio di reazione di fronte alla “zivilizazion” ateniese, non saremo costretti, dunque, a svolgere un lavoro più propriamente dossografico o di storiografia filosofica. La seconda navigazione. Pagina 39 L’aspetto scettico del pensiero platonico è messo ben in evidenza dalla cosiddetta “seconda navigazione”, sebbene molto spesso questo aspetto venga volutamente ignorato o snaturato. Partiamo da lontano. Nel “Fedone” si narra di come Socrate, non trovando nulla di soddisfacente nelle opere dei naturalisti, decida di modificare il suo metodo d’indagine rifugiandosi nei logoi (cioè i discorsi), che egli descrive come “seconda navigazione”. Questo celebre concetto è stato interpretato a piacimento dagli studiosi per rafforzare la loro visione del pensiero platonico. Ed in effetti si tratta di un concetto che si presta a numerose interpretazioni. Ad esempio scrive Giovanni Reale: “Seconda navigazione” è una metafora desunta dal linguaggio marinaresco, ed il suo significato più ovvio sembra essere quello fornitoci da Eustazio, il quale, riferendosi a Pausania, ci spiega: “si chiama seconda navigazione quella che uno intraprende quando, rimasto senza venti, naviga con i remi”. La “prima navigazione” fatta con le vele al vento corrisponderebbe, quindi, a quella compiuta seguendo i Naturalisti ed il loro metodo; la “seconda navigazione” fatta con i remi, e quindi assai più faticosa, corrisponde al nuovo tipo di metodo, il quale porta alla conquista della sfera del soprasensibile. Le vele al vento dei fisici erano i sensi e le sensazioni, i remi della “seconda navigazione” sono i ragionamenti e i postulati: e appunto su questi si fonda il nuovo metodo. (G. Reale “Platone e l’Accademia antica” da “Storia delle filosofia greca e romana”) Come sempre, noi preferiamo seguire Franco Trabattoni (“La filosofia antica”), che ci apre la via alla riscoperta di un Platone differente. La “seconda navigazione” deve dunque essere interpretata in maniera radicalmente differente rispetto a quanto fatto da Giovanni Reale: se la “seconda navigazione” è più faticosa della prima, ciò significa che la prima è preferibile, ma non disponibile, poiché il vento manca. “La prima navigazione” sarà da considerarsi quindi il procedimento che pretende di giungere al proprio obbiettivo mediante una conoscenza Matteo Mazzoni / Platone - seconda parte 39 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 Pagina 40 “PLATONE” Parte Seconda di Matteo Mazzoni (Chrysokarenos) diretta, simile a quella attuata dai sensi. Mentre la “seconda navigazione” (i logoi) viene introdotta da Platone poiché, impossibile la conoscenza diretta delle idee (che l’uomo potrà avere solo nel mondo postmortem), è necessario un metodo di ripiego: quel logos, appunto, che stimola il ricordo delle idee dimenticate con la nascita. Un metodo conoscitivo più debole dunque, una sorta di ripiego obbligato. Un’altra metafora nel “Fedone”, confermerebbe tale interpretazione: quella degli specchi bruniti, di cui ci si serve per vedere il sole durante l’eclissi senza rimanere accecati. “Perciò i logoi fanno da schermo e da filtro: permettono sì di conoscere, ma solo attraverso un diaframma che istituisce una distanza e una differenza. Si tratta appunto della differenza che separa la conoscenza intuitiva dell’idea, accessibile solo nell’oltremondo, dalla conoscenza mondana, che emerge faticosamente dall’anamnesi e si deve perciò appoggiare ai discorsi“. (Franco Trabattoni, “La filosofia antica”) Attraverso il quadro generale fornitoci dalla “seconda navigazione” possiamo dunque approcciarci al concetto dell’amore platonico. Eros. L’amore platonico. Il motivo dell’eros è affrontato da Platone in più d’un dialogo (“Simposio”, “Carmide”, “Liside”, ma anche “Fedro”), ma la trattazione più significativa, e certamente più famosa, è quella esposta nel “Simposio”. Per ovvie ragioni di spazio e di opportunità, solo di questa ci occuperemo. Lo scenario che Platone ci presenta è quello di un banchetto organizzato per festeggiare il poeta Agatone, fresco vincitore di un agone tragico. I convitati s’accordano per recitare ciascuno, a turno, un discorso in onore del dio Eros. Quando è il turno di Socrate, ecco che egli, come di consueto, stravolge completamente la logica degli elogi e dei discorsi sino a quel momento pronunciati. Egli sostiene infatti che se amore è desiderio di bellezza e di bontà, necessariamente egli non è né buono né bello, poiché si desidera solo ciò che non si possiede. 40 Spianando in tal modo il terreno davanti a sé, Socrate racconta dunque del suo incontro con la sacerdotessa Diotima e di quanto ella gli disse, ossia che Eros nacque da Poros (Espediente) e Penìa (Povertà). Dal padre, Eros ereditò l’amore per ciò che è bello e buono, dalla madre, quella mancanza tipica di colui che desidera qualcosa. E proprio per questa sua natura di desiderante, Eros viene paragonato da Diotima al filosofo. Per quale motivo? La parola “filosofo” è composta dal prefisso philo- (“amico”) e da –sophos (“sapiente”). Dunque il filosofo è colui che tende alla sapienza, e vi tende perché non la possiede, così come Eros tende a ciò che è bello e buono, senza essere bello e buono. Difatti, solo gli dèi sono “sophoi” in senso pieno: al massimo, ci dice Platone, gli uomini possono essere filosofi, cioè coloro che si pongono in una medietà tra la sapienza e la semplice opinione, ove sta la cosiddetta “retta opinione”, in tensione verso l’alto, ma consapevolmente imperfetta. Come dice la stessa Diotima, Socrate è l’uomo più saggio, poiché sa ciò che è fondamentale sapere: cioè sa di non sapere. Questo è quanto ci è utile sottolineare di quest’aspetto del pensiero Platonico, poiché mostra ulteriormente come il nostro ateniese volle insistere sulla debolezza della conoscenza mondana in relazione alla conoscenza piena ultraterrena. Molti, e molto affascinanti, sono gli altri elementi che si possono trovare nei dialoghi d’amore platonici. Lasciamo al lettore la magica esperienza della loro scoperta. Per quanto ci riguarda, qui ci è stato possibile trattare solo ciò che è risultato utile al discorso che intendiamo portare avanti. Teorie della conoscenza nella Repubblica. La metafora della linea. Nella “Repubblica”, nota soprattutto per le considerazioni politiche in essa contenute, sono presenti pregevoli passaggi, che mettono più da vicino in luce le facoltà conoscitive umane e gli oggetti cui si riferiscono. Questo è il caso della cosiddetta “metafora della linea”. Allo scopo di spiegare la differenza tra sensibile ed intelligibile, il personaggio di Socrate immagina di Difesa della Tradizione 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 disegnare un segmento e di dividerlo in due parti: una relativa al sensibile, l’altra all’intelligibile, e successivamente di dividere ciascuna delle due parti in altre due. Pagina 41 stesse. Se nell’intera opera platonica, il più elevato metodo di conoscenza è la dialettica, il ricorso ai logoi, non si capisce come la noesis dovrebbe esser considerata come conoscenza intuitiva. Dunque, come Trabattoni evince dal testo: Dianoia è una conoscenza che fa uso di immagini, ad esempio enti geometrici. Non è una conoscenza discorsiva (perché un geometra dovrebbe far ricorso alla dialettica? Per fare cosa?). La Noesis è invece introdotta da Socrate per indicare un “pensiero che risale verso un principio non ipotetico e che non fa uso di immagini” (Trabattoni, “La filosofia antica”). La Noiesis è un pensiero dialettico che ci indica come l’intelletto debba accostarsi alle idee: “…non deve assumerle come ipotesi (deve mostrare piuttosto che esistono necessariamente) e deve servirsi solo del logos, senza fare uso di immagini, né sensibili né mentali.” (F.Trabattoni, “La filosofia antica”) Nella parte inferiore, propria al mondo sensibile, al quale corrisponde il livello conoscitivo umano dell’opinione (doxa), si collocano la facoltà inferiore dell’immaginazione (Eikasia) cui corrispondono le immagini degli oggetti sensibili, i quali a loro volta sono oggetto di credenza (Pistis). La parte superiore della linea, quella propria alla conoscenza (Episteme), che coglie il mondo soprasensibile, è suddivisa da Socrate in due facoltà intellettuali: Dianoia e Noesis (entrambi i termini significano “pensiero”). Franco Trabattoni ha già da tempo smentito l’opinione più diffusa, che vedrebbe la Dianoia come un pensiero discorsivo avente per oggetto enti matematico – geometrici, e la Noesis come un pensiero intuitivo che avrebbe per oggetto le idee vere e proprie. Trabattoni argomenta le sue opinioni approfonditamente seguendo il testo della Repubblica. Sarebbe cosa troppo “tecnica” riportare qui le sue opinioni, che il lettore potrà approfondire autonomamente. A noi basti ricordare che l’uomo, nella sua esistenza terrena, non può avere conoscenza piena delle idee; dato ciò, non è possibile che la più alta facoltà intellettiva umana sia considerata la conoscenza intuitiva delle idee Eppure, per Platone, lo vogliamo ripetere, la dialettica non ci porta ad una piena conoscenza delle idee. Se è vero che per Platone il pensare è innanzitutto un dialogare, con sé stessi e con gli altri, è anche vero che mai l’ateniese trasformò la dialettica in una scienza. “Essa lavora, in altre parole, mediante la cura dell’anima e l’esame delle opinioni. Per venire in qualche modo in contatto con la verità l’uomo non può rivolgersi direttamente al mondo fuori di sé, per descriverlo e comprenderlo. Deve piuttosto ripiegare dentro di sé e rintracciare nella propria anima le impronte di una realtà trascendente che solo in quel luogo, sia pure in modo faticoso ed approssimativo, può manifestarsi” (F.Trabattoni, “La filosofia antica”). Le dottrine non scritte. Giovanni Reale ha avuto l’immenso merito d’aver sottolineato ciò che molti, troppo spesso, tendono ad ignorare: le opere di Platone che ci sono pervenute sono solo parte del suo insegnamento. Vi furono insegnamenti orali, esoterici, riservati ai soli membri dell’Accademia fondata dall’ateniese. Ma non ci si deve fermare qui. Nel “Fedro” e nella Matteo Mazzoni / Platone - seconda parte 41 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 Pagina 42 “PLATONE” Parte Seconda di Matteo Mazzoni (Chrysokarenos) “VII Lettera” Platone confessa apertamente di non aver mai voluto mettere per iscritto gli elementi più alti del suo pensiero, sia, diciamo così, per non gettar le perle ai porci, sia perché esistono concetti che un testo scritto non potrebbe mai spiegare. Che significa? Significa che il dialogo platonico è una forma di diffusione filosofica che il nostro ateniese ha ritenuto utile per una diffusione “esterna” e parziale, ma che quindi non è il miglior metodo di insegnamento filosofico! Questo molti lo hanno ignorato. Platone utilizza il dialogo come mezzo di diffusione ed incisione esterna, ma contemporaneamente anche come mezzo “propagandistico” in senso ampio per avvicinare a sé o alla sua Accademia coloro che sarebbero rimasti colpiti dal suo messaggio. Solo nell’Accademia gli insegnamenti Platonici più elevati avrebbero potuto esser studiati, ma solo dopo un lungo periodo di tirocinio e disciplina, atto a selezionare coloro che sarebbero stati degni di sapere. Certamente nei dialoghi platonici il pensiero più “interno” traspare, ma in modo molto velato, e sono ancora troppo pochi gli studiosi che hanno voluto tenere conto di ciò: “…possiamo comprendere i dialoghi platonici nella loro totalità solo se ci rendiamo conto che essi rimandano nei particolari ed in generale a una giustificazione di vasta portata che non è esplicita nell’opera scritta, ma che è presupposta in ogni sua parte.” (Kaiser, “Platone come scrittore filosofico. Saggi sull’ermeneutica dei dialoghi platonici”) Ovviamente, non sapremo mai quali furono tali insegnamenti esoterici. Certamente sarebbe ridicolo formulare ipotesi complesse, nonostante il fatto che Reale indichi l’esistenza di testimonianze – chiave, presso opere di allievi dell’Accademia, che potrebbero tornare utili nel tentativo di chiarire il mistero. Eppure noi, nella nostra azzardata operazione di voler comprendere le ragioni che mossero il pensiero di Platone, ossia, in senso ampio e un poco moderno, la sua psicologia, vorremmo quanto meno provare ad immaginare un qualche cosa di più. 42 Platone cavalca la tigre. Nella prima parte del presente articolo introducemmo alcuni cenni sulla situazione storico – politica dell’Atene in cui visse Platone. Lo abbiamo fatto non per un semplice gusto storiografico, ma per far comprendere quale fosse la contingenza storica che il pensiero platonico dovette affrontare. Abbiamo evidenziato come gli antichi valori indoeuropei – “omerici”, nel caso della Grecia classica – in quel tempo avevano iniziato a perdere vitalità, a svuotarsi del loro senso più alto trasformandosi in un qualcosa di puramente normativo e formalistico. Di contro a coloro che, con atteggiamento moralistico ed ipocrita, tentarono di assumere un atteggiamento conservatore, sorsero nuove figure intellettuali, decadenti e relativiste, sostanzialmente ostili alla cultura tradizionale (con la “t” minuscola) del tempo, sino ad arrivare, ad esempio, all’estremo rappresentato da taluni sofisti che, incuranti non solo della verità, ma anche soltanto dell’opinione comune (al contrario di quanto fece, va detto, una prima generazione di sofisti), si concentrarono tecnicamente e tatticamente alla sola vittoria nei discorsi, a puro scopo arrivistico o “professionale”. A tale degenerazione della classe acculturata ateniese (ossia la classe dirigenziale, a conti fatti), corrispose quel disordine politico che sconvolse il giovane Platone, tanto da convincerlo della necessità d’una rifondazione etica dell’Atene del tempo, nonché di una nuova integrazione tra etica e politica. Insomma Atene, detto con Spengler, stava attraversando una fase di zivilization. Gli antichi valori non costituivano più un qualcosa di unificante perché condiviso, e di vitale perché spontaneamente seguito. Platone incentrò la sua ricerca sulla necessità di dimostrare l’esistenza vera di principi etico – estetici stabili, ma anche socialmente unificanti, condizione di possibilità perché la società ateniese potesse tentare una inversione del proprio decadere e disgregare. Così Platone giunse alla sua dottrina delle idee. Il fatto che Platone dovette tentare di affermare l’esistenza di principi etici mediante dimostrazione dialettica è riprova del fatto che tali principi non erano ormai più “sentiti” e vissuti. Non erano più parte di Difesa della Tradizione 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 ciò che è l’evidenza, dunque andavano dimostrati. Platone non avrebbe potuto sperare di incidere sulla realtà del suo tempo semplicemente affermando : “esistono dei principi etici, dunque vanno seguiti”. Non serve a nulla proporre apertamente a qualcuno concetti che quel qualcuno non sente come vitali in sé stesso. Per questo, comprendendo lo spirito del suo tempo, Platone optò per la dimostrazione dialogica, tanto più che oramai da tempo la sofistica, nella sua metodologia, aveva inciso sul modo di pensare ateniese, al punto che non v’era più alcun filosofo che non incentrasse il suo metodo su di una razionalità di tipo discorsivo, a prescindere poi dal metodo letterario di esposizione del proprio pensiero. Con ciò il nostro ateniese operò in maniera realmente rivoluzionaria: tentare di compiere una rifondazione etica d’un popolo utilizzando, in modo consono, quei mezzi (i logoi ed il metodo sofista dei discorsi) che presso quel popolo avevano preso piede, e che rappresentavano però, con la loro razionalità ipercritica e distruttiva, la causa stessa della scomparsa di un’etica condivisa. Non è questo un cavalcare la tigre? Uno sfruttare per scopi ordinatori le stesse forze del disordine? Il fatto che Platone propose Socrate come principale personaggio dei suoi dialoghi è significativo. Come abbiamo visto nella prima parte dell’articolo, il metodo socratico è, a tutti gli effetti, un metodo di tipo sofistico, con la sostanziale differenza però che Socrate, al contrario dei sofisti, aveva come obbiettivo del discorrere l’accordo delle opinioni circa la verità. Una verità però che, nei dialoghi platonici, non si configura più soltanto come concordanza tra i dialoganti, bensì, attraverso l’arte maieutica, come un riportare alla luce il “ricordo” di ciò che le anime hanno visto prima della nascita. Si tratta del condurre al manifestarsi nel mondo umano di un qualcosa di celeste. L’interpretazione dataci dal Trabattoni circa lo scetticismo di Platone riguardo alla possibilità terrena di conoscere pienamente le idee, qui ci viene incontro in maniera entusiasmante. Se il ricordo delle idee può essere riportato ad emergere in questa esistenza, significa che, in maniera seppure imperfetta, le idee possono essere ancora vissute, Pagina 43 nonostante tutto. Soltanto non possono essere conosciute razionalmente. I logoi risvegliano in noi il ricordo delle idee, ma non ci danno la possibilità di definirle con certezza o di conoscerle attraverso l’intelletto. L’intelletto, che come sua funzione più alta ha il logos (vedi metafora della linea), riporta a manifestazione quel qualcosa che in noi portiamo dalla nascita, un qualcosa che ha dell’innato. Tentiamo un parallelismo? La metafora della seconda navigazione ci mostra come, dato che non conosciamo pienamente le idee, che possono essere vedute solo nell’al di là, siamo costretti ad ammainare le vele ed iniziare la seconda navigazione, che consiste nell’uso del logos, dell’opinare rettamente. Tale metodo ci conduce a risvegliare in noi il ricordo delle idee. Ma si tratta di un metodo, di un mezzo, non del risultato! Platone, riguardo alla teoria della conoscenza ed alla conoscenza stessa delle idee, non giunge mai, nelle opere scritte, a definizioni certe e dogmatiche: vengono dati certo degli indirizzi riguardo alla soluzione conoscitiva dell’argomento trattato, ma tutto rimane comunque magnificamente aperto e plausibile di sviluppi e correzioni ulteriori. Questo non soltanto nei dialoghi aporetici. La nostra sensazione è che Platone, attraverso la maieutica, abbia voluto agire, per usare un parallelismo certamente improprio quanto esemplificativo, come colui che, basandosi sulle teorie di C.G. Jung, volesse risvegliare un archetipo dormiente per tornare a farlo agire. Certamente si tratta di dottrine ben differenti. L’esempio mi pare però efficace. Si potrebbe dire che mentre nella dottrina di Jung possono essere utilizzati simboli, per risvegliare archetipi, Platone, come si evince dalla metafora della linea, utilizza il logos e la maieutica per far ricordare le idee (tralasceremo volutamente considerazioni riguardanti l’utilizzo di metodi diversi dal logos, perché non siamo del tutto convinti di dire cosa sensata, anche se ci pare esistano). In breve, se le idee possono esser riportate alla luce nell’uomo, seppur “filtrate” dall’esperienza terrena, se vengono insomma “ricordate”, ci si deve introdurre ad esaminare un livello superiore, ove esse si manifestano nell’individuo - e dall’individuo - in maniera istintuale, secondo quella modalità che in un nostro precedente articolo abbiamo definito “spontaneità creativa”. Matteo Mazzoni / Platone - seconda parte 43 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 Pagina 44 “PLATONE” Parte Seconda di Matteo Mazzoni (Chrysokarenos) Ci si deve porre questa domanda: se le idee vengono ricordate, in Platone, ciò si limita alla configurazione nella quale da parte del ricordante vi è una semplice presa di coscienza del ricordo di esse (o semplicemente della seppur parziale conoscenza di esse data dall’accordo di opinioni), oppure può darsi una situazione nella quale, tali principi celesti, quando “ricordati” (ma non conosciuti pienamente nella loro verità), possono iniziare ad agire nell’uomo come un istinto liberato, come una priorità prorompente? Noi crediamo in questa seconda ipotesi. Anzi, “sentiamo” questa seconda ipotesi, che qualunque buon professore potrebbe facilmente abbattere. Non ce ne importa. Giustizia, bellezza, bontà. Le idee. Non crediamo noi, che Platone, se ebbe veramente di mira il risollevarsi dell’uomo, di una civiltà, avrebbe potuto contentarsi di dimostrare che, preso atto della propria ignoranza, sarebbe stato possibile render sé stessi consci dell’esistenza delle idee. L’uomo è un essere troppo debole. O meglio, troppo poco amante della propria forza. Platone lo sapeva benissimo. Rendersi consci della realtà dell’esistenza di un’unica giustizia non significa divenire giusti. Crediamo piuttosto, forse influenzati dalla nostra esperienza, che Platone concepisse le idee sì come principi etici, ma anche come marchi spirituali, come fuochi che, dividendosi in tante scintille restano in noi anche dopo la nascita e prima della morte. Le idee come principi agenti. Le idee come energie che, una volta liberate nell’individuo, non possono far altro che condizionarlo. Se “ricordiamo” parte di una verità celeste conosciuta in un vissuto ultramondano, tale “ricordo” non può che condizionare tutto il nostro essere, renderci dei “risvegliati”. Ridurre tutta la dialettica platonica ad un puro accordo d’opinioni circa il più verosimile è, se forse non proprio errato, quantomeno brutto. Ad uomini in cui la zivilization della propria comunità ha spento quelle energie – d’origine metafisica – che definiscono una civiltà come kultur ed incatenato quei superiori istinti creativi che rendono degna la vita terrestre, Platone ha tentato di dare la possibilità di ridestarsi. Lo ha fatto sfruttando quelle stesse forze che erano state la causa della degenerazione. 44 Per questo, crediamo, ha scritto i suoi dialoghi: in un vero e proprio atto di propaganda e di diffusione parziale del suo pensiero, tentando di raggiungere il maggior numero di uomini, nello spazio e nel tempo, ed attendendo coloro che, “uomini di rango”, avrebbero avvertito in loro quell’istinto proprio a chi sente le idee agire in sé, irresistibilmente. Soltanto costoro, nell’Accademia (la quale, ricordiamolo, fu tempio alle muse, e non una semplice e comune scuola, come troppi vorrebbero credere), durante una vita comunitaria dura e disciplinata, avrebbero appreso i più profondi insegnamenti del maestro, che in gran parte per noi, resteranno un mistero, nonostante la ricerca sugli scritti dei suoi discepoli, e nonostante le nostre azzardate sensazioni sulle motivazioni psicologiche del suo pensiero. Difesa della Tradizione 06_Difesa_Platone_38-45_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:06 Pagina 45 Matteo Mazzoni / Platone - seconda parte 45 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 46 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 47 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 48 ISLANDA di Lodovico Ellena "L'Islanda non è la meta, l'Islanda è il viaggio". (slogan di una nota ditta di auto a nolo) "Tutto in Islanda fa paura". (Luciano Corona) "Dopo un viaggio in Islanda nulla sarà più come prima". Prima del viaggio. L'ultima Thule, il sole a mezzanotte, il paese che fuma, il freddo che punge, l'acqua che ribolle, mari di lava, vulcani, iceberg, cavalli, pecore, foche, oceano, balene, cascate: questo e molto altro ancora è l'Islanda. Meta di infiniti itinerari possibili questo paese sta diventando sempre più luogo di interesse da parte di viaggiatori intenzionati a ripercorrere un intenso viaggio nel tempo e nello spazio più che compiere una semplice vacanza, il cui unico scopo sembra invece oggi essere un dovere obbligatorio delle masse, ossia divertimento a tutti i costi. In breve l'Islanda è ben altro che spiagge affollate, discoteche, tintarelle, sballi, localini e "pupe da lumare", è piuttosto l'esatto contrario di tutto ciò. Si giunge a Keflavík - di fatto unico aeroporto internazionale islandese ad una quarantina di chilometri da Reykjavík - e il primo impatto rivela immediatamente alcuni imprevisti: nonostante la temperatura decisamente fresca si notano infatti alcune grosse mosche ronzare mentre la luce del sole è decisamente intensa ed è altresì evidente che l'estetica del paese è decisamente carente e piuttosto insignificante, fatto che rimarrà una costante per quasi tutti i centri abitati islandesi. In effetti molti avvertono di non aspettarsi né cattedrali né grandi opere sui percorsi dell'isola e forse meglio di tutti lo studioso Régis Boyer nel suo libro sui vichinghi (1) ha spiegato che ciò lo si imputa al fatto che il rigore del clima e la popolazione limitata, nonché l'utilizzo per millenni di legno e torba, hanno necessariamente impedito la conservazione di testimonianze urbane, artistiche o religiose antiche. Basti dire che al presente l'intera popolazione islandese consta di meno di trecentomila abitanti e quando si pensa che la sola Torino ne conta invece circa un milione, il discorso si fa immediatamente più chiaro. Interessante comunque, sempre prima di intraprendere un qualsiasi percorso, 48 Thule Soci definire il tipo etnico dell'islandese; Vichingo senz'altro - il cosiddetto "fenomeno vichingo" si data tra l'800 ed il 1050 - si distingue però da altri tipi simili. Tanto i vichinghi danesi erano infatti noti per la loro innata abilità nel commercio così quelli norvegesi erano invece più portati per scelte avventurose, mentre infine i vichinghi svedesi considerati tra i popoli scandinavi come quelli più pacifici. Altrettanto differenti gli orientamenti religiosi: i danesi preferivano Odino, mentre i norvegesi Thor, mentre ancora gli svedesi adoravano Freyr. E un mito da sfatare, ossia quello dell'elmo con le corna divenuto simbolo vichingo tanto nella cinematografia quanto in certa letteratura: nessun archeologo ne ha mai trovato uno, sottolinea ancora Boyer in un passaggio dal sapore revisionista. Peraltro non sono poche le sorprese addentrando la materia vichinga: tutti gli dei furono anch'essi sostituiti dal Cristo, dalla Vergine e da mille altri santi esattamente come accadde un po’ ovunque, ma assai più interessante è invece stabilire il confine di ciò che è possibile definire vichingo. E' qui decisamente arduo stabilire con assoluta precisione filologica ciò che può dirsi celtico o germanico o scandinavo o vichingo, tanto per i costumi quanto per la religione tanto per gli abiti fino alla mentalità quotidiana, questo campo rimane tuttora aperto al dibattito tra specialisti della materia. Per ciò che concerne le rune và infine aggiunto che questi simboli rimangono testimonianza fondamentale per lo studio dei vichinghi anche islandesi; quelle del cosiddetto alfabeto "futhark" composto da sedici caratteri, sono quelle proprie dei vichinghi dell'800: il cosiddetto periodo d'oro. Il dibattito sul presunto valore magico delle rune da sempre in corso viene assolutamente respinto da taluni studiosi ma fu Tacito nel 98 d.C. nella "Germania" il primo che in qualche modo ne diede documento. Scrisse infatti: "(I Germani) dopo aver tagliato un ramo da un albero che produce frutti, lo riducono in schegge e queste, distinte da alcuni segni, spargono assolutamente a caso sopra una candida veste" (2): sarebbe infatti stata tale pratica secondo alcuni il prototipo delle rune utilizzate per presagi e divinazioni, apparse poi però di fatto soltanto un paio di secoli più tardi in Germania. Un'ultima considerazione sulle saghe islandesi; per secoli ritenute documenti fedeli e per ciò utili alla ricostruzione della 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 49 vita e della società vichinga, tendono oggi ad essere e solo in questo senso - ridimensionate nella loro importanza: furono infatti scritte alcuni secoli dopo l'epoca vichinga, facendo per questa ragione riferimento a fatti idealizzati e non di quel presente in fieri, perciò rendendolo meno storico e quindi meno attinente a quella quotidiana realtà. Il viaggio. La principale strada islandese la statale numero 1 congiunge l'isola in un anello ideale consentendo in questo modo di percorrere il territorio - un nastro di duemila chilometri circa -, così toccando i quattro punti cardinali. Vari tratti di questo percorso non sono asfaltati e un'altra costante accompagnerà il viaggiatore per tutto l'itinerario: migliaia di pecore del tutto libere potrebbero in qualsiasi momento pararsi improvvise di fronte all'auto, per questa ed altre ragioni il limite di velocità in tutta l'Islanda è rigorosamente di 90 chilometri orari. Prima tappa del nostro viaggio la penisola di Snæfellsnes dove ci attende un pernottamento in una fattoria, o almeno ciò che dovrebbe esserlo già che questi luoghi immersi nel silenzio e nella natura più profonda sono in realtà strutture con decine di camere a disposizioni dei viaggiatori con tanto di possibilità di ristoro alimentare. Gli islandesi mostrano immediatamente il loro carattere: riservati ma gentili in caso di necessità nonché disponibili a raccontare ciò che le guide non raccontano: è così che veniamo a sapere di una colonia di foche visibile nel proprio habitat a pochi chilometri da noi. Ci avventuriamo sul posto nei pressi del faro di Garðar e qui tra sterpaglie, dislivelli, sabbia, alghe e sassi dopo un percorso di mezz'ora si giunge sulla cima di un'insenatura che sfocia nell'oceano tra evidenti segni di maree in movimento. Il cielo ed il sole combinano giochi di luce surreali ed il silenzio viene rotto soltanto dal respiro dell'acqua: così và per decine di minuti. Ad un tratto improvviso le foche; adagiate su alcuni massi si confondevano con il grigio delle pietre, mentre altre fanno capolino dall'acqua osservando quegli intrusi. Sembrano interrogarsi sul perché di questa indiscreta presenza e sembrano spiare ogni movimento: è una sensazione eccitante e vigile insieme, già che ci si accorge di essere invasori in un luogo in cui saremmo senz'altro in difficoltà per un'eventuale ritirata: cose simili si vanno anche a pensare di fronte ad un infinito oceano senza certezze civili se non la propria agilità per battersela alla bisogna. Sono solo pacifiche foche ma la prima lezione è già arrivata: quante incertezze recano le moderne certezze. All'indomani si riparte quindi alla volta di una nuova meta mentre il viaggio porta su di una vetta particolare, molto particolare: si tratta di Helgafell, ossia il monte un tempo venerato dai fedeli del dio Thor. Nonostante la modesta altezza (73 metri) da lì si gode una vista inebriante sul territorio circostante e non si può fare a meno di notare sulla cima dozzine di piccoli tumuli eretti da qualche visitatore: di questi tumuli, il cui fine sembra essere propiziatorio, è piena l'Islanda intera tanto che se ne notano infatti ovunque. Si tratta di piccoli mucchi di pietre, evidentemente presente segno di un sentire lontano e ancestrale. La zona che attornia questo monte è di rara bellezza, e numerosi vulcani inattivi contribuiscono a rendere il paesaggio ancora più imponente e selvaggio. Non distante il vulcano Grabròk che eruttò circa 3000 anni fa e che numerosi viaggiatori di passaggio vanno ad ammirare da vicino scalando il sentiero che conduce al centro del cratere: sensazioni inquietanti, come quella di percorrere i bordi del medesimo osservando l'interno e immaginando devastazione e lava. L'Islanda è un paese che fuma e quel posto è soltanto uno degli innumerevoli luoghi in cui si è scatenato l'inferno, quell'inferno che in dozzine di posti è possibile vedere fisicamente grazie ad eccezionali documentari filmati di eruzioni, alluvioni, terremoti, esplosioni e devastazioni. In qualche caso una speciale pedana rende ancora più realistico il tutto, simulando durante le proiezioni il movimento del terreno durante una di queste eruzioni. Ma più di tutto, forse il paesaggio nei pressi del lago Mývatn rende merito a queste inquietanti riflessioni; quella zona è infatti cosparsa di crateri e le acque sono nere di lava, tanto che il "lago del moscerino" (questa la traduzione letterale di "Mývatn", dovuta ad orde di piccoli moscerini innocui ma assai fastidiosi) viene indicato come perfetto esempio dell'attività geotermica islandese, soprattutto in considerazione del fatto che un'ennesima grande eruzione è ritenuta imminente. La zona alterna prati verdissimi e acque azzurre ad aree di desolato spettrale Lodovico Ellena / Islanda 49 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 50 ISLANDA di Lodovico Ellena ma altrettanto suggestivo nero lavico: è una visione irreale, soprattutto verso sera quando la luce del sole degrada lievemente di intensità pur restando comunque viva e luminosa. I dintorni di questo lago sono popolati da innumerevoli specie di uccelli e una chiesetta risparmiata da un'eruzione che sommerse tutto il circondario nei pressi di Reykjahlídh che però miracolosamente si salvò, è meta di curiosi. Peraltro non è l'unico episodio legato a luoghi sacri, tanto che questi fatti lasciano realmente senza parole. Qualche decina di chilometri da quei pressi si trovano altri luoghi suggestivi ed altrettanto impressionanti: Námafjall, Krafla e Dimmuborgir: nomi per noi piuttosto improbabili ma ne esistono di peggiori. Se l'Islanda è un paese che fuma, Námafjall ne è concreta dimostrazione; si tratta di una vasta area il cui terreno è bruciato dal calore sotterraneo visibile in alcune pozze ribollenti dai cui fori fuoriesce un intenso fumo. La temperatura è elevatissima e l'odore di zolfo sovente presente nelle abitazioni che sfruttano l'energia geotermica portando così acqua calda in casa - onnipresente; il paesaggio è lunare, tanto che a perdita d'occhio è possibile scrutare un panorama giallo ocra, mentre tutto intorno scene da inferno dantesco restituiscono alla vista un ambiente assolutamente surreale. E a pochissimi chilometri da quel luogo il vulcano Krafla maestoso e fumante, caldo e inquietante dall'alto dei suoi 818 metri. L'ultima eruzione avvenne nel 1984 e - come scrivono alcuni autori - in certi punti la lava è calda e fumante rendendo così ben viva l'impressione di un'imminente ennesima eruzione: un'esperienza intensa, soprattutto perché le enormi crepe sul terreno lavico indicano ai geologi una possibile ripresa dell'attività nel prossimo futuro. Da quella cima si gode una vista indescrivibile; tra i possibili percorsi nella lava si giunge al cratere e da lì è possibile vedere in lontananza un vero e proprio mare nero. Una colata lavica dalle dimensioni impressionanti di cui non è dato vedere la fine, come fosse un immenso fiume nero che stempera all'orizzonte; da chiedersi come può essere una simile visione nel momento dell'eruzione, guai però sedersi a meditare queste elucubrazioni: il terreno scotta. Ancora una volta non distante - l'intera Islanda è costellata da simili luoghi tanto che ci si trova 50 Thule Soci obbligatoriamente a doverne escludere alcuni - il sito di Dimmuborgir, ossia "gli oscuri castelli". Si tratta di un percorso della durata di circa un'ora tra sentieri e forme laviche altissime che tempo ed erosione eolica hanno modellato, così creando una vasta area nella quale si ha l'impressione di aggirarsi tra castelli maledetti, ruderi e carcasse di mostri e draghi. Uno dei punti più visitati del luogo nonché famosi è quello di Kirkjan, ossia della "chiesa", laddove la natura ha forgiato una cattedrale gotica dal soffitto a volta e laddove in estate si tengono addirittura concerti: una visione assolutamente sconcertante. Il luogo, forse data la conformazione del terreno riparato da queste notevoli pareti di lava, è particolarmente caldo specie in condizioni di bel tempo: fatto raro ma gradito a noi latini abituati a temperature ben più miti. Islandesi e dintorni. Alcune osservazioni sugli islandesi; mentre noi circoliamo intabarrati a vari strati impermeabili, fa contrasto osservare invece gli indigeni in abiti estivi leggerissimi: peraltro ognuno è re a casa propria. Anche le loro abitudini alimentari potrebbero lasciare a volte sconcertati, ma l'occasione di assaggiare la "carne" di balena - quando mai ci si sarebbe ancora presentata un'occasione simile? - non ce la siamo fatta sfuggire, così come quella di gustare lo "squalo putrefatto" (golosità locale, ossia l'hákarl) e di bere la grappa locale: la Brennivin, 40 gradi ottenuti dalle patate e aromatizzati con cumino. Naturalmente non sono soltanto questi gli alimenti - ad esempio la pulcinella di mare (lundi) và fortissimo da quelle parti -, ma questo è stato il tangibile frutto della nostra esperienza. La balena; ha una consistenza notevole come si trattasse di carne di vitello ma il retrogusto è quello di un pesce: una strana sensazione peraltro ottimo piatto e non ce ne vogliano gli estremisti dell'animalismo ecologico, ma qui si tratta nient'altro che di voler conoscere questa tradizione millenaria islandese. Il Brennivin; ce ne siamo fatti un bel po’ nel corso del nostro viaggio ed è possibile affermare che ha superato senza ombra di dubbio il rigoroso esame a cui lo abbiamo sottoposto: promosso senz'altro, parola di alcolisti a tenuta stagna. Lo squalo putrefatto, roba che le stesse guide consigliano esclusivamente a "chi 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 51 ha lo stomaco robusto": qualcosa di non lontano dal gorgonzola a ben vedere, così stagionato dopo sei mesi di macerazione sotterranea a causa del gusto acido di quel pesce appena pescato. Sembra che nemmeno gli uccelli che si nutrono di carogne osino toccarlo, non potevamo perciò non cogliere una simile provocazione ma alla fine siamo sopravvissuti all'odore pungente di ammoniaca ed al gusto di carne dal sapore disorientante: servita in piccoli dadi infilati da uno stuzzicadenti nonché accompagnata da un bicchierino di Brennivin, considerato dalle malelingue come "antidoto" a quel sapore. Peraltro anche il pesce essiccato è cosa ordinaria da quelle parti; naturalmente decisamente più potabile per mediterranei in vena di esperienze, lo si trova in ogni dove: dagli aeroporti ai mercati, dagli scaffali da colazione negli alberghi ai banchetti dei bar. E non è niente male, basta soltanto superare l'imbarazzo dell'impatto; chi lo consuma come fosse trattarsi di croccanti patatine, chi invece con fette di pane imburrato. Artigianato; e qui il discorso si fa invece più breve soprattutto perché se si escludono capi d'abbigliamento in lana e gadget vari (assai curioso il simbolo del martello di Thor, il Mjöllnir, onnipresente soprattutto su portachiavi), rimane ben poco da dire. Due oggetti però vanno menzionati; portacandele ottenuti da pietre laviche levigate e bucate al centro nonché venduti a prezzi non del tutto economici e audite audite!- scatole ermetiche assolutamente vuote contenente "pura aria di montagna islandese": e ne devono ben vendere a giudicare da quante ne hanno in mostra sugli scaffali, oltre a tutto ad un prezzo non del tutto popolare. Stavamo per cascarci anche noi, non fosse che un improvviso lampo di saggezza contadina ci ha fatto riporre quella scatola vuota al proprio posto: beati gli islandesi e sia fatta lode ai gonzi, motori dell'economia. Strade e cascate. Le strade - o meglio la strada - d'Islanda vanno affrontate con cautela e giudizio, soprattutto perché ampi tratti sono del tutto privi di asfalto e a ciò si aggiunga il rischio - altissimo - di trovarsi improvvisamente una o più pecore stranite e immobili sul percorso. Nei 2600 chilometri da noi sviluppati ci siamo altresì trovati in varie occasioni ad imboccare un bivio tirando dritto per quella che ritenevamo essere la strada maestra (la già citata statale numero 1), per accorgerci chilometri oltre che quella che appariva secondaria in quanto più piccola e malridotta, era in realtà quella principale. I tratti non asfaltati sono polverosi e zeppi di buche con sassi e scossoni oltre alle inevitabili pecore lì ancora più imprevedibili, mentre ripide discese evolvono verso il nulla civile, tanto che se viene in quei casi alla mente l'idea di una possibile foratura o di un incidente, è meglio accantonare subito simili elucubrazioni: ciò accadesse sarebbero grane grosse. Vagando comunque per tali sentieri si giunge a stupende cascate: tre quelle da noi incontrate sul percorso e lo spettacolo della natura ha ampiamente ripagato quella fatica: Goðafoss, Skógafoss e Gullfoss. Goðafoss oltre ad essere straordinariamente affascinante ha una sua particolare storia. Secondo la leggenda sarebbe infatti il luogo in cui, assunto dagli islandesi nell'anno mille il cristianesimo come religione ufficiale, le statue delle antiche divinità nordiche furono lì gettate: da qui il nome "cascata degli dei". L'acqua scorre direttamente su di una colata lavica che nel corso dei secoli si è modellata e levigata e il salto è di circa una decina di metri ma la notevole ampiezza del fiume rende realmente suggestivo quell'imponente insieme. Skógafoss è invece alta ben 60 metri e anche qui una leggenda la riguarda: sarebbe infatti custode del ricco tesoro di un colono peraltro mai trovato da alcuno. Infine Gullfoss, 32 metri di acque che si tuffano all'interno di un canyon provocando arcobaleni che è possibile osservare sul ciglio stesso dell'orrido accessibile fino all'ultimo millimetro, senza protezioni di sorta. Anche qui una storia ma assai meno leggendaria e ben più cruda; si tratta della vicenda legata alla persona di Sigrídur Tómasdóttir, energica donna che sul finire del 1800 combatté con tutte le sue forze il progetto di alcuni imprenditori che avrebbero voluto sfruttare la forza della cascata compromettendone così definitivamente la bellezza. La donna, dopo una lunga questione, la spuntò per una serie di circostanze che le furono favorevoli: aveva comunque minacciato di gettarsi tra i flutti qualora le cascate fossero state violentate. Non a caso gli islandesi riconoscenti hanno dedicato a Sigrídur un piccolo Lodovico Ellena / Islanda 51 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 52 ISLANDA di Lodovico Ellena museo ed una lapide commemorativa: esemplare antesignana dell'ambientalismo più puro e disinteressato, altro che certa politicaglia nostrana. Ma il viaggio continua e di cascata in cascata nonché di vulcano in vulcano, si alternano altri paesaggi irreali come ad esempio quello offerto dal villaggio di Glaumbær, completamente costruito in torba e visitabile al fine di far meglio comprendere come fossero le abitazioni islandesi di un tempo. In quelle case si svolgeva la vita domestica nell'antichità e, soprattutto nei mesi invernali, in quei pochi metri quadrati si trascorrevano gomito a gomito intere stagioni. Tutto si svolgeva tra quelle pareti tanto che rigide regole comportamentali per sopportare quella coabitazione ravvicinata garantivano la quiete: immaginato al presente per noi individualisti europei continentali, un simile tipo di vita desterebbe qualche ragionevole perplessità. Non distante, a Vidhim Rarkirkja, ancora la torba protagonista: questa volta però si và a trattare di una chiesetta, sito tra i più antichi del paese, piccola ma assai graziosa e molto visitata anche per via del fatto che in tutta l'Islanda testimonianze architettoniche o artistiche del genere restano piuttosto rare. Iceberg e mostri. Ma una delle visioni senz'altro più impressionanti dell'intera Islanda resta quella relativa agli iceberg. Li abbiamo incontrati a Jökulsárlón, un posto fuori dal mondo giusto ai piedi dell'immenso ghiacciaio di Vatnajökull raggiunto al punto in cui scioglie in impetuoso fiume: una visione realmente immensa e insieme annichilente. Blocchi di ghiaccio galleggianti che lentamente degradano verso l'oceano in un punto dove nuovamente le foche la fanno da padrone e laddove l'orizzonte perso nel grigio cielo di una normale estate nordica, stordisce ed invita a ripensare la propria vita ed al suo relativo senso nonché a comprendere in un attimo come fu che gli islandesi videro gli dei. Così come nei fiordi, infiniti come tutto quel paese, che si incuneano in ogni dove disegnando contorni sui contorni lavici: un'opera d'arte in continuo mutamento, questo è l'Islanda. E tale scenario forse più che altrove lo si vive a Vík ("baia") il paese delle pulcinella di mare, singolare simpatico 52 Thule Soci uccello incoronato simbolo dell'isola dai contrasti cromatici e dall'aspetto unico; gli islandesi lo mangiano fin dai tempi vichinghi ma la specie è protetta e rispettata così come lo sono cavalli e pecore, evidente omaggio all'importanza che questi animali hanno avuto - ed hanno - per la stessa sopravvivenza umana in quegli estremi posti. A Vík comunque, oltre alle ripide e meravigliose scogliere sferzate dal vento oceanico, è possibile osservare un complesso lavico tuffato nell'oceano a qualche centinaia di metri dalla costa che non può fare a meno di ricordare l'inquietante quadro di Arnold Böcklin "L'isola dei morti", anche se dai cipressi e dalle irreali rocce dipinti dal pittore a quelle colonne laviche resta comunque una certa differenza. Vi è ad ogni modo una sorta di atmosfera simile, grigia e sospesa allo stesso tempo, inquietante e misteriosa insieme. E a proposito di luoghi inquietanti il viaggio ci conduce di lì a poco a Lagarfljót, ameno lago dai colori suggestivi e dall'infinita pace di quelle acque non fosse che qui proprio come in Scozia a Loch Ness - una tradizione locale vuole dimori un mostro, addirittura dipinto su alcuni quadretti appesi alle pareti del locale ristorante. Si tratterebbe di un enorme serpente acquatico, ma ciò che più fa specie è la conformazione del lago - lungo e stretto - quasi identica a quello scozzese: una somiglianza veramente sconcertante e straordinaria, anche se qui non se ne è fatto il commercio che invece domina ingombrante a Loch Ness dove invece si trovano dozzine di pupazzi di "Nessie", portachiavi, gadget, nonché un museo su quella vicenda mentre alcune agenzie organizzano tour sul lago con tanto di telecamere subacquee che scrutano i fondali del medesimo, fino all'acqua in bottiglia rigorosamente targata "Nessie". Come fare palate di soldi su di una suggestione, tanto meglio la quieta e discreta pace contemplative di Lagarfljót. E' a questo punto che ci mettiamo alla ricerca di un angolo - per quanto possibile - ancora più isolato ed estremo: stiamo infatti andando a caccia di un posto dal nome per noi improbabile, Grenjadarstadur, perché è ferma intenzione di cercare ciò che resta di una lapide con incisioni runiche: e la nostra ostinazione sarà premiata. Il posto è bellissimo tra i bellissimi, ospita un piccolo cimitero (nostra meta) ed un museo del locale folclore ricavato all'interno di alcune case 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 53 antiche costruite in legno e torba. Conterà si e no cinquanta anime, tanto che esiste un piccolo bar per i visitatori del museo. E' un luogo immerso in una pace infinita dove dozzine di mucche pascolano mentre alcuni bimbi corrono all'orizzonte: difficile dir loro di non sdraiarsi sulla nuda terra per contemplare la bellezza di quel cielo, difficile impedir loro di accarezzare quei pacifici ruminanti, difficile anche immaginare il paradiso tanto diverso da quel luogo. Un vento sferzante accompagna quel girovagare tra lapidi e azzurro e alla fine la ricerca è premiata: eccola, siamo di fronte a vere rune quelle per il cui semplice possesso intorno al 1200 la chiesa in Islanda puniva con la morte. Simboli magici, strumenti del demonio, paganesimo da estirpare: eppure, sia consentito dirlo, su di noi un fascino irresistibile: forse il tempo da cui giungono, forse la palpabile magia che trasmettono, forse qualcosa di profondo e ancestrale per cui il nostro essere vibra di fronte al mistero che le penetra. Per noi le rune significano molto al punto di compiere migliaia di chilometri per poterle vedere e toccare e ora sono qui, incise da qualche mano vissuta secoli fa. Le sfioriamo con timoroso rispetto, le fotografiamo e cerchiamo di impossessarci di quell'immagine mentre il vento sibila: rune vere, tra le più antiche esistenti al mondo: è a questo punto che una birra marca Thule diventa un dovere più che un piacere. Una nota: oltre alla "Thule" l'altra birra più bevuta è la "Viking" ma occorre fare attenzione: in bottiglia hanno gradazione e gusto intenso, alla spina per noi iscritti all'Ordine degli Alcolisti, divengono poco più che acqua. Ultimi passi e Reykjavík. Stiamo comunque ormai ripiegando verso la capitale, meta conclusiva di questo peregrinare. Rechiamo quindi a Thingvellir luogo prescelto dai vichinghi islandesi che lì tennero nel X° secolo il loro primo parlamento all'aperto, di fatto così assumendo la paternità della democrazia in Europa. Il posto è tra i più belli dell'intero paese; escludendo il panorama di specchi d'acqua frastagliati misti al verde impossibile di quella pianura, Thingvellir và famoso soprattutto perché dal punto di vista geografico si trova esattamente a cavallo tra nuovo e vecchio mondo, in quanto situato proprio nel bel mezzo di una spaccatura provocata dalla deriva dei continenti. Non a caso qui nel 1944 l'Islanda proclamò la propria indipendenza dal dominio norvegese e danese. Fu questo uno dei luoghi che ispirarono Wagner quando compose l'opera sui Nibelunghi, il che più di tante altre parole spiega molte cose. Ma il tempo volge al termine e resta sulla strada un luogo che ha dato a tutti i posti simili del mondo il proprio nome: Geyser. In realtà si scrive Geysir (chi ha inventato il correttore automatico andrebbe appeso per le vergogne) ed altrettanto in realtà sul posto si può osservare soltanto il fratello minore, ossia lo "Strokkur", che spara acqua bollente fino a 40 metri mentre Geysir raggiungeva i 60. Motivo di quella definitiva quiete quanto di più scemo si possa immaginare: la gente a forza di lanciare pietre al suo interno per ragioni analoghe ai fessi che lanciano monetine nei pozzi o negli specchi d'acqua, lo ha intasato rendendolo di fatto morto. Uno degli spettacoli più incredibili della terra svanito nel nulla a causa di un abisso d'incoscienza nel quale, per quanta luce si faccia, nessuno è ancora riuscito a vedere il fondo. E alla fine Reykjavík. Due giorni da dedicare a questa straordinaria città il cui termine "città" và sempre inteso in senso islandese già che le loro città nulla hanno a che spartire con le nostre, vuoi per gli ampi spazi tra le case, vuoi per il verde onnipresente. Bohemién, fresca, giovane e frizzante, lo spettacolo vero è la gente più che l'architettura o i musei. Ne abbiamo incontrati di tipi umani; dalla ragazza in tuta subacquea con tanto di maschera e pinne che girovagava per il mercatino delle pulci a quella vestita da superman ai giardini, dal gruppo rock che ci dava dentro secco in pieno centro sotto gli occhi attenti di dozzine di fan etilici fino ad un gruppo di bevitori in mutande colorate come cocorite, per giungere ad una bella coppia di vichinghi con elmo cornuto sul capo recanti seco un'intera cassetta di lattine di birra sottobraccio. Bevono questi vichinghi e - continua a sorprendere questa cosa per quanto noi si sia un popolo piuttosto ballerino - quando scoprono la nostra italianità accolgono la notizia con sincera gioia. Tra i popoli, sembrerà quanto meno curioso, la nostra esperienza ha rivelato che in giro per i quattro cantoni del mondo siamo tra quelli che generalmente si tollerano di più: naturalmente abbiamo anche noi i nostri buoni nemici qua e là ma ci guarderemo bene Lodovico Ellena / Islanda 53 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 54 ISLANDA di Lodovico Ellena dal dire che tra loro compaiono gli inglesi: non faremmo mai un'affermazione simile per albionico rispetto, va da sé. E' comunque tempo di valige; quattro ore di volo attendono e l'aereo parte di buon mattino tanto che la sveglia alle quattro è implacabile. Attraversiamo quindi per l'ultima volta quella verde città nell'irreale luce delle cinque mattutine per recarci all'aeroporto; siamo però ancora in tempo per rispondere alla reiterante domanda questa volta posta da un forzuto vichingo: "Vi piace l'Islanda?". "Certo che ci piace, dopo un viaggio in un paese come il tuo, tutto sarà diverso amico". L'uomo si illumina, sorride e ci dona un biscotto: anche questo è l'Islanda, il paese dove vivono gli dei. E noi li abbiamo visti e sia fatta lode a Odino e resa gloria a Thor che vegliarono su di noi concedendoci di percorrere quasi tremila chilometri in condizioni a tratti estreme, senza aver avuto il benché minimo problema. L'Islanda fuma, l'Islanda respira, l'Islanda non è una vacanza: l'Islanda è l'ultima Thule. (1) Régis Boyer, La vita quotidiana dei vichinghi (800 - 1050), ed. Fabbri, Milano, 1998. (2) Tacito, La Germania, ed. Fabbri, Milano, 2001, 54 Thule Soci 07_Soci_Islanda_46-55_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:07 Pagina 55 EMOZIONI: THULE ITALIA IN WESTFALIA 7-12 settembre 2007 08_Soci_Nemi_56-59_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:08 Pagina 56 LO SPECCHIO DI DIANA a cura della Sezione Femminile dell’Associazione Thule-Italia Dianae Dianae sumus in fide puellae et pueri integri: Dianam pueri integri puellaeque canamus. o Latonia, maximi magna progenies Iovis, quam mater prope Deliam deposivit olivam, montium domina ut fores silvarumque virentium saltuumque reconditorum amniumque sonantum: tu Lucina dolentibus Iuno dicta puerperis, tu potens Trivia et notho es dicta lumine Luna. tu cursu, dea, menstruo metiens iter annuum, rustica agricolae bonis tecta frugibus exples. sis quocumque tibi placet sancta nomine, Romulique, antique ut solita es, bona sospites ope gentem. 08_Soci_Nemi_56-59_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:08 Pagina 57 Non poteva che cominciare con le meravigliose parole di Catullo questo articolo dedicato a Diana, frutto di un’escursione sul lago di Nemi che ha visto come protagoniste le donne della Sezione Femminile dell’Associazione Thule Italia. umana, veniva invece raffigurata come una torcia o una fiamma, accompagnata dai cervi o cerva lei stessa. Il cervo è, nella tradizione indoeuropea, simbolo di rinnovo e regalità, per fare un esempio a noi vicino e sicuramente molto più famoso di altri, lo ritroviamo, in Europa, nelle saghe irlandesi (ricordiamo, fra le tante, la leggenda della Dea Cerva Sadb, signora dei Sidhe e legata a Finn mac Cumaill, l’eroe guerriero del ciclo del Leinster e capo delle Fianna, le bande di guerrieri a servizio del re d’Irlanda ma, soprattutto, incarnazione del Dio detto anche “lo Splendente”). Ancora una volta il Mito, che sia per diffusione o ancestrale, ci ricorda che un filo conduttore lega la storia non scritta di numerose popolazioni tramandandone l’origine senza bisogno di ricorrere all’archeologia, la storiografia e le scienze “moderne” in genere. “Panoramica del Lago di Nemi” L’analisi del mito di Diana rischia di farsi in ogni momento troppo lunga e non solo per una predilezione culturale e religiosa delle autrici. Sono stati in molti a scrivere della Potnia per eccellenza, l’incarnazione della regalità femminile, la Signora delle selve e delle fiere, cercheremo quindi, per non divagare troppo, di toccare i punti salienti del mito di Diana cominciando dall’iconografia classica che la vede con l’arco e il cane, evidentemente cacciatrice. Si tratta però di una rappresentazione in realtà molto tarda come tarda è l’associazione della Dea alla luna. Il nome “Diana” deriva dalla radice sanscrita Div dalla quale l’aggettivo dius, luminoso, splendente, ma non di luce lunare, questo è certo; Lucina, “la dea del luogo chiaro”, splende della luce che filtra attraverso le fronde degli alberi nei boschi che sono il suo tempio. L’appellativo di “Luminosa” e anche “Lucifera”, la sua raffigurazione vicino a fuochi o torce accese e il fatto che nella selva Ariccia, antica sede del culto di Diana Nemorense, venisse mantenuto un fuoco perennemente acceso, fanno pensare a un culto sovrapponibile a quello di Vesta ma molto più vecchio. Nelle rappresentazioni più antiche, come spesso accade per le divinità del Principio, la Dea non aveva forma “Statua che raffigura Diana Cacciatrice (Piazza principale di Nemi) Antonella Tucci / Pellegrinaggio a Nemi 57 08_Soci_Nemi_56-59_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:08 Pagina 58 LO SPECCHIO DI DIANA Possiamo in effetti affermare con assoluta convinzione che la vera essenza e funzione del Mito è insegnare e raccontare la storia dell’uomo dal principio ad oggi senza alcun bisogno di prove empiriche. Prima di addentrarci nel Mito della Potnia italica è bene però soffermarsi ancora un momento su uno degli attributi classici della Dea: la verginità, e sul senso che realmente è doveroso dargli. E’ curioso come i significati di molti vocaboli, storpiati nelle moderne accezioni, siano il faro e la prova lampante della decadenza in mezzo alla quale viviamo senza neanche accorgercene. Sull’aggettivo “vergine” già il vecchio vocabolario degli accademici della Crusca, datato 1612, riportava: “si dice, sì di femmina, sì di maschio, che non sien venuti ad atti carnali. Latin. virgo.”; lo stesso Garzanti mette come prima definizione: “si dice di donna che non ha mai avuto rapporti sessuali (rar. riferito anche a uomo)” e solo come quarta: “integro moralmente; intatto, puro: animo vergine”. Sull’etimologia dell’aggettivo “vergine” gli studiosi sono concordi su due possibilità: l’affinità della parola latina “virgo” con la radice “vir”, ossia la medesima di “vira” (uomo robusto e forte) o con “vireo” (verdeggiante); Vi è anche chi fa risalire la parola alla radice “varg” dal sanscrito “urg” (spingere, gonfiare, essere turgido, rigoglioso, pieno di succo, forza ed energia). In ognuno dei tre casi è evidente come l’antica accezione non si preoccupi tanto dell’integrità di una membrana quanto di una integrità spirituale della quale determinati atteggiamenti o, più precisamente, modi di essere, non sono che il riflesso. La vergine è l’incarnazione della Madre nel suo aspetto fertile, sempre giovane e simbolo di rinnovamento, la cui linfa vitale non si esaurisce mai; E’ la donna che incarna con dignità e devozione l’archetipo che rappresenta, colei che è libera da vincoli coniugali perché non si lega a un uomo indegno così come Diana non ha solo un compagno ma un paredro: “colui che le sta accanto come suo pari”, opposto e complementare. Ma veniamo adesso al mito che lega la Signora delle Selve allo Speculum Dianae, il Lago di Nemi e ai boschi che lo circondano. Si narra che il culto di Diana fu introdotto a Nemi da 58 Thule Soci a cura della Sezione Femminile dell’Associazione Thule-Italia Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra che, dopo l’uccisione della madre e di Egisto, venne incaricato da Apollo di trafugare un simulacro di Diana in Tauride (la Crimea) per sfuggire alla furia delle Erinni (equivalenti delle Furie, tormentavano chi si macchiava dei delitti più turpi portandolo alla follia). Qui, dopo varie vicissitudini e l’uccisione del Re despota Toante, Oreste si ricongiunse con la sorella Ifigenia, sacerdotessa della Dea, e con lei fuggì portando con sé la statua della sanguinaria Diana Taurica nascosta in una fascina di legno e arrivò, infine, sulle sponde del lago laziale di Nemi. Così come la Diana Taurica pretendeva la morte di ogni straniero che mettesse piede sulla sua terra, anche la “nostra” Diana era legata a un sacrificio di sangue benché di diversa natura. Sotto le pendici di quello che adesso è il paese di Nemi c’era un bosco ai tempi chiamato il bosco di Aricia e, al suo interno, un albero sacro alla Dea sotto il quale si aggirava, come dice Frazer nel suo indimenticabile “Il Ramo d’Oro”, una truce figura, la spada sguainata, senza mai abbassare la guardia, perché un solo attimo di distrazione avrebbe potuto costargli la vita; Era il Rex Nemorensis, il Re del Bosco, un titolo che solo chi lo avesse ucciso avrebbe potuto sottrargli per morire poi a sua volta, appena la vecchiaia lo avesse indebolito perché uno più giovane e forte potesse prendere il suo posto. Un titolo legato quindi al vigore dell’uomo (Vira), al rinnovo e alla ciclicità degli eventi naturali. Solo uno schiavo fuggitivo poteva però di diritto sfidare il Rex Nemorensis e unicamente dopo aver colto una delle fronde dell’albero sacro, probabilmente una quercia. E se il Rex Nemorensis non si allontanava da quell’albero non era certo solamente per il timore di un pretendente al trono, egli gli era devoto e legato come era devoto e legato alla Signora delle Selve, tanto da far credere a ragione che l’albero e la Dea fossero una cosa sola; Il famoso Ramo d’Oro, invece, la fronda che dava al pretendente al trono il diritto di sfidare a duello il Re, è facilmente riconducibile all’Aureus Ramus che Enea dovette raccogliere su ordine della Sibilla per scendere nel regno degli Inferi, da Proserpina. 08_Soci_Nemi_56-59_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:08 Pagina 59 Questo perché non vi è regalità né ascesa senza la discesa nelle tenebre nigredee, la morte intesa come rito iniziatico di passaggio e il tramite e il fine in questa Via è il medesimo, che si tratti dei Misteri di Eleusi o di Nemi: la Potnia. Diana ma con una differenza sostanziale: eravamo in molte stavolta a provare lo stesso sentimento, unite in un sodalizio e sorelle in nome di un principio non del tutto comprensibile ma certamente buono e giusto come poche cose arrivano ad esserlo nella vita di una persona. Il paredro di Diana e primo, mitico Rex Nemorensis è stato Virbio, associato in seguito a Ippolito che, nella tradizione ellenica, per sfuggire a Teseo viene travolto da un cocchio trainato da cavalli e ucciso per essere poi riportato in vita da Asclepio, nascosto nei boschi di Aricia e camuffato, infine, dalla sua Signora, Diana, che gli dà l’aspetto di un vecchio. Sotto: Altare e offerte sull’altare L’associazione di Virbio a Ippolito è senz’altro tarda ma le motivazioni del divieto di introdurre cavalli nel Nemus sono da ricercarsi, a livello ben più profondo, nel significato che poteva assumere la figura del cavallo, simbolo maschile di forza ed eroismo, in relazione a quella della Signora delle Selve, indubbiamente Regina oltre che dispensatrice di regalità. V’è forse un ultimo collegamento da fare fra la figura di Virbio/Ippolito e il martire cristiano Sant’Ippolito che “legato per i piedi al collo di indomiti cavalli, fu crudelmente trascinato per luoghi aspri e spinosi, e con il corpo tutto lacerato rese lo spirito.”(tratto dall’opera «Reliquie Insigni e “Corpi Santi” a Roma» di Giovanni Sicari) la cui ricorrenza cade guarda caso proprio il 13 Agosto, giorno in cui, secondo la tradizione romana, si festeggiava la purezza primigenia e, naturalmente, Diana. “Numen Inest” E aleggiava realmente un Nume in quel Tempio sprofondato in un silenzio innaturale, fuori posto come solo i resti di un sapere antico possono esserlo in questo mondo torturato. Ci siamo raccolte intorno all’altare colme di timore reverenziale, gli occhi lucidi di fronte alle offerte dei pellegrini e delle pellegrine. Ricordo una sensazione simile provata tanto tempo fa, sulla tomba di una Regina mitica del Connacht, sposa dei nove più grandi Re d’Irlanda e incarnazione stessa della Sovranità; Sì, la sensazione era la medesima in quei momenti di raccoglimento e silenzio nel Tempio di Antonella Tucci / Pellegrinaggio a Nemi 59 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 60 LE DANZE SACRE FEMMINILI Prima tappa di un percorso attraverso le Tradizioni Sapienziali Femminili Zeus sposa Era e genera Ebe, Ilizia e Ares, ma si unisce anche a molte donne, mortali e immortali… …da Mnemosine [gli nascono] le Muse, Calliope per prima, poi Clio, Melpomene, Euterpe, Erato, Tersicore… Ed era Tersicore, appunto, la musa della danza e della lirica, nata da Zeus e Mnemosine, dall’unione dell’Autorità con la Memoria, l’incarnazione di una delle Arti più soavi. Raffigurata come una giovane col capo cinto di fiori e uno strumento a corde fra le mani, nelle rappresentazioni classiche raramente la sua figura dà un’idea di staticità. Saltando letteralmente di palo in frasca (o forse non poi così tanto) mentre scrivo vedo, con gli occhi del pensiero, l’opera di un artista giapponese, Hokusai, il “vecchio pazzo per la pittura”: il monte Fuji, sulla destra, svetta verso il cielo, imponente e granitico e sembra che niente possa toccarlo, modificarne la posizione, offuscarne la potenza; a sinistra un’onda, 60 Thule Soci di Antonella Tucci (Argentea) colta al massimo dell’impennata, esattamente una frazione di secondo prima che i flutti spumosi si abbattano nuovamente e con violenza sulla massa d’acqua sottostante e al centro, infine, in balia delle forze antitetiche per eccellenza, l’Essere e il Divenire, sfida la sorte una piccola e fragile barca di pescatori. La mia attenzione, anche se con gli occhi della mente, viene catturata come sempre dalla gigantesca onda e non a caso perché è naturale per una donna riconoscersi in tutto ciò che diviene e fluisce. “Divenire” è una parola che spesso gli ignoranti hanno adoperato, riferendosi alle donne, come sinonimo di incoerenza e instabilità. Niente di più falso. L’acqua del mare resta sempre acqua, per quanto torbida o agitata possa essere, sensibile com’è ai venti e alle correnti e la terra resta sempre terra indipendentemente dalle nascite e dalle morti, dal susseguirsi delle stagioni e dei cicli vitali. La donna è naturalmente più vicina dell’uomo a questi cicli, ne sente interiormente il ritmo, la sua esistenza ne è scandita a livello più o meno consapevole, una vicinanza che in passato era parte integrante del 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 61 misticismo femminile e che veniva (e in certi casi viene ancora) spesso comunicata attraverso la più ovvia delle esternazioni in questo senso: la danza. Parlare di “danze sacre” in età moderna è alquanto difficile, le prove scritte diventano sempre più scarse tanto più si viaggia a ritroso nel tempo e alla fine, qualunque affermazione fatta in base allo studio delle tradizioni, dei miti e dei documenti non scritti, viene relegata nel limbo delle congetture. Poco male in realtà, visto che è in questo limbo che a noi piace muoverci, libere dalle catene della storiografia ma consce della memoria di ciò che è stato e che, ne siamo convinte, non muore mai: deve solo essere risvegliata. Irina Naceo nel suo “Delle antiche danze femminili” (edizioni della Terra di Mezzo) pone inizialmente l’attenzione sulla moderna danza classica paragonandola alla maggior parte delle danze tradizionali femminili sopravvissute nelle popolazioni che, ai giorni nostri, hanno mantenuto a tratti integre le usanze del passato. Nella danza classica, miracolo di postura ed eleganza, il bacino deve restare assolutamente immobile, lo studio della tecnica delle punte, se praticato precocemente, può provocare gravi danni, anche irreversibili, quali scoliosi, problemi alle ginocchia e alle anche ed infine, per raggiungere quella grazia artificiosa e artificiale nei movimenti, le ballerine pagano uno scotto non trascurabile: l’estrema magrezza e rigidità dei muscoli, nel complesso l’impressione è di trovarsi davanti una figura eterea e androgina, essenzialmente priva dei tratti distintivi femminili. Non a caso la danza classica è un’arte moderna, nel passato i movimenti tipici delle danze femminili erano sicuramente meno artificiosi perché, anche quando necessariamente costruiti, sottolineavano ed esaltavano la figura della donna celebrando il mistero della creazione e dei ritmi della natura. Le tracce in Europa delle antiche danze sacre femminili si trovano senza fatica: Snorri ci racconta di una pratica sciamanica riservata solo alle donne, il seidhr, magia femminile volta alla divinazione dove il raggiungimento della trance si otteneva grazie alla musica, abbiamo poi le descrizioni dei baccanali, delle danze a Demetra e Persefone nei Misteri Eleusini, si sa delle attività coreutiche delle fanciulle istruite da Saffo e non è un mistero la presenza femminile nelle danze dei Salii a Roma (Le Virgo Saliari); se diamo al Simbolo la validità storiografica che gli è dovuta non possiamo tralasciare inoltre le infinite pitture, statuette e graffiti raffiguranti donne nell’atto di danzare, la spirale neolitica stessa, così diffusa in Europa, è probabilmente la rappresentazione grafica della più antica danza primordiale di cui si ha notizia, e poi poesie e miti e fiabe. Un panorama immenso del quale ad oggi non è rimasto assolutamente niente. E qui il paragone, in uno dei soliti voli pindarici che, oramai l’avrete capito, sono parte di me, viene spontaneo: la Danza Sacra e la Via della Spada in occidente e il loro corrispettivo in oriente. Ad oggi, chiunque voglia in Europa intraprendere la Via della Spada sa di non potersi rivolgere ai sedicenti maestri d’occidente. La Scrimia, (così viene chiamata adoprando un termine relativamente giovane) l’arte marziale italica, è sopravvissuta, è vero, ma come privilegio di pochi, dove a fare la selezione non è l’Arte stessa ma l’appunto sedicente maestro, modus agendi di stampo squisitamente massonico sicuramente corretto in certi campi ma che poco ha a che vedere con la Via della Spada. Ecco perché, come l’uomo che intenda intraprendere realmente l’Arte che per diritto naturale dovrebbe poter imparare deve necessariamente volgere lo sguardo a oriente, così è costretta a fare la donna che intenda riscoprire la Danza nella sua accezione sacra tesa al ricongiungimento con l’Archetipo. Con questo, sia chiaro, non intendo “promuovere” o “preferire” le altrui tradizioni, al contrario il fine è di risvegliare nella nostra Terra e fra la nostra Gente quelle che sono tradizioni ancestrali e immutabili perché, come il Guerriero è senza tempo e senza luogo, così lo è la Danzatrice quale che sia l’iconografia e la collocazione geografica che l’essere umano le ha attribuito nel corso della sua storia e delle sue peregrinazioni. Del perché presso alcune popolazioni, spesso e non a caso definite “primitive” o “barbare” dall’occidentale moderno, molte Tradizioni Sapienziali siano sopravvissute non è il caso di discutere in questa sede poiché il discorso porterebbe lontano allontanandosi troppo dall’argomento in oggetto. Antonella Tucci / Le danze sacre femminili 61 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 62 LE DANZE SACRE FEMMINILI La Danza del Ventre Brevi cenni storici È pensiero comune che la danza volgarmente detta “del ventre” sia nata negli Harem dove le concubine la praticavano per ingannare il tempo in attesa che la scelta del Califfo cadesse su di loro. Solo due cose sono vere in questo luogo comune occidentale, entrambe identificabili fra le righe: la danza del ventre non era una danza nata “per gli uomini” ed effettivamente le concubine dei califfi venivano istruite nelle attività coreutiche, nelle arti e nelle scienze. Non ci dilungheremo troppo su un aspetto che riguarda strettamente la cultura islamica e in un periodo relativamente moderno perché a noi piace, per quanto possibile in quanto limitatamente legate a un corpo umano e inevitabilmente figlie della decadenza, viaggiare a ritroso verso l’origine e non fermarci alle degenerazioni della stessa. In realtà “Danza del Ventre” è il nome che i viaggiatori occidentali orientalisti del diciottesimo secolo diedero a questo ballo dalle movenze morbide e sensuali, principalmente concentrate nel bacino, percependone erroneamente un erotismo volto alla seduzione del maschio. Il diciottesimo secolo era però piena decadenza anche per il medioriente ed è vero che le ballerine, già da tempo, danzavano per “professione” alle feste e ai matrimoni al fine di mostrarsi e intrattenere e non certo in un contesto sacro o rituale. Putroppo l’assenza di documenti scritti antecedenti il 1700 rende difficile ricostruire la storia della danza del ventre, ma vi sono, ad esempio, statuette antropomorfe e decorazioni su ceramiche predinastiche (3800- 3500 a.C) egiziane che fanno pensare a danze a carattere magico-rituale; le origini sono però molto probabilmente ancora più antiche e si riallacciano ai culti mesopotamici di fertilità relativi alla dea Inanna o Ishtar nella versione akkadica. Ma i movimenti che compongono questa danza si slegano da qualunque appartenenza geografica, riproducendo, non solo con il ventre ma anche con la parte superiore del corpo, le braccia e le mani, i simboli archetipici che sono da sempre parte 62 Thule Soci di Antonella Tucci (Argentea) integrante del misticismo femminile, i medesimi che qualunque donna riprodurrebbe, seppure ignara della tecnica e della postura e scevra da qualunque insegnamento in merito e, ovviamente, in uno stato non dico d’estasi ma sicuramente consapevole, ballando istintivamente al ritmo di strumenti “primitivi”, percussioni o fiati. Simboli archetipici nei movimenti della Danza del Ventre La posizione di base prevede i piedi ben piantati per terra, le gambe leggermente flesse e le articolazioni il più possibile morbide e rilassate. A differenza della danza classica dove si cerca in ogni modo di vincere la forza di gravità, la Danza del Ventre permette alla donna di abbandonarsi al richiamo ctonio della Madre. L’Infinito Il primo movimento in cui ci si imbatte muovendo i primi passi in questa danza e che raramente risulta “nuovo” agli occhi di qualunque donna, è una oscillazione e torsione del bacino alternativamente a destra e a sinistra che, se ininterrotta, riproduce quello che viene chiamato “otto orizzontale”, due cerchi gemelli uniti su un lato: il simbolo dell’infinito, rappresentazione grafica di tutto ciò che, ciclico, eternamente ritorna. 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 63 Questo simbolo viene riprodotto molto spesso nella Danza del Ventre, orizzontalmente, verticalmente o lateralmente interessando sostanzialmente la zona addominale e il bacino dove risiede uno dei centri di forza più importanti, quello che gli indiani chiamano Svadhisthana, raffigurato come una falce di luna inscritta in un cerchio e circondato da sei petali nei toni dell’arancione e del rosso; Anche lo Shimmy, la rapida vibrazione del corpo prodotta dal rilassamento e l’irrigidimento alternato dei muscoli delle gambe, stimola questo Chakra, simbolo affine all’acqua intesa come brodo primordiale in cui si sviluppa la vita, risvegliando e distribuendo uniformemente le energie legate alla sessualità e alla forza vitale. Il Sole La lenta rotazione del busto effettuata mantenendo la schiena dritta, tramite il solo spostamento del peso del corpo prima a destra, poi indietro, ancora a sinistra e infine in avanti, viene chiamata “Il Sole” e riproduce in effetti un cerchio perfetto assimilabile, come tutto ciò che è curvo e flessibile nella Geometria Sacra, alla polarità femminile. Viene così naturale pensare a Ouroboros, il serpente che si morde la coda, che racchiude in sé non solo la simbologia del cerchio ma anche quella di uno degli animali sacri alla Madre. Quello della Donna e il Serpente fu infatti un connubio millenario, spezzato da chi volle trasformare il sangue che rigenera in una maledizione. Il Serpente Il movimento sinuoso del corpo e delle braccia che ricorda l’incedere del serpente si rifà al periodo in cui i cristiani non avevano ancora imposto a Maria di schiacciare il rettile col piede demonizzando in quel modo il principio femminile e decidendo che il Divino non poteva avere volto di donna. Il serpente è sempre stata una delle principali ierofanie zoomorfe della Dea e animale a Lei sacro ma fu trasformato in un demone tentatore quando era invece simbolo di cambiamento, rinascita e soprattutto di fecondità (basti pensare alla dea Tiamat, a Visnù addormentato fra le spire del serpente o alla leggenda dell’unione di Fauno con Bona Dea), profeta e custode di segreti e misteriosi tesori spesso ipogei (ricordiamo l’italianissima Dea Serpente, la Sibilla Appenninica e Medusa, custode degli Inferi). Nel suo “Il corpo delle Dea”, Selene Ballerini cita la psichiatra junghiana Esther Harding che segnala un’associazione fra il serpente e la prima mestruazione causata, secondo alcune antiche credenze, dal suo morso; Anche in questo caso il serpente vine inteso, quindi, come colui dal quale ha origine il sangue inteso come principio creativo e non come punizione per il più grande dei peccati. Antonella Tucci / Le danze sacre femminili 63 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 64 LE DANZE SACRE FEMMINILI Reali effetti benefici sul corpo della donna La cosa più complicata per una donna che muove i suoi primi ed è il caso di dire, timidi, approcci alla danza del ventre è sicuramente “liberare” il bacino e le anche, muoverli cioè sinuosamente e in modo naturale, indipendentemente dal resto del corpo. La motivazione risiede probabilmente nel fatto che la maggior parte delle donne si “mantiene in forma” in sala pesi o facendo spinning o just pump, attività che non prevedono certo l’utilizzo del bacino o la capacità di muovere diverse parti del corpo indipendentemente l’una dall’altra e che “legano” anzi le giunture, se non accompagnate da allungamenti e respirazioni profonde. Giusto chi ama i balli latino americani spesso si trova più avvantaggiata rispetto alle altre anche se i movimenti risultano sempre più volgari di quelli di una danzatrice orientale che pure muova il bacino nello stesso modo. Ad ogni modo, limiti fisici a parte, la mia idea è che siano stati secoli di de-femminilizzazione della donna a farci trovare innaturali dei movimenti che, non solo sono naturalissimi per il corpo femminile, ma lo rendono più forte dove è giusto che lo sia, in previsione per esempio della gravidanza, del parto o dei dolori mestruali. La posizione base della Danza del Ventre prevede il bacino chiuso senza per questo contrarre innaturalmente i glutei, questo porta ad un graduale allungamento e raddrizzamento della colonna vertebrale. Grazie a questa posizione è possibile riabituarsi alla respirazione profonda, quella “addominale”, cosa che soltanto chi pratica una disciplina, quale che sia la danza, lo Yoga o un’arte marziale, oramai è in grado di fare. Donne e uomini del ventunesimo secolo respirano freneticamente come frenetici sono i loro ritmi, la paura di arrivare in ritardo o la documentazione da consegnare al capoufficio, le bollette da pagare e le relazioni interpersonali condotte in modo sbagliato, tutti questi stimoli negativi, se presi come fossero la parte realmente importante della vita, portano alla respirazione ansiosa che, anche quando non sfocia in patologia (molti di voi si stupirebbero di scoprire di non saper respirare), è la causa principale di una serie di problemi fisici quali emicranie, mal di stomaco, difficoltà a ricordare le cose, fatica a svegliarsi la mattina, insonnia. 64 Thule Soci di Antonella Tucci (Argentea) La respirazione profonda aiuta inoltre a riscoprire il proprio ventre e l’atto di contrarre e decontrarre i muscoli senza sforzarli troppo ma per periodi prolungati, li rende tonici e al contempo elastici, senza l’irrigidimento innaturale che le sedute di ore in palestra provocano e, soprattutto, senza l’aberrante effetto “tartaruga” dell’addominale scolpito, primo sintomo della de-femminilizzazione di cui sopra. Inoltre la capacità di rilassare il ventre aiuta nei dolori mestruali e, di conseguenza, durante il parto dove la donna diviene parte attiva rendendo più sopportabili le contrazioni e più efficaci le spinte. Possiamo tranquillamente affermare che i corsi preparto, gratuiti o a pagamento che siano, le moderne ginnastiche “dolci”, gli “innovativi” metodi americani et similia, cerchino di insegnare quello che per secoli le fanciulle di tutto il mondo hanno imparato dalle madri e dalle sacerdotesse in modo sicuramente più divertente ed efficace: danzando il mistero della vita. Naturalmente anche le spalle risentono positivamente di una postura corretta e della respirazione profonda e soprattutto la schiena, sulla quale siamo solite scaricare inconsapevolmente le tensioni della giornata, si rilassa finalmente, allungandosi. Conclusioni E’ giunto il momento di tirare le somme di quanto scritto e non v’è niente di più complicato. Forse l’unica cosa, la sola che vale veramente la pena di sottolineare è che non si deve essere ballerine per danzare. Il mondo moderno ci ha insegnato che o si impara a ballare fin da bambine o ci si accontenta delle discoteche o dei balli di coppia. Tutto ciò è falso. Siamo danzatrici per natura, danziamo la vita e la gioia d’essere donne, danziamo perché rifiutiamo le catene imposte da coloro che decidono cosa è bello e cosa è giusto: gli stilisti, i media, le aberrazioni moderne che oramai conosciamo bene, danziamo perché amiamo abitare il nostro corpo finché la nostra anima dovrà restarvi legata in questo mondo e in questo tempo, perché l’unico canone di bellezza al quale rispondiamo è quello dell’archetipo femminile al quale tendiamo, danziamo perché danzando facciamo sì che la memoria di ciò che è stato non si perda. Mai. 09_Soci_Danze_60-65.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 65 Ringraziamenti Sono forse strani i ringraziamenti alla fine di un articolo tanto breve ma ho preferito ringraziare coloro che hanno scritto i testi che mi hanno aiutata nella stesura dello stesso piuttosto che stilare una sterile bibliografia. Ringrazio dunque Irina Naceo autrice di “Delle antiche danze femminili” (Edizioni della Terra di Mezzo); Maria Strova autrice de “Il Linguaggio segreto della Danza del Ventre, I Simboli, la Sessualità, la Maternità, le Radici dimenticate” (Macroedizioni) e Selene Ballerini, autrice de “Il corpo della Dea” (Edizioni Atanòr). Ringrazio inoltre la mia Maestra di danza perché la teoria non è niente se non si applica alla pratica con costanza e sacrificio. Ringrazio mia Madre e le mie Sorelle e Beatrice, i cui disegni parlano della gioia d’essere donne meglio di cento bei discorsi. Ringrazio inoltre gli Uomini che fanno parte della mia vita e grazie ai quali divenire quello che sono acquista un senso. E ringrazio anche Me Stessa per tutte le volte che avrei potuto mollare ma non l’ho fatto. Il tutto, ovviamente, non in ordine d’importanza. “Tutto nella danza del ventre è segretamente intenzionale, in essa si racchiude un linguaggio eterno” Maria Strova Antonella Tucci / Le danze sacre femminili 65 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 66 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 67 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 Pagina 68 UNO SCRITTORE BENINTENZIONATO Se il libro che andremo tra poco ad esaminare (“Con le peggiori intenzioni”, Mondadori 2005) non avesse vendute frotte di copie in giro per l’Italia, sarebbe ridicolo solo il prendere in esame la possibilità di occuparsene; se in ogni biblioteca pubblica romana (l’autore dell’articolo ha preso in esame la sola città di Roma ma non dispera che le cose stiano così anche altrove) non campeggiasse fiera almeno una copia di tale romanzo, giù a ridere all’idea di occuparsene; se ancora oggi, a due anni dalla pubblicazione, l’autore non venisse invitato a pispolare allegramente del suo remunerativo scritto a destra e a manca in televisione, ancora risate. Ma le cose stanno proprio così. E non c’è scappata neanche una risata. Ai suoi tempi, Federico Nietzsche, postumo in vita, asseriva che “chi conosce in profondità, si sforza d’essese chiaro; chi vorrebbe sembrare profondo alla moltitudine, si sforza d’essere oscuro”; oggi, il postero Alessandro Piperno, autore de “Con le peggiori intenzioni”, ha d’un colpo riguadagnato alla chiarezza e alla profondità la moltitudine: non si rammenta, infatti, una profluvie di unanimi giudizi su un singolo testo letterario – che non sia già stato sanzionato come immortale – pari a quella che ha investito l’opera prima del Piperno. Come ha fatto il romanziere romano, già professore a contratto all’università di Tor Vergata, a salvare capra e cavoli? È sobillati da tale rovello che si è deciso di sondare più a fondo. Come romanzo, Con le peggiori intenzioni, a onor del vero, non vale una cicca. È letteratura fiacca e maldestramente accozzata. E vi è una teoria di motivi oggettivi (che l’autore sembra aver disseminato dall’inizio alla fine per venirci incontro nell’operazione) a corroborare tale apparente assioma. Anzitutto formali, lessicali e stilistici. I due più evidenti: la verbosità e il turpiloquio. Piperno è uno di quegli incontinenti che sublima i guasti della propria debole vescica con inchiostro e carta bianca. Non c’è requie per il lettore che s’avventuri senza macete nella selva parolaia: serpentine sinonimiche prive di alcun significato a parte quello di stancare l’occhio, proliferazioni aggettivali che ammorbano, con l’accelerazione riproduttiva di cellule impazzite, il più dei sostantivi, come scialbe infiorescenze; un fottìo di 68 Recensioni di Valerio Raimondi iperboli e un uso smodato di maiuscole (quanto alle prime, per Piperno tutto è superlativo, tutto è “issimo”; per le seconde, l’autore si spassa a creare nuove categorie dello Spirito: l’Impoderabile, la Storia – quale? – il Padre, l’Oblio, per non omettere la coppia di contrari, d’ascendenza illustre, “salvati/sommersi” – evidentemente in maiuscolo – tanto per limitarsi alle primissime pagine); uno spreco di cultismi e un salasso di forme auliche, fastidiose e puntuali come una goccia cinese; un periodare non “a lunga gittata”, ché in tal caso avrebbe avuto la parvenza di una classica complessità, ma fitto di frasette veloci, voraci accumulazioni, esasperanti cumuli verbaioli. Insomma, in breve: un linguaggio barocco. Ma nulla condivide tale sperpero da grafomane compulsivo col nobile e alto uso che riusciva a farne un Gadda (tanto per dire del migliore), inappuntabile uomo d’ordine oltre che grande scrittore. Questi cristallizzava l’ipertrofia in stile, Piperno ne fa scarico di sciacquone; l’uno torceva lo stile col gesto drammatico d’una scultura michelangiolesca, l’altro lo stile lo inamida delle proprie polluzioni. Il turpiloquio, poi. Vi si rompe, il Piperno, con gaio sollazzo e rapace calcolo assieme. Quale traccia ha lasciato nella pagina pipernesca Celine, colui che magistralmente più di ogni altro seppe dosare nei suoi romanzi, con altissima capacità mimetica, il rude e aspro gergo soldatesco o l’argot parigino? Nulla. Il “pipernismo” (come è stata non senza brillantezza definita la “maniera” del nostro) sembra assediato dalla smania di un non meglio precisato modernismo letterario. Tutto tramato di volgarità becere ma laccate e come tirate a lucido dal cultismo che in genere segue, a controbilanciare facili concessioni alla gratuità volgare di matrice televisiva. (Ma, del resto, quello dello “specchio riflettente”, meccanismo principe innescato dal tubo catodico, è il grimaldello di molta produzione letteraria – e non solo – attuale, e il nostro dimostra di conoscerne i meccanismi e di saperli oliare con perizia) Un tale pastrocchio stilistico produce invero un malloppo duro a digerirsi se non da tripli stomaci, una prosa insulsa, macchinosa, un testo farraginoso che fa acqua dovunque. Solo noia (del lettore) e boria (dello scrittore). Ecco allora la domanda cruciale: perché la Mondadori, nel 2005, decise di fare, del romanzo in questione, il 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:09 prodotto editoriale dell’anno? Un libro che, come informano gli amanti dei numeri, vendette 90.000 copie solo nelle prime due settimane e 200.000 in appena due mesi, dalle numerevoli ristampe (anche in formato economico) e dalla meritata consacrazione (l’anno successivo) come allegato al Corriere delle sera? Il dato incontrovertibile è che il mercato editoriale nostrano è comandato con fermezza da un grappolo di case editrici. Fare di un libro il best-seller dell’anno è un problema solo all’inizio, lo scegliere l’uno o l’altro titolo. Poi entra in scena la macchina collaudata, quella della pubblicità già uno o due mesi prima che il titolo venga stampato, l’allerta dei maggiori critici dei quotidiani che si prendano la briga d’una lettura in anteprima per saggiarne il valore, il tonante megafono una volta stampato e distribuito in libreria dei mezzi di informazione sollecitati senza esclusione, i salotti televisivi e via discorrendo. E su Piperno ecco scatenarsi un ecumenico consenso (paradossale per uno scrittore di origini ebree – anche non conoscendole, lo proverebbe il nome e il profilo adunco). Ancora più paradossale perché su tutti i libri italioti che nell’ultimo decennio hanno monopolizzato il mercato, sono piovuti, con un manicheismo sospetto, tanti elogi quante, se non stroncature (quest’ultima è una tradizione che non ha mai attecchito nel Bel Paese), almeno remore all’incenso e critici dubbi. E invece, nel 2005, finalmente un romanzo “sontuoso, comico, tragico, miracolosamente e mirabilmente incerto tra sciagura e parodia” (Sette); “uno dei più brillanti esordi della nostra letteratura recente” (Corriere della sera), che “rinverdisce la gloriosa tradizione del romanzo borghese moderno” (Il Foglio); “magico è il talento di Piperno” (Diario), “Piperno, un ebraico re Mida che fa meraviglie” (Tuttolibri), “stilisticamente molto elegante; divertente e corrosivo” (Il Giornale), “la narrazione scorre inesorabilmente esilarante, senza peli sulla lingua” (Famiglia Cristiana) e, come non bastasse, il premio Viareggio e il premio Campiello in sequenza. Un coro di plauso e di allori le cui vesti di corifeo l’ha degnamente indossate Antonio d’Orrico (“un romanzo prodigioso, un libro che fa paura per la sua bellezza”), critico capo del Corriere. Il libro di Mellissa P, mi dico, ignobile mostro editoriale degli ultimi tempi, era almeno tarato sul latente Pagina 69 bigottismo borghese, pronto a vellicarne le bassissime prurigini, e in questo stava la sua giustificazione a posteriori. Ma con Piperno come la si mette? Dacché la eventuale – e folle – giustificazione di un libro commerciale, oggi, non la si può certo ricavare per deduzione, ma solo per induzione – come s’è detto sopra è la grossa casa editrice che sceglie prima quale sarà il libro che immancabilmente venderà trequattrocentomila copie, forse un milione, al di là del bene e del male. Piperno è il vuoto pneumatico agghindato a festa con spillette e lustrini, e ogni giustificazione formale, come quelle che hanno fatto a gara a tirar fuori dal cilindro i critici di cui sopra, è ora sordida mistificazione, ora appecoronamento all’incenso già bruciato e al subisso di copie già vendute. Ma c’è di più. Una seconda questione, cruciale in questo scritto: perché mai nessuno – dico nessuno – fra gli illustri critici (come fra gli improvvisati che a centinaia si sono accapigliati su blog e su siti internet dedicati), perché mai, dicevo, nessuno fra costoro ha neanche solo accennato, se non, e nel migliore dei casi, con brevissime e innocue sinossi, alla vera sostanza pulsante del romanzo piperniano? Vediamo allora di cosa parla, questo capolavoro. Quanto alla sinossi, per insulsaggine e vietume della medesima, basta riportare pedissequamente le poche righe vergate in seconda di copertina: “L’epopea dei Sonnino, ricca famiglia di ebrei romani, dai tempi eroici dello sfrenato nonno Bepy e del suo socio Nanni Cittadini – la cui irriducibile competizione peserà in modo fatale sui rispettivi eredi – ai giorni assai meno grandiosi dello sgangherato nipote Daniel. Le avventure, gli amori, le ossessioni e i tradimenti degli eroi vitalisti degli anni Sessanta e dei loro rampolli dorati e imbelli, dei giovani e dei vecchi, delle famiglie antiche e dei parvenu, dei fortunati e dei falliti, si succedono di festa in festa, di scandalo in scandalo, in un romanzo spettacolare”. Tutto chiaro? Perché è questo il nocciolo oltre il quale nessuno ha avuto l’ardire di spingersi. Invece a me, per esempio, è venuto l’uzzolo di capire di più sull’endoscheletro, di vedere come è stato accozzato il modellino in plastica. Il dispositivo narrativo si fonda su di un bipolarismo essenziale dall’inizio alla fine: da un canto la famiglia Valerio Raimondi / Uno scrittore benintenzionato 69 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 70 UNO SCRITTORE BENINTENZIONATO Sonnino, il cui “Padre” è Bepy; dall’altro, Sonnino Daniel, l’ultimo di detta famiglia in quanto il di lui nipote minore. Tale bipolarismo di fondo viene letteralmente innervato dal tipo di narratore che tiene banco per tutto il testo: un narratore in prima persona. In realtà, che il narratore sia in prima persona e chi sia effettivamente lo si scopre solo verso pagina 50, quando attacca il pieno di spirito capitolo terzo “L’eroico trafugatore di collant”; prima di allora la netta impressione è che si tratti di una terza persona onnisciente, dalla feroce ironia e dal tagliente sarcasmo, a parte due o tre flebili tracce che mettono sull’attenti il lettore esperto. Proprio per questo la bipolarità strisciante famiglia Sonnino/ Daniel si regge su un originario e incongruo rapporto di forze: poiché il narratore – prima persona – è lo stesso Daniel Sonnino, il quale, nel doppio ruolo di narratorepersonaggio, è il vero centro focale della narrazione. Si dà il caso, dunque, che le vicende dei Sonnino siano tutte filtrate dalla lente deformante di chi narra, e plasmate sulla scorta del suo giudizio corrosivo e moraleggiante. “Un ebreo che attacca gli ebrei” è lo stesso autore a suggerire a un certo punto (e con quale buona fede!), una sorta di moralizzatore severo e intellettuale che mette all’indice la propria famiglia in quanto sentina del vizio, che condanna senza appello il vitalismo, incarnato in nonno Bepy, di formidabile donnaiolo, di scialacquatore senza fondo, di materialista della prima ora, e infine, bancarottiere, di truffatore e ladro, ma sempre ben contento di esserlo. La sferza del narratore-personaggio, però, si fa incalzante, implacabile: la condanna è verso la rimozione dei tempi che furono, poiché “questi giudei della Roma bene avevano sostituito […] al terrore per Mussolini e Hitler, la mimetica venerazione per Clark Gable e per Liz Taylor”. L’autore, che sulle prime avvezza lo sprovveduto lettore a pensare che il narratore sia terzo alla storia e purtuttavia onnisciente, dà fulmineo una scossa, introducendo ufficialmente come legittimo proprietario di quei giudizi salaci, scoccati senza remore, Daniel Sonnino: così facendo imprime pesantemente, nella mente sferzata di chi legge, come sigillo nella cera, la costante presenza di questi come censore e moralista. Ma proprio quando tale personaggio nodale fa la sua comparsa, questo Minosse giusto rivendicante la 70 Recensioni di Valerio Raimondi memoria dei cari estinti, è proprio lui a presentarsi (chi scrive scrive appunto di se stesso!) come un depravato della prima ora, onanista incallito, un’anima di fango che s’eccita sessualmente alla vista – e all’odore – della calze usate della zia israeliana, trafugandone una scorta per i clandestini e furiosi smaneggiamenti; ragazzozerbino rispetto alle ragazze della classe scolastica, smidollato e erotomane fino al parossismo. E cos’è peggio di un giudice corrotto? La credibilità del giudice giusto e salace viene annientata miseramente nel giro di poche righe, quella stessa credibilità che l’autore, al giudice-personaggio, aveva cercato di conferire (si capisce ora con quale sforzo farisaico) sin dall’attacco del romanzo. Le rivendicazioni post-olocausto di Bepy e dei suoi, a bruciare una vita di sfrenatezze e sregolatezze iperboliche, appaiono tanto più legittime in quanto chi sembrava avere i galloni per condannare con piglio tranciante se ne dimostra fragorosamente indegno. Così Bepy, per chi legge, può essere non più “il dissolutore, il vitalista accecato da donne e denaro”, ma più bonariamente una vecchia canaglia; la nonna Ada non più quella “megalomane, vedova nera”, ma una simpatica arteriosclerotica, e così di questo passo nel catalogo famigliare, un rovesciamento parodico dopo l’altro: la trasformazione è riuscita, e con successo. Non mancano, peraltro, disseminate nel testo, puntuali allusioni per far intendere che Daniel Sonnino è niente di meno che alter-ego di Alessandro Piperno: il narratore-personaggio sarebbe una chiara proiezione dell’autore, la vicenda nient’altro che biografica, individuale, isolata. E no!, caro (e furbo) Piperno. Vuoi forse dare a bere che la vicenda di cui straparli abbia quasi un’ascendenza dantesca, di auctor (dunque narratore) e personaggio assieme? (poiché Dante il suo viaggio ascensionale l’aveva compiuto veramente, ma in altri termini da quelli esplicitati dalla lettera – e i contemporanei, loro sì baluardi di una popolare e ingenua faciloneria, arrivarono a credere che un ciuffo canuto della propria chioma il fiorentino se lo fosse procurato realmente tra i gironi infernali!). Altro che individualità (che certo in Piperno non potrebbe mai eternarsi in universalità come l’esperienza dantesca – ci mancherebbe), il professore a contratto non fa altro che inserirsi, molto maldestramente, in un usato filone 10_Recensioni_Scrittore_66-71_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 letterario cui ha dato linfa Philip Roth, scrittore americano noto ai più (pure lui ebreo d’origine): il topos dell’ebreo intellettuale e moralista che disprezza fino al dileggio la propria famiglia, pia delle formali consuetudini religiose, per poi rivelarsi un fervente maniaco sessuale, un corrotto, un’anima bassa: la famiglia vituperata per tutto il libro risulta giocoforza simpatica a chi legge, in quanto vittima del ribelle; ma il ribelle idem, poiché, dall’inaccettabile ruolo autoassegnatosi di giudice inflessibile, dunque antipatico come può esserlo un qualsiasi pedante, si dimostra “sfigato”, pieno di problemi esistenziali (ci passi, il lettore, tali espressioni di stampo giovanilistico che pure ben s’attagliano alla materia): pari e patta! Si prenda la pagina di un libro, e la si avvicini lentamente al viso fino a farla cozzare contro il proprio naso: le paroline, intelligibili con efficacia in un primo tempo, si faranno indistinguibili segni grafici, ghirigori, e il risultato finale dell’esperimento sarà quello di poter dire, al massimo, che il materiale sul quale sono impresse è carta. Questa medesima cosa sembrano aver fatto Piperno e i suoi critici: il primo inzuppando a tal grado la storia dentro alla questione ebraica (non mancano, infatti, amplissimi riferimenti alla questione dello stato d’Israele, poiché uno zio di Daniel ne è un fervido abitante) da renderla praticamente invisibile; i secondi, ingoiandosi il beverone preparato a bella posta con la placidità bovina tipica del filisteo d’oggi, hanno dato forza a tale paradossale invisibilità. “Con le peggiori intenzioni” non è un libro politico, come direbbe invece un Vermijon qualunque, né tantomeno un libro sottilmente e subliminalmente politico; prova ne sia, attesterebbe, nonostante le nostre resistenze, un Vermijon dei nostri giorni, che non solo gli ardimentosi critici italioti (che sono pagati per farlo, ma cosa poi… i critici?), ma tutti coloro che ne hanno parlato e scritto (e non sono stati pochi date le copie vendute) persino sul Web (vedere per credere), hanno omesso, come l’avessero freudianamente rimossa, anche un minimo accenno alla questione ebraica sottesa a questo insulso testo, così come del resto è sottesa a ogni testo che si inscriva in tale filone aureo (dati gli incassi) più che letterario, e che disponga dei medesimi topoi oramai facilmente Pagina 71 decodificabili, da quando almeno per Roth, ogni anno, si reclama da più angoli del globo, e a squarciagola, il meritato Nobel. Ma non per questo ci faremmo prendere la mano dalla mania cospiratoria; e certo non ce la faremo prendere neanche quando, potrebbe obiettare il nostro Vermijon, è palese, suvvia, che ogni testo che metta in mezzo gli ebrei, oggi, rimanda irrimediabilmente alla questione israeliana. E chissà che colui che – calcherebbe la mano Vermijon – dopo essersi inspiegabilmente sorbito il pappone sciapo di 300 pagine che colora tutti i personaggi di una scialba luce di simpatia, sempre meno nebbiosa invero man mano che ci si avvicina verso la fine delle medesime 300 pagine, non si identifichi alla fine in questo o in quel campione di furfanteria, di perversione, di sciatteria morale e compagnia cantante (ecco lo specchio riflettente per il borghese piccino! – gongolerebbe Vermijon), e chissà che tale avido lettore piperniano non diventi, dopo tutto, molto più indulgente nei confronti delle brutture che ci vengono riferite, come acqua calda, provenire da certa parte del mondo; chissà che certe questioni non vengano liquidate con un bel sospiro di sollievo, pensando che in fondo gli ebrei son simpatici, di natura, e hanno ragione da vendere a fare quel che fanno. Noi, che non siamo Vermijon, ci si accontenta d’aver messo il dito goloso nel vasetto di marmellata rimasto finora inviolabile e inviolato, pur essendo invitante e gratuitamente disponibile. 1) Un capitolo de “Il lamento di Portnoy” (uno dei numerosi romanzi di Roth che ha sostanziato questo filone letterario, guarda caso anch’esso fornito di un noioso impianto monologante) si intitola, senza possibilità di equivoci, “Seghe”; è incentrato sul protagonistanarratore Alex e sulle sue convulsioni masturbatorie sollecitate dall’odore delle mutande della zia. Il Piperno ne esce, dopo non troppo attenta lettura, quasi come plagiatore. Valerio Raimondi / Uno scrittore benintenzionato 71 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 72 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 73 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 74 LA DISOCCUPAZIONE IN PILLOLE Un uomo che desidera lavorare, ma non riesce a trovare un’occupazione, è forse la visione più triste che la sorte esibisce sotto il sole. (Thomas Carlyle) Per analizzare il fenomeno “disoccupazione” è necessario partire dalla triste, ma non tanto, constatazione che un certo tasso di disoccupazione è non solo ineliminabile ma anche necessario al benessere di una economia nazionale. La questione è lapalissiana: nell’economia in cui viviamo vi sono settori in continua espansione ed altri che, di contro, si contraggono. Un certo tasso di lavoratori che definiamo disoccupati, ma sarebbe più corretto definirli in attesa di occupazione, permettono proprio a tali settori in espansione di avere una vera e propria riserva di manodopera senza la quale la loro espansione non sarebbe possibile. Tale tasso di lavoratori viene detto “disoccupazione naturale” a cui, peraltro, l’economia tende nel lungo periodo. Partendo da tale principio analizziamo ora la disoccupazione come la somma di due tipologie. Il primo tipo di disoccupazione con cui è necessario fare i conti è quella di tipo frizionale. Essa è dovuta a delle frizioni nel mercato del lavoro e proprio a quei settori di cui parlavamo prima che si contraggono ed espandono come polmoni dell’economia. Quando un settore si espande ed uno si contrae non è per niente certo che esso avvenga nella stessa misura; questo purtroppo causa disoccupazione. La disoccupazione di tipo frizionale è aggravata dai, purtroppo amati, “sussidi di disoccupazione” che, nel nostro Paese, sono particolarmente generosi. I lavoratori disoccupati sono meno invogliati a cercare lavoro finché parte delle loro necessità è garantita dal sussidio e da qualche lavoro occasionale o “in nero” ed in secondo luogo il salario a cui le imprese saranno costrette a retribuire i lavoratori diverrà più alto di quanto dovrebbe essere in un regime di sussidi normale. Un lavoratore pretende dall’impresa una notevole quantità di denaro in più rispetto a quello garantitogli dal sussidio e l’impresa è, dal canto suo, costretta ad aumentargli il salario altrimenti il lavoratore potrebbe ritenere molto più conveniente licenziarsi in modo da 74 Società di Enrico Gavassino (Celto) poter godere del sussidio. Il risultato è che molte imprese sono costrette, per pagare stipendi più alti, a licenziare lavoratori. La seconda tipologia di disoccupazione, non certo meno insidiosa, è quella strutturale. Essa è causata dalla rigidità dei salari che, a sua volta, vede la propria origine innanzitutto nell’eccesso di sindacato ossia nell’eccessivo potere dei sindacati all’interno della nostra economia. I sindacati contrattano con le imprese per ottenere, come sappiamo, salari più alti possibile e normalmente, anche se meno delle loro pretese, il salario aumenta. Come notato nel caso dei sussidi, aumentando il salario le imprese sono costrette a licenziare. Vi è poi un vero e proprio trucco machiavellico a cui ricorrono i sindacati in modo da ottenere salari più alti. In preparazione alla concertazione nazionale, il sindacato normalmente calcola il salario che ha intenzione di chiedere tenendo conto unicamente del tasso di disoccupazione del nord, notevolmente più basso di quello del sud, giungendo quindi a chiedere salari particolarmente alti che non tutte le imprese, sia del nord che, soprattutto, del sud sono in grado di garantire. Il risultato, di nuovo, è il licenziamento di molti lavoratori in modo da garantire alti salari a pochi; licenziamento che si sarebbe potuto evitare esprimendo una politica sindacale più razionale. Vi è poi un altro sistema di tutela sociale eccessivo per una economia in crescita: il salario minimo. Esiste un salario detto “di equilibrio” in cui vi è una perfetta identità tra la domanda e l’offerta di lavoro: con tale salario tutti coloro che vogliono lavoro lo hanno e chi vuole assumere trova immediatamente i propri lavoratori. Il salario minimo imposto per legge, tuttavia, è più alto del salario di equilibrio, il che crea uno squilibrio tra domanda ed offerta. Tra gli altri indiziati vi è poi il cosiddetto sistema dei salari incentivanti: al fine di evitare che i lavoratori lavorino male e, magari, cerchino un altro lavoro meglio retribuito (labour turnover), le imprese pagano salari il più generosi possibile in modo da inserire un costo virtuale che i lavoratori subirebbero se lavorassero male (difatti verrebbero licenziati e perderebbero l’alto salario!) o al fine di evitare che il 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 75 lavoratore cerchi una paga migliore; in tempi di lavoro qualificato ed altamente qualificato è bene per le imprese tenersi stretti i propri lavoratori. Come detto in precedenza i salari alti portano le imprese a dover licenziare in modo da avere il denaro per pagare le persone a cui hanno aumentato il salario. Normalmente, e in maniera anche sciocca a mio avviso, il licenziamento avviene sulla base del criterio dell’esperienza: normalmente i giovani, quindi “meno esperti”, vengono licenziati. Non ho usato il termine sciocco a caso: è evidente che, malgrado la sua esperienza lavorativa sia minore rispetto ad altri lavoratori anziani, sarebbe molto più intelligente confrontare il curriculum; normalmente il giovane ha effettuato studi specifici e possiede capacità che il lavoratore anziano non possiede. Non si deve pensare poi che la disoccupazione abbia dei riflessi solo sulle nostre tasche e sui nostri frigoriferi. In periodo di forte disoccupazione normalmente i tassi di interesse aumentano fortemente per cui gli investimenti diminuiscono (questo invero causa stagnazione poiché meno investimenti normalmente significa anche meno assunzioni che aggravano la situazione di disoccupazione già creata). Ultima, ma non ultima vittima, è il PIL: il paese è più povero e, stando così le cose e dovendo essere il nostro rapporto deficit/PIL al massimo al 3%, l’Unione Europea ce la farà pagare e anche cara! Se i nostri governanti volessero renderci davvero felici dovrebbero fare i conti con questi problemi contando che siamo “una Repubblica fondata sul lavoro”. Basta poco per essere felici! Lo ammette anche la Euro-Baromoter Survey Series: una famosa ricerca statistica effettuata tra il 1975 e il 1990 in numerosi paesi d’Europa che ha fatto emergere il dato per cui nei paesi con minore disoccupazione ed inflazione i cittadini, interrogati sulla propria soddisfazione personale, si dichiaravano particolarmente felici. Ma capisco benissimo che salari minimi più bassi e cedere di meno alle pretese sindacali siano provvedimenti poco popolari e per il meccanismo del voto è meglio lasciare la gente a spasso piuttosto che avere il coraggio di mettere in atto certi provvedimenti. Enrico Gavassino / La disoccupazione in pillole 75 Pubblicita?.qxp:Gabbia_Th 5-10-2007 7:56 Pagina 66 http://galleria.thule-italia.com/ Pubblicita?.qxp:Gabbia_Th 5-10-2007 7:56 Pagina 67 GALLERIA D ’ A R T E T H U L E I T A L I A ALtre_Pubb.qxp:Gabbia_Th 5-10-2007 13:10 Pagina 1 Altre produzioni Thule-Italia per informazioni: Cell. - 340 4948046 – email: [email protected] Dietrich Eckart: Dialoghi tra me e Hitler Dietrich Eckart. Prima traduzione italiana del libello "Il bolscevismo da Mosè a Lenin: Un dialogo tra Adolf Hitler e me". 35 pagine La strana morte di Heinrich Himmler La strana morte di Himmler primo studio in lingua italiana sulle anomalie del "suicidio" del Reichfuhrer SS. Foto inedite 49 pagine 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 77 62&,(7$·7+8/(,7$/,$ 3HUFROODERUDUHDOOD5LYLVWDHRDLVLWLVFULYHUHD WKXOH#WKXOHLWDOLDRUJ 'LIIRQGHUHLO0HQVLOHGL7KXOH,WDOLD DWWUDYHUVRRJQLSRVVLELOHFDQDOH $YDOOLDPRODVFDQVLRQHGHOOD5LYLVWD HODSXEEOLFD]LRQHGLRJQLVXDSDUWH SXUFKpYHQJDQRFLWDWLDXWRULHIRQWL ZZZWKXOHLWDOLDRUJ ZZZORPEDUGLDWKXOHLWDOLDRUJ ZZZSLHPRQWHWKXOHLWDOLDRUJ ZZZOD]LRWKXOHLWDOLDRUJ 3HUVRVWHQHUFLFFSRVWDOH$VVRFLD]LRQH7KXOH,WDOLD 11_Societa?+3+4_DIsoccupazione_72-78_ok.qxp:Gabbia_Th 4-10-2007 13:10 Pagina 78