Introduzione
Presentazione
Prefazione
INDICE
di Vincenzo Borgomeo
di Marco Petrone
di Maurizio De Tilla
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PARTE PRIMA - Anni 50-60
Capitolo 1 - Tutto inizia dai sogni
Capitolo 2 - Venire dal nulla
Capitolo 3 - Scelte coraggiose e difficili
Capitolo 4 - L’infanzia, il periodo più buio
Capitolo 5 - L’uscita dal tunnel: Italia 61
Capitolo 6 - Non mollare mai
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PARTE SECONDA - Anni 70-80
Capitolo 7 - L’evoluzione del pensiero
Capitolo 8 - La scintilla
Capitolo 9 - Tutto cambia, giorno dopo giorno
Capitolo 10 - Elettronica: «Intra l’industri, aintrerà mai»
Capitolo 11 - Tutto cominciò dall’elettronica industriale
Capitolo 12 - Una scelta difficile per inseguire un sogno
Capitolo 13 - E tutto succede
Capitolo 14 - La rivincita, nell’elettronica professionale
Capitolo 15 - Barca, mare, navigare, metafora di vita
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PARTE TERZA - La visione globale - Anni 90-2000
Capitolo 16 - Anticipare il futuro
Capitolo 17 - I valori e il bello della vita
Capitolo 18 - Rimpianti, e ricerca delle origini
Capitolo 19 - Petrone, quanti nomi
Capitolo 20 - Superstizione o casualità?
Capitolo 21 - Il 2000
Capitolo 22 - La missione aziendale
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PARTE QUARTA - La nuova era
Capitolo 23 - Il Sogno diventa realtà
Capitolo 24 - Fissare i paletti: principi e progetti
Capitolo 25 - Gruppo ELEM: trentesimo anniversario
Capitolo 26 - Evolution IPO. Viasat Group
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Capitolo 27 - La profanazione del tempio dell’elettronica
Capitolo 28 - Di nuovo nella tempesta
Capitolo 29 - Uno sguardo dall’esterno
Capitolo 30 - Il nostro futuro
Capitolo 31 - Il nuovo inizio
Capitolo 32 - Riassumendo
Capitolo 33 - Sviluppi, acquisizioni, partecipazioni
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PARTE QUINTA - Le strategie evolutive
Capitolo 34 - Creatività, principi e valori: ecco il segreto
Capitolo 35 - La nostra bandiera
Capitolo 36 - Più protezione, sicurezza, assistenza
Capitolo 37 - Sicurezza, risparmio e antifrode
Capitolo 38 - La scatola nera
Capitolo 39 - Il decreto Monti «Sviluppo Italia»
Capitolo 40 - Scatola nera, la nostra visione
Capitolo 41 - Telematics Service Providers Association
Capitolo 42 - Scatola nera, il punto
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PARTE SESTA - La politica
Capitolo 43 - Riflessioni su Olivetti
Capitolo 44 - 2012, la grande crisi: cambiare o morire
Capitolo 45 - Monti, Montezemolo, Grillo e non solo
Capitolo 46 - E i giovani?
Capitolo 47 - Perché la società è in crisi e incattivita?
Capitolo 48 - Impegno sinergico di competenze eccellenti
Capitolo 49 - Vivere, vivere intensamente
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PARTE SETTIMA - La parola alla squadra
Capitolo 50 - Compagni di viaggio
Capitolo 51 - Il gioco di squadra
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168
PARTE OTTAVA - Epilogo
Capitolo 52 - Viaggio nel futuro, di Marco Petrone
173
PARTE NONA - Un bel film
Indice
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Supplemento del mensile Specchio Economico n.9/2013- Reg. Tribunale di Roma n. 255/1982
Ciuffa Editore Via Rasella 139 - 00187 Roma - Direttore responsabile Victor Ciuffa
Copyright © Domenico Petrone - 13 aprile 2013 - Vietata la riproduzione anche parziale
senza formale autorizzazione - [email protected]
COLLANA DI SAGGISTICA E NARRATIVA
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diretta da Romina Ciuffa
Dedico questo manoscritto
alla mia dolce e tenera Gianna,
amore, moglie e compagna
del viaggio della mia vita,
ai miei figli Barbara e Marco,
che sono il presente - fuggente -,
e ai nipoti e pronipoti che rappresentano
il futuro evolutivo del nostro passato.
Pedro
Un ringraziamento particolare
a Vincenzo Borgomeo per l'amichevole
aiuto e il supporto professionale datomi,
che ha reso possibile la buona riuscita
di questo libro
Domenico Petrone
Tutto inizia dai sogni
Navigare mari in tempesta, avere
il coraggio di osare, sognare, fare, seguendo
la passione, il cuore, l’istinto, le onde…
Lo straordinario percorso del Gruppo Viasat
Testo raccolto da Vincenzo Borgomeo
CIUFFA EDITORE
«Non possiamo pretendere che le cose
cambino, se continuiamo a fare le stesse
cose.
La crisi è la più grande benedizione per le
persone e le nazioni, perché la crisi porta
progressi.
La creatività nasce dall’angoscia, come il
giorno nasce dalla notte oscura.
È nella crisi che nasce l’inventiva, le
scoperte e le grandi strategie.
Chi supera la crisi supera se stesso senza
essere superato.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e
difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà
più valore ai problemi che alle soluzioni.
La vera crisi è la crisi dell’incompetenza.
L’inconveniente delle persone e delle nazioni
è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie
d’uscita.
Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la
vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c’è merito.
È nella crisi che emerge il meglio di ognuno,
perché senza crisi tutti i venti sono lievi
brezze.
Parlare di crisi significa incrementarla e
tacere nella crisi è esaltare il conformismo.
Invece, lavoriamo duro.
Finiamola una volta per tutte con l’unica
crisi pericolosa, che è la tragedia di non
voler lottare per superarla.»
Albert Einstein
INTRODUZIONE
Albert Einstein è un genio, sia. E le sue teorie affascinanti,
come i suoi scritti. Però la rilettura di questa storia e di
un’impresa tutta italiana rendono questi concetti più
credibili perché realizzabili. Non da qualcuno che abita
nella Silicon Valley, non da una specie di marziano che ha
inventato un algoritmo per un motore di ricerca o un social
network per milioni di persone, ma da un italiano che è
partito dal basso, che ha sofferto, stretto i denti. Uno di noi,
in cui è facile riconoscersi, se non personalmente almeno
attraverso un padre, un parente, un amico.
Una volta Domenico mi disse che «la cosa più
importante è reagire, reagire. Reagire alle calamità degli
eventi con grinta e convinzione. Bisogna sempre crederci,
valicando l’impossibile, seguendo il cuore, l’istinto, il
vento, le onde». Stavamo parlando di barche, di mare. Ma
era davvero così? O era un discorso riferito all’altra sua
passione, la sua azienda? Nessuna delle due: Domenico
parlava della vita, l’ho capito dopo. Di come si possono
superare le difficoltà di ogni giorno, spesso le più difficili,
con uno spirito particolare. Senza mai arrendersi, darsi
per vinti. Questo libro mi ha fatto scoprire una persona
che non molla mai, con una forza di carattere rara. Per
questo è stato divertente scriverlo in prima persona. È
stato stimolante immaginarsi irriducibili, sognare di
vedere realizzati i propri sogni e di mettere in campo tante
idee. Quello che facciamo tutti, ogni giorno.
Il libro è nato da una rilettura di «Pedro’s Trip, trucioli
di vita», un diario che Domenico aveva scritto per parenti
e amici. E che, come tutti i diari, parlava di cose personali,
a volte molto personali, ma che aveva già quel seme di
universalità e di insegnamenti che ho cercato di
raccontare. Il sottotitolo del diario («I sogni, le svolte, gli
eventi») spiegava che la vita è un viaggio che tutti
dobbiamo fare. Partiamo tutti dallo stesso punto. I sogni.
Ma poi sta a noi scegliere il modo di progettare e fare quel
viaggio. E dal «modo» in cui lo facciamo dipendono le
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svolte e gli eventi. Come dice Petrone, la cosa più
importante è uscire dal porto, affrontare le onde e iniziare
a navigare. Provarci. Osare. Facile a dirsi, ovvio, difficile
a farsi perché poi, nella maggior parte dei casi, rimaniamo
tutti in quel porto. Ecco, parlare, scambiarsi mail, SMS e
Twitter con uno che invece da quel porto è uscito più volte
è stato molto interessante. «Istruttivo», direte voi? Sì,
certo, anche: tutti noi abbiamo un porto in cui riparare ma
un mare d’affrontare: la «vita». Per questo penso che il
libro alla fine sia interessante e divertente da leggere (cosa
rara per i volumi autobiografici): se chi l’ha scritto si è
divertito, si divertirà anche chi lo leggerà.
Il punto è che questo libro non parla della storia di
Petrone o della sua Viasat. È la storia di tutti noi. O,
almeno, quella che poteva essere la nostra storia se
avessimo osato. Se avessimo fatto quello che ha fatto
Domenico. Il porto, però, è sempre lì. E la decisione di
uscire e affrontare il mare può essere ancora presa. Non è
mai troppo tardi per iniziare a navigare. A vivere davvero.
Questo libro non vuole essere un racconto autobiografico
fine a se stesso, ma una specie di manuale per far capire a
chiunque - e specialmente ai giovani - che i meccanismi
del successo sono perseguibili e replicabili. Ci sono
«molle» che spingono un individuo, a sapere e a saper fare,
a crescere, cambiare, creare una famiglia, lottare per la
propria affermazione, conquistare mete insperabili. Ma
anche generare stimoli, emozioni e motivazioni che hanno
consentito cambiamenti, progressi, formazione, esperienze. Poi c’è stata una conseguente crescita economica. Forte
e impressionante, certo. Ma è stato l’ultimo tassello di un
puzzle complicato. E se si parte solo da quest’ultimo
tassello come molti pretendono oggi, è impossibile avere
una visione d’insieme e capire come sia stata possibile la
realizzazione di questa impresa così complicata. Il segreto
è nella storia, nell’approccio ai problemi, nella quantità di
tempo e dell’impegno dedicato, nella forza di volontà, ai
valori e all’etica. Quelli che racconto in questo libro.
Vincenzo Borgomeo
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PRESENTAZIONE
Scrivere una biografia non è mai facile, e scriverne una
che non sia noiosa lo è ancora meno. Se poi il
protagonista è una persona che ancora si impegna ogni
giorno per percorrere strade che nessuno ha mai
percorso, l’intento diventa quasi proibitivo. Eppure
Borgomeo è riuscito nell’impresa, cogliendo l’animo del
pittore nel momento dell’atto creativo, a tela non ancora
ultimata. Un giorno qualcuno cercò di rappresentarmi la
sua esperienza personale e professionale parlando delle
tappe che aveva superato negli anni, citando tra l’altro
queste parole di Steve Jobs: «Non è possibile unire i
puntini guardando avanti, potete unirli solo girandovi e
guardando indietro. Quindi dovete avere fiducia nel fatto
che in futuro i puntini in qualche modo si uniranno.
Dovete credere in qualcosa, nel vostro intuito, nel
destino, nella vita, nel karma, in qualunque cosa. Questo
tipo di approccio non mi ha mai lasciato a piedi e ha
sempre fatto la differenza nella mia vita».
Mi piacque molto, anche perché personalmente cito
spesso parole di Don Bosco, simili ma pronunciate molto
prima, che grosso modo suonavano così: «Vivere la vita è
come fare il gioco dei puntini; mentre lo fai sei concentrato
sul punto dal quale sei partito a tracciare la linea e su
quello successivo. Quando arrivi all’ultimo, ti volti e vedi
il disegno, e tutto ti è chiaro». Se l’ha detto un visionario
come Steve Jobs, sulla falsariga di un visionario ancora
più grande come Don Bosco, allora vale proprio la pena
fermarsi un attimo, interrompere la stesura della linea che
ognuno di noi sta tracciando, e riflettere.
In questo senso consiglio a tutti di leggere le pagine che
seguono, perché le parole contenute in ogni capitolo sono
come la descrizione di un puntino, fatti che magari sono
sembrati slegati, e che invece a posteriori connaturano un
disegno, stimolando nel lettore una revisione e
reinterpretazione della propria vita. Un vero e proprio
stimolo alla riflessione. Ci sono poi i puntini del presente
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e del futuro, quelli che l’imprenditore cerca ogni giorno
di comprendere e collegare, per poi lasciarseli alle spalle
e proseguire nel disegno.
Alla fine dei capitoli sulle strategie evolutive e sulla
politica non si ha una visione chiara di cosa stia
succedendo in Italia, in particolare nel settore in cui opera
Viasat Group, ma si colgono diversi stimoli per prepararsi
a vivere il futuro e, possibilmente, a scriverlo. Questa
mancanza di chiarezza è una carenza dell’opera? No di
certo, è un fatto connaturato all’esistenza umana. Del
resto, se fosse tutto chiaro, vorrebbe dire che i puntini
sono uniti, che il disegno è completo, che la vita è
compiuta. E invece ci sono ancora tante cose da fare.
Buona lettura e buon lavoro.
Marco Petrone
PREFAZIONE
Nel leggere ed apprezzare il libro «Tutto inizia dai
sogni», che narra l’impresa impossibile di Domenico
Petrone, ho avuto la piacevole sensazione di percorrere
un sentiero che dimostra quanto sia meraviglioso ed
arduo il compito di chi, partendo dal nulla, e quindi
sfavorito, finisce per raggiungere forti ed ambiziosi
traguardi. A volte, il sogno di ognuno di noi può diventare
realtà. Ma ciò non è, né può essere il frutto della
contemplazione di un esito, casualmente e fortunosamente, felice e positivo. Alla volontà e determinazione
si accompagna un «plus» che appartiene al Dna ed al
carattere personale, che ti spinge a cambiare, ad innovarti
in continuazione, nel segno di una metamorfosi che
appena si percepisce nel cammino quotidiano.
Non è, infatti, casuale che un autodidatta - che già da
bambino «inventava» con il meccano oggetti e prodotti da
stupire - sia poi diventato un esperto di fine intelligenza
ed acuta preparazione, con un sano spirito di
imprenditore. Non è casuale l’uscita dal porto per
navigare nel mare poco conosciuto, con tuffi ed emersioni,
se non ci si affida all’intuizione propria di chi percepisce
quali sono i giusti mezzi e strumenti che segnano la
propria attività. Domenico Petrone si mette sempre in
discussione per nuove sfide, spesso impossibili, senza mai
arrendersi, né darsi per vinto. Facendo cose nuove e non
ripetitive, per consolidare l’apparente «vecchio» nella
«liquidità» di una società moderna che nulla lascia
inalterato.
A Domenico si adatta bene il linguaggio di Albert
Einsten che si esprime affermando che «non possiamo
pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le
stesse cose». Invece che abbattersi con il pessimismo per
cicliche crisi, che sono per tutti inevitabili, Domenico si
rialza sempre. E da ciascuna crisi alimenta il proprio
coraggio ad osare di più. Nulla gli è pesante, perché ha
tratto dalle difficoltà le migliori motivazioni. Consapevole
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che il sogno utopico non può non realizzarsi, almeno in
parte, in percezioni reali. Con la pazienza di chi sa bene
che «la cosa migliore del futuro è che arriva un giorno alla
volta».
La gradualità è l’arte della saggezza e non fa commettere
errori, più del dovuto e del necessario. Una gradualità
unita alla perseveranza, in un miscuglio di ingredienti che
comunemente si chiamano dedizione, impegno,
approccio accurato, forza di volontà, perseguimento di
un’etica particolare che non viene spesso considerata,
quella del lavoro. Una gradualità che nasce dai momenti
di angoscia, di solitudine e da notti prolungate ed oscure.
Per percepire al risveglio, nell’illuminazione del giorno,
il senso di una vita umile, operosa e legata alle proprie
radici e agli affetti familiari.
Bravo Domenico, leggendoti ho imparato qualcos’altro
anche per la mia gioia di lettore cauto ma non indifferente
alle emozioni di un amico sincero. Nel segno della
condivisione della entità dell’«essere» di un imprenditore
di successo che viene prima dell’«avere» non ricercato.
Maurizio De Tilla
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PARTE PRIMA
ANNI 1950-1960
CAPITOLO 1
Tutto inizia dai sogni
Credo che tutto inizi dai sogni. Dai sogni nascono i
primi stimoli e la voglia del fare; ma è fondamentale
ripromettersi di compiere opportune azioni concrete.
La convinzione, la perseveranza, l’ostinazione e tanto,
tanto lavoro, potranno consentire il raggiungimento degli
obiettivi. Se non si perseguono comportamenti tenaci,
difficilmente si otterrà quel che si desidera e con scarsa
probabilità i sogni si potranno realizzare. Solo l’azione e
tanto lavoro potranno dare origine ad eventi e
cambiamenti. Ricordate le parole di Einstein?
Non bisogna mai dimenticare che circostanze e macroeventi straordinari hanno sempre la forza di originare
opportunità o minacce che potranno condizionarci, a
prescindere dal nostro volere. In tal caso è indispensabile
reagire. È importante capire i cambiamenti e la situazione
ambientale in cui ci si trova e le sue circostanze per
lanciarsi al volo in scelte opportune, aggiornando il
proprio progetto in sintonia con la realtà del momento:
insomma razionalità, passione e intuizione.
La mia storia, come quella di tanti d’altra parte, è
intrecciata a doppio filo con le difficoltà e con le crisi. A
partire dalla vita del mio nonno paterno, Domenico
Petrone che emigrò, visse e lavorò a New York negli anni
successivi alla guerra del 15-18 e della grande depressione
economica del 1929 per finire con la mia esperienza
personale che, partendo dal classico «poco o niente», è
riuscita a dar corso ad una sequenza di eventi clamorosi.
Un percorso che, disegnando e plasmando giorno dopo
giorno la mia vita e quella di chi mi ha creduto e seguito,
ma anche supportato e sopportato, ha visto concretizzarsi
un progetto che, credo, condizionerà a lungo il futuro di
molte persone.
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CAPITOLO 2
Venire dal nulla
«Fatto da solo», «venuto dal nulla». Lo si sente dire
spesso, talmente spesso che ormai questi due concetti
sono talmente abusati da suonare stonati, triti e ritriti al
punto da perdere qualsiasi significato. È il mito
americano che si realizza, il percorso dell’uomo
qualunque che può diventare presidente degli Stati
Uniti o fondare una società più grande e potente della
General Motors. Però è sempre bene non generalizzare
troppo: «Mimm», Mimmo, da bambino mi chiamavano
così. Sono nato il 13 aprile del 1950, in Puglia, a Corato,
provincia di Bari. Un paese fatto di sole, tanto sole, case
di colore bianco giallastro e asini. Sì, asini perché allora
le case erano formate da un cucinotto, un caminetto e
da stanzoni intercomunicanti, con accanto la stalla per
il cavallo o per l’asino, anzi «u’ ciucc».
Il bianco giallastro? Derivava dai blocchi di tufo con
cui erano fatte le case, un materiale biancastro, isolante,
leggero, friabile e molto malleabile. In casa non c’era
riscaldamento, non c’era l’acqua corrente e neppure il
bagno. I bisogni si facevano in un grosso vaso di coccio,
«u’ pris», nascosto in uno sgabuzzino. Un po’ prima che
traboccasse, veniva versato in un vascone, trasportato
su un carretto ambulante trainato da un mulo, e
guidato da un addetto comunale che si adoperava
anche nell’operazione di versamento.
L’acqua? Si attingeva alle fontane rionali, che
normalmente erano nel centro di un piazzale. Ed erano
talmente tante le case in queste condizioni a Corato che
in quelle piazze c’era sempre un caos tremendo e
occorreva aspettare con pazienza il proprio turno per
riempire le grandi e pesanti brocche metalliche, «la
quartar», e assicurarsi la scorta quotidiana. Questo
compito normalmente era assegnato ai ragazzini e
indovinate chi di noi andava alla fontana..? «A Mimm».
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Ho trascorso a Corato i miei primi sette anni
d’infanzia, mio papà aveva una piccola falegnameria,
era un bravo mastro-ebanista, un creativo. Però di
questo paese ho pochi ricordi, dissolti dal tempo. Sono
scene che sembrano quelle di un film in bianco e nero:
strade strette, donne vestite di nero sedute davanti
all’uscio che ricamano merletti o passano al setaccio
fave e lenticchie secche. Gli anziani tagliavano il
raccolto di «pomodori butalini» per fare la salsa da
conservare in «boccacci di vetro», o li essiccavano al
sole, per poi metterli sott’olio con i peperoncini
tremendamente piccanti, «la cumpost». Un’operosità
instancabile: in ogni momento facevano sempre
qualche cosa d’utile alla famiglia. L’equazione «vecchi
= persone inutili» ai tempi era impensabile: quante cose
si dovrebbero recuperare di quella cultura.
Ricordo, un po’ come in un sogno, il mio primo giorno
di scuola. Vestivo di tutto punto con grembiulino
bianco e un enorme fiocco blu. L’aula era grandissima
e rimbombante, i banchi enormi, rispetto agli alunni di
prima classe e il maestro era «cattivo», urlava sempre
con voce minacciosa e non capivo mai il perché
«malmenava» tutti con severità. Chi disubbidiva
veniva bacchettato sulle mani con una verga di canna,
«la fedr», e poi in castigo, in piedi nell’angolo della
classe, con la faccia rivolta verso il muro. A me capitava
spesso. L’ho subito odiato questo modo di fare e, forse,
per questo, non ho mai frequentato volentieri la scuola.
Un peccato perché ben presto avrei scoperto sulla mia
pelle che Heirich Heine, quando scriveva che
«l’esperienza è una buona scuola, ma le sue rette sono
più alte», aveva davvero ragione.
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CAPITOLO 3
Scelte coraggiose e difficili
«L’ominicchio», «uomo piccolino». Da bambino mi
chiamavano così, perché mi atteggiavo nel comportamento, come se fossi già adulto. Dicono che il carattere
delle persone si formi già nei primi anni della vita. E
hanno ragione: le vicende trascorse dei primi anni nel
piccolo paese furono difficili, una lezione di vita e
innescarono in me la voglia di reagire e di sopravvivere.
Caricarono una «molla biologica», la compressero fino ai
limiti del sopportabile. Poi quando quella molla poté
scattare... Ma andiamo per gradi: un cambiamento
stravolgente per me fu la scelta che fece mio padre di
chiudere la bottega di falegnameria e di cambiare
completamente vita emigrando nel nord: una scelta che
ovviamente non riguardava solo lui ma tutti noi.
Mio padre mise in vendita tutto. L’amata Lambretta,
l’unico mezzo di locomozione della famiglia, la casa della
nonna dove si viveva, la nuova casa in costruzione
sovrastante la bottega, molto desiderata da mia madre,
ma mai abitata e goduta: mollò tutto ed emigrò a Torino.
All’inizio papà partì solo, ospitato da mia cugina
Nicoletta che si era trasferita lì già da qualche anno. La
speranza era di trovare presto un lavoro e un
appartamento e di organizzare, in seguito, il viaggio di
trasferimento di tutta la famiglia.
Una scelta difficile e dolorosa perché già mia nonna
paterna aveva sofferto la partenza nel 1920 di suo marito,
Domenico, che emigrò in America, a New York, con la
promessa che sarebbe ritornato. Ed invece non tornò mai
più. E a mia nonna rimase solo una vaga speranza e il
rammarico di tutta una vita sofferta in attesa del nulla.
Mio padre stesso non si era mai dato pace per quella scelta
del suo genitore e sperava che un giorno sarebbe andato
in America a cercarlo, per farsi spiegare il perché di
quell’abbandono.
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Ironia della sorte, un giorno lui stesso si ritrovò a sua
volta a decidere e a ripetere le stesse scelte. Il destino,
profetico, intanto però lo spingeva in un altro luogo: a
Torino. Nonostante i ricordi negativi, gli eventi andarono
diversamente e nella calda estate del 1957, tutta la
famiglia Petrone, con nonna, mamma e figli, partirono in
un interminabile viaggio, su un treno a vapore, stracolmo
di persone, emigrando nello sperato Settentrione, a
Torino, raggiungendo il papà Francesco che, nel
frattempo, aveva trovato un lavoro in una fabbrica di
falegnameria e affittato un piccolo appartamento. Un
nuovo inizio.
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CAPITOLO 4
L’infanzia, il periodo più buio
Papà aveva ottenuto un’occupazione precaria, presso una
falegnameria artigianale che lavorava all’interno di una
fabbrica di macchine da stampa, la Nebiolo. All’inizio la
situazione pareva accettabile, sembrava migliore rispetto
alle condizioni del paese appena abbandonato, ma il peggio
venne dopo qualche mese. Iniziò il periodo più brutto della
mia vita. Ancora oggi ricordo quei momenti come sogni
spaventosi, mai cancellati dal tempo, terribili incubi.
Era quello il periodo del boom industriale, delle fabbriche
d’auto che a Torino richiamavano fiumi di operai, in
particolare napoletani, siciliani, calabresi, abruzzesi,
pugliesi. E nacque quasi immediatamente un tremendo
senso d’intolleranza verso i meridionali. Ma «intolleranza»
non rende bene il concetto: si trattava di razzismo bello e
buono: agli ingressi di alcuni condomini c’erano cartelli tipo
«Affittasi appartamento. No meridionali», e in qualche bar
comparivano targhe «Vietato l’ingresso ai cani e ai terroni».
Insomma per usare un sottile eufemismo non era un bel
vivere, noi del sud non riuscivamo a fare amicizie; io non
legavo molto con i miei coetanei, ero timido, intimorito, non
parlavo bene l’italiano e le combriccole già affiatate non mi
facevano giocare con loro, anzi mi prendevano in giro,
insultandomi: «terrun, terrun…» e giù botte.
Spesso, la notte, sognavo che ritornavamo tutti a Corato.
Io tornavo felice, volavo. Sì, volavo leggero, sui campi fioriti,
di bellissimi papaveri rossi; oppure giocavo, gioioso, con i
miei amici d’infanzia, facendo volare un variopinto
aquilone, costruito dal mio papà. È curioso ricordare che per
anni i sogni ricorrenti avevano come caratteristica un
particolare: in caso di pericolo, riuscivo a volare. Volavo
sollevandomi in verticale, semplicemente vibrando i piedi,
come si fa sott’acqua con le pinne e sorvolando e saltando
al di là dell’ostacolo.
La situazione familiare si aggravò quando mio padre
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perse il lavoro. Non voleva però rinchiudersi alla Fiat. Non
avendo una specializzazione in meccanica, non voleva
andare in linee di montaggio e fare il semplice operaio o
ancor peggio il manovale. Era un ebanista, un’artista del
legno a suo modo, un artigiano capace di progettare,
disegnare favolosi armadi costruiti a mano e quant’altro,
partendo dal tronco di un albero. Ma il mestiere di ebanista
di fatto non esisteva più, così si adattò nella ricerca di un
qualcosa che consentisse di mantenere la famiglia. Provò,
in un disperato tentativo, la vendita di garofani, all’uscita
della chiesa di Madonna di Campagna: mi chiese di
accompagnarlo, perché da solo si vergognava.
Così, su una vecchia bicicletta, assicurò la cesta dei
garofani sul portapacchi mentre io mi mettevo davanti,
seduto per traverso sul tubolare. Davanti alla chiesa, però,
non trovammo clienti e in tutta la mattinata non vendemmo
neanche un fiore. Tornammo a casa in silenzio e lì mio padre
disperato afferrò i mazzi di fiori e li ridusse a pezzettini,
imprecando e gettandoli qua e là per tutta la casa. Tragico,
devastante. Tanto per peggiorare la situazione, la padrona di
casa ci sfrattò, probabilmente intuendo che non avremmo
più potuto pagare l’affitto. Bisognava anche trovare un altro
appartamento.
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CAPITOLO 5
L’uscita dal tunnel: Italia 61
I miei genitori decisero di cambiare quartiere, sperando
di trovare un ambiente più favorevole. Cercarono e
trovarono un discreto appartamento nella borgata di
Lucento, in Via Bernardini Luini 157, una zona popolata
prevalentemente da meridionali. Fu una svolta: erano gli
anni Sessanta, Torino si stava preparando ad un macroevento d’eccezionale portata, il Centenario dell’Unità
d’Italia, circostanza straordinaria che avviò finalmente
una serie di fatti che generarono una situazione
prosperosa.
Nascevano ovunque nuovi quartieri, condomini, ma
soprattutto Palazzo Vela e il polo fieristico: finalmente
c’era di nuovo un gran bisogno di manufatti di legno. Mio
padre trovò infatti un’occupazione presso un’azienda
appaltatrice e iniziò a guadagnare bene. La nostra
condizione economica divenne accettabile e migliorava di
mese in mese, al punto che papà frequentò una scuola
guida, ottenne la patente e comprò la prima automobile:
la storica Topolino. L’Italia stava cambiando.
Noi stavamo cambiando. Finalmente anch’io cominciavo a vivere momenti felici. Cambiai scuola e m’inserii
subito con i miei coetanei, anche perché erano quasi tutti
figli d’emigrati, ci capivamo. Nicola era il mio amico di
giochi - giochi impegnativi -, aveva qualche anno più di
me, e da lui imparavo tutto, condividevo l’impegno in
passatempi complicati: montaggio e smontaggio di
meccanismi realizzati col Meccano.
Per chi non lo ricorda (e il discorso vale solo se è molto
giovane) il Meccano era un insieme di piastre e piastrine
forellate e numerosi particolari di piccole carrucole, ruote
e accessori vari, con cui avvitare e imbullonare miniature
di macchinine, biciclette, elicotteri e quant’altro
immaginabile, una sorta di lego meccanico. Era il mio
gioco preferito. Stavo per ore e ore a trafficare, montare e
22
smontare. È proprio vero che l’infanzia è formativa, e che
le prime influenze sono la chiave e le tendenze per il
futuro: nel mio caso è proprio andata così. Questa
tendenza a eseguire attività manuali e complicate mi ha
sempre appassionato ed è sempre stata la spinta
propulsiva e la chiave di tutto ciò che avvenne negli anni
successivi.
Avevo sempre voglia di costruire qualcosa, oltre al
Meccano mi piaceva il Traforo del legno, che con seghetti
e limette consentiva di costruire casette, torri, aeroplanini
e barchette. In quest’ultimo gioco il mio compagno e
maestro fu mio padre, che però, per esperienza vissuta,
non m’incoraggiava a far da grande il falegname. Il gioco,
che divenne un hobby ed una passione trasportante, per
gli anni successivi fu il cablaggio d’interruttori collegati a
pile, lampadine, zoccoli «octal» e valvole elettroniche. A
soli dodici anni chiesi ed ottenni da mio padre di
iscrivermi al corso per corrispondenza della Scuola Radio
Elettra Torino.
Mi piaceva un sacco e facevo con entusiasmo gli
esperimenti pratici, mentre invece trascuravo gli studi
d’obbligo, che ad onor del vero non mi entusiasmavano
per niente. Anziché giocare a pallone, come facevano
quasi tutti i miei coetanei, mi rinchiudevo nella mia lunga
cameretta, dove in fondo, allestii un banco di lavoro ed
attrezzai un piccolo laboratorio, con tanto d’impianto
elettrico, saldatore a stagno, e attrezzi vari; assemblai e
costruii, su indicazioni dei manuali del corso, un
amperometro, un voltmetro, un frequenzimetro,
inserendoli successivamente su una consolle di
compensato e formica, sempre da me ideata e costruita.
A quindici anni, realizzai una magnifica, grossa radio a
valvole, con mobile in noce e frontalino in plexiglas,
perfettamente funzionante sulle diverse frequenze;
completai tutto il corso con il massimo dei voti, ricevendo
il riconoscimento con tanto di diploma rilasciato dalla
scuola. La mia operosità e la voglia di aiutare i miei
genitori crescevano col passare degli anni. Nel dopo
23
scuola, mio padre, per non vedermi gironzolare per le
strade, mi trovò un’occupazione come garzone, presso il
barbiere Ignazio di Via Luini, attività che io facevo
volentieri, perché guadagnavo qualcosina e incassavo
delle mancette che conservavo e accumulavo gelosamente, fino a raccogliere una sommetta, che mi consentì
l’acquisto di un orologio da donna, che regalai alla mia
mamma, per la sua festa.
La grande opportunità avvenne casualmente. Un
giorno, in occasione dell’avviamento di un nuovo
distributore di benzina dell’AGIP, vicino a casa, in Corso
Potenza angolo Via Luini, venne proposta a mio padre
l’opportunità di rilevare la licenza e gestire il punto
vendita. I miei genitori dopo una breve considerazione,
decisero, istintivamente, di accettare la proposta. In un
primo momento l’impegno fu di mia madre, col mio
aiuto. In seguito, se l’attività fosse stata appetibile
economicamente, sarebbe sopraggiunto mio padre,
sempre col mio aiuto, nel dopo scuola.
Fu per la famiglia una svolta importante. Molto
impegnativa, per i lunghi orari, e per i giorni festivi e
prefestivi lavorativi, e specialmente per mia mamma. Però
si guadagnava molto. Dopo un po’, verificata la
convenienza, papà si licenziò, smise di fare il falegname
dipendente, attività che ormai non l’entusiasmava più
tanto, e decise così di gestire, in proprio, il distributore di
benzina, assieme alla mamma.
È stato un periodo nel quale la situazione economica
andava alla grande, lo ricordo bene, perché aiutavo la sera
mio padre, anche nella conta dei soldi che incassava.
Mazzette e pacchetti di cento, mille, e cinquemila lire, in
filigrana, e il confezionamento di pacchetti tubolari di
monete e monetine, il tutto ordinato per taglie.
Riempivamo tutte le sere un borsello di pelle a tracolla,
che poi l’indomani mattina mio padre versava tutto sul
conto in banca. Il benessere che cresceva era tangibile. Mio
padre e noi tutti eravamo felici ed entusiasti.
24
CAPITOLO 6
Non mollare mai
Si lavorava tanto (14 ore al giorno, sabato e domenica
compresi), però si guadagnava discretamente. I miei
genitori decisero presto l’acquisto del frigorifero, del
televisore e la sostituzione della Topolino con una nuova
automobile, la Simca 1000. Con grande orgoglio e
soddisfazione andammo in ferie ad agosto, in un
campeggio di Marina di Misano e qualche giorno anche a
Corato. Alla mia promozione arrivò una bicicletta tutta
cromata, e l’anno dopo una Vespa 50, nuova fiammante.
Tutto sembrava volgere per il meglio ma, anche stavolta,
il destino aveva in serbo l’ennesimo colpo.
Un colpo durissimo, la scomparsa improvvisa del
motore della nostra famiglia: mia madre. Si era sposata
con mio padre che aveva vent’anni. Era il punto di
riferimento e di saggezza della famiglia, il pilastro
portante. Non comprava mai niente se non otteneva lo
sconto desiderato. E fu, per me, una buona scuola.
Curava, consolava e coccolava mio padre, anche quando,
non trovando lavoro, egli beveva qualche bicchiere di
vino in più, o quando soffriva di crisi asmatiche, causate
dall’eccessivo vizio del fumo. Fin da ragazzo aveva
fumato infatti oltre due pacchetti di sigarette al giorno.
Mia madre non si tirò indietro quando giunse
l’opportunità di lavorare in proprio al distributore di
benzina, seppur col mio marginale aiuto.
Ma nel giugno del 1967 per un banale intervento di
ernia, a causa di una doppia anestesia mal riuscita e di
una cattiva assistenza post-intervento, mia madre, a 39
anni, morì. Un caso classico di malasanità in quello
squallido ospedale, il Maria Vittoria di Torino, che avrei
voluto demolire. Il dolore fu straziante, lo ricordo ancora,
e tutti fummo assaliti dalla disperazione. Il mondo ci
precipitò addosso, eravamo allo sfascio, bisognava
ricominciare tutto da capo. Senza una guida, senza più il
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faro della nostra vita. Fu dura, durissima e ci rialzammo
anche quella volta. Mio padre, non potendo accudire
personalmente in particolare il terzo figlio, il piccolo Tony,
accolse in casa una compagna (per noi un’intrusa) e da
quel momento cominciammo a non vedere l’ora di andar
via di casa, che, in fondo, era quello che sperava la
terribile matrigna.
Presto mi sposai con la dolcissima Gianna. Qualche
anno dopo mia sorella Liliana andò a vivere assieme al
piccolo Tony, finché entrambi si sposarono felicemente:
Tony con Patrizia, e successivamente Liliana con Matteo.
Fu l’inizio di un nuovo ciclo di un’altra vita. Non vorrei
sembrare bigotto, ma io «credo e sento», specialmente nei
momenti di difficoltà, che lo spirito della mia mamma era
ed è sempre presente, che ci ha seguiti e protetti nel
percorso della vita. Spesso ho avuto e sentivo il bisogno di
lei, ed io credo che quando la pensavo intensamente, lei
c’era, sempre.
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PARTE SECONDA
ANNI 1970-1980
CAPITOLO 7
L’evoluzione del pensiero
L’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta è un Paese dai
due volti. Da un lato c’è l’Italia della lotta politica, della
violenza e degli scontri, rappresentata in particolare
dall’occupazione del 1950 da parte dei contadini delle terre
dei latifondisti culminate con l’intervento delle forze
dell’ordine; dagli scontri tra polizia e comunisti iniziati nel
1951 in occasione della visita di Eisenhower, comandante
delle truppe americane schierate in Europa, da quelli del
1960, relativi al momento in cui il Movimento Sociale
ratificò a Genova il proprio appoggio esterno al Governo
democristiano e infine, naturalmente, dagli sconti derivanti
dall’occupazione delle Università da parte della cosiddetta
sinistra extraparlamentare del 1968 e dall’autunno caldo
delle manifestazioni e degli scioperi del 1969.
Dall’altro lato c’è però l’Italia del primo Festival di
Sanremo, con la sua prima edizione del 1951 vinta da
Nilla Pizzi, delle epiche ed appassionanti battaglie tra
Coppi e Bartali al Tour de France del 1952, dell’inizio del
miracolo economico, della nascita della Tv, del lancio della
600, la prima utilitaria per tutti, delle olimpiadi invernali
del 1956 a Cortina d’Ampezzo e di quelle del 1960 a
Roma, della Dolce Vita di Federico Fellini, e naturalmente
dei nuovi fenomeni musicali che fanno impazzire i
giovani di mezzo mondo, dai Beatles ai Rolling Stones,
fino al concerto di Woodstock del 1969 con i suoi molti
artisti, fra i quali impossibile non citare Jimi Hendrix.
Un periodo difficile per compiere 18 anni. Eppure il 13
aprile del 1968 compii 18 anni. Con molto entusiasmo,
iniziai a pensare da maggiorenne, sentivo il bisogno di
comportarmi da emancipato, da indipendente. Sentivo la
necessità di cambiare, di rompere gli schemi, volevo
essere diverso: erano gli anni gloriosi, entrati poi nella
storia moderna, gli anni della contestazione giovanile,
benché diversa da come la si descrisse generalizzando e
29
assegnandole una connotazione politica, dando al ‘68 un
senso di rivoluzione, di movimenti di destra o di sinistra,
a seconda di chi la raccontava.
Per me, più che un movimento rivoluzionario, è stato
un’evoluzione del pensiero. C’era la voglia sfrenata di
cambiare il modo di essere, di crescere, e tuttavia, anche di
divertirsi. Della politica poco importava. Volevamo solo
essere diversi dai nostri genitori, volevamo cambiare;
vestiti originali, fai da te, pantaloni a zampa d’elefante,
magliette sgargianti, tuniche alla figli dei fiori, capelli
lunghi, tagliati alla Beatles o alla Jimi Hendrix, musica e
musica, pop e «rhythm&blues» di Otis Redding, Joe
Cocker, James Brown.
Questi modi di agire, questi cambiamenti, diventavano
nuove mode che, in generale, non erano né capite, né
accettate dalla vecchia generazione e ancor meno da mio
padre. Anzi le vietava e le disprezzava, le considerava
negative per il corpo e per lo spirito. Fu motivo d’evidente
malumore e contestazione in casa, e l’inizio di un
progressivo distacco dalla figura paterna. Tramontava
così ai miei occhi il mito, l’eroe, non accettai più il suo
atteggiamento dominante e patriarcale. Era un’ulteriore
svolta nel percorso del mio destino.
Ad onor del vero, non avevo una gran voglia di studiare
e tanto meno di lavorare. Facevo il minimo
indispensabile, preferivo suonare il sax nel complesso
rock «Gli Innominati» o andare a ballare nelle discoteche
torinesi. Avevo anche fondato una sorta di Club,
organizzando viaggi e gite domenicali: «Teen Agers of
Turin Pedro’s Trips» con tanto di tessera personale, la
«Personal Card» che dava la possibilità al socio di poter
invitare amici. Il successo fu clamoroso. Le adesioni erano
tali che alcune volte ho dovuto noleggiare due autobus,
guadagnando i primi soldini. Emerse, proprio in quel
periodo, un primo e spiccato senso del business. Avevo
imparato per auto-apprendimento la formula
commerciale: «Ricavi – Costi = Guadagno».
30
CAPITOLO 8
La scintilla
In questo periodo della vita però prendeva anche corpo
una piccola persecuzione: il furto delle mie cose. Mi
«fregavano» sempre qualcosa. Il triciclo, le biciclette, poi
la Vespa 50 nuova di zecca. Cominciavo a credere a mio
padre che mi ripeteva sempre che ero un fesso a lasciare
le cose incustodite. Forse lo ero davvero un po’ fesso? Non
sapevo proprio come e cosa dovevo fare per diventare un
po’ più furbo, però ci pensavo spesso.
Ancor prima di compiere i diciotto anni, mi preparai da
privatista, studiando da solo il Codice della strada e tutto
quello che bisognava sapere per conseguire la patente. La
pratica della guida me la fece fare mio padre con la sua
Simca 1000. Fui promosso al primo colpo e appena
maggiorenne mio padre mi regalò una splendida
Innocenti spider rossa con capote bianca. Era usata, ovvio,
ma era un vero spettacolo. Roba da vero «figlio di papà»
e onestamente un po’ lo ero perché il distributore di
benzina andava bene. Nel doposcuola, saltuariamente
aiutavo, appunto, mio padre nel lavoro ma ovviamente
preferivo sfrecciare col mio spider rosso, andare in
discoteca e ritornare a casa sempre più tardi.
Una notte, al rientro, c’era papà ad attendermi sul
balcone di casa, mi seguì con lo sguardo salutandomi con
un gesto. Parcheggiai la macchina nella strada,
apprestandomi a salire in casa. Pochi minuti dopo ero già
coricato nel letto quando, inspiegabilmente, sentii papà,
che sul balcone, gridava, chiamandomi: «Mimmo,
Mimmo... dove stai ancora andando, a quest’ora?».
«Mimmo, Mimmo…», mentre lo spider partì sgommando
come un missile. La mia bella spider rossa fu inghiottita
dalla notte e non la ritrovai mai più.
Cercai un lavoro e grazie al mio migliore amico, Stefano,
«Ste», conobbi e fui assunto come «cablatore» da
un’azienda di automazione industriale: la Fase del
31
Gruppo Comau. Con i risparmi dei primi stipendi, mi
comprai una Cinquecento usata, che pagai cinquantamila
lire, la trasformai in Abarth elaborando il motore e la
carrozzeria e inventandomi il vero, il primo, originale
antifurto a spinotto: se non s’inseriva lo spinotto, il Jack
estraibile occultato sotto il cruscotto, non partiva il
motorino di avviamento, poiché si interrompeva il polo
elettrico positivo.
Con quella semplice soluzione non ho più subito il furto
d’auto, né io né i miei amici che l’adottarono. Non solo: il
dispositivo mi fece anche capire che nella vita, piuttosto
che subire, è meglio inventarsi qualcosa per prevenire.
Credere, costruire e perseguire le proprie soluzioni.
Preveggenza? Ironia della sorte? Decenni dopo, con Viasat
mi ritrovai nuovamente a risolvere problemi di furti
d’auto, utilizzando «sistemi satellitari» che tramite un
semplice relé, interrompono il circuito elettrico,
impedendo l’avviamento del motore ed inviando
l’allarme alla centrale operativa.
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CAPITOLO 9
Tutto cambia, giorno dopo giorno
È incredibile come tutto possa cambiare nella vita, da un
momento all’altro; ed è curioso e formativo analizzare le
motivazioni e la forza propulsiva che spinge a fare
determinate cose piuttosto che altre. Nella pratica e nella
vita ne consegue l’andare in una direzione piuttosto che in
un’altra e trovarsi, in un secondo tempo, in una realtà
all’infuori d’ogni preventiva immaginazione, addossando
il merito o la colpa al destino.
Il destino in ogni caso, secondo me, è un qualcosa che
ognuno, man mano, modella con le proprie mani, con la
propria opera, con le proprie scelte. Giorno dopo giorno.
Credo fermamente che tutto nasca dalle motivazioni. Fin
dall’infanzia, da bambini si auto-apprende a mangiare, a
camminare, a parlare, a scrivere, per la voglia naturale di
crescere. Da ragazzi poi s’inizia a sognare. Io sognavo
anche da sveglio, sognavo di fare sempre qualcosa di
nuovo, di originale, pensando però sempre alle belle
fanciulle. Ma poi, nell’arco di dodici mesi tra il 1973 e il
1974, accadde di tutto. Credo che quel periodo sia stato il
più sconvolgente della mia vita.
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CAPITOLO 10
«L’elettronica intra l’industri, aintrerà mai»
L’elettronica dentro l’industria, non entrerà mai
Era fondamentale completare gli studi. Diedi così
l’esame di maturità che terminai con successo. Iniziai da
subito altri esami, quelli della vita, quelli pratici, quelli del
giorno dopo giorno. Con in mano il diploma d’elettronica,
mi impegnai a fare qualcosa di coerente. Bisogna tuttavia
ricordare che in quei tempi l’elettronica era un’attività da
«marziani». Le industrie nel settore elettronico in Italia
erano in pratica inesistenti, e pochi credevano in uno
sviluppo imminente.
Il mio primo (ed unico) datore di lavoro, Alfredo Pivi,
amministratore della Fase del Gruppo Comau, società
specializzata nella fornitura d’impianti d’automazione
industriale per il Gruppo Fiat, mi ammoniva col dito
puntato all’insù, dicendomi: «L’elettronica intra l’industri,
aintrerà mai», («L’elettronica dentro l’industria, non
entrerà mai»). «Con dui relè, a sfà tut» («Con due relè, si
può fare di tutto»). Ovvero, secondo lui, l’elettronica non
si sarebbe mai sviluppata. Bell’incoraggiamento per chi
aveva frequentato sei anni sofferti di scuola serale e per
chi si era appena diplomato in elettronica.
Tuttavia, e forse fortunatamente, aggiunse: «Ca’ vol fè
l’elettronic? Ca’ la fasa a ca’ sua!». «Vuol fare l’elettronica?
Se la faccia a casa sua!». Lo presi in parola. Detto, fatto,
trovai un locale predisposto allo scopo. Un appartamento
al pianterreno del condominio di Via Pacchiotti 18, con un
ampio locale dove attrezzai il primo laboratorio
elettronico. Costituii così la Minuzzo Sas, ed iniziai a
progettare e realizzare i primi prototipi e piccole serie di
dispositivi e schede elettroniche per le apparecchiature
elettriche che fornivamo alla Comau.
Da quel momento avevo due attività; una come
dipendente e l’altra come neo-imprenditore. Coinvolsi
subito parenti ed amici: Gianni Schiavon compagno di
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classe, mia sorella Liliana, la sorella di Gianna,
Mariangela, mio suocero Lindo nel tempo libero, le tre
sorelle Sia, e poi ancora altri amici e conoscenti. Iniziai ad
insegnare loro tutti i concetti fondamentali di come si
maneggiavano i micro-circuiti elettronici e a mostrargli
come montare e saldare a mano i componenti sui circuiti
stampati, assemblare gruppi e sottogruppi di dispositivi
elettronici, nonché ad offrire e vendere le prime
prestazioni di montaggio e assemblaggio di schede
elettroniche, in sub-fornitura, con materiale fornito in
conto lavorazione.
Ero orgoglioso di cosa stavo realizzando. E la vita corse
più veloce del pensiero: a meno di 24 anni contrassi un
mutuo immobiliare e comprai un piccolo appartamento,
mi sposai e presto diventai papà. In quel periodo l’intuito
diceva certamente tante cose. Ho meditato subito sugli
eventi stravolgenti. Ho pensato alla mia infanzia. Ho
immaginato d’istinto che non dovevo assolutamente far
mancare quello che era mancato a me da bambino. La
mamma, le cose primarie, una bella casa. Insomma, far
vivere bene la mia neo-famiglia.
Dovevo ad ogni costo «realizzare qualcosa di speciale»
per la mia dolce Gianna, per mia figlia Barbara e già
pensavo ad un altro figlio per consolidare e rafforzare il
nucleo familiare e presto arrivò Marco. Erano anni difficili,
però, ancora una volta: l’Italia degli anni Settanta era
ancora un Paese alla ricerca di un equilibrio tra le spinte
politiche e sociali di destra e quelle di sinistra.
Io credo comunque che fin da bambini si sia, in qualche
modo, condizionati e «formattati» dai propri genitori e
dalla realtà in cui si vive e si cresce, reagendo ed
adeguandosi di conseguenza all’ambiente circostante. È
così normalmente e naturalmente per ogni essere vivente,
persino nel mondo animale e vegetale. C’è infatti una bella
differenza tra vivere in un paesino del sud o in una
periferia di una grande città, o in una casa lussuosa di
Manhattan, piuttosto che in una giungla.
A differenza di tutti gli altri esseri viventi, l’uomo può
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reagire con intelligenza, cambiando habitat, abitudini e
condizione di vita. Basta volerlo. Bisogna però lottare e
perseverare per ottenere ciò che fortemente si desidera.
Questo è quanto sosteneva mio padre. E questo principio,
fin da ragazzo, ha caratterizzato il mio carattere.
Da Corato alla periferia di Torino, grazie al coraggio e
alle scelte di mio padre. Era già un bel successo, e tuttavia
non ero soddisfatto. Desideravo e ambivo fare qualcosa di
più importante: terminato definitivamente il periodo
spensierato, dedicai anima e corpo a realizzare e
migliorare lo status-quo, lavoravo come non mai, dalle
dodici alle sedici ore per giorno. Con un doppio impegno:
in Fase, come dipendente, lavorando dal mattino fino al
tardo pomeriggio, e poi alla Minuzzo fino a tarda sera, a
volte anche di notte, sabato e domenica, e ciononostante
non mi pesava perché ero fortemente motivato. Stavo
costruendo qualcosa di mio, lavorando, per consentire di
operare e progettare per conto proprio.
La quantità di lavoro aumentava ed in poco tempo il
laboratorio di Via Pacchiotti diventò piccolo ed
inadeguato. Decisi quindi di acquistare addirittura un
nuovo locale. Cercai e ricercai, finché capitò
un’opportunità di un ampio, basso fabbricato in Via G.
Borsi. Ironia del destino, era il luogo dove una volta c’era
un prato e da bambino andavo a giocare. Al momento
della decisione, ricordai e mi rapportai alla storia della
canzone, «Il ragazzo della Via Gluck».
Ebbi fiducia nel destino, mi piaceva l’idea di realizzare
qualcosa lì, proprio in quel luogo, dove avevo vissuto la
mia infanzia. Così decisi di costituire la nuova sede,
nacque la Elem (Elettrotecnica-Elettronica-Montaggi)
trasferendo il laboratorio di Via Picchiotti e l’officina
elettronica di Strada delle Vallette che nel frattempo avevo
rilevato dalla Fase. Iniziai ad assumere, oltre ai dipendenti
della Minuzzo, una decina di giovani promettenti
ragazze. Dovevano essere belle, intelligenti ma
soprattutto veloci. Le dattilografe erano ideali per i
montaggi manuali, dovevano solo aver voglia di cambiare
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specializzazione, imparare come manipolare i componenti
elettronici ed avere tanta voglia di lavorare. Io facevo da
formatore, allenatore e davo l’esempio. Bisognava «fare
ed insegnare» un nuovo mestiere alle nuove leve.
Ero entusiasta e caricato alla massima potenza; le cose
giravano bene, nonostante la «crisi del petrolio» e la
«guerra del Golfo». Mi convinsi che ognuno può costruirsi
la propria nicchia esistenziale, a dispetto delle crisi sociali,
anche nelle difficoltà circostanti, individuando
opportunità e minacce del momento, e agire di
conseguenza, sfruttando le possibili opportunità. Iniziai
conseguentemente a consolidare anche la posizione
economica.
Acquistai
per
le
vacanze
un
bell’appartamento a Torre del Mare, e poco dopo in
montagna, alla Magdaleine.
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CAPITOLO 11
Tutto cominciò dall’elettronica industriale
A trentatré anni, ottenni la dirigenza e la direzione
generale della Fase. In quegli anni ero fortemente
determinato a convincere ad introdurre progressivamente
l’elettronica nel settore industriale, ambiente conservatore
e molto ostile alle innovazioni elettroniche. Malgrado ciò,
realizzammo il primo controllo di saldatura con
tecnologia TTL, poi in Cmos; e successivamente a microprocessore, la prima centralina a logica programmabile,
la Celp, il primo controllo numerico per i robot Polar e
Smart, il controllore Flex Control per la Comau e poi
ancora altro.
E tutto ciò con un impegno e una fatica indescrivibile
nel far funzionare sistemi innovativi così complessi e
sensibili, in ambienti produttivi non perfettamente
adeguati, con problemi elettrostatici e interferenze
elettromagnetiche ed elettromeccaniche. Ciononostante,
misi in pratica in pochi anni una quantità notevole di
progetti. Parimenti, perseguii anche un gran numero di
iniziative anche in ambito familiare, sempre con
entusiasmo ed esaltazione. Ero molto soddisfatto,
ciononostante non ero tranquillo, ero preoccupato.
La situazione del lavoro, purtroppo, a mio avviso e
sensazione, non era stabile; il tutto era troppo
condizionato, nel bene e nel male, da fatti non dominabili.
La Fase era limitata dalla Comau, che a sua volta
dipendeva da Fiat, dove la situazione di «controllo» era
molto instabile. Avevo «l’oppressione ed il timore» che da
un giorno all’altro tutto poteva crollare, col rischio di
ritrovarmi nuovamente a vivere in un borgo di periferia e
ritornare al «punto d’origine».
D’altronde, la situazione in Fase stava cambiando
velocemente. Alfredo Pivi, amministratore ed azionista,
aveva venduto le proprie quote azionarie, uscendo di
scena, ed era stato sostituito da nuovi azionisti, i quali
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dichiararono che non intendevano più investire in attività
di progettazione e produzione. Preferivano, piuttosto che
produrre, commercializzare l’elettronica, comprando e
rivendendo i controllori americani della Texas Instrument
e i robot giapponesi della Fanuc, con cui avevano un
accordo di esclusiva. Pur non avendo certezze, intuii che la
sopravvivenza della Fase era a rischio e conseguentemente
anche quella della Elem.
In un colloquio infuocato col nuovo amministratore,
contestai e sconsigliai le nuove strategie non più industriali
ma puramente finanziarie. In quell’occasione, capii che
stavano raggruppando aziende con l’obiettivo di
consolidarle e apportarle come dote per un concambio in
un’importante operazione prettamente d’ingegneria
finanziaria, da perseguire con una nota azienda industriale
di cui preferisco non citare il nome.
Mi chiesero, senza mezzi termini, di cedere a condizioni
ridicole la maggioranza della Elem, per poi integrarla col
nascente Gruppo, ma con l’intimidazione e la minaccia che,
se non avessi accettato, non avrei più lavorato per loro,
asserendo che senza la Fase sarei andato a chiedere
l’elemosina davanti alla Gran Madre.
Conclusioni: chiusi la conversazione, rispondendo con
orgoglio e a tono, dicendo «che avevano bisogno della Elem
e di me, più di quanto io avessi bisogno di loro». Subito
dopo consegnai la lettera di dimissioni, ma per intere notti
fui assalito dall’angoscia.
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CAPITOLO 12
Per inseguire un sogno
Lasciare la Fase fu una scelta difficile, ma va detto che
ancora oggi la benedico. E ripenso a quei giorni nei
colloqui di lavoro, quando mi trovo davanti dei giovani
che vogliono lavorare con me. Se qualcuno mi dice
«gestire», è finita, non c’è niente da gestire. Bisogna
sviluppare, non cerco mai manager, ma «Intraprenditori».
Quando mi trovo davanti un giovane che vuole entrare
nel mondo del lavoro la prima cosa che guardo sempre è
se è un tipo che sogna, che ha già in mente più o meno
quello che vuole fare da grande. Spesso non è una cosa
facile, non voglio mai offendere il mio interlocutore, ma
capire se un giovane ha in testa della creatività, se ha dei
sogni da realizzare è importantissimo.
D’altra parte se dietro un sogno c’è un progetto
perseguito con passione, quest’ultimo di sicuro inizia a
prendere forma. La chiave del successo infatti è proprio il
fatto che prima o poi bisogna sempre attivarsi per
realizzarlo. Difficilmente un sogno si realizza da solo.
Se infatti non fai mai nulla per inseguire i tuoi sogni non
vai da nessuna parte. Se hai paura di uscire dal porto
rimani sempre lì. Ma se invece hai il coraggio di mollare
gli ormeggi e uscire dal porto, cominci a navigare.
Cominci a vivere. Questa è la vita. La vita è fatta di
imprevisti e ostacoli, di barriere da superare. Ecco, io un
ragazzo lo misuro proprio da questa sua capacità di avere
progetti, sogni, anche dal punto di vista della formazione:
è importantissimo capire se sta seguendo un percorso
legato al suo progetto o se invece si fa guidare dalla
società, dal suo capo, dalla mamma o dal papà. Torniamo
un po’ al concetto di dominare o di esser dominati, è vero,
ma è sempre l’uomo che decide se subire o essere
protagonista.
Nei colloqui di lavoro poi è fondamentale anche vedere
cosa sa il mio aspirante collaboratore del nostro Gruppo,
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cosa sa di noi. Se si è informato. Sembra impossibile ma
un gran numero di persone «bussa alla porta» con idee e
progetti confusi e senza nemmeno sapere con chi sta
parlando. Ed è chiaro che non c’è storia. Ai colloqui si
viene a dire cose, non ad ascoltare. Non solo. Non solo
bisogna aver studiato noi, ma anche i nostri competitor,
un aspetto importantissimo specialmente per l’area
commerciale. Chi è il più bello del reame?
Ma torniamo ai sogni. È vero che se il sogno non si
realizza mai si può trasformare in un incubo. Sono
d’accordo. Ma non si può ignorare il fatto che quando una
persona ha un progetto, può anche darsi che non lo
realizzi, ma se insiste ci va vicino, ed è già qualcosa.
Qualcosa di importante perché se poi non ti attivi rimani
sempre lì. Sognare, progettare, attivarsi con
determinazione e passione, perseguire i propri sogni, i
propri progetti motiva la propria esistenza.
Non accetto mai quando uno dice «hai avuto fortuna».
Io sono arrivato a Torino che ero bambino. E mio papà ha
avuto l’idea di osare, di fare un percorso. Di cambiare la
vita. Lui era un ebanista, un artista che dal tronco faceva
tutto. Il fatto di fare e realizzare le cose forse è nel sangue,
nel Dna. La fortuna sei tu che la costruisci. Certo, ci rientra
la salute. Ma è la quantità di tempo che dedichi al progetto
che fa la differenza.
Mettiamo di avere lo stesso sogno. Andiamo a scuola
insieme. Due amici. Il mio amico è bravissimo, io un po’
meno. Ci diplomiamo insieme, poi andiamo a lavorare,
ma la quantità di ore – fisiche – che io dedico alla mia
attività è tripla a quella del mio amico. Io inseguo un
sogno, lui no. Io ho fatto il mio percorso, lui faceva solo 5
ore di lavoro e io 15: non c’è stata partita. La morale? Se
dedichi il doppio del tempo al lavoro, vale doppio. È
come un atleta. C’è una differenza fra uno che si allena
una sola volta alla settimana e uno che lo fa ogni giorno?
Non è questione di essere stacanovisti, ma di mettere il
cuore nelle cose: la differenza, in ogni caso, sta sempre
nell’impegno che dedichiamo ad una certa cosa.
41
E poi c’è l’importanza di essere attivi, positivi.
Personalmente ho l’esempio di un mio caro amico: era
attivissimo, aveva un bel lavoro, era molto appassionato.
Oggi è in pensione, afflitto. La positività e la voglia di
guardare avanti sono invece fondamentali, non bisogna
mai abbattersi, bisogna essere attivi, non mollare mai.
Avere sempre stimoli. Tutto deve e può ancora succedere.
42
CAPITOLO 13
E tutto succede
Ed è proprio con lo spirito del «tutto può succedere» che
lasciai la Fase. Certo, c’era tanto rammarico e, anche, un
po’ di delusione dopo dodici anni di duro ed intenso
lavoro. Lasciavo un centinaio di «compagni di viaggio»,
di amici, che negli anni avevo selezionato: apprezzavo il
loro valore, ciò nondimeno avevo anche appreso e
imparato molto anch’io da loro. Volevo bene a tutti, e
altrettanto loro mi volevano bene.
Raccomandai loro, emozionato, di continuare a lavorare
con impegno e professionalità, così come avevano sempre
dimostrato. Fu un addio commovente. Mi regalarono una
cartella in pelle (che ancora conservo). Lasciavo per
sempre un pezzo del mio cuore, un pezzo del mio passato,
della mia vita. Quello fu un altro momento fondamentale
e decisivo del mio percorso: da questo momento planavo,
solo, a volo libero e senza paracadute.
Erano quelli gli anni del superamento del comunismo e
la sua fine viaggiò a braccetto con la fine
dell’imperialismo sovietico, grazie soprattutto alla politica
illuminata di Mikael Gorbaciov e di Boris Eltsin. Agli inizi
degli anni Ottanta il passo del cambiamento è segnato dal
boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca da parte di
quindici Paesi come segno di protesta contro l’invasione
sovietica dell’Afghanistan, che si tramuterà in decennale
occupazione militare fino al 1988. Sono gli anni della fine
del leader rumeno Ceausescu, del crollo del muro di
Berlino e del giovane cinese che in Piazza Tienanmen
tenne in scacco un carro armato piazzandoglisi davanti.
Seppur l’Europa, almeno quella occidentale, ha
sperimentato i benefici della pace duratura, la guerra
continua ad essere un male dal quale gli uomini fanno
fatica ad affrancarsi. Nel 1982 Israele invade il Libano,
l’Argentina occupa le isole britanniche Falkland, tra Iraq
e Iran scoppia una guerra decennale le cui conseguenze
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dureranno ben oltre l’inizio del terzo millennio. Solo
pochi anni dopo avranno luogo anche le due guerre del
Golfo e le guerre dei Balcani, con tutti i loro orrori.
Si diffondono i computer negli uffici e nelle abitazioni.
Nel 1977 escono un nuovo Apple e il PC IBM che
rivoluzionano il modo di lavorare. In quegli stessi anni
escono i primi home computer Commodore 64, Amiga,
Spectrum, Atari. Si diffondono inoltre i supporti
magnetici a nastro VHS e musicassetta. I ragazzini con le
cuffie del Walkman diventano un’icona del tempo.
La mia situazione era difficile. Ero molto preoccupato,
ma più che sperare ho iniziato a lottare disperatamente.
Per orgoglio, per bisogno e per la sopravvivenza, volevo
e dovevo dimostrare che potevo farcela anche senza la
Fase. Sapevo benissimo che dovevo combattere
duramente per ottenere ciò che volevo. Avevo in mente
sogni, progetti, piani e competenze. Bisognava solamente
lavorare, lavorare, lavorare. Voglia ed entusiasmo non mi
mancavano. Ecco uno di quei momenti in cui bisogna
«uscire dal porto», uno di quei momenti fondamentali
della vita.
In ogni caso nella Fase fui prontamente sostituito.
Nell’arco di pochi mesi annullarono ordini e commesse di
lavoro verso Elem. L’intenzione era chiara e dichiarata.
Ognuno per la propria strada. L’ironia della sorte fu che la
strada della Fase si restrinse, non si evolse più di tanto,
anzi, come avevo anticipatamente intuito, terminò in un
vicolo cieco. Dopo qualche anno alcuni rami aziendali
furono smembrati e svenduti. In più occasioni mi
chiesero, nientemeno, di acquisirla, ma non essendoci più
le condizioni rinunciai. In seguito venne «spezzettata» e
messa miseramente in liquidazione.
44
CAPITOLO 14
La rivincita, col focus nell’elettronica professionale
1984. Forte di un discreto bagaglio di conoscenze
«tecnologiche-industriali» e di un’innata propensione a
raccogliere le sfide nei cambiamenti e nell’innovazione,
m’impegnai ancor di più, anima e corpo, nell’agire in
prima persona, focalizzandomi in tutte le opportunità
compatibili con le mie competenze e strutture produttive.
E coerente con il core business della mia piccola e giovane
azienda. Il primo obiettivo era il miglioramento di quanto
avevo già realizzato, e in seconda battuta, lo sviluppo
strutturale e organizzativo della Elem.
Ma non era facile: i rischi e le incertezze erano enormi,
senza avere ordini da parte di Fase, e in generale dal
Gruppo Fiat, l’azienda aveva una strada tutta in salita.
Nei primi mesi dormivo pochissimo, ma proprio in quel
periodo da temerario ed esperto navigatore solitario di
«mari agitati», maturai una metafora tra «navigazione e
vita corrente», destreggiandomi nella realtà del momento
e nella possibilità di assemblare schede elettroniche per la
nascente industria informatica, individuando nuove rotte
e nuovi obiettivi alternativi e sfruttando l’onda lunga del
momento, cavalcandola con coraggio e determinazione.
Così l’anno successivo trasferii le attività della Elem
Elettronica dal basso fabbricato di Via Borsi a Via Massari,
in un complesso con un’officina che inizialmente
sembrava eccessivamente grande (circa ottocento metri
quadrati). Realizzai così il primo sogno: il compimento
del primo nucleo industriale, completo di struttura
produttiva con esperti di ingegneria di produzione, di
automazione, uffici direzionali ed amministrativi, il tutto
arredato rigorosamente in stile moderno, con una visione
futuristica, avvalendomi delle idee originali dell’architetto
Gozzellino.
Gran risalto era dato dall’arredamento e dall’impatto
della bellissima reception, che mi affrettai poi ad
45
impreziosire con l’altrettanto bella centralinista Carmen
più tardi sostituita dalla giovanissima e fedelissima Anna
Mugavero la quale divenne la bella e attraente «icona
della Elem», e in seguito, la mia efficiente assistente,
sostituita nella reception e come immagin-design
dall’altrettanto bella e creativa Susan, «l’olandesona».
Sembra un vezzo o una cosa futile, ma già ritenevo
l’immagine molto importante: il biglietto da visita per il
futuro. Ho sempre creduto che Alexis Carrel avesse colto
nel giusto quando sosteneva che «nella scienza abbiamo
soprattutto bisogno di immaginazione. Non tutto è
matematica, non tutto è logica, ma è piuttosto poesia e
bellezza».
Iniziai così a creare un’opportuna e adeguata immagine
d’azienda, completa e autonoma, aumentando capability
tecniche, produttive e gestionali, tali da poter operare con
realtà multinazionali quali Tecnost, Bull e Olivetti, e creare
i presupposti per lavorare per la mitica IBM. Furono anni
fibrillanti. L’Olivetti produceva come non mai i primi
computer «M20» col proprio marchio e per conto terzi, tra
i quali l’americana AT&T. Per aumentare capacità
produttive, flessibilità e nello stesso tempo ridurre i costi,
utilizzava una miriade di fornitori esterni, tra cui la Elem
che in breve tempo divenne il primo fornitore di schede
elettroniche a livello nazionale, arrivando a produrre oltre
cinquecentomila schede all’anno, tra Mother-Board per
personal computer, schede per stampanti e fotocopiatrici
Canon.
Nel frattempo acquisimmo le prime nuove macchine
automatiche per montare componenti Smd a tecnologia
superficiale, una linea per saldatura rifusione, macchine
per collaudo automatico «In-circuit Ict», e progettammo
e realizzammo la prima linea completamente automatica
per saldatura ed assemblaggio, velocizzando i tempi ciclo
e riducendo conseguentemente i costi di produzione.
Ma c’era la possibilità di fare molto di più, era chiaro.
Solo che avevamo davvero poco tempo, stritolati come
eravamo dal poco spazio e dalle limitate macchine
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produttive disponibili. Per fare di più, occorreva un altro
stabilimento e bisognava aumentare le risorse operative.
Bisognava però fare presto per non perdere le opportunità
del momento.
Iniziai così una ricerca affannosa di nuovi spazi. Nelle
vicinanze dell’uscita della tangenziale di Venaria,
individuai uno stabilimento di oltre tremila metri
quadrati, su un’area di oltre diecimila, in un recente
comprensorio industriale, nei pressi del quale stavano
iniziando la costruzione del nuovo Stadio delle Alpi.
L’intuizione e la decisione furono immediate.
Acquistai con un investimento rilevante il primo
stabilimento di Via Aosta 20 a Venaria Reale, con
l’obiettivo e il progetto di re-ingegnerizzare due aree
produttive su due piani: l’impresa sembrava faraonica.
C’era anche la possibilità, che sfruttai subito, di
raddoppiare l’area utile con l’edificazione di un secondo
piano, sfruttando la licenza di concessione e realizzare
così un complesso di oltre seimila metri quadrati, con
l’opportunità di aumentare contestualmente anche il
valore commerciale dell’immobile.
Così, a tempo di record, in appena 12 mesi
completammo le strutture murali e, con sincronismo
perfetto, arrivarono i moduli per le nuove isole
automatiche d’assemblaggio, le nuove «Pick end place»
Panasonic, le più veloci e le migliori al mondo, la nuova
linea automatica di saldatura e lavaggio con controllo
della contaminazione ionica, che garantiva un livello
inferiore a «un microgrammo al centimetro quadrato».
Lavorammo ininterrottamente, a turni, anche nei giorni
festivi, trasferimmo al momento opportuno i reparti e
tutte le attività produttive nell’arco di sette giorni, senza
mai penalizzare le consegne delle forniture delle schede
elettroniche, che intanto producevano a ritmo frenetico in
tre turni. Ricordate il concetto di lavorare sodo, più degli
altri? Non si riferisce solo alle persone, ma anche alle
fabbriche. E con questo spirito realizzammo un layout
produttivo futuristico, in un’enorme camera bianca, unica
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nel suo genere, con ambiente controllato a temperatura e
umidità costante, immancabilmente con pavimento
antistatico e personale addetto rigorosamente in camice
bianco e zoccoli antistatici. Particolare attenzione fu la
scelta dei sistemi informatici, in grado di gestire e
controllare la contabilità integrata con i flussi di materiale
e cicli di produzione in logica giapponese just in time.
Realizzammo così un’organizzazione avveniristica di
massima efficienza, ottenendo - fra i primi in Italia - la
famosa certificazione «Iso 2001» e questa qualificazione ci
valse in seguito anche la qualifica «Babt» da parte
dell’IBM e l’avvio di importanti e complesse forniture
«top technology». Acquisimmo quindi nuove e complesse
lavorazioni high tech da Olivetti, Canon, IBM, Ericsson,
Telsy, partecipando all’evoluzione, all’integrazione e alla
convergenza tecnologica tra microcomputer, automotive,
telecomunicazione e satellitare Gps.
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CAPITOLO 15
Barca, mare, navigare, una metafora di vita
Ho sempre avuto voglia di stupire e di stupirmi, tutto
ciò che desideravo e decidevo di fare l’ho sempre fatto
con il massimo impegno ed entusiasmo; il fare, il
realizzare mi gratificava e mi esalta ancora emotivamente
e fisicamente, e questo vale sia nel lavoro che nel tempo
libero che, purtroppo, è sempre stato esiguo. Quello che
dicevo prima sul «lavorare tanto, sull’impegno»,
ovviamente ha qualche controindicazione. L’importante
è non farsi prendere dall’egoismo e dedicare il poco
tempo libero che si ha alla famiglia. Totalmente alla
famiglia. Così ho fatto io. E quel tempo fuggente alla fine
si scopre che è intenso, bellissimo.
Nei primi anni di matrimonio abbiamo iniziato a
frequentare la montagna, in particolare la Magdaleine,
dove con un gruppo di conoscenti avevamo acquistato
un terreno e costruito una casa. Unimmo e arredammo
con gusto due appartamenti, creando un nostro nido
rustico-montano, un luogo fantastico, dove ancora oggi
d’estate pascolano le mucche, e d’inverno con la neve
sembra di abitare in un presepio vivente. Gianna, io e i
bambini facevamo lunghissime passeggiate per i sentieri
che univano la valle della Magdaleine con Chamonix.
Gianna preparava le provviste nello zaino da picnic, e poi
su per il sentiero, che d’inverno si trasformava in pista
da fondo, fino al lago Lood, a circa milleottocento metri.
Era straordinario. Intorno al laghetto, azzurro come il
cielo, c’erano pinete attrezzate con panche e tavoli rustici,
fatti con tronchi d’abete, e barbecue di pietra.
Bello, ma non nascondo però che la mia vera passione
è il mare, la navigazione, la barca. Così acquistammo un
appartamento a Torre del Mare. È proprio lì che
stringemmo una cara amicizia con Enrico Beretta.
Decidemmo assieme di comprare due barchette in resina
e motore fuoribordo, per andare a pescare e fare gite in
mare, tra l’isola di Bergeggi e l’isola Gallinara.
49
Con i Beretta, che avevano anch’essi due bambini,
andavamo con le rispettive barchette ad ancorarci nelle
baie più belle della zona. La più gettonata era la Baia dei
Saraceni, dietro il capo di Varigotti. Venne naturale il fatto
di andare con Marco in barca e di lasciare che Barbara
andasse in montagna con i nonni. Era abbastanza
frequente, tanto quanto è bastato per accentuare
preferenze e tendenze, che credo perdurarono anche
quando divennero ragazzi e poi adulti, a conferma che
«sogni, tendenze e carattere si formano non a caso, fin da
bambini».
Oggi Barbara non ama il mare, preferisce la montagna.
Mi chiedo se per caso sia stata mia la colpa. In effetti,
qualche esagerazione sulle mie preferenze c’è stata. Il
dubbio mi sorge pensando a quando era ancora bambina,
e in particolare a quella volta, forse quell’unica volta che
decidemmo di portare entrambi i bambini in crociera. In
quel tempo avevo un motoscafo da otto metri con il
quale, abitualmente anche se un po’ da incoscienti,
riuscivo a sostenere l’attraversata del mar Ligure e
navigare con rotta su Calvi, in Corsica (circa novanta
miglia), per poi costeggiare verso Bonifacio, e attraverso
le Bocche arrivare fino a Palau, in Sardegna.
In una calda estate, di agosto, decidemmo, appunto, di
raggiungere la Corsica partendo da Alassio, navigando
in compagnia di amici che avevano una propria
imbarcazione, ma con poca esperienza nautica. Fin dai
primi giorni manifestarono problemi di navigazione e di
ormeggio, fortunatamente superati, anche se con qualche
difficoltà. Un giorno, poiché temevano l’attraversata delle
bocche di Bonifacio, stabilimmo di dividerci per qualche
giorno. Noi, veterani e «lupi di mare» proseguimmo per
la Sardegna, con l’intesa di ricongiungerci qualche giorno
dopo a Porto Vecchio, per poi ritornare assieme in
Liguria, navigando dalla parte orientale della Corsica,
meno esposta al vento Maestrale.
Solcammo tranquillamente le imprevedibili Bocche di
Bonifacio; il mare era bello, la navigazione piacevole. Le
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Bocche erano e sono tristemente note ai naviganti perché
spesso stravolte dal vento che soffia da Ovest, il
Maestrale, e che può rinforzare fino a burrasca e durare
da due a sei o anche a nove giorni. Quando succede,
anche i traghetti entrano in difficoltà ed è preferibile non
navigare e rifugiarsi velocemente in un porto sicuro.
Eravamo ormeggiati nel porto di Palau, quando il
Maestrale iniziò a rinforzare. Decisi istintivamente di
partire subito, per evitare di restare eventualmente
bloccati per giorni nel porto di Palau. La rotta era su
Porto Vecchio, dove c’era l’amico Valesano che ci
aspettava. Il tempo previsto per la traversata non
superava i trenta minuti di navigazione. Decisione
scellerata. Partimmo e dopo solo quindici minuti, quando
ormai eravamo nel bel mezzo delle Bocche, vento e mare
rinforzarono ad una velocità imprevedibile, si formarono
improvvisamente onde da due a tre metri, troppo per
quella barca. Quasi subito, un’onda di traverso ci
sovrastò, spruzzando violentemente acqua nel pozzetto e
nei bocchettoni di sfiato dei motori.
Tragedia: i due motori improvvisamente si fermarono e
non ci fu più verso di farli ripartire. La barca iniziò a
oscillare e beccheggiare paurosamente. Che fare? Gianna,
terrorizzata, strepitava e chiedeva aiuto. Aiuto a chi? In
quel momento ed in quella zona non si vedevano altre
imbarcazioni. I bambini rimasero senza parola, mente io
cercavo di mantenere il controllo della situazione. Gianna
non mi ascoltava, non mi sentiva, era sotto shock. Forse
per il sibilo del vento, forse per le onde del mare che
entravano violentemente nel pozzetto infradiciandoci e
rintronandoci, Gianna tremava tutta ed era in stato di
panico profondo. Per calmarla le dovetti dare un’energica
sberla e sistemarla di peso sul sedile accanto a Barbara.
Poi mi precipitai in cabina, afferrai i giubbotti di
salvataggio e li infilai addosso a lei ed ai bambini.
Rapidamente e con lucidità, mi misi alla radio WHS e
lanciai l’SOS, sperando che qualcuno fosse in ascolto e si
mettesse in contatto con noi. Purtroppo nessuno rispose.
51
Ritentai. Niente da fare.
Oltre a ciò, della serie che i guai non vengono mai da
soli, l’antenna radio, per la furia e i sobbalzi delle onde si
spezzò finendo in mare. Fine della trasmissione. Cosa
fare? Reagire, evitare il panico, non arrendersi, sono le tre
grandi livelle. Nella vita come nella navigazione.
M’infilai nel vano motore, cercando con ragionevolezza
di asciugare possibilmente le calotte, ma nel frattempo
entravano altre onde ed era impossibile operare in quelle
condizioni. Coprii spinterogeno e calotta con un
asciugamano, sperando nella buona sorte e richiusi il
gavone. Nel frattempo vidi in lontananza uno yacht che
s’avvicinava. Cominciammo a gesticolare con le braccia e
a sventolare asciugamani, come fanno i naufraghi nei
film. Nel frattempo Gianna si era ripresa, Marco, il più
tranquillo, m’incoraggiava col pensiero. Barbara sempre
silenziosa, corrugata, impassibile, ma consapevole della
gravità della situazione.
L’imbarcazione poco dopo si accostò. A bordo c’erano
un uomo un po’ inesperto e due donne. Appena ebbero
capito il pericolo e la gravità della situazione, entrarono
in panico, strillando terrorizzate mentre il capitano,
sbagliando manovra, stava per speronarci. Era impossibile avvicinarsi con quel mare e con quell’equipaggio di
imbranati, e tentare una manovra di salvataggio. Gli
gridai di lanciare l’SOS, di chiedere aiuto via radio e di
fornire le nostre coordinate. Mi ascoltò, diede l’allarme e
fortunatamente un altro yacht, presente nelle vicinanze,
venne in soccorso. Grazie a Dio era governato da «gente
di mare». Si dispose sopravento, evitando la collisione
per effetto del vento e della risacca generata dalle onde.
Mi affrettai in prua, lanciai una cima e l’assicurai al
verricello. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Nella fretta e
incoscientemente non avevo neppure indossato il
giubbotto di salvataggio. Se fossi finito in mare per me
sarebbe stata la fine. In ogni caso l’operazione di
aggancio riuscì bene, ma l’avventura non era finita,
rimorchiare una barca in un mare in tempesta non è
52
semplice. La sorte oltretutto continuava a non essere
favorevole. All’improvviso la cima, in trazione, subì uno
strattone rabbioso che sradicò il verricello, aprendo uno
squarcio sopra la prua. A quel punto non c’era più alcuna
possibilità di rimorchiare l’imbarcazione con il rischio
d’imbarcare acqua e affondare. Iniziai a pensare di
trasbordare e metterci in salvo sullo yacht e abbandonare
al proprio destino la nostra barca. In un barlume
disperato, attivai un ultimo tentativo di messa in moto.
Il motorino di avviamento gracchiò una volta, gracchiò
una seconda volta, e… e incredibilmente avvenne il
miracolo: il motore destro ripartì! Ci abbracciammo, ci
baciammo. Gianna, stavolta, piangeva per la gioia.
Eravamo tutti commossi. Ripresi il controllo
dell’imbarcazione, anche se con un solo motore e con
tutte le difficoltà del caso di riprendere la rotta in quelle
precarie condizioni verso la baia protetta di Porto
Vecchio. Dopo molte ore di sofferta e lenta navigazione,
finalmente giungemmo in porto. Fu una grande
drammatica esperienza e una maturazione del carattere.
Ciononostante navigare è stata e resterà la mia passione.
Avere una propria barca, decidere quando e dove
andare, senza preavviso, liberi, senza vincoli, alla ricerca
di baie accessibili solo dal mare e possibilmente deserte,
navigare affrontando l’imprevedibilità dei venti e dei
cambiamenti improvvisi del tempo e conseguentemente
del mare è stato per me scuola di vita e ricarica naturale
di adrenalina allo stato puro. Considero ancora
impareggiabile l’emozione che si genera nelle fantastiche
attraversate, specialmente quando non vedi più terra e
intravedi lontano l’orizzonte che si confonde col cielo
infinito, mentre il sole rossastro pian piano sorge dal
mare e sale verso il cielo, scompare, ricompare veloce e
raggiante, rassicurandoti per la sua presenza.
L’inquietudine che cresce, sino al momento di scorgere
finalmente l’attesa meta. Ogni navigazione è
un’emozione, l’imprevisto è sempre in agguato e
l’attenzione è d’obbligo, così come il viaggio della mia
53
vita. Il modo di agire in mare, secondo il mio
immaginario, è equivalente al modo ideale di affrontare
la quotidianità nella vita, nei viaggi, nei progetti:
consapevolezza della condizione di partenza, mentre
spesso non è certo il punto d’arrivo, nonostante piani di
navigazione, analisi delle criticità e previsioni degli
eventi. Fondamentale è la capacità di evitare le avversità
o per lo meno la convinzione di controllarle e superarle.
In ogni caso occorre reagire alle calamità degli eventi
con grinta e convinzione. Bisogna sempre crederci,
valicando e tentando l’impossibile, seguendo il cuore,
l’istinto, il vento, le onde. La barca è una metafora di vita.
Volevo vivere nuove esperienze, scoprire nuovi
«orizzonti» nel vero senso della parola, e così negli anni
pianificai navigazioni sempre più audaci: la
circumnavigazione della Sardegna, Isole Porcherol, Golfo
del Leone, Spagna, isola di Ventotene, isole Pontine,
Capri, Ischia e non solo. Dopo oltre trentacinque anni di
passione nautica e di belle avventure (a volte faticose, a
volte traumatiche), Gianna non ne poteva più della barca
e iniziò a ripetermi di cambiare hobby, di organizzare
viaggi diversi e scoprire nuove mete. Accettai l’idea di
trascorrere vacanze più tranquille ma fu una scelta
sofferta, che non mi convinse mai del tutto perché
ovviamente non sapevo se avrei potuto rinunciare del
tutto alle mie traversate, ai miei viaggi. E se sarei riuscito
a trovare un’altra «passione» che potesse soddisfarmi in
termini d’emozioni, ambizioni, adrenalina, nonché di
«esperienze e scuola di vita».
Oggi spero solo che i miei viaggi non diverranno nel
tempo solo tristi rimpianti che riaffiorano col trascorrere
degli anni, nel solo ricordo della primavera della vita,
quella della giovane età inebriante e frenetica. L’età del
volere e del fare. sogni fantastici. Sogni straordinari.
Credo che per ogni individuo, anche negli anni maturi,
sia importante continuare a sognare, sempre. Se non
sogni più, inizi un po’ a morire.
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PARTE TERZA
LA VISIONE GLOBALE
ANNI 1990-2000
CAPITOLO 16
Anticipare il futuro
«La cosa migliore del futuro è che arriva un giorno per
volta», diceva Abraham Lincoln. E nella mia storia ho
potuto toccare più volte questo fondamentale concetto.
Producemmo il primo navigatore satellitare per la Sepa e
poi per Magneti Marelli, e iniziammo a produrre le prime
centraline elettroniche e di telemetria per la divisione
«Competition», per le vetture partecipanti ai campionati
mondiali di «Formula Uno», delle scuderie Ferrari,
Renault, ed altre ancora, contribuendo con la nostra opera
e con tanto orgoglio ai successi di questi team. Un passo
per volta, come dicevamo, un giorno per volta, e ci
trovammo dritti sul tetto del mondo.
Una posizione invidiabile, ovvio, ma non certo
raggiunta per caso in quanto la strategia era precisa.
Talmente precisa che aveva anche un nome: «Vision e
Progetti». Tutto si basava sulla necessità di puntare decisi
sulla centralizzazione delle attività organizzative e
gestionali per operare in ambito europeo e sviluppare
nuovi mercati. Ma sempre mantenendo il rapporto
«Qualità e Costo» ai vertici assoluti. Con questo spirito la
crescita del Gruppo procedeva senza sosta, sia in termini
d’attività che di fatturato e redditività, con incrementi
superiori al trenta per cento, di anno in anno: così
riuscivamo ad auto-finanziare le nuove iniziative, che ci
permisero di affermarci in pochi anni a livello nazionale e
che crearono le premesse per cogliere nuove sfide e nuove
opportunità, con il potenziamento delle capacità
tecnologiche e industriali interne e sviluppi esterni
mediante progetti mirati a possibili acquisizioni ed
integrazione di target di operatori del nostro core
business.
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CAPITOLO 17
I valori e il bello della vita
Devo confessare una cosa: da studente non amavo
leggere e, terminata la scuola ancor meno. Ma, per mia
fortuna, in un giorno di relax, mi capitò di sfogliare un
libro di filosofia di Dario Bernazza che si prefiggeva di
rendere la filosofia chiara, pratica ed utile. Insomma un
libro che puntava dritto a mettere nelle mani del lettore
le chiavi per affrontare e risolvere, realisticamente, i tanti
difficili problemi del vivere.
Il titolo era «O si domina o si è dominati» e la premessa
recitava: «Dedico questo libro alla grandezza morale di
tutti coloro che per trovare e diffondere la Verità hanno
lottato, hanno sofferto, o hanno immolato la loro vita. È
esclusivo merito loro se l’uomo ha progredito e
progredisce verso la logica, verso la vera civiltà e quindi
verso una vita sempre migliore». La premessa era
accattivante e, incuriosito, lessi con interesse ed
entusiasmo. Quel libro mi ha trasportato e ha stimolato
l’invito alla riflessione sui tabù della vita ad affrontare
argomenti esistenziali, nonché a rispondere ad alcune
domande:
Che cos’è che io voglio veramente dalla vita? Qual è il
senso reale e concreto dell’esistenza? Ci sono limiti ai
miei desideri e alle mie ambizioni? È vero che, in
sostanza, ognuno vive come merita di vivere? Che cosa
fare per emergere, per affermarmi, per aver successo?
Quali sono i valori, le persone, e le cose per le quali valga
la pena d’esistere? Cosa devo fare per evitare una vita
scialba, mediocre, noiosa, insoddisfacente: una vita in
sostanza da perdente? In definitiva: Qual è il modo più
intelligente e più interessante di vivere?
Consiglio a tutti di rispondere a questi quesiti, presi in
prestito dalla lettura del libro «O si domina o si è
dominati». Certo, non è facile, ma il solo tentativo di
farlo - specialmente per i giovani - è un invito a tener ben
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presente che la vita è unica e irripetibile. E che viverla
distrattamente e rassegnatamente, è un lento e blando
sopravvivere. La vita invece va vissuta con la massima
aspirazione, motivazione e convinzione.
Spesso mi sono ispirato a queste domande per riflettere
a lungo sui veri valori della vita. Qui, ognuno trova i
propri. I miei? Sono stati e sono tuttora i «compagni di
viaggio». Ho avuto una folta schiera di compagni.
Intendo persone, animali, cose e luoghi, che ho
veramente amato e amerò per tutta la vita. I compagni
«veri», sono i compagni nati o conosciuti nel percorso
della mia vita: amici fedeli, sempre interessanti, pronti
ad ascoltarmi, a dare il meglio spontaneamente, a
rendermi sereno, a far sorridere il mio cuore, ad
infondermi la piacevolezza di vivere. Questi compagni
non mi hanno mai deluso e, sono convinto, non mi
deluderanno mai, non mi tradiranno mai e non mi
abbandoneranno mai. La loro esistenza mi ha rallegrato
e mi ha consolato sempre, e la loro vicinanza farà
riscaldare e palpitare il mio cuore.
Alcuni dei veri valori, che ritengo fondamentali, oltre
che nella vita privata, mi hanno ispirato anche nel
percorso professionale, determinando sani principi da
far capire e seguire, anche nell’ambiente lavorativo. Non
è un caso che proprio io e Marco concepimmo un breve
«documento etico» che tutti i dipendenti hanno
approvato e sottoscritto nel momento dell’ingresso in
azienda, una specie di biglietto da visita delle idee e dei
comportamenti che hanno valso all’azienda non solo
meriti imprenditoriali, ma anche la stima degli operatori
del settore.
Il documento non voleva essere un impegno legale,
bensì una linea guida di «Etica comportamentale», in cui
azienda, dirigenti, funzionari, quadri, responsabili,
impiegati, tecnici e operai ponevano fiducia,
determinando progressivamente lo stile e la cultura del
Gruppo Elem, pur sapendo che l’etica non la si può
imporre, bensì la si deve maturare nel proprio spirito.
59
Cito alcuni passaggi importanti dell’attestato: «La
direzione farà ogni sforzo per perseguire il Vero, il
Giusto, il Bello, rendendo partecipe il proprio personale
e agevolando lo sviluppo individuale, nel contesto
aziendale. In tale ottica, c’è l’impegno di tutti
nell’operare con onestà, correttezza ed etica
professionale».
«Nell’enunciato, non vi sono garanzie assolute, ma una
grande volontà costruttiva e un approccio positivo, nel
coinvolgere tutti, nell’apprendere, nel fare e
nell’insegnare a fare, con lo spirito di facilitare e
condividere le aspettative espresse, in cui la Direzione
crede fortemente e di cui terrà sempre ben conto nelle
proprie valutazioni…». Il documento fu sottoscritto
dalla Presidenza, dalla Direzione Strategica, dal
Management e da tutte le Maestranze, e credo che abbia
rappresentato e che rappresenterà ancora una guida
ispiratrice, anche in futuro, poiché i sani principi hanno
consentito e consentiranno di raggiungere con serenità
il successo, dando a maggior ragione un senso alla
«propria esistenza».
È vero, a volte si rischia di scadere nell’ovvio o nel
banale, ma il valore del «bello» deve essere un concetto
quasi assoluto. Ritengo che questo principio,
praticamente e concretamente, mi abbia spinto e portato
a sognare, volere, toccare, possedere, apprezzare le cose
belle, le più belle, possibilmente bellissime, al limite del
possibile, ma anche, inevitabilmente, le più costose. E ho
lottato e lavorato molto per conquistarle. Una forte
motivazione e una potente spinta propulsiva dei miei
sogni, dei miei progetti, dei miei viaggi.
60
CAPITOLO 18
Rimpianti, e ricerca delle origini
L’impegno ossessionante nel lavoro, per sviluppare i
progetti che man mano aumentavano, ha consentito di
raggiungere risultati impensati e insperati ma, nello stesso
tempo, mi ha fatto bruciare e sacrificare del tempo,
momenti preziosi e attenzioni particolari, che avrei
dovuto dedicare maggiormente ai miei bambini,
facendomi coinvolgere nei loro giochi, accudendoli nella
loro crescita e nei loro progressi. Purtroppo ascoltavo e
osservavo poco i miei bambini. Intanto, mentre io
lavoravo, lavoravo affannosamente, i bambini
diventavano dei bravi ragazzi, intelligenti, educati,
profittevoli negli studi, grazie anche all’attenzione e alle
cure di Gianna. Sono diventati adulti in un tempo
incredibilmente veloce.
È questo il prezzo che ho dovuto pagare. Questo è il mio
rimpianto. Rimpianto di aver dedicato troppo poco tempo
a Barbara e Marco, quando erano ancora bambini.
Altrettanto poco tempo ho dedicato a capire le mie origini
e forse è questo il motivo che un giorno mi ha spinto di
nuovo a New York. Per andare a ricercare la casa del
nonno Domenico, una caccia serrata ai luoghi dove aveva
vissuto. Trovai on line l’elenco di persone di nome
Petrone, con relativi indirizzi e residenze.
Sfogliando documenti, nell’archivio storico di Ellis
Island, scoprimmo esattamente il nome della città,
distretto e luogo, dove mio nonno visse dagli anni venti
agli anni sessanta: arrivò con la nave Aquitania della Built
by John Brown & Company con 3.232 emigranti a bordo,
partendo dal porto di Napoli, e viaggiando per un mese
alla velocità media di ventitré nodi. Mio nonno, Dominick
Petrone, giunse a New York il 20 settembre del 1920,
all’età di trentatré anni, solo col suo sogno americano.
L’emozione era altissima. Si trattava di continuare la
ricerca andando fisicamente presso l’ufficio comunale
61
anagrafico, ricercare i luoghi e gli eventuali cambiamenti
di residenza e seguire tangibilmente il percorso nei luoghi
in cui era vissuto. Assoldai anche un detective che mi fece
da guida e da interprete. Andai all’anagrafe di Newark
City, sua presunta residenza, e da un vecchio archivio una
gentilissima funzionaria, estrapolò efficacemente il
certificato di morte e l’indirizzo dell’abitazione dove il
nonno Domenico aveva trascorso gran parte della sua
vita. E man mano che mi avvicinavo al luogo e percorrevo
presumibilmente le strade frequentate da mio nonno,
l’emozione mi assaliva. Sentivo qualcosa d’indescrivibile
e di emozionante. Arrivai in una zona di contrasto
inverosimile, tra nuovo e antico. La zona era popolata da
moderni grattacieli, e tuttavia, in un’area limitrofa, c’era
ancora un residuato, vecchio e piccolo rione, con vecchie
casette indipendenti, dall’aspetto trascurato e vacillante.
Nella strada, si spostavano a piedi persone di colore.
La tristezza fu grande e non riuscii a trattenere
l’emozione. Mi chiesi com’era possibile. Perché mio
nonno, considerato un mito da mio padre, aveva
abbandonato la famiglia e gli amici per andare a vivere e
a morire lì? Ma perché? Non potevo crederci. Non
soddisfatto, percorsi a piedi un tratto di strada ed entrai in
un vecchissimo bar drogheria e chiesi all’anziano
negoziante se aveva conosciuto un certo Dominick
Petrone, che aveva abitato in quella strada.
Ci disse che lui era italo-americano e che in passato
aveva conosciuto Dominick Petrone. A suo dire era stato
un grande uomo, un amico di suo padre, italiano anche
lui. Mi indicò esattamente la casa in cui aveva abitato.
L’emozione mi assalì fino alla commozione. Non ebbi più
la forza di proseguire la ricerca e decisi di ritornare in
hotel dalla mia famiglia. Ancor oggi, quando penso a quei
momenti, mi viene la pelle d’oca. Mi piacerebbe un giorno
ritornare a New York e completare la ricerca. Scoprire
come ha vissuto in tutti quegli anni, se ha avuto una
compagna, altri figli o nipoti, come si è risolto il sogno
americano e se ne è valsa veramente la pena. Qual è stato
62
il suo sogno americano? Lo realizzò? Cosa accadde
quando l’America dichiarò guerra all’Italia? Cosa sarebbe
cambiato se non fosse mai partito? Quali sono le
motivazioni per le quali non volle o non poté più tornare
in Italia?
Curiosità non solo personali perché poi mi chiedo anche:
Cos’è successo durante la depressione economica del
1929? Chissà se c’è un’analogia, ed un ripetersi degli
eventi e della storia, per quello che è capitato e si sta
verificando drammaticamente in questi anni che
sanciscono la fine del primo decennio degli anni 2000, in
America per prima e a seguire nel resto del mondo? Crisi
finanziaria, profonda recessione o bolla salutare e
passeggera?
Se si vuole superare la crisi bisogna fare molta
attenzione ai macro-eventi, capirli per coglierne le
opportunità e per evitarne le minacce. I macro-eventi non
possono essere modificati dalle nostre scelte individuali,
ma le nostre scelte individuali devono tenerne conto, per
poter fare scelte che portano al successo piuttosto che al
fallimento della propria vita.
63
CAPITOLO 19
Petrone, quanti nomi
In relazione al mio nome è curioso constatare come in
modo naturale si è creato un clima di confidenzialità e, a
volte, di rispetto e riverenza: i miei genitori, fratelli e
parenti mi chiamano Mimmo, «Mimm». Mia moglie e
amici mi chiamano Pedro, nome d’arte di quando
suonavo il sax da ragazzo nella band «Gli Innominati» e
realizzato la card «Pedro’s Trip». Gli amici in ambito
lavorativo Domenico. A Torino i miei più stretti
collaboratori e conoscenti Petrone. A Roma mi chiamano
dottore ed in ambienti politici ed istituzionali, con più
rispetto, Presidente. Per me va bene così, come
naturalmente avviene. Sarebbe imbarazzante d’altra parte
se persone che non conosco mi chiamassero Mimm o
Pedro oppure amici e parenti col titolo di dottore o
presidente. Mi piace Pedro, «per gli amici».
64
CAPITOLO 20
Superstizione o casualità?
Il 2000 coincide con i «miei primi 50 anni», una bella
concomitanza. Io credo nelle coincidenze numeriche e
mnemoniche, sono anch’esse circostanze, motivanti, quasi
come un richiamo. Un segno del destino? Chi lo sa? Per
me un nuovo punto di partenza. Tante operazioni, per
esempio, le ho concluse nel giorno tredici del mese e
tendenzialmente cerco sempre quel giorno per fare cose
importanti. Sarò sciocco, banale o forse superstizioso?
Poco importa, pensarlo non cambia la vita di nessuno. Per
me è così, io sono nato il giorno tredici e ritengo che sia un
numero fortunato pur non credendo nella fortuna.
Il 13 aprile del 2000 fra i tanti regali ne ricevetti anche
uno fantastico, perché fu una sorta di «concessione» di
mia moglie, una Porsche 969, grigio metallizzato, un’auto
laboratorio sulla quale la casa di Stoccarda decise di
investire tutto il proprio know how in fatto di elettronica,
meccanica e design. All’epoca era l’auto più avanzata e
veloce del mondo, un pezzo rarissimo che curai e coccolai
gelosamente per anni e che su di me aveva un effetto
strano: quando la guidavo mi sentivo più giovane, anzi
giovanissimo; provavo la stessa sensazione di quando
avevo 18 anni e viaggiavo con il mio Innocenti spider
rosso fiammante, la mia prima passione.
Chissà se a Stoccarda sarebbero fieri di questo paragone:
il loro missile con motore boxer biturbo da 400 Cv, la loro
sofisticatissima trazione integrale gestita da computer, i
mille controlli elettronici per tenere in strada questo
laboratorio viaggiante paragonati a una spiderina con
motore anteriore 4 cilindri in linea di 948 cc da 43 Cv. Ma,
nelle auto, come nella vita, quello che conta sono le
emozioni nel possedere «cose belle». E qui non si discute.
65
CAPITOLO 21
Il 2000
L’anno 2000 fu per me impetuoso. Presi coscienza del
cinquantesimo anno di età e mi resi terribilmente conto di
come era passato velocemente il tempo. Non potevo
crederci. Pensavo che inevitabilmente stavo invecchiando,
e mi venne una gran voglia di dimostrare che ero solo
all’inizio del mio percorso. Da quel momento diventai
ancor più irrequieto, esigevo di più da tutti e da me stesso,
il mio motto divenne «know more, do more, be more», e
volevo fare tutto più in fretta.
L’inizio del nuovo millennio coincise con l’inizio di
un’importante nuova svolta: l’evoluzione della Elem, da
semplice produttore di piastre elettroniche ad una realtà
capace di progettare prodotti e sistemi complessi,
avviando un processo di sviluppo, procurando nuove
capacità, con operazioni di acquisizioni. Iniziarono così i
primi progetti per la costruzione del Gruppo Elem, con
l’obiettivo di aggregare aziende specializzate e focalizzate
sul core business, dando vita alla prima Business Unit: la
Elem Sistemi, società indirizzata alla «Ricerca & Sviluppo,
alla Progettazione, all’Ingegnerizzazione e alla
Produzione di Sistemi Elettronici».
Una prima partecipazione in altre aziende venne
realizzata nella società Axis, spin-off di ingegneri,
progettisti, inventori della SEPA, veri e propri guru
d’elettronica, esperti in tecnologie militari e satellitari, che
avevano già progettato ed ingegnerizzato il primo
navigatore satellitare, il Route Planner, prodotto dalla
Elem e commercializzato dalla Magneti Marelli.
Decidemmo con gli ingegneri-progettisti-azionisti
dell’Axis di dar il via ad un progetto innovativo, con
l’integrazione e la convergenza di quattro tecnologie:
Microcomputer, Gps, Gsm, CanBus, realizzando il primo
sistema satellitare per la gestione delle flotte di mezzi
pesanti E-Where, in concorrenza con i sistemi satellitari
66
della blasonata Viasat allora di proprietà di Seat (Telecom)
e Magneti Marelli (Fiat). In ottica di aumentare le nostre
capability progettative e produttive, di incrementare le
risorse operative e di creare i presupposti per poter
realizzare e produrre nuovi prodotti e sistemi,
acquistammo un altro stabilimento, in Via Aosta 22,
proprio innanzi al primo complesso, con l’idea
predominante di suddividere e ampliare le competenze.
Sviluppammo il progetto in meno di sei mesi!
Delegai al Signor Carlo Suozzi la direzione dei lavori.
Lui pianificò la road map di tutte le attività previste con la
massima diligenza ed efficienza: progetto, licenze e
permessi, opere murarie, infrastrutture tecnologiche,
insegne, arredamenti, layout, logistica dei trasferimenti,
e quanto altro. Furono rispettati i tempi grazie al
pragmatismo ed alla concretezza del caro e compianto
Suozzi, che purtroppo scomparve nel 2007. Lo ricordiamo
ancora con affetto. In tempi record iniziammo a produrre
ed assemblare, sulle nuove linee, i navigatori satellitari
Route Planner, i localizzatori per Logosystems e
successivamente i moduli Connect e i moduli
Infotelematici per la Magneti Marelli.
Fu la pietra miliare di un nuovo cambiamento, la svolta
verso l’imponderabile, un mutamento del progetto
originario, un’evoluzione che portò cambiamenti
sostanziali alle prospettive di crescita, creando nuove
ambizioni e aspettative. L’origine del progetto New
Evolution. In occasione della cena di Natale con le
maestranze, ci fu anche l’inaugurazione ufficiale del
nuovo stabilimento con molti ospiti: clienti, fornitori ed
amici. Un’occasione per confermare strategie future,
ringraziare e congratularmi con tutti coloro che avevano
collaborato e consentito, con successo, al raggiungimento
dei primi importanti obiettivi.
Ecco il discorso della serata, Lo voglio riproporre perché
secondo me condensa alla perfezione in concetto di
azienda diversa, familiare per certi aspetti. «Desidero
congratularmi con lo staff che ha organizzato la festa del
67
22 dicembre e ringraziare tutti coloro che hanno aderito:
maestranze, amici, clienti, fornitori. Vorrei ancora
evidenziare che con l’avviamento del nuovo
insediamento produttivo della Elem Sistemi, inizia per il
Gruppo un Grande Progetto, un progetto di cambiamento
strategico. Un progetto che trasforma le nostre attività da
produttori di schede elettroniche, a produttori di Sistemi.
Il mercato e i nostri Clienti ci chiedono forniture non
solo di sottogruppi, ma anche di prodotti e sistemi
complessi nel settore automobilistico e della telematica.
Per intenderci, terminali Internet per auto e terminali
Internet per la casa. Questo comporterà un maggiore
impegno nella progettazione, nell’ingegnerizzazione e
nella produzione; il che vuol dire incremento e
potenziamento delle risorse umane, strutturali ed
economiche. Una grande opportunità operativa che
coinvolge clienti, fornitori e maestranze. Un impegno
nello sviluppare nuovi prodotti ad alta tecnologia da
produrre a Venaria in Elem Sistemi. Da sempre, sono
convinto che prodotti ad alta tecnologia si possano
produrre in Italia in competizione con altri Paesi e altre
realtà, non è un’impresa facile, ma ci sono tutti i
presupposti, e sarà un successo!
Ringrazio in anticipo tutti quelli che ci aiuteranno a
perseguire questo progetto che innalzerà la bandiera del
Made in Italy. Esprimo affetto e riconoscenza a tutti i
collaboratori che hanno già contribuito a realizzare una
storia di successo industriale di oltre 27 anni. Con orgoglio
offro in dono il marchio distintivo della Elem a chi ha
compiuto nel corso dell’anno 2000 i primi 25 anni di
attività, Minuzzo Mariangela; 15 anni Milesi Luisa e i 10
anni, Astori, D’Errico, Spina, Franzoso, D’Anna.
Complimenti al Signor Barengo e al Signor Suozzi, e a
tutti i collaboratori, per la professionalità ed il gran lavoro
svolto rispettivamente per l’organizzazione dell’efficiente
staff operativo e per la realizzazione del nuovo
insediamento produttivo. Sono commosso e lusingato per
la magnifica targa commemorativa ricevuta in dono dalle
68
maestranze cui esprimo la mia massima gratitudine.
Grazie. Un caloroso abbraccio».
La targa: 22-11-2000. «In occasione dell’inaugurazione
del nuovo stabilimento produttivo le maestranze tutte
ringraziano il presidente del Gruppo, Sig. Domenico
Petrone per l’entusiasmo l’impegno ed il coraggio
nell’aver affrontato e vinto le difficili sfide che hanno
portato nel corso degli anni la Elem ad un incessante
sviluppo. Oggi con orgoglio e professionalità sono tutti
pronti ad iniziare il ‘grande progetto’ con la volontà di
essere ancora una volta protagonisti di un nuovo
successo. Grazie al nostro presidente ed insieme sempre
più avanti. Le Sue Maestranze».
69
CAPITOLO 22
La missione aziendale
Non dobbiamo mai dimenticare che un’azienda è
un’organizzazione industriale strutturata con unità
operative specializzate ed orientate al Cliente. E la
missione di chi la dirige deve sempre consistere
nell’adeguarsi rapidamente alle esigenze della clientela e
alla loro evoluzione. È questo il segreto. Non è un caso
che il nostro successo dipende e dipenderà dalle
conoscenze tecnologiche del nostro staff e di tutti i nostri
uomini, dalla qualità e rapidità di risposta e dalla volontà
di migliorare e sviluppare le nostre capacità. Questi
concetti a volte sono anche usciti dalla mia azienda:
qualche giornalista più scaltro degli altri ha afferrato il
concetto. E ne ha fatto un servizio per il suo giornale. Ne
cito uno per tutti: il titolo era «Quando i progetti
diventano realtà». E l’articolo era questo:
«È un 2001 pieno di promesse e rinnovati orizzonti
quello che si è aperto per il Gruppo Elem che ha
festeggiato i ventisette anni d’attività, caratterizzati da un
trend estremamente positivo, confermando la tendenza
della New Evolution, nel senso che rafforza le attività e la
specializzazione del Gruppo con le società Axis ed Elem
Engineering, che si occupano rispettivamente della R&S,
della progettazione e dell’industrializzazione di prodotti
e sistemi elettronici, inserendosi in una dimensione
proiettata verso un futuro ricchissimo di possibilità e di
prospettive. Nel settore dell’aftermarket, ad esempio, con
progetti avanzati, come quello delle black-box per la
localizzazione, controllo e la gestione delle flotte. Il ciclo
viene così completato e l’anello si chiude: dalla fase della
progettazione dell’hardware elettronico, alla produzione
di prodotti finiti. E qui sta la novità, il salto ad una nuova
era per il Gruppo Elem che si evolve e si rinnova nel
proprio interno, trasferendo alla Elem Sistemi, società del
Gruppo che si è sempre occupata di ricerca e sviluppo e
70
industrializzazione del prodotto, una nuova identità ed
un nuovo ruolo. Ma anche una nuova sede: quella
progettata nell’area prospiciente l’attuale struttura e di cui
si sono conclusi i lavori di realizzazione. Si tratta di un
nuovo complesso industriale di ulteriori quattromila
metri quadrati che, affiancandosi alla struttura attuale,
costituirà l’insediamento di una vera e propria cittadella
tecnologica alle porte di Torino (un comprensorio di oltre
ventimila metri), autonoma ed autosufficiente nei settori
Automotive, Domotica e Technology Information.
Obiettivi importanti che il presidente Domenico Petrone
si era prefisso di raggiungere e che ora diventano una
realtà operativa e che premiano l’impegno e la costanza
di un’azienda che ha saputo focalizzare il proprio core
business con una politica attenta alle giuste scelte ed al
cammino da percorrere: scelte di partner di prestigio,
diversificazione dei settori operativi ed estrema flessibilità
dell’azienda per adeguarsi con sempre maggiore efficacia
ai mutamenti e all’evoluzione del settore della subfornitura elettronica. Fino al ruolo di global supplier che
concretizza un impegno nelle aree di attività che si sono
progressivamente estese dal settore dell’elettronica
industriale a quello dell’informatica, dalle telecomunicazioni all’automotive ad alto contenuto tecnologico.
Da sottolineare anche il recentissimo annuncio di un
accordo con un’importante azienda per la realizzazione
di prodotti nel settore della domotica. Il futuro della webTV (Home Station), degli sviluppi e della diffusione
inarrestabile di Internet, passa anche nel complesso
industriale di Venaria. Proprio ad Internet il Gruppo si sta
rivolgendo per un’azione di comunicazione esterna nei
confronti della richiesta di sistemi OEM, ma anche per la
ricerca e la selezione del personale che, come anticipato
alla stampa dal presidente Petrone, verrà a contribuire
allo sviluppo del nuovo polo aziendale.
Potevano sembrare sogni nel cassetto di un’azienda
silenziosamente consolidata nel sofferto settore elettronico, e invece l’annunciato balzo del fatturato (da dieci a
71
quaranta milioni di euro entro il 2004) diventa oggi una
scommessa sempre più vicina alla realtà. Una realtà che
sviluppa il processo di trasformazione dell’azienda di Via
Aosta. Dalla fase di subfornitura nella produzione di
schede elettroniche a quella di fornitura di prodotti e
sistemi OEM (Original Equipments Manufacturing). Una
verticalizzazione totale fortemente voluta e tenacemente
perseguita con il potenziamento delle aree produttive
frutto degli importanti accordi conclusi con aziende
leader di tutto il mondo. Il futuro dell’industria
piemontese degli anni Duemila passa anche da qui. Il
resto è storia: una storia iniziata ventisette anni fa con
rilevanti investimenti in risorse umane e strutturali in un
settore sempre più consistente in rapporto agli assetti
dell’economia italiana e mondiale, dal quale la Elem non
vuole essere esclusa».
72
PARTE QUARTA
LA NUOVA ERA
CAPITOLO 23
Il sogno diventa realtà
La grande novità di quel periodo fu la bella sorpresa che
mia figlia Barbara, dopo otto anni d’esperienza in qualità
di stilista nel settore della moda, dopo aver verificato che
quel mondo non era poi così bello e luccicante come
appariva, decise di prendere casa a Torino con Umberto,
suo imminente sposo, e di lavorare in Elem Group, dando
man forte nell’area amministrativa e nelle aree di
organizzazione delle attività produttive. Incredibile ma
vero: il mio desiderio originale, su cui ormai non contavo
più di tanto, all’improvviso si realizzò, creando anche le
premesse alla decisione di Marco che mi diede notizia che,
completata la laurea in Giurisprudenza, avrebbe
conseguito alla Bocconi di Milano un master in strategia
aziendale, e che in seguito sarebbe anche lui sopraggiunto
in Elem Group, con l’intento di rafforzare la «squadra»,
in considerazione dei presupposti sempre più motivanti
che maturavano, tali da richiedere nuove professionalità
anche nel comparto giuridico ed organizzativo.
Queste circostanze hanno ulteriormente aumentato in
me le motivazioni, la voglia e la necessità di far crescere il
Gruppo, sia a livello nazionale che internazionale.
Lavorare con le persone che ami è la cosa più importante
e ti regala una motivazione fortissima, la classica marcia
in più. Non è un caso che proprio in quel periodo scattò in
me la molla della necessità di inventarsi qualcosa di
nuovo e scatenante. Non era più accettabile una crescita
solo nel comparto produttivo, anche se pur importante e
qualificante. Era opportuno allungare la filiera e la catena
dei valori, occorreva per accelerare la crescita acquisire
nuovi mercati e aggregare nuove competenze. Iniziai così
un’attenta ed ambiziosa analisi e considerazioni
industriali ed economiche, valutando aziende in difficoltà
in via di dismissioni, prime tra tutte la Olivetti Computer
di Scarmagno, successivamente i due stabilimenti
75
Ericsson di Marcianise e Pagani, la Bull di Caluso e
persino la grande Magneti Marelli Divisione Elettronica.
Tutte registrarono situazioni organizzative e finanziarie
drammaticamente critiche.
Dedicai molto tempo e massima attenzione, studiando
piani industriali di integrazione e possibili recuperi di
impianti e competenze tecnologiche, in sinergia con
l’esperienza, le conoscenze e l’eccellenza che avevamo
raggiunto con l’Elem Group. La volontà era quella di
concludere almeno un’operazione, ma la situazione ed il
contesto non erano a me favorevoli. In quel periodo c’era
sul mercato un «faccendiere» che «rastrellava di tutto e
indipendentemente da tutto». Rapace e veloce, stipulava
accordi non ortodossi e poco etici, agglomerando aziende
disastrate ed obsolete in un chiacchierato Gruppo Finmek.
Politici e capi d’azienda diedero molta fiducia e tanti
«soldoni» pur di liberarsi di aziende passive e di
assecondare alcuni sindacati sprovveduti, nonostante
fossero più che evidenti diversi segnali negativi.
Tardivamente capirono la drammaticità di scelte
scellerate, purtroppo solo molti anni dopo, quando le
notizie scandalose riguardanti quella faccenda
comparvero in modo dirompente su tutti i giornali.
Scorrettezze ed incapacità devastanti provocarono il
collasso finanziario, mettendo sul lastrico migliaia di
persone e dissolvendo nel nulla oltre mille milioni di euro.
Il risultato fu che le più grandi aziende italiane nel
settore elettronico, che avrebbero potuto riprendersi
perseguendo con altre strategie e operando in nuovi
contesti, si sgretolarono generando nel contempo
opportunità per la Elem, che rimase una delle poche
aziende italiane a produrre tecnologie sofisticate in
termini profittevoli.
La grande opportunità emerse nel 2002 con Viasat,
proprio per le difficoltà della Finmek che non riusciva a
fornire prodotti affidabili nei costi e nei tempi richiesti.
Così mi venne proposto di rilevare la società romana.
Viasat, grazie alle tecnologie di Telespazio, aveva
76
inventato e stava commercializzando in grandi volumi il
primo antifurto satellitare orientato al mercato consumer,
strategia realizzata tramite la joint-venture tra Telecom e
Magneti Marelli, con l’obiettivo di conquistare il mercato
europeo.
In poco tempo Viasat era diventata leader di mercato, e
tuttavia la sua situazione economica, organizzativa e
commerciale era un vero disastro. Dalle mie analisi e
considerazioni intuitive, mi resi subito conto che la
situazione, se pur drammatica, era recuperabile
nonostante le opinioni negative dei consulenti e dei
massimi esperti che coinvolsi nella possibile operazione,
sconsigliata da molti di loro. Mi impegnai giorno e notte
e così ebbi modo di portarla a termine ugualmente,
realizzando l’acquisizione della mitica Viasat. Ero
convinto di poter ridurre ed ottimizzare gli ingenti costi
fissi e variabili, creando una notevole sinergia con la Elem,
e realizzando un progetto industriale all’insegna
dell’ottimizzazione dei comparti produttivi e progettativi
presso gli stabilimenti di Torino.
Volevo inoltre realizzare una seconda centrale operativa,
organizzare e potenziare la sede di Roma trasferendola in
una nuova location, e poi ancora riorganizzare il servizio
clienti, l’area commerciale e quella amministrativa.
Un semplice giochino elementare. Oppure no? Il
progetto prevedeva fin da subito una decisa svolta e
significativi cambiamenti organizzativi, tali da consentire
un formidabile sviluppo delle due importanti realtà
industriali, con sostanziali efficienze operative e
economiche, col fine di offrire al mercato infomobility,
maggiore competitività e velocità di realizzazione di
prodotti e servizi. Le attività del nuovo Gruppo aziendale
da me costituito si estendevano trasversalmente dalla
ricerca
e
sviluppo
alla
progettazione,
alla
ingegnerizzazione, all’industrializzazione e alla
produzione di nuovi prodotti e di nuovi servizi, sia
nell’aftermarket, sia nell’OEM, nonché ovviamente allo
sviluppo nell’area commerciale con una rete di oltre
77
milleottocento dealer, autoconcessionari e installatori.
Sui giornali comparvero molti articoli sull’operazione.
Ecco alcuni titoli: La Stampa: «Viasat punta a raddoppiare
i propri clienti da centomila a duecentomila»; Il Sole 24
Ore: «Storia di successo. Elem, da un garage all’Europa»;
Italia Oggi: «Exefin compra Viasat»; La Repubblica:
«Viasat apre a Venaria la seconda centrale operativa»;
Torino Cronaca: «Da un garage alla conquista
dell’Europa»; Quattroruote: «Viasat, il grande fratello
della Tiburtina»; Il Giornale: «La Venaria Valley partorisce
un piano per la sicurezza globale». Tra gli articoli che
meglio individuano la mia euforia e il mio orgoglio di
quel periodo, cito sopra tutti l’articolo dal titolo «Il
progetto evolutivo del Gruppo Elem-Viasat» scritto
personalmente dal Direttore di Torino Cronaca Beppe
Fossati. Eccolo:
«Quando Domenico Petrone mi confidò che stava
acquisendo Viasat, ripensai ad un pomeriggio di qualche
anno prima, ad una passeggiata nel centro di Torino con
tutte le vetrine illuminate e cariche di tentazioni natalizie.
Lui parlava e parlava dei suoi progetti, disegnava uno
scenario di aziende in grado di progettare un sistema
satellitare di protezione delle auto e delle case, di un
intreccio di segnali e di input elettronici che mi confuse.
Onestamente pensai che il mio amico era un gran
sognatore. Ricordo che gli dissi: «Perché non scrivi un
libro?». Lui il libro non lo scrisse ma, giuro, me lo raccontò
per filo e per segno. E non era un libro di fantascienza.
Oggi il progetto che aveva nella testa in quella passeggiata
è diventato una realtà. Una realtà che si chiama Viasat ma
non solo; che si chiama Gruppo Elem che vuol dire
progettazione e produzione di elettronica high tech, ma
non solo; che si chiama Venaria Valley, intesa come polo di
eccellenza dell’industria elettronica alle porte di Torino. E
potrei ancora aggiungere: ma non solo.
Diceva Henry Ford che per crescere, per non doversi
sostenere i pantaloni con una cordicella, occorre pensare
in grande. Ebbene, il mio amico Petrone ha pensato in
78
grande. Con l’acquisizione del colosso Viasat, che ha
curato come un medico paziente dai suoi acciacchi che gli
venivano da un’infanzia industriale difficile seppur
vissuta all’ombra di grandi gruppi industriali, vicino al
vero traguardo europeo. Il passo che si sta compiendo in
questi giorni con l’apertura della seconda centrale
operativa Viasat a Venaria, ad un passo appena dagli
stabilimenti dove si progettano e si realizzano i terminali,
è molto significativo. Perché raddoppia le potenzialità
invece di restringerle, perché allarga gli scenari territoriali
invece di contrarli, perché è destinato – e lo sta facendo –
a creare occupazione.
In questo nostro Paese siamo abituati da tempo agli
industriali che acquistano le aziende con il fine di
ristrutturarle. E tutti sappiamo come: si tagliano i posti di
lavoro, si valorizzano le aree e, dove prima sorgeva una
fonte di produzione e dunque di benessere, nell’arco di
qualche anno spunta una delle tante operazioni
speculative. Domenico Petrone ha il vizio dell’impresa e il
gusto della sfida. Non taglia, razionalizza certo, ma per
crescere. Lo prova la seconda centrale operativa che nulla
toglie alla sede storica di Roma, semmai la rafforza, lo
proveranno la nuova realtà che dovrà sorgere nel
Mezzogiorno d’Italia ed altri accordi che, via via,
verranno realizzati in Europa.
Viasat non è più un bambino intelligente ma gracile, è
diventato un adulto forte e capace di assolvere ai propri
compiti. E sta andando a scuola di tecnologia per
diventare ancora più forte con il suo zaino di tecnologia
pieno di informazioni satellitari che lo hanno trasformato
in un vero sistema telematico e di tante altre cose ancora,
come quella, fondamentale per garantire più sicurezza e
più protezione, o di postino elettronico visto che può farci
arrivare in auto anche messaggi, posta elettronica,
informazioni sul traffico.
Davvero un bel libro, caro Petrone. Adesso non mi resta che
aspettare un’altra passeggiata natalizia. Per sognare
ancora insieme a te. Beppe Fossati».
79
CAPITOLO 24
Fissare i paletti: principi e progetti
Il clima era elettrizzante sia per i riscontri esterni, che
all’interno delle aziende, reso ancor più motivante dalle
iniziative di Marco che nel frattempo si destreggiava
trasversalmente in tutti i comparti e reparti per raccogliere
impressioni, suggerimenti e progetti di miglioramento sia
nel contesto Elem che Viasat, affrontando argomenti che
poi riportava a conoscenza di tutti scrivendo articoli sul
nuovo Magazine Viasat-Elem Group. Marco, nel
frattempo, come detto, si era laureato a Torino con una
tesi dal titolo «Servizi Internet. Struttura di mercato e
concorrenza», quasi lo stesso giorno in cui avevo siglato,
sul finire del 2002, l’acquisizione di Viasat, e l’anno dopo
aveva concluso con successo a Milano il master alla
Bocconi, specializzandosi con un’approfondita ricerca dal
titolo «Analisi del settore antifurto, assistenza e
navigazione satellitare».
Con il mio massimo orgoglio e felicità, entrò in azienda,
iniziando ad occuparsi con Barbara dell’organizzazione
delle Business Unit industriali, e più in particolare della
Elem. Si distinse subito per il suo modo affabile di
relazionarsi con le maestranze, in modo intelligente,
discreto ed umile, nonché con una grande voglia
dichiarata di lavorare per imparare da chi l’azienda
l’aveva vista nascere, contribuendo alla sviluppo della
stessa. Tra i primi progetti che si propose, ci fu quello
volto al miglioramento della comunicazione trasversale
tra le Unità operative di Torino e Roma, ed in particolare
alla divulgazione a tutte le aziende del Gruppo dei sani
principi etici che avevano contribuito a fare grande la
Elem, usando sue parole e un nuovo modo di comunicare
ed esprimere meglio i consolidati concetti e valori:
- Principio dell’apprendere: «Impegno a sviluppare
nuove idee e nuovi prodotti; a ricercare nuovi mercati e
nuovi clienti; a migliorare continuamente la qualità del
80
processo operativo e gestionale; a partecipare con volontà
e convinzione, ad una rapida crescita professionale e
tecnologica nel contesto del proprio core business».
- Principio del fare: «Impegno a realizzare attività di
sviluppo con piani operativi innovativi e per
concretizzare sul piano materiale tutti i miglioramenti
acquisibili attraverso il principio dell’apprendere».
- Principio dell’insegnare a fare: «Impegno nel trasferire
agli altri membri della squadra le proprie conoscenze ed
esperienze per farne un bene collettivo».
- Principio del vero: «Impegno a perseguire sempre il
vero, evitando di dedicare tempo e risorse perseguendo
realtà illusorie manipolate e manomesse da millantatori e
avventurieri».
- Principio del giusto: «Impegno a perseguire ciò che è
giusto, rifiutando la menzogna, la calunnia e l’invidia; a
riconoscere le capacità e il valore degli altri,
promuovendone il riconoscimento e la valorizzazione».
- Principio del bello: «Impegno a sviluppare prodotti e
servizi, non solo qualitativamente utili ma anche piacevoli
e appaganti alla vista in termini di originalità e bellezza».
Ciò detto, quando ci si lascia andare alla stesura di
questi concetti chiave non bisogna mai ignorare il fatto di
quanto poi possa essere difficile trasmettere questi stessi
concetti a chi lavora con noi. «I principi enunciati – spiegò
Marco in quell’occasione - però vanno difesi con le unghie
e con i denti e sono spesso sulla bocca di chi ha
partecipato alla formazione con una dura elaborazione
quotidiana, sono il risultato di un processo che attraverso
una serie di prove ed errori è giunta alla definizione di un
giusto modo di pensare utile per membri della squadra,
clienti, dealer, agenti, collaboratori, fornitori e stakeholder
in genere. Di volta in volta spenderemo dunque qualche
parola in più per ricordare il significato di quei valori che
da oggi non dovranno più caratterizzare la sola Elem ma
l’intero contesto che interagisce con il Gruppo ViasatElem». Finalmente non ero più solo. I miei figli
lavoravano con me. Un altro sogno era diventato realtà.
81
CAPITOLO 25
Gruppo ELEM: Trentesimo anniversario
«Vivete per il presente, sognate per l’avvenire, imparate
dal passato». Ma esiste il presente? Io credo di no. È
evidente che subito dopo un evento, il presente diventa
subito passato, tutto scorre velocemente. Perché queste
considerazioni? Penso che un pò di filosofia possa far
capire meglio le idee che incoscientemente affiorano nella
mente e che generano nuovi stimoli per l'esistenza. La mia
vita d’altra parte parla un pò da sola: per la Elem la storia
inizia nel 1973 in un laboratorio elettronico di via
Pacchiotti a Torino. È l'inizio di un percorso in salita, di
duro lavoro ma anche di successi e soddisfazioni; un
viaggio che ha consentito di dar vita a un grande Gruppo
industriale.
La mia primogenita Barbara non era ancora nata, ma già
si agitava nel pancino di Gianna, mia moglie, mentre
lavoravamo in quel piccolo laboratorio dove si montavano
le prime «schedine elettroniche» per la Comau-Fase e per
la Fiat, proprio nel periodo in cui si diceva che l’elettronica
non avrebbe avuto un futuro: «a intrerà mai… con dui relè
a sfa tutt…». Nelle ore serali e notturne studiavo
l’elettronica e sognavo un grande laboratorio di Ricerca e
Sviluppo, la Elem Progetti, dove «concepire» la
realizzazione di tanti piccoli sogni. Questi pensieri
correvano nella mia mente nella serata primaverile
dell’aprile 2004, in occasione del festeggiamento del
trentesimo anniversario del Gruppo Elem.
Si tenne nell’incantevole salone delle feste del Castello
di Stupinigi (residenza della Famiglia Reale dei Savoia)
con la partecipazione entusiasta di mia moglie Gianna, i
miei figli Barbara e Marco e tanti amici, collaboratori e
partner. Un evento di altissimo livello per la scenografia
spettacolare, l'organizzazione e l'entusiasmo. Tutto
perfetto: dallo svolgimento della cena agli intermezzi,
dalle premiazioni dei collaboratori allo spettacolo
82
organizzato per il dopocena. Emozionatissimo, rivolsi dal
palco un breve discorso, ma più che con le parole
esprimevo felicità ed emozione con lo sguardo per
l’importante significato della serata. I miei occhi dicevano:
«Sono felice di festeggiare un importante traguardo del
mio Gruppo, grazie anche al contributo di tutti i
collaboratori che hanno creduto in me e nell'Azienda. Sono
felice ripensando al viaggio intrapreso, dai primi inizi, in
una garage di pochi metri quadrati, fino agli ultimi
importanti traguardi raggiunti». Un’emozione travolgente
che contagiò tutti i partecipanti. È bello festeggiare per il
successo ottenuto, ma la vera soddisfazione nasce dalla
consapevolezza di averlo cercato, inseguito, di avere
faticato e lavorato molto per ottenerlo. Un bel sogno
diventato una grande realtà.
Per un momento fissai ipnotizzato gli occhi di Lindo e
Maria, i genitori di Gianna, e ripensai a mio padre e mia
madre che purtroppo non c’erano più. Eppure «sentivo»
la loro presenza, come se fossero seduti in prima fila. Mia
mamma che dice a papà: «Titill, si vist Mimm...!» (Franco,
hai visto Mimmo…!). Da quella sera la storia del Gruppo
Elem è diventato magicamente la storia di tutti noi, pronti
a partecipare al «nuovo viaggio», consapevoli che «il bello
deve ancora arrivare». In occasione di quell’evento, avevo
divulgato pubblicamente il sogno, il progetto, il percorso
da seguire. Da quel momento «il sogno» si è avviato verso
un nuovo ciclo e un nuovo viaggio.
Un progetto evolutivo apprezzato e metabolizzato da
tutti. Quella festa è stata anche l'occasione per consegnare
un Premio alla Carriera ai miei più stretti collaboratori per
celebrare la fiducia reciproca, nata nei lontani tempi della
fondazione del Gruppo. Ricevetti a mia volta una targa
molto divertente: «Al nostro Presidente IN: perennemente
in-soddisfatto, in-stancabile, in-contentabile, in-saziabile,
ma per noi, in-sostituibile, in-traprendente, in-vincibile, incontentabile. Con affetto e profonda stima da tutti i suoi
collaboratori della Elem Group e Viasat che le augurano
nuovi successi in-sieme».
83
CAPITOLO 26
Evolution IPO. Viasat Group
Nei primi mesi del 2006, Gianfilippo Cuneo, cofondatore della Bain & C. mi chiese spontaneamente un
incontro, per prospettarmi un interessante scenario di
sviluppo di Elem Group, avvalendosi della collaborazione
del fondo Synergo. Questo fondo, attraverso operazioni
di leveraggio, finanziava società esemplari nate da realtà
imprenditoriali e predisposte al cambio generazionale coi
propri figli, o a strutturare l’azienda affidando allo staff
manageriale compiti gestionali, e ancor meglio definire
strategie di sviluppo con piani triennali in un contesto
internazionale.
Gli obiettivi, oltre allo sviluppo delle capacità interne,
prevedevano anche sinergie con altri gruppi industriali,
aprendo nuovi canali, potenziando la rete commerciale,
creando nuovi prodotti, utilizzando il network e le
storiche relazioni industriali e finanziarie di Synergo. Le
prospettive furono attraenti ed interessanti. Musica per le
mie orecchie. Sarebbe stato da sprovveduto non
approfondire proposte ed ipotesi da farsi con esperti
consulenti. In ogni caso lo studio avrebbe costituito un
interessante esercizio utile per riflettere su possibili
scenari futuri. Dichiarai la mia disponibilità ed insieme a
Marco avviammo le consultazioni, con analisi dei bilanci
dei tre anni precedenti, pre-chiusura dell’anno in corso,
business plan dei futuri anni e quant’altro. Trascorsero
così alcuni mesi, ricevendo idee, proposte ed offerte
economiche molto allettanti.
Altri eventi mi convinsero ancor di più sull’opportunità
di finalizzare intese strategiche con altre realtà industriali
e finanziarie, al fine di rafforzare il Gruppo Elem e
realizzare una realtà dalle dimensioni mondiali. Ituran,
società israeliana, quotata al Nasdaq di New York, leader
nel settore dei servizi a tecnologie satellitari, operante in
Usa, America latina, Asia e propensa allo sviluppo del
84
mercato europeo, mi presentò un progetto d’integrazione
e manifestò l’interesse ad acquisire il cinquantuno per
cento di Viasat con una proposta economica allettante. Nel
frattempo, conobbi l’amministratore di ABM Finance,
società di consulenza e di M&A, il quale mi sconsigliò
fermamente di accettare proposte «capestro» di quel
genere, poiché, a parer suo, mi avrebbero fatto perdere,
immancabilmente, la padronanza ed il controllo del
Gruppo.
Questo parere era fondato sulla ragione che chiunque
avesse terminato l’operazione, certamente, l’avrebbe fatto
per convenienza e a proprie condizioni favorevoli, e
quindi a valori sensibilmente inferiori a quelli di mercato.
Alternativamente, suggerì interessanti prospettive e
l’opportunità del momento per un rapido percorso di
quotazione in borsa con un progetto di IPO. La
circostanza consentiva di monetizzare in modo allettante
una quota da destinare all’imprenditore e ottenere dal
mercato una valorizzazione di tutte le società del Gruppo,
con meccanismi di multipli dell’Ebitda superiore a
proposte proveniente da fondi o società già quotate.
Di ciò, ebbi la piena conferma a seguito dello studio e
delle valutazioni da parte di esperti analisti delle più
importanti banche italiane. Tutte concordavano.
Ricevemmo pareri favorevoli e prospettive di valori
economici decisamente superiori alle prime proposte,
anche in considerazione del particolare momento
favorevole e d’euforia di tutte le Borse mondiali. Pertanto
presi la decisione di procedere e correre in tal senso.
Nel mese d’ottobre affidai l’incarico d’advisor all’ABM,
avviando l’ambizioso progetto «Evolution IPO», con
l’obiettivo di terminare l’operazione già nell’aprile del
2007. Credo che questa decisione entrerà nella mia storia,
nel bene e nel male, come un fatto d’eccezionale portata,
tale da dar seguito ad una serie di eventi evolutivi che in
futuro trasformeranno completamente strategie,
dimensione, perimetro, visibilità e approcci operativi di
tutto il Gruppo.
85
CAPITOLO 27
La profanazione del tempio dell’elettronica
La prima fase dell’operazione mi obbligò a ridisegnare
la struttura organizzativa e industriale, instaurando una
collaborazione con le banche Sanpaolo-Imi, Unicredit e
Intermonte, alle quali accordai il compito di Sponsor e
Global Coordinator nell’ambito della quotazione della
società presso il Mercato Telematico Azionario di Borsa
Italiana nel settore Star.
Pur esprimendo considerazioni lusinghiere per l’attività
ed i risultati conseguiti in oltre trentatré anni di successo,
chiesero di revisionare totalmente l’organizzazione
manageriale, strutturandola con nuove competenze
amministrative e commerciali, nominando un nuovo
CDA strategico ed un team capace di esprimere ed
incrementare ulteriori capacità, garantire il progetto IPO
nei termini prefissati e dar manforte all’imprenditore.
Affidai alla società Replay la stesura dei piani, la
riprogettazione dell’organizzazione strategica ed
operativa, e la costituzione dell’holding capogruppo,
trasformando l’Exefin in Viasat Group Spa, a cui furono
assegnate e centralizzate tutte le funzioni comuni delle
società del Gruppo, assumendo ed inserendo nel
contempo nuove figure professionali e nuove competenze, indispensabili per il conseguimento del progetto.
Avviammo così il processo di quotazione, con una road
map che comprendeva una lunga serie d’attività
estenuanti e massacranti da concludersi nell’arco di sei
mesi: incontri con le banche, nomine legali, chiusura
bilancio civilistico, nomina revisore e certificazione
bilancio 2006 e dei tre anni pregressi, assemblee
straordinarie, incarico a società di comunicazione,
incontro con Consob e Borsa Italiana, aggiornamento del
Prospetto Informativo e del Piano Industriale, richiesta
formale per la quotazione, domande e risposte ai quesiti
della Borsa e della Consob. Fu un momento molto duro.
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A titolo d’esempio, la sola stesura del Prospetto
Informativo, curato in prima persona da Marco in
collaborazione con gli studi legali Chiomenti, Allen &
Overy e da ABM, richiese oltre cinque mesi d’estenuante
impegno con oltre tremila ore di lavoro, sacrificando molti
giorni prefestivi e festivi. L’inconveniente di quel clima
fibrillante lo subì in generale tutta l’organizzazione. Le
riunioni, i piani operativi, i cambiamenti, le attese, i ritardi
e i tentativi di recupero furono tormentanti. Per fare tutto
nei termini, ci avvalemmo di risorse esterne, sostenendo
costi per oltre due milioni di euro. Impressionante,
assurdo, ma vero. Pareva che ne valesse la pena.
Struttura ed organizzazione ne risentirono. Reception,
sale riunioni, uffici, officina e magazzini della «Inviolata
Elem», furono violati ed usurpati, giorno dopo giorno da
oltre «quaranta consulenti», che «volevano conoscere di
tutto senza capirne molto del nostro processo».
L’impressione era quella che stessimo patendo
un’invasione di campo. Pareva che stessimo subendo «la
profanazione del tempio dell’elettronica da parte dei
Filistei». L’obiettivo principale fu quello di fare tutto
velocemente. Eppure, più ci agitavamo per far prima, più
aumentava il ritardo. Probabilmente sbagliammo
nell’approccio, non eravamo capaci a fare bene e veloci,
tanto è vero che mancammo davvero tutte le tempistiche,
inconsciamente cumulando ritardi che non riuscimmo più
a recuperare.
Nonostante tutto, anche se in affanno, portammo a
compimento tutto il lavoro, rispondemmo ad oltre cento
quesiti richiesti dai funzionari di Borsa. Ricevemmo nel
mese di giugno apprezzamenti positivi dagli Analisti
Istituzionali e dal direttore generale della Consob.
Sembrava ormai fatta. Festeggiammo persino con grande
euforia con tutto lo staff al prestigioso ristorante Aleph di
Roma per la quasi conclusione del progetto. Non
bisognerebbe mai cantar vittoria prima del tempo. E
infatti successe l’imprevedibile. Un machiavellico
chiarimento richiesto da una funzionaria della Consob
87
proprio negli ultimi giorni di luglio, nell’imminente
periodo feriale, ci mise in difficoltà e ci fece perdere
l’attimo fuggente.
La lunga stesura di prospetti e dettagli della lunga lista
dei «crediti incagliati», causò il rinvio del Prospetto
Informativo nel mese di settembre. Rinvio che si rivelò
fatale. Nel mese di agosto avvenne la prima avvisaglia di
una catastrofe finanziaria di portata mondiale. Negli USA
scoppiò la crisi dei fondi subprime, con il conseguente
primo crollo di tutte le Borse mondiali. La conseguenza
fu progressivamente disastrosa per quasi tutte le società
già presenti a listino. Crollo delle quotazioni e
praticamente il blocco di ogni iniziativa IPO in corso.
Avvenne una coincidenza di microeventi, eventi e
macroeventi di portata eccezionale. Difficoltà e tematiche,
emerse in alcuni reparti, problematiche di normale
amministrazione, affrontabile in tempi e termini
accettabili, che potevano rientrare nelle classiche routine,
recuperabili con opportune azioni correttive e progetti di
miglioramento. Ma nel bel mezzo della navigazione,
c’imbattemmo in una tempesta d’inaudita potenza.
Accadde proprio ciò che spesso raccontavo nelle mie
metafore. Un macro evento fenomenale al quale non si
poteva opporre resistenza. Era impossibile conoscere in
anticipo dimensione e durata di quella tempesta che si
stava per scatenare su tutte le Borse mondiali.
88
CAPITOLO 28
Di nuovo nella tempesta
Si capiva la provenienza e la direzione del vento ed il
verso delle onde, e si poteva solo confusamente intuire
cosa fare. Si poteva decidere di tornare indietro al punto
di partenza, buttando in mare tutto il superfluo,
vanificando il lavoro fatto sino a quel momento, oppure
rallentare la velocità e dirigere la prua in direzione e a
favore del vento, cercando di prendere le onde di
«mascone» e non frontalmente, cercando di assecondare e
cavalcare le risacche.
L’intuito, il buon senso, e l’esperienza nella navigazione
erano le speranze del momento. Naturalmente decisi di
proseguire, adagio, con tutte le cautele e il buon senso,
non avevo nessuna intenzione di rinunciare alla meta
programmata. La decisione era di procedere, magari a
«zig-zag», cambiando velocità, punto di arrivo e
tempistiche, però non la destinazione. Mai decisione fu
così sofferta.
È stata una gran delusione ed un vero peccato non
essere riuscito a raggiungere l’obiettivo nei termini e
tempi pianificati nella road map iniziale. È stata persa una
grande e irripetibile opportunità. Da quel momento tutto
divenne più difficile, e le tempistiche purtroppo non
dipendevano e non sarebbero più dipese da noi tutti
coinvolti. Le analisi e le riflessioni nel bene e nel male di
quel ritardo non mancheranno, così come gli
apprezzamenti ai cambiamenti positivi conseguiti e le
critiche negative all’operato di alcuni collaboratori e
consulenti che si rilevarono inadeguati e di conseguenza
rimossi.
Tutto rimarrà in ogni caso più che utile e servirà per
consolidare le esperienze necessarie per il conseguimento
del Grande Progetto, forse ancor più grande, d’ogni mia
immaginazione. Stavolta non più per le mie intuizioni,
bensì per le professionalità, le capacità e la
89
consapevolezza di tutta la squadra e dell’equipaggio che
saremmo riusciti a coinvolgere e a motivare. Fatalmente
tanti, anzi troppi eventi accaddero. I miei pensieri
galoppavano, i sogni, tutti, sembravano svanire, e poi di
colpo risorgevano all’improvviso. Occorreva rivedere e
attualizzare la strategia, valutando minacce e opportunità.
90
CAPITOLO 29
Uno sguardo dall’esterno
Fin qui è stata questa la mia lettura dei fatti. Ma come è
stata vista da un «occhio» diverso tutta la vicenda? Ho
chiesto così a mio figlio Marco di scrivere questo capitolo.
Eccolo.
«Il 2007 e il 2008 furono gli anni dei grandi cambiamenti.
La collaborazione con Mediobanca aprì degli scenari
molto importanti sia a livello finanziario che di
partnership industriale. Ricordo ancora che mio padre mi
aveva spesso detto: per trentacinque anni siamo cresciuti
in un silenzio religioso, nel nostro piccolo acquario. Il
mondo è però cambiato e ora, che piaccia o meno, il vetro
si è rotto e siamo finiti nell’oceano. O ci adattiamo, o
verremo mangiati dai pesci più grossi.
I problemi da risolvere furono tanti, anche perché non
avevamo l’esperienza necessaria per quei cambiamenti.
Da quel punto di vista posso dire che la mancata
quotazione del 2007 ci aveva comunque arricchiti di
professionalità, e che le nottate passate a Milano tra
avvocati, banche, advisor, revisori e compagnia bella, non
erano passate invano. A pensarci ora mi fa una certa
impressione. Avevo appena 30 anni, tra persone di un
grande spessore, ed ero il solo a rappresentare l’azienda,
eppure le parole uscivano da sole, e come una spugna che
si contrae, rilasciavo tutto ciò che avevo
inconsapevolmente assorbito negli anni da mio padre
senza neanche essermene reso conto.
I cambiamenti del 2008 furono stravolgenti anche perché
non eravamo riusciti a dare la giusta organizzazione
all’azienda. Molte delle persone che avevamo scelto per
fare squadra si erano dimostrate non adeguate al
progetto, e forse fu anche colpa nostra quella di aver
voluto forzare la mano sui ritmi di sviluppo. Le aziende
sono come le persone, e si evolvono in modo naturale.
Alcune decisioni possono accelerare questo processo, ma
91
ci sono tappe in successione che non possono essere
raggirate. Un grosso ostacolo fu quello della resistenza al
cambiamento, in particolare tra il personale di Roma. A
distanza di sei anni dall’acquisizione c’era ancora chi
diceva che Viasat era Viasat, Elem era Elem e Movitrack
era Movitrack, quando invece c’era una sola azienda che
lottava sul mercato per crescere più della concorrenza.
Alla fine fummo costretti ad accelerare il processo di
trasferimento del baricentro a Torino: prima la parte di
progettazione, poi quella amministrativa e infine quella
commerciale, anche perché a Roma non si rendevano
conto che il mondo era cambiato e che ormai i satellitari
erano diventati un prodotto assicurativo, e come tale
andava distribuito in comodato d’uso nelle sue versioni
più semplici attraverso le agenzie come fornitori delle
compagnie, nei nostri punti vendita nella versione Top a
marchio Viasat, e negli autoconcessionari in partnership.
Possibile che nessun altro si rendesse conto che i
concessionari vendevano sempre più accessori e polizze?
L’auto stava diventando un prodotto a marginalità
ridottissime, però aveva il grande vantaggio di servire
come «cavallo di Troia» per vendere accessori e polizze
Furto e Incendio a buona marginalità. In più i
concessionari cercavano un modo per fidelizzare i clienti.
E qualcuno a Roma continuava a dire che il prodotto
costava troppo, che i concorrenti facevano pubblicità alle
fiere, che le soluzioni tecniche non funzionavano;
insomma, il problema era sempre di un altro ente.
Sulla Elem invece avevamo le idee molto meno chiare.
Da un lato era l’azienda che aveva dato da mangiare a
tutti noi, e senza la quale non avremmo potuto fare le
acquisizioni di Viasat e Movitrack; dall’altro si era
orientata sull’automotive, ossia in un settore dove di
marginalità se ne vedeva ormai proprio poca.
Personalmente non avevo particolari ambizioni a farmi
protagonista nello sviluppo della parte di produzione
industriale.
Tanto per dire, avevo studiato legge e maturato
92
esperienze in attività di mergers and acquisitions in
Pegaso, società di cui ero membro del consiglio di
amministrazione, partecipata dalla Fondazione CRT e
dalla Banca Unicredit. Al contrario, Barbara e Umberto
erano decisamente operativi in Elem, e con l’ausilio di un
buon commerciale avrebbero tranquillamente potuto
sviluppare la parte industriale in modo autonomo. A
quanto detto si aggiunga che da tempo ero convinto che
il futuro dell’azienda si sarebbe giocato sullo sviluppo
della parte relativa ai servizi consumer, alla
valorizzazione delle Centrali operative, allo sviluppo
della Customer Base e al continuo rafforzamento del
marchio.
Ero convinto che muovendomi su quelle direttive,
apparentemente divergenti dal mondo della produzione
elettronica, avrei potuto apportare un grande valore
aggiunto proprio alla Elem. A distanza di un anno ebbi
conferma di aver correttamente interpretato la strategia:
gli accordi siglati con le più importanti compagnie
assicurative italiane ci diedero modo di produrre nel 2008
oltre quarantamila sistemi satellitari. La Business Unit che
mi era stata affidata era diventata il primo cliente della
Elem, e ne aveva rilanciato il bilancio da qualche anno in
contrazione a causa della concorrenza cinese,
impareggiabile per le produzioni di grandi volumi.
La customer base crebbe di quasi il 50 per cento in un
anno, il miglior risultato di sempre, e il fatto ci confermò
che lavorando sul progetto industriale, mettendo in
naftalina quello finanziario di quotazione, ci saremmo
potuti ripresentare ancora più forti ai nastri di partenza
una volta passata la grave crisi finanziaria ed economica
italiana e mondiale di quegli anni. Al via, noi saremmo
scattati in avanti.
Certo, avevamo perso una grande opportunità. Che dire
però di tutte quelle aziende che ci avevano anticipato di
un mese, quotandosi quindi prima del grande crash dei
mercati, e che dopo uno o due anni avevano già perso tra
il sessanta o l’ottanta per cento del loro valore? Qualche
93
«squalo» della finanza ci fece notare che il problema non
sarebbe stato nostro, ma dei piccoli azionisti. E con
questo? L’operazione avrebbe certo comportato un
importante beneficio economico, ma i sogni e non i soldi
avevano motivato i nostri spiriti, sostenuti i nostri
pensieri, dato forza ai nostri corpi per sopportare i sacrifici
del lavoro.
Noi volevamo realizzare un progetto. Quotare una delle
più belle aziende italiane, creare valore per gli azionisti,
creare occupazione, esportare in tutta Europa un modello
italiano fatto di eticità, di concretezza, di risultati. Quanti
anni avrebbe ancora lavorato mio padre? Lui diceva
pochi, io dicevo tanti. Per quanti che fossero, avrebbero
dovuto rappresentare la ciliegina sulla torta della sua vita
di sacrifici lavorativi. L’ultimo splendido atto, coerente
con i suoi valori del vero, del bello e del giusto.
A causa di quel ritardo fummo costretti a lavorare
duramente altri anni per farci trovare pronti al momento
giusto, anni di sudore e sangue, fatti di giornate che la
sera sembravano troppo faticose e che in vacanza
sembravano quasi mancarci. Quella era la nostra vita.
Quello era il nostro progetto. Quello era l’unico mondo
dove potevo sentire, toccare, vivere un padre che quello
stesso mondo mi aveva rubato per anni. E quel mondo,
noi l’avremmo conquistato. Insieme.
La crisi durò più a lungo del previsto e le azioni
necessarie per continuare a crescere divennero più
complesse e articolate. Quando il mare è calmo e la rotta
tracciata, per navigare basta tenere il timone e far girare i
motori, ma quando infuria la bufera, il vento e i tuoni ti
assordano, la pioggia ti frusta il viso, le onde cercano di
buttarti a terra, devi capire immediatamente cosa fare e
farlo. Questo avevo imparato nell’estate delle Bocche di
Bonifacio e questo oggi siamo chiamati a fare.
Dopo la collaborazione con Mediobanca mi sentivo
arricchito di tante nuove esperienze e conoscenze, e da
imprenditore avevo colto gli aspetti di debolezza del
lavoro svolto. Come Viasat decidemmo di interrompere il
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mandato e di iniziare a lavorare con una società di
advisory di Torino, con un team di giovani pieni di voglia
di fare, di vedere i propri clienti sempre più forti e
importanti nel contesto internazionale, che non si
facevano spaventare dalle sfide dell’incognito, che
avevano il coraggio di sognare terre lontane nonostante
le tempeste incombenti.
Con quello staff mi trovai talmente bene, che nel 2011
decidemmo di costituire una nostra società di consulenza
aziendale specializzata in operazioni di mergers and
acquisitions e di corporate finance, la New Advisory
Services Horizon Srl, più comunemente nota come NASH
Advisory. Credo che ci sia una sottile analogia tra la mia
scelta del 2011 e quella di mio padre relativa a quando
rinunciò alla stazione di benzina di mio nonno Francesco.
Entrambe le scelte sono spinte dallo spirito
imprenditoriale, quello che ti porta a voler costruire
qualcosa che ti viene da dentro e che ti spinge a voler
trasformare un’idea nella tua testa in una realtà tangibile.
La differenza concettuale più grossa sta nel fatto che la
stazione sarebbe stata venduta ad altri, mentre per Viasat
Group abbiamo l’ambizione di poterne fare una pubcompany, per la crescita della quale la famiglia continui a
impegnarsi, certo, ma strutturata su un team manageriale
con competenze specifiche sulle diverse aree di business;
della quale tante persone e società possano avere
comprato azioni, certo, ma in cui la famiglia Petrone possa
continuare ad essere azionista di riferimento».
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CAPITOLO 30
Il nostro futuro
Chi guiderà il Gruppo Viasat in futuro? Andiamo per
gradi. Mio figlio Marco, dopo sette anni di lavoro insieme
e dopo il difficile percorso per quotare in Borsa la nostra
azienda, ha capito che questo non è il suo percorso, si è
lanciato quindi anima e corpo nel suo mondo, quello delle
mergers and acquisitions e finance, costituendo assieme
ad altri soci la NASH Advisor. Ma siamo sempre rimasti
legati in quanto gestisce la Ba.Ma, ossia la Holding
Finanziaria di famiglia - fondata nel lontano 1979, avevo
visto lungo - con lo scopo di acquisire e gestire patrimoni
immobiliari, mobiliari e partecipazioni in settori
industriali diversi dal core business di Viasat Group.
In qualche modo quindi ci siamo divisi i compiti: io sto
portando avanti lo sviluppo del Gruppo per capability
interna, mentre Marco porta avanti una strategia di
acquisizioni per consentire uno sviluppo per capacità
esterna, e per integrazione con ulteriori competenze e
potenzialità, e non solo a livello nazionale, quanto
piuttosto a livello internazionale. Quindi una cosa è certa:
il passaggio di leadership nel Gruppo non sarà un
passaggio «familiare», dobbiamo insomma passare da
una conduzione per così dire «imprenditoriale» a una
conduzione
manageriale,
possibilmente
«intraimprenditoriale».
Questo passaggio del progetto è quindi cruciale perché
dobbiamo fare del Gruppo Viasat una company con una
partecipazione nel capitale dei più meritevoli del
management stesso, anche questo un modo per realizzare
in completezza parte dei miei sogni: valorizzare chi ha
creduto e ha lavorato a lungo in questa azienda. Devo dire
che questa scelta, che in molte aziende si fa per evidente
incapacità della famiglia di gestire le cose, nel nostro caso
al contrario è stata condivisa proprio per creare una task
force manageriale per costituire, in futuro, una maggiore
96
forza e competenza settoriale. Proprio come è successo nel
caso della Apple e di altri colossi di riferimento mondiale.
Questo passaggio storico motiva i manager a tutti i
livelli, sia i giovani che le new entry e sia coloro che
entreranno nel Gruppo in futuro: nella nostra azienda
nessuna carriera sarà bloccata «dalla famiglia», da un
manager che mette il figlio al posto del capo solo perché
è suo figlio. Marco stesso ritiene e ha deciso che sia
giusto così. Che questa strategia dia molte più possibilità
di crescita al Gruppo perché solo così si riescono a
miscelare al meglio le capacità individuali con quelle
generali.
Certo, a essere proprio sinceri, la cosa non mi lascia
proprio indifferente, anzi. Mi fa soffrire, sia sul piano
emotivo che professionale perché – ovvio – la «squadra»
che prenderà la guida del Gruppo non è ancora
compiutamente configurata, anche se molte partite
nazionali le vinciamo, ma puntiamo al «campionato
mondiale». E questo significa che dovrà ancora lavorare,
come giocatore e allenatore, ma è il bello della vita, si sa.
Marco in ogni caso ha dimostrato di avere una visione
più aperta della mia: fare meglio del padre è sempre
difficile, ma quello di separare le nostre strade
professionali non è stato semplice. Quando mio figlio ha
preso questa decisione mi ha scritto una lettera molto
commovente, non ha avuto il coraggio di dirmelo di
persona. Temeva che io non sarei più stato orgoglioso di
lui. E invece no. Non è così. Io penso che sia giusto che i
figli facciano il proprio percorso così come ho fatto io.
Certo, il mio rimpianto è che li ho visti crescere troppo
velocemente e che non ho gustato come avrei voluto la
loro infanzia. Ma sono orgoglioso di come è cresciuto: io
stesso ho sempre cercato di dare una forte impostazione,
come dire, «etica» al lavoro. E Marco mi ha subito
superato, dando una svolta all’azienda in questo senso e
portando sempre la sua esperienza personale. Quale?
Basti dire che il viaggio di nozze lo ha passato a fare
volontariato con i bambini orfani in Brasile. Così alla fine
97
mi ha superato anche nel rapporto con i figli perché lui
oggi è quello che si dice «un padre presente», quello, per
concludere, che avrei voluto essere anche io.
98
CAPITOLO 31
Il nuovo inizio
Ottobre 2008. Vorrei fare un’ultima considerazione sul
«presente - fuggente» che giorno dopo giorno, come non
mai, sta sconvolgendo ogni sogno, ogni progetto. Il primo
scossone della borsa dell’agosto 2007 sono state inezie e
avvisaglie in confronto a quanto è accaduto nel corso del
2008. Le copertine dei giornali economici di tutto il mondo
proclamano la fine del capitalismo.
La conseguenza dell’uragano scatenato dalla crisi dei
muti subprime ha rinvigorito la necessità dell’intervento
dello Stato a favore delle banche in difficoltà anche a
scapito del liberalismo puro, con l’obiettivo di sottrarsi il
tracollo dei mercati ed infondere un po’ di fiducia tra i
risparmiatori, evitando la corsa al ritiro dei depositi e
scongiurare gli eventi del 1929.
È evidente che il «Big Crash» cambierà sostanzialmente
i connotati del capitalismo mondiale, con interventi di
emergenza e la volontà di riscrivere nuove regole, nel
mondo bancario, creando la voglia di interventi di
salvataggio, entrando nel capitale delle aziende in crisi.
Situazione come quella che ha visto il Governo Italiano
sponsorizzare cordate come quella dell’Alitalia con la
tentazione di entrare nelle gestioni col rischio di replicare
il disastroso assistenzialismo statalista della vecchia Iri.
È quanto sta succedendo negli Stati Uniti a favore di
General Motors, Chrysler e Ford, per impedire che
scompaia l’industria automobilistica americana. Per le
stesse ragioni e per riequilibrare i rapporti della forza
competitiva, potrebbe avvenire anche in Europa. Il rischio
è che le privatizzazioni, faticosamente realizzate negli
anni passati, potranno essere spazzate via in un baleno,
ritornando al passato e conseguentemente alla lotta
politica nell’occupare le poltrone al vertice delle grandi
imprese. Questo non è sicuramente un bello scenario.
Il pericolo plausibile è che il virus del terremoto
99
subprime, e successive crisi, dopo aver sconvolto il
mondo finanziario, coinvolgano anche quello industriale
e commerciale. È certo pertanto, che quanto accaduto
toccherà anche l’economia reale, quella fatta da imprese
vere e serie che basano il proprio sviluppo su fatti
concreti, sulle proprie capacità tecnologiche, sul saper
fare, sviluppare e creare concretamente ricchezza e valore.
È mia convinzione che questo terremoto dopo il disastro,
oltre alle minacce creerà comunque nuovi equilibri e
nuove opportunità, ancora difficili da recepire e codificare
ma che potrebbe portare vantaggi, alle citate imprese
virtuose.
Altro segnale chiaro e forte della volontà di cambiare è
la scelta epocale degli Americani. Il cinque novembre del
2008, Barack Obama ha vinto le presidenziali e diventa il
primo presidente democratico di colore degli Stati Uniti
d’America. Non ci sono più dubbi, termina il vecchio ciclo
del 68 ed inizia quaranta anni dopo il nuovo, il vero
cambiamento, annunciato e proclamato da Kennedy e da
Martin Luther King. Rinasce il sogno americano e la
voglia di cambiare il mondo. I giovani americani
finalmente si sono svegliati e sono andati a votare per
cambiare il loro futuro, e quello degli Stati Uniti, e hanno
preso coscienza che «cambiare si può». Hanno festeggiato
commossi, piangendo, ballando e cantando e certamente
l’euforia e la voglia crescerà e diventerà planetaria.
Cosa fare? Sicuramente bisogna stare all’erta, capire
come saranno i nuovi scenari che cambieranno e
rimodelleranno la nuova era. Sì, perché si tratterrà proprio
del «nuovo inizio» di un nuovo ciclo storico, di un nuovo
mondo che si evolverà nuovamente e di conseguenza. Chi
ha intuito e si è mosso in anticipo o fortuitamente è già
predisposto per cogliere le nuove opportunità, avrà il
vantaggio di essere pronto ai «nuovi macroeventi». Tutti
gli altri, se non vorranno essere travolti, dovranno fare
attenzione alle minacce e dovranno traumaticamente
reagire.
I giochi saranno tutti da reimpostare, le partite tutte da
100
giocare e solo i migliori che hanno la volontà e la passione
di fare potranno vincere. D’altronde questa non è una
novità, «è sempre stato così». Riflettendo su quanto sta
succedendo, mi si riaccende l’entusiasmo, anche se
divento malinconico, penso e ripenso.
«C’era un ragazzo che come me, amava i Beatles e i
Rolling Stones…». Così recitava la vecchia canzone di
Gianni Morandi: «Stop a Beatles, stop a Rolling Stones.
Stop?». Stop alla mia passione per i viaggi marittimi? Stop
alla barca? Stop ai vecchi sogni? Assolutamente no!
Neanche per «sogno: «Anzi, è giunto il momento per
inventarne di nuovi». Il mondo sta nuovamente
cambiando, bisogna reagire, bisogna risognare: «Il
presente-fuggente è il nuovo inizio». E chi sogna è vivo.
Ed io già fantastico, creando nella mente nuove puntate ai
miei progetti.
101
CAPITOLO 32
Riassumendo
Quella raccontata fin qui è una storia appassionante,
talmente veloce e coinvolgente che spesso io stesso ho
bisogno di fermarmi un secondo per guardarmi alle
spalle, studiare il percorso. Un esercizio utile anche per il
lettore per capire nel profondo il percorso. Ed è per
questo, che in estrema sintesi, lo ripropongo. Dal 1973 al
2004 il piccolo laboratorio è progressivamente cresciuto
attraverso una costante politica della Qualità che ha
conquistato clienti di assoluto prestigio e ha permesso il
consolidamento di rapporti fondati sulla reciproca stima.
Nel 1974 abbiamo posto la prima pietra per poter dar
corso a piccole e medie produzioni e per una quindicina
di anni abbiamo vissuto una crescita che ci ha spinti alla
costituzione di un’organizzazione più complessa
(nascono Elem Sistemi per attività di ricerca e sviluppo e
Exefin per attività strategiche e d’investimento) e a
traslocare cinque volte alla ricerca di spazi più ampi per le
nostre linee produttive. Negli anni 90 sono arrivati il salto
dimensionale con il trasloco nell’insediamento di seimila
metri quadrati di Venaria Reale alle porte di Torino, la
certificazione Uni Iso 29002 rilasciata da Imq-Csq e EqNet
(già nel 1992), quella Babt by IBM (1997) e l’Avsq ‘94
automotive (1999).
Con il nuovo millennio è poi nato il progetto NewEvolution che ci ha visti protagonisti di una serie di
iniziative dal peso prima regionale, poi nazionale e infine
internazionale, e che ci hanno fatti evolvere da
subfornitori elettronici a produttori di prodotti finiti hitech e di sistemi telematici, per aziende di assoluto
prestigio e per nostri stessi brand che ci stanno
permettendo di arrivare direttamente al cliente finale con
una capillare rete commerciale.
Si pensi ad esempio all’acquisizione del secondo
insediamento produttivo di quattromila metri quadrati;
102
all’entrata nel capitale di AXIS, società di progettazione e
R&D costituita da ingegneri di altissimo livello; alla
costituzione della Elem Engineering (2001); alla
certificazione Uni Iso 9001: 2000 Vision 2000 Avsq ‘94 a
livello di Corporate (2001); all’entrata nell’EMS-Alliance
che ci ha permesso di instaurare nuove collaborazioni in
Polonia, Svezia, Stati Uniti, Brasile, Cina, India (2002); alla
costituzione di Elem Polska a Varsavia; all’acquisizione di
Viasat dopo un testa a testa con una compagine straniera
che avrebbe messo in discussione diversi posti di lavoro in
Italia e che avrebbe fatto rischiare al nostro Paese
l’emigrazione di una tecnologia di assoluto prestigio a
livello mondiale (2003); all’acquisizione della
maggioranza della Movitrack e all’inizio dell’offerta di
servizi satellitari, in ambito assistenza stradale, in
collaborazione con Aci Global, società dell’Automobil
Club Italia (2004).
Da quel momento, a maggior ragione, bisognava
impegnarsi al massimo tutti insieme per sviluppare nuove
competenze, per accelerare possibili ulteriori acquisizioni,
per aggregare nuove forze per completare e allungare la
filiera al fine di «sviluppare nuove opportunità e nuovi
business».
103
CAPITOLO 33
Sviluppi, acquisizioni, partecipazioni
Fondata nel 1974, la Elem rappresenta la pietra miliare;
oggi conta due stabilimenti produttivi a Venaria Reale
(Torino) in un comprensorio di oltre 20.000 metri quadrati.
Progetta, ingegnerizza e produce schede, prodotti,
moduli, sistemi elettronici e device satellitari per esigenze
di tutte le società del Gruppo e per terzi produttori di
elettronica nei settori auto, sicurezza, difesa, navale,
aeronautico, spaziale.
Exefin fondata nel 1988, per la gestione consolidata delle
attività e del patrimonio aziendale del Gruppo Elem.
Rinominata nel 2007 in Viasat Group, è la capogruppo
della filiera. Detiene quote societarie, disegna i piani di
espansione, sviluppa strategie di marketing, decide la
politica amministrativa e coordina le attività delle aziende
collegate mediante l’acquisizione di quote di
partecipazione.
Viasat Group è un’organizzazione industriale
strutturata con unità operative specializzate ed orientate
al mercato. «La nostra missione consiste nell’adeguarci
prioritariamente alle esigenze dei clienti. Il nostro
successo dipende e dipenderà dalle conoscenze
tecnologiche del nostro staff e di tutti i nostri uomini, dalla
qualità e rapidità di risposta e dalla volontà di migliorare
e sviluppare le nostre capacità».
Viasat nasce nel 1987 come Com.Net, società del Gruppo
Telespazio; nel 1998 assume il brand Viasat in seguito alla
joint venture tra Magneti Marelli e Seat-Telecom. Forte del
proprio know how, s’impone nel mercato, divenendo
sinonimo di «Sistema di sicurezza e protezione satellitare»
sia per l’auto sia per chi viaggia. Alla fine del 2002 Viasat
viene acquisita da Exefin (Gruppo Elem).
Movitrack nasce nel 1988 come iniziativa del Gruppo
Olivetti per sviluppare prodotti e servizi basati sulla
localizzazione dei veicoli con l’uso delle tecnologie GPS e
104
della telefonia mobile GSM. Nel 1996, con l’ingresso di
ACI, inizia la propria operatività nel mercato dei servizi.
Nel 2004 entra a far parte del Gruppo Elem. Nel 2009
viene incorporata in Viasat e diventa divisione B2B e B2A,
con focus sui servizi assicurativi e sui servizi di sicurezza
per la gestione delle flotte di autonoleggio.
Vem Solutions, azienda che riunisce know-how ed
Expertise storiche di Viasat, Elem, Movitrack e Redco,
nasce con la missione di sviluppare progetti di sistemi e
servizi innovativi nell’ambito della protezione e sicurezza
satellitare (SPLS), sia per esigenze del Gruppo che per
terzi. Negli anni progetta una moltitudine di terminali di
bordo ed integra le diverse soluzioni telematiche del
Gruppo, realizzando la piattaforma MultiDevice,
MultiService, «Vespucci».
Redco Infomobility nasce nel 2001, offrendo servizi di
sicurezza e fleet management basati sulla tecnologia di
localizzazione satellitare e comunicazione «wireless».
Progetta e produce terminali di bordo, modem e accessori
(transponder, chiavi elettroniche ecc.), soluzioni e sistemi
di sicurezza (auto, moto, imbarcazioni), piattaforme,
portali, protocolli di comunicazione, sistemi e tools
applicativi dedicati alla gestione di flotte di veicoli. Nel
2009 viene acquisita da Viasat Group e nel 2010
incorporata in Viasat.
Nel 2007 nasce dall’esperienza di Viasat nei servizi
satellitari e dalla forte presenza di Redco nei servizi per
l’autotrasporto la Business Unit FMS. La mission è quella
di fornire servizi a valore aggiunto e servizi di sicurezza
specifici per il fleet management, offrendo soluzioni, dati
ed informazioni per monitorare e gestire in sicurezza il
trasporto e la tracciabilità delle merci, pericolose e non, in
conformità alle normative vigenti.
Pointer Telelocation, quotata a Tel-Aviv e al Nasdaq, è
un provider leader di tecnologie e servizi per l’industria
automobilistica e assicurativa. Offre servizi di assistenza
stradale, stolen vehicle recovery e fleet management. Ha
una crescente customer base di prodotti installati in tutto
105
il mondo: Regno Unito, Grecia, Messico, Argentina,
Brasile, Russia, Croazia, Germania, Repubblica Ceca,
Lettonia, Turchia, Hong Kong, Singapore, India, Costa
Rica, Norvegia, Venezuela, Ungheria, Israele e altri Paesi.
Cellocator, Products Division di Pointer, rappresenta, in
partnership con Viasat, uno dei principali operatori AVL
(Automatic Vehicle Location) del mondo. Nel 2010 Viasat
Group entra nel capitale sociale diventando il terzo
azionista di riferimento.
Ba.Ma è la holding finanziaria fondata nel 1979 con lo
scopo di acquisire e gestire patrimoni immobiliari,
mobiliari e partecipazioni in settori industriali diversi dal
core business di Viasat Group. Dopo il consolidamento
della leadership in Italia, nel mese di ottobre del 2011
viene inaugurata in Spagna, a Madrid, la costituzione
della Viasat Servicios Telemàticos in joint venture con
Zenithal, società specializzata in soluzioni business to
business.
106
PARTE QUINTA
LE STRATEGIE EVOLUTIVE
CAPITOLO 34
Creatività, principi e valori: ecco il segreto
«La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce
dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le
scoperte e le grandi strategie». I concetti di Einstein sono
quanto mai attuali e quanto mai realizzabili. Viasat Group
ha sempre avuto un approccio filosofico al mondo del
lavoro. Dal punto di vista pratico la nostra missione è
ideare, realizzare e diffondere sistemi e servizi di sicurezza
e protezione con applicazione di tecnologie satellitari;
Essere riconosciuti dal mercato come leader affidabili e
innovativi, grazie a una storia di successo che compie 40
anni. E, ovviamente, attraverso l’evoluzione e il
miglioramento continuo delle nostre tecnologie assicurare
ai mezzi e alle persone la massima protezione, sicurezza e
assistenza. Tuttavia un’azienda, secondo me, non deve
essere solo questo. Mi spiego meglio, tornando ancora una
volta all’esempio concreto della Viasat. Il Gruppo fonda la
propria storia su solide basi costruite sull’esperienza nella
ricerca e nella produzione all’interno dei segmenti di
mercato nei quali riveste un ruolo di riferimento. Va bene,
ma non è tutto: elemento fondante di questo percorso è
stata anche l’attenzione riservata ai principi e valori di
natura etica.
In sostanza posso dire che l’attività di ricerca di tutto il
Viasat Group non è tesa esclusivamente all’efficienza
tecnologica, ma l’intento è stato quello di sviluppare
prodotti e servizi interessanti e importanti anche in termini
di originalità, utilità e innovazione. Insomma le basi del
Gruppo si fondano su di uno stile lavorativo che valorizza
creatività e capacità dell’individuo e lo pone al centro della
sua strategia. Una direzione che ho sempre seguito e ho
avuto sempre molto chiara. Al punto che ho schematizzato
il tutto in una specie di linea guida, messa poi nel nostro
sito ufficiale, in modo tale da «spiegare» anche all’esterno
la nostra filosofia, il nostro modo di lavorare, divulgando lo
109
schema consolidato basato su alcuni Valori per noi
fondamentali:
- Principio dell’atteggiamento positivo: impegno a
superare ogni ostacolo con spirito positivo.
- Principio dell’apprendere: impegno a sviluppare nuove
idee e nuovi prodotti.
- Principio del fare: impegno a realizzare attività di
sviluppo con piani operativi innovativi.
- Principio dell’insegnare a fare: impegno a trasferire agli
altri colleghi le proprie conoscenze.
- Principio del vero e del giusto: impegno a perseguire e
a promuovere comportamenti che valorizzino il vero e il
giusto.
- Principio del bello: impegno a sviluppare prodotti e
servizi non solo qualitativamente utili, ma anche originali,
appaganti, belli.
Potrà sembrare una ripetizione e potrebbe suonare strano
che un’azienda insista su principi e valori, perseguendo
questa strada. Ma la mia non è un’azienda normale, è
un’azienda che nasce da esperienze, spesso autodidattiche,
da una vita di sacrifici, da eventi che hanno portato alla
trasformazione e crescita di un bambino, alla formazione
di un ragazzo, alla maturazione dell’adulto. «Dalle infelici
privazioni di un tempo, all’orgogliosa realtà dei successi
raggiunti» con il coinvolgimento e contributo di tutte le
persone che hanno fatto parte del processo di crescita, in
perfetta simbiosi con l’evoluzione tecnologica e strutturale.
110
CAPITOLO 35
La nostra bandiera
Il bilancio sociale, annual report che Viasat Group, come
tante altre società, redige annualmente, è la nostra
bandiera. Per noi questo documento economico è molto
di più che un elemento contabile, è una specie di
strumento per dare visibilità alle domande e alla necessità
di informazione e trasparenza interna e verso tutti i nostri
interlocutori. Una sorta di certificazione del profilo etico,
l’elemento che legittima il ruolo aziendale, non solo in
termini strutturali, organizzativi, tecnologici, ma
soprattutto morali, agli occhi della comunità di
riferimento, un momento per enfatizzare il proprio
legame con il territorio e il Paese, un’occasione per
affermare il concetto di impresa con «sani principi».
Strategia perseguita concretamente negli anni, che ha
consentito di ottenere nel 2010 il prestigioso «Oscar del
Bilancio» e nel 2011 il riconoscimento di «Imprenditore
dell’anno 2011», premio Ernst & Young categoria
Technology & Innovation.
Impostazione e attenzione valgono poi anche per le
scelte sia sociali che ambientali. Vivere e lavorare «green»,
come va di moda dire oggi, per Viasat Group è un
impegno che va al di là del semplice rispetto della
normativa, perché promuovere il miglioramento continuo
delle nostre «prestazioni ambientali» deve essere una vera
e propria missione. Non sono un caso i continui impegni
nella riduzione dei costi e in progetti per abbattere i
consumi idrici ed elettrici attraverso un’attenzione
maniacale dei consumi e degli sprechi durante tutte le
lavorazioni industriali. Abbiamo rivolto una grande
attenzione proprio alle emissioni, i cui punti confluiscono
in un impianto centralizzato dal quale, attraverso filtri che
abbattono le sostanze organiche, viene immessa
nell’atmosfera esclusivamente CO2.
Stesso discorso per la gestione dei rifiuti che in Viasat
111
Group avviene in modo controllato attraverso tutte le fasi
di produzione, trasporto e smaltimento. I nostri piani
logistico-produttivi operano, infatti, realizzando una
perfetta tracciabilità di tutti i rifiuti prodotti. Rientrano in
tale contesto sia le materie prime, sia gli altri materiali
necessari al corretto svolgimento dei processi industriali,
per realizzare così programmi di sviluppo delle politiche
ambientali (raccolta differenziata, utilizzazione, consorzi
di smaltimento) delle Pubbliche Amministrazioni.
E, poi, come dicevamo, c’è l’impegno per il settore
sociale con un numero considerevole di iniziative. Fra le
più importanti voglio ricordare la Campagna Fondazione
Ania-Scatola Rosa, un dispositivo telematico per il pronto
soccorso immediato in caso di incidente e per la
prevenzione delle aggressioni alle donne.
O la collaborazione tecnologica con associazioni ed enti
istituzionali per l’erogazione di servizi innovativi
nell’ambito della sicurezza stradale e del soccorso in caso
di incidente, anticipando di un decennio l’emanazione
della normativa europea (il famoso dispositivo eCall).
Senza dimenticare il sostegno a varie attività di impegno
sportivo ed educativo, e il «Viasat for Children» che
supporta progetti umanitari in situazioni di indigenza
seguiti dai centri delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
112
CAPITOLO 36
L’idea di più protezione, più sicurezza, più assistenza
Le tante sfide da affrontare quotidianamente ci hanno
portato alla realizzazione di un nuovo progetto. Vivere in
un contesto più sicuro, viaggiare per le strade riducendo
i rischi da eventi traumatici generati da chi non rispetta
le leggi o da fattori malavitosi, tutelare i cittadini onesti
difendendo i loro beni, ridurre contemporaneamente i
costi da sostenere, riorganizzare la filiera logistica in
maniera più competitiva: sono questi alcuni obiettivi che
ci prefiggiamo fin dalle origini di Viasat, dal 1987.
La sensibilizzazione di tutti - istituzioni, operatori,
consumatori - è una scommessa che intendiamo vincere
anche grazie al contributo di questa iniziativa. Per
agevolare l’automobilista nelle pratiche in seguito a un
sinistro, Viasat Group ha messo così a disposizione un
servizio innovativo: si chiama «Rimborso Facile». In caso
di incidente, attraverso un numero verde (800 691 691) è
possibile ottenere assistenza immediata. Il Servizio operativo 24 ore su 24, 365 giorni l’anno - supporta il
cliente già al momento dell’incidente, guidandolo nella
compilazione del CAI.
In seguito verifica tutti gli elementi forniti, valuta le
condizioni di ragione e attiva la pratica di rimborso,
limitando il contenzioso per minimizzare i tempi di attesa.
Gli esperti poi forniscono assistenza legale gratuita,
prendendo in gestione l’intera pratica e mettendo
eventualmente a disposizione medici legali
convenzionati. Il numero verde è a disposizione anche per
chi non ha installato un dispositivo Viasat sulla propria
autovettura. Questa è la nuova visione di mercato: fornire
più protezione e più servizi a beneficio dell’automobilista.
113
CAPITOLO 37
Sicurezza, risparmio e antifrode
Da una parte gli automobilisti denunciano il caro
RcAuto, a maggior ragione se confrontato con gli altri
Paesi europei, e invocano giustamente una riduzione dei
premi di polizza; dall’altra le imprese di assicurazione
segnalano correttamente la frequenza dei fenomeni
fraudolenti, primato tutto italiano, a giustificazione dei
rincari. Tale contrapposizione si ripresenta ormai regolare
e immutata da molti anni in occasione di ogni
aggiornamento di tariffa, nonostante i dibattiti, i tavoli di
lavoro, le consultazioni che puntualmente ne seguono a
livello istituzionale e politico in risposta al clamore
mediatico ed alle richieste delle associazioni dei
consumatori. Le iniziative che scaturiscono, infatti,
raramente segnano un cambiamento radicale del sistema,
unica vera soluzione, ma più frequentemente
promuovono semplici interventi correttivi dell’attuale
modello, che si rivelano non risolutivi e, in alcuni casi,
addirittura controproducenti.
È la conferma della necessità di abbandonare la politica
dei ritocchi e aggiustamenti a favore di un mutamento
radicale e, in questa direzione, finalmente è parso
muoversi il Governo Monti. Se infatti, in passato, un
atteggiamento conservativo era inevitabile per l’assenza
di strumenti di rinnovamento, adesso l’evoluzione della
telematica di bordo permette di ripensare tutto il sistema
dell’assicurazione auto: alle tradizionali funzioni antifurto
si sono affiancate quelle per la sicurezza del conducente,
dei passeggeri, delle merci trasportate e, soprattutto per la
«gestione tecnologica» della garanzia RcAuto e dei relativi
sinistri. Funzioni, queste ultime, che volutamente non si
vogliono ricondurre semplicemente al concetto, spesso
utilizzato in senso negativo, di scatola nera.
114
CAPITOLO 38
La scatola nera
Il progetto di una scatola nera applicabile alle auto (che
riprende concettualmente il principio del data recorder
presente negli aerei e in molti altri mezzi di trasporto)
come abbiamo visto non è proprio una novità, anche
perché si ricollega al diffuso servizio degli antifurti
satellitari, già sviluppato da Viasat negli anni 90. Un
mondo e un mercato in piena evoluzione e crescita con
previsioni di incrementi annuali a doppia cifra ed un
valore mondiale previsto entro il 2016 di oltre 70 miliardi
di euro, in cui le aziende italiane giocano un ruolo di
assoluto rilievo.
La scatola nera rappresenta fra l’altro anche una tappa in
direzione del sistema eCall per la chiamata automatica di
emergenza al 112, previsto dall’Unione Europea con la
raccomandazione dell’8 settembre 2011 per l’adozione su
tutte le auto dal 2015. La funzionalità di eCall, che mira a
fornire assistenza immediata in caso d’incidente tramite la
localizzazione satellitare, potrebbe facilmente essere
integrata in un apparato più complesso, comprendente la
scatola nera e altre funzioni di interfaccia tra veicolo e
infrastrutture.
I dispositivi non solo registrano le informazioni che
consentono di ricostruire la dinamica di un incidente, ma
ne rilevano in tempo reale il suo verificarsi (inviando
contestualmente un allarme alla centrale operativa per
l’attivazione, immediata e georeferenziata degli eventuali
soccorsi) e memorizzano i dati statistici relativi all’uso del
veicolo (dove, quando e come si guida). Tutto questo si
traduce nella possibilità di concepire nuove formule
tariffarie, finalmente capaci di creare la polizza su misura
del cliente, ritornando a ponderare il premio in base
all’effettivo e specifico rischio, e di riorganizzare
completamente il processo di liquidazione dei sinistri in
termini di efficienza e di efficacia. Inoltre è dimostrato che
115
l’installazione di tale tecnologia sui veicoli ha effetti
positivi sulla sinistrosità e sull’annoso problema delle
frodi. In particolare, per quanto riguarda il primo aspetto
numerose sperimentazioni hanno permesso di riscontrare
una riduzione della frequenza degli incidenti e della loro
gravità grazie ad un miglioramento dello stile di guida
indotto dalla presenza del dispositivo sulla vettura. In
relazione invece al fenomeno delle frodi, la tecnologia ha
una funzione preventiva come deterrente, e repressiva
come validissimo strumento per l’accertamento e la
contestazione del reato.
La stessa Viasat, uno dei maggiori player del settore,
quasi subito oltre all’originaria funzione di antifurto ha
introdotto il sistema per contenere i costi per le compagnie
assicurative grazie alla riduzione delle frodi sui sinistri,
ma anche grazie al miglioramento dei processi di gestione
ed alla possibilità di creare nuovi prodotti personalizzati
e più convenienti per i clienti.
È il caso delle polizze pay per use (premio in base ai
chilometri percorsi), o delle più evolute polizze pay as
you drive con il premio costruito in base al profilo
specifico del cliente e determinato non solo dai chilometri
percorsi, ma anche dalle tipologie di strade percorse
(urbane, extraurbane, autostrade), dagli orari di
percorrenza (notte, giorno, feriali o festivi), dalle ore
consecutive di guida, dalla pericolosità delle strade, dallo
stile di guida (più o meno rischioso).
Tutti questi parametri, attraverso l’elaborazione da parte
di un algoritmo specifico e brevettato, contribuiscono alla
costruzione dell’indice di rischiosità Viasat. L’IRV
attribuisce a ciascun assicurato un punteggio da 1 a 18
punti che, analogamente alle classe di merito
bonus/malus, ma in maniera più specifica e predittiva,
rappresenta l’effettiva propensione alla sinistrosità.
116
CAPITOLO 39
Il decreto Monti «Sviluppo Italia»
Il decreto legge 24 gennaio 2012, poi convertito in legge
nel marzo successivo, ha portato grandi cambiamenti nel
settore assicurativo; ha finalmente individuato nella
scatola nera la soluzione per il contrasto alle frodi e ne ha
promosso il suo uso imponendo alle compagnie di
applicare uno sconto significativo sulla tariffa RcAuto e
attribuendo a quest’ultime, e non ai consumatori, tutti i
costi annessi e connessi: di installazione, disinstallazione,
funzionamento ecc.
La novità ed il merito non stanno quindi nella scoperta
del rimedio, che già era adottato da molte imprese di
assicurazione e con ottimi risultati (tecnici e commerciali),
ma nella istituzionalizzazione e promozione dello stesso
consentendo di superare i timori che permanevano,
soprattutto a livello istituzionale e politico, nell’avviare
un rinnovamento radicale. Ho quindi accolto con estremo
favore ed entusiasmo i principi e lo spirito contenuto nelle
nuove disposizioni di legge che perseguono con forza
proprio l’obiettivo di accelerare il percorso di
risanamento.
Purtroppo però con il passare del tempo ho
incominciato ad avvertire un certo «raffreddamento»
dell’euforia e della positività iniziale, in quanto in sede di
attuazione della normativa gli addetti ai lavori si stavano
concentrando su come doveva essere la scatola nera
(nonostante tale tecnologia sia in uso da anni), e non,
invece, su come garantire e quantificare un risparmio
«significativo» all’assicurato; e si assisteva ad uno scontro
interpretativo tra l’Isvap (l’Istituto di vigilanza del settore
delle assicurazioni), che ribadiva con forza l’idea secondo
cui la scatola nera doveva essere obbligatoria, e l’Ania che,
al contrario, sosteneva che «la legge offre una facoltà
all’assicurato, ma non impone alcun obbligo alle imprese,
che restano libere di offrire questa tipologia di polizze».
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CAPITOLO 40
Scatola nera, la nostra visione
In questa bagarre, noi di Viasat abbiamo ritenuto
opportuno uscire allo scoperto, per non vanificare la
portata innovatrice del provvedimento, mettendo nero su
bianco le nostre idee nell’interesse non solo della filiera di
tutte le imprese coinvolte, ma soprattutto della collettività,
per mettere a servizio delle Istituzioni la nostra esperienza
e fornire un contributo affinché si porti a termine con
coraggio ed energia questa opportuna e preziosa iniziativa
del Legislatore. Così, con questo spirito, abbiamo proposto
al Legislatore, alle Autorità competenti e all’opinione
pubblica un decalogo per definire nel dettaglio il
regolamento attuativo della legge. Eccolo in versione
integrale.
Decalogo del regolamento attuativo della legge 27/2012,
articolo 32 comma 1:
1) Novità: le compagnie assicurative dovrebbero
necessariamente disporre di almeno una formula
assicurativa telematica che debba prevedere l’installazione
della scatola nera che dovrà essere offerta in seguito ad ogni
richiesta di preventivo RCA.
2) Costi: come da normativa i costi (scatola nera,
installazione,
servizi
telematici
ed
eventuale
disinstallazione) dovrebbero essere sostenuti dalle
compagnie.
3) Riduzione delle tariffe: le compagnie dovrebbero
praticare uno sconto base alle tariffe assicurative pari
almeno al 20 per cento rispetto alla soluzione che non
prevede l’installazione della scatola nera, al netto del costo
del dispositivo (verificato dall’Isvap).
4) Ottimizzazione dei processi di gestione: le compagnie
dovrebbero utilizzare la tecnologia telematica per la
certificazione dei sinistri e l’ottimizzazione delle procedure
al fine di accelerare le tempistiche dei risarcimenti relativi
ai sinistri.
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5) Privacy e relative normative: nel pieno rispetto della
privacy del consumatore, i dati trasmessi dalla scatola nera
dovrebbero essere criptati e secretati, pertanto sicuri. La
scatola nera dovrà quindi essere conforme alle specifiche
CEI 79/56 e ISOTS 16949:2009, e dovrà essere garantita la
compatibilità elettromagnetica 99/05/CE.
6) Funzioni della scatola nera: come requisito minimo, il
dispositivo dovrebbe rilevare il sinistro e la relativa
dinamica, fornendo i dati necessari alla predisposizione di
una Perizia telematica e di una Certificazione del sinistro,
consentendo un miglioramento dei processi per la
liquidazione dei sinistri.
7) Funzioni accessorie: oltre alle funzioni di base sopra
descritte dovrebbe essere consentita la possibilità di offrire
altri importanti servizi accessori tramite moduli o tools
aggiuntivi, utili sia all’utente sia alla compagnia, al fine di
garantire una maggiore protezione e sicurezza.
8) Portabilità ed interoperabilità: nell’ottica di una «vera
liberalizzazione», la portabilità dovrebbe essere intesa
come possibilità per il cliente di cambiare liberamente la
compagnia assicurativa, mantenendo la scatola nera già
installata sul veicolo con la garanzia di poter effettuare il
trasferimento telematico dei dati storici e del profilo
personale dalla vecchia alla nuova compagnia.
9) Liberalizzazione del mercato: per garantire la completa
liberalizzazione del mercato, il cliente dovrebbe essere
libero di scegliere sia la compagnia assicurativa sia il
fornitore del servizio telematico. Potrebbe inoltre dotarsi
autonomamente della scatola nera. In tale eventualità la
compagnia avrebbe il dovere di praticare uno sconto
maggiore sulla tariffa assicurativa.
10) Authority Isvap: sarebbe opportuno che vigilasse e
richiedesse periodicamente il dettaglio delle azioni
intraprese, l’adeguamento dei processi alla normativa,
nonché il riconoscimento legale della perizia telematica.
Questo decalogo ha avuto una risonanza mediatica
inimmaginabile, ed ha suscitato molto clamore per la
chiarezza e forza del messaggio, del tutto inusuale per certi
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ambienti, rispetto ai quali anch’io ero del tutto estraneo fino
a quel momento. Nel giro di poche ore il mio telefono
cellulare ha incominciato a squillare ininterrottamente e ho
ricevuto numerosi messaggi di apprezzamento e stima che
mi hanno ulteriormente spronato a proseguire per questa
strada. Anche il mondo politico e istituzionale ha accolto
positivamente il mio intervento e ha incominciato ad
individuare nella mia persona un punto di riferimento e un
portavoce del settore con il quale dialogare e collaborare
per una corretta traduzione in pratica della normativa.
Proprio per queste ragioni Viasat è stata poco dopo
chiamata in audizione presso la Commissione X del Senato
per esporre le proprie considerazioni e proposte
sull’argomento. In quell’occasione mi sono presentato in
rappresentanza dell’azienda, non senza una certa
emozione, ma anche con orgoglio e soddisfazione per il
significato personale, e soprattutto collettivo, del mio
intervento, e ho avuto modo di segnalare con forza che
l’incertezza dettata dall’assenza dei provvedimenti
attuativi, dalla mancanza di garanzie sull’emanazione degli
stessi e dall’atteggiamento «attendista» delle Istituzioni,
stava generando un rallentamento del nostro settore.
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CAPITOLO 41
La Telematics Service Providers Association
Come rappresentare la riforma del quadro legislativo
italiano del Governo Monti, in particolare nella parte in
cui si disciplina la proposizione commerciale da parte di
Telematics Service Providers e di compagnie assicurative
di Telematics Boxes? La risposta è: con la neonata
Telematics Service Providers Association che, promossa e
sostenuta inizialmente dalle società Viasat Group e da
Cobra Telematics, è presieduta da Marco Petrone
affiancato da Carmine Carella nelle vesti di
vicepresidente; con un’Assemblea costituita dai soci
fondatori Cobra Telematics e Viasat Group e dai successivi
associati ordinari; e da un Comitato tecnologico esecutivo
composto dal presidente e da quattro associati eletti
dall’Assemblea stessa.
Pertanto, le modalità di raccolta, gestione e uso dei dati
non saranno più una discrezione dei Telematics Service
Providers così come sempre è stato, ma dovranno essere
conformi al regolamento in corso di definizione da parte
delle suddette Istituzioni. La legge crea dunque grandi
opportunità per il settore, ma nello stesso tempo può
penalizzare gli operatori che non sapranno adeguarsi ai
cambiamenti pianificati dal legislatore per il bene della
collettività.
Un’associazione di categoria è dunque necessaria per
interloquire in modo oggettivo con dette Istituzioni. Il
regolamento dovrà inoltre disciplinare l’interoperabilità
dei meccanismi elettronici, nel senso che se nel 2012 Tizio
si assicura con ALFA Assicurazioni, che gli installa una
scatola nera riducendogli il premio, quando nel 2013 lo
stesso Tizio decide di passare alla compagnia BETA
Assicurazioni, questa deve poter operare con scatola nera
anche se fino ad allora ha lavorato solo con scatola nera di
un’altra società telematica!
Il comma 1-ter disciplina che «con decreto del ministro
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dello Sviluppo economico, da emanare entro 90 giorni
dalla data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto, sentito il Garante per la protezione
dei dati personali, è definito uno standard tecnologico
comune hardware e software, per la raccolta, la gestione
e l’uso dei dati raccolti dai meccanismi elettronici di cui al
comma 1, al quale le imprese di assicurazione dovranno
adeguarsi entro due anni dalla sua emanazione».
Il terzo comma è quello più programmatico a medio
termine, ma anche più incisivo sulle dinamiche del
settore. Gli hardware e i software dovranno infatti
diventare uno standard uguale per tutti i Telematics
Service Providers entro due anni. L’Associazione ha
formalmente interloquito con le Istituzioni e si propone
come soggetto super partes rispetto ai singoli associati per
favorire una piena maturazione del settore.
Ecco quindi il progetto della Telematics Service
Providers Association che punta a tutelare gli interessi
della categoria coniugandoli con gli interessi generali
della collettività nella costruzione di un modello di
sviluppo sostenibile riconosciuto dalle Istituzioni,
dall’opinione pubblica e dal mercato: valorizzare la
telematica e l’innovazione tecnologica come fattori
essenziali della qualità della vita degli automobilisti,
dell’economia dei trasporti e dei servizi, nel rispetto delle
regole di mercato e di competizione fra le imprese.
Come? Qual è il programma di questa Associazione?
L’idea è quella di svolgere ogni opportuna azione per
diffondere una più ampia e approfondita conoscenza dei
benefici dei servizi telematici sia per il consumatore, sia
per l’industria automobilistica, assicurativa, della logistica
e dei trasporti. Insomma un programma preciso,
sintetizzato in alcuni punti. Eccoli:
- promuovere la definizione di standard minimali di
processi e di infrastrutture tecnologiche a garanzia della
qualità di erogazione dei servizi telematici, della privacy
e del trattamento dei dati;
- rappresentare gli associati nei modi previsti dalla legge
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o dai relativi statuti o regolamenti, in organismi pubblici,
enti od associazioni nazionali, internazionali o
sopranazionali, nei quali la categoria abbia o possa avere
interessi diretti od indiretti;
- promuovere iniziative nell’interesse comune degli
associati;
- promuovere attività di ricerca e studio, anche in
collaborazione con altri enti o associazioni, dirette alla
soluzione di problemi di ordine tecnico, economico,
finanziario, amministrativo, fiscale, sociale, giuridico e
legislativo, riguardanti l’industria telematica;
- raccogliere ed elaborare tutti gli elementi, notizie e dati
che possano comunque avere interesse per la categoria;
- svolgere ogni altra attività comunque utile per il
raggiungimento dello scopo sociale, non in contrasto con
la normativa vigente e con il presente statuto;
- aderire, con delibera da adottarsi dall’assemblea, ad
altre associazioni od enti quando ciò torni utile al
conseguimento dei fini associativi.
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CAPITOLO 42
Scatola nera, il punto
Continua la querelle intorno alla famigerata scatola nera.
È tutto fermo dopo la prima fase in cui i principi e le
indicazioni contenute nelle nuove disposizioni di legge
(27-2012 art.32) sono state complessivamente accolte con
favore ed entusiasmo, nella speranza di consentire
un’accelerazione del processo di risanamento e di
liberalizzazione con una maggiore protezione e sicurezza
degli automobilisti. Il problema è l’eccessiva lentezza
nella diffusione della scatola nera nonostante la
consapevolezza che, se utilizzata correttamente ed
integrata all’interno dei processi di gestione e
«liquidazione del sinistro», consenta una riduzione
sensibile dei costi assicurativi.
Secondo me, ed insisto, la vera questione non è come
deve essere la scatola nera, ma piuttosto come garantire e
quantificare un risparmio «significativo» all’assicurato e a
tal proposito operatori di settore, imprese di assicurazioni
ed associazioni dei consumatori attendono dalle
istituzioni «il regolamento» e indicazioni perentorie.
L’Associazione TSP ha individuato tre punti cardine da
seguire poiché, dopo molti mesi dall’emanazione della
norma, regna ancora un clima di grande incertezza
proprio perché l’assenza dei provvedimenti attuativi, la
mancanza di garanzie sull’emanazione degli stessi e
l’atteggiamento «attendista» delle istituzioni, hanno
generato un rallentamento del nostro settore. Lo slancio
iniziale del decreto si è tradotto in un freno bloccante.
Alcune compagnie, che già adottavano la scatola nera, ne
hanno rallentato o sospeso la diffusione ed altre imprese,
che stavano avviando nuove iniziative, sono in attesa di
conoscere le disposizioni attuative e perentorie per
procedere. Questa fase di stallo sta generando un danno
ai consumatori e all’intera filiera del settore telematico.
Considerando anche la drammaticità congiunturale, e al
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fine di evitare ulteriori penalizzazioni e perdite
occupazionali, è urgente emanare il relativo
provvedimento attuativo e rendere finalmente operativa
la legge.
C’è sempre in discussione il problema della sostenibilità
del modello economico: nonostante la positiva e
spontanea diffusione e l’uso di oltre un milione di scatole
nere (da parte di circa il 3 per cento delle vetture
circolanti), e pur dimostrando negli anni significativi
risparmi che giustificano la sostenibilità e il recupero
abbondante dell’investimento effettuato, temiamo che
alcune compagnie, in attesa di misurare direttamente e
concretamente i benefici di questa tecnologia, possano
trasferire i costi indotti della scatola nera sul prezzo della
polizza, con l’annullamento del risparmio ipotizzato per
l’assicurato «virtuoso» e la conseguente inefficacia del
provvedimento.
Per evitare il più possibile questa ipotesi e per favorire
nello stesso tempo la libera scelta del consumatore,
sarebbe fondamentale offrire all’assicurato anche
l’opportunità, nel caso desideri ulteriori servizi, di dotarsi
autonomamente del dispositivo telematico o di
contribuire ai suoi costi sgravando in questo modo la
compagnia di una parte del peso economico, beneficiando
però contestualmente di una «maggiore e significativa»
riduzione del premio che consenta quantomeno di
compensare gli oneri sostenuti direttamente. Per facilitare
la sostenibilità del modello economico sarebbe inoltre
interessante valutare, oltre alla riduzione «significativa»
del premio, anche la possibilità di attuare una politica
economica disincentivante per i «non virtuosi», al buon
fine di contribuire alla copertura finanziaria del
provvedimento. In altre parole, far pagare di più i «non
virtuosi» e meno i «virtuosi» che adottano la scatola nera.
Con l’interoperabilità si dovrebbe consentire il
trasferimento dei dati e dei servizi telematici tra i vari
Telematics Service Providers (TSP) attraverso la
standardizzazione delle funzioni e dei protocolli di
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comunicazione della scatola nera che la legge prevede
venga attuata nell’arco di due anni.
Nella fase transitoria, in assenza di standard, la
possibilità per l’assicurato di cambiare compagnia senza
sostituire il dispositivo (portabilità) potrà essere
consentita, non attraverso il complesso meccanismo su
indicato dell’interoperabilità, ma tramite una semplice
«connettività» della compagnia con più providers. In
questo modo, attraverso la semplice definizione del set
minimo di dati telematici d’interesse assicurativo e
l’unificazione dei flussi basilari di comunicazione tra le
compagnie e i TSP, sarà possibile garantire sin da subito,
al consumatore, la possibilità di transitare da una
compagnia a un’altra senza sostituire la scatola nera e
senza ulteriori costi.
In merito alla definizione dei «requisiti minimi» della
scatola nera e del «format e set dati basilari», si ritiene
«incompatibile» con i fini del legislatore l’uso di «oggetti»
troppo elementari non in grado di individuare e
comunicare l’esatta posizione del mezzo nel momento del
sinistro, impedendo di tracciare la puntuale dinamica
dell’incidente e di effettuare la «perizia telematica». Tale
limitazione tecnologica non consentirebbe inoltre di
fornire prestazioni di valore sociale molto rilevante, quali
la sicurezza, la protezione e l’assistenza dell’assicurato.
Insomma, ancora una volta la mancanza del
provvedimento attuativo da parte delle istituzioni è causa
di uno stallo che non porta i benefici auspicati per i
tartassatissimi automobilisti assicurati virtuosi.
Poi c’è il tema della privacy. L’intervento del Garante
della privacy per regolamentare il settore è da intendersi
come una responsabilità prevista dal legislatore
nell’ambito della definizione delle norme attuative della
legge 27/2012. Un fatto accolto con grande positività da
parte della TSP Association, perché contribuirà a rendere
più trasparenti i rapporti tra i soggetti interessati,
tutelando in particolare i consumatori da quei «providers
improvvisati» che non possono contare su una base clienti
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consolidata nei decenni, non sono in grado di garantire la
sicurezza con proprie strutture tecnologiche e spesso
adottano politiche poco chiare pur di conquistare quote
di mercato.
Il contratto di Viasat, ad esempio, stabilisce che «i dati
relativi all’uso del veicolo verranno rilevati, elaborati e
raccolti dalla società nonché trasmessi alla compagnia in
formato analitico solo in occasione di eventuali sinistri. In
tutti gli altri casi i dati di impiego saranno registrati dalla
società e trasferiti alla compagnia esclusivamente in
formato aggregato per analisi statistiche (ad esempio per
il numero di viaggi, i chilometri e tempi di viaggio
complessivi del periodo, la percentuale di chilometri e
tempo in determinate fasce orarie e diverse tipologie di
strade).
I dati di uso del veicolo forniti alla compagnia saranno
disponibili in forma sintetica per il cliente stesso via web
tramite accesso riservato con apposita password
personale rilasciata dalla società. Il cliente, ai sensi
dell’articolo 7 del decreto legislativo 196/2003, ha diritto
di chiedere ed ottenere da Viasat la conferma
dell’esistenza dei dati che lo riguardano, che saranno
messi a sua disposizione in forma intellegibile, nonché la
fonte, le finalità e la logica del loro trattamento. Egli può
chiedere la cancellazione, l’anonimizzazione o il blocco
degli stessi, se trattati in violazione di legge».
Affrontare il tema della telematica parlando solo di
privacy in modo superficiale è come parlare della
telefonia mobile dicendo che le chiamate sono facilmente
intercettabili e che gli operatori telefonici conoscono tutto
quello che diciamo a chiunque, sapendo per giunta dove
ci troviamo, conoscendo la cella che in quel momento il
nostro cellulare sta utilizzando; oppure come parlare delle
carte di credito dicendo che le banche sanno esattamente
cosa compriamo e dove, oppure che il Telepass consente
di calcolare se l’ora di entrata e di uscita in autostrada
siano compatibili con i limiti di velocità.
L’argomento merita sicuramente maggiore spazio sui
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mezzi di comunicazione affinché si sviluppino un
maggior dibattito e una maggiore conoscenza delle
tecnologie e del settore, onde evitare il pericolo di
diffondere miti negativi anziché conoscenze, problemi
anziché soluzioni, obsolescenze anziché innovazioni. A
pensare male si fa peccato, ma non è da escludere che, chi
non vuole la scatola nera, ha interesse a non volerla.
Quel che preme sottolineare è il fatto che in Italia si
paghino le polizze più care d’Europa e forse del mondo,
perché è ampiamente diffusa la pratica di denunciare i
sinistri in modo falso o tendenzioso, così come il mancato
ritrovamento di auto rubate. La telematica offre una
soluzione ad entrambi i problemi: i consumatori che
utilizzano una scatola nera possono dimostrare le
modalità di un sinistro per provare che la richiesta di
risarcimento avanzato dalle controparti non è coerente,
così come possono ritrovare la propria auto rubata.
I sistemi più avanzati, inoltre, possono consentire di
ricevere soccorsi medici e meccanici in caso di incidente
grazie ai dati trasmessi, quelli sì in tempo reale, ai call
center dei Telematics Service Providers. È per queste
ragioni che il legislatore prevede l’obbligo di ridurre le
tariffe. Il beneficio economico conseguente a questa
innovazione tecnologica deve andare a favore dei
«consumatori virtuosi».
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Domenico Petrone Tutto inizia dai sogni