lettura critica | I sonetti foscoliani: dialoghi sommessi
I sonetti maggiori del Foscolo si presentano sempre nella forma di dialoghi sommessi fra il poeta e una realtà
sentimentale lontana e nostalgicamente evocata. Sia che egli si rivolga alla Musa (“aonia diva”), all’amata sua terra
(“Zacinto mia”), al fratello Giovanni (“o fratel mio”), ed infine all’immagine della fatal quiete (“o Sera!”) la struttura
ricorrente è evocativa-invocativa: il fantasma poetico sembra sorgere da una profonda meditazione interiore che,
quasi all’improvviso, per la forza stessa della vocazione, si effonde in una mesta, elegiaca memoria.
Ciò spiega le aperture dei grandi sonetti che si presentano come una sorta di ripresa conclusiva di un intenso
stato d’animo riflessivo: “Pur tu…”, “Né più mai…”, “Un dì…”, “Forse perché…”. Queste espressioni connettive
hanno la funzione di accentuare il valore del verbo che introducono, nel quale si condensa la proiezione rievocativa
della fantasia foscoliana (“Pur tu copia versavi…”) o la proiezione suppositiva (“Né più mai toccherò…”, “Un dì,
s’io non andrò…me vedrai…”, “Forse perché…tu sei l’imago…”). La duplice proiezione nel passato e nel futuro
è del resto costante nei sonetti: essa sottintende l’amara consapevolezza della realtà presente, la cara illusione
del tempo trascorso, l’ineluttabilità del destino che attende il poeta.
Si osservi, ad esempio, nel sonetto Alla Musa la forza della struttura temporale “versavi… un tempo… quando…
fuggiva… erale… questa…”, che anticipa il nucleo lirico dei versi tematici:
…tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco,
dove quella duplice proiezione di cui s’è detto si polarizza nell’antitesi “pensose membranze…timor cieco”.
Nel sonetto A Zacinto l’evocazione della “materna… terra” crea, nell’ampio paesaggio ricco di una suggestiva
simbolicità, l’oasi serena di una fanciullezza irrimediabilmente perduta: un sogno edenico che si chiude nella
amarezza della terzina finale: “Tu… avrai… a noi prescrisse…”.
L’alternanza temporale è completa nel sonetto per il fratello, che si apre, come il precedente, con un triste futuro
suppositivo (“Un dì, s’io non andrò… me vedrai…”) e si dispiega in un’attualizzazione del dramma della madre,
sola e lontana, e del poeta stesso, perseguitato dal medesimo destino che condusse alla morte Giovanni: tutta
una vita è racchiusa nei versi concisi “e le secrete… furon tempesta”. Solo apparentemente la struttura dell’ultimo
sonetto (Alla sera) è circoscritta al presente.
Basti pensare alla terzina tematica:
Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme
che vanno al nulla eterno: e intanto fugge
questo reo tempo…
È innegabile che qui sia emblematizzato tutto il dramma e il mistero della vita: la meditazione rabbrividente e
malinconica del “nulla eterno” non è altro che la proiezione, nuovamente intrisa di dolore, nel futuro, al di là della
vita stessa; mentre passato e presente sono, di fronte a questo abisso incomprensibile, soltanto “questo reo
tempo”, il suo fugace passaggio.
Si comprenderà, dopo questa rapida rassegna, l’importanza della funzione temporale nelle poesie esaminate, la
quale si esplica, oltre che nella dialettica verbale, nell’appoggio di altre strutture espressive, come gli avverbi e le
congiunzioni di tempo (“un tempo”, “quando”, “intanto”, “or” nel sonetto Alla Musa; “più mai” in A Zacinto; “Un dì”,
“sempre”, “or”, “oggi”, “allora” nel sonetto In morte del fratello Giovanni; “quando”, “sempre”, “intanto”, “mentre”
nel soletto Alla sera) e gli aggettivi-pronomi dimostrativi (“questa” nel primo sonetto, “quelle” nel secondo, “questo” nel terzo, e “quello” nell’ultimo).
Vi è dunque una relazione semantico-stilistica fra questi elementi strutturali e la disposizione spirituale del poeta,
proprio perché i verbi qualificano la drammaticità della situazione esistenziale lacerata fra un passato di nostalgica,
pacificata serenità, un presente di amaro dolore e un futuro di chiusa, disperata desolazione.
La polarità luminosa di Zacinto, della beata fanciullezza, della poesia che esalta la vita, si contrappone alla polarità
ottenebrata nella meditazione della morte, in cui la serenità è solo un fugace flash back nel ricordo del corteo
leggiadro delle nubi estive, mentre il presente rimanda solo a tristi pensieri e a tragici presentimenti: l’esilio, la
solitudine, l’abbandono con cui si chiude la proiezione nel futuro del sonetto In morte del fratello Giovanni.
Se il verbo caratterizza questa disposizione spirituale drammatica, le altre strutture espressive ricordate valgono
a ricreare lo spazio e il tempo ideali, in cui si dispiega e si concreta la rievocazione o la fantasia, attorno a una
realtà che si avverte contemporaneamente vicina e lontana (“Zacinto mia, che te specchi… e fea quelle isole
feconde…”) e che è necessario circoscrivere attraverso precisi indicatori spazio-temporali. Nell’atmosfera così
ricrea­ta è possibile il dialogo confessante, il contenuto sfogo di un virile dolore che non conosce esibizio­nismi
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smancerati: sorge allora l’evocazione-invocazione della Musa consolatrice, dell’isola bella che non si rivedrà più,
degli affetti familiari distrutti, dell’approdo della morte prefigurato nella tregua serotina.
(A. Marchese, Le strutture della critica letteraria, SEI, Torino 1973)
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