MAGISTRATI, POLITICI E DIRITTI UMANI
IN ITALIA E IN FRANCIA.
UN'IPOTESI DI RICERCA
L'Italia e la Francia furono attraversate alla fine dell'Ottocento da
una crisi istituzionale di portata tale da mettere in discussione i regimi
di entrambi i paesi. Le differenze furono tante, innanzitutto di ordine
cronologico e di scala. In Francia la crisi scoppiò attorno al caso di un
solo individuo, durò quattro anni e si presentò sotto forma di un attacco
delle forze reazionarie e nazionaliste contro la giovane repubblica; in
Italia fu un intero paese ad essere coinvolto per dieci anni nella reazione scatenata dalla classe di governo contro un'ondata di sommovimenti
che chiedevano per le classi popolari il riconoscimento del diritto di
cittadinanza all'interno del nuovo stato, tale per cui pare più appropriato
utilizzare per l'Italia la definizione di "decennio della crisi", più che
quella di "crisi di fine secolo".
Un fondamentale elemento accomunò tuttavia le due crisi: entrambe furono un momento di tragica messa in discussione dei diritti fondamentali, individuali e collettivi e per questo motivo la magistratura assunse sia in Italia che in Francia un ruolo di primaria importanza nel
corso del loro svolgimento. L'ondata repressiva si trasformò infine in un
terreno di elaborazione di nuove culture politiche incentrate sul tema dei
diritti umani e delle libertà fondamentali. Questi elementi comuni alle
due crisi assunsero configurazioni ed esiti differenti a seconda del
contesto nazionale di appartenenza.
1. Due magistrature a confronto
Nelle crisi di regime la magistratura è sempre chiamata a svolgere
compiti molto impegnativi, che possono anche travalicare quelli che le
Abbreviazioni: Gì = "Giurisprudenza italiana"; TV = "Temi veneta"; Cass. = Cassazione; leg. = legislatura; interp. = interpellanza.
43
43
sono istituzionalmente assegnati. Nel corso degli anni Settanta e fino agli
inizi del decennio successivo, la storiografia italiana fu sollecitata dalla
crisi che stava attraversando il paese a volgersi all'indietro e a cercare,
seppure in modo implicito, un paragone tra gli anni di piombo e la crisi di
fine Ottocento. Applicando un metodo tipicamente regressivo, storici e
giuristi partirono dal presente e si interrogarono su quanto era accaduto
cento anni prima focalizzando l'attenzione sui comportamenti della classe
politica e della magistratura dell'epoca. La magistrale ricostruzione di
Umberto Levra delle dinamiche e degli attori della crisi italiana degli anni
Novanta, le pagine appassionate di Antonio Canosa e Amedeo
Santosuosso sulla magistratura durante la crisi di fine secolo, lo studio di
Ferdinando Cordova incentrato sulla magistratura militare, e per finire gli
accenni ricchi di spunti che Guido Neppi Modona dedica alla crisi di fine
secolo nel suo libro sullo sciopero, sono accomunati da un giudizio
concorde: la magistratura italiana fu la cinghia di trasmissione della
volontà dell'esecutivo e mostrò in quegli anni quanto forte fosse il suo
asservimento al potere politico '.
A rileggere oggi queste opere, quel giudizio di fondo condiviso dalla
storiografia degli anni di piombo appare meno compatto. All'interno di un
quadro interpretativo che si presenta senza sbavature gli autori citati
segnalano casi anomali che non rientrano nel modello di una magistratura
totalmente assoggettata al potere esecutivo. Neppi Modona, in particolare
cita vari casi di sentenze favorevoli agli imputati di reati politici, sottolineando le difficoltà dei giudici di ottemperare alle direttive del ministro
che incitavano a reprimere ogni manifestazione di protesta, dal momento
che gli elementi probatori erano il più delle volte inesistenti; Canosa e
Santosuosso, dal canto loro, parlano dell'atteggiamento benevolo mostrato
da una parte della magistratura nei confronti degli anarchici2. Si tratta in ogni
modo di suggestioni che restano ai margini della tesi principale senza che gli
autori, che pure si sono preoccupati di comunicarle, le sottopongano ad
un'analisi più approfondita.
1
U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in
Italia 1896-1900, Milano, Feltrinelli, 1975, in part., pp. 145-46, 160-62, 256-60; G.
NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Roma-Bari,
Laterza, 1979, pp. 81-89; R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e
socialisti alla fine dell'ottocento in Italia, Milano, Feltrinelli, 1981; F. CORDOVA, De
mocrazia e repressione nell'Italia di fine secolo, Roma, Bulzoni, 1983.
2
G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura, cit, p. 86. Da
notare che Umberto Levra (op. cit., p. 161) dichiara di non condividere le affermazioni
di Neppi Modona relative alle assoluzioni avvenute per i fatti del '98; R. CANOSA-A.
SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., cap. II.
44
Passati gli anni di piombo, la crisi di fine secolo divenne un tema
marginale all'interno della storiografìa degli anni Ottanta. L'unica eccezione è rappresentata dal volume di Luisa Mangoni3, che incentra la sua
analisi sulla crisi della cultura di fine secolo prestando una particolare attenzione al campo del diritto e proponendo una comparazione tra l'Italia e
la Francia. La magistratura non registrava dal canto suo un successo
maggiore tra gli studiosi. Gli unici studi di vasto respiro su questo argomento furono la grande ricerca a base prosopografica iniziata da Pietro
Saraceno, e il volume di Ferdinando Venturini sull'associazione dei magistrati italiani4. Essi privilegiavano l'aspetto della magistratura come
corpo e come professione incentrando l'analisi della sua composizione
sull’ organizzazione interna ed inauguravano una nuova stagione di
ricerche sul potere giudiziario che si è aperta negli anni Novanta5.
Nel 1989 la crisi di fine secolo tornò, quasi inaspettatamente, alla ribalta grazie ad un lungo saggio di Rita Cambria che ne proponeva una
reinterpretazione scegliendo come punto di osservazione l'intreccio creatosi a partire dagli anni Ottanta tra la Sinistra storica, la cultura giuridica e
la magistratura6.I risultati sono per molti versi sorprendenti. Rita Cambria
riapre il discorso sul biennio 1898-1900 a partire dalla sentenza della
Cassazione del 20 febbraio 1900, la quale dichiarava decaduto il decreto
liberticida che Pelloux aveva imposto il 22 giugno 1899 contribuendo in
questo modo a far cadere il secondo ministero Pelloux ed a giungere alla
conclusione della crisi. Attribuendo a questa sentenza un valore negatole
dalla precedente storiografia, Rita Cambria rilegge la cultura giuridica
italiana dell'epoca e le sue realizzazioni concrete. A fianco di correnti
dottrinali tradizionalmente attaccate ad una visione dei diritti dello stato
piuttosto che dell'individuo, la Cambria sottolinea l'azione marginale (ma
alla fine decisiva) del filone liberale che faceva capo a "La
3
L. MANGONI, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Ot
to e Novecento, Torino, Einaudi, 1985.
4
P. SARACENO, Alta magistratura e classe politica dalla integrazione alla sepa
razione: linee di una analisi socio-politica del personale dell'alta magistratura italiana
dall'Unità al fascismo, Roma, ed. dell'Ateneo e Bizzarri, 1979; / magistrati italiani
dall'Unità al fascismo. Studi biografici e prosopograficì, a cura di P. SARACENO, Ro
ma, Canicci, 1988; F. VENTURINI, Un "sindacato" di giudici da Giolitti a Mussolini.
L'Associazione Generale tra i magistrati 1909-1926, Bologna, il Mulino, 1987.
5
Magistrati e potere nella storia europea, a cura di R. ROMANELLI, Bolognu, il
Mulino, 1997; C. GUARNIERI, Magistratura e politica in Italia. Pesi senza contrap
pesi, Bologna, il Mulino, 1993.
6
R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti. L'ordine e la li
bertà, in "Nuova Rivista Storiai", LXXIII, 1989, LXXIV, 1990, pp.1-191.
45
Rivista penale", diretta da Luigi Lucchini. Magistrato e parlamentare, legatissimo a Zanardelli con il quale aveva collaborato alla stesura del nuovo
codice penale, Lucchini è l'ispiratore della citata sentenza della Cassazione e di molte altre sentenze liberali che si ebbero in quegli anni.
Rita Cambila arriva alla conclusione che di fronte al sostanziale
fallimento della Sinistra costituzionale di incidere sulla situazione politica,
fu la magistratura a registrare un primo, sia pure ambiguo, successo. La
sentenza infatti non dichiarava illegittimi i provvedimenti eccezionali, il
che significa che la Corte Suprema, così come aveva fatto in altre
occasioni, aveva rifiutato di svolgere il ruolo di sindacato di costituzionalità. Era arrivata all'obiettivo per un'altra via, meno compromettente, che azzerava tutto e investiva nuovamente il potere politico delle
questioni relative alla libertà fondamentali. Questioni rimaste largamente
irrisolte anche in epoca giolittiana a proposito del mancato riconoscimento
del diritto di associazione7.
Il saggio di Rita Cambria segna un mutamento storiografico considerevole. Da una rappresentazione della magistratura controllata o identificata totalmente con il potere esecutivo, si passa a quella di un corpo
professionale differenziato al suo interno, al punto tale che alcune sue
componenti furono in grado di contrastare l'azione del governo. In ogni
caso, e questo è l'elemento di maggior rilievo, una magistratura a cui
venne ripetutamente affidato il compito di risolvere i problemi per i quali
il potere politico non riusciva a trovare una soluzione.
Un mutamento di prospettiva per molti aspetti analogo a quello proposto dalla Cambria si è verificato negli ultimi anni all'interno della storiografia francese in relazione al ruolo svolto dalla magistratura durante
L’affaire Dreyfus. Pur non occultando gli influssi esercitati sul potere giudiziario e sull'esercito francesi dalle ideologie antisemite e nazionaliste, la
storiografia francese tende oggi a distinguere nettamente l'operato dei
giudici militari da quello svolto dalla magistratura ordinaria valorizzando
non solo il ruolo di difesa giuridica di Dreyfus, ma addirittura quello di
tutela della stessa repubblica che quest'ultima svolse La magistratura ordinaria francese fu il garante del regime repubblicano al momento in cui
l'interesse nazionale e la sicurezza delle stato portava il potere esecutivo e
quello legislativo a sospendere lo stato di diritto sotto la pressione
dell'opinione nazionalista e del potere militare8.
7
Sulla tematica del mancato riconoscimento del diritto di associazione si rimanda
al saggio di F. SOFIA, infra.
8
J-P. ROYER, La magistrature déchirée, in La France de l'affaire Dreyfus, a cu
ra di P. BIRNBAUM, Paris, Éditions Gallimard, 1994, pp. 251-89; ID, Histoire de laju-
46
E possibile rintracciare all'interno della magistratura ordinaria italiana di fine Ottocento delle piste che consentano di rileggere il suo
operato, allo stesso modo di quanto è stato fatto a proposito della magistratura francese? Gli elementi di contatto tra le due situazioni non sono
pochi. In primo luogo in entrambi i paesi la crisi di fine secolo fu caratterizzata dall'azione congiunta di due magistrature, quella ordinaria e
quella militare. Inoltre l'operato della magistratura ordinaria di entrambi i
paesi favorì la conclusione della crisi: la sentenza emessa dalla Corte di
Cassazione italiana del 20 febbraio 1900 è paragonabile all'operato del
giudice francese che fece crollare l'impianto accusatorio contro Dreyfus
facendo arrestare Esterazy, mentre la Corte Suprema cassava il verdetto di
colpevolezza che aveva condannato Zola.
Ma vi furono anche delle differenze rilevanti. La revisione storiografica avvenuta in Francia ha portato a contrapporre nettamente il comportamento della giustizia militare rispetto a quella ordinaria, sottolineando al tempo stesso che l'azione politica dei giudici consistette precisamente nel rigettare ogni attribuzione politica. Difendendo ostinatamente l'ordine giudiziario, la magistratura francese consentì "a WaldeckRousseau di trionfare sul piano dei principi repubblicani. Questa resistenza
dell'ordine giudiziario, che esisteva già durante l'Antico Regime, non si
limita a proteggere un'elite intellettuale e professionale; essa è al tempo
stesso la testimonianza del fatto che i giudici avessero una coscienza
politica derivante dalla pratica del diritto"9.
Non sarebbe appropriato applicare all'Italia come unico criterio
un'interpretazione basata sul confronto tra la magistratura ordinaria e
quella militare. Il confronto si pone per il nostro paese all'interno di un
contesto non costituito da un processo, ma dallo stato d'assedio e
dall'applicazione di leggi eccezionali che spogliavano la magistratura
ordinaria di una parte consistente del suo spazio d'intervento a favore dei
tribunali militari. Se si dovesse limitare l'analisi al confronto tra le due
magistrature italiane il discorso arriverebbe ad una conclusione rapida,
dal momento che - come vedremo - lo stato d'assedio significò per i
giudici ordinari ribadirne, sentenza dopo sentenza, la legittimità.
stice en France, Paris, PUF, 1995; V. DUCLERT, Lesjuges devant l'affaire Dreyfus. Un
modèle d'engagement républicain?, in "Jean Jaurès cahiers trimestriels", n. 141, giugnosettembre 1996, pp. 7-26; ID., L'affaire Dreyfus, l'État et la République, in M.O.
BARUCH et V. DUCLERT (a cura di), Serviteurs de l'État. Une histoire politique de
l'administration francaise 1875-1945, Paris, La Découverte, 2000, pp. 37-68; F.
CHAUVAUD, L'insaisissable modèle l'identité brouillée de la justice républicuine
(1X80-1940), ivi, pp. 325-36.
" V. DUCLERT, Lesjuges devant l'affaire Dreyfus, cit., p. 22.
47
Si tratta invece di sottoporre nuovamente ad esame i comportamenti
dei magistrati ordinari, non limitandosi al rapporto intercorso tra costoro
e la giustizia militare negli anni in cui vigeva la legislazione di
emergenza, ma prendendo in considerazione un ampio spettro di reati sui
quali la magistratura ordinaria fu chiamata a giudicare durante il decennio
della crisi e oltre.
2. La costruzione di un dossier
Il metodo usato per attuare questo tipo di ricerca è consistito nel
creare un dossier di sentenze emanate dai vari gradi della magistratura,
relative ai reati attraverso i quali vennero colpite negli anni della crisi le
libertà individuali e collettive dei cittadini, e ad altri tipi di reati ritenuti
utili per comprendere il comportamento della magistratura in quegli anni.
Sono evidenti i limiti insiti nell'utilizzare come unica fonte le sentenze al
fine di ricostruire le tendenze della magistratura in un determinato
periodo: spesso nei repertori giuridici e nelle riviste veniva pubblicata la
parte finale della sentenza, o addirittura solo le massime.
Sarebbe stato necessario un lavoro di ricerca più approfondito, consistente nel reperimento dell'intera sentenza o ancora meglio, gli interi
atti processuali depositati negli archivi di stato10. Solo in questo modo
sarebbe possibile ricostruire in modo esaustivo il comportamento tenuto
dai magistrati nei vari gradi del giudizio. Dalle sentenze pubblicate nei
repertori è infatti spesso assente anche la sola informazione relativa alle
sentenze dei gradi precedenti nello stesso processo. Infine, l'ultima limitazione consiste nel fatto che i repertori di giurisprudenza privilegiano la
pubblicazione della sentenza finale e per questo la Cassazione è sovrarappresentata rispetto alle sentenze dei gradi inferiori.
Il dossier che è stato messo assieme è dunque da ritenersi uno strumento di lavoro da cui partire per elaborare alcune ipotesi, la cui validità
potrà essere comprovata solo impostando una ricerca sulla magistratura
di fine secolo basata sull'utilizzazione di una pluralità di fonti: gli atti dei
processi, i fascicoli personali dei giudici, la documentazione del Ministero
degli Interni e di Grazia e Giustizia, infine le fonti prefettizie e la stampa
locale per collocare i processi nell'ambiente locale.
È stato ricostruito, laddove era possibile, l'intero iter giudiziario degli
imputati, allo scopo di focalizzare le posizioni dei magistrati che
10
Si vedano a questo proposito le indicazioni di ricerca contenute nel saggio di I.
ZANNI
ROSIELLO,
infra
48
operavano nei diversi gradi e di confrontarle tra loro. L'ipotesi da cui sono
partita consiste nel ritenere l'intero iter processuale un indicatore efficace
del comportamento della magistratura. Il confronto tra le sentenze emesse
dal tribunale o la pretura, la Corte d'Appello o l'Assise e infine la
Cassazione, può aiutare a capire se la magistratura italiana abbia agito
come un corpo compatto nel decennio dell'emergenza, ossequioso del
clima politico di quegli anni, o se invece vi siano state posizioni più
articolate e diversificate, addirittura dalle opposizioni rispetto alle linee di
cui i procuratori generali e del re erano i portavoce, sulla base delle
indicazioni provenienti dallo stesso presidente del consiglio.
Il pubblico ministero era, come oggi, la pubblica accusa. Rappresentava lo stato ed era alle dipendenze del ministro di Grazia e Giustizia.
Il suo ufficio era composto dal procuratore generale del re che risiedeva,
con i suoi sostituti, presso ogni Corte d'Appello. Da costui dipendevano i
procuratori del re e i loro sostituti, addetti ad ogni tribunale del distretto
giudiziario u. In quanto rappresentanti dell'esecutivo, i procuratori del re
ebbero un ruolo cruciale durante la crisi di fine secolo. Umberto Levra ha
documentato in modo efficace la rete di comunicazioni e informazioni
che fu intessuta in quegli anni tra il primo ministro e i procuratori
generali, allo scopo di aumentare il controllo sull'ordine pubblico e
inasprire la repressione giudiziaria n.
Canosa e Santosuosso hanno reperito le sentenze analizzate nel loro
volume sulle seguenti fonti: "La Rivista penale", "La Giustizia penale",
"Il Foro italiano", "Repertorio del Foro italiano". Per allargare ulteriormente la ricerca, ho consultato, per gli anni 1889-1909, altri repertori quali
"il Circolo giuridico", "Temi romana", "Temi genovese". Tuttavia gli
unici repertori nei quali sono state rinvenute sentenze sui reati interessanti ai
fini di questa indagine sono stati: "La Giurisprudenza italiana" e 'Temi
veneta. Eco dei tribunali". Il dossier risulta così formato dalle sentenze
rinvenute in queste ultime due fonti e da quelle citate da Canosa e Santosuosso, per un periodo di tempo compreso tra il 1889 e il 1906.
I reati presi in considerazione sono innanzitutto quelli compresi nel
titolo V del nuovo Codice penale del 1889, e contenuti negli articoli 246,
247, 248, 251, 252, i quali costituiscono l'oggetto dell'analisi di Canosa e
Santosuosso. Ho inoltre indirizzato la ricerca delle sentenze in altre direzioni: i reati a mezzo stampa, che risultano quelli più perseguiti; la ca-
" L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze Barbera ed
222-23.
'
"12 U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., pp. 160-61, 256-57
1905 nn
49
sistica varia compresa nel divieto di riunione pubblica non autorizzata; il
rifiuto di obbedienza all'autorità pubblica e per finire la questione del
sindacato di costituzionalità, sorto a proposito della legittimità del d.l. 22
giugno 1899.
I processi che compongono il dossier appartengono alla normale
routine del decennio della crisi, quando ogni forma di manifestazione e
di organizzazione politica oppositiva veniva quotidianamente sottopo
sta al controllo e alla repressione dei pubblici poteri. Non sono stati in
seriti nel dossier, ma trattati a parte proprio per il loro carattere di ec
cezionalità, i processi celebrati dai tribunali militari e le sentenze della
magistratura ordinaria relative alla loro legittimità a quella dello stato
d'assedio; queste sentenze sono state tuttavia inserite nel quadro stati
stico relativo alla Corte di Cassazione. Sono stati infine stralciati, per lo
stesso motivo, i processi relativi alla legittimità del regio decreto 22
giugno 1899 e alla questione del sindacato di costituzionalità.
II risultato di questa ricerca è un campione costituito da 48 processi di cui è stato documentato l'intero iter, dal primo grado alla Cassa
zione, o quanto meno una parte di esso. Le sentenze che corrispondono
al campione di 48 processi sono 110, così composte: 42 sentenze di primo grado, 25 sentenze d'appello, 3 emesse dalla Corte d'Assise e 40
dalla Cassazione. Il numero sensibilmente più basso delle sentenze di
secondo grado si spiega, oltre che con una semplice mancanza di indi
cazione nella fonte utilizzata, che nella maggior parte dei casi è la sentenza finale della Cassazione, con il fatto che il ricorso in Cassazione
poteva avvenire anche dopo la sentenza di primo grado, emessa dal giudice di merito o dal pretore, purché fosse di carattere definitivo, saltando il giudizio d'appello.
Si tratta di un campione limitato, che tuttavia offre una rappresentazione della realtà abbastanza significativa. Il numero dei processi
istruiti dalla magistratura ordinaria per i reati contro l'ordine pubblico e
la sicurezza dello stato non fu infatti elevatissimo. Non solo molti processi furono istruiti dai tribunali militari, ma anche molti degli arresti
vennero pronunciati all'ombra del testo di pubblica sicurezza, senza arrivare all'imputazione penale vera e propria. Inoltre le ordinanze istruttorie di non farsi luogo a procedere superarono, nonostante le pressioni
del ministro di Grazia e Giustizia, di gran lunga le condanne per il fatto
che il più delle volte gli elementi probatori a disposizione dei giudici
erano pressoché inesistenti13.
13
G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura, cit., p. 86
50
Per quanto riguarda le sentenze della Cassazione, abbiamo utilizzato
un criterio di "traduzione" sulla base dell'effetto sortito, quando cioè il
rigetto del ricorso oppure il suo accoglimento si trasformava di fatto nella
conferma della condanna o nell'assoluzione.
La Corte di Cassazione aveva anche nell'ordinamento del periodo liberale il compito di riparare alle eventuali violazioni della legge commesse nel procedimento annullando la sentenza con o senza conseguente
rinnovamento del giudizio, ossia il rinvio della causa a un magistrato di
merito (normalmente) dello stesso grado di quello della sentenza annullata,
perché iniziasse un nuovo procedimento giudiziario. Veniva meno il rinvio
quando la sentenza d'annullamento accertava che il fatto su cui si fondava
la sentenza di condanna non costituiva reato, o aveva cessato di esserlo. La
Cassazione poteva rigettare il ricorso che era stato presentato dal
condannato o dal pubblico ministero. Il rigetto aveva come effetto quello
di riconfermare, senza alcun aggravio, la sentenza precedente.
Per quanto riguarda le sentenze emesse dalla Cassazione, non sono
stati presi in considerazione i casi (in realtà pochi) nei quali la Suprema
Corte dopo la cancellazione della sentenza, rinviava tutti gli atti al giudice di merito per avviare un nuovo processo. Si è tenuto solo conto del
risultato conclusivo del primo iter giudiziario.
3. Un corpo omogeneo?
Su 48 processi presi in esame le sentenze di assoluzione emesse complessivamente nei vari gradi sono 44, quelle di condanna ammontano a 66
Tab. 1. Sentenze di assoluzione e di condanna
GRADO
ASSOLUZIONE
CONDANNA
TOTALE
SENTENZE
1° grado
18
24
42
appello
10
15
25
3
3
assise
Cassazione
16
24
40
TOTALE SENTENZE
44
66
110
51
La suddivisione interna ai singoli gradi del giudizio mostra un certo
equilibrio tra le assoluzioni e le condanne: in primo grado le condanne
furono 24 e le assoluzioni 18; in secondo grado le condanne furono 15 e le
assoluzioni 10; in Cassazione le assoluzioni furono 16 e le condanne 24,
infine 3 sentenze di condanna emesse dalle Corti di Assise. Due elementi
vanno sottolineati al fine di interpretare correttamente questi dati: essi non
sono omogenei, perché non sempre è stato possibile ricostruire l'intero iter
processuale relativo ad ogni caso giudiziario; inoltre offrono una
rappresentazione approssimativa, dal momento che si è dovuto
forzatamente unificare tutte le sentenze di condanna, senza poter
specificare le differenziazioni e le articolazioni contenute al loro interno.
Questo tipo di analisi è stata compiuta descrivendo e commentando i
singoli casi.
Dei nove processi di primo grado istruiti per il reato di istigazione alla
disobbedienza della legge, sette si conclusero con un'assoluzione (tre a
Genova, uno a Verona, Cuneo, Torino e Lecce) e due con una condanna.
Tre dei cinque processi di primo grado per istigazione all'odio di classe si
conclusero con un' assoluzione (a Genova, Torino e in un terzo tribunale
non identificato) e tre con una condanna14.
I processi istituiti contro gli anarchici a Roma, Sarzana e Ancona si
conclusero con l'assoluzione degli imputati dall'aver commesso il reato di
associazione per delinquere (art. 248 c.p.), attraverso il quale - e dietro
sollecitazione esplicita del governo - si voleva colpire al cuore il
movimento anarchico catalogandolo nella categoria dei delinquenti comuni e applicando ad esso le pene severe (da uno a cinque anni di detenzione) previste per questo reato. I tre tribunali si pronunciarono per
una condanna politica applicando l'art. 247, che puniva l'istigazione
all'odio tra le classi e l'art. 251, che perseguiva invece l'associazione
perpetrata allo scopo di istigare all'odio tra le classi, punibile con una
detenzione da sei a diciotto mesi. I quattro processi di primo grado contro
le associazioni socialiste terminarono invece con tre condanne (a Firenze,
Modena e Volterra) e un'assoluzione. A queste sentenze, che fanno parte
dei processi che abbiamo ricostruito, vanno aggiunte la sentenza di
condanna emessa dal tribunale di Milano nel 1894 contro Filippo Turati e
il gruppo dirigente del partito socialista, puniti in base agli artt. 243, 251
c.p. e l'art. 5 della legge 316/1894, a cui fa da contrappeso la
14
R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, ut., cap. VI;
Cass. 26 aprile 1894 (sez.II), Gì, parte II, 1894; Cass. 25 maggio 1896 (sez.II); Gì, 1896;
Cass. 30 novembre 1897 (sez.II), TV, 1898; Cass. 28 settembre 1898 (sez.II), Gì, 1898;
Appello Venezia, 10 gennaio 1901, TV, 1901.
52
Tab. 2. Sentenze suddivise per argomenti e per gradi di giudizio
Oggetto
Assoluzione
Totale
sentenze
Grado
Condanna
Grado
Istigazione alla disobbedienza
della legge e apologia di reato
24
73
4
I grado
appello
cassazione
24
4
1° grado
appello
cassazione
Istigazione all'odio di classe
13
3
23
I grado
appello
cassazione
22
1
I grado
appello
cassazione
Vilipendio alle istituzioni
costituzionali
6
1
32
assise
Divieto di associazione
per i socialisti
9
Associazione a delinquere e
divieto di associazione
anarchica
7
Riunione non autorizzata
10
2
Rifiuto di obbedienza
8
1
2
I grado
cassazione
Diffamazione a mezzo
stampa
7
1
2
Responsabilità dello
stampatore
11
32
1
Responsabilità del gerente
13
1
Autorizzazione e vendita di
stampati
2
1
110
44
cassazione
cassazione
TOTALE
13
1
I grado
appello
cassazione
31
I grado
appello
31
3
I grado
appello
cassazione
53
I grado
cassazione
32
I grada
cassazione
I grado
12
1
cassazione
I grado
appello
cassazione
I grado
appello
cassazione
1
1
3
I grado
appello
cassazione
I grado
44
4
I grado
appello
cassazione
I grado
1
cassazione
cassazione
66
53
sentenza assolutoria emessa nel 1895 dal tribunale di Roma sulla base
della medesima imputazione ".
Dei dodici processi istruiti in primo grado per i reati commessi attraverso la stampa, cinque si conclusero con una condanna penale e civile
sia per il gerente che per lo stampatore, cinque li assolsero dalla responsabilità civile; a Mantova il gerente e lo stampatore furono assolti
penalmente e condannati civilmente; per finire il tribunale di Napoli
condannò per sola negligenza il direttore del giornale e lo stampatore non
ritenendoli civilmente responsabili di un reato di stampa16.
La tendenza dei giudici di primo grado che emerge da questi dati pare
essere quella di una certa comprensione nei confronti dei reati politici che
caratterizzarono il decennio della repressione, quali l'istigazione all'odio
di classe, alla disobbedienza della legge e l'apologia di reato (artt. 246,
247). Ad esempio, alcuni imputati vennero prosciolti nel 1898 in primo
grado dall'accusa di aver incitato all'odio di classe cantando Virino dei
lavoratori. Il giudice non rinvenne nell'atto alcun dolo, ritenendo che "essi
non intendevano, con il loro canto sconnesso e forse fuori dalla portata
della scarsa loro cultura intellettuale, di far propaganda dei concetti e
delle teorie cui l'inno allude, né di destare l'allarme nelle persone che
dentro il caffè si trovavano".
Si trattò di una sentenza importante che aprì la strada ad una successiva sentenza della Cassazione destinata a mutare indirizzo nella
giurisprudenza. La Corte Suprema infatti diede ragione al giudice di
primo grado ribadendo il concetto che l'elemento intenzionale fosse un
fattore decisivo nei reati contro l'ordine pubblico e che la volontà intenzionale dell'imputato dovesse essere chiaramente dimostrata e argomentata nella sentenza ".
Un'analoga tendenza a non applicare in modo rigido le condanne per
i reati politici nel primo grado del giudizio, è riscontrabile nei riguardi
delle imputazioni per istigazione alla disobbedienza della legge: l'apologia
del delitto, lo sciopero, contro la monarchia, a favore del re15
R. CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, cit., capp.
II, III, IV.
16
Cass. 23 novembre 1889, TV, 1890; Cass. 1 settembre 1892 (sez.II), TV, 1893;
Cass. 9 febbraio 1893 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 6 aprile 1894 (sez.II), Gì, 1894; Cass. 6
giugno 1893 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 24 agosto 1896 (sez. feriale), Gì, 1896; Cass. 11
novembre 1896 (sez.II), Gì, 1897; Appello Venezia (sez. ferie), 20 agosto 1897, TV,
1897; Cass. 11 agosto 1897 (sez.II), TV, 1897; Cass. 26 maggio 1898 (sez.II), Gì, 1899;
Cass. 9 gennaio 1899 (sez.II), Gì, 1899.
17
Commento di A. Pozzolini alla sentenza della Cass. del 28 settembre 1898, cit
54
gicidio, il sostegno a favore di Felice Giuffrida, fino al caso Viale, il direttore del "Caffaro" di Genova, imputato di aver criticato la legge Cri-spi
sulla pubblica amministrazione 18, trovano comprensione da parte dei
giudici dei tribunali.
Molto più intransigenti appaiono, per converso, i pretori quando si
trattava di controllare le riunioni pubbliche. Esse erano regolamentate
dalla legge di pubblica sicurezza e contravvenire alle norme che essa
conteneva, relative ai permessi e alle finalità consentite, significava
commettere un reato lieve che cadeva sotto la competenza della pretura.
Abbiamo ricostruiti alcuni processi, avvenuti tra il 1896 e il 1898, che
riguardavano prevalentemente riunioni tenutesi all'interno delle chiese e
bande musicali, nei quali la sentenza di primo grado venne impugnata e
portata direttamente in Cassazione.
I pretori emisero cinque condanne su cinque processi, colpendo con
particolare durezza le riunioni in chiesa perché sospette di essere fatte a
scopi non religiosi ma politici. In questi casi i pretori si allinearono con la
tendenza che aveva visto colpire nella prima fase dell'ondata repressiva,
anche le associazioni cattoliche, ritenute colpevoli di attentare alla
sicurezza dello stato19.
Un atteggiamento ugualmente rigido caratterizzò l'azione dei pretori
nei confronti degli imputati accusati di essersi rifiutati di obbedire
all'ordine emesso da un pubblico ufficiale. In quattro casi i pretori emisero tre condanne per gli imputati che in una situazione pubblica (un
comizio) e pericolosa (un tumulto) si erano rifiutati di seguire il delegato
di pubblica sicurezza. Solo il pretore di Novi Ligure assolse nel 1899
l'imputato Giovanni Cocco per essersi rifiutato di seguire il funzionario di
pubblica sicurezza per motivi personali e non legati a problemi di ordine
pubblico20.
Per quanto riguarda infine i reati commessi a mezzo stampa i giudici di
primo grado sembrano voler attenuare, quando addirittura non riconoscere
la responsabilità penale del gerente (che secondo la legge sulla stampa era
responsabile sia penalmente che civilmente) e tendere a condannarlo solo
civilmente, oppure condannarlo penalmente in base alla
18
Cass. 20 novembre 1897, cit.
Cass. 11 settembre 1896 (sez.II), TV, 1897; Cass. 6 febbraio 1897 (sez.II), GÌ,
1897; Cass. 22 aprile 1897 (sez.II), TV, 1897; Cass. 16 luglio 1897 (sez.II), Gì, 1897;
Cass. 15 luglio 1898 (sez.II), TV, 1899; sulla repressione contro le associazioni cutloliche cfr. U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., p. 283.
19
20
Cass. 19 settembre 1894 (sez.II). TV, 1895; Cass. 13 luglio 1898 (sez.II), 01,
1898; Cass. 26 giugno 1899 (sc/,.II). TV, 1899; Cass. 4 luglio 1899 (sez.II), TV, 1899
55
legge sulla stampa (che comportava una pena molto più lieve), mentre il
pubblico ministero cercava di perseguirlo in base all'art. 247 cap. Alcuni
dei giudici di primo grado si contrapposero così alla tendenza che stava
prendendo piede all'interno della magistratura, che consisteva nel risolvere l'ambiguità che il nuovo codice penale aveva mantenuto (non
eliminando totalmente le norme sulla stampa contenute nell'editto albertino, ma inserendo all'interno del codice penale solo alcuni dei reati
commessi attraverso la stampa) interpretando in modo restrittivo questo
tipo di reati, in modo da colpirli con le pene più gravi previste dalla legge
comune21.
Sintomatico di una certa morbidezza riscontrabile nell'azione di alcuni giudici di primo grado è il caso del sequestro dell'opuscolo Assalto al
convento di Paolo Valera (già processato nel 1898 assieme al gruppo dei
socialisti milanesi), avvenuto presso la ditta stampatrice quando ancora
non era stato messo in distribuzione. Il Tribunale di Milano negò che si
potesse intervenire su di una vendita virtuale e affermò che per applicare
l'art. 443 c.p. fosse necessario che lo smercio venisse effettuato22.
Si può ipotizzare che la minore disponibilità di alcuni tribunali di
primo grado a tradurre in sentenze di colpevolezza le sollecitazioni dei
pubblici ministeri dipendesse dall'influenza esercitata dall'ambiente
circostante. Andrebbe studiata innanzitutto la funzione svolta dagli avvocati, sia dal punto di vista esclusivamente tecnico e del prestigio professionale, che da quello sociale. Un avvocato che fosse anche un grosso
notabile ricopriva all'epoca nella comunità un ruolo che veniva riconosciuto anche all'interno del tribunale. Anche le culture locali entravano
nelle aule dei tribunali, influenzavano gli umori del pubblico, della
stampa locale e non lasciavano indifferenti i giudici.
Sono molto significative a questo proposito le assoluzioni dal reato di
associazione a delinquere (art. 247 c.p.) per le associazioni anarchiche
emesse dai tribunali di primo grado di Ancona (1898) e Sarzana (1892)
dove fortissima era la presenza dell'anarchismo. La stessa influenza delle
culture locali non aveva lasciato indenne neppure la Corte d'Appello di
Ancona. La Corte aveva assolto con un sentenza del 14 ottobre 1891 gli
anarchici dal reato di associazione a delinquere distinguendo nettamente
fra lo scopo a fine di interesse e di lucro, che contraddistingueva
l'associazione a delinquere così come era previsto dall'art. 248 c.p., dal21
G. LAZZARO, La libertà di stampa in Italia. Dall'Editto albertirw alle norme
vigenti, Milano, Mursia, 1969, pp. 49-58.
22
Cass. 3 luglio 1900 (sez.II), Gì, 1900.
56
lo scopo politico consistente nel realizzare il programma di un partito,
scopo non perseguibile in quanto tale ma solo al momento in cui avesse
messo in pratica in modo concreto gli obiettivi eversivi che si proponeva
in via di principio23.
L'influenza dell'ambiente circostante sul tribunale poteva significare
una maggiore impermeabilità dei giudici di primo grado rispetto a Roma
e una loro autonomia rispetto alle direttive che in quegli anni il potere
esecutivo impartiva ai procuratori generali affinché le magistrature
periferiche collaborassero attivamente ai piani di repressione e di
controllo orditi dal governo.
La stessa azione dei pubblici ministeri, che impugnavano le sentenze di
primo grado per portarle in appello, risulta non aver condizionato in
misura clamorosa i giudici di secondo grado. Nei sette processi d'appello
celebrati per il reato di disobbedienza alla legge le condanne emesse furono
cinque (a fronte di sette assoluzioni di primo grado), tre delle quali
rovesciavano il giudizio assolutorio di primo grado e due lo confermavano;
le assoluzioni furono tre e confermarono il giudizio precedente.
Nei confronti delle associazioni socialiste le Corti d'Appello furono
spesso più clementi dei tribunali: ad esempio cambiarono in assoluzione
le condanne emesse in primo grado le Corti d'Appello di Firenze e di
Lucca nel 1895, a cui deve aggiungersi un'altra assoluzione emessa il 26
ottobre 1895 dalla Corte d'Appello di Lucca. Abbiamo già citato la
sentenza della Corte d'Appello di Ancona del 14 ottobre 1891, che
assolveva gli anarchici dal reato di associazione a delinquere. Nel 1893
tuttavia, la Corte d'Appello di Roma li condannò per quello stesso dopo
che il tribunale li aveva assolti e condannati invece in base agli artt. 247,
251 c.p.
Delle quattro sentenze d'appello relative ai processi per istigazione
all'odio di classe, due confermarono il giudizio di primo grado. La Corte
d'Appello di Milano trasformò in un'ammenda la pena detentiva che
condannavano da 75 a 62 giorni emessa dal tribunale della città nei
confronti di Talamona, Marchini, Majocchi e Bozzini sulla base dell'art.
247 c.p. per aver cantato per le strade un inno in cui si incitava a
pugnalare "l'odiato borghese". La Corte d'Appello ritenne al contrario che
il canto costituisse solo disturbo alla quiete pubblica (art. 457 c.p.) e
inflisse loro solo un'ammenda24.
23
La motivazione della sentenza è in A. ZERBOGLIO, Dei delitti contro l'ordine
pubblico la fede pubblica e la pubblica incolumità, Milano, F. Vallardi, s.d., pp. 79-81,' tir.
anche CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cil.. pp. 38-39.
24
Cass. 26 aprile 1894, cil.
57
Infine la Corte d'Appello di Venezia assolveva nel 1901 gli imputati
che erano stati condannati in primo grado per incitamento all'odio di
classe (art. 247 c.p.). Mentre il giudice di primo grado, che ragionava
ancora con la logica dell'emergenza, aveva sostenuto che in un articolo di
giornale fossero contenuti gli estremi del reato di istigazione all'odio di
classe, quello di secondo grado dimostrò che nell'articolo incriminato, nel
quale la colpa del regicidio veniva fatta ricadere sul partito moderato e
sulle mancate riforme, si parlava appunto di partiti, i quali non erano
classi sociali ma raggruppamenti trasversali a cui la legge consentiva
"libertà del pensiero, discussione"25.
La Corte d'Appello di Venezia si faceva interprete del nuovo clima e
affermava che la politica svolta da un partito, ossia da un organismo rappresentativo, anche se ostile al governo, non poteva essere considerata
come un mezzo di eccitamento all'odio tra le classi per il fatto che si trattava di un partito politico. Veniva rovesciato in questa occasione il criterio
che aveva precedentemente guidato la condotta di buona parte dei giudici:
ciò che negli anni precedenti diventava reato solo perché di dimensione
collettiva e associativa, veniva ora depenalizzato perché espressione di
quella dimensione specifica, politica, associativa e collettiva.
Le sentenze d'appello pronunciate sui reati a mezzo stampa (reperite
all'interno dei 48 processi che formano il nostro campione) sono otto. Tre
di queste confermano le sentenza di primo grado (due condanne del
gerente e un'assoluzione dal punto di vista penale). La Corte d'Appello di
Napoli condannò il direttore e il proprietario di un giornale sia
penalmente che civilmente, mentre il tribunale li aveva condannati per
sola negligenza26. La Corte d'Appello di Catania accolse infine il ricorso
del direttore dell'"Unione", Salvatore Lo Faro, che era stato imputato del
reato di istigazione a delinquere a mezzo stampa per aver scritto nel 1896
"non paghiamo le tasse" ed era stato condannato in primo grado alla pena
detentiva di tre mesi27.
Le condanne pronunciate nelle Corti d'Appello presenti nel dossier
sono in proporzione maggiori di numero rispetto a quelle di primo grado.
Proprio per questo motivo meritano di essere sottolineati i casi nei quali i
giudici di secondo grado respinsero il ricorso del pubblico ministero e
confermarono le assoluzioni, e quelli in cui accolsero il ricorso dei
condannati.
Appello Venezia, 10 gennaio 1901, cit. Cass. 6 giugno 1893, cit. Cass. 11 novembre 1896
58
4. La corte di Cassazione
Il comportamento tenuto dalla Cassazione, a cui spettava l'ultima
parola, risulta fondamentale per completare l'analisi relativa al grado di
compattezza della magistratura italiana. Abbiamo condotto l'analisi sulla
Corte di Cassazione lungo due piste: le sentenze contenute all'interno del
dossier formato da 48 processi; e altre sentenze di cui non è stato ricostruito L’iter processuale precedente. Nel dossier sono contenute 40
sentenze della Cassazione, 24 di condanna e 16 di assoluzione.
Per il reato di istigazione alla disobbedienza della legge vi furono
quattro condanne che confermavano le precedenti condanne di primo o di
secondo grado; e quattro assoluzioni, due delle quali accoglievano i
giudizi di assoluzione espressi in entrambi i due gradi rigettando il ricorso
del pubblico ministero, e due che accoglievano quello dei condannati,
cassando la sentenza di secondo grado e confermando l'assoluzione
emessa in primo grado28.
Quattro dei processi per istigazione all'odio di classe si conclusero
con una condanna, che rigettava la sentenza di appello risoltasi con una
semplice ammenda, e con tre assoluzioni, che cassavano le condanne
emesse in primo o in secondo grado.
Più dura la linea tenuta nei confronti del reato di vilipendio commesso pubblicamente contro le istituzioni costituzionali, punito con l'art.
126 c.p. Questo reato era di competenza della Corte d'Assise, la quale era
composta dai magistrati e dalla giuria popolare. Delle tre condanne emesse
dalla Corte d'Assise (della sentenza di Bologna del 27 giugno 1892 ne
parla Isabella Zanni Rosiello in questo stesso numero), la Cassazione ne
confermò due, mentre cassò senza rinvio quella emessa dall'Assise di
Firenze29.
Nei processi contro gli anarchici abbiamo reperito tre sentenze della
Cassazione. Due di esse confermavano la condanna emessa in appello sulla
base dell'art. 248 c.p., rigettando dunque l'assoluzione in primo grado
dall'accusa di associazione a delinquere e la conseguente condanna per associazione politica eversiva. Famosa fu la sentenza del 24 novembre 1892,
con la quale la Cassazione dichiarava le associazioni anarchiche colpevoli di
distruggere le proprietà privata e lo stato usando la violenza30. Un'al28
Cass. 30 dicembre 1897; Cass. 27 marzo 1905, cit. in R. CANOSA-A. SAN
TOSUOSSO, Magistrati, anarchici, socialisti, cit., pp. 114-15.
29
Cass. 12 dicembre 1892 (sez.II), Gì, 1895; Cass. 12 febbraio 1894 (sez.II), 01.
1894; Cass. 3 luglio 1901 (sez.II); TV, 1901.
10
Cass. 24 novembre 1892, "Rivista penale", 1893; A. ZERBOGLIO, Dei delitti
59
tra sentenza rigettava invece il ricorso del pubblico ministero e confermava
l'assoluzione dal reato di associazione per delinquere emessa in primo grado
dal tribunale di Ancona. Anche la sentenza sui socialisti emessa in primo e
secondo grado a Modena veniva confermata dalla Corte suprema.
I cinque processi relativi all'obbligo di preavviso per indire una
riunione pubblica si conclusero in Cassazione con tre condanne, che
confermavano quelle emesse dai pretori e due assoluzioni: in un caso la
Suprema Corte rigettò il ricorso del pubblico ministero e confermò il non
luogo a procedere emesso dal pretore di Novi Ligure, nell'altro accolse il
ricorso dei condannati e cassò la condanna di primo grado.
I processi istruiti sui reati a mezzo stampa si conclusero in vario modo.
Due delle tre sentenze della Cassazione concernenti la diffamazione a
mezzo stampa assolsero i condannati, rovesciando i giudizi precedenti; una
accolse invece il ricorso del pubblico ministero e cassò il non luogo a
procedere emesso in primo grado. Nei confronti della responsabilità penale
del gerente e dello stampatore, la linea della Corte Suprema fu orientata a
riaffermarla (cinque sentenze su otto). Ma questa tendenza si articolò in
posizioni differenti tra loro. Ad esempio, nel processo di Napoli, nel quale
la Corte d'Appello aveva stabilito la totale responsabilità penale e civile del
direttore del giornale e del proprietario, la Suprema Corte cassò la sentenza
rinviando al primo grado31; cassò la sentenza del Tribunale di Milano
relativa alla condanna dello stampatore, mentre veniva riconfermata la
condanna del gerente32; infine nel processo ai tipografi Mondovì che
stampavano la "Provincia di Mantova" e che erano stati condannati
penalmente in primo grado e assolti civilmente, la Cassazione aveva
rigettato il ricorso dei condannati che erano stati difesi davanti alla suprema
corte da due avvocati di grido: Enrico Ferri e Ettore Sacchi33.
All'interno dei processi che abbiamo ricostruito la Cassazione si mantenne in definitiva su posizioni non dissimili da quelle tenute dai magistrati
che operavano negli altri gradi del giudizio. Accolse cioè in molti casi il
ricorso dei condannati e respinse quello del pubblico ministero.
Ma se ampliamo la casistica delle sentenze emesse dalla Cassazione e
consideriamo anche altre sentenze di cui non abbiamo potuto ricostruire
l'intero iter processuale, il quadro si modifica sensibilmente. Abbiamo
creato un altro dossier formato da sole sentenze della Cassazione, nel quacontro l'ordine pubblico, cit., p.73; R. CANOSA-A. SANTOSUOSSO, Magistrati,
anarchici e socialisti, cit., pp. 45-46.
31
Cass. 6 giugno 1893, cit.
52
Cass. 24 agosto 1896, Gì, 1896.
33
Cass. 23 novembre 1889, TV, 1890
60
Tab. 3. Sentenze della Cassazione
OGGETTO
ASSOLUZIONE
CONDANNA
Istigazione all'odio di classe
6
19
Istigazione alla disobbedienza
della legge e apologia di reato
3
16
Vilipendio delle istituzioni
costituzionali
2
4
Associazione a delinquere e divieto
di associazione anarchici
5
Divieto di associazione socialisti
3
Riunione non autorizzata
3
9
8
2
Stato d'assedio Rifiuto
16
di obbedienza
Diffamazione a mezzo stampa
2
1
Responsabilità penale e civile
del gerente
2
7
Responsabilità penale e civile dello
stampatore
4
3
Stampa, smercio, affissione
TOTALE
3
29
80
61
le abbiamo inserito anche quelle relative alla legittimità dello stato d'assedio e dei tribunali di guerra che avevamo lasciato fuori dal dossier precedente. I risultati questa volta sono sensibilmente differenti. Il numero
delle condanne cresce con l'aumentare del numero delle sentenze ed esse si
concentrano sui reati politici caratteristici del decennio della crisi.
Non è possibile trarre delle conclusioni definitive da questi dati relativi alle sentenze della Cassazione che, per essere significativi, andrebbero completati con la ricostruzione per ognuna di loro dell'/ter
processuale precedente. Solo così potremmo confermare se siano stati
solo i magistrati della Cassazione ad esercitare la funzione più repressiva
rispetto agli altri giudici. Ma anche in presenza di dati parziali è possibile
affermare che in questi anni il volto repressivo della Suprema Corte,
emerga soprattutto nei riguardi di quei reati che hanno, o possono,
implicare, una dimensione collettiva. Diversamente, nei confronti
dell'individuo, visto in rapporto all'autorità costituita, la Cassazione
tendeva a schierarsi contro le decisioni dei pretori a favore dell'imputato,
difendendo il suo diritto di opporsi agli abusi perpetrati da un pubblico
funzionario nei suoi confronti (otto sentenze emesse dalla Cassazione sul
rifiuto di obbedienza all'autorità pubblica, di cui sei assoluzioni) 34. Il
diritto di resistenza che veniva negato nelle sue manifestazioni collettive,
veniva invece riconosciuto se rivendicato dal singolo, purché il fatto
avvenisse all'interno di un contesto ritenuto non politico.
È probabile che la vicinanza col potere politico condizionasse in
misura maggiore i giudici di Cassazione, e rendesse ancora forte
quell'identificazione con la classe politica che era stato fino a quel momento uno dei tratti peculiari della magistratura italiana. Ma anche nel
caso dei giudici della Cassazione ci troviamo di fronte a figure diverse tra
loro alcune delle quali orientarono la Suprema Corte su posizioni più
aperte. Luigi Lucchini fu uno di costoro. Professore universitario,
avvocato, magistrato, deputato e senatore, Lucchini si affermò come figura
di rilievo nel campo giuridico negli anni Ottanta: basti pensare al lavoro
svolto assieme a Zanardelli per la stesura del nuovo codice penale e
all'opera compiuta con la "Rivista penale" per la diffusione tra gli
operatori del diritto di una cultura giuridica più liberale35.
34
Oltre alle sentenze citate nella nota cfr. Cass. 3 luglio 1894 (sez.II), Gì, 1894;
Cass. 24 luglio 1896 (sez.II), Gì, 1896.
35
Su Lucchini cfr.Ministri,
deputati e senatori dal 1848 al 1922, a cura di A. MA
LATESTA, Roma, Ist. Edit.Ital. Bernardo Carlo Tosi, Roma 1940-1941, 3 v., ad vocem;
e R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., passim
62
Lucchini era stato un difensore delle libertà politiche fin da quando
era avvocato. Nel processo di Bologna del 1890 aveva sostenuto l'incostituzionalità del divieto di riunione applicato alla giornata del primo
maggio e aveva difeso il diritto dei cittadini di resistere agli abusi
dell'autorità pubblica. Non abbandonò la difesa dei diritti fondamentali
anche quando divenne giudice della corte di Cassazione. Nel 1896 contribuì a cassare la condanna emessa in primo grado, ritenendo che i toni
enfatici usati in una campagna elettorale non costituissero incitamento
all'odio fra le classi sociali. Fece confermare la sentenza di assoluzione
nel 1898 dal reato di associazione a delinquere emessa nei confronti degli
anarchici dal tribunale di Ancona. Infine nel 1905 cassò la sentenza di
colpevolezza emessa in secondo grado a Torino per apologia di reato
contro la monarchia36.
Anche altri magistrati di Cassazione mostrarono un atteggiamento più
morbido. Michelangelo De Cesare è uno di questi. Liberale, esiliato da
Napoli nel 1849, entrò in magistratura dopo il 1860 e fu nominato
senatore37. Il giudice Risi rigettò nel 1897 il ricorso del pubblico ministero
e confermò il non luogo a procedere che il tribunale di Genova e
successivamente la Corte d'Appello avevano dichiarato nei confronti di
Giovanni Chiozza, gerente responsabile de "Il Caffaro" di Genova,
imputato di avere inneggiato al regicidio attraverso un articolo pubblicato
sul giornale. La Cassazione aveva ribadito l'interpretazione secondo la
quale non si poteva giudicare il tenore di uno scritto da singole frasi,
mentre si doveva valutare nel complesso se esso contenesse delle ragioni
valide per rientrare in un reato penale come quello contenuto nell'art. 247
c.p.38.
Un'altra sentenza della corte suprema presieduta dal giudice Capaldo
rigettò il ricorso del pubblico ministero riconfermando l'assoluzione
emessa in primo grado (di cui abbiamo già parlato). Andando oltre la
linea giurisprudenziale che aveva fino a quel momento sostenuto che il
reato si consumava con il semplice canto dell'inno, la Cassazione
affermava invece l'importanza di valutare l'elemento intenzionale che in
questo caso era la volontà deliberata di turbare l'ordine pubblico incitando
i poveri all'odio contro i ricchi. Volontà che la sentenza d'appello non
motivava e per questo veniva cassata39.
Cass. 25 maggio 1896, pres. De Cesare, estensore Lucchini, cit.
Ministri, deputati e senatori, cit., ad vocem.
Cass. 30 novembre 1897 (sez.II), presidente Risi, cit.
Cass. 28 settembre 1898 (sez.II), ff. di presidente Capaldo, Gì, 1898.
63
Altro personaggio significativo di quegli anni è il giudice Tancredi
Canónico. Professore universitário di diritto penale a Torino, moderato
ma con forti aperture democratiche, filosofo, Canónico entro in
magistratura nel 1876, e fu nominato senatore nel 188140. Fu presidente
tra il 1892 e il 1893 in tre udienze delia Cassazione nelle quali si discusse di reati commessi attraverso la stampa. Canónico mantenne una
linea decisa nei confronti delia responsabilità penale dei gerente di un
giornale, che riaffermò in due casi mentre in un terzo ribadi anche la
responsabilità civile nei confronti dei direttore, ritenuto responsabile delia
scelta dei gerente41. Lo ritroviamo nei processi dei 1898 nei quali si
decise delia legittimità dello stato d'assedio e infine nell'udienza in cui fu
dichiarato decaduto il decreto 22 giugno 1899. Figura emblemática di una
magistratura in equilíbrio tra spinte contrastanti, Canónico svolse un ruolo
per alcuni aspetti complementare a quello rivestito da Lucchini.
5. Unafunzione vicária
Sulla magistratura italiana di fine secolo gravarono responsabilità enormi.
In quegli anni drammatici essa fu chiamata ripetutamente a legit-timare
1'operato dei governo e addirittura a prendere decisioni per conto dei potere
politico. Quest'ultimo attribui frequentemente alia magistratura una funzione
vicária che essa non sempre riconobbe come própria, ma con la quale dovette
in ogni caso misurarsi. Questa funzione era facilitata dai-lo stesso sistema
liberale. Con una costituzione flessibile quale era lo sta-tuto albertino, e
senza avere una norma fondamentale a cui riferirsi, la magistratura poteva
spaziare ali'interno di confini molto ampi per quanto ri-guarda
1'interpretazione delia legge42. Inoltre, siccome nell'ordinamento giuridico
dei período liberale non esisteva di conseguenza un organo para-gonabile
all'attuale corte costituzionale, la Cassazione era ripetutamente chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità stessa delle leggi. Compito che la Suprema
Corte a volte accettava e a volte tendeva a rifiutare, instaurando
40
Dizionario biográfico degli italiani, vol. XVIII, Roma, 1986 ad vocem.
Cass. 1 settembre 1892 (sez.II), presidente Canónico, TV, 1893; Cass. 6 giugno
1893 (sez.II), presidente Canónico, GI, 1895; Cass. 6 giugno 1895 (sez.II), presidente
Canónico, GI, 1895.
42
J. LUTHER, Idee e storie di giustizia costituzionale nelVottocento, Torino,
Giappichelli, 1990, cap.VII.
41
64
con il potere politico una dialettica complessa e non infrequentemente di
tipo oppositivo43.
Nel decennio delia crisi la magistratura italiana venne chiamata a
svolgere un'azione eminentemente politica in due momenti cruciali, che
coincisero con 1'inizio e la conclusione delia grande ondata repressiva. II
compito principale che la Corte di Cassazione dovette affrontare a partire
dalla prima legislazione eccezionale contro gli anarchici e i so-cialisti,
consistette neH'esprimersi sulla legittimità dello stato d'assedio e
dell'utilizzazione dei tribunali militari per giudicare reati che nel códice
penale erano catalogati come delitti contro 1'ordine pubblico. La
storiografia non ha dubbi nel giudicare il comportamento delia Cassazione
in quel frangente: per Canosa e Santosuosso essa legittimò lo stato
d'assedio non sulla base di motivazioni giuridiche ma in nome dei bene
delia pátria; per Córdova la Suprema Corte arrivò a smentire se stessa e a
rimangiarsi quanto aveva stabilito in occasioni analoghe dando cosi prova
di muoversi in perfetta sintonia con il potere esecutivo44.
Tre dei cinque processi che abbiamo ricostruito relativi alia legittimità
dello stato d'assedio iniziano con Farto di riconoscimento da parte dei
tribunali di primo grado dello stato d'emergenza. II tribunale di Massa e
quello di Trapani si dichiararono infatti incompetenti a giudicare i reati
nominati nel régio decreto dei 1894 che istituiva i tribunali di guerra. Gli
atti processuali passarono ai giudice militare che condan-narono gli
imputati di associazione a delinquere e istigazione alia guerra civile a
pene che arrivavano fino a venticinque anni di detenzione. I condannati
basarono il ricorso in Cassazione su due punti: 1'anticostitu-zionalità dei
tribunali militari, dal momento che non vi era alcuna guerra in corso e
l'illegittimità dell'applicazione retroattiva delle leggi ecce-zionali a fatti
accaduti precedentemente45.
La Cassazione non mise assolutamente in discussione in nessuna
delle cinque sentenze né lo stato d'assedio né la retroattività delle legge,
come emerge dalla piú famosa delle sentenze, quella contro Turati, Kuliscioff e il gruppo dei socialisti milanesi46. All'interno di una linea sostanzialmente uniforme in base alia quale la Corte Suprema, alio stesso
43
F. ROSELLI, Giudici e limiti ai potere dei legislatore, vigente lo statuto alber
tino, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1986, pp. 476-547.
44
R.CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., p. 81;
F. CÓRDOVA, Democrazia e repressione nellltalia diflne secolo, cit., p. 54.
45
Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canónico, GI, 1894; Cass. 6 aprile 1894.
in R. CANOSA-A.SANTOSUOSSO, Magistrati, anarchici e socialisti, cit., p. 79.
46
Cass. 22 agosto 1898 e 25 agosto 1898 (sez.I), presidente Canónico, GI. 1898
65
modo dei giudici di primo grado, accetta di legittimare lo stato d'asse-dio,
alcune sentenze mostrarono tra le righe l'esistenza di posizioni dub-biose,
o quanta meno incerte. Nel processo contro Luigi Molinari, con-dannato
dal tribunale militare di Massa a venticinque anni di carcere, la
Cassazione, presieduta dal giudice Tancredi Canonico, affermo la legittimita della retroattivita della legge eccezionale soltanto alla luce del cli-ma
di emergenza47, cosi come nel processo contro Gattini sostenne che la
retroattivita era giustificabile solo alla presenza di un nesso causale
preciso tra gli avvenimenti del passato e il presente48.
Nel processo contro Molinari inoltre, la Corte Suprema dichiaro incompetente il tribunale militare a giudicare del reato di istigazione alla
guerra civile, asserendo che quest'ultimo dovesse essere giudicato nel-la
sua sede legittima, ossia la Corte d'Assise. Venne cosi cassata la parte
della sentenza che riguardava I'istigazione alla guerra civile, per la quale i
ricorrenti venivano rinviati alla Corte d'Assise. Veniva inoltre cancellata
anche la pena inflitta dal tribunale militare a Molinari: essa doveva essere
ridotta e commisurata al solo reato di cui il tribunale militare era tenuto a
giudicare, ossia l'associazione a delinquere.
L'altro momenta cruciale nel quale la magistratura venne investita di
un ruolo politico fu alla fine della crisi, quando fu chiamata ad espri-mersi
sulla legittimita del decreto che Pelloux aveva emanato alla Camera il 22
giugno 1899, otto giorni prima del suo scioglimento. Si trat-tava di un
decreto che riuniva le principali disposizioni del governo relative alla
liberta di stampa e alla pubblica sicurezza che la Camera sta-va
discutendo. In questo modo Pelloux pensava di superare l'ostacolo
dell'ostruzionismo usando l'arma del decreto per evitare che il suo contenuto, totalmente lesivo delle liberta fondamentali, venisse discusso alla
Camera. II decreto doveva entrare in vigore il 20 luglio, indipendentemente dal fatto che il parlamento avesse o no deliberato sulle disposizioni in esso contenute.
La presentazione del decreto suscito le reazioni piu vivaci da parte
dell'estrema Sinistra. Esso non riusci ad essere convertito in legge e il 1°
luglio venne chiusa la Camera. Alla riapertura della Camera riprese
l'ostruzionismo dell'opposizione senza che si intravedesse una chiara via
d'uscita politica rispetto ad una situazione di stallo nella quale le forze
d'opposizione, compresi i socialisti, erano incapaci di condurre un'azione
politica che uscisse fuori dal parlamento e trovasse una sal47
48
Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canonico, GI, 1894.
Cass. 19 marzo 1894 (sez.I), presidente Canonico, GI, 1894.
66
datura organica tra la lotta istituzionale e i movimenti di protesta che
agitavano il paese49. Intervenne, in quella situazione di stallo, la sentenza
emessa dalla Corte di Cassazione il 20 febbraio 1900 che dichia-rava
decaduto il decreto legge incriminate perche era scaduto il termine della
sua conversione in legge.
Umberto Levra afferma che la sentenza arrivo inaspettata, e che inflisse un duro colpo al governo dando nuovo spazio alla lotta ostruzionistica; lo storico torinese ritiene tuttavia che l'obiettivo principale di
Pelloux non fosse piu l'immediata conversione in legge dei provvedimenti politici, bensi l'approvazione del nuovo regolamento della Camera
che avrebbe dovuto impedire la ripresa dell'ostruzionismo da parte
dell'opposizione, E che, comunque, la risoluzione della crisi avvenne
grazie al risultato ottenuto daU'estrema e dalla Sinistra costituzionale
nelle elezioni del giugno 1900 che Pelloux aveva indetto anticipata-mente
sperando di ottenere l'effetto contrario. L'avanzata di tutte le componenti
dello schieramento di sinistra accelero lo sfaldamento della maggioranza
e indusse Pelloux a dimettersi50. Rita Cambria, dal canto suo, asserisce che
la sentenza della Cassazione del 20 febbraio 1900 fu il risultato di un
accordo tra le frazioni dell'alta magistratura legate a Giolitti e a Zanardelli
e la Sinistra costituzionale. Tancredi Canonico, come presidente e Luigi
Lucchini, come consigliere, firmarono una sentenza che offri alla Sinistra
costituzionale un'occasione per uscire dalla crisi che essa, con tutte le
ambiguita che avevano contraddistinto il suo comportamento nel biennio
della crisi, non era riuscita a trovare sul piano politico51.
La storiografia si e soffermata a riflettere sugli effetti esercitati
dall'operato della Suprema Corte sul sistema politico. Ma quale significato riveste la sentenza del 20 febbraio 1900 all'interno della storia della
magistratura nel decennio della crisi? In realta non si tratta di una sola
sentenza, ma di un pool di dieci sentenze emesse tra luglio 1899 e
febbraio 1900 da giudici di primo grado, di Corte d'Appello e di Cassazione, su casi che riguardavano per la maggior parte reati di stampa
contemplati negli artt. 5, 6, 7, 8 del decreto liberticida del 22 giugno
1899, n.226. Per applicarlo o no, i magistrati dovettero affrontare il problema della sua stessa esistenza giuridica.
49
U. LEVRA, // colpo di stato della borghesia, cit., p. 332 e ss.
IvL, p. 382 e ss.
51
R. CAMBRIA, Mil' orinini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., pp. 186-87.
50
67
Rispose affermativamente al quesito la Corte d'Appello di Milano52,
la quale cancellò la pena pecuniaria inflitta dal tribunale di Como al gerente Migliavada, responsabile de "Il lavoratore di Como", perché costui
poteva usufruire delle condizioni previste dall'art. 5 del decreto n.. 226,
in base al quale il gerente ere esente da pena nel caso in cui "l'autore o i
cooperatori delle pubblicazioni siano condannati e risiedano nel regno"53. Lo stesso fece la seconda sezione della Cassazione che rigettò il
ricorso del Migliavada perché ritenuto contrario ai suoi interessi54.
Nello stesso giorno, il 29 dicembre 1899, la corte suprema, sempre
presieduta da De Cesare, aveva ribadito l'applicabilità del decreto ribadendo la sua estraneità ad esercitare la funzione di sindacato di costituzionalità. I giudici della Corte d'Appello di Venezia avevano dichiarato
colpevole il gerente Alberto Gherardi per le ingiurie pubblicate sul
"Corriere del Polesine", per poi discolparlo in base all'art. 5 del decreto
22 giugno 1899, n. 226; lo avevano tuttavia condannato ad una multa e al
pagamento del danno e delle spese. Il ricorso di Gherardi, fondato sulla
non legittimità del decreto n. 226, era stato respinto dalla Cassazione, la
quale aveva sostenuto che se esso era fondato sulla non corretta
applicazione del decreto, non spettava alla Cassazione addentrarsi
nell'esame della sua costituzionalità55.
Il tribunale di Chieti, dal canto suo, affermava che nonostante non
spettasse all'autorità giudiziaria pronunciarsi "sulla costituzionalità o
legittimità di un procedimento emanato dal governo sotto propria responsabilità politica, esercitando in via straordinaria e d'emergenza la
podestà legislativa", riteneva non potersi comunque esimere dall'applicare il decreto n. 22656.
L'unica voce discorde che si levò all'interno di questo coro fu quella del
tribunale di Messina. Si trattava in questo caso dell'accusa di vilipendio al
parlamento che il giudice istruttore aveva formulato nei confronti di un
articolo pubblico sulla "Gazzetta di Messina e della Calabria", reato
contro il quale - secondo la legge ordinaria - non si poteva procedere
senza richiedere l'autorizzazione del ramo del parlamento che era stato
offeso. L'art. 9 del decreto n. 226 abrogava l'auto52
Appello Milano, 9 settembre 1899, Gì, 1899.
Sulle norme in materia di stampa contenute nel decreto 226, cfr. G. LAZZARO,
La libertà di stampa in Italia, cit, pp 89-91. La citazione è a p. 90.
54
Cass. 29 dicembre 1899 (sez.II), presidente De Cesare, Gì, 1900.
55
Cass. 29 dicembre 1899 (sez.II), presidente De Cesare, Gì, 1900.
56
Tribunale penale Chieti, 16 febbraio 1900, Gì, 1900.
53
68
rizzazione e obbligava l'invio immediato degli atti processuali al procuratore generale del re. La camera di consiglio del tribunale di Messina
decideva, di conseguenza, prima di dare avvio alla azione penale, di
esaminare se il decreto in questione avesse forza di legge. E, secondo i
giudici di Messina, esso non l'aveva per il fatto di essere un decreto legge
emanato non a parlamento chiuso, cioè in una vera situazione di
emergenza e eccezionalità, ma a parlamento aperto, con il potere
legislativo pienamente funzionante. Il decreto n. 226 era la prova che il
potere esecutivo si arrogava "incostituzionalmente la potestà di creare o
modificare le leggi". Inoltre, dato che non era stato rispettato quanto
previsto dall'art. 10 (secondo il quale il decreto, che diventava esecutivo
il 20 luglio 1899, sarebbe stato presentato subito per la conversione in
legge) perché si era chiuso il parlamento, il decreto non aveva forza di
legge57.
La Corte d'Appello di Messina respinse invece la decisione del tribunale affermando con vigore la legittimità del decreto, della sua retroattività nonché del diritto del potere esecutivo di usare misure eccezionali "per far fronte alla responsabilità della sicurezza e della esistenza
dello stato."58.
Fino al 20 febbraio 1900 la stragrande maggioranza dei giudici si
pronunciò dunque a favore della validità del decreto 226. Non è un elemento trascurabile il fatto che i magistrati si pronunciassero a favore o
contro la validità del decreto per alleggerire la condanna dell'imputato e
per cercare di tutelare meglio la sua posizione. Molti di loro utilizzarono
infatti l'art. 5 del decreto per non punire i gerenti responsabili. Ma al di là
delle buona intenzioni dei giudici, rimaneva aperta una questione
delicatissima, ossia se fosse compito o meno della magistratura
esprimersi sulla legittimità dell'operato del potere esecutivo e farsi carico
nella sostanza di un compito politico.
Su questo punto le posizioni dei magistrati erano contrastanti. Quelli
che riconobbero il carattere d'urgenza del decreto finirono di fatto per
approvare l'operato dell'esecutivo. Come affermò Enrico Presutti
commentando la sentenza della Corte d'Appello di Milano, le motivazioni addotte da quei magistrati erano politiche, non giuridiche, e per
questo priva di fondamento59. Un'altra componente riteneva invece
57
Tribunale penale Messina, 29 novembre 1899 (camera di consiglio), Gì, 1900.
Appello Messina, 30 dicembre 1899, Gì, 1900.
w
E. PRESUTTI, // decreto 22 giugno 1899 avanti la giurisdizione penale, GÌ, 1899,
pp. 367-68.
58
69
che il giudice dovesse esprimere solo valutazioni di natura giuridica e che
nella fattispecie queste riguardassero il problema se fosse legittimo o
meno utilizzare lo strumento del decreto legge, senza addentrarsi a
giudicare delle circostanze sulle quali il decreto in questione era stato
emanato.
La sentenza emessa il 20 febbraio 1900 dalla prima sezione della
Cassazione rappresentò un tentativo di sintesi (o forse di compromesso) tra
queste due tendenze60. Essa risolse innanzitutto la questione pratica che
più interessava la Sinistra storica, dichiarando decaduto il decreto n. 226
perché non erano stati rispettati i tempi della sua conversione in legge.
Non essendo stato emanato a sessione chiusa un nuovo decreto -sosteneva
la Cassazione - relativo ai provvedimento contenuti in quello decaduto, la
sua applicazione in un periodo successivo era da ritenersi non valida.
Entrando in conflitto con le sentenze emesse precedentemente dalla
seconda sezione, la prima sezione faceva proprio il ragionamento dei
giudici di primo grado di Messina, ma si spingeva ancora oltre.
Sbagliavano - sosteneva la Suprema Corte - i magistrati che avevano
legittimato l'applicazione del decreto n. 226 invocando lo stato di
emergenza; se infatti l'emergenza fosse stata davvero tale, il governo
avrebbe potuto emanare un nuovo decreto a sessione chiusa. Solo in quel
caso il potere giudiziario avrebbe potuto eventualmente riconoscere
l'applicabilità del nuovo decreto.
Questa conclusione suonava - secondo Giorgio Lazzaro - quasi come
una beffa nei confronti del governo, dal momento che indicava le
circostanze nelle quali avrebbe potuto svolgere un compito che non le
spettava61.1 giochi erano fatti: quattro giorni dopo, il 24 febbraio 1900, la
Corte d'Appello di Perugia riconfermava decaduto il decreto n 226. Ma la
prima sezione della Cassazione volle rappresentare anche l'altra tendenza
della magistratura. Dichiarando che "il potere giudiziario non dia facoltà
di modificare l'esecuzione del potere esecutivo in ciò che riguarda le
necessità dello stato", la Cassazione riprendeva sia i pronunciamenti del
tribunale di Chieti che le massime di questo tenore espresse dalla seconda
sezione della Corte Suprema.
La prima sezione della Cassazione aveva scelto una via compromissoria
nel momento in cui si era limitata a valutare l'esistenza giuridica del
decreto, accantonando l'esame della sua costituzionalità62 . La
60
Cass. 20 febbraio 1900 (sez.l), presidente Canonico, Gì, 1900.
G. LAZZARO, La libertà di stampa in Italia, cit., p. 88.
62
R. CAMBRIA, Alle origini del Ministero Zanardelli-Giolitti, cit., p. 14.
61
70
linea imboccata dai giudici non rientrava appieno negli intendimenti di
uno dei membri della corte, Luigi Lucchini, che di questa sentenza era
stato l'ispiratore. Il giudice-deputato infatti, aveva sostenuto alla Camera
l'idea di una magistratura che giudicasse l'operato del governo. A
Sonnino, che si proclamava sostenitore della linea contraria, Lucchini
aveva contrapposto quella giurisprudenza che dal tempo dello stato
d'assedio in Lunigiana aveva ammesso che "la magistratura, com'è suo
dovere, intervenga e ricerchi se tali provvedimento siano o meno fondati
in legge e consentano alla costituzione politica dello stato"63. Il deputato
Lucchini riteneva che la magistratura avesse "il diritto e il dovere di
indicare la legittimità degli atti del governo"; il giudice Lucchini firmò
invece una sentenza che intendeva mettere al riparo la magistratura dal
compito di giudicare il potere esecutivo.
Compromesso, ricerca di nuovi equilibri, posizione difensiva: la
sentenza del 20 febbraio 1900 conteneva tutte queste motivazioni e
contribuiva a chiudere la crisi politica di fine secolo, e la fase durissima
che aveva attraversato la magistratura nel decennio della crisi.
6. Giudici d'assalto ?
Attraversata da indirizzi e tensioni molteplici e a volte contrastanti,
costretta a muoversi in un ambiente nel quale si assottigliavano ogni
giorno di più gli spazi di libertà degli individui, la magistratura italiana fu
sottoposta nel decennio della crisi a pressioni enormi. Ad essa furono
affidati compiti politici di portata esorbitante che erano non solo il
prodotto di un'emergenza durata negli anni, ma anche - e soprattutto -di
una legislazione che affidare al giudice uno spazio interpretativo vastissimo. Ai giudici - spiega in modo lapidario Mario Sbriccoli - veniva
assegnata in modo strumentale una delega da parte della classe dominante. Non era una delega che "assegnava alla decisione di un corpo
dello stato una questione irrisolta", ma che al contrario "lasciava provvidenzialmente irrisolta la questione, rinviandola alla sola istanza del
potere che per la natura del suo ruolo (per esempio il fatto di provvedere
per interpretationem), per le sue varie articolazioni (non tutti i giudici, e
non tutti i livelli di giurisdizione, si esprimono allo stesso modo), per la
credibilità tecnica che essa conserva anche quando si contraddi63
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, sess. 1899-1900, voi. IV, Discussioni,
2° tornata del 28 giugno 1899, pp. 4788-4789.
71
ce, può lasciarla aperta a tempo indeterminato, pronunciandosi su di essa
innumerevoli volte, senza definirla mai una volta per tutte" .
Per far un solo esempio, una sentenza della Cassazione del 1897 riguardante il mancato preavviso di una riunione indetta a scopi pacifici,
esprimeva il principio secondo il quale spettava al magistrato e solo a lui
di segnare il limite tra pubblico e privato, di decidere a quale di questi due
territori appartenesse una riunione, e decidere dunque a quale dei due
regimi essa dovesse appartenere. Su una questione vitale per le libertà del
cittadino quale appunto la definizione dello spazio privato e di quello
pubblico, era il giudice a doversi pronunciare e decidere quali fossero i
confini dell'azione politica65.
Sotto la spinta di questi fattori l'identificazione tra magistratura e
ceto politico iniziò a incrinarsi e si delinearono situazioni di conflitto,
quando non di scontro aperto tra alcuni giudici e il governo. Sono storie
tutte da ricostruire, di cui sono state rinvenute alcune tracce. Esse ci
inducono a pensare che nel decennio della crisi non furono pochi i magistrati che interpretarono il loro ruolo nei termini dell'affermazione di
un'autonomia totale nei confronti del potere esecutivo e di difesa della
legalità, fino ad assumere posizioni ritenute quasi eversive dal governo.
Dell'esistenza di "giudici d'assalto" negli anni della crisi ne parlò più volte
alla Camera Felice Cavallotti, l'uomo politico più rappresentativo, assieme
a Matteo Imbriani Poerio, del partito dei diritti umani.
Il caso più clamoroso riguarda il muratore Romano Trezzi, forse il
primo detenuto della storia d'Italia a essere stato 'suicidato'. Arrestato
dalla polizia di Roma assieme ad altri anarchici, socialisti e repubblicani
dopo l'attentato fatto il 22 aprile 1897 da Pietro Acciarito al re Umberto I
mentre si recava in carrozza all'ippodromo delle Capannelle. Trezzi fu
massacrato nel carcere di San Michele dagli agenti di pubblica sicurezza
che lo avevano tenuto tre giorni nella prigione romana senza avvertire
l'autorità giudiziaria66.
La compiacenza del medico di fiducia della questura e di un perito
assai discusso avallarono la tesi del suicidio che un altro coscienzioso
perito, il dottor Pardo, non si sentì però di sottoscrivere. Comunicati i
suoi dubbi al magistrato inquirente Boccelli, costui si decise a chiedere
64
M. SBRICCOLI, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra otto e novecen
to. Il problema dei reati politici dal Programma di Carrara al trattato di Manzini, in
"Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", 2, 1973, pp. 659-60.
65
Cass. 18 dicembre 1897, Gì, 1898.
66
Sul caso Frezzi cfr. G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna. VII. La crisi
di fine secolo e l'età giolittiana 1896-1914, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 39-40.
72
un'altra perizia. In questo modo fu impedito che il caso venisse insabbiato
come aveva tentato di fare la questura di Roma che mise in atto fin dal
primo momento un'operazione di depistaggio, ricorrendo al pretore,
anziché al giudice, per evitare che iniziassero gli interrogatori e facendo
sparire i detenuti delle celle vicine che avevano udito le grida di Trezzi
mentre gli agenti lo picchiavano fino ad ucciderlo.
Il magistrato inquirente non si piegò davanti ai tentativi dell'autorità
politica di deviare le indagini in un'altra direzione; affidò a tre professori
una nuova perizia e dopo aver letto il verdetto spiccò un mandato di
cattura nei confronti dei tre agenti di questura che avevano ucciso Trezzi
e li arrestò. Pare che - rivelò Cavallotti alla Camera - il procuratore
generale - dicendo di parlare a nome del Guardasigilli - avesse tentato di
sospendere l'arresto delle guardie e avesse rivolto delle minacce anche al
giudice istruttore67. Ma Boccelli non si era fatto intimorire e aveva ordinato
la perquisizione della questura e emesso un mandato di comparizione nei
confronti del questore Martelli.
Il fatto non era nuovo: a Roma più volte negli ultimi anni i questori
erano stati citati come imputati senza che nessuno si interessasse
dell'accaduto. L'atto del giudice Boccelli scatenò invece le ire di Antonio
di Rudinì. Il primo ministro accusò alla Camera il magistrato di violazione
dell'articolo 8 della legge comunale e provinciale, secondo il quale era
vietato procedere contro un'autorità politica senza aver richiesto
l'autorizzazione sovrana. Per il capo del governo, il giudice Boccelli non
si era limitato a violare la legge. Con il suo comportamento aveva indotto
nel pubblico il sospetto che "si volesse fare non un procedimento penale
contro alcuni cittadini colpevoli di reati, ma una vera e propria
inquisizione sopra un altro istituto dello stato, il quale dev'essere così
indipendente com'è quello giudiziario". Dopo aver difeso l'operato della
polizia, di Rudinì concludeva la sua invettiva denunciando il fatto che
"l'autorità giudiziaria (...) aveva avvalorato nel pubblico il pensiero che si
trattasse di una vera inquisizione dell'ordine giudiziario sopra l'ordine
politico"68. Ma di Rudinì non si limitò a questo: coprendo il questore di
Roma con la sua autorità ministeriale, impedì la prosecuzione
dell'istruttoria.
Il fatto suscitò grande sdegno tra le fila dell'estrema Sinistra. Giovan
Battista Impallomeni, giurista militante appartenente alla scuola del
67
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, I sess., Discussioni, tornuta 17
maggio 1897, pp. 724-34.
68
Ivi, leg. XX, I sess.. Discussioni, tornata 8 giugno 1897, p. 1594.
73
Mtialiimo giuridico, scrisse parole di fuoco contro il regime di polizia che
stava prendendo piede nel paese69. Per Cavallotti significò rompere
definitivamente con il governo di Rudinì . Secondo il leader radicale
l'intervento alla Camera di Rudinì aveva rappresentato una rottura anche
nei confronti della prassi consueta rappresentata dagli attacchi del potere
esecutivo contro l'autonomia dei giudici. Si era arrivati, di recente, a
prefetti che minacciavano giudici di inviarli al domicilio coatto, ma non si
era ancora arrivati all'"offesa alla maestà della legge e del giudice,
glorificata dalla tribuna parlamentare e chiamata a costituire un precedente
inaugurante tutto un sistema di governo". Secondo Cavallotti, la tendenza
strisciante che stava affiorando all'interno del governo consisteva nel
sottrarre ai giudici il maggior numero di reati e di metterli sotto la
responsabilità del governo per sottoporli al giudizio del parlamento.
Bastava un primo ministro sicuro della sua maggioranza "e per tutti i reati
la cui persecuzione dia noi al Governo, voi potete mandare il giudice a
dormire"71.
Cavallotti concludeva il suo terzo discorso pronunciato alla Camera
sul caso Trezzi mettendo in guardia il governo dal mettere le mani sulla
magistratura. L'immagine del corpo giudiziario che il leader radicale
trasmetteva al Parlamento era quella di un'istituzione composta di membri
che lottavano strenuamente per difendere il diritto e la loro autonomia
dagli attacchi del potere politico. Ma egli si spingeva oltre, dichiarando
quali compiti spettassero alla magistratura nei periodi di grave crisi
istituzionale:
Quando le tristi onnipotenti dittature, quando le maggioranze
enormi, schiaccianti imperversano, è allora che all'uomo libero, combattente da solo contro tutti, al cittadino soltanto armato della sua coscienza, del suo diritto e di una giusta causa non resta altro rifugio che il
tempo della giustizia, altro ausilio che quello del magistrato per tener
testa a maggioranze e dittatori.
69
G.B. IMPALLOMENI, Responsabilità ministeriale e responsabilità comune a
proposito del caso Frezzi, in "La Giustizia penale", 1897, citato in M. SBRICCOLI, //
diritto penale sociale 1883-1912, in "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giu
ridico moderno", 3-4, 1974-75, t. I, pp. 592-93.
70
A. GALANTE GARRONE, / radicali in Italia 1849-1925, Milano, Garzanti,
1973, p. 353.
71
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, leg. XX, I sess., tornata 20 giugno
1897, p. 2142.
74
7. Il partito dei diritti umani
La crisi di fine secolo si presentò, sia in Italia che in Francia, sotto la
forma di uno scontro aspro tra due culture politiche che guardavano alla
questione delle libertà fondamentali in modo totalmente antagonistico.
Questo scontro non rimase una sterile contrapposizione, né si risolse in
un'azione puramente difensiva; costituì invece un terreno favorevole allo
sviluppo di nuove progettualità. La creatività sprigionatasi negli anni
della crisi si incanalò in due direzioni: da un lato imboccò la via della
costruzione di un immaginario sociale che avrebbe dato luogo nei due
paesi a due differenti stagioni del riformismo72; dall'altro ripropose come
elemento di aggregazione politica la tematica dei diritti dell'uomo. La
cultura delle libertà che aveva attraversato l'Europa sette-ottocentesca si
presentò di nuovo sul finire del secolo con problematiche specifiche e
diede vita a forme organizzative totalmente nuove. Entrambi i paesi
furono interessati da questa risposta che una parte della società elaborò di
fronte al pericolo di una deriva repressiva. Le differenze furono però
notevoli.
Nella Francia di fine Ottocento la cultura dei diritti umani rivendicò
l'atto fondante della moderna nazione francese. Attorno alla mitologia
politica dell'89 e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo si creò
un'azione di difesa di diritti già esistenti73. Si trattò della ripresa di una
cultura che aveva già permeato lungo un secolo la società francese e che
ora, di fronte ad una grave crisi dello stato, venne riproposta come
terreno sul quale far nascere nuove aggregazioni politiche allo scopo di
riaffermare il nesso tra cittadinanza, diritti dell'individuo e repubblica74. I
diritti dell'individuo divennero dunque in Francia la bandiera per riaffermare la legittimità della democrazia e della repubblica. Tutti e tre
questi elementi furono ripresi e riproposti da un gruppo di cittadini come
il canale per la risoluzione della crisi e per la riaffermazione di una
cittadinanza repubblicana che da quei diritti individuali non poteva "geneticamente" prescindere.
72
Si
73
vedano a questo proposito le analisi condotte da G. GEMELLI, infra.
E. NAQUET, La Ligue des droits de l'Homme: une polìtique des droits et de la
justice dans le premier vingtième siede, in "Jean Jaurès cahiers trimestriels", cit., pp.
29-48.
74
M. REBERIOUX, Polìtique et société dans l'histoire de la Ligue des droits de
l'homme, in Les droits de l'homme en polìtique, a cura di M. REBERIOUX, in "Le
Mouvement social", 183, aprile-giugno 1998, pp. 3-25.
75
In Francia la cultura dei diritti umani di fine secolo assunse una forma organizzativa stabile: la Ligue des Droits de l'Homme, sorta nel 1898
divenne un organismo permanente che fino a tutti gli anni Trenta si occupò della difesa dei diritti degli stranieri e degli emarginati, degli diritti
sociali, dei diritti dei popoli, della giustizia internazionale. Essa nacque
per iniziativa di un gruppo formato da qualche politico, da avvocati
favorevoli alla revisione del processo a Dreyfus e da un numero significativo di professori universitari e scienziati (tra i più famosi va citato
Emile Durkheim), a cui si affiancarono medici e insegnanti attivi nelle
sezioni locali della lega. Si trattò di un'iniziativa che trovò il suo terreno
fertile tra gli intellettuali, o meglio tra i savants, ossia tra individui abituati a fare ricerca e ad applicare metodi scientifici nel loro lavoro75. La
Ligue des Droits de l'Homme va così inquadrata come un'iniziativa nata
all'interno della società civile grazie alla quale venne sottolineato
l'impegno dei savants nella città, un impegno che assunse per questo
motivo un significato profondamente politico.
Anche in Italia il decennio della crisi fu un periodo fertile per la proliferazione e la diffusione di discorsi sui diritti umani. Il susseguirsi di
leggi eccezionali e di attacchi alle libertà costituzionali fondamentali rappresentarono un terreno di coltura per queste tematiche. Si può dunque
parlare anche per l'Italia di "diritti umani di fine secolo", usando l'espressione coniata da Emmanuel Naquet per definire il terreno di aggregazione
di una parte della società francese nel corso dell'affaire Dreyfus?
La prima cosa da rilevare è il totale silenzio della storiografia italiana contemporaneista sulla cultura dei diritti umani. Anche studi recentissimi76, non contengono alcun accenno all'impegno dei radicali su
questa tematica, che pure costituì fin dall'Ottocento una componente
fondamentale e altamente identificativa del loro lavoro politico. Un
analogo silenzio su questi temi attraversa gli studi sulla massoneria ottonovecentesca, che condivideva con i radicali e i socialisti, buona parte dei
quali erano di fede massonica, un'eguale sensibilità nei confronti del
tema dei diritti umani77.
Il fatto che la storiografia italiana, a differenza di quella francese,
non si sia posta domande esplicite a questo riguardo e che quando lo ha
75
V. DUCLERT, La Ligue de "epoque héroique": la politique des savants, in "Le
Mouvement social", 183 cit, pp. 27-60.
76
G. ORSINA, Il partito radicale nell'età giolittiana, Roma, Carocci, 1998.
77
Si veda ad esempio il volume di F. CORDOVA, Massoneria e politica in Italia
1892-1908, Roma-Bari, Laterza, 1985, che non contiene alcun accenno a questo tema
neppure nelle pagine relative alla crisi di fine secolo.
76
fatto, non abbia superato la soglia della descrizione senza tentare alcuna
concettualizzazione, non è casuale. È un ulteriore segno del fatto che la
cultura dei diritti dell'individuo e delle sue libertà non abbia mai avuto un
vero radicamento nel nostro paese, come spiegò in modo mirabile
Giuliano Amato nella monografia dedicata al rapporto tra individuo e
autorità78.
L'ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse è stata quella di verificare se nell'Italia di fine Ottocento si fosse presentato un fenomeno
paragonabile alla nascita della Ligue des Droits de l'Homme e se la crisi
di regime avesse agito da acceleratore nei confronti dell'elaborazione e
della diffusione di una cultura dei diritti umani. Per ricercare manifestazioni visibili di simili tematiche è stata scelta come fonte le interpellanze parlamentari. Seguendo un metodo analogo a quello utilizzato per le
sentenze della magistratura, è stato creato un altro dossier nel quale sono
state inserite tutte le interpellanze presentate alla Camera dei Deputati
aventi come argomento i diritti umani, individuali e collettivi e la loro
difesa di fronte ai soprusi dell'autorità pubblica.
A differenza di quanto è stato fatto per le sentenze della magistratura,
nel caso delle interpellanze parlamentari sono stati presi in esame solo gli
anni più caldi della crisi, dal 1896 al 1900. Sono state individuate 109
interpellanze presentate alla Camera da deputati radicali, socialisti e
repubblicani, ossia le forze politiche che diedero vita in quegli anni
terribili ad un ideale partito dei diritti umani. Le interpellanze sono state
classificate in base agli argomenti di cui trattavano. Questi sono i risultati:
Tab. 4. Interpellanze parlamentari
Carcere
17
Divieto di riunione
31
Arresti arbitrari
11
Stampa
20
Abuso di potere
16
Divieto di associazione
Chiusura pubblici esercizi
3
Repressione, espulsione
2
Scioglimento consigli comunali
TOTALE
6
3
109
78
G. AMATO, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milu-no,
Giuffrè, 1967.
77
Queste interpellanze sono l'opposto speculare dei rapporti di polizia:
esse rappresentano la voce dell'opposizione che attraverso i suoi deputati
faceva in parlamento una sorta di cronaca in diretta, e spesso in tempo
quasi reale, di tutti gli episodi di violazione e limitazione delle libertà
personali e collettive. Esse descrivono il formarsi e riformarsi continuo di
una rete repressiva alimentata dai vari provvedimenti eccezionali adottati
in quegli anni, che calava in modo cieco e indiscriminato sui cittadini,
anche su coloro che non partecipavano ad alcuna attività politica. Era una
rete repressiva totale che arrivava a controllare e a vietare, oltre alle
riunioni politiche, ogni forma di sociabilità e ogni espressione della vita
collettiva nazionale. Non sfuggivano al controllo poliziesco né la musica
suonata dalle bande (la polizia vietò ad esempio a Padova di suonare a
teatro l'inno di Garibaldi dopo che l'orchestra aveva suonato l'inno
reale79), né le commemorazioni di politici defunti, quali Cavallotti80, o di
eventi e personaggi della storia nazionale. Clamorosi sono al riguardo i
divieti che impedirono in alcune città le commemorazioni per il
cinquantenario del 48-4981 o quelli in onore di Giordano Bruno che si
tennero nel corso del 1900. La ragione addotta dal governo a proposito di
queste ultime fu che non si riteneva opportuno dare spazio a
manifestazioni anticlericali quando era in corso l'anno santo82.
Queste interpellanze descrivono l'Italia di fine secolo come di un
paese buio, governato da una classe politica dotata di una vocazione autoritaria forte, pervasiva e strutturalmente lesiva dei diritti individuali. Si
tratta, com'è ovvio, di un'immagine che prese corpo all'interno di un
contesto di opposizione: questa rappresentazione è al tempo stesso testimonianza della cultura delle forze politiche che la crearono, del loro modo
di interpretare la realtà e al tempo stesso della forma del loro impegno.
Sono le 17 interpellanze che hanno come oggetto le carceri italiane,
le condizioni dei detenuti, i prigionieri innocenti e 27 quelle relative agli
arresti arbitrari e all'abuso di potere, a comporre un manifesto dei diritti
individuali violati. Le parole appassionate dei deputati dell'Estrema parlano di un universo di soprusi perpetrati dalle forze dell'ordine nei confronti di cittadini inermi: carabinieri e poliziotti avvezzi a sparare alla vi79
Atti parlamentari, Camera dei Deputati, sess. 1898-1899, leg. XX, Discussioni,
voi. Ili, 20 marzo 1899, interp. Veronese e Alessio.
80
Ivi, 14 marzo 1899, interp. Valeri; 17 marzo 1899, interp. Costa.
81
Ivi, 23 marzo 1899, interp. Del Balzo
82
Ivi, sess. 1899-1900, leg.
XX, Discussioni, voi. II, 23 febbraio 1900, interp. Sinibaldi, 2 febbraio 1900, interp. Socci e risposta del sottosegretario agli Interni Bettolini
78
sta di sospetti, ferendo o più spesso uccidendo innocenti per errore, come
il caso del pastore Celestino de Murtas, ucciso dai carabinieri perché
scambiato per il pluriomicida Ferdinando Deplanu83; abusi da parte delle
autorità pubbliche e delle forze di polizia, arresti arbitrari e senza
mandati di cattura84; lunghe carcerazioni preventive; maltrattamenti sui
detenuti che arrivano fino all'omicidio (come il caso Frezzi, di cui abbiamo già parlato)85; condizioni carcerarie spaventose86; intimidazioni e
violenze sui testimoni87.
Paladini della difesa dei diritti umani, individuali e collettivi, furono un gruppo di parlamentari dell'estrema Sinistra. Tra questi spicca
la figura di Matteo Imbriani Poerio. Noto per il suo iper-attivismo parlamentare, il deputato radicale napoletano può essere considerato assieme a Cavallotti il difensore dei diritti individuali per eccellenza. Si
deve a Imbriani la maggior parte delle interpellanze sulle carceri (6 su
13) e sugli abusi di potere da parte della forza pubblica (10 su 17)88.
La sua morte, avvenuta il 20 settembre 1897 mentre pronunciava il
discorso inaugurale per un monumento a Giuseppe Garibaldi, e quella
di Cavallotti sopraggiunta a pochi mesi di distanza (il 6 marzo 1898),
significarono non solo la fine del disegno politico che mirava alla costruzione di un'opposizione autenticamente radicale, ma anche una re83
Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 12 luglio 1897, interp. Imbriani Poerio.
Ivi, leg. XIX, sess. 1896, Discussioni, 2 dicembre 1896, interp. Zabeo, Caldesi,
Garavetti, Cavallotti, Engel; 3 dicembre 1896, interp. Costa, Agnini; leg. XX, sess.
1897, 18 giugno 1897, interp. Socci, Bissolati, Ferri;12 luglio 1897, interp. Imbriani, 14
luglio 1897, interp. Bissolati, Sichel, Agnini, Morgari; XX leg, sess. 1897-98, Discus
sioni, voi. IV, V, VI, VII, 3 marzo 1898, interp. Rondani, Bissolati; 25 maggio 1898, in
terp. Campi; 20 dicembre 1898, interp. Bosdari, Valeri, Bovio, Socci, Budassi; leg. XX,
sess. 1898-1899, Discussioni, voi. IV, 1 maggio 1899, interp. Costa, Agnini; 10 giugno
1899, interp. Costa.
85
Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 17 maggio 1897, interp. Venturi; interp.
Cavallotti, Imbriani, Costa, Berenini, De Marinis, Sichel, Nofri; 2 giugno 1897, interp.
Imbriani, Pinna, Gaetani, De Marinis, Pala; 9 giugno 1897, interp. Cavallotti; 23 giugno
1897, interp. Imbriani; sess. 1898-1899, Discussioni, voi. Ili, 23 marzo 1899, interp.
Bissolati, Costa, Ferri.
86
Ivi, leg. XX, sess. 1898-1899, Discussioni, voi. VII, 6 dicembre 1898, interp.
Bianchi. Sul sistema carcerario italiano dell'epoca cfr. G. NEPPI MODONA, Carcere e
società civile dall'Unità a Giolitti, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, voi. VI, Tori
no, Giappichelli, 1974, pp. 515-64.
87
Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 14 giugno 1897, interp. Imbriani.
88
Ivi, leg. XX, sess. 1897, Discussioni, 8, 14, 16,17,19, 23 giugno 1897, 14 luglio
84
79
pentina caduta del dibattito sulle condizioni delle carceri italiane e sugli
abusi delle forze dell'ordine.
Sui diritti collettivi furono particolarmente attivi i socialisti, in particolare Costa e Bissolati, seguiti da Morgari, Cottafavi, Agnini, ai quali si
deve l'impegno costante di denuncia delle violazioni continue del diritto
di associazione e di riunione e contro gli arresti e i sequestri per i reati
commessi attraverso la stampa. È questo il gruppetto dei deputati che rappresentò in parlamento il partito dei diritti umani. Di fronte al loro strenuo
attivismo spiccano le posizioni più defilate degli altri leaders dell'Estrema. Molto appartato risulta Turati, il quale firmò la maggior parte delle
interpellanze ma non prese quasi mai la parola; defilatissimo fu Enrico
Ferri, la cui professione di avvocato, oltre che alla fede politica avrebbe
dovuto spingerlo ad un'attenzione ancora maggiore nei riguardi di queste
tematiche. E tuttavia su temi cruciali, quali ad esempio le carceri e gli arresti illegali, rispetto ai quali avrebbe potuto portare in parlamento la sua
competenza professionale unita alla sua esperienza di avvocato militante
Ferri preferì tacere, riservandosi di intervenire come politico nella battaglia sull'ostruzionismo e contro i provvedimenti di Pelloux89.
La fonte che abbiamo esaminato ci mostra che anche in Italia la cultura politica laica otto-novecentesca si fece portatrice durante la crisi di fine
secolo di una cultura dei diritti umani nella quale venivano rappresentati e
trasformati in altrettante occasioni di battaglia politica ogni segnale di
sopruso e di sopraffazione proveniente dal profondo della società.
Ma a differenza di quanto accadde in Francia, i deputati dell'estrema
Sinistra combatterono una battaglia in favore di diritti che erano ancora in
buona parte da conquistare, non per difendere un patrimonio nazionale
sottoposto all'attacco di forze conservatrici. In Italia i "diritti di fine secolo"
non affondavano le loro radici nel passato e non poggiavano, come accadde
invece in Francia, su alcuna mitologia politica; al contrario si presentavano come un elemento di rottura culturale molto forte, che tuttavia
non riuscì più che tanto ad attecchire, né ad essere riconosciuto come tale.
L'assenza di un mito fondatore quale la "gloriosa rivoluzione" fu uno
degli elementi che rese difficile, se non impossibile, far uscire dalle aule
parlamentari il partito virtuale dei diritti umani e trasformarlo in un'aggregazione politica concreta. Negli anni più drammatici della crisi non
sorse in Italia nulla di simile alla Ligue des Droits dell'Homme. L'unica
iniziativa paragonabile ad essa fu l'associazione pacifista sorta nel 1886
89
E. FERRI, Battaglie parlamentari. Una campagna ostruzionista, Milano, Società Editrice Lombarda, 1899.
80
ad opera di Teodoro Moneta, radicale, l'Unione lombarda per la pace e
l'arbitrato internazionale, divenuta poi Società per la pace e la giustizia
internazionale. Grazie alla sua attività di pacifista Moneta avrebbe vinto
nel 1907 il premio Nobel per la pace90. Ma dalla società civile non era
giunta alcuna spinta ad organizzarsi sulla difesa dei diritti umani. Gli unici
ad averli sostenuti erano stati i politici, ma non ci sono segni che inducano
a pensare all'esistenza di un'azione collettiva capillare paragonabile a
quella della Ligue des Droits de VHomme all'interno del paese.
Un elemento di ulteriore differenziazione tra i due paesi è rappresentato dal ruolo svolto dagli intellettuali. In Francia i savants agirono da
cinghia di trasmissione tra lo stato e la società, il centro e la periferia.
Costoro non si identificavano necessariamente in uno schieramento
politico, ma esprimevano quella parte della società in grado di esercitare
una funzione critica. Per queste ragioni la Francia uscì dall' affaire
Dreyfus come un paese dominato dall' élite degli intellettuali.91 La nuova
élite fu costituita da giornalisti, scrittori, accademici, ossia dalle professioni che avevano difeso la nazione in nome della repubblica e dei
diritti umani durante la crisi ed erano state in grado di rappresentare e
diffondere la loro lotta politica, contribuendo a trasformare Y affaire
Dreyfus in un fatto mediatico. La repubblica degli intellettuali, sorta in
quegli anni, contribuì a erodere l'egemonia della repubblica degli avvocati, che aveva dominato la Francia fin dai tempi della rivoluzione. Gli
avvocati francesi, infatti, parte dei quali erano anche uomini politici, non
seppero utilizzare i nuovi mezzi di lotta e di mobilitazione e scelsero la
strada del conservatorismo o dell'astensionismo, piuttosto che quella
dell'impegno e della mobilitazione92.
In Italia la cultura dei diritti umani era limitata ad una sola parte
politica, ma era forte e soprattutto consapevole. Avanziamo l'ipotesi che,
tra le molte ragioni per le quali non riuscì a svilupparsi, vi fu l'assenza di
mediatori convincenti, in grado di diffonderla in primo luogo tra i ceti
medi e farla poi calare in basso.
90
Su Teodoro Moneta cfr. L. BARILE, // Secolo, 1865-1923. Storia di due gene
razioni della democrazìa lombarda, Milano, Guanda, 1980, pp. 252-53; A. GALANTE
GARRONE, / radicali italiani, cit., pp. 321-22; 1 periodici di Milano. Bibliografia e
storia, t. I (1860-1904), Milano, Feltrinelli, pp. 10-12.
91
C. CHARLE, Les élites de la République, 1880-1900, Paris, Fayard, 1987; 1D„
Naissance des "intellectuels", 1880-1900, Paris, ed. De Minuit, 1990; Paris, Fayard,
1987; ID., La République des universitaires, 1870-1940, Paris, Seuil, 1994.
92
ID., Le déclin de la République des avocats, in La France de l'affaire Dreyfus,
cit, p 82.
81
8. Conclusioni
La crisi di fine secolo si presentò in Italia e in Francia come un intreccio complesso tra corpi, istituzioni e culture che si scontrarono, si
scomposero e ricomposero dando vita nel primo Novecento a una nuova
stagione riformista. Sono stati presi in esame due elementi che giocarono un ruolo decisivo nel corso della crisi e nella sua risoluzione: la
magistratura e la cultura delle libertà politiche e civili. La magistratura
ebbe una funzione ausiliaria, quando non di primo piano, nell'imprimere
una nuova direzione alla politica nazionale.
In Francia la magistratura fu complessivamente in grado di difendere la propria autonomia di fronte al potere politico negli anni della
crisi dello stato di fine secolo. Quest'ultimo sferrò nei suoi confronti
degli attacchi diretti di una violenza estrema, quale fu la hi de dessaisisement, del febbraio 1899, grazie alla quale il governo cancellava
l'istruttoria decisa dalla Chambre cuminelle (la sezione penale) della
corte di Cassazione al fine di dare avvio alla revisione del processo
Dreyfus, attribuendo tutta l'istruttoria alle tre sezioni unite della Cassazione, delle quali le due civili rappresentavano il fronte conservatore.
Ma, a differenza di quanto previsto, le tre sezioni unite della Cassazione
francese difesero l'autonomia del loro corpo e confermarono la validità
dell'istruttoria condotta dalla sezione penale.
In Francia l'attacco del potere politico nei confronti di quello giudiziario in un periodo di crisi dello stato fu diretto e istituzionalizzato attraverso l'emanazione di una legge votata dal parlamento. Dal punto di
vista istituzionale, invece, l'autonomia della magistratura italiana non
venne soggetta a tentativi di controllo istituzionale paragonabili a quelli
verificatisi in Francia. In Italia si trattò di un controllo di natura squisitamente politica, esercitato spesso in modo sotterraneo, i cui esiti furono
nella maggior parte dei casi positivi.
Esisteva tuttavia, ed è questa l'ipotesi di lavoro che abbiamo suggerito, una cultura dell'autonomia che molti magistrati italiani difesero
anche in quegli anni tremendi e che meriterebbe di essere indagata a
fondo. Era una cultura diffusa alla base, di cui furono in buona parte interpreti i giudici dei tribunali, i magistrati di periferia che la storiografia
ha finora trascurato privilegiando lo studio dei vertici. I quali, a loro
volta, furono attraversati da tensioni e inquietudini profonde, alcune
delle quali furono incanalate verso una "soluzione giudiziaria" della crisi.
Da questa ricerca è emersa l'ombra di una frazione della magistratura,
gelosa della propria autonomia, forse anche critica, che partecipò in
82
qualche modo a quella cultura dei diritti umani che rappresentò l'aspetto
creativo della crisi.
La cultura dei diritti umani costituì anche in Italia un momento qualificante della crisi ma, diversamente da quanto avvenne in Francia, non
venne incanalata in una forma associativa autonoma e stabile, non riuscì a
diffondersi in modo capillare, né ad affermarsi in età giolittiana come
terreno di convergenza di varie componenti politiche e sociali. Anche la
frazione critica della magistratura, che abbiamo visto apparire in controluce
nel decennio della crisi, faticò a trovare visibilità negli anni del
riformismo. In quel periodo infatti, nonostante i mutamenti verificatisi sul
piano della politica, le questioni scottanti che riguardavano il riconoscimento dei diritti fondamentali, quali il diritto di associazione* non ricevettero alcuna risposta e il potere giudiziario fu chiamato ancora una
volta a risolvere i problemi che il potere politico continuava a eludere.
Maria Malatesta
83
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