DELLA
XI CONGRESSO NAZIONALE
SOCIETÀ ITALIANA DI PSICOPATOLOGIA
TERAPIA
PSICHIATRICA
UN PROBLEMA DI LIBERTÀ
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GIORNALE ITALIANO DI
PSICOPATOLOGIA
Italian Journal of Psychopathology
XI Congresso Nazionale
della Società Italiana di Psicopatologia
TERAPIA PSICHIATRICA
UN PROBLEMA DI LIBERTÀ
Roma, 21-25 Febbraio 2006
ABSTRACT BOOK
Organo Ufficiale della
Società Italiana di Psicopatologia
Official Journal of the
Italian Society of Psychopathology
Fondatori: Giovanni B. Cassano, Paolo Pancheri
Cited in EMBASE Excerpta Medica Database
Editor-in-chief: Paolo Pancheri
VOLUME 12
FEBRUARY 2006
SUPPLEMENT
SOCIETÀ ITALIANA
Presidente
Paolo Pancheri
DI
PSICOPATOLOGIA
Segretario
Filippo Bogetto
Consiglieri
Alfredo C. Altamura
Amato Amati
Massimo Biondi
Massimo Casacchia
Paolo Castrogiovanni
Giovanni Muscettola
Alessandro Rossi
Tesoriere
Gian Franco Placidi
Consigliere Onorario
Luigi Ravizza
Vicepresidente
Mario Maj
XI CONGRESSO NAZIONALE
DELLA
SOCIETÀ ITALIANA
DI
PSICOPATOLOGIA
Presidente del Congresso
Paolo Pancheri
Segreteria Organizzativa
MGA - Roma
Coordinatore
Roberto Brugnoli
Sede del Congresso
Roma - Hotel Hilton Cavalieri
Coordinatore dei Corsi ECM
Roberto Delle Chiaie
Sito del Congresso
www.sopsi.it
Segreteria Scientifica
Maria Caredda
Angela Iannitelli
Amalia Maione Marchini
Francesca Pacitti
Adalgisa Palma
Lorenzo Tarsitani
Immagine di copertina: Pier Augusto Breccia
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Le Sessioni plenarie
a cura di
Adalgisa Palma
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GIORN ITAL PSICOPAT 2006; 12 (SUPPL. AL N. 1): 7-15
MARTEDÌ 21 FEBBRAIO 2006 - ORE 17.30-19.30
SALA CAVALIERI 1
Sessione Inaugurale
MODERATORI
A. Amati (Catanzaro), G.B. Cassano (Pisa)
Terapia psichiatrica: un problema di libertà
P. Pancheri
III Clinica Psichiatrica, Università di Roma «La Sapienza»
Lo scopo finale di ogni attività medica è la terapia. La psichiatria non è un’eccezione a questa regola. La terapia psichiatrica pone tuttavia problemi particolari che sono presenti in minor misura in altre discipline mediche. Nella nostra disciplina l’interazione tra alterazioni cerebrali, dinamiche intrapsichiche e interazioni sociali complica in assenza di certezze biologiche le decisioni sia del paziente
che del medico nei confronti dell’intervento.
Il primo punto critico riguarda la decisione consapevole del
paziente di accettare, rifiutare e aderire ad una terapia anche quando sono soddisfatti i requisiti formali del consenso informato. La coscienza di malattia e il particolare rapporto di dipendenza del paziente psichiatrico nei confronti
del suo medico sono al centro di questo problema.
Il secondo punto critico riguarda la decisione dello psichiatra di curare o non curare un paziente di fronte ad una
richiesta personale, familiare o sociale di intervento. Vale
sempre infatti la regola medica di curare sempre o comunque una manifestazione “patologica” anche quando essa
non compromette la libertà decisionale del paziente? E
qual è il livello di consenso attuale per definire i limiti della patologia psichiatrica?
Il terzo punto critico è il margine di libertà decisionale dello psichiatra nella scelta della terapia. Nella sua attività
professionale lo psichiatra è consapevolmente o inconsapevolmente condizionato in questa scelta da fattori multipli
ed interagenti. Problemi di costi, di esigenze delle Aziende
Ospedaliere, di interessi delle Aziende Farmaceutiche, di
pressioni sociali e di condizionamento da parte dei mass
media possono influenzare questa scelta.
I disturbi psichiatrici comportano inevitabilmente una più o
meno grande perdita di libertà di pensiero e di azione nei
nostri pazienti. Ma quanto è libero lo psichiatra da pregiudizi scientifici, da stereotipi di scuola e da condizionamenti esterni nell’aiutare il paziente a recuperare la libertà perduta?
mi che sono attualmente oggetto di dibattito e di studi empirici 1-3. Il primo di questi problemi è quello della soglia
per la diagnosi di ciascun disturbo mentale. Tale soglia è
attualmente basata sulla presenza di un certo numero di
sintomi (spesso fissati in maniera arbitraria) e su un grado
significativo di sofferenza o di compromissione del funzionamento sociale (entrambi lasciati alla valutazione soggettiva del singolo clinico o ricercatore). Tuttavia, per alcuni
disturbi mentali, è ben documentata l’esistenza di diversi
casi che restano “sotto soglia” per quanto riguarda il numero dei sintomi presenti, ma soddisfano pienamente il criterio della compromissione del funzionamento sociale.
D’altra parte, per altri disturbi mentali, il criterio della
compromissione del funzionamento sociale risulta essere
non pertinente. Un secondo problema è quello della frequente concomitanza di due o più diagnosi psichiatriche
(cosiddetta “comorbidità psichiatrica”). L’emergenza di
questo fenomeno è in parte un artefatto di alcune caratteristiche degli attuali sistemi di classificazione, quali la moltiplicazione delle categorie diagnostiche, il numero ridotto
di regole gerarchiche, una certa tendenza all’ipersemplificazione psicopatologica, nonché la regola concordata dagli
estensori del DSM-III (e poi seguita nelle successive edizioni del DSM) secondo cui alcuni sintomi caratteristici di
determinate classi diagnostiche non possono essere inseriti
nelle definizioni dei disturbi di altre classi. L’uso acritico di
più diagnosi psichiatriche nello stesso paziente può impedire un approccio olistico al singolo caso ed incoraggiare
un uso eccessivo della polifarmacoterapia. D’altra parte, se
soltanto una delle diagnosi concomitanti viene registrata
(come spesso accade nella pratica clinica), la quantità di
informazioni che viene raccolta può risultare inferiore (anziché superiore) rispetto alla diagnosi tradizionale. Inoltre,
dal momento che i vari clinici possono concentrare l’attenzione sull’una o l’altra delle categorie diagnostiche concomitanti, la riproducibilità della diagnosi può essere compromessa.
Bibliografia
1
Verso il DSM-V e l’ICD-11: alcuni problemi
attuali della diagnosi in psichiatria
2
M. Maj
3
Dipartimento di Psichiatria, Università di Napoli SUN
Gli attuali sistemi di classificazione dei disturbi mentali,
basati su definizioni operative delle varie categorie diagnostiche, hanno reso la diagnosi psichiatrica più precisa e riproducibile, favorendo la comunicazione tra i clinici e rendendo più confrontabili i risultati delle ricerche. Questi sistemi hanno però anche fatto emergere una serie di proble-
9
Narrow WE, Rae DS, Robins LN, Regier DA. Revised prevalence estimates of mental disorders in the United States: using
a clinical significance criterion to reconcile 2 surveys’ estimates. Arch Gen Psychiatry 2002;59:115-23.
Maj M. ‘Psychiatric comorbidity’: an artefact of current diagnostic systems? Br J Psychiatry 2005;186:182-4.
Maj M. The aftermath of the concept of ‘psychiatric comorbidity’. Psychother Psychosom 2005;74:67-8.
SESSIONI PLENARIE
MERCOLEDÌ 22 FEBBRAIO 2006 - ORE 9.15-12.00
SALA CAVALIERI 1
Sessione plenaria - La mattina delle libertà
MODERATORI
G. Muscettola (Napoli), P.L. Scapicchio (Roma)
La libertà dal nostro cervello
F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino
Parlare di libertà dal cervello significa occuparsi del tema
di quanto sia possibile all’uomo elaborare pensieri, prendere decisioni, attuare comportamenti che, in qualche modo,
non siano già stati predisposti e non siano totalmente determinati dall’organizzazione stessa del nostro cervello. È
il tema che, in campo filosofico, fa riferimento all’esistenza o meno del libero arbitrio, in relazione ad una concezione più o meno determinista dell’essere umano. Senza dubbio l’uomo porta con sé ed è il risultato di pesanti fattori
determinanti, biologici e ambientali. Il corredo genetico, la
traduzione nell’organismo dello stesso, l’ambiente geografico, il regime alimentare, gli eventi micro e macrorelazionali, il livello economico, la condizione sociale, la cultura,
le concezioni etiche e religiose, sono fattori determinanti di
enorme potenza, per cui potrebbe essere ragionevole ritenere che non siamo altro che il risultato di tutto ciò. Lo
strumento attraverso il quale questi fattori agiscono è la
strutturazione stessa del cervello: i geni propongono un determinato assetto neuronale, l’ambiente biologico e culturale lo conferma, lo modifica, lo annulla. Il cervello, formato e continuamente rimodellato dall’interazione con
l’ambiente, è così il nostro padrone assoluto, che elabora
un’attività psichica e di conseguenza, comportamentale che
non può, dati i presupposti, che essere quella? O possiamo
concepire qualche spazio di libertà, che ci permetta di incidere con autonomia decisioni e volontà, (libero arbitrio)
sulla nostra vita?
La mia relazione si propone di esaminare quali contributi
possa dare la moderna psichiatria alla risposta a questa antica e fondante domanda. La ricerca neuroscientifica ha
fornito interessanti spunti, che non possono certamente rivestire il carattere di risposte decisive. Verranno approfonditi alcuni contributi, a partire dai potenziali di Libet alla
social cognition, quale modello di risposta relazionale altamente influenzata dai circuiti neurali, comunque intesi come caratterizzati da un ruolo aperto, senza contenuti prefissati. Un interesse particolare viene poi rivolto al problema della libertà di scelta in vari quadri clinici psichiatrici.
Infatti, la volontà, il potere di scelta di fronte all’azione,
può essere compromessa in svariati disturbi mentali e, viceversa, la sua riacquisizione è indice del miglioramento e
della risposta alle terapie. Basti pensare allo schizofrenico
privato della sua volontà da voci imperative o da deliri di
influenzamento, al depresso grave nullificato nella sua volizione, all’ossessivo-compulsivo incapace di interferire
sui suoi processi mentali e sui suoi rituali, e così via.
Vengono, quindi, presi in esame alcuni risultati psichiatrico-forensi, essendo la responsabilità subordinata all’esistenza della possibilità di scelta. Possiamo dire di essere legati al nostro cervello, ma come strumento interattivo, con
la possibilità di esercitare una certa libertà nella costruzione del nostro futuro, anche se partiamo da circostanze che
non sono solo il frutto di nostre pregresse scelte ma di un
gran numero di determinanti genetiche e ambientali. Il nostro “libero arbitrio” è molto relativo, forse più vicino ad
un vissuto di controllo di forze interne ed esterne che ad
una reale libertà di scelta.
Si può ragionevolmente ritenere che condizioni aperte, in
cui l’agire può prendere strade diverse, coesistano con condizioni cliniche, biologicamente e ambientalmente determinate.
La psicopatologia del perito psichiatra
e libertà decisionale
G.C. Nivoli
Clinica Psichiatrica, Università di Sassari
L’Autore illustra i vari problemi cui può andare incontro lo
psichiatra forense nella sua professione. Tali problematiche
vengono illustrate attraverso le tecniche della descrizione
di un “comportamento con errore” , e secondariamente attraverso l’offerta di una tra le varie ipotesi di “comportamento senza errore”. Inoltre vengono descritte alcune tecniche per manipolare, delegittimare, criticare e ridurre la
credibilità dello psichiatra forense nell’aula giudiziaria nel
corso dell’esame e del controesame. Per ogni tecnica manipolatoria è illustrato un “esempio clinico” a scopo chiarificatore ed è prospettata “l’ipotesi di una possibile risposta” dello psichiatra per neutralizzare l’intervento manipolatorio.
Infine vengono illustrate le più frequenti motivazioni che
spingono lo psichiatra ad abbandonare il ruolo di terapeuta
per acquisire il ruolo di psichiatra forense e le caratteristiche psicopatologiche che le distinguono.
Il fantasma della libertà nella prescrizione
terapeutica
P. Pancheri
III Clinica Psichiatrica, Università di Roma «La Sapienza»
La scheda tecnica di un farmaco riporta una serie di informazioni utili per impostare correttamente una terapia: indicazioni, controindicazioni, cautele particolari, range di dosaggio ed altre.
Nella pratica, il clinico si trova, più spesso di quanto non si
ritenga, di fronte alla opportunità o alla necessità di prescrivere un farmaco al di là di quanto riportato nella scheda tecnica. Il caso più frequente è l’utilizzo di un farmaco
al di fuori delle indicazioni riportate in scheda tecnica.
D’altra parte, come è evidente dalla “storia registrativa”
10
SESSIONI PLENARIE
dei farmaci, una stessa molecola, in tempi successivi, vede
ampliarsi lo spettro delle sue indicazioni sulla base dei dati e delle evidenze scientifiche spesso già disponibili al momento della prima registrazione.
Quanto è libero il clinico di effettuare una prescrizione off
label di fronte alla primaria necessità di curare nel modo
migliore il suo malato?
Quali problemi di carattere etico, deontologico, amministrativo e medico legale dovrà affrontare a seguito della sua
decisione?
Le “schede tecniche” approvate dalle autorità regolatorie si
basano sugli studi controllati presentati dalle aziende per la
registrazione. Ma gli studi controllati certo non riflettono
l’imprevedibile varietà delle presentazioni cliniche reali.
Gli studi controllati, inoltre, possono essere oggetto di numerose critiche in merito al loro rigore metodologico, all’influenza dello sponsor e alla generalizzabilità dei risultati. Quali sono i limiti reali che gli studi controllati pongono di conseguenza alla libertà terapeutica dello psichiatra?
Ma il problema può riguardare anche le psicoterapie, dove
non esistono “schede tecniche” ma dove esse sono implicite e riflettono un comune consenso nell’ambito di ogni disciplina.
Lo strato roccioso: dipendenza e libertà
in psicoterapia
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica,
Sezione Psichiatria, Università di Genova
La relazione prende spunto dal romanzo di Francis Scott
Fitzgerald, in cui un rapporto di tipo psicoterapeutico, a
metà strada tra l’analitico e il cognitivo, ma fondamentalmente generico, ha un esito discutibile a causa della relazione di dipendenza che si instaura, qui reciprocamente. Da
questo si passa ad una serie di considerazioni, che attraversano problemi di teoria della tecnica, di metodologia, e di
teoria generali, che farebbero supporre che il fenomeno
della dipendenza appare universale, anche se spesso, essendo fortemente ambivalente, si esprime attraverso il contrario, ed appare forse irrisolvibile. Il discorso si articola
passando per alcune note su “Analisi terminabile e interminabile, attraverso i casi dell’uomo dei lupi e di Ferenczi,
ed in cui si considerano una serie di fattori, da quelli metapsicologici come l’istinto di morte a quelli psicologici come l’antichità del trauma. Ne segue un indirizzo che mira a
tener conto dell’inevitabilità della dipendenza, e a valutarne le conseguenze nei risultati terapeutici.
GIOVEDÌ 23 FEBBRAIO 2006 - ORE 09.15-12.00
SALA CAVALIERI 1
Sessione Plenaria - Le insidie delle linee guida
ORE 09.15-10.15
Letture Introduttive
MODERATORI
A. Siracusano (Roma), R. Tatarelli (Roma)
Linee guida in psichiatria forense
U. Fornari
Università di Torino
Esse discendono direttamente dagli obiettivi che si devono
perseguire quando si è richiesti di prestare la propria opera
come consulenti o periti giudiziari e non come clinici.
Esiste infatti una differenza fondamentale tra psicologo e
psichiatra che “curano” e psicologo e psichiatra che “valutano”; questi due piani non debbono essere confusi tra di loro,
perché processo e terapia sono ambiti operativi nettamente
divergenti tra di loro, sia nel metodo, sia negli obiettivi.
Ciò premesso, le regole che devono essere tenute presenti
quando si opera in ambito giudiziario sono le seguenti:
– descrivere i disturbi psicopatologici in atto sotto il profilo sia qualitativo sia quantitativo (criterio psicopatologico dimensionale);
– formulare una diagnosi psichiatrica (criterio nosografico
descrittivo);
– esaminare la conseguente compromissione delle funzioni autonome dell’Io (criterio dinamico strutturale).
Esaurito il percorso clinico, inizia quello della valutazione
11
psichiatrico forense, a sua volta articolato in:
– stabilire se il comportamento oggetto di indagine è o meno sintomatico di un funzionamento patologico psichico
per poter conferire “valore di malattia” o “significato di
infermità” all’atto agito o subito (criterio criminologico)
– specificare il tipo e grado di compromissione della capacità del soggetto in esame relativamente a condizioni di
infermità, inferiorità, deficienza psichica, danno psichico e altre condizioni di incapacità (criterio forense).
La diagnosi è un momento importante della perizia, ma non
sufficiente e tanto meno esauriente il compito peritale. Infatti quello che importa stabilire non è la connessione tra
categoria diagnostica e reato, bensì quella tra disturbo psicopatologico e funzionamento mentale in riferimento al
fatto avente rilevanza giuridica. Ne consegue che è fondamentale esplorare il funzionamento intra e interpersonale
di autori e vittime di reato, nel senso che più aree funzionali dell’Io saranno investite dal disturbo patologico psichico, più ampia ed evidente potrà essere la compromissione comportamentale e decisionale riferita al fatto oggetto
di indagine giudiziaria.
Pertanto, premesso un inquadramento clinico che soddisfi
criteri diagnostici condivisi e resi confrontabili attraverso i
SESSIONI PLENARIE
manuali statistici DSM-IV o ICD-10 (per ora gli ultimi due
in auge) è indispensabile passare al secondo livello, che ha
come obiettivo quello di esplorare il funzionamento di
quella persona (dal “che cosa ha” al “chi è”), perché ma-
lattia mentale e valore di malattia sono due nozioni non necessariamente intercambiabili e non reciprocamente identificabili.
ORE 10.15-12.00
Sessione Interattiva - Proposta interattiva di linee
guida per la terapia della Schizofrenia
MODERATORI
A.C. Altamura (Milano), P. Pancheri (Roma), A. Rossi (L’Aquila)
VENERDÌ 24 FEBBRAIO 2006 - ORE 9.15-10.00
SALA CAVALIERI 1
Lettura magistrale
MODERATORE
M. Casacchia (L’Aquila)
A ‘state of the art’ review of diagnosis and
treatment issues in Eating Disorders
J. Vanderlinden
University Center St-Jozef and Catholic University of Leuven (Faculty of Psychology), Belgium
Eating disorders such as anorexia nervosa (AN) and bulimia nervosa (BN), are both severe and complex disorders
mostly afflicting girls and young female adolescents.
Notwithstanding years of research, not much progress has
been made with regard to the treatment efficacy in eating
disorder patients. Approximately 40% of all eating disorders become a chronic disease, still 5% of all the patients
die as a consequence of the disorder. Therefore, the treat-
ment of eating disorders still remains a great challenge for
the therapeutic world.
In this paper we try to give a ‘state of the art’ review of
both the diagnostic issues and therapeutic approaches in
eating disorders. Firstly a brief overview of the different
types of eating disorders, their diagnostic characteristics
and their prevalence will be presented together with some
new evolutions in diagnosis (‘transdiagnostic model’) and
critical comments. Next a brief summary of the evidence
based data with regard to the therapeutic management of
the different types of eating disorders will be presented together with some new trends and evolutions in the therapeutic work with eating disorders. We will end with some
critical remarks and recommendations for both researchers
and clinicians in the field of eating disorders
ORE 10.15-12.00
Sessione Plenaria - Presentazione e premiazione
dei poster selezionati
MODERATORI
G.F. Placidi (Firenze), L. Ravizza (Torino)
12
SESSIONI PLENARIE
SABATO 25 FEBBRAIO - ORE 9.15-10.00
SALA CAVALIERI 1
Lettura magistrale
MODERATORE
P. Castrogiovanni (Siena)
Depressive Morbidity in Bipolar I Disorder
R.J. Baldessarini
Harvard Medical School, McLean Division of Massachusetts General Hospital Boston, Massachusetts
Collaborators: Salvatore P, Tohen M, Khalsa HMK, Hennen J, Gonzalez-Pinto A, Imaz H, Tondo L, Baethge C,
Ghaemi SN, Pompili M, Davis P
Treatment of Bipolar I Disorder (BPD) has advanced greatly since the introduction of long-term treatment with
lithium a half-century ago, including recent addition of a
growing number of anticonvulsants and antipsychotic
agents with antimanic, and variable mood-stabilizing properties (Baldessarini & Tarazi, 2005). Recurrences of mania-hypomania are highly effectively diminished by available treatments, but the depressive-dysphoric component
of BPD remains a major, unsolved clinical challenge. Our
recent studies document surprisingly high rates of morbidity, comorbidity, disability, and mortality emerging early
among first-episode BPD patients followed prospectively
from illness-onset (Tohen et al., 2003; Tondo et al., 2003;
Baethge et al., 2005). Despite treatment, unresolved morbidity was prevalent from illness onset (ca. 40% of followup time), and depressive-dysphoric illness accounted for
nearly one-third of time-at-risk, as was found in mid-course in previous studies (Judd et al., 2002; Post et al., 2003;
Joffe et al., 2004). In addition, onset with depressive or
mixed states anticipated an excess of later depressive and
total morbidity, consistent with the concept that course
and treatment response are less favorable when depression
precedes mania as a course characteristic (Faedda et al.,
1991). Moreover, risks of poor functional outcomes and
perhaps substance abuse appear to be associated with depressive and other dysphoric affective components in BPD
patients. Very importantly, excess depressive morbidity is
a critical risk factor for the very high rates of suicide in
BPD patients (Tondo et al., 2003). Treatment of depressive-dysphoric components of BPD remains very challenging. Currently available mood-stabilizers have only limited short-term and later protective effects vs. bipolar depression, and antidepressants appear to have a limited range of efficacy and safety, with or without ongoing moodstabilizing treatments (Ghaemi et al., 2004). A particularly important aspect of treating the depressive component of BPD is to reduce the risk of suicide, risk of which
is at least as high or higher than in any other psychiatric
disorder, and at least 20-times greater than in the general
13
population. Our comprehensive meta-analysis of the effects of long-term treatment with lithium on risks of suicide and attempts in manic-depressive patients broadly defined found major protective effects, with reductions in both
suicides and attempts by about 80%, with an increased attempt/completion ratio that suggests reduced lethality;
supportive data included randomized controlled trials as
well as other clinical studies (Baldessarini et al., 2005).
Overall, the preceding findings strongly indicate that depressive-dysphoric morbidity in BPD has major clinical
significance and represents an unsolved therapeutic challenge for which new and improved treatments are urgently
required.
References
Baethge C, Baldessarini RJ, Khalsa HMK, Hennen J, Salvatore P,
Tohen M. Substance abuse in first-episode bipolar I disorder:
indications for early intervention. Am J Psychiatry
2005;162:1008-10.
Baldessarini RJ, Hennen J, Pompili M, Davis P, Tondo L. Decreased suicidal risk during long-term lithium treatment: a
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Baldessarini RJ, Tarazi FI. Pharmacotherapy of psychosis and mania. In: Brunton LL, Lazo JS, Parker KL, ed. Goodman and Gilman’s Goodman and Gilman’s The Pharmacological Basis of
Therapeutics, 11th Edition. New York: McGraw-Hill Press
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Faedda GL, Baldessarini RJ, Tohen M, Strakowski SM, Waternaux
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Ghaemi SN, Rosenquist KJ, Ko JY, Baldassano CF, Kontos NJ,
Baldessarini RJ. Antidepressant treatment in bipolar vs. unipolar depression. Am J Psychiatry 2004;161:163-5.
Joffe RT, MacQueen GM, Marriott M, Trevor Young L. A prospective, longitudinal study of percentage of time spent ill in patients with bipolar I or bipolar II disorders. Bipolar Disord
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Judd LL, Akiskal HS, Schettler PJ, Endicott J, Maser J, Solomon
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Post RM, Denicoff KD, Leverich GS, Altshuler LL, Frye MA,
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for 1 year with daily prospective ratings on the NIMH life chart
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Tohen M, Zarate CA Jr, Hennen J, Kaur Khalsa HM, Strakowski
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J Psychiatry 2003;160:2099-107.
Tondo L, Isacsson G, Baldessarini RJ. Suicide in bipolar disorder:
risk and prevention. CNS Drugs 2003;17:491-511.
SESSIONI PLENARIE
SABATO 25 FEBBRAIO - ORE 10.15-12.00
SALA CAVALIERI 1
Sessione Plenaria - Nuove frontiere terapeutiche
MODERATORI
G. Cantore (Pozzilli), P. Pancheri (Roma)
Tecniche neurochirurgiche emergenti
per il trattamento dei disturbi psichiatrici
farmaco-resistenti
Applications of repetitive transcranial
magnetic stimulation (rTMS) to therapy
in psychiatry
P. Romanelli
A. Mantovani
Neurochirurgia Funzionale, Neuromed IRCCS, Pozzilli;
Clinical Assistant Professor, Department of Neurology,
State University of New York
Department of Neuroscience, Division of Brain Stimulation
and Neuromodulation, New York State Psychiatric Institute, Columbia University, New York; Department of Neuroscience, Division of Psychiatry, Division of Neurophysiology, Postgraduate School in Applied Neurological Sciences, Siena University
L’introduzione di tecniche di stimolazione cerebrale
profonda nel trattamento di disturbi del movimento come
il morbo di Parkinson ha dimostrato la possibilità di trattare disturbi funzionali del sistema nervoso centrale in
modo efficace, adattabile al singolo paziente, reversibile
e con limitata morbidità. Altre tecniche di neurostimolazione come la stimolazione del nervo vago hanno provato la loro efficacia nel trattamento dell’epilessia farmacorefrattaria. Sia la stimolazione cerebrale profonda che la
stimolazione vagale sono state utilizzate in pazienti con
depressione severa e resistente alla terapia medica. Più in
particolare, la stimolazione con elettrodi profondi del giro del cingolo sub-genuale ha dimostrato una notevole efficacia nel risolvere casi severi di depressione farmacorefrattaria. La stimolazione del nervo vago è stata a sua volta applicata al trattamento di casi di depressione farmacorefrattaria, mostrando una crescente efficacia col passare
dei mesi. Dal punto di vista chirurgico, la stimolazione
del nervo vago richiede l’esposizione del fascio vascolonervoso del collo, costituito da arteria carotide e vena giugulare, con il nervo vago posto tra le due. La stimolazione cerebrale profonda richiede l’impianto di un casco stereotassico e viene eseguito tramite l’impianto di un elettrodo di profondità attraverso un foro di trapano. In entrambi I casi l’elettrodo stimolante viene collegato tramite un cavo d’estensione alla batteria, che viene impiantata in sede toracica subclaveare. La durata della batteria
varia dia 3 ai 5 anni. La possibilità di offrire un trattamento chirurgico efficace, reversibile, di modesta invasività e con limitati effetti collaterali e complicanze può
rappresentare un’utilissima aggiunta all’armamentario terapeutico psichiatrico, offrendo la possibilità di modulare
in maniera selettiva specifici circuiti neuropsichiatrici riequilibrandone la funzione. La selezione dei pazienti candidabili all’intervento come pure la loro gestione postchirurgica rimane completamente nelle mani dello psichiatra, che costituisce la figura di riferimento di un team
comprendente neurochirurgo funzionale e neuropsicologo. L’approccio integrato medico-chirurgico, che ha già
prodotto notevolissimi risultati nella terapia del morbo di
Parkinson, può rappresentare un notevole passo avanti rispetto ai correnti paradigmi di trattamento delle malattie
neuropsichiatriche ed aprire la strada allo sviluppo di
nuove conoscenze sull’interazione tra mente e cervello.
Repetitive transcranial magnetic stimulation (rTMS) has
been applied in a growing number of psychiatric disorders
as a putative treatment. rTMS is unparalleled in its ability
to test the hypotheses generated by functional neuroimaging studies by focally modulating activity in selected neural circuits. As a focal intervention that may in some cases
exert lasting effects, rTMS offers the hope of targeting and
ameliorating the circuitry underlying psychiatric disorders.
The ultimate success of such an approach depends upon
our knowledge of the neural circuitry underlying these disorders, on how rTMS exerts its effects, and on how to control the application of rTMS to exert the desired effects.
While most clinical trials have focused on the treatment of
major depression, increasing attention has been paid to
schizophrenia and anxiety disorders. Many of these trials
have supported a significant effect of rTMS, but in some
studies the effect is small and short-lived. Current challenges in the field include determining how to enhance the
efficacy of rTMS in these disorders, and how to identify
patients for whom rTMS may be efficacious.
Problematiche psichiatrico forensi
dei trattamenti chirurgici per disturbi
psichiatrici
S. Ferracuti
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma «La Sapienza»
Il rinnovato interesse e la diffusione di diverse nuove tecniche neurochirurgiche per il trattamento dei disturbi psichiatrici ripropone in termini contemporanei il problema
del consenso a terapie chirurgiche che comportino modificazioni funzionali del Sistema Nervoso Centrale.
Il neurochirurgo portoghese Moniz propose nel 1936 l’intervento di leucotomia prefrontale che ebbe in seguito ampia diffusione, specialmente nel trattamento della schizofrenia, con oltre 40.000 interventi di lobotomia prefrontale
eseguiti fino alla seconda metà degli anni’50, di cui oltre la
metà negli Stati Uniti. I risultati dell’applicazione indiscriminata della tecnica, in un contesto di studi non controlla-
14
SESSIONI PLENARIE
ti, criteri diagnostici assai eterogenei, inadeguata quantificazione dei risultati e mancanza di follow-up, portò ad esiti che, in un numero eccessivamente elevato di casi, si dimostrarono tragici, con modificazioni personologiche
drammatiche e frequente sviluppo di deterioramento cognitivo, sebbene, invece, un certo numero di pazienti sicuramente ne traeva beneficio.
Lo sviluppo della stereotassi nella seconda metà del novecento consentì ai neurochirurghi di perfezionare notevolmente l’accuratezza della lesione e a tutt’oggi sono ancora
praticati interventi di trattotomie superselettive per disturbi
psichiatrici particolari. Un intervento di trattotomia è comunque definitivo e le sue conseguenze sono irreversibili.
Negli ultimi 10 anni si sono poi sviluppate delle tecniche
basate sulla modulazione elettrica di determinate aree cerebrali o del nervo vago. Entrambe le tecniche sono reversibili e non comportano lo sviluppo di lesioni cerebrali permanenti. La stimolazione elettrica di aree cerebrali profonde è una tecnica sperimentata nei disturbi del movimento
farmacologicamente intrattabili e sta iniziando ad affermarsi anche come terapia per pazienti psichiatrici, mentre
la stimolazione vagale è ampiamente utilizzata in ambito
epilettologico. La stimolazione vagale è una procedura che
ha minori caratteristiche sperimentali rispetto alla stimolazione elettrica profonda dell’encefalo e perciò i protocolli
di valutazione di efficacia hanno un diverso livello di problematicità.
Medico legalmente le procedure di valutazione di pazienti che possono essere avviati a questo tipo di trattamento
pongono particolari problemi. In generale qualsiasi procedura di valutazione di pazienti a cui sia possibile applicare un protocollo di trattamento chirurgico per un disturbo psichiatrico dovrebbe rispettare, perlomeno i seguenti
15
parametri: il paziente deve essere una persona con diagnosi DSM-IV certa o di disturbo ossessivo compulsivo o
di disturbo affettivo e i criteri di severità, cronicità, invalidità e resistenza al trattamento devono essere chiaramente definiti.
Qualsiasi precedente fallimento terapeutico dovrebbe essere documentato quantitativamente con misure valutative
adeguate (p.e. la Yale-Brown per i disturbi ossessivi).
La diagnosi deve essere posta da uno psichiatra al termine
di uno screening diagnostico completo, e dovrebbe essere
effettuata anche una valutazione neuropsicologica.
Il paziente deve firmare un consenso informato dettagliato
e i seguenti aspetti devono essere successivamente rilevati
per verificare se il paziente apprezza adeguatamente la procedura terapeutica:
1) capacità di comunicare una scelta stabile;
2) capacità di comprendere gli elementi rilevanti del caso;
3) apprezzamento della situazione e delle possibili conseguenze per la persona;
4) la capacità di manipolare razionalmente l’informazione
ricevuto (valutando pro e contro)
Solo i pazienti che dimostrino di aver compreso il consenso informato in tutte e quattro le componenti elencate possono essere inclusi nello studio.
Il fascicolo del paziente, una volta che sia stato giudicato
idoneo al trattamento e abbia firmato il consenso informato, deve essere inviato ad un comitato indipendente, composto da uno psichiatra, un neurologo, un neurochirurgo,
un neuropsicologo, un medico legale e possibilmente un
giurista per ottenere l’approvazione definitiva; il comitato
indipendente dispone del potere di veto rispetto alla procedura di trattamento. Ovviamente i trattamenti possono essere proposti solo per finalità terapeutiche.
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I Simposi tematici
a cura di
Francesca Pacitti
Sessione Brainstorming
in Neuropsichiatria
a cura di
Lorenzo Tarsitani
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GIORN ITAL PSICOPAT 2006; 12 (SUPPL. AL N. 1): 17-226
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 1
S1 - Il fantasma della libertà: “libertà vo cercando …”
MODERATORI
R. Rossi, A. Priori
Il fantasma della libertà
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica, Sezione Psichiatria, Università di Genova
La relazione costituisce l’introduzione all’esame che in questa tavola rotonda si fa della libertà in psichiatria, da diversi punti di vista, psichico profondo, socio-criminologico, legato all’identità sessuale, connesso cogli interventi psicopatologici.
Si introduce il problema seguendo un fil-rouge freudiano,
andando dietro passo per passo alla sua opera, da quella
fondamentale, che è Lutto e Melanconia in cui si introduce il concetto di perdita, che segna il momento fondamentale del bisogno e del senso di carenza umano, che delinea
la sua fondamentale mancanza di libertà, a Inibizione Sintomo e Angoscia, dove il destino umano viene legato all’angoscia originaria, legata alla nascita, destino totalmente biologico che segna la dipendenza continua, sottolineata nell’istinto di morte e della coazione a ripetere in Al di
là del principio del piacere, fino alle conclusioni sociali di
Mosè e il monoteismo e di Il Futuro di un illusione e Il Disagio della Civiltà.
Si fa riferimento al grande Inquisitore dostoevskijano, per
arrivare alla conclusione che il destino dell’uomo è la dipendenza, e la sua ricerca fondamentale è trovare a chi delegare il proprio destino autonomo.
Questo parallelismo tra autonomia e perdita, e quindi questa
connessione stretta tra libertà e dolore, sottolineano bene il
carattere fantasmatico della ricerca di libertà.
La libertà è dunque un fantasma, come si vede chiaramente,
dalla psichiatria alla politica, ed è l’espressione di un faticoso compromesso all’interno dell’Io, portatore dell’esigenza
di equilibrio e quindi del conflitto, tra le diverse istanze, dall’Es, al SuperIo, al mondo esterno.
Vengono, in questo contesto, fatte alcune osservazioni sullo
psichiatra, sempre in bilico tra abbandono di incapace e sequestro di persona.
Meccanismi neurotrasmettitoriali
della scelta
A. de Bartolomeis, A. Eramo, F. Panariello
Laboratorio di Psichiatria Molecolare, Dipartimento di
Neuroscienze, Università Federico II di Napoli
1. La capacità dell’individuo di operare scelte contestualmente motivate rappresenta un potente meccanismo di
controllo delle decisioni con rilevanti correlati di significato evoluzionistico e utilizzato in comportamenti complessi e apparentemente diversi dell’individuo stesso quali la scelta di un progetto di vita e delle sue implicazioni
19
immediate, la scelta del partner, e paradossalmente “la
scelta di decisioni” con connotato di vincita o di perdita,
non solo fisicamente intese.
2. Sia l’approccio evoluzionistico con la ricerca dei meccanimi teleologici, sia l’approccio biologico con la dissezione dei meccanismi neuronali responsabili putativamente della fisiologia e fisiopatologia della scelta indicano nuove e insospettate possibilità di esplorazione di questo comportamento umano sotto il profilo neuroanatomofunzionale e neurotrasmettitoriale.
3. I correlati neurobiologici della scelta rappresentano una
delle più formidabili strategie di integrazione di meccanismi cortico-sottocorticali operanti in successione e in
scansione parallela, con integrazione di componenti anatofunzionali e trasmettitoriali multiple.
4. Il ruolo dei gangli della base, a lungo ingiustamente negletto a favore di aree cognitive superiori, appare “decisionale” in particolare per la possibilità di indicare in
maniera certamente riduzionistica, ma non per questo riduttiva un trasmettitore come cruciale nella neurotrasmissione dei meccanismi neuronali della scelta: la dopamina.
5. La dopamina e la sua interazione e regolazione ad opera
di altri sistemi neurotrasmetitoriali (ad esempio glutammato) riveste un ruolo probabilmente centrale anche per il
suo ruolo critico nella determinazione dei meccanismi di
salienza responsabili della scelta e dei meccanismi di
reward che la scelta possono guidare, determinandone,
contemporaneamente, la ripetizione e in alcune condizioni la perseverazione della stessa.
6. Multipli circuiti dopaminergici e il coinvolgimento strutture neuroanatomofunzionali apparenemente “fuori circuito” (ad esempio amigdala) indicano possibili sistemi di
specializzzazione dei meccanismi della scelta in relazione al contesto e alle motivazioni (ad esempio dipendenza
e/o possesso) sottolineando la complessa modalità di mulipli livelli di controllo della decisione.
7. Infine lo studio dei putativi “meccanismi neurotrasmettitoriali della scelta” impone di indagare quale siano “i
meccanismi della scelta del neurotrasmettitore” nella fisiologia e nella fisiopatologia del comportamento umano
normale e patologico, domanda che apre scenari molecolari di grande suggestione come i meccanismi postinaptici del controllo della trasmissione dopaminergica (proteine regolatorie dei recettori dopaminergici, ad esempio
Calcyon) e meccanismi transinaptici come la trasduzione
del segnale dipendente dalla famiglia di proteine polifunzionali Homer.
SIMPOSI TEMATICI
Rinunciare alla propria libertà: il caso
dei delinquenti
A. Verde
DI.GI.TA., Università di Genova
Partendo dal celebre episodio del “Grande Inquisitore” dostoevskijano, l’Autore evidenzia come la “libertà”, concetto
filosofico che dal punto di vista clinico può essere equiparato a quello di autonomia dell’Io, sia qualcosa cui il soggetto spesso facilmente è portato a rinunciare, per il grande
ammontare di angoscia ad essa connesso. Essere liberi significa non essere dipendenti, essere cioè adulti; e diventare adulti significa rinunciare alla propria dimensione infantile e sapere che si è soli nel mondo. Da un certo punto di vista, ogni psicopatologia è connessa alla rinuncia ad alcuni
gradi di tale libertà. Ma la rinuncia alla propria libertà è
massima nei casi di antisocialità, perché vissuta non simbolicamente, ma concretamente, come una serie di esempi clinici dimostra.
Il tallone di Achille della Libertà
A. Berti, C. Maberino
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Genova
Quando la sorte dei Fratelli Karamazov sembra segnata
dalla condanna ai lavori forzati di Dmitrij per parricidio,
dall’inutile confessione di Ivan che cerca di salvare il fratello, dal suicidio di Smerdiakov, Dostoevskij introduce
nel romanzo il poema sul Grande Inquisitore. Ivan, lo spirito diabolico e abietto racconta ad Alësa, che alla fine diventa il “confessore” e il consigliere in virtù della sua santità, la leggenda di Cristo che ritorna tra gli uomini e dell’inquisitore spagnolo che lo condanna come eretico. Il
Grande Inquisitore utilizzando il suo potere e la sua autorità, con la condanna di Cristo impedisce che il genere
umano disponendo del libero arbitrio e professando l’amore come legge di vita possa perdersi.
Sorge una domanda: la Libertà è sempre utile? Per focalizzare la risposta partiamo da due affermazioni filosofiche.
La prima quella di Berkeley per cui l’uomo è completamente indipendente dal suo ambiente e totalmente dipendente dalle forze e dalle immagini che stanno dentro di lui:
egli non può confrontarsi con il mondo esterno indipendentemente da queste forze interiori.
La seconda quella cartesiana che vede l’uomo nascere come una lavagna pulita su cui scrive l’esperienza. Per Cartesio non esistono forze o immagini ad eccezione di quelle che sorgono per stimolo esterno. Secondo questa conce-
zione l’uomo è completamente indipendente cioè autonomo dalle forze interiori e dipendente dal mondo esterno.
L’osservazione non conferma nessuno dei due: il comportamento dell’uomo è determinato da forze pulsionali che
hanno origine in lui ma non è in loro balia, potendole parzialmente controllare. L’uomo può interporre la dilazione
e il pensiero tra le spinte istintuali e l’azione modificando
e posponendo la carica delle pulsioni ma allo stesso modo
può modificare e posporre le sue reazioni rispetto agli stimoli esterni. Chiamiamo questa indipendenza di comportamento dagli stimoli esterni Autonomia dell’Io dalla
realtà esterna.
Poiché l’Io non è mai completamente indipendente né dall’Es, né dalla realtà esterna, parliamo di autonomia relativa.
Ma cosa succederebbe se l’Io fosse libero dalle istanze superegoiche?
Nel corso della relazione verranno fatti alcuni esempi di
comportamenti generati secondo chi li agisce dalla libertà:
il mobber ad esempio non nega di limitare la libertà altrui
ma non creando delle vittime bensì fornendo un ordine:
cosa succederebbe in un’azienda se tutti fossero liberi di
seguire la propria natura?
Così il parafilico: vi chiedo di lasciarmi essere ciò che sono, di accettare la mia natura.
Casi in cui lo psichiatra si trova nel ruolo ambiguo di chi
deve, da una parte permettere che il soggetto acquisisca,
con la salute una propria e personale autonomia e un proprio equilibrio e, dall’altra proteggere gli interessi sociali
contenendo o correggendo la possibile devianza del paziente rispetto alle regole condivise dalla comunità di appartenenza.
Legare e slegare
A. Priori
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Genova
La risposta dei pazienti ai procedimenti di contenimento
può passare per il preconscio o per la coscienza. Ogni tipo
di contenimento produce:
a) una ferita narcisistica;
b) una richiesta di risarcimento;
c) aggressività;
d) proiezioni e riedizioni di aggressività antico.
Particolarmente importante è la risposta superegoica egosintonica, in cui entrano in gioco sensi di colpa e senso di
espiazione, masochismo più o meno erotizzato. In questi casi l’ansia viene sedata dal contenimento, la dipendenza tende paradossalmente ad aumentare.
20
SIMPOSI TEMATICI
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SALA CAVALIERI 2
S2 - Lo stato dell’arte nella terapia del Disturbo
Ossessivo Compulsivo
MODERATORI
L. Bellodi, J. Zohar
2
The Serotonin Hypothesis of Obsessive
Compulsive Disorder: an Update
3
J. Zohar
Sheba Medical Center, Division of Psychiatry, TelHashomer, Israel
OCD is unique with regard to treatment response. As opposed to other psychiatric disorders such as depression, panic disorder, post traumatic stress disorder, ecc., in which noradrenergic and serotonergic medications were found to be
effective, OCD seems to respond preferentially to serotonergic medications 1 2.
In a double-blind, placebo controlled study an exacerbation of obsessive compulsive symptoms was reported following oral administration of the serotonin agonist
methylchlorophenylpiperizine (mCPP) 3. These findings,
that were replicated in another four studies 2, were interpreted as indicating behavioral hypersensitivity of the
serotonergic receptors in OCD patients. It is important to
note that other anxiogenic challenges, such as lactate, carbon dioxide, yohimbine and cholicystokonine receptor agonists were not associated with an exacerbation of OC
symptoms. Taking together these positive and negative
findings suggests that OCD patients are not sensitive to all
anxiogenic challenges, but only to 5HT challenges.
By analyzing the behavioral response to other pharmacological challenges (such as MK-212 and isapirone), a possible role of the 5HT1D receptor, densely located in the basal
ganglia, in OCD has been posed 4.
Preliminary data with the 5HT1D agonist sumatriptan supported this hypothesis. Case reports, in which prolonged administration of sumatriptan was associated with therapeutic
effects, provide additional support for the potential role of
5HT1D in obsessive compulsive symptoms 5 6.
Recently published genetic data indicating polymorphism of
5HT1Dβ in OCD patients 7 replicate the already existing data
on the role of 5HT1Dβ in OCD 2. Dimensionally speaking,
5HT1D might actually be implicated in repetitive behavior 8.
Newer compounds such as zolmitriptan, which is also a
5HT1D agonist, and is safe for human use (it has, like sumatriptan, an approval as anti-migraine medication) might be
used in a pharmacological challenge to further elucidate the
potential role of 5HT1D in OCD.
The real challenge, however, is to link the pharmacological
challenge in sophisticated behavioral setting along with the
genetic findings and brain imaging reactivity (as an additional marker) in order to harness the potential of 5HT1D in OCD.
References
1
Zohar J, Insel TR. Obsessive-compulsive disorders; psychobiological approaches to diagnosis, treatment and pathophysiology. Biol Psychiat 1987;22:667-87.
21
4
5
6
7
8
Zohar J, Kennedy JL, Hollander E, Koran L. Serotonin-1D hypothesis of obsessive-copmpulsive disorder: an update. 2004.
Zohar J, Mueller EA, Insel TR, Zohar-Kadouch RC, Murphy
DL. Serotonergic responsivity in obsessive-compulsive disorder:
comparison of patients and healthy controls. Arch Gen Psychiatry 1987;44:946-51.
Zohar J. Is 5HT1D involved in obsessive compulsive disorder? IX
ECNP Congress 1996, p. 4-54 (abstract S.26.02).
Stern L, Zohar J, Cohen R, Sasson Y. Treatment of severe,
drug resistant obsessive-compulsive disorder with the 5HT1D
agonist sumatriptan. Eur Neuropsychopharmacol 1998;8:3258.
Pathak S, Cottingham EM, McConville. The use of sumatriptan in the treatment of obsessive compulsive disorder in an
adolescent. J Child Adolesc Psychopharmacol 2003;13(Suppl
1):S93-4.
Mundo E, Richter MA, Zai G, McBride J, Macciardi F,
Kennedy JL. 5HT1D receptor gene implicated in the pathogenesis of obsessive compulsive disorder: further evidence
from a family-based association study. Molecul Psychiatry
2002;7:805-9.
Hollander E, Pallanti S. 5HT1D function and repetitive behaviors.
Am Psychiatry 2001;158:972-3.
The role of dopamine in ObsessiveCompulsive Disorder: an update
D. Denys
The Rudolf Magnus Institute of Neuroscience, Department
of Psychiatry, University Medical Center, Utrecht, The
Netherlands
Obsessive compulsive disorder (OCD) is a chronic psychiatric disorder characterized by recurrent persistent
thoughts (obsessions) and/or repetitive compulsory behaviors (compulsions).
Over the past two decades, it has been suggested that OCD
might be related to the functioning of brain serotonin systems, mainly because of the anti-obsessional efficacy of
selective serotonin inhibitors (SRIs). In recent years, there
is growing evidence that the dopamine system may be involved in OCD as well. In this presentation, the preclinical
and clinical evidence supporting the role for dopamine in
the pathophysiology of OCD will be reviewed.
Evidence for the involvement of dopamine in OCD may be
obtained from animal models, measurements of dopamine
and metabolite concentrations, pharmacochallenge and
pharmacotherapeutic studies, and neuro-imaging, and genetic association studies.
The role of dopamine will be highlighted at the background of current OCD paradigms.
SIMPOSI TEMATICI
Strategie di predizione della risposta
e miglioramento dell’outcome terapeutico
nel Disturbo Ossessivo Compulsivo
4
Pallanti S, Hollander E, Bienstock C, et al. Treatment non-response in OCD: methodological issues and operational definitions. Int J Neuropsychopharmacology 2002;5:181-91.
P. Cavedini, C. Zorzi, T. Bassi, L. Bellodi
Istituto Scientifico “San Raffaele”, Dipartimento Scienze
Neuropsichiche, Università “Vita-Salute San Raffaele”, Facoltà di Psicologia, Milano
Introduzione: studi clinici controllati indicano che la percentuale di risposta ad un trattamento standardizzato con
SSRI per il Disturbo Ossessivo Compulsivo risulta variare
tra il 40 e il 60% del campione trattato e che l’utilizzo di
strategie di augmentation con l’associazione di un basso dosaggio di farmaci antipsicotici atipici migliora la risposta
farmacologica in una parte dei soggetti resistenti.
Appare quindi cruciale la necessità di individuare dei criteri predittivi che possano indirizzare al meglio la strategia terapeutica fin dall’impostazione del primo trattamento.
Fino ad ora le variabili clinico-epidemiologiche analizzate
allo scopo di individuare profili predittivi di risposta alla terapia hanno condotto a risultai discordanti.
Lo scopo del presente studio è quello di indagare quanto l’utilizzo di variabili correlate al funzionamento cognitivo dei
soggetti in esame possa essere una metodica più affidabile
al fine di individuare dei profili predittivi.
Metodologia: a tal fine è stato reclutato un campione di pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo ai quali è
stata somministrata una batteria di test neuropsicologici per
l’indagine delle funzioni esecutive composta da: Iowa Gambling Task (IGT), Torre di Hanoi (TOH), Wisconsin Card
Sorting Test (WCST), Weigl Sorting Test (WST). In base alla performance al IGT i pazienti sono stati suddivisi, secondo un disegno in cieco, in 3 gruppi terapeutici: 1. buona
performance IGT/fluvoxamina + placebo; 2. cattiva performance IGT/fluvoxamina + placebo; 3. cattiva performance
IGT/fluvoxamina + risperidone. La gravità dei sintomi è
stata valutata tramite la Y-BOCS all’atto del reclutamento
ed in seguito a 6 e 12 settimane di trattamento.
Risultati: analizzando i dati dei pazienti dei gruppi 1 e 2, si
evidenzia come i pazienti con una peggiore performance all’IGT mostrino significativamente una peggiore risposta al
trattamento antiossessivo. Tali differenze non si apprezzano
in relazione alle performance agli altri test somministrati.
Il gruppo 3 mostra un outcome significativamente migliore
del gruppo 2.
Conclusioni: la prestazione all’IGT sembra essere un possibile fattore predittivo specifico di risposta al trattamento
farmacologico che può guidare verso la scelta di una migliore strategia terapeutica.
Bibliografia
1
Cavedini P, Riboldi G, D’Annucci A, et al. Decision-making heterogeneity in Obsessive-Compulsive Disorder: ventromedial
prefrontal cortex function predicts different treatment outcomes.
Neuropsychologia 2001;40:205-11.
2
Erzegovesi S, Cavallini MC, Cavedini P, et al. Clinical predictors of drug response in obsessive-compulsive disorder. J Clin
Psychopharmacol 2001;21:488-92.
3
Hollander E, Rossi NB, Sood E, Pallanti S. Risperidone augmentation in treatment-resistant obsessive-compulsive disorder:
a double-blind, placebo-controlled study. Int J Neuropsychopharmacol 2003;6:397-401.
Which choice beyond SSRI and neuroleptics
F. Bogetto, E. Pessina, U. Albert, G. Maina
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
Nonostante da ormai più di venti anni siano disponibili trattamenti farmacologici efficaci nel trattamento del Disturbo
Ossessivo Compulsivo (DOC) a tutt’oggi alcuni problemi
legati alla terapia di questo disturbo rimangono aperti. La risposta agli agenti antiossessivi si manifesta infatti con una
latenza di 6-8 settimane e il miglioramento dei sintomi è generalmente molto lento. I farmaci debbono inoltre essere
utilizzati a dosaggi elevati. La risposta agli SRI si manifesta
nel DOC, in una percentuale compresa tra il 50 e il 60%.
Nonostante le tecniche di potenziamento (serotoninergico o
dopaminergico) una non trascurabile quota di pazienti rimane refrattaria alle terapie. Per tali motivi la ricerca continua
a sperimentare nuovi interventi farmacologici per cercare di
nuovi approcci farmacologici che eventualmente riescano
ad ovviare ad alcuni dei succitati problemi. In questo senso
un farmaco che ha dimostrato la sua efficacia in monoterapia nel DOC è la venlafaxina. Tale agente (appartenente alla classe degli SNRI) ha un profilo farmacologico simile a
quello della clomipramina, senza tuttavia essere gravata dalla sua collateralità. La venlafaxina oltre ad essere efficace
nel DOC, parrebbe avere anche un effetto nel trasformare in
responders alcuni pazienti che non avevano risposto ad un
primo trial con un SRI. Altri antidepressivi sono stati testati in monoterapia in pazienti con DOC: una qualche efficacia sarebbe stata dimostrata per il buspirone e, più recentemente, per la mirtazapina; tuttavia gli studi che hanno fornito questi risultati positivi sono limitati dall’esiguità del
campione considerato e dalla metodologia non sempre rigorosa. Analogo discorso si applica per altri agenti che sono
stati testati in monoterapia nel DOC (ad esempio tramadolo,
morfina, ondasetron, ipericina). Quasi sempre si tratta di
studi condotti su un numero di pazienti raramente superiore
a dieci e spesso si tratta di studi in aperto. È difficile quindi
trarre conclusioni cliniche circa l’efficacia di questi farmaci
nel DOC.
Per quanto riguarda il potenziamento della terapia con SRI,
i farmaci che hanno una forte evidenza di efficacia sono alcuni degli antipsicotici utilizzati a basso dosaggio. Uno studio condotto sul pindololo (farmaco beta-bloccante che agisce come acceleratore della risposta all’antidepressivo nei
pazienti con Depressione Maggiore) ha dimostrato l’utilità
di questo agente nel potenziare la risposta agli SSRI nei
non-responders, senza abbreviare invece la latenza di risposta. Un’accelerazione della risposta, si è osservata invece in
un altro recente studio con l’aggiunta di mirtazapina al trattamento con un SSRI (citalopram).
Nei casi di DOC molto gravi e che hanno dimostrato una assoluta refrattarietà alle terapie farmacologiche un approccio
può essere rappresentato da interventi di chirurgia cerebrale
condotti con tecnica stereotattica. Tali interventi agiscono
sui circuiti cerebrali ritenuti coinvolti nella patogenesi del
22
SIMPOSI TEMATICI
disturbo. In questo senso sono promettenti i risultati di una
tecnica di neurochirurgia (mutuata dalla terapia per il morbo di Parkinson) meno invasiva: la Deep Brain Stimulation.
In questo caso vengono impiantati nella capsula interna degli elettrodi stimolatori controllati da un pacemaker posto
sottocute. Seppure preliminari i risultati di questo approccio
sembrano essere molto positivi e gravati da una collateralità
molto minore al confronto degli interventi di chirurgia tradizionale. La stimolazione magnetica transcranica, ha invece per ora fornito dati contrastanti.
Bibliografia
1
Albert U, Maina G, Bogetto F. Venlafaxine vs. clomipramina in
the treatment of obsessive-compulsive disorder: a preliminary
single blind 12-week, controlled study. J Clin Psychiatry
2002;63:1004-9.
2
Koran LM, Gamel NN, Choung HW, et al. Mirtazapine for obsessive-compulsive disorder: an opel label trial followed by double-blind discontinuation. J Clin Psychiatry 2005;66:515-20.
3
Abelson JL, Curtis G, Sagher O. Deep brain stimulation for refractory obsessive-compulsive disorder. Biol Psichiatry
2005;57:510-6.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 3
S3 - Vittimologia e psicopatologia
MODERATORI
L. Lorettu, E. Aguglia
Stalking e psicopatologia
E. Pascolo-Fabrici, A. Ogriseg, E. Aguglia
U.C.O. Clinica Psichiatrica, DSCMT, Università di Trieste
Il termine stalking, mutuato dal linguaggio tecnico della
caccia, viene tradotto in italiano con molestie assillanti e definito come un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una “vittima” che risulta infastidita e/o preoccupata da tali comportamenti non graditi.
I numerosi studi condotti sia in ambito psichiatrico che medico-legale sull’argomento, hanno condotto all’emanazione
di legislazioni specifiche anti-stalking negli Stati Uniti, in
Inghilterra ed in Australia, mentre dal punto di vista psichiatrico si assiste ad un crescente interesse sia per la psicopatologia, le motivazioni e le possibilità di intervento terapeutico sui molestatori, sia per l’impatto psicologico e il
trattamento dei molestati.
Quella dello stalking è una categoria trans-nosografica che
comprende una complessa serie di comportamenti, con motivazioni diverse, che possono sfumare in comportamenti
socialmente accettati, ma che possono anche essere di stretta pertinenza psicopatologica qualora assumano caratteristiche di pervasività e persistenza nel tempo tali da indurre,
nella vittima, un grave stress emotivo con ripercussioni sul
funzionamento sociale e lavorativo.
Partendo da queste premesse è stato portato a termine uno
studio, all’interno del D.S.M. triestino, volto alla valutazione dell’entità del fenomeno dello stalking. I risultati ottenuti sono stati confrontati con quelli ottenuti da un analogo
studio condotto a Modena.
Le vittime degli Stalker
S. Luberto
Università di Modena e Reggio Emilia, Psichiatra Forense
Lo Stalking, sebbene noto da moltissimo tempo, è stato oggetto di studi sistematici e di attenzione normativa solo a
23
partire dagli anni ’90, dopo l’uccisione di una vittima celebre del mondo dello spettacolo ad opera di uno Stalker. Prima la California, poi gli altri Stati USA, quindi altri Paesi,
prevalentemente extraeuropei, hanno dedicato costante interesse alle modifiche normative ed alla ricerca, favorendo
una progressiva migliore conoscenza del complesso fenomeno in ogni suo aspetto.
Sono ben note le difficoltà definitorie dello Stalking, di cui
è stata recentemente proposta la traduzione in “Molestie Assillanti”, e non v’è dubbio che le diverse problematiche interpretative, dalle caratteristiche dell’Autore (Stalker), alla
diffusione del fenomeno, alle implicazioni psichiatriche e,
soprattutto, relazionali, siano tutte meritevoli di grande attenzione.
L’aspetto di maggiore interesse è però quello vittimologico,
posto che lo studio della vittima, oltre a favorire una migliore comprensione delle diverse problematiche prima citate, propone aspetti di fondamentale importanza circa le gravi, diverse e complesse conseguenze dannose che la vittima
subisce, per non parlare delle migliori possibilità di cogliere precocemente rischi relazionali in una prospettiva preventiva del fenomeno. Basti pensare ai casi, fortunatamente
rari, di esiti omicidiari, che rinviano ai rischi di violenza
connessi allo Stalking.
Sulla base dei dati della letteratura e dei dati finora emersi
nell’ambito della ricerca condotta dal Modena Group on
Stalking, tuttora in corso con i partners europei, sarà affrontato il problema delle vittime di Stalker, con particolare
riferimento ai rischi di violenza ed alle particolari dinamiche relazionali proprie del fenomeno.
I dati propongono una netta prevalenza di vittime di sesso
femminile e di una “patologia” relazionale rispetto a quella
francamente psichiatrica.
Prevalgono nettamente donne giovani molestate da ex-partner, incapaci evidentemente di elaborare il “lutto della perdita”, pur non mancando vittime legate a relazioni di natura
professionale o, più raramente, a patologia psichiatrica o alla celebrità.
Un problema particolare è costituito dai casi di natura psicopatologica, che propongono problemi molto complessi sia
sul piano clinico ed interpretativo, che su quello psichiatri-
SIMPOSI TEMATICI
co forense, per le carenze legislative che non consentono
l’adozione di soluzioni adeguate, come documentano peraltro alcuni casi peritali occorsi.
Da qui l’indubbio interesse psichiatrico forense e giuridico
per un fenomeno così complesso ed ancora poco conosciuto e sottostimato, sebbene un congruo numero di persone
(15-20%), in prevalenza donne, rischia di rimanerne in qualche modo vittima nel corso della propria vita.
Sarà infine affrontato il problema della definizione e quantificazione dei molteplici e diversi danni subiti dalle vittime
di Stalkers, con particolare riferimento alle componenti di
natura biologica, relazionale ed esistenziale.
La psicopatologia delle vittime
G.C. Nivoli
Clinica Psichiatrica, Università di Sassari
L’Autore illustra alcune specifiche psicopatologie che, per
alcuni individui costituiscono elementi di predisposizione
vittimogena. Tali elementi intervengono nel processo di vittimizzazione nell’ambito di una costellazione di numerosi
elementi che si integrano a vicenda. Particolare attenzione
viene posta ad elementi di psicopatologia quali le tendenze
sadomasochiste, gli aspetti depressivi, la patologica ricerca
di sensazioni, la messa in atto di misure controfobiche, la riduzione dell’istinto di conservazione, la gestione inadeguata dei sentimenti di colpa, ecc. L’esemplificazione clinica di
tali aspetti permette inoltre il suggerimento di misure di prevenzione specifiche.
Le donne vittima di violenza sessuale
L. Lorettu
Clinica Psichiatrica, Università di Sassari
La violenza sessuale sulle donne è un fenomeno antico, che
negli ultimi tempi sempre con maggior frequenza assume rilievo.
Nell’ambito di un approccio vittimologico al problema è di
particolare importanza individuare il ruolo della vittima nell’evento.
L’Autore presenta un esame della bibliografia in merito alle
differenti interpretazioni che gli Autori, con gli anni, hanno
dato alla vittima ed al suo ruolo nell’evento criminoso.
Viene presentata inoltre, attraverso una esemplificazione
clinica, una tipologia descrittiva delle vittime, finalizzata ad
evidenziare alcune modalità di relazionarsi all’evento delittuoso e suggerire elementi utili al fine di prevenire la vittimizzazione.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA ELLISSE
S4 - Depressione Unipolare e Depressione Bipolare:
similitudini e differenze
MODERATORI
C. Altamura, F. Benazzi
Bipolar Depression: clinical features
F. Benazzi
University of California, San Diego and Hecker Psychiatry
Research Center, Forlì
Clinical differences have been classically reported been
Bipolar-I (BP-I) and Unipolar (MDD) depression. BP-I depression, vs. MDD, has a lower age at onset, more recurrences, more atypical symptoms (e.g., hypersomnia), more
psychomotor retardation, and more bipolar family history.
Evidence supports a distinction between BP-I and BipolarII disorder (BP-II), such as different family history, female
to male ratio, and diagnostic stability. BP-I and BP-II depression are partly different. BP-II depression, vs. MDD,
has been shown to have more atypical symptoms and more
inside-depression hypomanic (excitement symptoms), such
as irritability, racing/crowded thoughts, psychomotor agitation, and more talkativeness. The mixture of depression and
hypomanic symptoms (mixed depression) in the same
episode is present in around 60% of BP-II and 30% of MDD
depressed outpatients in non-tertiary care, a finding replicated by independent groups. Mixed depression has been
shown to have a high positive predictive value for BP-II. As
diagnosis of BP-II is often missed, finding mixed depression should prompt a skillful probing for history of hypomania (outside depression). The bipolar nature of mixed depression has been strongly supported by a close link to bipolar (type I and type II) family history, by a dose-response relationship between inside-depression number of hypomanic
symptoms and bipolar family history loading, by finding dimensions/factors of the hypomania outside depression in
mixed depression (mental and behavioral activation), by a
correlation between number of inside-depression hypomanic symptoms and number of depressive symptoms, by a normal-like distribution of the number of hypomanic symptoms
between BP-II and MDD depression, by MDD mixed depression being closer to BP-II than to MDD on bipolar validators such as bipolar family history and age at onset. The
normal-like distribution of hypomanic symptoms between
BP-II and MDD depression is complemented by Cassano’s
finding a similar distribution in BP-I and MDD for lifetime
(as opposed to the cross-sectional hypomanic symptoms of
mixed depression) manic/hypomanic symptoms. Cassano
found also a correlation between lifetime manic/hypomanic
symptoms and MDD symptoms, and that many MDD had
many lifetime manic/hypomanic symptoms (not meeting
criteria for mania/hypomania). Also, a normal-like distribu24
SIMPOSI TEMATICI
tion of depressive symptoms in mixed mania was found.
These findings on the distribution of opposite polarity
symptoms seem to support a continuity between Bipolar
disorders and MDD.
Mixed depression has important treatment impact, as antidepressants not protected by mood stabilising agents may
worsen the manic/hypomanic symptoms and induce a
switch to mania/hypomania. The few studies on irritability
and psychomotor agitation in MDD treated by fluoxetine
and imipramine (in selected, non-naturalistic samples) have
shown that, while low dose fluoxetine may improve mild
agitation and irritability, imipramine and high dose fluoxetine may worsen or induce these symptoms. The FDA has
listed these symptoms as possible precursors to suicidality
related to antidepressants, stressing the need to always assess mixed depression.
La “durata di malattia non trattata” come
fattore prognostico nel Disturbo Bipolare
A.C. Altamura, R. Bassetti, A. Santini, E. Mundo
Cattedra di Psichiatria, Dipartimento di Scienze Cliniche
“Luigi Sacco”, Università di Milano
La durata di malattia non trattata (DUI), definita come il
tempo che intercorre tra l’esordio psicopatologico ed il
primo trattamento specifico, è stata studiata come fattore
predittivo del decorso della malattia e della risposta al trattamento non solo per il Disturbo Bipolare (BP), ma anche
per la Schizofrenia ed il Disturbo di Panico 1 2. La maggioranza dei dati di letteratura evidenzia come in generale una
DUI più lunga sia associata ad un peggiore funzionamento sociale, ad un maggiore numero di ricoveri e ad un aumento del rischio di sviluppare condotte suicidarie in pazienti con BP 3.
Obiettivi: lo scopo di questo studio è stato quello di valutare
l’effetto della DUI sul decorso del Disturbo Bipolare (BP).
Metodi: sono stati valutati 301 soggetti con una diagnosi
DSM-IV di BP I o II, suddivisi in due gruppi a seconda della DUI (intervallo di tempo dall’esordio del BP all’inizio del
primo trattamento stabilizzante): DUI ≤ 1 anno (n = 36) e
DUI > 1 anno (n = 265). Le principali variabili cliniche, demografiche e di decorso sono state calcolate e confrontate
tra i due gruppi di soggetti (test del chi-quadrato e t-test di
Student).
Risultati: non sono state riscontrate differenze significative
tra i pazienti con DUI ≤ 1 anno e quelli con DUI > 1 anno
per quello che riguarda età, genere, età di esordio, polarità
del primo episodio, sottotipo diagnostico, comorbilità precedente l’esordio, lo sviluppo di rapida ciclicità, il numero
di tentativi di suicidio ed il numero di ricoveri. I pazienti
con DUI > 1 anno presentavano con maggiore frequenza
una comorbidità con un disturbo da abuso/dipendenza da
sostanze con esordio successivo al BP (chi-quadrato = 4,69,
df = 1, p = 0,03).
Conclusioni: i risultati di questo studio preliminare suggerirebbero che la DUI influenzi negativamente il decorso del
BP, in particolare per quello che riguarda la possibilità di
sviluppare successivamente un disturbo da abuso/dipendenza da sostanze.
Bibliografia
1
Altamura AC, Bassetti R, Sassella F, Salvadori D, Mundo E. Duration of untreated psychosis as a predictor of outcome in firstepisode schizophrenia: a retrospective study. Schizophr Res
2001;52:29-36.
2
Altamura AC, Santini A, Salvadori D, Mundo E. Duration of untreated illness in panic disorder: a poor outcome risk factor?
Neuropsychiatr Dis Treat 2005;1:345-7.
3
Goldberg JF, Ernst CL. Features associated with the delayed initiation of mood stabilizers at illness onset in bipolar disorder. J
Clin Psychiatry 2002;63:985-91.
Il litio nella terapia e profilassi della
Depressione Bipolare: quale ruolo?
L. Tondo
Dipartimento Psicologia, Università di Cagliari; McLeanHarvard Medical School; Centro “Bini”, Cagliari
La terapia a lungo termine con sali di litio è il “gold standard” dei trattamenti preventivi per il Disturbo Bipolare dell’umore, il cui uso è limitato soltanto dal marketing aggressivo delle terapie alternative, soprattutto quelle anticonvulsivanti, nonostante gli studi mettano in evidenza che carbamazepina, valproato e lamotrigina non siano tanto efficaci
come il litio. L’effetto benefico del litio nel trattamento a
lungo termine del Disturbo Bipolare è attestato da molti studi sia controllati che aperti, come riportato in una recente
meta-analisi 1. Una rassegna di soli studi controllati 2 indica
che il rischio di ricaduta durante trattamento a lungo termine con litio è più elevato per la fase depressiva rispetto a
quella maniacale (Tab. I).
Tab. I. Litio nel trattamento di pazienti con Disturbo Bipolare: studi controllati e randomizzati.
Relapse Risk
Outcome
Trial
Li +
Pbo
Any illness
5
Mania
4
Depressione
4
147/369
39,8%
37/268
13,8%
67/268
25,0%
243/401
60,6%
70/297
23,6%
88/297
29,6%
25
Odds Ratio
(95% CI)
p
0,65 (0,44-0,84)
0,001
0,62 (0,40-0,95)
0,03
0,84 (0,64-1-10)
0,10
SIMPOSI TEMATICI
niacali o misti, variabile dal 10 al 30% dei pazienti o per
l’accelerazione del ciclo maniaco-depressivo fino alla rapida ciclicità. Tuttavia, un trattamento antidepressivo non è
del tutto sconsigliato, ma diventa meno rischioso se aggiunto a una terapia stabilizzante. Inoltre, ove possibile, è utile
ricostruire la sequenza del decorso, in quanto pazienti con
depressioni seguite da (ipo)manie sono ovviamente più a rischio di quelli in cui la fase depressiva segue quella maniacale. Tra i farmaci anticonvulsivanti, la lamotrigina ha mostrato risultati interessanti nella terapia delle depressioni bipolari, anche se sono stati riportati casi di induzione di stati
maniacali o misti. Più recentemente, alcuni studi hanno mostrato che i nuovi farmaci antipsicotici, soprattutto olanzapina, quetiapina, aripiprazolo e ziprasidone, possono rappresentare una valida alternativa o aggiunta alle terapie stabilizzanti dell’umore tradizionali per il trattamento degli
episodi depressivi del Disturbo Bipolare.
Risultati analoghi sono confermati dallo studio di Baldessarini et al. 1 che mostra un effetto più evidente nel trattamento
della mania, rispetto a quello della depressione bipolare (Fig.).
Il trattamento della depressione bipolare rimane pertanto
problematico visto che l’uso degli antidepressivi è sconsigliato per il rischio di induzione di stati ipomaniacali, ma-
Bibliografia
1
Baldessarini RJ, Tondo L, Hennen J, Viguera AC. Is lithium still
worth using? Harvard Rev Psychiatry 2002;10:59-75.
2
Geddes JR, Burgess S, Hawton K, Jamison K, Goodwin GM.
Long-term lithium therapy for bipolar disorder: systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials. Am J
Psychiatry 2004;161:217-22.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MONTEMARIO
S5 - Personalità e scena del crimine:
un nesso da investigare
MODERATORI
C. Maffei, M. Picozzi
Dalla scena del crimine al profilo
comportamentale dell’autore sconosciuto:
un’analisi critica
M. Picozzi
Laboratorio di Analisi e Ricerca sul Crimine, Università
“Carlo Cattaneo”, LIUC, Castellanza (VA)
Alcuni ricercatori preferiscono utilizzare il termine di Behavioral Profiling, altri lo chiamano Criminal Profiling, o ancora Psychological Profiling. Si tratta in buona sostanza di
una particolare modalità d’approccio alla costruzione di un
identikit psicologico del criminale, dell’identificazione delle principali caratteristiche di comportamento e personalità
di un individuo basate sull’analisi delle peculiarità del delitto commesso.
Il profiling non potrà mai prendere il posto di una approfondita e ben pianificata investigazione, non potrà mai sostituire
l’esperienza, la competenza e l’addestramento professionale
del detective, ma costituisce un’arma in più nell’arsenale di
coloro i quali devono combattere con il crimine violento.
Nato negli Stati Uniti dalla collaborazione di agenti speciali dell’FBI con psicologi e psichiatri provenienti dal mondo
accademico, il criminal profiling ancora fatica a conquistare una propria credibilità scientifica.
E ciò nonostante esperti in profili siano ormai presenti in
tutte le principali forze di polizia del mondo, ed anzi si discuta oltralpe della possibilità che assuma valore di prova
nelle aule di giustizia.
L’Autore, che ha affrontato l’argomento non solamente in
chiave teorica, ma sul campo, anche attraverso una lunga
collaborazione con l’Unità per l’Analisi del Crimine Violento della Polizia di Stato, intende proporre una disamina
della letteratura scientifica internazionale, con particolare
attenzione ai lavori che evidenziano o sottolineano criticamente il valore e l’importanza del criminal profiling.
Analisi della scena del crimine e logica
investigativa
C. Bui
UACV, Unità per l’Analisi del Crimine Violento, Servizio di
Polizia Scientifica, Direzione Centrale Anticrimine, Polizia
di Stato
Dicembre 1994: l’attuale Capo della Polizia, prof. Gianni
De Gennaro, incarica il Servizio Polizia Scientifica di realizzare una struttura tecnica di analisi che possa fungere da
supporto all’attività investigativa nel caso di omicidi seriali
26
SIMPOSI TEMATICI
e di omicidi particolarmente efferati senza un immediato
movente.
Aprile 1997: nasce formalmente l’UACV, cioè l’Unità per
l’Analisi del Crimine Violento, con lo scopo di supportare
l’attività investigativa nel caso di omicidi singoli senza apparente movente, omicidi con caratteristiche di serialità,
violenze a sfondo sessuale con caratteristiche di serialità, rapine in ambienti videocontrollati (CCTV).
Obiettivi e strategie della struttura possono essere sintetizzati in quattro momenti fondamentali:
1. introduzione del Controllo di Qualità, Q&A, sulle procedure e sulle metodologie d’Esame della Scena del Crimine, nel rispetto degli standard internazionali;
2. sviluppo di nuove metodologie d’analisi sulla scena del
crimine che, grazie all’uso delle più moderne tecnologie,
consentano di ricostruire la dinamica dell’evento criminale partendo dall’esame della scena e dalle dichiarazione
testimoniali;
3. sviluppo di un sistema informativo in grado di gestire ed
elaborare criticamente tutte le informazioni disponibili su
un particolare evento criminale, di collegare tra loro crimini differenti, di suggerire ipotesi investigative in base
ad elaborazioni inferenziali di carattere statistico (modelli probabilistici e reti neurali);
4. realizzazione di modelli comportamentali di riferimento,
basati sullo studio della casistica nazionale, per l’individuazione di caratteristiche tipologiche generali dell’autore di una classe di reati da utilizzare nella previsione di un
possibile profilo nel caso specifico.
In questo suo contributo l’autore si propone, in particolare,
di illustrare un modello elaborato attraverso l’esperienza sul
campo e una ricca casistica. E che schematicamente può essere così riassunto:
scente in ambito forense, non solo relativamente alla cosiddetta mens rea, ma anche rispetto al rischio di recidiva, alla
possibilità di usufruire di programmi alternativi alla detenzione, ecc. Dato che i recenti approcci teorici alla personalità e alla sua psicopatologia non concepiscono i tratti come
puri elementi disposizionali, ma come elementi dinamici
utili a definire gli adattamenti caratteristici delle persone
nelle loro transazioni con le richieste ambientali, è naturale
ipotizzare che in ambito forense la personalità dell’autore di
un crimine sia in qualche misura collegata alla scena del crimine, e che elementi utili alla definizione della personalità
dell’offender possano essere rintracciabili a partire dalla crime scene analysis.
Allo scopo di verificare quali dati empirici siano attualmente disponibili relativamente a questo argomento, è stata condotta una ricerca nella banca dati elettronica PsycINFO utilizzando “personality” e “crime scene analysis” come parole-chiave in ogni posizione del testo e basandosi sulla finestra temporale 1980-2006.
La ricerca ha prodotto 32 pubblicazioni, delle quali 29 non
ridondanti. I principali aspetti della letteratura scientifica internazionale paiono essere così riassumibili: 1. scarsità di
dati empirici relativamente alla personalità nel profiling e
nella crime scene analysis; 2. utilizzo di metodi non sistematizzati nell’approccio alla personalità; 3. scarso supporto
empirico ai modelli utilizzati nella definizione della personalità in relazione alla crime scene analysis; 4. dati iniziali
incoraggianti, ma parziali, relativi alle relazioni tra personalità e crime scene analysis.
In sintesi, i dati di scientifici della letteratura internazionale
indicano come, a fronte dell’interesse crescente per la personalità in ambito forense, i dati empirici relativi alle relazioni tra crime scene analysis e personalità siano ancora
scarsi, pur in presenza di alcuni spunti interessanti e di indicazioni utili per impostare le future strategie di ricerca e assessment.
Le impronte della personalità: una sfida per
la lente dello psicopatologo
C. Maffei
Università “Vita-Salute San Raffaele”, Milano
Personalità e crime scene analysis:
evidenze empiriche
A. Fossati
Facoltà di Psicologia, Università “Vita-Salute San Raffaele”, Milano
Le caratteristiche di personalità, particolarmente nelle loro
varianti e maladattive, stanno destando un interesse cre-
27
Negli ultimi anni lo sviluppo di ciò che viene chiamato “Forensic Science” ha mostrato come sia sempre più necessario
mettere al servizio delle tecniche investigative modalità di
indagine tecnologicamente raffinate e capaci di dimostrare
la loro efficacia.
Nel momento in cui la psicopatologia si confronta con lo
sviluppo della “Forensic Science” nasce spontaneamente
una domanda: “Sono i concetti ed i metodi della psicopatologia stessa adeguati, ovvero è necessario cercare di cambiarli entrambi?”.
Di fatto la letteratura scientifica mostra come sia difficile
connettere ciò che diviene osservabile sulla scena del crimine, grazie anche a ricostruzioni tecnologicamente avanzate,
e ciò che la psicopatologia ne può trarre.
Infatti, il rischio è di connettere un’osservazione dinamica a
concetti statici, senza riuscire a rendere conto di come ciò
che è nella mente, momento per momento, si traduce in una
sequenza di azioni.
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA LEONARDO
S6 - Psichiatria e endocrinologia:
il ritorno della psichiatria alla medicina interna?
MODERATORI
P. Castrogiovanni, C. Faravelli
Bipolar Disorder and the Metabolic
Syndrome
4
Fagiolini A, Kupfer DJ, Rucci P, Scott J, Novick D, Frank EF.
Suicide attempts and ideation in patients with bipolar I disorder.
J Clin Psychiatry 2004;65:509-14.
A. Fagiolini, P. Castrogiovanni, I. Soreca, I. Paffetti,
L. Padula
Università di Siena, and University of Pittsburgh
The clustering of risk factors for cardiovascular disease, including abdominal obesity, dyslipidemia, insulin resistance,
and hypertension has been described as “metabolic syndrome”. In 2001, the National Cholesterol Education Program Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment
of High Blood Cholesterol in Adults (NCEP ATP III) suggested a working definition of this syndrome based on the
presence of three or more of the following characteristics:
abdominal obesity (waist circumference), hypertriglyceridemia, low high-density lipoprotein cholesterol (HDLC), high blood pressure and fasting hyperglycemia. The
American Heart Association (AHA) and the National Heart,
Lung, and Blood Institute (NHLBI) have recently issued a
statement recommending modificatoins tohat include adjustment of waist circumference to lower thresholds when
individuals or ethnic groups are prone to insulin resistance,
considering triglyceride levels, HDL-C levels, and BP to be
abnormal when drug treatment is prescribed, clarifying that
elevated BP refers to a level exceeding the threshold for either systolic or diastolic pressure, and lowering the threshold for elevated fasting glucose level from 110 to 100 mg
per dL. In the past several years, a great deal of attention has
been devoted to the medical burden suffered by patients
with schizophrenia. More recently, similar concerns have
arisen for patients with bipolar disorder. Studies evaluating
obesity, diabetes, dyslipidemia and hypertension have been
conducted in patients with bipolar disorder. However, to
date only one study 1, has specifically reported about the
metabolic syndrome in bipolar disorder.
This presentation will describe the results of the study mentioned above, discuss the preliminary results and methodoligies of our ongoing studies on the metabolic syndrome
and review the results of previously published studies 2-4 on
the relatoinship between obesity and clinical outcomes of
bipolar disorder, including suicidality.
Bibliografia
1
Fagiolini A, Frank E, Scott JA, Turkin S, Kupfer DJ. Metabolic
Syndrome in Bipolar Disorder: Findings from the Bipolar Disorder Center for Pennsylvanians. Bipolar Disord 2005;7:424-30.
2
Fagiolini A, Frank E, Houck PR, Mallinger AG, Swartz HA,
Buysse DJ, et al. Prevalence of obesity and weight change during treatment in patients with bipolar I disorder. J Clin Psychiatry 2002;63:528-33.
3
Fagiolini A, Kupfer DJ, Houck PR, Novick D, Frank E. Obesity
as a correlate of outcome in patients with bipolar I disorder. Am
J Psychiatry 2003;160:112-7.
L’asse HPA una visione transnosografica dei
disturbi mentali
C. Faravelli, S. Gorini Amedei, F. Rotella, M. Catena
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Firenze
Hans Selye, nel 1956, studiò gli effetti degli steroidi surrenalici come risposta aspecifica agli stimoli ambientali 1.
La risposta adattativa dell’organismo, o allostasi, utile per
mantenere l’omeostasi in risposta ad un agente stressante è
prodotta dall’attività cellulare e dai mediatori del sistema
immunitario, del sistema nervoso centrale e autonomo e dall’asse HPA.
Stimoli ambientali esterni o interni all’organismo attivano
una risposta adattativa dell’individuo che comporta cambiamenti sistemici e comportamentali in grado di mantenere
una migliore capacità omeostatica aumentando le possibilità
di sopravvivenza. Tuttavia, condizioni di stress cronico, carico psicosociale, eventi, possono in realtà favorire l’insorgenza o la progressione della patologia. La relazione tra il
meccanismo dello stress e patologia psichiatrica è stata ampiamente studiata, nel corso degli anni dati sistematici hanno permesso di riconoscere il ruolo primario degli eventi
stressanti nell’insorgenza e nell’esacerbazione di molti disturbi psichiatrici 2-4.
L’alterazione del feed back negativo dei corticosteroidi circolanti sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) con conseguente ipercortisolemia e compromissione della neurogenesi
e del trofismo cerebrale è uno dei possibili meccanismi con
cui gli eventi vitali svolgono la loro azione patogenetica.
Varie sono state le metodiche proposte per lo studio dell’asse HPA, dalle più invasive quali il dosaggio di CRH (corticotropin releasing hormon) nel liquor cefalorachidiano, al
dosaggio dell’ACTH (ormone adrenocorticotropo) nel plasma o alla misurazione di cortisolo plasmatico, urinario e
salivare. Tuttavia il metodo migliore per studiare la funzionalità dell’asse HPA è il test di soppressione al desametasone (DST) introdotto in psichiatria nel 1968 da B.J. Carroll.
Il test di soppressione con desametasone è usato specificatamente per investigare le alterazioni del feedback negativo
dell’asse HPA. La soppressione o la non soppressione indotta dal desametasone viene valutata misurando i livelli di
cortisolo. Tale misurazione può essere condotta con metodiche diverse, tra cui il dosaggio del cortisolo salivare 5. Esso
fornisce una misurazione valida e affidabile dell’ormone
ematico libero in quanto la concentrazione del cortisolo nella saliva non è dipendente dalla frazione di flusso e dalle
28
SIMPOSI TEMATICI
fluttuazioni della transcortina. Altri aspetti vantaggiosi sono
che il cortisolo rimane stabile nella saliva per molti giorni
(Kahn et al., 1988). Inoltre i campioni salivari sono ottenuti attraverso una metodica non invasiva che non induce
stress, sono facili da raccogliere a casa, possono essere raccolti più volte al giorno, non pongono problemi di controllo
da parte di personale competente (Castro et al., 1999).
Gli Autori si propongono di presentare risultati preliminari
e prospettive dello studio del sistema HPA in un campione
di popolazione psichiatrica selezionato in maniera transnosografica.
Bibliografia
1
Selye H. The stress of life. New York: Mc Graw Hill 1956.
2
Paykel ES. Contribution of life events to causation of psychiatric
illness. Psychol Med 1978;8:245-53.
3
Kessler RC, Price RH, Wortman CB. Social factors in psychopathology: stress, social support, and coping processes. Ann
Rev Psychol 1985;36:531-72.
4
Faravelli C, Abradi L, Bartolozzi D, Cecchi C, Cosci F,
D’Adamo D, et al. The Sesto Fiorentino Study: point and oneyear prevalence of psychiatric disorders in an italian community sample using clinical interviewers. Psychother Psychosom
2004;73:226-34.
5
Kirschbaum C, Hellhammer DH. Salivary cortisol in psychoneuroendocrine research: recent developments and applications. Psychoneuroendocrinology 1994;19:313-33.
Neurosteroidi e psicopatologia
Tutte le donne sono state sottoposte ad una batteria di questionari e ad un prelievo ematico, previo consenso informato.
In eterovalutazione:
– un’intervista sui dati socio-anagrafici;
– Mini International Neuropsychiatric Interview (MINI);
– indice di Kupperman.
In autovalutazione:
– questionario per i sintomi perimenopausali;
– Quality of life enjoyment and satisfaction questionnaire
(Q-LES-Q);
– intervista per lo spettro dell’umore (SCI-MOOD);
– Temperament and Character Inventory (TCI);
– prelievo ematico per il dosaggio di alcuni Neurosteroidi.
Il campione analizzato è risultato composto di circa 100
soggetti affetti da varie diagnosi psichiatriche (prevalentemente Depressione e Disturbo di Panico) e da soggetti sani.
Le differenze fra i livelli dei Neurosteroidi caratterizzanti i
soggetti sani e i pazienti sembrano dimostrare un possibile
ruolo di questi ormoni nel determinismo di alcuni tratti psicopatologici. Verranno discusse le varie correlazioni riscontrate e le loro possibili implicazioni dal punto di vista clinico, psicopatologico e terapeutico.
Bibliografia
1
Dubrovsky BO. Steroids, neuroactive steroids and neurosteroids
in psychopathology. Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry
2005;29:169-92.
2
Uzunova V, Sampson L, Uzunov DP. Relevance of endogenous
3alpha-reduced neurosteroids to depression and antidepressant
action. Psychopharmacology 2005;26:1-11.
A. Castrogiovanni, R. Pasquini, A. De Capua, S. Debolini, S. Luisi*
Università di Siena, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione
di Psichiatria; * Università di Siena, Dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina Riproduttiva
La ghiandola pineale e il rapporto luce
solare-funzionamento mentale
Il concetto di Neurosteroidi è stato introdotto negli anni ’80
da Baulieu che fece notare come il cervello potesse essere in
grado di accumulare e sintetizzare ex-novo e autonomamente ormoni steroidei (DHEA, DHAS, Allopregnanolone).
Oggi numerose ricerche dimostrano come i Neurosteroidi
abbiano capacità di modulare l’attività dei recettori GABA,
NMDA, la crescita neuronale, con conseguente effetto ansiolitico e implicazione sulla memoria, la neuroprotezione e
la risposta allo stress.
Alla luce di tali proprietà i Neurosteroidi possono avere un
ruolo nei meccanismi fisiopatologici di numerosi disturbi
psichiatrici come i Disturbi dell’umore, i Disturbi d’Ansia,
i Disturbi della memoria, ecc.
Proprio le manifestazioni psicopatologiche a cui può essere
soggetta la donna durante il ciclo riproduttivo, caratterizzato da importanti oscillazioni delle concentrazioni ormonali
plasmatiche, ci suggeriscono come possa essere stretta la relazione tra psicopatologia e neurosteroidi.
Il nostro studio ha focalizzato l’attenzione sulla peri-menopausa e menopausa indagando i rapporti fra i livelli di alcuni neurosteroidi plasmatici e il quadro psicopatologico di
donne che attraversano queste fasi del ciclo vitale.
Sono state valutate tutte le donne di età compresa tra i 40 e
i 60 anni afferenti al centro per la Menopausa dell’Istituto di
Ginecologia dell’Università di Siena nell’arco di un periodo
di 8 mesi.
Università di Siena, Dipartimento Neuroscienze, Sezione di
Psichiatria
29
L. Bossini, M. Valdagno, P. Castrogiovanni
La pineale si presenta come un fondamentale detector di alcune variabili ambientali, in grado di trasferire le informazioni dall’ecosistema esterno a quello interno, permettendo
così la sincronizzazione fra ritmi ambientali e ritmi biologici dell’organismo.
Storicamente è stata associata alle speculazioni filosofiche
riguardo la natura della mente e i suoi disturbi. Per gli
orientali, la pineale costituisce il “terzo occhio” o “occhio
di Buddha”. In effetti la pineale, ontogeneticamente molto
vecchia, deriva da un organo fotorecettoriale, funzionalmente “un terzo occhio”, presente in alcune specie di rettili ed anfibi. Le attuali conoscenze neurofisiologiche evidenziano come la pineale non sia semplicemente una
ghiandola, ma piuttosto un trasduttore neuroendocrino che
converte un input nervoso in un output ormonale. L’input
nervoso è la noradrenalina, rilasciata dai nervi ortosimpatici post-gangliari; l’output ormonale è, in primo luogo, la
melatonina sintetizzata dai pileanociti a partire dal triptofano. La sintesi e la secrezione di melatonina sono regolate dalla percezione della luce, ma nei mammiferi la risposta alla luce è indiretta: l’impulso luminoso, raccolto dalla
retina, giunge al nucleo sporachiasmatico inibendone l’attività elettrica, solo il buio attiva questa attività elettrica.
SIMPOSI TEMATICI
L’informazione passa all’ipotalamo laterale da cui si dipartono le fibre efferenti dirette al midollo toracico, dove
originano le fibre che terminano nei neuroni pre-gangliari
del nucleo cervicale superiore che proiettano alla pineale,
inibendo (la luce) o non inibendo (assenza di luce) la produzione della Melatonina in maniera dose-dipendente dalla luce: ridotta da illuminazione di 200 lux e bloccata da illuminazione > 2.500 lux.
Nel SNC dei mammiferi i nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo e la ghiandola pineale fungono da pacemakers, che
sanno sincronizzarsi al periodo di 24 h del ciclo buio/luce,
utilizzando le informazioni veicolate lungo il tratto retinicoipotalamico, ma posseggono anche una loro specifica ritmicità endogena, geneticamente determinata. La sintesi e la secrezione della melatonina sono controllate da un orologio
circadiano situato nell’ipotalamo anteriore, posto nei nuclei
soprachiasmatici, a sua volta sincronizzato dal ciclo
luce/buio.
I livelli plasmatici di melatonina cominciano ad aumentare
dopo il tramonto con un picco intorno alle 2.00 a.m. e declinano marcatamente al mattino 1.
È evidente, adesso, che la ghiandola pineale influenza molti organi e funzioni e secondo recenti ricerche è capace di
condizionare il cervello e il comportamento. Esistono, infatti, studi secondo cui alterazioni del ritmo di secrezione della melatonina possono essere implicate in molte malattie
dalle neoplasie all’Alzheimer. Da quando un’alterazione del
ritmo della melatonina è stata dimostrata nel Seasonal Affective Disorder (SAD), simili reperti sono stati riportati in
diversi disturbi psichiatrici: la luce (solare) sia in termini di
intensità che di durata del fotoperiodo, sembra essere il mediatore principale del rapporto umore/stagionalità e umore/variazioni circadiane tramite la sua azione indiretta sulla
produzione della melatonina da parte dell’epifisi; ma la luce potrebbe avere anche un ruolo più diretto sul SNC tramite la retina e l’attivazione o inibizione di altri neurotrasmettitori.
Il ruolo della sensibilità alla luce nell’eziopatogenesi di un
disturbo si può evincere da fenomeni anche molto diversi tra
loro, come per esempio comportamenti che denotano un’alterata fotosensibilità, l’alterazione dei ritmi circadiani, governati dal ciclo giorno/notte, l’influenza della luce ambientale sul decorso, che si esplica in un andamento stagionale
del disturbo stesso, l’alterazione della secrezione della melatonina, ormone che presenta un pattern circadiano sincronizzato con il ciclo giorno/notte.
Se per quanto riguarda i Disturbi dell’Umore gli studi riguardanti quella che possiamo definire “dimensione cronobiologica” sono molti, per quanto riguarda i Disturbi
d’Ansia tale dimensione è stata molto meno indagata. Unica eccezione sembra essere rappresentata da DP. Alcuni
studi hanno dimostrato che la maggior parte dei soggetti
con Disturbo di Panico (DP) sono sensibili ad un incremento della luce ambientale e che presentano una specifica stagionalità di insorgenza e/o ricorrenza in primaveraestate 2. La stimolazione visiva sembra essere maggiormente potente della stimolazione non visiva nell’indurre
sintomi come depersonalizzazione e derealizzazione; questi effetti non sono stati riscontrati in pazienti con altri disturbi d’ansia 3. Nel DP, come nello stato maniacale, sarebbe amplificata la normale risposta comportamentale alla grande durata e intensità della luce durante l’estate.
Questo processo può esprimersi in una esacerbazione dei
sintomi ansiosi per i DP, come in un’attivazione affettiva
con agitazione psicomotoria nel Disturbo Bipolare. Questa
eccessiva sensibilità sembra correlarsi anche quando il disturbo è sottosoglia o in soggetti con alti punteggi allo
SCI-PAS 4.
Possono essere formulate alcune ipotesi per spiegare i meccanismi dell’aumento della sensibilità alla luce nel DP:
– disfunzione della ghiandola pineale: McIntyre 5 ha trovato
livelli di melatonina significativamente maggiori nei pazienti con DP senza terapia farmacologica rispetto a soggetti sani nella seconda parte della notte (dalle 4 alle 7 del
mattino) e un ritardo di fase di circa due ore. Secondo gli
Autori l’eccesso di melatonina nei pazienti con DP potrebbe rappresentare un tentativo di ridurre lo stato di ansietà;
– primaria disfunzione neurotrasmettitoriale: il sistema serotoninergico, per esempio, potrebbe essere coinvolto dal
momento che studi clinici hanno dimostrato che la serotonina ha uno specifico ritmo annuale correlato al fotoperiodo 6;
– primaria disfunzione retinica 7.
Verranno presentati dati relativi ad uno studio da noi effettuato nel tentativo di approfondire i rapporti fra luce e Disturbo di Panico.
Metodologia:
– valutazione delle differenze nelle dimensioni Fotofobia e
Fotofilia del Questionario per la fotosensibilità (QVF) fra
46 soggetti con DP, 46 soggetti con Disturbo Bipolare e
200 soggetti sani;
– valutazione della riposta retinica alla stimolazione luminosa tramite indagine elettroretinografica in 30 soggetti
con DP e 20 controlli sani;
– rivalutazione della fotosensibilità e del tracciato ERG in
20 soggetti con DP dopo terapia farmacologica specifica.
I risultati hanno mostrato significative differenze dei punteggi al QVF fra i tre gruppi: la dimensione Fotofilia è risultata significativamente maggiore nei DB sia rispetto ai
controlli che rispetto ai DP; la dimensione fotofilia era, al
contrario, significativamente minore nei soggetti con DP rispetto ai controlli sani e ai soggetti con DB.
Dalla valutazione elettroretinografica sono emerse significative differenze relative all’onda b fra DP e controlli sani:
l’onda b era significativamente minore ed aveva una minor
variabilità intrasoggettiva nel campione dei soggetti con DP.
Dopo terapia farmacologica non abbiamo riscontrato alcuna
differenza relativamente all’ampiezza b ERG, mentre era
aumentata in maniera significativa la dimensione fotofilia al
QVF.
Conclusioni: dal nostro studio sembra emergere una marcata sensibilità alla luce nei soggetti con DP verosimilmente sottesa da una primaria disfunzione retinica (forse mediata dal sistema Dopaminergico), che potrebbe rappresentare
un marker di tratto del disturbo vista la sua immodificabilità
dopo terapia farmacologica.
Il reperto relativo alle modificazioni dei parametri di fotonsensibilità dopo trattamento, nel senso di un “miglioramento” nei soggetti con DP, potrebbe far supporre che esistano
altre vie di mediazione del rapporto luce/panico, prima fra
tutte quella relativa alla ghiandola pineale, che potrebbero
essere influenzate dalla terapia, a differenza della via retinica diretta.
30
SIMPOSI TEMATICI
Bibliografia
1
Pacchierotti C, Iapichino S, Bossini L, Pieraccini F, Castrogiovanni P. Melatonin in psychiatric disorders: a review on the
melatonin involvement in psychiatry. Front Neuroendocrinol
2001;22:18-32.
2
Marriott PF, Greenwood KM. Seasonality in panic disorder. J
Affect Disor 1994;31:75-80.
3
Watts FN, Wilkins AJ. The role of provocative visual stimuli in
agoraphobia. Psychol Med 1989;19:875-85.
4
Bossini L, Martinucci M, Paolini K, Castrogiovanni P. Panic-
5
6
7
agoraphobic spectrum and light sensivity in a sample of the general population in Italy. Can J Psych 2005;50;1:39-45.
McIntyre IM. Plasma concentrations of melatonin in panic disorder. Am J Psych 1990;147:462-4.
Li L, Dowling JE. Effects of dopamine depletion on visual sensitivity of zebrafish. J Neurosci 2000;20:1893-903.
Mora-Ferrer C, Yazulla S, Studholme KM, Haak-Frendscho M.
Dopamine D1-receptor immunolocalization in golgfish retina.
Mol Neurobiol 1999;19:181-204.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA VERDE
S7 - Le patologie dell’attaccamento:
clinica e terapia
MODERATORI
D. Marazziti, R. Tatarelli
Neurobiologia dell’attaccamento
D. Marazziti, M. Catena, S. Baroni, G. Giannaccini,
L. Dell’Osso
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa
Gli esseri umani devono affrontare un paradosso fondamentale per la sopravvivenza della specie: sono attratti e si
accoppiano con individui geneticamente lontani che altrimenti istintivamente sarebbero portati ad evitare. Questo
processo sarebbe senza dubbio stressante, addirittura doloroso, se non fosse per specifici meccanismi che lo rendono piacevole, una volta che viene attivamente perseguito.
Dati recenti suggeriscono che l’ossitocina potrebbe rappresentare uno dei mediatori di questo processo.
45 volontari sani di entrambi i sessi sono stati inclusi nello studio. L’attaccamento romantico è stato valutato tramite l’utilizzo della “Experiences in Close Relationships”
(ECR), versione italiana, un questionario in autosomministrazione utilizzato per misurare questo parametro negli
adulti.
Ansia ed ossitocina sono risultate positivamente correlate fra loro nell’ambito dell’attaccamento romantico ad
un livello statisticamente significativo (r = 0,30, p =
0,045); maggiori livelli ematici di ossitocina correlavano con più alti punteggi nella scala ansia della ECR
e viceversa.
Questa correlazione potrebbe rappresentare la base biologica di quei processi che sottendono le emozioni positive
correlate all’amore ed i legami sociali tipici della nostra
specie. Disfunzioni del sistema dell’ossitocina potrebbero
essere presenti in vari disturbi psichici e forse l’ossitocina
o i suoi analoghi o antagonisti potrebbero avere importanti implicazioni terapeutiche.
31
Attaccamento e psicopatologia. Dati
preliminari in un campione di pazienti
ambulatoriali
D. Marazziti, F. Albanese, M. Catena, B. Dell’Osso,
A. Del Debbio, A. Piccinni, P. Rucci, L. Dell’Osso
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa
Secondo la teoria dell’attaccamento le prime esperienze
relazionali significative giocherebbero un ruolo determinante nelle relazioni future, negli atteggiamenti e perfino
nello sviluppo di possibili psicopatologie, dato che la qualità dell’attaccamento sembra organizzare le risposte emozionali e comportamentali (Grossman, 1991). È lecito supporre che l’attaccamento insicuro, anche se non di per sé
patologico, sia da porre in relazione con una maggiore predisposizione all’ansia ed ai disturbi dell’umore nell’intero
arco di vita (Amini et al., 1996; Goldberg, 2003). Uno dei
legami che è fortemente influenzato dallo stile di attaccamento è quello della relazione amorosa con un partner
(Hazan e Shaver, 1987), all’interno della quale l’attaccamento è definito “romantico”. La diversa combinazione di
due componenti continue chiamate “ansietà” ed “evitamento”, dà vita ai quattro stili di attaccamento romantico
adulto: sicuro, preoccupato, distanziante, timoroso-evitante (Brennan et al., 1998).
Nel presente studio, abbiamo confrontato, in un campione di
100 pazienti ambulatoriali ed uno composto da 77 controlli,
la relazione tra diagnosi psichiatriche (disturbi dell’umore e
disturbi d’ansia) effettuate con la SCID-IV (First et al.,
1997) e l’attaccamento romantico, rilevato con la versione
italiana dell’ECR (Brennan et al., 1998).
I risultati confermano i dati della letteratura che l’attaccamento insicuro sembra essere una caratteristica aspecifica di
pazienti affetti da varie patologie psichiatriche, ma contemporaneamente evidenziano che certi stili sono più rappresentati in specifici disturbi piuttosto che in altri.
SIMPOSI TEMATICI
Il Disturbo d’Ansia di Separazione in età
evolutiva
G. Masi, S. Millepiedi, M. Mucci, N. Bertini, S. Berloffa, C. Pfanner, C. Pari
IRCCS “Stella Maris” per la NeuroPsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Calambrone, Pisa
Scopo di questa presentazione è fornire una sintesi sulla fenomenologia, la storia naturale e le implicazioni cliniche del
Disturbo d’Ansia di Separazione (DAS). Il DAS è qualitativamente diverso dalle normali e precoci ansie di separazione, ed è caratterizzato da una abnorme reattività a separazioni reali o immaginate dalle figure di attaccamento, che
determina una significativa interferenza con la vita quotidiana. La prevalenza del disturbo in età evolutiva è tra il 45%. Esistono differenze evolutive nelle modalità di presentazione, ma il rifiuto scolastico rappresenta la più frequente
e temibile complicazione, essendo presente nel 70% dei
soggetti con DAS. Studi longitudinali indicano che il DAS è
un fattore di rischio aspecifico per ulteriori disturbi d’ansia,
mentre è ancora discusso un legame con più specifici disturbi d’ansia (es. Disturbo di Panico) o dell’umore (es. Disturbo Bipolare). Ma un’eventualità non rara è rappresentata da una prosecuzione del DAS in età adulta, naturalmente
con modalità fenomeniche diverse da quelle della forma infantile.
Bibliografia
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Masi G, Millepiedi S, Mucci M, Poli P, Bertini N, Milantoni L.
Generalized anxiety disorder in children and adolescents. J Am
Acad Child Adol Psychiatry 2004;43:752-60.
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Masi G, Toni C, Perugi G, Mucci M, Millepiedi S, Akiskal HS.
Anxiety comorbidity in consecutively referred children and adolescents with bipolar disorder: a neglected comorbidity. Can J
Psychiatry 2001;46:766- 71.
3
Masi G, Mucci M, Millepiedi S. Separation anxiety in children
and adolescents: Epidemiology, diagnosis and management.
CNS Drugs 2001;15:93-104.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA NUREYEV
S8 - Contatto ed intervento in condizioni
di emergenza
MODERATORI
A. Amati, R. Catanesi
Il contatto valutativo
E. Agrimi, F. Spinogatti, R. Poli
A.O. Istituti Ospitalieri di Cremona, Cremona
Il contatto valutativo con il paziente psichiatrico agitato e/o
a rischio di comportamenti aggressivi richiede sempre un attento bilanciamento fra le capacità dell’operatore (medico,
infermiere, ecc.) di osservare il paziente (stato emotivo e cognitivo, postura, comportamento, tono della voce, espressività verbale, contenuti del pensiero), di valutarne le capacità
relazionali e di mettersi in gioco nel processo di negoziazione fra il soddisfacimento dei bisogni della persona e la
necessità di operare un contenimento, sia questo emozionale, comportamentale, ambientale o fisico.
Anche il paziente più disturbato ha proprie esperienze e idee
personali sui suoi problemi, ma può avere grosse difficoltà
a comunicare le sue opinioni nel momento della crisi. Facilitare la comunicazione del paziente con un approccio terapeutico informato, invitarlo a parlare delle sue esperienze
pregresse, ad esprimersi sulle soluzioni per lui più efficaci o
preferite (il tal farmaco, il tale operatore, ecc.) può contribuire a detendere la tensione ed a recuperare una contrattualità andata perduta (Hallen, 2005).
Gli stati psicotici acuti con agitazione, oltre a comportare un
rischio di agiti violenti, possono interferire con l’identificazione di una condizione medica sottostante, che richiede un
trattamento specifico immediato.
La gestione delle situazioni di crisi deve avvenire nelle condizioni di massima sicurezza e gli operatori devono sentirsi
sicuri con il paziente per riuscire a svolgere una valutazione
serena ed un intervento efficace (Agrimi, Spinogatti, 2005).
L’approccio alla valutazione del rischio nei diversi contesti
dell’agire psichiatrico si basa molto spesso sulla esperienza
degli operatori. Tale esperienza, specie per le figure non mediche, viene trasmessa più per la prossimità con operatori
più anziani che tramite percorsi formativi specifici. Oggi si
ritiene che l’esperienza sia necessaria ma non sufficiente
dovendo ad essa collegare procedure e modalità sempre più
basate sulle evidenze, piuttosto che solo sulle opinioni. Strumenti di valutazione strutturati e riproducibili stanno entrando nella pratica routinaria con sempre maggiore diffusione (Monahan, 2000), nella consapevolezza dei limiti di
un grado di significatività moderato e limitato al breve periodo.
Oggi si distinguono procedure di valutazione di tipo clinico,
basate su strumenti di valutazione non strutturati o semistrutturati, dalle procedure di tipo attuariale le cui basi statistiche presuppongono percorsi strutturati, e pertanto meno
adatti alla pratica clinica.
Gli interventi strategici
C. Mencacci
Dipartimento di Psichiatria A.O. “Fatebenefratelli Oftalmico”, Milano
Il trattamento e la gestione degli stati di agitazione e di aggressività è diventato un problema emergente sia a livello
sociale che nei dipartimenti di emergenza, per una generale
32
SIMPOSI TEMATICI
tendenza all’aumento della violenza nella popolazione generale.
Per affrontare gli stati di agitazione e di aggressività è opportuno un approccio multidimensionale che tenga conto
delle condizioni della persona, dell’ambiente, delle circostanze, della presenza di fattori causali reali o presunti, ma
soprattutto delle informazioni sociali ed anamnestiche che
abbiamo della persona e della situazione o che possiamo acquisire (Agrimi, 2005).
Prima di pianificare un qualsiasi intervento devono essere
valutati con la massima cura i fattori di rischio generici e
specifici per quella persona. Fra i fattori di rischio generici
ricordiamo il sesso, l’età e lo stato sociodemografico: i giovani maschi appartenenti a classi sociali basse o degradate
sono più a rischio di comportamenti aggressivi o violenti. I
principali fattori di rischio specifici sono rappresentati da
precedenti di aggressività o violenza e dall’uso di sostanze.
Entrambi sono fattori predittivi di violenza. L’abuso di alcool o l’uso di sostanze aumenta in modo significativo il rischio di condotte violente sia nella popolazione normale che
in quella psichiatrica (Agrimi, 2005).
La letteratura più recente supporta piuttosto la precoce identificazione del rischio di violenza e dei problemi correlati all’abuso di sostanze e pone la più grande attenzione alla diagnosi ed al trattamento dei concomitanti disturbi d’abuso di
sostanze fra i malati mentali gravi, come potenziale strategia di prevenzione della violenza in questa popolazione
(Stuart, 2002).
Le responsabilità dello psichiatra
in condizioni di urgenza
fondato sempre su materiale dubbio, vuoi perché troppo povero, vuoi perché al contrario vistosamente drammatizzato.
D’altra parte organizzazione dei servizi e povertà di organici impongono scelte, semplicemente perché non è sempre
possibile rispondere ad ogni richiesta con un’immediata visita domiciliare.
Non molto diversa è la situazione nei casi di consulenza psichiatrica richiesta da colleghi di reparti ospedalieri medici o
chirurgici, specie in tempi di riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica, che vede a volte gli psichiatri “di turno” allocati in strutture diverse, anche fisicamente lontane. In tutte queste situazioni, come pure nel caso di pazienti psichiatrici in cura presso strutture carcerarie, i rischi maggiori ruotano attorno all’ipotesi di errore diagnostico – ovvero sottostima della gravità della situazione prospettata – con successivo evento lesivo ad esso causalmente correlato (dunque
lesioni o omicidio colposo), che talora può estendersi anche
all’ipotesi di omissione/rifiuto di atti d’ufficio.
Vi sono poi le ipotesi di responsabilità professionale strettamente connesse all’attuazione di procedure tecniche motivate da condizioni di urgenza, ovvero agli errori commessi nella gestione di queste fasi. Errori diagnostici – fra
cui ci preme ricordare i non rari casi di improprie terapie
psico-farmacologiche in pazienti “apparentemente” psichiatrici, in realtà affetti da patologia organica – o trattamentali, fra cui comprendere il mancato TSO (in presenza
delle condizioni che lo impongono), l’improprio TSO (ad
esempio per consentire all’équipe chirurgica di sottoporre
ad intervento un paziente psicotico) come pure la ingiustificata-impropria-mancata adozione di misure di protezione
o contentive atte a proteggere il paziente da conseguenze
lesive direttamente correlate al suo stato di acuzie psicopatologica.
R. Catanesi, F. Carabellese
Sezione di Criminologia e Psichiatria Forense, DiMIMP,
Università di Bari
Si tratta delle ipotesi di responsabilità professionale che più
ricorrono nella pratica professionale medico-legale, vuoi
per la modalità con cui l’urgenza psichiatrica – correttamente compresa – è stata poi gestita, vuoi nei casi in cui non
è stata correttamente interpretata, vi è stata mancata o inadeguata adozione di provvedimenti terapeutici e ne sono derivate conseguenze dannose per il paziente o altre persone.
Urgenza, emergenza sono concetti che sottengono l’immediatezza, l’indifferibilità del trattamento e dunque, sul piano
dell’intervento, rapidità ed efficacia. Ma sul piano normativo
l’unica urgenza codificata è quella che attiene ai TSO, peraltro mai regolamentati e dunque ancor oggi, a distanza di oltre
25 anni, oggetto di incertezze operative. Tutto il resto è affidato a regole e norme di carattere generale, che attengono
cioè ogni medico, da adattare peraltro ad una pratica – quella
psichiatrica – che differisce non poco, specie per quanto attiene la gestione territoriale del paziente psichiatrico.
Non è sempre agevole, ad esempio, nelle richieste di intervento domiciliare rivolte agli psichiatri dei Sim, comprendere se la situazione prospettata telefonicamente da congiunti costituisca realmente un’urgenza, che imponga magari di sospendere la propria attività ambulatoriale per recarsi
a visita; è difficile perché, fatti salvi i casi di grave agitazione psicomotoria, ogni giudizio è mediato dal modo e dalla
qualità delle informazioni veicolate dai familiari, ovvero è
33
Dati preliminari dal South London and
Maudsley Intensive Care Units Trial
Evaluation (SLAMICUTE)
V. Mantua, M.J. Travis, M.B. Isaac, M.T. Isaac,
Z. Atakan, D. Gilbert, J. Komeh, A. Shaw, C. Sweeney,
R.W. Kerwin
Institute of Psychiatry, Kings College, De Crespigny Park,
London
Introduzione: i dati sulla terapia degli stati di agitazione
psicomotoria nei pazienti psicotici acuti sono scarsi in letteratura. Questi pazienti rappresentano la popolazione di pazienti psichiatrici più difficile da gestire per i servizi, ma sono esclusi dagli studi clinici quasi per definizione in quanto
non forniscono il loro consenso informato. Ne consegue che
le linee guida per il trattamento dei pazienti agitati o aggressivi si basano su dati ottenuti da pazienti non rappresentativi della popolazione. Verranno qui presentati i dati
preliminari di uno studio naturalistico osservazionale sul
trattamento farmacologico e non farmacologico degli incidenti violenti e aggressivi in un servizio di terapia intensiva
per pazienti psicotici acuti (Psichiatric Intensive Care Unit,
PICU) nel Regno Unito. L’obiettivo dello studio è quello di
descrivere lo stato dell’arte della terapia degli stati di agitazione acuta e il suo esito allo scopo di guidare futuri studi
controllati.
SIMPOSI TEMATICI
Metodo: sono stati raccolti dati durante un periodo di 12
mesi riguardanti ogni incidente violento o aggressivo che ha
richiesto un intervento clinico avvenuto all’interno delle 4
PICU dell’area territoriale sud di Londra (South London and
Maudsley Trust, SLaM). I dati comprendono informazioni
sul tipo di incidente, il tipo di intervento e il suo esito. Lo
staff del reparto ha completato le seguenti scale di valutazione: PANSS-EC, CGI-I, CGI-S al momento dell’incidente e 2, 4, 12, 24, 72 ore dall’intervento. Il consenso informato è stato chiesto retrospettivamente. Verranno qui riportati i dati preliminari dei primi pazienti che hanno dato il
consenso. L’analisi statistica include frequenze e confronti
tra gruppi usando l’ANOVA e il test post-hoc.
Risultati: 30 pazienti hanno dato il loro consenso, 87 incidenti aggressivi e interventi clinici farmacologici e non farmacologici sono stati raccolti.
Il 60% degli interventi clinici al bisogno sono stati motivati
da: “Aumento dei livelli di ansia/agitazione/tensione”, il
25,5% da “Minaccia di comportamento violento verso il
personale/altri pazienti/parenti/oggetti”, mentre solo il 5%
degli interventi sono stati motivati da effettivi “Episodi di
violenza agita contro il personale/altri pazienti/parenti/oggetti”.
Il 65,5% degli interventi clinici sono non farmacologici, includono procedure di de-escalation oltre che isolamento del
paziente in ambiente controllato dal personale (esclusion ),
il 26,7% degli interventi include terapia al bisogno per via
orale, mentre la terapia per via intramuscolare rappresenta
solo il 7,7% degli interventi.
I pazienti, divisi in 3 gruppi a seconda degli interventi clinici ricevuti (non farmacologici, terapia orale, terapia intramuscolare), differiscono significativamente per i punteggi
della PANSS-EC e CGI-I al momento dell’incidente e mostrano un miglioramento simile nel tempo.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN GIOVANNI
S9 - Medical management nel trattamento
con antipsicotici
MODERATORI
M. Nardini, G. Di Sciascio
Sindrome metabolica: epidemia del nuovo
millennio. Aspetti fisiopatologici
M. Cignarelli, O. Lamacchia, S. Piemontese
Università di Foggia, Cattedra di Endocrinologia e Malattie del Ricambio
La necessità di definire la Sindrome Metabolica (SM) nasce dall’osservazione clinica della frequente aggregazione
di alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico ed energetico in uno stesso individuo.
L’associazione tra i diversi disordini metabolici in varie
combinazioni è nota da anni.
Vari studi, condotti in differenti aree geografiche, hanno
messo in evidenza come la prevalenza della Sindrome Metabolica aumenti progressivamente con l’età e con il BMI,
con minori differenze per quanto riguarda il sesso. Per quanto riguarda la popolazione degli Stati Uniti, basandosi su dati del censimento di popolazione dell’anno 2000, circa 47
milioni di residenti negli Stati Uniti sono portatori di Sindrome Metabolica.
La prevalenza cresce dal 6,7% nella fascia di età compresa
tra 20 e 29 anni al 43% nella fascia di età tra 60 e 69 anni.
Secondo le più recenti linee guida della IDF (International
Diabetes Federation) la presenza di una circonferenza vita
≥ 94 cm nell’uomo e ≥ 80 cm nella donna per gli europei associata ad almeno due fattori di rischio cardiovascolare (trigliceridi ≥ 150 mg/dl; colesterolo HDL < 40 mg/dl nell’uomo e < 50 mg/dl nella donna; valori pressori ≥ 130/85
mmHg; glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl) è sufficiente per
porre diagnosi di Sindrome Metabolica.
L’obesità viscerale sembra costituire la causa principale della Sindrome Metabolica. L’accumulo di grasso a livello viscerale si associa infatti ad insulino-resistenza epatica e periferica.
Tale effetto sembra mediato dalla produzione di glicerolo e
FFA. È stato recentemente ipotizzato che la relazione tra insulino-resistenza e di incremento del tessuto adiposo viscerale possa trovare fondamento anche in altre funzioni endocrine e metaboliche degli adipociti.
Alle adipochine è stato attribuito anche un ruolo di rilievo
non solo nella regolazione del metabolismo glucidico e lipidico, ma anche nel controllo dello stress ossidativo e nel
mantenimento dell’integrità strutturale e funzionale della
parete vascolare, meccanismi che globalmente sono responsabili di molte delle manifestazioni cliniche della Sindrome
Metabolica.
In conclusione la Sindrome Metabolica rappresenta un insieme di fattori di rischio cardiovascolare legati tra loro attraverso l’associazione con l’insulino-resistenza.
Dal momento che l’insulino-resistenza rappresenta un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di patologie cardiovascolari, la sua presenza può condurre a complicanze
macrovascolari anche molto tempo prima che altre caratteristiche della Sindrome Metabolica diventino evidenti. Pertanto interventi tempestivi di correzione dell’accumulo del
grasso viscerale sembrano il mezzo più efficace per trattare
la Sindrome Metabolica.
34
SIMPOSI TEMATICI
Problematiche dismetaboliche nel
trattamento con antipsicotici
A. Bellomo, A. Lepore*, A. Borelli*, A. De Giorgi*,
M. Nardini**
Dipartimento Misto di Salute Mentale, ASL FG3, Università
di Foggia; * Dipartimento di Scienze Mediche e del Lavoro,
Università di Foggia; ** Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Negli ultimi anni grande interesse ha destato la rilevazione
della frequente associazione fra malattie psichiatriche e
malattie metaboliche. In particolare, tra i pazienti affetti da
Schizofrenia è risultata più alta l’incidenza di diabete mellito di tipo 2, dislipidemia, obesità. Queste patologie sono
state riscontrate sia separatamente che associate tra loro,
configurando la cosiddetta sindrome X o metabolica. Le
patologie metaboliche aumentano la morbilità e la mortalità
per patologie cardiovascolari e, forse, neoplastiche. Individuare i pazienti a rischio può offrire la possibilità di provvedere a programmi di prevenzione mirati a tale problema.
Molti lavori sono stati prodotti negli ultimi anni. Poche
esperienze sono state condotte in Italia. Tali studi non hanno però fornito risposte conclusive a vari quesiti: associazione tra Schizofrenia e turbe metaboliche, importanza dello stile di vita, effetto iatrogeno dei trattamenti farmacologici antipsicotici, possibili link genetici fra le patologie, influenza dell’etnia.
Nel corso dell’anno 2004 è stato realizzato uno studio osservazionale su un gruppo di 345 pazienti affetti da Schizofrenia (cod. ICD 9CM 295.0-295.9) assistiti dalle strutture
ambulatoriali, ospedaliere e riabilitative del DMSM della
ASL Fg3 –, Università di Foggia.
Sono stati rilevati dati sociodemografici (età e sesso), valutazione clinica ed anamnestica, trattamenti farmacologici,
BMI, gravità di malattia (mediante CGI), glicemia e digiuno, trigliceridemia e colesterolemia da prelievo ematico venoso periferico. È stata effettuata l’analisi statistica con test
statistici: Test χ2, GLM procedure, Duncan’s multiple range
test.
Il campione è costituito da 227 maschi pari al 65,8% e da
118 femmine pari al 34,2%. L’età media dell’intero campione è di 44,4 ± 12,86 anni; l’età dei maschi è lievemente più bassa (43,8 ± 13) rispetto a quella delle femmine
(45,4 ± 12,4). 170 pazienti assumevano un farmaco antipsicotico in monoterapia. 107 assumevano un neurolettico
tradizionale in monoterapia, 41 pazienti assumevano una
associazione fra farmaci antipsicotici tipici ed atipici, 8
pazienti erano in trattamento con una associazione di due
farmaci atipici, 12 assumevano due o più farmaci tipici in
associazione, 7 pazienti non assumevano terapia farmacologia. La prevalenza di DM nel campione è del 13,62%
(circa 3 volte quella della popolazione generale italiana).
La prevalenza di DM aumenta con l’aumentare dell’età.
L’obesità più grave sembra correlata a più elevati livelli
glicemici a digiuno nei pazienti normoglicemici. L’ipertrigliceridemia appare più frequente nei maschi e nei diabetici. I singoli principi attivi non hanno mostrato differenze
nel determinare DM o variazione dei valori glicemici a digiuno.
Pur nella semplicità del suo disegno, questo studio ha il privilegio rivalutare i dismetabolismi in una coorte di paziente
35
italiani tutti provenienti dalla stessa area geografica; la mancanza di correlazione tra i singoli principi attivi e dismetabolismi, suggerisce di spostare l’interesse dalla scelta del
trattamento alla attivazione di programmi specifici di screening, controllo del peso e dello stile di vita. Tutti i pazienti
schizofrenici sono accomunati da maggior rischio di andare
incontro a Sindrome Metabolica ed a rischio di morbilità
cardiaca: elevare il livello d’attenzione su vari aspetti, spesso trascurati nella pratica quotidiana, è sicuramente indice
buona pratica clinica.
La compliance nel trattamento
antipsicotico a lungo termine
S. La Pia
DSM ASL NA/4 U.O. di Salute Mentale di Cercola
L’importanza del trattamento antipsicotico nel lungo termine risiede nella considerazione che il fattore più importante nel condizionare la recidiva dei pazienti è proprio
l’interruzione precoce della terapia.
Non a caso, lo studio CATIE (Clinical Antipsichotic Trials
of Intervention) ha posto, quale misura primaria di efficacia, l’abbandono precoce del trattamento per qualsiasi causa. La compliance, intesa come un processo attivo che,
dalla adesione del paziente alle prescrizioni ricevute, punta a sviluppare l’alleanza terapeutica, all’interno di un modello condiviso di relazione medico-paziente (“shared decision making model”) dipende da molteplici fattori, di cui
l’efficacia e la tollerabilità percepite dei trattamenti costituiscono elementi fondamentali.
Inoltre, il rapporto tra l’adesione alla terapia e l’esito degli
interventi va considerato secondo una traiettoria bidirezionale in quanto, se è vero che il venir meno della regolare
assunzione della terapia favorisce la recidiva psicotica, è
anche plausibile che una riacutizzazione sintomatologia,
favorita dalla scarsa efficacia del trattamento in atto, può
allontanare il paziente dal processo di cura.
In questa relazione verranno esaminati i fattori (legati al
trattamento, all’ambiente e alla diade terapeutica) che influenzano la compliance al trattamento antipsicotico nel
lungo termine, sia nel senso della riduzione (eventi avversi, complessità del regime posologico, insufficiente controllo dei sintomi, abuso di sostanze ecc.), sia nel senso
dell’aumento, attraverso la progressiva acquisizione di una
maggiore consapevolezza di malattia ed il miglioramento
della collaborazione del paziente con le figure di riferimento (medico, ambiente familiare ecc.).
Particolare risalto sarà dato alle caratteristiche del trattamento antipsicotico di nuova generazione che non solo è
caratterizzato da maggiore efficacia e migliore tollerabilità, rispetto alle terapie convenzionali, ma risulta in grado
di favorire il grado di partecipazione del paziente al processo terapeutico attraverso l’effetto su parametri quali le
capacità cognitive, l’impatto favorevole sul ritiro sociale e
sulle componenti negative del quadro psicopatologico,
l’attività sui sintomi psicotici persistenti e residui, la promozione dell’ingaggio del paziente in attività riabilitative
e vocazionali.
SIMPOSI TEMATICI
L’impatto del medical burden nella pratica
dello psichiatra
Safety cardiovascolare e trattamento
antipsicotico
G. Di Sciascio, S. Calò, A. Rampino, A. Papazacharias,
M. Nardini
C. Vampini, V. Vivenza
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari, Azienda Ospedale “Policlinico” di Bari
I pazienti con malattie mentali croniche ed in particolare
quelli affetti da Schizofrenia presentano una aspettativa di
vita inferiore alla popolazione generale.
I dati della letteratura mostrano come nei pazienti schizofrenici il 60% delle morti premature non dovute a suicidio
siano imputabili a patologie medico-internistiche.
Alla luce di tali evidenze che rilevano una maggiore vulnerabilità verso comorbidità mediche quali diabete, malattie cardiovascolari e respiratorie in questi pazienti si è osservato negli ultimi anni un crescente interesse da parte dei
clinici e dei ricercatori nei confronti del “physical health
monitoring” nei pazienti psicotici.
La necessità di effettuare un attento monitoraggio medico
in tali pazienti rappresenta una scelta obbligata da parte
dello psichiatra soprattutto in considerazione del fatto che
il trattamento antipsicotico, ed in particolar modo con antipsicotici atipici, sia associato ad un maggior rischio di insorgenza di quadri dismetabolici quali diabete, dislipidemia e Sindrome Metabolica che fortemente incidono sull’insorgenza di tali comorbidità.
In una recente Consensus Conference su antipsicotici, obesità e diabete promossa dalla American Diabetes Association è stato stilato un protocollo di monitoraggio per i pazienti in terapia con antipsicotici di seconda generazione
(Tab. I).
In virtù di tali raccomandazioni appare evidente quindi come una corretta gestione del paziente in trattamento con antipsicotici preveda attualmente anche un attento monitoraggio delle sua salute fisica e delle possibili comorbidità mediche.
Dipartimento per la Salute Mentale di Verona
Sin dagli anni ’60 sono state segnalate anomalie ECGrafiche e casi di morte improvvisa associati all’impiego di antipsicotici di prima generazione (first generation antipsychotics – FGA) in pazienti schizofrenici. Le spiegazioni degli
eventi fatali si sono orientate tradizionalmente su un prolungamento farmaco-indotto dell’intervallo QT corretto
(QTc), con conseguente sviluppo di aritmie ventricolari quali la torsione di punta (TdP). È stato dimostrato che la tioridazina è il composto più a rischio per l’insorgenza di TdP e
di morte improvvisa, ma che altri FGA condividono, in varia misura, questo rischio.
Più recentemente si è posto il problema se anche gli antipsicotici di seconda generazione (second generation antipsychotics – SGA) possano indurre un prolungamento del QTc
e se ciò comporti un rischio potenziale di TdP e di morte improvvisa. Rispondere a tale quesito non è semplice, sia per
la rarità di questi eventi, sia per la mancanza di un marker
predittivo certo. Il marker migliore attualmente disponibile,
il prolungamento del QTc, sebbene utile clinicamente, si è
rivelato impreciso nel predire l’insorgenza di TdP. È noto,
infatti, che esistono farmaci, quali amiodarone e pentobarbital che causano allungamento del QTc dose-dipendente
ma possiedono un minimo rischio di indurre TdP. Dati recenti, elettrofisiologici, clinici ed epidemiologici, suggeriscono che benché i SGA possano indurre un prolungamento
del QTc, in modo dose-dipendente e con importanti differenze tra i singoli composti, non vi è una chiara relazione
causa-effetto tra il prolungamento del QTc e l’insorgenza di
aritmie ventricolari. I rarissimi casi di TdP riportati con
SGA sono probabilmente correlati alla concomitanza di altre condizioni favorenti, quali una storia familiare di sindrome del QTc lungo, l’assunzione di altri farmaci che prolungano il QTc o la presenza di cardiopatie. Sono necessari studi controllati in soggetti cardiopatici per determinare se questi pazienti hanno un rischio maggiore per TdP o morte improvvisa, quando trattati con SGA.
Tab. I. Protocollo di monitoraggio dei pazienti in terapia con antipsicotici di seconda generazione* (adattata da Consensus Development Conference on Antipsychotic Drugs and Obesity and Diabetes. Diabetes Care 2004;27:596-601).
Basale
Anamnesi personale/familiare
Peso (BMI)
Circonferenza vita
P. sanguigna
Glicemia a digiuno
Profilo lipidico a digiuno
*
X
X
X
X
X
X
4 sett.
8 sett.
12 sett.
Ogni
3 mesi
Ogni
anno
Ogni
5 anni
X
X
X
X
X
X
X
Sono giustificate valutazioni più frequenti sulla base delle condizioni del paziente.
36
X
X
X
X
X
SIMPOSI TEMATICI
Altri effetti indesiderati cardiovascolari, evidenziati in vario
grado sia con FGA che SGA, sono quelli correlati alla sindrome dismetabolica, all’ipotensione ortostatica ed a possibili miocarditi o miocardiopatie.
È stato documentato che pazienti affetti da Schizofrenia presentano un elevato tasso di comorbilità medica. È quindi
prudente che gli psichiatri, nella gestione terapeutica della
malattia, siano consapevoli ed attenti rispetto alle condizioni mediche basali del singolo paziente ed in particolare al livello di rischio per patologia cardiovascolare.
Bibliografia
Glassman AH. Schizophrenia, antipsychotics drugs, and cardiovascular disease. J Clin Psychiatry 2005;66(Suppl 6):5-10.
Liperoti R, et al. Conventional and atypical antipsychotics and the
risk of hospitalization for ventricular arrhytmias or cardiac arrest. Arch Intern Med 2005;165:696-701.
Stollberger C, et al. Antipsychotics drugs and QT prolongation. J
Clin Psychopharmacol 2005;20:243-51.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MALTA
S10 - Paradigma biopsicosociale e costruzione
culturale della dimensione spirituale
MODERATORI
G. Bartocci, R. Bennegadi
La costruzione culturale della dimensione
spirituale nell’ottica del paradigma
biopsicosociale
G. Bartocci
WACP, World Association of Cultural Psychiatry (President-Elect)
Un dato probante che differenzia lo psichiatra laico dallo
psichiatra devoto, si trova nella rispettiva accezione del paradigma che fonda la nostra professione: il paradigma BIOPSICO-SOCIALE di G. Engel, cui notevole sviluppo è stato dato dall’opera di E. Kandel.
Infatti lo psichiatra laico, avvalendosi delle teorie evoluzionistiche, accetta tale definizione in senso stretto seguendone
una linearità filo- ed ontogenetica: prima l’evoluzione biologica, poi la costruzione delle funzioni psichiche, poi ancora l’espressione manifesta dell’operare psichico nella rappresentazione culturale e sociale. Inoltre lo psichiatra laico
è un cultore del caso e della necessità, come propulsori degli eventi epigenetici evidentemente relativi alle variazioni
del contesto ambientale.
Lo psichiatra devoto avvalendosi dei dogmi religiosi creazionistici, abdica invece a forze superiori, collocando il processo psichico sotto un Ente divino che funge da cupola,
motore, sfondo e prospettiva del divenire biopsicosociale,
un divenire evidentemente subalterno al Dio pantocreatore e
ad influssi miracolistici piuttosto che al rispetto degli eventi mondani.
La relazione sottolinea gli effetti influenzanti della cultura
neospiritualista nel mileau psichiatrico italiano ed internazionale che forzano il modello sviluppato da Kandel, trasformandolo in una sorta di neoparadigma spiritual-biopsicosociale, fortemente articolato a canoni teologici.
Tale deriva culturale a sfondo religioso appare in netto contrasto con il riconoscimento da parte delle neuroscienze della plasticità morfologica e funzionale della rete neuronale
encefalica.
Il tema della costruzione culturale del self, sia esso il self individuato dell’Occidentale, il self sociale delle popolazioni
37
asiatiche o il self acquoso di quelle più tradizionali, sino al
metaself illuministico (A. Kleinman) o il self spirituale dell’attuale momento post-secolare (Habermas), diventa allora
il banco di prova della coscienza e della conoscenza.
Lo studio degli effetti della dimensione spirituale nella costruzione del self, pertanto, non è un vezzo euristico ma una
necessaria elaborazione interdisciplinare fra neuroscienze e
psichiatria clinica comparativa transculturale.
Mystical States revisited
S. Dein
University College London
Gli stati mistici sono di comune riscontro nelle diverse culture.
In questo lavoro ne esaminiamo la prevalenza e le loro caratteristiche generali.
Procediamo poi ad una valutazione critica delle teorie impiegate a spiegare questi fenomeni: psicoanalitiche, cognitive, e neurobiologiche, e del loro tentativo di dare una spiegazione al crollo dei confini tra il self ed il mondo esterno.
Concludiamo esplorando le possibili implicazioni degli stati mistici riguardo alla psichiatria transculturale.
Cultura, potere, spiritualità
G.G. Rovera
Dipartimento di Psichiatria, Università Torino
Vengono sinteticamente discusse alcune accezioni, che ineriscono alle interazioni fra cultura, potere, spiritualità: come
assunto filosofico, bisogno esistenziale, appartenenza religiosa.
La spiritualità che, come orientamento di valori, può appartenere a tutti gli individui, sarebbe comunque influenzata da
sistemi culturali, quali credenze, tradizioni e consuetudini,
regolate anche da poteri istituzionalizzati.
SIMPOSI TEMATICI
Alcune ricerche empiriche (Ponce, 1988) sottolineano che
la spiritualità non è necessariamente interdipendente dal tipo di religione (Kantrowitz, 1996), ma è correlabile piuttosto ad un “imponderabile aspetto” dell’umana esperienza.
E ciò pone seri criteri di “scrutinio” a livello di una corretta
metodologia scientifica.
Peraltro vi sono numerose forme e/o manifestazioni di spiritualità che meritano di essere oggetto di studi transculturali:
a) lo stesso DSM IV R, considera che, a certe condizioni, il
problema religioso o spirituale, possa rientrare in una categoria diagnostica (V62.89);
b) la psicologia del Fondamentalismo Religioso (Hood,
2005) esamina non solo il dogmatismo post-moderno, ma
pure la spiritualità secolare;
c) i cerimonialismi sciamanici sono correlati a tradizionali
forme di guarigioni legate a “poteri spirituali” (Jilck,
1982);
d) le “psychotherapy cult” (Rovera, 2004), sono intrecciate
dalle dinamiche del potere e dall’orientamento di valori
del cliente. Ciò non di rado porta ad abusi deontologici, a
malpratica psicoterapeutica ed a iatrogenia.
Nelle considerazioni critiche, si considera necessario mi-
gliorare le metodiche cross-culturali (Tseng, 2001) riguardo
agli orientamenti dei valori ed alle dinamiche del potere, nei
confronti della spiritualità: sia che essa venga ritenuta come
fatto naturale che come evento soprannaturale.
Psychotherapies within different religious
groups
R. Bennegadi
Centre Minkwoska, Paris, Member of the T.P. Section of the
W.P.A
Beliefs, religious explanations, spiritual attidudes towards
mental suffering, connections within mind and body, all
these personality structures and behaviours are part of the
psychotherapeuting setting in cross cultural practice.
Clinical examples throught illnesses described by patients
from islamic and catholic background will be presented, focusing on the consistency and reliability of the cultural constructions and the place of this dimension in the confontation between ethical approaches.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA RODI
S11 - La ricerca in Psicoterapia
MODERATORI
M.A. Reda, C. Loriedo
Organizzazione cognitiva di tipo fobico:
strategie di regolazione delle fluttuazioni
psicofisiologiche in condizioni di stress
e rilassamento
L. Canestri, S. Donati della Lunga, M.A. Reda
Università di Siena, Dipartimento di Scienze Neurologiche
e del Comportamento, Sezione di Scienze del Comportamento
Introduzione: nella presente ricerca sono state valutate le
caratteristiche di attivazione e le strategie di regolazione degli indici di risposta psicofisiologica e somatica rispetto a
condizioni di stress e rilassamento in pazienti con organizzazione cognitiva (OC) di tipo “fobico” 1-8. Questo tipo di
soggetti sembrano regolare le oscillazioni neurovegetative
associate a condizioni di stress in modo migliore rispetto alle condizioni di rilassamento.
Metodologia: per verificare l’ipotesi di lavoro sono stati reclutati 20 soggetti che presentano una OC di tipo “Fobico”,
rilevata attraverso il QSP 9 10, tali soggetti sono stati sottoposti ad un training psicofisiologico con biolab (Satem Modulab) in cui sono state valutate risposte psicofisiologiche
(conduttanza cutanea, ritmo cardiaco e temperatura) e somatiche (elettromiografiche) attraverso sessioni alternate di
stress-rilassamento, in cui sono stati forniti stressor aspecifici (stimolazioni sonore) e specifici (immagini mentali di
eventi autobiografici stressanti) intervallati da sessioni di rilassamento, sono state inoltre valutate le strategie di regola-
zione delle risposte vegetative e somatiche sia nelle condizioni di stress che durante il rilassamento.
Risultati: dalla valutazione dei risultati emerge, da parte di
soggetti con OC di tipo fobico, una buona capacità nella regolazione delle risposte neurovegetative e somatiche durante le sessioni di stress, si evidenzia inoltre una marcata difficoltà nel regolare le oscillazioni psicofisiologiche e muscolari in condizioni di rilassamento.
I valori dei parametri neurovegetativi associati alle risposte
agli stressor risultano inferiori a quelli, piuttosto elevati, che
si evidenziano durante il rilassamento.
Conclusioni: in condizioni di rilassamento e di attenzione
fluttuante i soggetti del nostro campione presentano una forte attivazione neurovegetativa, che risulta paradossalmente
più elevata rispetto alle condizioni in cui è presente uno stressor e l’attenzione viene focalizzata al controllo, mediante focalizzazione attentiva, delle oscillazioni neurovegetative.
Bibliografia
1
Arciero G. Studi e dialoghi sull’identità personale. Torino: Boringhieri 2002.
2
Guidano VF. The self as a mediator of cognitive change in psychotherapy. In: Hartman LM, Blankstein KR, eds. Perception of
self in emotional disorders and psychotherapy. New York:
Plenum Press 1986.
3
Guidano VF. A system, process-oriented approach cognitive
therapy. In: Dobson KS, ed. Handbook of cognitive-behavioral
therapies. New York: Guilford 1986a.
4
Guidano VF. Il Sé nel suo divenire. Torino: Bollati Boringhieri
1992.
38
SIMPOSI TEMATICI
5
6
7
8
9
10
Guidano VF. La complessità del Sé. Torino: Bollati Boringhieri
1988.
Guidano VF. Lo sviluppo del Sé. In: Bara B, a cura di. Manuale
di psicologia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri 1996.
Nardi B. Processi psichici e psicopatologia nell’approccio cognitivo. Milano: Franco Angeli 2001.
Reda MA. Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia. Roma:
Carocci 2001.
Picardi A. First Steps in the Assessment of Cognitive-Emotional
Organisation within the Framework of Guidano’s Model of the
Self. Psychother Psychosom 2003;72:363-5.
Picardi A, Mannino G, Arciero G, Gaetano P, Pilleri MF, Arduini L, et al. Costruzione e validazione del QSP, uno strumento per
la valutazione dello stile di personalità secondo la teoria delle
“organizzazioni di significato personale”. Rivista di Psichiatria
2003;38:13-34.
Lo studio delle narrative personali nella
psicoterapia di pazienti depressi: un
progetto di ricerca nell’ottica cognitivo
costruttivista
S. Lenzi, B. Nardi
SBPC, Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, Università di Ancona
Introduzione: utilizzando la cornice teorica cognitivo costruttivista, che consente di evidenziare il particolare collegamento tra le narrazioni personali, i contesti interattivi in
cui tali narrazioni vengono prodotte e i processi cognitivi, ci
proponiamo di approfondire lo studio delle modalità narrative dei pazienti depressi e dell’influenza che il dialogo terapeutico ha su di esse ai fini del cambiamento.
Metodologia: verrà presentato un progetto di ricerca multicentrico che ha per oggetto i cambiamenti delle narrative
personali in pazienti depressi sottoposti a terapia cognitivocostruttivista e cognitivo-post-razionalista.
In particolare verranno esaminate le modalità di assessment
e di elicitazione delle narrative stesse, che implicano, oltre
allo studio di trascritti di seduta all’inizio e alla fine della terapia, la realizzazione di:
1) conversazioni guidate per la produzione di narrazioni in
particolari formati interattivi al fine sondare l’attivazione
selettiva dei diversi sistemi di memoria;
2) elaborati narrativi inerenti esperienze e vicende di vita,
redatti in condizioni standardizzate.
Verrà esposta la modalità di valutazione dei dati raccolti,
che riguarda oltre all’analisi di aspetti contenutistici e formali delle narrative, il rilevamento dei processi cognitivi
tramite equivalenti linguistici e delle modalità interattive
tramite l’analisi dei formati interattivi conversazionali.
Risultati: i risultati presentati sono preliminari. Verranno
descritti i principali criteri di classificazione dei dati e verranno offerte esemplificazioni dell’analisi di singoli casi.
Conclusioni: l’insieme dei dati presi in esame dall’analisi
cognitivo-conversazionale consente la valutazione integrata
di aspetti narrativi, conversazionali e dei processi cognitivi
soggiacenti. Tale insieme di dati consente di evidenziare e
valutare il processo terapeutico da una prospettiva teorica
complessa, in particolare attraverso la definizione dello stile
conversazionale, un costrutto che proponiamo come idoneo
a valutare il cambiamento terapeutico profondo. Il progetto
39
di ricerca descritto mira dunque ad individuare da un lato il
grado di cambiamento strutturale o profondo ottenuto nel
corso di una terapia cognitivo costruttivista, dall’altro ad individuare aspetti caratteristici dei singoli casi e dell’andamento delle singole terapie, potendoli collegare poi all’esito
delle terapie stesse. Gli strumenti e le modalità di valutazione proposte si prestano ad essere utilizzati, oltre che per scopi di ricerca, anche in contesti didattici e di supervisione.
Possibilità e limiti della ricerca in
psicoterapia nell’istituzione universitaria.
G. Cavaggioni
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, U.O.C. Psicoterapia, Università di Roma “La Sapienza”
L’istituzione universitaria dovrebbe essere per antonomasia
luogo di ricerca ed al contempo strumento favorente lo sviluppo e la realizzazione di questa. Sia per rispondere all’imperativo della didattica, inalienabile attività che permette il
ponte col futuro, sia, in relazione allo specifico medico, per
soddisfare la richiesta di cura del singolo e l’esigenza sociale e culturale di modalità d’intervento terapeutico sempre più
efficaci ed esaustivi. La medicina universitaria, inoltre, è costretta, vieppiù in questi ultimi anni, al confronto, per quanto necessario, con le esigenze di un’aziendalizzazione che
tende, almeno fino ad ora, prioritariamente al rispetto di parametri amministrativi. Diversamente, la ricerca, in senso lato, necessita di due strumenti: denaro (e per gli investimenti
attivi e per i costi passivi) e capacità di pensiero. Anche in
psichiatria, le risorse tendono ad essere elargite con minori
difficoltà a quelle impostazioni che favoriscono una riabilitazione del paziente, sufficiente e rapida, piuttosto che una
cura, in ambito psichiatrico, irrinunciabilmente trasformativa
ed evolutiva. I modelli più squisitamente organicisti, l’approccio farmacologico in prima istanza, restano quindi quelli che più facilmente trovano spazi materiali ed economici.
Questo, per quanto oramai siano dagli stessi storici promotori obbligatoriamente criticati come assolutamente non esaustivi. E la “ricerca” tende a mantenersi, com’è palese, fondamentalmente su tentativi di standardizzazione categoriali. Il
danno di questa incongruenza non si limita all’incentivazione materiale di realtà parziali, ma contribuisce ad impedire
un possibile sviluppo del pensiero che, in psichiatria, ha concorso in verità a paralizzare la ricerca e collocare questa
branca lontanissima dall’iperbole scientifica. È possibile invece ritenere che tali modelli siano validamente inerenti un
ambito neurologico, mentre la psichiatria non possa essere
altro se non psicoterapia. Ma allora, quale psicoterapia può
trovare un maggiore sviluppo nel contesto istituzionale universitario? Allo stato attuale, sembra sia necessario immaginare, quella che più si avvicina a risposte, appunto, più funzionali che trasformative. Diversamente, l’esperienza di clinico e di ricercatore, mi portano a ritenere che lo studio debba ripartire dalla rilettura di una fenomenologia antica, che
sia attenta, ma nuova. Attenta, nella misura in cui possa comportare il passaggio dall’elencazione dei fenomeni osservabili all’attribuzione di un senso; e nuova, nell’utilizzo di
un’ottica psicodinamica che trascende il manifesto e permette l’osservazione di realtà psicopatologiche altresì non percepibili, seppure significativamente gravi.
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN PAOLO
S12 - La violenza occulta in psichiatria, negazione
implicita o procedurale della libertà
MODERATORI
L. Ancona, L.S. Filippi
Introduzione
L. Ancona
Università Cattolica S.C., Psichiatria
La psichiatria è oggi chiamata ad interrogarsi se, e per quanto tempo, il suo modo di curare sia stato un’espressione di
violenza.
Mentre gli altri relatori focalizzano questo fatto soprattutto
secondo una prospettiva clinica (Petrini), legislativa (Leggeri), sociale (Pantaleo) e istituzionale (Barbaro), in questa
Introduzione si sottolinea il fatto che l’agire psichiatrico è
soggetto alla dinamica della violenza, soprattutto a livello di
inconsapevolezza.
L’inconscio è infatti presente in tutti gli aspetti della psichiatria, a cominciare dal motivo che induce un medico a diventare psichiatra: un motivo che pesca nel profondo della
sua dinamica personale, nelle sue realizzazioni positive ma
anche nei suoi conflitti e meccanismi di difesa. La scelta
può essere infatti costituita da pulsioni aggressive, arginate
da istanze rivolte al loro contenimento: ci si rivolge cioè a
contenere nei vari modi possibili le irruzioni psicotiche di
altri, come una risoluzione delle proprie paure e conflitti e
ciò senza alcuna presa di coscienza del dramma che si agisce.
Questa possibilità di violenza si concretizza nel fatto che la
mancata chiarificazione dei propri motivi profondi coincide
con una situazione di negazione di libertà: la propria e per
proiezione dei malati che lo psichiatra è chiamato a curare e
delle istituzioni che stabilisce intorno a lui.
L’applicazione dei metodi che sono stati proposti al fine del
chiarimento di questi processi ha grande importanza: essi
sono stati, in successione, la formazione psicoanalitica dello psichiatra, poi la metodica dello psico-dramma e dei piccoli gruppi analitici.
Una salienza di particolare efficacia riveste la frequentazione di Gruppi Balint analitici.
La violenza occulta nell’intervento
psichiatrico
P. Petrini
Dipartimento Salute mentale DSM ASL RM D e Docente di
Psichiatria, Università di Cassino
La violenza ai danni dell’individuo nel campo della psichiatria sembrerebbe originare dalla presa in carico con il TSO
(un intervento per il bene del paziente, ma sostanzialmente
contro di Lui) fino all’estrema ratio dell’elettroshock. Tali
interventi provocano giustamente, indignazione, angoscia e
repulsione nelle persone che non avevano mai pensato che
certe cose potessero accadere nella nostra società “premuro-
sa”, negli ospedali, tra dottori e pazienti, dove con tutti gli
altri operatori finiscono per prendersi cura di loro, dei malati di mente.
Ma dobbiamo ripensare tale violenza sotto un contesto sociale, nelle scelte logistiche della collocazione dei reparti psichiatrici, negli arredi, nello stesso inquadramento del paziente che finisce per essere un numero: “C’è una 180 in arrivo!”.
Nella esposizione cercheremo di inquadrare la violenza in
una nuova prospettiva, quella meno evidente, quella occulta, considerando i meccanismi di controllo, sorveglianza e
punizione esercitati dal potere ad altri livelli di pervasione,
di persuasione e di perversione, ai livelli che ogni giorno
tutti noi dobbiamo sopportare.
C’è più violenza nel “ricovero coatto” o nelle “porte aperte”
di un reparto? C’è più violenza nella “cura-contenzione” o
nella “negazione della patologia” o di un ricovero? Quanto
questa violenza occulta è prodotta dal singolo individuo
(operatore), dalla sua cultura, dalla sua storia, dalla sua stanchezza e quanto dalle “organizzazioni”, dai loro deficit, dai
loro fallimenti?
La soluzione è nella filosofia della cura, tracciata da una
legge attuale, ma che deve diventare patrimonio degli operatori.
Il resto possiamo sintetizzarlo in una frase: “la mente del
malato di mente si cura con la mente, con il cuore e con i
farmaci”.
La violenza implicita nella legislazione
psichiatrica di ieri
G. Leggeri
Dipartimento di Criminologia, Università di Roma “La Sapienza”
La legge del 14 febbraio 1904 (successive modifiche nel
1908, cui accennerò, che attenuavano solo in parte la caratteristica dominante nella legislazione di allora) rappresentava, rispetto al passato, un’importante variazione: il malato
di mente, l’alienato, non doveva soltanto essere rinchiuso e
isolato: la struttura doveva assumere le caratteristiche proprie di un ospedale e, il Manicomio (così era chiamato), oltre all’assistenza doveva prevedere, nei limiti allora conosciuti, anche il progetto di cura.
La nuova Legge (Legge 180) propugnava la chiusura dei
Manicomi, il malato mentale doveva essere considerato come gli altri malati, e modificava sostanzialmente la “visuale giuridica” del malato di mente, malato che, fino allora,
veniva considerato simile al soggetto che aveva commesso
un reato e per il suo “essere malato di mente”, la Società lo
rinchiudeva e lo isolava.
La violenza insita nella Legge del 1904, al di là del termine
“Manicomio” con cui veniva specificato il luogo di cura,
40
SIMPOSI TEMATICI
prevedeva un’altra colossale violenza nei confronti del malato e della famiglia. Trascorso il periodo di “osservazione
di gg 15 + gg 15”, veniva decretato l’internamento definitivo, fatto, questo, che veniva trascritto sul certificato penale
del soggetto.
Tale dato influiva sulla carriera lavorativa e sociale oltre che
del malato “guarito” anche su quella dei figli e dei nipoti.
Nella conferenza tenuta dal prof. Francesco Bonfiglio, in
occasione del XXIII Congresso della Società Italiana di Psichiatria, nell’ottobre 1946 venne proposta una riforma di
Legge che per anni fu ignorata o accantonata, malgrado i
medici specialisti ne avessero segnalato i difetti in essa contenuti.
Il malato mentale, per la citata violenza procedurale allora
sostenuta dalla Legge, era considerato alla stregua di un delinquente e, come il delinquente condannato all’ergastolo,
doveva restare per sempre legato alla struttura manicomiale
che lo conteneva. Se dimesso, legato per sempre alla sua
qualifica di “matto” scritta sul suo certificato penale.
Psicofarmaci e stigma
P. Fornaro
Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica,
Sezione di Psichiatria, Università di Genova
Con la scoperta da parte di Delay e Deniker, risalente al
1952, delle proprietà antipsicotiche incisive e tranquillizzanti della Clorpromazina si è aperta l’era della moderna
farmacoterapia psichiatrica. Da allora, con la continua disponibilità di agenti efficaci per il trattamento delle svariate
manifestazioni di patologia psichiatrica, è stato possibile
non solo curare la maggior parte dei pazienti in ambito extra-ospedaliero ed elaborare ed attuare nuovi modelli organizzativi dell’assistenza psichiatrica, ma anche di poter
“sondare” e studiare su basi scientifiche i correlati ed il substrato biologico dei disturbi psichici.
Il progressivo accumularsi delle conoscenze ed il continuo
crescere dell’esperienza circa le modalità di impiego più
corrette e il meccanismo dell’azione terapeutica degli “psicofarmaci” continuano ad avere importanti ricadute quanto
a sempre più precise definizioni degli ambiti nosograficonosologici dei vari disturbi il cui trattamento, se adeguatamente attuato, “liberando” il paziente dalla sua condizione
di sofferenza e dalle relative complicanze, contribuisce in
maniera considerevole a ridurre l’emarginazione del paziente psichiatrico a tutt’oggi oggetto di stigma.
Gli psicofarmaci comprendono un particolare significato
simbolico, ad essi per varie ragioni attribuito dal paziente,
dai familiari e dagli stessi medici 1, per il quale tali irrinunciabili moderni mezzi di cura possono contribuire, direttamente ed indirettamente, a favorire o, viceversa, a ostacolare il processo di stigmatizzazione a cui per varie ragioni facilmente va incontro il paziente psichiatrico.
Nel presente contributo saranno considerati da un lato i
principali aspetti del vissuto del farmaco e, dall’altro, gli effetti negativi che la “malpractice” psichiatrica determina
sulle condizioni (cliniche, psicologiche e sociali) del pa-
41
ziente psichiatrico con l’obiettivo di sottolineare la “ovvia”
importanza di condotte psicofarmacoterapeutiche razionali,
sicure ed efficaci per le quali risulta essenziale, tra l’altro,
un’attenta e costante analisi degli aspetti psicologici e dell’atmosfera relazionale nel cui ambito viene agita la prassi
clinica quotidiana.
Bibliografia
1
Fornaro P, Ducatel-Gesi E, Catteau J. Psychotropes: mythe et
idées prèconçues. L’Information Psychiatrique 2001;77:284-90.
Cura senza diagnosi
C.M. Barbaro
Il Cerchio Scuola Romana Balint Analitica COIRAG, Psicologa Psicoterapeuta Gruppoanalista
Questo intervento si propone di contribuire alla già avviata
riflessione su quello che ne resta della legge 180 e quale futuro si prospetta. Molte perplessità si presentano sui protocolli di intervento nei confronti dei pazienti.
Non bisogna dimenticare che la legge 180 è scaturita dalle
lotte, dalle continue e serrate riflessioni e dalla presa di coscienza degli operatori impegnati nell’istituzione manicomiale. La necessità di dimostrare che si può assistere la persona folle in un altro modo ha spinto tutti a inventare e progettare strutture territoriali. Umanizzare e socializzare la
follia si contrapponeva con l’idea stessa di internamento
istituzionale cioè la custodia in nome della tutela, la riduzione della libertà in nome della liberazione dalla malattia.
Questa era la forza di quella istituzione non rispettosa della
persona, già puro esercizio ideologico di violenza. Istituzione violenta che gli operatori psichiatrici e Basaglia in testa
sentivano la necessità di smantellare. Il mio non è un pensiero nostalgico, ma la necessità di confronto con i colleghi
che esercitano nelle istituzioni, capire se l’istituzione è violenta in sé proprio perché ha la funzione di contenimento sia
del paziente che del potere politico della psichiatria. Capire
se gli stessi servizi da noi progettati e desiderati siano diventati in realtà servizi dove il paziente è accolto nella sua
sofferenza e accompagnato a formulare la sua richiesta
d’aiuto; o sevizi territoriali svuotati e burocratizzati, dove
regna la sordità che rende impossibile la comunicazione,
impedendo il famigerato intervento di rete. Basaglia ha temuto che la riforma potesse essere l’inizio della fine della
trasformazione, come scrisse nella prefazione al Giardino
dei Gelsi, proprio nel momento in cui si poteva cominciare
ad affrontare i problemi in modo diverso. Ho riscontrato
molte difficoltà nel fare un’indagine sui protocolli d’intervento del servizio pubblico, capire quali motivazioni o logiche d’intervento vengono scelte in rapporto alla patologia
del paziente. L’istituzione ha il dovere di riavviare il motore del dialogo, della collaborazione e della riflessione per
non essere teatro di cura parziale e a volte senza diagnosi.
Creare un pensiero nuovo, curare l’istituzione con la metodica del GRUPPO ALLARGATO ristabilire il concetto di
rete con dinamiche degne dell’esperienza accompagnata dagli strumenti formativi.
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 1
S13 - Disturbi Bipolari e Disturbi Depressivi:
continuità o discontinuità?
MODERATORI
F. Benazzi, M. Biondi
Introduction
F. Benazzi
University of California, San Diego and Hecker Psychiatry
Research Center, Forlì
Background: recent studies have questioned DSM-IV-TR
and ICD-10 categorical split of mood disorders into Bipolar
disorders and Depressive disorders.
Findings supporting a continuity/spectrum between Bipolar disorders and Depressive disorders: a continuity/spectrum between Bipolar disorders (mainly bipolar II disorder—
BP-II) and major depressive disorder (MDD) could be supported by the following findings: 1) mixed depression (depressive mixed states, the combination of depression and
manic/hypomanic symptoms), as co-occurring opposite polarity symptoms do not support the splitting between mania/hypomania and depression; 2) MDD is the most common
mood disorder in the relatives of bipolar probands; 3) no bimodality in the distribution of distinguishing symptoms between BP-II and MDD depression; 4) bipolar features present
in MDD; 5) a high proportion of MDD shifting to bipolar disorders in the long-run; 6) lifetime manic/hypomanic symptoms in MDD; 7) correlation between lifetime and current
manic/hypomanic symptoms and MDD depressive symptoms; 8) dimensions of hypomania present in MDD depression; 9) course of MDD often recurrent.
Findings supporting a categorical distinction between
Bipolar disorders and Depressive disorders: by mainly
comparing bipolar I disorder (BP-I) and MDD (the extremes
of the mood spectrum), several differences were found on diagnostic validators: 1) family history: Bipolar disorders more
common in relatives of bipolar probands compared to MDD
probands, and MDD more common in relatives of MDD
probands vs. bipolar probands; 2) age at onset: lower age at
onset in Bipolar disorders vs. Depressive disorders; 3) gender
differences: females as common as males in BP-I, females
more common than males in MDD; 4) treatment response:
long-term antidepressants preventing recurrences in MDD,
and negatively impacting the course of Bipolar disorders; 5)
clinical picture of depression: BP-I depression more likely to
have atypical symptoms (e.g., hypersomnia) and psychomotor retardation, MDD depression more likely to have insomnia and psychomotor agitation; 6) course of illness: more recurrences in Bipolar disorders vs. MDD.
Summary: by focusing on the extremes of the mood spectrum (i.e., BP-I vs. MDD), a categorical distinction could be
supported by differences on diagnostic validators. By focusing on disorders which are in the middle between BP-I and
MDD, such as BP-II and subtypes of MDD plus bipolar features, a continuity/spectrum of mood disorders could be
supported. Which one of these approaches is the best has yet
to be shown. However, the evidence reviewed, especially
that on mixed depression, seems to be moving the pendulum
toward a continuity approach. Much research is needed in
the area, also because of its possible important treatment impact.
The gradient of bipolarity between DSM-IV
bipolar-II and major depressive disorder
J. Angst, F. Benazzi*, A. Gamma, V. Ajdacic, D. Eich,
W. Rössler
Zurich University, Psychiatric Hospital, Zurich; * University of California, San Diego and Hecker Psychiatry Research
Center, Forlì
Background: there is growing international consensus that
major depressive disorder is over-diagnosed and bipolar disorder under-diagnosed. In addition there is evidence for two
continua: a) continuum of severity of depression or mania
from psychotic to normal mood changes, b) continuum of
bipolarity from bipolar-I via bipolar-II to major depressive
disorder (MDD).
Method: in the Zurich cohort study of a longitudinal sample of young adults, investigated from age 20/21 to 40/41
we defined four sub-groups of bipolar-II disorders by successively broadening the criteria: 1) DSM-IV bipolar-II disorder; 2) DSM BP-II without restriction of the duration; 3)
strict Zurich criteria (increased activity plus 3 of 7 symptoms of hypomania, plus personal or social consequences);
4) broad Zurich criteria (increased activity plus 2 of 7 symptoms). Temperament was assessed by the General Behavior
Inventory (GBI) of Depue et al. 1.
Results: there was a gradient of hypomania between DSMIV BP-II via the tentatively broader definitions of BP-II to
MDD in terms of a family history of mania, presence of
manic symptoms across 22 years and temperamental traits.
Alcohol use disorders were systematically associated with
the bipolar gradient and about twice as common among BPII than MDD disorder (MDD did not differ significantly
from controls).
Conclusion: there is a continuum of bipolarity between
DSM-IV bipolar-II disorder and MDD. We propose the introduction of a clinically validated diagnostic specifier of
bipolarity in order to reduce the common under-diagnosis of
BP-II disorder. This diagnostic classification can also help
to clarify the association of alcohol use disorders with mood
disorders and might help to prevent alcohol use disorders.
Reference
1
Depue RA, Slater JF, et al. A behavioral paradigm for identifying persons at risk for bipolar depressive disorder: A conceptual framework and five validation studies. J Abnorm Psychol
1981;90:381-437.
42
SIMPOSI TEMATICI
Bipolar II Disorder: the link between Bipolar
I Disorder and Major Depressive Disorder?
Z. Rihmer
National Institute for Psychiatry and Neurology, Budapest
The separation of unipolar depression from bipolar (manicdepressive) disorder has been well accepted for decades,
and the subdivision of bipolar disorder further into Bipolar
I (depression with a history of mania) and Bipolar II (depression with a history of hypomania but not with mania)
subgroups has been also supported by several clinical and
biological findings. Given the three different levels of mood
and acitivty state in Bipolar II disorder, phenomenologically it is more close to Bipolar I disorder than to Unipolar depression. In spite of this, family studies and clinical investigations (including treatment-response studies) have demonstrated a significant overlap between Bipolar II disorder and
Unipolar major depression.
Investigating the external bipolar validators (family history
of bipolar disorder, age of onset, depressive mixed states,
DSM-IV atypical features and treatment-associated hypomania) in Unipolar major depression, the findings strongly
suggest that a subset (around one-third) of Unipolar major
depressives is more close to Bipolar II disorder than to
Unipolar depression, indicating that they belong to the bipolar spectrum. Bipolar II disorder should be considered as a
bridge between Bipolar I disorder and Unipolar Major Depressive Disorder.
References
1
Akiskal HS, Benazzi F. J Affect Disord 2003;73:113-22.
2
Benazzi F. World J Biol Psych 2003;4:166-71.
3
Rihmer Z, Pestality P. Psych Clin N Am 1999;22:667-73.
Similarities and differences between
bipolar and depressive disorders
E. Vieta
Bipolar Disorders Program, Hospital Clinic, University of
Barcelona, IDIBAPS, Barcelona
The distinction between unipolar and bipolar forms was first
described by Leonhard (1957) and subsequently validated
by Angst (1966), Perris (1966) and Winokur et al. (1969),
who showed that clinical, familial and course features supported the nosological differentiation between unipolar and
bipolar disorders (Angst and Marneros, 2001). However,
there are many areas of overlap between those extremes,
pointing up the question of possible clinical subtypes in the
interface of depressive and manic extremes of affective illness (Akiskal, 2002; Benazzi, 2005).
Bipolar disorder occurs in multiple forms and degrees of
severity. The recognition of the existence of so-called
milder forms of manic-depressive illness has been a major
endeavour in the last decade. The distinctions hinge on the
classification of elated states and this poses some difficulty
because it depends on the arbitrary gradation of severity
and duration. Bipolar disorder with mania and strict unipolar depression without manic or hypomanic episodes would
represent the extremes of a spectrum (Akiskal, 1983); re43
current depressions with hypomania would occupy a middle territory (Akiskal, 2002). The exploration of spectrum
models of manic depressive illness would enhance research
on genetic markers and modes of genetic transmission,
would provide an approach for identifying individuals at
risk for the development of bipolar illness, and would permit the evaluation of treatments for milder forms, including
the question of whether early intervention could lessen the
chance of progression to bipolar illness (Vieta et al., 2005).
In fact, a great number of individuals with the so-called soft
or subsyndromal states belong to the bipolar spectrum by
virtue of their positive family histories, their pharmacological response and their tendency to progress to full clinical
disorder. All these issues will be discussed in the presentation.
Mixed states: a link between bipolar and
unipolar disorders?
A. Koukopoulos
Centro “Lucio Bini”, Roma
In Kraepelin’s conception mixed states consisted of a mixture of depressive and excited symptoms i.e they were bipolar syndroms as we would say today.
With our present nosology a problem arises about the position of agitated or mixed depressions and its meaning for the
unipolar-bipolar distinction of depressive syndromes.
In a sample of 212 patients suffering from agitated depression (152 women, 60 men) 56 (27%) were BPI, 66 (31%)
were BPII, 22 (10%) sufferd only from mixed depressio but
68 (32%) of them were unipolar depressive patients i.e they
never had manic/hypomanic episodes before.
In 64 (30%) patients the agitated depression was followed
by a simple inhibited depression without mixed symptoms.
37 (30%) were bipolar patients and 22 (32%) were unipolar depressives. This type of sequence is similar to the
manic-depressive cycle. The identical proportion of bipolar and unipolar depressive patients that follow this evolution gives further support to the thesis that agitated depression is a mixed state and it can occur in unipolar depressive patients.
La continuità tra Disturbo Bipolare
e Depressione Ricorrente: implicazioni
terapeutiche
G. Perugi
Dipartimento di Psichiatria, Università di Pisa, Istituto di
Scienze del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
Introduzione: negli ultimi anni a seguito di una definizione
nuova e più ampia di spettro bipolare si è andata delineando
una continuità sintomatologica tra forme bipolari e depressive ricorrenti. In questa sede ci si propone di valutare le
possibili implicazioni terapeutiche di tale continuità.
Metodologia: ricerca della letteratura su PubMed con parole chiave spettro bipolare, continuità unipolare-bipolare e ricerca manuale di capitoli di libri ed articoli su riviste non indicizzate.
SIMPOSI TEMATICI
Risultati: oltre al Disturbo Bipolare I classico, caratterizzato da episodi maniacali o misti con o senza Depressione
Maggiore; rientrano in questo ambito nosografico le forme
psicotiche, includendo le varianti schizoaffettive. Il Disturbo Bipolare II, caratterizzato da Depressione Maggiore ricorrente associata a ipomania spontanea rappresenta il fenotipo più comune di Disturbo Bipolare. Una variante del Disturbo Bipolare II è la “depressione ciclotimica”, caratterizzata da depressioni maggiori (più spesso con caratteristiche
atipiche) insorte su una base temperamentale ciclotimica.
La maggior parte degli Autori è, inoltre, concorde nel ricondurre nell’ambito dello spettro bipolare le caratterizzate da
depressione associata ad ipomania indotta da antidepressivi.
In alcuni casi, specialmente se la ricorrenza degli episodi di
malattia è elevata ed i periodi interepisodici non sono liberi
da manifestazioni affettive, possono essere soddisfatti i criteri per i disturbi di personalità del cluster affettivo (borderline, narcisistico, istrionico). Questo è particolarmente vero
per il Disturbo Bipolare II insorto su una base ciclotimica;
in queste condizioni, spesso, viene posta la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Esistono poi forme depressive ricorrenti nelle quali l’ipomaniacalità si esprime attraverso sintomi come irritabilità, agitazione ed accelerazione
ideica presenti durante gli episodi di depressione. L’esistenza di una continuità tra forme bipolari e unipolari ha rilevanti implicazioni sul piano delle scelte terapeutiche e della
valutazione della risposta. L’impiego di stabilizzanti dell’umore non deve basarsi esclusivamente sulla presenza di una
storia di fasi espansive ma anche su altre caratteristiche cliniche come la presenza di stati misti attenuati e ricorrenza
elevata. Inoltre nella valutazione della risposta agli antidepressivi è importante fare attenzione alla comparsa di fenomeni eccitativi indipendentemente dalla presenza di viraggi
verso fasi contropolari.
Conclusioni: l’esistenza di una continuità sintomatologica e
clinica tra forme bipolari ed unipolari spinge ad una riconsiderazione delle scelte terapeutiche e della valutazione dell’outcome della depressione.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 2
S14 - La scelta del farmaco: linee guida o casualità?
MODERATORI
F. Bogetto, S. Fassino
La scelta della farmacoterapia nei Disturbi
del Comportamento Alimentare: contributi
personali
S. Fassino, G. Abbate-Daga, F. Amianto
Dipartimento di Neuroscienze, Centro Pilota Regionale per
i Disturbi del Comportamento Alimentare, Università di Torino
Scopo del lavoro: la difficoltà ad individuare una efficace
terapia farmacologica dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) è un argomento molto dibattuto. Inoltre i
farmaci sono generalmente utilizzati unitamente alla psicoterapia. Il presente contributo ha lo scopo di effettuare una
revisione della letteratura sull’argomento e di presentare alcuni recenti contributi sperimentali sulla psicofarmacoterapia dei DCA.
Metodologia: vengono prese in considerazione due review
aggiornate della letteratura sull’argomento, una riguardante
la farmacoterapia in tutti i DCA e l’altra gli aspetti clinici e
neuroendocrini della farmacoterapia della anoressia nervosa. Sono inoltre presentati i risultati di quattro studi farmacologici: due riguardanti l’applicazione della reboxetina e il
confronto di efficacia tra la fluoxetina e il citalopram nella
bulimia nervosa, due riguardanti l’applicazione del citalopram e della olanzapina nell’anoressia nervosa.
Risultati: la fluoxetina è stata per molto tempo il golden
standard se non l’unica opzione nel trattamento dei DCA, in
particolare per la sua efficacia nella riduzione delle abbuffate nella bulimia nervosa ed è tuttora l’unico farmaco di cui
si riconosce un effetto a lungo termine sulle ricadute bulimiche. Tra i farmaci di vecchia generazione sperimentati nei
DCA pochi hanno una chiara efficacia. Tra i nuovi farmaci
impiegati la reboxetina ha evidenziato una riduzione della
psicopatologia alimentare (bulimia, impulso alla magrezza,
insoddisfazione corporea ecc.), depressiva ed un miglioramento del funzionamento globale. Il citalopram avrebbe una
azione più efficace della Fluoxetina nel miglioramento del
tono timico e nella riduzione di aspetti correlati all’isolamento sociale ma non nella riduzione delle abbuffate nelle
pazienti bulimiche. Tra i farmaci applicati nella anoressia
nervosa il citalopram ha ottenuto buoni risultati nella riduzione dei sentimenti depressivi, dei sintomi ossessivo-compulsivi, dell’impulsività e della rabbia di tratto. Nella anoressia nervosa buoni risultati sono stati ottenuti anche con la
somministrazione di olanzapina. In particolare è stato dimostrato che l’associazione di olanzapina e CBT permette di
ottenere un miglioramento psicopatologico maggiore rispetto alla sola CBT nelle pazienti affette da questo disturbo.
Conclusioni: questi risultati supportano non soltanto l’utilità dell’impiego di alcuni trattamenti farmacologici nei
DCA ma anche la possibilità di razionalizzarne la scelta in
base al quadro psicopatologico e allo stile alimentare.
La scelta del farmaco nella Schizofrenia
P. Rocca, A. Monero, R. Rasetti
Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Torino
Introduzione: la Schizofrenia è una malattia cronica che influenza tutti gli aspetti della vita del paziente, per cui la strategia di trattamento prevede tre punti fondamentali: 1) ri44
SIMPOSI TEMATICI
durre o eliminare i sintomi, 2) massimizzare la qualità di vita o le capacità di adattamento, 3) promuovere e mantenere
il “recovery” dagli effetti debilitanti del disturbo il più lungo possibile. Il trattamento farmacologico è l’intervento
principale, ma bisogna ricordare che molti pazienti richiedono e dovrebbero ricevere interventi differenti, sovente da
figure professionali diverse. Un’accurata anamnesi del trattamento passato e corrente e la risposta alla terapia sono elementi fondamentali da indagare per la scelta della pianificazione dell’intervento terapeutico. L’intervento deve essere
indirizzato alle specifiche fasi di malattia che il paziente si
trova ad affrontare: la fase acuta, quella di stabilizzazione e
la fase stabile. Nella fase acuta bisogna porre particolare attenzione alle potenziali cause che l’hanno determinata: scarsa compliance alla terapia, abuso di sostanze ed eventi di vita stressanti. Nella scelta del trattamento bisogna anche tenere presente l’eventuale ideazione suicidaria, la componente di agitazione psicomotoria, e le condizioni mediche
generali del soggetto. La scelta del trattamento è sovente
guidata dalla precedente esperienza del paziente con l’uso di
antipsicotici, quindi il grado di risposta al trattamento, gli
effetti collaterali e la modalità di somministrazione preferita. La dose raccomandata dipende dal delicato equilibrio tra
rischi e benefici, quindi dall’efficacia sulla sintomatologia
clinica e la comparsa di effetti collaterali. La scelta del tipo
di farmaco dipende dalla presentazione del quadro clinico e
dalla storia pregressa degli effetti collaterali. Le attuali linee
guida dell’APA consigliano di iniziare con un antipsicotico
atipico, anche se specificano che per un paziente che ha risposto in precedenza o che preferisce i neurolettici, questi
farmaci possono essere la prima scelta. Per i soggetti con
frequenti riacutizzazioni dovute a scarsa compliance sono
preferibili le formulazioni long-acting. Un minore numero
di studi sono stati condotti nella fase di stabilizzazione, ma
il trattamento dovrebbe essere mantenuto alla stessa dose,
ponendo particolare attenzione agli effetti collaterali, che se
presenti potrebbero compromettere l’adesione al percorso
terapeutico. Nella fase stabile il principale obiettivo è la prevenzione delle ricadute e la riduzione dei sintomi residuali.
Gli antipsicotici riducono il rischio di ricadute a meno del
30% per anno. È difficile stabilire quale sia la minima dose
efficace; dosi più elevate sembrano essere più efficaci sulla
prevenzione delle ricadute, ma non nel caso di utilizzo di
antipsicotici di prima generazione in quanto aumenta il rischio di insorgenza di effetti collaterali di tipo extrapiramidale non tollerati dai pazienti. Gli antipsicotici di seconda
generazione hanno una maggiore maneggevolezza e la maggioranza degli studi sul rischio di ricadute sembrano favorirli rispetto ai neurolettici.
Non sono ancora disponibili evidenze a favore della scelta
di un antipsicotico rispetto ad un altro nel trattamento di
specifici quadri clinici, caratterizzati dal prevalere di una
determinata dimensione psicopatologica. Forse, in questi
casi, la scelta del farmaco è dettata dalle esperienze precedenti del medico che, comunque, deve tenere sempre in considerazione la storia clinica del paziente, cioè il grado di risposta ad un precedente trattamento, il profilo di tollerabilità e la preferenza per un particolare farmaco, compresa la
via di somministrazione. Il fattore determinante nella scelta
del farmaco è l’efficacia, seguito dall’esito a lungo-termine.
Nel trattamento della Schizofrenia, questo significa efficacia sulle quattro dimensioni, positiva, negativa, affettiva e
45
cognitiva. Ci sono evidenze cliniche che i nuovi antipsicotici possano ridurre la sintomatologia negativa e migliorare il
deficit cognitivo. Tuttavia, gli effetti collaterali, quali i sintomi extrapiramidali, il rischio di diabete e la sedazione,
rappresentano un punto critico in quanto possono assumere
un’importanza superiore all’efficacia clinica e causare una
scarsa compliance. L’ipotesi di lavoro che ci siamo proposti
è di valutare, in un campione di soggetti affetti da Schizofrenia in fase stabile, le eventuali differenze nella sintomatologia (depressiva e distorsione della realtà) e nelle alterate funzioni sociali ed emotive, in base al trattamento farmacologico in atto, neurolettici o antipsicotici atipici. I risultati permetteranno di chiarire quali dimensioni sintomatologiche beneficiano maggiormente dell’utilizzo dei nuovi antipsicotici, in modo da ottimizzare l’utilizzo del trattamento
farmacologico, adattandolo ai singoli casi.
Bibliografia
1
Davis JM, Chen N, Glick ID. A meta-analysis of the efficacy of
second-generation antipsychotics. Arch Gen Psychiatry
2003;60:553-64.
2
Lieberman JA, Stroup TS, McEvoy JP, Swartz MS, Rosenheck
RA, Perkins DO, et al.; Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness (CATIE) Investigators. Effectiveness of
antipsychotic drugs in patients with chronic schizophrenia. N
Engl J Med 2005;353:1209-23.
3
Lublin H, Eberhard J, Levander S. Current therapy issues and
unmet clinical needs in the treatment of schizophrenia: a review
of the new generation antipsychotics. Int Clin Psychopharmacol
2005;20:183-98.
La scelta dello stabilizzatore nei Disturbi
Bipolari
G. Maina, U. Albert, G. Rosso, F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
La classificazione dei disturbi dell’umore fondata sulla dicotomia unipolare/bipolare è senza dubbio la più fruibile sul
piano terapeutico. Negli ultimi anni, si è andato sempre più
distinguendo il trattamento dei disturbi bipolari da quello
dei disturbi depressivi, mentre ha perso progressivamente di
importanza l’approccio terapeutico basato sull’episodio psicopatologico in corso.
Lo stabilizzatore dell’umore costituisce il cardine sia della
terapia delle fasi acute che della terapia di mantenimento nel
Disturbo Bipolare, mentre l’impiego di antidepressivi ed antipsicotici in pazienti bipolari deve essere limitato alle fasi
acute e solo nei casi in cui è strettamente indispensabile:
questo per ridurre il rischio di indurre switch (ipo)maniacali o depressivi con la conseguenza di accelerare la ciclicità
del disturbo e peggiorarne la prognosi. Sono considerati stabilizzatori dell’umore farmaci che: 1) determinano la risoluzione di un episodio di alterazione patologica del tono dell’umore; 2) non inducono un episodio di polarità opposta; 3)
hanno efficacia profilattica su ulteriori episodi affettivi.
A tutt’oggi lo stabilizzatore dell’umore di prima scelta è il
litio, che ha dimostrato un’efficacia di trattamento e prevenzione delle ricorrenze sia di tipo maniacale che depressivo.
Altri farmaci, tra cui alcuni anticonvulsivanti e l’olanzapina,
hanno dimostrato un’efficacia superiore al placebo e para-
SIMPOSI TEMATICI
gonabile al litio nel trattamento a breve e lungo termine del
Disturbo Bipolare. Tra i più studiati, la lamotrigina ha di recente ottenuto l’indicazione per il trattamento della depressione bipolare e per la prevenzione delle ricorrenze depressive, mentre l’olanzapina si è dimostrata superiore al litio
nel trattamento e nella prevenzione delle ricorrenze maniacali. La scelta dello stabilizzatore non può quindi prescindere dalla polarità dell’episodio in corso e da una accurata
ricostruzione della storia clinica del paziente. Inoltre, nel caso del Disturbo Bipolare, indipendentemente dalla terapia
impostata, un aspetto fondamentale resta quello dell’aderenza al trattamento da parte del paziente. Avere quindi a disposizione diversi farmaci efficaci e ben tollerabili, oltre che
un buon rapporto medico-paziente, è indispensabile per favorire una migliore compliance al trattamento psicofarmacologico.
che un elemento dei programmi di miglioramento continuo
della qualità del servizio e del suo orientamento alla soddisfazione dell’utenza.
Bibliografia
1
Allen MH, Currier GW, Hughes DH, et al. The Expert Consensus Guideline Series: Treatment of behavioral emergencies.
Postgrad Med 2001;May(Spec No):1-88.
2
Lieberman JA, Stroup TS, McEvoy JP, et al. Effectiveness of Antipsychotic Drugs in Patients with Chronic Schizophrenia. N
Eng J Med 2005;353:1209-23.
3
Ito H, Koyama A, Higuchi T. Polypharmacy and excessive dosing: psychiatrists’ perceptions of antipsychotic drug prescription. Br J Psychiatry 2005;187:243-7.
La scelta del farmaco nel Disturbo
Borderline di Personalità
La scelta dell’antipsicotico nell’emergenza
S. Bellino
V. Villari
Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino
SCDO Psichiatria 2, ASO “S. Giovanni Battista” di Torino,
DSM TO I Sud
Gli interventi dello psichiatra in situazioni di emergenza-urgenza sono caratterizzati dalla necessità di prendere decisioni rapide ed efficaci in presenza di una situazione clinica
che evolve velocemente e che può comportare alti rischi per
il paziente e per tutti i presenti. Spesso in queste condizioni
le scelte sono influenzate dallo stress e dal forte stato di tensione e di allarme del contesto. Particolarmente delicato è il
compito di conciliare le necessità cliniche e l’opinione del
paziente, attuando gli interventi che consentano la migliore
riduzione dei rischi senza essere troppo afflittivi per il soggetto, garantendo il più possibile la sua libertà di scelta ed il
rispetto della sua libertà individuale.
Si può ipotizzare che vi siano tre elementi che orientano la
scelta del clinico: 1) lo stato dell’arte e l’insieme delle conoscenze scientifiche (evidenze della letteratura, linee guida
1
, algoritmi terapeutici, ecc.); 2) l’inerzia prescrittiva determinata dalle abitudini dei singoli e dalle consuetudini dei
gruppi e delle istituzioni; 3) il parere dei pazienti, la sua
contrattualità, l’accettazione delle cure ed il consenso informato.
È verosimile che quest’ultimo elemento sia sovente il più
fragile ed il meno studiato, infatti su tale tema in letteratura
vi sono pochi lavori e non molto recenti. D’altra parte la
motivazione dei pazienti e la loro collaborazione alle cure è
un elemento determinante per il decorso del disturbo e per
la riduzione delle recidive. Lieberman et al. 2 hanno dimostrato che il 74% dei pazienti schizofrenici inseriti in uno
studio di effectiveness degli antipsicotici hanno interrotto la
terapia entro il 18° mese.
Vi sono evidenze che anche le indicazioni derivate dalla letteratura e dalle linee guida siano poco seguite con prevalenza di abitudini prescrittive poco razionali 3.
Per tali motivi appare importante l’attuazione di programmi
orientati a modulare le terapie farmacologiche prescritte in
situazioni di emergenza-urgenza sulla base di decisioni razionali ed aggiornate, valorizzando il più possibile il parere
dei pazienti. Ciò, oltre a migliorare l’aderenza al trattamento, il decorso e l’esito dei disturbi psicotici, rappresenta an-
La terapia dei disturbi di personalità si basa tradizionalmente su interventi psicoterapici, in particolare su psicoterapie
ad indirizzo psicodinamico, che sembrano le più adatte per
promuovere un rimodellamento complessivo della struttura
della personalità.
Per quanto riguarda il Disturbo Borderline di Personalità
(DBP), le linee guida indicano che la psicoterapia deve essere considerata la terapia d’elezione per incidere sul nucleo
psicopatologico del disturbo. Gli Autori (Livesley, 2000;
Stone, 2000) prendono in considerazione diversi modelli di
psicoterapia (psicodinamica, cognitivo-comportamentale,
interpersonale, supportiva) e propongono un approccio che
combina concetti e tecniche di diversa provenienza teorica,
adattando la psicoterapia al singolo paziente e alle manifestazioni multiformi che caratterizzano l’espressione del
DBP.
Le linee guida dell’APA (2001, 2005) prendono in esame,
nel trattamento del disturbo borderline, anche l’applicazione di terapie farmacologiche mirate sui sintomi che caratterizzano questo Disturbo di Personalità e che spesso sono anche riconducibili alle frequenti comorbilità di Asse I. Sono
stati elaborati tre algoritmi mirati al trattamento di tre dimensioni sintomatologiche fondamentali: la sregolazione
dell’affettività, il discontrollo impulsivo-comportamentale, i
sintomi cognitivo-percettivi.
Per quanto riguarda le prime due dimensioni, le linee guida considerano come farmaci di prima scelta gli SSRI, ma
attribuiscono un ruolo anche agli stabilizzatori dell’umore
e agli antipsicotici, che possono essere considerati come
farmaci di seconda scelta da impiegare da soli o da associare agli SSRI Per quel che riguarda i sintomi cognitivopercettivi, l’indicazione è quella di impiegare antipsicotici tradizionali o di seconda generazione. Tuttavia, tali indicazioni sono ancora limitatamente supportate dalla letteratura e si basano spesso più sull’esperienza clinica e su
case report, piuttosto che su studi controllati. Questo comporta delle incertezze per la scelta del singolo agente farmacologico e soprattutto per definire dosi e durata del trattamento.
Negli ultimi anni sono comunque proseguite le ricerche vol46
SIMPOSI TEMATICI
te a confermare le indicazioni riguardanti farmaci da tempo
impiegati nei pazienti borderline e ad esplorare efficacia e
tollerabilità di nuovi agenti psicotropi, in particolare nuovi
stabilizzatori e antipsicotici atipici. Si tratta in molti casi di
piccole casistiche in aperto e solo per alcuni farmaci
(fluoxetina, fluvoxamina, acido valproico, olanzapina) sono
disponibili trial controllati in doppio cieco. Tuttavia, queste
indagini hanno fornito un supporto significativo alla pratica
clinica e hanno permesso di estendere le possibilità di scelta a farmaci recenti con nuovi meccanismi d’azione e migliore profilo di tollerabilità.
Presso la Struttura Complessa di Psichiatria dell’Università di
Torino, ci siamo occupati di valutare in studi pilota in aperto
efficacia e tollerabilità nel DBP di un nuovo stabilizzatore
dell’umore, l’oxcarbazepina, e di un recente farmaco antipsicotico con spiccata attività serotoninergica, la quetiapina.
I risultati ottenuti nei due studi e soprattutto i diversi profili
di azione terapeutica osservati per i due farmaci sono descritti e confrontati con i dati disponibili in letteratura. Vengono inoltre prospettati ulteriori sviluppi della ricerca, fra
cui la realizzazione di studi di follow-up per valutare la stabilità degli effetti terapeutici.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 3
S15 - La riabilitazione psichiatrica:
dal problem-solving alla remediation
MODERATORI
R. Roncone, I.R.F. Falloon
Correlati neuropsicologici delle abilità
di problem-solving
Problem Solving Training: uno studio
controllato
M. Mazza, R. Roncone, M. Casacchia
I.R.H. Falloon, P. Morosini, M. Casacchia, R. Roncone
e il gruppo PSTdoc
Clinica Psichiatrica, Università de L’Aquila
Università de L’Aquila
Le persone affette da Schizofrenia presentano gravi e persistenti deficit delle funzioni cognitive (Green, 1998) e deficit delle funzioni esecutive, maggiormente implicate nella
formazione dei concetti, della flessibilità cognitiva, della
working memory e nel problem-solving (Medalia, 2001). Le
abilità di problem-solving (PS) coinvolgono, in particolare,
la capacità di programmare ed eseguire un’azione complessa e la capacità di produrre strategie efficaci per la risoluzione di problemi.
Tali abilità nei soggetti con Schizofrenia non sembrano,
tuttavia, migliorare dopo il trattamento farmacologico dei
sintomi psicotici che sembra, inoltre, a volte interferire negativamente con gli interventi riabilitativi di provata efficacia.
Nel corso degli anni sono stati compiuti numerosi sforzi mirati al fine di migliorare il deficit di PS, attraverso interventi di “remediation cognitiva”, che non sembrano aver assicurato un recupero adeguato di tale abilità (Stratta, 1997) a
causa dei limiti sia nell’utilizzo delle strategie cognitive
proposte, sia nei compiti utilizzati per la misura di questa
abilità di PS (Wisconsin Card Sorting Test).
Recentemente è stato dimostrato dal nostro gruppo di ricerca che le strategie di PS, incentrate sul raggiungimento di
obiettivi di vita personali (Falloon, 1993), sono considerate
evidence-based (Cicerone, 2005) e producono un sostanziale miglioramento sia nella vita quotidiana del paziente che
sulle funzioni neurocognitive (Roncone et al., 2002). Nel
presente lavoro verranno discussi i risultati delle più recenti ricerche sull’efficacia dell’utilizzo di strategie di PS e la
loro ricaduta sui deficit neurocognitivi rilevabili nei principali disturbi psichiatrici.
47
Il Problem solving strutturato rappresenta una strategia di
base di molti interventi cognitivo-comportamentali nei disturbi depressivi, schizofrenici, bipolari, nell’ansia generalizzata, nei disturbi alimentari, applicati nella gestione dello
stress, nel social skills training e nei trattamenti di
coppia/familiari. Recentemente molti studi hanno correlato
la compromissione delle capacità neurocognitive alla ripresa dai disturbi mentali, in particolare nelle psicosi. Quattro
studi di Problem Solving Training, PST, in Italia hanno evidenziato una riduzione nei sintomi e una remediation cognitiva. Scopo del nostro lavoro è quello di verificare il ruolo
specifico di PST con uno studio controllato che è stato appena avviato.
Metodologia: Barbieri, Boggian, Lamonaca 1 hanno sviluppato un approccio manualizzato di Problem Solving Training, PST, nei gruppi. Tale approccio è suddiviso in 4 fasi di
crescente difficoltà dal punto di vista cognitivo ed emotivo:
1) problemi pratici; 2) problemi interpersonali; 3) problemi
intrapersonali; 4) problemi di gestione della sofferenza.
I pazienti con Disturbo Schizofrenico sono randomizzati ed
assegnati a due gruppi PST o PSD = Problem Solving Discussion (un approccio identico, ma i gruppi effettuano solo
una discussione dei problemi, senza uno specifico addestramento all’impiego di un metodo strutturato).
La valutazione pre, post e dopo 6-mesi di follow-up include
le misure psicopatologiche, delle abilità di problem-solving,
del funzionamento sociale ed una batteria neuropsicologica.
Risultati: quattro centri hanno cominciato lo studio: L’Aquila, Como-Appiano Gentile, Campobasso e Treviso. Un
studio parallelo di PST “effectiveness” nei centri diurni è
stato avviato in 15 Centri Diurni in Veneto ed in Alto Adige.
Non ci sono ancora risultati al livello sperimentale.
SIMPOSI TEMATICI
Conclusioni: allo stato attuale sono ancora scarse le evidenze scientifiche che provano l’utilità dell’impiego del
Problem-Solving Training. Una sfida di interesse è quella di
condurre e promuovere studi che contribuiscano a dimostrare l’efficacia di tale strategia terapeutica nella ripresa di disturbi schizofrenici.
Bibliografia
1
Barbieri L, Boggian I, Lamonaca D. La ricerca multicentrica C.D.
5: confronto e valutazione tra interventi verbali e pratico manuali nei Centri Diurni. SIRP congresso, Milano 28 gennaio, 2005.
Dal problem-solving al funzionamento
sociale: esiti a 12 mesi di un trattamento
cognitivo-comportamentale familiare
R. Roncone, M. Mazza, R. Pollice, I.R.H. Falloon,
P. Morosini*, M. Casacchia
Clinica Psichiatrica, Università de L’Aquila; * Istituto Superiore Sanità, Roma
Lo studio controllato randomizzato multicentrico “Coinvolgimento e sostegno dei familiari delle persone affette da disturbi mentali gravi”, in sinergia con il Progetto Nazionale
Salute Mentale, ISS Roma, ha valutato la conduzione del
trattamento psicoeducativo familiare condotto nei Dipartimenti di Salute Mentale mettendo a confronto due diverse
modalità di effettuazione dell’intervento psicoeducativo familiare integrato che utilizzano ampiamente strategie di
Problem-Solving Training (trattamento della famiglia singola secondo il metodo di Ian Falloon vs. trattamento multifamiliare di gruppo + incontri con la singola famiglia). È stato effettuato il follow-up a 6 e 12 mesi; tutte le valutazioni
sono state effettuate da “valutatori” indipendenti, ovvero
specializzandi della Clinica Psichiatrica dell’Università de
L’Aquila, specificatamente addestrati alla somministrazione
degli strumenti inclusi nel protocollo, con un alto grado di
riproducibilità nelle valutazioni. Previo accordo con le
U.O., gli specializzandi hanno visitato ogni 6 mesi i servizi
per effettuare le valutazioni con i pazienti ed i familiari.
I risultati ad un anno evidenziano una buona efficacia del
trattamento in merito: alla riduzione della sintomatologia, al
miglioramento del funzionamento sociale, alla riduzione del
carico assistenziale ed al miglioramento della qualità della
vita dei familiari.
Non abbiamo evidenziato differenze rispetto ai due interventi familiari condotti.
La ricerca ha indagato inoltre l’impatto sulle variabili neuropsicologiche, mostrando un buon livello di “remediation”
sulle principali componenti della neurocognizione 1 2. Rispetto al gruppo di controllo, dopo i 12 mesi di trattamento
(indipendentemente dal tipo di trattamento fornito SF/MF) i
pazienti mostrano un buon miglioramento nella: cognizione
sociale, prestazioni ai test ToL e WCST, fluenza verbale.
In conclusione, i nostri risultati mostrano che gli interventi
psicoeducazionali integrati migliorano anche le variabili cognitive.
Bibliografia
1
Roncone R, Morosini PL, Falloon IRH, Casacchia M. Family interventions in schizophrenia in Italian mental health services.
In: Kashima H, Falloon IRH, Mizuno M, Asai M, eds. Comprehensive Treatment of Schizophrenia. Linking Neurobehavioral Findings to Psychosocial Approaches. Tokyo: Springer
2002, p. 284-289.
Roncone R, Falloon IRH, Mazza M, De Risio A, Pollice R,
Necozione S, et al. Is social cognition associated more strongly
with clinical and social functioning in schizophrenia than neurocognitive deficits? Psychopathology 2002;35:280-8.
2
Improving vocational and social recovery
in people with early psychosis: can we do
better?
D. Fowler
Professor of Social Psychiatry, University of East Anglia,
Consultant Clinical Psychologist and Project Lead, Norfolk
Early intervention Service
Exciting new developments in the psychological and pharmacological treatment of psychosis have already led to improvements in the symptomatic course of psychosis. However, the effects on social outcome are less clear. In traditional services only a minority of people with psychosis return to stable patterns of work or education. As a consequence the lives of young people can be disrupted at a crucial stage in a manner which can make social recovery in the
long term a struggle. Aspects of psychotic illness can make
some people sensitive to stress. In recognising this many
clinicians and sufferers themselves have been understandably cautious about recommending a return to activities associated with stress which can often include work and education. However, the effect of withdrawal can lead in turn to
the severe stress of unemployment and social isolation. In
helping people the way forward may be understanding the
nature of the stress in psychosis and finding the right balance between strategic withdrawal and activity. We are currently conducting research evaluating a new intervention:
Social Recovery oriented Cognitive Behaviour Therapy.
This approach combines the latest approaches in vocational
rehabilitation which focus on individualised work placement (Individual Placement and Support) with stress and
symptom management techniques derived from cognitive
behaviour therapy. This lecture discusses the rationale for
the approach, describes promising preliminary results from
work in the Norfolk Early Intervention Service and current
research including a randomised controlled trial.
Trattamento a lungo termine della
Schizofrenia con clozapina: continuità di
miglioramento nel funzionamento globale
in un gruppo di 122 pazienti valutati
retrospettivamente per 6 anni
R. Delle Chiaie* **, F. Marra*, M. Salviati*, P. Pancheri*
*
III Clinica Psichiatrica, Università “La Sapienza”, Roma;
Istituto di Psicologia Clinica, Università di Siena
**
La clozapina ha dimostrato una superiorità di efficacia sui
sintomi positivi e negativi rispetto agli altri antipsicotici, sia
convenzionali che atipici. Secondo l’opinione di molti clini48
SIMPOSI TEMATICI
ci, questo composto si caratterizzerebbe anche per una continuità dell’effetto terapeutico, a cui si assocerebbe in modo
del tutto peculiare una progressione del miglioramento del
funzionamento globale. Questo tuttavia sarebbe visualizzabile lungo l’arco di periodi di osservazione notevolmente
più lunghi rispetto a quelli su cui vengono normalmente
programmati gli studi clinici a breve e a medio termine.
Al fine di valutare questa ipotesi in questa indagine sono state valutate in modo retrospettivo le cartelle cliniche di 122
pazienti in trattamento stabilizzato con clozapina, seguiti in
parte presso l’ambulatorio della III Clinica Psichiatrica dell’Università “La Sapienza” ed in parte presso due centri privati. In tutti i pazienti studiati la sintomatologia soddisfaceva i criteri diagnostici per la Schizofrenia secondo il DSM
IV-TR. Il trattamento si basava sull’assunzione di clozapina
in monoterapia (dosaggio medio alla 72a settimana: 490 ±
117 mg/die), con le uniche eccezioni rappresentate da benzodiazepine prescritte con finalità ipnoinducenti o da stabilizzanti dell’umore (valproato o carbamazepina). La valutazione retrospettiva è stata condotta per uno span temporale
dell’estensione massima fino a 6 anni (72 mesi). Per ognuna
delle cartelle prese in considerazione veniva effettuata una
valutazione del “funzionamento globale” ogni 3 mesi di trattamento. Tale valutazione veniva condotta applicando criteri
di giudizio rigorosamente obiettivi: “modalità di comunicazione e di rapporto”, “reattività e modulazione affettiva”,
“congruità e finalizzazione del comportamento”, “capacità
di pianificazione”, “attività scolastica e lavorativa”, “funzionamento sociale”, “attività ricreazionale”. In base alla valutazione di questi parametri, per ognuno dei momenti di osservazione veniva attribuito un punteggio di “funzionamen-
to globale” variabile da -3 a +3, a seconda che le condizioni,
rispetto all’osservazione antecedente, fossero “molto migliorate” (+3), “migliorate” (+2), “leggermente migliorate” (+1),
“invariate” (0), “leggermente peggiorate” (-1), “peggiorate”
(-2), “molto peggiorate” (-3).
La valutazione del “funzionamento globale” in base ai parametri di osservazione descritti ha evidenziato nel campione intero un miglioramento costante dal primo al 24°
mese, seguito da una stabilizzazione nel periodo dal 24° al
54° mese, con un’ulteriore ripresa del miglioramento dal
54° mese al 72°. Effettuando una suddivisione del campione in base al valore di mediana della variabile “anni di
malattia”, sono stati ottenuti due sottogruppi: “sub-cronici” (61 pz., anni di malattia < 9,5 aa) e “cronici” (61 pz.,
aani di malattia > 9,5 aa). La comparazione dell’andamento dei punteggi di “funziomanto globale” nei 2 sottogruppi, ha evidenziato una differenza, significativa dal 24° al
33° mese, favorevole ai pazienti con minor durata di malattia, che nel corso di tale fase evidenziavano un miglioramento più accentuato.
I risultati di questa indagine dimostrano che nei pazienti
schizofrenici, il miglioramento del funzionamento globale
in corso di trattamento con clozapina è costante e la sua progressione si può osservare lungo uno span temporale di molti anni. Sembra inoltre che il recupero funzionale ottenibile
con questo farmaco nei pazienti con minore durata di malattia sia superiore a quello rilevabile nei pazienti ammalati
da più tempo. Ne consegue l’utilità potenziale di considerare il trattamento con clozapina anche nei pazienti schizofrenici all’esordio, al fine di potenziare gli esiti degli interventi riabilitativi psico-sociali.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA ELLISSE
S16 - Neuropsicologia, teoria della mente
ed intelligenza sociale:
progressi nella comprensione delle psicosi
MODERATORI
A. Rossi, S. Scarone
I disturbi delle funzioni cognitive nella
Schizofrenia: valutazione e trattamento
P. Stratta, D. Mirabilio*, M. Aniello, A. Rossi**
A.U.S.L. 4 L’Aquila, Dipartimento di Salute Mentale, U.O.
di Psicologia Clinica dell’Università de L’Aquila; * Casa di
Cura “Villa Serena” Città Sant’Angelo (PE); ** Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila
La letteratura scientifica concorda che le persone affette da
Disturbo Schizofrenico presentano un grado variabile di deficit cognitivo già evidenziabile precedentemente all’esordio clinico del disturbo, non secondario alle caratteristiche
della patologia, che persiste anche quando la sintomatologia
positiva è adeguatamente controllata. Benché la funzionalità
cognitiva di alcuni rimane entro un range di normalità, questa tende però ad essere inferiore rispetto al livello atteso. Il
49
profilo dei deficit cognitivi è differente rispetto ad altre condizioni morbose (es. Demenza di tipo Alzheimer), anche se
sembrano esservi differenze solo di tipo quantitativo rispetto al Disturbo Bipolare, con una maggiore disabilità nella
Schizofrenia. Le stesse anomalie misurate in differenti disturbi possono riconoscere differenti meccanismi patofisiologici.
Il livello di funzionamento cognitivo è inoltre predittivo di
esiti che comprendono la capacità a far fronte alle attività di
base della vita quotidiana, il funzionamento sociale, occupazionale ed il livello di indipendenza nella comunità. L’esercizio di tutte quelle attività di livello superiore che permettono una adeguata indipendenza e qualità di vita di ogni
persona, quali la cura della persona, dell’ambiente, utilizzazione del tempo libero ecc., possono essere limitate dalle
anomalie cognitive di base. Un’ampia meta-analisi della letteratura sull’esito della Schizofrenia dal 1895 al 1992 ha
SIMPOSI TEMATICI
evidenziato che a fronte di un significativo miglioramento
clinico dopo l’avvento dei trattamenti psicofarmacologici,
la percentuale di soggetti in grado di vivere in maniera indipendente non si è affatto modificata. Oltre al trattamento
farmacologico può essere utile investire su modalità di intervento neurocognitivo che permettano di migliorare l’assetto cognitivo di base ed in ultima analisi la qualità della
vita del soggetto affetto da Disturbo Schizofrenico.
La possibilità che i deficit neurocognitivi siano modificabili con interventi psicologici di rimedio, e che gli effetti di tali interventi non siano esclusivamente confinati all’area cognitiva, è un concetto ora sempre più accettato. Numerosi
studi hanno dimostrato come questi interventi di rimedio abbiano importanti e durevoli ricadute a livello di importanti
aree della vita quali le abilità sociali e lavorative, sulla sintomatologia e, non certo ultimo per importanza, sull’autostima.
Verranno presentati e discussi i dati relativi ad un intervento di “rimedio cognitivo” condotto in una popolazione di 35
pazienti con Disturbo Schizofrenico.
Funzionamento neurocognitivo
ed intelligenza sociale in persone
con Disturbo Schizofrenico
I. Riccardi, D. Mirabilio, M. Marinelli, S. Di Tommaso,
P. Stratta*, L. D’Albenzio, A. Rossi**
U.O. di Psicologia Clinica, Università de L’Aquila, Casa di
Cura “Villa Serena”, Città Sant’Angelo (PE); * A.U.S.L. 4
L’Aquila, Dipartimento di Salute Mentale; ** Dipartimento
di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila
Una questione centrale nella ricerca sull’elaborazione dell’informazione è come la mente umana tratta gli stimoli interni ed esterni allo scopo di organizzare una risposta adeguata o di produrre comportamenti diretti ad un obiettivo. I
pazienti con Disturbo Schizofrenico mostrano deficit nei
compiti che esplorano funzioni cognitive come l’attenzione,
il linguaggio, la memoria e il problem-solving.
Numerosi studi suggeriscono che alcuni deficit cognitivi potrebbero essere connessi a 2 principali meccanismi con implicazioni pervasive sulla cognizione: la rappresentazione e
il mantenimento dell’informazione contestuale e l’intelligenza sociale.
L’informazione contestuale consiste in ciò che deve essere
trattenuto attivamente in mente in una forma tale da poter essere usato per mediare risposte comportamentali appropriate.
È stato ipotizzato che l’insuccesso nell’uso dell’elaborazione
contestuale dell’informazione (ECI) potrebbe essere responsabile delle scadenti performance dei pazienti con Disturbo
Schizofrenico in alcuni domini cognitivi collegati alle funzioni della corteccia prefrontale. Tale deficit potrebbe essere responsabile, almeno in parte, della disabilità sociale che si associa ai disturbi dello spettro schizofrenico.
L’intelligenza sociale (IS) è definita come l’elaborazione
dell’informazione che contribuisce ad una percezione corretta delle disposizioni e delle intenzioni di altre persone. L’importanza dell’intelligenza sociale è stata teoreticamente dimostrata da Cosmides che ha applicato la sua “teoria del contratto sociale” al Wason Selection Task, vale a dire ad un
compito di ragionamento che richiede una regola condizio-
nale astratta. Le regole del contratto sociale, infatti, facilitano le risposte corrette ad un compito rispetto al ragionamento astratto. La psicopatologia clinica indica che alcuni disturbi del sistema della “lettura del pensiero” sono presenti
nei pazienti schizofrenici. I deliri di persecuzione, di controllo e di riferimento si manifestano nelle inferenze patologicamente esagerate di sentirsi “osservato” dal contesto sociale. Nelle persone con sintomatologia di tipo delirante, le
intenzioni ed i comportamenti degli altri individui sono
esclusivamente percepiti come negativamente collegati a se
stessi, e questo porta all’incorreggibile opinione di essere ingannato. Quindi, le performance dei pazienti schizofrenici ai
compiti d’intelligenza sociale potrebbero essere alterate dalla loro scarsa capacità d’elaborazione dell’informazione.
Questi 2 modelli potrebbero identificare differenti costrutti
all’interno della dimensione cognitiva della Schizofrenia. I
nostri risultati preliminari relativi allo studio dell’ECI e dell’IS nella Schizofrenia indicano che deficit nelle prove di IS
sono più correlate al funzionamento sociale valutato con
VGF (DSM IV) mentre il deficit dell’ECI è più correlato alla sintomatologia “cognitiva” attuale valutata con PANSS.
La bizzarria nelle fantasticherie e nei sogni:
una valutazione sperimentale di alcuni
aspetti fenomenici negli stati mentali
psicotici
M.L. Manzone, I. Limosan, S. Scarone
Unità Clinicizzata di Psichiatria, Dipartimento di Medicina, Chirurgia & Odontoiatria, Università di Milano, A.O.
“San Paolo”, Milano
Lo scopo di questo lavoro è quello di verificare un’ipotesi
classica della psicopatologia, ripresa recentemente da diversi Autori e relativa ad aspetti comuni allo stato mentale psicotico ed al sogno.
Oltre che alle ben note caratteristiche di atemporalità, assenza di definizione degli spazi, ed ai meccanismi allucinatori che accomunano i due stati mentali, sono stati recentemente pubblicati dati di metabolismo cerebrale che mostrano come il sonno REM, che è quello ove l’attività tipicamente onirica si manifesta, presenti una deattivazione funzionale della Corteccia DorsoLaterale Prefrontale (CDLPF),
ipofunzionante anche, secondo numerose evidenze sperimentali, nella Schizofrenia.
Il protocollo sperimentale che si è scelto, prevede la stimolazione alla produzione di storie fantastiche mediante la
somministrazione del Tematic Appercetion Test (TAT) ed alla raccolta dei sogni in soggetti che evidenziano clinicamente uno stato mentale psicotico ed in soggetti volontari
sani.
I risultati che vengono presentati indicano che la bizzarria,
intesa come caratteristica formale della narrazione, è relativamente simile nei sogni dei due gruppi di soggetti, mentre
differisce in maniera significativa nella produzione fantastica della veglia, con un indice di bizzarria più elevato nei
soggetti che presentano uno stato mentale psicotico rispetto
ai controlli.
Questo risultato viene discusso in relazione alla letteratura
più recente sull’argomento.
50
SIMPOSI TEMATICI
Teoria della mente e riconoscimento
delle emozioni facciali nella Schizofrenia
A. Troisi, G. Di Lorenzo, A. Siracusano
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Roma “Tor
Vergata”
Con il termine “teoria della mente” si intende la capacità di
attribuire ad un’altra persona degli stati mentali. Questa capacità, che include sia aspetti cognitivi (ad esempio, capire
che una persona che si assenta per qualche minuto, quando
torna cercherà un oggetto lì dove lo ha lasciato, anche se in
realtà l’oggetto in sua assenza è stato spostato) che emotivi
(ad esempio, attribuire un’emozione di imbarazzo ad una
persona che incorre in una gaffe) emerge progressivamente
dai 4 anni di età in poi ed è fondamentale per il buon funzionamento di interazioni sociali complesse. Un deficit della
teoria della mente sembra essere presente in un numero rilevante di pazienti dello spettro schizofrenico. Tale deficit potrebbe essere responsabile, almeno in parte, della disabilità
sociale che si associa ai disturbi dello spettro schizofrenico.
In una specie in cui la comunicazione visiva e il riconoscimento individuale rivestono un ruolo fondamentale, la decodifica delle espressioni facciali è una capacità di grande
rilevanza evolutiva. In linea con questa previsione, recenti
studi hanno dimostrato l’esistenza di un circuito neurale dedicato al riconoscimento dei volti e delle emozioni espresse
mediante la mimica facciale. Questo circuito comprende il
giro fusiforme e le regioni più anteriori e dorsali del lobo
temporale (giro e solco temporali superiori). La capacità di
decodificare le espressioni facciali e di riconoscere le emozioni nel volto di un’altra persona sembra essere deficitaria
in alcuni pazienti con Schizofrenia mentre sembra transitoriamente modificarsi nel corso di episodi depressivi gravi,
con tendenza a non percepire le emozioni facciali positive.
Sulla base di queste premesse teoriche, in questa relazione
saranno presentati dati concernenti la relazione tra capacità
di risolvere test di teoria della mente, capacità di riconoscere emozioni facciali e livello di funzionamento sociale in un
campione di pazienti schizofrenici ricoverati presso il dayhospital dell’U.O. di Psichiatria del Policlinico “Tor Vergata” di Roma. I dati della ricerca confermano l’ipotesi che ha
ispirato lo studio e cioè che, nella Schizofrenia, i deficit di
queste differenti capacità sociali sono correlati.
Dimensione disorganizzazione
e funzionamento sociale in corso
di Schizofrenia
R. Brugnoli, F. Pacitti1, L. Tarsitani2, A. Troisi3, A. Rossi4, S. di Tommaso4, M.G. Malvezzi3, D. Gianfelice3,
P. Pancheri2
Fondazione Italiana per lo studio della Schizofrenia (FIS);
1
Dipartimento di Medicina Interna e Sanità Pubblica, Università de L’Aquila; 2 Dipartimento di Scienze Psichiatriche
e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”; 3 Dipartimento di Neuroscienze, Università di Roma
“Tor Vergata”; 4 Dipartimento di Medicina Sperimentale,
Università de L’Aquila
Introduzione: la “sindrome da disorganizzazione” è stata
51
descritta per la prima volta da Bleuler che utilizzava il termine “dissociazione”, attribuendogli una funzione core nella Schizofrenia 1.
La “disorganizzazione” è caratterizzata dalla presenza di tre
elementi fondamentali: a) disgregazione delle caratteristiche fondamentali della comunicazione; b) perdita di nessi
logici di collegamento fra concetti della comunicazione; c)
sconnessione tra comunicazione verbale e non verbale a
connotazione emozionale 2 3.
Questi sintomi potrebbero rappresentare un esofenotipo a
cui dovrebbe corrispondere un correlato fisiopatologico che
sembrerebbe coinvolgere in via primaria il lobo frontale 4 5.
Da un’analisi degli studi effettuati su pazienti schizofrenici,
la compromissione cognitiva sembra associata ad un peggiore funzionamento sociale e vocazionale, e ad una più difficile acquisizione di abilità psicosociali 6. Alcuni studi sembrano tuttavia dimostrare che alcuni sintomi sono maggiormente predittivi rispetto alle misure cognitive, del funzionamento nella comunità.
Norman et al., nel 1999 affermano, discutendo la letteratura
sull’argomento e i dati provenienti da uno studio su 50 pazienti schizofrenici, che la disorganizzazione è la dimensione maggiormente predittiva di scarso funzionamento.
L’obiettivo principale di questo studio è rappresentato dalla
valutazione della disorganizzazione e della eventuale correlazione di questa dimensione con il funzionamento sociale
nei pazienti schizofrenici.
Normalmente soltanto un item (disorganizzazione concettuale della PANSS e della BPRS, disorganizzazione ideativa della 3TRE, disturbi formali del pensiero della SAPS) è
dedicato allo studio della disorganizzazione nelle scale di
valutazione normalmente usate e questo può inficiare un’analisi attenta di questa dimensione.
L’utilizzo di una scala specificamente realizzata per lo studio della sola dimensione “disorganizzazione” e già validata su una popolazione di pazienti schizofrenici dovrebbe
permettere di avere nuove e forse definitive risposte.
L’utilizzo contemporaneo di scale dedicate alla valutazione
della sintomatologia schizofrenica (PANSS e 3TRE) permette di studiare anche il rapporto fra il funzionamento sociale e altre dimensioni (positiva, affettiva, negativa) che
pur escluse dall’ipotesi del nostro lavoro, rappresentano ovviamente dimensioni fondamentali della patologia schizofrenica.
Materiali e metodi: il nostro campione era costituito da 60
pazienti, 21 maschi e 39 femmine, di età media 41,9 anni
(DS 11,3). Tutti i pazienti soddisfacevano i criteri diagnostici del Disturbo Schizofrenico (DSM-IV, APA 1998). È stata
effettuata una valutazione clinica standardizzata tramite i
seguenti strumenti di valutazione: Scala per la misura della
Disorganizzazione (Sca.Dis.), Positive and Negative Syndrome Scale (PANSS), 3TRE. Il livello di funzionamento è
stato valutato con la Scala di Valutazione Globale del Funzionamento (GAF).
Risultati: l’analisi della correlazione tra i punteggi totali
della Sca.Dis., i punteggi del cluster Distorsione del Pensiero, l’item del Disorganizzazione della PANSS e i punteggi
totali della GAF ha evidenziato una significativa correlazione negativa tra la dimensione disorganizzazione e il funzionamento sociale.
Dall’analisi della correlazione tra gli item della Sca.Dis. e la
GAF emerge una correlazione statisticamente significativa
SIMPOSI TEMATICI
tra gravità dell’alterazione del Funzionamento Sociale e
gravità dell’alterazione della Qualità della Comunicazione,
del Sistema Simbolico di Riferimento, della Finalizzazione
e della Capacità di astrazione, mentre non risultano significativamente correlati gli item che esplorano la Logica di riferimento e la Ridondanza Procedurale.
L’analisi della varianza dei punteggi della PANSS, della
Sca.Dis e della 3TRE del nostro campione, suddiviso in due
gruppi rispetto al funzionamento sociale (soggetti con funzionamento sociale moderatamente e gravemente alterato e
soggetti con incapacità a funzionare in quasi tutte le aree) ha
evidenziato una significativa differenza nei due gruppi, eccetto che per i cluster “attivazione” e “depressione” della
sottoscala PANSS.
Conclusioni: il nostro studio sembra confermare i dati di letteratura che evidenziano che un deficitario funzionamento
sociale è strettamente correlato alla gravità del quadro psicopatologico, in particolare alla disorganizzazione ideativa.
Bibliografia
1
Hardy-Bayle MC, Sarfati Y, Passerieux C. The cognitive basis of
disorganization symptomatology in schizophrenia and its clinical correlates: toward a pathogenetic approach to disorganization. Schizophr Bull 2003;29:459-71.
2
Pancheri P, Marconi PL, Brugnoli R. SCADIS: una nuova scala
per la valutazione della disorganizzazione. 1. Costrutti Teorici,
principi organizzatori, descrizione della scala. Giorn Ital Psicopat 1996;3:216-31.
3
Pancheri P, Marconi PL. Le dimensioni della Schizofrenia. Giorn
Ital Psicopat 1996,2:112-9.
4
Goldman-Rakic PS, Selemon LD. Functional and anatomical
aspects of prefrontal pathology in schizophrenia. Schizophr Bull
1997;23:437-58.
5
Bressler SL. Cortical coordination dynamics and the disorganization syndrome in schizophrenia. Neuropsychopharmacology
2003;28(Suppl 1):S35-9.
6
Norman RM, Malla AK, Cortese L, Cheng S, Diaz K, McIntosh
E, et al. Symptoms and cognition as predictors of community functioning: a prospective analysis. Am J Psychiatry 1999;156:400-5.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MONTEMARIO
S17 - Sonno e patologie psichiatriche
MODERATORI
L. Ferini Strambi, M. Guazzelli
Struttura del sonno: valutazione
microstrutturale
M.G. Terzano
Le fasi A2 ed A3 sono generatori del sonno REM e correlano con il processo ultradiano che determina l’alternanza fra
sonno NREM e sonno REM.
Università di Parma
Il sonno è una struttura funzionale del cervello difficile da
rappresentare perché non può essere derivata dalle strutture
neuronali che lo generano.
Fino ad ora la struttura del sonno è stata interpretata sulla
base dei criteri di RECHTSCHAFFEN e KALES che permettono di distinguere nel sonno 4 stadi di sonno NREM ed
il sonno REM.
Il profilo del sonno notturno è però tempestato da una quantità consistente di “microstadi” della durata di pochi secondi corrispondenti a processi transitori di attivazione che
coinvolgono la struttura cerebrale a vari livelli.
I più noti sono i microrisvegli che interessano la corteccia
cerebrale e producono una frammentazione della struttura
ipnica.
Altri sono presumibilmente generati da strutture sottocorticali.
Le caratteristiche di queste fasi di attivazione transitoria durante il sonno sono:
1) la loro distribuzione pseudoperiodica che si manifesta con
un tracciato EEG tipico che prende il nome di “Cyclic Alternating Pattern”;
2) la gerarchia di arousal che permette la distribuzione in fasi A1, A2, A3.
Le fasi A del CAP contribuiscono allo svolgimento del sonno notturno.
Le fasi A1 sono generatori del sonno non REM e correlano
con il processo omeostatico che regola l’intensità del sonno.
Insonnia e disturbi affettivi: oltre
il concetto di comorbidità
C. Gentili, L. Palagini, A. Del Carlo, M. Guazzelli
Cattedra di Psicologia Generale, Facoltà di Medicina e
Chirurgia, Università di Pisa
Il concetto di comorbidità, impostosi con l’affermazione
della scuola psichiatrica nordamericana, che descrive la
contemporanea presenza di due o più disturbi nello stesso
individuo sulla base della semplice registrazione dei fenomeni clinici rilevabili all’esame trasversale esprime bene
l’intenzione della tassonomia attuale che è stata opportunamente definita come “etiologicamente neutrale”.
I vantaggi insiti in un paradigma classificativo che è strumento di standardizzazione della diagnosi psichiatrica non
devono tuttavia far dimenticare l’oblio in cui sono cadute da
un lato la ricerca dei nessi tra i disturbi psicopatologici e
dall’altro la prospettiva dimensionale della nosografia psichiatrica.
A risentire di questo approccio è stata anche la riflessione
sui rapporti tra disturbi dell’umore e disturbi del sonno ed in
particolare l’insonnia. L’attenzione della psichiatria italiana
fino ai primi anni del Novecento per le relazioni tra disturbi
del sonno ed eventi psicopatologici del versante ansioso-depressivo 1 si è infatti fortemente attenuata con il paradigma
della comorbidità, anche se la psicometria di stampo nordamericano nel contempo annoverava l’insonnia tra gli ele52
SIMPOSI TEMATICI
menti costitutivi della costellazione sintomatologica dei disturbi depressivi misurati con gli item delle scale cliniche
standardizzate.
Con la terza edizione del suo manuale l’American Psychiatric Association ha inserito l’insonnia tra i disturbi
mentali di Asse I, collocandola cioè sullo stesso piano delle condizioni mentali morbose classiche. Nella pratica clinica l’interesse dello psichiatra è stato a lungo distolto
dall’insonnia e dirottato sulla sonnolenza diurna che il clinico infliggeva ai suoi pazienti con i primi farmaci antidepressivi, tutti dotati di attività sedativa più o meno intensa.
Contemporaneamente la letteratura ipnologica ha documentato la sistematica associazione tra insonnia e depressione mostrandone anche i rapporti rispetto all’esordio
dell’episodio, alla sua fase di invasione, di stato, di risoluzione 2 anche in rapporto agli esiti del Disturbo dell’Umore.
Confermando le osservazioni dei clinici di inizio secolo,
la medicina del sonno ha mostrato che l’evoluzione dell’insonnia è parallela a quella dell’episodio affettivo, che
la sua risoluzione è indice di imminente guarigione dalla
depressione e che la sua persistenza al contrario è predittiva di prossima ricaduta 3. La ricerca clinica attuale, stimolata forse anche dalla diffusione dei nuovi farmaci antidepressivi privi di effetti sedativi se non addirittura allertizzanti, sta rivolgendo il suo interesse agli effetti sulla
patologia dell’umore del controllo dell’insonnia sia nella
fase che precede l’episodio depressivo che in quella di
stato, sia quando persiste dopo la sua risoluzione come
sintomo residuo.
Un altro fuoco dell’interesse psichiatrico è l’insonnia primaria cronica, il cui trattamento potrebbe positivamente
riflettersi sull’esordio della depressione. A questo tipo di
disturbo sono particolarmente esposte alcune categorie di
persone, sia in rapporto alle particolari condizioni ambientali 4 che in ragione di alcune caratteristiche neurobiologiche 5.
In altri termini la ricerca clinica, la ricerca psichiatrica e
la ricerca ipnologica stanno riscoprendo l’interesse per i
nessi tra disturbi del sonno e disturbi dell’umore e la loro
riflessione sembra rivolta al superamento del concetto di
comorbidità verso ipotesi più complesse, riconducibili al
modello di una reciproca vulnerabilità, secondo il quale
insonnia e disturbi dell’umore finiscono per essere allo
stesso tempo causa ed effetto.
Bibliografia
1
Tanzi, Lugaro. Trattato delle Malattie Nervose Mentali. Milano:
Società Editrice Libraria 1923.
2
Perlis ML, Giles DE, Buysse DJ, Thase ME, Tu X, Kupfer
DJ. Which depressive symptoms are related to which sleep
electroencephalographic variables? Biol Psychiatry
1997;42:904.
3
Livingston G, Blizard B, Mann A. Does sleep disturbance predict depression in elderly people? A study in inner London. Br J
Gen Pract 1993;43:445-8.
4
Menza M, Marin H, Opper RS. Residual symptoms in depression: can treatment be symptom-specific? J Clin Psychiatry
2003;64:516-23.
5
Lauer CJ, Schreiber W, Holsboer F, Krieg JC. In quest of identifying vulnerability markers for psychiatric disorders by allnight polysomnography. Arch Gen Psychiatry 1995;52:14553.
53
Sonno e disturbi alimentari
M.L. Fantini
Centro per lo studio dei disturbi del sonno, Università “Vita-Salute San Raffaele”, Milano
Le relazioni tra sonno e Disturbi della Condotta Alimentare
(DCA) sono molteplici. L’effetto della privazione cronica di
cibo (nell’anoressia nervosa o AN), o della rapida fluttuazione dei pattern di assunzione di cibo (nella bulimia nervosa o
BN), sulla struttura del sonno è stata oggetto di studio, con risultati non sempre univoci. I soggetti affetti da AN di tipo restrittivo mostrano una riduzione del tempo totale di sonno,
una frammentazione del sonno ed una riduzione della percentuale di sonno profondo (Slow Wave Sleep o SWS), reversibili dopo aumento ponderale. L’architettura del sonno sembra invece risultare preservata nella BN. Inoltre, l’osservazione di una ridotta latenza del sonno REM ed una aumentata
densità di movimenti oculari rapidi nella AN, anomalie di comune riscontro nella depressione, ha suggerito un possibile
meccanismo patogenetico comune alle due condizioni. Tuttavia, nonostante la frequente associazione con un disturbo depressivo, studi effettuati mediante il test di stimolazione colinergica del sonno REM hanno evidenziato una normale sensibilità del sistema colinergico nella AN e l’assenza di una
stretta relazione neurobiologica tra le due condizioni.
A fronte delle anomalie polisonnografiche frequentemente
osservate, un sonno disturbato viene raramente riportato dai
pazienti affetti da DCA. Ciò potrebbe dipendere, almeno nei
pazienti affetti da AN, dalla tendenza a utilizzare i periodi di
veglia per essere attivi in vario modo. Nella AN è stata segnalata una tendenza a presentare risveglio precoce mattutino, mentre i pazienti affetti da BN tendono a ritardare il periodo di sonno di circa 1 h a causa degli episodi di ingestione compulsiva di cibo in tarda serata o alla notte.
Un numero limitato di studi ha indagato il contenuto onirico nei pazienti affetti da DCA. Una ridotta capacità di sognare, sogni meno vividi, tematiche oniriche a carattere ansioso, contenuti a sfondo autodistruttivo con conclusioni di
fallimento e morte sono stati segnalati nelle pazienti affette
da AN. Sentimenti di rabbia ed ostilità, la paura di ingrassare e una frequente attività nutrizionale sarebbero presenti
nei sogni delle anoressiche, in assenza tuttavia di studi di tipo quantitativo. Infine non esistono dati in letteratura riguardo alla prevalenza di sogni tipici, cronotipo e prevalenza di disturbi del sonno quali la Sindrome delle Gambe Senza Riposo (Restless legs syndrome o RLS) nei DCA.
Obiettivi dello studio: valutare quantitativamente i contenuti onirici di un campione di soggetti affetti da AN, confrontandoli con quelli di soggetti appartenenti alla popolazione generale di pari età. Valutare inoltre la qualità soggettiva del sonno nell’AN, il cronotipo e la frequenza di RLS.
Metodologia: venti pazienti di genere femminile di età
compresa tra i 14 e 32 anni con diagnosi di AN in accordo
con il DSM-IV (di cui 17 ricoverate e 3 in day hospital) e 20
coetanee sane con anamnesi negativa per disturbi alimentari e non in corso di dieta, hanno partecipato allo studio. Un
totale di 136 e 156 sogni sono stati raccolti rispettivamente
nelle pazienti AN e nei controlli, secondo il metodo di Hall
e Van de Castle e le percentuali relative alle caratteristiche
oniriche sono state calcolate mediante programma DREAM
SAT. Sono stati somministrati inoltre i seguenti questionari:
SIMPOSI TEMATICI
Questionario dei sogni tipici, l’Indice di Qualità del Sonno
di Pittsburgh, la Composite Scale of Morningness di Natale
& Alzani e l’International Restless Legs Syndrome Rating
Scale (RLSRS).
Risultati: i sogni delle pazienti con AN presentano personaggi appartenenti maggiormente al gruppo familiare (37%
vs. 19% p < 0,0001) che alle amicizie (26% vs. 46% p <
0,0001), rispetto alle coetanee sane. Le interazioni aggressive (prevalentemente verbali e soprattutto subite) risultano
aumentate (54% vs. 37% p = 0,005), quelle amichevoli sono ridotte (43% vs. 61% p = 0,002), mentre quelle a contenuto sessuale risultano quasi del tutto assenti (2% vs. 13% p
< 0,0001). Tematiche alimentari erano presenti in oltre un
terzo della produzione onirica totale delle anoressiche
(34,82% vs. 6%; p < 0,0001). Tra i sogni tipici, il sogno di
mangiare piatti deliziosi e di essere soffocate o incapaci di
respirare sono risultati più frequenti nella AN che nel campione di controllo (p = 0,01 e p = 0,008 rispettivamente). Le
pazienti anoressiche hanno riportato un più elevato punteggio totale al PSQI, quale espressione di sonno disturbato
(7,7 ± 4,5 vs. 4,4 ± 2,9; p = 0,01), con una ridotta qualità
soggettiva del sonno (1,5 ± 0,9 vs. 0,9 ± 0,6; p = 0,03), un
uso maggiore di farmaci ipnoinducenti nel mese precedente
(0,9 ± 1,4 vs. 0,5 ± 0,2; p = 0,01) e una frequenza più elevata di disturbi del sonno rispetto ai controlli (1,4 ± 0,5 vs.
1,0 ± 0,3; p = 0,01). Il cronotipo delle pazienti con AN si è
rivelato significativamente più mattutino rispetto ai soggetti di controllo (35,5 ± 6,0 vs. 30,6 ± 4,4; p = 0,005). Infine
una aumentata prevalenza di RLS è stata osservata nelle pazienti anoressiche – 5/20 (25%) vs. 2/20 (10%), punteggio
medio IRLSRS: 19,0 ± 8,6 vs. 16,6 ± 9,9).
Conclusioni: il contenuto onirico risulta notevolmente alterato nella AN. La qualità soggettiva del sonno è significativamente ridotta nelle pazienti con AN. Il profilo cronotipico osservato nella AN potrebbe essere l’espressione di modificazioni neurobiologiche proprie della malattia o secondario ad
un coesistente disturbo depressivo. L’associazione tra RLS e
AN osservata nel presente studio e il suo meccanismo patogenetico meritano ulteriori approfondimenti. Futuri studi longitudinali potranno valutare le eventuali trasformazioni del
contenuto onirico associate alle modificazioni fisiche e psichiche indotte dai differenti interventi terapeutici.
Disturbi del sonno iatrogeni in corso di
trattamento psichiatrico
R. Manni
U.S. Medicina del Sonno ed Epilessia, IRCCS Neurologico
“C. Mondino”, Pavia
Sono già in parte noti e in via di ulteriore sviluppo le conoscenze sull’effetto positivo di vari psicofarmaci (ansiolitici,
antidepressivi di I e II generazione, antipsicotici) nell’insonnia e in altri disturbi del sonno (antidepressivi triciclici e
inibitori della MAO nella narco-cataplessia; antidepressivi
triciclici e SSRI nella sleep-apnea sia pure solo in via sperimentale).
Sono invece meno noti possibili effetti negativi sul sonno da
parte degli psicofarmaci, ciò che può essere rilevante sul
piano medico stante l’uso diffuso di tali farmaci e il loro impiego, come già detto, in vari disturbi del sonno o per la comorbilità psichiatrica in disturbi del sonno.
Prescindendo dai noti effetti da abuso, soprattutto per
quanto riguarda le benzodiazepine sedativo-ipnotiche (insonnia da abuso cronico di benzodiazepine) vanno ricordati i seguenti possibili effetti negativi sul sonno da psicofarmaci.
Dopo segnalazioni aneddotiche, alcuni studi sistematici
hanno documentato che vari antidepressivi (di I e II generazione) possono accentuare o slatentizzare la Restless Leg e
il disturbo di Movimenti Periodici degli arti in sonno
(PMLs), a loro volta entrambi in causa quali potenziali fattori causanti insonnia di addormentamento e mantenimento,
associata o meno a sonnolenza diurna.
È segnalato in letteratura che vari antidepressivi di I e II generazione inducono episodi di REM Behaviour Disorder,
contribuendo largamente ai casi iatrogeni di tale parasonnia.
Analogamente è nota la più alta incidenza di arousal confusionali nell’anziano in trattamento con benzodiazepine, che
inoltre, in questa stessa fascia di età, possono causare peggioramento di coesistente sleep-apnea o altri disordini respiratori sonno-relati.
È solo aneddotica e preliminare la segnalazione di induzione di REM Behaviour Disorder da parte di antipsicotici atipici.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA LEONARDO
S18 - Teoria, prassi e deontologia in psicoterapia:
libertà e limiti
MODERATORI
N. Lalli, P. Migone
I limiti nell’ambito della formulazione
teorica
P. Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Come è noto, vi è differenza tra morale ed etica. Determinate leggi, in determinati contesti storici, culturali o geogra-
fici, possono essere considerate “sbagliate” da un singolo
individuo (o da un punto di vista “altro”), per cui, appunto
per precisi motivi etici cioè “di coscienza”, può infrangerle
responsabilmente pagando a volte un caro prezzo. Un esempio è quello degli obiettori di coscienza.
La questione della deontologia in psicoterapia può essere
relativamente semplice, nella misura in cui un organo rappresentativo e legalmente riconosciuto della professione
54
SIMPOSI TEMATICI
stabilisce delle regole da seguire, e chi le infrange incorre
in determinate sanzioni.
Esistono però diversi approcci psicoterapeutici, ciascuno
con una sua filosofia o visione del mondo che hanno dirette ripercussioni sulla tecnica.
Per quanto riguarda la psicoanalisi, ad esempio, la questione della deontologia è complessa, perché la psicoanalisi consiste proprio nel domandarsi il senso che può avere
una determinata regola, a livello anche inconscio, per entrambi i partner analitici (ad esempio una regola deontologica potrebbe assumere un ruolo difensivo).
La psicoanalisi quindi non sottostà, per così dire, a nessun
padrone, nel senso è per sua natura potenzialmente ribelle
a qualsiasi conformismo o regola sociale.
La sua etica consiste nella conoscenza, nell’esplorazione
analitica, appunto, di qualunque oggetto (la religione, l’ideologia, la deontologia stessa, insomma la natura umana
in tutte le sue manifestazioni).
In questo senso, molti analisti ritengono di praticare essenzialmente l’analisi (intesa come disvelamento dell’inconscio) senza necessariamente prendere in considerazione altre variabili (ad esempio il benessere soggettivo del
paziente).
Questa logica assume che il lavoro analitico sia di per sé
curativo, cioè nell’interesse del paziente, e quindi etico. I
limiti di questa posizione teorica (sposata ad esempio da
certi analisti lacaniani, e anche kleiniani prima maniera)
sono stati mostrati dalla Psicologia dell’Io (non a caso invisa a Lacan), che ha sottolineato l’importanza delle difese e della soggettività nell’equilibrio psichico.
È curioso (e forse non casuale) che siano proprio molti
analisti lacaniani oggi a sottolineare con forza la tematica
dell’etica. È possibile che questo richiamo all’etica corrisponda a dei limiti nella loro teoria, mentre l’impianto teorico della Psicologia dell’Io non sentirebbe questo bisogno
dato che include un maggior numero di variabili.
La tematica dell’etica, peraltro, ora è entrata prepotentemente anche nel dibattito psicoanalitico in generale, e ciò
può essere un segno di crisi, nel senso che una mal compresa teoria della tecnica ha finalmente mostrato la corda.
Si pensi al crollo di precedenti concetti “forti” quali la verità dell’interpretazione, la neutralità, l’astinenza, ecc., o
all’ingenua idea che l’analista possa non trasmettere valori: crollando queste precedenti certezze, molti recuperano
concetti prima ritenuti deboli (quali quelli di setting, delle
regole analitiche, ecc.), o si aggrappano all’etica nel tentativo di ritrovare la via smarrita.
Bibliografia
Migone P. Terapia o ricerca della verità? Ancora sulla differenza
tra psicoanalisi e psicoterapia. Il Ruolo Terapeutico
1995;69:28-33. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt69-95.htm.
Migone P. La psicoanalisi, la legge, il pubblico, 2004 (Intervento
alla tavola rotonda “Psychoanalysis and the law”, organizzata il
14 marzo 2004 dal Journal of European Psychoanalysis):
http://www.psychomedia.it/pm/indther/psan/migone.htm.
55
La prassi e le violazioni del setting.
Il problema contemporaneo delle
cosiddette cure multidimensionali integrate
M. Cuzzolaro, S. Ingretolli, F. Temperilli
Università di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Riabilitative dell’Età Evolutiva – SSIM
L’intervento è dedicato a qualche riflessione sul concetto di
setting di fronte ad un fenomeno molto diffuso nella psichiatria e nella medicina contemporanee: le cure multidimensionali integrate.
In campo terapeutico il concetto di setting è legato prima di
tutto alla psicoanalisi per la quale il setting è la cornice tecnica all’interno della quale si svolge il processo analitico.
In psicoanalisi l’idea di setting è stata sempre sospesa fra
una irrinunciabile esigenza di rigore teorico, e quindi etico,
ed il rischio di una rigidità convenzionale, non giustificata
da ragioni di coerenza teorica né da dimostrazioni empiriche
di utilità terapeutica.
Può essere utile ricordare che setting è una parola inglese
che raccoglie molti significati diversi fra loro. Ne ricordiamo qualcuno più evocativo:
– la posizione, la collocazione, l’ambiente, lo scenario;
– il tempo e il luogo in cui l’azione (per esempio in un libro
o in un lavoro teatrale) accade;
– la musica composta perché un particolare testo sia cantato;
– le posizioni possibili dell’interruttore che consente di scegliere fra modi diversi di funzionamento di un meccanismo;
– il castone di un gioiello che accoglie e tiene ferma la gemma.
Pensando ai diversi significati, si possono forse rintracciare
un paio di denominatori generali. Il setting è ciò che colloca, fissa, tiene fermo, dà stabilità. Ma è anche altro e di più:
è ciò che costituisce, che fa essere.
Bene. Che ne è dell’idea di setting nell’universo delle terapie cosiddette multidimensionali integrate che sempre più
spesso chiamano in causa, nel trattamento di uno stesso caso, associati o in successione, metodi d’intervento profondamente diversi sul piano teorico e tecnico e figure professionali plurime? Al tempo d’oggi la competizione delle cure è pressante ed il ruolo possibile di ciascuna di esse, in un
panorama affollato, è materia controversa. Un trattamento
analitico non può ignorare il pullulare di risorse mediche,
ospedaliere, psicofarmacologiche in cui s’immettono i suoi
atti, siano essi riusciti che mancati. La cura dell’anoressia
nervosa è un’illustrazione esemplare. Psicoterapie e psicofarmaci; psicoanalisi e interventi medici e psicoterapeutici
individuali, familiari, di gruppo, cognitivo-comportamentali, psico-educativi. Pensiamo di mettere più buoi al giogo
della cura: la potenza dell’aratro terapeutico aumenta davvero? Interventi che partono da premesse teoriche lontane, a
volte contrapposte, e che mettono in gioco stili della relazione di cura e processi diversi possono accordarsi facilmente nella pratica empirica e contribuire senza frizioni alla guarigione? E chi decide e come che è giunto il momento di associare due o più cure? E poi, come gestire il problema? Il buon governo delle diversità è un’arte difficile.
Soprattutto, è difficile la sintonia dei processi inconsci di
tanti attori. Certo, una collaborazione efficace richiede che
SIMPOSI TEMATICI
le aree di competenza siano distinte con chiarezza, che gli
atteggiamenti, sia espliciti che latenti, siano dialettici e flessibili e che gli interventi siano coordinati. Conflitti eccessivi nel team curante, soprattutto se mascherati e inespressi,
consentono alle resistenze al cambiamento del paziente e
della sua famiglia di creare, sulla scena della cura, processi
di scissione, frammentazione, confusione analoghi a quelli
propri della patologia. Queste misure di buon senso sono indispensabili, ma non sempre sufficienti. Un team, una rete
di professionisti che collabora deve aver ben presente la
complessità del processo terapeutico che si sta svolgendo e
una certa temerarietà dell’impresa. E, per tornare al nostro
tema, è essenziale l’attenzione al setting inteso nel senso di
ciò che colloca nello spazio e nel tempo e tiene insieme, ma
anche e soprattutto nel senso di ciò che costituisce e fa essere il processo della cura attraverso una coerenza teorica e,
quindi, etica.
La variabile Soggetto
G. Meneguz
Pratica privata, Gravellona Toce, VB
In questo contributo l’autore si propone di indicare alcuni
aspetti problematici inerenti la relazione tra etica, deontologia e psicoterapia. Molti psicoterapeuti tenderebbero a bypassare l’importanza della dimensione etica soggettiva dell’agire professionale, generalmente considerata un’implicita
ovvietà.
La mancanza di una ponderata e costante consapevolezza
critica circa alcune variabili personali, soprattutto preconsce, inevitabilmente implicate nell’agire terapeutico, porta a
velare l’esperienza del dubbio etico soggettivo che ogni terapeuta inevitabilmente incontra nello svolgimento del suo
lavoro.
Ne consegue un pacificante disciplinarsi al codice di condotta del proprio Ordine professionale che rischia il formalismo oggettivante.
Di fatto, l’obbedienza alle regole deontologiche non può
coincidere con la sensibilità e la responsabilità etica dello
psicoterapeuta – essendo questi, a tutti gli effetti, un soggetto implicato in una particolarissima relazione mirata al cambiamento (com’è quella terapeutica) con un altro soggetto.
Se l’obbedienza al dettato del codice deontologico, e alla
legge di riferimento, può essere usata difensivamente dallo
psicoterapeuta contro la sensibilità etica di farsi carico delle proprie responsabilità di fronte agli specifici dilemmi professionali, l’irreprensibile fedeltà ai propri valori etici può
esprimersi come scorrettezza deontologica.
I problemi di collisione tra etica e deontologia sono di non
facile soluzione, in quanto rimandano alla complessa e non
risolvibile questione della funzione responsabile dello psicoterapeuta, embricato tra i valori (teorici) della psicoterapia e i valori (effettivi) della società in cui, col suo paziente, è inserito.
Bibliografia
Meneguz G. La psicoanalisi dello Zeitgeist aderente alla prospettiva postmoderna. Psicoterapia e Scienze Umane 2003;2:5-33.
Meneguz G. Psicoanalisi ed etica. Appunti di critica storico-sociale. Torino: Bollati Boringhieri 2005.
Limiti e possibilità della psicoterapia:
una lettura critica
N. Lalli
Attività privata, D.R. Centro di Psicoterapia Dinamica,
Roma
Ai fini di una corretta valutazione dei limiti e delle possibilità delle varie psicoterapie o sedicenti tali, è necessaria una
riflessione su alcune problematiche basilari come la definizione degli scopi e delle finalità, la corretta valutazione degli esiti, l’esplicitazione della complessa dinamica della richiesta e della risposta e soprattutto la valutazione degli
aspetti ideologici nell’universo “psicoterapia”.
Cominciamo con il definire le finalità di una psicoterapia.
Certamente una conoscenza di se stessi, emotiva e cognitiva, il più approfondita possibile, un superamento strutturale
e non puramente sintomatico delle problematiche disfunzionali, anche se egosintoniche, la capacità – alla fine del lavoro – di uno svincolo completo dal terapeuta. Quindi acquisizione da parte del paziente di una sempre maggiore autonomia, responsabilità, capacità di critica e di separazione.
Facendone una lettura al contrario, possiamo affermare che
una terapia che rinforza le difese, basandosi esclusivamente
sul transfert positivo, che rende il paziente passivo perché la
psicoterapia si fonda su un atteggiamento ideologico o che
lo rende succube perché non c’è un termine alla terapia, può
considerarsi come un intervento fallimentare. Passiamo a
valutare la necessità di una corretta valutazione dei risultati.
Se si può essere critici per le procedure di tipo EST (che derivano dalle pratiche di Evidence Based della medicina) non
si può passare alla sponda opposta proponendo l’inutilità di
qualsiasi valutazione e lasciando quindi come unico referente il giudizio del terapeuta. È evidente che una psicoterapia che fonda la propria validazione solo sui casi positivi,
eliminando tutti i casi non risolti (sia per fallimento della terapia o per drop-out) non può pretendere di porsi come un
modello accettabile di psicoterapia. Ancora più inaccettabile è la proposizione di “guarigioni” senza alcun fondamento e senza alcuna prova (se non la cieca osservanza degli
adepti): comunque ben poca cosa rispetto alle “guarigioni”
ottenute da alcuni telepredicatori americani. Di fronte ad un
Benny Hill o ad un Milingo di qualche anno fa, alcuni psicoterapeuti morirebbero di invidia. Un ulteriore punto è il
complesso problema della richiesta e della offerta nel campo della psicoterapia.
Sicuramente la domanda di cura psichica è aumentata negli
ultimi anni ed ovviamente – come risulta dalla ben nota regola del mercato – è aumentata anche l’offerta: offerta che
spesso non corrisponde ai criteri sopra descritti ai fini di ritenere valida una psicoterapia. La domanda di aiuto, per chi
soffre di un malessere psichico o di una psicopatologia, è
come ben sappiamo, una domanda mascherata, elusiva, ambivalente: ma questa è la caratteristica del paziente con una
psicopatologia. Purtroppo queste stesse dinamiche possono
essere utilizzate o essere presenti in molte delle offerte che
propongono la psicoterapia o attività similari come risposta,
risposta che è speculare a quella del paziente ovvero elusiva, mascherata, ambigua e che finisce per manipolare il paziente utilizzando la suggestione o la collusione. Dal momento che casi del genere (malpractice o empairment del terapeuta) sono studiati nell’ambito della terapia duale mi sof56
SIMPOSI TEMATICI
fermerò su quanto accade nell’ambito delle situazioni di
gruppo. Infine, mi soffermerò sul problema dell’ideologia.
Se per ideologia intendiamo un pensiero acritico, incapace
di apprendere dall’esperienza e quindi dall’analisi dell’esperienza e dell’errore, che non ritiene doversi modificare
pur di fronte a prove evidenti della falsificazione dei presupposti teorici, allora possiamo dire che molte psicoterapie
sono profondamente ideologiche. Quindi è impossibile giudicare la validità di una psicoterapia, validità che è compresa tra i poli del limite e della possibilità? E poi, a chi spetta
il giudizio circa la validità? Molto sinteticamente, ritengo
non solo che sia possibile esprimere giudizi circa la validità,
ma soprattutto che i giudici siano gli stessi psicoterapeuti
sempre che conservino un pensiero critico e non ideologico.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA VERDE
S19 - La neurogenesi nei disturbi neuropsichiatrici:
nuove prospettive in riabilitazione
MODERATORI
G. Perini, G. Kempermann
Modulazione della neurogenesi e disturbi
neuropsichiatrici: dalla preclinica alla clinica
G. Perini
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Padova
La neurogenesi nel cervello adulto umano è ormai riconosciuta essere un meccanismo di plasticità neuronale che,
seppure limitato sia nell’entità che nella sede a poche cellule progenitrici localizzate nello strato subgranulare dell’ippocampo e nell’area subventricolare, è di notevole importanza funzionale sia nel cervello sano che in alcune patologie di interesse neuropsichiatrico come la Depressione Ricorrente, i disturbi post-traumatici da stress, la Schizofrenia
il morbo di Cushing, i traumi cranici, l’epilessia temporale,
le fasi iniziali della malattia di Alzheimer e probabilmente
anche i danni da radiazione.
La particolare localizzazione della neurogenesi in un’area
cerebrale, quella dell’ippocampo che costituisce una delle
strutture limbiche filogeneticamente e citoarchitettonicamente più antiche e che ha un ruolo fondamentale in importanti funzioni cognitive (memoria episodica) emotive (regolazione del tono dell’umore) neuroendocrine (regolazione
dell’HPA e delle risposte allo stress da parte dei glucocorticoidi) può aiutare a comprendere come una sua alterazione
possa intervenire in più di un processo fisiopatologico in disturbi apparentemente lontani fra loro.
La modulazione della neurogenesi è stata ampiamente studiata in numerosi modelli animali, dal ratto alla scimmia e i
dati preclinici costituiscono ormai una base di partenza sufficientemente ampia per poter iniziare a testare la sua importanza anche nei modelli umani e nella patologia.
Brevemente la neurogenesi costitutiva ippocampale è stimolata da una serie di fattori ambientali ed ormonali quali
la stimolazione ambientale, la complessità ambientale, fattori ormonali e neurotrofici, antagonisti dei glucocorticoidi,
terapie antidepressive e modulanti il tono dell’umore, mentre viene inibita dallo stress ambientale pre-postnatale, deprivazione ambientale, glucocorticoidi, farmaci che stimolano i recettori NMDA o che favoriscono l’excitotossicità
Ca-dipendente.
Utilizzando come misure della funzione ippocampale e
quindi indirettamente della neurogenesi in vivo la volume-
57
tria ippocampale e la memoria episodica, alcuni disturbi
neuropsichiatrici sono stati correlati ad una sua riduzione
stress/o glucocorticoidi-indotta. Scopo della presentazione è
quello di presentare una breve review degli studi che trattano questi disturbi da questa particolare angolazione, presentare alcune linee di ricerca e dati preliminari sviluppati dal
nostro gruppo di ricerca e proporre anche alcune ipotesi
neurofarmacologiche relative alla capacità delle molecole
antidepressive e stabilizzanti di modulare in senso positivo
la neurogenesi, e quindi le funzioni ippocampali
Activity-dependent regulation of adult
hippocampal neurogenesis
G. Kempermann
Max Delbrück Center for Molecular Medicine (MDC)
Berlin-Buch and VolkswagenStiftung Research group at the
Dept. of Experimental Neurology, Charité University Medicine Berlin, Germany
Introduction: this presentation gives an overview of the exciting recent developments in the field of adult neurogenesis in the hippocampus and discusses some of the evidence
that a disturbance of adult neurogenesis might contribute to
the pathogenesis of psychiatric disorders. The focus of the
talk is on the activity-dependent control of adult neurogenesisa and on the possible contribution of adult neurogenesis
to hippocampal function.
Methods: review of own animal studies and of the relevant
literature.
Results: adult neurogenesis is neuronal development under
the conditions of the adult brain, which in general are nonif not anti-neurogenic. Neuronal development in the hippocampus proceeds through a number of identifiable stages,
which are differentially regulated. Newest data suggest the
mechanisms, by which cognitive and other stimuli reach the
precursor cells and their progeny and how specificity of the
regulation is achieved. Our hypothesis is that adult hippocampal neurogenesis allows a lifelong optimization of the
mossy fiber connection in the hippocampus and to adapt the
hippocampal circuitry to cope with a level of complexity
frequently encountered by an individual.
SIMPOSI TEMATICI
Conclusions: neuronal development in the adult hippocampus is tightly regulated by different types of activity. As far
as the hippocampus is concerned, disorders such as major
depression might reflect a long-term failure of cellular plasticity. Besides other mechanisms of action, psychotropic
drugs including antidepressants might modulate cellular
plasticity. At the same time, adult hippocampal neurogenesis might contribute to the basis for the clinical observation
that activity is “good for the brain”.
Ruolo della Neurogenesi nella riabilitazione
delle cerebrolesioni acquisite
A. Martinuzzi, F. Nifosi, P. Amistà, M. Scanarini, G. Perini
IRCCS “E. Medea” Polo Regionale di Conegliano, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Padova
Introduzione: il riconoscimento che in alcune aree dell’encefalo adulto è attiva in modo costitutivo una rigenerazione neuronale, e che la neurogenesi può essere attivata in altre, apre prospettive del tutto nuove sia nella comprensione della patogenesi del danno cerebrale in patologie alquanto eterogenee quali la depressione, la sindrome
di Cushing, il trauma cranico, sia nell’ambito delle possibilità riabilitative. Accanto all’approccio sostitutivo potrebbe delinearsi infatti una del tutto nuova potenziale strategia restituiva.
La dimostrazione che tali condizioni si associano a modifiche strutturali verosimilmente secondarie ad una modulazione della neurogenesi è prerequisito essenziale per
proporre un domani trials terapeutici aventi l’obiettivo di
percorrere l’opzione riabilitativa restituiva potenziando la
neurogenesi. Analogamente la conferma della modulazione positiva della neurogenesi costitutiva e non da parte di
agenti farmacologici potrebbe condurre all’ingresso di tale armamentario terapeutico nei progetti riabilitativi di
soggetti con TC.
Metodologia: 20 soggetti con diagnosi di trauma cranico
(TC) moderato non interessante direttamente le strutture ippocampali vengono reclutati in un protocollo di ricerca che
mira a verificare:
a) la presenza di variazioni volumetriche dell’ippocampo a
medio lungo termine dopo TC;
b) la correlazione di eventuali variazioni volumetriche con
parametri funzionali cognitivi;
c) la correlazione tra i precedenti parametri e variabili biochimiche umorali (BDNF, Cortisolo, ACTH, ormoni tiroidei).
Il protocollo prevede entro il primo mese dopo TC:
1) una RMN con volumetria ippocampale utilizzando un
software dedicato (DCMSuite);
2) valutazione neuropsicologica;
3) misurazione di livelli ematici dei metabolici di interesse.
Le stesse analisi verranno ripetute dopo 12 mesi.
Risultati e Conclusioni: i soggetti sono in reclutamento e
sono acquisite le valutazioni basali. Verranno presentati i
dati relativi ai primi pazienti reclutati, e verranno discusse le
implicazioni operative in termini di opzioni e indicazioni di
trattamento.
I sintomi non cognitivi nell’anziano: dati
preliminari sui correlati psicopatologica
e morfofunzionali di pazienti con
decadimento cognitivo lieve-moderato
A. Palma1, L.C Bergamo2, A. Morra3, A. Guglielmo3,
L. Barachino3, G.L. Alati3, P. Pancheri1
1
III Clinica Psichiatrica, Servizio Speciale di Medicina Psicosomatica e Psicofarmacologia Clinica, Università di Roma “La Sapienza”; 2 Responsabile U.O. Semplice di Coordinamento tra Neurologia e Psichiatria DSM Padova Anestesia Rianimazione; 3 Diagnostica per Immagini di Euganea Medica Padova
Introduzione: attualmente anche se le basi neuroanatomiche e i meccanismi funzionali sottostanti ai disturbi
psichiatrici sono ancora da chiarire, i risultati delle ricerche centrate sull’indagine morfofunzionale rispetto ad
uno screening neuropsichiatrico dei pazienti con decadimento cognitivo secondario a demenza degenerativa primaria lieve-moderata, hanno portato ad interpretare almeno una parte dei disturbi psichici e comportamentali della
demenza, non semplicemente come reattivi alla malattia o
secondari al deterioramento cognitivo, ma come espressione della disfunzione di specifiche aree associative cerebrali.
Le disfunzioni metaboliche di alcune aree cerebrali interessate dal processo degenerativo trovano infatti significative correlazioni con i segni e i sintomi indicativi di un
disturbo affettivo-emozionale in una fase clinica che spesso precede un’evidente deficit della performance cognitiva 1.
Un’interessante documentazione scientifica è disponibile
infatti su come l’apatia e l’agitazione siano tra i sintomi
psichiatrici che emergono con maggiore frequenza in soggetti con demenza soprattutto tipo Alzheimer (rispettivamente 72 e 60%), seguiti dall’ansia (45%), dalla irritabilità (42%), dalla depressione (38%), dalla disinibizione
(36%), dai deliri (22%) e dalle allucinazioni (10%) 2.
Le ricerche finora condotte non sempre hanno riportato risultati tra loro omogenei.
Restano da chiarire gran parte dei meccanismi neurobiologici e gli aspetti anatomofunzionali alla base dell’eterogeneità clinica psicopatologica dei processi degenerativi
cerebrali nel paziente anziano.
Persiste, tuttavia, una scarsa chiarezza se tra i fattori patogenetici dei sintomi non cognitivi della demenza vi sia
un’eventuale alterazione dei processi di integrazione e dei
circuiti associativi tra le diverse aree cerebrali piuttosto
che modificazioni strutturali specifiche di alcune aree cerebrali anatomicamente e biologicamente preposte alla regolazione di determinate funzioni cognitive, emotivo-affettive, del comportamento e quindi del funzionamento
generale dell’individuo.
Obiettivi: primo obiettivo delle ricerca è valutare eventuali correlazioni tra sintomi psichiatrici positivi, negativi
e comportamentali rispetto alla gravità del deficit cognitivo.
Un secondo obiettivo è definire, secondo un’analisi epidemiologica statistica trasversale, gli indici di prevalenza
e la morbilità dei sintomi non cognitivi tra i soggetti con
probabile o accertato decadimento cognitivo.
58
SIMPOSI TEMATICI
Terzo obiettivo è esplorare le relazioni tra alcuni clusters
di sintomi psichiatrici costituiti ad esempio disturbi dell’ideazione, Disturbi del Comportamento e le alterazioni
morfofunzionali di specifiche aree corticali e sottocorticali simmetriche Quarto obiettivo è definire relazioni tra l’eventuale asimmetria delle alterazioni morfofunzionali rispetto alla presenza disturbi psicologici, sintomi psicotici
e comportamentali.
Materiali e Metodi: sono stati valutati 20 soggetti con
diagnosi Mild Cognitive Impairment e con Demenza Degenerativa Primaria di grado lieve-moderata, secondo i
criteri tassonomici del NINCDS/ADRDA e del DSM IV
con MMSE < 26. I pazienti, afferenti all’U.O.F. di coordinamento Neuropsichiatria DSM Padova, sono stati sottoposti ad un intervista preliminare di selezione secondo i
criteri di inclusione dello studio, ad una valutazion neuropsicologica e attraverso una batteria di scale per lo studio
del decadimento cognitivo e dei disturbi psico-comportamentali.
Di seguito sono stati sottoposti a valutazione neuroradiologica attraverso Risonanza Magnetica funzionale. L’età
della popolazione in esame è stata definita tra i 55 e gli 85
anni.
Risultati: vengono discussi i dati preliminari delle correlazioni osservate tra le ROI di alcune aree corticali e sottocorticali valutate secondo una tabella di registrazione
standardizzata per referti ispettivi per Risonanza Magnetica funzionale e gli indici parziali e totali delle scale di
valutazione utilizzate per la valutazione neuropsicologica
e psicopatologica dei soggetti arruolati nella ricerca con
MCI o demenza lieve-moderata.
Bibliografia
Sultzer DL, Mahler ME, Mandelkern MA, Cummings JL,
Van Gorp WG, Hinkin CH, et al. The relationship between
psychiatric symptoms and regional metabolism in
Alzheimer’s disease. J Neuropsychiatry Clin Neurosci
1995;7:476-84.
2
Mega MS, et al. The spectrum of behavioral modifications
in Alzheimer’s disease. Neurology 1996;46:130-5.
3
Ponton MO, Darcourt J, Miller BL, et al. Psycometric and
SPECT studies in Alzheimer’s disease with and without
delusions. NNBN 1995;8:264-70.
4
Starkstein SE, Vazquez S, Petracca G, et al. A SPECT study
of delusions in Alzheimer’s disease. Neurology
1994;44:2055-9.
5
Kotrla KJ, Chacko RC, Harper RG, et al. SPECT findings
on psychosis in Alzheimer’s disease. Am J Psychiatry
1995;152:1470-5.
59
Identificazione nelle cellule granulari
di cervelletto di ratto di precursori neurali
in grado di proliferare e di differenziarsi
in risposta ad un trattamento cronico
con SSRI
P. Giusti
Dipartimento di Farmacologia ed Anestesiologia, Università di Padova
Studi condotti con la risonanza magnetica ed esami autoptici hanno evidenziato come i pazienti depressi presentano
una significativa riduzione del volume ippocampale. Tale riduzione volumetrica è antagonizzata da un efficace trattamento con antidepressivi. Inoltre, molti di questi farmaci, se
somministrati cronicamente nel soggetto adulto, inducono, a
livello del giro dentato dell’ippocampo, proliferazione cellulare e neurogenesi. Queste evidenze sperimentali hanno
portato all’ipotesi che i farmaci antidepressivi possono esercitare alcuni dei loro effetti terapeutici inducendo neurogenesi a livello dell’ippocampo di soggetti adulti.
La neurogenesi indotta da antidepressivi non sembra essere
confinata all’ippocampo ma coinvolge anche altre aree del sistema nervoso centrale, come ad esempio il cervelletto, che
finora non sono mai state segnalate come neurogenetiche. In
particolare, utilizzando una coltura di cellule primaria di cervelletto di ratto, si è dimostrata la presenza di elementi indifferenziati che, in risposta a vari stimoli farmacologici, sono in
grado non solo di proliferare ma anche di differenziarsi in
neuroni, glia od oligodendroglia. Uno di questi stimoli è rappresentato dagli SSRI in generale e dalla fluoxetina in particolare. Questo farmaco, se addizionato alla coltura per almeno 72 ore, si è dimostrato in grado, non solo di aumentare significativamente la proliferazione di questi elementi cellulari
indifferenziati, ma anche di favorirne il differenziamento incrementando significativamente la componente neuronale
presente nella coltura stessa. Tali effetti si realizzano attraverso un blocco del trasportare della serotonina con conseguente aumento del neurotrasmettitore nello spazio extracellulare,
stimolazione del sottotipo recettoriale 5HT1A, attivazione
della famiglia di enzimi ad attività fosforilasica MAP-chinasi, che sono in grado sia di attivare il sistema delle cicline (in
particolare la ciclina D1) e delle chinasi ad esse associate (cyclin dependent kinase, CDK) con conseguente aumento della
trascrizione dei geni necessari per la proliferazione cellulare,
nonché di determinare la comparsa in queste cellule del fenotipo neuronale (differenziamento cellulare).
Resta tuttavia da stabilire se la risposta neurogenica indotta
dagli antidepressivi a livello cerebellare possa avere una rilevanza clinica nella malattia depressiva.
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA NUREYEV
S20 - La libertà è terapeutica? Vecchie e nuove sfide
delle tecniche e dei contesti di cura
MODERATORI
L. Ferrannini, F. Scapati
Psichiatria e libertà - un rapporto ambiguo
*
P.F. Peloso, C. Vecchiato
DSM dell’ASL 3, Genova; * Azienda Sanitaria Ospedaliera
“S. Croce e Carle”, Cuneo
Plessner sembra individuare radici comuni tra libertà e follia nell’eccentricità e nell’antagonismo del soggetto rispetto
alla propria posizione nella vita, dalla quale egli deve prendere ogni volta le distanze per essere se stesso; forse anche
per questo il rapporto triangolare tra libertà, follia e psichiatria è attraversato da ambiguità, equivoci, opzioni dicotomiche a molteplici livelli.
Libertà della follia o libertà dalla follia: a questo passaggio Foucault riconduce il grande internamento.
Il problema è se la follia “appartiene” al soggetto e ne rappresenta l’erompere di pulsioni, desideri, aspirazioni arcaici
e svincolati da razionalità e regole del vivere insieme (la libertà quindi e la piena verità).
O se essa è invece per lui elemento opprimente e estraneo,
come il microrganismo che infetta o il tumore che invade
dall’interno, dal quale il soggetto deve liberarsi perché la
sua libertà e verità trovino realizzazione.
O se, ancora, follia e ragione concorrono entrambe alla verità e alla libertà di quel soggetto, che deve cercare tra esse,
di volta in volta, il punto di sintesi e equilibrio capace di
rendere la sua soggettività e la sua vulnerabilità complementari (Minkowski).
Libertà come concessione o come diritto: nel sostenere
l’abolizione della contenzione meccanica al XII Congresso
della Società Freniatrica (1904) E. Belmondo parla con lungimiranza della maggiore libertà da concedersi in futuro al
malato in psichiatria.
Ma dagli anni ’50 la libertà cessa di essere la concessione
che psichiatria e società fanno al malato, e diventa un diritto che può andare incontro, eccezionalmente e motivatamente, semmai a restrizione.
L’assistenza non riguarda allora preferibilmente tutta la
giornata (Fanon), il ricovero è ordinariamente volontario, la
terapia consensuale, i reparti e le residenze non hanno porte
chiuse da aprire, ma porte aperte che potranno solo se necessario essere chiuse.
Libertà come presupposto e obiettivo della psichiatria:
l’incontro medico-paziente in medicina, e ancor più in psichiatria, è immaginato dagli anni ’50 come incontro “tra due
libertà” (Fanon).
A imporlo non è solo una diversa sensibilità etica, ma anche
una nuova consapevolezza diagnostica (solo nella libertà è
la verità del soggetto), e una diversa concezione della terapia (la psichiatria che diventa per Basaglia “Pedagogia della libertà”).
Libertà nella psichiatria e libertà dalla psichiatria: negli
anni ’50 si pone un’altra questione: il fatto che la libertà del
soggetto nella psichiatria, la sua partecipazione a processi di
cura personali e gruppali, trova senso nella prospettiva della sua progressiva libertà dalla psichiatria attraverso la partecipazione a processi altri, pertinenti alla vita in generale:
per questo, il fine della psichiatria è la fine della psichiatria
per quel soggetto.
La scelta libera: dal dissenso alle cure
alle direttive anticipate
F. Scapati, D. Suma*, L. Ferrannini**
Direttore DSM AUSL TA/1; * Direttore U.O.P. Distretto 2
AUSL BR/1; ** Direttore DSM ASL3 Genova
Una persona che non è in grado di esprimere un valido
consenso verso un trattamento può essere sottoposto comunque ad un intervento sanitario, se ci sono le condizioni dello stato di necessità (presenza di un pericolo attuale,
per scongiurare un pericolo, in mancanza di alternative terapeutiche) ovvero nei casi previsti dalla legge quali TSO
ed ASO.
Nel caso invece di un paziente che esprime il proprio valido dissenso verso un trattamento e non vi sono le condizioni per un trattamento sanitario obbligatorio, e non si tratta
di un minore o interdetto, né si può invocare una condizione di necessità, va rispettata la volontà del paziente, limitando l’intervento terapeutico solo in quei casi previsti dalle norme.
Per una corretta gestione contrattualistica del rapporto medico-paziente è discriminante intercettare il consenso al trattamento informando su tutti i limiti ed i rischi ad esso correlati. Sicché ogni trattamento effettuato contro l’esplicito
dissenso del paziente potrebbe configurare gli estremi di
violenza privata.
È evidente che si pongono problemi sotto il profilo etico e
medico-legale, ma anche in tutta l’area del rapporto medicopaziente, dove spesso è arduo orientarsi tra la volontà del
paziente e la tutela della salute e della vita.
Tuttavia sul piano operativo l’assenza di confini giuridici
certi dell’intervento, lo espone a discrasie: basti pensare alla determinazione di un soggetto al suicidio e alla liceità
dell’intervento medico anche quando si può configurare un
rischio concreto per la salute (sciopero della fame).
L’esclusione di eventuali condizioni che possano viziare la
libertà del dissenso, e la possibilità che sia liberamente
espresso, rappresenta l’area di competenza dello psichiatra.
Problematiche simili si pongono nella analisi della validità giuridica ed etica delle direttive anticipate, quando
a causa della perdita di coscienza, per cause patologiche, non è possibile per la persona difendere il proprio
diritto di libertà. Le situazioni prospettate sono differenti ed investono la possibilità di rifiutare un tratta60
SIMPOSI TEMATICI
mento medico anche a rischio della propria vita (ad
esempio il diniego di trasfusione nei testimoni di
Geova) ovvero la liceità di trattamenti, trapianti di
organi, sperimentazione clinica, in pazienti che non
possono esprimere il proprio dissenso.
Non esiste una normativa specifica che possa tutelare completamente l’operare del medico, per cui l’intervento deve
mediare tra norme che sanciscono il principio della libertà
del paziente – e quindi anche della libertà di decidere se sottoporsi ad un intervento terapeutico (art. 13 e 32 Costituzione, art. 5 CC) – e le norme giuridiche del corretto trattamento medico.
Un orientamento, ma solo sul piano etico, lo fornisce il Codice di Deontologia Medica, che prevede nell’art. 34 come
il medico, in caso di pericolo di vita e di incapacità del paziente ad esprimere una volontà, deve tener conto di quanto
espresso dallo stesso precedentemente.
I trattamenti senza consenso
G. Favaretto
DSM ULSS 7, Friuli Venezia Giulia
Le definizioni legislativa e clinica dei trattamenti senza
consenso rappresentano dal punto di vista sociale, medico
legale e culturale un aspetto determinante delle definizione della identità dello psichiatra e della psichiatria in generale.
L’esame di queste situazioni comporta una illustrazione dei
seguenti aspetti:
– principi etici e criteri medico-legali attraverso i quali si
definisce il consenso e la sua assenza;
– il contributo della psicopatologia a tale aspetto della relazione con il paziente;
– gli aspetti normativi che consentono l’attuazione di tali
trattamenti;
– i principi che sottendono a tali aspetti normativi;
– i diritti e le garanzie relativi a tali trattamenti;
– il rapporto fra questi trattamenti e la continuità delle cure
e della presa in carico;
– le diverse soluzioni all’interno dei quadri legislativi di
paesi diversi.
Definite queste caratteristiche vengono presi in esame gli
aspetti di problematicità nella attuale normativa relativamente alla definizione e alla esecuzione dei trattamenti senza consenso e si tenta una analisi dei bisogni emergenti da
una pratica oramai quasi trentennale della legge in vigore
61
nel nostro paese valorizzandone gli aspetti positivi dal punto di vista dei principi etici e culturali e discutendo degli
aspetti problematici, come quelli legati alla facilità con cui
una certa applicazione dei trattamenti senza consenso può
riportare la psichiatria sul terreno della custodia e del puro
controllo sociale.
La “cura” in assenza di libertà:
il trattamento in carcere ed in OPG
E. Pirfo
Dipartimento di Salute Mentale “Giulio Maccacaro”,
ASL 3 Torino
Le pratiche psichiatriche in carcere oggi sembrano correlate a due scuole di pensiero che si contrastano non sempre in
maniera trasparente.
Il primo modo di guardare al problema (che potremmo definire di pubblica sicurezza) è che le carceri siano uno degli
elementi del sistema di ordine sociale, contenendo fisicamente chi ha commesso reati, sia pure se essi sono stati
commessi in stati psichici alterati; la seconda interpretazione (che potremmo definire garantista) è che al di sopra di
tutto debba esserci il diritto di cittadinanza e il rispetto dei
bisogni del singolo.
Nella prima prospettiva, occuparsi di disturbi mentali in carcere risponde alla logica di confermare la restrizione detentiva di coloro che possano in qualsiasi modo insidiare alla
tranquillità degli altri e quindi se gli OPG restino o no aperti o se essi debbano essere sostituiti da altri contenitori assume un’importanza puramente ragionieristica, di mera valutazione economica.
Nella seconda modalità di lettura, OPG e Carcere sono
luoghi sociali da ri-pensare e ri-progettare in generale nel
loro significato di punizione certa e giusta ma anche, in
particolare, della garanzia che della pena giusta e certa
non faccia parte anche non-curare l’eventuale malattia psichica, alla quale deve essere invece data una risposta clinica, a prescindere dal fatto che il portatore sia autore di
reato.
Il rapporto tra libertà di scelta e diritto al rifiuto ed al dissenso alle cure sono un’opzione che deve trovare nuove declinazioni in un ambiente dove per definizione la libertà è
coercita e la volontà del singolo trova collocazione solo nel
rispetto delle regole istituzionali.
L’intervento vuole focalizzare i problemi etici, clinici, formativi ed organizzativi connessi a queste pratiche.
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN GIOVANNI
S21 - Formazione e comunicazione
in medicina generale
MODERATORI
A. Bellomo, M. Nardini
L’esperienza delle Linee guida pugliesi per la
diagnosi e il trattamento della depressione
in MG
G. Di Sciascio, A. Rampino, S. Calò, A. Papazacharias,
M. Nardini
Formazione alle abilità di comunicazione
in MG Esperienza di un training mirato
A. Bellomo* **, A. Petito*, M. Ferretti*, S.A. Papagni*,
V. Orsi**, S. Iuso*, L. Matrella**
*
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Università di Foggia, Dipartimento di Scienze Mediche e
del Lavoro; ** Dipartimento Misto di Salute Mentale ASL
FG3, Università di Foggia
Obiettivi: in attuazione del PSN 1998-2000 ed al fine di
promuovere la qualità assistenziale nello specifico settore, è
stato avviato in Puglia un progetto per individuare linee guida Diagnostico-Terapeutiche-Gestionali sulla Depressione,
quale sintesi di conoscenza scientifica e razionale pratica
clinica in un campo in cui, a causa di differenti orientamenti scientifici, si registra una notevole variabilità di approccio
clinico, livello specialistico e soprattutto, nelle cure primarie, con conoscenze disomogenee sulle modalità diagnostico-terapeutiche e un frequente inadeguato riconoscimento e
trattamento della patologia stessa, con ripercussioni negative in termini di morbilità e mortalità inevitabili.
L’obiettivo principale delle linee guida è fornire ai medici di
medicina generale pugliesi un approccio pratico al trattamento della depressione, compatibilmente ai principi dell’Evidence Based Medicine, in un contesto socio-culturale
che considera ancora oggi la patologia psichiatrica ghettizzante. Il progetto rende disponibile ai professionisti ed ai
cittadini uno strumento operativo garante dell’uso appropriato, efficace ed efficiente di interventi inclusi nei Livelli
Essenziali di Assistenza.
Materiali e metodi: dal 2003 a tutt’oggi, presso l’AReS-Puglia, è stato costituito un gruppo di coordinamento con esperti in metodologia, clinici specialisti in psichiatria (Board Regionale), individuati dall’AReS e un gruppo di esponenti delle società scientifiche di ambito psichiatrico maggiormente
rappresentative. Il Board regionale, applicando il “metodo
Agree”, che comporta un’accurata disamina, analisi e sintesi
della letteratura, ha prodotto una bozza di documento, poi
condivisa e valicata dai rappresentanti delle società scientifiche. Le lg sono state sottoposte alla valutazione dei medici di
medicina generale, destinatari finali delle stesse, per ottenere la validazione ultima. Evento conclusivo della prima parte dell’iter è stata la “Consensus Conference”, momento ufficiale di confronto tra board regionale da un lato e giuristi,
associazioni di cittadini, esperti non coinvolti nel processo di
validazione iniziale dall’altro.
Risultato: la “Consensus Conference” ha condotto alla condivisione del documento presentato da parte dell’assemblea
e al riconoscimento dell’innovatività della proposta in relazione agli obiettivi del progetto, dimostrando che le lg costituiscono un’occasione per la costruzione di una “rete comunicativa” per la gestione della depressione in Puglia e per
il superamento del tradizionale isolamento dei medici di
medicina generale.
Circa un terzo della popolazione che frequenta gli studi dei
medici di medicina generale (MMG) italiani è affetto da un
disturbo di natura psichica. Di tale popolazione, il 16% presenta un quadro clinico ben definito secondo la nosografia
ufficiale mentre un altro 18% viene considerato “sottosoglia” cioè con punteggi alle varie scale che non raggiungono la significatività diagnostica; sono però pazienti affetti da
un disturbo psichico comunque importante.
Dunque è chiaro che il MMG ha un ruolo fondamentale nella diagnosi precoce sia di condizioni psichiatriche evidenti
sia di situazioni molto più larvate, quali sono i sintomi “sottosoglia”. È necessario sottolineare, tuttavia, che il MMG
incontra notevoli difficoltà di ordine culturale, emotivo,
professionale, organizzativo ed istituzionale nei confronti di
un’adeguata gestione del disturbo psichico.
Numerosi studi hanno dimostrato che la capacità del MMG
di riconoscere e diagnosticare correttamente i disturbi psichiatrici è strettamente connessa alle sue “communication
skills” ovvero alle risorse di cui dispone nella gestione del
colloquio clinico.
Alcune ricerche, infatti, hanno dimostrato che adeguati training di abilità comunicative miglioravano l’accuratezza dei
medici nel riconoscere il disagio psichico dei propri pazienti. Sulla base di queste ricerche sono state ipotizzate delle
metodiche per la formazione del MMG sulle abilità di comunicazione; gli elementi di tali metodiche sono stati identificati nell’uso del video e delle tecniche di role playing,
nel setting di gruppo, nell’identificazione di adeguate scale
di riferimento.
Nella presente relazione sono descritte le tecniche utilizzate
al fine di migliorare le abilità di comunicazione (training di
Communication Skills) di un campione di MMG pugliesi e
di un campione di studenti del corso di laurea in medicina e
chirurgia dell’Università di Foggia. I risultati dei due training sono stati messi a confronto mediante l’utilizzazione di
alcune scale di valutazione. I risultati oltre a fornire un chiaro miglioramento della abilità comunicative dei due campioni in esame, hanno evidenziato alcune significative differenze tra di essi.
L’intervento formativo, principalmente pratico e interattivo,
si è posto gli obiettivi di rendere consapevoli le principali
variabili del processo comunicativo MMG-paziente e di
proporre tecniche specifiche e flessibili che utilizzano le
componenti emotive, psicologiche e sociali, al fine di instaurare una comunicazione efficace.
62
SIMPOSI TEMATICI
Come promuovere stili di vita salutari:
progetto AReS Puglia
A. Petito, A. Bellomo, G. Perilli*, P. Fiore, D. Sinesi**,
A. Battista*, M. Nardini***
Dipartimento di Scienze Mediche e del Lavoro, Università
di Foggia; * ARES- Puglia; ** Azienda Policlinico di Bari;
***
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche,
Università di Bari
Introduzione: il miglioramento degli stili di vita rappresenta uno strumento di prevenzione primaria per soddisfare il
cittadino nel suo bisogno di tutela della salute; soddisfare
questo bisogno è prioritario quanto soddisfare il bisogno di
accedere alle cure ed all’assistenza.
L’educazione alla salute alimentare e l’educazione alla promozione dell’attività fisica sono state indicate dall’AReS
Puglia di concerto con l’Assessorato alla sanità tra le aree
prioritarie delle attività formative 2005 correlate all’attuazione del PSR.
I Medici di medicina generale possono svolgere un ruolo
determinante e strategico nel raggiungimento dell’obiettivo
formativo di interesse nazionale del “miglioramento degli
stili di vita”, in quanto tale categoria di professionisti è considerata come privilegiata e fiduciaria nei rapporti con i cittadini-pazienti.
Si ritiene pertanto opportuno migliorare le competenze dei
professionisti succitati per affinare le loro capacità comunicative con i pazienti e puntualizzare i corretti contenuti
scientifici da veicolare nei loro momenti di educazione alla
promozione di un corretto stile di vita.
Obiettivi generali:
1. trasferire ai medici di medicina generale della regione Puglia i più recenti contenuti scientifici sulla Evidence Based Medicine che concorrono ad individuare una serie di
atteggiamenti concreti atti a definire un corretto stile di
vita mediante l’educazione sia alla promozione dell’attività fisica che alimentare, nonché le più corrette strategie
comunicative sulle Evidence Based Education per meglio
veicolare tali suggerimenti;
2. aumentare il numero dei cittadini pugliesi che, attraverso
l’attività di educazione sanitaria svolta dai medici di medicina generale, vengono sensibilizzati al miglioramento
dello stile di vita ovvero ad una corretta alimentazione o
ad una idonea attività fisica;
3. verificare attraverso i medici di medicina generale l’efficacia finale del progetto formativo con l’accertamento del
reale grado di cambiamento dello stile di vita;
4. ridurre il rischio di sviluppare patologie correlate ad uno
stile di vita non corretto.
Questi obiettivi sono strettamente collegati e coerenti con
gli obiettivi formativi di interesse nazionale stabiliti dalla
Conferenza permanente tra lo Stato e le regioni: nello specifico entrambi i progetti formativi hanno l’obiettivo dell’Educazione Sanitaria e del Miglioramento degli Stili di vita.
Obiettivi formativi specifici:
1. al primo incontro, adozione di un decalogo (linee guida)
e definizione di una check-list sui processi comunicativi
effettuata da tutti i partecipanti sotto la guida di un esperto. Utilizzazione di tali documenti dagli stessi medici durante l’attività ambulatoriale;
2 trasferimento dei contenuti relativi agli standard di un
63
modello di vita salutare e corretto ai medici di medicina
generale;
3 verifica, durante le reali attività ambulatoriali dei medici
di medicina generale, delle condizioni degli stili di vita
dei cittadini-pazienti per poi registrarne eventuali cambiamenti e miglioramenti.
Metodologia: la sperimentazione ECM dura 150 giorni, le
caratteristiche più evidenti sono:
1 l’adozione di strategie comunicative attraverso le quali si
arriva al “cosa” attraverso il “come”;
2 il follow-up formativo per misurare l’efficacia al 61° giorno.
Il primo incontro è caratterizzato da informazioni sui contenuti del corso e formazione alle Communication skills; il secondo incontro, al 61° giorno ed il terzo incontro, al 149°
giorno sono di valutazione.
I singoli medici presentano i dati con i relativi indicatori
inerenti il numero di pazienti che, sensibilizzati, hanno cambiato stili di vita totalmente o parzialmente (linee guida) in
rapporto al numero di pazienti che sono stati sensibilizzati
da protocollo comunicativo alla promozione dell’attività fisica (check-list sui processi comunicativi).
Ogni edizione è dedicata ad un massimo di 40 partecipanti
e si svolge in aule individuate dall’Ufficio Formazione di
ogni AUSL. Ognuna delle 12 AUSL della Puglia ha partecipato al progetto sperimentale ECM. Tale progetto rappresenta a tutt’oggi un evento formativo altamente qualificante, con il più alto rapporto tra ore in aula e crediti (16 ore per
40 crediti).
Risultati e conclusioni: è la prima volta che un progetto
formativo sperimentale, destinato ai medici di medicina generale del sistema sanitario della regione Puglia, presenta un
teaching communication skills.
Inoltre, dai dati con i relativi indicatori inerenti il numero di
pazienti che, sensibilizzati, hanno cambiato stili di vita totalmente o parzialmente in rapporto al numero di pazienti
che sono stati sensibilizzati dal protocollo comunicativo alla promozione dell’attività fisica, possiamo dedurre che, i
training di communication skills sono da considerarsi fattori di buona predittività nell’efficacia di induzione alla promozione di stili di vita salutari.
La diffusione delle linee guida
per l’appropriatezza clinica e l’integrazione
dei servizi
A. Aquilino
Agenzia Regionale Sanitaria della Puglia
L’evoluzione organizzativa dei servizi e la mutazione del
quadro epidemiologico e sociale hanno determinato un’articolazione e complessità di funzioni intermedie tra ospedale
e territorio.
La realtà ed il bisogno di assistenza impongono una stratificazione dell’organizzazione del servizio sanitario secondo
livelli progressivi di intensità di cure e di impegno di risorse, che definiscono un continuum nella risposta ai bisogni
relativi all’emergenza/urgenza, all’acuzie, alla riabilitazione
post-acuzie, alla cronicità, alla prevenzione primaria, secondaria e terziaria, all’assistenza di base.
In questo contesto vanno inquadrate le questioni relative alla integrazione dei servizi, secondo Percorsi assistenziali e
SIMPOSI TEMATICI
socio assistenziali, che attengono al governo clinico ed agli
strumenti per esercitarlo, quali profili di cura, linee guida,
protocolli e procedure.
Peraltro, è anche da rilevare come la definizione e l’implementazione di detti strumenti, riflettendosi sul corretto uso
delle risorse, siano funzionali alla realizzazione degli obiettivi di efficacia, economicità, appropriatezza ed equità, affinché possa essere garantita la tutela del diritto alla salute:
errori nell’allocazione quanto nell’uso delle risorse comprometteranno, di conseguenza, la qualità dell’assistenza ed il
diritto stesso alla salute.
Allora, l’appropriatezza dei comportamenti, a qualsiasi livello del sistema (da quello politico a quello di programmazione, da quello gestionale a quello clinico), sembra essere
il punto archimedico su cui basare una politica di tutela del
diritto ai livelli essenziali di assistenza e la premessa necessaria alla diffusione delle linee guida.
Esistono concetti differenti di appropriatezza: quella generica è attenta all’uso delle strutture e delle risorse organizzative (tempi, impiego del personale, uso delle tecnologie,
ecc.), ma non si preoccupa delle implicazioni cliniche e non
richiede competenze per misurarla; l’appropriatezza clinica,
invece, è attenta alle indicazioni diagnostiche e terapeutiche
(tempi di intervento, posologia e categoria del farmaco, indicazioni alle tecnologie), richiede competenze mediche per
misurarla, ma non si preoccupa, tuttavia, dei tempi organizzativi.
Con questa consapevolezza, si deve prevedere, quindi, una
articolazione dei servizi in coerenza con i LEA e una allocazione di risorse secondo una logica di Percorsi caratterizzati da progressività di impegno assistenziale, oscillanti dagli interventi di prevenzione a quelli dell’emergenza, individuando, in modo coerente con gli obiettivi del PSN, gli snodi della rete funzionali al monitoraggio dell’efficienza (anche in relazione ai tempi d’attesa) ed efficacia dell’organizzazione dell’assistenza.
Se, dunque, l’appropriatezza è una delle soluzioni che il SSN
può perseguire nel difficile compito di dover coniugare la disponibilità di risorse limitate con la necessità di fornire
un’assistenza efficace ai cittadini, allora l’impegno dei professionisti del sistema deve essere quello di stimolare la produzione e la condivisione di Linee guida e Protocolli che definiscono chi fa che cosa, con quali risorse, in base a quali
evidenze di risultato, in quali strutture e per quali obiettivi.
Di conseguenza, si tratta di delineare un modello di lavoro
per supportare l’introduzione di un programma regionale ed
aziendale di implementazione di linee guida che rispecchi la
metodologia della evidence-based guidelines.
In tale ottica, è suggerita una procedura basata su cinque fasi principali:
– fase 1: la definizione delle priorità;
– fase 2: la costituzione di un gruppo multidisciplinare;
– fase 3: definizione di uno standard assistenziale che rappresenti il miglior compromesso possibile tra le evidenze
scientifiche e il contesto locale, attraverso. A tal fine si
procede ad effettuare la:
1) ricerca delle linee guida, tendente ad identificare una Lg
autorevole da sottoporre ad un processo di adattamento
locale,
2) valutazione critica di Lg e scelta della Lg di riferimento,
finalizzata a vagliare la validità della raccomandazione
formulata,
3) l’integrazione della Lg, con finalità di approfondimento
aggiornamento ed adeguamento,
4) adattamento locale della Lg,
5) la definizione di un programma di aggiornamento della
Lg,
6) l’approvazione della Lg in una Consensus Conference da
parte dei soggetti interessati (facoltativa);
– la fase 4 è finalizzata a mettere in atto le strategie per la
diffusione ed implementazione delle Lg, nonché per la
misurazione dei suoi effetti sull’assistenza sanitaria, attraverso:
1) la diffusione locale delle Lg,
2) l’implementazione delle Lg,
3) la valutazione dell’efficacia delle Lg.
Un esempio di applicazione di questo metodo è rappresentato dall’esperienza relativa alla diffusione di Lg diagnostico-terapeutiche sulla Depressione dell’adulto e dell’età evolutiva, che si sta realizzando in Puglia, in collaborazione con
le società scientifiche di settore, l’Università degli studi, gli
specialisti dei servizi territoriali, i medici di medicina generale, i Pediatri di libera scelta ed i Dirigenti dei distretti sanitari. Questa iniziativa, che rientra nel Progetto Leonardo,
frutto di un Protocollo d’intesa tra Regione Puglia e Pfizer,
si sta realizzando in un Distretto pilota per ciascuna azienda
USL ed è orientata a migliorare la qualità dell’assistenza a
questa patologia, attraverso raccomandazioni di comportamento clinico e strumenti operativi che consentano il riconoscimento, il corretto inquadramento diagnostico, il trattamento e la continuità del processo assistenziale della depressione, sia negli studi dei medici di base che nei servizi
territoriali. Nel progetto è prevista una valutazione, misurata in termini di efficienza ed efficacia dei comportamenti
clinici ed organizzativi, circa l’utilizzabilità, l’uso effettivo
e l’utilità della Lg: si avrà, in definitiva, una verifica su
quanto quella Lg possa essere importante per la salute dei
cittadini e per l’integrazione tra i servizi coinvolti nell’assistenza alla malattia depressiva.
Comunicazione in medicina generale
in ottica sistemico-relazionale
P. Chianura, L. Chianura
ASL BA/4, Bari
“L’essere nel mondo è essenzialmente Cura” (M. Heidegger, “Essere e Tempo, 1927”).
L’esistenza umana non è solo un “essere nel mondo”, ma è
anche un “essere con altri”: ciò che deve sostanziare il rapporto tra medico e paziente è, quindi, “la cura”, nella duplicità di significato del termine, cioè come “insieme di medicamenti e rimedi per il trattamento di una malattia” (l’inglese “to care”) e come “interessamento sollecito e costante per
qualcuno” (l’inglese “to cure”) (Zanichelli, 1979). Solo se il
medico “soddisfa” tale duplice significato del termine, il momento oggettivante della diagnosi e della terapia acquista
una profonda autenticità umana, dal momento che il prendersi cura dell’altro motiva, sin dall’inizio, l’incontro con il
paziente e consente il realizzarsi etico dell’atto tecnico.
Tali premesse teoriche sul ruolo e sull’identità sociale del
medico e sulla attuale necessità di un “recupero” di una
componente antropologica ed umanistica dell’“operare me64
SIMPOSI TEMATICI
dico” costituiscono una breve introduzione concettuale per
potere approfondire, attraverso un’ottica epistemologica sistemico-relazionale, tematiche relative al concetto di corpo
e di malattia e relative al concreto coinvolgimento della famiglia (nucleare ed allargata) e dei sistemi terapeutici di
trattamento (medico di base, specialista, altre figure professionali, ecc.) nel creare e nell’attivare condizioni favorenti
e/o sfavorenti la malattia.
Formare l’operatore sanitario all’ottica sistemico-relazionale significa, quindi, sostenerlo nel tentativo di spostare il focus della sua “attenzione” clinica e diagnostica dall’individuo alla relazione e dal paziente alla sua famiglia, che diventa così l’“unità di cura” da prendere in considerazione.
Si evidenziano, inoltre, i passaggi attraverso i quali, sin dal
primo incontro con il paziente, si struttura un triangolo terapeutico (paziente – famiglia – medico), tale che il paziente,
la sua famiglia ed i suoi sistemi terapeutici di trattamento
debbano essere considerati come componenti indissociabili
e reciprocamente influenzatisi di un processo comune.
La parte conclusiva dell’intervento si propone lo scopo di
mettere in rilievo le delicate e complesse emozioni e sentimenti che sono necessariamente correlati al proprio ruolo
professionale e di proporre possibili modalità di gestione
dell’angoscia e dello stress derivanti dalla propria attività
clinica per un miglioramento della propria qualità di vita sia
in ambito personale che professionale.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MALTA
S22 - Ruolo dei fattori neurotrofici
e degli psicofarmaci nella plasticità cerebrale
MODERATORI
L. Aloe, G. Bersani
La plasticità cerebrale come punto
di incontro tra psicofarmacologia
e psicoterapie: prospettive neurobiologiche
e neurostrutturali
A. Iannitelli, L. Aloe*, M. Fiore*, G. Bersani
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”, * Istituto di Neurobiologia e Medicina Molecolare, NGF Section, CNREBRI, Roma
Negli ultimi anni, grazie all’utilizzo di strumenti sempre più
sofisticati e, soprattutto, di tecniche di brain imaging, è stato possibile indagare i cambiamenti cerebrali strutturali e
funzionali conseguenti alla terapia comportamentale e alla
psicoanalisi. I risultati di questi studi hanno dimostrato che
il prerequisito per ogni cambiamento duraturo del comportamento, delle emozioni e della cognizione è mediato da
processi neurobiologici che risultano in cambiamenti cerebrali. Se questi dati sono nuovi per le terapie psicologiche,
lo sono meno per la psicofarmacologia dove abbiamo elementi a favore di una implicazione importante della plasticità cerebrale nel meccanismo d’azione di molte classi di
psicofarmaci.
Alla luce di questi dati è possibile ipotizzare che la via finale comune della terapia psicofarmacologica e delle “terapie della parola” sia quella della plasticità cerebrale.
Mediatori principali di questa azione sarebbero, tra gli altri, le neurotrofine il cui ruolo se è stato ampiamente dimostrato per l’azione di molti classi di psicofarmaci non
è ancora stato indagato nelle psicoterapie e nella psicoanalisi.
Al di là, dunque, di una sterile opposizione tra neurochimica e psicoterapie, i risultati dei recenti studi e il dialogo
emergente tra neuroscienze e psicoanalisi si muovono nel
colmare il gap tra neurobiologia e psicoterapie e sembrano
offrire una solida posizione alla teoria psicodinamica nel
65
ventaglio degli interventi terapeutici. Inoltre, riconoscere alla plasticità cerebrale un ruolo centrale nelle due tipologie di
intervento significa superare la divisione tra trattamento psicologico e somatico e dare un contributo al superamento
della divisione mente-corpo.
La stimolazione vagale facilita l’espressione
genica di fattori neurotrofici
e la proliferazione cellulare nell’ippocampo
di ratto
G. Biggio, F. Marrosu, S. Caria, G. Gorini, F. Biggio,
P. Follesa
Università di Cagliari, Dipartimento di Biologia Sperimentale, Sezione di Neuroscienze
L’effetto terapeutico dei farmaci antidepressivi si manifesta
solo dopo alcune settimane di trattamento. Questa osservazione ha suggerito l’esistenza di meccanismi neurochimici e
molecolari non ancora completamente chiariti che coinvolgono la plasticità neuronale e il rimodellamento sinaptico.
In particolare la fosforilazione di specifici fattori di trascrizione che regolano l’espressione di numerosi geni, fra cui
quelli che codificano per diverse neurotrofine. L’aumento
dei fattori trofici indotto dagli antidepressivi a sua volta indurrebbe rimodellamento sinaptico, promuovendo la neurogenesi promuovendo la differenziazione e prolungando la
sopravvivenza neuronale. In particolare il fenomeno della
neurogenesi sembra svolgere un ruolo cruciale nei fenomeni di plasticità neuronale.
Recentemente l’FDA ha approvato l’utilizzo della stimolazione vagale (VNS) come mezzo terapeutico per trattare alcune forme di depressione resistenti alla terapia farmacologica. Scopo del nostro studio è stato quello di verificare se
VNS fosse in grado di indurre la sintesi di fattori neurotro-
SIMPOSI TEMATICI
fici e la proliferazione cellulare nell’ippocampo di ratto. A
tale scopo ratti maschi sono stati impiantati con uno speciale elettrodo nella fascia vascolo-nervosa destra del collo che
ricopre il nervo vago e stimolati attraverso un generatore di
impulsi con una corrente di 2 mA per tre ore.
Nell’ippocampo di questi animali sono poi stati misurati i livelli degli mRNA codificanti per il “brain derived neurotrophic factor” (B.D.N.F.) e per il “basic fibroblast growth
factor” (BFGF) attraverso la tecnica dell’RNase protection
assay. Tecniche di immunoistochimica sono state invece
utilizzate per misurare la proliferazione neuronale in animali pre-trattati con S-bromo-deossiuridina (BrdU).
I risultati ottenuti in questo studio mostrano che tre ore di
VNS nell’ippocampo aumentano i livelli degli mRNA che
codificano per il B.D.N.F. e per il bFGF del 26 e del 23% rispettivamente. Inoltre, la VNS fa diminuire (-27%) il numero di cellule BrdU positive nel giro dentato dell’ippocampo.
Negli animali che sono stati sottoposti a VNS alcune cellule BrdU positive si sono rivelate essere neuroni utilizzando
la doppia marcatura con un anticorpo specifico per la proteina nucleare neuronale NeuN e inoltre tendono a migrare
verso la parte più interna dello strato di cellule granulari del
giro dentato. I nostri dati dimostrano quindi che la VNS induce la sintesi di neurotrofine e la proliferazione cellulare
con differenziazione in cellule neuronali nell’ippocampo di
ratto. Questi dati suggeriscono che la VNS induce alcuni
meccanismi molecolari che sono alla base della plasticità
neuronale e del rimodellamento sinaptico e che potrebbero
favorire gli effetti terapeutici di questo trattamento.
Evidenza sugli effetti a livello cellulare,
biochimico e molecolare degli psicofarmaci
in un modello animale di Schizofrenia: ruolo
dei fattori neurotrofici
M. Fiore, V. Di Fausto, A. Iannitelli, L. Aloe
Istituto di Neurobiologia e Medicina molecolare, CNR,
Roma
Studi recenti hanno suggerito l’ipotesi che alcuni disordini di
natura psichiatrica, inclusa la Schizofrenia, potrebbero derivare da alterata neurogenesi di specifiche aree cerebrali e in
particolare nella corteccia entorinale. Per verificare la validità
di queste ipotesi abbiamo somministrato in ratte gravide al
12° giorno di gestazione il metilazossimetanolo acetato
(MAM), un agente alchilante che metila gli acidi nucleici e
induce la morte di cellule che si trovano in attiva replicazione in uno spazio temporale di poche ore, alterando significativamente i meccanismi di neurogenesi dell’area entorinale e
ippocampale e di altre aree cerebrali ad esse connesse. Dopo
la nascita, gli animali sono stati studiati da un punto di vista
comportamentale e successivamente sacrificati a diversi stadi
della vita post-natale e le are cerebrali utilizzate per analisi
strutturale, immunoistochimica, biochimica e molecolare. I
risultati hanno evidenziato disturbi neurocomportamentali,
alterato contenuto di fattori neurotrofici, in particolare del fattore di crescita nervoso (NGF) e del fattore di crescita di derivazione cerebrale (BDNF) nell’ippocampo e nella corteccia
entorinale associata ad un cambiamento significativo nella distribuzione dei rispettivi recettori nel periodo post-natale nei
ratti trattati con la MAM, ma non nei controlli. Sempre in
questi ratti sono stati osservati variazioni di natura comportamentale e biochimica che inducono cambiamenti nella distribuzione e proliferazione delle cellule staminali presenti nel
giro dentato e nella zona subventricolare, regioni con una
marcata presenza di cellule staminali.
Poiché un consistente numero di studi recenti suggerisce
l’importanza degli aspetti neurodegenerativi e della plasticità neuronale in patologie di natura psichiatrica, abbiamo
utilizzato questo stesso modello animale per studiare gli effetti del trattamento cronico con Clozapina (20 mg/kg per
otto giorni). I risultati di questi studi hanno messo in luce un
aumento di BDNF nella corteccia entorinale di animali di
controllo e una riduzione di NGF negli animali trattati con
una diversa capacità recettoriale di neuroni cerebrali in aree
cerebrali che vengono più marcatamente colpite durante o a
seguito di turbe psichiatriche. Questi riscontri sperimentali,
sebbene preliminari, sembrano indicare che uno dei meccanismi attraverso i quali i farmaci neurolettici esercitano la
loro azione è il potenziamento della plasticità cerebrale mediata da fattori neurotrofici, inclusi NGF e BDNF, e che il
modello da noi utilizzato potrebbe rivelarsi utile per comprendere alcuni meccanismi comportamentali e neuropatologici e per studiare la risposta a potenziali farmaci in patologie di natura schizofrenica.
L’arricchimento sociale precoce influenza
il comportamento sociale e i livelli di NGF
e BDNF in varie aree del cervello
dell’individuo adulto
I. Branchi, I. D’Andrea, M. Fiore*, V. Di Fausto*,
L. Aloe*, E. Alleva
Reparto di Neuroscienze comportamentali, Dipartimento di
Biologia cellulare e Neuroscienze, Istituto Superiore di Sanità, Roma; * Istituto di Neurobiologia e Medicina molecolare, CNR, Roma
Le esperienze vissute durante le prime fasi dello sviluppo
danno forma alla funzione del sistema nervoso centrale
(SNC) e al comportamento. Nei roditori, essere allevati in
una condizione di nido comune (NC), ovvero un unico nido
in cui tre madri tengono insieme dalla nascita allo svezzamento (giorno post-natale 25) la propria prole curandola e
nutrendola senza fare distinzione tra i propri e gli altri figli,
rappresenta una condizione di forte stimolazione sociale per
il giovane. Tale condizione caratterizza la naturale nicchia
ecologica di molte specie di roditore, inclusa la specie topo.
Nella condizione di NC, confrontata con la condizione standard di allevamento in laboratorio (NS) ovvero un’unica
madre che alleva la propria prole, i giovani topi ricevono livelli più alti di cure materne. Da adulti, in un test di confronto sociale/agonistico, i maschi cresciuti in una condizione di NC hanno una maggiore propensione all’interazione sociale rispetto ai controlli NS e acquisiscono più rapidamente e pienamente un ruolo sociale, mostrando fin dal
primo giorno di del test il profilo comportamentale tipico
del dominante o del sottomesso. Inoltre, i topi della condizione NC mostrano livelli più alti di BDNF e NGF in diverse zone del SNC. I livelli di NGF sono ulteriormente modulati dal ruolo sociale avuto durante il test di confronto agonistico.
66
SIMPOSI TEMATICI
In conclusione, i nostri risultati indicano che l’esposizione
durante le fasi precoci post-natali a un ambiente sociale arricchito produce differenze alla fase adulta che riguardano
il comportamento sociale ed i livelli cerebrali di neurotrofine. Infine, poiché alterazioni delle competenze sociali e
cambiamenti nel livelli di neurotrofine, in particolare una
riduzione dei livelli di BDNF, sono stati associati a diverse patologie psichiatriche, inclusa la depressione, i risultati del presente studio corroborano l’idea che le esperienze
sociali precoci possano influenzare la probabilità in individui vulnerabili di sviluppare alcuni sintomi di psicopatologia.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA RODI
S23 - Libertà e dipendenza nel rapporto
psicoterapeutico
MODERATORI
C. Loriedo, I. Carta
nel rispetto di norme che impediscono l’espressione immediata di istanze pulsionali e conseguentemente riconoscono
attributi che qualificano come libere quelle azioni che sono
il prodotto di una elaborazione riflessiva delle complesse dinamiche che si agitano nel mondo interno del paziente.
La dimensione psicologica della libertà in
psicoterapia
I. Carta
Università di Milano “Bicocca”
Parlare della dimensione psicologica in psicoterapia richiede necessariamente, come premessa, una limitazione del valore semantico della parola libertà. Infatti questo termine è
ricchissimo di significati e, sotto molteplici aspetti il tema
della libertà viene trattato in filosofia, in politica, in teologia
e nelle scienze umane in generale. S’impone quindi una limitazione di campo, una scelta, quando si parla di libertà in
psicoterapia, ossia quando si utilizzano strumenti e risorse
psicologiche per curare soggetti affetti di disturbi mentali
che si riflettono sul loro agire e quindi sul loro comportamento e sulle loro scelte. Penso che una riflessione sulla dimensione psicologica della libertà in psicoterapia sia basata
sulla convinzione dello psicoterapeuta che il setting psicoterapeutico sia un luogo in cui avviene in forma progressiva
un processo di sviluppo delle capacità di pensare e agire liberamente. Ma il setting psicoterapeutico, qualunque sia il
modello teorico a cui si ispira e da cui è informato, è strutturato da regole che ne fondano la normatività a cui sono
sottoposti sia il paziente o i pazienti e il terapeuta o i terapeuti. Un aforisma latino recita: “sub lege libertas” la cui interpretazione può attribuire valore dominante alla legge per
cui la libertà è subordinata ad essa o al contrario pone la legge al servizio della libertà, attribuendo alle norme il significato di scudo, armatura protettiva, al riparo di cui la libertà
può dimorare e fiorire. Ritengo che sia la seconda interpretazione quella da assumere come traccia direttiva del lavoro
psicoterapico. In questa prospettiva le regole che strutturano il setting psicoterapeutico sono funzionali allo sviluppo
della libertà del pensiero e dell’azione, soprattutto quando
l’azione segue al pensiero. Questa consequenzialità è evidente in modo particolare nella costituzione del setting psicoterapico analitico che privilegia il pensare rispetto all’agire all’interno di una cornice normativa che penalizza, in un
certo senso, l’azione che non sia sostenuta da un pensiero
che ha maturato nella riflessione e nel silenzio le motivazioni e le scelte dell’agire. Siamo confrontati, come spesso
accade, con una sorta di paradosso per cui lo sviluppo maturativo delle capacità di fare libere scelte è possibile solo
67
Dipendenza, libertà e regolazione
emozionale nella relazione terapeutica
M.A. Reda, L. Canestri
Università di Siena, Dipartimento di Scienze Neurologiche
e del Comportamento, Sezione di Scienze del Comportamento
Che le alterazioni psichiatriche limitino o tolgano la libertà
ad un individuo è indubbio (Reda & Reda, 2002), in quest’ottica la psicoterapia è uno dei possibili mezzi che una
persona può attuare per riappropriarsi della propria libertà.
Talvolta sono gli stessi operatori che limitano la libertà del
paziente nel caso in cui, prima della psicoterapia, sia stata
posta una diagnosi ed una terapia farmacologia da un altro
operatore; la comunicazione di una diagnosi può costringere una persona a pensare a sé come ad un individuo insano,
malato, non libero di vivere ed agire i propri vissuti emotivi. Tale comunicazione comporta inoltre delle implicazioni
sulla libertà di azione del terapeuta che si trova costretto a
lavorare su significati che non sono propri del paziente ma
appartengono alla cultura e alla formazione dell’operatore
che ha posto la diagnosi e prescritto una terapia, fornendo
un significato patologico ai vissuti emozionali propri del paziente ed impedendogli di autoriferirsi le perturbazioni affettive proprie di una situazione di scompenso emotivo.
Ogni individuo è particolarmente sensibile e vulnerabile ai
segnali emessi da un conspecifico, siano essi richieste di aiuto-protezione (modelli operativi di attaccamento), oppure stimoli recepiti da un altro individuo disposto a fornire aiuto
(modelli operativi di accudimento) 1, nella relazione terapeutica il sistema comportamentale di attaccamento del paziente
viene agito in accoppiamento strutturale con un sistema comportamentale di accudimento operato dal terapeuta.
Per il paziente la dipendenza dal terapeuta o dalla terapia, si
determina attraverso dinamiche relazionali caratterizzate dal
SIMPOSI TEMATICI
riprodursi/perdurare di relazioni di attaccamento/dipendenza di tipo disfunzionale, con una conseguente scarsa capacità individuale di regolazione emotiva. In alcuni individui
la psicoterapia assume la funzione di regolare dall’esterno il
flusso emotivo che coinvolge il mondo interno e relazionale del paziente e la relazione può assumere caratteristiche di
dipendenza quando diviene l’unico sistema che permette di
modulare, attraverso un riferimento esterno, i propri vissuti
emotivi, senza possibilità di riferirli a sé o al proprio ciclo di
vita, determinando una situazione in cui l’attivazione di alcuni pattern emozionali e la loro mancata regolazione innescano un nuovo ciclo di ricerca della relazione e la dipendenza da quest’ultima.
Per quanto riguarda il terapeuta risulta ovvia la dipendenza
economica dal paziente, esistono comunque altre forme di
dipendenza che, seppure in modo meno evidente, sono connesse allo svolgimento della propria professione.
Per ogni persona l’orientamento interno/esterno, l’attribuzione di causalità e la campo-dipendenza/indipendenza rappresentano dimensioni rilevanti nelle dinamiche di regolazione emotiva, l’organizzazione del dominio emotivo è basata sulla percezione e sull’interpretazione di stimoli affettivamente rilevanti.
Alcuni Autori 2 3 hanno richiamato l’attenzione sull’importanza della “campo-dipendenza”, ossia della tendenza o meno a ricercare nel campo percettivo esterno o interno informazioni, segnali sociali, punti di vista, atteggiamenti propri
e degli altri. Partendo da questi studi, più recentemente, altri Autori 4-10 hanno descritto due stili relazionali, che si
strutturano a partire dalle modalità d’attaccamento, legati
all’attenzione data o meno ai segnali emotivamente significativi che appartengono al contesto relazionale e che cambiano attimo dopo attimo: quello “campo dipendente”
(“field dependent”) e quello “campo indipendente” (“field
independent”). Lo stile relazionale “campo dipendente” si
riscontra nei soggetti che privilegiano il campo percettivo
esterno rispetto alle sensazioni corporee 10 11; nei terapeuti
con una prevalenza di tale struttura l’approvazione, il successo, il guadagno possono limitare la libertà e strutturare
una vera e propria dipendenza rispetto ai segnali esterni di
conferma relativi alla propria professione.
Lo stile relazionale “campo indipendente” si osserva nei
soggetti che utilizzano prevalentemente le sensazioni corporee rispetto al campo percettivo esterno. In questo caso
emerge la tendenza a fare affidamento perlopiù su idee,
principi, ipotesi e spiegazioni personali; la spinta all’accudimento compulsivo, l’eccessiva partecipazione alle dinamiche affettive del paziente possono limitare in modo sensibile la libertà del terapeuta rispetto a tali relazioni e configurarsi come una vera e propria dipendenza dalla relazione
di aiuto.
Bibliografia
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della relazione. Un confronto tra prospettive cognitivo-evoluzioniste e relazionali. Terapia Familiare 1993;41:19-34.
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Guidano VF. The self as a mediator of cognitive change in psychotherapy. In: Hartman LM, Blankstein KR, eds. Perception of
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7
8
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Plenum Press 1986.
Guidano VF. A system, process-oriented approach cognitive
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Guidano VF. Il Sé nel suo divenire. Torino: Bollati Boringhieri
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Guidano VF. La complessità del Sé. Torino: Bollati Boringhieri
1988.
Guidano VF. Lo sviluppo del Sé. In: Bara B, ed. Manuale di psicologia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri 1996.
Reda MA. Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia. Roma:
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Arciero G. Studi e dialoghi sull’identità personale. Torino: Boringhieri 2002.
Blanco S, Canestri L, Reda MA. Un approccio costruttivista ai
Disturbi del Comportamento alimentare. In: Bara B, ed. Nuovo
Manuale di Psicoterapia Cognitiva, Bollati Boringhieri, in corso di stampa.
La psicoterapia della famiglia
tra autonomia e dipendenza
C. Loriedo
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
La psicoterapia della famiglia si è tradizionalmente confrontata con il tema dell’autonomia e con quello della dipendenza, in quanto tali problematiche costituiscono altrettanti aspetti cruciali delle relazioni familiari. Il continuo
oscillare dei singoli componenti del sistema familiare tra
vincolo e svincolo non riguarda soltanto le relazioni interne
alla famiglia, ma anche le altre relazioni e soprattutto quella terapeutica. Le difficoltà di un terapeuta sistemico sono,
infatti, racchiuse nel continuo dilemma imposto da un modello terapeutico che richiede interventi attivi e una posizione sempre propositiva piuttosto che ricettiva.
Da tale posizione deriva la conseguenza della relazione paradossale che, di fatto, viene prodotta da chi si propone di
intervenire attivamente e al tempo stesso di rendere autonomo l’altro.
Piuttosto che dalla tradizionale tendenza dei terapeuti familiari a suddividersi nei due gruppi antitetici dei conductors e
dei reactors, la risposta all’inquietante interrogativo se si
debbano spingere l’individuo e la famiglia verso l’indipendenza o se si debba attendere una loro spontanea, ma incerta risoluzione del vincolo, sembra provenire soprattutto dalla duplice soluzione indicata da Carl Whitaker, il pioniere
della terapia familiare simbolico-esperienziale.
Whitaker suddivide il processo terapeutico in due distinte
componenti verso le quali muove quello che viene da lui definito il vettore terapeutico. La componente amministrativa
della relazione terapeutica riguarda soprattutto le regole del
setting e la definizione del contesto terapeutico, mentre la
componente simbolico-esperienziale riguarda i contenuti e
le esperienze propri del processo terapeutico con la famiglia.
Queste due componenti devono ricevere diverse risposte da
parte del terapeuta che deve vincere la cosiddetta “battaglia
per la struttura”, mentre deve lasciare nelle mani della famiglia e dei suoi componenti “la battaglia per l’iniziativa”.
Inoltre, il terapeuta può consentire lo sviluppo di relazioni
68
SIMPOSI TEMATICI
equilibrate tra vincolo e svincolo anche attraverso la continua riproposizione di “move in” e “move out” che riproducono nella seduta e nel corso dell’intero processo terapeutico, provvidenziali microesperienze di appartenenza e di separazione.
La presentazione di casi clinici e di video relativi alla capacità di Whitaker di riprodurre simultaneamente forme di impegno e di disimpegno relazionale permetteranno di riconoscere come sia possibile restituire la libertà compromessa
dalla psicopatologia e dalle relazioni disfunzionali, attraverso l’esperienza clinica.
Bibliografia
Whitaker CA, Malone T. The Roots of Psychotherapy. New York:
Blakistone Company 1953. Riedizione: New York: Brunner Mazel 1981. Edizione Italiana: Le radici della psicoterapia. Metodi e tecniche. Milano: Angeli 1998.
Whitaker CA. Midnight Musing of a Family Therapist. New York:
W.W. Norton & Company 1989. Trad. it.: Margareth O, a cura
di. Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia. Roma: Ryan, Astrolabio 1990.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN PAOLO
S24 - Seduzioni, intimità, amori e tradimenti telematici
MODERATORI
T. Cantelmi, D. La Barbera
Costruzione e rottura dei legami affettivi
on line
Chat: seduzioni ed intimità
M.R. Parsi
Fondazione “Movimento Bambino”
M.B. Toro
Fondazione Movimento Bambino
L’immaginario dell’altro si sedimenta e si forma in sua assenza, attraverso fantasie, sogni, pensieri, idee che l’uomo
ed il bambino tracciano dentro di sé, o in rappresentazioni
artistiche nelle quali le emozioni prendono fissità e corpo.
Oggi che l’altro viene rappresentato nella multimedialità ed
incontrato virtualmente ci domandiamo dove finiscano lo
spazio della creatività e della relazionalità – poiché – quando ogni curiosità, ogni sogno, ogni sentimento corrono velocissimi attraverso la mediazione delle tecnologie – si rischia un processo di riduzione dell’immaginario e di superficializzazione delle relazioni.
Un conto è, infatti, il contatto con l’altro “riprodotto”, reso
visibile e vivibile dentro il monitor del pc, tutt’altra faccenda è l’altro incontrato nella realtà o attraverso il filtro della
sua assenza, che impone una distanza che stimola la riflessione piuttosto che l’agito.
La costruzione e la rottura dei legami on line sono caratterizzate da una serialità che promuove un profondo sradicamento emotivo, da una mancanza di freni inibitori che fa
mescolare fantasie e bugie, dolori e felicità, solitudini e
perversioni che si mescolano senza distinzione.
Se non si prelude ad un incontro reale, si ingenera una mera riproduzione di relazioni indefinitamente simili e le
nuove tecnologie possono dare adito ad un eccessivo interagire, dove l’azione si sostituisce alla possibilità di riflettere ed elaborare internamente. Perenne consumo senza riflessione sul processo.
69
Dalle “Relazioni Pericolose” di Laclos in poi, abbiamo imparato a considerare la seduzione, quanto meno nella nostra
cultura, come un comportamento con una forte connotazione “letteraria”, “verbale”, che non necessita della presenza
diretta dell’interlocutore/destinatario del messaggio seduttivo. Si può cercare di condurre l’altro o, come avviene in
chat, i molteplici altri, verso di sé anche in assenza del corpo e, talvolta, proprio grazie all’assenza del corpo.
Vengono presi in esame i diversi “stilemi” della seduzione
on line ed analizzata nel dettaglio una “conversazione” seduttiva, ove si giunge, per passaggi successivi, ad avvicinare l’altro con lo scopo di farlo uscire dal virtuale e passare
dalla possibilità alla realtà.
Vengono analizzati i report sulle sensazioni ed i pensieri del
soggetto che ha lanciato il messaggio seduttivo e si ipotizza
che, in questo caso, l’utilizzo della tecnologia si inserisca in
un passaggio evolutivo personale determinato ed aiuti la
persona a riprendere contatto con l’altro sesso in una modalità che avverte come “protetta”.
Lo scambio in messaggeria istantanea permette un’intimità relativamente intensa ma comunque permette anche, nella percezione del soggetto, di “salvare la faccia” all’occorrenza, lasciando aperta, sempre, quella che lui chiama una “via di ritirata percorribile”, pur mostrando, senza equivoci, l’interesse
personale. L’attenzione del “seduttore”, non potendo concentrarsi sul non verbale, come avverrebbe nella realtà, punta su
altri elementi: il tono delle affermazioni, le pause, le parole utilizzate. Il fine è esattamente sovrapponibile a quello della seduzione reale: “portare a casa il risultato” – se possibile un appuntamento, oppure, comunque, la cosa più importante, ovvero riuscire ad avere la sensazione di non stare giocando da solo, data la consapevolezza che la seduzione è una partita che si
può vincere solo in due, ovvero attraverso il decisivo aiuto
dell’“avversario”, che si farà “conquistare/vincere” solo se, da
parte sua, sta cercando il medesimo epilogo di chi, con l’aiuto
dell’invisibilità permessa dal pc, si sta proponendo.
SIMPOSI TEMATICI
Psicopatologia e psicodinamica delle cyberrelazioni
D. La Barbera
Dipartimento di Neurologia, Oftalmologia, Otorino e Psichiatria, Università di Palermo
Con la diffusione di massa, in ogni strato sociale e in ogni fascia di età, delle reti telematiche, il virtuale è prepotentemente entrato nell’esperienza comune di una grande quantità di
individui, modificando stili di vita e di esperienza, modi di
comunicare e di interagire. La possibilità, offerta da Internet,
di entrare velocemente in contatto con altri utenti, offre opportunità nuove e imprevedibili di conoscenza e di scambio
affettivo, moltiplicando e facilitando le occasioni di espansione del proprio orizzonte relazionale. Ma è proprio questa facilitazione estrema dell’incontro e del rapporto consentita
dalle tecnologie telematiche a modificare la declinazione spazio-temporale dei vissuti e delle emozioni in rete, rendendo le
relazioni tecnomediate spesso rapide e istantanee oltre che suscettibili di modellarsi su una forte aspettativa soggettiva,
ideale e fantastica, piuttosto che su parametri di obiettività e
di razionalità. Il modo in cui il mezzo tecnologico – la tastiera e il video – tendono a modificare i tempi e i contenuti della relazione, rappresenta quindi un indicatore efficace della
capacità delle psicotecnologie di frapporsi tra la mente e la
realtà modificando l’esperienza. Gli aspetti disfunzionanti e
disadattivi legati allo stabilirsi di relazioni on-line o l’emergere di sintomi psicopatologici (prevalentemente – ma non
esclusivamente – situati nell’area dei disturbi impulsivo-compulsivi e delle dipendenze comportamentali) sono un altro
importante elemento in grado di chiarire alcuni degli elementi significativi dell’interazione tra la mente e le tecnologie
della comunicazione.
Lo studio di tali fenomeni quindi consente di mettere in luce significativi cambiamenti del funzionamento affettivo e
dei processi cognitivi direttamente collegati all’impiego dei
dispositivi di Information Technology e che possono spiegare quella forma di “relazionalità liquida” che Autori come
Barman ritengono particolarmente caratteristica dell’epoca
attuale. In modo altrettanto evidente queste riflessioni ci
spiegano la frequenza di forme franche o sub-cliniche di dipendenza relazionale rilevabili nei forti utilizzatori di servizi on-line, come chat, e-mail, news group, MUD. Nella
maggior parte di tali soggetti, similmente ad altre forme di
dipendenza patologica, è altresì rilevabile un “pattern additivo” rappresentato da componenti di tipo alessitimico,
aspetti impulsivi e/o compulsavi, tendenze dissociative.
Importante appare, infine, la propensione alla “cosmesi
identitaria” presente in molti soggetti affetti da dipendenza
da cyber-relazioni, attitudine alla fluidità e alla virtualizzazione identitaria che spesso non appare unicamente spiegabile come l’esito di strategie manipolative o seduttive in rete ma dalla tendenza, tipicamente attivata dalle esperienze
di realtà virtuale, a sperimentare aspetti periferici del Sé.
Gli spazi delle chat e i luoghi di incontro virtuale in Rete
offrono quindi opportunità per l’amicizia, l’amore e il sesso ma evidenziano, contemporaneamente, anche una inclinazione degli internauti a cimentare nel cyberspazio identità “perfette”, angeliche, patinate, simulate, a volte terrificanti, per vivere strani tipi di rapporti sentimentali, spesso
solo cerebrali, mediatici e alienati, onanistici e consolatori,
ma che, con sempre maggiore frequenza, finiscono con
l’influenzare anche la vita e le relazioni “al di qua” dello
schermo.
Bibliografia
1
Bauman Z. Amore liquido. Roma: Laterza 2004.
2
Cantelmi T, Giardina Grifo L. La mente virtuale. San Paolo
2002.
3
Caretti V, La Barbera D. Psicopatologia delle realtà virtuali.
Milano: Masson 2001.
4
Caretti V, La Barbera D. Le dipendenze patologiche, clinica e
psicopatologia. Milano: Raffaello Cortina 2005.
5
Di Maria F, Cannizzaro S. Reti telematiche e trame psicologiche.
Milano: FrancoAngeli 2001.
6
Roversi A. Chat line, luoghi ed esperienze della vita in rete. Bologna: Il Mulino 2001.
Tradimento on line: limite reale e virtuale
dell’amore
V. Carpino
Istituto di Psicoterapia Cognitivo-Interpersonale
Introduzione: Internet, grande mezzo multimediale del nostro tempo consente di informarsi, aggiornarsi e comunicare.
La chat line permette, in tempo reale, di raccontarsi, incontrarsi, innamorarsi, liberi dalla corporeità ingombrante e
protetti dall’anonimato dello schermo. Ci siamo chiesti se
gli amori nati in chat coinvolgano anche chi nella vita reale
è impegnato in un rapporto di coppia arrivando così al tradimento.
Metodologia: abbiamo studiato casi singoli di uomini e
donne tra i 25 ed i 40 anni, sia disoccupati che impegnati in
una attività lavorativa, di ogni livello culturale e sociale, impegnati in un rapporto di coppia.
Risultati: tre milioni circa di italiani chattano, sono uomini
e donne tra i 30 ed i 35 anni, con una cultura superiore, il
60% dei nostri analizzati sono donne che si innamorano e
tradiscono virtualmente. Hanno un buon lavoro ed un livello socio-culturale alto. Il 70% di loro vive la storia in rete
senza mai arrivare ad un incontro reale.
Conclusioni: sono in aumento le coppie che in Italia si lasciano per colpa dei tradimenti virtuali, ritenuti motivo di
addebito nelle cause di separazione e divorzi tra coniugi.
Bibliografia
1
Cantelmi T, Carpino V. Tradimento on line. Collana “ Le Comete” Franco Angeli 2005.
70
SIMPOSI TEMATICI
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA LEONARDO
S25 - Emozioni e Schizofrenia
MODERATORI
P. Rocca, R. Roncone
Il ruolo della comprensione delle emozioni
nella cognizione sociale in soggetti affetti
da Schizofrenia
R. Roncone, M. Mazza, M. Casacchia
te alla durata di malattia ed ai deficit di Teoria della Mente.
Ulteriori studi sulle variabili della cognizione sociale potranno proficuamente contribuire alla comprensione dei problemi nella riduzione del funzionamento sociale nella Schizofrenia.
Clinica Psichiatrica, Università de L’Aquila
Introduzione: persone affette da Schizofrenia presentano
deficit nel riconoscimento delle emozioni e nella comprensione del pensiero altrui (Teoria della Mente).
Studi recenti hanno posto l’attenzione sui deficit di cognizione sociale presentati da soggetti con Schizofrenia, ma solo
pochi studi tuttavia hanno esaminato la capacità di riconoscimento delle emozioni e la comprensione della Teoria della
Mente in soggetti con Schizofrenia e solo uno studio ha messo in relazione tali deficit con il comportamento sociale 1.
Scopo del presente studio è stato quello di esaminare se la
capacità di riconoscere le emozioni fosse collegata al deficit
di comprensione della ToM in soggetti affetti da Schizofrenia e se tali deficit fossero in grado di spiegare in maniera
più accurata, rispetto alle difficoltà in altre capacità cognitive (funzioni esecutive, memoria ecc.) le anomalie nel comportamento sociale presentato da soggetti affetti da Schizofrenia.
Metodologia: nel nostro studio abbiamo esaminato un campione di 65 soggetti affetti da Schizofrenia, diagnosticati secondo i criteri del DSM IV (APA, 1994). I soggetti sono stati confrontati con un uguale gruppo di soggetti sani, confrontati per età, sesso e scolarità, reclutati fra il personale
paramedico del Servizio Psichiatrico Universitario di Diagnosi e Cura dell’ospedale civile “S. Salvatore” ASL-04
L’Aquila, Università de L’Aquila.
Tutti i soggetti con Schizofrenia sono stati sottoposti ad una
valutazione della sintomatologia clinica con la Brief Psichiatric Rating Scale (BPRS) (Morosini e Casacchia, 1994)
e cognitiva mediante il Wisconsin Card Sorting Test; il test
Torre di Londra; il test di Fluenza Verbale e mediante una
prova di apprendimento di materiale verbale.
I soggetti sono stati inoltre sottoposti a tre compiti per la valutazione della cognizione sociale: storie per la valutazione
della comprensione della Teoria della Mente; test di riconoscimento e comprensione delle emozioni (Baron-Cohen,
1995).
Risultati: i risultati hanno evidenziato che le persone affette da Schizofrenia risultavano meno abili dei controlli sani
nel riconoscere le emozioni soprattutto quelle negative (rabbia, spavento e tristezza). È stata osservata una differenza
statisticamente significativa anche nella comprensione delle
storie di Teoria della Mente e nell’utilizzo di capacità strategiche rispetto ai controlli sani.
Al contrario non tutti i pazienti presentavano deficit nelle
funzioni esecutive statisticamente diverse da quelle dei soggetti di controllo.
Conclusioni: le anomalie nel comportamento sociale presentate da soggetti affetti da Schizofrenia sembrano correla-
71
Bibliografia
1
Roncone R, Falloon IRH, Mazza M, De Risio A, Pollice R, Negozione S, et al. Is social cognition associated more strongly
with clinical and social functioning in schizophrenia than neurocognitive deficits? Psychopathology 2002;35:280-8.
Processing implicito ed esplicito
delle emozioni nella Schizofrenia
G. Blasi, V. Rubino
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
L’identificazione di stimoli emotivamente rilevanti è un
processo mentale cruciale nella relazione tra il soggetto e
l’ambiente, e fondamentale per la sopravvivenza.
Dal punto di vista neurobiologico, una serie di studi ha
identificato regioni cerebrali cardine per il processamento
di input a valenza emotiva, come l’amigdala, la corteccia
prefrontale ventrolaterale, orbitofrontale e del cingolo.
Ognuna di queste aree sembra avere una caratterizzazione
funzionale all’interno di questo network neuronale; in particolare, l’amigdala sembra essere coinvolta nella fase di
riconoscimento della valenza emotiva dello stimolo e nella produzione di stati affettivi correlati, e la corteccia ventrolaterale nella modulazione e controllo cognitivo della
stato affettivo.
La Schizofrenia è caratterizzata da disturbi dell’emotività
e che investono la relazione tra il paziente ed il mondo
esterno.
Studi sulla neurobiologia di questo disturbo suggeriscono
la presenza di un’abnorme attività del network neuronale
sottendente il processamento di stimoli emotivamente rilevanti.
Non è ancora però ancora ben chiarito in che modo una
minore o maggiore regolazione cognitiva della risposta affettiva possa influenzare la fisiopatologia associata a questo disturbo.
In un nostro studio, abbiamo confrontato pazienti con
Schizofrenia e controlli sani in relazione all’attività cerebrale correlata a processamento implicito (a relativamente
bassa interferenza cognitiva) e esplicito (a più alta interferenza cognitiva) di stimoli con valenza emotiva negativa. I
risultati hanno mostrato abnorme attività nella Schizofrenia dell’amigdala durante il processamento implicito, e
della corteccia prefrontale dorsolaterale durante quello
esplicito, suggerendo un inefficace processamento di stimoli emotivamente salienti in questo disturbo.
SIMPOSI TEMATICI
È la dopamina importante nella regolazione
delle emozioni? Oltre l’ipotesi
fisiopatologica della psicosi
L’impatto degli antipsicotici atipici sulle
emozioni dello schizofrenico
A. de Bartolomeis, V. de Luca
Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Torino
Laboratorio di Psichiatria Molecolare, Dipartimento di
Neuroscienze, Università Federico II di Napoli
1. Circuiti neuroanatomofunzionali implicati nella fisiopatologia delle manifestazioni psicotiche, nelle disfunzioni di tipo cognitivo e nella regolazione della risposta allo stress acuto sono potentemente regolati dal sistema
dopaminergico a multipli livelli cortico-sottocorticali.
2. I medesimi circuiti sono altresì implicati nella regolazione di risposte comportamentali con rilevante contenuto emotivo; rimane tuttavia per molti versi elusivo il
ruolo della dopamina nel processamento delle emozioni
e solo inizialmente esplorati i meccanismi molecolari attraverso i quali la dopamina modula i sistemi di trasduzione del segnale a livello pre- e post-postsinaptico, significativamente rilevanti in regioni anatomiche importanti per il processamento delle emozioni.
3. Nonostante l’impossibilità di creare modelli preclinici
con rilevanza antropomorfa in questo ambito, i modelli
animali forniscono utili suggestioni sui meccanismi recettoriali e post-recettoriali nonché sulle interazioni tra
sistema dopaminergico e altri sistemi neurotrasmettitoriali nella regolazione di circuiti cortico-sottocorticali
implicati nella regolazione dell’emozioni. In particolare
il ruolo dell’interazione dopamino glutamatergica cortico-sottocorticale appare cruciale nella regolazione dei
circuiti neuroanatomofunzionali implicati nella modulazione di comportamenti correlati di tipo emozionale, in
particolare legati al fear conditioning, con un possibile
multiplo coinvolgimento dei diversi tipi di recettori dopaminergici e glutammatergici (ionotropi e metabotropi)
e della loro reciproca interazione.
4. In particolare studi sperimentali nei roditori e nei primati indicano un ruolo significativo e differenziale per i recettori NMDA nella regolazione dei livelli di dopamina
in corteccia prefrontale e in amigdala. L’ipofunzione del
recettore NMDA è responsabile nell’uomo di profonde
alterazioni della percezione e della funzione cognitiva
con rilevante impatto sull’attribuzione di significato a
esperienze con correlato emozionale.
5. Nuovi meccanismi di controllo della funzione recettoriale sono recentemente emersi dalla sperimentazione
clinica e possibili implicazioni iniziano ad emergere per
la fisiopatologia delle risposte con rilevanze emotive
nella fisiopatologia delle psicosi; un esempio in tal senso viene dai sistemi di controllo e del tuning dopaminergico transsinaptico ad opera di proteine della densità
postsinaptica come Homer.
P. Rocca, A. Monero, R. Rasetti
Introduzione: la compromissione del funzionamento sociale è il trait d’union della maggior parte dei disturbi psichiatrici ed è uno dei criteri necessari per porre diagnosi del sistema nosografico attualmente in uso (DSM-IV-TR). Di tutti i disturbi psichiatrici dell’età adulta, quelli dello spettro
schizofrenico sembrano essere quelli in cui è presente una
peculiare compromissione del funzionamento sociale. Molti pazienti presentano deficit nella capacità di processare le
emozioni osservate negli altri, sono socialmente inattivi,
privi di spontaneità e sovente indifferenti al mondo circostante. Tutto ciò si associa a scarso adattamento e funzionamento sociale. Questo dominio cognitivo viene generalmente identificato con la “social cognition”, che è stata descritta come “l’insieme dei processi e delle funzioni che permettono ad un soggetto di comprendere, agire e trarre benefici dal mondo interpersonale” 1. In campo clinico è ancora
tema di discussione se l’outcome funzionale sia influenzato
da questo nucleare disturbo pervasivo delle relazioni che
condiziona la vita del soggetto, o dalla presenza dei differenti sintomi che si presentano nel corso della Schizofrenia
o ancora da deficit del funzionamento cognitivo di base. I
pochi studi che hanno valutato l’effetto del trattamento farmacologico sulla “social cognition” riportano dati contraddittori. Alcuni studi evidenziano una maggiore efficacia di
olanzapina e risperidone rispetto all’aloperidolo nel miglioramento di questa funzione 2-4, altri non hanno riscontrato
differenze tra l’utilizzo di antipsicotici tipici e atipici 5, mentre studi ancor più recenti non sembrano indicare alcun miglioramento della “social cognition” con la terapia farmacologica 6. Questi risultati devono essere considerati con cautela, dal momento che la definizione stessa di “social cognition” e le modalità di studio di tale dominio variano a seconda della metodica utilizzata. L’ipotesi di lavoro che ci
siamo proposti è di valutare, in un campione di soggetti affetti da Schizofrenia con esordio recente, le eventuali differenze nelle alterate funzioni sociali ed emotive, in base al
trattamento farmacologico in atto, confrontando neurolettici
ed antipsicotici atipici.
Metodologia: per lo studio della “social cognition” è stato
messo a punto un protocollo computerizzato (Comprehensive Affect Testing System – versione italiana realizzata dal
nostro gruppo di ricerca; demo della versione inglese disponibile al seguente sito internet: http://www.psychologysoftware.com/testing_instruments.htm) che prevede la somministrazione di diversi test volti ad esplorare differenti
aspetti delle funzioni emotive (test di discriminazione delle
emozioni, test di denominazione delle emozioni, selezione
delle emozioni, riconoscimento di facce in base all’emozione espressa, test di prosodia). Al fine di completare l’assessment della componente emotiva, è stato inoltre somministrato il test di “Attribuzione delle intenzioni” di Brunet 7
per indagare la Teoria della Mente (ToM). Queste valutazioni ci hanno permesso di valutare l’alterata socialità, il disturbo del contatto e della sintonizzazione affettiva nei due
gruppi di trattamento. I test sono stati somministrati ad un
72
SIMPOSI TEMATICI
campione di pazienti schizofrenici con esordio recente (< 5
anni) e ad un gruppo di controllo sano, reclutato tra il personale universitario e ospedaliero della SCDU. Altri strumenti di valutazione hanno compreso: intervista semistrutturata per la raccolta dei dati demografici, anamnestici e clinici generali, focalizzando l’attenzione soprattutto sul trattamento farmacologico; intervista strutturata per la diagnosi
di Schizofrenia secondo il DSM-IV (SCID), valutazione
neurocognitiva con utilizzo di batterie di test specifiche.
Risultati: allo stato attuale della ricerca, sono stati reclutati
28 soggetti schizofrenici e 18 controlli sani. I pazienti presentano una compromissione statisticamente significativa
nella performance del Comprehensive Affect Test e del ToM,
se confrontati con i controlli normali. All’interno del campione di soggetti schizofrenici, non sembrano invece essere
presenti differenze di performance nel gruppo in trattamento con i neurolettici (42%) rispetto al gruppo in trattamento
con antipsicotici atipici (58%).
Conclusione: i risultati di tali osservazioni potranno avere
importanti implicazioni pratiche, in quanto permetteranno di
effettuare un’analisi d’efficacia dei nuovi farmaci antipsicotici e valutare eventualmente la necessità di un intervento combinato con trattamenti psicoeducazionali e riabilitativi al fine
di migliorare la compromissione osservata in questo dominio.
Bibliografia
1
Corrigan P, Penn D, eds. Social cognition and schizophrenia
Washington, DC: APA Books 2001, p. 41-72.
2
Kee KS, Kern RS, Marshall BD, Green MF. Risperidone vs.
haloperidol for perception of emotion in treatment-resistant
schizophrenia: preliminary findings. Schizophr Res
1998;31:159-65.
3
Littrell KH. Improvement in social cognition in patients with
schizophrenia associated with treatment with olanzapine. Schizophr Res 2004;66:201-2.
4
Mazza M, Tozzini C, Giosue P, De Risio A, Palmucci M, Roncone R, et al. Social cognition and atypical antipsychotic agents
in the treatment of persons with schizophrenia: preliminary data from a naturalistic study. Clin Ter 2003;154:79-83.
5
Hogarty G, Flesher S, Ulrich R, Carter M, Greenwald D, PogueGeile M, et al. Cognitive enhancement therapy for schizophrenia. Arch Gen Psychiatry 2004;61:866-76.
6
Herbener ES, Hill SK, Marvin RW, Sweeney JA. Effects of antipsychotic treatment on emotion perception deficits in firstepisode schizophrenia. Am J Psychiatry 2005;162:1746-8.
7
Brunet E, Sarfati Y, Hardy-Baylè M, Docety J. A PET study of
the attribution of intentions to otheres in schizophrenia. Comparison with normal subjects on a non-verbal task. Schizophr
Res 2001;49(Suppl 1):174.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA VERDE
S26 - Il Trattamento Sanitario Obbligatorio
MODERATORI
P.M. Furlan, S. Tartaglione
Analisi dei Trattamenti Sanitari Obbligatori
della città di Torino: 15 anni di osservazione
P.M. Furlan, R.L. Picci, S. Gelati
DSM Interaziendale ASO “San Luigi Gonzaga”/ASL5 di
Collegno/Università di Torino
La ricerca è stata eseguita tramite la raccolta dei dati presenti sulle proposte di TSO archiviate presso l’Ufficio TSO
del Comune di Torino. I dati sono tutti su supporto cartaceo,
archiviato in maniera distaccata dall’anagrafe del Tribunale
e con dati specifici per questa ricerca (anche se non esaurienti) ad esempio le diagnosi d’entrata, notoriamente “affrettate”. I dati sono stati confrontati con l’anagrafe di Torino, sono stati selezionati i residenti per questo confronto e
sottoposti a statistiche comparative.
Area di osservazione: Città di Torino 5 SPDC per un totale
di 75 letti – sebbene il numero non possa essere indicativo
per intercorse chiusure e per la necessaria aggiunta in situazioni d’urgenza di letti aggiuntivi (c.d. barelle).
Il periodo di osservazione va dal 1985 al 1999 (quindici anni) e il numero di TSO effettuati (eventi) raggiunge i cinquemila e le persone che lo hanno subito oltre le 4.000 con
una predominanza degli uomini del 22%. Vengono analizzati numerosi dati tra cui la durata media, le recidive, il rischio relativo (RR) le classi di età, l’incidenza e prevalenza
uomini e donne, il confronto con la popolazione normale ed
73
i fattori di rischio. Sono stati messi a confronto i dati con
quelli estratti nel periodo negli ospedali psichiatrici di Collegno. Tra numerosi dati emerge che oltre il 70% dei TSO
cessa entro i sette giorni, che vi sono picchi di età specifici
in confronto della colazione e una riduzione dell’età media
così come non sono particolarmente evidenti dei mutamenti di tipologia della popolazione rispetto ai pregressi ricoveri in OP.
Trattamento sanitario obbligatorio: aspetti
costrittivi nell’ambito dei trattamenti
C. Mencacci
Dipartimento di Psichiatria, A.O. “Fatebenefratelli-Oftalmico” Milano
Il contratto in psichiatria è tra pari e coinvolge tutto il personale e la stessa continuità terapeutica è legata al lavoro di
équipe ed è differente dal Contratto in medicina maggiormente rivolto alla singola prestazione professionale.
Questi anni hanno comportato un significativo cambio dell’orientamento dei servizi psichiatrici a favore delle Associazioni dei familiari, dei pazienti e di advocacy favorendo
uno spazio per proposta di un “contratto” orientato verso un
reciproco impegno tra il Servizio Psichiatrico e l’utente e i
suoi familiari.
SIMPOSI TEMATICI
Si tratta di favorire la costruzione di un progetto terapeutico-riabilitativo che veda costantemente impegnati gli operatori alla ricerca di un consenso che procede lungo proposte
di intervento, di obiettivi da raggiungere, di verifiche, di
tempi previsti per l’attuazione.
Un “Patto” per la costruzione di una Alleanza che vede i Servizi declinare con chiarezza i loro progetti e su questi costruire un “consenso-contratto” con gli utenti ed i loro familiari.
La proposta di un contratto vincolante per la continuità delle cure, nasce dalla comune e ampiamente documentata difficoltà di gestione del mancato o insufficiente adesione ai
trattamenti da parte di soggetti portatori di patologie importanti e da significative ricadute ambientali e relazionali. Gli
strumenti legislativi (ASO, TSO) si sono dimostrati poco
flessibili e inadeguati ad affrontare clinicamente la problematica della mancata adesione alle cure e per tracciare un
nuovo equilibrio tra autodeterminazione alle cure e “dovere
alla salute” che è stato proposto, anche dal punto di vista legislativo, l’introduzione di un “contratto terapeutico vincolante” per la continuità delle cure.
Nella Legge viene sottolineato che il medico di medicina
generale e il medico specialista psichiatra debbano adottare
“ogni opportuna iniziativa per privilegiare trattamenti a cui
il paziente possa aderire esprimendo il proprio consenso
informato”.
Tuttavia è lo psichiatra della struttura curante il legittimato
a redigere il “contratto vincolante” nel caso in cui la situazione clinica individuale non garantisca la continuità del
trattamento terapeutico o riabilitativo al quale il paziente
debba essere sottoposto.
Ora, se con “situazione clinica individuale” si intende una
deficienza psichica per cui il soggetto non sia in grado di
comprendere la vera portata delle cure, ciò comporta, di
conseguenza, la possibilità di ravvisare un vizio nella formazione del contratto stesso in quanto il paziente (parte del
contratto) sarebbe incapace di intendere e di volere. Sarebbe forse meglio chiarire che cosa si intenda per “situazione
clinica individuale” e quali siano le fattispecie cliniche prese in considerazione. E dunque differenziare i casi in cui il
paziente diventa “parte del contratto” da quelli in cui tale
negozio giuridico è stipulato a suo favore, non essendo egli
capace di intendere (anche solo momentaneamente) la reale
portata del disposto dello psichiatra.
Inoltre la scelta dell’espressione “contratto vincolante” potrebbe essere considerata “hard” rispetto ad altre più “soft”
come ad esempio “direttive di partecipazione alla cura”, terminologie usate anche in altri contesti (come per le “manifestazioni anticipate di volontà sulle cure” c.d. “direttive anticipate”) in cui il significato e l’importanza del processo
decisionale da attribuire alla volontà sono strettamente collegate alle circostanze della perdita di coscienza o della volontà (e quindi anche ai casi in cui la volontà è fortemente
scemata) e per questo ad alto impatto sociale.
Aspetti etici nei trattamenti senza consenso
A. Vita
Università di Brescia, DSM, A.O. Spedali Civili di Brescia
L’intervento del medico è stato storicamente informato ad
un atteggiamento di tipo paternalistico.
Il cambiamento dei valori sociali ha però modificato il rapporto medico-paziente mettendo al centro il concetto di libertà ed autonomia dell’individuo.
Eppure il concetto di autonomia risulta inapplicabile ove vi
sia sostanziale riduzione delle capacità del paziente: in tal
caso il principio di beneficialità rappresenta una giustificazione etica dei trattamenti senza consenso.
Esistono peraltro condizioni e criteri specifici che rendono
accettabile o inaccettabile il ricorso al principio di beneficialità.
Il diritto alla cura e al trattamento ha confini variabili nel
tempo e risente delle attitudini della società.
La disciplina dei trattamenti senza consenso presenta notevoli aspetti problematici sotto il profilo etico, aspetti esistenti non solo per i trattamenti di ricovero ma anche per i
trattamenti territoriali.
La “Carta di Milano”, codice etico deontologico per la pratica psichiatrica (“Psichiatria Oggi” 2001, XIV, Suppl. 1)
rappresenta in tal senso uno strumento di riferimento utile
per gli operatori attivi nella tutela della salute mentale.
La contenzione in psichiatria: aspetti clinici,
giuridici ed etici
S. Tartaglione
Dipartimento di Salute Mentale ASL-2 Pentria di Isernia
Sono passate in rassegna le “ghiottonerie sadiche” a cui sono stati sottoposti nel tempo i pazienti psichiatrici istituzionalizzati. Oggi, in SPDC, al di là delle affermazioni ideologiche (tipo “i pazienti non vanno mai contenuti”), emerge la
necessità di definire Linee Guida operative della contenzione con mezzi meccanici.
Sono pertanto esaminate:
1. le indicazioni cliniche (preventive, diagnostiche e terapeutiche) alla contenzione;
2. le sue controindicazioni cliniche ed extra-cliniche;
3. i danni conseguenti alla contenzione subiti dal paziente,
dagli altri pazienti, dai familiari e dagli stessi operatori.
La contenzione però, come il massaggio cardiaco o la tracheotomia, è una tecnica che deve essere standardizzata nelle sue varie fasi (immobilizzazione, monitoraggio, liberazione, discussione) perché diventi pratica terapeutica per il
paziente e sicura per gli operatori.
Dal punto di vista giuridico:
1. il medico ha la responsabilità (formale e clinica) diretta
della contenzione che può essere condotta omissiva e pertanto penalmente perseguibile se non applicata alla persona giusta al momento giusto e nel modo giusto (art. 40,
51, 52, 54, 591, 593 del c.p.);
2. gravi conseguenze penali se la contenzione è ingiustificata (art. 571, 572, 581, 605, 610, 612, 613 del c.p.) o se si
provocano danni alle persone (art. 582, 583, 586, 589,
590 del c.p.).
Dal punto di vista etico, la contenzione è legittimata solo se:
assolutamente necessaria ed inevitabile, volta a tutelare l’incolumità del malato, motivata dal punto di vista clinico, attuata esclusivamente in casi estremi ed eccezionali clinicamente definiti, le tecniche di contenzione sono correttamente eseguite, circoscritta nel tempo più breve possibile, documentata in cartella.
74
SIMPOSI TEMATICI
La contenzione pertanto, non è buona o cattiva pratica ma
atto medico prescrittivo a responsabilità medica cui dare
esclusivamente significati clinici. In ogni caso, imperativo
etico di ogni équipe è quello di “contenere la contenzione”,
ridurne cioè frequenza e durata (obiettivo più realistico del
suo completo azzeramento) mediante uno stile di lavoro rispettoso dei diritti della persona ed una formazione tesa a
realizzare una “atmosfera terapeutica” che consenta di passare dalla contenzione al contenimento motivo, dal distacco
alla relazione, dallo sguardo all’ascolto.
22 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA SAN GIOVANNI
S27 - Lo psichiatra nel XXI secolo
MODERATORI
L. Canova, P.L. Scapicchio
La dimensione neuroscientifico-clinica
C. Gentili, S. Danti, M. Guazzelli
Cattedra di Psicologia Generale, Facoltà di Medicina e
Chirurgia, Università di Pisa
La ricerca psichiatrica solo da alcuni decenni ha potuto avvalersi di nuove metodologie di studio dei processi mentali
che consentono al clinico da un lato l’ancoraggio ai paradigmi normativi della psicologia e dall’altro la possibilità di
identificare determinanti fisiopatologici dei disturbi psichiatrici descritti dalla attuale tassonomia neokrepeliniana. Se le
tecniche di biologia molecolare fanno intravedere la distinzione del ruolo dei fattori genetici e di quelli ambientali, le
metodiche di esplorazione funzionale del cervello in vivo,
quali la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno aperto una “finestra sul cervello” per indagare come le strutture cerebrali partecipano alle fasi dei processi cognitivi e delle emozioni 1. Si
è così cominciato a decodificare il “dialogo a più voci” che
sottende i fenomeni mentali dell’uomo sano e ad intravedere
le perturbazioni che esitano in clinica nelle condizioni psicopatologiche. L’esperienza del dolore ad esempio può essere
scomposta nella sua componente somato-sensoriale e percettiva rispetto al versante dell’esperienza affettiva: la componente soggettiva è modulata dal cingolo anteriore e può essere influenzata mediante l’ipnosi, una sostanza o un placebo, mentre le strutture che processano lo stimolo nocicettivo
e mediano cioè la componente senso-percettiva, quali la corteccia somato-sensoriale primaria ed i talami, non risentono
di queste modalità di modulazione 2-4.
Alcune nuove conoscenze sono oggi disponibili in ambito
più direttamente clinico cioè per la tristezza e per la depressione 5 6, o per la paura e l’ansia, nelle sue varie declinazioni tra cui la fobia sociale 7 8. Meno univoci sono invece i progressi nel versante delle psicosi.
I risultati acquisiti comunque fanno ragionevolmente sperare
che la riflessione psicopatologica possa in un futuro relativamente prossimo disporre di parametri esterni di validazione
diagnostica dei disturbi mentali ed ambire così ad una classificazione per unità elementari di malattia; ciò consentirà per
altro anche di rivisitare criticamente gli attuali concetti dello
spettro e della dilagante comorbidità con i quali si tenta di aggirare i limiti della attuale tassonomia descrittiva categoriale.
Il recente sviluppo della biologia molecolare dischiude inoltre la possibilità di superare la concezione deterministica
che per alcuni è intrinseca ad ogni teoria psicobiologica e di
75
affrontare su nuove basi anche il problema della farmacoresistenza che affligge ancora troppi pazienti: l’identificazione di precisi polimorfismi genici o di determinati assetti recettoriali potrà infatti divenire criterio guida per il clinico e
gli consentirà di adottare trattamenti personalizzati anche
per quei pazienti apparentemente refrattari o, peggio ancora, privi di ogni “compliance”. Le conoscenze sulla plasticità cerebrale, infine, concorrendo alla valorizzazione del
ruolo dei fattori ambientali, stimolano l’interesse del clinico
verso la vulnerabilità alla psicopatologia e aprono prospettive nuove nel campo della riabilitazione e della prevenzione,
che potranno avvalersi di un impianto più solido sul piano
metodologico e più fondato su quello scientifico, che auspicabilmente sarà patrimonio comune dello psichiatra nel secolo appena iniziato.
Bibliografia
1
Pietrini P, Furey ML, Guazzelli M. In vivo biochemistry of the
brain in understanding human cognition and emotions: towards
a molecular psychology. Brain Res Bull 1999;50:417-8.
2
Coghill RC, McHaffie JG, Yen YF. Neural correlates of interindividual differences in the subjective experience of pain.
Proc Natl Acad Sci USA 2003;100:8538-42.
3
Petrovic P, Kalso E, Petersson KM, Ingvar M. Placebo and opioid analgesia – imaging a shared neuronal network. Science
2002;295:1737-40.
4
Rainville P, Duncan GH, Price DD, Carrier B, Bushnell MC.
Pain affect encoded in human anterior cingulate but not somatosensory cortex. Science 1997;277:968-71.
5
Keedwell PA, Andrew C, Williams SC, Brammer MJ, Phillips
ML. The Neural Correlates of Anhedonia in Major Depressive
Disorder. Biol Psychiatry 2005;Jul:22.
6
Mayberg HS. Positron emission tomography imaging in depression: a neural systems perspective. Neuroimaging Clin N Am
2003;13:805-15.
7
Chua P, Krams M, Toni I, Passingham R, Dolan R. A functional
anatomy of anticipatory anxiety. Neuroimag 1999;9:563-71.
8
Stein MB, Goldin PR, Sareen J, Zorrilla LT, Brown GG. Increased amygdala activation to angry and contemptuous faces in generalized social phobia. Arch Gen Psychiatry 2002;59:1027-34.
La dimensione psicosociale
L. Ferrannini, P.F. Peloso
DSM ASL 3 – Genovese
Introduzione: la riflessione in corso in Italia sulla psichiatria di comunità, come strategia complessiva di risposta alle
SIMPOSI TEMATICI
problematiche dell’assistenza psichiatrica, ha riaperto la discussione sui modelli teorici di riferimento nell’agire psichiatrico. Lo sviluppo delle neuroscienze da un lato e l’ampliarsi di una domanda di intervento e presa in carico su persone e comportamenti estremamente diversificati impone un
riposizionamento della nostra disciplina e della stessa identità dei professionisti.
Metodologia: recenti ed autorevoli contributi 1-3, partendo
da angoli di visuale diversi, hanno posto il problema di un
forte ripensamento del modello bio-psico-sociale, per renderlo più idoneo ad integrare, e non solo a giustapporre, le
evidenze scientifiche, ma anche i limiti, della ricerca sui fattori biologici, psicologici e sociali nel determinismo dei disturbi psichiatrici. Sembra sempre più evidente la necessità
di evitare appiattimenti su singoli modelli, che pur fornendo
importanti elementi di conoscenza, non possono produrre
spiegazioni lineari esaustive, a fronte della multifattorialità
e del multideterminismo delle malattie mentali, e quindi di
accettare in pieno la sfida della complessità come metodo
scientifico (Morin, 1997).
Risultati: attraverso questa impostazione, assunta coerentemente nella ricerca e nella clinica, è possibile superare i limiti di approcci riduzionistici conseguenti ad “uno sguardo
da nessun luogo”, reintegrando invece l’osservatore all’interno dei processi descrittivi e riaffermando il carattere di
dipendenza dei saperi dai punti di vista dai quali muove
ogni ricerca scientifica. Il “complexus” rappresenta quindi
l’ordito e l’intreccio necessario per avvicinare una realtà imprevedibile e problematica – come quella oggetto dell’intervento psichiatrico – con un conseguente riposizionamento
della conoscenza e delle pratiche: universale vs. particolare,
teoria vs. pratica, astrazione vs. contesto, ricerca della certezza vs. tolleranza dell’incertezza, unicità vs. molteplicità.
Conclusioni: il modello biopsicosociale richiede oggi un
forte e coerente rilancio dello studio dei fattori integrativi 4,
per evitare il rischio di un suo isterilimento teorico-pratico e
di una divaricazione della stessa identità degli operatori.
Bibliografia
1
Materia E, Baglio G. Appropriatezza ed epistemologia della
complessità. In: Falcitelli N, Trabucchi M, Vanara F, a cura di.
2
3
4
Rapporto Sanità 2004. Bologna: Società Editrice il Mulino
2004.
Kendler KS. Toward a philosophical structure for psychiatry.
Am J Psychiatry 2005;162:433-40.
Saraceno B. Nuovi paradigmi per la salute mentale. Psichiatria
di Comunità 2005;IV:1-4.
Angelozzi A, Bassi M, Cappellari L, Favaretto G, Ferrannini L,
Fioritti A, et al. Documento sullo stato e sulle prospettive della
Psichiatria italiana. Psicoterapia e Scienze Umane 2005, in
stampa.
Il rapporto con i poteri
L. Canova
Università di Siena
Il problema principale con il quale ci dobbiamo confrontare
è il problema culturale del mediatore tra la follia e la città.
C’è una costante.
Ogni società civilizzata pone sempre una figura intermedia
tra sé e la follia, prete, stregone, medico che sia, fornita di
una determinata competenza, avendo del contatto immediato con essa lo stesso orrore che ha della morte e del sacro.
Questo ha sempre implicato nel tempo la definizione del
ruolo dello psichiatra e dei suoi rapporti con i poteri.
Da quello con il potere politico-ideologico (la follia come
contraddizione socio-politica) a quello più strettamente clinico e medico (la riscoperta di una specifica competenza nel
trattare la follia) a quello ancora di una società che chiede
allo psichiatra non più un controllo sociale di tipo neomanicomiale, ma una garanzia.
La società propone dei bisogni di salute mentale e chiede
agli specialisti di occuparsene dettando spesso le condizioni.
Da qui le varie relazioni e condizionamenti (i mass-media,
il conflitto di interessi, gli aspetti organizzativi della sanità
fra l’altro in un sistema di reale devolution) che intervengono sullo psichiatra agli albori del terzo millennio e contribuiscono a mettere in gioco la sua identità fino ad arrivare a
frammentarla.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 1
S28 - Decorsi del Disturbo Bipolare:
implicazioni per la terapia
MODERATORI
A. Koukopoulos, M. Raja
Rischio di suicidio in pazienti Bipolari I e II
L. Tondo* ** ***, M. Pompili** ****
*
Dipartimento Psicologia, Università di Cagliari;
McLean-Harvard Medical School; *** Centro “Bini”, Cagliari; **** Dipartimento di Psichiatria, Ospedale “S. Andrea”, Università di Roma “La Sapienza”
**
Introduzione: il rischio di suicidio è particolarmente eleva-
to in pazienti con disturbi dell’umore. Si stima che il 40%60% dei suicidi abbiano sofferto di disturbi dell’umore.
Inoltre, il Rapporto Standardizzato di Mortalità (popolazione osservata/popolazione generale) indica che il rischio di
suicidio in pazienti bipolari è di circa 20 volte superiore rispetto alla popolazione generale. Circa l’80% dei pazienti
commette il suicidio in uno stato di depressione o disforicomisto, indicando che la depressione è una condizione quasi
necessaria per arrivare al suicidio, mentre non è sufficiente,
76
SIMPOSI TEMATICI
visto che la mortalità per suicidio interessa approssimativamente “soltanto” il 15% dei pazienti 1 2. Lo studio presenta
una revisione della letteratura riguardante il suicidio in pazienti con disturbi dell’umore, mettendo in evidenza soprattutto il rischio nel Disturbo Bipolare, diviso per i sottotipi
diagnostici BP-I (mania e depressione) e BP-II (ipomania e
depressione).
Metodologia: sono stati inclusi nello studio, tutti gli articoli disponibili con dati riguardanti il rischio di suicidio in pazienti BP-I e BP-II.
Risultati: i dati a disposizione mostrano che il rischio di
suicidio è elevato sia nei pazienti con Disturbo Bipolare di
tipo I che in quelli di tipo II. L’analisi dei risultati non mostra concordanza su quale sottotipo diagnostico presenti un
maggiore rischio di suicidio. Inoltre, un recente originale
studio 3 mostra risultati riguardanti il rischio di suicidio anche rispetto alla sequenza del decorso del Disturbo Bipolare evidenziando un rischio decrescente: MD > Dm > M =
Md (M = mania; m = ipomania; D = depressione grave; d =
depressione lieve).
Conclusioni: gli studi sono concordi nell’affermare che uno
stato depressivo, soprattutto se grave, è la condizione maggiormente responsabile di un aumentato rischio di suicidio.
I dati non mostrano un maggior rischio associato a un particolare sottotipo bipolare.
Bibliografia
1
Tondo L, Isacsson G, Baldessarini RJ. Suicidal Behavior in
Bipolar Disorder: Risk and Prevention. CNS Drugs
2003;17:491-511.
2
Baldessarini RJ, Hennen J, Davis P, Pompili M, Tondo L. Decreased suicidal risk during long-term lithium treatment: a
meta-analysis. Bipolar Disorder 2005, in press.
3
Angst J, Angst F, Gerber-Werder R, Gamma A. Suicide in 406
mood-disorder patients with and without long-term medication: a 40 to 44 year’s follow-up. Arch Sui Res 2005;9:279300.
Decorsi cronici
G.P. Minnai, P.G. Salis
Dipartimento di Salute Mentale ASL 5, Oristano
Il ciclo maniaco-depressivo è costituito da una fase eccitativa, una fase depressivo ed un intervallo libero di durata variabile.
Variabile è anche la durata delle fasi eccitative e depressive.
Sebbene ancora oggi non esistano dei criteri ampiamente
condivisi sulla definizione di cronicità, il DSM-IV definisce
cronici gli episodi con una durata uguale o superiore ai due
anni. Vengono analizzate le differenze di cronicità nei vari
periodi. I dati di Rehm e Kraepelin sembrano evidenziare
che in era pre-farmacologica i casi di decorso cronico erano
percentualmente inferiori agli attuali. È certo singolare che,
a dispetto delle tante nuove molecole antidepressive a disposizione del medico, il 30% delle depressioni risultino resistenti o croniche.
Vengono inoltre inclusi nella cronicità quei decorsi che pur
presentando le fasi eccitative o depressive di durata inferiore ai due anni presentano un passaggio continuo da una fase
all’altra senza intervallo libero, i cosiddetti decorsi “Circolari Continui”.
77
Diverse sono le cause che possono essere responsabili di
questo apparente incremento dei decorsi cronici, dai mutati
stili di vita alle influenze di alcune terapie.
Indubbiamente questi decorsi costituiscono un serio problema terapeutico.
Diverse sono le strategie terapeutiche proposte per la soluzione di questi complessi casi.
L’impatto degli antipsicotici atipici
nel trattamento del Disturbo Bipolare
M. Raja
Ospedale “Santo Spirito in Sassia”, Roma
Introduzione: negli ultimi 10 anni si è molto diffuso l’uso
degli antipsicotici atipici che hanno in gran parte sostituto i
neurolettici tipici (NT). L’impressione della maggior parte
dei clinici, sostenuta anche da molti studi controllati, è che
questi farmaci siano associati ad un miglior profilo di effetti collaterali e, almeno per quanto riguarda la clozapina
(CLO), ad una maggiore efficacia clinica. L’impatto clinico
di questo cambiamento è tuttavia difficile da documentare
nella pratica clinica reale.
Soggetti e metodo: sono stati esaminati dati clinici relativi
ad una popolazione di 1.509 pazienti con disturbi psicotici
(per la maggior parte bipolari o schizoaffettivi) ricoverati in
un SPDC negli anni 1997-2002 per evidenziare eventuali
differenze correlate al diverso trattamento antipsicotico. Sono stati selezionati i pazienti che sono stati trattati solo con
risperidone (RIS), olanzapina (OLN), clozapina (CLO) o
neurolettici tipici (NT), escludendo i pazienti trattati con più
di un antipsicotico nel corso della degenza.
Risultati: di questi pazienti, 478 sono stati trattati solo con
RIS, 39 solo con CLO, 51 solo con OLN e 324 solo con NT.
Il dosaggio medio è stato di 3,7 (± 2,2) mg per RIS, 16,2 (±
7,4) mg per OLN, 341,4 (± 170,3) mg per CLO e 595,4 (±
522,6) mg (espressi in equivalenti in clorpromazina) per i
NT. Il punteggio CGI medio all’ingresso era di 5,8 per RIS,
5,9 per OLN, 6,0 per CLO e 5,6 per NT. Il punteggio BPRS
(24 items) medio all’ingresso era di 61,9 (± 12,9) per RIS,
61,8 (± 12,6) per OLN, 68,2 (± 12,6) per CLO e 58,5 (±
13,8) per NT. Il numero dei pazienti che in questo arco di
tempo è stato nuovamente ricoverato in SPDC è più elevato
nei pazienti trattati solo con NT o solo con CLO (p = 0,000).
Il miglioramento CGI è minore nei pazienti trattati con NT.
I comportamenti violenti sono stati più frequenti nei pazienti tratti con NT (p = 0,033). L’uso di anticolinergici è stato
più frequente nei pazienti trattati con NT (p = 0,000). I pazienti trattati con RIS hanno presentato livelli di ostilità/violenza significativamente minori rispetto ai pazienti trattati
con CLO o NT.
Discussione: sono evidenti chiare differenze tra antipsicotici atipici e NT esaminando variabili cliniche influenzate da
pochi fattori (per esempio distonie acute, uso di anticolinergici), mentre risulta più difficile evidenziare differenze rispetto a variabili influenzate da molti fattori come miglioramento clinico, comportamenti violenti, tasso di nuove ospedalizzazioni.
Tuttavia, emergono dati che indicano una maggiore efficacia clinica nel trattamento dei pazienti affetti da disturbi psicotici trattati con antipsicotici atipici.
SIMPOSI TEMATICI
Le Depressioni Bipolari secondo la sequenza
del ciclo
A. Koukopoulos
Centro “Lucio Bini”, Roma
Gli effetti a medio e lungo termine delle terapie del Disturbo
Bipolare dipendono essenzialmente dalla sequenza delle fasi
del ciclo maniaco-depressivo compreso l’intervallo libero.
1) Il ciclo Mania-Depressione-Intervallo rende possibile la
cura della fase depressiva con antidepressivi senza il rischio di uno switch in mania/ipomania grazie all’intervallo
che segue e durante il quale si possono scalare e sospendere gli AD e iniziare o intensificare la cura stabilizzante per
prevenire una nuova mania e l’inizio di un nuovo ciclo.
2) Il ciclo Depressione-Mania/Ipomania-Intervallo è più difficile da trattare perché le cure con AD possono provocare uno switch in mania/ipomania e la trasformazione del
decorso, in breve tempo, in ciclico continuo e poi in rapido ciclico.
Le possibili strategie terapeutiche sono due: a) L’ECT per la
depressione perché provoca meno switch degli AD. Se uno
switch si verifica si può sopprimere la mania/ipomania prolungando l’ECT di poche applicazioni. b) Iniziare la terapia
stabilizzante durante la depressione e aumentarla in corrispondenza del miglioramento della depressione e contemporaneamente scalare e sospendere tempestivamente gli
AD. Questo metodo può avere successo fin dal primo ciclo
oppure può attenuare l’intensità delle fasi e in pochi cicli
fermare la ciclicità.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 2
S29 - Lo psichiatra fra segreto professionale
e tutela della privacy
MODERATORI
R. Catanesi, A. Amati
Lo psichiatra fra segreto e privacy: principi
medico-legali
R. Catanesi, F. Carabellese
Sezione di Criminologia e Psichiatria Forense, DiMIMP,
Università di Bari
Mantenere il segreto sulle notizie apprese nel corso dell’esercizio professionale costituisce, come è noto, oggetto di
specifica forma di tutela del Codice di Deontologia Medica,
oltre che del nostro codice penale, che ne condanna infatti
ingiustificate rivelazioni o eventuali abusi. Lo psichiatra
non fa eccezione alla regola, normativamente parlando, ma
nella realtà deve spesso confrontarsi con aspetti alquanto
complessi. Lo psichiatra, difatti, si trova talvolta nella necessità di condividere le informazioni sullo stato di salute di
un paziente con membri della famiglia per ragioni strettamente terapeutiche, che divengono addirittura “strutturali”
in caso di alcune terapie, ad esempio quelle ad orientamento sistemico. Che si tratti di esigenza propria della branca lo
conferma il Progetto Obiettivo “Tutela della Salute Mentale” 1998-2000 nel quale è espressamente segnalata la necessità del “coinvolgimento delle famiglie nella formulazione e nell’attuazione del piano terapeutico”. Laddove vi sia
il consenso dell’interessato alla rivelazione delle notizie inerenti il suo stato di salute naturalmente non vi sono problemi di sorta, ma quando questo manca, ed il coinvolgimento
è stimato utile o addirittura necessario, ci si può trovare nella obiettiva difficoltà di ottemperare contemporaneamente
alle necessità terapeutiche del paziente ed agli obblighi
deontologici e normativi.
A rendere più complesso il quadro operativo del lavoro psichiatrico si è aggiunta, negli ultimi anni, la articolata normativa sulla privacy, che regolamenta il trattamento e la
protezione dei dati personali, normativa oggetto nel tempo
di continue precisazioni da parte del Garante. Numerose sono le tematiche che questa norma solleva nel contesto psichiatrico.
È cognizione comune, ad esempio, che in una cartella psichiatrica vi siano informazioni che non riguardano solo il
paziente ma anche altre persone significative, come pure
che le anamnesi psichiatriche non siano limitate ai soli
aspetti medici ma comprendono anche dati esistenziali, personali, relazionali; tutti dati che meritano, anzi impongono,
speciali forme di tutela e dunque un ripensamento sull’operatività concreta delle gestione del materiale documentale,
tanto in SPDC, quanto nei servizi.
Vi sono poi specifici ambiti terapeutici – terapie familiari,
interventi sistemici o psicoeducazionali – rispetto ai quali si
procede generalmente con annotazioni uniche, omnicomprensive, che necessariamente finiscono col coinvolgere tutti i partecipanti, ciascuno dei quali ha identici diritti nel trattamento e nella protezione dei dati personali.
Il quadro rappresentato sinora si complica ulteriormente se
si tiene conto che la normativa attualmente consente la acquisizione di documentazione sanitaria da parte di terze persone in tutti i casi in cui sia in gioco la difesa di interessi
considerati di “pari rango” rispetto a quello della tutela della privacy. Nella sostanza, in un certo numero di controversie giudiziarie, che spaziano dall’affidamento dei figli alle
cosiddette “indagini difensive” in ambito penale, è possibile che lo psichiatra sia costretto a consegnare copia della documentazione relativa ad un suo paziente ad altre persone.
Tutto ciò impone una riflessione attenta sull’organizzazione
della cartella clinica, in previsione non solamente di un adeguato uso a fini terapeutici ma anche delle ricadute che la
diffusione di tale materiale può avere sul nostro paziente o
su terze persone.
78
SIMPOSI TEMATICI
Segreto professionale e riservatezza
in psichiatria
La gestione della cartella clinica alla luce
delle nuove norme sulla privacy
A. Amati
M. Marchetti, G. Catania
Università “Magna Græcia” di Catanzaro, Dipartimento di
Medicina Sperimentale e Clinica “G. Salvatore”
Università di Roma “Tor Vergata”, Cattedra di Psicopatologia forense
Il principio generale delle Wigmore Rules (1961) definisce
la riservatezza come garanzia essenziale al mantenimento di
una relazione professionale piena e soddisfacente tra le parti, negli Stati Uniti. La relazione psichiatra-paziente è stata
riconosciuta, come destinataria di “speciale protezione” rispetto al comune rapporto medico-paziente.
In Italia, l’obbligo del segreto professionale riguarda il singolo operatore sanitario, anche se operante in équipe: la materia è regolata dal Codice Penale e dal Codice di Deontologia Medica, mentre la tutela della riservatezza dei dati personali rientra nella Legislazione sulla privacy.
Pertanto, il medico e tutti i professionisti della salute mentale come psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione,
assistenti sociali ed altro personale socio-sanitario la cui attività preveda rapporti diretti con il malato, sono tenuti individualmente a mantenere il segreto professionale ed al rispetto del codice deontologico ed all’osservanza della legge
sulla tutela della privacy.
Il punto cruciale è l’informazione a terzi e a congiunti: oltre
il rispetto della legislazione vigente, è valido riferirsi al
principio-base della dichiarazione di Madrid WPI (1996),
nel senso che le informazioni ottenute in condizione di riservatezza siano utilizzabili al solo scopo di migliorare la
salute mentale del soggetto. La legge italiana individua il
medico operante in struttura pubblica come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio ed è tenuto al rapporto all’Autorità Giudiziaria, se nello svolgimento delle sue
funzioni assiste o viene a conoscenza di reato. Il libero professionista, nelle stesse circostanze, ha l’obbligo di segnalare all’Autorità Giudiziaria reati perseguibili d’ufficio o sospetti tali.
Gli atti e le procedure che concernono ASO e TSO costituiscono trasmissione di segreto professionale tra coloro che
intervengono: per i soggetti addetti alla parte amministrativa la conoscenza di fatti può essere assimilata al segreto
d’ufficio.
Il principio generale del segreto è ancor più vincolante in
psicoterapia per la natura delle comunicazioni del paziente, che comprendono emozioni, fantasie, pensieri reconditi, e si associa al principio della tutela dell’alleanza di lavoro.
Negli Stati Uniti le conseguenze del caso Tarasoff hanno introdotto il “Duty to Protect” la vittima potenziale di disegni
aggressivi quando essa sia identificabile ed il pericolo sia
prevedibile ed imminente.
Sebbene l’esatta natura giuridica della cartella clinica non
sia chiaramente definita e non è ben chiaro se debba essere
considerata un vero e proprio atto pubblico, dotato quindi di
fede privilegiata, con la conseguente rilevanza penale, ovvero un documento ospedaliero di natura tecnico-sanitaria,
ovvero ancora un’attestazione equiparabile ad una certificazione amministrativa, appare chiaro che essa conserva comunque appieno il suo valore di atto amministrativo sanitario 1.
Sebbene non vi siano precise indicazioni normative su come
si debba compilare una cartella clinica va ricordato come
molte delle cause per responsabilità professionale dello Psichiatra traggono alimento non tanto, o non soltanto, da specifiche condotte del sanitario, quanto da come queste stesse
condotte sono state riportate nella cartella clinica (sia quelle relative al ricovero come quelle ambulatoriali).
Ancora più complesso appare oggi il quadro alla luce della
normativa sulla privacy recentemente modificata (D.L. 30
giugno 2003 n° 196) che all’art. 92 prevede espressamente
delle indicazioni relative alla cartella clinica.
Il dato peculiare è che le cartelle cliniche sono documenti
che si caratterizzano oltre che per la presenza di dati che riguardano il paziente cui la cartella clinica si riferisce anche
per la menzione di informazioni, sanitarie e non, concernenti individui terzi diversi dal diretto interessato.
Esiste quindi un concreto problema di tutela e trattamento
delle informazioni riportate in cartella relative a terzi che
impone un momento ulteriore di riflessione rispetto alla
questione, forse più discussa e sicuramente meglio tutelata,
del trattamento dei dati personali del paziente stesso.
Vi è infatti la possibilità, espressamente prevista dalla legge,
che terze persone possano avere accesso alla cartella clinica, in particolare a sue specifiche parti, anche se solo in determinate circostanze e a motivo di particolari finalità.
È facile comprendere come tale problematica acquisti una
sua particolare complessità in un campo come quello della
psichiatria, o della Psicologia. È infatti molto frequente che
in cartella, spesso ben al di là dei principi di pertinenza,
completezza e non eccedenza dei dati, vengano riportate delicate informazioni relative, non solo allo stato di salute ma
anche allo stile di vita ed alle scelte personali dei vari soggetti che ruotano attorno al malato e non appare risolutiva
l’indicazione di legge di “adottare opportuni accorgimenti
per distinguere i dati relativi al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati”.
Bibliografia
1
Puccini C. Istituzioni di Medicina Legale. Milano: Casa ed Ambrosiana 2003.
79
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 3
S30 - Creatività artistica e Disturbo Bipolare
MODERATORI
M. Di Fiorino, Z. Rihmer
Disturbo Bipolare e creatività artistica:
scrittori e poeti
Bipolarity in the works of painters
G. Perugi
National Institute for Psychiatry and Neurology, * Department of Psychiatry, Semmelweis University, Budapest
Dipartimento di Psichiatria, Università di Pisa, Istituto di
Scienze del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
Introduzione: l’esistenza di un rapporto stretto tra creatività artistica e Disturbo Bipolare (DB) è stata ampiamente
riportata nella letteratura psichiatrica. Quale sia il rapporto
tra creatività e caratteristiche cliniche del DB non è ancora
del tutto chiaro. Fasi di malattia, decorso, caratteristiche
temperamentali sembrano svolgere un ruolo differente in artisti diversi. L’analisi dei testi di alcuni scrittori e poeti può
fornire indicazioni illuminanti in proposito.
Metodo: rassegna della letteratura su Pub-Med alle parole
chiave Disturbo Bipolare creatività artistica. Ricerca manuale di capitoli su libri o riviste non indicizzate.
Risultati: un aumento della creatività sembra riscontrarsi
durante le fasi espansive attenuate del DB (ipomania) ed
una diminuzione in quelle depressive, anche se in alcuni
casi è riportato un incremento della creatività anche in
queste ultime. La presenza di una disposizione temperamentale di tipo ciclotimico sembra favorire la creatività,
come pure i frequenti cambiamenti di fase. Infine da alcuni Autori è riportato un significato terapeutico del lavoro
creativo.
Conclusioni: la malattia maniaco-depressiva sembra rappresentare un terreno favorente l’espressione creativa in
molti campi artistici. In particolare in molti scrittori e poeti
emerge come le variazioni d’umore e l’instabilità temperamentale di tipo ciclotimico favoriscano la creatività. In alcuni casi è riportato anche un significato auto-terapeutico
dell’attività artistica, che sembra in grado di modulare la
gravità delle oscillazioni dell’umore.
La Bipolarità nell’opera di compositori
M.L. Figueira, V. Ramos
Clinica Psichiatrica dell’Università di Lisbona
In the present communication the relationships between
some patterns of musical creativity and mood bipolar disorder are analysed. Taking as paradigm the life and works of
Robert Schumann and Hugo Wolf, the following factors will
be described: 1) some important aspects of the composer’s
life and personality; 2) temperamental traits and episodes of
Bipolar disorder; 3) the rate of musical productions and the
mood episodes; 4) elements of bipolarity in the musical
compositions.
Finally, the data present is contextualized in reference to the
emotional and existential clime of the romantic period.
Z. Rihmer, X. Gonda, A. Rihmer*
In contrast to earlier beliefs, ie. that scientific and artistic creativity is linked to schizophrenia, recent systematic empirical
diagnostic studies have clearly shown a strong association of
giftedness and creativity with affective (particularly with
Bipolar II) disorder. The creativity seems to be related to extreme affective temperaments (mostly to cyclothymic traits)
rather than to major mood episodes. Almost half of the worldfamous painters have moderate or severe depressive illness,
(sometimes resulting in suicidal behaviour) and the majority
of them show full-blown bipolar or bipolar spectrum disorder.
The course of bipolar mood disorder can seriously affect the
quantity and quality of the paintings, and the behavioural consequences of the disorder can basically influence the interpersonal and financial relationships of the artists.
Like other creative persons, painters have increased productivity (and use a variety of colours) during hypomanic or
“well” periods, while during depression, they produce less
paintings (and use mainly few, primarily dark colours).
Creatività e Disturbi Mentali
M. Di Fiorino, M. Martinucci
Reparto di Psichiatria della ASL di Viareggio
Il tema della relazione tra il genio e la follia affonda le radici nella medicina classica greca per ripercorrere poi tutta la
cultura occidentale.
Aristotele si interroga sul legame tra creatività e melancolia.
Cesare Lombroso con “L’Uomo di genio” (1891) fa risaltare di nuovo il rapporto tra genialità e tutte le malattie mentali, all’interno di una concezione di degenerazione.
In questo ambito di studio l’approccio evidence based è reso
difficile da una non universale definizione, psicometricamente standardizzata, di creatività (Goodwin e Jamison, 1990).
Negli studi vediamo esplorati le persone creative di per sé,
il processo creativo e il prodotto della creatività.
Nella presentazione analizziamo il dibattito che fa seguito a
proposte di una serie di misurazioni, alcune alquanto aspecifiche e molto differenti tra di loro (Ludwig, 1992).
Spesso le ricerche hanno riguardato casi clinici che già avevano l’associazione creatività disturbo mentale.
Alcuni studi si basano sull’esame di scritti biografici (postmortem) o autobiografici.
Tra le persone creative oltre ai bipolari sono stati descritti
altri disturbi come la depressione, i disturbi di personalità, i
disturbi da uso di sostanze e anche la Schizofrenia.
80
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA ELLISSE
S31 - Uso di cannabinoidi e psicosi:
un’epidemia silenziosa
MODERATORI
G. Bersani, F. Nicoletti
COMT Val158Met moderation of cannabisinduced effects on psychosis and cognition
C. Henquet, J. van Os
Department of Psychiatry and Neuropsychology, Maastricht
University
Introduction: epidemiological reseach has suggested that a
functional polymorphism in the Catechol-O-Methyltransferase (COMT Val158Met) gene moderates the psychosis inducing effects of cannabis. To replicate this finding using an
experimental design and to extent it to the complex world of
daily life, experimental exposure procedures and momentary assessment methodology were applied to test for geneenvironment interactions within the cannabis-psychsis relationship.
Methods: a double blind, placebo-controlled cross-over design was used in which genotyped individuals at low and
high risk of schizophrenia were exposed to ∆-9-THC
(THC). Moment-to-moment experiences associated with
cannabis in the flow of daily life were furthermore assessed
in an experience sampling study. COMT Val158Met moderation of cannabis-induced effects on psychosis and cognition
was then investigated using multilevel random regression
analyses.
Results: carriers of the Val allele were most sensitive to
THC-induced effects on psychosis, however this was conditional on prior evidence of psychometric psychosis liability.
THC impacted negatively on cognitive measures. Carriers
of the Val allele were also more sensitive to THC-induced
memory and attention impairments compared to carriers of
the Met allele. In the flow of daily life, cannabis appeared to
be associated with hallucinatory experiences conditional on
COMT Val158Met genotype.
Conclusion: these findings provide confirmatory evidence
that COMT Val158Met genotype moderates the effects of
cannabis on the occurrence of positive psychotic symptoms. Cannabis may be causally associated with psychosis,
but it is increasingly apparent that any causal contribution
is conditional on a number of moderators reflecting underlying gene-environment and possibly gene-gene interactions.
Cannabis use and psychotic disorders:
an update
F. Nicoletti, F. Matrisciano
Department of Human Physiology and Pharmacology, University of Rome “La Sapienza”
The cannabis plant has been cultivated for centuries both
for the production of hemp fiber and for its presumed med81
icinal and psychoactive properties. The smoke from burning cannabis contains many chemicals, including 61 different cannabinoids that have been identified. One of
these, ∆-9-tetrahydrocannabinol (∆-9-THC), produces
most of the characteristic pharmacological effects of
smoked marijuna.
The pharmacological effects of THC vary with the dose,
rout of administration, experience of the user, vulnerability of psychoactive effects and setting of use. Intoxication
with marijuana produces changes in mood, perception and
motivation.
The effects vary with dose and produce impairment of
cognitive functions, perception, reaction time, learning
and memory. Marijuana also produces complex behavioural changes, such as giddiness and increased hunger. Unpleasant reactions such as panic or hallucinations and even
acute psychosis may occur.
While there is no convincing evidence that marijuana can
produce a lasting schizophrenia-like syndrome, there are
precipitate a recurrence in people with a history of schizophrenia. A cannabinoid receptor has been identified in the
brain and cloned. An arachidonic acid derivative has been
proposed as an endogenous ligand and named anandamide. While the physiological function of these receptors or their putative endogenous ligand has not been fully
elucidated, they are widely dispersed with high densities in
the cerebral cortex, hippocampus, striatum and cerebellum. Recent investigations of patients with schizophrenia
found increased density of cannabinoid receptors in the
dorso-lateral prefrontal cortex and the anterior cingulate
cortex. Several genetic studies have reported an association between genes encoding the cannabinoid receptor and
schizophrenia.
Thus, an alternative explanation of the association between cannabis use and schizophrenia might be that
pathology of the cannabinoid system in schizophrenia patients is associated with both increased rates of cannabis
use and increased risk for schizophrenia, without cannabis
being a causal factor for schizophrenia. Several authors
show that young consumers and previous consumers have
higher scores in schizotypy, borderline and psychoticism
scales. They also show deficits in attentional inhibition
and decreased reaction time. The causal relationship of
this association is not yet clear but cannabis consuption
modulates dopamine concentrations, may induce reversible acute psychosis and it may induce the manifestation of schizophrenic psychosis in vulnerable patients
(“dopaminergic stress”).
References
1
O’Brien et al., 1997.
2
Hall et al., 2004.
3
Drewe et al., 2004.
SIMPOSI TEMATICI
Uso di cannabis e dimensioni cliniche
delle psicosi
G. Bersani
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
Il rapporto tra uso di derivati della cannabis ed insorgenza e tipologia clinica di disturbi psicotici, prevalentemente di area schizofrenica ma anche di natura affettiva, è stato negli ultimi anni più volte oggetto di ricerca
e discussione, in base peraltro a dati clinici spesso non
completamente concordanti.
L’eterogeneità dei campioni clinici studiati, sia per natura
dei disturbi psichiatrici che per tipologia di assunzione
di cannabinoidi, è verosimilmente alla base di tale discordanza di risultati. Nei diversi studi sono stati di volta in
volta considerati pazienti affetti da quadri psicopatologici diversi, con prevalenza dell’una o dell’altra dimensione clinica delle psicosi, con diverse caratteristiche di
tempi di assunzione e di decorso, con diversa implicazione delle dimensioni affettive, con assunzione di cannabinoidi isolata od associata a quella di altre sostanze
psicotrope, ecc.
Il ruolo di fattore di rischio dell’uso di cannabinoidi
rispetto allo sviluppo di disturbi psicotici, in particolare
di Schizofrenia, è stato più volte sostenuto, come anche
quello di induttore o di potenziatore di patologia affettiva, sia di tipo depressivo che bipolare.
D’altro lato, a dati obiettivi di natura clinica ed epidemiologica vengono ancora frequentemente contrapposte
delle visioni non fondate su dati sperimentalmente attendibili, tendenti a presentare come molto più indiretto e
sfumato il rapporto patogenetico tra assunzione cronica
di cannabinoidi e sviluppo di disturbi mentali in senso
generale.
Uno degli elementi che ha contribuito a rendere meno
chiaro tale rapporto patogenetico è stato rappresentato
dalla difficoltà di discriminare i reali effetti della
cannabis nell’ambito di quadri psicopatologici complessi
e spontaneamente evolutivi quali quelli dei disturbi
psicotici.
Del resto, il vastissimo aumento dell’assunzione di
cannabinoidi in soggetti di età a rischio per l’insorgenza
di disturbi psicotici ha reso più difficile anche la discriminazione tra esordi psicopatologici autonomi ed esordi
psicopatologici secondari, cronologicamente o patogeneticamente, all’assunzione della sostanza.
Lo studio delle dimensioni psicopatologiche più sensibili all’effetto dei cannabinoidi appare un metodo più
adeguato per valutare in senso più specifico il ruolo della
sostanza nell’ambito dei diversi quadri clinici.
In uno studio su 125 soggetti maschi con diagnosi di
Schizofrenia, abbiamo riscontrato una percentuale del
43% di soggetti consumatori di cannabinoidi, il 66,7%
dei quali riferiva tale assunzione come prolungata in
periodi precedenti l’esordio della psicosi.
Il confronto tra consumatori e non consumatori ha
evidenziato come i primi presentassero una più frequente
familiarità concordante per Schizofrenia, potenzialmente
indicativa di una più elevata vulnerabilità biologica alla
malattia, una più bassa età di insorgenza, potenzialmente
legata all’azione psicoticizzante della sostanza, ed una
prevalenza di sintomi attinenti alla dimensione psicopatologica negativa.
Tuttavia, una prevalenza di sintomi positivi era presente
nel gruppo di pazienti consumatori che avevano iniziato
l’assunzione successivamente all’esordio della psicosi.
I risultati apparivano suggestivi per un’azione differenziata in sottogruppi di pazienti, nell’ambito dei quali
comunque l’effetto di induzione dei cannabinoidi appariva nettamente più delineato per i sintomi dell’area negativa.
In uno studio più recente, abbiamo valutato l’effetto
dell’assunzione di cannabis in 52 soggetti affetti da
disturbi depressivi, sia di tipo depressivo unipolare che
bipolare, con o senza sintomi psicotici, dei quali
l’88,50% riferivano l’assunzione come precedente di 4,9
anni l’esordio della depressione, ed in un campione
comparabile di soggetti apparentemente esenti da
sintomi psichiatrici, a loro volta confrontati con un corrispondente campione di pazienti non consumatori affetti
da disturbi depressivi. Anedonia, sensazione soggettiva
di riduzione del rendimento mentale, ritiro sociale ed
abulia sono emersi concordantemente più presenti in
misura statisticamente significativa nei due gruppi di
consumatori, sia depressi che esenti da diagnosi psichiatrica.
Il complesso dei risultati è suggestivo sia del ruolo di
facilitazione dell’assunzione di cannabis rispetto allo
sviluppo di disturbi psicotici, sia schizofrenici che affettivi, sia in particolare di una specifica azione della
sostanza nell’induzione di sintomi appartenenti alla
dimensione psicopatologica negativa, da considerare in
un significato patogenetico anche di natura transnosografica.
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SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MONTEMARIO
S32 - Le dipendenze patologiche:
il ruolo dell’Università nella formazione e nella ricerca
MODERATORI
G.B. Cassano, M. Biondi
Il sistema dei servizi nelle dipendenze.
Risorse e criticità della formazione
M. Clerici* **, G. Carrà*
*
Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze (SIP.
Dip); ** Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Polo Universitario AO “San Paolo”, Università di Milano
Lo scambio di informazioni, esperienze e metodologie tra
paesi membri della UE dovrebbe stare alla base dell’individuazione delle strategie attuali in materia di formazione
nell’area “droga”. A questo livello il ruolo dell’Università e
delle Agenzie formative coinvolte sembra ampiamente diversificarsi non appena si passa da paese a paese e si dà
luogo ad una verifica delle risorse a disposizione negli ambiti formativi tradizionali o per singole figure/ruoli professionali.
L’adozione di strategie formative, anche nel nostro paese,
non può quindi prescindere da un’attenta valutazione dei seguenti livelli:
a) Corsi di Laurea. Alcune Facoltà hanno nel curriculum un
numero di crediti più o meno numerosi sulle tematiche
inerenti i disturbi correlati all’uso di sostanze, suddivisi
tra insegnamenti diversi quali medicina interna, medicina
d’urgenza, psichiatria, psicologia clinica, psicologia, medicina legale, ecc. Esiste una grande flessibilità nei curricula offerti in generale e, dunque, non di meno per quel
che riguarda le tossicodipendenze. Anche in Italia esiste
questa ripartizione per crediti ma, in genere, le materie
base prevedono solo delle lezioni all’interno del programma tradizionale e i crediti mirati sono reperibili
esclusivamente attraverso i corsi elettivi.
b) Scuole di Specializzazione. Per quanto riguarda la specializzazione in medicina delle dipendenze (richiesta da alcune Società Scientifiche di settore), questa non è riconosciuta a livello UE e, a tutt’oggi, anche l’UEMS prevede
solo una parte del curriculum all’interno della specializzazione in psichiatria. In alcuni paesi, ad esempio in UK,
il Royal College ha inserito tra le subspecialization l’Addiction Psychiatry, con un curriculum aggiuntivo di un
anno. Per quanto riguarda altri paesi le differenze sono
costituite soprattutto dal coinvolgimento o meno del Sistema Sanitario Nazionale nella formazione e dalle attività di tutoraggio in singoli servizi, mentre le, Università
fanno solo dei Corsi di appoggio tecnico. In Italia nulla
impedirebbe alla singola Scuola di Specializzazione di
dare maggiore enfasi al proprio piano di studi e di addestramento professionalizzante nell’area delle tossicodipendenze. I requisiti minimi prescritti dalla legge sono
così vaghi e generici che, se ci fosse la volontà, si potrebbe facilmente realizzare – almeno in qualche scuola: questa possibilità potrebbe così attrarre chi è particolarmente
83
interessato al tema, anche creando intersezioni tra settori
disciplinari diversi.
c) Corsi di Laurea triennale per educatore professionale di
area sanitaria. Non esiste una laurea “breve” nell’area
delle tossicodipendenze. Ci sono invece molte opportunità
di livello successivo, soprattutto nei paesi che non riconoscono valore legale al titolo di studio. Esiste un’ampia
gamma di corsi per chi ha acquisito un titolo equivalente
più o meno alla nostra laurea breve nelle aree biologica,
psicologica, sanitaria o delle scienze sociali. A seconda dei
contenuti e della durata, nonché della loro collocazione di
area, danno un titolo spendibile a livello lavorativo o professionalizzante nella contrattazione. È esattamente la
concezione opposta a quella per cui, in Italia, il Ministero
della Salute deve emanare un “profilo professionale” che,
in genere, è inevitabilmente restrittivo.
d) Corsi di Laurea triennale per educatore professionale di
area sociale. In alcuni paesi esistono corsi di diverso livello ove sono ammessi anche soggetti privi di laurea
breve ma con esperienza professionale da valutare per
l’ammissione da parte dell’Ente formativo (Università o
SSN). In Inghilterra, ad esempio, ne esistono anche su temi specifici tipo “operatore da strada” o per adolescenti.
In Italia potrebbero essere avviate esperienze di questo
tipo fondate sull’autonomia del singolo Ateneo, soprattutto nelle Facoltà di Psicologia o Scienze della Formazione.
Il panorama della formazione in questo ambito si delineerà,
nel contributo presentato, anche attraverso la valutazione
del Core Curriculum formativo proposto dalla World Psychiatric Association (WPA), soprattutto per quanto riguarda
il settore delle Dipendenze.
Radici comuni e divergenze nei sistemi
psichiatrici e delle tossicodipendenze:
la formazione al servizio dell’integrazione
A. Fioritti
Azienda USL, Rimini
L’emergere di una cospicua popolazione che presenta disturbi psichiatrici e contemporaneamente disturbi da uso di
sostanze è sicuramente uno degli aspetti emergenti di sanità
pubblica di questo decennio. Oltre agli aspetti strettamente
clinico-diagnostico il problema più comunemente messo in
luce è quello della frammentarietà delle risposte terapeutiche e dei percorsi istituzionali. Anziché ricevere risposte intensificate per la presenza di due problemi i pazienti si trovano spesso esclusi dai servizi pubblici e privati perché “atipici” o perché “non di competenza”. Diversi modelli di trattamento (seriale, in parallelo, integrato) sono stati proposti,
con risultati variabili, stanti le diverse impostazioni cultura-
SIMPOSI TEMATICI
li e le finalità dei servizi pubblici e privati, psichiatrici e per
le tossicodipendenze. Vengono prese in esame le caratteristiche culturali dei quattro sistemi in questione (pubblico e
privato, psichiatrico e delle tossicodipendenze) e le difficoltà che persistono nell’integrazione degli interventi. Vengono esaminati i processi di integrazione promossi all’interno di ciascun macrosistema (psichiatrico e delle tossicodipendenze) e le possibilità di utilizzo pienamente integrato
dell’intero set di servizi presenti nella comunità. Viene infine analizzato il ruolo che le, Università e le Agenzie di formazione delle Aziende Sanitarie possono avere per favorire
l’integrazione in questo settore.
La cooperazione interistituzionale per la
formazione sulle dipendenze patologiche
M. Lanzi, M. Meini*
Regione Toscana; * Azienda USL Pisa
In Toscana l’Università partecipa a pieno titolo al Sistema
Sanitario Regionale.
Da ciò derivano straordinarie opportunità sia per la stessa,
Università sia per la qualificazione complessiva dei servizi
sanitari grazie alla diffusione di funzioni, quali la ricerca applicata, l’aggiornamento professionale e la didattica, fino ad
oggi caratterizzate da una forte autonomia e da oggettive limitazioni.
Con il Piano Sanitario Regionale 2005-2008 di recente applicazione la Regione Toscana ha previsto, tra l’altro, una collaborazione con le, Università finalizzata alla realizzazione di
specifici corsi di perfezionamento scientifico e di master universitari per la promozione di percorsi formativi di alta specializzazione in predeterminati settori di intervento.
Nell’ampio panorama dell’assistenza sanitaria il settore delle dipendenze patologiche è tra i più complessi, non solo
perché in rapido e continuo cambiamento, ma soprattutto in
quanto richiede un approccio multidisciplinare con il coinvolgimento di diverse professionalità (medici, psicologi, assistenti sociali, educatori, infermieri) che esplicano le loro
attività in contesti diversi (presidi territoriali e ospedalieri,
comunità terapeutiche, istituti penitenziari, ecc.).
Tutto ciò comporta una costante attenzione ed un forte impegno di formazione ed aggiornamento.
Scopo di questo contributo è presentare gli aspetti più rilevanti dell’iter che ha portato la Regione Toscana, quale
“luogo” di coordinamento e “sostegno” delle iniziative dei
Dipartimenti delle Dipendenze nonché “regista” dell’integrazione tra pubblico e privato nell’assistenza alle persone
con problemi correlati all’uso di sostanze, lecite e non, a
collaborare in modo diretto con l’Università di Pisa e con
Aziende Unità Sanitarie Locali per la realizzazione di un
Master di secondo livello sulle dipendenze patologiche, e
con l’università di Firenze per un corso di perfezionamento
in tabaccologia.
Università e territorio: il Master
sulle dipendenze patologiche di Pisa
G. Zanda
Università di Pisa
In Italia è tuttora aperta la questione su quale sia il miglior
modello di riferimento (etico, sociologico, medico) per predisporre, sul piano della prevenzione, della cura e della riabilitazione, strategie e programmi idonei ad affrontare correttamente il problema “droga” o, per meglio dire, il problema delle “dipendenze patologiche”.
Di conseguenza l’oscillare dell’interesse degli addetti ai lavori dall’approccio socio-educativo a quello medico-farmacologico non ha favorito negli anni una effettiva integrazione tra le diverse forme di assistenza sia nell’ambito del pubblico che del privato.
Negli ultimi 15-20 anni, anche in risposta al rapido e drammatico cambiamento della tipologia della popolazione con
problemi severi di dipendenza, si è avuto, specie nel settore
privato, un notevole sviluppo di nuovi programmi residenziali e semiresidenziali, più idonei ad affrontare tale cambiamento.
Nello stesso periodo l’esperienza dei servizi pubblici ha evidenziato la rilevanza delle problematiche sanitarie (internistiche, infettivologiche, psicologiche, psichiatriche) correlate ai comportamenti additivi con una particolare attenzione
alla comparsa o, per meglio dire, alla (ri)scoperta della concomitanza negli stessi individui di disturbi da uso di sostanze e di altri più o meno gravi disturbi psichiatrici.
Si capisce, perciò, come tale stato di cose abbia determinato con forza negli operatori del settore l’esigenza di un costante impegno formativo.
Nell’anno accademico 2005-2006 il Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia e Biotecnologie, in
collaborazione con la Regione Toscana, ha attivato il Master
post-laurea di secondo livello “Le dipendenze patologiche:
diagnosi-trattamento-prevenzione”.
In questo contributo viene presentato il programma del Master, pensato ed organizzato con la finalità di fornire competenze neurobiologiche, cliniche, terapeutiche, relazionali, sociali e di ricerca di alta specialità a quanti già operano o sono
interessati ad operare nel campo delle dipendenze patologiche.
Il programma formativo del Master, che prevede una parte
teorica e una parte pratico-esperienziale, si caratterizza per il
fatto di tener conto in modo prioritario delle problematiche
presenti nelle diverse realtà, nelle quali nel nostro paese si
presta l’assistenza alle persone affette da dipendenza da sostanze, illegali e legali, e da dipendenze comportamentali.
84
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA LEONARDO
S33 - Il gesto e la parola, tra etica e clinica
MODERATORI
A. Sbardella, G. Liotti
La cura: tra compliance ed atto di forza
N. Lalli, S. Ingretolli
Centro di Psicoterapia Dinamica
Il processo psicoterapico si basa su due azioni fondanti e
strutturali: il prendersi cura e il curare (Lalli, 1990). Il prendersi cura comporta la compliance e la stabilità, mentre il
curare rende possibile il cambiamento. In termini tecnici
possiamo affermare che il prendersi cura, che nasce dall’empatia, struttura il setting, mentre il curare, che proviene
da un’adeguata teoria, struttura l’elemento fondamentale del
cambiamento che è l’interpretazione.
Sicuramente l’empatia (prendersi cura) occupa un ruolo
centrale nel processo psicoterapico, come è stato riconosciuto da numerosi autori (Kohut, Friedman, Emde ecc.). Il
concetto di empatia, formulato nell’ambito della psicologia
evolutiva viene definito come “… una forte ed universale
predisposizione biologica all’accudimento che permette al
bambino l’interiorizzazione delle esperienze relazionali e
struttura il nucleo delle rappresentazioni di sé e degli altri”
(Emde, 1980).
L’atteggiamento empatico del terapeuta, che deve percorrere l’intero arco della terapia, è fondamentale soprattutto nelle prime fasi per la costituzione di una base di sicurezza che
deve fornire al paziente un clima rassicurante per permettergli di far emergere la propria ambivalenza e quindi il
transfert negativo. L’empatia, intesa come la disponibilità
emotiva ed interesse per il paziente, unita ad una capacità di
promuovere l’esplorazione e la crescita, richiede da parte
del terapeuta un’estrema sensibilità di regolazione affettiva:
egli deve essere in grado sia di sentirsi coinvolto che di essere distaccato. Il prendersi cura – empatia costituisce il setting la cui stabilità lega il paziente e il terapeuta in maniera
paritaria. Il setting presenta confini ben definiti e non modificabili, cosa che spesso viene vissuta dal paziente come
coercizione-atto di forza. La cura di chi soffre di disturbi
mentali difficilmente può essere concettualizzata come l’azione di una persona su un’altra persona. Anche nel caso
della prescrizione farmacologia, dove sembra possa esserci
il massimo di unidirezionalità – io prescrivo e tu prendi – ci
si trova in un campo relazionale molto complesso che può
influenzare grandemente la compliance e quindi l’efficacia
della cura. Quindi la “cura” in psichiatria e in psicoterapia
richiede la collaborazione e la disponibilità da parte dei vari partecipanti. Collaborazione come consenso reciproco
che va molto al di là del consenso informato. Nonostante lo
spirito della legge, quest’ultimo appare una sorta di accettazione burocratizzata da parte del paziente dei rischi impliciti nel suo progetto terapeutico. Se da una parte il consenso è
necessario, indispensabile o auspicabile a seconda dei casi,
dall’altra proprio in psichiatria non è sempre facile ottenerlo, tanto che, in molte situazioni, può essere considerato
punto di arrivo più che di partenza. Questo sia perché il processo terapeutico non si svolge secondo protocolli e proce-
85
dure che possono essere sempre ben definite, sia perché la
collaborazione si svolge a livelli comunicativi e relazionali
molteplici e quando sembra sia stata assicurata ad un livello può accadere che venga negata ad altri livelli. Un progetto terapeutico inizia in un incontro dove la sofferenza di un
paziente è accolta dalla disponibilità di un terapeuta. Ma il
connubio disponibilità del terapeuta-sofferenza del paziente
può essere soggetto a varie vicissitudini. Vi può essere una
sofferenza soggettiva che si rapporta con un riconoscimento oggettivo da parte del curante: Io paziente riconosco –
elemento soggettivo – di stare male e tu curante riconosci –
elemento oggettivo – che io sto male e sei disponibile ad
aiutarmi. Vi è in questo caso un consenso reciproco di buon
auspicio per il futuro della relazione terapeutica.
Ma può anche esserci una sofferenza che non trova riscontro nella soggettività del paziente – ad esempio in una condizione di un eccitamento maniacale – ma che può essere
oggettivata dal terapeuta e dai suoi familiari: Io paziente
non riconosco di stare male, condizione che viceversa tu
psichiatra o familiare evidenzi. In questi casi non c’è consenso, ma deve esserci cura. Il problema si sposta pertanto
su come guadagnarsi il consenso nel corso del processo terapeutico. Ma vi può essere anche un’altra condizione nella
quale io paziente avverto soggettivamente una sofferenza
che tu, familiare, medico di base, pronto soccorso, non mi
riconosci. In questi casi il vissuto soggettivo non viene oggettivato e vi può essere un girovagare in cerca di consenso.
La relazione si baserà su questi aspetti introducendo se possibile dei casi clinici (interminabile), la tendenza alla scissione tra psicoterapia e vita reale, la fantasticheria di paralizzare il terapeuta ricoperta spesso dall’idealizzazione ecc.
Normalmente tutte queste dinamiche vengono affrontate
mediante l’interpretazione In alcuni casi, quando la dinamica del paziente non viene affatto intaccata (il paziente spesso vive il terapeuta come colui che parla e pertanto non in
grado di agire) può essere necessario passare a quella che ho
definito l’interpretazione agita (Lalli, 1990) che ovviamente non ha nulla a che fare con la controidentificazione
proiettiva, bensì con la fermezza del terapeuta che impone
al paziente dei vincoli ed un rispetto per la realtà materiale
fino all’estrema ratio della sospensione della terapia. Verranno proposte diverse esemplificazioni cliniche.
Cooperazione e alleanza terapeutica come
veicoli di libertà in psicoterapia
G. Liotti
Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma
Lo studio dell’evoluzione dei sistemi motivazionali ed emozionali mette in evidenza un numero limitato di motivazioni sottostanti la relazionalità umana: richiesta di cura (attaccamento), offerta di cura, sessualità, competizione per la dominanza, cooperazione paritetica.
SIMPOSI TEMATICI
Nella clinica, la relazione eticamente preferibile fra paziente
adulto e psicoterapeuta è certamente quella basata sul sistema
motivazionale cooperativo. Essa, fondata sul percepire l’altro
come simile a sé nell’intenzionalità e capace di condividere
un obiettivo, garantisce il massimo grado reciproco di autenticità e di libertà nella comunicazione. Una buona alleanza terapeutica costituisce l’esempio più evidente di relazione terapeuta-paziente fondata sul sistema cooperativo.
La ricerca empirica in psicoterapia suggerisce che l’alleanza terapeutica è il più potente fattore predittivo di efficacia
del trattamento, indipendentemente dalle tecniche psicoterapeutiche utilizzate (psicoanalitiche, cognitivo-comportamentali, umanistico-esistenziali, ecc.). Etica e studi di efficacia convergono dunque nell’indicare il tipo di relazione
che lo psicoterapeuta dovrebbe attivamente perseguire, soprattutto quando l’emergere, nella regolazione del dialogo
clinico, di sistemi motivazionali diversi da quello cooperativo (attaccamento-accudimento, sessualità, dominanza-subordinazione) tende a pregiudicare l’alleanza terapeutica.
oggettivata dal terapeuta e dai suoi familiari: Io paziente
non riconosco di stare male, condizione che viceversa tu
psichiatra o familiare evidenzi. In questi casi non c’è consenso, ma deve esserci cura. Il problema si sposta pertanto
su come guadagnarsi il consenso nel corso del processo terapeutico. Ma vi può essere anche un’altra condizione nella
quale io paziente avverto soggettivamente una sofferenza
che tu, familiare, medico di base, pronto soccorso, non mi
riconosci. In questi casi il vissuto soggettivo non viene oggettivato e vi può essere un girovagare in cerca di consenso.
La relazione si baserà su questi aspetti introducendo se possibile dei casi clinici.
Analisi e decodifica delle richieste:
interventi e proposte dello psichiatra
nel servizio pubblico
F. Porseo
DSM ASL RM-E, Centro di Salute Mentale “San Godendo”
Il senso del consenso (informato e non)
R. Piperno
Consulente Progetti Salute Mentale, Opera “Don Calabria”
La cura di chi soffre di disturbi mentali difficilmente può essere concettualizzata come l’azione di una persona su un’altra persona. Anche nel caso della prescrizione farmacologia,
dove sembra possa esserci il massimo di unidirezionalità – io
prescrivo e tu prendi – ci si trova in un campo relazionale
molto complesso che può influenzare grandemente la compliance e quindi l’efficacia della cura. Quindi la “cura” in psichiatria e in psicoterapia richiede la collaborazione e la disponibilità da parte dei vari partecipanti. Collaborazione come consenso reciproco che va molto al di là del consenso
informato. Nonostante lo spirito della legge, quest’ultimo appare una sorta di accettazione burocratizzata da parte del paziente dei rischi impliciti nel suo progetto terapeutico. Se da
una parte il consenso è necessario, indispensabile o auspicabile a seconda dei casi, dall’altra proprio in psichiatria non è
sempre facile ottenerlo, tanto che, in molte situazioni, può essere considerato punto di arrivo più che di partenza. Questo
sia perché il processo terapeutico non si svolge secondo protocolli e procedure che possono essere sempre ben definite,
sia perché la collaborazione si svolge a livelli comunicativi e
relazionali molteplici e quando sembra sia stata assicurata ad
un livello può accadere che venga negata ad altri livelli. Un
progetto terapeutico inizia in un incontro dove la sofferenza
di un paziente è accolta dalla disponibilità di un terapeuta. Ma
il connubio disponibilità del terapeuta-sofferenza del paziente può essere soggetto a varie vicissitudini. Vi può essere una
sofferenza soggettiva che si rapporta con un riconoscimento
oggettivo da parte del curante: Io paziente riconosco – elemento soggettivo – di stare male e tu curante riconosci – elemento oggettivo – che io sto male e sei disponibile ad aiutarmi. Vi è in questo caso un consenso reciproco di buon auspicio per il futuro della relazione terapeutica.
Ma può anche esserci una sofferenza che non trova riscontro nella soggettività del paziente – ad esempio in una condizione di un eccitamento maniacale – ma che può essere
Non seleziona l’utenza né per patologie né per condizioni
socioeconomiche (facendosi carico dei pazienti e dei loro
familiari); ha un accesso diretto; si lega al territorio e alla
sua rete di risorse; ha al suo interno figure professionali differenziate; la missione è prendersi cura, anche in senso preventivo e riabilitativo della salute mentale, nella sua complessità, di una popolazione, integrandosi con le varie strutture del DSM; riflette sul suo operare attraverso una formazione permanente.
Queste sono alcune delle caratteristiche di un Centro di Salute Mentale che spesso, più delle Cliniche Universitarie,
degli Istituti di Ricerca, degli studi professionali, “legano” a
volte per una scelta obbligata, pazienti ed operatori attraverso storie, che possono proseguire per anni ed anni.
Il buon operare, che in genere aumenta il numero delle richieste di aiuto; le risorse, spesso insufficienti quando non
addirittura in diminuzione, tengono costantemente sospeso
il fantasma della saturazione tra etica e clinica.
Quali risorse aumentare?
Quelle esterne (come numero di operatori) o quelle interne
(legate più alla capacità dell’operatore di dare risposte adeguate e costanti, senza esaurirsi)?
Queste ed altre questioni collegate, saranno trattate nella relazione.
La libertà dello psichiatra
A. Sbardella
DHP-SPDC/DSM ASL RM-E c/o ACO “San Filippo Neri”,
RM
A partire dalle definizioni dei termini in oggetto – libertà e
psichiatra –, si è cercato di studiare come la specificità della nostra disciplina specialistica, mostri già nell’etimo, delle differenze con altre branche della medicina.
Nel suffisso della nostra professione c’è insito il concetto
della cura (-iatria), mentre per altri è dominante il concetto
dello studio (-logia).
Inoltre elementi di natura deontologica, morale e “naturale”,
determinano differenze circa la possibilità o meno di un no86
SIMPOSI TEMATICI
stro agire clinico, più o meno sottoposto a limiti, soggettivi
e/o oggettivi.
Il grande e delicato tema del Trattamento Sanitario Obbligatorio, richiede alle nostre coscienze, volenti o no, uno
sforzo diverso e altro, che i nostri colleghi medici e chirurghi non si trovano ad affrontare.
Ci si è posti inoltre il problema di come far conciliare i diritti individuali con quelli collettivi. Questo specialmente
quando dobbiamo intervenire su di un paziente, sia in urgenza-emergenza sia dovendo immaginare per lui in lungo
percorso di cronicità più o meno stabilizzata.
In che misura, inoltre, i valori personali e/o quelli condivisi
dalla maggioranza, orientano il nostro agire quotidiano nel
mestiere dello psichiatra.
E ancora: le differenze con le altre figure professionali, quale quella dello psicologo, dello psicoterapeuta e dello psicoanalista, e come queste segnano, influenzano e modificano la libertà del nostro lavoro.
Infine, ma non ultima, la grande questione ancora irrisolta dell’assistenza psichiatrica, prima, durante e dopo la legge 180.
Dopo più di un quarto di secolo, nessuno seriamente ha
messo le mani “onestamente” su questa legge.
Il problema ancora aperto dei manicomi criminali, della responsabilità o meno dei gesti illegali compiuti da sofferenti
la salute mentale.
Si propongono temi e si sollevano riflessioni, nel tentativo
di aprire altri angoli di osservazione, su un difficile tema da
affrontare, anche a livello culturale oltre che clinico.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA VERDE
S34 - I disturbi mentali correlati allo stress
MODERATORI
C. Faravelli, P. Castrogiovanni
Stress e correlati neurobiologici
C. Martini, E. Da Pozzo, L. Trincavelli, C. Carmassi,
M. Carlini, L. Dell’Osso
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa
L’esposizione ad eventi stressanti riveste un ruolo fondamentale nell’esordio di numerose psicopatologie, soprattutto se presenti fattori psicosociali e di vulnerabilità genetica
1
, in accordo con la teoria dell’origine multifattoriale dei disturbi mentali.
I disturbi mnemonici tipici dei disordini da stress, quali il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e la depressione,
hanno alla base una compromissione della memoria esplicita con un alterato funzionamento dell’ippocampo. In particolare, in condizione di forte stress, l’attivazione dell’amigdala e di altre regioni cerebrali induce i neuroni ippocampali a rilasciare CRF (corticotrophine releasing factor), fattore stimolante l’ipofisi, che rilascia così ACTH, determinando un incremento nei livelli di cortisolo ematico. L’ormone,
diffondendo nel cervello, riduce l’attività dell’ippocampo
tramite un meccanismo di feedback negativo. Tale alterazione compromette la capacità del sistema mnestico del lobo temporale di formare memorie esplicite. Uno stress prolungato può portare alla degenerazione e alla morte dei neuroni dell’ippocampo in seguito a deplezione delle riserve
energetiche. La perdita della capacità di produrre nuovi neuroni nel giro dentato, una delle poche aree ippocampali in
grado di neurogenesi, può portare all’ipovolumetria dell’ippocampo, alterazione che si riscontra in soggetti con alti livelli di cortisolo, dovuti a stress o ad altre condizioni cliniche 2.
Negli ultimi anni le ricerche sono state sempre più indirizzate verso l’approfondita conoscenza delle alterazioni neurobiologiche presenti nei disordini da stress. Numerosi studi dimostrano il coinvolgimento non solo dell’asse ipofisisurrene, già menzionato, ma anche di altri sistemi quali i si87
stemi neurotrofici, endocrino, immunitario, catecolaminergico, glutamatergico, serotoninergico e gabaergico, con alterazioni nei livelli sia dei neurotrasmettitori che dei recettori, caratteristici di ciascun sistema 3 4. In particolare numerosi studi hanno dimostrato la presenza di alterazioni nei livelli di alcune citochine, prodotte dalle cellule del sistema
immunitario e modulatrici della risposta immune, in psicopatologie stress-correlate 5-7.
Alla luce di tali presupposti e al fine di indagare le relazioni fra sistema neuroendocrino e neuroimmune, il nostro
gruppo di ricerca sta svolgendo uno studio il cui scopo è
quello di determinare i livelli di cortisolo e citochine in pazienti con diagnosi di PTSD e di Complicated Grief, un Disturbo d’Ansia che prende origine da un evento luttuoso
particolarmente traumatico per il soggetto, in riferimento ad
un gruppo di volontari sani.
Bibliografia
1
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Spivak B, et al. Biol Psychiatry 1997;42:345-8.
I disturbi stress correlati
C. Faravelli, M. Catena, A. Scarpato, S. Gorini Amedei,
E. Bolognesi
Università di Firenze, Dipartimento di Scienze neurologiche e psichiatriche
La relazione tra stress e patologia mentale è ormai nota da
tempo. Gli eventi traumatici precoci sembrano determinare
una predisposizione allo sviluppo di quadri psicopatologici
SIMPOSI TEMATICI
in età adulta; è stata infatti dimostrata un’associazione tra la
presenza di traumi nell’età dello sviluppo ed un aumentato
rischio di sviluppare disturbi mentali tra cui Depressione
Maggiore, disturbi d’ansia, disturbi di personalità ed abuso
di sostanze. Gli eventi vitali stressanti che si verificano in
età adulta avrebbero invece un ruolo di scatenamento della
patologia. È stato infatti dimostrato che l’incidenza di disturbi psichici in un anno risulta notevolmente maggiore
nell’anno successivo ad un evento passando dall’8 per mille al 6% 1.
Uno dei possibili meccanismi con cui gli eventi vitali svolgono la loro azione patogenetica è rappresentato dall’alterazione del feedback negativo dei corticosteroidi circolanti
sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) con conseguente
ipercortisolemia e compromissione della neurogenesi e del
trofismo cerebrale. In modelli animali è stato ampiamente
dimostrato che gli eventi vitali precoci sono alla base di persistenti anormalità nel comportamento e nelle funzioni neuroendocrine associate all’ippocampo e così nella risposta
neurogenetica allo stress anche in età adulta 2. Nell’uomo,
l’implicazione dell’asse HPA nei disturbi correlati a stress è
ampiamente documentata. Anomalie del funzionamento
dell’asse HPA ed in particolare un’alterazione della capacità
dei glicocorticoidi circolanti di espletare il feedback negativo sulla secrezione degli ormoni attraverso il legame con i
recettori mineralcorticoidi (MR) e glucocorticoidi (GR) nei
tessuti HPA è stata descritta nei soggetti affetti da patologia
psichiatrica e nei soggetti esposti ad eventi psicologici avversi 3. Tale dato risulta particolarmente forte nel caso della
Depressione Maggiore, del disturbo post traumatico da
stress e della Schizofrenia. Sembra inoltre che l’alterazione
dell’asse HPA sia uno degli elementi eziopatogenetici dell’attacco di panico e della fobia sociale.
Parallelamente alle alterazioni dell’asse HPA, studi di neuroimaging tramite MRI strutturale hanno dimostrato, in pazienti affetti da depressione, una riduzione del volume dell’ippocampo 4. Anche l’effetto terapeutico degli antidepressivi è stato correlato al volume dell’ippocampo dal momento che in pazienti depressi, parallelamente alla risoluzione
della sintomatologia depressiva, è stato riscontrato un progressivo aumento del volume dell’ippocampo 5.
La vulnerabilità agli eventi sembra però essere fortemente
influenzata dallo specifico assetto genetico dell’individuo
così che non tutti gli individui esposti ad eventi vitali sviluppano un quadro psicopatologico 6. È stato dimostrato che
le varianti alleliche del gene del trasportatore della serotonina (5-HTT) rivestono un importante ruolo nel determinare il
grado di vulnerabilità allo stress e nel moderare la risposta
individuale agli eventi stressanti 7. In modelli animali è stato dimostrato che l’alterazione del gene 5-HTT comporta un
incremento delle risposte comportamentali e della concentrazione plasmatica dell’adenocorticotropina in risposta allo
stress 8. L’allele corto “s” sarebbe associato ad un ridotto
funzionamento del sistema serotoninergico in condizioni di
stress 9 e studi di neuroimaging hanno dimostrato che la presenza di 1 o 2 copie dell’allele “s” si associa ad una maggiore attivazione dell’amigdala in seguito all’esposizione a
situazioni temute 10.
Bibliografia
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Faravelli C, Abradi L, Bartolozzi D, Cecchi C, Cosci F,
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Neuroimaging e PTSD: dati
morfovolumetrici e loro variazioni dopo
trattamento
L. Bossini, N. Poliziotto, M. Tavanti, S. Calossi, A. Lombardelli, G. Vatti, P. Castrogiovanni
Università di Siena, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione
di Psichiatria
Introduzione: molti studi concordano sulla riduzione del
volume ippocampale nei pazienti affetti da PTSD 1 e che tale alterazione anatomica è correlata con deficit cognitivi e
con la gravità dei sintomi. Comunque ad oggi non è stato ancora chiarito se l’atrofia ippocampale rappresenta l’esito di
un effetto neurotossico del trauma o, piuttosto, una condizione preesistente che predispone allo sviluppo di alcune patologie psichiatriche. Già da tempo studi su animali dimostrano come lo stress causi atrofia ippocampale e inibizione della neurogenesi, con meccanismi verosimilmente legati ai
glucocorticoidi, all’increzione del fattore corticotropo, all’aumento degli aminoacidi eccitatori, all’inibizione fattore
neurotrofico cerebrale con perdita della plasticità neuronale.
Nell’uomo, tuttavia, i risultati non sono così lineari. Da un
lato alcuni studi hanno individuato come fattore principale
l’aumento dei glucocorticoidi 2, dall’altro tale teoria è stata
fortemente criticata 3. Secondo Yehuda il meccanismo di
atrofia ippocampale è dovuto ad un’alterazione dell’asse
Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA), ma in termini di una bassa
increzione di glucocorticoidi che determina un aumento del
feedback negativo dell’asse stesso ed un’ipersensibilità recettoriale. Indipendentemente dal meccanismo d’azione, la
88
SIMPOSI TEMATICI
perdita di neuroni a livello ippocampale nei soggetti che hanno subito eventi traumatici sembra sufficientemente dimostrata e, fino a poco tempo fa, era considerata irreversibile. In
realtà l’ippocampo sembra presentare una inusuale e spontanea capacità rigenerativa. Questo dato è stato individuato in
molte specie animali e, in un unico studio, anche nell’uomo
4
. Inoltre recenti evidenze pre-cliniche e cliniche hanno indicato che gli SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors)
promuovono la neurogenesi e riducono l’atrofia ippocampale indotta dallo stress nell’animale 5 e nell’uomo sono in grado di ridurre i sintomi del PTSD, incrementare le dimensioni dell’ippocampo e ridurre i deficit mnesici tipici della patologia 6 7. Un altro fattore che sembra essere in grado di stimolare la neurogenesi negli animali sembra essere “l’ambiente arricchito” verosimilmente tramite i meccanismi molecolari dell’apprendimento che sembrano in grado di attivare la trascrizione dell’mRNA per il Brain Derived Neurotrophic Factor. Questo dato della letteratura supporta il razionale dell’efficacia della psicoterapia anche se l’unico studio che valuta le modificazioni morfostrutturali dopo psicoterapia non ha riportato risultati positivi 8.
Gli scopi di questo studio sono:
– valutare la presenza di atrofia ippocampale nei pazienti
affetti da PTSD (T0-drug-free);
– valutare l’effetto della terapia: farmacologica con SSRI e
psicoterapica con EMDR (Eye Movement Desensitization
and Reprocessing) sia sul piano clinico e neuropsicologico, che sul volume ippocampale, sia sulla memoria (T1).
Metodologia: abbiamo analizzato un campione di 20 pazienti, di età compresa tra i 15 ed i 65 anni, reclutati nell’ambulatorio psichiatrico del Policlinico universitario di
Siena affetti da PTSD e un gruppo di controllo di soggetti
sani appaiati per sesso, età, peso e altezza. I soggetti di entrambi i gruppi sono stati sottoposti ad uno studio morfovolumetrico computerizzato dell’Ippocampo tramite RM (Risonanza Magnetica). Inoltre, i diciassette pazienti con PTSD
sono stati valutati tramite la somministrazione di test neuropsicologici e scale psicometriche per approfondire il quadro
psicopatologico e valutare l’eventuale presenza di deficit
cognitivi.
Nei soggetti affetti da PTSD dopo un periodo di sei mesi di
terapia psicofarmacologica sono stati ripetuti i test neuropsicologici, le scale psicometriche e l’analisi morfovolumetrica dell’ippocampo tramite RM.
Tre pazienti, dopo le valutazioni al T0, hanno effettuato un
protocollo terapeutico con solo EMDR e sono stati rivalutati dopo 8 sedute (due mesi).
Risultati: i risultati della prima parte sperimentale (T0drug-free) evidenziano che le dimensioni dell’ippocampo di
sinistra nei soggetti affetti da PTSD sono significativamente minori rispetto ai controlli sani.
Dai risultati osservati al follow-up (T1-post-terapia) è possibile evincere che la terapia nei soggetti considerati è associata ad un miglioramento della sintomatologia e ad un aumento dei volumi ippocampali, pari al 9,87% per l’ippocampo di
destra e dell’8,37% per l’ippocampo di sinistra. Questi dati
sono concordi con i dati presenti in letteratura, anche se la
percentuale di recupero su base neuroplastica nel nostro studio risulta sensibilmente superiore rispetto ai due studi presenti in letteratura incremento pari al 4,6% 6; pari al 5% 7.
I tre pazienti che hanno effettuato terapia con EMDR hanno
anch’essi mostrato al T1 un miglioramento sintomatologico
89
(CAPS non più positiva per i criteri diagnostici) ed un aumento medio dei volumi ippocampali pari a 338,25 mm3 per
l’ippocampo DX e 357,93 mm3 per l’ippocampo SN.
Conclusioni: la terapia nei soggetti considerati si è associata ad un aumento dei volumi ippocampali (9,87%-8,37%).
L’aumento dei volumi ippocampali appare rilevante, consistente con i dati in letteratura, sebbene quantitativamente
superiore, sottolineando l’efficacia degli SSRI verosimilmente tramite il meccanismo di attivazione della neurogenesi; è ipotizzabile che l’aumento di volume non sia da imputare ad un aumento delle cellule gliali ma ad un aumento
di neuroni ippocampali visto il contemporaneo miglioramento clinico.
Particolarmente interessante ci sembra il dato relativo all’efficacia clinica e sulla plasticità neurale della EMDR.
Questa osservazione su solo tre casi, necessita chiaramente
di essere confermata su un campione più ampio ma rappresenta la prima evidenza in letteratura di un’azione della psicoterapia diretta alla struttura cerebrale
Bibliografia
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Mazure C, et al. Magnetic resonance imaging-based measurement of hippocampal volume in posttraumatic stress disorder related to childhood physical and sexual abuse a preliminary report. Biol Psychiatry 1997;41:23-32.
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volume in out-patients with post-traumatic stress disorder: a
MRI investigation. Psychol Med 2005;35:1-11.
Sindrome del burn-out in un campione
di medici di medicina generale: valutazione
della prevalenza e di alcune variabili
implicate
M. Venuta, G.P. Guaraldi, M.E. Svampa, M.S. Padula*,
E. Ferretti
Cattedra di Psichiatria, Università di Modena e Reggio
Emilia; * ASL Modena, Presidente Provinciale SIMG
Introduzione: i MMG oggi sono sottoposti sempre di più a
domande dei loro assistiti e delle Aziende Sanitarie, dove
SIMPOSI TEMATICI
possibili risposte assistenziali e organizzative, dipendono
anche da fattori al di fuori della MG, per un Governo Clinico che viene deciso altrove.
Questa ricerca ha avuto lo scopo di ottenere una valutazione della prevalenza del fenomeno del burn-out. L’interesse
per questa sindrome è dato dal riscontro di un aumento di
casi diagnosticati tra le cosiddette “help professions”, professioni basate sulla “relazione d’aiuto” tra operatore e utente, professioni nelle quali le responsabilità morali dell’operatore, lo stress a cui è sottoposto e il suo coinvolgimento
emotivo sono elevatissimi. Proprio tali condizioni di lavoro,
se non sussistono le adeguate misure di prevenzione, portano inevitabilmente alla “fusione”, al breakdown dell’operatore.
Metodologia: si è valutata la prevalenza del burn-out fra i
MMG di Modena e si sono identificate alcune variabili associate al fenomeno.
È stato selezionato in modo casuale un campione di 80
MMG (15%) fra tutti i 535 MMG modenesi. Ai medici del
campione è stato autosomministrato un questionario anonimo contenente dati demografico-organizzativi ed il Maslach Burnout Inventory (MBI). Per l’analisi statistica dell’associazione tra variabili e burn-out è stato utilizzato l’Indice
Tau di Kendall.
Risultati: hanno risposto 56 MMG (tasso di risposta del
70%).
Rispetto alle 3 sottoscale del MBI, è stato rilevato che:
– il 37,5% degli intervistati presenta alti livelli di esaurimento emotivo;
– il 26,8% presenta alti livelli di depersonalizzazione;
– l’8,9% presenta alti livelli di scarsa realizzazione personale.
Sono risultati fattori protettivi nei confronti dell’esaurimento emotivo: l’esercizio esclusivo della MG, lo svolgere attività di docente e/o tutor, l’avere più di 1.000 assistiti.
Sono risultati fattori protettivi nei confronti della depersonalizzazione: lo svolgere attività di docente e/o tutor, il non
essere coniugato, l’avere 2 o più figli.
Sono risultati fattori che favoriscono una buona realizzazione personale: il collaborare con segretaria e/o infermiera e/o
gruppo di medici nell’esercizio della professione di MMG,
il non essere coniugato.
Conclusioni: la prevalenza del burn-out riscontrata è simile a quella di altri studi italiani ed europei, in particolare per
gli aspetti di esaurimento emotivo, mentre le altre variabili
indagate dal MG risultano lievemente sotto-rappresentate.
Alcuni elementi appaiono essere protettivi, tra cui l’avere figli, essere implicati in attività formative, avere rapporti di
collaborazione con altri colleghi o personale di supporto e
paradossalmente avere un alto numero di assistiti. Questo
dato, assieme al valore negativo dell’essere coniugati e di
svolgere altre attività cliniche vengono commentati secondo
ipotesi che è necessario approfondire.
Il burn-out fra i MMG è una realtà, verso la quale è necessario prendere provvedimenti mirati, in considerazione delle conseguenze che ha sul medico stesso, sul paziente e sul
sistema sanitario.
Bibliografia
Cherniss C. Staff burnout, Job stress in the Human Service. Sage
Publications Inc., Beverly Hills 1980. Trad. it. La sindrome del
burn-out. Torino: Centro Scientifico Editore 1983.
Maslach C. Burned-out. Hum Behav 1976;5:16-22.
Pellegrino F. La sindrome del burn-out. Torino: Centro Scientifico
Editore 2000.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA NUREYEV
S35 - I disturbi psichiatrici in età di confine: fattori
di rischio pre-clinici, aspetti evolutivi e prognostici
MODERATORI
M. Casacchia, G. De Girolamo
La prevalenza dei disturbi mentali in preadolescenza
M. Molteni, A. Frigerio
Istituto Scientifico “E. Medea”, Bosisio Parini (LC)
Introduzione: il progetto PrISMA (Progetto Italiano Salute
Mentale Adolescenti) è il primo studio italiano volto a stimare la prevalenza dei disturbi mentali nei preadolescenti
(10-14 anni) che vivono in aree urbane. Scopi della presente relazione sono: 1) valutare la prevalenza dei problemi
emotivo-comportamentali e dei disturbi mentali attraverso
due diversi strumenti di misurazione: la Child Behavior
Checklist (Achenbach & Rescorla, 2001) e la DAWBA
(Goodman, Ford & Richards, 2000); 2) esaminare l’associazione tra alcuni fattori di rischio - sia di tipo individuale sia
famigliare – e la presenza di problemi comportamentali e di-
sturbi mentali di tipo internalizzato (disturbi d’ansia e dell’umore) ed esternalizzato (disturbi della condotta –
ADHD).
Metodologia: il disegno dello studio ha utilizzato una
classica procedura di campionamento a due fasi: a) una
prima fase di screening dei problemi comportamentali, attraverso la CBCL/6-18, in un ampio campione di soggetti
(N = 5.627) che frequentavano le scuole medie (pubbliche
e private) e b) una seconda fase di valutazione diagnostica, attraverso la DAWBA, in un campione più piccolo di
partecipanti (N = 972) formato da tutti i soggetti “sopra
soglia” e dal 10% dei soggetti “sotto-soglia” alla CBCL.
Per una descrizione più dettagliata rispetto al disegno e alla metodologia dello studio, si rimanda ad una pubblicazione in corso di stampa sulla rivista International Journal
of Methods in Psychiatric Research (Frigerio et al., in
press).
90
SIMPOSI TEMATICI
Risultati: la prevalenza di disturbi mentali è risultata pari
all’8%. La prevalenza dei disturbi emotivi è superiore a
quella dei disturbi esternalizzati che risultano, nel campione
italiano, molto meno frequenti rispetto ai dati emersi in altri
studi epidemiologici condotti in paesi occidentali. Tra i diversi fattori di rischio associati sia ai problemi emotivocomportamentali sia alla presenza di una diagnosi, emergono un basso livello socioeconomico e di istruzione dei genitori, la convivenza del ragazzo con un solo genitore, la presenza di un insegnante di sostegno, il precedente ricorso a
servizi di salute mentale.
Conclusioni: nel corso della presentazione verranno discussi più approfonditamente i dati emersi dall’indagine che appaiono fondamentali per programmare una risposta appropriata non solo in termini di interventi adeguati a carattere
preventivo e curativo, ma anche per effettuare un’efficace
pianificazione dei servizi nel nostro Paese.
Precursori e prodromi nei disturbi
dello spettro schizofrenico e bipolare
R. Pollice, E. Di Giovambattista, A. Di Pucchio,
M. Mazza, R. Roncone, M. Casacchia
Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura a Direzione Universitaria, Dipartimento di Medicina Sperimentale, Scuola
di Specializzazione in Psichiatria, Università de L’Aquila
I disturbi psicotici, sia quelli dello spettro schizofrenico che
quello dello spettro affettivo, sono uno tra i maggiori problemi di salute pubblica.
L’esordio di tali disturbi può avvenire in qualsiasi momento
nel corso della vita di un individuo, ma la sintomatologia
clinica di solito si manifesta caratteristicamente nel corso
della prima età adulta.
La prognosi di questi disturbi è spesso infausta e ad essi è
spesso associato un elevato tasso di morbidità e di mortalità
insieme ad una serie di conseguenze negative in ambito personale, familiare, sociale e lavorativo.
Nel corso del neuro-psico-sviluppo, lievi anomalie neuromotorie, emotive, neuropsicologiche, psichiche e comportamentali sono spesso presenti in individui, apparentemente in stato di buona salute, che successivamente manifestano un disturbo psicotico; questo dato suggerisce che alcuni aspetti attinenti l’eziopatogenesi e la sintomatologia del
disturbo, si manifestano molto prima dell’esordio clinico
dello stesso.
Tali “vulnerabilità” o “debolezze” possono influenzare i
processi evolutivi di apprendimento ed il funzionamento
globale anni prima dell’esordio del disturbo, così come di
norma nosograficamente diagnosticato.
Tra i fattori di rischio identificati come facilitatori dello sviluppo di un disturbo psicotico (sia esso affettivo o dello
spettro schizofrenico) i più importanti sembrano essere la
vulnerabilità genetica (o familiare), le complicanze ostetriche (pre-, peri- e post-natali), le alterazioni del neurosviluppo e i deficit delle performance scolastiche e cognitive. Purtroppo ad oggi il potere predittivo di tali variabili (sia in termini qualitativi che quantitativi) è ancoro troppo basso ed
aspecifico. Infatti, i precursori clinici identificabili nel corso dello sviluppo non sembrano essere specifici di un unico
91
gruppo sindromico ma appaiono essere comuni a diversi disturbi sempre, però, dello spettro psicotico (schizofrenico ed
affettivo).
Gli studi epidemiologici che si occupano del neurosviluppo,
sono finalizzati, oggi, anche alla rilevazione dei fattori di rischio e degli antecedenti clinici precoci associati ai disturbi
che di solito esordiscono in età adulta ed a quelli che hanno
caratteristicamente un’evoluzione cronica.
Questi studi si occupano anche di rilevare variabili significative nell’ambito del contesto nel quale avviene l’evoluzione di un disturbo, la concatenazione dei possibili meccanismi causali e le interazioni ambiente-individuo.
I precursori neuro-psico-comportamentali che precedono i
disturbi psicotici a caratteristico esordio in età adulta, suggeriscono che alcuni meccanismi eziopatogenetici intervengano nelle fasi precoci della vita degli individui affetti e che
le diverse sfumature di vulnerabilità e di espressività clinica
si possano modificare nel corso del tempo.
Appare utile, tuttavia, che, nei prossimi anni, la ricerca focalizzi l’attenzione sull’identificazione di markers endoesofenotipici, sempre più specifici e sensibili, allo scopo di
consentire un approccio precoce al trattamento delle psicosi
per migliorarne la prognosi.
È necessario, inoltre, nella valutazione di un possibile disturbo psicotico ad esordio precoce, avvalersi di un’accurata anamnesi allo scopo di poter diagnosticare, e quindi trattare, la patologia durante la sua fase prodromica.
La questione dell’origine precoce dei Disturbi Psicotici e la
conseguenza di questo dato, assume una notevole importanza sia in ambito scientifico che in ambito di salute pubblica
ma, purtroppo, una maggiore chiarezza sui meccanismi responsabili di tali disturbi è ostacolata dall’assenza di studi di
coorte che forniscano informazioni sull’endo-esofenotipo in
età neonatale e nelle età successive, e dalla scarsezza numerica di studi prospettici e longitudinali che diano informazioni sul follow-up.
Bibliografia
1
Bleuler E. Dementia Praecox or the Group of Schizophrenias.
New York: International Universities Press 1911 (Translated by
J. Zinkin, 1950).
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Hultman CM, Sparen P, Takei N, Murray RM, Cnattingius S.
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Jackson A, Cavanagh J, Scott J. A systematic review of manic
and depressive prodromes. J Affect Disord 2003;74:209-17.
7
Geddes J. Prodromal symptoms may be identified by people with
bipolar or unipolar depression. Evid Based Ment Health
2003;6:105.
SIMPOSI TEMATICI
La prevalenza e l’età di insorgenza dei
disturbi mentali comuni nella popolazione
italiana: lo studio ESEMED-WMH
G. de Girolamo, P. Morosini*, G. Polidori** per il Gruppo italiano ESEMeD-WMH
DSM, AUSL di Bologna; * Centro di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma; ** Istituto Superiore di Sanità, Roma
Obiettivi: presentare i risultati italiani dello studio europeo ESEMeD-WMH sulla prevalenza dei disturbi mentali
comuni nella popolazione generale adulta italiana e l’età di
insorgenza dei disturbi.
Metodologia: è stato estratto un campione rappresentativo
della popolazione generale adulta (18 e più anni) di 6.508
persone dai registri elettorali mediante un campionamento
a tre stadi.
Tra le persone estratte ne sono state intervistate 4.712 al
proprio domicilio mediante l’intervista strutturata WMHCIDI.
Risultati: il tasso di risposta ponderato è stato del 71,3%,
il più altro tra i 6 paesi dopo quello della Spagna. La prevalenza ad un anno di uno o più disturbi mentali è stata del
7,3% (IC 95%: 6,0-8,6); i disturbi più frequenti sono stati
quelli d’ansia, con una prevalenza annuale del 5,1% e
quelli depressivi, con una prevalenza annuale del 3,5%.
Rispetto agli altri paesi europei la prevalenza dei disturbi
è risultata relativamente bassa.
Nei 12 mesi precedenti l’intervista solo il 2,9% degli intervistati si era rivolto almeno una volta ad un servizio sanitario o specialistico (ivi inclusi gli specialisti privati) per
un problema psicologico. L’età di insorgenza dei disturbi
mentali comuni è compresa, in oltre 3/4 dei casi, tra i 15
ed i 25 anni di età.
Conclusioni: lo studio ESEMED-WMH rappresenta la
più ampia indagine sui disturbi mentali comuni eseguita
sino ad oggi in Italia su un campione rappresentativo della popolazione generale, ed i risultati sono simili a quelli
delle due ricerche più recenti condotte in Italia (studio di
Sesto Fiorentino e studio di Jesi).
Non si sono notate differenze marcate tra classi di età, zone geografiche ed aree rurali e urbane, il che sembrerebbe
deporre per un’omogeneità superiore a quella prevedibile.
L’età di insorgenza dei disturbi mentali comuni depone
per un netto cambiamento di rotta nell’organizzazione dei
servizi di salute mentale, che dovrebbero dare la massima
priorità agli interventi precoci.
tifica e terapeutica verso l’attuazione e la verifica di efficaci risposte di trattamento, modellate specificamente sulle peculiari caratteristiche di quei momenti della patologia
e della vita.
Il PROGRAMMA 2000 è un programma di individuazione e gestione degli esordi psicotici e delle situazioni ad alto rischio di psicosi in atto nell’ambito del Dipartimento
di Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Niguarda Cà Granda, Milano.
Esso si caratterizza come intervento-ricerca, con l’utilizzo di procedure sistematiche di valutazione fondate su un
articolato insieme di strumenti assessment (HoNOS;
BPRS; Checklist e Symptomlist ERIraos; CBA 2.0; DAS;
CFI; SAT-P; batteria di assessment neurocognitivo), l’offerta di trattamenti multidimensionali e individualizzati
sia alla persona sofferente che alla sua famiglia, l’attuazione progressivamente crescente di strategie di individuazione e di coinvolgimento delle agenzie del territorio
e l’impegno in alcune ricerche appartenenti a filoni di ricerca considerati oggi cruciali.
Nel lavoro verranno presentati i dati relativi all’assessment iniziale degli 86 soggetti (42 rischi, 44 esordi) con
un confronto tra i due gruppi e i dati che riguardano i follow-up a 2 anni per i 43 soggetti (esordi e rischi) per i
quali ad oggi è possibile questa valutazione.
Dall’elaborazione di questi risultati emergono miglioramenti statisticamente significativi nelle aree che l’assessment aveva indicato come più problematiche. In particolare nell’area della sintomatologia depressiva, dei problemi cognitivi e in quelli psichici aspecifici per il gruppo a
rischio, e in quella della sintomatologia positiva per il
gruppo all’esordio.
Per entrambi i gruppi miglioramenti significativi nel funzionamento sociale. Di molto interesse anche i primi risultati della ricerca costi-efficacia.
Anche da questi risultati, in linea con le evidenze scientifiche disponibili, viene un contributo non trascurabile
alla convinzione della imprescindibile funzione di programmi di trattamento fase-specifici multimodali e specialistici per prevenire, ritardare, moderare la progressione alla malattia, migliorando gli esiti clinici e sociali
di persone individuate come ad alto rischio di psicosi e
per ridurre la durata della psicosi non trattata e promuovere e mantenere la ripresa clinica e sociale in persone
già psicotiche.
Il PROGRAMMA 2000. Programma di
individuazione e trattamento delle psicosi
all’esordio
A. Meneghelli, G. Patelli, A. Cocchi
Azienda Ospedaliera Ospedale “Niguarda Cà Granda”,
Milano
Oggi l’attualità e l’imprescindibilità di un intervento specifico e mirato nelle fasi iniziali della malattia, ancorché
ancora legato a una complessità di problematiche cliniche, organizzative e di ricerca, orienta l’operatività scien-
92
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN GIOVANNI
S36 - Le sindromi neuro-psichiatriche complesse:
Delirium, Catatonia, SNM
MODERATORI
F. Gabrielli, M. Rigatelli
Delirium: la patologia sconosciuta ai medici
M. Rigatelli, S. Ferrari
U.O. di Psichiatria, Università di Modena e Reggio Emilia
Lo psichiatra che opera nel contesto dell’Ospedale Generale è chiamato spesso a gestire situazioni di urgenza. Tale urgenza è generalmente conseguenza di situazioni cliniche
particolari, cioè legata alla presenza di un rischio grave per
la vita di un paziente affetto da disturbo psichiatrico; può
però trattarsi anche di un’urgenza da definirsi “gestionale”,
non meno grave, pure con rilevanti ripercussioni sulla clinica, e soprattutto non meno di specifica competenza dello
psichiatra di consultazione, per quei pazienti vissuti, dalle
équipe di reparto, come imprevedibili o non “allineati” alle
regole non scritte del comportamento da tenere in corsia.
Il delirium è una delle situazioni cliniche che più spesso si
associano a richieste di intervento consulenziale psichiatrico in generale 1, ed urgente in particolare.
Si tratta, come ben noto, di una sindrome psichiatrica ad
eziologia medica, che colpisce il 10-30% dei pazienti ospedalizzati 2. La sua frequenza sale fino all’80% in determinate categorie di pazienti a rischio: età avanzata, una preesistente patologia cerebrale, l’anamnesi positiva per precedenti episodi, esiti di intervento chirurgico maggiore, condizioni terminali, abuso etilico, ecc. La diagnosi, che si fonda
essenzialmente sul riscontro di una sindrome confusionale e
di disfunzioni cognitive, ad andamento fluttuante nelle 24
ore ed in relazione ai dati anamnestici, è spesso posta in ritardo, quando non addirittura mancata, e sovente allo psichiatra il paziente viene presentato come “matto” da trasferire in psichiatria, data l’eclatante sintomatologia psichica
delle forme iperattive. Esiste peraltro anche un quadro di delirium ipoattivo, se possibile ancora più difficilmente diagnosticato, data in questo caso, viceversa, la “silenziosità”
del paziente.
Per un adeguata gestione di tale quadro clinico, è indispensabile prepararsi con il dovuto anticipo alla situazione d’urgenza: l’approccio integrato, una gestione condivisa e fluida, sono il risultato di una consuetudine di lavoro che preesiste alla singola situazione di urgenza, nella quale non c’è
materialmente il tempo di riflettere ed organizzare; le équipe coinvolte, medica e psichiatrica, dovranno conoscersi, e
riconoscere ed esercitare le reciproche responsabilità formative, fino a mettere a punto procedure di intervento condivise, che “vadano bene” a entrambi gli interlocutori.
Saranno quindi necessarie prontezza e dedizione nel non limitare il proprio intervento al paziente ed alla singola situazione urgente, cogliendo l’occasione per stimolare la riflessione e la formazione dei colleghi medici, nonché di rivolgersi ai familiari, non solo per informazioni anamnestiche,
ma anche per coinvolgerli attivamente nell’assistenza e contemporaneamente rassicurarli. E ancora, l’intervento prose93
gue fino alla dimissione del paziente, ed anche oltre, tramite la liaison nei confronti di medico di medicina generale,
familiari ed altri riferimenti assistenziali al domicilio del paziente, quali psichiatri territoriali o assistenti sociali.
Bibliografia
1
Huyse FJ, Herzog T, Lobo A, Malt UF, Ompeer BC, Stein B, et
al. European C-L service and their user populations. The ECLW
collaborative study. Psychosomatics 2000;41:330-8.
2
American Psychiatric Association. Practice guideline for the
treatment of patients with delirium. Washington, DC: American
Psychiatric Association 1999.
La catatonia tra disturbi dell’umore
e Schizofrenia
G. Tacchini, A. Mazzocchi, M. Giansante, G. Spagnolo,
A.C. Altamura
Cattedra di Psichiatria, Università di Milano, Dipartimento di Scienze Cliniche, Ospedale “Luigi Sacco”, Milano
La sindrome catatonica interessa circa il 10% dei pazienti
psichiatrici acuti e si presenta all’interno di un gruppo eterogeneo di condizioni psicopatologiche. La natura intrinsecamente esigua dei contenuti ideativi e, soprattutto, della loro espressione verbale la rende oggetto di frequenti errori
diagnostici, tanto che attualmente non ne è nota la frequenza nella popolazione generale.
Le ipotesi biologiche comprendono il blocco dopaminergico, le disfunzioni delle vie glutammatergiche, noradrenergiche e serotoninergiche e le anomalie della corteccia frontale. Alla disfunzione di tali vie sembrano inoltre associate l’elevata vulnerabilità ai sintomi negativi secondari a terapia neurolettica e la migliore risposta agli antipsicotici
atipici, agli NSRI e agli SSRI Efficace anche l’utilizzo di
ECT e, per le anomalie del sistema gabaergico, le terapie
con benzodiazepine, soprattutto lorazepam, per via infusionale.
L’analisi della nostra casistica mette in evidenza l’importanza di alcuni parametri biologici, in particolare la suscettibilità a fenomeni di miolisi, con conseguente aumento delle
CPK, che verosimilmente riconosce una diatesi genetica.
Inoltre, il confronto tra le varie opzioni di trattamento farmacologico sembra indicare una maggior efficacia ed una
miglior compliance dei trattamenti principalmente incentrati su antidepressivi anziché su antipsicotici, benché l’associazione tra i due sia una pratica frequente.
Bibliografia
1
Altamura AC, Bassetti R, Cattaneo E, Vismara S. Some biological correlates of drug resistance in schizophrenia: a multidimensional approach. J Biol Psychiatry 2005;6(Suppl 2):23-30.
SIMPOSI TEMATICI
2
3
Altamura AC, Bassetti R, Sassella F, Salvadori D. Novel antipsychotics and improvement of response in schizophrenia: a naturalistic study in poor responders to neuroleptics. It J Psychiatry Behav Sci 2001;11:45-8.
Altamura AC, Salvadori D. Il disfunzionamento del sistema dopaminergico in rapporto ai sintomi negativi e depressivi. Facts,
News and Views 2001;2:10-4.
La sindrome maligna da neurolettici:
tra antipsicotici di I e II generazione
M. Amore
Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Parma
Tra le più gravi sindromi iatrogene si annovera la Sindrome
Maligna da Neurolettici (SMN).
La Sindrome Maligna da Neurolettici costituisce la più grave reazione avversa al trattamento con antipsicotici; è caratterizzata da intensa rigidità muscolare, febbre e disfunzione
del Sistema Nervoso Autonomo; può avere un’evoluzione
potenzialmente mortale.
L’incidenza della sindrome fra pazienti in terapia neurolettica è stimata in sulla base di studi longitudinali, tra lo 0,07 e
lo 0,15%.
I farmaci chiamati in causa comprendono tutti gli antipsicotici, tipici e atipici.
Nella maggior parte dei casi sono implicati i composti classici ad alta potenza, ma via via che si estende la loro utilizzazione, diventano sempre più numerose le segnalazioni relative agli antipsicotici atipici clozapina, risperidone, olanzapina e, in misura minore, quetiapina. La somministrazione per via parenterale – formulazioni pronte o depot –, la rapidità di incremento della dose, il raggiungimento di dose
elevate e l’associazione con farmaci potenzialmente neurotossici sembrano aumentare il rischio per la SMN.
Più suscettibili sono i giovani, di sesso maschile (rapporto
maschi/femmine 2:1), con sindromi cerebrali organiche, disturbi extrapiramidali, alcolismo, catatonia; ulteriori fattori
predisponenti sono la debilitazione, la disidratazione e l’agitazione psicomotoria.
Nei casi la SMN è dovuta ad i un antipsicotico atipico la sintomatologia può presentarsi priva di alcuni dei segni clinici
classici, come la rigidità muscolare.
L’Ipotesi patogenetica centrale prevede che gli antipsicotici
bloccano i recettori dopaminergici dello striato, dell’ipotalamo e del sistema limbico e provocano rigidità muscolare
diffusa e squilibrio neurovegetativo.
I provvedimenti terapeutici sono costituiti dalla sospensione
del neurolettico, da terapia di sostegno e da terapie specifiche
che comprendono agonisti dopaminergici e miorilassanti.
La diagnosi differenziale si pone con la Sindrome Serotoninergica (SS) e con la catatonia acuta letale (CAL). La SS è
una patologia ad espressività clinica variabile causata da
un’iperattività del sistema serotoninergico, conseguente all’assunzione di uno o più composti serotoninergici. Per la
diagnosi di Sindrome serotoninergica depongono, oltre al
dato anamnestico del farmaco somministrato, la presenza di
sintomi neuromuscolari quali mioclono e iperreflessia muscolare profonda
La diagnosi differenziale fra SMN e Catatonia viene posta
sulla base di una marcata ansietà che sembra indicare una
catatonia mentre una acinesia priva di angoscia significativa sembra indicare una SMN; è possibile che una forma catatonica anche severa può presentarsi con stupore e rigidità
senza eccitamento, così come una SMN possa presentarsi
preceduta da eccitamento. Inoltre mentre i pazienti catatonici mostrano anormalità come automatismi, negativismo, o
ipercinesie, i pazienti con SMN mostrano solo ipocinesia.
Inoltre mentre nella catatonia sono presenti fenomeni quali
mantenimento delle posture e flexibilitas cerea, nella SMN
è più manifesta una rigidità extrapiramidale con il fenomeno della ruota dentata. Per la diagnosi di SMN depongono
nella fase di esordio isolati segni di squilibrio neurovegetativo, tremori, discinesie coreiche, distonie, opistotono, blefarospasmo, crisi oculogire, disfagia, trisma; rigidità muscolare serrata e progressiva (“lead pipe”) e, nelle fasi più
avanzate, il reperto di brusche o importanti oscillazioni del
CPK plasmatico unite ad altri segni di necrosi muscolare
quali mioglobinemia elevata.
Delirium: aspetti di vissuto, fenomenici
e neurobiologici
F. Gabrielli, P. Fornaro
Dipartimento di Neuroscienze, Oftalmologia e Genetica,
Sezione Psichiatria, Università di Genova
Il Delirium si può considerare collocato in un determinato
punto di uno spettro di potenziali cambiamenti mentali che
variano dalla piena coscienza al coma profondo: gli estremi
sono relativamente facili da riconoscere ma gli altri punti
dello spettro possono non essere riconosciuti o erroneamente diagnosticati. Espressione di un’insufficienza d’organo
(l’encefalo) e caratterizzato da un cambiamento acuto delle
capacità cognitive e da disturbo dello stato di coscienza, a
decorso fluttuante e con oscillazioni giornaliere, è di solito
riconducibile, come confermato da sempre nuovi casi clinici, a: 1) condizioni medico-chirurgiche quali per esempio ictus cerebri, emorragia subaracnoidea, disturbi metabolici,
infezioni acute, gravi neoplasie (nell’80% delle quali è presente), malattie terminali, interventi chirurgici maggiori (nel
35% delle fratture di femore); 2) assunzione di farmaci e sostanze quali per esempio anticolinergici, antibiotici, interferone, vari psicofarmaci compresi venlafaxina, lorazepam,
olanzapina, clozapina, e perfino livelli serici terapeutici di
litio; 3) astinenza da sostanze.
Presente nel 10-50% dei pazienti ospedalizzati, può persistere fino a 12 mesi dopo la diagnosi (McCusker et al.,
2003); frequente nell’anziano, per il quale è causa di gravi
indici di invalidità, morbilità e mortalità, può, nell’adulto
giovane, essere indicativo di una grave malattia non ancora
identificata il cui trattamento può salvare la vita. La presentazione con agitazione, sonnolenza, ritiro e psicosi, porta
con frequenza ad insufficiente riconoscimento dei sintomi, a
confusione diagnostica con i disturbi psichiatrici primari,
quali demenza, depressione e psicosi, e ad inappropriato
trattamento.
La diagnosi e il trattamento tempestivo sono importanti per
evitare, nei casi reversibili, l’incremento di disabilità, l’allungamento della degenza, un maggior tasso di ricovero in
strutture protette, di morte e di costi elevati. Vi è stato solo
un limitato progresso nella comprensione della eziologia e
94
SIMPOSI TEMATICI
della patogenesi, che è probabilmente multifattoriale, legata
a disturbi metabolici e a danno cerebrale con diffuse alterazioni corticali e sotto-corticali e variazioni dell’attività dei
sistemi glutamatergici, GABA-ergici, dopaminergici, serotoninergici e colinergici centrali (Trzepacz, 1997).
Sono necessari parametri per determinare i fattori di rischio
individuale, strumenti per facilitare l’identificazione dei se-
gni prodromici o precoci da parte del personale infermieristico (Duppils et al., 2004); linee guida per la valutazione sistematica e routinaria delle funzioni cognitive per una rapida e accurata diagnosi (in mancanza della quale aumenta la
mortalità nei mesi successivi alla dimissione) (Kakuma et
al., 2003) e, infine, linee guida per il trattamento e la prevenzione.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MALTA
S37 - La qualità di vita nella psichiatria della disabilità
MODERATORI
A. Castellani, G. Spinetti
Qualità di vita e sviluppo di abilità alla vita
* **
M. Bertelli
*
*
, G. La Malfa , A. Castellani , I. Brown
***
*
Società Italiana per lo studio della Qualità di Vita; ** Organizzazione Mondiale di Psichiatria, Sezione Psichiatria
della DI; *** Centre for Health Promotion, University of Toronto, Toronto, Canada
L’approccio a tipo Qualità di Vita (QdV) può costituire
un’alternativa o un’integrazione a quello medico tradizionale. Esso supera infatti la restitutio ad integrum e propone
un concetto di cura fondato sull’offerta di strumenti per aiutare una persona ad essere soddisfatta della propria vita.
Quello di QdV è un concetto molto ampio, che comprende
molti sotto-concetti e idee, ed ha un’applicabilità trasversale rispetto agli interventi sulla Disabilità Intellettiva (DI).
Occupa un ruolo centrale anche rispetto all’intervento riabilitativo e l’aderenza nel corso degli anni ad un percorso
di QdV è descrivibile come una linea di sviluppo di abilità
rispetto alla vita.
Tale percorso inizia con l’individuazione degli ambiti di
vita in grado di aggiungere soddisfazione all’esistenza e
di quelli con potenziale sottrattivo.
La capacità di individuazione, che ha suscitato numerosi
dibattiti teorici sulla sua attuabilità e sulla conciliabilità
di soggettività e oggettività, fa oggi capo alla valutazione
proposta dal modello di mediazione. Secondo tale
modello le indicazioni più utili alla definizione delle aree
di vita in grado di aggiungere maggiore soddisfazione
deriverebbero esclusivamente da un’integrazione di giudizi soggettivi ed oggettivi.
Una delle filosofie attualmente più praticate nel campo
della DI è quella dell’inclusione. Anche questo concetto
ne comprende molti altri, tra cui accettazione, accesso,
parità di diritti e partecipazione sociale.
L’intervento basato sulla QdV può inglobare anche l’inclusione come strumento filosofico potenziante. Per comprendere meglio quest’ultimo punto si rifletta sulle implicazioni dell’esclusione.
Essa si articola, a volte in modo poco evidente, in una
varietà di forme, tra cui sistemi di regole e di valori, criteri di normalità, valutazione e definizione delle abilità
stesse.
95
Qualità della vita, stress ed atteggiamento
prosociale in genitori di soggetti
con disabilità intellettiva
A.P. Verri, V. Destefani, A. Cremante, S. Pazzi
IRCCS, Fondazione Istituto neurologico “C. Mondino”,
Pavia
Introduzione: è nota la relazione tra stress e qualità di vita
nei genitori di persone disabili; scopo del presente lavoro è
osservare il ruolo della presenza di un figlio disabile nell’incoraggiare o scoraggiare un atteggiamento prosociale
nella famiglia e di valutare l’influenza dello stress e dei
comportamenti prosociali sulla qualità di vita.
Metodologia: 30 famiglie con figli affetti da disabilità intellettiva documentata alla WAIS (Wechsler, 1974) e 30 famiglie con figli normodotati sono state testate utilizzando:
– il questionario QRS-F - Questionnaire on Resources and
Stress (Friedrich, 1983);
– la survey sulla qualità di vita ComQoL Scales (Cummins,
1997);
– il questionario Family Support Scale (Dunst, Trivette &
Jenkins, 1988).
Il coinvolgimento in attività prosociali e di volontariato è
stato indagato attraverso un questionario a domande aperte
ed un’intervista con i genitori.
Risultati: i genitori di disabili hanno mostrato una percezione significativamente differente del coinvolgimento in
attività prosociali rispetto alle famiglie dei normodotati e diversi livelli di stress e qualità della vita. In particolare, la relazione tra stress e problemi parentali e l’atteggiamento pessimistico aumentavano con l’età del figlio.
Conclusioni: la presenza di un figlio disabile ha un ruolo
nell’incoraggiare comportamenti altruistici ed atteggiamento prosociale nei genitori.
La sessualità riconosciuta
F. Poli, A. Castellani
S.I.R.M.
Il tema della sessualità è un argomento sempre difficile da
trattare, soprattutto riferendosi a persone disabili: ognuno,
SIMPOSI TEMATICI
nell’affrontare questo tema, parte dalla propria immagine di
sessualità. Significati, valori ed il senso attribuiti al termine
sessualità non sono mai svincolati dalle storie individuali
rappresentate nello stesso vivere, sentire, manifestare.
La percezione delle problematiche legate alla sessualità è
diversa a seconda che la disabilità sia fisica, intellettiva o
sensoriale, nei vari gradi di gravità, ed anche relativamente
alla sua eziologia (genetica, conseguente a malattia ecc.).
Accanto alla disinformazione, sono frequenti visioni distorte e notevoli difficoltà nell’accostarsi al problema in modo
maturo: affrontare il tema della sessualità nelle disabilità intellettive risulta ancora più difficile perché poco conosciuto
e dibattuto.
Sovente, a causa di pregiudizi, si è creduto che l’esperienza
sessuale fosse poco sentita e/o per nulla importante nella vita di una persona disabile: viceversa, si è potuto verificare
che si tratta di un problema delicato, di una realtà viva, di un
argomento che necessita di risposte a domande precise ed
importanti.
Insegnare a capire tutti i messaggi del corpo, diventa quindi
un’esigenza pressante e necessaria per sviluppare ed ampliare le conoscenze del disabile stesso.
Prendendo spunto da ciò che emerge in letteratura e con i risultati ottenuti in una nostra indagine preliminare, si è cercato di evidenziare le problematiche relative alle varie manifestazioni sex-correlate dei disabili attraverso una ulteriore e più ampia ricerca, su scala nazionale.
Si è somministrato un Questionario mirato a focalizzare i
vari aspetti obiettivabili da parte degli operatori nel campo
dei comportamenti sessuali dei loro assistiti, suddiviso in tre
parti fondamentali: la prima è relativa alla connotazione
anagrafica del disabile, la seconda alla sua connotazione clinica e la terza riguarda le eventuali manifestazioni sessuali
di quest’ultimo.
I risultati ottenuti vengono preliminarmente presentati, con
grafici riassuntivi, in questo studio.
Aspetti specifici del nursing nell’assistenza
al disabile
P. Maestrelli, A. Castellani
II Servizio di Psichiatria, U.L.S.S. 20 Verona
Quando si pensa alla presa in carico della persona con disabilità intellettiva (DI) di vario grado da un punto di vista
assistenziale, è difficile poter pensare che tale compito si
esaurisca in una professionalità di tipo puramente infermieristico.
Nasce conseguentemente una concettualizzazione dell’assistenza di tipo “abilitativo”: l’infermiere si deve cioè preoccupare non soltanto dei bisogni sanitari più o meno contingenti del disabile, per i quali comunque deve attivare alcune attenzioni specifiche, ma anche della sua promozione in
senso relazionale.
Diventa allora auspicabile che venga attivata una preparazione mirata allo sviluppo di una professionalità che si colloca tra la gestione delle emergenze sanitarie del disabile e
le succitate attenzioni specifiche che vanno dalla comprensione delle richieste più o meno esplicitate del soggetto al riconoscimento di quella componente spesso misconosciuta
rappresentata dalla sessualità.
La presente relazione è basata sulla gestione dei bisogni più
o meno esplicitati da parte dei disabili e sui vissuti degli
operatori nei confronti delle manifestazioni sessuali dei loro assistiti. La gamma di questi vissuti è stata formalizzata
con la somministrazione di un questionario distribuito agli
operatori di numerosi centri italiani per l’assistenza alla disabilità: i risultati ottenuti vengono analizzati mediante grafici riassuntivi.
Effetti della interruzione del trattamento
con tioridazina in persone con Ritardo
Mentale e Disturbo Mentale “stabilizzato”
C. Ruggerini, F. Villanti, L. Perticarari, G.P. Guaraldi
Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Modena e Reggio Emilia, SIRM, Istituto Charitas di Modena
Introduzione: una direttiva recente ha imposto il ritiro dei
farmaci a base di tioridazina. Ciò ha comportato una interruzione forzata di trattamenti anche in situazioni considerate “stabili” o in “buon compenso”. Le osservazioni cliniche suggeriscono che, a volte, questa modifica, per quanto
imposta da un dato contingente e non da un progetto terapeutico, ha effetti molto positivi sul benessere della persona e, inevitabilmente, sulla qualità della sua vita. Queste
osservazioni ci hanno spinto ad un esame sistematico dei
nostri dati.
Metodologia: nell’ultimo anno abbiamo sospeso gradualmente la terapia a base di tioridazina a 17 pazienti, 13 dei
quali residenti presso l’Istituto Charitas di Modena; per
tutti i pazienti è stata compiuta una rivalutazione dei Disturbi Mentali associati dopo la sospensione utilizzando la
Stessa Scala Psicometrica – Scala DASH-II oppure ADD
di J. Matson – che era stata utilizzata al momento della
prima prescrizione della tioridazina. Gli effetti della sospensione farmacologia sono stati valutati: nel caso dei
pazienti residenti sulla base dei diari quotidiani redatti dagli assistenti e dagli educatori dell’Istituto; nel caso dei
pazienti ambulatoriali sulla base della percezione dei familiari.
Risultati: la sospensione della tioridazina si realizza, in
questa casistica, in tre modi: in alcuni pazienti la sospensione non richiede alcuna sostituzione; in alcuni la sostituzione con un farmaco stabilizzante dell’umore evidenzia una
analoga efficacia; in alcuni è necessaria la utilizzazione di
un neurolettico atipico. In alcuni casi si osservano miglioramenti comportamentali eclatanti rilevati dai familiari oppure dagli operatori dell’Istituto. I dati della valutazione psicometrica indicano che, in nessun caso, vi è un peggioramento dei sintomi psicopatologici; in alcuni casi vi è una riduzione dei punteggi relativi ad alcune dimensioni psicopatologiche.
Conclusioni: pazienti considerati “in buon compenso psicopatologico” possono trarre un notevole giovamento – in
termini di benessere e Qualità della Vita – dalla sospensione oppure sostituzione della tioridazina con neurolettici atipici. Ciò conferma una volta di più la necessità di utilizzare
le terapie psicofarmacologiche ai livelli minimi efficaci e di
attuare un monitoraggio sistematico anche delle condizioni
di “stabilizzazione” dei Disturbi Mentali associati alla condizione di Ritardo Mentale.
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SIMPOSI TEMATICI
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SALA RODI
S38 - Libertà e scelte nella relazione terapeutica
psichiatrica
MODERATORI
P. Curci, S. Priebe
zione-limite dell’esperienza della libertà di ognuno (Jaspers).
Sfondo emotivo e orizzonte etico della
libertà di scelta nel rapporto terapeutico
R. Bonito Oliva
Università di Napoli Orientale CIRB
Ricerche sul concetto di scelta in psichiatria
Interrogarsi sulla libertà di scelta implica immediatamente
mettere in gioco la possibilità di individuare il soggetto
dell’azione e il contesto soggettivo e oggettivo in cui questa si definisce. Usare il termine soggetto mette in campo
ancora un’altra questione: la struttura stratificata in cui si
delinea l’ambito del soggettivo in quanto sfondo emozionale non necessariamente consapevole e ambito della coscienza come centro di intenzioni, espressioni e scelte dell’individuo.
La libertà di scelta si è sempre connotata nel moderno come libertà negativa, vale a dire continuo riconfinamento
dell’individuale rispetto a un orizzonte oggettivo condizionante. Nell’orizzonte oggettivo si colloca la datità del
proprio corpo, il contesto affettivo in cui è dato la crescita
individuale, l’assetto normativo della comunità in cui si vive. Tutto questo rinvia alla precisa distinzione di questi
due ambiti, tralasciando il fatto che il primo livello di azione nel processo di identificazione rinvia a processi transizionali (Winnicott) in cui si costituisce quel plesso di fantasia, immaginazione, realtà come contesto significativo di
tutto ciò che il soggetto esprimerà nelle parole, nelle azioni, nel rapporto interpersonale.
In questo orizzonte sarà necessario analizzare la densità e
l’elaborazione personale dello sfondo emotivo, decisivo
per ogni itinerario di autentica identificazione, in cui è
possibile riconoscere lo spazio di un’azione piuttosto che
di una passività confusa dal sovraccarico pulsionale (Spinoza, Freud, Lacan, Laing).
Da qui la capacità di definire la qualità dello spazio dell’azione individuale che consapevolmente si dispone all’interazione con un orizzonte etico di riferimento secondo
la duplice modalità della conservazione e della creatività
(Binswanger).
Ancora una volta sarà necessario procedere a un’articolazione tra qualità formativa e qualità normativa dell’orizzonte etico (Hegel, Lacan) indicando le forme in cui la libertà di scelta si possa giocare non soltanto nei termini
dell’arbitrarietà o del conformismo, ma possa essere compresa anche nei termini di una messa a distanza: non necessariamente un taglio rispetto a quanto ci precede anche
normativamente nel nostro divenire soggetto, ma una metabolizzazione in cui interagiscano differenze individuali,
legami interpersonali, situazioni esistenziali.
Crediamo che la relazione terapeutica possa essere paradigmatica in questo senso per comprendere lo scacco o
l’impotenza della libertà d’azione, costituendo una situa-
R. Laugharne
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Mental Health Research Group, Peninsula Medical School,
Exeter, Regno Unito
La critica postmoderna al modernismo scientifico ha messo
in discussione il sapere e il potere dello scientismo medico:
ciò ha fatto emergere come temi rilevanti per la pratica la fiducia, la scelta e l’empowerment dei pazienti.
Attraverso una rassegna semi-sistematica della letteratura si
è trovato un corpus consistente di contributi sul tema della
scelta dei pazienti.
I lavori teorici hanno messo a fuoco uno spettro che va dalla posizione paternalistica in cui il clinico decide per il paziente, alla situazione di collaborazione tra paziente e clinico fino, all’estremità dello spettro, alla posizione completamente autonoma in cui il paziente agisce come utente di servizi.
È stata messa a punto una scala di valutazione che misura
il grado di informazione e il livello di autonomia desiderato circa la scelta del trattamento, anche se lo strumento è
stato utilizzato solo in pazienti con disturbi medici negli
USA.
Le ricerche qualitative suggeriscono che nell’ambito della
salute mentale i pazienti considerano importante la possibilità di scelta e che a loro vengono accordate maggiori possibilità di scelta rispetto ai pazienti di altre discipline mediche, almeno rispetto a variabili come l’orario e il luogo in
cui vengono visti.
Ricerche di tipo quantitativo suggeriscono che accordare
possibilità di scelta ai pazienti migliora il loro coinvolgimento con i servizi di salute mentale, mentre l’effetto sull’esito dei trattamento non è così netto.
È ipotizzabile che in salute mentale pazienti con forme meno gravi di malattia beneficino della possibilità di scelta più
dei pazienti gravi.
Un sondaggio su pazienti psichiatrici seguiti in comunità in
Cornovaglia, Regno Unito, ha mostrato che i pazienti desiderano fortemente ricevere informazioni sul loro disturbo. Il
desiderio di partecipare alla scelta del trattamento mostrava
ampia variabilità, con una quota di pazienti che desiderava
avere un peso significativo nella scelta.
L’impiego di metodologie di ricerca innovative, attraverso
tecniche quantitative e qualitative, è necessario per affinare
i risultati delle ricerche già significative disponibili.
SIMPOSI TEMATICI
La possibilità di scegliere rende la terapia
più efficace?
S. Priebe
Queen Mary, University of London / Newham Centre for
Mental Health
Introduzione: il tema della scelta del paziente tra differenti
possibilità di trattamento viene considerato di solito rilevante per i diritti degli utenti e argomento inerente l’orientamento dei servizi verso gli utenti.
Il concetto di scelta è anche utilizzato per argomentare a
favore del libero mercato nella sanità.
Rimane da dimostrare se soddisfare le scelte del paziente
migliori anche l’efficacia nella pratica dei trattamenti psichiatrici.
Metodi: rassegna non sistematica della letteratura e analisi di proprie ricerche aventi come oggetto il trattamento
di pazienti con disturbi psichiatrici gravi.
Risultati: è ben documentato che fattori aspecifici hanno
un peso predominante sia sull’adesione al trattamento, sia
sull’esito dello stesso.
Studi naturalistici suggeriscono che le opinioni dei pazienti
sul trattamento rendono conto di una porzione significativa
di questi processi aspecifici.
Alcune ricerche sperimentali mostrano che il coinvolgimento dei pazienti nei processi decisionali e un certo grado
di scelta possono in effetti migliorare il trattamento di
pazienti con disturbi psichiatrici gravi.
Sono stati sviluppati metodi per attuare il coinvolgimento
dei pazienti nelle decisioni sul trattamento nella pratica abituale.
Conclusioni: offrire ai pazienti una scelta tra varie opzioni
di trattamento può contribuire a migliorare gli esiti.
La scelta potrebbe influire sugli esiti attraverso un miglioramento della relazione terapeutica o l’adozione di componenti di trattamento più appropriati o tramite entrambi
questi meccanismi.
La scelta del paziente, però, può essere meglio concepita
come un processo decisionale condiviso piuttosto che
come una semplice opzione tra differenti modalità di trattamento disponibili a priori. In questa luce, non appare
giustificato utilizzare i risultati sperimentali per sostenere
un sistema di libero mercato per pazienti con disturbi psichiatrici gravi.
Plurideterminazione dei vincoli
alle scelte terapeutiche nella psichiatria
di comunità
G.M. Galeazzi
Azienda USL di Modena, Centro di Salute Mentale di Sassuolo
Introduzione: maggior ascolto e coinvolgimento degli
utenti nelle scelte di trattamento per espandere l’esercizio
della loro libertà sono stati individuati recentemente come
valori da perseguire per i servizi di salute mentale.
È generalmente accettato che ciò sia ottenibile attraverso
un processo di collaborazione nell’ambito di una alleanza
terapeutica. Peraltro, minor attenzione viene prestata ai vincoli presenti alle scelte professionali degli operatori, che
possono condizionare tale collaborazione.
Il contributo si propone di mettere in evidenza vari tipi di
limiti e vincoli a cui sono sottoposti i professionisti dei servizi nelle loro scelte terapeutiche, e di proporre ipotesi circa
una loro eventuale superabilità.
Metodi: analisi della letteratura e focus group tra operatori di un centro di salute mentale di comunità.
Risultati: la letteratura tocca il tema dei vincoli alle scelte
terapeutiche degli operatori solo tangenzialmente.
Ciò avviene, per esempio, quando ci si occupa di burnout (elevati livelli di burocratizzazione come elemento
significativo di peggioramento del morale), di managed
care (risorse disponibili, prescrivibilità di farmaci e terapie), accreditamento (procedure, linee guida), e responsabilità medico-legali (per esempio, obbligo di referto).
Nel focus group sono emersi inoltre come temi rilevanti
riguardanti i vincoli posti al trattamento il rapporto con le
richieste dei familiari, quello con i superiori, limiti personali riferiti al genere, a propri tratti di personalità, alla formazione professionale ricevuta.
Discussione: il contesto istituzionale della psichiatria territoriale dei servizi di salute mentale introduce specifici vincoli all’operare dei professionisti.
Parte di essi possono influenzare negativamente il lavoro
con gli utenti, frapponendosi ad una positiva collaborazione.
L’obiettivo di un almeno parziale contenimento di tale vincoli può essere perseguito attraverso la formazione, la supervisione, l’organizzazione e il miglioramento della qualità,
processi di mediazione.
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SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN PAOLO
S39 - Ideologie e psichiatria:
rapporti e contaminazioni
MODERATORI
P. Chianura, G.P. Guaraldi
La sindrome di Dorian Gray come nuova
forma di ideologia
S. Tagliagambe
Facoltà di Architettura, Università di Sassari, Sede di Alghero
In un suo bellissimo pensiero Bertold Brecht pone nei termini seguenti la questione del rapporto tra le realtà e la sua
rappresentazione:
“L’uomo si fa delle cose con le quali entra in contatto e di
cui deve venire a capo immagini, piccoli modelli, che gli rivelano come funzionano. Ritratti simili egli si fa anche di
umani: dal loro comportamento in certe situazioni che egli
ha osservato desume un determinato comportamento in altre, future situazioni. Il desiderio di poter predeterminare
questo comportamento, lo determina propriamente a progettare tali immagini. Delle immagini compiute fanno parte anche quei tipi di comportamento del prossimo che sono solo
tipi di comportamento rappresentati, desunti (non osservati),
presumibili. Ciò conduce spesso a immagini false, a un proprio comportamento falso, tanto più in quanto tutto si svolge non in modo pienamente conscio. Sorgono illusioni che
deludono il prossimo, le immagini diventano oscure; insieme ai modi di comportamento solo rappresentati, anche
quelli realmente percepiti diventano oscuri e poco credibili;
trattare con essi diventa incomparabilmente difficile. È dunque falso desumere tipi di comportamento futuri in base a
quelli che percepiamo? Si tratta solo di imparare un retto
modo di desumere? Molto sta nell’imparare un retto modo
di desumere, ma non basta. Non basta perché gli umani non
sono altrettanto compiuti quanto le immagini che ci si fa di
essi e che meglio sarebbe non completare mai interamente.
Per di più si deve anche aver cura non solo che le immagini
assomiglino al prossimo, ma anche il prossimo alle immagini. Non solo il ritratto di un uomo deve venir cambiato
quando l’uomo si cambia, ma anche l’uomo deve venir cambiato quando gli si presenta un buon ritratto. Se si ama l’uomo, dall’osservazione dei modi del suo comportamento e
dalla conoscenza della sua condizione si possono desumere
per lui certi modi di comportamento che per lui sono buoni.
Questo lo si può fare proprio come egli stesso può farlo. Dai
modi di comportamento presumibili ne conseguono di desiderabili. Nella condizione che determina il suo comportamento, improvvisamente rientra l’osservatore stesso. L’osservatore deve dunque donare all’osservato un buon ritratto
che ha fatto di lui. Egli può introdurre modi di comportamento che l’altro da solo non troverebbe; questi tipi di comportamento suggeriti non restano però illusioni dell’osservatore; diventano realtà: l’immagine è diventata produttiva,
è capace di mutare colui che è stato ritratto, contiene proposte (realizzabili). Fare un’immagine come questa significa
amare” 1.
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C’è un ostacolo ingombrante che oggi si frappone sempre
più al raggiungimento di quella capacità di “farsi un’immagine delle cose, che significhi amarle”, di cui parla Brecht.
Esso consiste in quella che ho già altrove 2 chiamato la “sindrome di Dorian Gray” riferendomi, oltre che al romanzo di
Oscar Wilde, che introduce l’omonimo personaggio, a un’acuta riflessione propostaci da Italo Calvino in una delle sue
ultime pagine, che figura in quelle Lezioni americane (Milano: Garzanti 1988) da lui pensate come viatico per il prossimo millennio:
“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia
colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè
l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta
come perdita di forza conoscitiva e d’immediatezza, come
automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a
smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che
sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze …
Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi
sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per
esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo
in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di
giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive
della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili.
Gran parte di questa nuvola di immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di
disagio.
Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la
vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio
disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a
cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire:
un’idea della letteratura” 3.
Quello che colpisce in questa diagnosi è l’associazione, che
non può passare inosservata e non può non stupire, tra l’impoverimento del linguaggio e delle immagini con cui cerchiamo di comprendere il mondo e di raffigurarcelo, esprimendone la natura, e l’impoverimento del mondo. Questa
associazione colpisce al cuore e mette seriamente in discussione quella che possiamo chiamare la “sindrome di Dorian
Gray”, e cioè l’illusione che tutte le conseguenze e le tracce
della parte negativa della sostanza psichica e morale del
protagonista dell’unico romanzo di Oscar Wilde, pubblicato
nel 1890 sul giornale americano “Lippincott’s Monthly Magazine”, possano essere trasmesse a un quadro meravigliosamente espressivo, mentre l’originale rimane bellissimo e
giovane, nonostante l’invecchiamento naturale e le sue repellenti dissolutezze. Trasposta sul piano del rapporto tra la
SIMPOSI TEMATICI
realtà e le sue rappresentazioni questa fiaba metaforica, dal
significato profondo, si traduce nella speranza, criticata appunto da Calvino, che l’impoverimento che ci circonda riguardi esclusivamente il ritratto che ci facciamo del mondo,
vale a dire i nostri linguaggi rappresentativi e descrittivi, le
nostre teorie ed esperienze, e non anche il mondo, la natura
cui tutto ciò si riferisce. In questa sindrome c’è la segreta e
vana illusione che a questo deterioramento si possa un bel
giorno porre fine semplicemente ripristinando il nostro legame con il mondo e rimettendoci in sintonia con esso, in
modo che ciò che noi sappiamo e diciamo di esso possa tornarne a riecheggiarne la ricchezza, la complessità e l’articolazione. A imbruttire progressivamente non sarebbe quindi
la realtà, ma l’immagine che noi ne proponiamo: e come rimedio basterebbe, allora, tornare a scoprire e a contemplare
il suo vero volto.
Alla base di questa sindrome c’è un concetto chiave, quello
di rappresentazione, declinata sulla base dell’idea che il
mondo esterno ci trasmetta un’informazione che esisterebbe
preconfezionata in esso e che deve dunque venire semplicemente estratta per opera di un sistema cognitivo. Secondo il
senso comune tradizionale, l’ambiente nel quale gli organismi si evolvono e che essi arrivano a conoscere è prestabilito, fissato e unico, e ha pertanto una sua storia indipendente
da quello delle modalità attraverso le quali cerchiamo di far
presa su esso, di conoscerlo e di rappresentarcelo. Da questo punto di vista gli organismi sarebbero fondamentalmente paracadutati in un ambiente già autonomamente delineato, almeno a grandi linee, nella sua struttura.
Opponendosi a questa facile illusione Calvino ci ha lasciato
in eredità, come tema e motivo sul quale sviluppare un’approfondita riflessione, il problema del rapporto tra “realtà”
e sua rappresentazione, che a suo modo di vedere non può
essere convenientemente affrontato partendo dal presupposto che sia possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra questi due domini, in quanto la realtà del mondo è costituita, in modo essenziale e ormai ineliminabile, anche dal
complesso delle rappresentazioni, descrizioni, interpretazioni che l’uomo ha via via elaborato di esso e continua incessantemente a produrre.
Riaffiorano così, in tutta la loro attualità, le parole che Calderon de la Barca fa dire a Sigismondo, confuso tra realtà e
sogno, ma risoluto a seguire la sua coscienza; la sola cosa
che davvero conta: il senso prezioso del valore di un ideale,
che attraversa e innerva di significati la vita, sia essa vissuta, immaginata o sognata: “Che è la vita? Un’illusione, solo
un’ombra, una finzione, e il maggior bene, un bisogno del
nulla, la vita è un sogno e i sogni sono … Ma che sia realtà
o sogno, il giusto conta”.
Questo problema non è più il semplice frutto della riflessione di scrittori e filosofi ed è entrato nella nostra coscienza
collettiva da quando, l’11-09-2001 “la storia si presenta come un film” come dice Alessandro Baricco in un articolo a
commento della tragedia delle Torri gemelle.
“La Storia non era mai stata così … una paura inedita, mai
avuta prima: non è il semplice stupore di vedere la finzione
diventare realtà: è il terrore di vedere la realtà più seria che
ci sia accadere nei modi della finzione … Ne siamo terrorizzati perché è come se qualcuno, improvvisamente e in
modo così spettacolare, ci avesse portato via la realtà: è come se ci informasse che non ci sono più due cose, la realtà
e la finzione, ma una, la realtà, che ormai può accadere sol-
tanto nei modi dell’altra, la finzione: e non solo per scherzo,
nelle trasmissioni televisive in cui veri uomini diventano
falsi per far finta di essere veri, ma anche nelle curve più
reali, atroci, clamorose e solenni dell’accadere. Sembrava
un gioco: adesso non lo è più … è andato in corto circuito il
raffinato meccanismo con cui la nostra civiltà da tempo
scherzava col fuoco e drogava la realtà spingendola verso le
performences che sarebbero solo a portata della finzione.
Credevamo di poter mantenere un sufficiente dominio su
quel giochetto. Ma qualcuno, da qualche parte, ha perso il
controllo. A nome di tutti. Adesso è facile chiamarlo pazzo,
ma è evidente che è pazzo di una pazzia assai diffusa in famiglia. L’abbiamo coltivata allegramente: adesso eccoci
qui, con il televisore davanti che ci srotola quella storia smerigliata e perfetta, eccoci qui, col vago sospetto di essere lo
show del sabato sera di qualcuno.
Qui a guardarci intorno impauriti, giusto per verificare che
tutto questo è vita, magari morte, ma non un film”.
Ci troviamo dunque sempre più di fronte a una realtà che accade nei modi della finzione e a un conseguente annullamento della distanza tra realtà e finzione che si riflette con
evidenza nei diversi palinsesti televisivi, dove accanto alle
gran varietà di “fiction”, trasmesse ormai da così tanto tempo da rendere ormai del tutto familiari i loro diversi personaggi, sono apparsi una notevole quantità di programmi che
mettono in scena, con ampia profusione di sentimenti vari,
famiglie, fidanzati, amici che si amano, si lasciano, litigano
e si abbracciano, dove il pubblico diventa, con il suo privato, protagonista.
Abbiamo così da un lato la fiction che diventa realtà e dall’altro la realtà che diventa fiction. La manipolazione del bisogno (bi-sogno), alterato, indotto, trasformato dalle leggi
del consumo, richiede un’analoga manipolazione del suo
derivato, il desiderio, che controlli lo sviluppo naturale del
percorso bisogni-desideri-realizzazione, per renderlo il più
possibile omologato e conforme.
Su questo terreno si inserisce poi il culto per le performances, cui fa riferimento Baricco, quel gioco di drogare la
realtà, nel versante onnipotente della finzione.
Questo uso, che sembra ormai inarrestabile, della finzione
come una realtà “patacca”, che si inserisce nella frattura fra
reale e potenziale, sposta il nesso tra questi due termini in
un’area di non-valore, insito nella dicotomia vero-finto, facendogli perdere quel senso ancora presente nella radice del
termine “virtuale”, connesso a un valore. Quel senso che
emerge in modo chiaro dall’idea che quella che chiamiamo
“realtà virtuale” costituisca un’esercitazione, ai limiti estremi, della nostra comprensione, del mondo come informazione e possa pertanto essere usata per esplorare sistematicamente i confini dell’esperienza umana e per entrare nel
mondo della possibilità non allo scopo di contemplarne la
varietà e le mille sfaccettature e di raccontarlo, ma per cercare di capire quale siano le sue potenziali interazioni con la
realtà effettuale, in virtù delle quali essa può retroagire su
quest’ultima e riuscire così non solo a modificarla, ma a potenziarla.
Vale, a questo proposito, la pena di ricordare, per meglio
comprenderne la natura e il significato, l’origine di questa
idea di “potenziamento”. Nel 1990 due ricercatori dei laboratori della Boeing, Tom Caudell e David Minzell, lavorando
su un prototipo che rimpiazzasse gli strumenti di bordo di un
aereo, svilupparono un congegno che i piloti potevano “in100
SIMPOSI TEMATICI
dossare” sul loro viso e che era in grado di visualizzare velocemente le rotte e tutte le informazioni correlate ai decolli e
agli atterraggi. L’oggetto della percezione visiva ottenuta
grazie a questo congegno venne chiamata “realtà aumentata”
perché incrementa lo spazio fisico con immagini prese dalla
spazio virtuale e con il mondo delle informazioni.
Da allora l’espressione ha conosciuto crescente fortuna ed è
entrata nel lessico scientifico corrente, come dimostrano le
risultanze del voluminoso rapporto conclusivo del Committee on virtual reality, Research and development, pubblicato
nel 1995 dal National research council degli Stati Uniti 4.
Benché infatti nel titolo sia ancora presente la dizione “realtà
virtuale”, nel corso della trattazione essa viene poi sistematicamente sostituita con l’enunciazione alternativa “sistema di
ambiente virtuale”, che, insieme a “sistema teleoperatore” e
“sistema di realtà aumentata”, appunto, costituisce il “sistema di ambienti sintetici”. Il pregio di questo mutamento lessicale sta nel fatto che esso consente di uscire dalle secche di
una contrapposizione, fallace e fonte di notevoli e frequenti
fraintendimenti, tra la realtà fisica o materiale e quella virtuale, per puntare invece l’attenzione su quello che è l’autentico nocciolo del mutamento di scenario veicolato dallo
sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: vale a dire il fatto che queste ultime ci consentono
di riprogettare specifiche componenti del mondo della nostra esperienza quotidiana in tutti i suoi multiformi aspetti,
rafforzandone determinate proprietà, in modo che esse riescano a rispondere meglio alle nostre esigenze ed aspettative. Lo scopo che si intende perseguire in questo caso non è
dunque quello di “riprodurre visivamente” e rappresentarsi il
mondo, o di crearne uno virtuale sulla base di illusioni visive, bensì quello di agire sul mondo reale, esaltando al massimo determinate caratteristiche utili degli ambienti.
Oggi l’espressione “realtà virtuale” oscilla dunque tra la “sindrome di Dorian Gray”, che ne fa la manifestazione di un gioco popolare che ci è sfuggito di mano e che è insieme il prodotto e il produttore di un malessere collettivo, e l’idea di un
possibile potenziamento e miglioramento della nostra realtà
quotidiana, grazie alle opportunità offerte dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
L’intervento si propone di approfondire il senso di questa dicotomia e di analizzarne le conseguenze e i possibili sbocchi.
Bibliografia
1
Baratta G. Fra inediti e rari. Verso un pensatore collettivo: Brecht a colloquio con Gramsci. Allegoria 1992;9:153-4.
2
Maciocco G, Tagliagambe S. La città possibile. Bari: Dedalo
1997, p. 5-7.
3
Calvino I. Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Milano: Mondadori 2004, p. 66-7.
4
Durlach NI, Navor AS, a cura di. Virtual reality, Scientific and
technological challenges. Washington, DC: National Academy
Press 1995.
Due categorie inseparabili del sapere
psichiatrico: “ideologia” e “paticità”
A. Masullo
Università di Napoli
Il circuito desiderio-rappresentazione è il centro della comprensione moderna della soggettività. Schopenhauer, Nietz-
101
sche, Freud introducono la tesi che il desiderio precede la
rappresentazione, e la condiziona al punto che nessuna conoscenza, per quanto raffinata, può depurare del tutto la seconda dal primo. Marx al desiderio sostituisce l’interesse
del gruppo sociale e alla rappresentazione l’“ideologia”.
I saperi psicologici e psichiatrici, non meno di quelli sociologici, hanno a che fare con l’ideologico da due lati: dal lato di ciò di cui si occupano, e dal lato del senso del proprio
stesso occuparsene. In relazione a ciò, è evidente che non
solo i saperi ma la stessa riflessione su di essi non è pura
teoresi, bensì prassi.
Se però la “soggettività” s’identificasse sic et simpliciter
con l’“ideologia”, cioè con la rappresentazione e la sua contaminazione ideologica, a cui in tal caso finirebbe per ridursi il “vissuto”, la psicologia e più pericolosamente la psichiatria perderebbero ogni possibilità di connessione critica
con l’originaria “fenomenalità” dell’esistere, dal momento
che la stessa naturalità della vita, o meglio le supposte note
pre-culturali e pre-sociali, in quanto rappresentazioni dei
saperi biologici si svelano nient’altro che effetti culturali e
sociali.
In siffatto quadro epistemico, il desiderio resta prigioniero
della rappresentazione e, in ultima analisi, della rappresentazione del sé, il quale, per il carattere ideologico di essa, è
incapace di “riconoscersi” e desiderare secondo il desiderio
che è, insomma di desiderarsi, di desiderare di desiderare. Il
desiderio senza il sé, nella cui assenza non c’è desiderio ma
semplice e cieca brama, sopravvive, non vive.
Riconosciuta l’inevitabile curvatura “ideologica” all’origine
della rappresentazione, si presenta la necessità, affinché psicologia e psichiatria siano possibili, di disporre di un diverso spazio epistemico, che permetta di tenere la “soggettività” impregiudicata, ovvero non ineluttabilmente subalterna allo scientismo ideologico. Occorre insomma, al di là
della categoria dell’“ideologia”, “pensare” un altro concetto
generalissimo, un’altra categoria, con cui rappresentarsi la
“soggettività” non ideologicamente, anzi secondo il principio del criticismo, logico di Kant e fenomenologico di Husserl.
Dalla medesima area dei saperi della soggettività, o in senso lato psicologici, dei sec. XIX e XX, da cui è emersa la categoria dell’“ideologia”, quasi contemporaneamente emerge
anche la categoria della “paticità”, il cui nome è molto meno condiviso ma il cui significato è assai variamente presente. Dilthey, Husserl, Stein, Heidegger, V. von Weizsäcker
sono coloro che preparano le condizioni culturali della sua
messa a fuoco. Il sé è autocritica problematicità: non è un
ente, confitto come tale a una sia pur labile identità, ma è
piuttosto un “buco”, attraverso cui s’intravede per umbras il
profondo ribollire del magma emozionale e perfino, talvolta, ne schizzano fuori subito spente scintille. Edith Stein lo
dice molto bene nel suo saggio sull’Empatia, quando al rappresentare, proprio degli atti teoretici, oppone il sentire. Il
soggetto “nel sentire non “vive” solo oggetti, ma vive anche
se stesso […] Questo io che si vive non è l’io puro perché
l’io puro non ha profondità”. Non è forse qui significato il
sé, i cui “livelli di profondità diversa” “si rivelano appunto
nel momento in cui i sentimenti ne sgorgano”? Rimanga all’io il regno delle rappresentazioni, di cui esso stesso, rappresentazione di “soggetto”, effetto della sociogenesi culturale, è suddito non meno che re. Il sé, assoluto non-oggetto,
puro sentire, è invece il senso vissuto di “buco” del quotidiano sentire, non solo, ma soprattutto di “soglia” da cui
SIMPOSI TEMATICI
s’avverte fluire, statu nascentis, la soggettività, il puro desiderio.
L’impossibile e pur necessario pensiero di questa “soglia” è
la singolare categoria della “paticità”, così come si è venuta
istituendo al centro dei saperi antropologici (filosofia, psicologia, psichiatria, ecc.) del secolo XX.
Mentre con il concetto di “ideologia” si categorizza logicamente la rappresentazione, non essendovi rappresentazione che non sia ideologica, manipolata dal desiderio,
con la vaga nozione di “paticità” invece si categorizza, solo ermeneuticamente, il desiderio, nel cercarlo dove non
ancora si è solidificato in oggetto, né devitalizzato, né integrato nella rappresentazione che esso stesso condiziona,
bensì fresco sgorga dall’inaccessibile profondità del magma emozionale.
La “paticità” allude alla “soglia”, puro sentire, da cui irrompe
la soggettività. È di questa l’oscuro e profondo agitarsi che
s’intravede attraverso il “buco” – quel niente chiamato “sé”.
Il patire non è il semplicemente emozionale, ma l’emozio-
nale umanizzato, cioè fatto esistenza, come il più avanzato
sapere psicologico non esita a sostenere.
Certamente tutto ciò riguarda la psicologia e tanto più la psichiatria nel loro avere a che fare con l’ideologia dal lato di
ciò di cui esse si occupano, ma non dal lato del senso del loro occuparsene. Tuttavia, solo se si comincia con il comprendere la curvatura ideologica di ciò di cui esse si occupano, i vissuti (concretamente intesi come tensione tra il desiderio e la rappresentazione, tra il sé e l’io, tra il naturale e
il culturale nell’esistere), si può scoprire se e in quali modi
la loro struttura epistemica comporti la criticità necessaria a
un sapere terapeutico del “disagio mentale”. Infatti, se l’origine del “disagio mentale” sta nel corto-circuito tra la rappresentazione, che il desiderio strutturalmente (necessariamente) condiziona, e il desiderio, che l’ideologia congiunturalmente (non necessariamente) corrompe, è evidente che
la sua terapia non è possibile, qualora la psichiatria non sia
in grado di adempiere le condizioni critiche per de-ideologizzare innanzitutto se stessa.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 1
S40 - European Bipolar Forum (EBF):
Treating unstable bipolar II. The science and the art
MODERATORI
G. Perugi, F. Benazzi
Cyclothymia in Bipolar-II depression
E. Hantouche
Mood Center, Adult Psychiatry Department, PitiéSalpêtrière Hospital, Paris
Background: in this report, the author provides an integrative overview of the place of cyclothymia in mood disorders and the substantive findings emerging from the
French National studies: “EPIDEP” and “BIPOLACT –
PSY I/II”.
These studies were implemented with the aim to facilitate
the clinical recognition of the bipolar spectrum beyond
mania.
It is befitting that such a study be conducted in France,
because it is in this country that a century and a half
ago J. Falret suggested that “Circular Insanity”,
observed in hospitalized patients, was likely to be
prevalent in the community and manifesting in a melancholic expression with brief moments of happiness,
“moments de gaité”.
Results: related data from EPIDEP demonstrated the importance of Cyclothymia in further qualifying of Major
Depression to define a distinct, more severe (“darker” BP-
II 1/2) variant of BP-II. This form of soft bipolarity accounted for 31% of the total MDE included.
From both clinician- and self-rated scales, 4 items related
to mood, activity and energy regulations were significantly highly represented in the sub-group with positive family history of bipolarity. The item “rapid shifts in mood and
energy” obtained the highest relative risk (OR = 3.42) for
positive family history of bipolarity.
The recent “BIPOLACT-PSY” studies were dedicated for
screening hypomania in resistant and recurrent depression. Respectively 163 and 194 psychiatrists participated,
and selected 630 and 772 patients.
The BP-II rate was 55.4% in resistant depression and
62.5% in recurrent depression. Regression logistic analyses with adjustment for sensitivity and positive predictive
value showed in both studies that Cyclothymic traits were
the strongest predictive factor explaining the presence of
hypomania.
Conclusion: these data add more input on the fundamental role of cyclothymic temperament in understanding the
origin and the risk factors of soft bipolarity, especially in
resistant and recurrent depressions.
Similar user-friendly protocols could be applied on a European level.
102
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 2
S41 - Terapia del male
MODERATORI
M. Marchetti, U. Fornari
Introduzione al tema “Terapia del male”
Angeli di ritorno: dall’inferno carcerario la
terapia eroica del diabolico
M. Marchetti
M. Iannucci
Università di Roma “Tor Vergata”
A.S. 10 di Firenze, C.C. di Sollicciano Firenze
In accordo con Paul Ricoeur 1 si potrebbe affermare che
“il problema del male costituisca ad un tempo la più grande provocazione a pensare e l’invito più subdolo a sragionare”.
D’altro canto, come ricorda Mary Midgley 2, occorre tenere presente che gli esseri umani hanno sviluppato dei
sentimenti etici che sono proprio quello che ci si potrebbe
aspettare che evolva quando una creatura altamente sociale come l’uomo diventa abbastanza intelligente da rendersi conto dei conflitti profondi fra i suoi moventi.
Noi non possiamo quindi che ragionare in termini di bene
e male ed ogni tentativo di eludere questa antinomia rischia di essere connotato da un razionalismo astratto che
ben poco può esserci d’aiuto e di conforto a fronte della
sofferenza che il male costantemente ci provoca.
Il senso di estraneità e di rifiuto che sperimentiamo di
fronte ad alcuni comportamenti che vengono ancora erroneamente definiti efferati come se fossero tipici di un
comportamento ferino che invece non appare mai gratuito o volutamente crudele come, a volte, invece, quello
umano, potrebbe freudianamente anche essere interpretato come una difesa ma può anche essere visto evolutivamente come l’espediente del nostro sistema cognitivo di
indicarci una strada da seguire all’interno delle complesse interazioni sociali.
Da qualche tempo è in atto un tentativo che si potrebbe
definire coraggioso di riconsiderare in termini psichiatrici
il male in quanto tale.
A fronte di alcuni comportamenti estremi degli esseri
umani la “ semplice “ spiegazione in termini di follia o se
vogliamo di un qualche Disturbo Mentale appare infatti
non bastare o essere chiaramente in contrasto con le evidenze cliniche. D’altra parte pensare che parlando di psicopatia o di disturbo antisociale ovvero ancora di disturbo sadico si sia più oggettivi e più scientifici o, ancora
peggio, che con una “cura” adeguata il male possa scomparire dal mondo rischia di essere una pericolosa illusione.
Bibliografia
1
Ricoeur P. Finitudine e colpa. Bologna: Il Mulino 1960.
2
Midgley M. The Etical Primate: Humans Freedom and Morality. Londra: Routledge 1994.
103
Esiste davvero qualcosa di “diabolico” nelle persone, talune
delle quali si sono rese protagoniste di atroci crimini, di cui
ci prendiamo cura come psichiatri dei luoghi di detenzione?
A questa domanda taluni terapeuti sembrano dare, negli ultimi anni, una risposta perentoria e disarmante: sì, esiste
davvero in tali soggetti qualcosa di diabolico, in loro il bad
prevale nettamente sul mad, tanto che non solo li lasciamo
giudicare come sani di mente fornendo in tal senso i nostri
pareri di esperti forensi, ma indichiamo anche come inesistenti o trascurabili le opportunità terapeutiche.
In oltre venticinque anni di esperienza terapeutica nei penitenziari, non mi è mai capitato di deporre le armi nella terapia di quei soggetti che, fra coloro che sono affetti dalla malattia trasgressiva, appaiono senza dubbio i più difficili da
curare: i cinici. In costoro, la particolare disposizione del
senso di colpa rende estremamente arduo il consolidarsi di
un legame efficace tra il terapeuta e il suo paziente. Nel lavoro descriverò:
– le caratteristiche che deve possedere il terapeuta che accetti la difficile e pericolosa sfida di simili trattamenti;
– i luoghi, e delle circostanze, che rendono meno temibile
tale terapia, o che la rendono sopportabile, per il singolo
terapeuta e per l’intera società;
– le relazioni tra le caratteristiche ottimali del terapeuta e i
luoghi della terapia.
L’inferno carcerario insegna che, se si vuole mettere mano,
senza bruciarsi, alla terapia del male, occorre avere trascorso una stagione all’inferno. In simili casi c’è qualcosa di
creativamente trasgressivo nella competenza del terapeuta,
qualcosa che rimanda a una inversione benigna. Solo chi
raggiunge una sufficiente consapevolezza dell’inversione
benigna può avviarsi senza eccessivi timori alla terapia del
male, riuscendo a veicolare quel tanto di ironia, e di speranza, che sono indispensabili in queste impossibili traslazioni.
Questa indispensabile consapevolezza non può che crescere
parallelamente all’esperienza clinica nei luoghi di pena (di
reclusione/reclusione). I terapeuti esperti, tra l’altro, si riconosceranno per la capacità di astenersi da ogni pregiudizio
nei confronti dei crimini “atroci” in cui si imbattono e dei
loro autori. In tale direzione verrà sottolineato il valore della competenza acquisita sul campo e, dall’altra parte, il pericolo di interventi occasionali e limitati al semplice assessment forense. È l’esperienza dell’inferno carcerario – dei
meccanismi, dei limiti e persino delle potenzialità di tale inferno – che rende possibile la terapia del male.
SIMPOSI TEMATICI
Sadismo e Disturbo di Personalità
Narcisismo di morte e omicidio
S. Ferracuti
U. Fornari
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica
Università di Torino
Il DSM-III-R aveva proposto tra le categorie meritevoli di
ulteriori approfondimenti il Disturbo di Personalità sadico,
proposta che tuttavia è stata ritirata e non è più presente nel
DSM-IV. Il sadismo sessuale continua ad essere classificato
tra le parafile.
Le ragioni dell’esclusione della proposta di diagnosi di Disturbo di Personalità sadico sono state legate a fattori sociali e giudiziari, dove si è ritenuto che una categorizzazione
diagnostica in ambito psichiatrico potesse risultare funzionale a impostazioni difensive in casi di crimini particolarmente violenti e brutali.
Nella pratica psichiatrico forense è tuttavia frequente incontrare soggetti che presentano una personalità che è abitualmente improntata a tematiche di forme crudeli di esercizio
del potere, con aggressività e modalità di umiliazione degli
altri. In molti casi queste persone traggono piacere dall’indurre sofferenza alle persone o agli animali, e tendono a limitare la libertà altrui.
Molti di questi soggetti non sono adeguatamente descritti
dagli altri disturbi di personalità, sebbene appaia esservi una
discreta sovrapposizione di tratti con personalità narcisistiche, paranoiche, e borderline.
È rilevante che, ai fini della comprensione diagnostica di
queste persone, si apprezzi precipuamente la soddisfazione
che costoro hanno nel far soffrire gli altri.
L’autore, sulla scorta di una serie di ricerche sull’argomento, a loro volta stimolate dalla sua attività di psichiatra forense che gli ha consentito di periziare alcuni serial killer
italiani, tre dei quali sono stati oggetti di una precedente
pubblicazione (Ponti G, Fornari U. Il fascino del male. Milano: Cortina 1995) e di altre due monografie (Fornari U,
Birkhoff J. Serial killer. Torino: Centro Scientifico Editore
1996; Fornari U, Coda S. Tre orrendi delitti del passato. Torino: Centro Scientifico Editore 1998) in cui sono state proposte ai lettori le storie di vita e gli atroci delitti di alcuni serial killer del passato, affronta ancora una volta il complesso problema clinico e valutativo di coloro che commetto crimini ripetuti contro la persona. Lo spunto gli viene offerto
da due importanti casi della cronaca giudiziaria recente.
Dalla ricostruzione delle rispettive storie giunge a conclusioni assolutamente negative per quanto si riferisce agli
aspetti del “trattamento” e del “recupero” di soggetti siffatti. Il loro funzionamento di personalità è complesso e articolato su più livelli di disturbo. La loro struttura perversa ed
egosintonica di personalità non consente loro di coniugare
le pulsioni di vita con la partecipazione, l’appartenenza, il
dialogo; in loro l’aggressività è scissa dalle componenti affettive della tenerezza; il loro con gli altri è un incontro impersonale, adialogico, cosificato e cosificante. Violentare e
uccidere sono al servizio di un Super-Io arcaico e sadico, di
quella pulsione di morte e di quella componente distruttiva
che c’è in ogni persona, ma che in questi soggetti ha trionfato sull’amore per la vita e si è cristallizzata e pietrificata
nell’impossibilità di ricevere il suo sviluppo gratificante e
gratificato attraverso l’elaborazione del processo di “separazione-individuazione”.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 3
S42 - Teoria del sogno
MODERATORI
G. Roccatagliata, M. Mancia
L’epistemologia del sogno da Asclepio
ad Aristotele
L. Bonuzzi
COIRAG, Istituto di Padova
Nel volgere di un tempo relativamente breve, compreso fra
l’età ippocratica e quella di Aristotele, affiorano i principali
nuclei dottrinali con cui si misurerà la tradizione scientifica
occidentale in tema di sogno, prendendo le distanze dall’approccio magico tipico degli asclepiei: si ricordano, in particolare, i contributi di Democrito, Ippocrate, Platone ed Aristotele. Il materialismo atomistico di Democrito influenza
Epicuro e, con qualche travestimento, lo si ritrova fin nel
meccanicismo medico dell’ultimo ’700 e del primo ’800.
L’interpretazione organodinamica dei sogni proposta dal
Regime ippocratico costituisce il modello ermeneutico più
largamente condiviso a cui fa riferimento la medicina fino
all’età contemporanea con intenti diagnostici. La descrizione platonica del mondo dei sogni sembra prefigurare il regno dell’inconscio. Aristotele, analizzando le percezioni ed
ancorando il sogno al sonno, anticipa le prospettive della
moderna psicofisiologia.
La molteplicità dei punti di vista rimanda ad una differente
immagine dell’uomo ed in particolare ad una differente concezione dell’anima e del rapporto corpo/mente che, inevitabilmente, influenza l’interpretazione del vissuto onirico.
Gli autori ricordati, per quanto facciano riferimento a teorie
fra loro diverse, si possono, d’altra parte, accostare per il comune impegno nel prendere le distanze dalle interpretazioni
del sogno che circolavano negli oracoli e negli asclepiei. Si
deve tuttavia riconoscere che nella sensibilità comune, dal
104
SIMPOSI TEMATICI
tempo di Asclepio al corrente terzo Millennio, l’interesse
magico per i sogni non è mai venuto del tutto meno. E nel
contempo si deve prendere atto che anche gli approcci critici si sono intrecciati fra loro, con alterne fortune, lungo la
storia della psicologia medica e della neurofisiologia.
Il sogno dagli Stoici a Galeno
S. Fasce
Università di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Archeologia e Filologia Classica
Introduzione: nei testi letterari della Grecia arcaica il sogno, considerato di natura divina, è trattato come una realtà
oggettiva, la cui immagine trasmette un messaggio su cui regolare la condotta. Formulata attraverso le rappresentazioni
e il linguaggio del mito, una elementare ed intuitiva classificazione distingue, sulla base degli effetti, i sogni veridici,
che si realizzano, e quelli ingannevoli, che inducono in errore. Tuttavia, già nell’“Odissea”, e poi regolarmente nella
tradizione onirologica successiva, vulgata e scientifica, al
sogno è attribuito un contenuto mnestico
Nella grande stagione della filosofia ellenica, entro cui si
colloca il pensiero del Corpus Hippocraticum, il fenomeno
onirico viene studiato con un approccio razionale e diventa
oggetto di analisi scientifica. La teoria del sogno viene svolta principalmente lungo due direttrici indipendenti e parallele, senza una effettiva possibilità d’incontro: da un lato,
l’indagine sulla natura, sul modo di prodursi e sul valore
dell’attività onirica, secondo un’impostazione naturalistica
e fisiologica, a partire dalla concezione atomistica per giungere ai saggi dedicati da Aristotele al tema specifico; dall’altro lato, l’attribuzione del sogno premonitore al dominio
della mantica, sottratto, così, alla sfera della religione popolare. Su questo punto, la dottrina medica antica, che pure nega il carattere divino delle visioni notturne, si esprimerà
sempre con molta cautela e, talora, con esitazione.
Il sogno dagli Stoici a Galeno: sul finire del IV sec. a.C. e
nella prima età ellenistica, due scuole antitetiche, l’Epicureismo e lo Stoicismo, affrontano l’argomento del sogno sul
modello della filosofia classica. L’Epicureismo riprende,
aggiornata con una più complessa teoria del sonno, la concezione atomistica antica, secondo cui le immagini oniriche
comportano un contenuto informativo manifesto, senza carattere di eccezionalità; infatti, ciò che sembra annunziare il
futuro è solo frutto del caso o di un turbamento emotivo.
Nella cultura antica, questa resta la voce più forte (con poche altre più deboli), che nega la valenza divinatoria del sogno. In direzione opposta, dallo Stoicismo antico viene teorizzata la divinazione naturale, incluso il sogno premonitore, come capitolo necessario di un sistema monistico e panteistico, che, identificando la divinità col fato, unisce il concetto di Provvidenza universale a quello di un ferreo determinismo o “catena delle cause” (per cui, in linea di principio, gli avvenimenti sono prevedibili). Tuttavia Panezio (II
sec. a.C.), esponente rappresentativo della medesima scuola, dubiterà del valore profetico del sogno, in quanto privo
di fondamento oggettivo, influenzando notevolmente la cultura intellettuale dei romani, in particolare Cicerone. Il pensiero degli Stoici sul sogno, considerato una forma di divinazione filosofica, fu rimosso dalla trattatistica onirocritica
105
e valutato, in generale, con scetticismo, nonostante abbia lasciato un’impronta incontestabile nelle opere in lingua latina dell’età repubblicana e nonostante abbia fornito giustificazioni alla religione delle persone colte, alle espressioni
del misticismo, al rafforzamento delle dottrine del neopitagorismo e del medioplatonismo, alla concezione galenica
della physis: la natura come sostanza continua, non inerte,
ordinata, spiega il ruolo attribuito ai sogni.
D’altra parte, la teoria del sogno che si delinea negli scritti
di medicina nel corso di cinque secoli, dal III sec. a.C. al II
sec. d.C., presuppone la teoria di Aristotele sul sonno e sul
sogno, con la sua spiegazione circa il rapporto anima-esperienza onirica. Al sogno interpretato in prospettiva psicologica e fisiologica, valorizzato come dato diagnostico, si interessa la medicina di Alessandria, attenta, come tutte le
scuole dell’età ellenistica, alla specializzazione del linguaggio della comunicazione scientifica e agli schemi concettuali. Nella prima metà del III sec. a.C., il medico anatomico
Erofilo di Calcedone imposta una tripartizione dei sogni che
rinvia alla tradizionale distinzione fra cause endogene e cause esogene, coniando la categoria della classe mista o composita (che gli deriva dal concetto di struttura anatomica), in
grado di raccordare elementi delle dottrine ippocratica, aristotelica ed empirica. Nel II sec. d.C. Galeno, trattando del
fenomeno onirico, in linea con i criteri del sapere enciclopedico dell’epoca, riporta le interpretazioni più autorevoli
dei predecessori, sempre proteso a far convergere filosofia e
medicina: la tesi somaticista e fisiologica, la spiegazione
psicologica, gli aspetti diagnostici, i sogni premonitori, l’attività dell’anima nel sonno. La sintesi di Galeno non è esente da qualche esitazione, relativamente non solo al presunto
sogno divino, ma anche al sogno assunto come strumento
diagnostico, in quanto condurrebbe a una diagnosi difficile
e insicura.
Nota conclusiva. Processi semiosici nella teoria del sogno:
nelle culture antiche, non solo classica, il sogno è considerato un particolare tipo di segno (qualcosa che sta per qual cos’altro) o un veicolo del segno, che richiede di essere interpretato e rimane oscuro finché non si realizza ciò a cui esso
rimanda. Sotto questo profilo, l’interpretazione del sogno tematizza un problema semiotico ed entra in un processo di significazione che prevede un’analisi di tipo congetturale.
Tanto i sistemi filosofici quanto la pratica divinatoria avanzano teorie del sogno su base logica, adottando un modello
formale semiotico che era stato applicato nel V sec. a.C. all’interno del Corpus Hippocraticum: si tratta di uno schema
di ragionamento inferenziale su base empirica, inferire le
cause dagli effetti. Tale modello segnico, che si riscontra già
nella divinazione dell’antica Mesopotamia, trova una sistematica applicazione in età ellenistica. Nella teoria del sogno,
in effetti, entrano in campo due stili di razionalità, alternativi ma coesistenti, anche in uno stesso pensatore, come nel
caso emblematico di Galeno: da un lato, l’indirizzo analitico/sintetico (la teoria anatomo-fisiologica), dall’altro lato
l’indirizzo semeiotico/indiziario (con l’approssimazione diagnostica denunciata da Galeno). Sogno e segno si identificano, dunque, nella dimensione di sintomi relativi a fenomeni
in corso, o nella portata dei simboli dal contenuto trasparente, certo nella semiotica predizionale: in questo caso, tanto la
diagnosi quanto l’interpretazione onirocritica si esercitano su
un terreno di segni allusivi, che rimandano all’individualità
come a un segmento della generalità.
SIMPOSI TEMATICI
za degli elementi profondi, e nel ricostruire la propria storia
interiore, la cui frattura e la cui soluzione di continuità produce la sofferenza mentale.
Creazioni oniriche
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica, Sezione Psichiatria, Università di Genova
Il punto di partenza è certamente quello Freudiano: a partire dalla Traumdentung, attraverso l’identificazione dei meccanismi fondamentali del lavoro onirico, drammatizzazione,
simbolizzazione, dispersione, condensazione, spostamento
dell’accento, elaborazione secondaria, si possono trattare i
sogni come elementi strutturati, seguenti regole precise, che
possono essere decostruiti, come dire, smontati, rimontati e
compresi.
Tuttavia, proprio a partire dalla drammatizzazione, si deve
osservare come i sogni abbiano una valenza narrativa, e seguano un fil-rouge che si rappresenta con la tecnica del teatro, più che del racconto, una trama, un progetto generale,
una impostazione della vita che tiene conto di passato, presente e futuro, e può dare un quadro globale della persona.
Ci si dovrebbe aspettare che, data la tecnica drammatica che
il sogno usa, fosse il cinema ad essere il più vicino alle possibilità di rappresentare il sogno: andando ad esaminare alcune famose rappresentazioni (il sogno de “Il posto delle
fragole”) si nota chiaramente il meccanismo e l’insufficienza espressiva, mentre ciò che si riesce a rappresentare di più
è la derealizzazione.
L’esempio di Venezia serve per la possibilità di rappresentare una esperienza onirica e un filo narrativo interno: per
questo vengono presentate l’esperienza di Proust e quella di
Thomas Mann: specialmente in questo ultimo caso è evidente l’atmosfera onirica come strumento per esprimere l’esperienza di destrutturazione della sublimazione, attraverso
immagini oniriche.
Con ciò si evidenzia l’alto valore del sogno, o della sua rappresentazione in letteratura, nell’approfondire la conoscen-
Il sogno: la psicoanalisi in dialogo
con le neuroscienze
M. Mancia
Università di Milano, Società Psicoanalitica Italiana
La scoperta del sonno REM da parte di Aserinski e Kleitman
nel 1953 apre alla Biologia le porte del sogno. La ricerca
neurofisiologica ha indicato le strutture responsabili del sonno REM. La psicofisiologia ha indicato nel sonno REM la
cornice neurobiologica all’interno della quale il sogno può
manifestarsi. Tuttavia, esperienze successive hanno dimostrato che il sogno è presente in ogni fase del sonno dall’addormentamento al risveglio, anche se con caratteristiche diverse nelle diverse fasi (REM e non-REM) del sonno.
La neuropsicologia, grazie alle bioimmagini, ha dimostrato
che varie strutture (ponte, amigdala, parte anteriore del cingolo, aree temporali limbiche) sono attivate durante il sonno ERM, mentre la parte posteriore del cingolo e la corteccia prefrontale sono deattive.
Tuttavia il fenomeno sogno è legato alla funzione di strutture prosencefaliche che coinvolgono circuiti cerebrali associativi corticali e sottocorticali, relativamente indipendente
dall’architettura del sonno e dalle sue fasi. Il trasmettitore
fondamentale responsabile dell’organizzazione del sogno è
la dopamina.
La psicoanalisi è l’unica disciplina che si interessa al significato del sogno ed è in grado di contestualizzarlo nella relazione transferale e di collegarlo alle esperienze affettive
ed emozionali dell’infanzia riattivate dal transfert.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA ELLISSE
S43 - Cinema e psichiatria
MODERATORI
L. Tarsitani, P. Pancheri
La follia al botteghino. Uno studio
sistematico
L. Tarsitani*, E. Tarolla*, R. Brugnoli**, P. Pancheri* **
*
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”; ** Fondazione
Italiana per lo Studio della Schizofrenia, Roma
Introduzione: l’industria cinematografica americana è stata
caratterizzata, dall’inizio del ventesimo secolo fino ai tempi
attuali, da un notevole uso di stereotipi per rappresentare
l’immagine della psichiatria. Le patologie psichiatriche sono anch’esse spesso rappresentate nei film, e non sempre in
modo realistico. Tale modo di rappresentare tende a subire
modifiche rilevanti nelle diverse fasi storiche della psichia-
tria. È probabile che le immagini delle malattie mentali mostrate nei film abbiano un impatto cruciale sulle convinzioni e le attitudini delle persone.
Metodi: è stato utilizzato un campione di più di 300 film in
compare un professionista della salute mentale (psichiatra,
psicanalista, psicologo, “strizzacervelli” ecc.). Tutti i film
reperibili nel mercato home-video sono stati visionati compilando una scheda di valutazione per ogni personaggio rilevante(psichiatri e pazienti) per ottenere, per quanto possibile, informazioni riguardanti dati demografici, aspetto, atteggiamento, ruolo, realismo, psicopatologia, aree di funzionamento.
Risultati: verranno discussi (ed esemplificati con proiezioni
filmiche) i risultati, con particolare riferimento alla rappresentazione dei disturbi mentali.
106
SIMPOSI TEMATICI
Conclusioni: è ragionevole ritenere che gli stereotipi cinematografici influenzino in modo cruciale quelli della vita
reale, con cui coincidono e si fondono. La consapevolezza
della rappresentazione del disagio è un fattore determinante
per la psichiatria. I profili emersi da tale valutazione sistematica suggeriscono dunque alcune considerazioni che verranno espresse e discusse.
Bibliografia
1
Gabbard GO, Gabbard K. Psychiatry and the cinema. Washington-London: American Psychiatric Press Inc. 1999.
2
Tarsitani L, Pancheri P. Cinema e psichiatri: dagli oracoli al
cannibalismo. Ital J Psychopathol 2004;10:3-10.
3
Tarsitani L, Tarolla E. Psichiatria e psichiatri nel cinema americano. Recenti Prog Med 2005; In corso di stampa.
Lezioni di psichiatria al cinema
R. Brugnoli*, E. Tarolla**, L. Tarsitani**, P. Pancheri* **
“Compliance” e “Non Compliance”;
farmacofilia e farmacofobia
V. Volterra
Università di Bologna
La “compliance” alle terapie costituisce un problema molto
serio nel trattamento di tutte le forme morbose e, in più, assume un particolare rilievo in psichiatria, sia in termini
quantitativi che di significato. Essa può essere dovuta a fattori dipendenti dal farmaco stesso, o dalla malattia, ma anche dal paziente, dal medico e dal contesto dove viene attuata la cura.
Al contrario, in certi soggetti, il ricorso al farmaco è improprio, eccessivo e diventa una specie di protesi-supporto per
affrontare ogni accadimento vitale stressante o, comunque,
di notevole impatto emotivo.
Vengono riportati, a tal proposito, alcuni spezzoni cinematografici che illustrano tali aspetti di farmacofobia e farmacofilia.
*
Fondazione Italiana per lo Studio della Schizofrenia, Roma; ** Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina
Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
Introduzione: come per altre specialità mediche, la presentazione di casi clinici di alta qualità svolge, in psichiatria, un
ruolo cruciale nella formazione post-laurea e nell’educazione continua in medicina. Le storie cliniche presentate in forma scritta o orale sono da sempre utilizzate per affinare conoscenze ed abilità nella pratica clinica.
Tuttavia, l’osservazione diretta del comportamento dei pazienti psichiatrici può portare ad una rappresentazione veritiera ed efficace dei disturbi mentali.
Il cinema frequentemente presenta personaggi affetti da disturbi psichiatrici (in modo esplicito o implicito) rappresentati, nei film di alto livello, in maniera realistica, raffinata e
accattivante.
Metodi: il nostro gruppo utilizza da anni dei casi clinici
tratti da film commerciali in vari contesti didattici. La tecnica prevede l’estrazione dai film di sequenze che illustrino
in modo esemplare la personalità premorbosa, i determinanti ambientali, e soprattutto l’evidenza di una condizione psicopatologica attuale.
Le varie sequenze vengono proiettate, divengono oggetto di
discussione con l’ausilio di strumenti didattici interattivi e
possono fornire lo spunto per la presentazione di materiale
clinico e scientifico.
Risultati: nel corso della presentazione verranno illustrati
alcuni esempi di didattica interattiva che utilizza casi clinici tratti da film del circuito commerciale. Verranno anche
presentati i risultati ottenuti con questa procedura su vari
gruppi di discenti.
Conclusioni: i feedback ottenuti negli anni dai discenti suggeriscono che la metodologia adottata possa svolgere un
ruolo molto importante nella didattica psichiatrica.
Bibliografia
1
Tarsitani L, Brugnoli R, Pancheri P. Cinematic clinical psychiatric cases in graduate medical education. Med Educ
2004;38:1187.
2
Tarsitani L, Pancheri P. Cinema e psichiatri: dagli oracoli al
cannibalismo. Ital J Psychopathol 2004;10:3-10.
107
Psyco Cult: la rappresentazione della
psicopatologia nei B-movie e nel cinema di
genere
I. Senatore
Dipartimento di Neuroscienze, Università “Federico II” di
Napoli
Edwige Fenech, Serena Grandi e Florinda Bolkan che soffrono di incubi e di allucinazioni, Barbara Bouchet ed Ornella Muti ricoverate in cliniche psichiatriche.
Sono queste alcune delle sorprese in chi s’imbatte nei B movie e nel cinema di genere. Ma cosa intende veramente per
“genere”? Generalmente, vengono così definite alcune pellicole caratterizzate da una serie di tratti comuni, sia da un
punto di vista narrativo che formale, facilmente riconoscibili dal pubblico. In un western deve sbucare un cowboy, in un
musical i protagonisti devono cantare e ballare, in un giallo
non può mancare un cadavere. È pur vero che con il passare degli anni queste “guide”, questo patto finizionale che lega il regista allo spettatore, sono sempre più venute meno,
al punto che si fa fatica a classificare certi film. Sette spose
per sette sorelle è un musical o un western, Blade runner un
film di fantascienza o un post-noir? I cinefili più incalliti
potrebbero obiettare che l’adesione o meno ad un genere
non è data tanto da un certo tipo di ambientazione ma da una
precisa scelta stilistica del regista. In un western non possono mancare i campi lunghi che inquadrano i silenziosi e
maestosi paesaggi del selvaggio West, un noir non può essere girato in pieno giorno. Mi si potrebbe, infine, obiettare
che nell’era del postmoderno dove la parola d’ordine è
“contaminazione”, che senso ha ancora parlare di genere?
Insidie a parte, non si possono non rivalutare cineasti nostrani come Francesco Barilli, Alberto De Martino, Fernando Di Leo, Riccardo Freda, Sergio Martino, Brunello Rondi, che seppur considerati registi di Serie B, hanno descritto
deliri, allucinazioni, incubi e stati d’angoscia meglio di tanti altri registi più blasonati. Il blob cinematografico, della
durata di dieci minuti proporrà un breve excursus sul tema.
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MONTEMARIO
S44 - Salienza (salience), motivazione e antipsicotici:
dalla psicopatologia alla molecole
MODERATORI
A. de Bartolomeis, A. Rossi
Ironia e sintomi psicotici nella Schizofrenia
*
P. Stratta , I. Riccardi, D. Mirabilio, S. Di Tommaso,
M. Aniello, A. Rossi**
U.O. di Psicologia Clinica, “Villa Serena”, Città S. Angelo
(PE); * Dipartimento di Salute Mentale, ASL L’Aquila;
**
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università dell’Aquila
Introduzione: le persone affette da disturbi schizofrenici
mostrano sintomi eterogenei (es. deliri, allucinazioni, apatia, disorganizzazione cognitiva) che potrebbero riconoscere differenti substrati disfunzionali 1. Un recente filone
di ricerca riporta che questi pazienti hanno difficoltà nell’apprezzare l’ironia, che potrebbe essere collegata ad una
compromessa Teoria della Mente (ToM) 2. L’apprezzamento dell’ironia esige la capacità di comprensione della
intenzionalità di primo ordine, cioè ciò che l’interlocutore
intende, per evitare di interpretare l’ironia in maniera erronea, cosi come una intenzionalità di secondo ordine riguardo le convinzioni di colui che parla rispetto alle credenze di chi ascolta per evitare di interpretare l’ironia come una menzogna.
Metodologia: scopo del nostro studio è valutare indagare la
capacità di apprezzare l’ironia e di ToM in un campione di
25 soggetti affetti da Disturbo Schizofrenico confrontato
con un gruppo di controllo, e la loro relazione con la sintomatologia valutata con la Positive and Negative Symptoms
Scale (PANSS).
Abbiamo utilizzato delle vignette umoristiche secondo il paradigma di Marjoram et al. 3. Sono state utilizzate due serie
di vignette: una serie che non richiede capacità di ToM per
comprendere l’ironia contenuta, ed una serie ToM in cui
viene richiesta la comprensione degli stati mentali dei personaggi (false credenze e inganni).
Risultati: il campione dei soggetti affetti da Disturbo Schizofrenico hanno una performance peggiore in entrambe le
condizioni rispetto al gruppo di soggetti di controllo. Il punteggio che indica la capacità di apprezzare l’ironia è significativamente correlata con il punteggio dei sintomi positivi
della PANSS, mentre la difficoltà di comprensione delle vignette con il punteggio del cluster cognitivo.
Conclusioni: i nostri dati evidenziano una compromissione delle capacità di ToM, che limita l’apprezzamento dell’ironia, correlata a specifiche componenti sintomatologiche. L’attribuzione del significato “psicotico” potrebbe essere parallela alla mancanza di capacità nella lettura “ironica”.
Bibliografia
1
Stratta, et al. BMC Psychiatry in press.
2
Langdon & Coltheart. Psychiatry Res 2004;125:9-20.
3
Marjoram, et al. BMC Psychiatry 2005:5-12.
Salienza e abuso di sostanze: implicazioni
molecolari per le psicosi dell’uomo
G. Marchese, G.L. Casu*, L. Pani*
Neuroscienze-PharmaNess S.c.ar.l., Cagliari; * Istituto di
Neurogenetica e Neurofarmacologia, CNR, Cagliari
Introduzione: recenti teorie mettono in relazione lo sviluppo delle psicosi con il tentativo, da parte del paziente, di razionalizzare stimoli derivanti da un disturbo nell’attribuzione della salienza ad eventi esterni o interni. Lo sviluppo di
uno stato di salienza aberrante deriverebbe dalla disregolazione del sistema dopaminergico indotta dall’assunzione di
sostanze d’abuso o dalla patologia psichiatrica. In questo
quadro, l’azione anti-dopaminergica degli antipsicotici produrrebbe una riduzione della salienza motivazionale portando così alla remissione dei sintomi psicotici.
Sebbene questa teoria possa spiegare i meccanismi di base
che portano all’insorgenza e all’estinzione dei sintomi psicotici, tuttavia, il ruolo della componente cognitiva, intesa come
capacità di rielaborare degli eventi salienti, risulta sottostimata. Esiste, infatti, la possibilità che lo sviluppo della psicosi
avvenga quando un’alterazione della salienza si accompagna
ad una perturbazione dei sistemi cognitivi ed, in ultima analisi, all’incapacità di razionalizzare correttamente gli stimoli.
Metodologia: allo scopo di verificare quest’ipotesi nel presente studio è stata condotta un’analisi dei livelli di attivazione di un fattore di trascrizione (CREB) notoriamente implicato nei processi cognitivi (apprendimento, memoria,
plasticità neuronale), in animali da laboratorio trattati con
amfetamina e/o con antipsicotici tipici (aloperidolo) o atipici (risperidone, olanzapina, quetiapina e clozapina). Negli
stessi gruppi sperimentali è stata analizzata l’attività locomotoria come indice di agitazione psicomotoria.
Risultati: l’amfetamina ha prodotto un’elevata attivazione
del fattore di trascrizione CREB nella corteccia pre-frontale
di ratto. La co-somministrazione di aloperidolo, pur riducendo l’iperattività locomotoria indotta da amfetamina, non
ha antagonizzato la stimolazione di CREB. Al contrario la
co-somministrazione degli antipsicotici atipici ha bloccato
l’effetto dell’amfetamina sia sull’attività locomotoria che
sull’attivazione di CREB in corteccia pre-frontale.
Conclusioni: l’amfetamina produce nell’uomo e nell’animale da laboratorio una spiccata alterazione della salienza,
portando (nell’uomo) all’insorgenza di sintomi psicotici. Lo
studio del fattore di trascrizione CREB dopo somministrazione di amfetamina, indica che l’alterazione della salienza
può essere accompagnata da una modificazione dei sistemi
cognitivi. Simili alterazioni della sfera cognitiva sono antagonizzate degli antipsicotici atipici, ma non dall’aloperidolo, indicando probabilmente che la superiorità degli antipsicotici atipici sulla componente cognitiva può riflettersi anche nel controllo dei sintomi psicotici.
108
SIMPOSI TEMATICI
Basi molecolari della salienza e psicosi:
possibilità sperimentali o delirio?
A. de Bartolomeis, C. Dell’Aversana, C. Tomasetti
Laboratorio di Psichiatria Molecolare e Psicofarmacoterapia, Dipartimento di Neuroscienze, Università “Federico
II” di Napoli
Evidenze precliniche e cliniche indicano la regolazione dei
livelli cortico-sottocorticali di dopamina come principale
anche se non esclusivo meccanismo neurotrasmettitoriale
responsabile dei fenomeni di attribuzione motivazionale
ad eventi esterni (salience) correlabile all’emergenza di
psicosi.
Nonostante multiple siano le prove di tale convergenza funzionale sul sistema dopaminergico rimangono poco esplorati i determinati molecolari correlati alla dopamina e potenzialmente implicati nella “propagazione” degli effetti iniziati o modulati dalla dopamina stessa 1.
Numerose molecole correlate alla neurotrasmissione dopaminergica e relativi sistemi di trasduzione del segnale sono
stati implicati nei meccanismi molecolari che sottenderebbero o che potrebbero correlarsi alla fisiopatologia alla base
dei fenomeni di salience nell’emergenza delle psicosi. In
particolare un potente impeto alla scoperta dei meccanismi
neurobiologici della salience è derivato dall’osservazione
che i fenomeni di attribuzione motivazionale presentano
sotto il profilo teleologico, comportamentale e neurochimico una rilevante sovrapposizione (ma non necessariamente
coincidenza) con la fenomenica dell’abuso e dipendenza di
sostanze.
DARP-32 (Dopamine- and cAMP-Regulated Phosphoprotein of 32 kDa), DIRP (Dopamine D2 receptor interacting
protein), Calcyon (a D1 intracting protein) costituiscono
esempi di molecole putativamente implicate in tali processi
e di cui esistono prove anche su base neurochimica in tessuto post mortem di pazienti schizofrenici.
Nella ricerca dei meccanismi molecolari potenzialmente
coinvolti nella fisiopatologia della salience e nella traslazione degli stessi in elementi significativamente utili per la fisiopatologia, un ruolo specifico sembra essere rivestito dalla famiglia di proteine denominate Homer, localizzate nella
densità post-sinaptica glutammatergica e delle quali si riconoscono multiple forme costitutive (Homer1b/c, Homer2,
Homer3) ed una forma inducibile (Homer1a) 2. Le forme
costitutive di Homer regolano la distribuzione dei recettori
metabotropi del glutammato e, costituendo un ponte molecolare intracitoplasmatico, sono in grado di modulare multiple vie di trasduzione del segnale cellulare, tra le quali
quelle mediate dal calcio e dal fosfatidilinositolo.
L’esposizione a condizioni di “novelty” e la somministrazione di composti in grado di modulare il sistema dopaminergico inducono, nell’animale da esperimento, l’attivazione della forma inducibile (Homer1a), che compete con le
forme costitutive, modificando il signaling intracellulare da
queste sostenuto (riduzione del pool di Ca+2 citosolico). Tali modificazioni sono paradossalmente sostenute da agonisti
e antagonisti dopaminergici, probabilmente attraverso l’azione su subtipi recettoriali diversi
Questa classe di proteine e i relativi meccanismi di trasduzione del segnale costituiscono un sistema multifunzionale
all’intersezione tra dopamina e glutammato possibilmente
109
coinvolto nella fisiopatologia dell’abuso di sostanze e nella
risposta a condizioni di novelty.
Tale visione è sostenuta dalla recente osservazione di modificazioni comportamentali, che evocano quelle di esposizione a sostanze dopamino-mimetiche, in animali ingegnerizzati per delezione funzionale di una delle isoforme (Homer2) 3. La possibilità che tale sistema di trasduzione del segnale possa essere implicati nella regolazione dei meccanismi di dopamine dependent salient issue putativamente è in
parte confermato dalla dimostrazione di un diretto coinvolgimento di tale sistema trasduzionale in modelli animali di
psicosi e nel loro trattamento 4 5. In particolare l’induzione
di Homer da parte di antipsicotici in aree cortico-corticosottocorticali appare strettamente correlata al grado di occupancy recettoriale D2 degli stessi composti suggerendo l’esistenza di un sistema trasduzionale multimodale in grado di
intervenire nella risposta alle condizioni di novelty e di
informazioni con elevato contenuto di salience e di essere al
contempo coinvolto nei meccanismi di “riduzione” della
neurotrasmissione (dopaminergica) maggiormente responsabile nello stabilire scenario per l’emergenza dei sintomi
psicotici.
Bibliografia
1
Kapur S, Mizrahi R, Li M. Schizophr Res 2005;79:59-68.
2
de Bartolomeis A, Iasevoli F. Psychopharmacol Bull
2003;37:51-83.
3
Szumlinski KK, Lominac KD, Oleson EB, Walker JK, Mason A,
Dehoff MH, et al. Homer2 is necessary for EtOH-induced neuroplasticity. J Neurosci 2005;25:7054-61.
4
de Bartolomeis A, Aloj L, Ambesi-Impiombato A, Bravi D, Caraco C, Muscettola G, et al. Brain Res Mol Brain Res
2002;98:124-9.
5
Szumlinski KK, Lominac KD, Kleschen MJ, Oleson EB, Dehoff
MH, Schwartz MK, et al. Genes Brain Behav 2005;4:273-88.
Identificazione dei network regolativi della
risposta dopaminergica
A. Ambesi-Impiombato
Laboratorio di Psichiatria Molecolare Dipartimento di
Neuroscienze, Università “Federico II” di Napoli, Telethon
Institute of Genetics and Medicine (TIGEM)
Modelli di manipolazione dopaminergica possono essere
impiegati per lo studio dei geni responsivi a farmaci antipsicotici nelle aree corticali e sottocorticali in animali da laboratorio. È stato recentemente proposto che la dopamina
abbia un ruolo centrale nel mediare la “salienza” degli stimoli ambientali e delle rappresentazioni interne. In uno stato di iperdopaminergia, caratteristico degli episodi psicotici,
vi sarebbe un’assegnazione aberrante di “salienza” delle
esperienze soggettive. Lo scopo di questo studio, è quello di
caratterizzare un gruppo di geni collettivamente chiamati
ANIA che rispondono a manipolazioni dopaminergiche dal
punto di vista trascrizionale. Questo gruppo di geni, oltre a
suggerire nuovi target di trattamenti farmacologici, potrebbe sottendere i meccanismi di aberrante assegnazione di
“salienza” nei disturbi psicotici.
Metodologia: dati di letteratura e del genoma di topo sono
stati analizzati per ottenere informazioni sulla regolazione e
della funzione dei geni ANIA. Il profilo regolativo di cia-
SIMPOSI TEMATICI
scun gene ANIA è stato caratterizzato in base all’identificazione dei siti di binding per fattori di trascrizione a livello
del promotore, attraverso un algoritmo di bioinformatica appositamente ideato. Successivamente, sono stati ricercati
nell’intero genoma altri geni con profilo regolativo simile.
Risultati: sono stati identificati i fattori di trascrizione che potenzialmente possono regolare i geni ANIA. Inoltre tra i geni
il cui profilo di regolazione è risultato maggiormente correlato a quello del gruppo di geni ANIA, grazie ad un’analisi di
Gene Ontology è stata riscontrata una prevalenza di geni implicati in meccanismi fisiologici e del metabolismo cellulare.
Conclusioni: i fattori di trascrizione identificati e la lista dei
geni il cui profilo di regolazione è risultato maggiormente
correlato a quello del gruppo di geni ANIA, rappresenta un
primo passo verso la caratterizzazione del network regolativo implicati nella fisiopatologia delle psicosi, anche in relazione al ruolo della dopamina nell’assegnazione della “salienza” e nella risposta ai farmaci antipsicotici. Nuovi studi
saranno necessari sia per valicare le predizioni computazionali, sia per meglio caratterizzare il network regolativo utilizzando dati di espressione genica cerebrale in modelli animali in seguito a perturbazioni dopaminergiche.
23 FEBBRAIO 2005 – ORE 16.00-17.30
SALA LEONARDO
S45 - Modificazioni cerebrali e psicoterapia
MODERATORI
A. De Pascale, A. Berthoz
Risonanza Magnetica e psicofarmacologia:
nuove prospettive
G. Bersani
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università “La Sapienza” di Roma
L’impiego della Risonanza Magnetica Cerebrale è stato introdotto più tardivamente nello studio dei disturbi psichiatrici rispetto a quanto avvenuto per altre patologie cerebrali.
Tuttavia negli ultimi 20 anni il numero di indagini condotte
con tale metodica nei pazienti psichiatrici, in particolare
quelli affetti da psicosi, è stato enorme ed una serie di dati
ricavati da tali indagini costituisce al momento attuale, nonostante un certo grado di persistente disomogeneità, un
corpo di acquisizioni non più discusse per quanto attiene le
implicazioni cerebrali nelle psicosi, in particolare nella
Schizofrenia. Come è ampiamente noto, tali acquisizioni si
riferiscono alla rilevazione di discordanze statistiche, in popolazioni di pazienti confrontate con popolazioni di soggetti sani, rispetto alle misure lineari o volumetriche di alcune
regioni cerebrali, quali, più frequentemente, III e IV ventricolo cerebrale, corteccia prefrontale e temporale, ippocampo-amigdala, corteccia cingolata, corpo calloso, talamo, nuclei della base. Si tratta comunque, per sua definizione, di
un dato statico, in quanto ottenuto con tecnica di neuroimaging semplice, ma il cui significato clinico è stato anche esso prevalentemente interpretato in senso statico, cioè nei
termini di individuazione di aspetti morfologici cerebrali
strutturali, scarsamente evolutivi e comunque connessi in
modo non definito con il funzionamento cerebrale, sia normale che associato alla psicopatologia. In particolare, il rapporto tra le alterazioni cerebrali riscontrabili alla RMN ed
indicazione o risposta ai trattamenti farmacologici è costantemente apparso assolutamente indiretto o del tutto non
orientativo. I pochi dati che suggerivano una possibile maggiore incisività terapeutica per i farmaci antipsicotici nei pazienti con Schizofrenia in rapporto, ad esempio, ad aspetti
più evidenti di atrofia corticale (prefrontale nei soggetti con
prevalente quadro negativo, temporale nei soggetti con pre-
valente quadro positivo) sono risultati il più delle volte non
significativi e comunque non adeguatamente confermati in
indagini replicate.
La situazione appare notevolmente modificata con la più recente introduzione di tecniche di neuroimaging funzionale,
in grado cioè di visualizzare, attraverso diverse metodiche,
il livello di attivazione funzionale di specifiche regioni cerebrali. I dati, ormai abbondanti, relativi all’impiego della
Risonanza Magnetica Nucleare funzionale (RMNf) nei pazienti con psicosi hanno fornito informazioni precedentemente non disponibili circa il possibile rapporto tra specifici aspetti del quadro psicopatologico e diversa distribuzione
dei livelli regionali di maggiore attivazione cerebrale. I risultati si riferiscono sia allo studio dell’attività di diversi
centri cerebrali, ad esempio le aree della corteccia temporale o del complesso amigdala-ippocampo, in pazienti con
prevalenti profili sintomatici (ad esempio, presenza di allucinazioni uditive), sia allo studio della localizzazione della
risposta cerebrale a stimoli o compiti mentali strutturati (ad
esempio, attivazione della corteccia cingolata durante esecuzione di test cognitivi, attivazione dell’amigdala in risposta a specifici stimoli emotivi, etc.).
È evidente come tale ultimo campo di studio possa rappresentare un terreno di applicazione sia sperimentale che clinica per conoscenze relative all’impiego dei trattamenti farmacologici. I modelli relativi all’azione di questi, infatti, sono per lo più riferiti al loro effetto a livello sinaptico, con
scarsa possibilità di localizzazione della sede anatomica della loro azione. Le tecniche di neuroimaging funzionale, al
contrario, consentono una visualizzazione delle modifiche
indotte nella attivazione cerebrale regionale dai trattamenti
farmacologici, fornendo in tal modo delle dirette indicazioni circa la sede della loro azione e quindi circa la sede delle
alterazioni neurotrasmettitoriali in qualche modo associate
alla sintomatologia. Si tratta di osservazioni sperimentali
ancora solo parzialmente applicabili alla clinica, ma che offrono comunque già allo stato attuale un contributo conoscitivo rilevante al modello della plasticità cerebrale, cioè
della capacità delle strutture cerebrali di modificare il loro
livello funzionale e la loro stessa struttura in rapporto alle ri-
110
SIMPOSI TEMATICI
chieste funzionali e di adattamento. Le diverse tipologie di
risposta ai trattamenti farmacologici, in particolare quelli
con farmaci antipsicotici, così come inizialmente evidenziabili con la RMNf consentono di intravedere una prossima
applicazione della tecnica alla predittività di risposta terapeutica per farmaci ad azione diversificata in pazienti con
quadri psicopatologici differenziati.
Psicoterapia e neuro immagine: stato
dell’arte ed ipotesi per un protocollo di
ricerca ed intervento
A. De Pascale
Università “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica
Le evidenze cliniche, sostenute da una meta-analisi degli
studi controllati che si avvalgono delle moderne tecniche di
neuroimmagine, avvalorano ormai da più parti, l’ipotesi che
la psicoterapia modifichi le funzioni cerebrali altrettanto ed
in modo specifico quanto i farmaci. Questa evidenza porta
con sé diverse conseguenze: prima fra tutte la possibilità di
gettare un ponte tra ricerca farmacologia e psicoterapia in
modo tale che possano finalmente agire in sinergia piuttosto
che in contrapposizione, ma in conseguenza di ciò anche
quella di discriminare le metodologie – e perché no anche le
teorie – psicologiche più attendibili ed efficaci. Ancora, si
evidenzia con le attuali ricerche, l’effetto neuronanatomico
funzionale di ogni relazione, e con ciò l’inevitabile primato
di quelle impostazioni teoriche che hanno alla base una epistemologia sistemica e relazionale che riconoscano alla
mente le sue caratteristiche evolutive, interattive e complesse e che guardino da tale punto di vista ai diversi livelli della mente, da quello più strettamente biologico a quello più
astratto emotivo, cognitivo, psicologico. Notevoli sono inoltre le conseguenze per la pratica clinica: siamo vicini alla
possibilità di direzionare la ricerca farmacologia verso
obiettivi sempre più specifici, differenziando ad esempio
l’ansia del fobico da quella del depresso, ma pure di immaginare la prescrizione farmacologia non solo in base alla patologia ma alla qualità della relazione che il terapeuta – medico o psicoterapista – è in grado di costruire con il suo paziente.
Bibliografia
Roffman JL, et al. Neuroimaging and functional neuroanatomy of
psychotherapy Psychol Med 2005;35:1385-98.
Etkin A et al. Toward a neurobiology of psychotherapy: basic science and clinical applications. J Neuropsychiatry Clin Neurosci
2005;17:145-58.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA VERDE
S46 - Differenze di genere e psicopatologia
MODERATORI
L. Dell’Osso, L. Bellodi
4-6
Differenze di genere nei disturbi d’ansia:
correlati neurobiologici
C. Martini E. Da Pozzo, L. Trincavelli, C. Carmassi,
M. Carlini, L. Dell’Osso
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa
Negli ultimi anni numerose patologie, fra cui quelle psichiatriche, hanno mostrato una differente incidenza, gravità e risposta al trattamento in relazione al genere. Nei disturbi d’ansia in particolare è stata evidenziata una prevalenza del genere femminile di circa il 70%. Nel Disturbo
di Panico i sintomi di ansia risultano prevalenti nelle femmine mentre i maschi mostrano il più alto tasso d’uso di
sostanze illecite 1. Relativamente al disordine ossessivo
compulsivo, i soggetti maschi presentano un esordio precoce della patologia e differenti patterns di sintomatologia
e comorbidità, rispetto alle femmine con disfunzioni della
corteccia fronto-orbitale 2. Infine, per quanto riguarda il disturbo post traumatico da stress, studi epidemiologici hanno dimostrato una maggiore incidenza femminile, con alti
rischi di comorbidità 3.
Alla base di queste diversità vengono annoverate sia differenze nella citoarchitettura e nella organizzazione cerebrale
111
che gli effetti immediati dei diversi livelli ormonali fra i
due sessi 7.
Infatti nei disturbi d’ansia i sistemi coinvolti nell’elaborazione emozionale, come l’amigdala, captano, con grado e
modalità diverse, una situazione di minaccia e influenzano
così i contenuti e i processi della corteccia pre-frontale e
dell’ippocampo. In seguito a stimolazione emotiva, a livello dell’amigdala, è stata evidenziata l’attivazione dei
nuclei centrali e mediali e zone limitrofe nelle donne ed
dei nuclei baso-laterali negli uomini. L’analisi delle connessioni fra questi nuclei ed altre regioni del cervello evidenzia un’attivazione più “viscerale”, ipotalamica, nelle
donne ed una più “cognitiva-motoria”, striatale e corticale,
negli uomini 8. Inoltre, un dimorfismo nell’attivazione dell’amigdala può riflettere strategie cognitive diverse nei
due sessi 9.
Anche la valutazione della distribuzione tissutale metaboliti quali N-acetilaspartato, colina, glutammato, glutammina,
GABA, inositolo, glucosio e lattato come pure l’espressione di sottotipi recettoriali della serotonina ha mostrato una
sostanziale eterogeneità fra i due sessi 10 11. Infine gli effetti
degli steroidi gonadici possono essere alla base dei dimorfismi sessuali riportati nella regolazione degli stati affettivi,
nella risposta agli psicofarmaci e nell’attivazione dell’asse
HPA 12.
SIMPOSI TEMATICI
Nel nostro laboratorio sono in corso studi atti ad investigare la relazione fra PTSD e il recettore periferico delle benzodiazepine (PBR), un complesso proteico importante nella
la sintesi la sintesi dei neurosteroidi. In numerose psicopatologie caratterizzate da una dimensione d’ansia è stata evidenziata un’alterazione nell’espressione di tale recettore, rispecchiata da alterati livelli dei neurosteroidi, modulatori
endogeni del recettore GABA A.
I nostri risultati preliminari mostrano un decremento significativo nella densità del PBR, indagata in preparati mitocondriali di linfociti isolati da pazienti PTSD, con una significatività leggermente superiore per i soggetti femmina
rispetto ai maschi (p = 0,0211 per le femmine; p = 0,0307
per i maschi).
Bibliografia
1
Kecskes I. Eur Psychiatry 2002;17:29-32.
2
Zohar J. Neurosci Biobehav Rev 1999;23:845.
3
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Rabinowicz T. J Child Neurol 1999;14:98-107.
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Schlaepfer TA. Psychiatry Res 1995;61:129-35.
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Gur RC. J Neurosci 1999;19:4065-72.
7
Ishunina TA. J Clin Endocrinol Metab 1999:84:4637-44.
8
Sherry DF. Brain Behav Evol 1989;34:308-17.
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Cahill L. Neurobiol Learn Mem 2001;75:1-9.
10
Grachev ID. Hum Brain Mapp 2000;11:261-72.
11
Berton O. Neuroscience 1999;92:327-41.
12
Jasnow AM. Horm Behav 2005 in press.
Differenze di genere nel DOC: dalla ricerca
alla clinica
L. Bellodi, MC. Cavallini
Università “Vita Salute San Raffaele” San Raffaele Turro,
Milano
Esistono evidenze che il Disturbo Ossessivo Compulsivo
(DOC) sia una entità eterogenea e differenze di presentazione clinica legate al sesso possano contribuire a tale eterogeneità. Dal punto di vista sintomatologico gli uomini presenterebbero più frequentemente rispetto alle donne ossessioni
a contenuto sessuale, ordine e simmetria, nelle donne prevalgono ossessioni di contaminazione e compulsioni di lavaggio, benché queste osservazioni non siano concordi in
tutti gli studi.
L’esordio del disturbo sarebbe più precoce nei maschi rispetto alle femmine e più frequentemente associato alla presenza di tic nervosi. Considerando inoltre lo spettro DOC sia i
Disturbi della Condotta Alimentare 1, con maggior prevalenza nel sesso femminile, che la sindrome di Tourette, con
maggior prevalenza nel sesso maschile, risultano spesso associati al DOC e possono rappresentare i due estremi della
differenza di genere dell’espressione della suscettibilità al
DOC. Una diversa suscettibilità biologica e genetica potrebbe caratterizzare lo sviluppo del disturbo nei due sessi.
Negli studi familiari modelli di trasmissione genetica diversa descrivono la distribuzione di malattia nelle famiglie di
probandi con DOC di sesso diverso. Dal punto di vista molecolare un fenomeno di dimorfismo sessuale è stato osservato essere associato alla suscettibilità al DOC e a una variante allelica dell’enzima catecol-orto-metiltransferasi
(COMT): la variante a bassa attività enzimatica è più fre-
quente nei maschi con DOC in alcuni campioni di pazienti.
Anche una variante dell’enzima monoaminossidasi A
(MAO-A) risulta associata nel sesso maschile alla suscettibilità per il DOC. Questi dati tuttavia non sono stato replicato nel nostro campione di pazienti.
Infine una differenza di genere può giustificare le diversità
osservate nella risposta al trattamento farmacologico. Le pazienti affette da DOC rispondono meno frequentemente dei
soggetti maschi al challenge farmacologico con clomipramina, benché risultino invece migliori responder ad una terapia
d’associazione clomipramina e fluvoxamina, questo probabilmente in relazione ad una differenza nel metabolismo farmacologico (minor idrossilazione di clomipramina) 2.
Bibliografia
1
Bellodi L, Cavallini MC, Bertelli S, Chiapparino D, Riboldi C,
Smeraldi E. Morbidity risk for obsessive-compulsive spectrum
disorders in first-degree relatives of patients with eating disorders. Am J Psychiatry 2001;158:563-9.
2
Mundo E, Bareggi SR, Pirola R, Bellodi L. Effect of acute intravenous clomipramine and antiobsessional response to proserotonergic drugs: is gender a predictive variable. Biol Psychiatry 1999;45:290-4.
Disturbo d’ansia di separazione dell’adulto:
un’entità clinica distinta?
S. Pini, M. Abelli, M. Muti, C. Gesi, P. Rucci, G.B. Cassano, K.M. Shear*
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa; * Columbia University,
New York
Razionale: il Disturbo d’Ansia di Separazione (SEPAD)
dell’infanzia è un disturbo psichiatrico ben riconosciuto.
Studi epidemiologici recenti indicano che il SEPAD è più
frequente nella popolazione adulta che in quella infantile.
Tuttavia, non è stata rivolta particolare attenzione allo studio del SEPAD nell’adulto, soprattutto in quanto non è chiaro se esso costituisca una condizione psicopatologica dai
confini diagnostici ben distinti. In particolare, resta da chiarire se la presenza di SEPAD in età adulta sia semplicemente una manifestazione di attaccamento ansioso, o una forma
di agorafobia o un disturbo psichiatrico contraddistinto da
specifici correlati clinici e terapeutici. Il presente studio ha
come obiettivo quello di esaminare questi quesiti.
Metodi: 141 pazienti adulti con diagnosi di Disturbo di Panico sono stati selezionati presso gli ambulatori della Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa. La diagnosi di SEPAD è stata effettuata utilizzando tre questionari: Intervista
Clinica Strutturata per l’Ansia di Separazione (SCI-SAS),
Separation Anxiety Symptoms Inventory (SASI) e Adult Separation Anxiety Questionnaire (ASA-27). Lo stile di attaccamento è stato valutato mediante il Relationship Questionnaire e l’Adult Attachment Questionnaire. L’agorafobia è
stata indagata mediante il PAS-SR. La diagnosi principale
ed eventuali diagnosi di Asse I in comorbidità sono state indagate mediante la SCID-I. Le scale cliniche impiegate sono state la PDSS, HAM-D, Mania Rating Scale e SF-36 per
la qualità della vita.
112
SIMPOSI TEMATICI
Risultati: la diagnosi di SEPAD in età adulta è stata riscontrata nel 49.5% del nostro campione ed è risultata più frequente nelle femmine [52/91 (57,1%)] che nei maschi
[18/50 (36%)] (OR = 2,4, 95% CI 1,17-4,83). I pazienti con
tale diagnosi hanno evidenziato una maggior gravità dei sintomi del Disturbo di Panico e peggiore qualità della vita rispetto ai soggetti senza SEPAD. L’analisi fattoriale ha mostrato che il SEPAD dell’adulto è una condizione ben distinta dall’agorafobia. Inoltre, il SEPAD è risultato associato ad uno stile di attaccamento di tipo ansioso.
Conclusioni: i risultati di questo studio concordano con
quelli emersi dal National Comorbidity Survery-Replicated
americano nell’evidenziare che il SEPAD dell’adulto è una
condizione clinica frequente, distinta dall’agorafobia ed associata ad importanti implicazioni cliniche. I risultati saranno inoltre discussi alla luce delle differenze di genere evidenziate.
Bibliografia
1
Pini S, Abelli M, Mauri M, Muti M, Iazzetta P, Banti S, et al. Clinical correlates and significance of separation anxiety in patients with bipolar disorder. Bipolar Disord 2005;7:370-6.
2
Pini S, Martini C, Abelli M, Muti M, Gesi C, Montali M, et al.
Peripheral-type benzodiazepine receptor binding sites in platelets of patients with panic disorder associated to separation
anxiety symptoms. Psychopharmacology (Berl) 2005;181:40711.
Spettro post-traumatico e differenze di
genere
C. Carmassi, A. Ciapparelli, R. Paggini, L. Dell’Osso
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia
e Biotecnologie, Università di Pisa
Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) è un Disturbo d’Ansia altamente invalidante la cui insorgenza è caratteristicamente correlata all’esperienza di eventi traumatici
di gravità estrema. La prevalenza lifetime riportata dai diversi studi nella popolazione generale è molto variabile,
prevalentemente in relazione alla diversa esposizione agli
eventi traumatici dei vari gruppi di popolazione, oltre che
ai problemi metodologici intrinseci collegati alla diagnosi
di questo disturbo. Studi epidemiologici riportano valori
che oscillano tra lo 0,5-1% (Heltzer et al., 1987) e il 12,3%
(Kessler et al., 1995), tuttavia questi concordano nell’evidenziare una prevalenza circa doppia del disturbo nel genere femminile, nonostante una tendenza all’esposizione
ad eventi potenzialmente traumatici nettamente inferiore
rispetto al genere maschile. Il genere femminile sembra
non solo correlato ad una maggiore probabilità di sviluppare PTSD ma ad una maggiore tendenza alla cronicizzazione.
Tali dati hanno suggerito la presenza di una maggiore vulnerabilità sesso correlata allo sviluppo di PTSD, stimolando recentemente lo sviluppo di studi tesi all’approfondimento di eventuali differenze di genere nelle manifestazioni cliniche del disturbo e nelle caratteristiche di comorbidità. I pochi studi presenti riportano risultati talora discordanti: Zlotnick et al., (2001) evidenziano nelle donne
con PTSD una tendenza ad una maggiore frequenza di sintomi di rievocazione e dissociativi peri-traumatici, oltre ad
113
una maggiore comorbidità per Disturbo di Panico e depressione; Fullerton et al., (2001) non riscontrano differenze di genere nei sintomi di rievocazione ma una prevalenza del genere femminile nei sintomi di evitamento/numbing e di arousal.
Obiettivo del presente studio, condotto presso la Clinica
Psichiatrica 2° dell’Università di Pisa, è quello di esplorare
le caratteristiche cliniche di un campione di soggetti con
PTSD rispetto ad un gruppo di controlli sani, con particolare attenzione alla presenza di differenze di genere. I pazienti sono stati intervistati, oltre che mediante SCID e Impact
of Event Scale (IES), con un’intervista clinica strutturata
(SCI-TAL, realizzata all’interno dello “Spectrum Project”,
Cassano, Dell’Osso, Endicott, Frank, Maser, Mauri, Shear),
composta da 116 domande articolate in 9 Domini, tesa ad
indagare, oltre ad uno spettro più ampio di eventi potenzialmente traumatici rispetto a quelli estremamente gravi riportati dal DSM-IV, i sintomi post-traumatici sia tipici che atipici o subsindromici, gli aspetti comportamentali e personologici correlati al disturbo di Asse I, secondo il concetto di
spettro. Studi recenti evidenziano infatti come, l’inclusione
tra i traumi di eventi non previsti nel DSM-IV-TR, come ad
esempio incidenti automobilistici, furti in casa o scippi, la
perdita improvvisa e inaspettata di una persona cara, implichi un sensibile aumento della prevalenza del disturbo. Inoltre un ulteriore aumento di prevalenza si osserva con l’inclusione di un sottogruppo (3,7% circa) della popolazione
generale che, sottoposta ad traumi di gravità estrema (DSMIV-TR), manifesta forme sub-sindromiche di PTSD. Alla luce di questi dati emerge quindi la necessità di esplorare questa patologia con un approccio multidimensionale.
Lo SCI-TAL include, oltre all’esplorazione di eventi rilevanti, sebbene non “oggettivi estremi”, anche di lutti o perdite che il paziente possa aver subito. Un numero crescente
di studi ha sollevato dubbi sull’autonomia nosografia della
categoria del lutto complicato (o patologico o traumatico)
(LC), in particolare se essa possa essere considerata un’entità a se stante, indipendente dalla diagnosi di PTSD, o se
rientri nella categoria delle reazioni ad eventi di vita traumatici, e quindi nel PTSD. Disponiamo, ad oggi, di pochi
dati sulle differenze di genere in tale disturbo. Il nostro studio indaga anche un campione di pazienti con LC, ponendo
particolare attenzione alle differenze di genere.
I risultati di questo studio, che ha coinvolto complessivamente un numero di 120 soggetti, confermano sostanzialmente i dati presenti nella letteratura che evidenziano una
tendenza alla somiglianza, piuttosto che alla diversità di genere, nelle manifestazioni cliniche del PTSD. Nei pazienti
con LC le femmine presentano punteggi significativamente superiori rispetto ai maschi sia per quanto riguarda il dominio sintomi intrusivi della IES (p < 0,005), che il punteggio totale della IES (p < 0,05) e il punteggio del dominio “Comportamenti Disadattativi” dello SCI-TAL (p <
0,05). Emergono invece differenze di genere nei controlli:
sia nel numero di “Eventi potenzialmente traumatici” (p <
0,05), che nei domini “Arousal” e “Rievocazione” dello
SCI-TAL.
Questo studio conferma sostanzialmente i dati della letteratura, suggerendo che le manifestazioni del PTSD, tra pazienti di sesso maschile e femminile, sono piuttosto simili
che differenti. Tali differenze appaiono però più evidenti nei
pazienti con lutto complicato, in particolare proprio per
quanto riguarda sintomi intrusivi e i sintomi totali da stress,
SIMPOSI TEMATICI
caratteristicamente evidenziati in letteratura in pazienti con
PTSD, avvalorando l’ipotesi di un appartenenza nosografia
di tale disturbo alle reazioni da stress. La presenza inoltre di
differenze di genere, analoghe a quelle riportate da alcuni
autori nei pazienti con PTSD, nella sintomatologia riferita
dalla popolazione di controllo, fornisce un’importante spunto di approfondimento per l’esplorazione delle forme subsindromiche in relazione alle differenze di genere.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA NUREYEV
S47 - Attuali prospettive nel trattamento dei Disturbi
della Condotta Alimentare
MODERATORI
E. Costa, J. Vanderlinden
A step-by-step cognitive-behavioural
program (one day a week) for patients
with obesity and binge eating disorder
J. Vanderlinden, G. Pieters, M. Probst, A. Adriaens
University Center Sint-Jozef & KULeuven, Belgium
A new cognitive-behavioural program for the treatment of
patients with obesity and binge eating disorder will be presented. The program runs one day a week during a 24 week
period. It is aimed for both men and women with binge eating disorder often in combination with obesity. The program
consists of well structured group therapeutic sessions and
focuses on the following therapeutic goals: 1) psycho education with regard to the risks of obesity and binge eating;
2) increasing motivation for change; 3) learning a new and
healthy eating pattern while promoting an active life style;
4) becoming aware of the different triggers of binge eating
and learning alternatives to deal with these difficult situations; 5) installing a functional self-evaluation system; 6)
improving self-esteem; 7) preventing relapse. Loss of
weight is not a primary goal. The main focus is on improving the general well-being and quality of life of the patients.
References
1
Vandereycken W, Kog E, Vanderlinden J. The family approach to
eating disorders: assessment and treatment of anorexia nervosa
and bulimia. New York/Costa Mesa: PMA Publications 1989.
2
Vanderlinden J, Norré J, Vandereycken W. La Bulimia Nervosa.
Guida Pratica al Trattamento. Roma: Casa Editrice Astrolabio,
Ubaldini Editore 1995.
3
Vanderlinden J, Vandereycken W. Le origine traumatiche dei Disturbi Alimentari. Roma: Astrolabio Editore 1998.
4
Vanderlinden J. Vincere l’Anoressia Nervosa. Verona: Positive
Press 2001.
Trattamento farmacologico integrato
nei D.C.A. in co-morbidità con i disturbi
di personalità
E. Costa
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
L’associazione tra Disturbi di Personalità e Disturbi della
condotta alimentare è stata oggetto di crescente interesse da
parte di numerosi ricercatori, che indicano una prevalenza
complessiva tra questi disturbi, compresa tra il 27% e il
94%.
Altri studi tendono a privilegiare il rapporto di co-morbidità
con i disturbi dell’umore, e i disturbi da uso di sostanza.
Ugualmente frequente è l’associazione con i Disturbi del discontrollo dell’impulso, associazione che ha fatto coniare il
termine di Disturbo Multi-impulsivo, intendendo con questo
una complessa sindrome in cui sono presenti vari aspetti di
diversi disturbi di personalità, Disturbi della Condotta Alimentare ed anomalie comportamentali, sia di tipo sessuale
che di tipo tossicomanico.
Gli Autori analizzano, alla luce degli studi più recenti e dei
casi clinici in osservazione, i complessi rapporti tra queste
condizioni, e cercano di individuare un miglior approccio
diagnostico e terapeutico. Dal punto di vista epidemiologico, lo studio dei casi in regime di degenza (127), di Day Hospital 250, di Ambulatorio 479 evidenziano un aumento
esponenziale di questi Disturbi, che tende ad offuscare il più
noto panorama dei classici D.C.A.: anoressia e bulimia.
Si sottolinea inoltre come il Disturbo di Personalità viene a
costituire il motivo di fondo che fa da sintomo sottosoglia,
anche nelle pause dei disturbi principali, lungo un percorso
esistenziale connotato da aspetti misti, in cui sono evidenziabili importanti componenti disaffettive e disadattative.
Il trattamento farmacologico
del sovrappeso e dell’obesità
F. Garonna, L. Stifani*
U.O.A. Psichiatria Ospedaliera, Centro per i Disturbi del
Comportamento Alimentare, Bassano del Grappa, Vicenza;
*
U.O.A. Emergenza, Ospedale di Adria, Rovigo
L’obesità è una malattia cronica con alto tasso di mortalità
ed espone a multiple e gravi patologie. Il trattamento farmacologico deve tenere in considerazione le cause della condizione di sovrappeso e obesità, lo stato di salute del soggetto, la compatibilità con i trattamenti in atto e la indispensabile integrazione con le misure dietetiche e il costante esercizio fisico. Attualmente gli unici farmaci approvati per il
trattamento di lungo termine sono la sibutramina e l’orlistat.
Una sommaria classificazione farmacologia porta a distinguere sostanze ad azione anoressizzante di tipo noradrenergico, serotoninergico e noradrenergico/serotoninergico; so114
SIMPOSI TEMATICI
stanze ad azione termogenica; inibitori enzimatici e succedanei dei grassi. La scoperta della leptina nel 1994 ha permesso di considerare il tessuto adiposo come un sistema endocrino. La leptina infatti è un ormone prodotto dalle cellule adipose che veicola un messaggio di disponibilità energetica all’ipotalamo. Il deficit di leptina porta a grave obesità.
La sua attivazione inibisce il neuropeptide Y (NPY), un potente stimolatore dell’appetito, e aumenta la produzione di
neuropeptidi anoressizzanti.
L’osservazione che i derivati cannabinoidi possiedono azione stimolante sull’appetito ha diretto la ricerca sui farmaci
agonisti e antagonisti del recettore CB1. Antagonisti del
CB1, già noti per combattere gli effetti della intossicazione
cronica da cannabinoidi, sono studiati per la terapia dell’obesità. SR141716 o rimonabant ha dimostrato di produrre
cali ponderali consistenti, con deboli effetti collaterali di tipo gastrointestinale, già dopo 16 settimane di trattamento.
Due farmaci antiepilettici, zonisamide (Zonegran) e topiramato (Topamax), sono stati valutati per le proprietà anoressizzanti e dimagranti prodotte in malati trattati per epilessia.
Topiramato, da solo o in associazione con serotoninergici
(Fluoxetina), ha una azione importante nel ridurre le abbuffate nei pazienti con binge eating e sovrappeso. Oltre 50
prodotti naturali o parzialmente sintetici e centinaia di loro
combinazioni, prodotti definiti supplementari, sono considerati utili per perdere peso. Esiste molta incertezza e confusione sulla efficacia e sicurezza di questi prodotti. La ricerca farmacologia sta misurandosi con i complessi problemi di regolazione della funzione del tessuto adiposo, e di come controbilanciare quei meccanismi omeostatici che tendono a conservare il peso raggiunto.
Bibliografia
1
Devlin MG, Yanovsky SZ, Wilson GT. Obesity: what mental
health professionals need to know. Am J Psychiatry 2000;157:6.
2
Lenz TL, Hamilton WR. Supplemental Products Used for
Weight Loss. J Am Pharm Assoc 2004;44:59-68.
3
Thearle M, Aronne LJ. Obesity and pharmacologic therapy. Endocrinol Metab Clin N Am 2003;32:1005-24.
Trattamento psicoterapeutico sequenziale
delle patologie residue dei DCA
C. Loriedo, L. Monaco, S. Stefani, C.Torti
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
Si ritiene, a torto, che le patologie del disturbo alimentare,
115
siano prevalentemente, se non esclusivamente, costituite da
sintomatologie connesse alla alimentazione. Quanto questo
sia poco vero è dimostrato dal fatto che quasi tutti gli studi
catamnestici riportano oltre il 50% di casi che recuperano
peso normale dopo aver ricevuto un adeguato trattamento.
Purtroppo questo risultato non può essere ritenuto sufficiente, anche perché è molto spesso accompagnato da un ampio
corteo di quelle che vengono denominate patologie residue,
caratterizzate dalla comune tendenza a persistere anche dopo la guarigione clinica.
Tra le patologie residue si devono valutare in primo luogo i
sintomi accessori, atteggiamenti o abitudini attinenti alla
problematica alimentare.
Si incontra, infatti, o aumento ponderale eccessivo dal 2 al
10% dei casi o il mantenimento di un peso inferiore (circa
15%).
Morgan e Russell riportano nel 45% delle pazienti dopo
trattamento disturbi dell’affettività (di solito depressivi) e
23% sintomi ossessivi. Anche Hsu et al. indicano alte percentuali di depressione (38%) e disturbi ossessivi (22%).
Per Burns e Crisp (1984) il 30% riporta patologie psichiatriche associate e per Vanderlinden (2001), la persistenza
primaria riguarda l’alterato schema corporeo.
Inoltre Hall ha evidenziato un’evoluzione in Bulimia nel
40% dei casi di anoressia, mentre Hsu e Burns ne danno percentuali rispettivamente del 19 e del 7%
Casper (1990) segnala particolari caratteristiche di personalità residue:
a) tendenza all’inibizione;
b) costrizione emozionale e cognitiva;
c) evitamento del rischio;
d) cautela nelle espressioni emozionali e nelle iniziative;
e) marcata adesione a standards morali e ruoli stabiliti dalla
cultura corrente.
Purtroppo esistono scarsi risultati (e esiste anche scarsa attenzione) nei confronti della psicopatologia residua e del
suo trattamento. Sebbene il versante psicopatologico associato alla malattia appaia difficile da curare, gli scarsi risultati terapeutici ottenuti possono essere in relazione a un’insufficiente attenzione alla struttura di personalità del paziente.
Gli Autori presentano una ampia casistica relativa alle valutazioni a distanza dei comportamento individuale, quando la
sintomatologia alimentare originaria è stata risolta, ed indicano un procedimento terapeutico che procede per moduli.
Il trattamento si snoda in un percorso graduale, affrontando
in ogni passaggio, un comportamento residuo da trattare.
Metodi e risultati di questo trattamento vengono riportati e
corredati dalla illustrazione di alcuni casi clinici.
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN GIOVANNI
S48 - Il problema del drop-out nei trattamenti
psichiatrici
MODERATORI
S. Fassino, M. Gandione
Il problema del drop-out nei trattamenti
psichiatrici
Drop-out in adolescenti con Disturbi
del Comportamento Alimentare
P. Leombruni, F. Amianto, S. Fassino
M. Gandione, A. Peloso, R. Rigardetto
Dipartimento di Neuroscienze, Centro Pilota Regionale per
i Disturbi del Comportamento Alimentare, Università di
Torino
Dipartimento di Scienze Pediatriche e dell’Adolescenza dell’Università di Torino, Sezione di Neuropsichiatria Infantile, ASO OIRM “Sant’Anna”, Torino
Scopo del lavoro: l’interruzione inappropriata del trattamento ovvero il drop-out dalla cura è un evento abbastanza
frequente nei servizi psichiatrici territoriali.
Esso causa generalmente perdita di tempo, di risorse e motivazione negli operatori psichiatrici. Inoltre può lasciare alcuni pazienti a rischio di eventi acuti, anche in situazioni potenzialmente fatali.
Questo fenomeno è stato ampiamente studiato ma non ancora completamente compreso e le strategie adottate per ridurne l’incidenza sono ancora dibattute a livello internazionale.
Il presente studio si propone di indagare i tratti di personalità
e le dimensioni psicopatologiche del paziente che possono
influire sull’interruzione precoce del trattamento tra i pazienti che si rivolgono ad una servizio di salute mentale.
Metodologia: i nuovi pazienti presentatisi ad un centro di
salute mentale piemontese sono stati testati con questionari
autosomministrati per la valutazione dei tratti di personalità
(Temperament and Character Inventory), del legame genitoriale (Parental Bonding Instrument) e della psicopatologia
(Symptom Check List 90, Beck Depression Inventory, StateTrait Anger Expression Interview).
Tutti i pazienti testati sono stati raggruppati retrospettivamente in tre sottogruppi: non-drop-out, drop-out tardivi,
drop-out precoci. I dati clinici e demografici ed i punteggi
dei tests sono stati paragonati nei tre gruppi. Attraverso la regressione logistica sono stati quindi individuati quali sono i
predittori indipendenti di drop-out.
Risultati: i dati clinici o demografici, ad eccezione per la
tendenza alla minore età nei soggetti che interrompevano il
trattamento non erano predittori di drop-out. Alla regressione logistica una maggiore sensibilità interpersonale, un più
elevato psicoticismo, una maggiore paura dell’incertezza
sono risultati predittori indipendenti di interruzione precoce
del trattamento.
Conclusioni: l’interruzione inappropriata del trattamento da
una servizio di salute mentale pare essere correlata a tratti di
personalità paranoidi o narcisistici. Al fine di prevenire tale
fenomeno sembrano pertanto indicate strategie finalizzate
ad informare correttamente e rassicurare il paziente rispetto
al programma terapeutico. Tali strategie potrebbero essere
eventualmente affiancate a programmi psicoeducazionali finalizzati ad una migliore conoscenza delle risorse, delle metodologie e delle finalità dei servizi psichiatrici stessi.
I DCA rappresentano una patologia psichiatrica complessa,
a genesi multifattoriale in cui interagiscono fattori genetici,
psicologici e socio-culturali.
L’esordio in adolescenza dei DCA rimanda dal punto di vista psicopatologico alla qualità delle relazioni precoci e dell’immagine di sé, a distorsioni precoci dello sviluppo, esperienze primarie difettose, disturbi dell’attaccamento che tuttavia si esprimono con organizzazioni di personalità differenti e possibilità evolutive ancora aperte.
In tutte le forme il funzionamento mentale e la qualità delle
difese hanno aspetti primari, con negazione intensa della
malattia e del riconoscimento del bisogno delle cure, onnipotenza, distorsione dell’immagine corporea, scissione
mente-corpo che rendono ragione della fuga nella guarigione, delle frequenti interruzioni e dei rifiuti dell’intervento terapeutico.
Gli AA. intendono focalizzare l’attenzione sui drop-out nel
corso della presa in carico ambulatoriale di queste patologie
afferite negli anni 2004-05 al Centro Amenorrea/Anoressia
dell’ASO OIRM “S. Anna” di Torino. Si tratta di un progetto di prevenzione secondaria dei DCA rivolto ad adolescenti inviate a consultazione per il sintomo somatico dell’amenorrea; il gruppo di lavoro è multidisciplinare, costituito da
ginecologi, NPI, psicologi, nutrizionisti.
L’intervento NPI rivolto alle adolescenti si avvale di colloqui psichiatrici ad orientamento psicodinamico rivolti ai genitori e alle ragazze, a cui fa seguito l’approfondimento psicodiagnostico e la successiva proposta terapeutica. Nel corso del primo incontro vengono proposte alcune scale di autovalutazione (CBCL, YSR, EDI-2, TCI) e nell’assessment
psicologico il test di Rorschach. È previsto un follow-up a 3,
6, 12, 18, 24 mesi.
Si tratta di un campione di oltre 80 adolescenti di età compresa tra 14 e 18 anni, in cui le forme EDNOS sono particolarmente rappresentate (56% circa del totale), con una durata del DCA di circa un anno nella metà dei casi, in cui il
drop-out interessa il 20% circa dei soggetti. Gli AA. intendono discutere il valore e il significato dell’interruzione della presa in carico in relazione ad alcuni fattori quali il momento del percorso terapeutico in cui è avvenuto, le caratteristiche dell’invio, dell’accoglienza, l’età, il tipo di DCA, la
sua durata, le caratteristiche del funzionamento mentale dell’adolescente e della famiglia per quanto emerge dai colloqui psichiatrici ad orientamento psicodinamico e dalle scale
di autovalutazione.
116
SIMPOSI TEMATICI
È noto che le separazioni, i cambiamenti nel percorso terapeutico sono vissute da queste pazienti come perdite ed abbandoni che riflettono la loro fragilità: in quest’ottica gli
AA. sottolineano la necessità che i curanti sostengano la motivazione alla cura, non colludano con la negazione di malattia, fronteggino i tentativi di manipolazione.
Drop-out nella collaborazione fra servizi
psichiatrici e medicina di base
D. Berardi, M. Menchetti
Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università di Bologna
Introduzione: originali iniziative di integrazione fra servizi
psichiatrici e medicina di base sono state organizzate nella regione Emilia-Romagna fin dagli anni ’90. In particolare a Bologna nell’ambito del “Progetto Collaborativo: Bologna – Psichiatria e Medicina di Base”, è stato attivato nel 1998 un originale Servizio di Consulenza e Collegamento.
Il Servizio offre un supporto alla gestione clinica del MMG
con diverse modalità ed in particolare attraverso visite di inquadramento diagnostico ed interventi di cura condivisa. Fra
questi ultimi sono inclusi l’impostazione del trattamento farmacologico e brevi cicli di colloqui a scopo psicoterapico
(individuali o di gruppo) volti principalmente ad assistere il
paziente nella chiarificazione e comprensione del proprio
disturbo.
Metodologia: il presente lavoro si propone di valutare il fenomeno dei drop-out nei pazienti che venivano indirizzati ad
interventi di cura condivisa, prendendo in esame i dati di attività del servizio dal 1999 al 2003.
In particolare saranno valutati prevalenza del drop-out e fattori di rischio sociodemografici e clinici associati ad esso.
Risultati: nel periodo in esame 303 pazienti hanno iniziati interventi di cura condivisa; di questi 47 (15,5%) hanno abbandonato
prima del termine dell’intervento. Il tasso di drop-out era maggiore nei soggetti di genere maschile ed in coloro per cui veniva
posta diagnosi di disturbo dell’adattamento, sebbene tali differenze non raggiungessero la significatività statistica.
Conclusioni: il tasso di drop-out nella nostra casistica appare
abbastanza contenuto; non si evidenziano forti predittori di
drop-out.
Decorso e drop-out dopo un primo episodio
psicotico in SPDC
V. Villari, T. Frieri
sponibili in letteratura, la diversa organizzazione dei servizi
psichiatrici che spesso adottano procedure di registrazione e
monitoraggio ancora parziali, quando non insufficienti.
Anche se i drop-out sono direttamente correlati con le recidive e quindi rappresentano un indicatore di decorso e di
outcome sfavorevole, non è, almeno dal punto di vista teorico, impossibile pensare che una parte dei pazienti che interrompono il trattamento siano guariti o in remissione.
Metodologia: è stato condotto uno studio di coorte storica
su 111 pazienti al loro primo ricovero ospedaliero per un
episodio psicotico acuto nell’SPDC dell’ASO “S. Giovanni
Battista” di Torino.
L’obiettivo dello studio è la valutazione dei possibili outcomes ad un anno dalla dimissione: guarigione, remissione,
cronicizzazione, drop-out.
Sono stati analizzati i ricoveri effettuati nel periodo 20002004, escludendo i pazienti che avessero avuto un precedente ricovero in una struttura psichiatrica per un episodio psicotico acuto. Il follow-up è stato effettuato attraverso interviste telefoniche guidate o contattando gli psichiatri dei
Centri di Salute Mentale.
Risultati: a distanza di un anno dalla dimissione 26 pazienti (23,4%) sono risultati drop-out.
Non sono state osservate differenze statisticamente significative con il resto del campione relativamente alle variabili demografiche analizzate: sesso, età, stato civile, istruzione e
professione. È stata riscontrata una maggiore percentuale di
pazienti di cittadinanza straniera tra i pazienti drop-out, la differenza è statisticamente significativa (test di Fisher 0,0038).
Conclusioni: i dati di questo lavoro confermano la difficoltà
di analizzare i drop-out che, essendo pazienti non più rintracciabili, non possono essere descritti e quindi studiati.
Questo paradosso, in parte causato dalla definizione tautologica del fenomeno, spiega anche la scarsità di lavori che
contrasta con l’importanza del problema sia per gli aspetti
clinici, sia per gli aspetti di valutazione degli interventi e degli outcomes dei servizi. Si evidenzia la necessità di affrontare questo delicato problema in studi futuri.
Bibliografia
Craig TK, Garety P, Power P, et al. The Lambeth Early Onset (LEO)
Team: randomised controlled trial of the effectiveness of specialised care for early psychosis. BMJ 2004;329:1067-71.
Lieberman JA, Stroup TS, McEvoy JP, et al. Effectiveness of Antipsychotic Drugs in Patients with Chronic Schizophrenia. N
Eng J Med 2005;353:1209-23.
Percudani M, Belloni G, Contini A, Barbui C. Monitoring community psychiatric services in Italy: differences between patients
who leave care and those who stay in treatment. Br J Psychiatry
2002;180:224-45.
SCDO Psichiatria 2, ASO “S. Giovanni Battista” di Torino,
DSM TO I Sud
Introduzione: la continuità terapeutica è molto importante
nella terapia delle psicosi, infatti una buona aderenza al trattamento costituisce uno dei più importanti fattori di protezione dal rischio di recidive.
Dai dati di letteratura risulta che il numero di pazienti che interrompe le cure è molto alto, in alcune casistiche superiore
al 70% (Lieberman et al., 2005).
Nonostante ciò lo studio dei drop-out nelle psicosi non è facile per molti motivi tra cui si evidenziano: la mancanza di una
definizione univoca, il numero ridotto di lavori scientifici di-
117
Studio delle caratteristiche associate
all’elevato utilizzo da parte dei pazienti
di un centro di Salute Mentale: drop-in
and drop-out
A. Lanteri*, A. Pierò* **, F. Zirilli*, A. Ferrero*
*
Dipartimento di Salute Mentale ASL 7, Chivasso, Piemonte; ** Università di Torino
Introduzione: l’alto utilizzo di risorse presso i Servizi di
Salute Mentale è poco indagato in letteratura.
SIMPOSI TEMATICI
Pur risultando, infatti, di comune osservazione il fatto che
nella maggior parte dei servizi di psichiatria esiste un rapporto utenti/interventi per cui il 10% degli utenti usufruisce
di più del 50% degli interventi, non vi sono dati chiari sulle
caratteristiche correlate a tale elevato utilizzo di risorse. L’obiettivo dello studio era far emergere caratteristiche sia psicopatologiche che sociali che potessero dar conto della gravosità dei pazienti afferenti al CSM di Chivasso, sia in termini di richiesta di visite non programmate, che di stabile
gravosità nell’arco di tre anni di osservazione.
Metodologia: circa 1.000 pazienti seguiti nel 2004 sono stati indagati per il numero di visite totali e per il numero di visite non programmate.
Di questi pazienti le caratteristiche personali e cliniche sono
state rilevate.
Rispetto alla stabile gravosità nel triennio 2001-2003, trentacinque utenti rispondevano ai criteri di selezione: 52 o più
interventi per anno, 12 interventi non programmati per anno,
più di 12 interventi di rete per anno.
Strumenti utilizzati: inquadramento socio-demografico, inquadramento clinico-diagnostico secondo il DSM IV TR
(APA, 2000) su Asse I e Asse II, assessment psicopatologico
tramite BPRS, descrizione degli interventi terapeutici prestati dal CSM, valutazione del funzionamento socio-lavorativo tramite SVFSL (SOFAS).
Risultati: pazienti con Psicosi e Disturbi di Personalità del
Cluster B sono risultati senza differenze significative tra i
più gravosi, sia per numero di visite che per richiesta di interventi non programmati.
Le caratteristiche del gruppo stabilmente gravoso: stessa distribuzione per sesso, non coniugata nel 74% dei casi, a bassa scolarità nel 75% dei casi, non occupata in più dei due terzi dei casi, con una lunga durata di presa in carico. Le diagnosi più rappresentate sono i disturbi schizofrenici ed i disturbi di personalità.
Il confronto maschi-femmine tramite il t-test ha evidenziato
diverse significatività (età, anni di malattia, stato civile, diagnosi sia su asse I che su asse II, presenza o meno di disturbi di personalità) ma la regressione logistica ha individuato
un modello a due sole variabili che spiega il 77,1 della varianza: tali variabili sono gli anni di malattia e la presenza o
meno di disturbi di personalità. Una maggior durata di malattia e la presenza di un Disturbo di Personalità sono, infatti, nel nostro campione, strettamente associate al genere
femminile. Una minor durata di malattia e la presenza di disturbi schizofrenici risulta invece associata al genere maschile.
Conclusioni: le implicazioni cliniche e terapeutiche di questi ed altri dati relativi al drop-out dal trattamento sono discusse.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MALTA
S49 - Libertà di terapia e trattamenti senza consenso:
compliance o consapevolezza?
MODERATORI
M. Clerici, R. Quartesan
Compliance ai trattamenti nei disturbi
correlati a sostanze: influenza dei disturbi
psichiatrici concorrenti
G. Carrà, R. Scioli, M.C. Monti*, L. Restani, G. Segagni
Lusignani
Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali, Sezione di Psichiatria e di * Statistica Medica,
Università di Pavia
Background: mental health and addiction services have traditionally evolved separately in many European countries,
with policy reflecting this.
Aims & methods: differences in severity profiles between
users of the community addiction services with comorbidity of mental illness and substance misuse and those with
substance misuse only were studied using a matched casecontrol study design, with regard to the main substance
(opiates or cocaine) patients were dependent on. Patterns
of substance abuse and diagnostic features were evaluated
according to the Addiction Severity Index (ASI) and
DSM-IV.
Results: mentally ill substance abusers are significantly
more likely to have used amphetamines, inhalants and hav-
ing been polydrug users. They are particularly impaired in
medical and family/social relationships ASI composite
scores, but less in drug use.
Conclusions: severity profiles and needs of dually diagnosed patients require assessment and treatment skills that
should be provided through adequate links with mental
health system.
Compliance e psicoterapia analitica in un
contesto inusuale: un caso clinico
R. Quartesan
Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione
Psichiatrica, Università di Perugia
Viene descritto un caso di psicoterapia analiticamente
orientato in regime di attività libero professionale intramuraria allargata presso la Sezione di Psichiatria dell’Università di Perugia. L’Autore prende in considerazione le
modalità di invio e le fasi iniziali della relazione in un soggetto di sesso femminile di anni 24 affetto da disturbo somatoforme indifferenziato con una lunga storia di ripetuti
interventi psicofarmacologici e di psicoterapia cognitivo
118
SIMPOSI TEMATICI
comportamentale unificati da un comune denominatore
che si caratterizza per: la molteplicità, l’interruzione prematura, l’inutilità (vantaggi secondari legati al mantenimento del disturbo).
In particolare viene puntualizzato il problematico controtransfert in relazione al ruolo e allo stato dell’utente capace
di sviluppare una iniziale identificazione concordante nella
diade (pt-terapeuta) con conseguente stagnazione del quadro psicopatologico. In seguito viene dato risalto al senso
dell’agito del terapeuta capace della trasformazione verso
una identificazione complementare dove l’interpretazione
diventa possibile e praticabile 1.
In conclusione vengono riferiti 3 sogni in sequenza che
sembrano indicare il percorso dalla costrizione di dover essere all’ambivalenza di poter essere verso la ricerca della
consapevolezza di essere libero di essere.
Bibliografia
1
Racker H. Studi sulla tecnica psicoanalitica. Roma: Armando
Editore 1991.
Problemi di compliance nel trattamento
della Demenza di Alzheimer: il ruolo
del caregiver
F. Colmegna, C.L. Cazzullo, M. Clerici
Fondazione “Legrenzi Cazzullo” e Associazione Ricerche
sulla Schizofrenia, Milano
Dall’analisi degli studi effettuati nell’ultimo ventennio,
emerge in modo rilevante il “carattere familiare” della malattia di Alzheimer (AD), sia in relazione all’enorme risorsa
sociale fornita dalla famiglia nell’assistenza del malato, sia
risultando totale il coinvolgimento del caregiver nell’accudimento, nel sostegno psicologico e nella tutela del proprio
congiunto malato. Le variabili che possono influenzare la risposta emotiva del caregiver riguardano:
– la qualità della relazione tra lo stesso familiare ed il malato;
– le strategie di coping utilizzate, anche precedentemente;
– la disponibilità di un supporto formale ed informale;
– il significato che il caregiver attribuisce alla situazione;
– la relazione medico-familiare-paziente in atto fin dall’inizio della malattia.
Questi fattori, oltre che predire un decorso migliore o peggiore della patologia, influenzano l’esito del caregiving
con maggior ricorso all’ospedalizzazione del malato e, di
conseguenza, sollecitano indirettamente anche un incremento/riduzione dei costi sanitari ed assistenziali complessivi.
Si evince, pertanto, che accanto alle procedure diagnostiche
ed al trattamento farmacologico e riabilitativo per il paziente affetto da AD, è necessario applicare e pianificare programmi di valutazione e d’intervento per i caregiver, fin
dalle fasi lievi della malattia e far sì che il medico sia attento alla delicata e complessa relazione con il malato, ma anche con la sua famiglia. Lo sviluppo di tali programmi integrati non può che seguire le valide e ormai documentate indicazioni dell’area cosiddetta psicoeducativa.
Il problema assistenziale evidente oggi nell’AD indica un rilevante carico oggettivo e soggettivo cui è sottoposto il fa119
miliare-carer. La compliance del caregiver è direttamente
correlata all’adesione e alla collaborazione ai programmi terapeutici ed assistenziali del proprio congiunto nelle diverse fasi dell’AD. I carer possono essere considerati anche dei
“secondi malati” per lo stress elevato cui sono sottoposti,
per il “carico” dell’assistenza e per il conseguente sviluppo
di disagio e sintomi psichiatrici, segnalati ampiamente in
letteratura. Quindi, la compliance si riveste di un’ulteriore
componente derivante dalla capacità del caregiver di riconoscere le proprie difficoltà, richiedere aiuto e seguire un
trattamento anche per se stesso.
Le variabili del caregiver che dovrebbero essere considerate quando si parla di compliance, possono essere rappresentate in due categorie:
1) demografica (età del caregiver, sesso, relazione con il paziente e “situazioni” di vita);
2) variabili psicologiche (tendenze psicologiche esistenziali
del caregiver, per esempio ansia e depressione, qualità
della relazione con il paziente ed il supporto sociale disponibile).
Analisi dei risultati. Per lo sviluppo e la conferma di suddette teorie, abbiamo effettuato uno studio multicentrico sui
caregiver di pazienti affetti da AD, coinvolgendo 10 strutture, distribuite in tutta Italia. Sono stati reclutati, in modo
randomizzato, 154 caregiver: 81 appartenenti al gruppo sperimentale – ai quali è stato applicato un trattamento di tipo
psicoeducativo – e 73 a quello di controllo, senza alcun intervento. L’età media del campione è di 52,8 anni (DS =
12,0), il 29,9% è di sesso maschile e il 70,1% di sesso femminile. Il 63% corrisponde a figli, il 26% a coniugi, il 6,5%
a parenti/amici, il 4,5% a badanti. Solamente il 25,3% dei
carer non lavora ed è in pensione. I caregiver presi in esame risultano essere impegnati per una media di 9,1 ore (DS
= 7,5) al giorno nell’assistenza del congiunto malato ed il
74,7% vive con il paziente.
I carer sono stati sottoposti ad una batteria testale che valutasse il loro “carico” assistenziale, l’ansia, la depressione, lo stress, la qualità di vita ed il grado d’informazione
sull’AD. Si è rilevata, con la scala HRSD, una situazione
depressiva dei caregiver di grado medio ed un miglioramento di tale quadro, statisticamente significativo, dopo
un programma psicoeducativo. È emersa una discreta conoscenza della malattia da parte dei carer ed una maggiore difficoltà a riconoscere un trattamento adeguato per
l’AD. Il campione di caregiver risulterebbe incluso tra il
distress psicologico moderato (testato con il PGWBI). La
fascia di età tra i 55 ed i 64 anni potrebbe essere quella da
identificare come la più sofferente e si discosterebbe anche dai valori della popolazione generale italiana testata
con PGWBI. Il maggior distress sembrerebbe essere ad
appannaggio dei carer che trascorrono l’intera giornata
con il malato (9-12 ore). I caregiver con depressione moderata e grave alla HRSD mostrano valori al PGWBI di
distress. Il 38.9% delle femmine e il 35,2% dei maschi
hanno una “alta” emotività espressa (EE): si evidenzia
una maggiore frequenza di emotività “alta” nei soggetti
femminili.
In conclusione, i caregiver sembrerebbero i partner non riconosciuti del sistema assistenziale, sia come carico “di lavoro” che come sofferenza. Per ottenere una loro migliore
collaborazione ed aderenza al trattamento del malato di
AD bisognerebbe fornire al caregiver un riconoscimento
del ruolo e delle funzioni svolte, dare informazioni e co-
SIMPOSI TEMATICI
noscenza sulle attività da svolgere (sia sulla malattia che
sui Servizi) ed attuare un sostegno assistenziale e psicologico a seconda delle difficoltà di adattamento riscontrate.
Solo allora i trattamenti spesso senza consenso dei loro
congiunti potrebbero giovarsi di un alto livello di ottimizzazione.
La compliance terapeutica nelle istituzioni
chiuse (carcere, OPG, CT per
tossicodipendenti in “Doppia Diagnosi”,
istituzioni per anziani o per minori):
prospettive e limiti
La scarsa letteratura di riferimento in proposito e la difficoltà di adattare le esperienze internazionali ai differenti
contesti di lavoro affrontati in questi anni rende ancora più
necessarie l’elaborazione e il rispetto di linee-guida che possano, per quanto possibile, uniformare gli standard operativi di tali istituzioni, favorire una crescita di consapevolezza
collettiva e ridurre le profonde disparità evidenti in questi
ambiti.
Izzo: cronaca di due morti annunciate
A. D’Aloise
SPDC Ospedale di Termoli
M. Clerici, N. D’Urso, F. Colmegna*
Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Polo
Universitario AO “San Paolo”, Università di Milano;
*
DSM AO “L. Sacco”
Il problema della adesione ai trattamenti psichiatrici nelle istituzioni chiuse non si pone certo esclusivamente in relazione
alle procedure di “trattamento sanitario obbligatorio”, ma deve implicare oggi una particolare attenzione a tutti i contesti
terapeutici dove forte o esclusiva è proprio la necessità di
“controllo sociale”, come evidente nel dibattito culturale e
politico presente a livello dei mass-media o nella riflessione
delle associazioni professionali. Se la richiesta sociale “esterna” risulta spesso sempre più indirizzata al contenimento della devianza, e non di rado amplificata proprio in relazione a
fatti di sangue di ampia risonanza mass-mediatica, la posizione attuale di molti psichiatri – in particolare quelli operanti
nei Servizi Pubblici – risulta scarsamente in sintonia con tali
“pressioni” e tende a valorizzare invece la necessità di ottenere, in primo luogo, il consenso, almeno nella maggior parte dei casi e, secondariamente, di operare perché anche nei
contesti terapeutici “chiusi” venga esercitato il massimo degli
sforzi per ottenere un miglioramento della consapevolezza
degli utenti. Ciò al fine di controllare tutte le possibili indebite manipolazioni che si verificano per ottenere adesioni a trattamenti che, nei fatti e soprattutto agli occhi di chi li subisce,
vengono associati più a bisogni “sanzionatori/punitivi/di controllo” che alla finalità curativa che le manifestazioni psicopatologiche che li giustificano e che vengono osservate in
ambio clinico giustificano.
Alla luce di tali considerazioni e della lunga esperienza effettuata in setting “chiusi” quali carcere, comunità terapeutiche per tossicodipendenti con “doppia diagnosi”, istituzioni per adulti affetti da patologie organiche quali, ad
esempio, demenza, ecc. o per la prossimità clinica ad altre
istituzioni quali OPG o strutture per minori, gli Autori forniranno alcune riflessioni suffragate dalla necessità di evidenziare quanto possano essere facilitati tali percorsi di
adesione consapevole e come una relazione terapeutica basata su un approccio psicoeducativo, informativo e supportivo – anche con il coinvolgimento della famiglia del
paziente – sia in grado di migliorare la consapevolezza
dell’interessato o, nei casi più estremi (vedi demenza di
Alzheimer) possa comunque facilitare, almeno indirettamente, una migliore realizzazione degli obiettivi del programma terapeutico.
Le vicende della vita di Izzo, a leggerle bene, preannunciavano i fatti che la cronaca nera del 1975 e del 2005 ci ha reso tristemente noti.
In adolescenza era aduso minacciare e picchiare i giovani
scout della parrocchia di Piazza Euclide.
Nel 1969 ha iniziato l’abuso di sostanze con l’hashish, a 16
fumava saltuariamente l’oppio, a 17 la cocaina, ha poi continuato in carcere ad assumere Plegine e grandi quantitativi
di coca cola.
Nel 1972 il COGIDAS, una associazione di genitori contro
la violenza nelle scuole, aveva consegnato alla magistratura
un dossier sulle imprese squadriste di Izzo e Ghira e sulla
loro attitudine alla violenza.
Nel 1973 uno psichiatra della cattolica di Roma, lo curava
per nevrosi maniaco depressiva.
Nel ’74 fu processato e condannato a sei mesi per sequestro
e violenza sessuale di due minorenni. Fu scarcerato con la
condizionale.
Nel ’75 il Circeo.
Le cronache del tempo lo descrivono, al momento dell’arresto, “spavaldo sprezzante e strafottente” mentre mostrava
sorridente le manette ai fotografi.
Ha tentato più volte di evadere, riuscendovi nel 1983.
Quando fu riacciuffato a Parigi, si complimentò con i poliziotti per la loro bravura.
Diventato collaboratore di giustizia fu poi contro-accusato
da Buscetta e processato per calunnia. Tutte le sue rivelazioni si sono rivelate inconsistenti.
A Campobasso si occupava di emarginati e dava loro sostegno psicologico e cure.
Una nostra precedente ricerca su 111 detenuti maschi del
carcere di Larino e su un piccolo campione di femmine, ha
evidenziato che le basi comuni a tutti per il comportamento
criminoso sono: l’abuso precoce di sostanze, la tendenza alla menzogna, l’assenza di sensi di colpa e la frequentazione
del gruppo dei pari avvezzo al delinquere.
Inoltre la presenza di uno o più disturbi di personalità è
presente nei soggetti con un maggior numero di reati commessi.
Su incarico peritale degli avvocati difensori di Izzo abbiamo effettuato colloqui clinici e somministrato test psicometrici dai quali risultano soddisfatti i criteri diagnostici per
sette diversi disturbi di personalità.
I delitti della Lopez e delle due Maiorano erano facilmente
prevedibili.
120
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA RODI
S50 - Una ricerca nazionale sulle strutture di ricovero
psichiatrico per pazienti acuti:
il progetto PROGRES-Acuti
MODERATORI
G. de Girolamo, M. Casacchia
Il progetto PROGRES-Acuti: risultati
della rilevazione nazionale sulle strutture
di ricovero di pazienti
G. de Girolamo, R. Miglio*, P. Morosini**, A. Picardi**,
P. Rucci*** per il Gruppo PROGRES-Acuti
DSM, AUSL di Bologna; * Facoltà di Scienze Statistiche,
Università di Bologna; ** Centro di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma; *** Western Psychiatric Institute and Clinic,
University of Pittsburgh Medical Center, USA
Background: in Italia, nonostante siano passati circa 28 anni dall’approvazione della legge 180, le informazioni quanti- e qualitative sulle strutture di ricovero di pazienti acuti
sono molto limitate e lacunose.
Obiettivo: il “PROGRES-Acuti” è un progetto, promosso
dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, che si articola in due fasi: nella Fase 1
sono state censite e valutate tutte le strutture di ricovero
pubbliche e private per pazienti acuti; in questo contributo
vengono presentati solo i dati relativi alle strutture pubbliche. Nella Fase 2 un campione casuale di strutture di pazienti sarà valutato in maniera molto approfondita.
Metodi: interviste strutturate condotte con i responsabili di
tutte le strutture di ricovero pubbliche per pazienti acuti
(SPDC, Cliniche Psichiatriche Universitarie [CPU] e CSM24 ore) e dati di attività disponibili sul registro informatizzato di attività o raccolti ad hoc.
Risultati: al progetto hanno preso parte tutte le regioni e
province autonome italiane, ad eccezione della Sicilia.
Complessivamente in Italia (con la sola eccezione della Sicilia) vi sono un totale di 4.108 letti pubblici di ricovero in
319 strutture, con un numero di posti-letto per 10.000 abitanti pari a 0.78/10.000. Nel corso del 2001 vi sono stati
103.260 ricoveri acuti, riguardanti 70.062 pazienti con un
totale di 1.227.676 giornate di ospedalizzazione. I tassi di ricovero e di pazienti per 10.000 abitanti sono pari a 19,8 e
13,4 rispettivamente. La percentuale di TSO sul totale dei
ricoveri è stata pari al 12,9%, con un totale 114.570 giorni
di ospedalizzazione in condizione di TSO. Nonostante che
le strutture pubbliche di ricovero siano state, in stragrande
maggioranza, create negli ultimi 25 anni, esse soffrono di
numerose e talora gravi limitazioni architettoniche e logistiche, che rendono l’esperienza del ricovero problematica per
i pazienti e difficile da gestire per gli operatori. Infine, il
monitoraggio di eventi-sentinella non è una pratica comune.
Conclusioni: un sistema assistenziale psichiatrico efficace
richiede strutture di ricovero ben funzionanti, adeguate dal
punto di vista quantitativo ed adattate agli specifici bisogni
assistenziali dei pazienti psichiatrici acuti. La situazione ita121
liana a questo proposito presenta ancora molte aree necessitanti di un rapido miglioramento.
Il personale ed i pazienti presenti
in un giorno nelle strutture di ricovero
di pazienti psichiatrici acuti: i risultati
del progetto PROGRES-Acuti
A. Gaddini, G. Santone*, G. de Girolamo**, per il Gruppo PROGRES-Acuti
Agenzia di Sanità Pubblica della regione Lazio; * A.O.U.
Ospedali Riuniti di Ancona, Ancona; ** DSM, AUSL di Bologna
Introduzione: il ricovero del paziente acuto costituisce una
componente essenziale per l’assistenza psichiatrica 1. In Italia, attualmente non è disponibile un sistema omogeneo di
monitoraggio dell’assistenza psichiatrica, appaiono pertanto
estremamente carenti le informazioni sulla dotazione di personale, che rappresenta un importante indicatore dell’intensità assistenziale. Inoltre, manca una visione di insieme sulle caratteristiche sociodemografiche, cliniche ed assistenziali dell’utenza dei servizi di salute mentale. La prima fase
dello studio PROGRES-Acuti ha permesso un censimento
delle strutture di ricovero per i pazienti psichiatrici acuti, approfondendo fra l’altro la dotazione di personale. Inoltre,
nell’ambito della fase sono state raccolte informazioni su
tutti i pazienti ricoverati in uno stesso giorno (Census Day).
In questo contributo vengono riportati i risultati relativi alle
301 strutture pubbliche censite [262 SPDC, 23 Cliniche Psichiatriche Universitarie (CPU), e 16 Centri di Salute Mentale (CSM) con posti-letto sulle 24 ore], funzionalmente
collocate in maniera differente all’interno del circuito assistenziale psichiatrico.
Metodi: attraverso una specifica scheda sono state censite
le strutture presenti su tutto il territorio nazionale, ad esclusione della Sicilia e di 4 strutture lombarde. La scheda raccoglieva in maniera estensiva informazioni relative alla
struttura fisica, alle risorse disponibili (anche in termini di
personale), al processo di cura, ed agli esiti. Era presente
inoltre una sezione per la raccolta delle informazioni relative al Census Day, che si è svolto il giorno 8 maggio 2003 in
tutte le regioni con l’esclusione della Puglia e del Lazio.
Risultati: nelle strutture pubbliche lavorano 8.058 operatori, di cui 6.971 (86,5%) a tempo pieno. La dotazione stabile
è del 91% per il personale infermieristico, e del 79,1% per
quello medico. La dotazione complessiva di personale tempo-pieno equivalente (esclusi volontari, tirocinanti e specializzandi) varia fra le varie tipologie di struttura (SPDC:
2,04; CPU: 1,44; CSM: 5,17). Si notano inoltre (sempre fra
SIMPOSI TEMATICI
le differenti tipologie di struttura) spiccate differenze nella
presenza di vari profili professionali, soprattutto relativamente a psichiatri (dal 14% al 29,5%). Per quanto riguarda
i pazienti presenti al Census Day in totale sono stati censiti
7.780 soggetti ricoverati o ospitati presso 352 strutture psichiatriche di degenza ordinaria, che rappresentano il 98,9%
delle strutture psichiatriche presenti nelle regioni oggetto
della rilevazione. I dati ottenuti evidenziano una diversa distribuzione dei degenti per sesso e classe di età tra le varie
strutture: nelle strutture pubbliche la classe più rappresentata è quella degli uomini in età < 35 anni, mentre in quelle
private prevalgono le donne in età > 65 anni.
Conclusioni: la dotazione di personale ha mostrato notevole variabilità nella dotazione quali-quantitativa di personale
fra le varie strutture, ed una scarsa correlazione con variabili di processo e di esito. Ciò richiama l’attenzione sulla necessità di standard assistenziali coerenti con i bisogni dell’utenza. Il Census Day del “PROGRES-Acuti” ha consentito di mettere a confronto alcune caratteristiche dei pazienti ricoverati nelle diverse realtà assistenziali, superando i
problemi connessi alle differenze nei metodi di rilevazione
adottati.
Bibliografia
1
Thornicroft G, Tansella M. Br J Psychiatry 2004;185:283-90.
La restrittività nelle strutture psichiatriche
pubbliche per acuti in Italia
R. Bracco, G. Dell’Acqua, B. Norcio, K. Wolf
Dipartimento di Salute Mentale di Trieste
Introduzione: attualmente non esiste in Italia un sistema
omogeneo di monitoraggio dell’assistenza psichiatrica. Ciò
comporta l’impossibilità di avere una visione di insieme sulla restrittività cui sono sottoposte le persone ricoverate o accolte nelle strutture psichiatriche per acuti pubbliche italiane.
Scopo: nell’ambito della fase 1 del Progetto “PROGRESAcuti” sono state raccolte dettagliate informazioni allo scopo di individuare gli specifici aspetti operativi del ricovero
in qualche modo ricollegabili a procedure di tipo custodialistico/manicomiale.
Metodi: in una sezione della Scheda Censimento, intitolata
“Procedure organizzative interne, sono stati analizzati indicatori quali: la chiusura/apertura della porta d’ingresso nelle ore diurne; la possibilità d’uso di posate ordinarie ai pasti; la possibilità di tenere con sé, durante la permanenza
nella struttura, oggetti strettamente personali (denaro, farmaci, cellulare) e/o oggetti potenzialmente “pericolosi”
(forbici, rasoi, coltelli, ecc.); la possibilità di movimento dei
ricoverati, da soli o con accompagnatori e/o familiari, ovviamente in rapporto alle loro condizioni psicofisiche; infine è stata analizzata la questione cruciale della contenzione
fisica, con eventuali norme che ne regolino le modalità, il
contenimento affidato al personale e la sedazione farmacologica.
Risultati: i dati rilevati evidenziano alcuni elementi della
realtà italiana che appaiono particolarmente rilevanti: l’80%
circa degli SPDC ed il 65% delle Cliniche Psichiatriche
Universitarie (CPU) dichiarano di avere solitamente la porta d’ingresso chiusa, mentre nei CSM 24-ore le porte d’in-
gresso sono aperte. Nonostante ci si trovi in un epoca postmanicomiale, la contenzione affidata a mezzi meccanici
raggiunge un valore molto elevato (67%): essa viene utilizzata nel 73% degli SPDC ed in circa la metà delle CPU
(54%), mentre, nella totalità dei CSM, dove hanno luogo anche i T.S.O., non la si utilizza. Infine, i mezzi di contenzione sono del tutto assenti solo nel 21% delle strutture.
Conclusioni: il Progetto PROGRES-Acuti ha consentito di
evidenziare la persistenza nei servizi italiani post-riforma di
culture, comportamenti ed azioni, che, in teoria, la riforma
avrebbe dovuto spazzare via o almeno fortemente ridurre
negli oltre 25 anni di attuazione.
Le case di cura private psichiatriche e i DSM
in Italia: aspetti di integrazione e di
diversificazione
G. Turrini, G. Borgherini, S. Cogliati Dezza
A.I.O.P. – Casa di cura “Villa Maria Luigia” (Parma), Casa di cura “Parco dei Tigli” (Padova), Casa di cura “Villa
Giuseppina” (Roma)
Introduzione: nell’ambito del progetto PROGRES-ACUTI
è stato possibile ottenere un’accurata panoramica non solo
delle strutture del comparto pubblico ma anche delle case di
cure private convenzionate a specializzazione neuropsichiatrica. Nell’ambito di questa presentazione vengono presi in
esame gli aspetti di complementarietà e di diversificazione
offerti dalle strutture private in seno all’organizzazione
ospedaliera e territoriale del Servizio Pubblico.
Materiale e metodi: nella I fase del PROGRES-ACUTI sono state esaminate le caratteristiche strutturali ed organizzative di 291 strutture pubbliche e di 52 case di cura private
convenzionate. Nella II fase è stata effettuata una valutazione di un campione rappresentativo delle strutture censite e
dei pazienti ricoverati. Complessivamente lo studio ha preso in esame le strutture ospedaliere per un totale di 8.958
posti letto (PL), di cui 4.912 del settore privato.
Risultati e Conclusioni: la mappatura delle strutture ospedaliere in Italia presenta delle significative differenze a seconda delle regioni considerate sia in termini quantitativi che
qualitativi. Si evidenzia in particolare una maggiore presenza di case di cura private nel Centro-Sud Italia (68,7% del
totale) rispetto al Nord Italia ove il rapporto con le strutture
pubbliche è pressoché paritario (54,2% vs. 45,8%). Queste
differenze sono chiaramente ascrivibili ad una minore capillarità di servizio offerta dagli SPDC nel Centro-Sud (1 PL
ogni 20.000 abitanti) rispetto al Nord Italia (2 PL ogni
30.000 abitanti).
Per quanto riguarda la tipologia di utenza ed il tipo di servizio fornito si rilevano delle peculiarità del settore privato rispetto al settore pubblico. Gli SPDC sono più orientati a gestire l’acuzie psichiatrica potendo effettuare TSO e, a causa
del limitato numero di PL, devono realizzare un elevato
turn-over, mentre le case di cura hanno un’impostazione di
ricovero di breve-medio termine assolvendo a funzioni
complementari rispetto al servizio pubblico per il trattamento di casi complessi con impostazione specialistica (disturbi
alimentari, disturbi alcool-correlati, depressioni resistenti al
trattamento, psicogeriatria, ecc.) che gli SPDC, ed in generale i servizi pubblici, avrebbero difficoltà ad assolvere,
122
SIMPOSI TEMATICI
spesso delegando tali ambiti al privato ed inserendolo in un
quadro di “rete”.
Anche l’impostazione organizzativa è decisamente diversa
in funzione del numero di PL (che di solito non eccede i 15
PL negli SPDC) contro una media di 93 PL per le strutture
private, che permettono di gestire al meglio il problema delle urgenze e dei gravi disturbi comportamentali nel servizio
pubblico; il privato privilegia invece una gestione che potrebbe essere definita più orientata in senso residenziale. Le
diverse tariffazioni (costo medio di una giornata di degenza:
125 Euro in Casa di Cura contro 417 Euro degli SPDC) possono rendere ragione anche della diversa quantità di risorse
impiegate nell’erogazione del servizio.
Un confronto tra pubblico e privato
per i ricoveri psichiatrici acuti
M. Casacchia
Clinica Psichiatrica, Università de L’Aquila
Introduzione: il progetto PROGRES-Acuti fa parte di una
“trilogia” di ricerche che ha avuto per oggetto la valutazione delle diverse strutture psichiatriche presenti sul territorio
nazionale, con l’intento di raccogliere informazioni sullo
stato attuale delle risorse disponibili per il trattamento dei
disturbi psichiatrici, a ventisette anni dalla chiusura degli
ospedali psichiatrici.
Materiali e metodo: nella Fase 1 è stato effettuato il censimento di tutte le strutture, mentre nella Fase 2 è stata condotta un’approfondita valutazione di un campione rappresentativo delle strutture censite e dei pazienti in esse ricoverati.
Nella Fase 1 sono state censite 291 strutture pubbliche così
suddivise: 247 SPDC, 11 Cliniche Universitarie sede di
SPDC, 9 Cliniche Universitarie non sede di SPDC, 12 CSM
con posti letto, 8 reparti di medicina con posti letto psichiatrici, 4 centri per la crisi e 52 case di cura private per un totale di 8.958 posti letto valutati (4.046 nelle strutture pubbliche, 4.912 nel privato).
Risultati: nello studio sono emerse rilevanti differenti tra
strutture pubbliche e private. Le strutture private sono più
rappresentate nel Centro e nel Sud dell’Italia, con un numero medio di Posti Letto (PL) di 93 per struttura contro un numero medio di 13 PL nelle strutture pubbliche.
Sulla base dei dati dello studio, sono emerse due specifiche tipologie di utenti che afferiscono rispettivamente alle strutture di ricovero pubbliche e private. L’utenza che afferisce alle
strutture pubbliche è rappresentata principalmente da una popolazione con un range tra i 35 e 44 anni, mentre quella che
afferisce alle strutture private è rappresentata da una popolazione di utenti di sesso femminile di età superiore ai 65 anni.
Nelle strutture pubbliche la durata media della degenza è di
13,8 giornate, contro una durata di 40,6 giornate nel privato.
Gli psichiatri, gli infermieri, gli assistenti sociali ed i tecnici della riabilitazione psichiatrica a tempo pieno sono significativamente più rappresentati nelle strutture pubbliche,
mentre gli educatori e gli assistenti sanitari sono più rappresentati nel privato.
Le strutture pubbliche mostrano una maggiore accessibilità
(la lista di attesa è presente solo nel 20% delle strutture pubbliche contro il 72% delle strutture private) ed una maggiore permeabilità, in relazione alla più ampia possibilità per i
pazienti di ricevere visite da parte dell’équipe dei servizi
(63% nelle strutture pubbliche, contro un 30,5% nelle strutture private), attestando una maggior integrazione tra reparto di ricovero ed altri servizi psichiatrici.
Il costo di una giornata di degenza in Casa di Cura (costo
medio: 125 euro) è inferiore rispetto al costo medio di una
giornata in SPDC (costo medio: 417 euro), anche in rapporto al costo del PL.
Conclusioni: numerose sono le divergenze, di gran lunga
superiori alle analogie, nell’attività di ricovero tra le strutture pubbliche e le strutture private. Le strutture private, indirizzate ad un diverso tipo di utenza, caratterizzata da una
minor gravità clinica, sembrano identificare strutture residenziali “a breve termine”, con buon comfort alberghiero;
“low-cost” in rapporto alle strutture pubbliche, con una minor permeabilità territoriale e continuità di intervento rispetto alle équipes dei DSM.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN PAOLO
S51 - Psichiatria e religione
MODERATORI
L.S. Filippi, V. Rapisarda
Psicoanalisi e religione: una possibile
dialettica di violenza
L. Ancona
Università Cattolica S.C., Dipartimento di Psichiatria
I rapporti fra Psicoanalisi e Religione cattolica (Chiesa) sin
dall’inizio sono stati caratterizzati da incomprensione e
aperta ostilità. Ciò dipese dal fatto che la Psicoanalisi si costituì non solo come una tecnica curativa di psico-nevrosi
ma anche come un sistema di pensiero basato sulla dinami-
123
ca dell’inconscio, mentre la Chiesa insisteva sulla coscienza. Inoltre per il fatto che al suo nascere la Psicoanalisi trovò
ad affrontare la tematica sessuale, principale causa di nevrosi a quel tempo, ma anche campo che la Chiesa aveva
tradizionalmente attribuito a se stessa, secondo prospettive
contrarie a quelle psicoanalitiche.
Il metodo del confronto fra le due parti è stato quello dell’esame della successione storica dei fatti, per delinearne lo
sviluppo sino ai nostri giorni.
Il risultato è stato quello che la originaria denuncia di Freud
alla Chiesa cioè di essere: una manifestazione di atti osses-
SIMPOSI TEMATICI
sivi; una proiezione infantile di paure di un genitore rassicurante o opprimente; una illusione destinata ad essere vanificata dal progresso della scienza; una nemica implacabile della libertà di pensiero e della verità, si è progressivamente attenuata nella evoluzione della Psicoanalisi. E anche
la reazione violenta che le sue proposizioni avevano suscitato nella Chiesa vennero gradualmente a diminuire.
Oggi fra Psicoanalisi e Chiesa è possibile sostituire alla violenza il rispetto reciproco e la collaborazione. Ed è possibile cogliere il fatto paradossale che la Chiesa risulta debitrice alla Psicoanalisi di approfondimenti conoscitivi sulla vita intima dell’uomo e di criteri di moralità che ne arricchiscono il contenuto dottrinale e pedagogico.
Contributo dei valori religiosi alla libertà
interiore dello psichiatra e del soggetto
in trattamento
L.S. Filippi
Università di Roma “La Sapienza”
Negli ultimi decenni si è intensificato l’interesse della psichiatria sui rapporti tra religione e salute mentale. Varie associazioni professionali, come la World Psychiatric Association, hanno costituito sezioni o gruppi di studio di psichiatria e religione. Si sono moltiplicati gli studi empirici
che cercano di testare gli influssi della religione sulla salute, in particolare sulla salute mentale, e le rassegne di questi. Per esempio il poderoso Handbook of Religion and
Health 1 riferisce su circa 1.200 studi di outcome di malattie
fisiche e psichiche e su circa 400 rassegne critiche di detti
studi (più dell’80% di essi rilevano un benefico effetto delle credenze religiose sulla salute mentale delle persone).
Come si spiega tale rinnovato interesse?
Un primo motivo potrebbe essere che l’enorme sviluppo
della tecnologia e della informazione, la globalizzazione
ecc. – ottimi o pessimi secondo l’uso che se ne fa – possono aver accresciuto l’insicurezza di molte persone, un buon
numero delle quali si rivolgono ai valori spirituali e religiosi per attenuare la loro sofferenza: e la psichiatria ne è spesso interessata.
Un secondo motivo, in questi ultimi anni, può essere il riesplodere di manifestazioni di violenza e di terrorismo che si
rifanno (del tutto impropriamente) a motivi religiosi.
Forse il motivo più importante è che oggi molti autori – cito per tutti Allport 2 – ritengono che la religiosità sia una dimensione (un costituente) normale della personalità, a cui fa
capo anche l’ateismo. Come tale, essa accompagna l’individuo sano o malato in ogni vicissitudine esistenziale, fisica e
psichica. Perciò si è anche dibattuto e talvolta attuato l’inserimento di corsi o di attività formative attinenti alla religione nei training di preparazione degli psichiatri 3. Ciò anche perché in alcune psicoterapie tali elementi possono essere utilizzati per il progresso della terapia stessa 4.
È evidente che la fede in una Entità suprema regolatrice dell’universo e gli ideali di fratellanza e di pace presenti in
pressoché tutte le religioni, specie in quelle monoteiste, costituiscono un sostegno psicologico per i credenti (è quello
attinente secondo Allport alla religiosità estrinseca, che intende la religione soprattutto come un mezzo, sia pure legittimo e nobile, per raggiungere dei fini, anche spirituali o di
benessere psichico o sociale: alle dinamiche inconsce eventualmente ivi coinvolte ho accennato nel Congresso SOPSI
2005).
Ma qual è lo specifico “liberatorio” della fede religiosa?
Più il credente cresce verso la religiosità intrinseca (Allport), che considera la religione un fine, un bene in se stessa, da conquistarsi se occorre anche contro il vantaggio personale, più egli cerca di vivere nella verità delle cose, nella
realtà. Ciò contribuisce alla liberazione da condizionamenti
interiori o esterni, per esempio dai pregiudizi relativi alla
malattia mentale. Inoltre aumentano in un paziente la coscienza e la sopportazione della malattia, perciò la compliance. Infine una religiosità più autentica comporta nel
credente un rapporto interpersonale più maturo con Dio e
con i fratelli, ed anche questo è stabilizzante.
Va da sé – last but not least – che i valori religiosi o atei del
paziente sono “liberatori” anche per lo psichiatra, a parte le
scelte “religiose” personali, in quanto, dovendo immedesimarsi empaticamente con il soggetto in trattamento, sarà stimolato a liberarsi da eventuali atteggiamenti pregiudiziali 5 6.
Bibliografia
1
Koenig HG, McCullough ME, Larson DB. Handbook of Religion and Health. Oxford: Oxford University Press 2001.
2
Allport GW. The Individual and his Religion. New York:
Macmillan 1950, 1969. Trad. it. Brescia: La Scuola 1972.
3
Grabovac AD, Ganesan S. Spirituality and religion in Canadian
psychiatric residency training. Can J Psychiatry 2003;48:171-5.
4
Weiner MB, Cooper PC, Barbre C, eds. Psychotherapy and Religion: many paths, one journey. Northvale, NJ, USA: Jason
Aronson Inc. 2005.
5
Dein S. Working with patients with religious beliefs. Adv Psychiatr Treat 2004;10:287-94.
6
Sims A. Epidemiological medicinés best-kept secret? Invited
commentary on “Working with patients with religious beliefs”
(by S. Dein). Adv Psychiatr Treat 2004;10:294-5.
Atteggiamento religioso dello psichiatra
e scelte terapeutiche ed educative
V. Rapisarda
Università di Catania
Senza volere tornare indietro sino ai templi esclepiadei in
cui medici sacerdoti curavano insieme il corpo e lo spirito,
dimostrando il rapporto stretto con la religiosità e la morale
che ritroviamo nel trattamento morale di Pinel ed Esquirol
alle origini della psichiatria moderna, non vi è dubbio che la
netta separazione tra cura della mente e cura dello spirito,
frutto del positivismo è piuttosto superata. alla pari di una
convinta e diffusa concezione della neutralità della scienza.
Se la scienza finisce per dover fare i conti con una visione
antropologica che non può prescindere dalla componente
morale e religiosa tanto meno si può ritenere valida una psichiatria agnostica, neutrale, scettica nei confronti della perdita della dimensione spirituale.
Peraltro la secolarizzazione della medicina e della psichiatria non devono far dimenticare i meriti dell’intervento religioso in campo assistenziale (gli Ordini religiosi dedicati alla cura dei malati di mente, la tradizione di una accoglienza
familiare degli alienati a Bruges, dietro le orme di Santa
Difna, l’insostituibile apporto delle suore e frati per l’assi124
SIMPOSI TEMATICI
stenza dei malati di mente negli Ospedali psichiatrici pubblici e nelle strutture gestite direttamente da religiosi sia per
gli adulti che più spesso per minori sub normali – la benemerita Nostra Famiglia, ad esempio –, senza trascurare il
contributo, talora antesignano, di strutture di assistenza psichiatriche create nel mondo islamico).
Se è discutibile l’assistenza e comunque la opportunità di
pensare ad una psichiatria cristiana credo che sia convincimento di molti che debba esistere un operare dello psichiatra cattolico nella prassi e persino nella ricerca psichiatrica.
Lo psichiatra cattolico dovrebbe prendere posizione nelle
scelte terapeutiche (farmaci, terapie di shock, psicoterapie
reichiane o più chiaramente sessuali) così come non si presta a consentire l’aborto e chissà domani l’eutanasia, nelle
scelte organizzative e nelle scelte legislative, avversando, ad
esempio, i ricoveri brevi che hanno causato una scia interminabile di sangue, spesso all’interno delle famiglie che
sopportano un onere assistenziale incredibile, senza trascurare gli aspetti preventivi e riabilitativi, questi ultimi assai
spesso affidati a privati senza scrupoli e ad organizzazioni,
apparentemente senza scopo di lucro.
Vi sono problemi di igiene mentale trascurati (prevenzione
dei delitti e della delinquenza, specie quella minorile, la salute mentale nelle carceri, la scotomizzazione del problema
dell’Ospedale psichiatrico giudiziario, la lotta al commercio
della droga, il degrado morale, il dissesto ecologico – perché non intervenire preventivamente sui piromani? – il declino del ruolo sociale degli insegnanti). Anche il problema
della difesa sociale (e non solo individuale), che sembra sia
completamente dimenticato dagli psichiatri che lavorano nel
pubblico, non è più differibile e quindi lo psichiatra cattolico non può più rimanere inerte.
Una lettura socio politica del nostro tempo, definito da Lyotard post-moderno, si impone e senza giungere alle strumentalizzazioni che ci hanno fatto pervenire ad una riforma
affrettata e discutibile, come comincia ad emergere da voci,
anche autorevoli, di dissenso, occorre prendere posizione,
non solo individualmente, ma, con una sorta di coordinazione degli psichiatri credenti, anche dentro la SIP.
Ma il discorso travalica la nostra società scientifica e riguarda la presenza nella politica italiana, a partire dai Comuni e dalle Regioni sino al Parlamento nazionale e persino
europeo, soprattutto mediante documenti che spingano ad
una migliore legislazione e gestione dei problemi sociali, tra
cui quelli di cui si interessa la psichiatria non sono pochi, né
marginali.
A questo proposito occorre però far attenzione a non farsi
trascinare in quel pericoloso orientamento che, per la lotta al
relativismo, accomuna – così si vuole far apparire – il pensiero di non credenti come Pera e Ferrara con quello di Ratzinger e di Ruini. Se questi incontri sono lodevoli nello sforzo di avvicinare uomini alla fede non lo sono se utilizzati a
scopo politico e non solo di dialogo culturale. A mio giudizio ciò è una visione moderna della religione utilizzata come “instrumentum regni”.
Infine una attenzione particolare viene rivolta alla scelta
psicoterapeutica, tenendo conto che in Italia, come in Argentina e in Francia, ha un ruolo dominante la psicoanalisi la cui piena compatibilità con il cattolicesimo è ancora
oggetto di discussione, malgrado gli ammirevoli sforzi di
molti psicanalisti credenti, tra cui pregevole quello di Ancona che ha portato in Italia le esperienze di Lovanio e di
125
Montreal. Lo stesso Musatti finiva per ammettere pubblicamente che la Weltshaung freudiana, con il suo innegabile ateismo, viene trasmessa – presto o tardi – al paziente
nel setting terapeutico.
Cultura, psicopatologia e Religione:
tra obiettività ed ermeneutica
S. Zipparri
IHG, Istituto di scienze neurologiche e psichiatriche, Italian
Hospital Group, Guidonia, Roma
Come altre scienze, anche la psicopatologia ha a che fare
con eventi e fatti suscettibili di una conoscenza scientifica
obiettiva. Allo stesso tempo, però, essa ha a che fare anche
con i significati che possono essere attribuiti a tali eventi. E
questi ultimi non sono mai univoci e tendono perciò a reintrodurre un elemento di soggettività che rimane invece molto più marginale in altre discipline. Alla luce di tali premesse vengono discusse le tre grandi tradizioni della psicopatologia contemporanea (dall’indirizzo fenomenologico fino
all’approccio empirico-descrittivo confluito nelle varie edizioni del DSM, passando per il filone psicoanalitico) con
specifico riferimento al grado variabile con cui queste stesse tradizioni sono disposte ad accogliere una prospettiva ermeneutica più o meno direttamente collegabile a visioni del
mondo non dimostrabili né, tanto meno, falsificabili tra le
quali rientrano a pieno titolo le visioni del mondo di tipo religioso. E se fino ad ora è avvenuto che siano state le discipline psicopatologiche (e, prima fra queste, la psicoanalisi
freudiana) ad indagare i fenomeni della religione da una
prospettiva razionalistica e scientifica, con il presente contributo, invertendo i termini della questione, si intende invece dare conto di quegli orientamenti che, al contrario, hanno cercato di arricchire la comprensione dei fenomeni psicopatologici attraverso lo studio della religione, della mitologia o dell’arte. Si tratta di un rovesciamento metodologico – anch’esso inscrivibile nell’ambito di un problema di libertà per il ricercatore (in questo caso di libertà dalle strettoie di un certo tipo di riduttivismo scientista) – che, senza
pretendere di sostituire i ben più solidi strumenti di indagine propriamente scientifici, inteso nelle sue giuste dimensioni può costituire un’interessante ed euristicamente feconda prospettiva di indagine. Piuttosto che spiegare la religione si accosteranno allora i simbolismi di cui abbondano le
narrazioni religiose (assieme a tutta la mitologia, l’arte, la
letteratura ecc.) nel tentativo di enucleare contenuti di verità
che, al di là di ogni forma di letteralità, possono avere ancora qualcosa da dire persino allo psicopatologo contemporaneo.
Bibliografia
1
Andreoli V. Follia e santità. Genova-Milano: Marietti 2005.
2
Jervis G. Contro il relativismo. Bari: Laterza 2005.
3
Mill JS (1859). Saggio sulla libertà (a cura di Giorello G, Mondadori M). Milano: Il Saggiatore 1984.
4
Popper K. La società aperta e i suoi nemici (a cura di Antiseri
D). Roma: Armando 1996.
5
Zipparri S. Nel nome del Padre e di Edipo. Appunti di psicoanalisi e religione per il nuovo millennio (Presentazione di Leonardo Ancona). Roma: Armando 2000.
6
Zipparri S. Psicoanalisi e cultura. Roma: Armando 2003.
SIMPOSI TEMATICI
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA LEONARDO
S52 - Sette sataniche, psicopatologie e terapia
MODERATORI
V. Mastronardi, M. Villanova
Stili del demonio
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica, Sezione di Psichiatria, Università di Genova
Il demoniaco è, come si può intuire, una funzione emozionale a cui rappresentazioni mentali, idee, immagini, meccanismi percettivi si adeguano, per creare una globalità di contesto psichico vario, che va dal vissuto generico, all’allusione, alla certezza delirante, alla credenza religiosa socialmente condivisa.
Lo psichiatra ha il compito di sciogliere e chiarire i punti
centrali, come dire i mattoni costitutivi che portano alla via
finale comune della creazione del demonio. È evidente che
all’origine si ha a che fare con una esigenza interiore, un bisogno fantastico, legato all’ambivalenza, all’aggressività e
alla dipendenza, che sono i punti cardinali del vissuto del
demonio. A questo va aggiunto l’aspetto perturbante (propriamente Unheimliche), strettamente legato alla estrema
vicinanza dell’elemento emotivo primario (figura materna e
paterna, conflitti infantili) assieme al profondo senso di
estraneità e di stravolgimento.
In questa linea qui viene trattato lo stile del demonio, intendendo per stile le modalità comportamentali, gli atteggiamenti, il modo di vestire, la sintassi e la prosodia ed il contesto culturale in cui il demonio si muove. In questo senso
ognuno darà al proprio demonio lo stile suo proprio o che
gli conviene dargli.
Nella relazione presente vengono posti a confronto alcuni diversi stili demoniaci: quello di Cristof Heizmanm, della freudiana Nevrosi demoniaca del XVII secolo, quello del demonio
di Delitto e castigo, quello del demonio dei Fratelli Karamazoff, ed infine quello del Doctor Faustus di Thomas Mann: se
ne esaminano le profonde differenze, e si fanno alcune osservazioni sui modi di formazione degli stili diabolici.
Esorcismi vs. terapie
E. Aguglia, D. Carlino, M. De Vanna
U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste
Vi sono diverse patologie psichiatriche entro cui è collocare
il quadro fenomenologico della possessione demoniaca. In
primo luogo l’isteria, che è caratterizzata da peculiarità personologiche quali la facile suggestionabilità che possono facilmente indirizzare la patologia verso tematiche demoniache dando luogo a quella che viene definita da alcuni Autori come “isteria di conversione demoniaca”.
Il legame con l’epilessia può essere ancora più evidente
qualora il quadro neurologico si associ ad un Disturbo di
Personalità multipla come descritto in due case-report da
Benson et al. (1988). Forme psicotiche deliranti acute o cro-
niche possono anche essere centrate su vissuti mistici o diabolici e gli eccessi di automatismo (sonnambulismo). Deliri
e allucinazioni possono comparire anche nelle forme più
gravi di depressione, come le depressioni deliranti e tra queste la sindrome di Cotard, caratterizzata da idee di negazione, di immortalità e di trasformazione corporea, deliri di
dannazione e di possessione demoniaca, tendenza all’automutilazione e la suicidio. Molti Autori infine ritengono che
il Disturbo da Personalità Multipla possa spiegare quei casi
di possessione demoniaca ritenuti non spiegabili con altre
patologie psichiatriche.
Da un punto di vista neurofisiologico, i dati attualmente disponibili fanno riferimento agli “Stati Alterati di Coscienza”
(ASC), fenomeni di possessione che assumono l’aspetto di
una reazione individuale o collettiva di adattamento all’ambiente e che si manifestano grazie all’induzione di svariati
rituali.
Negli ASC è riscontrabile una diminuzione della liberazione di serotonina che possono anche essere indotte con varie
metodologie come l’uso di droghe, la meditazione e la deprivazione sensoriale, ecc. Questa diminuzione di serotonina causa una perdita dell’inibizione serotoninergica delle
cellule CA-3 dell’ippocampo, che diventano ipereccitabili e
perdono la loro capacità di unire e collegare gli eventi interni (lobo limbico e temporale) con quelli esterni con perdita
delle “funzioni di confronto” e conseguente sentimento di
unità a causa della scomparsa delle contraddizioni e dei conflitti.
L’ipereccitabilità delle cellule CA-3 porta alla comparsa di
scariche ad alto voltaggio, a onde lente e sincrone nell’area ippocampale che si traducono in un senso di energia.
La combinazione della perdita delle funzioni di confronto
e di questo senso di energia si traduce in un sentimento di
estasi. Anche il coinvolgimento dell’amigdala appare di
importanza fondamentale per distinguere le varie modalità
di apparire dei diversi ASC, comprendenti una serie di sintomi come la perdita di coscienza, l’amnesia e la spossatezza.
Future ricerche sono necessarie per stabilire se la possessione, la trance, l’estasi, l’ipnosi e l’autoipnosi, il volo dell’anima, ecc. rientrano nell’ambio della più vasta definizione
di ASC. Il comune substrato fisiopatologico giustifica altresì questo tipo di classificazione, proponendo una interessante correlazione tra gli aspetti genetici e gli influssi ambientali, tale che i vari tipi di ASC non sono dunque altro che i
diversi modi di apparire e di esprimersi, dovuti alle differenze socio-ambientali di una stessa predisposizione genetica di base.
Bibliografia
Mastronardi V, et al. Fenomeni di presunta possessione demoniaca
e psicopatolige. Riv Lit 2000;LXXXVII.
Carene RA, Cipolla R. In tema di delirio di possessione diabolica.
Studio antropologico e clinico. Riv Sperim Freniatria
1993;117:439-56.
126
SIMPOSI TEMATICI
Le sette e la valutazione psichiatricoforense di eventuali condizioni di abuso
2
R. Catanesi, F. Carabellese
Sezione di Criminologia e Psichiatria Forense, DiMIMP,
Università di Bari
Il termine “setta” tende ad evocare l’immagine di una organizzazione impermeabile, rigida, percorsa al suo interno da
un sistema di credenze condivise dai membri, per lo più
chiusa attorno al leader unico che incarna, per certi versi, un
ruolo genitoriale. Dunque, ciascun membro instaura con il
leader un rapporto emotivamente ed affettivamente molto
intenso e significativo.
Peraltro, le dinamiche interne ai gruppi settari e le logiche di
appartenenza/esclusione che le caratterizzano sembrano regolate da forme di comunicazione e, più in particolare, di
persuasione che lasciano filtrare la possibilità di forme di
abuso psicologico, al punto che da più parti si sollecitano
forme di tutela giuridica. Si tratta, tuttavia, di problematica
controversa, complessa, anche nell’ottica della valutazione
psichiatrico-forense.
Da un punto di vista normativo, difatti, gli spazi di intervento sono molto ristretti.
Abrogato con sentenza n. 96 del 8 giugno 1981 dalla Corte
Costituzionale il reato di “plagio” (art. 603 c.p.) che espressamente prevedeva sanzioni penali per chi sottoponesse …
una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale
stato di soggezione … anche psicologica, attualmente a tutela di forme di abuso veicolate all’interno di un rapporto
psicologicamente significativo vi sono poche armi e quella
più utilizzata è certamente l’art. 643 c.p. 1. Nei fatti, tuttavia,
la sua applicazione nelle situazioni prospettate appare molto difficile.
Altra ipotesi prospettabile, di ancor più complessa individuazione, è l’abuso di una condizione di “inferiorità psichica” all’interno del reato di violenza sessuale 2. L’avere rapporti sessuali col leader della setta costituisce, infatti, un rituale ricorrente e diviene, in seguito, attività praticata con
frequenza. Ma perché possa sostenersi simile reato è necessario dimostrare la presenza di fenomeni patologici nella
vittima che vadano ad incidere significativamente sulla qualità del consenso fornito all’atto sessuale, ipotesi di non facile dimostrabilità.
Per converso non può escludersi che in alcuni casi il capo
carismatico della setta veda alimentato il suo fervore, la sua
convinzione da un disturbo mentale, a volte da disturbi deliranti, ponendosi in conseguenza il problema della valutazione del suo stato di mente al momento della commissione
di specifiche condotte-reato ed in relazione ad esse; la eventuale ricorrenza di una infermità nel leader mette naturalmente in crisi ogni potenziale forma di tutela giuridica, posto che nelle attuali formulazioni dei reati di violenza sessuale e circonvenzione di persona incapace presupposto
fondante è avere, da parte dell’autore, la consapevolezza
critica dell’abuso dell’incapace.
Bibliografia
1
Art 643 c.p. (circonvenzione di persona incapace): “chiunque,
per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni,
delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una
127
persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per
altri dannoso, è punito …”.
Art. 609 bis c.p. “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti
sessuali è punito …
Alla stessa pena è sottoposto chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni d’inferiorità fisica o
psichica della persona offesa al momento del fatto”.
Fenomeni di presunta possessione
demoniaca e psicopatologie
V. Mastronardi, M. Villanova
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”, Università di Roma Tre
I casi di presunta possessione demoniaca rappresentano una
realtà sempre più frequentemente proposta dai mezzi di comunicazione di massa che ci mettono a conoscenza, anche
se spesso con scarsa proprietà critica e scientifica, di numerosi casi di presunti posseduti, di sette sataniche e molteplici altri avvenimenti collegati alla credenza nell’esistenza di
demoni, ancora oggi viva come nelle epoche passate. Il modo di manifestarsi dei casi di possessione è rimasto, infatti,
invariato nel corso della storia della civiltà umana, cosicché
è oggi possibile osservare questo fenomeno in maniera non
dissimile da come veniva osservato, ad esempio, nel medioevo o ai tempi delle prime civiltà.
La figura del diavolo, qui intesa come rappresentazione
del male, è universalmente presente, pur con le sue varianti, in tutte le religioni conosciute ed essa è ben viva nell’immaginario collettivo con tutta una serie di precise caratteristiche (l’odore di zolfo che accompagna la sua comparsa e la sua scomparsa, l’immagine del caprone o di altri animali come cani neri, maiali, ecc. le sue proposte tentatrici e la sua capacità di impossessarsi degli individui)
che comunque assumono carattere di ricorrenza. La credenza nei demoni costituisce per taluni la realtà dei cosiddetti fenomeni di possessione e la sofferenza che essi comportano per l’individuo posseduto è sottolineata dai numerosi studi condotti sull’argomento in quattro principali
aree o campi di ricerca: teologico-religioso, antropologico,
parapsicologico, psichiatrico.
Lo studio dell’inquadramento psichiatrico non poteva
prescindere dalla disamina delle allucinazioni e dei deliri
nonché dall’inquadramento fenomenologico già oggetto
di disamina nel DSM IV che comporta diagnosi: dalla nevrosi demoniaca ai disturbi da personalità multipla
(MPD), alla Schizofrenia e altri disturbi psicotici, disturbi da sonnambulismo ed altri disturbi ancora, tra i quali il
Disturbo Ossessivo Compulsivo, l’epilessia larvata, l’episodio maniacale, gli stadi alterati di coscienza indotti da
sostanze.
Vengono peraltro esaminati i tipi di traumi infantili riferiti
da pazienti con MPD, responsabili a loro volta di fenomeni
di possessione demoniaca (da Putnam et al., 1986, modificato) sono: abuso sessuale (83%), abuso fisico (75%), abuso fisico e sessuale (70%), trascuratezza estrema (60%), testimonianza di morti violente (45%), altri abusi (40%),
estrema povertà (20%), nessun trauma (3%).
SIMPOSI TEMATICI
Parafilie emergenti e Culti distruttivi.
Patologia definita e pericolosità sociale.
M. Villanova
Università di Roma Tre
Partendo da un modello di espressione biologico-relazionale e quindi in chiave etiologico-comparativa si cerca di censire il variegato panorama psicopatologico delle Parafilie
(condotta sessuale dove l’“oggetto” del desiderio sessuale è
qualcosa di diverso da un individuo adulto ma comunque
viene mantenuta la “meta sessuale” che è la gratificazione
pulsionale) sia classiche e ancor di più emergenti.
Tale bacino di disagio compensato risulta alimentato in gran
parte dalla ridondante amplificazione mediatica degli ultimi
anni e nasconde una crescente componente reattiva di Perversione (ovvero di tendenza a produrre un Danno ad altri
individui in seguito all’attività sessuale stessa) che in un
contesto favorente, trova spontanea collocazione e libertà di
azione in contesti definibili di cultura religiosa settaria.
Infatti alcuni “Culti emergenti” o “Nuove religioni alternative” nascondono una certa dimensione di manipolatorietà
dell’individuo, assumono valore distruttivo e rappresentano
il ricettacolo sociale di una quota di individui affetti da una
psicopatologia spesso ben mascherata, occultata alle possibilità di riconoscimento diretto non solo della gente comune,
ma anche degli Operatori territoriali. Alla dimensione di aggregazione sotto un’etichetta religiosa o comunque di spiritualità si aggiungono altre forme di coesione umana, pubblicizzate attraverso la rete e ad attività transnazionale, dal punto di vista investigativo risultate più volte a cavallo di forme
più esplicite di reato (traffico di sostanze, lavorati esteri, di
esseri umani) e di varia criminalità anche organizzata.
La necessità di una comprensione prima di tutto psichiatrico-clinico-nosografica delle possibili patologie definite a
monte dei comportamenti sessuali distruttivi mimetizzati
nella cornice dei cerimoniali del Culto proposto consente
una possibilità di riconoscimento precoce sul Territorio con
possibilità da parte di tutte le figure di Operatori territoriali
di individuazione dei segnali di allarme (“Paleopatterns”)
utili ad operare una politica di Prevenzione primaria (ridu-
zione del rischio) soprattutto in quelle aree urbane a maggior rarefazione, per cause varie e non necessariamente legate a degrado ed indigenza ma più spesso a discrasia masspedagogica e difetto di intervento formativo durante lo sviluppo pulsionale-libidico in età evolutiva, della possibilità
di esercitare una capacità di efficace e positiva somministrazione di valori psico-pedagogici attraverso le Agenzie di
Formazione primaria (famiglia, scuola, Chiesa).
Conoscere ed illustrare la storia naturale della singola Sindrome parafilica e le possibilità di interazione con i fattori
promuoventi la devianza sul Territorio rappresenta una modalità preziosa per la definizione di modelli trasmissibili di
condotta-sintomo che in presenza di fattori prima predisponesti, poi facilitanti e successivamente scatenanti porteranno al fatto-reato con le conseguenze di carattere penale che
porteranno all’intervento psicopatologico-forense.
L’importanza operativa di tali modelli assume un grande rilievo didattico nella Formazione permanente degli Operatori territoriali (Medici e Paramedici, Educatori, Formatori,
Operatori di Comunità, Assistenti sociali, Forze dell’Ordine, Religiosi ed Operatori della Chiesa Cattolica) ma soprattutto a livello investigativo e per la costruzione di percorsi riabilitativi nella necessità di stabilire interventi di deprogrammazione sull’adepto divenuto attore del reato stesso o di de-briefing sulle vittime dell’attività di perversione
esercitata durante le pratiche di appartenenza settaria, e
quindi in sede di attività peritale nella necessità di accertare
la sociale pericolosità del singolo individuo che ne fa parte.
Particolare interesse ed approfondimento viene riposto agli
aspetti ed alla metodologia di raccolta anamnestica e psicodiagnostica, sia sulla base dell’osservazione (continuum vitae ed analisi psico-biografica ed esistenziale del Soggetto)
sia della somministrazione di reattivi mentali mirati ad indagare su identità e ruolo sessuale, sull’immaginario sessuale individuale nonché sui pregressi traumi subiti durante
lo sviluppo pulsionale-libidico della Personalità, alla base
della Sindrome abusato-abusatore nell’estrinsecazione parafilica del comportamento sessuale adulto, caratterizzato
sempre da immaturità affettiva, regressione pulsionale-libidica, frammentarietà, parzialità e regressione ontologica dei
referenti sessuali utilizzati.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA VERDE
S53 - Il curare delle psichiatrie tra certezze
e improbabilità scientifiche ed etiche
MODERATORI
V. Gatti, G.C. Nivoli
Trattamenti psichiatrici: curanti, curàti
e cure
V. Gatti
Già Primario di Psichiatria e Direttore DSM S.S.N.
La psichiatria cura con adeguate terapie le persone che rivelano, attraverso una multimodale ed intricata espressività individuale, segni di sofferenza psichica. Queste parole de-
scrivono in maniera riduttivamente semplicistica fatti di
grande complessità teorica e pratica.
Postulato ciò si propone una riflessione.
In ogni circostanza clinicamente caratterizzata, avremo una
tripolarità operativa: il curante, il curato, la cura. Se è vero
che nell’uomo salute e malattia rappresentano un binomio naturalistico-antropologico inscindibile, si vedranno contrapposte, se si escludono elementi di reciproca contaminazione,
culture, scientifiche propriamente dette e culture dei valori.
128
SIMPOSI TEMATICI
La prassi delle psichiatrie, in accordo con le finalità terapeutiche dell’intervento, tende, come in tutte le pratiche mediche, ad applicare protocolli terapeutici specificamente
correlati a categorie diagnostiche di riferimento. Nei fatti
avremo:
a) settoriali e precostituite afferenze culturali scientifiche da
ambiti diversificati della ricerca, applicate tout-court ai
polimorfi e fluidi aspetti cangianti delle singole dimensioni psicopatologiche;
b) trasferimento nella pratica clinica di dati scientifici
spesso non attendibilmente validati o addirittura non validati, che solo a livello di ipotesi di ricerca sono ammissibili;
c) la formazione tecnico-scientifica del curante, le dimensioni biologiche, psicologiche e sociali del curato e la tipologia delle cure adottate, elementi tutti fra di loro variamente interagenti, introducono un ulteriore elemento
critico che scolla l’adesione preordinata fra certezza
scientifica e agire terapeutico. L’agire terapeutico che
consideri il valore uomo, rimanda ad una dimensione ontologica complessa, profondamente impregnata di eticità,
costitutiva di ogni comportamento umano.
Il sistema dei valori riferiti all’uomo prescinde dalla tipologia del trattamento (psicofarmacoterapia e/o psicoterapia
e/o socioterapia). È una capacità clinica che va oltre la dimensione naturalistica o psicosociale del fenomeno sul quale si interviene. Si riferisce precipuamente alla relazione intersoggettiva con tutte le implicazioni del mondo della comunicazione che le si riferiscono, prima, durante e dopo
l’approccio terapeutico. Parte dalla necessità di una comprensione in reciprocità circolare del linguaggio, prevalentemente linguistico, ma anche fenomenico, patico, intenzionale, comportamentale, tra curante, curato, e sistemi di cura
(sistema circolare delle comunicazioni polisemiche complesse).
Tale sistema è portatore di valori etici, imprescindibili nella
pratica del curare. Le tematiche trattate andrebbero approfondite, sistemate e scritte secondo la metodologia che
attiene allo studio delle scienze umane, costituendo materia
di formazione in psichiatria.
Etica operativa e trattamento psichiatrico
A. Amati
Università “Magna Græcia” di Catanzaro, Dipartimento di
Medicina Sperimentale e Clinica “G. Salvatore”
L’“etica operativa” consiste nell’attitudine permanente alla
correttezza nello svolgimento delle procedure tecniche ed al
rispetto dei soggetti con i quali si entra in relazione per motivi professionali.
Essa, pertanto, da un lato si collega alla competenza professionale e dall’altro si esprime in termini di condivisione della complessità e di contrattualità. Come tale non è un insieme pre-costituito di soluzioni e di comportamenti perché si
basa di volta in volta sull’informazione personalizzata, sull’estensione e sulla validità del consenso del malato, che, a
loro volta, si riflettono sui processi diagnostici e sulle proposte di terapia.
La competenza dello psichiatra, se basata esclusivamente
sull’intersoggettivo, rischia la frammentazione empirica
129
delle esperienze e le generalizzazioni arbitrarie mentre la
consuetudine alle conoscenze documentate della “Evidence
Based Psychiatry” consente la personalizzazione delle scelte. D’altro canto, stili differenti di comportamento clinico,
espressi da psichiatri di diversa formazione, possono interferire sulla relazione fiduciaria del paziente.
La dimensione contrattuale dell’etica operativa riguarda la
reciproca delimitazione dei ruoli, la disponibilità non invasiva e la lealtà verso il paziente. In altre parole, è partecipazione consapevole alla intersoggettività che riconosce al paziente una funzione dinamica nella valutazione ed attiva nel
trattamento.
Il farmaco, la sua accettazione, l’adesione alla cura sono un
altro spazio di consapevole negoziato, tra l’efficacia teorica
attesa e l’efficacia calibrata alla storia, all’identità ed al contesto ambientale del singolo soggetto.
Il limite di conciliabilità tra essere e fare, affiora nelle relazioni prolungate, che possono favorire una impropria “familiarità” tra psichiatra e paziente: appropriate modulazioni
della distanza relazionale in rapporto alla evoluzione del
quadro clinico possono scandire la relazione terapeutica in
modo eticamente corretto.
La sfida dell’etica sovraindividuale chiede di sviluppare
l’alleanza di lavoro con il singolo e di interagire correttamente sia con i gruppi ai quali appartiene il paziente, sia con
le componenti professionali differenziate che operano nella
stessa équipe.
Il vero punto nodale nel rapporto con il paziente è il consenso informato perché i disturbi psichici interferiscono con
l’autonomia decisionale del soggetto, la terapia può solo ripristinare l’autonomia stessa
Prigionia dei sintomi e del controllo sociale:
lo psichiatra come promotore di libertà
F. Fiore
Direttore DSM ASL AV2
Tutte le condizioni umane segnate da patologie di interesse
psichiatrico si connotano nella compromissione della libertà
individuale.
I livelli quantitativi e qualitativi della diminuzione o distorsione della libertà sono esemplificati dalla titubazione nell’ansia, dalla inibizione nella depressione, dalla coazione
nella ossessività, dalla ambivalenza nella Schizofrenia, dall’arresto nella catatonia, ecc., in una infinita gamma di graduazione e significato che consentirebbe una specifica nosografia categoriale.
D’altra parte le patologie psichiatriche condizionano attraverso appositi istituti normativi ulteriori flessioni della libertà individuale, attraverso l’obbligatorietà delle cure, l’interdizione, l’incapacità di intendere e di volere ecc., in una
serie di rimandi oscillanti tra difesa sociale e diritto di cittadinanza.
In tale contesto apparentemente antinomico, si colloca lo
psichiatra quando il suo agire debba essere rivolto a facilitare l’emancipazione dai sintomi o la capacitazione sociale,
con lo scopo ultimo di riaffermare la valorizzazione intersoggettiva dell’uomo malato.
SIMPOSI TEMATICI
Il consenso nella psicoterapia
G.C. Nivoli
Clinica Psichiatrica, Università di Sassari
In ambito psichiatrico il consenso informato costituisce un
importante elemento della relazione medico-paziente, ed è
altresì un momento particolarmente delicato e sensibile a
possibili violazioni dei confini etici e deontologici.
Nell’ambito della psicoterapia il terapeuta può rivestire
per il paziente il ruolo di “guida” in particolari momenti
della vita, caratterizzati da situazioni di incertezze. In tali
condizioni può risultare particolarmente complesso per il
terapeuta chiedere e ricevere dal paziente un consenso
informato sulla terapia. Nell’ambito di tale problematica,
l’Autore sottolinea le difficoltà del terapeuta sulla opportunità di informare, completamente e correttamente, il paziente e le difficoltà per il paziente di conoscere la complessità del percorso psicoterapico. In questo ambito si
colloca la metodologia, suggerita dall’Autore, che permette di rispettare da una parte le legittime informazioni
da fornire al paziente (obiettivi e benefici della terapia),
dall’altra le modalità con cui tali obiettivi saranno perseguiti.
23 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA SAN GIOVANNI
S54 - Psichiatria spaziale: presente e futuro
MODERATORI
F. Garonna, M. Piccoli
Biomedicina spaziale ed esplorazione
umana: i programmi dell’Agenzia Spaziale
Italiana
V. Cotronei, G. Mascetti
Agenzia Spaziale Italiana
Il programma mira al rafforzamento di un processo teso a
favorire programmi nazionali, integrando competenze diverse promuovendo ed implementando network multidisciplinari, indirizzati allo sviluppo di applicazioni diagnostiche, terapeutiche, preventive e biotecnologiche.
L’obiettivo è di acquisire nuove conoscenze nel settore biomedico attraverso l’utilizzo delle peculiari condizioni dello
spazio e di trasferirle e tradurle in applicazioni utili per la vita sulla Terra.
In sostanza ci si propone di effettuare ricerche che portino
allo sviluppo ed all’implementazione di contromisure per
gli effetti negativi che il volo spaziale ha sull’uomo, in particolare si concentra sulla fisiologia cardiopolmonare e muscoloscheletrica, le neuroscienze, la nutrizione ed il metabolismo con uno sguardo agli sviluppi tecnologici correlati. Queste attività intendono espandere la comprensione
della fisiologia e delle prestazioni umane ed ampliare le capacità operative nel campo biomedico, per migliorare la
qualità della vita sulla terra. Recentemente è stata data
un’enfasi maggiore al programma di esplorazione umana
dello spazio.
Atmosfera e processi discriminativi
e di adattamento nello spazio
E. Costa
1a Cattedra di Psichiatria, Università di Roma “La Sapienza”
Sappiamo che le capacità umane di adattamento permettono
la sopravvivenza anche in ambiente diverso da quello terrestre e che l’essere umano è riuscito ad adattarsi nello spazio
anche per più di un anno. Ma poco conosciamo ancora su
quale potrebbe essere l’adattamento psicofisico nello spazio
durante una permanenza più prolungata, quali risposte si potrebbero avere in condizioni così particolari, come il corpo
e la mente umana potrebbero alla lunga modificarsi.
Quali evidenze abbiamo sull’importanza dell’atmosfera:
concentrazione ionica e polarità; campi elettromagnetici che
modulano la frequenza respiratoria e cardiaca, i tempi di
reazione, la rapidità discriminativa; i venti caldi ed umidi
che influenzano il tono emotivo, l’attività spontanea e lo
sviluppo corporeo; i fotoperiodi, i ritmi circadiani, ultradiani, la alternanza luce-buio che influenzano l’asse ipofisisurrene?
Il programma spaziale internazionale che prevede la lunga
permanenza dell’essere umano nello spazio ha attivato studi di approfondimento sulle risposte psicofisiche equipaggio/ambiente, mostrando che gli esperimenti nello spazio ed
in luoghi assimilabili producono modificazioni dei ritmi circadiani che sono condizionate e condizionano gli assetti del
ciclo sonno/veglia e di vari ritmi biologici.
In sintesi, le nostre funzioni superiori dipendono dalle sequenze di processi parcellari relativi ad un mosaico di informazioni che costituiscono il terreno cosciente di quel momento. L’avventura umana nello spazio è cominciata!
Cronoastrobiologia, telemedicina e grandi
emergenze: applicazioni di psichiatria
spaziale
F. Garonna
ULSS 3 del Veneto, SC Psichiatria, Ospedale “San Bassiano”, Bassano del Grappa, Vicenza
Siamo solo all’inizio dell’avventura spaziale umana. Gli
aspetti psicologici e psicopatologici collegati alla lunga permanenza nello spazio e all’esplorazione planetaria sono ritenuti cruciali per il successo delle missioni. Ma ciò, per il
momento, riguarda solo un numero limitato di soggetti. Le
130
SIMPOSI TEMATICI
competenze della medicina spaziale possono già interessare
una molteplicità di eventi che riguardano il nostro pianeta,
legati alla sua dinamica astrofisica e geologica, in quanto
parte di un sistema cosmico.
La cronoastrobiologia, disciplina emergente, ci aiuta a comprendere e considerare gli effetti che fenomeni astrofisici
hanno sulla salute, e, per quel che ci riguarda, sulla salute
mentale.
Ma di maggiore importanza e attualità sono le grandi emergenze del pianeta, legate a fenomeni sismici, atmosferici, o
quant’altro riguarda esso come entità fisica (fenomeni astrofisici, radiazioni, magnetismo, composizione atmosferica
ecc.).
Le catastrofi naturali vedono oggigiorno impegnata l’intera umanità, e hanno un impatto economico, sociologico,
psicologico su vaste popolazioni, su chi è vittima e su chi
soccorre e deve essere tempestivamente preparato a questo.
La Disaster Psychiatry rientra tra le competenze della medicina spaziale e in particolare di chi intende occuparsi di
Space Psychiatry.
Appartiene all’ambito specialistico della medicina spaziale
la telemedicina satellitare con le possibili applicazioni nell’assistenza, oltre che nell’emergenza. La tecnologia satellitare consente di raggiungere rapidamente ed a costi sostenibili numerose utenze, nella formazione e aggiornamento degli operatori, nella consultazione specialistica, e nell’assistenza. È importante sottolineare come proprio nelle situazioni di maggiore disagio e/o disabilità, sia determinante ed
efficace giungere più vicino possibile all’utente e a chi lo assiste. Ecco che la telemedicina satellitare potrebbe e dovrebbe trovare applicazione prioritaria proprio nell’assistenza agli anziani, ai disabili e ai malati mentali. Il volano tecnologico ed economico che verrebbe attivato darebbe forza
e interesse alle categorie sanitarie più socialmente svantaggiate e stigmatizzate.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 1
S55 - I metodi di valutazione delle terapie
farmacologiche psichiatriche:
sta crescendo la discrepanza tra gli studi controllati
e l’osservazione clinica?
MODERATORI
M. Raja, A. Koukopoulos
Treatment of Obsessive Compulsive
Disorder (ROC): from controlled trials
to reality
E. Hantouche
Mood Center, Adult Psychiatry Department, PitiéSalpêtrière Hospital, Paris
Background: despite the growing interest during the last
two decades, Obsessive Compulsive Disorder (OCD) still a
complex and difficult to treat condition. Serotonergic antidepressants were developed in the treatment of OCD, as
well as some augmentation and combination strategies for
resistant cases, ROC. However, few studies were dedicated
to explore the phenomenology of ROC. These studies are
limited by the selection criteria imposed by strict protocols.
In this context, the AFTOC, French Association of subjects
with OCD, was concerned by a significant rising number of
people suffering from ROC.
Results: the new survey of AFTOC “TOC & ROC” have selected a sample of 360 patients, who are members of the association. The rate of ROC was 44.2%, 25.3% of Good responders (GR), and 30.5% in between. Inter-group comparisons (vs. GR) showed that the ROC group was significantly
characterized by: higher rates of psychiatric admissions (49%
vs. 28%), suicide attempts (26% vs. 13%), higher numbers of
doctors consulted (5.5 vs. 3.2), compulsions (4.6 vs. 3.4), and
psychiatric comorbidity (2.8 vs. 2.0, especially agoraphobia,
131
social anxiety and worry about appearance). Assessment by
full TEMPS-A scale revealed, in ROC group, significant
higher rates of cyclothymic Temperament (63% vs. 43%, p =
.0003), depressive Temperament (72% vs. 53%, p = .004),
and Irritable Temperament (21% vs. 9%, p = .02). Logistic regression analyses (ROC method) were used to identify predictive factors of ROC. Data showed that the most powerful
factors were worsening under SRIs and worry about appearance (both OR = 2.85), followed by current age above 40 yrs
(OR = 2.68), and psychiatric admission (OR = 2.23).
Conclusion: we submit the hypothesis that cases with ROC
should be explored through specific comorbidity (obsession
of appearance, social anxiety, and Cyclothymic temperament), and especially worsening with serotonergic antidepressants. More vigilance is needed toward suicide risk in
this condition.
Il dosaggio degli antipsicotici atipici
negli studi clinici controllati e nella pratica
clinica: dieci anni di errori
A. Azzoni, M. Raja
Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Ospedale “Santo
Spirito”, Roma
Il più significativo passo in avanti compiuto nella psico-farmacologia negli ultimi dieci anni è stata l’introduzione in
SIMPOSI TEMATICI
clinica dei farmaci antipsicotici di seconda generazione
(“atipici”). Questi farmaci, sintetizzati nella speranza di trovare composti efficaci quanto la clozapina ma senza analoghi effetti collaterali, hanno rivoluzionato l’approccio terapeutico a molti disturbi psichiatrici.
Si è registrato un drammatico scarto tra i dati empirici raccolti negli studi controllati, randomizzati, in doppio cieco,
condotti principalmente a scopo di registrazione, e la pratica clinica corrente. In particolare, per tutti questi farmaci è
stato proposto in fase di lancio sul mercato, sulla base dei
dati degli studi registrativi, un dosaggio che nel corso di alcuni mesi di pratica clinica si è dimostrato drammaticamente inadeguato.
Il risperidone è stato inizialmente raccomandato al dosaggio
quotidiano di 8-16 mg, mentre la successiva pratica clinica
ha spostato il range ideale di dosaggio quotidiano a 2-6 mg.
Per l’olanzapina è stato inizialmente raccomandato un ideale dosaggio quotidiano di 10 mg, mentre la successiva pratica clinica ha evidenziato che il dosaggio quotidiano ideale
per la maggior parte dei pazienti con sintomi psicotici è di
20 mg/die, e che per un numero significativo di pazienti sono necessari dosaggi più alti per un’ottimale risposta terapeutica.
La quetiapina, inizialmente raccomandata alla dose di 300
mg/die in fase acuta, è ora raccomandata dalla stessa azienda produttrice a dosaggi quotidiani non inferiori a 600 mg,
ed è pratica clinica non rara impiegarla a dosaggi fino a ≥ 6
volte maggiori alla dose inizialmente raccomandata.
Il sertindolo, indicato inizialmente ad una dose quotidiana
di 8-24 mg, è stato presto ritirato dal commercio e non è stato forse possibile valutarne adeguatamente il dosaggio ideale nella pratica clinica corrente.
Il dosaggio ottimale di amisulpride, indicato dall’azienda
produttrice sulla base degli studi registrativi, è stato oltremodo variabile (e non poco confondente per gli psichiatri),
oscillando da 50 mg (nella improbabile indicazione antidepressiva) a 100-300 mg (nella dubbia indicazione di trattamento dei cosiddetti sintomi negativi) ed a 600-1.200 mg
nella più fondata indicazione di trattamento dei sintomi psicotici positivi.
L’aripiprazolo è stato lanciato con un’indicazione di dosaggio ottimale giornaliero di 15-30 mg. Forse anche con questo farmaco è stato commesso un errore. Dosaggi molto inferiori si sono già rivelati ottimali in un numero significativo di pazienti.
La clozapina sembra essere l’unico antipsicotico di nuova
generazione in cui i dosaggi proposti in fase di lancio sono
stati confermati dai successivi anni di pratica clinica. Ma oltre due decenni di uso pratico clinico di questo farmaco precedenti il rilancio registrativi ufficiale spiegano forse questa
differenza.
Prevention of suicidal behaviour in clinical
trials and in practice
Z. Rihmer
National Institute for Psychiatry and Neurology, Budapest
Since suicide in mood disorder patients occurs almost exclusively in the context of major depressive episode or in
dysphoric mania, to treat mood episodes effectively and to
stabilize the period of euthymia is essential for suicide prevention.
In fact, several large-scale, naturalistic, observational,
long-term clinical follow-up studies (including mostly severely ill, frequently suicidal unipolar or bipolar inpatients)
show that compared to no treatment, the risk of completed
suicide of patients on long-term medication (mood stabilizers and/or antidepressants) is 2-8 fold lower.
On the other hand, however, the meta-analyses of phase 23 RCTs on unipolar major depression shows almost a double frequency of suicidal behaviour of patients on antidepressants, compared to those on placebo.
This is in sharp contrast with the 2-8 fold reduction of sucidal risk among treated vs. untreated mood disorder patients, reported in open clinical trials.
The possible explanation of this contradiction might be that
in contrast to “officially” diagnosed Bipolar I and Bipolar II
depressives, as well as the actively suicidal/psychotic depressives, subthreshold bipolar/bipolar spectrum patients
are not excluded from the randomized controlled antidepressant trials on “unipolar” major depression, and as we
have learnt recently, antidepressant monotherapy (unprotected by mood stabilizers) can induce/worsen depressive
mixed states even in subthreshold bipolar and bipolar spectrum depressives.
References
Akiskal HS, et al. J Affect Disord 2005;85:245-58.
Angst F, et al. J Affect Disord 2002;68:167-81.
Kahn A, et al. Am J Psychiat 2003;160:790-2.
Yerevanian BI, et al. Acta Psychiat Scand 2004;110:452-8.
Treatment of depression in controlled trials
vs. clinical practice
F. Benazzi
University of California, San Diego and Hecker Psychiatry
Research Center, Forli
Introduction: the current best evidence based on controlled
trials of depression is not seen by clinicians as relevant for
clinical practice (March et al., Am J Psychiatry 2005). Practical clinical trials have been suggested, to overcome the
limitations of controlled trials.
While controlled trials include very selected populations
not representative of usual clinical practice (and may have
several biases related to the funding by drug companies),
practical clinical trials include usual clinical practice populations, the setting is clinical practice, simple and clinically relavant outcomes are assessed, selection bias and
confounding are controlled by random treatment assignment.
Methods: several antidepressant controlled trials were reviewed, and compared to usual clinical practice.
The focus was mainly on the treatment of bipolar depression.
Results: nonbipolar depressed individuals who would qualify for an antidepressant efficacy trial were compared to
nonbipolar depressed individuals not qualifying for an antidepressant clinical trial. Nonqualifying individuals were
132
SIMPOSI TEMATICI
suicidal, or had anxiety disorders comorbidity, or had substance abuse disorder, had a longer-lasting depression, more
depressive episodes, more psychosocial impairment, and
more personality disorders.
Nonqualifying depressed individuals were 80% of depressed outpatients. In bipolar depression, controlled trials
showed opposite results. A systematic review and metaanalysis of controlled, short-term trials of antidepressants
for bipolar depression (usually bipolar I depression) found
antidepressants (often superimposed on mood stabilising
agents) more effective than placebo, and antidepressants did
not induce more switching to mania than placebo (4% vs.
5%).
Instead, a selective review found short-term antidepressants
effective only in a small proportion (15%), found long-term
antidepressants use linked to a rapid cycling course in 25%,
found that the current best evidence supported the use of
lithium to treat bipolar depression, and also lamotrigine,
possibly divalproex, and some atypical antipsychotics for
acute and/or long-term management of bipolar depression.
However, lamotrigine was found effective in the acute treatment of bipolar depression in one study, and not effective in
two studies.
Conclusion: controlled trials of antidepressants in nonbipolar depression are not representative of usual clinical practice. Controlled trials of antidepressants in bipolar depression have shown opposite results. Practical clinical trials,
based on real-life populations, should become the new
ground where to assess the efficacy of antidepressants for
clinical practice.
La politerapia psicofarmacologica negli
studi clinici controllati e nella pratica clinica
G. Perugi
Dipartimento di Psichiatria, Università di Pisa, Istituto di
Scienze del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
Introduzione: nella pratica clinica il trattamento del Disturbo Bipolare richiede molto spesso l’impiego contemporaneo di diversi farmaci. La complessità e variabilità dello
spettro sintomatico del Disturbo Bipolare ed i rapidi cambiamenti dei sintomi rendono generalmente indicata la terapia con farmaci appartenenti a classi terapeutiche diverse.
Metodo: rassegna della letteratura su Pub Med alle parole
chiave Disturbo Bipolare polifarmacoterapia. Ricerca manuale di capitoli su libri o riviste non indicizzate.
Risultati: sali di litio, anticonvulsivanti, antidepressivi ed
antipsicotici di 1° e 2° generazione, sono opzioni abituali
nel trattamento del Disturbo Bipolare. Negli ultimi anni si è
assistito ad un marcato incremento dell’uso delle associazioni farmacologiche nella pratica clinica a fronte di una
mancanza pressoché assoluta di dati derivati da studi controllati su di esse. Osservazioni naturalistiche, case reports e
opinioni di esperti orientano le scelte dei clinici dal momento che gli studi randomizzati e controllati in doppio cieco (RCT) sulle associazioni psicofarmacologiche sono rari.
Conclusioni: dal momento che la polifarmacoterapia è la
regola e non l’eccezione, i criteri di associazione delle molecole appartenenti a classi chimiche diverse devono essere
attentamente considerati alla luce di fattori come efficacia
dei diversi farmaci sulle varie componenti della sintomatologia, caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche,
profilo di effetti collaterali, modalità di somministrazione e
costi. Tra questi fattori il profilo di effetti collaterali dei farmaci cosomministrati è probabilmente quello più frequentemente utilizzato nella scelta della terapia.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 2
S56 - Fenomenologia e neuroscienze
MODERATORI
S. Pallanti, A. Rossi
Presupposti per una neurofenomenologia
S. Pallanti
Istituto di Neuroscienze, Firenze
Il termine Fenomenologia, impiegato da Lambert, nel 1764
per definire la disciplina che ha per oggetto lo studio della
parvenza, fu poi ridefinito da Kant nel 1770 spostando l’attenzione verso le categorie della modalità, più che sui contenuti.
Questo approccio è divenuto centrale in psicopatologia grazie ai contributi di Jaspers, Binswanger, Mikowsky.
Recentemente l’interesse per questo approccio all’incontro
con il paziente, grazie anche ai contributi delle neuroscienze che hanno ridotto la fiducia nelle categorie diagnostiche,
133
si è riacceso per la consapevolezza della necessità di approccio meno riduttivista alla sofferenza mentale.
L’incontro tra Fenomenologia e Neuroscienze richiede comunque una riflessione che deve iniziare dalla definizione
delle discipline e dei metodi
Il termine “Neurosciences” viene ufficialmente impiegato
da Francis O. Schmitt per definire il programma di ricerche
da lui diretto al Massachusetts Institute of Technology MIT
dal 1962 al 1974 e che aveva per oggetto lo studio del cervello e delle sue funzioni.
Nella definizione del Neurosciences Research Foundation
(NRF) il termine va ben oltre i campi della neurologia e la
neurofisiologia poiché inter-disciplinare sino dalla fondazione, Schmitt era un biologo molecolare microscopista
elettronico, e per il suo ambizioso programma di ricerca si
SIMPOSI TEMATICI
rendeva conto della necessità di sviluppare una organica
collaborazione non soltanto con gli studiosi del comportamento, psicologi ed etologi, ma anche fisici, chimici, paleontologi, antropologi, filosofi (Maxwell Cowan et al.
2000).
Il termine “Neurophilosophy” con il quale Patricia Smith
Churchland nel 1989 intitolò un suo famoso volume, individua alcune interessanti prospettive ma testimonia la necessità sia di coniare nuovi termini, in questo caso Neurofilosofia, sia di intendere in maniera rinnovata termini e concetti che scaturiscono dalla tradizione culturale.
La neurofenomenologia, secondo la definizione di Varela
(Varela, 1996), sarebbe un metodo per integrare la moderna
scienza cognitiva con un approccio rigoroso all’esperienza
umana attraverso un recupero della cosiddetta analisi in prima persona, propria della tradizione fenomenologica, reinterpretata alla luce delle moderne acquisizioni nel campo
delle neuroscienze.
La prospettiva neurofenomenologica, secondo un mutual
enlightment, persegue il duplice scopo da un lato di raggiungere una conferma, rispondente ai canoni di scientificità moderni per le analisi fenomenologiche, che verrebbero sottratte in tal modo al carattere aleatorio della pura speculazione, dall’altro il superamento dell’approccio biologico dominante che tralascia l’esperienza vissuta.
Psicopatologia ed emozioni: uno studio
controllato con l’Ekman-Friesen test
in popolazioni cliniche
G. Cerroni, D. Mirabilio, S. Di Tommaso, M. Aniello,
P. Valente, M. Di Pietro, A Rossi
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila
Introduzione: il riconoscimento delle espressioni facciali
(REF) rappresenta un importante aspetto nella comunicazione interpersonale ed è governato da substrati neurali specifici. Sono state riportate anomalie di questo aspetto di processamento dell’informazione nei disturbi dell’umore (Kohler et al., 2004), così come nella Schizofrenia. In particolare, nei pazienti schizofrenici l’alterato riconoscimento delle
espressioni facciali (REF) contribuisce ad un funzionamento sociale deficitario e potrebbe predire un loro scarso funzionamento cognitivo (Bediou et al., 2005).
Metodo: un gruppo di pazienti con Schizofrenia e con depressione, sono stati confrontati con un gruppo di controllo
di trenta soggetti e valutati con il test per la discriminazione
emotiva di Ekman e Friesen (1976), che presentava 36 foto
caratterizzate da 6 emozioni base di felicità, tristezza, paura, rabbia, sorpresa e disgusto. Inoltre, a tutti i soggetti sono
stati somministrati il Symptom Check List (SCL-90), il Millon Clinical Multiaxial Inventory (MCMI-III) e la Positive
and Negative Syndrome Scale (PANSS) per analizzare la
psicopatologia attuale.
Risultati: i pazienti schizofrenici hanno ottenuto un basso
punteggio rispetto al gruppo di controllo nel compito di riconoscimento delle espressioni emotive, particolarmente
nella discriminazione della paura e del disgusto. I pazienti
depressi invece, hanno ottenuto un basso punteggio rispetto
al gruppo di controllo nel compito di riconoscimento delle
espressioni emotive, in particolare nella discriminazione
della felicità, mostrando una preferenza di risposta per le
emozioni negative. Le difficoltà nel riconoscere le emozioni in tale test predicevano significativamente alcune sottoscale dell’SCL-90. Inoltre, i soggetti con depressione mostravano una significativa correlazione con sensitività interpersonale, ostilità e psicoticismo.
Conclusioni: il nostro studio conferma che il riconoscimento delle espressioni facciali è alterato, nella depressione,
nell’ansia e nella Schizofrenia. In base ai risultati dei recenti studi che affermano l’esistenza di un circuito neurale dedicato al riconoscimento dei volti e delle emozioni espresse
mediante la mimica facciale (es. giro fusiforme e le regioni
più anteriori e dorsali del lobo temporale) si potrebbe quindi ipotizzare che in questi pazienti vi è un deficit in tale sistema. Verranno ulteriormente discusse le relazioni tra il test per la discriminazione emotiva e le variabili cliniche e
personologiche.
Bibliografia
1
Bediou B, Krolak-Salmon P, Saoud M, Henaff MA, Burt M,
Dalery J, et al. Facial Expression and Sex Recognition in Schizophrenia and Depression. Can J Psychiatry 2005;50:525-33.
2
Ekman P, Friesen WV. Pictures of Facial Affect. Palo Alto, CA:
Consulting Psychologists Press 1976.
3
Kohler CG, Turner TH, Gur RE, Gur RC. Recognition of Facial
Emotions in Neuropsychiatric Disorders. CNS Spectrums
2004;9:267-74.
Biologia degli stili e disturbi di personalità
A. Bertolino
Gruppo di Neuroscienze Psichiatriche, Dipartimento di
Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Nell’ultimo decennio l’accrescersi dell’interesse nei confronti degli aspetti neurobiologici dell’emozioni e della personalità ha prodotto una vera rivoluzione nell’ambito delle
neuroscienze cognitive.
Sempre più studi di neuroimaging si sono proposti di esplorare i circuiti neurali alla base del riconoscimento o della regolazione emozionale enfatizzando il ruolo svolto dall’amigdala e dalla corteccia prefrontale in questi processi. Studi recenti hanno anche permesso di valutare come tratti temperamentali o stili di personalità possano entrare in gioco
nel modulare l’attività e le interconnessioni funzionali tra le
suddette strutture, aiutando a comprendere le basi biologiche delle differenze individuali nel esperire le emozioni. Insieme alla personalità, semplici variazioni genetiche che
controllano il signaling dopaminergico e serotoninergico
sembrano svolgere un ruolo chiave nella modulazione di
questi circuiti.
Da un punto di vista psicopatologico i disturbi di personalità possono essere inquadrati come entità nosografiche che
interessano sia la sfera cognitiva che emotiva con conseguenze sul piano relazionale e comportamentale. Studi di
neuroimaging hanno permesso di individuare i circuiti neurali coinvolti in tali processi disfunzionali suggerendo disfunzioni a carico dei circuiti fronto-limbici.
134
SIMPOSI TEMATICI
Tali risultati potrebbero essere coerenti con ipotesi patogenetiche alla base dei disturbi di personalità ed orientare verso adeguate strategie di trattamento.
Gli effetti neurobiologici della psicoterapia
nella prospettiva della psichiatria
darwiniana
sopravvivono all’interno delle scuole di psicoterapia solo
perché immuni dal controllo empirico.
Questa previsione è in accordo con quanto vanno da tempo sostenendo alcuni esperti di psicoterapia e cioè che
l’enfasi sulle differenti tecniche d’intervento oscura l’importanza di quelli che sono i veri ingredienti terapeutici
della psicoterapia (la relazione terapeuta-paziente, la regolazione degli affetti, la riorganizzazione).
A. Troisi
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Roma “Tor
Vergata”
Neurofenomenologia e Disturbi
della Condotta Alimentare
Negli ultimi anni, numerosi studi basati sull’uso di differenti tecniche di brain imaging hanno dimostrato che la
psicoterapia modifica il funzionamento metabolico di
specifiche aree cerebrali. In altri termini, è sempre più
evidente che la psicoterapia, lungi dall’essere una terapia
puramente psicologica, è a tutti gli effetti una terapia somatica.
Manca però una teoria di riferimento che possa spiegare
in che modo la psicoterapia induca modificazioni fisiologiche. In questa relazione propongo che tale ruolo possa
essere svolto da una teoria di derivazione evoluzionistica,
la teoria della regolazione-disregolazione (regulation-dysregulation theory, RDT).
La RDT postula che l’omeostasi neurobiologica dipenda
da un adeguato rapporto tra segnali sociali positivi e segnali sociali negativi. I punti chiave della RDT sono i seguenti:
1) tipi specifici di interazioni sociali sono essenziali per il
mantenimento della regolazione fisiologica;
2) gli individui si distinguono sulla base della loro capacità di utilizzare l’ambiente sociale per ottenere una
regolazione fisiologica;
3) le persone ricercano ambienti sociali specifici che garantiscano loro gli effetti fisiologici desiderati. Alla
luce della teoria della regolazione-disregolazione, la
relazione terapeuta-paziente assume una particolare
importanza.
In psicoterapia, tale relazione è caratterizzata da differenti
aspetti che la rendono particolarmente efficace nel determinare marcate modificazioni fisiologiche nel paziente.
La costanza temporale, l’intensità del rapporto in termini
di contatto emotivo, l’atmosfera di ascolto empatico e non
critico sono tutti elementi che hanno un’alta probabilità di
rappresentare per il paziente dei segnali di ri-regolazione
fisiologica perché, nelle situazioni extra-terapeutiche,
queste caratteristiche si ritrovano soltanto nelle relazioni
personali biologicamente adattative che implicano un legame di attaccamento.
Per la maggioranza delle persone che fanno una psicoterapia, questi elementi della relazione possono essere in un
certo senso unici, considerando che i loro deficit nel gestire le interazioni sociali nella vita di tutti i giorni le
espongono a ripetuti segnali negativi e disregolanti in termini fisiologici.
È probabile che un riesame della psicoterapia in termini di
biologia evolutiva delle relazioni interpersonali porterà
alla confutazione di molte assunzioni teoriche che ancora
L. Bellodi, M.C. Cavallini, M. Grassi, S. Erzegovesi,
A. Bosaia, F. Repazzini, F. Mapelli
135
Università “Vita Salute San Raffaele”, San Raffaele Turro,
Milano
La neurofenomenologia è l’ambito di ricerca che si propone di individuare i substrati neurobiologici, che sottendono le specifiche manifestazioni psicopatologiche.
Tuttavia sotto tale accezione i Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) presentano un livello ulteriore di complessità, rappresentato dalla concomitanza di fenomeni
potenzialmente ascrivibili a disfunzioni del cervello
omeostatico e della corteccia cerebrale.
Inoltre i quadri clinici dei DCA non sono stabili nel tempo. Infatti rispetto alla presentazione di esordio, osserviamo che in tempi diversi e in un medesimo paziente possono essere soddisfatti i criteri per Anoressia e per Bulimia.
Questo fatto potrebbe riflettere: l’espressione variabile
temporalmente di una medesima alterazione cerebrale (situazione compatibile con il concetto di spettro) o il succedersi di alterazioni sequenziali in aree cerebrali diverse
che determinerebbero la complessità della presentazione
del quadro sintomatologico nel tempo.
Per tali ipotesi i DCA che presentano uno shift diagnostico nella loro storia clinica potrebbero essere per il loro
funzionamento neuronale un raggruppamento di pazienti
particolari nell’ambito dei DCA.
Dal punto di vista euristico e dell’intervento clinico appare importante individuare quali siano gli elementi correlati al funzionamento neuronale (assetto neuropsicologico),
alle dimensioni del temperamento di questi pazienti e alla
struttura cerebrale (per esempio geni) che li identifichino.
Pertanto è cruciale applicare strategie di trattamento delle
informazioni disponibili che tengano in appropriata considerazione i loro diversi livelli descrittivi.
Attualmente le Reti Neurali Artificiali (ANN) possono
rappresentare uno strumento interessante per la modellizzazione delle relazioni tra elementi presunti significativi
all’interno di caratteri complessi.
Pertanto l’ANN dovrebbe predire, partendo da variabili
potenzialmente significative, lo “stato” psicopatologico
del paziente. Abbiamo applicato in via sperimentale questa strategia di analisi ad un campione di circa 200 soggetti affetti all’esordio da Anoressia Nervosa con l’obiettivo di individuare i fattori predittivi dell’eventuale instabilità diagnostica di questi pazienti.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 3
S57 - Curare ed educare, coscienza e libertà
MODERATORI
P. Pfanner, R. Rossi
Dove c’era l’Es, dovrà esserci l’Io
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica, Sezione Psichiatria, Università di Genova
Queste note riguardano la relazione tra aspetti pedagogici e
dimensioni psicoanalitiche: la problematica comporta una
serie di preclusioni e di pregiudizi, da parte della psicoanalisi, che vede con estremo sospetto ogni atteggiamento psicopedagogico, e da parte della pedagogia, che tende allo
scetticismo verso i riferimenti inconsci e preconsci.
In realtà, la situazione parte dalle affermazioni freudiane Wo
Es war das Ich soll bin, che si deve leggere come l’esigenza, al di là di ogni fantasia creativa e di liberazione totale,
del controllo pulsionale e quindi del principio, prima che di
autoconsapevolezza, di repressione pulsionale, a cui segue
la nota freudiana che insegnare, come governare, è un mestiere impossibile, in quanto non lo si può fare senza reprimere.
Ci si occupa quindi di chiarire e definire il problema della
creazione del SuperIo ausiliario, e degli equilibri tra le varie
istanze, tra Es, SuperIo e mondo esterno, in cui l’Io si presenta come mediatore e quindi portatore del conflitto: le varie modalità di SuperIo tollerante, o compiacente, dalla rigidità ossessiva all’impostazione delinquenziale, vengono
presentate nella loro struttura e nella loro dinamica.
Il problema della colpa, della dipendenza e della limitazione della libertà individuale, come difficile equilibrio da raggiungere, legata all’esigenza del tributo da pagare al vivere
civile in termini pulsionali, è un problema che connette le
funzioni analitiche con quelle pedagogiche.
Relazioni di potere, apprendimento
e autonomia
persi ritirare per lasciare spazio al secondo e non ne sa indovinare il momento; se trasforma la relazione di apprendimento, che è comunque una relazione di potere, in uno, per
dirla con Foucault, stato di dominio, in una condizione cioè
in cui egli si rende insostituibile e l’altro non può più fare a
meno di tale presenza, diventandone dipendente, allora il
rapporto tra autonomia e apprendimento finisce con il paralizzarsi. Diventa in tal caso impossibile riconoscerne la storia e il senso, individuare i mutamenti della relazione, trasformare i ruoli di chi guida e di chi è guidato. È allora che
un circolo virtuoso diventa un circolo vizioso.
Se le relazioni di potere tendono a mantenere rigide le gerarchie e le dissimmetrie esistenti fra coloro che vi partecipano oppure i partecipanti usano tutti i mezzi fisici e simbolici per conservare la loro posizione entro il sistema di relazione dato, allora esse si trasformano in stati di dominio.
Sotto questo aspetto i confini fra relazioni di potere e stati di
dominio non sono facilmente individuabili. I rapporti fra genitori e figli, per esempio, sono relazioni di potere basate su
gerarchie e dissimmetrie, ma diventano stati di dominio
quando non si modificano, quando cioè la comunicazione
simbolica è in una parte decisiva utilizzata per il mantenimento e la conservazione dei rapporti così come sono. Non
credo che possano esistere società senza relazione di potere.
Ma ogni atto comunicativo da parte di chi si trova più in alto nella relazione di potere (un genitore, un insegnante, un
terapeuta) può essere finalizzato a ricordare a colui che si
trova più in basso la sua posizione e le conseguenti sottomissione e obbedienza che sono a ciò dovute. Ogni atto comunicativo di questo tipo trasforma la relazione di potere in
stato di dominio. Una trasformazione siffatta tuttavia non ci
dice che ci troviamo necessariamente di fronte a un evento
irreversibile e, a sua volta, immodificabile. Non è in sostanza un semplice atto comunicativo a causare di per sé una vera e propria trasformazione da una relazione di potere a uno
stato di dominio che sia tale da impedire ogni modificazione futura.
M. Iacono
Università di Pisa
L’educazione come strategia di aiuto
L’apprendimento dell’autonomia presuppone e nello stesso
tempo permette di sviluppare l’autonomia dell’apprendere.
Non si tratta soltanto di un gioco di parole. Il fatto è che
l’autonomia, qualcosa che si avvicina a quella che Kant
chiamava l’uscita dallo stato di minorità e cioè l’uso dell’intelletto senza la guida di un altro, può e deve essere appresa, mentre l’apprendimento implica che chi apprende
può e deve essere autonomo. Situazione paradossale. Come
fa un bambino a giocare questo gioco, ad apprendere l’autonomia e a essere autonomo per e nell’apprendere, se ha giusto bisogno di una guida che lo aiuti in questo rimando tra
apprendimento e autonomia? Tutto dipende dalla relazione
che viene a stabilirsi tra colui/colei che guida e colui/colei
che è guidato. Se il primo non ha già appreso il senso di sa-
M. Cannao
IRCCS “E. Medea” de La Nostra Famiglia
Se è vero che in senso generale l’educazione si può definire
semplicemente come l’apporto con cui si “guida” l’individuo verso modelli di comportamento che il contesto socioculturale ritiene adeguati, è altrettanto vero che il processo
educativo si declina in una grande varietà di formule, in rapporto all’età e al livello di sviluppo dell’educando. Se poi
quest’ultimo è un soggetto mentalmente disabile, specie se
in età evolutiva, i significati dell’educazione devono essere
intesi come risposte a bisogni altamente specifici poiché, a
differenza di quanto accade nella normalità, non si tratta sol136
SIMPOSI TEMATICI
tanto di far acquisire competenze adattive, ma anche di renderne possibile l’impiego in un sistema il più ampio possibile di transazioni relazionali e di situazioni psicosociali. La
consapevolezza, benché spesso vaga, di questa necessità induce non di rado a confondere il criterio di educazione con
quelli di riabilitazione e di terapia: errore che comporta molte conseguenze negative, fra cui l’incapacità di individuare
precisi obiettivi e di perseguirli con i mezzi più efficaci. Per
fare chiarezza in proposito occorre tenere a mente che il
bambino disabile dev’essere aiutato sia a comprendere i valori propri del contesto in cui vive sia ad integrarli nell’economia del Sé: solo a queste condizioni, infatti, verrà messo
in grado di gestire le proprie transazioni relazionali alla luce di tali valori.
In altre parole, l’apporto educativo deve essere funzionale
ad un progetto di sviluppo della persona e tale progetto non
può prescindere dalla necessità di ampliare il Sé mettendolo in condizione di ricevere, elaborare e manifestare, sotto
forma di risposta, gli elementi della realtà. Lo strumento essenziale per la realizzazione di tale progetto è la relazione,
intesa appunto come l’insieme delle transazioni significative che valgono a costituire il Sé ed a sostenere i suoi rapporti con gli altri.
Nel caso del soggetto mentalmente ritardato, che in genere
tende a disinterpretare il rapporto con l’Altro, è tuttavia facile attivare una relazione scorretta: seduttiva, iper-protettiva o impositiva. Quando si verifica un’evenienza del genere il progetto educativo si deteriora o svanisce, lasciando
spazio a gravi conseguenze come la retrazione, l’isolamento, l’aggressività. Gran parte della successiva disarmonia e,
talora, della vera e propria psicopatologia deriva proprio da
questi errori. L’educazione del soggetto disabile deve invece avvenire all’insegna dell’autenticità, assumendo tuttavia
una connotazione molto attiva e propositiva: in questi casi
educare non equivale infatti semplicemente ad insegnare,
ma significa trasmettere il senso dei comportamenti adattivi
anche a persone che non siano pienamente in grado di comprenderne il significato sociale.
Quando si constata che la persona disabile riesce a progredire anche oltre l’età infantile, la ragione principale consiste
nel fatto che il suo Sé si è mantenuto aperto, vitale, capace
di scambi e ciò è sempre l’effetto di un corretto processo
educativo. L’educazione, in questa ottica, ha quindi un fine
esplicito di aiuto esistenziale, poiché oltre all’obiettivo dell’adattamento si prefigge anche “metaobiettivi” quali l’equilibrio emozionale, la tenuta psichica di fronte alle situazioni, la capacità di elaborare i messaggi: in altre parole, la
possibilità di porsi come soggetto di rapporto e non solo come oggetto di accudimento e terapia.
La patologia della coscienza
e dell’autonomia durante lo sviluppo
P. Pfanner, M. Marcheschi
IRCCS “Stella Maris”, Pisa
Considerando l’autocoscienza e l’autonomia come le funzioni basali dello sviluppo umano, sia della specie che dell’individuo (questo è un ipotesi comune alle teorie psicodinamiche
e a quelle cognitiviste), ci domandiamo se anche la patologia
di queste funzioni può essere considerata una porta d’ingres137
so di tutta la psicopatologia e di tutte le terapie psicologiche.
Il quesito è molto vasto ma può delineare un percorso speculativo per distinguere (e integrare) un approccio di sostegno
allo sviluppo, nel senso di aiutare tutte le potenzialità, e un
approccio di cura, nel senso di correggere o prevenire le distorsioni. Sostegno e cura sono i compiti principali di una società organizzata nei confronti dell’infanzia e dell’adolescenza meritano pertanto un’analisi sempre aggiornata alle nuove
conoscenze sullo sviluppo della mente umana. La coscienza
o autocoscienza, è un percorso evolutivo che ha inizio nel sistema nervoso, e in particolare nelle strutture deputate all’integrazione dell’esperienza che rendono ogni animale vigile,
reattivo, consapevole del suo corpo e dell’ambiente in cui vive (il sensorio). Nella nostra specie si sono poi sviluppate
funzioni complesse che hanno reso possibile una memoria ed
elaborazione del passato, una programmazione del futuro e
tutti gli attributi del self, fino alle sintesi più elevate dell’apprendimento e alle costruzioni più originali della creatività
umana. Si possono educare, e cioè sostenere, favorire, arricchire i percorsi dell’autocoscienza? Si possono curare psicologicamente le povertà primitive di questi percorsi, gli arresti,
le distorsioni, le inibizioni, dovute a insufficienze neuronali,
a povertà di esperienze, a eventi stressanti? I contributi delle
scienze psicopedagogiche hanno dimostrato i vasti compiti e
gli spazi dell’educazione, ma troppo poco di specifico è stato
detto finora sulle strategie educative necessarie per affrontare
i vari tipi di coscienza difettuale in risposta alla loro genesi, o
meglio patogenesi. Ciò è avvenuto probabilmente perché si è
fatta un’assi-milazione eccessiva ed errata fra i tempi e le modalità dello sviluppo normale con i tempi e i processi degli
sviluppi devianti o patologici. Se ad esempio la costruzione
del self si arresta o si distorce per il contrasto fra pulsioni interne ed esperienze di adattamento, e si va verso una sintesi
povera o una “falsità” (nel senso di Winnicott), il sostegno
dovrà essere indirizzato verso stimoli nuovi, confronti, smascheramenti, accettazioni, da proporre all’interno di un rapporto educativo in forma calibrata sul tipo di devianza. Se invece il difetto di applicazione e assimilazione nell’apprendimento sembra dovuto a insufficiente coscienza degli strumenti e dei successi potenziali del pensiero umano, le tecniche educative prioritarie saranno quelle della metacognizione. E ciò suggerisce l’adozione di strategie educative specifiche orientate verso la cura. Tutta la filosofia educativa, familiare, scolastica, sociale, spinge verso l’apprendimento di nozioni, di capacità e di valori, ma la vera conquista sembra
quella metacognitiva, che moltiplica, consolida e rende fecondo ogni apprendimento, trasmettendo gli strumenti di una
meta coscienza e di una meta conoscenza. L’altra funzione
basale che abbiamo citato in premessa è quella dell’autonomia intesa come quantità e qualità delle scelte disponibili in
rapporto ai condizionamenti genetici, alle funzioni cerebrali,
alle esperienze ambientali. La limitazione di queste scelte
rientra nel range della norma, se sono attivi meccanismi di difesa e di compenso. Ma diventa patologica quando compromette in modo duraturo o permanente la libertà legata ai vertici della vita mentale, lasciando possibile solo i meccanismi
di copia o di adattamento passivo. Educare alla libertà psicologica e alla democrazia sociale è in grande compito di tutta
la società, ma c’è un compito preliminare, educativo e curativo, che è quello di rimuovere i condizionamenti bio-psico-sociali che compromettono le scelte più elevate e quindi l’indipendenza e l’originalità.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA ELLISSE
S58 - Il singolo e l’identità
MODERATORI
C. Maggini, B. Callieri
L’identità borderline
B. Callieri
Libero Docente di Malattie Nervose e Mentali, Roma
L’autore si interroga sul senso e sul significato della personalità borderline, del “fantasma dell’identità” del suo
Io; tale identità viene qui vista non come un’effettiva permanenza ma soltanto come una rischiosa e problematica
autocoscienza, fragile discontinua, estraniata da sé.
In questo Io, impersonalmente individuale (Aldo Fasullo),
il logico-linguistico traveste il sé privato in pubblico, trasforma l’Identità in una maschera culturalmente costituita: assolutamente individuale e contingente.
Con Rimbaud e con Sartre, si può dire; “Io, è un altro”.
È qui lo scacco dell’intermediarietà; è qui, fra i territori
dell’isteria e del narcisismo, che si palesano (allo psicopatologo antropologicamente educato)i nuovi tipi giovanili di problematica del desiderio, il potente richiamo a
fare il pieno emozionale con la droga, la tendenza agli attacchi contro i legami, con una vera fluidità identitaria:
profondo è il richiamo all’istantaneità mercuriale di Ermes.
Sembra che da ogni punto di vista la nostra identità sia
sottomessa ad una continua tensione dialettica: fra continuità e cambiamento: ché non vi è identità senza durata,
ma non vi è nemmeno senza continua inclusione in essa di
eventi nuovi, che possono essere la fonte di cambiamenti;
fra identità come essere-lo-stesso ed essere-sè-stesso (P.
Ricoeur), e in questo rapporto ha luogo la possibilità di
raccontarsi come storia, e infine fra singolarità originale
della persona e quanto è dipendente dal contesto intersoggettivo, in qualche misura dagli altri.
La defusione di queste diverse componenti dell’identità, e
in particolare la evanescenza di essere lo stesso, dell’idem, per la perdita del senso dell’appartenenza all’io delle esperienze, e il vano inseguimento di un essere se-stesso, di un ipse irraggiungibile, siglano la crisi psicotica
della identità.
Le possibili declinazioni di una nuova identità delirante
assumeranno non di rado l’aspetto dei puzzling cases che
la speculazione filosofica ha costruito in tema di identità.
L’identità multipla
C. Maggini
Le declinazioni psicotiche dell’identità
A. Ballerini
Presidente Società Italiana per la Psicopatologia, Firenze
“Mais je ne connais pas assez clairement ce que je suis,
moi qui suis certain que je suis” (R. Descartes). La famosa formula “Cogito ergo sum” si rompe dunque subito in
una nuova domanda: Io esisto, ma chi sono? Anche se la
formula di Cartesio si riferisce a una identità per così dire puntiforme, astorica, visto che il cogito è istantaneo.
Mentre il tema della identità della persona pone almeno
due problemi che ammetteranno soluzioni paradossali: il
problema della persistenza nel tempo e quello della autodesignazione di se stessi.
Sezione di Psichiatria Dipartimento di Neuroscienze, Università di Parma
La copresenza intra-individuale di più identità o stati della
personalità,
aventi una propria distinta modalità di percepire l’ambiente, relazionarsi ed interagire per il suo controverso
statuto nosografico-definitorio e il rimando alle nozioni di
“identità” e “stati di personalità”, si presta ad una analisi
integrata di fenomenica psicopatologica, cognitiva e psicobiologica. Questa presentazione analizza la complessità
clinico psicopatologica del DID avvalendosi delle attuali
concettualizzazioni di “self-system organization” e “multiple ego-centers”.
138
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MONTEMARIO
S59 - Psiconeuroendocrinologia per la pratica clinica
MODERATORI
G.A. Fava, F. Brambilla
Antipsicotici atipici e Sindrome Metabolica
R. Pasquali
I trattamenti ormonici come terapie
associate in ambito psichiatrico
U.O. di Endocrinologia, Az. Policlinico “S. Orsola-Malpighi”, Università di Bologna
F. Brambilla
Gli antipsicotici di seconda generazione (AII) offrono indubbi vantaggi rispetto ai neurolettici tradizionali (NT).
Gli AII sono meglio tollerati in quanto hanno minore probabilità di indurre EPS e “tossicità comportamentale”;
inoltre, sono più efficaci dei NT, possono migliorare i deficit cognitivi e sono associati con una maggiore compliance al trattamento.
Tuttavia, gli AII possono indurre effetti collaterali non meno significativi di quelli dei NT, in particolare aumento del
peso corporeo, alterazioni metaboliche e disordini endocrini.
Da tempo è noto che pazienti con disturbi mentali gravi, in
particolare Schizofrenia e disturbi dell’umore, presentano
spesso anomalie del metabolismo glucidico, con maggiore
frequenza della popolazione generale.
È possibile che tale suscettibilità sia favorita da una vulnerabilità genetica comune e della maggiore aggregazione
di fattori di rischio, inclusi gli stili di vita, spesso profondamente alterati in questi pazienti. L’uso degli AII (e degli
AT) determina un peggioramento di tali alterazioni. Di per
sé, comunque, gli AII sono maggiormente associati a questo tipo di effetti collaterali rispetto ai NT.
Alcuni studi epidemiologici hanno confermato una certa
responsabilità degli AII nell’indurre la comparsa di diabete, che pare relativamente indipendente dal tipo di AII utilizzato.
Gli AII possono anche favorire un significativo incremento del peso corporeo ed alterazioni del metabolismo lipidico, con uno specifico rischio a seconda del farmaco usato,
particolarmente evidente per quelli derivati dalla dibenzodiazepina. Le alterazioni del metabolismo costituiscono un
gruppo di effetti collaterali non meno grave degli effetti
extrapiramidali associati ai NT.
Esse sono infatti correlate ad un aumento di mortalità per
cause cardiovascolari, in particolare quando si aggregano
nel contesto della cd “Sindrome Metabolica” (caratterizzata da resistenza insulinica e dalla presenza di almeno tre
delle seguenti condizioni: obesità addominale, ipertrigliceridemia, diminuzione del colesterolo HDL, della pressione
arteriosa ed iperglicemia a digiuno.
I dati disponibili sembrano anche suggerire una differente
prevalenza dei disordini metabolici in ralazione al sesso.
L’utilizzazione di questi criteri dovrebbe quindi essere comunemente effettuata in ambito psichiatrico, sia prima che
durante il trattamento, pur tenendo in considerazione che
esistono differenti formulazioni della stessa definizione della sindrome.
Introduzione: alterazioni ormoniche sono frequentemente
presenti in corso di psicopatologie e possono influire sul loro aspetto sintomatologico, sull’andamento e sulla prognosi
delle malattie e sulle risposte ai trattamenti psicofarmacologici.
Esse possono agire interferendo centralmente sulla secrezione dei neurotrasmettitori cerebrali, sulla risposta dei loro
recettori, sulla anatomia di specifiche aree cerebrali e sullo
stato di funzionalità dei neuroni stessi, e perifericamente influendo sull’assorbimento dei farmaci.
La somministrazione di ormoni, associati ai trattamenti psicoterapeutici e psicofarmacologici, trova quindi un significato oltre che clinico anche eziopatogenetico nella correzione di disordini anatomici e funzionali a carico di specifiche
aree cerebrali.
Metodologia: vengono esaminati e riportati i dati, propri e
della letteratura, concernenti gli effetti clinici dei trattamenti con estrogeni, progestinici, androgeni e farmaci antigonadici, con ormoni tiroidei, cortisonici e anticortisonici, vasopressina, neurotensina, colecistochinina, oppioidi ed antioppioidi endogeni, somministrati in associazione a terapie psicofarmacologiche nella depressione, Schizofrenia, malattie
d’ansia, e in altre patologie psichiatriche.
Risultati: gli effetti clinici degli ormoni somministrati in
associazione a psicofarmaci sono significativi, in particolare in soggetti anziani e in pazienti resistenti alle usuali terapie.
Conclusioni: il trattamento associato di psicofarmaci e ormoni sembra fornire un approccio terapeutico che si propone come modello particolarmente valido in corso di psicopatie specifiche e in specifici pazienti.
139
Dipartimento di Salute Mentale, Ospedale “Sacco”, Milano
Inibizione della steroidogenesi
nel trattamento della Depressione
N. Sonino
Dipartimento di Salute Menale, Padova, e Dipartimento di
Scienze Statistiche, Università di Padova
In parte dei pazienti con Depressione Maggiore, e soprattutto nelle forme più gravi e con psicosi, è stata dimostrata
un’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)
con alterazioni sia funzionali che morfologiche a diversi livelli del complesso sistema di regolazione a feed-back.
L’associazione di tali alterazioni con la depressione presenta delle similitudini con la sindrome di Cushing, in cui la re-
SIMPOSI TEMATICI
missione dei sintomi psichiatrici si ottiene con la correzione
dell’ipercortisolismo piuttosto che con farmaci antidepressivi. Dall’inizio degli anni ’90 si è iniziato quindi a ipotizzare l’utilità di farmaci inibitori della steroidogenesi o antagonisti recettoriali del cortisolo nel trattamento della Depressione Maggiore.
Da allora sono stati pubblicati una ventina di studi, di cui 3
controllati con placebo e in doppio cieco, gli altri in aperto,
e circa la metà su pochi pazienti o singoli casi.
Effetti favorevoli del trattamento antisteroideo usato da solo con durata da qualche giorno a qualche settimana sono
stati riscontrati almeno in una parte dei pazienti, con risposte complete o clinicamente significative attorno al 60%. Il
farmaco più usato è stato il ketoconazolo (200-1.200
mg/die), ma i risultati erano sovrapponibili con altre sostanze: metopirone (1.000-2.000 mg/die), aminoglutetimide
(750-1.000 mg/die), RU-486 (200-1.200 mg/die). In uno
studio su 20 pazienti in doppio cieco e con placebo il ketoconazolo risultava superiore al placebo soltanto nei pazienti con cortisolo elevato.
In un minor numero di studi la terapia antisteroidea è stata
aggiunta (“augmentation”) agli antidepressivi o antipsicotici per il trattamento della depressione resistente, con risultati sui sintomi depressivi ma non psicotici.
Nel complesso: c’è stata risposta in quei pazienti che erano
resistenti alla terapia antidepressiva tradizionale; l’effetto
sui sintomi depressivi si è verificato rapidamente (anche
meno di una settimana); i risultati a lungo termine sono stati variabili, ma prolungati in alcuni singoli casi.
Anche se non è ancora chiaro il ruolo della sregolazione dell’asse HPA (causa o conseguenza) nella depressione, pare
che il “resetting” indotto dai farmaci antisteroidei possa
avere effetti benefici duraturi nel tempo.
I dati sperimentali disponibili non permettono ancora una
valutazione dei rischi/benefici e non possono essere trasferiti alla pratica clinica, ma porteranno probabilmente ad approcci terapeutici innovativi in particolari pazienti.
Vi sono molti fenomeni clinici che introducono la possibilità che l’uso degli antidepressivi possa produrre un deterioramento dell’esito della depressione in pazienti suscettibili:
l’alta percentuale di ricaduta nei pazienti trattati farmacologicamente; gli effetti paradossali (induttori di depressione)
causati dagli antidepressivi in parte dei pazienti; i fenomeni
di “switching” e di accelerazione del ciclo in pazienti con
Disturbo Bipolare; la comparsa di tolleranza nel trattamento a lungo termine della depressione; la comparsa di resistenza quando si utilizza lo stesso antidepressivo in un paziente precedentemente trattato; le sindromi da astinenza alla sospensione degli antidepressivi.
È stato ipotizzato che il modello di tolleranza opposizionale possa fornire una spiegazione per questi fenomeni clinici
apparentemente privi di un nesso comune. Secondo questo
modello il trattamento farmacologico a lungo termine può
stimolare processi che si oppongono agli effetti acuti iniziali del farmaco e possono portare ad una perdita di efficacia.
Quando il trattamento farmacologico viene interrotto, questi
fenomeni possono continuare senza opposizione, almeno
per qualche tempo, ed aumentare la vulnerabilità della ricaduta.
L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene può modulare questi fenomeni di sensibilizzazione e tolleranza. Sulla base di studi effettuati con l’uso di antagonisti dei recettori 5-HT2 nel morbo di Cushing e di ketoconazolo nei fenomeni di tolleranza
agli antidepressivi, è stato suggerito che la terapia farmacologica antidepressiva, dopo una fase iniziale di normalizzazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, possa portare ad
una sua attivazione.
Bibliografia
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Sonino N, Fava GA. Tolerance to antidepressant treatment may
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Sonino N, Fava GA. CNS drugs in Cushing’s disease. Progr
Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry 2002;26:1011-8.
Aspetti neuroendocrini dei processi
di sensibilizzazione ai farmaci
antidepressivi
G.A. Fava
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
140
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA LEONARDO
S60 - Opzioni terapeutiche “illiberali” tra pregiudizi
e prospettive
MODERATORI
G. Muscettola, G.C. Nivoli
La stimolazione magnetica transcranica nel
trattamento della Depressione Maggiore
or Venlafaxine in Patients with Major Depressive Disorder? A
Double Blind Sham-Controlled Trial. J Clin Psychiatry 2005, in
press.
A. Lucca, D. Rossini, R. Zanardi, S. Giordani, E. Smeraldi, L. Magri
Dipartimento di Psichiatria, Università “Vita-Salute”,
Ospedale “San Raffaele Turro”
Il TSO in medicina generale: il caso
Anoressia Nervosa
La stimolazione magnetica transcranica (TMS) è un metodo non invasivo per la stimolazione della corteccia cerebrale tramite l’induzione di una corrente in grado di depolarizzare i neuroni sottostanti il coil. Introdotta nel 1985
come strumento diagnostico in neurologia, negli ultimi anni è stata utilizzata per il trattamento della Depressione
Maggiore con risultati incoraggianti 1. Nel nostro dipartimento abbiamo realizzato due trials randomizzati per valutare l’efficacia di tale terapia.
Nel primo studio abbiamo trattato pazienti farmacoresistenti con due intensità differenti (80% e 100% della soglia
motoria) o con stimolazione sham, ottenendo una differenza significativa tra il gruppo stimolato al 100% e il gruppo
di controllo 2. Nel secondo lavoro abbiamo somministrato
la stimolazione magnetica (attiva o sham) associandovi fin
dall’inizio un farmaco antidepressivo scelto tra Escitalopram, Sertralina e Venlafaxina. Il gruppo in trattamento attivo ha mostrato una risposta antidepressiva più rapida rispetto al gruppo di controllo, indipendentemente dal farmaco utilizzato 3. Ulteriori ricerche sono necessarie per ottimizzare i parametri di stimolazione ed eventualmente
adattarli alla sintomatologia del singolo paziente. Una prospettiva interessante sembra essere rappresentata dalla
Theta-burst stimulation, che ha dimostrato di poter produrre effetti fisiologici superiori per intensità e durata sulla porzione di corteccia stimolata, suggerendo a livello
speculativo la possibilità di ottenere maggiori effetti antidepressivi. Tra le altre tecniche di stimolazione cerebrale è
stata recentemente reintrodotta la stimolazione con corrente diretta (tDCS), di cui è stata evidenziata la capacità di
modulare significativamente l’eccitabilità corticale. Nel
nostro reparto abbiamo cominciato ad osservarne i primi
risultati positivi nel trattamento della depressione farmacoresistente.
M. Morlino, V. Cappiello*
Bibliografia
1
Lucca A, Locatelli M, Rossini D, Catalano M. La stimolazione
magnetica transcranica e le sue applicazioni in psichiatria.
Quaderni Italiani di Psichiatria 2003;12:51-60.
2
Rossini D, Lucca A, Zanardi R, Magri L, Smeraldi E. Transcranial Magnetic Stimulation in treatment resistano depressed patients: a double blind placebo controlled trial. Psychiatry Res
2005;137:1-2.
3
Rossini D, Magri L, Lucca A, Giordani S, Smeraldi E, Zanardi
R. May rTMS Hasten the response to Escitalopram, Sertraline,
141
Dipartimento di Neuroscienze, Università “Federico II”,
Napoli; * D.S.M. A.S.L. Napoli 5
L’Anoressia Nervosa (AN) è il disturbo mentale che, più di
ogni altro, si situa in un’area di confine tra la psichiatria e la
medicina interna.
Il crescente numero di soggetti affetti da tale disturbo nonché l’alto rischio di evoluzione letale (si calcola che l’indice di mortalità oscilli tra il 6 ed il 20%) e di refrattarietà ai
trattamenti con conseguente elevato tasso di ricadute, la rendono una patologia dai complessi risvolti assistenziali, terapeutici, etici e giuridici
Uno degli aspetti principali che caratterizza i soggetti affetti da AN è che essi appaiono conservare intatte le capacità
di comprensione ed analisi della realtà, ma evidenziano una
specifica difficoltà nell’ambito della percezione e del vissuto del sé corporeo. Ciò comporta spesso la necessità di valutare la loro capacità di agire adeguatamente, in particolare rispetto alle proprie abitudini alimentari.
Il presupposto di ogni trattamento sanitario è l’adesione e la
collaborazione ad un progetto terapeutico da parte del paziente: ciò comporta la capacità del paziente stesso di esprimere un consenso o dissenso (giuridicamente ed eticamente) valido.
Quando un accordo sul progetto terapeutico risulta difficile
da raggiungere, può porsi il problema della adeguatezza della capacità decisionale del paziente e dell’atteggiamento che
deve assumere il medico.
Nel caso insorga un aggravamento della condizione clinica
tale da richiedere un intervento medico urgente e si constati l’inadeguatezza nella capacità di valutazione dello stato di
salute da parte della paziente, si può configurare la necessità
di un intervento sanitario anche in assenza di un consenso:
si delinea, così, lo stato di necessità e/o il trattamento sanitario obbligatorio.
Tali interventi soffrono comunque di una serie di limiti etici e giuridici che saranno discussi nel corso della relazione
e confrontati con le norme giuridiche presenti in altri stati
europei.
Per quanto attiene alla realtà italiana verranno presentati i
dati attinenti al trattamento di pazienti affette da AN ricoverate negli ultimi 4 anni nel reparto di psichiatria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA VERDE
S61 - La formazione e il ruolo dell’infermiere
nei servizi di salute mentale
MODERATORI
P.L. Scapicchio, G.B. Cassano
Il Master “Infermieristica in Salute Mentale –
Psichiatria”: l’esperienza di Pisa
A. Fanali
Università di Pisa
Gli infermieri, nel corso degli ultimi anni, hanno definito in
modo chiaro il loro ruolo grazie al raggiungimento di traguardi importanti come l’approdo della formazione in, Università, la corretta definizione del Profilo Professionale, il
riconoscimento della professione infermieristica come professione sanitaria non più ausiliaria e la conseguente istituzione della dirigenza. La nuova concezione di competenza
e di responsabilità così tracciata assegna agli stessi autonomia e responsabilità per fornire ai pazienti con problematiche psichiatriche adeguate ed avanzate forme di assistenza
infermieristica ovunque siano necessarie. Questo significa
prendersi cura della persona e della collettività con professionalità, responsabilità e competenza nella prevenzione,
cura, e riabilitazione nell’area psichiatrica attraverso conoscenze e competenze tecniche, relazionali ed educative.
L’evoluzione del concetto di malattia mentale e la trasformazione organizzativa dei servizi hanno inoltre reso necessario accettare la sfida della complessità della psichiatria, a
partire dalla formazione di operatori competenti ed esperti,
capaci di agire in una varietà di situazioni, orientati a sviluppare forme di collaborazione e dialogo ampie ed articolate ed in grado di integrare saperi differenziati e molteplici, sia in ambito clinico che in contesti extraclinici. Per raggiungere questi obiettivi, la Clinica Psichiatrica di Pisa, in
collaborazione con il Dipartimento Infermieristico dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, ha nell’anno accademico 2004-2005 istituito il Master Universitario di Primo livello “Infermieristica in Salute Mentale – Psichiatria:
il ruolo dell’infermiere nella Salute Mentale e nella psichiatria clinica”. Nella relazione sono descritti risultati e
metodologia.
La formazione e il ruolo dell’infermiere
nei servizi di salute mentale
F. Coscetti
Direttore Dipartimento Infermieristico, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (AOUP); Direttore U.O. Professionale Formazione Permanente a Complementare del Personale Infermieristico AOUP
“Una delle qualità essenziali del clinico
è l’interesse per l’umanità poiché il
segreto della cura al paziente è
prendersi cura del paziente”
Francio W. Peabody, 1927
L’assistenza infermieristica nella salute mentale e psichiatria
si è sviluppata nel tempo attraverso un approccio specifico
basato sulla volontà di rispondere ai bisogni assistenziali del
paziente psichiatrico in modo integrato e globale. Questo ha
significato prendersi cura della persona e della collettività con
professionalità, responsabilità e competenza nella prevenzione, cura, e riabilitazione nell’area psichiatrica attraverso conoscenze e competenze tecniche, relazionali ed educative. La
connotazione dell’esercizio professionale infermieristico,
pensato e definito in un passato in cui le competenze richieste ed espresse erano solo assistenziali e prevalentemente di
collaborazione ed esecuzione, si è oggi trasformata, richiedendo capacità di analisi, elaborazione ed attuazione dei processi assistenziali, progettualità, collaborazione ed integrazione multidisciplinare. Oggi infatti l’infermiere apprende nozioni di psichiatria, effettua tirocini nell’area della salute
mentale e ha competenze sempre più specifiche. Dal punto di
vista operativo, grazie alle nuove modalità di intervento terapeutico, si è passati da una assistenza di tipo custodialistico,
ad una territoriale che persegue lo scopo di curare e prevenire il disturbo psichico nel contesto in cui esso ha origine e si
sviluppa. Tutto ciò, ha significato un’esigenza di crescita a livello formativo da parte degli infermieri, che sempre più hanno dovuto mutare le loro funzioni e le loro competenze, per
meglio comprendere e gestire i rapporti umani soprattutto
quando, ad esempio in un servizio di salute mentale, tali rapporti si presentano particolarmente complessi. Gli infermieri
pertanto sono riusciti a definire in maniera chiara ed inconfutabile il loro ruolo e la loro natura grazie al raggiungimento di
traguardi importanti come l’approdo della formazione in,
Università, la corretta definizione del Profilo Professionale, il
riconoscimento della professione infermieristica come professione sanitaria non più ausiliaria e la conseguente istituzione della dirigenza. Formalmente e sostanzialmente, quindi, gli infermieri posseggono conoscenze, competenze ed abilità specifiche per essere responsabili dell’assistenza generale
compresa quella in ambito altamente specialistico. Questa
nuova concezione della figura infermieristica assegna alla
stessa autonomia e responsabilità per fornire ai pazienti con
problematiche psichiatriche adeguate ed avanzate forme di
assistenza infermieristica ovunque siano necessarie. Attraverso la formazione continua e complementare in salute mentale
psichiatria è possibile acquisire competenze cliniche, relazionali e sociali per elaborare strategie assistenziali globali, integrate, continue e di elevata qualità e per confrontarsi con i bisogni di salute mentale emergenti nella comunità sociale. Infatti, in abito psichiatrico il coinvolgimento emotivo è inevitabile. Il malato non deve essere sottoposto ogni giorno ad
una serie di esami diagnostici, ma è lì, di fronte all’infermiere, con i suoi problemi. Compete quindi all’Infermiere agire
sul piano della relazione e dell’educazione, oltre che della
tecnica, allargando il quadro delle proprie competenze e responsabilità e diventando a pieno titolo componente dell’é142
SIMPOSI TEMATICI
quipe multidisciplinare, rafforzando il concetto di lavoro di
squadra per fronteggiare la complessità assistenziale. Il coinvolgimento è fondamentale per stabilire una relazione terapeutica tra infermiere e malato, relazione che permetta di partecipare in modo empatico al processo interattivo con la mente del malato, con il suo stato affettivo, emotivo e con i suoi
vissuti. Ma senza un training adeguato l’infermiere non è in
grado di gestire il proprio coinvolgimento emotivo e la propria ansia, a volte rabbia, impulsività. Rischia di assumere atteggiamenti che, privi di obiettività, non gli permettono di
percepire i veri bisogni del malato. È per questo necessario
avere la capacità di usare e modulare le proprie emozioni, per
stabilire una relazione terapeutica con il malato, per comprendere i desideri e per formulare una giusta diagnosi infermieristica, che consenta di impostare un programma di trattamento integrato con le altre figure professionali. Questa evoluzione culturale e professionale è stata inserita nella Legge
26 febbraio 1999 n. 42 che oltre a sancire l’abrogazione del
“mansionario” delinea il campo proprio di attività e responsabilità professionale attraverso il Profilo Professionale, gli
Ordinamenti Didattici dei rispettivi Corsi Universitari di base
e post-base nonché il Codice Deontologico. L’infermiere psichiatrico esplica la propria professionalità in strutture pubbliche o private come Ospedali, Case di cura, ambulatori, comunità protette, sul territorio e lo sviluppo di carriera è garantito sia a livello orizzontale – crescendo all’interno del
proprio ruolo – che verticale, accedendo a posizioni dirigenziali connotate da responsabilità organizzative e gestionali ad
elevata complessità. Ma quello che poi, in ultima analisi, differenzia l’assistenza infermieristica in salute mentale psichiatria dagli altri ambiti è che il prodotto assistenziale infermieristico è spesso invisibile e non attribuibile ad un singolo gesto (come invece succede in altri ambiti), … ma gli infermieri psichiatrici “curano e fanno terapia”: una terapia che non è
fatta solo di tecniche.
Riferimenti legislativi utilizzati:
DPR. 14/3/1974, n. 225 - D.M. 14.9.1994, n. 739 - Legge
26/2/1999, n. 42 - Codice deontologico, 1999 - Legge 251
10/8/2000 - Legge n. 1 gennaio 2002.
I mutamenti della professionalità
infermieristica nei Servizi di Psichiatria
di Comunità. L’esperienza del DSM di Genova
E. Biancucci, P. Mossa, L. Ferrannini
DSM ASL 3, Genova
L’evoluzione dell’assistenza psichiatrica in questi anni è
stata caratterizzata da una profonda modificazione degli
obiettivi e degli strumenti dell’assistenza infermieristica.
Il ruolo dell’infermiere non poteva non mutare, infatti, nel
passaggio da un’assistenza di natura prevalentemente istituzionale al sistema di psichiatria di comunità, che si declina
in luoghi (ospedale, territorio, residenze) e contesti multiformi, con domande d’intervento profondamente diversificate (trattamento dell’urgenza, presa in carico intensiva territoriale, programmi socioriabilitativi, prevenzione delle disabilità, promozione di reti di auto aiuto ed attivazione di
processi di empowerment).
A fronte di questi nuovi compiti, spesso anche il nuovo curriculum formativo, centrato sul corso di laurea in scienze in143
fermieristiche, non è sufficiente a mettere in condizioni il
professionista di operare in modo qualificato ed efficace ed
al contempo in condizioni di sicurezza emotiva.
Partendo da queste considerazioni, verrà presentata l’esperienza del DSM di Genova che, servendo una vasta area metropolitana (800.000 abitanti), presenta caratteristiche peculiari (oltre 400 operatori nell’area infermieristica e dell’assistenza),
sulle quali verranno forniti elementi conoscitivi e di confronto.
In questo quadro, verrà anche presentato il percorso di “formazione continuativa”, che ha accompagnato e supportato i
processi di organizzativi e tecnico-professionali – attraverso
lo sviluppo di un “Manuale delle procedure” per l’assistenza infermieristica – e che è stato centrato su alcune aree di
interesse prioritario:
1. interventi in urgenza;
2. contenimento e contenzione: elaborazione di procedure e
protocolli;
3. presa in carico intensiva e continuativa territoriale;
4. interventi socioriabilitativi;
5. sviluppo di reti di auto aiuto;
6. responsabilità professionale e risk management;
7. sviluppo, miglioramento e valutazione della qualità;
8. bourn out e mobbing: strategie organizzative ed interventi gruppali.
L’infermiere come case manager
del Servizio di Salute Mentale di comunità
G. Corlito
U.O. di Psichiatria, ASL 9 di Grosseto
I servizi di salute mentale in Italia hanno di fronte la necessità
di diventare compiutamente servizi dipartimentali di comunità (comprehensive services secondo le indicazioni dell’OMS), capaci di far fronte ai bisogni di salute mentale dell’intera comunità. Ciò implica la capacità di spostare l’asse
dell’intervento da quello terapeutico-riabilitativo a quello
preventivo-terapeutico. Implica la capacità di avviare programmi di intervento precoce nella comunità, di “filtrare” a
secondo dell’urgenza gli accessi ai Centri di Salute Mentale,
di sviluppare le reti comunitarie di sostegno a partire dall’auto-aiuto, di attivare progetti di reinserimento sociale e di “tenuta comunitaria” dei casi seri e di attivare programmi per i
disturbi emotivi comuni che non siano esclusivamente centrati sui farmaci e che si fondino sulla collaborazione con i
medici di medicina generale e le Unità delle Cure Primarie.
Tale nuova ottica di lavoro non può fondarsi sul ruolo di case manager limitato ai dirigenti psichiatri e psicologi dei
servizi si salute mentale, come è stato nei primi 30 anni di
applicazione della riforma psichiatrica.
È necessario ripensare complessivamente il ruolo dell’infermiere dei servizi di salute mentale comunitarie, di cui è stato l’asse portante in questi anni. Tale ripensamento passa attraverso i seguenti punti decisivi
– l’infermiere come case manager;
– il triade territoriale;
– la gestione dei gruppi di lavoro multidisciplinari;
– la gestione dei gruppi degli utenti.
Per ottenere tali risultati è necessario formare un infermiere
specializzato nell’area della salute mentale ed è attuale l’attivazione dei master universitari post-laurea previsti dalla legge.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA NUREYEV
S62 - Quante depressioni?
Revisione critica di una diagnosi indefinita
MODERATORI
M. di Giannantonio, M. Alessandrini
La neurobiologia della Depressione
o delle Depressioni?
I saperi e il sentimento. Storia e critica
dei rapporti tra scienza e depressione
C.M. Pariante
M. Alessandrini
Stress, Psychiatry and Immunology Laboratory (SPI-Lab),
Institute of Psychiatry, King’s College London, London
Centro di Salute Mentale ASL Chieti;, Università “G. D’Annunzio”, Chieti
Sebbene le alterazioni endocrine ed immunitarie nella Depressione Maggiore siano state oggetto di molti studi, ancora oggi il meccanismo biologico attraverso cui questi
modulatori endogeni influenzano le emozioni ed inducono
i sintomi depressivi costituisce un mistero. Inoltre, ancora
non è chiaro se tutti questi meccanismi – neurobiologici,
endocrinologici, immunitari – siano presenti in tutti i pazienti depressi, o viceversa se specifici meccanismi biologici conducano a specifiche sindromi depressive con un diverso profilo sintomatologico.
È noto che i pazienti con Depressione Maggiore presentano un’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che
si manifesta con un aumento dei livelli di corticotropin-releasing hormone (CRH) a livello cerebrale e di cortisolo
nel sangue. Sia il CRH che il cortisolo possono indurre,
nell’uomo e nell’animale, cambiamenti nell’umore e nella
funzione neurocognitiva simili a quelli caratteristici della
depressione.
La presenza di depressione nei pazienti con Cushing conferma questo modello. La depressione può però comparire
anche in situazioni di ridotta attività dell’asse ipotalamoipofisi-surrene, come nel caso dei pazienti con Addison.
Come è possibile conciliare queste evidenze? Oltre al ruolo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, diversi studi supportano anche un ruolo diretto del sistema immunitario
nella depressione. È infatti noto che i pazienti con Depressione Maggiore presentano un’elevata concentrazione sierica di citochine proinfiammatorie, come l’IL-6, ed un aumento delle proteine della fase acuta. Questo modello è sostenuto dal fatto che la somministrazione di citochine, come l’interferon-alfa nei pazienti con epatite C, a sua volta
induce un disturbo del comportamento (“sickness behaviour”) simile alla sindrome depressiva, con anedonia,
apatia, disturbi del sonno, alterazione dell’appetito e ritiro
sociale.
Che differenze vi sono, se vi sono, tra la depressione da
stress, quella da Cushing, e quella da interferone-alfa? In
questo intervento presenterò i risultati delle nostre ricerche
che esplorano il ruolo dello stress, degli ormoni glucocorticoidi e delle citochine proinfiammatorie nella patogenesi
dei sintomi depressivi. Inoltre discuterò la possibilità che
la depressione non sia una specifica malattia, ma piuttosto
un insieme di comportamenti potenzialmente adattativi
che, come la febbre, può essere attivata da diverse cause in
diversi soggetti, e condurre a diverse sfumature cliniche.
Introduzione: la storia del concetto di depressione permette di “ripensare” la clinica di questo gruppo di affezioni. Pur
se infatti le categorie diagnostiche attuali si presentano radicate nella realtà clinica “pura”, esse in realtà sono condizionate da influssi culturali, medici ed extra-medici, sia presenti che passati. La realtà clinica “pura”, da questo punto di
vista, è in realtà ricca di presupposti impliciti, i quali, se non
vengono resi evidenti e consapevoli, la rendono tutt’altro
che “pura”.
Metodologia: si è deciso di ricostruire, sul piano storico,
soprattutto la gamma variegata di termini che nei secoli hanno indicato i vissuti depressivi. In questo modo, i raggruppamenti nosografici sia recenti che attuali – quali, per esempio, le due grandi categorie delle depressioni nevrotiche e di
quelle psicotiche – rivelano di possedere al loro interno
molte suddivisioni.
Queste ultime, di solito, vengono considerate come implicite, e invece nella pratica clinica sono ignorate, perché se ne
è perduta conoscenza.
Risultati: le parole e il linguaggio, così come la razionalità,
pur se hanno il compito di delimitare e di “ordinare” l’area
delle sensazioni, devono poi però riavvicinarvisi, per mantenere vitalità e ricchezza. È quanto ormai accade per il termine “depressione”.
Riscoprendo la gamma variegata di parole che nei secoli
hanno indicato i vissuti depressivi, ed esaminando il significato che queste parole hanno assunto nelle diverse epoche e
nei vari contesti, traspare nuovamente la natura multiforme
del sentire depressivo.
Diventa così evidente una sorta di “altra psicopatologia”
delle depressioni, capace di integrare quella attuale, altrimenti gravemente sterile e insospettatamente inefficace.
Conclusioni: grazie alla suddetta ricostruzione, emergono
sfaccettature del sentire depressivo che non corrispondono
soltanto alle dinamiche individuali messe in luce dalla psicoanalisi, bensì a movimenti dell’area delle sensazioni, movimenti che sono, in un certo senso, il motore generatore
delle dinamiche che la psicoanalisi ha focalizzato.
L’area delle sensazioni, antecedente al loro strutturarsi in
percezioni, e poi da qui in atti di pensiero sempre più desensorializzati e configurati, è la dimensione che riaffiora in
ogni psicopatologia, ma ancor più nei quadri depressivi, ai
quali conferisce sfaccettature fondamentali e tuttavia comunemente trascurate.
144
SIMPOSI TEMATICI
Avere o essere? Il dilemma
della depressione
Disturbo Affettivo Stagionale e Disturbi
Premestruali
C. Faravelli, L. Lampronti, S. Gorini Amedei, F. Rotella
F. Pacitti*, D. Russo**, A. Iannitelli**, G. Bersani**
Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Firenze
**
Con la descrizione di Kraepelin nel suo Trattato della malattia maniaco depressiva 1 non vi furono dubbi sul fatto che essa rappresentasse un’entità autonoma inquadrata nelle psicosi e con tutte le caratteristiche di una grave sindrome. Con la
comparsa dei primi trattamenti efficaci negli anni ’60 però
sono cambiate radicalmente le casistiche cliniche da allora
sempre più ricche di casi di lieve-media entità. A causa di
questa estrema variabilità nella gravità della presentazione
clinica è sorto un nuovo dibattito sulla nosografia della depressione basato su un’ipotesi unitaria o binaria della malattia. L’ipotesi binaria si caratterizza per un modello basato su
un approccio categoriale nel quale la depressione è divisa in
due differenti e separate entità, “endogena” e “reattiva”, a seconda della possibilità o meno di identificare fattori esterni
fisici o psicologici implicati nello sviluppo della malattia 2-4.
Secondo l’ipotesi unitaria invece la depressione non può essere divisa in categorie, essendo piuttosto meglio descritta da
un modello dimensionale, il più semplice dei quali ha una sola dimensione con la depressione endogena ad un estremo
del continuum e la depressione reattiva all’altro 5-7. La svolta fondamentale è avvenuta nel 1980 con la pubblicazione
del DSM III 8 che facendo sostanzialmente riferimento ai criteri di St. Louis 9 e ai Research Diagnostic Criteria (RDC) 10
ha preso posizione a favore di un’ipotesi unitaria nella quale
la gravità è misurata in base al numero dei sintomi presentati (di qui il termine depressione major), posizione riconfermata a tutt’oggi dalle edizioni successive del DSM. Gli autori approfondiranno le problematiche relative alla questione
della teorie unitaria e binaria della depressione e all’applicazione da parte della nosologia contemporanea del modello
quantitativo nella diagnosi della malattia e nella individuazione della depressione sottosoglia.
Bibliografia
1
Kraepelin. (1896) Introduzione alla clinica psichiatrica. Milano:
Società Editrice Libraria 1905 (tr. it).
2
Kiloh LG, Garside RF. The indipendence of neurotic depression
end endogenous depression. Br J Psychiatry 1963;109:451-63.
3
Garside RF, Kay DV, Wilson IC, Deaton ID, Roth M. Depressive
syndromes and the classification of patients. Psychol Med
1971;1:333-8.
4
Roth M, Gurney C, Garside RF, Kerr TA. Studies in classification of affective disorders. The relationship between anxiety
state and depressive illness. I. Br J psychiatry 1972;121:147-71.
5
Kendell RE. The continuum model of depressive illness. Proc
Roy Soc Med 1969;62:335-9.
6
Kendell RE. The classification of depressive illness. Br J Psychiatry 1970;117:347-8.
7
Kendell RE. Endogenous and neurotic deepression. Br J Psychiatry 1972;121:575.
8
American Psychiatric Association. Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders (DSM-III). 3rd Ed. Washington,
DC: APA 1980.
9
Feighner JP, Robins E, et al. Diagnostic criteria for use in psychiatric research. Arch Gen Psych 1972;26:57-63.
10
Spitzer RL, Endicott J, Robins E. Research Diagnostic Criteria:
rationale and reliability. Arch Gen Psych 1978;35:773-9.
145
Dipartimento di Medicina Interna e Sanità Pubblica, Università de L’Aquila; * III Clinica Psichiatrica, Dipartimento
di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università
di Roma “La Sapienza”
Introduzione: il Disturbo Affettivo Stagionale (SAD) è una
sindrome depressiva a ricorrenza invernale caratterizzata,
oltre da sintomi tipici come umore depresso, irritabilità ed
anedonia, da manifestazione “atipiche”, quali iperfagia con
il craving per i carboidrati, ipersonnia e peggioramento nelle ore serali. Il Disturbo Disforico Premestruale è caratterizzato da un cluster di sintomi come irritabilità umore depresso, tensione, craving per i carboidrati, e senso di gonfiore e
tensione mammaria. Tali sintomi si presentano caratteristicamente durante l’ultima fase luteinica e si concludono dopo pochi giorni dall’inizio della fase follicolare nella maggior parte dei cicli mestruali durante l’anno. Oltre alla periodicità circamensile, nel PMDD è stata descritta una ricorrenza circadiana e circannuale dell’andamento di alcuni
sintomi, come il craving dei carboidrati, con aumento nelle
ore serali e nei mesi invernali.
L’obiettivo del nostro studio è stato valutare in popolazione
di donne non affette da disturbi psichiatrici della prevalenza
di SAD e dei Disturbi Premestruali e la valutazione nei pazienti con SAD della prevalenza di sintomi premestruali.
Metodologia: una versione italiana modificata del Seasonal
Pattern Assessment Questionnaire (SPAQ) è stata somministrata ad un campione di 286 donne in età fertile. Nella versione utilizzata è stata aggiunta una sezione che indaga sulle modificazioni di alcune variabili fisiologiche e comportamentali nei giorni che precedono il ciclo mestruale. La somma dei punteggi ottenuti in queste scale è stata considerata
un indice della tendenza a sviluppare sintomi premestruali
(Premestrual Symptoms Score – PMSS).
Per la valutazione della prevalenza dei Disturbi Affettivi
Stagionali sono stati utilizzati i criteri proposti da Rosenthal
e per il riconoscimento dei sintomi premestruali è stato considerato un valore soglia, analogamente al Seasonality Score, del PMSS.
Le differenze tra punteggi medi del SS e del PMSS riportati da ciascun gruppo diagnostico sono state analizzate mediante ANOVA. Ciascun items della SPAQ è stato analizzato per la valutazione delle differenze inter-gruppo con il test del chi-quadro.
Risultati: delle 286 donne che hanno compilato la SPAQ il
11,9% (n. 34) soddisfaceva i criteri per il Winter -SAD, il
23,4% (n. 67) del Subsyndromal-SAD, il 2,8% (n. 8) del
Summer-Sad e il 33,6% (n. 96) presentava sintomi premestruali (PS). Nel gruppo che presentava il SAD è stata rilevata una prevalenza del 46,5% (n. 47) di donne che presentavano sintomi premestruali.
Dall’analisi dei punteggi medi riportati al Seasonality Score
e al Premestrual Symptoms Score nei tre i gruppi, SAD, PS
e SAD/PS si evidenzia una differenza significativa rispetto
ai controlli (ANOVA = p < ,001).
Conclusioni: i risultati del presente studio confermano la
stretta relazione tra il SAD e la PMDD. La presupposta vulnerabilità alle oscillazioni premestruali dell’umore e del
SIMPOSI TEMATICI
comportamento nelle donne affette da SAD è confermata
dalla maggiore percentuale di donne con sintomi premestruali nei soggetti con SAD rispetto al gruppo NON-SAD.
Dall’analisi dei punteggi del Seasonaliy Score emerge la
presenza di una maggiore sensibilità ai cambiamenti stagionali delle donne che presentano sintomi premestruali, che
mostrano un punteggio del SS significativamente maggiore
rispetto ai controlli.
Bibliografia
1
Rosenthal NE, Bradt GH, Wehr TA. Seasonal Pattern Assessment Questionnaire. Bethesda, Md: National Institute of Menthal Health 1987.
2
Praschak-Rieder N, Willeit M, Neumeister A, Hilger E, Statstny
J, Thierry N, et al. Prevalence of premenstrual dysphoric disorder in female patients with seasonal affective disorder. Affect
Disord 2001;63:239-42.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN GIOVANNI
S63 - Psicopatologia e dolore cronico
MODERATORI
G. De Benedittis, D. Berardi
Correlati psicopatologici del dolore cronico
G. De Benedittis
Centro per lo Studio e la Terapia del Dolore, U.O. di Neurochirurgia, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università di Milano e Ospedale Maggiore Policlinico, IRCCS,
Milano
Il dolore è “un’esperienza spiacevole, complessa e privata,
primariamente associata ad una lesione somatica o descritta
in tali termini” (Merskey & Bogduk, 1994). La componente emozionale dunque, e quindi psicologica, del dolore non
è soltanto una reazione ad uno stimolazione nocicettiva o ad
un evento doloroso, ma è intrinsecamente connaturata all’esperienza stessa. Non esiste dunque esperienza dolorosa
senza la valutazione cognitiva dell’evento e la risonanza affettiva di segno negativo (sofferenza). L’aspetto multidimensionale del dolore (formulato per la prima volta da Melzack e Casey nel 1968) si articola in tre dimensioni fattoriali: sensoriale-discriminativa (attinente all’aspetto dell’intensità-qualità e caratteristiche spazio-temporali della percezione dolorosa), motivazionale-affettiva (attinente alla risonanza affettiva associata all’evento doloroso ed alle sue componenti motivazionali) e valutativa (attinente agli aspetti cognitivi dell’evento). I recenti studi di neuroimaging hanno
confermato e precisato che l’esperienza del dolore viene codificata nelle sue diverse componenti in strutture sopraspinali differenziate e specifiche (ad esempio, la componente
emozionale del dolore viene elaborata principalmente in
strutture limbiche, come la corteccia cingolata anteriore).
Se dunque la componente emozionale del dolore è fondante
dell’esperienza stessa, non v’è dubbio che sempre e comunque il dolore, soprattutto se cronico, è anche uno stato psicologico (Chapman, 2002).
Ma raramente, nella pratica clinica, il fattore psicogeno è il
solo determinante della patologia dolorosa (e.g., il dolore
somatoforme). Il dolore psicogeno puro è egualmente raro
quanto il dolore somatico puro. Nella stragrande maggioranza dei casi, gli eventi somatici e psichici s’intersecano,
influenzandosi gli uni con gli altri.
Se nel dolore acuto il correlato psicopatologico più frequente
è l’ansia, associata al carattere di reazione di allarme generata
dallo stimolo nocicettivo, nel dolore cronico sono più comuni
i disturbi distimici, la reazione di conversione e l’ipocondria.
L’associazione tra depressione e dolore cronico è ben riconosciuta e non v’è dubbio che una significativa proporzione
di pazienti algologici presenti una depressione manifesta,
solitamente non maggiore, o, più comunemente, una depressione mascherata, come nella cosiddetta “reazione di
somatizzazione”, in cui la preoccupazione somatica (ipocondria) e l’ansia somatizzata mascherano la componente
depressiva. Discussa è la natura di questa associazione, se
cioè la depressione sia reattiva al dolore o via sia una comorbidità. È verosimile che la relazione tra depressione e
dolore sia di tipo circolare.
Un tratto di personalità caratteristico di molti pazienti algologici è l’alessitimia, ovvero la difficoltà a verbalizzare le
proprie emozioni e ad associarle appropriatamente ai vissuti somatici. Ciò rende questi pazienti difficilmente accessibili ad approcci psicodinamici, mentre più indicati ed efficaci risultano essere trattamenti come l’ipnosi e le terapie
cognitivo-comportamentali.
Una proporzione ridotta (15%) ma impegnativa di pazienti
con dolore cronico presenta disturbi di personalità, prevalentemente di tipo dipendente-aggressivo (De Benedittis,
2005). Questi soggetti (i cosiddetti “pazienti difficili”) rendono problematica la relazione medico-paziente e costituiscono spesso un arduo problema gestionale,
Rara, infine, è l’associazione tra disturbi psicotici (solitamente stati borderline) e dolore cronico.
In conclusione, la costante presenza di correlati psicopatologici nel dolore acuto e, soprattutto, in quello cronico, postula l’esigenza euristica di un approccio biopsicosociale al
dolore ed alla sofferenza, sia dal punto di vista diagnostico
che sul piano gestionale del trattamento. il quale deve essere sempre e comunque multimodale.
Correlati corticali delle emozioni
e del dolore: studi di neuroimaging
funzionale
C.A. Porro
Dipartimento Scienze Biomediche, Università di Modena e
Reggio Emilia
Introduzione: recenti studi PET suggeriscono che l’attenzione verso la componente affettiva del dolore attivi seletti146
SIMPOSI TEMATICI
vamente zone del cingolo perigenuale e della corteccia orbitofrontale, strutture coinvolte nella genesi di diversi tipi di
emozioni. È stato qui indagato se l’anticipazione del dolore
è in grado di indurre gli stessi effetti, e se l’attività delle porzioni rostrali della corteccia del cingolo correla con la spiacevolezza percepita in un modello di dolore sperimentale.
Metodologia: gli studi sono stati condotti in volontari sani
previo consenso informato, utilizzando un sistema di risonanza magnetica GE 1,5 T e sequenze di acquisizione ecoplanare BOLD-pesate. Il protocollo sperimentale prevedeva
un segnale di avvertimento, precedente di 10-60 s l’inizio di
uno stimolo doloroso di tipo meccanico o chimico. L’intensità sensoriale del dolore e/o la spiacevolezza percepita sono stati registrati on-line nel corso degli esperimenti, ed il
loro profilo temporale è stato correlato con la media dei segnali fMRI in regioni selezionate della corteccia cerebrale.
L’analisi dei dati fMRI è stata effettuata mediante i pacchetti di analisi SPM e AFNI.
Risultati: è stata riscontrata una disomogeneità nelle variazioni di attività del cingolo nella fase di anticipazione, con
incremento di segnale fMRI nel cingolo medio-anteriore e
nella regione dorsale del cingolo perigenuale, e decrementi
di attività in regioni ventrali. Durante dolore prolungato, il
segnale fMRI medio dei clusters identificati del cingolo medio-anteriore ha mostrato una correlazione significativa con
l’intensità percepita in 18/18 soggetti (r medio = 0,825), e
con la spiacevolezza percepita in 17/17 soggetti (r medio =
0,798). Al contrario, l’attività del cingolo perigenuale ha
mostrato prevalentemente correlazioni negative con l’intensità (18/18, r = -0,766) e con la spiacevolezza (17/17, r = 0,745).
Conclusioni: i risultati di questi studi fMRI dimostrano che
l’anticipazione e la percezione del dolore sono legate a variazioni di attività del cingolo anteriore. Questa regione corticale appare tuttavia una struttura complessa in cui diverse
porzioni sono diversamente implicate nella rappresentazione mentale e nella codifica di eventi dolorosi. Ricerche in
corso mirano ad indagare il grado di sovrapposizione tra la
rappresentazione corticale del dolore e di altre emozioni come il disgusto e la paura.
Psicopatologia e dolore cronico: ruolo
della psicoterapia
A. Lamberto
A.S.O. “Santa Croce e Carle”, Cuneo
Il dolore e la psicopatologia: il tentativo di distinguere il
dolore oggettivo da quello psicogenico è inevitabilmente
destinato al fallimento, perché il dolore cronico ha come caratteristica fondamentale la multidimensionalità, vale a dire
la stretta ed intensa correlazione fra le dimensioni fisiche,
psicologiche e sociali. Il paziente che soffre di dolore cronico da molti anni sviluppa facilmente atteggiamenti ed
espressioni di ansia e/o di depressione, senso di impotenza,
rabbia, che sono il frutto di anni di inutile e frustrante ricerca della soluzione del proprio problema algico.
Rilevanza di psicopatologia nel dolore: alcuni ricercatori
francesi hanno esaminato un campione di 330 pazienti ambulatoriali con Low Back Pain non specifico. Dalla valutazione, secondo i parametri del DSM III, è emerso che il 41%
147
dei pazienti rientravano nella classificazione come portatori
di problemi psichiatrici.
Altri autori anglosassoni hanno compiuto una review dei lavori che si sono occupati di diagnosi di personalità nei pazienti con dolore cronico e hanno riscontrato percentuali che
vanno dal 31 al 59%.
I dati riportano percentuali elevatissime che però non discriminano se la patologia era preesistente o meno all’insorgenza del dolore.
All’interno di questo insieme di pazienti si distinguono due
grandi gruppi. Il primo è costituito da pazienti che, in seguito alla cronicità del dolore, hanno sviluppato un Disturbo di
Personalità ed un secondo gruppo di pazienti nei quali il Disturbo di Personalità era già stato riscontrato prima del problema relativo al dolore. Da questa considerazione si evince
l’esistenza di una notevole percentuale di pazienti ai quali la
cronicità del dolore ha provocato conseguenze psicologiche
e di un altrettanto grande gruppo di pazienti per i quali il dolore si è inserito nella complessità di un disturbo psichiatrico
preesistente. Per tutti questi è prevedibile una notevole refrattarietà alle terapie esclusivamente focalizzate sulla sintomatologia dolorosa e alle procedure terapeutiche di carattere
farmacologico, chirurgico o di elettrostimolazione.
Importanza della valutazione psicologica e psichiatrica
nel dolore: la cognizione precisa delle caratteristiche di personalità precedenti l’insorgenza del dolore comporta una serie di vantaggi sia dal punto di vista diagnostico che successivamente per l’implementazione della terapia. Il primo è di
offrire al clinico una cornice concettuale all’interno della
quale inserire la situazione generale e globale del paziente
sempre tenendo in conto la caratteristica di multidimensionalità del dolore. Una chiarezza sulla personalità del paziente permette al clinico di non incorrere in errori di sovrao sottostima rispetto a questo importante elemento così essenziale nella terapia del dolore. Il secondo vantaggio è la
possibilità di impostare un piano terapeutico disegnato sulle caratteristiche complessive del paziente. Infatti una diagnosi accurata e una formulazione concettuale aiutano il clinico a sviluppare le tecniche più indicate per risolvere il
problema di dolore del paziente. Infine non è da trascurare
il piano scientifico perché da un’accurata diagnosi compiuta con strumenti testistici e di colloquio si hanno dei quadri
idonei a studiare ulteriormente l’interazione fra caratteristiche di personalità e percezione e mantenimento del dolore.
Risulta fondamentale distinguere fra il paziente che prima del
dolore aveva già un problema di psicopatologia rispetto al paziente che, come conseguenza del dolore, ha sviluppato una
serie di problematiche come, ad esempio, ansia e depressione.
Secondo Merskey ci sono ben sei possibilità di rilevare dolore nella popolazione psichiatrica.
Si osserva la prima quando il dolore si presenta come un’allucinazione e ciò avviene in particolare quando il paziente
soffre di Schizofrenia o di depressione endogena. Si tratta di
un’evenienza piuttosto rara soprattutto nella patologia schizofrenica.
La seconda è la classica “isteria di conversione”. Molto
spesso i pazienti con dolore cronico presentano una elevata
quantità di sintomi che sembrano avere caratteristiche ipocondriache o isteriche. Gli stessi profili MMPI (Minnesota
Multiphasic Personalità Inventory) indicano che queste ultime due espressioni di personalità sono assai comuni in tutti coloro che soffrono di dolore da molto tempo.
SIMPOSI TEMATICI
La terza si riferisce all’eccesso di contrazione muscolare.
Molte persone reagiscono a stati d’ansia patologici attraverso un eccesso di contrazione muscolare.
La quarta è relativa agli effetti del condizionamento operante e può essere attribuita a tutti quei pazienti che non hanno
una causa organica attuale o che non è mai stata rilevata. Secondo Merskey il termine “operante” è poco selettivo e può
essere applicato ad un gran numero di patologie di base come Schizofrenia, depressione, isteria, ansia.
La constatazione che una patologia dolorosa possa provocare una modificazione psicologica esplicita la quinta possibilità. È anche vero il contrario, che una caratteristica psicologica può produrre una patologia dolorosa, ma sostanzialmente il quinto punto ribadisce il ruolo dello stretto legame
fra emozioni e dolore.
La sesta possibilità deriva dall’osservazione dei pazienti che
si presentano allo specialista del dolore. In confronto con i
pazienti senza problemi psicologici, quelli che ne soffrono
ricorrono con maggiore frequenza a visite ed esami per accertare la natura dei loro dolori cronici e affrontare la cura
dei problemi.
Indicazioni alla psicoterapia: quando la prima diagnosi è
quella psichiatrica per la terapia è opportuno riferirsi a questa piuttosto che alla terapia del dolore, ma non si deve
escludere a priori un intervento psicoterapeutico mirato al
dolore.
Prima di affrontare in specifico le possibilità psicoterapeutiche con paziente con Disturbo di Personalità occorre distinguere fra la psicoterapia utilizzata nelle consuete modalità
psicologiche e psichiatriche e l’approccio della terapia del
dolore. In quest’ultimo caso l’obiettivo non è la globalità
della persona, che richiederebbe un gran numero di sedute e
tempi lunghissimi, ma si focalizza su tutte quelle caratteristiche personali, comportamentali, cognitive e sociali che
tendono ad aumentare e a mantenere la risposta dolorosa. Il
modello teorico maggiormente impiegato nella terapia multidisciplinare del dolore è quello cognitivo comportamentale che tiene in considerazione i fattori cognitivi, cioè gli apprendimenti, le convinzioni, le aspettative ed i processi cognitivi come pensieri automatici e auto affermazioni. L’assunzione di base è che gli aspetti cognitivi sono essenziali
non solo per ridurre il dolore, ma anche per un miglioramento dell’umore e per la diminuzione della disabilità.
L’indicazione alla psicoterapia per la gestione del dolore si
differenzia anche fra l’impiego nel dolore acuto e in quello
cronico. Nel dolore acuto è indicata nel caso in cui il paziente abbia reazioni emozionali e comportamentali esagerate e negative. In molti casi si tratta soprattutto di gestione
dell’ansia, se questa raggiunge dei livelli che rendono ingestibile interventi chirurgici o esami invasivi e potenzialmente in grado di scatenare fobie e reazioni avversive. Nel dolore cronico la scelta è determinata soprattutto dalla valutazione dei test psicologici e relativi al dolore che di routine
dovrebbero essere somministrati ai pazienti nel corso dello
screening iniziale al primo accesso ad una struttura che si
occupa di dolore. In Italia sono ormai diffusissimi gli ambulatori che si occupano di terapia antalgica, mentre sono
assai meno diffusi i centri in cui si affronta il dolore da un
punto di vista multidisciplinare, per cui permane il rischio di
un invio allo psichiatra solamente di quei pazienti che sono
refrattari alle terapie e mostrino evidenti segnali di psicopatologia.
Conclusioni: il ruolo della psicoterapia nel rapporto fra psicopatologia e dolore deve essere inquadrato all’interno del
modello teorico del dolore e del ruolo delle componenti di
personalità nella percezione e nel mantenimento del dolore
stesso. La psicopatologia può essere una causa o un effetto
che possono trasparire da una accurata fase diagnostica. Il
dilemma da sciogliere non è solamente capire l’entità e le
caratteristiche del Disturbo di Personalità, ma soprattutto e
principalmente quanto queste influiscono sulla percezione e
sul mantenimento del dolore. Sulla base di queste considerazioni un approccio psicoterapeutico è possibile anche con
pazienti già seguiti presso le strutture di igiene mentale territoriali perché l’obiettivo rispetto al dolore non è di affrontare il complesso delle problematiche del paziente. Piuttosto
si tratta di fornirgli delle abilità e dei supporti che gli permettano una migliore gestione del dolore.
Bibliografia
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Beltrutti D, Lamberto A. Aspetti psicologici nel dolore cronico:
dalla valutazione alla terapia. Faenza: Faenza 1997.
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Coste J, Paolaggi JB, Spira A. Classification of non specific low
back pain. I. Psychological involvement in low back pain. Spine
1992;17:1028-37.
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with pain. Washington: Am Psychological Assoc 2000.
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Merskey H. The role of the psychiatrist in the investigation and
treatment of pain. In: Bonica JJ, ed. Pain. New York: Raven
Press 1980.
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Wolff HG. Headache and other head pain. London: Oxford University Press 1948.
Antidepressants and antipsychotics
in chronic pain management
C. Coluzzi, M. Consalvo
Dept. Anesthesiology, Intensive Care and Pain Therapy,
University of Rome “La Sapienza”
Adjuvant analgesics are defined as drugs with a primary indication other than pain that have analgesic properties in
some painful conditions. The group includes numerous
drugs in diverse classes. These drugs have been shown to
increase the antinociceptive, antiallodynic or antihyperalgesic effects of analgesics. Despite the widespread use of
these drugs as first-line agents in chronic nonmalignant
pain syndromes, they usually are combined with an opioid
regimen when administered for cancer pain. They reduce
opioid adverse effects, by decreasing the dose required. Adjuvants, such as antidepressants and antipsychotics, have
been shown to have an important role in the multimodality
management of chronic pain. Antidepressant drugs have
been widely used for many years to treat neuropathic pain,
despite the rationale for their use was still unclear. In
chronic pain syndromes, antidepressants not only may provide their primary function of mood elevation, they may also have analgesic properties. It is now clear that their analgesic effect occurs independently of their antidepressant
action, in lower doses and with a faster onset of action. Beside the traditional monoaminergic hypothesis, antidepressants interfere with the opioid system, interact with the
NMDA receptors, and inhibit ion channel activity. Firm evidence from RCTs demonstrated that TCAs are the most ef148
SIMPOSI TEMATICI
fective drugs for treatment of different neuropathic pain
conditions. SSRIs are clearly less effective than TCAs
(NNT: 6.7 vs. 2.4) supporting the hypothesis that a balanced inhibition of noradrenaline and serotonin reuptake is
more effective in relieving pain. Newer antidepressants
show a better side effects profile, but further investigation
are warranted to clarify their potential role in management
of pain.
Growing recognition of the similarities between epilepsy
and neuropathic pain, and similarities between kindling and
central sensitization, increased our interest in the use of anticonvulsants to treat chronic pain. Carbamazepine was the
first anticonvulsant drug used in clinical trials for the treatment of trigeminal neuropathy. Nowadays, Gabapentin is
the most prescribed anticonvulsant for chronic pain. It is a
second line anticonvulsant that has been shown to be effective in neuropathic pain. Gabapentin acts by binding the
α2δ subunit of the voltage-dependent calcium channel. Pregabalin could represent the Gabapentin heir. Its efficacy has
been proved in painful diabetic neuropathy, post-herpetic
neuralgia and fibromyalgia syndrome. Atypical antipsychotics, such as olanzapine, have been used in the treatment
of fibromyalgia, with significant decrease in pain and
marked improvement in daily functioning.
References
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neuropathic pain: the role of antidepressants. Curr Pharm Des
2005;11:2945-60.
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pain. NY, McGraw Hill 2004, p. 581-98.
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Kiser RS, Cohen HM, Freedenfeld RN, et al. Olanzapine for the
treatment of fibromyalgia symptoms. J Pain Symptom Manage
2001;22:704-8.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MALTA
S64 - Sessualità e qualità della vita
MODERATORI
F. Manara, P. Santonastaso
L’interdisciplinarietà come strumento
di attenzione alla qualità della vita nella
cura dei pazienti con disfunzioni sessuali
Correlati psicobiologici dell’ansia in pazienti
maschi con disfunzioni sessuali
V. Ricca, G. Corona* **, E. Mannucci***, L. Petrone*,
G.C. Balercia****, R. Giommi*****, G. Forti*, M. Maggi*
F. Manara
Università di Brescia
La cura riuscita di una disfunzione sessuale è uno strumento che, a prima vista, porta vantaggi alla qualità della vita di
chi ne beneficia.
Tuttavia le ricadute delle terapie del sesso sono da leggere,
prevalentemente, in chiave relazionale e ciò porta alla necessità di riflessioni che nascono con la storia stessa della
sessuologia moderna.
Per questo saranno affrontati nel merito, e con esempi clinici, gli interrogativi che, il più delle volte, vengono lasciati
senza risposta quando gli strumenti terapeutici per trattare le
disfunzioni sessuali prescindono da una valutazione interdisciplinare del problema.
I campi più paradigmatici sono quelli della cura:
– della disfunzione erettile, nell’epoca delle farmaco-protesi;
– dell’eiaculazione precoce in chiave psicofarmacologica;
– del vaginismo e del dolore sessuale femminile, a gestione
ginecologica;
– dell’inibizione del desiderio, in chiave psicoterapeutica
individuale.
L’obiettivo del lavoro è di mettere in evidenza quanto l’integrazione delle competenze professionali offra alla cura
delle disfunzioni sessuali l’opportunità di portare un beneficio non solo alla qualità della vita di chi ne soffre, ma anche
a quella della relazione di coppia.
149
Dipartimento Scienze Neuropsichiatriche; * Dipartimento Fisiopatologia Clinica; ** U.O. di Endocrinologia, Ospedale
Maggiore-Bellaria, Bologna; *** Dipartimento Area Critica,
Università Firenze; **** U.O. di Endocrinologia, Università
Ancona; ***** Istituto Internazionale Sessuologia, Firenze
Introduzione: l’ansia è considerata una possibile via finale
comune attraverso la quale fattori stressanti di natura sociale, psicologica e biologica possono incidere negativamente
sul funzionamento sessuale. Scopo del presente lavoro è lo
studio dei correlati psicobiologici dei sintomi ansiosi, valutati in un ampio campione di pazienti affetti da disfunzione
sessuale erettiva.
Metodi: è stata studiata una serie consecutiva di 882 pazienti (età media 52 ± 13 anni) affetti da disfunzione erettiva, valutati mediante:
– l’intervista strutturata SIEDY, che indaga le aree organica, relazionale e psicopatologica coinvolte nella disfunzione sessuale;
– la Scala MHQ-A del questionario omonimo, per indagare
i sintomi della serie ansiosa;
– parametri ormonali e metabolici;
– test della tumescenza notturna peniena (NPT);
– esame Doppler penieno.
Risultati: i punteggi MHQ-A sono stati riscontrati essere significativamente più elevati nei soggetti che lamentavano
difficoltà nel mantenere l’erezione e in quelli con eiaculazione precoce (6,5 ± 3,3 vs. 5,8 ± 3,3; 6,6 ± 3,3 vs. 6,1 ± 3,3
rispettivamente; P < ,05). I sintomi della serie ansiosa erano
SIMPOSI TEMATICI
significativamente correlati con: conflittualità con la partner, conflittualità nella famiglia, ridotta libido nella partner,
situazione conflittuale sul lavoro, insoddisfazione sul lavoro, consumo di ansiolitici, altri sintomi psichiatrici.
Nell’ambito di tutti i parametri fisici, biochimici e strumentali presi in considerazione, l’unica correlazione statisticamente significativa è stata riscontrata tra i punteggi dell’MHQ-A e la velocità diastolica finale (P < ,05).
Conclusioni: i pazienti maschi che lamentano disfunzioni
sessuali, in particolare deficit erettivi, presentano una significativa correlazione tra sintomi della serie ansiosa e stressors familiari, lavorativi e intrapsichici. In tali soggetti, le
correlazioni tra sintomi ansiosi e problemi organici sono assai modeste.
Sessualità e Qualità di vita: il ruolo
dell’andrologo
V. Gentile, C. Basile Fasolo
Dipartimento di Urologia, Dipartimento di Psichiatria,
Neurobiologia, farmacologia e Biotecnologie, Università di
Pisa
L’Andrologo inteso come quella figura di medico con particolari conoscenze e attitudini nel settore dello studio dell’apparato riproduttivo e sessuale maschile è presente nello
scenario italiano da almeno un trentennio. La promozione
del benessere sessuale è uno dei momenti trainanti l’attività
stessa della SIA. La WHO evidenzia una serie di raccomandazioni per le quali il benessere sessuale è “Benessere fisico, emozionale, mentale e sociale collegato alla sessualità”.
Nel 1999 nasce la Settimana di Prevenzione Andrologica
dalla considerazione che in Italia si dovesse approntare una
operazione per portare a conoscenza della popolazione generale le problematiche dell’apparato genitale maschile e la
possibilità di disporre di un medico esperto nel settore, cioè
l’Andrologo. La Settimana della Prevenzione Andrologica
si colloca al centro di uno scenario che vede preminenti:
1) un’elevata prevalenza dei problemi andrologici;
2) la disfunzione erettile (DE), come patologia trainante e
che negli ultimi anni è emersa come fortemente prevalente e in grado di incidere negativamente sull’intera società
civile, ma che oggi può essere vista diversamente anche
alla luce della messa in commercio di farmaci veramente
efficaci;
3) la comunicazione medico-paziente, che mostra notevoli
“buchi neri”. Se consideriamo che i dati epidemiologici
evidenziano fra le principali patologie andrologiche la
DE, le altre disfunzioni sessuali, il varicocele, l’infertilità,
la induratio penis plastica, si ottiene che il numero potenziale di cittadini interessati ad una visita andrologica
oltrepassa i cinque milioni.
Si calcola che nel mondo più di cento milioni di uomini soffrano in modo più o meno grave di DE ed in Italia, oltre 3
milioni (3.440.041) sono i soggetti interessati. Vari studi
condotti sulla comunicazione medico-paziente evidenziano
come difficilmente maschi con disfunzioni sessuali si rivolgono al medico, in generale, e all’Andrologo. Ed un’ultima
considerazione nasce dalla scomparsa delle visite mediche
connesse con il servizio di leva. A questo punto: chi visiterà
i maschi italiani?
Il Progetto La Settimana della Prevenzione Andrologica
(SPA), ha permesso di fare emergere quei pazienti con patologie congenite o acquisite dell’apparato riproduttivo e sessuale maschile, che per vari motivi (ignoranza, disinformazione, timidezza, scarsa confidenza, ansie, fobie di ogni tipo)
non si rivolgono all’Andrologo. Attraverso tale campagna si
è tentato di scoprire un coperchio: una anomalia o un disturbo andrologico o sessuologico possono non essere riconosciuti di per se stessi o nascondere in sé una serie di patologie
organiche, quali flogosi e infezioni genitali, ipertensione, diabete, depressione, traumi spinali, postumi di interventi addominali, reumopatie, dislipidemie ed altro ancora. Nelle tre
SPA sono stati raccolti, complessivamente, i dati relativi a
19.524 pazienti. Molti dati sono stati raccolti chiedendo alle
persone in attesa di compilare questionari preparati ad hoc. Il
questionario è finalizzato alla raccolta di dati demografici
(età, stato civile, istruzione ed educazione, abitudine al fumo
e al consumo di alcolici, livello di attività fisica), in aggiunta
venivano poste poche domande sulle abitudini sessuali del
soggetto (frequenza e tipo di rapporti). Nella seconda edizione è stata aggiunta una sezione sull’educazione sessuale e sull’anamnesi sessuologica. La II Settimana della Prevenzione
Andrologica si è caratterizzata, rispetto alle altre, per il progetto dedicato all’antropometria: l’obiettivo è quello di rilevare le dimensioni dei genitali. Inoltre è stato richiesto al paziente quale sia la percezione soggettiva sull’adeguatezza delle proprie misure, limitatamente alla sfera genitale.
Da notare che il 75,2% dei partecipanti alla SPA si sottoponeva a una visita andrologica per la prima volta. Un buon numero di maschi è arrivato ad una età adulta con problematiche genitali sfuggite a genitori e visite mediche e tutte potenzialmente in grado di interferire con il benessere sessuale.
L’approccio ginecologico alla sessualità
femminile nelle diverse fasi del ciclo vitale
R. Russo
Dipartimento di Scienze Ginecologiche Perinatologia e
Puericultura, Università di Roma “La Sapienza”
L’approccio ginecologico con l’utenza femminile inizia, in
generale, nel periodo adolescenziale, dopo la comparsa dei
caratteri sessuali secondari e in relazione ai primi rapporti
sessuali. Questa fase iniziale dell’esperienza sessuale è particolarmente significativa nel sostegno di un sano sviluppo
della sessualità, sono necessarie accurate informazioni al riguardo ed in particolare ai sistemi anticoncezionali e alla
prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale.
La fase successiva dello sviluppo femminile è il periodo riproduttivo, con la gravidanza, il parto, il puerperio, l’allattamento e le modificazioni fisiologiche inerenti, che hanno
un’influenza sull’area sessuale. Nell’altro versante si pongono i problemi di sterilità, di infertilità e di procreazione
medicalmente assistita che si associano a nuove e più complesse problematiche nell’area sessuale.
A questa fase segue un periodo di stabilità fisiologica che
viene interrotto dalla premenopausa e dalla successiva menopausa, fine del periodo fecondo. Nella menopausa sono
presenti implicazioni psiconeuroendocrine che, se gestite in
modo funzionale e costruttivo, si ripercuotono con una valenza negativa sulla sessualità.
150
SIMPOSI TEMATICI
Dopo aver descritto le patologie ginecologiche e gli interventi chirurgici possibili nelle fasi sopra elencate che, in
modo rilevante, influenzano la sessualità femminile, vorremmo concludere sottolineando il bisogno di una specifica
formazione universitaria e successiva educazione continua
in medicina che permetta l’elaborazione di raccomandazioni e linee guida inerenti alla sessualità, materia in continuo
cambiamento ed evoluzione di grande incidenza sulla qualità della vita.
Dalla prestazione alla soddisfazione
C. Simonelli
Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Psicologia 1
Negli anni recenti la sessuologia ha mostrato un particolare
interesse per due aree: lo sviluppo di sussidi farmacologici
efficaci per il trattamento dei sintomi sessuali maschili, in
particolare il deficit dell’erezione e l’eiaculazione precoce
e, contemporaneamente, si è evidenziato, a livello internazionale, il bisogno di una revisione critica della nosografia.
Le nuove proposte di classificazione, su cui non esiste ancora
un consenso unanime, prendono in considerazione il personal
distress come elemento cruciale per la diagnosi e per l’eventuale intervento terapeutico: nel considerare non solo gli
aspetti e i correlati fisiopatologici della risposta sessuale, stanno emergendo con maggior chiarezza gli aspetti del vissuto
soggettivo e della dimensione soddisfazione/insoddisfazione.
Per promuovere una sessualità espressiva e libera da sintomi
invalidanti è necessario tenere presenti i rischi di un’eccessiva medicalizzazione della prestazione e, parallelamente, capire meglio il diverso ruolo e vissuto maschile e femminile.
Questo sviluppo della nostra disciplina permetterà la messa a
punto più incisiva di interventi su tre piani fondamentali:
1) strategie di intervento preventivo efficaci e verificabili;
2) diagnosi sempre più accurata delle disfunzioni maschili e
femminili;
3) messa a punto di programmi di promozione della salute
sessuale.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA RODI
S65 - Il glutammato e la sua neurotrasmissione: un
bersaglio principale in psichiatria e psicofarmacologia
MODERATORI
M. Popoli, A. de Bartolomeis
Metabotropic glutamate receptors as novel
target for Anxiety and Depressive Disorders
F. Nicoletti, F. Matrisciano
Department of Human Physiology and Pharmacology, University of Rome “La Sapienza
Anxiety and depressive disorders are the most commonly
occurring of all mental illnesses, and current treatments are
less than satisfactory. Hence, the discovery of novel approaches to treat anxiety/depressive disorders remains an
important area of neuroscience research. Glutamate is the
major excitatory neurotransmitter in the mammalian central
nervous system, and G-protein-coupled metabotropic glutamate (mGlu) receptors function to regulate excitability via
pre- and postsynaptic mechanisms. MGlu receptors form a
family of eight subtypes that are subdivided into three
groups on the basis of sequence homology, pharmacology
profile and transduction pathways. Group I includes the
subtypes mGlu1 and mGlu5, which are coupled to inositol
phaspholipid hydrolysis; group II includes mGlu2 and
mGlu3 receptors, which are coupled to Gi proteins; members of group III (mGlu4, -6, -7 and -8 receptors) are also
coupled to Gi proteins in heterologous expression systems.These receptors are a more suitable target for therapeutic intervention because they “modulate” rather than
“mediate” excitatory synaptic transmission. Agonist for
group II (mGlu2/3) receptors and antagonists for group I (in
particular mGlu5) receptors have shown activity in animal
and/or human conditions of fear; anxiety or stress. Neu151
roadaptive changes in the expression and function of
mGlu2/3 receptors occur in response to chronic antidepressant. In addition, neuroadaptation to imipramine – at least as
assessed by changes in the expression of β1-adrenergic receptors – is influenced by drugs that interact with mGlu2/3
receptors and stimulates further research aimed at establishing whether any of these drugs can shorten the clinical latency of classical antidepressants.
Bibliografia
1
2
Swanson et al., 2005.
Matrisciano et al., 2005.
MRS studies of cortical amino acid
neurotransmitters in Depression
G. Sanacora, D. Rothman, J. Krystal, G. Mason
Yale University, New Haven, USA
Objectives: increasing evidence suggests the amino acid
neurotransmitter systems contribute to the pathophysiology and treatment of major depressive disorder (MDD).
Specifically, altered concentrations of both GABA and
glutamate (glu) have been reported in plasma, cerebrospinal fluid and brain of depressed subjects. The primary objective of this series of studies was to use in vivo
magnetic resonance spectroscopy to examine potential differences in the content of GABA and glu in the brains of
depressed individuals.
SIMPOSI TEMATICI
Methods: subjects with MDD confirmed by a SCID were
entered into the studies after completing an informed consent
process. All subjects were medication free for a period of at
least two-weeks prior to initial MRS studies. Proton (1H)MRS studies were performed according to the methods described by Rothman et al. 1 and Carbon (13C)-MRS studies
were performed according to the methods described by 2 on
2.1 T and 4.0 T systems. Effects of treatment were determined by repeated MRS studies after a period treatment.
Results: occipital cortex GABA concentrations were significantly decreased and glu concentrations were increased in the
brains of depressed subjects 3. The differences appear most
dramatic and consistent in subjects with MDD having melancholic and psychotic features. Preliminary studies using 13CMRS methods suggest that the altered GABA and glu levels
in MDD are associated with decreased rates of GABA synthesis and glutamate/glutamine cycling. Furthermore, the
concentrations of GABA appear normalized following treatment with ECT 4 and SSRI medications 5, but not following
treatment with cognitive behavioural therapy (CBT) 6.
Conclusions: this series of studies suggest that abnormalities in amino acid neurotransmitter systems are found in the
brains of a subset of individuals with MDD. Preliminary data point toward altered rates of metabolism that may be related to deficits in glial cell function. Interestingly, treatment with either ECT or SSRI medications normalized the
measures but treatment with CBT did not. Thereby, the findings suggest that the altered function of these systems may
be tied to the basic pathophysiology of the disorder and potentially the mechanism of antidepressant action for specific treatment modalities.
References
1
Rothman DL. Localized 1H NMR measurements of γ-aminobutyric acid in human brain in vivo. PNAS USA 1993;90:5662-6.
2
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1999;96:8235-40.
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Sanacora G. Subtype-specific alterations of GABA and glutamate in major depression. Arch Gen Psych 2004;61:705-13.
4
Sanacora G. Increased occipital cortex GABA concentrations
following electroconvulsive therapy in depressed patients. Am J
Psych 2003;160:577-9.
5
Sanacora G. Increased occipital cortex GABA concentrations in
depressed patients after therapy with selective serotonin reuptake inhibitors. Am J Psych 2002;159:663-5.
6
Sanacora G. Cortical gamma-Aminobutyric Acid Concentrations in Depressed Patients Receiving Cognitive Behavioral
Therapy. Biol Psychiatry 2005;31.
Stabilizzazione del rilascio di glutammato:
un pathway presinaptico per l’azione
degli antidepressivi
G. Bonanno, R. Giambelli*, L. Raiteri*, E. Tiraboschi,
S. Zappettini*, L. Musazzi, V. Barbiero, M. Raiteri*,
G. Racagni, M. Popoli
Centro di Neurofarmacologia, Dipartimento di Scienze Farmacologiche, Università di Milano; * Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Farmacologia e Tossicologia,
Università di Genova
I meccanismi di plasticità delle sinapsi glutammatergiche so-
no stati implicati nella fisiopatologia dei disturbi dell’umore
e nell’azione dei farmaci antidepressivi. Vi sono numerosi dati in letteratura che suggeriscono un aumento della neurotrasmissione del glutammato in alcune aree corticali e limbiche.
In uno studio preclinico abbiamo esaminato gli effetti del trattamento cronico con antidepressivi sul rilascio di glutammato e GABA evocato da KCl e ionomicina da terminali sinaptici ippocampali. I trattamenti (10 mg/kg/giorno, per 14 giorni) con reboxetina (inibitore selettivo della ricaptazione di noradrenalina), fluoxetina (inibitore selettivo della ricaptazione
di serotonina) e desipramina (un antidepressivo triciclico), sono stati effettuati con minipompe sottocutanee. Negli animali trattati con tutti e tre i farmaci è stata osservata una significativa riduzione (25-50%) del rilascio di glutammato evocato da K+, mentre il trattamento acuto con gli stessi farmaci
non ha prodotto alterazioni significative 1. Abbiamo inoltre
analizzato i meccanismi molecolari presinaptici che regolano
il rilascio evocato di glutammato nei terminali sinaptici isolati (sinaptosomi) e nelle membrane sinaptiche dell’ippocampo.
Negli animali trattati con tutti i diversi farmaci alcune interazioni molecolari chiave nel meccanismo di rilascio sono risultate modificate, con modalità che spiega la riduzione del
rilascio di glutammato. In particolare il legame tra α-CaM kinasi II e sintaxina-1, uno dei componenti del complesso
SNARE che regola il rilascio di neurotrasmettitori, è downregolato. Inoltre il legame tra sintaxina-1 e Munc18 (una proteina presinaptica che blocca la partecipazione di sintaxina-1
al complesso SNARE) è up-regolato 1. Le modificazioni sono
dovute ad cambiamento dello stato di fosforilazione basale di
α-CaM kinasi II nelle membrane sinaptiche, indotto dagli antidepressivi. Questi risultati dimostrano che farmaci antidepressivi con un diverso meccanismo d’azione primario agiscono stabilizzando la trasmissione glutammatergica, e suggeriscono che questo effetto sia una componente del meccanismo terapeutico. Inoltre i risultati suggeriscono che i meccanismi molecolari di controllo del rilascio di glutammato
siano un potenziale bersaglio terapeutico, utile per la sperimentazione e validazione di nuovi farmaci antidepressivi.
Bibliografia
1
Bonanno G, Giambelli R, Raiteri L, Tiraboschi E, Zappettini S,
Musazzi L, et al. Chronic antidepressants reduce depolarization-evoked glutamate release and protein interactions favoring
formation of SNARE complex in hippocampus. J Neurosci
2005;25:3270-9.
(Poli)farmacoterapia delle psicosi;
dalla controversia clinica alle evidenze
precliniche: ruolo delle proteine della
densità postinaptica glutammatergica
A. de Bartolomeis, F. Iasevoli
Laboratorio di Psichiatria Molecolare e Psicofarmacoterapia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Napoli
“Federico II”
1. Evidenze cliniche ed epidemiologiche indicano un significativo uso concomitante di multipli agenti farmacologici nella terapia delle psicosi e segnatamente nella
Schizofrenia.
2. Particolarmente elevato sarebbe l’utilizzo di polifarmacoterapia (ad esempio due antipsicotici o antipsicotico + sta152
SIMPOSI TEMATICI
3.
4.
5.
6.
bilizzante il tono dell’umore) in pazienti ritenuti resistenti o parzialmente responsivi al trattamento con antipsicotici. Sebbene non sostenuta da linee guida ufficiali tale
pratica appare notevolmente diffusa e sottolinea la necessità di considerare da un canto le basi molecolari della polifarmacoterapia e dall’altro l’esplorazione di nuovi potenziali target al centro di multiple interazioni molecolari.
L’interazione dopamino-glutammatergica rappresenta
un possibile rilevante target delle polifarmacoterapie ed
evidenze precliniche e cliniche suggeriscono l’appropriatezza dell’esplorazione di tale interazione 1.
La densità post-sinaptica (PSD) glutammatergica rappresenta lo scenario morfofunzionale per il quale recenti osservazioni precliniche e studi post-mortem in pazienti psicotici indicano un potenziale e per molti versi
inesplorato ruolo nella fisiopatologia delle psicosi.
Anomale interazioni molecolari di proteine post-sinaptche con funzioni polimorfe (per esempio clustering,
adaptors) sono state suggerite nella fisiopatologia dei
disturbi psicotici, e numerose proteine della PSD sono
state considerate possibilmente coinvolte nell’azione di
farmaci psicotropi 2.
Recentemente, la famiglia di proteine denominata Homer e il relativo signaling di trasduzione del segnale ha
assunto particolare interesse per le putative implicazioni in patologie psichiatriche e per la modulazione delle
stesse a seguito di trattamenti farmacologici 3. Di tale
proteine si conoscono multiple isoforme costitutive (o
long forms: Homer1b/c; Homer2; Homer3) e una forma inducibile (o short form: Homer 1 e sua relativa variante di splicing Ania3). Le forme costitutive in virtù
della presenza di una specifica sequenza aminoacidica
all’estremità COOH possono multimerizzare e formare
un ponte fisico tra recettori glutammatergici metabotropici di tipo I e meccanismi effettori della trasduzione del segnale (tra i quali il recettori endocellulari per
la regolazione dei livelli di calcio del citosol). Le forme inducibili mancando dell’estremità COOH non
possono multimerizzare e quando sono inattivate (ad
esempio da trattamenti farmacologici) disassemblano
le forme costitutive modificandone la trasduzione del
segnale.
7. Nel paradigma sperimentale qui presentato trattamenti
acuti e cronici per via sistemica (i.p.) con antipsicotici a
differente profilo recettoriale in ratti maschi SpragueDowley sono in grado di attivare in maniera differenziale e in diverse aree cortico–sottocorticali i trascritti delle
forme inducibili e delle forme costitutive di Homer.
In particolare, trattamenti acuti con antipsicotici di prima (aloperidolo) e seconda generazione (olanzapina, risperidone quetiapina, ziprasidone) inducono l’attivazione differenziale di Homer1a e Ania3 in caudato-putamen e accumbens e con apparente correlazione al grado
di occupancy dei recettori dopaminergici D2, e non modificano in maniera significativa le forme costitutive.
8. Di contro, il trattamento cronico con stabilizzanti il tono dell’umore (litio e acido valproico) con livelli plasmatici comparabili alle dosi terapeutiche nell’uomo,
modificano in maniera differenziale l’espressione genica delle forme costitutive ma non di quelle inducibili.
9. In definitiva, il signaling di Homer costituirebbe un sistema di trasduzione del segnale di tipo multimodale all’intersezione tra meccanismi dopaminergici e glutammatergici, con possibili rilevanti implicazioni nel meccanismo d’azione di farmaci antipsicotici o stabilizzanti dell’umore e di utile ulteriore esplorazione nella polifarmacoterapia delle psicosi
Bibliografia
1
de Bartolomeis A, Fiore G, Iasevoli F. Dopamine-glutamate interaction and antipsychotics mechanism of action: implication
for new pharmacological strategies in psychosis. Curr Pharm
Des 2005;11:3561-94.
2
de Bartolomeis A, Fiore G. Postsynaptic density scaffolding proteins at excitatory synapse and disorders of synaptic plasticity:
implications for human behavior pathologies. Int Rev Neurobiol
2004;59:221-54.
3
de Bartolomeis A, Aloj L, Ambesi-Impiombato A, Bravi D, Caraco C, Muscettola G, et al. Acute administration of antipsychotics modulates Homer striatal gene expression differentially.
Brain Res Mol Brain Res 2002;98:124-9.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN PAOLO
S66 - Psicodinamica dell’agire terapeutico nell’ambito
dei Disturbi della Condotta Alimentare
MODERATORI
G. Borsetti, G. Turrini
L’approccio psicodinamico alla diagnosi
di DCA
G. Turrini
Ospedale privato accreditato “Villa Maria Luigia”, Monticelli Terme, Parma
Negli ultimi anni l’egemonia del modello cognitivo-comportamentale nel campo dei Disturbi della Alimentazione (e
non solo) sembra avere posto in secondo piano il ruolo del
pensiero psicodinamico nella comprensione, nella diagnosi
e nel trattamento di tali patologie.
153
Tuttavia vi sono alcuni punti sui quali il modello psicoanalitico sembra poter ancora rappresentare un punto di vista
costruttivo e almeno complementare a quello cognitivocomportamentale. Il successo di quest’ultimo, peraltro fondato su una teoria certo non banale né semplicistica, appare
legato in buona parte alla misurabilità degli esiti, rivolgendosi in larga parte al trattamento dei sintomi, ovvero delle
manifestazioni clinicamente apprezzabili della malattia. Tale fattore è probabilmente quello che ha determinato il declino del modello psicoanalitico, nel quale la valutazione
degli esiti sintomatici appare non solo o non tanto difficol-
SIMPOSI TEMATICI
tosa ma soprattutto contraddittoria rispetto al modello metapsicologico.
Ciò non deve peraltro far dimenticare come l’anoressia
mentale e la bulimia nervosa siano comportamenti le cui
origini nascono dal funzionamento della personalità nel suo
complesso e si inscrivano nell’ambito della relazione mente-corpo.
Su alcune questioni esiste oggi un accordo tra analisti anche
di diversa formazione. La prima concerne il valore simbolico
e rappresentativo del sintomo alimentare, che rimanda ad un
conflitto altro; e il vero obiettivo della cura psicoanalitica va
individuato proprio nel trattamento causale. La seconda attiene alla valorizzazione della centralità del soggetto ammalato,
e della originalità della sua storia, anche di quella morbosa.
La terza riguarda il concetto che il disturbo della alimentazione comprende sempre una patologia del rapporto e del legame con l’Altro, e in particolare, come paradigma della relazione interpersonale, con le figure parentali.
Da ciò consegue come un livello psicodinamico nella diagnosi possa convivere con un livello nosografico categoriale dal quale far derivare un intervento cognitivo-comportamentale; non certo per una sorta di eclettismo di dubbio rigore, quanto per la consapevolezza che la verità clinica, così come “la verità”, può essere compresa a diversi livelli e
attraverso differenti modelli di conoscenza.
Dinamiche di separazione-individuazione
nell’équipe curante
A. Simoncini, G. Borsetti, R. Coltrinari
Ambulatorio DCA della Clinica Psichiatrica, Azienda
Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto I
Lancisi-Salesi”, Ancona
Introduzione: il fallimento evolutivo considerato fattore
predisponente ad una patologia borderline è da intendersi
anche come un fallimento del “processo di separazione-individuazione” (Mahler, 1971). Se la fase simbiotica e le sottofasi della separazione-individuazione fossero sperimentate adeguatamente, lo sviluppo procederebbe normalmente e
si realizzerebbe la cosiddetta “funzione sintetica dell’Io”,
che permetterebbe l’integrazione di parti scisse o comunque
perdute. In termini junghiani ciò corrisponde a comporre in
una immagine di sé la mappa della propria identità, ovvero
a individuarsi.
Nei disturbi mentali gravi, come le anoressie e bulimie che
si instaurano su strutture narcisistiche gravi e borderline, il
paziente vive sotto la costante minaccia di un senso di frammentazione e scissione dell’immagine di sé (Bion, 1964;
Winnicot, 1965) e di confusione fra sé e l’altro da sé.
Ci sembra auspicabile, partendo da queste premesse, che chi
si occupa di “cura” nei DCA abbia coscienza delle dinamiche
psichiche profonde messe in gioco, non solo nel mondo interno dei pazienti ma anche in quello degli stessi curanti, affinché non si verifichino confusioni, collusioni o delusioni.
Metodologia: nel nostro Centro per i DCA dell’Azienda
Ospedaliero Universitaria delle Marche, in Ancona, abbiamo costituito una équipe integrata con diverse figure professionali, che si impegna nel tentativo di dare risposte terapeutiche e di cura secondo un’ottica psicodinamica, utilizzando l’atteggiamento psicodinamico (non la tecnica psi-
coanalitica) come elemento fondante tanto nella relazione
terapeutica con i pazienti, quanto nella relazione interpersonale professionale tra le diverse competenze.
Conclusioni: si evidenzierà con riferimenti clinici come in
professioni in cui la relazione con l’altro non è solo un
mezzo ma “il mezzo” della cura, l’assunzione responsabile e consapevole della propria identità, non solo professionale, è l’unico modo per avere presenti i confini e non
confonderli con quelli dell’identità dell’altro. La costituzione di un’équipe ci appare elettiva in particolare per lavorare sulla relazione, ma anche perché si formi una conoscenza critica del paziente, non assoluta (in una logica della giustapposizione di competenze in cui la propria conoscenza è sempre la più vera), ma integrata, relativizzata dai
diversi punti di vista e quindi più complessa e più (psico)dinamica.
Il trattamento di pazienti con DCA in regime
di degenza ospedaliera
E. Faloia, P. Canibus, F. Frezza, M. Boscaro
Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo,
Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto I, Lancisi-Salesi”, Ancona
Introduzione: la maggior parte delle complicanze organiche dell’Anoressia Nervosa è causata dal digiuno ed una
parte delle manifestazioni cliniche sono manifestazioni di
adattamento. In alcuni casi la gravità del quadro clinico richiede un intervento terapeutico in regime di ricovero.
Secondo la nostra esperienza il ricovero è necessario quasi
esclusivamente per pazienti affette da Anoressia Nervosa
Restrittiva o Purgativa che si trovino in determinate circostanze come una grave perdita di peso corporeo con BMI <
15 da molti mesi; o inarrestabile perdita di peso di circa 2 kg
alla settimana o gravi problemi internistici (es. grave ipopotassiemia con bradicardia, ecc.).
Metodologia: nella nostra struttura dal 1° gennaio 2003 al
1° settembre 2005 sono stati effettuati 28 ricoveri 5 maschi
e 23 femmine, con un range di età compreso tra 14 e 35 anni, per un totale di 482 giorni di ricovero, con una durata variabile dai 5 ai 45 giorni.
Durante il ricovero vengono effettuati un monitoraggio delle funzioni vitali, dello stato di idratazione e del peso corporeo, si procede al trattamento di eventuali disturbi elettrolitici, e si effettua un coordinamento della rialimentazione,
che può prevedere a seconda delle diverse situazioni: infusione di nutrienti da accesso venoso periferico; nutrizione
enterale mediante posizionamento di sondino naso-gastrico;
nutrizione parenterale da accesso venoso centrale.
Durante la degenza i pazienti vengono costantemente seguiti dal personale medico della Clinica Psichiatrica dell’Università Politecnica delle Marche, che garantisce una consulenza psichiatrica e psicofarmacologica.
Conclusioni: al momento della dimissione le condizioni cliniche generali risultavano nettamente migliorate rispetto all’ingresso, così come i principali parametri bioumorali. Ventitré pazienti dopo la dimissione sono stati seguiti e tuttora
sono sottoposti a periodici controlli in regime ambulatoriale secondo il protocollo terapeutico integrato in collaborazione con la Clinica Psichiatrica e in circa il 75% dei casi
154
SIMPOSI TEMATICI
abbiamo rilevato un aumento ponderale significativo e normalizzazione degli esami ematochimici; in alcune pazienti
si è avuta la ripresa dei cicli mestruali.
La nostra esperienza ha confermato l’importanza di una gestione integrata e multidisciplinare di questa complessa patologia.
Finalità operative ed interpretazioni
nel ricovero di pazienti con Disturbo
della Condotta Alimentare
V. Falcioni, A. Simoncini
Ambulatorio DCA della Clinica Psichiatrica, Azienda
Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto I,
Lancisi-Salesi”, Ancona
Introduzione: i Disturbi del Comportamento Alimentare
(DCA) sono caratterizzati dalla stretta coesione di sintomi
psichiatrici ed internistici. La presa in carico di queste pazienti richiede una lettura globale del problema che tenga in
considerazione gli aspetti organici, quelli metabolico-nutrizionali e quelli intrapsichici-relazionali, mettendo in atto un
intervento multidisciplinare integrato.
In alcuni casi particolarmente gravi dal punto di vista nutrizionale ed organico si rende necessario un trattamento in regime di ricovero.
Metodologia: il nostro centro per i Disturbi del Comportamento Alimentare è situato presso l’Ospedale Regionale di
Ancona. L’U.O. referente è la Clinica Psichiatrica, che si avvale, per la costituzione di una équipe multiprofessionale integrata, della collaborazione della Clinica di Endocrinologia, presso cui vengono effettuati i ricoveri.
Durante la degenza le pazienti vengono pertanto seguite con
un protocollo terapeutico integrato che vede coinvolte diverse figure specialistiche (psichiatra, psicologo, endocrinologo, nutrizionista, internista) che mettono in atto interventi
terapeutici integrati su psiche e corpo.
La presenza di tutti gli specialisti coinvolti nel protocollo terapeutico nello stesso luogo, rende più tangibile la presenza
dell’équipe che diventa così una realtà concreta.
Conclusioni: la funzione dell’équipe terapeutica è quella di
accogliere e contenere corpo ed emozioni, rimandando
un’immagine integrata dove psiche e soma, scissi dalle pazienti, sono accolti e unificati.
Il ricovero, secondo la nostra ottica, ha la funzione di tamponare una situazione critica di rischio fisico, senza aspettarsi la risoluzione dell’alterato rapporto con il cibo. Una
volta che venga superata la fase più critica dal punto di vista organico, il ricovero può rappresentare l’occasione per
poter proseguire il protocollo terapeutico a livello ambulatoriale.
Inoltre durante il ricovero può realizzarsi, attraverso un allontanamento dall’ambiente familiare spesso conflittuale e
invischiante, un’esperienza individuale per la paziente in
cui sperimentare dinamiche alternative a quelle presenti in
famiglia. L’ospedalizzazione può in effetti svolgere una duplice funzione: una funzione materna di accoglienza e di
contenimento attraverso la presa in carico e il tentativo di risposta ai bisogni, e contemporaneamente anche una funzione paterna facilitando e incoraggiando i processi di separazione.
155
Adolescenti con DCA: psicoterapia
di gruppo e processi di soggettivazione
S. Marchegiani, A. Simoncini, G. Borsetti
Ambulatorio DCA della Clinica Psichiatrica, Azienda
Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto ILancisi-Salesi”, Ancona
Introduzione: i Disturbi del Comportamento Alimentare
(DCA) coinvolgono e sconvolgono il rapporto tra mente,
corpo e relazione; la loro insorgenza coincide spesso con il
tempo dell’età adolescenziale, ovvero con quella fase dello
sviluppo che vede il corpo come ricettacolo di disarmonie
emotive e di problematiche individuali e relazionali. In adolescenza si riattivano vissuti di disgregazione, di non padronanza, di confusione fra sé e l’Altro.
In questo marasma emozionale la cultura di gruppo svolge
un ruolo primario, la tendenza al raggruppamento è particolarmente sentita e la convivialità con i coetanei incoraggia il
processo di separazione dalle figure genitoriali.
Il percorso psicoterapeutico gruppale offre pertanto all’adolescente la possibilità di pensarsi nell’alterità, di compiere esperienze affettive e di confrontarsi con il mondo
esterno.
Metodologia: nella convinzione che il setting gruppale possa essere luogo privilegiato per l’accoglienza ed il contenimento della sofferenza, ma anche spazio dove il singolo può
riappropriarsi della propria storia, si è formato un gruppo di
psicoterapia, orientato in senso psicodinamico, per i pazienti adolescenti affetti da DCA che afferiscono all’Ambulatorio dedicato della Clinica Psichiatrica di Ancona. I pazienti
sono 7, tutti di sesso femminile, di età compresa fra i 16 ed
i 21 anni, di estrazione socio-economica media e di pari scolarità; si differenziano per forma clinica e durata della malattia.
Il gruppo, condotto da due terapeuti, è aperto, con sedute
settimanali della durata di 80 minuti che si svolgono in un
contesto istituzionale.
Conclusioni: si discuterà su come il lavoro psicoterapeutico in gruppo offra uno spazio in cui i suoi componenti possano, sentendosi al sicuro, sperimentare le proprie diversità
e affrontare di volta in volta i problemi emergenti.
Ci sembra infatti che il processo di soggettivazione dell’adolescente renda più complessa la funzione del gruppo in
quanto strumento che, oltre a permettere l’espressione dei
diversi momenti identificatori, facilita l’accesso alla dimensione della gruppalità interna e alle sue potenzialità.
Dall’attività clinica emerge come il dispositivo gruppale rimetta in moto l’attività fantasmatica, aiuti a costruire immagini, metafore, sogni, fornisca occasioni per simbolizzare di fronte alla frequente condizione adolescenziale di perdita di pensiero simbolico e di perdita di confine fra interno ed esterno.
Bibliografia
1
Cahn R. L’adolescente e la psicoanalisi. Roma: Borla 2000.
2
Kaes R. Le teorie psicoanalitiche del gruppo. Roma: Borla
1999.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 1
S67 - Temperamento, Disturbi di Personalità
e abuso di sostanze
MODERATORI
I. Maremmani, P.P. Pani
Neurobiologia dei Disturbi di Personalità
nei tossicodipendenti
G. Gerra
Dipartimento Nazionale Politiche Antidroga, Presidenza
del Consiglio dei Ministri
I Disturbi della Personalità che frequentemente si associano ai disturbi da uso di sostanze presentano tra i correlati
neurobiologici alterazioni delle monoamine cerebrali e dei
principali assi neuro-endocrini che sembrano contribuire a
sostenere il comportamento additivo, influendo sull’espressione clinica della dipendenza e dell’abuso.
Le alterazioni del sistema dopaminergico, strettamente
coinvolte nell’instaurarsi di una traccia persistente nella
memoria emozionale a sostegno del comportamento additivo, sembrano accompagnare la sintomatologia dei Disturbi della Personalità, in particolare le problematiche
della motivazione, della soglia della gratificazione e degli
affetti.
D’altro canto, i sistemi della serotonina, dei recettori NMDA e del GABA sono capaci di modulare le risposte dopaminergiche striatali e, contemporaneamente, appaiono implicati strettamente nell’eziopatogenesi dei disturbi di personalità, nel tratto impulsivo-aggressivo, nelle turbe dell’umore e dell’ansia, nelle condizioni comportamentali di
confine, così diffuse tra gli adolescenti problematici, a rischio per l’uso di droghe.
In diversi casi, le alterazioni del quadro neurobiologico accompagnano l’individuo dalla nascita, nelle forme caratterizzate da familiarità; si complicano con le interferenze
ambientali durante la gravidanza e l’infanzia prescolare,
nonché con l’esposizione a circostanze avverse durante
l’età evolutiva, costituendo possibili antecedenti dei disturbi di personalità e del ricorso alle sostanze psicotrope
d’abuso.
Le disfunzioni delle monoamine cerebrali associate ai disturbi di personalità possono influire sul craving e indirizzare in modo specifico le aspettative di automedicazione
espresse nei confronti delle sostanze d’abuso, modulando
il comportamento compulsivo e incrementando l’intensità
del legame additivo.
Specifici polimorfismi genetici, quali quello del transporter della serotonina e della dopamina, dell’idrossilasi preposta al catabolismo dei cannabinoidi endogeni, delle monoamino ossidasi e dei recettori kappa oppioidi sono stati
presi in considerazione in relazione sia alla predisposizione allo sviluppo dei disturbi da uso di sostanze, sia alla associazione con i Disturbi della Personalità, a partire dalla
prima infanzia.
Allo stesso modo lo stress durante la gravidanza, la separazione dalla madre e le difficoltà dell’attaccamento, nonché le condizioni di negligenza e abuso, appaiono a loro
volta interferire stabilmente sul sistema noradrenergico,
l’asse HPA e l’equilibrio del sistema oppioide, andando a
sommare i loro effetti con le condizioni genetiche eventualmente preesistenti. Appare sempre più evidente come
questi elementi neurobiologici possano assumere un ruolo
cruciale nell’instaurarsi della propensione all’aggressività
e alla antisocialità, dei disturbi dell’umore, delle difficoltà
di adattamento allo stress, nelle problematiche dell’elaborazione emozionale e delle relazioni interpersonali che costituiscono gran parte del quadro clinico dei disturbi di
personalità del cluster “drammatico”.
Bibliografia
Gerra, et al. Neuropsychiatric Genetics 2005;5:73-8.
Gerra, et al. J Neural Transmission 2005;112:1397-410.
Gerra, et al. Addiction Biol 2005;10:275-81.
Personalità e temperamento
nella tossicodipendenza
I. Maremmani
Clinica Psichiatrica, Università di Pisa, Istituto di Scienze
del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
In questa presentazione è formulata un’ipotesi sul ruolo
dei fattori psicopatologici nella patogenesi dei disturbi da
uso di sostanze, in rapporto ai tre distinti momenti della
storia naturale della malattia: l’incontro con le sostanze,
l’uso continuativo, l’addiction.
A fronte di una revisione della letteratura sul concetto di
personalità tossicomanica e sugli elementi di personalità
del tossicomane, è proposta un sistemazione dei modelli
interpretativi da noi definiti (tossicodipendenza reattiva,
autoterapica, metabolica) con il tentativo di attribuire a
ciascuno un ruolo specifico rispetto a un particolare stadio
della tossicomania.
I modelli interpretativi finora elaborati, pur risultando, infatti, coerenti con singoli aspetti del fenomeno tossicomanico e utili a inquadrare una parte dei casi, non sono in grado di giustificare la sua dinamica globale, ovvero l’articolazione delle diverse fasi nella composizione della storia
naturale della malattia.
In questo modello integrato trova spazio, in particolare,
una discussione dei meccanismi che rendono la disregolazione dell’umore un substrato psichico implicato in
misura rilevante nella patogenesi dei disturbi da uso di
sostanze.
Un’unica predisposizione temperamentale (ciclotimica-ansiosa-impulsiva) può interagendo con l’ambiente dare origine a disturbi dell’umore (ipomania cronica) piuttosto che ai
disturbi dello spettro ansioso-sensitivo, piuttosto che a comportamenti antisociali, impulsivi e di addiction.
156
SIMPOSI TEMATICI
Psicofarmacoterapia dei disturbi
di personalità nei tossicodipendenti
Temperamenti affettivi e addiction: profili
correlati all’addiction e profili sostanzaspecifici
P.P. Pani
M. Pacini
Servizio Tossicodipendenze Azienda USL 8, Cagliari
Istituto di Scienze del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
Mi soffermerò sui disturbi di personalità più frequenti nei
disturbi da abuso, dipendenza da sostanze psicoattive: il disturbo antisociale e quello borderline.
Per entrambi i disturbi bisogna considerare le particolarità
legate alla condizione di tossicodipendenza che influiscono
sul trattamento. In primo luogo va rilevata la difficoltà a discernere parte dei sintomi e tratti comportamentali dei disturbi di personalità in questione da quelli direttamente correlati alla condizione di tossicodipendenza. Instabilità affettiva, impulsività, comportamenti antisociali sono comuni ai
disturbi di personalità e alla condizione di tossicodipendenza. La difficoltà diagnostica viene ulteriormente complicata
dal fatto che questi stessi sintomi possono inquadrarsi in una
patologia dell’umore.
Nella pratica clinica, l’approccio psicofarmacologico al trattamento dei disturbi di personalità, deve prevedere in primo
luogo l’utilizzo dei farmaci specificatamente rivolti al controllo del craving, che da soli possono essere sufficienti a
controllare una sintomatologia attribuita ad un Disturbo di
Personalità.
Anche laddove la coesistenza di un disturbo antisociale o
borderline complica il quadro clinico della tossicodipendenza, il trattamento del craving di solito influisce positivamente sul Disturbo di Personalità.
Entrando nello specifico della scelta dei farmaci indirizzati
al trattamento del Disturbo di Personalità, consideriamo in
particolare i neurolettici atipici e gli stabilizzanti dell’umore (litio e anticonvulsivanti).
Lo studio della personalità dei soggetti tossicomani nei termini di un temperamento affettivo rappresenta una nuova
ottica di analisi della datata nozione di personalità tossicofilica.
Alcuni profili temperamentali, concordemente con quanto si
osserva nei quadri psichiatrici affettivi maggiori, sembrano
prevalere nei tossicodipendenti. In particolare, le forme attenuate e temperamentali dello spettro bipolare prevalgono
nelle popolazioni di abusatori e di tossicomani di sostanze
farmacologicamente diverse, ma accomunate dalla capacità
di indurre reward.
Lo studio di soggetti poliabusatori consente tuttavia di appurare se esistano o meno profili temperamentali che giustificano l’orientamento prevalente verso una classe di sostanze, per associazione del reward con eventuali effetti autoterapici.
In alternativa, è possibile ipotizzare che diverse classi di sostanze interagiscano con substrati biologici diversi per produrre vissuti di piacere, con la specificità di una interazione
chiave-lucchetto in cui la porta comune è quella della gratificazione.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 2
S68 - Sovrapposizioni tra Disturbo Bipolare
e Disturbo Borderline di Personalità
MODERATORI
R. Dalle Luche, M. Balestrieri
I confini del Disturbo Borderline
di Personalità
C. Maggini, A. Pintus
Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Neuroscienze,
Università di Parma, U.O. di Psichiatria Azienda, U.S.L.
di Lucca
Il Disturbo Borderline di Personalità (BPD) è un’entità eterogenea e composita nel gioco tra dimensioni di disregolazione emotivo-affettiva di discontrollo degli impulsi e di instabilità delle relazioni interpersonali e dell’immagine di sé.
In accordo ai criteri diagnostici del DSM-IV (APA, 1994) la
diagnosi attiene a numerose (n. 151) configurazioni fenomeniche: sotto la stessa etichetta diagnostica vengono quindi accolti soggetti con caratteristiche molto diverse.
157
Questo disturbo non sembra sottrarsi al destino di sfuggenza, di indeterminatezza, di mercurialità che l’aggettivo borderline evoca e che induce a considerarlo uno stato di incerta dimora.
Un aggettivo in cerca di un nome aveva scritto Akiskal circa 20 anni fa: un nome che si era ritenuto di identificare nella depressione, quindi nel disturbo post-traumatico da stress,
nel disturbo del controllo degli impulsi e più recentemente
nel Disturbo Bipolare, o in cerca di più nomi come vuole chi
propone di collocarlo nell’intersection of multiple spectrums (Paris, 2004).
Alla base di queste diatribe stanno le inadeguatezze del costrutto categoriale e la promiscua configurazione criteriale
che mix traits a symptoms and behaviors appartenenti a vari ambiti diagnostici di Asse I.
SIMPOSI TEMATICI
Disturbi dell’Umore con caratteristiche
“borderline”: aspetti clinici e di decorso
G. Perugi
Dipartimento di Psichiatria, Università di Pisa, Istituto di
Scienze del Comportamento “G. De Lisio”, Pisa
Introduzione: Disturbo Borderline di Personalità e spettro
bipolare hanno in comune ampie aree sintomatologiche.
Scopo di questa ricerca è la valutazione dei rapporti esistenti tra spettro bipolare e Disturbo Borderline di Personalità in
un gruppo di pazienti con diagnosi di Episodio Depressivo
Maggiore. Lo studio si propone inoltre di studiare i rapporti tra sintomatologia affettiva e caratteristiche temperamentali.
Metodologia: una campione sequenziale di pazienti ambulatoriali i quali soddisfacevano i criteri del DSM-IV per episodio depressivo maggiore è stato valutato attraverso la
Structured Clinical Interview for DSM-III-R (SCID) e la
Structured Interview for Mood Disorders, SIMD (SIMD),
l’Atypical Depression Diagnostic Scale (ADDS), la
Hopkins Symptoms Check-list (HSCL 90), la Hamilton Rating Scale for Depression (HAM-D) nonché la corrispondente versione sviluppata per la valutazione dei sintomi vegetativi inversi (HAM-D, reverse). Le disposizioni temperamentali affettive sono state valutate mediante la scheda
TEMPS-I. Il campione è stato poi suddiviso in due sottogruppi in base alla comorbidità (BPD+) o meno (BPD-) per
il Disturbo di Personalità borderline ed è stata eseguita un’analisi comparata tra i due campioni.
Risultati: la prevalenza di Disturbo Bipolare II varia se
quest’ultimo viene definito in modo restrittivo (ipomania
spontanea di durata ≥ 4 giorni) o estensivo (su temperamento ciclotimico). Confrontando il 43% dei pazienti che soddisfaceva anche i criteri del DSM-IV per il Disturbo di Personalità borderline (BPD+) con il restante 57% (BPD-) non
si evidenziavano differenze significative in relazione a caratteristiche demografiche, familiari e cliniche. Il gruppo
BPD+ presentava più spesso comorbidità lifetime per disturbo da dimorfismo corporeo, bulimia nervosa, alcuni disturbi di personalità (narcisistico, dipendente e evitante) e
ciclotimia. Questo gruppo inoltre raggiungeva punteggi più
elevati agli items della ADDS per la reattività dell’umore, la
sensitività interpersonale, la compromissione del funzionamento, l’evitamento delle relazioni e la tendenza all’evitamento del rifiuto altrui e nei fattori della HCLS-90 relativi
alle ossessioni-compulsioni, sensitività interpersonale, ansia, rabbia-ostilità, ideazione paranoide e psicoticismo. La
analisi di regressione logistica mostra come la ciclotimia
renda ragione di gran parte delle correlazioni tra depressione e BPD, come fattore predittivo di 6 criteri del DSM-IV
(su 9). I tratti evitanti e dipendenti rappresentano anch’essi
fattori predittivi, sebbene in modo meno rilevante, per le relazioni interpersonali intense ed instabili, i disturbi di identità e i tentativi per evitare un reale o immaginario abbandono.
Conclusioni: la presenza di tratti temperamentali di tipo ciclotimico sembrano rendere ragione delle correlazioni tra
depressione e Disturbo di Personalità borderline. Nella nostra popolazione l’instabilità dell’umore e i tratti sensitivoevitanti appaiono costrutti correlati all’interno una matrice
temperamentale di tipo ciclotimico. Questi dati sembrano
suggerire che una disposizione temperamentale di tipo ciclotimico-sensitivo-ansiosa possa rappresentare il denominatore comune del complesso insieme di disturbi d’ansia,
dell’umore e impulsivi che questi pazienti mostrano all’inizio della loro vita adulta. Concettualizzare questi costrutti
sulla base di una predisposizione comune potrebbe rendere
questi pazienti maggiormente responsivi a trattamenti farmacologici e psicoterapici mirati alle loro caratteristiche
temperamentali.
Ambivalenza, instabilità affettiva
e relazionale in pazienti bipolari
e/o con disturbi di personalità tipoborderline
R. Dalle Luche
SPDC ASL 1 Massa e Carrara, Regione Toscana
La prevalenza del la comorbidità tra Disturbo Bipolare e Disturbo Borderline di Personalità è stimata intorno al 30%
(Bowden e Maier, 2003). Verosimilmente questa percentuale potrebbe risultare ancora maggiore in contesti terapeutici
per pazienti acuti, come gli attuali SPDC. Non sono soltanto la labilità emotiva, l’instabilità affettiva, gli scoppi di rabbia, l’ipersensibilità interpersonale (per le fasi up), l’ideazione depressiva, le tendenze suicide, l’abuso di sostanze
(per le fasi down), ad essere elementi sintomatologici e
comportamentali comuni ai due disturbi.
Le loro affinità, infatti, possono essere anche rintracciate sul
piano psicodinamico, sia per il riscontro di una marcata ambivalenza affettiva e per l’elevato grado di instabilità relazionale in entrambe le tipologie di pazienti (Millon, 1996), sia
per alcune modalità tipiche di relazionarsi anche in un contesto terapeutico: tra questi l’intrusività, la seduttività, l’assenza di distanza, la prodigalità, la tendenza ad instaurare un rapporto esclusivo e privilegiato, un “vincolo simbiotico”, come
si esprime il pensiero psicoanalitico (Amati Sas, 1996) e la
marcata intolleranza per il fallimento di queste manovre.
L’autore discute principalmente di questi aspetti attraverso
l’analisi del materiale clinico (un’interminabile serie di messaggi sms) di una paziente diagnosticata più volte, nel corso
della storia di malattia ormai superiore ai 10 anni, sia come
“bipolare” che “come borderline”. Alcuni meccanismi psicodinamici di base potrebbero rappresentare una opportuna guida per comprendere le relazioni intercorrenti tra i due “disorders” in un rilevante numero di pazienti e, forse, per oltrepassare un’antinomia diagnostica talora più nominale che reale.
Interventi farmacologici e psicoterapeutici
in pazienti con Disturbo Bipolare e Disturbo
Borderline di Personalità
M. Balestrieri
Cattedra di Psichiatria, Clinica di Psichiatria, Psicologia
Medica e Psicosomatica, Università di Udine
La tradizionale distinzione tra disturbi di asse I e disturbi di
asse II per quello che riguarda la tipologia degli interventi
terapeutici è stata messa discussione in anni recenti dall’e158
SIMPOSI TEMATICI
volvere del pensiero su ciò che è “organico” e ciò che è “psicologico” in psichiatria. Si può da un lato osservare che se
uno dei motivi della creazione di un asse II era quello di riservare i disturbi quivi inclusi ad un approccio psicoterapeutico, spesso di tipo psicoanalitico, ora questa posizione è
stata ampiamente superata. Sappiamo infatti che molti pazienti, in gran parte borderline, sono attualmente trattati anche con farmaci, senza i quali non potrebbero “stare” all’interno della psicoterapia. E d’altronde i dati di neuroimaging
iniziano a mostrare, ad un livello per ora ancora troppo poco raffinato, il tipo di alterazioni encefaliche funzionali dei
pazienti borderline, creando così il ponte tra mente pensante e sofferente e corpo disfunzionante.
Dall’altro lato, la patologia bipolare è sempre stata di predominio della psichiatria organicista. Cosa c’è di più biologico di una malattia che alterna inspiegabilmente (cioè, in
assenza di elementi esterni riconoscibili) fasi di annullamento e fasi di iperattivazione timica? Purtuttavia la gestione psicologica di questa malattia, fondata su aspetti cogniti-
vi ed educazionali, è (o dovrebbe) essere entrata a far parte
dello strumentario dello psichiatra evoluto. In assenza di
una capacità del paziente di percepire il cambiamento e mettere in atto comportamenti di ricerca di aiuto e di gestione
personale delle proprie crisi, non è possibile una reale gestione del Disturbo Bipolare.
Allo stato attuale delle conoscenze un certo numero di studi
di farmacologia testimonia l’efficacia di varie classi di farmaci (antidepressivi, antipsicotici) nel disturbo borderline.
Al contempo gli anni recenti testimoniano un rinnovato
grande interesse per il trattamento dei disturbi bipolari con
farmaci ad azione stabilizzante. Oltre ad una conferma dell’efficacia reale di questi farmaci nelle loro indicazioni attuali, c’è un forte interesse per la loro possibile applicazione alla patologia borderline.
Sul versante psicoterapeutico, c’è necessità di un confronto
tra le varie scuole per mettere in atto tecniche “manualizzate” di intervento, che tengano in considerazione gli elementi
comuni esistenti tra patologa borderline e disturbi bipolari.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA CAVALIERI 3
S69 - Diagnosi precoce dei Disturbi Pervasivi
dello Sviluppo
MODERATORI
F. Muratori, T. Charman
Diagnosi Precoce ed indici prognostici
R. Militerni, B. Adinolfi, A. Frolli, L. Sergi
Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, Seconda, Università
di Napoli
La diagnosi precoce dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo
risulta particolarmente importante per la possibilità che essa offre di avviare interventi tempestivi, in grado di incidere significativamente sulla storia naturale di tali disturbi. In
tema di “storia naturale”, tuttavia, risulta ancor oggi problematico definire la “stabilità” di una diagnosi formulata in
epoche molto precoci. Va infatti considerato che la diagnosi
di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo si basa su criteri
esclusivamente comportamentali. Ciò comporta che quanto
più piccolo è il bambino tanto maggiori sono le possibilità
che tali “comportamenti” possano modificarsi nel tempo.
Vengono pertanto a prospettarsi due difficoltà:
a) la prima riguarda la scarsa applicabilità dei criteri abitualmente utilizzati per definire uno specifico sottogruppo all’interno dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo.
Facendo riferimento al DSM-IV, prima dei tre anni di
età, sono prevedibili solo due sottocategorie diagnostiche, vale a dire, il Disturbo Autistico (DA) e il Disturbo
Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato
(DPS-NAS). Ne deriva che molti bambini nel corso dello sviluppo, pur rimanendo nella categoria dei DPS,
possono “cambiare” etichetta nosografica;
b) la seconda difficoltà riguarda la possibilità che una quota significativa di bambini possa “uscire” dalla categoria dei DPS. Tale possibilità, riguarda non solo i bambi159
ni che rientrano nei DPS-NAS, ma anche quelli con una
diagnosi di DA.
Sulla base di tali considerazioni è stata effettuata una ricerca finalizzata a valutare la stabilità della diagnosi formulata
in epoca precoce. In particolare, sono stati presi in considerazione 96 soggetti per i quali era stata formulata la diagnosi di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo ad un’età compresa
fra i 2 anni e i 2 anni e mezzo. 69 soggetti presentavano un
Disturbo Autistico (DA), mentre gli altri 27 rispondevano ai
criteri di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (DPS-NAS). Tali soggetti sono stati seguiti in follow-up per un periodo di circa 6 anni. Oltre a valutare l’evoluzione nell’espressività della sintomatologia
autistica, sono state prese in considerazione le variabili con
possibile significato predittivo. Sotto questo aspetto, l’attenzione congiunta ed il padroneggiamento dei codici comunicativi, oltre ad essere elementi utili per una diagnosi precoce sembrano porsi come variabili critiche per una formulazione prognostica.
I segni precoci del Disturbo Autistico
attraverso lo studio dei filmati familiari
S. Maestro, F. Muratori, F. Apicella, P. Muratori,
A. Petrozzi, C. Grassi A. Manfredi, L. Polidori
IRCCS “Stella Maris”, Università di Pisa
Introduzione: i A.S.D., caratterizzati da compromissione
qualitativa dell’interazione e della comunicazione sociale e
SIMPOSI TEMATICI
da restrizione delle attività e degli interessi, sono espressione di un disturbo specifico che, attraverso fattori genetici,
comporta modificazioni nello sviluppo del SNC (Lord,
2000). I filmati familiari (F.F.), girati dai genitori prima che
il Disturbo dello Spettro Autistico del figlio sia diagnosticato, rappresentano uno strumento ecologicamente valido per
studiare le primissime fasi dello sviluppo del bambino e le
sue interazioni con l’ambiente (Massie, 1977; Losche, 1990;
Adrien, 1993; Grimes e Walker, 1994; Osterling e Dawson,
1994; Baranek, 1999; Maestro e Muratori, 1999-2005; Teitelbaum, 1998; Werner, 2000). I principali risultati emersi
indicano che i bambini con ASD possono essere distinti precocemente dai bambini con sviluppo tipico rispetto alle modalità di interazione e di attaccamento (106), agli schemi di
intelligenza sensomotoria (102), alle capacità di orientamento agli stimoli sociali e non sociali (104), per mancanza
o anomalie del sorriso sociale, di una appropriata espressività mimica (103), di risposta al nome, della attività di lallazione (98), per una maggior frequenza di comportamenti
di esplorazione orale degli oggetti e per l’avversione al contatto sociale (107) Scopo del presente studio è quello di
identificare, attraverso la micro-analisi retrospettiva di filmati familiari dei primi 18 mesi di vita, la presenza e il profilo evolutivo di indici comportamentali che possano considerarsi precursori della capacità di attenzione condivisa.
Materiali e Metodi: sono stati selezionati i FF di 3 gruppi
di soggetti (T, ASD, RM) in possesso della documentazione
video relativa ai primi a18 mesi di vita a cui è stata applicata un griglia per la codifica di diverse categorie comportamentali attraverso un sistema di analisi computerizzata.
Risultati: nei primi 18 mesi di vita è infatti possibile identificare delle differenze comportamentali tra i tre gruppi,
maggiormente evidenti nell’area dei comportamenti complessi, per quanto riguarda il bambino, e nell’area della regolazione, per quanto riguarda il comportamento dei caregiver. Tali differenze tendono ad accentuarsi con lo sviluppo del bambino. A T3 i bambini con ASD confermano un
deficit negli item dell’attenzione condivisa, contrariamente
ai bambini degli altri due gruppi.
Profili sintomatologici ed evoluzione
in corso di trattamento dei DPS in età
precoce: uno studio con la CBCL
R. Tancredi, A. Narzisi, B. Parrini, R. Igliozzi,
F. Muratori
IRCCS “Stella Maris”
Introduzione ed obbiettivi: fra gli strumenti per lo screening dei DPS è stata recentemente proposta la CBCL
(Achenbach e Rescorla, 2000). L’obbiettivo che si pone
questo studio è duplice: da una pare quello di testarne la validità predittiva, usandola su un campione di bambini che
hanno già ricevuto una diagnosi di DPS con strumenti diagnostici internazionalmente valicati ed un bilancio diagnostico funzionale completo, dall’altra studiare l’evoluzione
dei profili sintomatologici in un piccolo campione di bambini in trattamento.
Metodologia: per la valutazione della validità predittiva la
CBCL è stata somministrata ai genitori di 50 bambini con
DPS (età media 3 anni e 10) 45 bambini con Altri Disturbi
(età media 3 anni e 6) e 41 bambini con sviluppo tipico (età
media 3 anni e 11). È stata utilizzata è la versione italiana
della CBCL curata da A. Frigerio (Istituto Scientifico E. Medea Ass. La Nostra Famiglia, Bosisio Parini (LC) © 2000.
Sono state ricercate correlazioni fra i profili sintomatologici,
il livello intellettivo e il livello di sviluppo del linguaggio.
Per valutare l’evoluzione in corso di trattamento la CBCL è
stata somministrata per 2 anni ogni sei mesi ai genitori di
bambini in trattamento psicopedagogico presso il nostro
Istituto. Inoltre è stata compilata anche la versione TRF dello stesso strumento diagnostico da parte degli educatori che
trattano il bambino.
Risultati: i primi risultati indicano che la CBCL permette di
diagnosticare correttamente il 90% dei casi che ricevono
una diagnosi di DPS.
I risultati inerenti l’evoluzione dei profili sintomatologici in
corso di trattamento sono in via di elaborazione.
Challenges to the early diagnosis of autism
T. Charman
Behavioural & Brain Science Unit, Institute of Child
Health, London, UK
A group of children prospectively identified by the CHAT
screen and diagnosed with autism at 2 years of age were followed up at 3 and 7 years of age. Several aspects of developmental profiles over time were explored. First, the pattern
symptom severity over time was examined – both categorically and dimensionally. Over time fewer children met cutoffs on diagnostic instruments although there was considerable individual variation in whether, when and how much
symptoms ameliorated. There were different patterns of
symptom profiles in different domains over time – suggesting separable processes underlying different symptom domains. Standard measures of language and IQ taken at age
2 did not predict outcome at age 7 years but the same measures taken at age 3 years did predict outcome. Several variables from the novel measure of interactive communicative
function (SCATA; Social Communication Assessment for
Toddlers with Autism) taken at age 2 years did predict outcome, including the rate and function of communicative
acts. The implications for clinical assessments, early diagnosis and our understanding of autism as a developmental
disorder will be examined.
160
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA ELLISSE
S70 - Efficacia della politerapia nel trattamento
delle forme resistenti
MODERATORI
A. Tundo, G. Maina
Strategie di trattamento della Schizofrenia
resistente
La politerapia nella profilassi dei disturbi
dell’umore
A. Rossi, M. Bustini*
A. Tundo, P. Cavalieri, F. Marchetti, I. Lega, N. Borioni,
C. Di Pasquale
Dipartimento di Medicina Sperimentale, Università de L’Aquila; * DSM AUSL di Rieti
Numerosi studi hanno dimostrato che la resistenza al trattamento farmacologico è un problema sostanziale nei pazienti schizofrenici con una percentuale del 20-30% di soggetti
che rispondono solo parzialmente ed una percentuale di pazienti pari al 7% che non mostra risposta ad alcun tipo di
trattamento.
Gli antipsicotici di seconda generazione, ed in particolare
la clozapina, hanno evidenziato la loro efficacia in questi
sottogruppi di pazienti per quello che riguarda il miglioramento sia dei sintomi positivi e negativi, che dei deficit cognitivi.
Tuttavia nei pazienti schizofrenici in trattamento monoterapeutico ottimizzato che non presentano risposta oppure una
risposta parziale al farmaco, si potrebbero utilizzare, come
iniziano a mostrare recenti dati di letteratura, alcune combinazioni di antipsicotici atipici (clozapina-risperidone;
clozapina-quetiapina; clozapina-aripiprazolo; clozapinaamisulpiride; clozapina-olanzapina; olanzapina-quetiapina;
risperidone-quetiapina; risperidone-olanzapina; olanzapina-sulpiride): tali combinazioni sembrerebbero ben tollerate senza presentare effetti collaterali in percentuale statisticamente maggiore o più invalidante rispetto ai regimi monoterapeutici.
Altre strategie di potenziamento farmacologico prevedono l’uso di benzodiazepine nel controllo dell’ansia, dell’insonnia e dell’agitazione (verosimilmente attraverso
l’inibizione indiretta dell’attività dopaminergica mesolimbica), degli stabilizzatori dell’umore per il controllo
dell’impulsività (probabilmente attraverso l’effetto antikindling che potrebbe diminuire l’ipersensibilità della
psicosi), degli antidepressivi SSRI per il miglioramento
dei sintomi negativi e cognitivi, e la terapia elettroconvulsivante.
Ulteriori possibilità di potenziamento prevedono l’utilizzo di antagonisti del glutammato (ad esempio il topiramato), strategie dopaminergiche (bromocriptina, agonisti
parziali dopaminergici D2), strategie noradrenergiche
(propanololo ed altri β bloccanti), strategie peptidergiche
(agonisti ed antagonisti oppiacei, peptidi correlati alla colecistochinina) ed, infine, l’utilizzo della terapia cognitivo
comportamentale nel controllo a breve termine dei sintomi positivi.
161
Istituto di Psicopatologia, Roma
Ad oggi non è disponibile uno stabilizzatore dell’umore
ideale, che sia cioè in grado di controllare almeno una delle
fasi acute (mania, depressione, stato misto) e il rischio di recidive (frequenza dei cicli, numero di episodi, sintomi sottosoglia) senza peggiorare alcun altro aspetto 1. Il gold standard nella gestione a lungo termine dei disturbi bipolari rimane il litio (40% di risposte complete, più efficace sulle recidive espansive) seguito dall’acido valproico (superiore al
placebo solo su variabili secondarie), dalla carbamazepina
(2/3 di risposte complete o parziali), dalla lamotrigina (più
efficace sulle recidive depressive) e dall’olanzapina (più efficace sulle recidive maniacali) 2-4. In condizioni cliniche di
routine nella metà dei casi nessuno di questi farmaci in monoterapia è sufficiente per ottenere una stabilizzazione ottimale per cui è necessario ricorrere a combinazioni “clinicamente razionali” tenendo conto delle caratteristiche longitudinali e trasversali che il disturbo assume nel singolo paziente come pure dell’eventuale presenza di altre patologie,
psichiatriche e/o mediche, in comorbidità e del profilo di effetti collaterali che ciascun prodotto o combinazione può
causare 5. Per le forme resistenti alle combinazioni più comuni è opportuno valutare la possibilità di associare anche
trattamenti off label come gabapentin, topiramato, antipsicotici atipici, nimodipina, acidi grassi omega 3, ormoni tiroidei oppure di somministrare a lungo termine antidepressivi 6. Benché la politerapia sia ormai comunemente utilizzata nella pratica, la quasi totalità dei dati relativi all’efficacia degli stabilizzatori dell’umore deriva da studi in monoterapia 7.
In questo simposio saranno presentati i risultati di uno studio, tuttora in corso, condotto su 140 pazienti affetti da Disturbo Bipolare I o II e seguiti per almeno 1 anno presso l’Istituto di Psicopatologia di Roma. Obiettivo dello studio è
valutare, in condizioni cliniche di routine: a) la frequenza
del ricorso alla politerapia; b) le associazioni più frequenti;
c) le variabili cliniche che più spesso rendono necessario
questo tipo di intervento; d) i risultati ottenuti.
Bibliografia
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SIMPOSI TEMATICI
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Tundo A, Cassano GB. Disturbi dell’umore. In: Cassano GB,
Tundo A, eds. Psicopatologia e clinica psichiatrica. UTET
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Tundo A, Musetti L, Miniati M, Cassano GB. Terapia farmacologica dei disturbi dell’umore. In: Cassano GB, Pancheri P, Pavan L, et al., a cura di. Trattato italiano di psichiatria. II Ed. Milano: Masson 1999, p. 1980-1995.
Goodwin FK. How to combine medications for long-term stabilization. In: APA. Bipolar disorder management: a new edition.
Atlanta 2005.
L’importanza dei livelli plasmatici
nel trattamento della Depressione
Resistente
L. Lattanzi, F. Mungai, M. Liberti, F. Casamassima,
A. Litta, G.B. Cassano
Clinica Psichiatrica, Università di Pisa, Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana
Introduzione: numerose sono le strategie di trattamento
impiegate nella mancata risposta agli antidepressivi, tra cui
adeguamento dei dosaggi ai livelli massimali, sostituzione
dell’antidepressivo, potenziamento della terapia con altri
agenti farmacologici (litio, ormoni tiroidei, buspirone, dopamino-agonisti), combinazione di più antidepressivi della
stessa classe o di diverse classi farmacologiche. Per gli antidepressivi attualmente in commercio non è stata stabilita
una correlazione diretta tra livelli plasmatici e risposta in
termini di miglioramento clinico. Per alcuni di essi il monitoraggio laboratoristico non è ancora entrato nella pratica
corrente. Nel corso di un episodio depressivo resistente al
trattamento la valutazione dei livelli plasmatici degli antidepressivi può essere impiegata per: a) escludere la non-compliance; b) verificare il raggiungimento dei livelli di range
terapeutico; c) monitorare gli effetti collaterali e le interazioni farmacologiche. Quest’ultimo aspetto assume particolare rilevanza nella depressione resistente in cui i complessi
schemi di potenziamento e combinazione farmacologici favoriscono la comparsa di reazioni indesiderate.
Scopo dello studio: a) valutare la percentuale di pazienti depressi resistenti non aderenti al trattamento e pertanto inquadrabili come “pseudoresistenti”; b) identificare i pazienti che,
nonostante la prescrizione di dosaggi adeguati, presentano livelli plasmatici al di sotto del range terapeutico; c) monitorare gli effetti indesiderati delle strategie di potenziamento e
combinazione farmacologiche mettendoli in relazione con le
variazioni dei livelli plasmatici. I dati preliminari riguardano
i primi 30 pazienti con depressione resistente (20 affetti da
Disturbo Bipolare di tipo I e II e 10 da Depressione Unipolare, 16 di sesso femminile e 14 di sesso maschile, di età compresa tra i 18 ed i 70 anni afferenti ai servizi ambulatoriali e
di degenza della Clinica Psichiatrica AOU Pisana).
Risultati: dai risultati preliminari emerge che l’associazione
tra SSRI e TCA, alla luce del monitoraggio dei livelli plasmatici, è ben tollerata; in particolare non abbiamo osserva-
to eventi avversi cardiotossici anche se, come riportato in letteratura, abbiamo rilevato un significativo incremento dei livelli plasmatici dei TCA associati ad SSRI Inoltre ci sembra
opportuno sottolineare, in base ai nostri dati, che il monitoraggio dei livelli plasmatici degli antidepressivi dovrebbe
entrare nella routine clinica ogni volta che questi vengono
associati a carbamazepina e/o valproato di sodio.
La politerapia nel Disturbo Ossessivo
Compulsivo resistente
G. Maina, U. Albert, G. Rosso, F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
Un’elevata percentuale di pazienti affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) (50-60%) non risponde o mostra una risposta clinica insoddisfacente a trattamenti farmacologici adeguati per dosi e tempi.
In questa tipologia di pazienti si pone quindi il problema di
adottare delle strategie terapeutiche alternative al fine di ottenere un miglioramento clinico soddisfacente. Una prima
opzione, in caso di terapia con citalopram o clomipramina,
è la somministrazione per via endovenosa (in ambiente
ospedaliero) dello stesso farmaco, in modo da eliminare
eventuali difficoltà nell’assorbimento del principio attivo.
Molto più frequente nella pratica clinica è lo switch del farmaco utilizzato. In tal caso, i pochi dati presenti in letteratura sembrano indicare come scelta preferenziale il passaggio da una classe di SRI ad un’altra (dall’SSRI al triciclico
o viceversa). Anche la monoterapia con venlafaxina, farmaco inibitore del re-uptake di serotonina e noradrenalina,
sembra essere un’alternativa efficace nel trattamento del
DOC anche in casi resistenti.
Altra possibile strategia è quella del potenziamento che, dal
punto di vista farmacologico, può essere serotoninergico o
dopaminergico. Nel primo caso bisogna considerare l’aggiunta di un altro farmaco attivo sulla serotonina, monitorando il paziente per il rischio di insorgenza di una crisi serotoninergica. Per quanto riguarda il potenziamento dopaminergico in letteratura sono presenti numerosi studi: innanzitutto è stata evidenziata l’efficacia nell’impiego dei
neurolettici a basso dosaggio in add-on (aloperidolo e pimozide). L’aloperidolo in particolare ha evidenziato soprattutto una buona efficacia nel DOC in comorbidità con disturbi da tic cronici. Sono stati quindi ampiamente studiati
anche gli antipsicotici atipici nel trattamento delle forme di
DOC resistente. Il risperidone a basso dosaggio in aggiunta
ai serotoninergici ha dato buoni riscontri e il suo impiego
non sembra essere influenzato dalla presenza o meno di comorbidità con altri disturbi, diversamente da quanto osservato con l’aloperidolo. Sono stati ottenuti buoni risultati anche con l’aggiunta di olanzapina a basso dosaggio: a tal proposito alcuni dati indicherebbero una precisa indicazione
per questo tipo di augmentation in caso di comorbidità tra
DOC e disturbo schizotipico di personalità. Infine, anche la
quetiapina ha dimostrato una potenziale utilità nelle strategie di augmentation. È ancora incerto se il potenziamento
con dopaminergici debba riguardare solo la fase acuta o essere prolungato, una volta ottenuta la risposta, anche nella
fase di mantenimento.
162
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MONTEMARIO
S71 - Aspetti transnosografici della dimensione
depressiva
MODERATORI
M. De Vanna, G.F. Placidi
La sintomatologia depressiva in corso
di Schizofrenia: aspetti clinici e terapeutici
E. Pompili, V. Salinetti, A. Sciarretta
DSM ASL RM G
Introduzione: la presenza di manifestazioni psicopatologiche di tipo depressivo, con espressione sintomatologica sia
nella fase acuta che in quella cronica della malattia, è un’evenienza abbastanza frequente nel decorso clinico delle psicosi schizofreniche. La depressione rappresenta un fattore
prognostico negativo con notevole riduzione del funzionamento globale del paziente e con incremento del rischio suicidario e delle ricadute. L’inquadramento diagnostico (overlapping con la sintomatologia negativa) e la gestione operativa delle manifestazioni depressive rappresentano delle problematiche cliniche di notevole importanza assistenziale per
le strutture psichiatriche territoriali. Allo scopo di valutare
l’incidenza della sintomatologia depressiva nei pazienti affetti da Schizofrenia, in condizioni di stabilità clinica, è stato effettuato uno studio di natura osservazionale nell’ambito
dei presidi psichiatrici territoriali del DSM della ASL RM G.
Materiali e metodi: le procedure dello studio ed il disegno
sperimentale dello stesso sono stati descritti in altri contributi (Sciarretta A, et al. GIP 2005;11:47-8). Tutti i pazienti
sono stati valutati sia con un colloquio clinico che con intervista strutturata orientati, entrambi, verso la ricerca della
sintomatologia depressiva. Oltre all’abituale impiego delle
scale di valutazione routinarie (PANSS, CGI-S, LSP, CAN
e GAF), sono state somministrate a tutti i pazienti esaminati la HRS-D a 21 items e la Calgary Depression Scale for
Schizophrenia (CDSS) per la definizione della sintomatologia depressiva e per la sua differenziazione dalle manifestazioni psicopatologiche di tipo negativo. L’analisi statistica
dei risultati è stata effettuata con il test di Pearson (valutazione del coefficiente di correlazione fra variabili) considerando rilevante, sul piano statistico, il livello di significatività inferiore a 0,005, per il test a due code.
Risultati: la suddivisione dei pazienti esaminati (90) è stata effettuata considerando come cut-off il valore della CDSS
superiore o uguale a 6; quest’ultimo valore era riportato dal
30% del campione clinico. Non sono state evidenziate differenze significative relativamente all’età, scolarità e genere; al contrario, la depressione era prevalente nei single o
comunque nelle persone che vivevano da sole. Evidente
correlazione è stata trovata fra la gravità totale della malattia, la intensità dei sintomi negativi e cognitivi e la disabilità. Significativa la constatazione che la relativa assenza di
una rete di supporto sociale e di adeguate relazioni interpersonali correlasse con la presenza di manifestazioni depressive. Abbastanza rilevante, sul piano psicopatologico, è risul163
tata la valutazione di caratteristiche psicologiche di base
(motivazione, strategie di coping e di problem solving, elaborazione e realizzazione di comportamenti finalizzati) la
cui validità adattativa è stata presa in considerazione allo
scopo di definire l’importanza dei fattori di rischio. Da sottolineare, inoltre, come il gruppo di pazienti in terapia con
antipsicotici di II e III generazione mostrasse una ridotta
presenza di sintomatologia depressiva. Quest’ultima, infine,
sembra essere rappresentata, sul piano descrittivo, da sintomi quali anedonia, apatia, senso di inutilità e perdita dell’iniziativa, bassa autostima, perdita della fiducia e della speranza accompagnate da sensazioni di inutilità e di immutabilità della propria condizione clinica e socio-esistenziale.
Conclusioni: la depressione rappresenta, anche nel paziente affetto da Schizofrenia, una precisa problematica clinica
che risulta ridotta, per frequenza e gravità, grazie all’impiego degli antipsicotici “atipici”. Particolarmente importante
appare, inoltre, il valore del “contesto” socio-relazionale ed
ambientale nel mantenere quelle condizioni di vita idonee a
stimolare e a potenziare le capacità adattative dell’individuo. L’assunzione di farmaci antidepressivi e la precisa interpretazione psicopatologica delle caratteristiche semeiologiche del quadro clinico, consentono una preciso ed efficace management del paziente con evitamento delle interferenze negative sul decorso della malattia.
Depressione e DOC: interazioni cliniche
e terapeutiche
F. Bogetto, V. Salvi, U. Albert, G. Maina
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
Il rapporto esistente tra disturbi depressivi e Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è stato analizzato in letteratura
già a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Kraepelin
aveva indicato come le idee coatte si sviluppassero spesso
nel corso di alterazioni dell’umore.
Studi effettuati su campioni clinici costituiti da pazienti ossessivo-compulsivi hanno indicato che la prevalenza dei disturbi depressivi varia dal 30 all’80%. Studi condotti su campioni di popolazione generale confermano gli elevati tassi di
comorbidità tra disturbo DOC e Depressione Maggiore. La
comorbidità tra DOC e Depressione Maggiore risulta essere
dunque una frequente evenienza tanto da essere indicata come la più comune complicanza del DOC. Riguardo al significato psicopatologico di questa elevata comorbidità, Lewis
fu il primo autore a proporre la distinzione tra depressioni
primarie e secondarie sulla base del rapporto cronologico intercorrente tra l’esordio del DOC e quello della depressione.
SIMPOSI TEMATICI
Le depressioni secondarie sono le più frequenti nel DOC e
sono in parte interpretabili come una complicanza derivante
dalla demoralizzazione causata da questo disturbo. In effetti
è stato dimostrato come il rischio nei pazienti ossessivocompulsivi di sviluppare depressione aumenti con l’aumentare degli anni di malattia. La depressione secondaria rappresenta un predittore di decorso cronico del DOC. Le depressioni secondarie possono essere caratterizzate sia da depressioni maggiori che da altre forme depressive quali distimia o depressioni minori. Meno frequente è la comorbidità
del DOC con depressioni primarie, di depressioni cioè che
accompagnano (o talvolta precedono) l’esordio del Disturbo
d’Ansia. In tali casi, la comorbidità si accompagna spesso ad
un decorso episodico del DOC.
Le prime osservazioni sulla terapia del Disturbo Ossessivo
Compulsivo concludevano che la presenza di depressione in
comorbidità rappresentava un predittore positivo di risposta.
Tale giudizio veniva spesso formulato poiché si riteneva che
la risposta del DOC ai trattamenti farmacologici fosse per lo
più una risposta aspecifica dei sintomi ansiosi e dell’umore
disforico che spesso accompagna questa condizione. Studi
successivi hanno tuttavia smentito queste osservazioni. La
risposta specifica nei confronti di una determinata classe di
antidepressivi (gli SRI), la necessità di dosaggi più elevati
rispetto al trattamento della depressione, la maggior latenza
di risposta, le differenti strategie nella terapia di mantenimento, il diverso tasso di risposta non lasciano dubbi sulla
specifica azione delle terapie nei confronti del DOC.
Osservata la elevata frequenza di comorbidità tra DOC e depressione e evidenziate le differenze nei pattern di risposta
alle terapie, rimane aperto il quesito su quale sia il tipo di
trattamento da utilizzarsi quando le due condizioni concomitano. A tal proposito i dati di letteratura non sono molti
tuttavia le osservazioni di alcuni autori suggeriscono di focalizzare in questo caso l’attenzione sul DOC, per quanto riguarda la scelta della terapia. Due studi hanno infatti analizzato nello specifico l’argomento ponendo a confronto in pazienti con DOC e depressione l’efficacia di un trattamento
con SRI rispetto ad uno con desipramina. In ambedue gli
studi il farmaco specifico per il DOC si è dimostrato significativamente superiore alla desipramina nel trattare sia il
DOC che la depressione in comorbidità.
Bibliografia
1
Bogetto F, Venturello S, Albert U, et al. Gender-related clinical
differences in obsessive compulsive disorder. Eur Psychiatry
1999;14:343-441.
2
Ravizza L, Maina G, Bogetto F. Episodic and chronic obsessivecompulsive disorder. Depress Anx 1997;6:154-8.
3
Hoehn-Saric R, Ninan P, Black DW, et al. Multicenter doubleblind comparison of sertralina and desipramine for concurrent
obsessive-compulsive disorder and major depressive disorder.
Arch gen Psychiatry 2003;57:76-82.
Aspetti psicopatologici e terapeutici
del dolore morale
E. Aguglia, D. Carlino, M. De Vanna
U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste
Il DSM IV pone come criterio positivo per parlare di distur-
bo psichico la presenza di distress, un dolore soggettivo inteso come angoscia, dolore psichico, non facilmente traducibile in italiano, oppure un’alterazione del funzionamento
relazionale, lavorativo e sociale. Pur non costituendo un criterio univoco per la presenza di Disturbo Mentale, è indubbio che la sofferenza psichica pervada ogni condizione patologica, comprese quelle in cui ciò non sia immediatamente evidente, o quelle in cui la compromissione della personalità sia tale da causare un vissuto esperienziale che si allontana dalla concezione di sofferenza del senso comune.
Nei disturbi d’ansia e depressivi quasi tutte le manifestazioni cliniche comportano sofferenza, dolore o quantomeno il
tentativo di evitarla ed attenuarla con le risorse di cui si dispone, e non è senza significato il fatto che in tali disturbi
sofferenza normale e sofferenza patologica presentino il
grado più elevato di sovrapposizione. Può essere opportuno
sottolineare il fatto che l’approccio clinico più recente, pur
aumentando la precisione e l’affidabilità della valutazione
diagnostica, non mantiene sempre un’adeguata sensibilità
nel recepire le diverse forme di malessere e disagio. Rispetto alla depressione, basti pensare alla tristezza vitale, per cui
il depresso non è solo triste e addolorato, ma sperimenta anche un sentimento somatizzato di pena, peso, abbattimento,
oppressione che dilaga nel corpo senza localizzazione precisa, e alla corporizzazione, sensazione fisica di essere ammalati, che sembra segnalare il confine fra sofferenza fisica
e sofferenza psichica additando, come una metafora, all’unità dell’insieme psiche-soma. Una qualità particolare, e
particolarmente grave e angosciante, di dolore si ha nell’umore predelirante che accompagna la catastrofica esperienza di cambiamento nella psicosi schizofrenica. Lo stato d’animo predelirante è il sentimento confuso, anideico, che il
mondo circostante e l’Io stiano cambiando, cambiamento al
quale il paziente non è in grado di attribuire un significato
preciso. Questo vissuto delirante è generalmente accompagnato da un sentimento di malessere, perplessità, inquietudine, ansietà, terrore, minaccia o sospetto, con un’atmosfera di sinistra estraneità e la percezione che stia per accadere
qualcosa. A livello più generale, l’abbandono della nozione
di processo di malattia come evento dirompente sulla continuità storica, psicologica ed esistenziale dell’individuo impedisce di comprendere non solo la sofferenza patologica,
ma presumibilmente anche la dinamica fisiopatologia di
quel processo, di cui la sofferenza stessa è componente essenziale.
Sarebbe quindi auspicabile una ripresa dell’interesse sulla
fisiopatologia dei processi di malattia, in cui proprio un livello di sofferenza più o meno affrontabile può contribuire,
assieme ad altri fattori, ad innescare dinamiche compensatorie in parte comuni e in parte differenti da individuo a individuo. Tali dinamiche, tuttavia, non potranno mai essere
comprese se la nostra conoscenza si deve fermare ad un
elenco di sintomi posti tutti sullo stesso livello.
Bibliografia
1
Aguglia E, Forti B. Le dimensioni della sofferenza psichica.
Giorn Ital Psicopatol 2001;7:3.
2
Masse R. Qualitative and quantitative analyses of psychological
distress: methodological complementary and ontological incommensurability. Qual Health Res 2000;10:411-23.
3
Saurel-Cubizolles MJ, Romito P, Ancel PY, Lelong N. Unemployment and psychological distress one year after childbirth in
France. J Epidemiol Community Health 2000;54:185-91.
164
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA LEONARDO
S72 - Trattamento psicologico e farmacologico
dei Disordini del Comportamento Alimentare:
quali le basi e quali i target?
MODERATORI
F. Brambilla, P. Monteleone
Il trattamento combinato psicoterapeutico,
psicofarmacologico e nutrizionale
del Disordine Compulsivo da Abbuffata
Predittori clinici di risposta al trattamento
nei Disturbi del Comportamento Alimentare
F. Brambilla, L. Samek, M. Company*, C. Mellado,
A. D’Ambrosio*, L. Cioni**
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Padova
Dipartimento di Salute Mentale, Centro per i Disordini del
Comportamento Alimentare, Ospedale “Sacco”, Milano;
*
Dipartimento di Nutrizione Clinica, Centro per i Disordini
del Comportamento Alimentare, Ospedale “Sacco”, Milano
In letteratura sono ancora pochi i dati disponibili sull’esistenza di predittori clinici e biologici di risposta al trattamento nei Disturbi del Comportamento Alimentare. Indicazioni in questo senso sono essenziali per individualizzare il
trattamento in questo gruppo di pazienti. Secondo Fairburn,
uno predittore di risposta al trattamento cognitivo-comportamentale nella bulimia nervosa è la risposta precoce al trattamento stesso, mentre non esisterebbero predittori pre-trattamento tra le variabili psicologiche indagate dal suo gruppo di ricerca. In un recente studio, Monteleone et al. 1 hanno riscontrato che il genotipo del trasportatore della serotonina è un significativo predittore della risposta ai farmaci
SSRI in un gruppo di pazienti con bulimia nervosa. Alcuni
studi svolti dal nostro gruppo di ricerca ha evidenziato che
la presenza di alcune caratteristiche cliniche di tipo impulsivo e/o compulsivo potrebbero rappresentare dei predittori
clinici del rischio di abbandonare precocemente il trattamento 2 3. Infine, nei soggetti con anoressia nervosa di tipo
restrittivo, la presenza di menarca precoce, di un peso premorboso elevato e di alti livelli di insoddisfazione corporea,
sembrano predire un possibile viraggio verso la bulimia nervosa 4. In uno studio randomizzato sull’anoressia nervosa,
Halmi et al. 5 hanno evidenziato che il livello di autostima è
l’unico predittore significativo di completamento della terapia, che la terapia farmacologica va sempre affiancata ad un
trattamento psicoterapico per poter essere accettata dalle pazienti e che la presenza di alti livelli di ossessività aumenta
le possibilità che un trattamento psicoterapico venga accettato dalla paziente.
La presenza di alti livelli di drop-out e la percentuale ancora bassa di soggetti che vanno incontro a remissione completa con il trattamento inducono a progettare altri studi di
tipo prospettico che diano indicazioni valide su quali soggetti cono a rischio di abbandono della terapia e quali soggetti possono beneficiare maggiormente di un particolare tipo di trattamento.
Introduzione: il trattamento del Disordine Compulsivo da
Abbuffata (BED) è oggetto di dibattito fra i fautori delle terapie della nutrizione, orientati alla correzione del eccesso
di alimentazione e di peso che caratterizza la malattia, e i
fautori delle terapie psichiatriche, dirette al trattamento dell’impulsività e compulsività che sembra essere alla base della sindrome. Entrambe le terapie, prese isolatamente, non
conducono alla completa e duratura correzione della malattia. Il nostro studio si è avvalso di un trattamento combinato, psiconutrizionale, psicoterapeutico e psicofarmacologico, associati allo scopo di affrontare contemporaneamente la
patologia fisica e quella psichica che sono strettamente legate e interdipendenti, e la cui simultanea regressione è indispensabile per la guarigione definitiva della malattia.
Metodologia: abbiamo trattato 25 pazienti di sesso femminile affette da BED con terapia nutrizionale (1.700 kal/die, 52%
di glucidi, di cui 20% rappresentati da fibre, 21% di proteine,
27% di grassi) e con psicoterapia di gruppo di tipo cognitivo
comportamentale (CBT) secondo il modello di Fairburn. A 7
abbiamo somministrato anche topiramato (da 50 a 200
mg/die), a 8 sertralina (50-150 mg/die), e a 10 topiramato +
sertralina per 6 mesi. Le pazienti venivano esaminate fisicamente (es. obbiettivo, controllo del peso, esami dei metabolismi glucidico e lipidico) e psicologicamente (Rating Scale:
EDI-2, BITE, Buss Durke, Barrat, Hamilton per depressione,
HSCL 90, PDQ4+, Balbo, BAT, visita psichiatrica) prima dell’inizio della terapia, e poi ogni mese per 6 mesi.
Risultati: le pazienti trattate con CBT + topiramato + sertralina hanno presentato una riduzione del peso significativamente superiore a quelle trattate con CBT + topiramato o
CBT + sertralina. Anche le caratteristiche psicopatologiche
hanno presentato un miglioramento significativamente
maggiore nel gruppo CBT + topiramato + sertralina che negli altri due gruppi.
Conclusioni: il trattamento simultaneo con terapia nutrizionale, CBT e psicofarmaci (sertralina + topiramato) sembra
offrire vantaggi significativi sia fisici che psichici rispetto
alle terapie nutrizionali, alle psicoterapie e alle farmacoterapie somministrate separatamente, e si propone quindi come
modello di trattamento dei BED.
165
P. Santonastaso, A. Favaro
Bibliografia
1
Monteleone P, Santonastaso P, Tortorella A, Favaro A, Fabrazzo
M, Castaldo E, et al. Serotonin transporer polymorphism and
potential response to SSRIs in bulimia nervosa. Molecular Psychiatry 2005;10:716-8.
2
Favaro A, Santonastaso P. Impulsive and compulsive self-injurious behavior in bulimia nervosa: prevalence and psychological
correlates. J Nerv Mental Dis 1998;186:157-65.
3
Favaro A, Santonastaso P. Self-injurious behavior in anorexia
SIMPOSI TEMATICI
4
5
nervosa. J Nerv Mental Dis 2000;188:537-42.
Tenconi E, Lunardi N, Zanetti T, Santonastaso P, Favaro A. Predictors of binge eating in restricting anorexia nervosa patients.
Manuscript submitted.
Halmi KA, Agras S, Crow S, Mitchell J, Wilson GT, Bryson SW,
et al. Predictors of treatment acceptance and completion in
anorexia nervosa. Archiv Gen Psychiatry 2005;62:776-81.
Attaccamento e risposta ai trattamenti
nei Disturbi del Comportamento Alimentare
S. Fassino, A. Pierò, G. Abbate Daga
Dipartimento di Neuroscienze, Centro Pilota Regionale per
i Disturbi del Comportamento Alimentare, Università di
Torino
Introduzione: il trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare si avvale di interventi psicoterapeutici,
farmacologici, nutrizionali e riabilitativi da parte di équipe
multidisciplinari. Nonostante i progressi nella definizione
fenotipica di sottotipi diagnostici e clinici, l’influenza dei
trattamenti sul decorso di tali disturbi sono ancora dubbi.
Ciò anche in relazione alla mancanza di target chiari sia per
gli interventi farmacologici e che psicologici (Sintomi? Dimensioni psicopatologiche? Sistemi? Personalità? …).
Molto spesso le difficoltà nel trattamento di pazienti affette
da DCA sono determinate dall’egosintonia, dalla scarsa motivazione al cambiamento e dall’interruzione non concordata dei percorsi di cura. Il fenomeno del drop-out, che è frequente nel trattamento dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), si verifica nei DCA in stretta relazione difficoltà nello stabilire un’alleanza terapeutica. Poco studiato
è il ruolo degli Stili di Attaccamento nel determinare la costruzione da parte del paziente di relazioni non durature, e
quindi anche nel concorrere al drop-out dai trattamenti.
Metodologia: 168 pazienti affette da DCA, di cui 70 Anoressiche (AN-R = 42; AN-BP = 28), 62 Bulimiche (BN), 18
NAS restricter e 18 NAS Binge sono state incluse nello studio ed hanno compilato al primo colloquio (T0) una batteria
di test comprendente: Attachment Style Questionnaire
(ASQ), Eating Disorder Inventory 2 (EDI-2), Body Shape
Questionnaire (BSQ), Beck Depression Inventory (BDI),
Symptom Checklist (SCL-90), Temperament and Character
Inventory (TCI). Di ogni paziente sono state raccolte le caratteristiche anamnestico-cliniche e personali, ed è stata valutato il percorso terapeutico al fine di identificare i drop-out.
Inoltre è stato valutato l’outcome a 3 e sei mesi attraverso la
ripetizione della batteria testistica e attraverso la CGI, item 2.
Risultati: 27 pazienti su 168 (16,1%) hanno interrotto precocemente i trattamenti. Una regressione logistica stepwise
(forward) è stata utilizzata per identificare i predittori indipendenti di drop-out, inserendo tutte le variabili dei test
(SCL-90 solo il totale) e le variabili personali continue (età,
esordio, durata di malattia, BMI), mentre la diagnosi (AN-
R, AN-BP, BN) è stata inserita come variabile categoriale.
Inoltre sono stati condotti studi di associazione tra esito dei
trattamenti psicoterapeutici (o combinati) e variabili predittivi a T0 (analisi dei dati in parte ancora in corso).
Conclusioni: stili di attaccamento caratterizzati da bassa fiducia nelle relazioni, con elevato disagio per l’intimità e la
vicinanza, nonché elevata paura della maturità sono associati ad un maggior rischio di drop-out. La sintomatologia
alimentare, la diagnosi, i sintomi depressivi, la durata di malattia e la gravità dell’alterazione del peso e dell’immagine
corporea non sembrano invece influire sul drop-out. Tali
evidenze suggeriscono un ruolo importante degli stili relazionali delle pazienti con DCA, relative alle precoci esperienze di vita e di attaccamento, nel fenomeno del drop-out,
che nei DCA è frequente e spesso associato ad un peggiore
outcome. Le implicazioni terapeutiche vengono discusse,
anche in relazione ai dati relativi all’esito dei trattamenti.
La ricerca genetica e le sue implicazioni
nella terapia farmacologica dei Disturbi
della Condotta Alimentare
F. Tozzi, P. Muglia
Psychiatry, Translational Medicine and Genetics, GlaxoSmithKline, Verona
La terapia dei Disturbi della Condotta Alimentare (DCA) è
caratterizzata dalla mancanza di farmaci efficaci per la terapia dei sintomi specifici di tali disturbi. Al momento non sono disponibili farmaci sviluppati specificamente per il trattamento dei DCA ed i farmaci utilizzati sono stati originariamente sviluppati ed approvati per altre patologie psichiatriche. Un crescente interesse sta emergendo nella ricerca di
psicofarmaci per i DCA e il controllo dell’assunzione di cibo nei soggetti obesi. Lo sviluppo di nuovi farmaci è una attività ad alto rischio, con costi molto elevati e tempi lunghi.
Modelli preclinici con scarsa predittività costituiscono il
metodo primario di validazione di un composto prima che
sia testato sull’uomo. La ricerca di geni che predispongono
ad ammalarsi di DCA costituisce una valida alternativa per
identificare nell’uomo i sistemi biologici coinvolti nella
eziologia e che possono costituire bersagli terapeutici. È
previsto che target terapeutici derivati dall’analisi genetica,
e quindi validati su pazienti, possano diminuire il rischio di
insuccesso nelle successive fasi di sviluppo di un farmaco,
e permettano lo sviluppo di farmaci più specifici ed efficaci. Esempi di come la ricerca genetica può essere utilizzata
per l’identificazione di nuovi target e lo sviluppo di un farmaco provengono principalmente da altre aree terapeutiche
con più lunga tradizione di ricerca genetica. È verosimile
che la conduzione di studi genetici nei DCA fornisca quindi
nuove evidenze per l’identificazione di nuovi target terapeutici.
166
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA VERDE
S73 - Il trattamento dei Disturbi di Personalità:
acquisizioni e sviluppi della ricerca
sulla farmacoterapia
MODERATORI
S. Bellino, R. Brugnoli
Gli antipsicotici atipici: oltre la Schizofrenia
R. Brugnoli
Fondazione Italiana per lo studio della Schizofrenia (FIS)
In un editoriale pubblicato qualche anno sul Journal of Clinical Psychiatry, Alan Breier, ha riferito testualmente, ma
forse un po’ enfaticamente, che gli antipsicotici atipici rappresentano probabilmente la più importante scoperta fatta
negli ultimi 40 anni nel campo della Schizofrenia.
A suo avviso grazie al favorevole indice terapeutico (efficacia vs. effetti secondari) rispetto ai neurolettici tradizionali questa nuova classe di farmaci ha trovato indicazioni
sempre crescenti in tutti i sottotipi di Schizofrenia: primo
episodio, riacutizzazioni, quadri stabili ma cronici, resistente.
La realtà commerciale statunitense sembra confermare questa visione ottimistica in quanto più dell’85% delle prescrizioni di antipsicotici è costituito da atipici.
Appare però interessante notare che in altri lavori pubblicati recentemente si fa riferimento al fatto che circa il 50%
delle prescrizioni di atipici è fatto in maniera atipica.
Infatti più della metà delle prescrizioni è “off-label” visto
che, a parte l’autorizzazione al trattamento di alcune fasi del
Disturbo Bipolare ottenuta da quasi tutti gli atipici, la loro
principale indicazione in scheda tecnica è quella della Schizofrenia o delle psicosi in senso lato.
L’uso “off label” di questa classe di composti è confermato,
pur in un mercato molto più piccolo, anche in Italia. Sono
infatti sempre più numerose le pubblicazioni scientifiche di
casi singoli, di piccole esperienze in aperto, di studi pilota o
osservazionali in cui si riferisce l’efficacia di questa classe
farmacologica nel trattamento di disturbi che si discostano
grandemente da quelli che costituivano l’originario target
terapeutico.
I disturbi affettivi sono la categoria diagnostica nei quali gli
atipici hanno trovato una più ampia utilizzazione in monoterapia o in add-on.
L’esperienza clinica ha portato numerose conferme relativamente all’efficacia di questa classe di farmaci nella gestione
della componente più squisitamente depressiva di quadri bipolari e schizoaffettivi o della depressione monopolare con
o senza sintomi psicotici.
L’uso in add-on di atipici nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) resistente, il loro utilizzo nell’ambito di particolari setting nei quali sono trattati pazienti
con disturbi alimentari psicogeni, l’utilizzazione in sottotipi
di pazienti geriatrici con florida sintomatologia psicotica,
costituiscono altre delle utilizzazioni “fuori scheda tecnica”
di queste molecole che si stanno rivelando una delle scoperte più utili degli ultimi anni.
167
In questa relazione saranno passati in rassegna i dati più aggiornati relativi all’uso degli atipici al di fuori delle indicazioni classiche tralasciando il loro utilizzo nel trattamento
dei disturbi di personalità per i quali sarà fatta una relazione
ad hoc.
Oltre i limiti della personalità limite: quale
farmacoterapia per la psicopatologia
borderline
V. Manna
Centro di Salute Mentale H2, Genzano di Roma Dipartimento Salute Mentale, Azienda USL ROMA
Negli ultimi anni, molti studi clinici e sperimentali hanno
investigato il ruolo svolto da diversi fattori nell’etiologia e
nella patogenesi del Disturbo Borderline di Personalità
(DBP).
Nella ricerca dell’etiopatogenesi del DBP l’importanza relativa di fattori biologici, psicologici e sociali è stata evidenziata da diversi autori, con approcci teorici divergenti alla
malattia mentale.
La farmacoterapia del DBP trova il suo razionale clinico e
teorico nelle basi psicobiologiche del temperamento e delle
dimensioni di spettro diagnostico, secondo il modello di
Cloninger ed il modello di Siever e Davis.
Gli obiettivi del trattamento farmacologico sono le dimensioni psicopatologiche del DBP piuttosto che la categoria
nosografia in sé. Il trattamento di pazienti ambulatoriali con
DBP è difficile. D’altronde la frequenza degli episodi stressanti acuti quali i comportamenti autolesivi, gli scompensi
psicotici, i comportamenti parasuicidari e le assunzioni impulsive di droghe illecite spesso compromettono gli sforzi
terapeutici. La farmacoterapia del Disturbo Borderline di
Personalità viene presentata alla luce della disregolazione
omeostatica edonica (disedonia).
Il discontrollo degli impulsi può essere considerato uno dei
sintomi nucleari del Disturbo Borderline di Personalità
(DBP). In un’ottica interpretativa dimensionale, il comportamento impulsivo sembra avere un ruolo importante nell’etio-patogenesi di diverse patologie psichiatriche. La disregolazione dell’impulsività e l’instabilità emotiva sono elementi fondamentali del DBP, ma anche di alcuni disturbi affettivi. L’impulsività è importante, inoltre, per interpretare
una serie di condizioni cliniche di comorbidità psichiatrica
d’Asse I nei pazienti con DBP, inclusi i disturbi dell’umore,
l’abuso di sostanze ed i Disturbi della Condotta Alimentare.
Il ruolo dell’impulsività e le correlate prospettive terapeutiche, nella psicopatologia borderline, sono brevemente rivalutate.
SIMPOSI TEMATICI
Il trattamento del Disturbo Borderline
di Personalità: acquisizioni sulla
farmacoterapia e sulla terapia combinata
S. Bellino
Struttura Complessa di Psichiatria a Direzione Universitaria, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Torino
Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è stato studiato
con crescente interesse dal punto di vista delle indicazioni
terapeutiche, in considerazione della gravità delle manifestazioni cliniche e all’esigenza di prevenire le complicanze
e la compromissione funzionale.
Le indagini clinico-terapeutiche hanno condotto all’elaborazione di linee guida per la farmaco e la psicoterapia del disturbo. Si tratta quindi del solo Disturbo di Personalità per
il quale sono disponibili chiare indicazioni all’impiego di
farmaci, anche se molti aspetti della condotta terapeutica e
l’efficacia stessa di numerosi agenti rimangono questioni
aperte da investigare e definire più chiaramente.
L’attuale orientamento delle linee guida per la farmacoterapia del DBP prevede un approccio dimensionale, con tre
aree di intervento fondamentali: l’instabilità affettiva, l’impulsività e i disturbi cognitivo/percettivi. L’efficacia dei singoli farmaci viene quindi valutata in relazione all’effetto
specifico sulle singole dimensioni psicopatologiche.
In anni recenti, nuovi agenti farmacologici si sono resi disponibili, in particolare nel gruppo degli stabilizzatori dell’umore e degli antipsicotici di seconda generazione.
Presso la Struttura Complessa di Psichiatria dell’Università
di Torino, ci siamo occupati di valutare in studi pilota in
aperto efficacia e tollerabilità in pazienti borderline di un
nuovo stabilizzatore dell’umore, l’oxcarbazepina, e di un recente farmaco antipsicotico con spiccata attività serotoninergica, la quetiapina.
I risultati ottenuti nei due studi e soprattutto il diverso profilo di azione terapeutica evidenziato per i due farmaci sono
descritti e confrontati con i pochi dati disponibili in letteratura. Vengono inoltre prospettati ulteriori sviluppi della ricerca sui nuovi agenti farmacoterapici, fra cui la necessità di
studi di follow-up a lungo termine per verificare la stabilità
degli effetti terapeutici.
Un altro ambito della ricerca clinica sul disturbo borderline
riguarda la terapia combinata che associa farmaci e psicoterapia. Questo aspetto assume particolare rilevanza poiché
tradizionalmente la patologia borderline è stata affrontata applicando modelli di psicoterapia a indirizzo psicodinamico.
In particolare, si pone la necessità di valutare i risultati della terapia combinata nei casi in cui il DBP complica le manifestazioni ed il decorso di un disturbo di Asse I, ad esempio di un disturbo depressivo maggiore.
Il nostro gruppo si è interessato all’applicazione di una terapia combinata con farmaci antidepressivi serotoninergici e
psicoterapia interpersonale in pazienti borderline che presentano i sintomi di un episodio depressivo maggiore.
La scelta della psicoterapia interpersonale deriva dal fatto
che questo modello è stato proposto specificamente per la
terapia della depressione. Il nostro studio ha previsto due
momenti diversi: un confronto fra terapia combinata e farmacoterapia singola; un confronto dei risultati ottenuti
dalla terapia combinata fra pazienti depressi con diagnosi
di disturbo borderline e pazienti con altri disturbi di personalità. I risultati ottenuti nell’arco di sei mesi sono discussi e ne vengono valutate le implicazioni per la pratica
clinica.
L’effetto della farmacoterapia
sulle caratteristiche di personalità
dei pazienti con Disturbo di Panico
C. Marchesi
Università di Parma, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria
Introduzione: in questo studio prospettico, i Disturbi di
Personalità (DPers) sono stati valutati in pazienti con Disturbo di Panico (DP) prima e dopo un anno di terapia farmacologica per verificare se le caratteristiche di personalità
si modificavano dopo il trattamento.
Metodologia: sessanta pazienti con DP e 60 controlli normali, appaiati per sesso ed età, hanno preso parte allo studio.
Tutti i soggetti sono stati valutati con la SCID-IV, l’intervista Strutturata per i Disturbi di Personalità del DSM-IV
(SIDP) la SCL-90, la scala di Hamilton per l’ansia e la depressione. I pazienti sono stati trattati per un anno con paroxetina o citalopram e valutati mensilmente per verificare
la remissione dei sintomi. La SIDP è stata risomministrata ai
pazienti alla fine dello studio.
Risultati: prima del trattamento, la frequenza dei DPers era
maggiore nei pazienti (60%) che nei controlli (8%). Dopo
il trattamento, nei pazienti la frequenza dei DPers è diminuita (43%) per la riduzione della frequenza dei DPers paranoide, evitante e dipendente. Quando l’effetto del trattamento sui tratti di personalità è stato valutato, abbiamo osservato che i tratti evitanti si riducevano solo nei pazienti
che raggiungevano la remissione completa dei sintomi, i
tratti paranoici si riducevano in tutti i pazienti, indipendentemente dall’esito del trattamento, e i tratti dipendenti si riducevano solo nei pazienti con comorbidità per la Depressione Maggiore.
Conclusioni: nei pazienti del nostro studio, il miglioramento dei sintomi si è associato alla riduzione dei tratti paranoidei, evitanti e dipendenti, considerando che dopo il trattamento solo i tratti paranoidei si sono normalizzati, mentre
quelli evitanti e dipendenti si sono mantenuti più elevati della norma. Pertanto, i nostri dati suggeriscono che nei pazienti con DP non solo i tratti paranoidei ma anche quelli
evitanti e dipendenti mostrano, almeno in parte, una componente di stato.
168
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 – ORE 16.00-17.30
SALA NUREYEV
S74 - Il corpo e le sue trasformazioni in psicopatologia
MODERATORI
D. La Barbera, A. Siracusano
Dal corpo-macchina al corpo virtuale:
aspetti clinici e culturali delle tecnoibridazioni della corporeità
Meccanismi di difesa in una popolazione
di soggetti obesi
D. La Barbera
Policlinico Universitario
R. Zoccali, M.R. Muscatello, A. Bruno
Dipartimento di Neurologia, Oftalmologia e Psichiatria,
Università di Palermo
L’evoluzione scientifica e tecnologica pone oggi la corporeità al centro di una serie complessa di trasformazioni, attuali e potenziali, il cui significato e le cui implicazioni non
appaiono ancora del tutto evidenti. La mappatura completa
e la decifrazione del genoma umano da una parte e i progressi straordinari nell’ambito delle tecnologie della comunicazione, della microelettronica e della robotica dall’altra,
aprono scenari affascinanti e problematici allo stesso tempo, nei quali il corpo diviene sempre più luogo di una sperimentazione bio-tecnica capace di riprogrammare organi e
funzioni e di implementarle con dispositivi tecnologici
avanzati, protesi biomeccaniche, microchip e persino reti
informatiche neurali. Questa sorta di salto antropologico
che consiste nella incorporazione degli strumenti dell’evoluzione, e che è orientato alla creazione del cosiddetto homo cyborg, un organismo non solo biologico, ma anche
meccanico ed elettronico, consente di focalizzare, sia sul
piano culturale, sia su quello psicologico e clinico, i cambiamenti ai quali sta andando incontro la rappresentazione
individuale e collettiva della dimensione somatica, sulla
spinta di tali intense e rapide trasformazioni. La scissione
della relazione mente-corpo, la virtualizzazione dell’esperienza della corporeità, la modificazione del modo di comunicare e della dimensione sensoriale, sono alcuni degli
aspetti di una nuova “clinica del corpo biotech”, nella quale l’incontro tra naturale e artificiale, fisiologia e tecnologia, organico e inorganico, reale e virtuale, consente di individuare, assieme alle risorse e alle prospettive evolutive e
alla possibilità di sperimentare forme differenti di identità e
di esperienza, anche possibili derive psicopatologiche, legate ai processi di scissione e frammentazione identitaria e
al disancoramento della dimensione somatica da quella psichica.
L’implementazione “psichica” e “culturale” del corpo tecnologico richiede infatti un complesso cambiamento adattivo, sia cognitivo che affettivo-emotivo, che la rapidità di tali processi rende particolarmente difficile. In una prospettiva psicodinamica è possibile individuare nella creazione del
corpo “ciberattivo” o in quello tecno-modificato dalla chirurgia estetica, dalle sostanze performanti o dal piercing
estremo, l’emergere di particolari istanze narcisistiche e di
aspetti e modalità di tipo arcaico-onnipotente.
Bibliografia
Cappucci PL. Il corpo tecnologico. Bologna: Baskerville 1994.
De Rosnay J (1995). L’uomo, Gaia e il cibionte. Bari: Dedalo 1997.
Yehya N (2001). Homo Cyborg. Milano: Elèuthera 2004.
169
Introduzione: alla luce delle più recenti conoscenze, l’obesità viene oggi considerata una malattia a patogenesi multifattoriale nell’ambito della quale rivestono un importante
ruolo fattori genetici, psicologici, fisiologici, ambientali e
socioeconomici. Nel contesto della letteratura relativa alla
comprensione degli aspetti psicologici dell’obesità, mentre
sono stati ampiamente indagati gli aspetti personologici ed
emozionali che possono influenzare il comportamento alimentare, al contrario solo pochi studi hanno focalizzato l’attenzione sui meccanismi di difesa messi in atto dai soggetti
obesi.
Scopo del lavoro: valutare i meccanismi di difesa prevalenti in un campione di soggetti obesi in base all’ipotesi che
l’utilizzo di peculiari stili difensivi possa influire, mediante
l’interferenza nella gestione degli eventi stressanti e delle
emozioni, sullo sviluppo, sulla progressione e sul mantenimento di tale patologia.
Metodologia: hanno partecipato allo studio 70 soggetti
obesi (BMI > 30) e 70 volontari normopeso (BMI = 18,524,9) selezionati per sesso, età, scolarità e stato civile. A
tutti i soggetti è stato somministrato il Defence Mechanism
Inventory (D.M.I.) nella versione italiana di G. Floriti e P.
Gentili.
Risultati: all’analisi statistica sono emerse differenze significative tra i due gruppi per quanto riguarda le variabili TAO
(t = -5,30; p < 0,0001). PRO (t = -5,55; p < 0,0001). TAS (t
= -4,87; p < 0,0001) e REV (t = -3,61; p < 0,0001).
Conclusioni: un assetto difensivo tendenzialmente inadeguato, come risultato negli obesi, può costituire un elemento di vulnerabilità nei confronti degli aspetti emozionali e
degli eventi esistenziali stressanti, contribuendo a mantenere la modalità iperfagica quale modello di scarica delle tensioni. L’indagine relativa agli stili di difesa ed i successivi
interventi di ristrutturazione e rimodellamento dell’assetto
difensivo nell’ambito di una psicoterapia ad orientamento
dinamico possono costituire un valido strumento nel trattamento globale ed a lungo termine dell’obesità.
Nuove geografie del corpo: l’adolescenza
oggi
R. Lo Baido
Dipartimento di Neurologia, Oftalmologia, Otorinolaringoiatria e Psichiatria, Facoltà di Medicina e Chirurgia,
Università di Palermo, Palermo
Adolescenza: corpo che cambia e si trasforma; corpo eccitato che sfugge al controllo. Corpo che cessa di essere fami-
SIMPOSI TEMATICI
liare e diventa estraneo a volte persecutorio. Il lavoro della
pubertà consiste, proprio, nell’integrare le rappresentazioni
del corpo infantile onnipotente con quelle del corpo pubere
sessuato che rimanda ineluttabilmente alla complementarietà e quindi al bisogno. È ciò che chiamiamo mentalizzazione del corpo, molto di più della nozione di schema corporeo. In effetti, l’elemento inquietante, messo in tensione
dalla pubertà è che il corpo “non è soltanto dove si vede, si
sente, si palpa, si gode: là ma contemporaneamente su
un’altra scena soggetto-oggetto di rappresentazioni e di desideri” (Birraux, 1990). Il senso di estraneità accompagna le
esperienze del corpo pubere, che viene trattato come “fuori
dalla psiche”, su un’altra scena, come un oggetto che non fa
parte di sé, depositario dell’odio e dell’aggressività. È contro il corpo che vengono direzionate tutte le difese nel tentativo di controllare l’ineluttabile cambiamento espressione
della paura di crescere e del desiderio di restare bambino.
Non stupisce, alla luce di tutto ciò, la quantità di riti, operazioni, individuali e di gruppo, che l’adolescente normalmente destina al corpo. Abbigliarlo, dipingerlo, travestirlo,
manipolarlo in mille modi e non sempre la finalità è quella di migliorarlo esteticamente. A volte si tratta di tentativi di appropriarsene per trasformarlo come nel piercing
(bucarsi qualsiasi parte del corpo tranne le orecchie per
collocarvi piccoli anelli, fibule, barrette metalliche), o nella body art (decorare, personalizzare e abbellire il proprio
corpo in modo estremo e permanente); a volte si tratta di
vere e proprie eclatanti violenze nel senso di mutilazioni
come il self cutting (autoinfliggersi delle ferite, delle lesioni sulla superficie corporea, cicatrici, piccoli tagli con
oggetti metallici), il branding (marchiare la pelle a fuoco
incidendo con un ferro rovente scritte, numeri, disegni e
simboli), lo scaring (tagliare la pelle con delle lamette da
barba o addirittura ami da pesca versando poi sopra le ferite dell’inchiostro alcolico).
Sembrano proprio essere cambiati gli scenari del disagio
mentale e il corpo diviene, per l’adolescente, il luogo, il rappresentante, il testimone nel quale iscrivere il conflitto interno, un “ritratto nella carne” del disagio psichico non elaborabile.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN GIOVANNI
S75 - Continuità e cambiamento
nella vita e in psicopatologia
MODERATORI
L. Pavan, L. Ravizza
Continuità e cambiamento nei vari
momenti della vita
L. Pavan
Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria
L’identità, quale che sia la definizione che ne venga data, si
confronta con la necessità del cambiamento che convive con
l’istanza opposta, che è quella del conservare, del ripetersi,
del non variare. La spinta del cambiamento è comunque presente come esigenza fisica e psichica e in entrambi i campi
tende a produrre delle modificazioni apprendendo dalle
esperienze fatte. Ogni uomo è continuamente impegnato
nell’affrontare la discontinuità, le cadute, le perdite, le trasformazioni, le separazioni. La nostra vita nel suo aspetto
anche più quotidiano è un continuo flusso di esperienze
emozionali che ci vengono proposte dall’esterno o che assai
spesso noi attivamente ricerchiamo e in cui è implicito un
qualcosa di perturbante in quanto è sempre insito l’elemento cambiamento, l’uscire da una condizione precedente per
andare verso un’altra. Potremmo pertanto aggiungere che
ogni cambiamento è sempre per tutti una caduta di onnipotenza, e quanto più questa è la copertura di una effettiva impotenza e di una vulnerabilità, tanto più esso può risultare
traumatico. Talvolta invece la difficoltà a vivere la trasformazione irrigidisce, si crea un conflitto fra le varie istanze
che trovano un loro compromesso parziale attraverso difese
male adattative. Quando le cose procedono discretamente,
quando le difese adattative funzionano, quando è attiva una
capacità di rappresentare gli affetti, allora il nuovo viene
contenuto, elaborato ed ammesso all’esperienza di sé così
che la stabilità, pur modificandosi, viene conservata. Un
equilibrio precedente si rompe, entra in crisi il senso di continuità, il soggetto deve abbandonare delle identificazioni e
aprirsi a delle nuove, fare delle scelte, separarsi, perdere
qualcosa, parti di sé, di qualcuno o di oggetti (a volte il cambiamento tende ad essere distruttivo proponendo di cancellare strutture esistenti) ed a tutto ciò ne consegue un vissuto
di precarietà, una crisi del senso di continuità di sé, in definitiva una minaccia per l’identità.
Gli eventi traumatici e i cambiamenti
improvvisi come fattori di rischio
C. Faravelli, S. Gorini Amedei, F. Rotella, S. Valgiusti,
F. Cosci, L. Lampronti
Università di Firenze, Dipartimento di scienze neurologiche
e psichiatriche
La relazione causale tra eventi e malattie, epidemie, carestie
o catastrofi naturali la si ritrova fin da quando esiste la scrittura. Più recente invece l’approccio scientifico a questo argomento iniziato nel XX secolo e che sembra abbia ormai
ampiamente riconosciuto l’effetto negativo dello stress sulla salute sia fisica che mentale e sul comportamento dell’uomo e di altri animali.
Ma in che modo gli eventi possono essere all’origine di quadri patologici? Quale relazione c’è tra eventi di vita e malattie mentali? E quale può essere considerato un evento di vita?
170
SIMPOSI TEMATICI
La letteratura scientifica si è concentrata di volta in volta su
varie categorie di stimoli stressanti, sia di ordine fisico che
emotivo, tuttavia gli studi più adatti a tale scopo sono quelli che si basano sugli effetti di eventi di vita causa di intenso stress (stressful life events).
L’evento stressante rappresenterebbe un co-fattore in soggetti predisposti, cioè che abbiano una certa vulnerabilità di
ordine biologico o psicologico. Gli studi biologici sulla natura dello stress, dalla ricerca di base fino all’etologia e alla
neuroendocrinologia, cercano di fornire le basi per comprendere chi e perché reagisce in un certo modo a un dato
evento e perché questo possa sfociare in uno stato patologico fisico o mentale.
La valutazione degli eventi è effettuata rispettando la distinzione tradizionale fra eventi precoci (early life event) e
eventi recenti (recent life event).
Gli eventi precoci sono elementi di predisposizione, fattori
di rischio, e comprendono accadimenti della vita verificatisi durante il periodo di formazione psicologica del bambino
e dell’adolescente. Gli eventi recenti sono invece fattori scatenanti della patologia psichiatrica che si verificano in epoca adulta e tipicamente nei 6-12 mesi precedenti l’episodio
di malattia.
Esiste però anche una letteratura che pone in relazione il carico di specifici eventi con la patologia psichiatrica in generale. Gli eventi specifici più studiati sono l’abuso sessuale,
il lutto, l’abuso fisico, la prigionia, i traumi di guerra e le
grandi catastrofi.
La maggior parte della letteratura più recente che si occupa
di questi eventi specifici è ascrivibile al grande capitolo del
disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
Nel corso degli anni, gli studi scientifici hanno valutato altri aspetti sia psicologici che biologici rendendo il panorama
più complesso. Sembra comunque che gli eventi favoriscano l’esordio dei disturbi non solo in quanto accadimenti che
generano uno squilibrio ma perché interagiscono con fattori individuali, quali le caratteristiche personologiche 184 e
la vulnerabilità, i fattori familiari 185 e biologici.
L’elemento biologico più importante risulta lo stress in
quanto capace di attivare i sistemi neuroendocrino e immunitario e produrre un quadro clinico come conseguenza dell’esaurimento dei meccanismi anti-stress.
Considerando questo scenario, è opinione degli autori che i
disturbi psichiatrici siano “stress-related” e pertanto siano
caratterizzati da, frutto della risposta stress-related, e sintomi specifici, influenzati dai fattori predisponesti individuali, sociali e familiari sopra descritti. In base a questa ipotesi
il disturbo psichiatrico di Asse I sarebbe la complicanza di
un disturbo dell’adattamento e si verificherebbe ogni qualvolta i sintomi aspecifici stress related evolvono in forme
più specifiche.
171
Continuità delle cure e cambiamento
del terapeuta
M. Semenzin, M. Sabattini, M. Pavanini
Azienda ULSS 9, Treviso
Il problema della continuità terapeutica rappresenta un tema
che coinvolge a vario titolo tutti gli “attori” che operano nell’ambito della salute mentale e spesso ha rappresentato e
rappresenta un terreno di discussione e dibattito.
Se, da una parte, si riconosce che la stabilità della équipe
rappresenti un sicuro fattore terapeutico, dall’altra non vi
sono ancora dati sufficienti in letteratura che possano sostenere con forza ciò che è opinione diffusa.
Per questo motivo abbiamo pensato di valutare ciò che si
verifica confrontando due Centri di Salute Mentale simili
per tipologia dell’utenza.
In questo lavoro sono stati presi in esame una cinquantina di
pazienti con diagnosi di Schizofrenia residuale, in carico al
Servizio Psichiatrico pubblico da almeno sei anni.
I pazienti del campione sono in carico a due diversi Centri
di Salute Mentale di Padova che hanno una differente organizzazione interna per quanto riguarda il turnover dei terapeuti: in un CSM, appartenente alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Padova, prestano servizio medici specialisti
in formazione che hanno una frequente turnazione, mentre
nell’altro CSM preso in esame, lavorano medici specialisti
“strutturati” che mantengono un rapporto con i pazienti normalmente più stabile nel tempo.
Lo studio è stato effettuato retrospettivamente sulle cartelle
cliniche, prendendo in considerazione alcune variabili cliniche come il numero e la durata dei ricoveri, la frequenza degli appuntamenti ambulatoriali, gli eventuali cambi di terapeuta e gli eventuali cambi di terapia in cui è stato inserito
un antipsicotico atipico e cercando di valutare che tipo di relazione intercorresse fra tali variabili.
In particolare, si è cercato di mettere in evidenza quanto il
cambio di terapeuta possa incidere sull’andamento clinico
ed eventualmente facilitare l’inserimento nella terapia di un
antipsicotico atipico e quanto quest’ultimo a propria volta
influenzi le altre variabili cliniche.
Lo studio ha permesso inoltre di valutare l’impatto del
cambio di terapeuta sull’andamento clinico di questi pazienti.
Da quanto emerso, non sembrano delinearsi differenze statisticamente significative nel confronto tra il gruppo di pazienti in carico al CSM con un elevato turnover di medici
e quello seguito dal CSM con maggior stabilità dei terapeuti.
Tali dati preliminari andranno ulteriormente ampliati.
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA MALTA
S76 - Dal Disturbo della Condotta alla Personalità
Antisociale: prospettive ed interventi possibili
MODERATORI
S. Ferracuti, B. Carpiniello
Il lavoro clinico fra terapia e prevenzione
L’adolescente violento
G. Rigon, S. Costa
U. Sabatello
Azienda USL di Bologna
Dipartimento di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Riabilitative dell’Età Evolutiva, Università di Roma “La Sapienza”
Vengono analizzati i casi di disturbo della condotta afferiti presso il Day Hospital della nostra U.O. nel corso dell’anno 2005 ponendo una particolare attenzione agli aspetti diagnostici (nosografici e psicodinamici) e terapeutici
allo scopo di indagare quali sono gli elementi terapeutici
che motivano il cambiamento sintomatologico riscontrato
nella casistica, misurato mediante una scala di valutazione
validata.
La casistica risulta composta da 24 pazienti con diagnosi di
disturbo della condotta, l’età media è di 14,5 anni, 5 femmine e 19 maschi.
Dal punto di vista nosografico 5 pazienti presentavano il disturbo della condotta come prima diagnosi, mentre gli altri
19 pazienti presentavano, come prime diagnosi, le seguenti:
Diagnosi
Depressione
Disturbo di personalità
Ritardo mentale
Esordio psicotico
Disturbo d’ansia
N. pazienti
9
6
2
1
1
Il problema del disturbo della condotta negli adolescenti e
della violenza è alla base del 60% delle segnalazioni ai servizi di Neuropsichiatria infantile ed occupa, inoltre, tanto i
Servizi della giustizia minorile sia gli Psichiatri che trattano
giovani adulti. Dopo un inquadramento della problematica e
la distinzione tra diverse tipologie di violenza si descrivono
i risultati dello studio svolto.
Attraverso l’analisi di perizie psichiatriche svolte per conto
di diversi tribunali, su ragazzi autori di reato che hanno
commesso atti violenti, l’autore confronta i fattori di rischio,
la resilienza e le storie evolutive dei minori sottoposti a valutazione peritale con i dati forniti dalla letteratura che derivano da osservazioni di popolazioni di adolescenti diverse
da quella italiana.
Lo studio, pur concordando con i risultati disponibili per
quel che riguarda molti aspetti generali, segnala alcune caratteristiche che potrebbero essere specifiche, previ ulteriori approfondimenti, della popolazione italiana.
I Disturbi del Comportamento in Età
Evolutiva: pathways di sviluppo e fattori
di rischio
D. Calderoni
Oltre agli aspetti strettamente nosografici, sono stati
valutati e trattati gli aspetti psicodinamici che hanno
motivato l’esordio e sostenuto lo strutturarsi del quadro
patologico. Il trattamento comprende psicoterapia individuale, terapia farmacologica e, talvolta un trattamento
rivolto ai genitori.
Per tutti i pazienti è stata valutato il cambiamento per gli
aspetti comportamentali, utilizzando la scala di valutazione
internazionale CGAS, dall’ingresso alla dimissione, dopo il
trattamento.
Il miglioramento così dimostrato viene quindi messo a confronto mediante analisi statistica con gli aspetti diagnostici
e terapeutici ottenendo così elementi utili per discutere gli
effetti che le variabili terapeutiche hanno sul cambiamento.
Viene infine discusso il valore che tali variabili possono
avere dal punto di vista della prevenzione.
Child Psychiatry Branch, National Institute of Mental
Health, National Institute of Health, Bethesda (MD)
Introduzione: molto rimane ancora da chiarire sulla evoluzione e fenomenologia dei Disturbi Comportamento (DC)
dall’Età Evolutiva all’età adulta. Il DC in età precoce, infatti, non solo determina una condizione di severo impairment
funzionale ma rappresenta anche un specifico fattore di rischio per il successivo sviluppo psicopatologico in età adulta. In questo senso, il complesso interplay tra fattori di rischio e fattori protettivi e dei diversi percorsi evolutivi che
il DC può assumere durante lo sviluppo gioca un ruolo decisivo nell’outcome e nella prognosi del DC.
Metodologia: quattro gruppi di bambini e adolescenti (N =
180) compresi tra un’età di 6 e 19 anni sono stati identificati e suddivisi in base alla gravità del rischio di sviluppo di
DC. I quattro gruppi sono stati seguiti nell’arco di 7 anni e
valutati tramite l’utilizzo di interviste diagnostiche e di assessment psicosociale somministrati ai pazienti, ai genitori
e agli insegnanti.
172
SIMPOSI TEMATICI
Risultati: i pazienti inseriti nel gruppo di medio e quelli di
alto rischio per CD hanno mostrato un peggiore outcome e
lo sviluppo di Disturbo di Condotta nelle fasi successive in
particolare tra il sottogruppo ad esordio precoce. Delle variabili di rischio la presenza in comorbidità di Iperattività, in
particolare per i maschi, sembra rappresentare il fattore più
significativo più specifico.
Conclusioni: precocità dei sintomi, sesso maschile e presenza di segni di Iperattività rappresentano indici prognostici sfavorevoli per lo sviluppo di Disturbo di Condotta in età
Adolescenziale e per il successivo esordio di Disturbo di
Personalità Anatisociale in Età adulta.
Una prospettiva psichiatrico forense
sulle carriere criminali e la personalità
antisociale
S. Ferracuti
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina
Psicologica
La ricerca criminologica ha rilevato che la maggior parte dei
reati sono compiuti da un numero relativamente piccolo di
individui, i quali iniziano a delinquere in età giovanile e che
tendono ad essere polimorfi nelle condotte criminali. Queste persone sono classificate come delinquenti persistenti
dai criminologi e o come “plurirecidivi” dai giuristi e sono
scarsamente suscettibili ai trattamenti riabilitativi. Le stesse
persone, quando classificate con criteri psichiatrici, sono denominate “personalità antisociali” oppure “Psicopatici”.
L’insieme dei dati accumulati in molti decenni di ricerca in
questo campo indica che i fattori di rischio per lo sviluppo
di possibili condotte criminogene sono presenti fin dalla prima infanzia e sono probabilmente fattori legati al temperamento e alla disposizione cognitiva del bambino. Le conseguenze di questa concezione sono però evidenti: se si vuole
prevenire lo sviluppo di condotte persistentemente devianti,
poco o nulla suscettibili di trattamento in età adulta, l’epoca
della vita nella quale intervenire è la prima e la seconda infanzia, identificando bambini con tendenza all’impulsività,
spesso ipercinetici, con difficoltà di ragionamento astratto,
di temperamento irritabile, sui quali possono agire, come è
ovvio, in senso migliorativo o peggiorativo fattori economici, sociali, familiari e relazionali e sui quali si possono attuare terapie cognitive protese a minimizzare le difficoltà
presenti, senza per questo stigmatizzare nessuno, ma riconoscendo che possono esistere un insieme di elementi fisiologici e cognitivi che rendono difficoltosa l’integrazione in
una società complessa come l’attuale.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA RODI
S77 - La valutazione neuropsicologica nel contesto
della diagnosi psichiatrica
MODERATORI
M. Meduri, M.R. Muscatello
Valutazione neuropsicologica nell’ambito
del deterioramento mentale
Le funzioni cognitive nell’ambito
del Disturbo Schizofrenico
M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, R. Cambria, L. Cortese, A. Bruno, R. Zoccali, M. Meduri
L. Cortese, M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, R. Cambria, A. Bruno, R. Zoccali, M. Meduri
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
L’allungamento della durata media di vita ha determinato di
conseguenza che una importante proporzione di soggetti di
età superiore ai 65 anni risultino affetti da una qualche forma di compromissione delle funzioni cognitive di eziologia
e gravità variabili. L’alterazione insidiosa e progressiva delle diverse funzioni cognitive quali l’attenzione, la memoria,
il linguaggio, il pensiero astratto, le abilità visuo-spaziali,
determina, in modo inequivocabile, una progressiva difficoltà nello svolgimento delle attività finalizzate e nell’autonomia della vita quotidiana. In tale contesto, oltre alla valutazione clinico-strumentale, appare di indubbia utilità l’assessment neuropsicologico finalizzato alla quantificazione
dei singoli deficit cognitivi e, oltre a ciò, delle capacità cognitive residuali. La relazione illustra i principali strumenti
psicodiagnostici utili nella valutazione del deterioramento
cognitivo allo scopo di strutturare un profilo qualitativo di
compromissione il più possibile personalizzato e dettagliato
per ciascun paziente.
Diversi studi neuropsicologici hanno dimostrato che i pazienti schizofrenici presentano frequentemente deficit cognitivi rispetto a soggetti sani. Compromissioni cognitive
sono state rilevate, insieme ad alterazioni neurofisiologiche, anche in familiari clinicamente sani, di pazienti schizofrenici. L’assetto cognitivo e le alterazioni neuropsicologiche hanno così assunto il significato di markers di
“suscettibilità” senza peraltro capacità predittive. Nell’ambito dei deficit cognitivi che interessano principalmente le funzioni esecutive il problema se la compromissione di queste fosse da intendersi come deficit generalizzato o globale, o se invece potesse essere sotteso da più
semplici e specifiche funzioni neuropsicologiche (attenzione, memoria di lavoro, capacità di analisi del contesto
ecc.).
Un gruppo di soggetti schizofrenici è stato sottoposto ad una
batteria di test neuropsicologici al fine di valutare i loro reciproci rapporti di coerenza o di relativa indipendenza.
173
SIMPOSI TEMATICI
Per la valutazione clinica sono state utilizzate le scale SANS
e SAPS e per la valutazione neuropsicologica è stata utilizzata una batteria di tests composta da test utilizzati per la valutazione delle funzioni esecutive semplici quali il test di
Stroop ed il test AB-AC che valutano la capacità di resistenza all’interferenza; per la valutazione delle funzioni esecutive complesse abbiamo utilizzato il WCST, le Matrici
Progressive di Raven, e per la capacità di categorizzazione
abbiamo utilizzato il test di Fluenza Verbale.
L’analisi fattoriale ha evidenziato la formazione di 3 cluster.
Il primo raggruppamento è formato dalle Matrici Progressive di Raven e dal WCST; il secondo comprende la fluenza
verbale nelle sue componenti fonemica e semantica, il terzo
il test di Stroop ed il test AB-AC che valutano rispettivamente la capacità di resistenza all’interferenza attentiva e
mnesica.
I dati da noi ottenuti sono in accordo con quanto già sostenuto da altri autori. La compromissione delle funzioni esecutive nella loro globalità potrebbe essere sottesa dal prevalente coinvolgimento di funzioni neuropsicologiche più
semplici che si integrano nella funzione esecutiva.
L’instabilità affettiva nel Disturbo Borderline
di Personalità e nella Ciclotimia
R. Cambria, M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, L. Cortese, A. Bruno, R. Zoccali, M. Meduri
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
La somministrazione della Affective Lability Scale (ALS),
una scala clinica standardizzata, in autosomministrazione
che permette di valutare aspetti qualitativi dell’instabilità affettiva, a soggetti che presentavano diagnosi DSMIV di “Disturbo Borderline di Personalità” ha permesso di discriminare all’interno di questo gruppo di pazienti una tipologia
che presentava più frequenti viraggi dall’eutimia verso la
depressione e l’ipomaniacalità ed una che presentava più
frequenti viraggi verso la rabbia e l’aggressività. Tali differenti gruppi di soggetti offrivano anche differenti presentazioni cliniche: nel primo infatti rispetto al secondo era presente in genere un miglior insight, delle oscillazioni dell’umore relativamente slegate da eventi biografici ed un miglior adattamento socio-lavorativo. Tale osservazione si offre come spunto di riflessione, in quanto è possibile che certa quota di soggetti che presentano una “fenomenologia
comportamentale” di tipo borderline, possano essere affetti
da un disturbo ciclotimico che di conseguenza si potrebbe
giovare di un trattamento stabilizzante del tono dell’umore.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 16.00-17.30
SALA SAN PAOLO
S78 - Il lavoro di équipe in psichiatria:
libertà e limiti, un problema di formazione
MODERATORI
G. Ba, I. Carta
Creatività e riabilitazione
I. Carta
Università di Milano “Bicocca”
L’orientamento più condiviso dagli psicologi attribuisce capacità creative a tutti gli umani superando una concezione
più datata che riservava a un numero limitato di eletti tale
capacità.
In questa prospettiva la creatività è una dote che è comune
a tutti gli esseri umani e se non viene riconosciuta, o non
viene espressa con delle evidenze, questo dipende dall’educazione che non ne ha facilitato l’espressione o da un mancato riconoscimento.
A partire di questo assunto l’utilizzo della creatività, presupposta come capacità presente anche in soggetti mentalmente disturbati e diffettuali per quel che concerne le loro
capacità intellettive e pragmatiche, deve tenere conto delle
limitate, o al limite assenti, capacità, negli psicotici in particolare, di utilizzare la creatività per esprimere in forma simbolica i contenuti del loro mondo interno e l’elaborazione
delle rappresentazioni del mondo, nonché delle relazioni tra
il mondo interno e il mondo esterno, tra le memorie del passato e la realtà attuale. L’operazione simbolica infatti e le
strutture simboliche che ne sono la visibile manifestazione
sono sostanzialmente costruzioni metaforiche. Sappiamo
bene che gli psicotici in particolare sono frequentemente dotati di grandi capacità di metaforizzazione ma non attribuiscono valore metaforico alle loro costruzioni vuoi che siano
espresse in forme poetiche, figurative, o altro.
È precisamente in relazione a tale difetto che si parla di pensiero concreto negli psicotici e di equazione simbolica quando il simbolo subisce una sorte di collasso appiattendosi sul
reale.
Il lavoro riabilitativo e i processi che vengono facilitati con
tecniche adeguate a tale riguardo vanno nella direzione di
promuovere l’ingresso da parte dei soggetti limitati nella loro capacità di simbolizzare, nel mondo dei simboli.
Il che vuole dire, in altri termini, a prendere le distanze dal
reale ed a ricostruirlo in un certo senso, conferendo ad esso,
valore simbolico.
In un certo senso chi opera nell’ambito della riabilitazione
si confronta con situazioni paradossali: assiste cioè alle
espressioni di elevate capacità creative, ossia a manifestazioni della capacità di fornire soluzioni a problemi mediante soluzioni innovative e al tempo stesso alla incapacità di
modellizzare in forma simbolica il prodotto della loro creatività.
174
SIMPOSI TEMATICI
La formazione alla competenza affettiva
nelle relazioni gruppali
R. De Polo
COIRAG Milano
Quali competenze si richiedono all’operatore psichiatrico
per assolvere al suo compito? Ovviamente una conoscenza
specifica sui problemi che deve affrontare nei diversi aspetti della riabilitazione e della assistenza.
Ma tali conoscenze si rivelano insufficienti se manca una
competenza per vivere e comprendere i problemi relazionali che si creano nel rapporto col gruppo dei colleghi e con i
propri utenti.
La relazione propone idee su ciò che si intende quando si
parla di competenza affettiva e relazionale in contesti di cura e di riabilitazione con persone che hanno una specifica
fragilità.
Verrà individuato un orientamento generale per chi si proponga di realizzare una formazione attraverso la conoscenza e l’esperienza delle dinamiche di gruppo e dei processi
affettivi che li intessono. Verrà poi accennato alle diverse
possibilità di interventi formativi che possono essere utilizzati per migliorare la qualità professionale nella relazione
con individui e gruppi.
terno dei quali si svolge l’intero percorso terapeutico- riabilitativo.
La complessità dell’uomo, soprattutto in campo psicologico, non può essere trattata frammentando le competenze;
non è raro infatti il rischio di vanificare un intervento terapeutico o quantomeno di ridurne l’efficacia per un eccesso di tecnicismo, che conduce a una netta definizione
dei campi e quindi alla creazione di compartimenti stagni.
L’équipe, per lavorare in modo efficace, in armonia e secondo un condiviso programma di lavoro, deve avere una
formazione culturale e delle competenze su cui fondare il
suo operare.
Compito della formazione delle figure coinvolte nel processo riabilitativo è quello di costruire questo terreno di
incontro su cui confrontarsi e su cui misurare le proprie
capacità attraverso la partecipazione condivisa in una interrelazione che mette in comune conoscenze ed esperienze.
Nello specifico in questa relazione verranno approfonditi
alcuni cardini della formazione al lavoro di équipe del
Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica e verranno presentate alcune metodologie di formazione utilizzate durante il tirocinio negli anni del Corso di Laurea.
Formazione dell’équipe riabilitativa:
i metodi strutturati
L’équipe terapeutica in riabilitazione
psichiatrica: multidisciplinarietà
ed integrazione. Un problema
di formazione
A. Vita
Università di Brescia; DSM, A.O. Spedali Civili di Brescia
C. Viganò, G. Ba
Sezione di Psichiatria, Dipartimento di Medicina Interna,
Università di Milano, Fondazione IRCCS, Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena”
In riabilitazione psichiatrica e psicosociale la capacità di
un servizio di fornire risposte valide ed efficaci dipende
dalle risorse, dagli strumenti a disposizione, dalle strutture, ma in prima istanza dal buon funzionamento del gruppo di lavoro. Considerata la molteplicità delle tecniche,
delle attività e delle figure professionali (psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, educatori, terapisti occupazionali, infermieri, assistenti sociali) che
operano in tale ambito, la presa in carico del paziente deve necessariamente articolarsi in un gruppo di lavoro.
Un lavoro che non cancella l’eterogeneità del sapere e delle competenze, ma tende a mettere in legame diversi elementi, al fine di lavorare con il paziente in una dimensione che lo consideri nella sua globalità.
In quest’ottica, l’équipe terapeutica diviene l’elemento
forte che condiziona il clima affettivo e la cultura all’in-
175
Nella crescita professionale dell’équipe riabilitativa un
posto di primo piano occupa la formazione degli operatori.
Questa va intesa sia come formazione “generale”, sui temi
della relazione col paziente, del lavoro per progetti, del lavoro di rete, del ruolo dell’équipe, ecc., sia come formazione “specifica”, per figura professionale, per contesto di
trattamento, per area disciplinare.
L’insegnamento di metodiche riabilitative strutturate rientra nella funzione specifica dell’operatore della riabilitazione.
Esso determina non solo un miglioramento delle competenze tecniche dell’équipe rendendo possibile lo svolgimento di programmi riabilitativi “evidence-based”, ma anche un importante rinforzo del concetto di gruppo come
soggetto di cura.
L’utilità della formazione dell’équipe a metodi strutturati
viene approfondita sulla base dell’esperienza degli autori
in tema di formazione all’applicazione dei metodi di IPT
(Terapia Psicologica Integrata secondo Brenner) e CLT
Moduli: (Casa – Lavoro – Tempo Libero secondo gli stessi Autori).
SIMPOSI TEMATICI
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA LEONARDO
S79 - Prospettive future degli studi di neuroimmagine
strutturale
MODERATORI
G. Spalletta, C. Caltagirone
Cerebral structure analyzed by Magnetic
Resonance methods
R.S.J. Frackowiak
IRCCS “Santa Lucia”, Roma Italy; DEC, ENS, Paris and
FIL, IoN, UCL London
Voxel based morphometry (VBM) is a new way of
analysing structural MR images. VBM can characterise differences in structural MRI scans of diseases influenced by
genetic variation. In X-linked Kallmann’s syndrome there is
selective hypertrophy of the pyramidal tract in patients with
mirror movements compared to those without. In a dominantly inherited, dyspraxic, language-impaired family, gene
penetrance is full and associated with abnormal structure
and function of the caudate nucleus and other areas. Atrophy
of the caudate in affected family members is associated with
task-related hyperactivity, suggesting functional compensation. Presently unaffected individuals from families of
Huntington’s patients show caudate atrophy that correlates
with genetic status. Caudate atrophy correlates with clinical
score and CAG codon repeats on chromosome 4. Studies
with Turner’s and partial Turner’s patients have identified
focal structural brain abnormalities. Candidate regions on
the X-chromosome have been found that influence amygdala and orbital frontal cortex development. A structural
amygdala abnormality in patients predicts failure to recognise fear in photographs of faces; a prediction that is now
confirmed. These studies suggest that imaging is an efficient
way of associating candidate genes with quantitative measures of brain structure and function and that informative intermediate phenotypes can be described that predict future
disease in asymptomatic at-risk individuals.
based morphometry and diffusion tensor imaging of cerebral white matter is rapidly expanding our knowledge on
white matter changes in schizophrenia and correlations with
cognition, impulsivity and suicidality. Here, we present recent findings of our groups on:
1) white matter changes in schizophrenia especially in areas
responsible for language and hearing processes as compared to healthy controls (Fig. 1);
2) white matter alterations in the frontal lobes being correlated with working memory deficits in subjects with
schizophrenia but not in healthy controls (Fig. 2);
3) increased white matter volumes in subjects with schizophrenia who both have a history of suicide attempts and
show current self-aggression.
These converging findings support the notion that white
matter alterations are at the core of neurobiological alterations in schizophrenia and are related to deficits central to
this disorder.
Fig. 1.
Bibliografia
Krams M, et al. Neurology 1999;52:816-22.
Watkins KE, et al. Brain 2002;125:465-78.
Thieben MJ, et al. Brain 2002;125:1815-28.
Good CD, et al. Brain 2003;126:2431-46.
Good CD, et al. NeuroImage 2002;17:29-46.
White matter morphometry and volume
in schizophrenia
G. Spalletta, G. Bonaviri, N. Ruesch, C. Caltagirone
IRCCS Fondazione “Santa Lucia”, Roma e Dipartimento di
Neuroscienze, Università di Roma “Tor Vergata”
Schizophrenia has been conceptualised as a brain misconnection syndrome. Structural white matter changes may account for both cognitive deficits and disturbed emotion regulation and impulse control. Current research using voxel-
176
SIMPOSI TEMATICI
Nuovi obiettivi della Risonanza Magnetica
nello studio delle funzioni del cervello
umano
Fig. 2.
B. Maraviglia
Dipartimento di Fisica, Università di Roma “La Sapienza”
Predicting schizophrenia with structural
MRI
S.M. Lawrie
University of Edinburgh, Scotland
Introduction: numerous MRI studies of the brain in schizophrenia have repeatedly demonstrated structural abnormalities, particularly of the temporal lobes. Studies of people at
high risk suggest that some of these changes occur before
the onset of the disorder, and might therefore be used in prediction.
Methodology: we conducted sMRI scans in 150 high risk
subjects aged 16-25 at baseline and 66 of them after approximately 2 years. Healthy age-matched controls have also been scanned.
Comparisons were made between those who developed
schizophrenia, well controls, a well high risk group and
those of the high risk sample with partial or isolated psychotic symptoms.
Results: we have found associations between pre-frontal
and basal ganglia volumes with genetic liability, and reductions in medial temporal lobe and thalamus volumes in the
high risk group compared to controls, at baseline. Medial
and lateral (fusiform) temporal lobe volumes did not predict
psychosis but reduced further in association with psychotic
symptoms and in those who went on to develop psychosis.
These measures had impressive positive predictive power of
80%.
Conclusions: overall, the results suggest that some abnormalities of the brain in high risk subjects are genetically mediated and developmental, that others may only become apparent in late adolescence for unclear reasons, and that psychotic symptoms and psychosis are associated with further
structural changes. sMRI could have a role in the early diagnosis of schizophrenia.
177
La conoscenza dell’architettura e della funzione del Cervello Umano è un obiettivo cruciale sia per comprendere la nostra identità sia per imparare ad intervenire appropriatamente nelle forme patologiche e degenerative che lo affliggono.
La grande complessità del Sistema Nervoso Centrale (SNC)
rende necessaria la convergenza di ogni possibile metodo di
indagine e quindi una stretta collaborazione fra medici, fisici, biologi, ingegneri, ecc., in modo da orientare la ricerca
verso obiettivi quantificabili attraverso l’uso di rigorose
procedure sperimentali, secondo il metodo Galileiano.
Da poco più di dieci anni, l’invenzione dell’Imaging funzionale con Risonanza Magnetica (fMRI) costituisce un
nuovo metodo per studiare la funzione cerebrale con numerosi vantaggi rispetto ad altri metodi di imaging. Infatti la
fMRI ha consentito l’indagine dei processi cognitivi e senso-motori con risoluzioni nominali spaziale e temporale pari, rispettivamente, a pochi millimetri e a centinaia di millisecondi, facendo uso di radiazioni non ionizzanti e con la
possibilità di ripetere le misure sullo stesso soggetto. Il metodo BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent) è il più
diffuso fra le varie strategie fMRI, grazie alla sua disponibilità sui tomografi clinici e alla sua capacità di acquisire strati dell’intero cervello in pochi secondi. Nonostante ciò, le
effettive risoluzioni della BOLD fMRI sono limitate dal
contrasto BOLD stesso, che deriva da effetti secondari piuttosto che dagli effetti diretti dell’attivazione neuronale. La
riduzione delle risoluzioni spaziale e temporale sono causate dalla stretta connessione dell’effetto BOLD con la risposta emodinamica. Questo fatto introduce anche non poche
incertezze sulle validità delle aree attivate a causa di possibili effetti puramente emodinamici non connessi alla attivazione neuronale. In base a queste considerazioni è chiaro
che si rende necessaria la ricerca di altri metodi che possano rendere le misure di localizzazione più attendibili, più
definite ed inoltre meglio risolte temporalmente in modo da
poter approfondire la dinamica di attivazione delle varie
aree con la sequenzialità che ne faccia capire il ruolo e la gerarchia.
Il mio gruppo di ricerca, con il sostegno del Centro “E. Fermi” di Roma, sta sviluppando, soprattutto presso i Laboratori del “S. Lucia” di Roma, una serie di linee di ricerca che
sono qui schematizzate:
1) realizzazione di nuove procedure per la misura contemporanea di fMRI e EEG in modo da utilizzare l’alta risoluzione temporale dell’EEG assieme alla risoluzione spaziale della fMRI e MRI. Da questa base abbiamo avviato
studi su:
– potenziali evocati generati dall’attivazione cerebrale,
contemporaneamente alla determinazione con fMRI della
parte di corteccia coinvolta,
– gli effetti deboli sul campo magnetico causati dalle neurocorrenti con possibilità di localizzare direttamente il
processo di attivazione corticale,
– applicazioni alle epilessie, per le quali è possibile localizzare con fMRI le aree responsabili delle scariche. Queste
SIMPOSI TEMATICI
applicazioni hanno già fornito numerosi, rilevanti risultati,
– possibili applicazioni al Brain Computer Interface (BCI)
in cui il computer (ed eventualmente dispositivi attuatori)
vengono governati tramite la volontaria generazione di
determinati segnali cerebrali;
2) caratterizzazione della funzione cerebrale tramite lo studio delle dinamiche metaboliche da essa indotte;
3) funzione del midollo spinale con fMRI per la compren-
sione dei fenomeni di base legati all’attivazione neuronale e per le possibili applicazioni al trattamento di traumi e
patologie.
La mia relazione consisterà nel descrivere alcuni di queste
linee di ricerca, mettendo in evidenza aspetti che possano
interessare i partecipanti al Congresso. In particolare saranno discusse le potenzialità di crescita di informazione che
potranno derivare, nel prossimo futuro, dallo sviluppo dei
nuovi metodi di indagine.
24 FEBBRAIO 2005 - ORE 18.00-19.30
SALA VERDE
S80 - Simulazione e dissimulazione in psichiatria
(aspetti clinici e psichiatrico-forensi)
MODERATORI
V. Volterra, G.C. Nivoli
Dalla dissociazione alla simulazione:
trappole e abusi nella costruzione del Sé
G. Martini
Dipartimento di Salute Mentale Roma E (U.O.C. Municipio
XVII)
La questione della simulazione appare strettamente connessa a quella della dissociazione, ponendosi ambedue a cavallo del sottile crinale tra normalità e patologia e di quello, dai
risvolti ben più pesanti, tra imputabilità e non. La dissociazione, a sua volta, rimanda al problema della molteplicità
del Sé, di estrema complessità sia su di un piano filosofico
che psico(pato)logico.
Occorre rammentare che il Sé si costruisce anche attraverso
le narrazioni altrui e le autonarrazioni dello stesso soggetto,
il quale può raccontarsi – o essere raccontato – in modi
difformi, talora incoerenti e contraddittori. In casi estremi,
viene ad emergere la possibilità di una percezione dissociata della propria identità.
Da questo carattere incoerente della narrazione, quale attributo comune tanto alle situazioni di dissociazione che di
simulazione, le strade possono poi divergere significativamente, traducendosi nel primo caso in una sorta di intrappolamento in un falso Sé, e nel secondo in una sorta di
“sfruttamento” consapevole dei meccanismi dissociativi.
Questi, pur restando tali nel loro specifico, esitano nella
costruzione organica di un’immagine del Sé, che risulta all’osservatore in parte o in toto simulata, mentre l’interessato può convalidarla attraverso meccanismi di autoconvincimento “opportunista” anche a rinforzo sociale (ad
esempio, il paziente può raccontarsi e finire col credersi
vittima innocente, seppure macchiatosi consapevolmente
di un delitto).
Al di là del terreno giudiziario, gli isterici ed i borderline sono forse coloro nei cui confronti la valutazione è più incerta, e più facile l’impressione di una coesistenza di simulazione e dissociazione.
Ciò pone non pochi quesiti allo psichiatra, sia d’ordine etico che terapeutico, quesiti che possono tradursi nella difficoltà di discriminare il paziente che si trova intrappolato al-
l’interno dei suoi meccanismi dissociativi da quello che ne
abusa più o meno coscientemente al fine di un vantaggio secondario.
Aspetti della simulazione intramoenia
A. Ferraro
Ospedale Psichiatrico Giudiziario, Aversa
La condizione della carcerazione produce, in genere, la
necessità di liberarsi da essa da parte dei detenuti utilizzando una serie di motivazioni che nella maggior parte dei
casi si relazionano ad un aggravamento delle condizioni
generali dell’organismo, e più precisamente la maggior
parte delle volte tale aggravamento è rapportabile a peggioramenti delle condizioni psichiatriche o psichiche in
generale.
La necessità di produrre concrete condizioni che rafforzino la motivazione clinica induce i soggetti che tentano tale strada ad avviarsi verso un comportamento che, strumentalmente utilizzato, produce nel tempo e nei soggetti
predisposti una vera e propria condizione psicopatologica
da cui diviene difficile liberarsi.
Un corretto punto di vista di tale fenomeno è dato dallo
studio analitico delle osservazioni psichiatriche di soggetti provenienti dalle strutture carcerarie, ovverosia dalla valutazione numerica qualitativa e quantitativa dei soggetti
che vengono inviati in Ospedale Psichiatrico Giudiziario
da vari istituti carcerari per la valutazione clinica delle
condizioni psichiche, alla luce di azioni di valore psichiatrico compiute nelle carceri di appartenenza.
Nella comunicazione saranno presentati dati delle osservazioni psichiatriche avvenute dal 1991 al 2005, con particolare riferimento agli ultimi tre anni, periodo in cui le
osservazioni psichiatriche si sono svolte non più in OPG
ma in apposita sezione del carcere di Napoli Secondigliano, con il coordinamento e la direzione dell’autore.
Nella comunicazione si proporrà una revisione possibile
della Sindrome di Ganser ed il corretto significato diagnostico del Disturbo Fittizio.
178
SIMPOSI TEMATICI
Simulazione negli abusi infantili
G.C. Nivoli
Clinica Psichiatrica, Università di Sassari
Nell’ambito della problematica degli abusi infantili numerosi studi mettono in luce la possibilità della simulazione di
un abuso attraverso una falsa accusa.
Per falsa accusa si intende la denuncia all’autorità di un abuso che in realtà non è avvenuto. Le motivazioni alla base di
una falsa accusa possono essere molteplici: L’Autore attraverso una esemplificazione clinica illustra alcune motivazioni che sottendono tale comportamento, quali l’evitamento della punizione, la ricerca della libertà, il controllo delle
situazioni ansiogene, il viraggio amore-odio, la vendetta
personale, la vendetta per procura, la giustificazione della
perdita della verginità, la mitomania.
Inoltre vengono illustrate le dinamiche psicopatologiche, individuali e di gruppo, che spesso rendono difficile una corretta raccolta anamnestica aderente alla realtà.
Verità e bugie nella testimonianza
È questo un aspetto che segue quello del riconoscimento
della “competenza” del testimone, cioè del possesso che
egli ha di capacità cognitive di percezione, memoria, coerenza e continuità di pensiero, comprensione, competenze
linguistiche, capacità di distinguere la realtà dall’immaginazione, nonché di controllo emotivo e di adattamento sociale, in sintesi di equilibrato sviluppo e disponibilità delle funzioni psichiche di base.
L’attendibilità, che da alla testimonianza la patente di credibilità, è conferita dall’affidabilità, ripetibilità e validità del
contenuto oggetto della testimonianza stessa.
In questo ambito è necessario distinguere la menzogna cosciente utilitaristica di un soggetto consapevole, teso a falsare la realtà, dalle pseudomenzogne non consapevoli, né
strumentali, così come accertare eventuali bugie “patologiche” in soggetti deboli mentali, psicotici, con disturbi di
personalità, mitomani, ecc.
Vengono indicati alcuni strumenti psicologici (“Statement
validity analysis”, “Reality monitoring”, CBCA, ecc.), psicobiologici e investigativi atti ad accertare l’attendibilità
della testimonianza, e l’approccio clinico e medico legale
che lo psichiatra deve espletare nell’ambito di un’eventuale
consulenza tecnica.
V. Volterra
Università di Bologna
Un problema spesso estremamente complesso in ambito psichiatrico forense è quello della valutazione dell’attendibilità
di una testimonianza.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 1
S81 - L’ADHD dall’età evolutiva a quella adulta
MODERATORI
A. Pasini, P. Curatolo
Le terapie farmacologiche per l’ADHD:
criteri di valutazione dell’efficacia e
modalità di scelta tra i diversi trattamenti
B. Ancilletta, G.L. Melis, A. Zuddas
Centro Terapie Farmacologiche in Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza, Dipartimento di Neuroscienze,
Università di Cagliari
Gli psicostimolanti, ed il metilfenidato in particolare, costituiscono il gold standard della terapia farmacologica
per l’ADHD.
Le caratteristiche di tali farmaci e le modalità del loro uso
sono state riportati e discusse in innumerevoli linee guida
nazionali ed internazionali 1 2.
Negli ultimi anni nuovi farmaci e nuove formulazioni dello stesso metilfenidato sono diventati disponibili in numerosi paesi dell’Unione Europea.
Questi farmaci sono caratterizzati da una maggiore durata (giornaliera) degli effetti terapeutici, da un diverso profilo di effetti indesiderati, da un minore (per alcuni assen179
te) possibilità di uso incongruo e da un costo più elevato.
Con un approccio “Evidence-based”, verranno illustrati e
discussi i criteri di valutazione dell’efficacia e le possibili modalità di scelta tra i diversi trattamenti farmacologici disponibili, verificando sulla base della realtà Italiana
le possibilità di risposta a problemi ancora aperti: esiste in
realtà una migliore compliance? Per quanto tempo proseguire la terapia?
Quali possibili specifiche strategie terapeutiche in presenza di comorbidità? Come giustificare i maggiori costi delle nuove formulazioni?
Bibliografia
1
SINPIA. Linee guida per l’ADHD in età evolutiva: I. Diagnosi
e terapie farmacologiche. Giornale di Neuropsichiatria dell’Età
Evolutiva 2004;24(Suppl 1):41-87.
2
Taylor, et al. European clinical guidelines for hyperkinetic disorder - first upgrade. Eur Child Adolesc Psychiatry
2004;13(Suppl 1):I-7-I-30.
SIMPOSI TEMATICI
La valutazione neuropsicologica dell’ADHD
G.M. Marzocchi
Il significato clinico della comorbidità
nell’ADHD
Dipartimento di Psicologia, Università di Milano “Bicocca”
G. Masi, S. Millepiedi, M. Mucci, N. Bertini, S. Berloffa, C. Pfanner, C. Pari
Introduzione: esiste un’ampia gamma di strumenti per la
valutazione del funzionamento mentale e la diagnosi di psicopatologie in età evolutiva.
Per quanto riguarda il Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività (ADHD) la diagnosi viene formulata in base a principi di carattere clinico e attraverso l’uso di strumenti che
permettono di fornire utili indicatori.
Tra gli strumenti che possono essere di una certa utilità i test cognitivi hanno lo scopo di permettere al clinico di inquadrare e approfondire il profilo cognitivo di ciascun bambino ed eventualmente orientare un intervento terapeutico
diretto al bambino stesso.
Inoltre da un punto di vista della ricerca i test cognitivi sono utili anche per fornire una migliore comprensione del
profilo neuropsicologico dell’ADHD.
Tra i test più utilizzati per la valutazione neuropsicologica
dell’ADHD ricordiamo diverse prove classicamente impiegate per l’esame di pazienti con lesioni nelle aree prefrontali.
Tali si sono rivelati sufficientemente discriminativi tra gruppi di bambini con ADHD rispetto ai controlli, ma rimane ancora da capire qual è la capacità di questi test di discriminare diversi gruppi di pazienti.
Metodologia: durante la presentazione verranno descritti
alcuni test tra cui la Torre di Londra, il Test di Stroop, il
Continuous Performance Test, il Matching Familiar Figure
Test, il Test di Fluenza Fonemica, il Wisconsin Card Sorting
Test. Inoltre verranno descritti alcuni studi che hanno confrontato le prestazioni di bambini con ADHD e/o Dislessia
Evolutiva, allo scopo di individuare quali prove risultano
essere maggiormente discriminative tra questi disturbi. Oltre ai test classici sopradescritti verranno anche presi in esame anche altre prove, di più recente pubblicazione, tra cui il
Junior Hayling, il Walk Don’t Walk e la prova di Memoria
Strategica.
Risultati: sinteticamente i risultati esposti in questa presentazione dimostrano che i bambini con ADHD hanno difficoltà soprattutto in compiti che richiedono la coordinazione,
il monitoraggio e la flessibilità cognitiva necessaria all’esecuzione di schemi comportamentali complessi, e l’uso di
strategie (tutte queste operazioni mentali possono rientrare
nell’ambito delle Funzioni Esecutive).
D’altro canto, i test che richiedono “semplicemente” il mantenimento dell’attenzione o l’inibizione di risposte motorie
non sono sufficientemente discriminativi tra soggetti con
ADHD e Disturbi di Apprendimento.
Conclusioni: la valutazione neuropsicologica consente sia
di ottenere un profilo di funzionamento cognitivo del bambino con ADHD che testare varie ipotesi eziopatogenetiche
tra cui quella frontale.
IRCCS Stella Maris per la Neuropsichiatria dell’Infanzia e
dell’Adolescenza, Calambrone, Pisa
Il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività (o
ADHD) è uno dei disturbi psicocomportamentali più frequenti nell’infanzia e nell’adolescenza, con una prevalenza
stimata tra il 2 ed il 5%. I sintomi nucleari del disturbo (iperattività, impulsività, disturbo attentivo) sono relativamente
aspecifici, essendo riscontrabili sia in bambini normali, sia
in altri quadri psicopatologici, e pongono quindi delicati
problemi di diagnosi differenziale. Le difficoltà diagnostiche sono rese più complesse dal fatto che almeno i due terzi dei soggetti con ADHD ha comorbidità con altri disturbi
psicocomportamentali, e sostanzialmente gli stessi disturbi
entrano sia in comorbidità che in diagnosi differenziale.
Quindi gli stessi sintomi, ad un diverso grado di intensità,
possono essere parte integrante del quadro clinico dell’ADHD, oppure possono essere parte di quadri clinici che
simulano l’ADHD, o che possono essere in comorbidità all’ADHD. Anche se da un punto di vista teorico i confini tra
queste tre possibilità sono ben tracciabili, nella realtà clinica non sempre questo processo è agevole. Ne consegue che
diagnosi differenziale e comorbidità sono strettamente intrecciate. L’interpretazione della comorbidità è probabilmente responsabile della gran parte degli errori diagnostici
per l’ADHD.
La evidenziazione di specifici sottotipi diagnostici, sulla base della comorbidità (con disturbo oppositivo-provocatorio
o della condotta, con disturbi affettivi depressivi o bipolari,
con disturbi d’ansia, ecc.), anche se non del tutto validata,
appare operativamente utile, poiché ha probabilmente implicazioni sulla prognosi e sulla scelta dei trattamenti.
Scopo della presentazione è quello di delineare attraverso la
descrizioni di casistiche specifiche, i problemi di comorbidità e diagnosi differenziale di ADHD, con particolare riferimento ai disturbi esternalizzanti (disturbo oppositivo-provocatorio e disturbo della condotta), ai disturbi d’ansia, alla
depressione, al Disturbo Bipolare, al Disturbo Ossessivo
Compulsivo con o senza tic ed ai disturbi pervasivi dello
sviluppo.
Bibliografia
1
Masi G, Millepiedi S, Mucci M, Bertini N, Pfanner C, Arcangeli F. Comorbidity of obsessive-compulsive disorder and ADHD
in referred children and adolescents. Comprehensive Psychiatry,
in stampa.
2
Masi G, Millepiedi S, Mucci M, Pascale RR, Perugi G, Akiskal
HS. Phenomenology and comorbidity of dysthymic disorder in
100 consecutively referred children and adolescents: beyond
DSM IV. Can J Psychiatry 2003;48:99-105.
3
Masi G, Toni C, Perugi G, Travierso MC, Millepiedi S, Mucci
M, et al. Externalizing disorders in consecutively referred children and adolescents with bipolar disorder. Comprehensive
Psychiatry 2003;44:184-9.
180
SIMPOSI TEMATICI
Il passaggio dell’ADHD, dall’età evolutiva
a quella adulta
A. Pasini
Dipartimento di Neuroscienze, Università di Roma “Tor
Vergata”
Introduzione: il disturbo da deficit dell’attenzione
(ADHD) è la più diffusa forma di psicopatologia dell’età
evolutiva, il suo tasso di prevalenza varia tra il 3 ed il 5%
della popolazione generale. In percentuali variabili, dal 30
al 60%, l’ADHD continua a manifestarsi anche nell’età
adulta, soltanto che non viene facilmente diagnosticato in
quanto si associa spesso ad altri disturbi mentali, quali: i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, da uso di sostanze e ad
alcuni disturbi di personalità. Quella della comorbidità è
una caratteristica dell’ADHD che si manifesta anche durante l’età evolutiva. Infatti, durante l’infanzia l’ADHD si associa spesso a disturbi d’ansia, a disturbi dell’umore, al disturbo oppositivo provocatorio ed a quelli della condotta,
mentre durante l’adolescenza sono frequenti le comorbidità
con l’uso di sostanze ed i Disturbi della Personalità. Considerando le principali dimensioni psicopatologiche del disturbo, è possibile constatare che mentre il deficit dell’attenzione tende a rimanere immodificato l’iperattività e l’impulsività tendono ad attenuarsi o a rendersi socialmente più
accettabili. Mentre si sta sviluppando un interesse crescente
per la diagnosi e la terapia dell’ADHD nell’adulto, molti sono gli interrogativi che si pongono sulla sua patogenesi, sulla sua etiologia ed, anche, sui motivi che generano le frequenti comorbidità. Nell’ADHD è stata posta in evidenza la
compromissione di funzioni neurocognitive, tra esse si possono citare: alcuni tipi di funzioni esecutive, l’attenzione
(soprattutto quella sostenuta) ed alcune forme di memoria.
L’alterazione delle funzioni neurocognitive ha consentito
anche l’elaborazione di modelli patogenetici dell’ADHD
che devono ancora essere verificati. Dal punto di vista terapeutico è stata dimostrata, in una larga parte dei casi di
ADHD, una risposta favorevole a farmaci che intervengono
sui trasportatori della dopamina e della noradrenalina. Le risposte terapeutiche al trattamento psicofarmacologico sono
state studiate sia nei bambini e negli adolescenti che negli
adulti. In questo lavoro si approfondiranno il ruolo delle
funzioni neurocognitive nella patogenesi dell’ADHD e la risposta al trattamento di questo disturbo mentale nelle varie
età della vita.
Metodologia: verranno esposti i risultati di alcuni studi
condotti dall’U.O. di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico di “Tor vergata”, sui seguenti argomenti: valutazione
delle funzioni neurocognitive e della psicopatologia nell’ADHD; misurazione delle stesse variabili in soggetti con
ADHD e nei loro familiari non affetti dal disturbo; valutazione della risposta alla terapia con metilfenidato in rapporto ai genotipo per il gene del trasportatore della dopamina
(DAT).
181
Risultati: nello studio sui soggetti con ADHD ed i loro genitori non affetti viene rilevato come siano copresenti, nei
due gruppi considerati, alcune alterazioni di funzioni neurocognitive, ma non disfunzioni dell’inibizione (che è posta al
centro della patogenesi dell’ADHD, in alcuni modelli del
disturbo). È stata, inoltre, studiata l’importanza del genotipo per il gene DAT sulle risposte terapeutiche all’assunzione di metilfenidato. In particolare, sono state misurate le variazioni delle variabili psicopatologiche e neurocognitive
dopo l’assunzione del farmaco da parte dei soggetti con
ADHD.
Conclusioni: gli studi presentati consentono di discutere
un’ampia panoramica di risultati che si riferiscono alla presenza di disfunzioni delle funzioni esecutive nell’ADHD,
alla esistenza di eventuali differenze esistenti nei sottotipi
diagnostici, al ruolo delle alterazioni delle funzioni neurocognitive (soprattutto, delle diverse forme di inibizione)
nella patogenesi del disturbo. Inoltre, viene discusso il ruolo delle disfunzioni neurocognitive trovate nei genitori di
soggetti con ADHD e l’influenza del genotipo del gene DAT
sulla risposta al trattamento con metilfenidato.
Ruolo delle misure psicofisiologiche
nella caratterizzazione dei sottotipi di ADHD
M.C. Porfirio, M.L. Montanaro, L. Gennaro, S. Pennacchia, M. Vignati, P. Curatolo, A. Pasini, S. Seri
U.O. di NPI Clinica “S. Alessandro”, Policlinico di Tor Vergata, Roma
Il disturbo da deficit di attenzione (ADHD) colpisce circa il
2-4% dei bambini in età scolare e presenta una fenomenologia clinica quanto mai complessa, a cui corrispondono profili neurocognitivi, psicopatologici e neurofisiologici differenti. Tali aspetti sono condizionati anche dalla frequente
comorbidità dell’ADHD con altri disturbi psichiatrici.
Il ruolo di alcune misure dimensionali nell’integrare le
informazioni ottenute dalla clinica è attualmente di grande
interesse nel definire degli endofenotipi, misure cioè più
stabili e correlabili alle disfunzioni che rappresentano i substrati biologici e genetici del disturbo.
Questo permette di ottimizzare le scelte sia di tipo farmacologico sia di valutazione della prognosi.
Obiettivo del presente lavoro è quello di correlare la risposta di inibizione al riflesso di startle (Prepulse Inhibition of
startle reflex), misurata attraverso la registrazione EEG dell’onda P50 con alcuni parametri clinici della valutazione
neuropsicologica in un gruppo di 30 bambini e adolescenti
con diagnosi di ADHD, secondo i criteri del DSM-IV TR.
I dati ottenuti sono spunto di riflessione sulla grande eterogeneità di questa popolazione di pazienti e su alcune differenze nelle misure quantitative da noi studiate, che potrebbero essere d’aiuto nella definizione di sottotipi specifici rispetto alle variabili considerate.
SIMPOSI TEMATICI
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 2
S82 - La cura della malattia mentale
e della violenza negli OPG
MODERATORI
G.C. Nivoli, E. Aguglia
Terapia e riabilitazione di 87 soggetti autori
di gravi reati (omicidi e tentati omicidi)
in carico all’OPG di Castiglione delle Stiviere
R. Bardelli, A. Calogero, F. Nocini, G. Rivellini
Presidio Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione
delle Stiviere, Azienda Ospedaliera “C. Poma” di Mantova
Il comune sentire del cittadino tende ad associare i comportamenti violenti con i disturbi mentali. La letteratura accumulata negli ultimi 30 anni tende invece a non assegnare alla malattia mentale, di per sé, un significativo rischio criminogeno, ma evidenzia tuttavia la criticità in particolari sotto
gruppi di pazienti, quando siano presenti in associazione alcuni fattori di rischio. Così la ricerca Taylor et al. (Br J Psychiatry 1998;172:218-26), condotta su 1740 pazienti autori
di reato, dopo avere distinto la popolazione in tre grandi
gruppi (psicosi pura, disturbi di personalità e disturbi affettivi), conclude con il risultato secondo cui, nell’ambito degli autori di reati violenti (omicidio e tentato), prevarrebbero gli psicotici schizofrenici con la contemporanea presenza
di allucinazioni e delirio di tipo persecutori. Lo studio Eronen et al. (The Psychiatric Epidemiology of Violent Behaviour. Soc Psychiatry – Psychiatry Epidemiol 1998;33:1323) sostiene che l’associazione di diagnosi, costellazione
sintomatica, abuso di sostanze e basso livello sociale espongono al rischio di reati violenti.
Gli OPG costituiscono in Italia, al pari di altre istituzioni di
massima sicurezza presenti in Olanda, Germania e Regni
Unito, soggetti istituzionali “forti” dove vengono approntate strategie di cura e riabilitazione verso soggetti violenti. La
presente ricerca ha campionato 87 soggetti ambo sesso, autori di reati quale omicidio e/o tentato omicidio, presenti in
istituto al 30 giugno 2005. I risultati, ancora preliminari, si
limitano a 69 individui e costituiscono l’iniziale contributo
di uno studio volto ad analizzati le strategie di cura e la partecipazione ai progetti riabilitativi, nell’intento di monitorare il possibile miglioramento clinico e relazionale di questi
pazienti. Lo studio dunque è preparatorio rispetto alla fase
due, che prevede di valutare a distanza di almeno due anni
dalla dimissione, l’effettiva capacità di tenuta di questi pazienti nel territorio, sia se essi finiscono in ambito comunitario a vari livelli di protezione (la maggioranza), sia se inseriti in un contesto più autonomo.
Il campione è costituito per il 71% da soggetti affetti da disturbo riconducibile allo spettro della Schizofrenia e sindromi deliranti. Segue nell’ordine il 13% di Disturbi della Personalità, 10% di sindromi affettive gravi, 3% ritardo mentale, 2% disturbi da cronica intossicazione, 1% psicosi di natura organica.
Risultati: il 91% dei soggetti assume terapia orale. La pratica della terapia depot è trascurabile a conferma di una buona compliance farmacologia e buona relazione terapeutica.
Il 26% del campione di soggetti psicotici assume neurolettico tradizionale, mentre il 48% assume neurolettico “atipico”
in mono-terapia, associata alle sole benzodiazepine. Sembra
efficace inoltre l’associazione di atipico e stabilizzatore
umore (14%) ovvero atipico, stabilizzatore e SSRI (33%)
nei casi di gravi disturbi affettivi (bipolari), come nei disturbi di personalità.
Gli schemi di terapia farmacologica non sembrano significativamente associati al grado di adesione rispetto ai programmi riabilitativi, per quanto i pazienti in terapia con atipico
mostrino un tendenziale maggior grado di adesione. Al contrario la classe diagnostica sembra significativamente associata (p < 0,05) al grado di adesione ai differenti programmi
riabilitativi. Soggetti psicotici mostrano di “reggere” meglio
dei soggetti “borderline” l’inserimento in percorsi socializzanti – psico pedagogici espressivi. Il sottogruppo di soggetti affetti da gravi disturbi dell’umore e gli schizofrenici ad
esordio recente sembrano infine meglio disponibili a partecipare ai percorsi con maggiore richiesta di competenza cognitivo – relazionale, tipo laboratori di restauro e/o attività professionalizzanti (informatica, stampa, sartoria).
Conclusioni: i risultati preliminari di questa ricerca evidenziano che i soggetti con gravi Disturbi della Personalità richiedono maggior carico farmacologico e sono esposti al rischio di bassa compliance verso i programmi riabilitativi.
Strategie di cura possibili nell’Ospedale
Psichiatrico Giudiziario di Aversa
A. Ferraro
Direttore Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, Ministero Giustizia
L’ultimo dei manicomi può insegnare, ed essere palestra di
un modo di fare diagnosi e cura che permettano studio e ricerca. Il punto di partenza è – in un certo senso – curare la
struttura che ospita gli internati, attraverso una continua formazione in senso sanitario degli operatori e consapevolezza
di fare qualcosa di utilmente possibile. Poi capire chi c’è
dentro, la storia clinica e di vita degli ospiti, e quale può essere il loro tragitto prima di arrivare ad esplodere in violenza. E quindi svolgere il proprio lavoro utilizzando farmaci,
ma anche terapie meno destrutturanti, anzi, ristrutturando
quello che c’era e, in questo senso, recuperando i rapporti
con le strutture sanitarie regionali dei singoli pazienti, per
un realizzabile affidamento al territorio.
Un complesso lavoro che attraversa una serie di difficoltà, date dall’ambiguità dell’istituzione e spesso da una impreparazione del territorio per quanto concerne gli aspetti forensi della psichiatria. Ma che produce anche risultati, come quello di
dimettere piuttosto che internare, sciogliere al posto di legare,
fino al termine di un tragitto terapeutico che passa dalle cer182
SIMPOSI TEMATICI
tezze alle scoperte. Le possibili strategie di cura si devono
confrontare con limiti, ma anche con possibilità non sempre
valutate nel loro senso più corretto. Nell’ambito della psichiatria Forense l’ospedale psichiatrico giudiziario ha il suo
significato più interessante e certamente più completo; ma anche gli aspetti criminologici, e quelli legati alle scienze della
devianza, o gli aspetti giuridici propri della giustizia si pongono con attenzione verso l’argomento.
Nella relazione saranno presentati i dati del 2005 e degli anni precedenti relativi agli ingressi e dimissioni, alle diagnosi e al trattamento, alle attività terapeutiche e ai risultati che
si sono ottenuti nella riduzione degli atteggiamenti violenti
ed degli atti auto ed eteroaggressivi.
e dell’organizzazione dell’OPG: far conciliare cura e custodia, formare personale specializzato ed i rapporti con il servizio sanitario nazionale, sono temi che ricorrono spesso,
destano quotidianamente preoccupazione ed ostacolano
l’attività degli operatori dell’OPG
Bibliografia
Flippini G, Romano CA. Prisoners sent to clinics or to judicial psychiatric hospitals for incompability with the jailing regulation due
to psychiatric reasons. J Clin Forensic Med 1995;2(Suppl 1):4.
Iwanami A, Nakatani Y, et al. Mentally abnormal offenders and difficult patients in Japan – a survey in a psychiatric hospital. Eur
Psychiatry 1996;11(Suppl 4):389s.
Il superamento dell’OPG e l’applicazione
delle misure alternative
L’intervento nell’OPG: dal trattamento
istituzionale alla deistituzionalizzazione
della misura di sicurezza
E. Aguglia, D. Carlino, F. Ottolenghi, M. De Vanna
F. Scarpa
U.C.O. di Clinica Psichiatrica, Dipartimento di Scienze Cliniche, Morfologiche e Tecnologiche, Università di Trieste
Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino
La chiusura degli Ospedali Psichiatrici ha eliminato un punto di riferimento per il controllo sociale, normativo ed organizzativo che ha reso ancora più drammatica la contraddizione sul ruolo dell’OPG, conteso tra necessità sanitarie e
custodialistiche.
L’applicazione di modelli alternativi è stata presa in considerazione da una sentenza della Corte Costituzionale del
18/7/2003 che sancisce l’illegittimità dell’art. 222 e che permette quindi al giudice di inviare un paziente presso idonee
strutture terapeutiche che garantiscano un progetto riabilitativo opportuno.
Risulta tuttavia difficile il rientro nell’ambiente sociale, che
ostacola, spesso, sia involontariamente che volontariamente
il reinserimento del soggetto, a causa del naturale, ed ormai
storicamente radicato, processo di rifiuto e dello stigma che
la società ha verso la follia in associazione con il fatto-reato.
È molto difficoltoso anche, è possibile comunque solo in
un’esigua percentuale di casi, il rientro in ambito familiare,
laddove presente, dati i vari gradi di disgregazione che non
permettono di gestire psicologicamente e materialmente il
proprio congiunto.
La sede più idonea per il reinserimento è, quindi, un luogo,
in genere esterno sia all’ambito familiare che sociale, che
ospita altri soggetti con gli stessi problemi e la stessa storia
ed in cui équipe sanitarie multidisciplinari svolgono importanti funzioni di assistenza clinica e socio-riabilitativa. In altre parole, si fa riferimento a quelle “strutture intermedie”,
“comunità”, “case alloggio”, “case di riposo”, ed altre ancora, tutte con proprie peculiarità riguardo alla strutturazione interna ed al tipo di trattamento, ma che, comunque, rappresentano una tappa intermedia, di passaggio, ed oltremodo importante di quello che dovrebbe essere il definitivo
reinserimento del soggetto nella società. Tale processo, infatti, non può che avvenire in modo graduale, progressivo e
ciò rappresenta o dovrebbe rappresentare, appunto, la linea
operativa guida e comune, condivisa sia dagli operatori dell’OPG che da quelli dei servizi psichiatrici territoriali.
L’avvio del processo di rinnovamento sopra descritto ha, comunque, messo in luce con maggiore evidenza quelli che
sono i problemi di maggior rilievo nell’ambito dell’attività
La realtà degli OPG è composta da pazienti che hanno caratteristiche di instabilità e di passaggio all’atto, non sempre
correlata direttamente alla effettiva gravità del reato commesso, che richiedono un intervento di cura e di specifico
trattamento del disturbo che determina la violenza e la conseguente valutazione di pericolosità sociale.
In prima analisi occorre affrontare il problema della violenza con atteggiamento che prenda in considerazione sia il bisogno specifico di intervento sul problema psicopatologico
di fondo e sulle caratteristiche di reazione e di passaggio all’atto, che può essere spesso tipico per tali pazienti, sia il bisogno più specifico di riabilitazione.
La prima fase dell’internamento può essere caratterizzata
dalla prevalenza di forme di trattamento istituzionale che si
giovano di presidi farmacologici, con somministrazione di
sostanze che mostrano un maggior effetto incisivo sugli
aspetti reattivi e di acting-out del paziente, e di una costante attenzione alla dimensione contenitiva nelle fasi più
drammatiche e reattive.
Da questa fase è fondamentale passare successivamente ad
una forma di trattamento basata sulla de-istituzionalizzazione.
Si descrivono i risultati ottenuti con un trattamento basato
sulla progettualità individuale terapeutica, finalizzata alla
riacquisizione di autonomia e di capacità di autogestione all’eterno dell’Istituto, all’interno del territorio, con un intervento integrato basato sul lavoro, la socializzazione e, in ultima analisi, sulla riabilitazione psicosociale.
È stato allestito un Centro Diurno, esterno all’OPG, dove
sono stati realizzati trattamenti riabilitativi.
I risultati ottenuti, sia sul piano meramente numerico delle
iniziative attuate che sulla qualità di vita realizzata, e sulle
realizzazione di percorsi di reale deistituzionalizzaizone,
hanno sensibilmente favorito la dimissione dei pazienti e
possono diminuire i rischi di recidiva.
Da tale esperienza comunque sono nate ipotesi di maggior
sviluppo di percorsi ancora più avanzati tesi a mostrare una
progressione verso l’autonomia e la responsabilizzazione dei
pazienti che possono sperimentare e provare la propria capacità di ricostituire un rapporto corretto con la propria esistenza e con le regole sociali, elemento indispensabile per ricostituire i diritti di cittadinanza e la dignità di trattamento.
183
SIMPOSI TEMATICI
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA CAVALIERI 3
S83 - Indici predittivi di risposta al trattamento
nei Disturbi d’Ansia
MODERATORI
C. Marchesi, G. Maina
Indici predittivi di risposta al trattamento
farmacologico nel Disturbo di Panico
C. Marchesi
Università di Parma, Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria
Introduzione: nel presente studio, pazienti con Disturbo di
Panico (DP) sono stati trattati per un anno con terapia farmacologica 1) per verificare la percentuali di pazienti che
raggiungevano una remissione completa dei sintomi, 2) per
identificare i predittori di risposta al trattamento.
Metodologia: cento pazienti con DP hanno preso parte allo
studio. Tutti i pazienti sono stati valutati con la Symptom
Check List-90, la Scala di Hamilton per l’ansia e la depressione prima del trattamento e durante lo stesso con frequenza mensile. Inoltre, i pazienti compilavano giornalmente un
diario nel quale dovevano riportare numero e gravità degli
attacchi e intensità dell’ansia anticipatoria. I pazienti sono
stati trattati per un anno con paroxetina o citalopram.
Risultati: settantuno paziente hanno completato lo studio,
mentre 29 hanno interrotto il trattamento prima del termine.
Tra coloro che hanno completato lo studio, il 76% ha ottenuto una scomparsa degli attacchi di panico (compresi quelli pauci-sintomatici) mentre solo il 46% ha raggiunto una remissione completa dei sintomi. Predittori di assenza di remissione sono stati la comorbidità per il Disturbo OssessivoCompulsivo e per la Depressione Maggiore (per gli attacchi
di panico), la gravità pre-trattamento dei sintomi ansiosi (per
l’ansia anticipatoria), dell’ansia fobica (per l’evitamento fobico) e dei sintomi depressivi (per la depressione).
Conclusioni: questo studio, naturalistico e prospettico, mostra che sola la metà dei pazienti con DP, che si sono rivolti
ad un ambulatorio psichiatrico per la cura del loro disturbo,
hanno raggiunto la remissione completa dei sintomi dopo un
anno di trattamento farmacologico con un SSRI, e conferma
l’importanza di valutare nei pazienti con DP la comorbidità
e la gravità dei sintomi ansiosi, fobici e depressivi.
Predittori di risposta alla terapia
farmacologica nel Disturbo OssessivoCompulsivo
G. Maina, G. Rosso, E. Pessina, U. Albert, F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
Una questione di rilievo nell’ambito della terapia farmacologica del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è rappresentata dall’individuazione dei fattori predittivi di risposta. L’utilità clinica di un tale approccio risulta evidente: la precoce
individuazione di buoni o cattivi responder potrebbe aiutare
lo psichiatra ad ottimizzare il trattamento farmacologico. Tale argomento diviene ancor più importante se si considerano
alcune caratteristiche tipiche del trattamento farmacologico
del DOC, quali, ad esempio, la lunga latenza di risposta ai farmaci, la necessità di raggiungere alti dosaggi dei farmaci impiegati. Nonostante l’importanza del quesito, non vi sono
molti studi in letteratura dedicati ai fattori predittivi di risposta alla terapia farmacologica. Nei lavori disponibili varie caratteristiche cliniche e socio-demografiche sono state vagliate come possibili predittori di risposta, ma nella maggioranza
dei casi la letteratura non è concorde sui risultati. I fattori su
cui gli Autori trovano il maggior consenso sono 1) lunga durata di malattia, 2) presenza di un disturbo da tic in comorbidità e 3) presenza di un disturbo schizotipico di personalità in
comorbidità; tutte e tre queste caratteristiche sono più o meno unanimemente indicate come indicatori di una scarsa risposta ai trattamenti. Altri indicatori di prognosi sfavorevole
sono stati proposti, ma su di essi il dibattito è maggiore: sesso maschile, precoce età d’esordio del disturbo, alti punteggi
alla Y-BOCS, scarso insight. Oltre ai dati contrastanti al riguardo, spesso subentrano fattori di confondimento: ad esempio il sesso maschile e un’età d’esordio più precoce si possono associare ad una maggior rischio di comorbidità con disturbo da tic. È quindi necessario n questi casi fare chiarezza
su quale sia il fattore che effettivamente si correla ad una
scarsa risposta. Riguardo ai sintomi specifici del DOC un predittore negativo di risposta in questo senso sarebbe rappresentato da un sintomatologia del tipo ossessioni di accumulo
(hoarding). Anche in questo caso va specificato come spesso
questi pazienti presentino un disturbo schizotipico di personalità in comorbidità sollevando nuovamente il problema dei
fattori di confondimento. Tra i predittori di buona risposta alle terapia la letteratura è maggiormente concorde nell’indicare la familiarità positiva per DOC. È stato smentito invece il
ruolo che in tal senso era stato attribuito alla comorbidità con
Depressione Maggiore. Preliminari osservazioni indicavano
infatti una migliore risposta agli agenti antiossessivi nei pazienti DOC depressi, tuttavia studi più recenti e metodologicamente più rigorosi hanno dimostrato che la depressione non
influenza né in senso positivo né in senso negativo la terapia
farmacologica. Maggior interesse dovrebbe suscitare in questo senso la comorbidità del DOC con i disturbi bipolari, fenomeno che si è rilevato più frequente di quanto ritenuto in
precedenza e che presenta al clinico problemi di gestione della terapia, legati soprattutto al rischio di switch.
Sarebbe infine utile riuscire ad identificare dei predittori che
fornissero al clinico l’indicazione ad un trattamento di potenziamento (ad esempio SRI + antipsicotico a basso dosaggio) da avviare nelle prime fasi della terapia. È noto infatti
che la presenza di tic in comorbidità determina una migliore risposta al potenziamento con aloperidolo; alcuni dati indicherebbero nel disturbo schizotipico di personalità un predittore positivo di risposta al potenziamento con olanzapina.
184
SIMPOSI TEMATICI
Bibliografia
Bogetto F, Bellino S, Vaschetto P, et al. Olanzapine augmentation
of fluvoxamine-refractory obsessive-compulsive disorder
(OCD): a 12 week open trial. Psychiatry Res 2000;96:91-8.
Ravizza L, Barzega G, Bellino S, Bogetto F, Maina G. Predictors
of treatment failure in obsessive-compulsive disorder. J Clin
Psychiatry 1995;56:368-73.
Erzegovesi S, Cavallini MC, Cavedini P, et al. Clinical predictors
of drug response in obsessive-compulsive disorder. J Clin Psychopharmacol 2001;21:488-92.
Valutare e predire la risposta alle cure
nel Disturbo di Ansia Sociale
S. Pallanti
Università di Firenze
Il disturbo da ansia sociale (DAS) si presenta nell’infanzia
o adolescenza e prosegue nell’età adulta. Recenti stime indicano come il 4-8% degli adulti soffre di questo disturbo.
Studi longitudinali hanno riscontrato una stretta relazione
fra la presenza del DAS nell’adolescenza e il disturbo depressivo in età adulta 1.
Rappresentano fattori predittivi negative di risposta al trattamento la giovane età d’insorgenza, il sottotipo SAD generalizzato, il riscontro di scarsi miglioramenti o ricadute nei
primi 2 anni di terapia. E la presenza di comorbilità, specialmente con: disturbi di personalità, spettro bipolare e distimia, abuso di sostanze e alcol, altri disturbi d’ansia. L’abuso di alcool sembra rappresentare il più importante fattore predittivo negativo nella risposta al trattamento 2 3.
Altri Autori 1 hanno invece messo in evidenza in uno studio
condotto su pazienti trattati con paroxetina, come l’unico
fattore predittivo di risposta al trattamento sia rappresentato
dalla durata del trattamento stesso 1.
Nel corso della relazione saranno presi in esame i più importanti fattori predittivi di non risposta al trattamento.
Bibliografia
1
Stein MB, Fuetsch M, Muller N, Hofler M, Lieb R, Wittchen
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prospective community study of adolescents and young adults.
Arch Gen Psychiatry 2001;58:251-6.
2
Versiani M, Amrein R, Montgomery SA. Social phobia: longterm treatment outcome and prediction of response – a moclobemide study. Int Clin Psychopharmacol 1997;12:239-54.
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Massion AO, Dyck IR, Shea MT, Phillips KA, Warshaw MG,
Keller MB. Personality disorders and time to remission in generalized anxiety disorder, social phobia, and panic disorder. Arch Gen Psychiatry 2002;59:434-40.
Predittori di risposta alla terapia cognitivocomportamentale nei Disturbi d’Ansia
U. Albert, G. Maina, S. Rigardetto, F. Bogetto
Dipartimento di Neuroscienze, SCDU Psichiatria, Servizio
per i disturbi depressivi e d’ansia, Università di Torino
La terapia cognitivo-comportamentale rappresenta una strategia efficace per il trattamento dei disturbi d’ansia, accanto
alle terapie farmacologiche. Numerosi sono infatti gli studi
185
che ne dimostrano inequivocabilmente l’efficacia rispetto a
condizioni placebo e vi sono ormai studi meta-analitici che
ne sottolineano la pari efficacia rispetto ai trattamenti farmacologici. Nella presente relazione prenderemo in considerazione due disturbi d’ansia, il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e il Disturbo di Panico (DP); per ciascuno di
essi analizzeremo i dati di letteratura concernenti i predittori di risposta alla terapia cognitivo-comportamentale cercando di suddividerli in 4 categorie: variabili legate al disturbo, altri disturbi in comorbidità, misure di funzionamento familiare e assunzione concomitante di farmaci.
Per il DOC sembra emergere che la gravità sintomatologica
iniziale, espressa dal punteggio della Y-BOCS, ad esempio,
rappresenta un indicatore di scarsa risposta alla TCC, sia in
campioni di adulti che di adolescenti. L’implicazione clinica
è che soggetti con DOC grave dovrebbero essere indirizzati
ad un trattamento farmacologico prima di considerare l’opportunità di una TCC, che in tal caso potrebbe essere riservata ai pazienti resistenti. La presenza di ossessioni di contaminazione e compulsioni di pulizia/lavaggio, inoltre, sembra
predire una buona risposta alla TCC, mentre rappresentano
indicatori prognostici negativi (anche per il trattamento farmacologico) la presenza di sintomi hoarding o di ossessioni
e compulsioni sessuali/religiose. Vi è da sottolineare, tuttavia, che la maggior parte degli studi di TCC sono stati condotti su campioni di pazienti washers e checkers. Vi sono
evidenze contrastanti riguardo al valore predittivo della copresenza di Depressione Maggiore; sembra tuttavia emergere che se la Depressione Maggiore è di entità rilevante è opportuno indirizzare il paziente ad un trattamento farmacologico e considerare in un secondo momento l’opportunità di
un trattamento con esposizione e prevenzione della risposta
per i sintomi ossessivo-compulsivi. Recenti ricerche hanno
inoltre rilevato che un funzionamento familiare compromesso (interazioni familiari negative o partecipazione attiva dei
familiari alle compulsioni del paziente) condiziona in senso
negativo la risposta alla TCC; ne risulta innanzitutto che è
opportuna una preliminare valutazione del funzionamento
familiare rispetto al paziente e ai sintomi da lui espressi, e in
secondo luogo che ove vi siano segnali di un pesante coinvolgimento i familiari andrebbero implicati nel trattamento,
in gruppi psicoeducazionali o come coterapeuti/supervisori
del trattamento dei loro congiunti. Per il DOC, infine, non
sembra che l’assunzione di farmaci antidepressivi serotoninergici al momento dell’inizio della terapia cognitivo-comportamentale influisca sull’esito della stessa.
Per il DP, primo predittore di risposta positiva è la compliance alle indicazioni del terapeuta. Esistono poi variabili
legate al disturbo che influenzano la risposta, quali i livelli
di agorafobia o la gravità della frequenza degli attacchi di
panico e la durata del disturbo; alcuni lavori di meta-analisi
sembrano indicare che la tecnica dell’esposizione in vivo è
particolarmente indicata in presenza di agorafobia residua,
mentre altre tecniche sono maggiormente dirette contro gli
attacchi di panico (ad esempio l’esposizione enterocettiva),
mentre le terapie farmacologiche sarebbero meno efficaci
sulla agorafobia. Altro predittore negativo legato alla tecnica è l’impiego di strategie di evitamento o distrazione per
allontanarsi dagli stimoli fobici. La presenza di altri disturbi in comorbidità, quali il GAD e la Fobia Sociale o i disturbi da uso di sostanze, è considerata un predittore negativo. Meno studiata nel caso del DP è l’influenza del funzio-
SIMPOSI TEMATICI
namento familiare. Sicuramente, invece, interferisce con la
TCC l’utilizzo concomitante di benzodiazepine, che può
compromettere l’efficacia dell’esposizione in vivo prevenendo il fenomeno dell’abituazione.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA ELLISSE
S84 - Emergenza e libertà di trattamento
MODERATORI
V. Villari, S. Vender
Libertà del paziente e setting istituzionale
S. Vender
DSM, Clinica Psichiatrica, Università dell’Insubria, Varese
L’acuzie psichiatrica, trattata in SPDC, costituisce certamente fonte di grave stress per gli operatori, soprattutto se
la clamorosità del paziente è particolarmente intensa. In tali situazioni è messo a dura il principio della libertà del paziente, al di là del TSO, in quanto il setting istituzionale richiede il rispetto di regole, comportamenti e consuetudini
che difficilmente possono essere rispettate.
Se il paziente acuto rivendica il diritto alla follia, da esercitare in un luogo protetto, che lo tuteli da possibile ed inevitabile stigmatizzazione, dall’altro i curanti spesso tendono a
squalificarlo, sostenendo il principio della ragione come
unico riferimento possibile.
L’acuzie è certamente la situazione più evidente, ma per certi versi meno difficile da trattare: infatti, maggiori difficoltà
si trovano con i pazienti affetti da Disturbo di Personalità, in
particolare borderline, che continuamente si scontrano con
il setting istituzionale, provocando gli operatori con i loro
comportamenti caratterizzati da l’impulsività e da tendenza
ad accumulare esperienze sfavorevoli.
Infatti, è difficile adeguare, in ospedale, le strategie di trattamento per evitare gravi difetti della compliance, perché
questo richiede una modifica della qualità delle prestazioni
consuete e l’introduzione di cambiamenti, talora anche minimi ma disturbanti per gli operatori, della routine assistenziale, che consentano di mantenere un atteggiamento terapeutico flessibile ma stabile a fronte del tumulto emotivo
del malato.
Queste particolari problematiche del trattamento, che mettono continuamente a confronto la libertà del malato ed il setting istituzionale, saranno presentate sulla base di dati e casi
clinici. I risultati testimoniano l’opportunità, per una migliore evoluzione della patologia, di mantenere aperti spazi relazionali di libertà del malato, anche nelle malattie acute.
Il paziente a rischio di comportamento
violento: valutazione e gestione clinica
V. Villari
SCDO Psichiatria 2, ASO S. Giovanni Battista di Torino,
DSM TO I Sud
Le emergenze psichiatriche spesso si accompagnano ad
una pressante richiesta ambientale che può spingere lo psi-
chiatra a prendere dei provvedimenti prima di aver completato tutte le tappe necessarie per una completa valutazione clinica che è articolata in almeno due momenti: la
valutazione medica (medical clearance) e la valutazione
psichiatrica.
La medical clearance serve a verificare che un paziente sia
stabile dal punto di vista fisico e possa essere sottoposto a
cure e/o a ricovero in psichiatria senza rischi di un immediato aggravamento delle sue condizioni di salute generale.
È molto comune che i pazienti con disturbi mentali pregressi o attuali vengano inviati direttamente allo psichiatra senza essere sottoposti ad esame medico.
Ciò comporta un alto rischio di non diagnosticare i disturbi
mentali dovuti a una condizione medica generale o correlati a sostanze e i disturbi medici comorbili con i disturbi
mentali.
La valutazione psichiatrica in emergenza costituisce l’inizio
del processo diagnostico e del piano di trattamento specifico, che dovrebbe essere il più possibile personalizzato ed
adeguato alla situazione clinica e sociale ed alla valutazione
dei due maggiori rischi correlabili alle emergenze psichiatriche: il rischio di comportamenti violenti ed il rischio di
suicidio. Un aspetto critico è rappresentato dalla decisione
di ricoverare o meno il paziente ed eventualmente di attuare un TSO.
Per questo è importante la storia clinica che, insieme allo
stato mentale attuale, contribuisce alla formulazione diagnostica. Anche la presa in carico pregressa o attuale è un
fattore critico per la valutazione, infatti la continuità terapeutica è considerata un elemento prioritario per la decisione di ospedalizzare e per l’attuazione di dimissioni protette
nell’ambito di programmi di riabilitazione e cure extraospedaliere.
La sicurezza, gli aspetti medico-legali, i profili di responsabilità ed i trattamenti senza consenso sono aspetti problematici che si pongono ai clinici in momenti in cui bisogna
prendere rapidamente decisioni che possono anche risultare
critiche per le conseguenze dirette ed indirette. È necessario,
pertanto, mettere in atto tutti gli interventi utili a ridurre i rischi per il paziente e per il contesto garantendo il più possibile la libertà di scelta dell’individuo ed il rispetto della sua
libertà e promovendo la massima collaborazione alle cure e
la migliore alleanza terapeutica. Questi sono aspetti cruciali sia per il buon esito dell’emergenza, sia per l’andamento
a lungo termine delle terapie.
Bibliografia
1
Allen MH, Currier GW, Hughes DH, et al. The Expert Consensus Guideline Series: Treatment of behavioral emergencies.
Postgrad Med 2001:1-88.
186
SIMPOSI TEMATICI
2
3
4
Joint Commission on Healthcare Accreditation. 2002 Hospital
accreditation standards. Oakbrook Terrace, IL: Joint Commission Resource 2002.
Health Care Financing Administration. 2000 Hospital conditions of partecipation for Patients Rights: Interpretative
Guidelines.
American Psychiatric Association. Report and recommendations
regarding psychiatric emergency and crisis services. APA Task
Force on Psychiatric Emergency Services 2002.
Il rischio di suicidio: valutazione e gestione
clinica
L. Ferrannini, P. Milone
DSM ASL 3 – Genovese
Introduzione: solo recentemente il problema del suicidio, e
della sua prevenzione, è stato posto all’attenzione dei servizi sanitari e psichiatrici come problema di salute pubblica. Il
Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 ed i successivi hanno
inserito tra gli obiettivi prioritari quello della riduzione del
tasso dei suicidi e conseguentemente il sistema sanitario
(dal medico di medicina generale ai servizi specialistici) è
stato chiamato a sviluppare competenze ed interventi specifici.
Metodologia: l’intervento sulle condotte autolesive – messe in atto all’interno di condizioni psicopatologiche, comportamentali e sociali profondamente diversificate – pone
complessi problemi di natura clinica, terapeutica, eticodeontologica e di risk management.
I fattori e le condizioni che possono innescare un gesto autolesivo si intrecciano con la necessità di un equilibrio nell’intervento tra il riconoscimento dei diritti della persona e
la necessità di cura, anche coattiva, quando le condizioni
psicopatologiche lo richiedono.
In questo quadro assume particolare importanza la possibilità di prevenire o prevedere la messa in atto di comportamenti finalizzati, non soffermandosi solo sull’analisi delle
condizioni che sostengono le condotte suicidiarie e dei fattori che influenzano il rischio sucidiario, quanto concentrando attenzione sugli interventi a breve e medio termine,
dalla fase presuicidiaria alla gestione della fase immediatamente successiva.
Risultati: dati consolidati nella letteratura ed esperienze cliniche dimostrano l’importanza di lavorare non solo sui fattori predisponenti, spesso generalizzati ed aspecifici, quanto sugli elementi precipitanti, sui quali l’intervento deve essere finalizzato ed ha buone possibilità di successo. A supporto verrà presentata una casistica specifica.
Conclusioni: il suicidio, ed in generale le condotte autolesive, costituiscono un terreno privilegiato di osservazione
ed analisi sui mutamenti della espressività psicopatologica a
seconda delle fasi e dei contesti sociali e sulla complessità
dell’intervento psichiatrico, sempre a rischio di fare troppo,
limitando il principio di autodeterminazione, o di fare troppo poco.
Bibliografia
1
Ferrannini L, Milone P. Il rischio di suicidio. In: Invernizzi G,
Gala C, Rigatelli M, Bressi C, a cura di. Manuale di psichiatria
di consultazione. Milano: McGraw-Hill 2002.
187
Emergenze, terapie e libertà di scelta
A. Vita
Università di Brescia; DSM, A.O. Spedali Civili di Brescia
L’intervento del medico è stato storicamente informato ad
un atteggiamento di tipo paternalistico ma il cambiamento
dei valori sociali ha però modificato il rapporto medico-paziente mettendo al centro il concetto di libertà ed autonomia
dell’individuo.
Il concetto di autonomia risulta peraltro inapplicabile nelle
situazioni di urgenza ovvero quando vi sia sostanziale riduzione delle capacità del paziente: in tal caso il principio di
beneficialità rappresenta una giustificazione etica dei trattamenti senza consenso.
Il diritto alla cura e al trattamento, ma altresì alla libertà di
scelta dei trattamenti stessi ha confini variabili nel tempo e
risente delle attitudini della società.
La disciplina dei trattamenti senza consenso presenta notevoli aspetti problematici e tuttora aree di non consenso anche tra operatori esperti, e ciò vale no solo nell’ambito del
ricovero ospedaliero ma anche per i trattamenti territoriali.
La “Carta di Milano”, codice etico deontologico per la pratica psichiatrica (“Psichiatria Oggi” XIV, suppl. 1 2001)
rappresenta in tal senso uno strumento di riferimento utile
per gli operatori attivi nella tutela della salute mentale.
Studio osservazionale di un anno
per valutare le modalità di aggressione:
lo studio PERSEO. Trattamento acuto
S. Frediani1, A. Ballerini2, R. Boccalon3, G. Boncompagni4, M. Casacchia5, F. Margari6, L. Minervini7, R. Righi8, F. Russo9, A. Rossi1, A. Salteri10
1
Eli Lilly Italia S.p.A.; 2 Ospedale “S. Maria Nuova”, Firenze; 3 Ospedale “S. Anna”, Ferrara; 4 Ospedale
“Sant’Orsola Malpighi”, Bologna; 5 Ospedale Universitario, L’Aquila; 6, Università di Bari; 7 Azienda Ospedaliera
ULSS16, Padova; 8 Ospedale “S. Anna”, Ferrara; 9 Ospedale Nuovo “Regina Margherita”, Roma; 10 Ospedale Città
di Sesto “S. Giovanni”, Milano
Obiettivi: questo studio ha lo scopo di analizzare l’aggressività nei pazienti afferenti in SPDC stratificati sulla base
delle caratteristiche socio-demografiche e diagnostiche.
Metodi: pazienti ricoverati in SPDC in un periodo di 5 mesi sono stati seguiti fino alla dimissione. Le valutazioni erano effettuate all’ingresso, nei primi 3 giorni e alla dimissione. Le scale psicometriche utilizzate erano la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS) versione 4.0, la Modified Overt
Aggression Scale (MOAS), la Brief Symptoms Inventory
(BSI), la Subjective Well-being under Neuroleptic Treatment
(SWN) e la Drug Attitude Inventory (DAI-30).
Risultati: sono stati arruolati 2.521 pazienti adulti in 50
centri; 2.472 (1.258 M, 1.214 F; età media 43,7 ± 14,2 anni) erano valutabili in accordo al protocollo di studio; il
94% erano italiani. I pazienti che avevano preso almeno un
farmaco psichiatrico prima di iniziare lo studio erano
1.638 (66,3%), dei quali l’88,8% seguiva una terapia farmacologica combinata; il 58,6% usava benzodiazepine
(BDZ), il 42,7% un antipsicotico atipico (AA), il 42,1% un
SIMPOSI TEMATICI
antipsicotico tipico (AT), il 36,1% un antidepressivo (AD)
e il 31,1% uno stabilizzatore dell’umore (SU). Circa la
metà dei pazienti (43,8%) seguiva una terapia non farmacologica; l’85,8% di essi facevano visite individuali ambulatoriali (VIA), il 15,9% psicoterapia individuale (PI), il
12,7% terapia riabilitativa (TR) e il 5,1% terapia di gruppo (TG).
Durante il ricovero, 2.429 pazienti (98,3%) utilizzavano una
terapia farmacologica, il 95,8% una terapia farmacologica
combinata; il 79,3% usava BDZ, il 50,0% un AA, il 52,2%
un AT, il 33,3% un AD e il 31,5% un SU. Più della metà dei
pazienti (65,0%) ha seguito un trattamento non farmacologico, il 95,6% dei quali VIA, il 16,4% TG, il 9,0% PI ed il
3,4% TR. Alla dimissione, a 2.358 pazienti (95,4%) è stata
prescritta una terapia farmacologica, combinata nel 70,3%
dei casi; il 68,0% usava BDZ, il 51,8% un AA, il 33,7% un
AD ed il 32,8% un SU. Più della metà dei pazienti (68,3%)
ha seguito un trattamento non farmacologico, 86,3% dei
quali VIA, 14,5% PI, 12,9% TR e 4,3% TG.
Conclusioni: la maggior parte dei pazienti ricoverati in
SPDC aveva ricevuto un trattamento prima del ricovero.
Durante il ricovero quasi tutti i pazienti hanno ricevuto terapia farmacologica costituita, nella maggior parte dei casi,
da più di un farmaco. Alla dimissione, sia la terapia farmacologica che la non farmacologica sono sostanzialmente
cambiate rispetto al periodo di ricovero.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MONTEMARIO
S85 - La dimensione antisociale nella psicopatologia
MODERATORI
R. Zoccali, A. Di Rosa
L’indotto antisociale nelle nuove
dipendenze
D. La Barbera
Università di Palermo
Le dipendenze comportamentali si vanno sempre più imponendo all’osservazione del clinico come un’area psicopatologica quanto mai vasta che si accompagna spesso ad elevati livelli di disagio psichico ed esistenziale e a ricadute molto negative sul piano dell’adattamento sociale e relazionale.
Esse comprendono una varietà di condotte che, per quanto
differenti le une dalle altre, implicano tutte analoghi meccanismi psicodinamici e psicopatologici e richiamano spesso
aspetti di comorbilità psichiatrica molto simili. Il lavoro
prende in esame l’insieme dei disvalori che una dipendenza
comportamentale sembra evidenziare e che si declinano intorno al limite tra piacere e dolore, gratificazione e frustrazione, norma e devianza. In particolare viene presa in considerazione la potenzialità criminogenetica insita in alcune
condotte di addiction (ad esempio gambling, shopping) e la
sua correlazione con gli aspetti di personalità e le caratteristiche psicologiche più frequenti in tali condizioni.
La psicodinamica del serial killer
D. La Torre, M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, A. Bruno,
R. Cambria, L. Cortese, R. Zoccali, M. Meduri
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
I serial killer o assassini seriali sono criminali che uccidono
“in serie”, per mesi o per anni, senza un movente preciso: si
parla di assassino seriale quando vengono commessi più di
tre omicidi, con un intervallo di tempo che separa gli eventi criminali. Gli assassini seriali si differenziano dai “mass
murderers” oltre che per le caratteristiche fenomeniche dei
delitti anche e soprattutto per gli aspetti psicodinamici: il se-
rial killer sceglie le proprie vittime, che hanno per lui un
preciso significato che si inserisce nel suo ricco ed inquietante mondo fantasmatico in cui sesso e morte appaiono inestricabilmente interconnessi. L’atto omicida presenta un valore simbolico che assume paradossalmente una valenza riparatoria per la psiche. Al centro della dinamica è stato sottolineato in tutti i casi un forte desiderio di dominio e di controllo che culmina nella decisione estrema di dare la vita o
la morte. In un’ampia percentuale dei casi l’evento finale si
configura come un rituale che completa un lungo iter, a partire da carenze affettive, maltrattamenti e abusi infantili che
hanno condizionato un’evoluzione personologico deviata in
senso antisociale. Di solito i serial killer non risultano facilmente collocabili in una delle categorie abituali presenti nel
DSM-IV, nonostante siano riconducibili a un Disturbo di
Personalità, per lo più misto. Solo una minoranza presenta
una malattia psichiatrica di asse I, per lo più nell’ambito dei
disturbi schizofrenici; in essi i delitti sono correlati a fenomeni deliranti.
Il terrorismo: aspetti sociali
e psicopatologici
M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, A. Bruno, R. Cambria,
L. Cortese, R. Zoccali, M. Meduri
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
Il fenomeno del terrorismo è stato affrontato secondo diversi modelli teorici. Il modello psichiatrico assume che esistano determinati tratti personologico (borderline, narcisistici,
antisociali, psicopatici, paranoici) favorenti la messa in atto
di comportamenti violenti ed ostili. Inoltre, le ricerche esistenti in letteratura hanno indagato la presenza, in soggetti
che commettono atti criminali e violenti, di anomalie neurobiologiche, traumi infantili o disturbi nella socializzazione. Il modello sociologico assume un’implicita “normalità”
psicologica del terrorista e pone piuttosto l’accento su con188
SIMPOSI TEMATICI
dizioni strutturali (economiche, sociali, politiche). La presente relazione rappresenta una revisione critica dei modelli esplicativi del terrorismo con l’intento di fornire possibili
strategie di intervento.
La dimensione antisociale nella sessualità
A. Bruno, M.R.A. Muscatello, G. Pandolfo, R. Cambria,
L. Cortese, R. Zoccali, M. Meduri
U.O.C. di Psichiatria, Università di Messina
La sessualità è un campo multidimensionale tra il biologico
e lo psicologico, tra il privato e il sociale, tra scienza e cultura, soggetto non solo all’aspetto istintuale ma anche alle
influenze ambientali che, nel corso del tempo, hanno stabilito norme, valori e immagini collettive cui fare riferimento.
I disturbi sessuali, caratterizzati da anomalie o disfunzioni
relative all’attività sessuale, possono essere distinti in tre categorie distinte: le disfunzioni sessuali vere e proprie, le deviazioni del desiderio sessuale (parafilie), i disturbi dell’identità di genere. L’antisocialità, come descritta dal DSM
IV, include la disonestà, la mancanza di rimorso, l’irresponsabilità, l’impulsività, l’aggressività e l’incapacità di
conformarsi alle norme sociali. La relazione esplora la dimensione dell’antisocialità nell’ambito della sessualità, in
un continuum concettuale dalla normalità alla patologia,
principalmente in riferimento alle parafilie, ma anche ai disturbi dell’identità di genere, nel cui contesto l’antisocialità
va intesa come devianza dalla norma sociale.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA LEONARDO
S86 - La disabilità intellettiva: dalla biologia al mito
MODERATORI
G. La Malfa, A. Castellani
Aspetti neurobiologici della cognitività
M. Popoli
Centro di Neurofarmacologia, Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Centro di Eccellenza per la Malattie Neurodegenerative, Università di Milano
Con l’eccezione delle demenze, in particolare la Malattia di
Alzheimer, non sono attualmente disponibili marcatori biologici per la diagnosi delle malattie mentali. In mancanza di
biomarcatori le definizioni attuali per queste patologie sono
prevalentemente sindromiche.
Tuttavia la ricerca clinica e preclinica in anni recenti ha gettato le basi per una ridefinizione del fenotipo patologico che
vada al di là del puro approccio descrittivo e renda conto dei
meccanismi biologici della malattia mentale.
Per la Schizofrenia questo si è tradotto in una riduzione dell’enfasi tradizionalmente posta sulla sintomatologia positiva
e nella proposizione di un modello che considera come
evento primario una disfunzione dei processi cognitivi, con
la successiva comparsa dei sintomi positivi.
Il modello considera fattori multipli convergenti, che agiscono probabilmente in combinazione variabile, in particolare:
1) geni di suscettibilità;
2) infezioni virali, effetti di tossine e alterazioni della nutrizione in fase prenatale;
3) eventi avversi ambientali in fase pre- post-natale;
4) stress psicofisico. Bersaglio dell’azione di questi fattori è
il processo di sviluppo del sistema nervoso dal concepimento all’adolescenza e probabilmente sino alla iniziale vita
adulta. In quest’ottica la Schizofrenia è vista essenzialmente come una patologia del neurosviluppo e della connettività
neurale.
Gli eventi avversi ambientali, in combinazione con la suscettibilità genetica, inducono alterazioni del neurosviluppo
189
(ad esempio nella formazione e migrazione dei neuroni e/o
nella sinaptogenesi) che portano alla formazione di circuiti
neuroanatomofunzionali alterati. Questo processo produce
disfunzioni nei processi cognitivi (attenzione, emozione,
linguaggio, memoria), che sono poi seguite dalla comparsa
di sintomi positivi (deliri, allucinazioni) e negativi (pensiero disorganizzato, ecc.).
I principali aspetti neurobiologici saranno analizzati, con
particolare attenzione ad alcuni geni recentemente studiati
per il loro ruolo nella neuroplasticità ed il probabile coinvolgimento nelle patologie in cui vi è una compromissione
delle funzioni cognitive.
C’è un metodo nella follia (delirio e ritardo
mentale)
R. Rossi
Dipartimento di Neuroscienze Oftalmologia e Genetica, Sezione Psichiatria, Università di Genova
Si sottolinea come prima considerazione che il delirio va
oggi considerato in una dimensione affettiva e non in un’area cognitiva.
Avevamo cercato di definirlo come il massimo di realizzazione possibile in regime narcisistico.
Ci pare allora che in questo senso il concetto di Propfpsychose, come concetto di innesto delirante nel tessuto del ritardo mentale vada profondamente rivisto, e sostituito dal
concetto di tentativo di ricostruzione del se seguendo un
particolare fil-rouge narrativo. Si tratta in realtà di un modo
per articolare la theory of mind con modalità particolare per
avere lo spazio per entrare in relazione, quando altrimenti
non è possibile.
Una sorta di “if I cannot prove to be a gentleman …” shakespeariano.
SIMPOSI TEMATICI
A questo serve dunque il delirio nel ritardo mentale, come
un modo per inserire un pensiero difficilmente organizzabile in una a suo modo coerente dimensione oniroide, tenendo conto che la vita è della stessa stoffa di cui son fatti i sogni, sempre seguendo Shakespeare, e questo è particolarmente vero quando la tenuta del pensiero sulla realtà è difficoltosa.
In questo senso l’utilità degli inserimenti fantastici delle costruzioni deliranti potrebbe essere considerata positivamente nel managing del ritardo mentale.
La peculiarità dell’intervento riabilitativo
nella disabilità intellettiva
S. Magari* **, M.G. Arneodo**, F. Manna**
*
Scuola di specializzazione Psicologia Clinica, Università
“Cattolica del S. Cuore”, Roma; ** Centro di riabilitazione
Opera “don Guanella”, “Casa S. Giuseppe”, Roma
L’intervento riabilitativo nella DI è finalizzato a sviluppare,
potenziare e mantenere le competenze funzionali adattive,
incrementare la partecipazione sociale e ridurre gli aspetti
psicopatologici e i comportamenti aberranti. Esso comprende sia un’abilitazione, secondo un modello di tipo prettamente educativo 1 sia una modificazione del contesto al fine
di renderlo agibile al disabile 2 e mira, attraverso progetti individualizzati, alla “salute” nell’accezione complessa descritta dall’OMS, ovvero ad un equilibrio bio-psico-sociale
della persona.
Il piano d’intervento, necessariamente interdisciplinare, richiede pertanto, a tutte le età del soggetto, che la valutazione sia multidimensionale e che gli obiettivi siano coerenti
con il ciclo di vita.
In questa relazione si presenta una batteria di strumenti di
assessment secondo un approccio multidimensionale utilizzata presso il Centro di Riabilitazione Opera “don Guanella” di Roma. Si rileva, inoltre, come obiettivo costante, nel
progetto riabilitativo di ciascuna persona con DI, in ogni fase e condizione della vita, la creazione di un ambiente “salutare”, con facilitazioni soprattutto in termini di accoglienza e di comunicazione.
Bibliografia
1
Soresi S. Psicologia dell’handicap e della riabilitazione. Il Mulino 1998.
2
Moretti G. Ritardo mentale: dalla medicina all’antropologia alle soglie del 2000. Voghera (PV): Abilitazione e Riabilitazione;
Tipolito M.C.M. 1994;2.
Fenotipi comportamentali della disabilità
intellettiva
C. Porcelli
U.O. di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza,
ASL BA/4 Bari
La disabilità intellettiva rappresenta uno dei quadri nosografici di interesse psichiatrico più diffusi, essendo diagnosticabile nel 1,5% della popolazione generale:
– non ha un’età di insorgenza, e in genere (ma non necessariamente “sempre”) coincide con il percorso di vita della persona. Esiste quindi un momento diagnostico, terapeutico, riabilitativo e di assistenza-supporto che interessa tutte le età della vita;
– richiede un intervento sia medico-riabilitativo che psicosociale;
– ha un costo sociale alto;
– ha un alto rischio di sviluppo di problematiche psicopatologiche;
– è difficilmente approcciabile farmacologicamente.
Le persone con Disabilità intellettiva (DI) hanno un modo
particolare di porsi nei confronti dell’ambiente e di se stessi; questo modo di porsi è funzione della:
– capacità di elaborare le informazioni in entrata;
– prevedere le conseguenze di quelle in uscita.
Entrambe queste funzioni sono variamente e più o meno
gravemente compromesse nelle persone con DI.
I fenotipi comportamentali sono quadri riconoscibili di
comportamento. Sono solo in parte condizionati dal livello
di QI. A parità di QI esiste una grande differenza circa i
comportamenti ed i vissuti delle persone con disabilità intellettiva.
Metodologia: abbiamo preso in considerazione la presenza
di 3 tipi di comportamento-problema (aggressività, stereotipie ed autolesionismo) presenti in circa 110 pazienti affluenti presso alcuni centri di riabilitazione presenti in provincia di Bari. Abbiamo valutato la relazione esistente tra il
QI e la presenza/assenza di comportamenti-problema.
Nel corso della relazione saranno discussi i risultati di tale
indagine.
Si conclude sottolineando il fatto che sono i comportamenti che possono portare più facilmente alla crisi della
famiglia, alla ospedalizzazione o alla istituzionalizzazione,
non il QI o l’assetto cromosomico o i deficit enzimatici o
quant’altro. Sono i comportamenti-problema che vanno riconosciuti precocemente e trattati rapidamente. In alcuni
casi (vedi alcune malattie genetiche) possono essere addirittura previsti ragione per cui è ipotizzabile anche una
azione preventiva.
190
SIMPOSI TEMATICI
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA VERDE
S87 - Libertà di cura … questione di punti di vista
MODERATORI
G. Messina, A.R. Andretta
Sbatti il mostro in prima pagina
C. Peccarisi* **, R. Renzi** ***, I. Merzagora Betsos****,
A. De Micheli** *****
*
C. Reg. Cef., Ist. Naz. Neurol., IRCCS “C. Besta”, Milano;
Corriere Salute, Corriere della Sera, Milano; *** Dirett.
Corriere Salute, Milano; **** Dirett. Catt. Criminologia Clinica, Med. & Chir., Università di Milano; ***** Catt. Criminol. Clin., Università di Milano
**
Il ruolo assunto da noti talk-show televisivi nella gestione
mediatica di temi psicosociosanitari rende in parte superato il titolo assegnato a questa relazione e forse più adatto
sarebbe: SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA SERATA. Il
mezzo televisivo sta assumendo un ruolo preponderante
nella trattazione di queste tematiche, una volta riservate al
dibattito culturale e oggi finite invece nelle “conversazioni” di costume e di cronaca che gabellano dal piccolo
schermo una lettura in chiave psichiatrica di avvenimenti
di pertinenza della magistratura. Questa dilagante trattazione televisiva può definirsi libertà d’informazione sulla
malattia mentale? È difficile definire libera un’informazione che non offre un’adeguata riflessione di carattere sociale: dai dibattiti TV non traspare la speranza di un recupero, né una sana autocritica che potrebbe aiutare a comprendere casi come la strage di Novi Ligure, il delitto di
Cogne o i sempre più numerosi infanticidi commessi da
madri presentate più come assassine, che come malate. La
modalità di presentazione della notizia è fondamentale nel
modulare l’atteggiamento verso la malattia mentale, alimentando o viceversa deamplificando i pregiudizi e gli
stereotipi negativi che notoriamente sono alla base dei processi di stigmatizzazione.
Se la carta stampata offre un’informazione più ampia e
multifocale, dando tempo per riflettere individualmente, i
programmi televisivi non lasciano invece spazio a una reale riflessione e, piuttosto che creare opportunità di vera discussione, si focalizzano sugli aspetti formali ed esteriori
della spettacolarizzazione scenica del testimonial e sulla
dialettica insanabile e infruttuosa delle opinioni, che, nella
loro stereotipia, finiscono con l’addormentare la ragione e,
soprattutto, la valenza etica.
Il festival della ripetitività dei talk-show deriva da una sorta di filtro omologante che tende ad amplificare alcuni avvenimenti a discapito di altri, con una sorta di riduzione pilotata degli argomenti da diffondere che ha ben poco a che
vedere con la libertà.
Sulla base di queste premesse, verranno illustrate le modalità di diffusione delle notizie e in particolare lo spazio riservato loro e la cadenza con cui si evidenziano elementi
troppo spesso raccolti da fonti non significative.
L’effetto finale è come un’“eco” che risuona da angolazioni diverse, ma tutte finalizzate a tener desto l’interesse per
il fatto criminale.
191
Anche se non vengono autoperpetuate le scene di violenza
che richiamavano le folle nel Colosseo, il sangue, sia pure
per il tempo della lettura della notizia, richiama comunque,
con percorsi prevalentemente inconsci, a diventare spettatori.
Ciò non libera dai segnali ancestrali e inconsci che ci riportano alla lotta e al sangue, ma fornisce simbolicamente
un terreno di catarsi verso i meccanismi di aggressività e
violenza comunque presenti in ogni persona. La violenza
esterna paradossalmente silenzia quella interna, quando
non arriva invece a farla emergere, innescando situazioni di
emulazione (come ad esempio nel suicidio degli adolescenti) dove la “libertà” d’informazione può diventare una pericolosa cassa di risonanza.
Ci può essere un punto d’equilibrio tra informazione visiva, verbale o scritta, dove quest’ultima non diventa elemento privilegiato sulla scena della vita? Il numero di articoli, di servizi e di testi pubblicati in una ristretta casistica
dimostrano la presenza di una sproporzione di risonanza
mediatica.
La psichiatria del 2000: qualità e risposte
concrete
A.R. Lugli Andretta
Fondazione “Mario Lugli” ONLUS
Lo sfondo in cui si colloca l’attuale fase della psichiatria in
Italia è caratterizzata da una progressiva trasformazione dell’organizzazione dei servizi e delle pratiche assistenziali, ma
anche da una profonda riflessione critica sui modelli teorici
di riferimento.
La pratica di questi anni, se da una parte ha consentito lo
sviluppo di molteplici esperienze particolarmente incisive
ed innovative, dall’altra ha mostrato anche limiti e distorsioni che, se non adeguatamente valutati, rischiano di riprodurre nuove aree di separatezza e perpetuazione della cronicità.
Non sempre il lavoro sul territorio è stato ed è in grado di
dare delle risposte terapeutiche utili ai pazienti con disturbi mentali gravi; non sempre i dispositivi di cura messi in atto sono in grado di soddisfare non solo le esigenze
dei pazienti, ma soprattutto quelle di coloro che, a qualunque titolo, ne condividono la quotidianità soprattutto i
familiari.
Quello che manca ancora alla psichiatria in Italia è qualcosa di più pratico ed intendo dire una programmazione a lungo termine che tradotta vuol dire fondi, attenzione amministrativa e politica dagli enti locali alle problematiche della
salute mentale, sapendo sviluppare quel teorema che si
compendia in tre elementi “bisogni - costi - risultati”.
SIMPOSI TEMATICI
Aspetti etici e giuridici del concetto
di libertà in psichiatria
M. Di Fresco
Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università di Roma “La Sapienza”
Bisogna innanzitutto precisare il significato di etica e giuridicità del concetto di libertà di cui qui intendo parlare, perché in questa materia i due aspetti assumono una accezione
totalmente speciale e diversa rispetto a quella comune.
L’etica riguarda l’insieme di regole extralegislative ed autonome ovvero un codice di autodisciplina con effetti esclusivamente interni, elaborate e riconosciute da una corporazione per l’esercizio moralmente lecito di una professione. In
questo senso si innesta anche il significato di giuridicità intesa non come rispetto delle leggi vigenti nella società di riferimento ma come rispetto di un ordinamento coscienziosamente e moralmente giusto entro cui elaborare principi
fondamentali o assiomi morali.
Per cui se una società non dovesse riconoscere la libertà di
un individuo, l’etica elaborata dallo studio dei principi fondamentali dell’uomo, tra cui rientra anche la libertà, imporrebbe al professionista di riconoscere tale diritto al paziente
anche se alieno all’ordinamento giuridico nazionale. In questo senso l’etica e la giuridicità del medico psichiatra deve
trascendere la soggettività codicistica e sostenere i valori
umani universali.
Purtroppo la storia italiana ha più volte dimostrato il contrario. Nel passato e nel presente, più volte, le autorità governative, hanno usato la malattia mentale come scusa per internare gli antagonisti politici ovviamente con la complicità
della maggioranza degli psichiatri.
Vorrei portare l’attenzione su tre casi relativi alla persecuzione subita dai testimoni di Geova durante il periodo fascista italiano. I testimoni di Geova, che si rifiutavano di
sostenere l’ideologia fascista e di imbracciare le armi, anziché essere condannati per i reati che il Codice Militare di
Guerra stabiliva per i traditori della Patria, venivano falsamente periziati da psichiatri compiacenti come “pazzi” e di
conseguenza internati nei manicomi cosicché rimanevano
rinchiusi anche molti anni dopo la fine delle ostilità e comunque subivano una serie di torture psicologiche tra cui
l’elettroshock introdotta solo dal 1938 ma comunque rimasta violenta e pericolosa per molti altri anni considerato
che la quantità di elettricità veniva somministrata a dosi
elevate ed a casaccio con, talora, effetti infausti (Cerletti,
Bini, 1938).
Breve lettura delle sentenze allegate
alla presente riguardo i casi di Testimoni
di Geova di cui si è potuto accertare
la totale sanità di mente in giudizio
I sistemi di governo totalitari hanno visto una crescente ondata di intolleranza politica e razziale a cui hanno collaborato alcuni psichiatri. In verità i trattamenti psichiatrici nascondevano la sistematica eliminazione dei dissidenti “nemici della Patria” ed erano finalizzati alla afflizione fisica e psichica degli
internati politici e alla intimidazione di altri potenziali eretici
ideologici. Tale attività persecutoria ha interessato una sola fe-
de che si rifiutava, per motivi squisitamente religiosi, di sostenere i governi totalitari come quello fascista e comunista e cioè
i testimoni di Geova che hanno sempre sostenuto la propria
neutralità politica.
Dal libro Minoranze, coscienza e dovere della memoria nel
capitolo sull’obiezione di coscienza si legge a pagina 17: “Particolarmente nel periodo 1939-1943 altri Testimoni (di Geova)
furono condannati per aver rifiutato il servizio militare. Alcuni furono invece riformati perché considerati affetti da psicosi
paranoide o paranoia religiosa.
Ad esempio Gerardo di Felice fu riformato nel 1939 per psicosi paranoide e Francesco Zortea nel 1941 per sindrome delirante paranoidale basata su una insensata e fantastica concezione della vita in rapporto a credenze religiose” – (Archivio Centrale di Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della P.S., 13.3.1940, categoria G1, busta 314). I Libri
Bianchi “Intolleranza religiosa alle soglie del duemila”, P. Bellini e M. Mellini, Fusa Editrice, 1990, Roma e “Minoranze
Coscienza e dovere della memoria”, M. Mellini, Jovene editore Napoli, 2001, affermano che in Italia, durante il periodo fascista, i testimoni di Geova che si rifiutavano di impugnare le
armi erano sanzionati inizialmente con la pena detentiva; poi,
per umiliarli e torturarli psicologicamente venivano dichiarati
pazzi ed internati nei manicomi dove, necessariamente nel
corso degli anni, purtroppo a causa della frustrazione e della
sofferenza psichica, degeneravano fino ad impazzire veramente.
La follia è stata usata per dare un senso “non senso” alle offese contro la dignità del duce, del re, del papa e di Hitler.
Tacciando di pazzia chi gridava alla pace, alla giustizia ed
alla tolleranza si ponevano automaticamente i contenuti delle affermazioni su un piano irreale, non discutibile, non intelligente e si evitava lo scontro dialettico e il rischio di essere smentiti.
Più volte e per molti secoli la follia è stata lo strumento preferito dai sistemi totalitari per togliere di mezzo e silenziosamente chi non si adeguava allo status quo creando il nulla attorno a chi presentava democraticamente idee diverse
che poi, nel corso degli anni, si sono dimostrate prive di elementi alieni.
È il caso di un altro Testimone di Geova, Ennio Alfarano,
che fu condannato dal Tribunale Militare di Torino nel 20
ottobre 1955 per aver rifiutato di firmare la cartolina precetto e di raggiungere la propria destinazione. Al Giudice
Istruttore dichiarò: “I principi della religione da me professata mi vietano di uccidere e quindi di imparare ad uccidere
e, poiché il servizio militare ha lo scopo d’istruire i cittadini all’uso delle armi, io, aderendo a tale principio, contravverrei ai fondamenti della mia fede”.
Queste parole erano chiaramente antitetiche all’epoca ma
oggi sono il fondamento della legislazione, recepita dai paesi democratici di tutto il mondo, sull’obiezione di coscienza
e certamente un considerevole merito alla sua elaborazione
deve andare ai Testimoni di Geova, così come sostenuto più
volte da varie personalità politiche.
Non bisogna dimenticare che le organizzazioni professionali degli psichiatri erano totalmente asservite al potere
governativo dell’epoca, per cui il concetto etico-deontologico o giuridico universale, che avrebbe dovuto guidare le
scelte morali-assistenziali degli psichiatri, era caduto in
oblio ed offuscato da diverse ideologie non parimenti nobili.
192
SIMPOSI TEMATICI
Purtroppo, recentemente, la storia si è ripetuta e precisamente a Berlino poiché è stata sollevata una contestazione
giudiziaria su presunte violazioni dei diritti umani in psichiatria. Nel verdetto del tribunale Russel del luglio 2001
firmata da 7 membri della giuria, si legge che “è molto estesa ma non riconosciuti ufficialmente, una serie di abusi perpetrati nei confronti di malati di mente in nome della psichiatria, relativi ai diritti umani quali la libertà. In accordo
con la Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite,
la giuria deplora profondamente l’incarcerazione di persone
contro la loro volontà in nome della psichiatria. La perpetrazione di tali pratiche è una minaccia per la libertà individuale e collettiva ovunque”.
Il versetto continua sostenendo che “il concetto di malattia
mentale non deve privare le persone malate del diritto di
scelta e di responsabilità per cui non si dovrebbe permettere alla psichiatria di giustificare l’automatica privazione
dei diritti civili ed umani del paziente soprattutto quando,
con tale pratica, si assolvono azioni criminali ed antisociali”. Inoltre il tribunale si auspica si poter utilizzare i mezzi di informazione per allertare l’opinione pubblica sui pericoli per la libertà umana rappresentati dalla acritica accettazione delle affermazioni e dalle pratiche sostenute in
psichiatria. La giuria ritiene di dover condurre ulteriori investigazioni per poter meglio esplorare gli abusi psichiatrici relativi alla somministrazione coatta dei farmaci, all’elettroshock, alla restrizione in ambiente ospedaliero soprattutto se involontaria.
Il tribunale, onde poter evitare ulteriori abusi ed operare uno
stretto controllo legale sulle pratiche psichiatriche quale
prerequisito per una effettiva protezione dei diritti umani,
consiglia agli organismi politici, di istituire un rappresentante legale (una sorta di Difensore Civico) all’interno delle
strutture sanitarie mentali per rilevare anche a scopo consultivo e quindi preventivo, eventuali responsabilità civili e
penali riguardo il trattamento dei pazienti mentali. Invita anche il governo a svolgere un esame critico pubblico del ruolo della psichiatria, delle sue basi scientifiche e della giustificabilità o meno delle sue attuali pratiche.
La giuria, ricordo che stiamo parlando dell’Europa del
2001, rimanda il lettore alla storia (come dicevo prima per
esempio sui testimoni di Geova) perché non sono mancati
fatti che hanno dimostrato il fondamentale ruolo, ben retribuito, giocato dalla psichiatria quale agente di controllo sociale e di forza di polizia di repressione contro comportamenti politici e sociali dissidenti. Continua “Noi troviamo
che la psichiatria è colpevole di una combinazione di irresponsabilità e violenza, classica definizione dei sistemi totalitari.
Chiediamo l’abolizione delle leggi di salute mentale, la riparazione dei danni arrecati ai pazienti danneggiati e di destinare i fondi pubblici per attuare sistemi di cura alternativi alla psichiatria coercitiva”.
193
Atteso che il verdetto summenzionato potrebbe non essere
verosimilmente realistico per l’esperienza italiana, comunque, dobbiamo cogliere l’allarme e il messaggio di fondo
che tale lettura vuole comunicarci e cioè che l’attività psichiatrica deve essere continuamente valutata, criticata, corretta perché l’obiettivo primario rimane sempre la cura della persona nel rispetto dei suoi diritti. Non può esserci etica
e giuridicità senza rispetto dei diritti umani così come non
può esserci cura e assistenza senza rispetto della persona. La
psichiatria deve vivere all’interno di un sistema costruito sui
valori universali dell’uomo sofferente che tenga conto dei
bisogni dell’intera persona e non solo della sua rappresentazione patologica.
Solo così la psichiatria potrà avere un futuro!
Liberi “dentro”, liberi “fuori”: luoghi
e percorsi di cura in psichiatria
G. Messina
DSM ASL 11, Reggio Calabria
Partendo da una riflessione di F. Basaglia (“ciò che di nuovo si stava costruendo in psichiatria forse tanto nuovo non
era, le contraddizioni come polvere sotto il tappeto continuavano ad essere nascoste, il tempo dell’istituzione si prospettava, come sempre, tempo infinito”) l’autore si propone
di analizzare il problema della libertà di cura in psichiatria,
ponendosi alcune domande:
– Gli interventi psichiatrici, in generale, possono essere definiti “liberi”?
– Libertà in psichiatria: da chi? da che cosa?
– Può individuarsi una corrispondenza tra le finalità di cura
e la volontà del paziente?
– Come si colloca il concetto di libertà in psichiatria all’interno dei luoghi di cura?
– Si può essere liberi “fuori” se non si è liberi “dentro”?
– La contenzione: atto medico o violazione dei diritti di libertà?
– Libertà di cura e capacità giuridica: c’è contraddizione?
Sulla base di queste domande l’Autore conclude che:
1) ogni processo di crescita presuppone una disponibilità al
cambiamento;
2) è necessaria un’attitudine interna veramente aperta,
sgombra da timori e pregiudizi, libera da fantasmi di manicomialità, arricchita da costante curiosità e voglia di
scoprire l’oggetto del proprio lavoro giorno per giorno
perché è sempre lì, insidiosamente presente, il pericolo di
una nuova “istituzionalizzazione”, caratterizzata dal rafforzamento di una condizione di dipendenza mascherata da
uno pseudoadattamento ad attività e strutture formalmente
intermedie, ma con un alto indice di protezione.
SIMPOSI TEMATICI
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA NUREYEV
S88 - L’Isteria da Freud a oggi.
Implicazioni cliniche e terapeutiche
MODERATORI
G. Invernizzi, A. Benvenuti
Trauma e isteria
Esiste ancora l’inconscio di Freud?
N. Fina
M. Giannoni
CIPA (Centro Italiano Psicologia Analitica), Milano
Centro Italiano Psicologia Analitica, Roma
Quale il legame tra trauma e isteria?
Si tratta di una verità collocata nell’incrocio tra desiderio e
amore.
Il trauma dell’isteria è un trauma di identità, un trauma cumulativo secondo l’accezione di M. Khan. Si tratta di un
trauma relazionale maturato in una situazione familiare incestuosa e incestuale, che vede come attori tutti i membri
della famiglia.
Si tratta di un trauma che rompe il senso vitale interiore,
impedendo al soggetto di vivere orientandosi verso l’incontro con l’altro con intimità e amore. L’erotizzazione
assolve così la duplice funzione di reiterare il “clima”
traumatico e incestuoso in cui il soggetto ha vissuto le sue
esperienze affettive primarie e di alterare la qualità del desiderio.
Il trauma è tale, infatti, proprio perché gli eventi che lo hanno scatenato appartengono ad un’epoca della vita in cui l’individuo è psicologicamente immaturo, in un momento esistenziale in cui non è possibile elaborare l’esperienza attraverso una rappresentazione della stessa.
Parlare quindi di “isteria traumatica”, come alcuni autori
hanno fatto (Bollas, 2001; Racalbuto, 2004), significa parlare di “perdita di senso della relazione”. In modo particolare questo lavoro affronterà le compromissioni della relazione primaria, riferendosi ad un tempo della vita gravato
da un oggetto materno seduttivo, confusivo, ambiguo e incestuoso (Racalbuto, 2004). Si tratta sostanzialmente di
una forma di incesto psichico che assicura la “fusionalità
interminabile” di un rapporto in cui ogni differenza è esclusa difensivamente e ogni minaccia di separazione negata
“in una sorta di promessa che costituisce una condizione
confusiva tra generazioni” (Racamier, 2004, una confusione mimetica in cui “il più piccolo sta al posto del più grande, la fantasia al posto della realtà, pur non essendoci delirio e non realizzandosi il diniego assoluto delle differenze”
(Racalbuto, 2004).
Attraverso la presentazione di materiale clinico si cercherà
di evidenziare l’area incestuale presente nel nucleo psicopatologico dell’isteria, area che rende difficile l’incontro
analitico e molto complessa la relazione terapeutica in
quanto, nel setting analitico, traspare con l’espressione
corporea qualcosa che è avvenuto e che viene continuamente “agito” in modo multiforme, nel tentativo di mantenere il corpo come soggetto parlante e partecipe della relazione e non soltanto oggetto di interpretazione analitica
(Braidotti, 2004).
Nella mia breve relazione cercherò di mostrare come il concetto di inconscio formulato da Freud negli studi sull’Isteria
e negli scritti successivi è oggi difficilmente conciliabile
con i risultati delle moderne ricerche empiriche (psicologia
cognitiva, neuroscienze, biologia evoluzionista, ecc.).
Cercherò di dibattere il rapporto possibile tra la psicoanalisi e
le attuali ricerche empiriche cercando una soluzione che permetta alla psicoanalisi di mantenere una propria identità senza ignorare altri saperi che si sono venuti costituendo in questi ultimi decenni. Accennerò anche ad alcune ipotesi teoriche
psicoanalistiche che hanno dato particolare rilievo alle recenti acquisizioni della psicologia cognitiva e neuroscienze.
L’Isteria: quali terapie?
C. Bressi
Clinica Psichiatrica, Università di Milano, Fondazione
IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena” di Milano
L’“isteria” è stata dichiarata un’interpretazione arcaica di
processi patologici (Slater, 1965) ma, nonostante che sia stata oscurata, smembrata, nelle definizioni diagnostiche ad
esempio del DSM, il termine e il suo significato di esperienza vissuta si sono mantenuti nel tempo.
Isteria è un termine che ha assunto via via diversi significati così come differenti sono state le cure di questa malattia
nell’evolversi temporale e nello spirito dei tempi.
Verso la metà del ventesimo secolo l’isteria è diventata: una
summa specifica di caratteristiche di personalità, un complesso psicoanalitico, sintomi somatici psicogeni fino a
comportamenti che richiamavano la riprovazione pubblica.
Nel DSM-III e nel DSM-III-R (American Psychiatric Association, 1980, 1987) l’ambiguità semantica si è risolta nello
smembramento dei contenuti diagnostici: la fenomenologia
ha deciso la classificazione diagnostica.
Osserviamo il disturbo istrionico di personalità, il disturbo
somatoforme con il disturbo di somatizzazione e i disturbi
dissociativi mentre le reazione isteriche di conversione si
osservano nel disturbo algico e nel disturbo di conversione.
L’Obiettivo del presente contributo si focalizzerà, dopo una
digressione storica sulle terapie dell’isteria, sulla presentazione di diverse modalità terapeutiche (psicoterapeutiche,
psicofarmacologiche) derivate da pazienti curati sia nel servizio pubblico con psicoterapia psicoanalitica (Servizio di
Psicoterapia, Università di Milano) che privatamente con
un’analisi junghiana.
194
SIMPOSI TEMATICI
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA SAN GIOVANNI
S89 - Doppia diagnosi:
dal penitenziario alla comunità terapeutica
MODERATORI
R. Quartesan, F. Barale
Bisogni e tipologie assistenziali
di tossicodipendenti in “Doppia Diagnosi”
in regime carcerario
M. Clerici, N. D’Urso, P. Bertolotti Ricotti
Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, Polo
Universitario AO “San Paolo”, Università di Milano
Gli studi sulla rilevanza dei disturbi mentali nelle condizioni di carcerazione indicano un’ampia eterogeneità dei risultati, spesso condizionati sia dalle differenze di genere/etnia
dei pazienti, sia dai diversi ambiti dove le indagini epidemiologiche vengono condotte e/o dalle caratteristiche delle
sottopopolazioni indagate (in rapporto alla diagnosi di disturbo psicotico, Depressione Maggiore o disturbi di personalità risultano: nei maschi, rispettivamente, 3,7, 10 e 65%
– di cui 47% per Disturbo di Personalità antisociale – mentre nelle detenute di sesso femminile i valori sono invece
del 4, 12 e 42%, di cui 21% con Disturbo di Personalità antisociale). Una prima importante considerazione riguarda
dunque il rischio che la popolazione carceraria corre, rispetto alla popolazione generale (almeno quella USA e
UK), in termini di morbilità psichica: tale rischio si colloca
da due a quattro volte superiore per quanto riguarda i disturbi psicotici e la Depressione Maggiore e di dieci volte
per il Disturbo di Personalità antisociale.
Non sono ancora reperibili, a tutt’oggi, dati suggestivi (i.e.
epidemiologicamente significativi) in relazione alla situazione italiana: l’assistenza psichiatrica carceraria – per la
gran parte limitata ad attività di tipo consulenziale erogate
su richiesta (e non come screening preferenziale al momento dell’ammissione/durante la permanenza nei luoghi di reclusione) o specifica dell’intervento sanitario rivolto alle
popolazioni a rischio (tossicodipendenti e, soprattutto, detenuti affetti da patologie HIV-correlate) – risulta penalizzata,
in termini epidemiologico-clinici, da un approccio centrato
quasi esclusivamente sull’emergenza e dalla mancanza di
riconoscimento delle reale problematicità psicopatologica
dei soggetti che iniziano un iter di reclusione e, spesso, lo
perseguono per periodi significativi della vita. Lo screening
al momento dell’ammissione risulta inoltre viziato da
profonde divergenze, spesso sostenute da preclusioni di tipo ideologico, in relazione alla utilità e/o alla possibilità
della valutazione standardizzata del quadro psicopatologico
al di fuori di una stretta dimensione peritale di orientamento medico-legale e/o psichiatrico-forense o dalla cronica
mancanza di risorse da destinare all’assessment preliminare, indipendentemente dalle richieste che provengono dai
contesti giudiziari (APA, 2002).
Attraverso la revisione dell’attività di consulenza psichiatrica realizzata sull’arco di 5 anni, a seguito di una convenzione tra l’AO “San Paolo”, la C.R. di “Milano Opera” e il
Ministero di Grazia e Giustizia (Clerici et al., 2002), ven-
195
gono presentati alcuni dati sulla realtà carceraria osservata
confrontando i pazienti in “doppia diagnosi” con i pazienti
affetti da disturbi psicopatologici prescindendo dall’impiego di sostanze.
I dati proposti – anche se limitati qualitativamente e scarsamente confrontabili con altre realtà – ci sembrano già parzialmente in linea con quelli disponibili a livello internazionale. Il presente lavoro si propone di rivedere tali dati alla
luce di una maggiore definizione (quantitativa e qualitativa)
dell’attività effettuata e, soprattutto, della possibilità di derivarne patterns specifici in grado di descrivere le prestazioni erogate e la tipologia dei fruitori assistiti continuativamente nel tempo. Gli obiettivi raggiunti potrebbero informare il lavoro in carcere ad una migliore conoscenza delle
quote di disagio primario, di quello secondario alla carcerazione e/o delle correlazioni con aspetti ancora sottovalutati
del problema quali proprio l’uso di sostanze e la comorbidità ad esso strettamente legata.
Bibliografia
APA. Linee guida per la gestione dell’assistenza psichiatrica nelle
carceri. In: Clerici M, Mencacci C, Scarone S, eds. Milano:
Masson 2002.
Clerici M, Marasco M, D’Urso N, Scarone S. Assistenza psichiatrica in carcere. Riflessioni dall’esperienza nella casa di reclusione di “Milano Opera”. In: APA Clerici M, Mencacci C, Scarone S, eds. Linee guida per la gestione dell’assistenza psichiatrica nelle carceri. Milano: Masson 2002, p. 65-82.
Fazel S, Danesh J. Serious mental disorder in 23.000 prisoners: a
systematic review of 62 surveys. Lancet 2002;16:545-50.
DAP. Il sistema penitenziario italiano. Dati e analisi. Roma: Ministero della Giustizia 2003.
Psichiatria e carcere. NOOS 2006 (numero monografico in press).
La doppia diagnosi in carcere: nuovi
strumenti diagnostici
S. Elisei, M. Piselli, R. Quartesan
Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione
Psichiatrica, Università di Perugia
Introduzione: il termine “doppia diagnosi” e “comorbidità” sono usati comunemente e intercambiabilmente per
descrivere la coesistenza di uno o più disturbi mentali in individui che soddisfano anche i criteri per un disturbo da uso
di sostanze. Tale comorbidità è associata ad un incremento
del rischio di atti violenti auto ed eterodiretti, di complicanze mediche e di reati perseguibili in ambito giudiziario 1.
L’associazione tra criminalità e abuso di sostanze è riconducibile sia alla violazione delle leggi sulle droghe, sia ai
reati commessi sotto la loro influenza 2. In ambito penitenziario, la casistica rileva che, variabilmente, il 6-16% dei
detenuti presenta un disturbo mentale associato nei 3/4 dei
SIMPOSI TEMATICI
casi ad un disturbo da uso di sostanze 3. Probabilmente, tale
frequenza è sottostimata a causa della notevole diversità di
valutazioni e di metodi utilizzati nei vari studi 4. Negli ultimi anni sono stati effettuati studi mirati a migliorare le capacità diagnostica ed a fornire trattamenti diversificati; uno
screening accurato ed un rapido accesso al trattamento sembrano infatti migliorare la prognosi e ridurre la recidività
criminale. La complessità della gestione dei detenuti con
doppia diagnosi evidenzia i limiti del tradizionale modello
di salute in ambito carcerario e la necessità di realizzare progetti integrati tra il sistema carcerario e le strutture della salute mentale 5.
Metodologia: dal 01/08/05 è in corso uno studio cross-sectional, della durata di un anno solare, sui nuovi giunti presso la Casa Circondariale di Perugia.
Ai soggetti che hanno accettato di partecipare allo studio sono stati somministrati:
a) Questionario strutturato riguardante le caratteristiche socio-demografiche;
b) Addiction Severity Index-X (ASI-X);
c) Structured Clinical Interview for DSM-IV Axis I Disorders (SCID-I).
Risultati: gli AA riportano i dati riguardanti i primi 6 mesi dello studio; in particolare frequenza e valutazione delle differenze significative tra detenuti con doppia diagnosi
e monodiagnosi in aree tipicamente compromesse: medica, lavorativa, legale, tossicologica, socio/familiare e psichiatrica.
Bibliografia
1
Rach Beisel J, et al. Co-occurring severe mental illness and substance use disorders: a review of recent research. Psychiatr Serv
1999;50:1427-34.
2
Hartwell S. Triple Stigma: Persons With Mental Illness and Substance Abuse Problems in the Criminal Justice System Crim. J
Policy Rev 2004;15:84-99.
3
Abram KM, et al. Comorbidity of severe psychiatric disorders
and substance use disorders among women in jail. Am J Psychiatry 2003;160:1007-10.
4
Broner R, et al. Adapting a substance abuse court diversion
model for felony offenders with co-occurring disorders. Psychiatric Quarterely Winter 2003;74:361-85.
5
Teplin LA, et al. Mentally disordered women in jail: who receives services? Am J Public Health 1997;87:604-9.
Disturbi mentali in una Casa Circondariale:
uno studio di prevalenza a 34 mesi
G. Carrà, G. Segagni Lusignani, C. Giacobone, F. Pozzi,
R. Scioli, P. Alecci*
Dipartimento di Scienze Sanitarie Applicate e Psicocomportamentali, Sezione di Psichiatria, Università di Pavia;
*
Direttore Sanitario, Casa Circondariale di Pavia, Istituto
di Medicina Legale, Università di Pavia
Scopo: definire la prevalenza dei disturbi mentali in una casa circondariale italiana e descrivere i principali trattamenti
psichiatrici forniti.
Metodi: studio descrittivo osservazionale dei detenuti maschi consecutivamente inviati, in 34 mesi, per una valutazione psichiatrica, tra la popolazione (N = 1683) della Casa
circondariale “Torre del Gallo”, Pavia (I); valutazione diagnostica clinica secondo il DSM-IV e analisi retrospettiva
dei trattamenti psichiatrici, colloqui psichiatrici e prescrizioni farmacologiche, forniti.
Risultati: 320 uomini (19%) avevano uno o più disturbi
mentali attuali (escludendo i disturbi correlati a sostanze):
16 (1%) psicosi; 71 (4,2%) disturbi dell’umore; 32 (1,9%)
disturbi d’ansia; 46 (2,8%) disturbi dell’adattamento; 96
(5,7%) disturbi di personalità; 54 (3,2%) disturbi di personalità + disturbi dell’umore; 5 (0,3%) ritardo mentale. Si rileva comorbidità per disturbi correlati a sostanze (N = 166,
51,9%) e ad HIV (N = 49, 15,3%). I colloqui psichiatrici sono erogati principalmente per psicosi e disturbi di personalità associati a disturbi dell’umore. Sono frequenti le prescrizioni off-label di neurolettici.
Conclusioni: la prevalenza dei disturbi mentali in questa
popolazione è più elevata delle analoghe medie statunitensi
ed europee e, per alcuni sottogruppi diagnostici, potrebbe
essere sottostimata. La gestione psichiatrica in carcere dovrebbe essere riorganizzata secondo le linee guida sanitarie
nazionali ed europee.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA MALTA
S90 - I Disturbi del Comportamento Alimentare
nelle varie fasce d’età
MODERATORI
V. Rapisarda, P. De Giacomo
Il corpo femminile nell’arte e il linguaggio
delle emozioni nei DCA
C. Calandra, A. Castorina
Clinica Psichiatrica, Università di Catania
L’anoressia è una condizione estrema di rifiuto del corpo. Di
quello stesso corpo che aggredito, mutilato, deformato rappresenta ormai l’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno.
È un corpo che grida, che parla il linguaggio dei sintomi: un
linguaggio emozionale, implicito, non verbale, primitivo in
quanto predilige l’analogia e il simbolismo lasciando impoverita la logica razionale. Anzi quest’ultima viene spesso
utilizzata con lo scopo di apportare motivazioni asciutte e
frettolose come “non mangio per dimagrire” (anoressiche) o
“mi abbuffo per sentire lo stomaco pieno” (bulimiche). Sono queste semplificazioni che lasciano privo il terapeuta di
quel mezzo cardine su cui la psicoterapia fonda le sue basi:
la parola.
196
SIMPOSI TEMATICI
L’atteggiamento anoressico-bulimico impone al terapeuta
una relazione che può svolgersi solo sul versante muto del
corpo.
Le emozioni e le memorie soggettive vengono conservate e
vissute rigidamente in un doloroso scenario psicosomatico.
Le pazienti affette da anoressia e bulimia propongono sulla
scena terapeutica i loro corpi, fanno parlare il cibo che ingeriscono, rifiutano o rigettano attraverso un linguaggio somatico che è intensamente pervaso di emotività.
Quasi come un’artista, un pittore, uno scultore, modificano
e deformano se stesse nel disperato tentativo di mostrare attraverso la propria opera (il corpo) le emozioni più profonde ad uno spettatore che adesso è costretto a guardare ciò
che prima voleva ignorare.
Del resto è proprio mediante le opere d’arte che l’uomo ha
espresso in ogni tempo le proprie emozioni comunicandole
al mondo e rendendo comprensibili, attraverso le immagini
rappresentate, gli aspetti più profondi dei fatti e degli uomini.
Questa relazione si ripropone di osservare il corpo femminile attraverso lo sguardo di grandi artisti del passato e del
presente, cercando di cogliere le emozioni che tale corpo
trasmette. Ci si soffermerà in particolar modo sul “corpo
deformato”, quello che soggetti anoressici e bulimici offrono allo spettatore come sintomo, come ultima disperata richiesta d’aiuto.
Un corpo che comunica la paura dell’anoressica di ingrassare o di prendere peso. È una paura fredda, che irrigidisce
le relazioni con gli altri e consente di polarizzare l’attenzione sulla propria immagine corporea che davanti allo specchio viene presentata come espressione del dominio di sé.
Col procedere del dimagrimento è proprio questa emozione
ad intensificarsi.
Nelle pazienti bulimiche la paura di ingrassare assume una
connotazione diversa: è paura di non saper controllare il
proprio impulso a mangiare. Ma è anche, sia per l’anoressica che per la bulimica, paura dell’intrusività dell’altro, del
giudizio dell’altro. In questo senso la particolare preoccupazione riguardo al cibo e al peso sono una manifestazione tardiva di un più importante disturbo relativo al concetto di Sé
che espone il soggetto a sentimenti di inadeguatezza e incapacità. Il giudizio dell’altro diventa allora quanto di più temibile si possa sostenere perché ad esso è ascritto inconsciamente il delicato compito di riconoscere la propria identità: “io non esisto se non attraverso gli occhi dell’altro”.
Nello stesso tempo lo sforzo implicito nei Disturbi della
Condotta Alimentare sembra essere quello di spostare l’attenzione dell’altro su di sé e pretendere nello stesso tempo
che l’altro abbia occhi per vedere il significato nascosto dietro al cibo, al peso, al proprio corpo. In fondo alla confusione interiore si nutre un’aspettativa nei confronti degli altri,
aspettativa che viene puntualmente delusa e da cui nascono
l’ostilità e la rabbia per tutte quelle carenze emotive di cui
implicitamente accusa la madre, il padre, i fratelli, gli amici. L’ostilità verso gli altri verrebbe spostata in particolare
sul cibo, distrutto voracemente o espulso con il vomito per
scaricare la rabbia e l’aggressività. L’attacco al cibo consente inoltre di spegnere temporaneamente quell’incendio di
emozioni che va dall’ansia alla rabbia, alla perdita di autostima e di controllo, alla noia, al disorientamento e alla demotivazione così come l’espulsione del cibo costituisce una
catarsi all’opprimente senso di colpa.
197
Bibliografia
Borgna E. L’arcipelago delle emozioni. Milano: Feltrinelli 2001.
Canetti L, et al. Food and emotion. Behavioural Process
2002;60:157-64.
Hayaki J, Friedman M, Brownell K. Shame and severity of bulimic
symptoms. Eat Behav 2002;3:73-83.
Cibo, relazioni e cultura in età evolutiva
C. De Pasquale, C. Russo*, S. Russo*
Dipartimento Specialità Medico-Chirurgiche, Università di
Catania; * Servizio di NeuroPsichiatria infantile, Azienda 3
Catania
Una definizione estremamente schematica definisce il comportamento alimentare come il risultato dell’equilibrio tra
un sistema che dà origine alla ricerca e all’assunzione del cibo e un sistema che ne stabilisce il termine: tra la “fame” e
la “sazietà”. Al raggiungimento di tale equilibrio contribuiscono numerosi fattori di diversa natura.
Accanto a fattori biologici la condotta alimentare è fortemente influenzata da componenti di natura psicologica.
È noto come l’appetito e di conseguenza l’alimentazione varino in risposta ad emozioni, a stati d’animo, a variazioni del
tono dell’umore. Per cercare di schematizzare possiamo distinguere tre tipi di componenti psicologiche: componenti
simboliche, componenti socio-culturali, componenti personali.
Componenti simboliche: ci si riferisce a tutte quelle risonanze emotive, per lo più inconsapevoli, che il cibo e l’atto
di alimentarsi provocano in ciascun individuo e che sono
strettamente connessi alle profonde valenze simbolico-religiose che si legano alla nutrizione.
Il comportamento alimentare, infatti, ha assunto nel corso
dei millenni una infinità di significati simbolici non più connessi al concetto di sopravvivenza. Lo stesso concetto di fame esprime nella nostra lingua, come in quelle più antiche,
un significato più ampio del semplice bisogno di alimentarsi ma diventa espressione di un bisogno spirituale, affettivo:
“fame” di giustizia, di affetto, di potere ecc.
Tuttavia il rapporto psicologico con il cibo è pieno di contraddizioni, così accanto a queste valenze positive coesistono simbolismi negativi ed inquietanti. Basti pensare alla capacità di contaminazione che da alcune religioni viene attribuita a certi alimenti come ad esempio il maiale o l’alcool
per l’Islam o la carne di vitello per gli Indù; il cibo quindi
come oggetto cattivo capace di nuocere allo spirito incatenandolo alla corporeità, l’alimentarsi vissuto come condanna all’immanenza, come mortificazione della spiritualità.
Componenti socio-culturali: insieme alle valenze simbolico-religiose sull’alimentazione insistono una serie di fattori
socio-culturali che interagiscono sull’alimentazione e sui
processi di nutrizione in senso lato.
Il primo aspetto che salta subito all’osservazione è come,
soprattutto nelle grandi città, il modificarsi dei ritmi di vita
e di lavoro hanno tolto sempre più spazio al rito dell’alimentazione.
L’acquisto e il consumo del cibo viene identificato, dal sistema pubblicitario, come possibile fonte di gratificazione
di un’intensa gamma di bisogni psicologici ed emotivi. Dietro ogni spot c’è uno studio complesso e accurato finalizza-
SIMPOSI TEMATICI
to ad attribuire al prodotto valenze simboliche e risonanze
emotive allo scopo di far percepire al consumatore l’indispensabilità del prodotto per il raggiungimento di uno stato
di benessere soggettivo.
Così la scelta degli alimenti tiene sempre meno conto della
finalità biologica cui il cibo è destinato, per diventare risposta ai bisogni psichici. Si acquistano cioè simboli da consumare: cibi security come il latte e i latticini, cibi ricompensa come la cioccolata, i gelati, i biscotti, cibi maturity come
il caffè o gli alcolici, cibi status simbol come il caviale o il
salmone.
Tra le motivazioni indotte che spingono alla scelta del prodotto emergono il bisogno di sicurezza, di prestigio, di promozione sociale, la necessità di comunicare agli altri una
determinata immagine di sé.
L’azione dei mass-media quindi incide pesantemente sulle
quotidiane scelte alimentari, svolgendo un ruolo occulto e
per certi versi perverso. Attraverso i mass-media tuttavia
non passano solo messaggi pubblicitari e spinte consumistiche ma anche una serie di modelli e di valori o meglio disvalori che contribuiscono non poco ad alimentare ansie e
insoddisfazioni: l’ideale che viene proposto è un individuo
solo corpo; tanti corpi tutti uguali, tutti tonici magri praticamente perfetti.
Componenti personali o psicologiche in senso stretto: la
maggior parte degli autori concorda nell’attribuire all’alimentazione un ruolo importante nello sviluppo psichico del
bambino nei primi mesi di vita. Attraverso il cibo il bambino vede realizzati i suoi bisogni elementari, cioè la fame e
la sete, per cui l’atto di essere nutriti si associa indissolubilmente ad un seno di sicurezza e di benessere e diventa strumento di relazione affettiva con la madre. Essere nutrito significa essere amato. Tuttavia uno sviluppo armonico e normale non può rimanere ancorato a tali modalità di funzionamento psichico e il bambino tenderà a crescere e maturare
passando attraverso fasi di sviluppo psichico successive. Se
questo percorso verso l’individuazione e l’autonomia viene
sostenuto e indirizzato dalle figure genitoriali esso avverrà
senza traumi e permetterà l’instaurarsi di un rapporto armonico con il cibo. A volte invece succede che il cibo venga riconosciuto come soluzione a situazioni conflittuali o di disagio, capace di ridurre la tensione intrapsichica nella relazione tra il sé e l’ambiente. Ciò può avere un valore destabilizzante se non addirittura distruttivo in adolescenti o giovani che stanno ancora faticosamente percorrendo la strada
della costruzione e della consapevolezza di sé.
tramite nella relazione con gli altri. Esso può essere iperinvestito e strumentalizzato, divenendo così un abbozzo di
identità, un modo per riguadagnare uno spazio, per esprimere i propri bisogni, per comunicare un disagio profondo.
Emerge, quindi, il paradosso anoressico: l’intento di martoriare ed annullare la fisicità per affermare i diritti della mente.
Inizialmente, c’è la fantasia di poter governare il corpo e le
sue forme, negandone le esigenze e violentandolo ai propri
fini. Tuttavia, nel tempo, il suo linguaggio diventa incomprensibile per la coscienza, distorto e falsato nei significati;
esso si ribella, sfugge al controllo, per essere nuovamente
assoggettato in una spirale in cui corpo e mente alternano i
ruoli di “tiranno” e di “vittima”: il conflitto tra potere della
volontà e potere del corpo occupa l’intero universo anoressico, e la mediazione tra entrambi diviene sempre più difficile, talvolta impossibile.
I processi di pensiero e di ragionamento dell’anoressica si
caratterizzano per la presenza di distorsioni cognitive, quali
l’ipergeneralizzazione, l’astrazione selettiva, l’inferenza arbitraria e il pensiero dicotomico, per dirne alcuni; convinzioni irrazionali, pensiero magico e schemi di pensiero disadattivi sul sé, sul peso e le forme corporee, che ostacolano l’individuo nel processo di adattamento al suo ambiente,
invece di agevolarlo.
Le premesse di base sottese a questo tipo di pensiero costringono, quindi, la persona a formulare delle conclusioni
esagerate, ipergeneralizzate e assolute e sono generalmente
sintetizzate in termini assoluti quali “Sempre” o “Mai” e in
termini di imposizione “Devo …”. Le vittime dell’anoressia
sembrano, quindi, costrette a comportarsi in modo tale da
aumentare la loro pena e la loro schiavitù.
L’anoressica diviene quindi carnefice e vittima del corpo e
di se stessa; tende all’autopunizione e si mette in condizione di essere bersaglio dell’attacco; il gradino finale della sua
autocondanna è un totale rifiuto di sé, quasi stesse rifiutando qualcun altro.
Il corpo, che doveva essere strumento flessibile a vantaggio
del piano bellico dell’anoressica, ne diviene presto il padrone-tiranno.
Disturbi del Comportamento Alimentare
in condizione di restrizione della libertà
personale
A. Petralia, L. Greco, P. Prestianni, M. Cannavò
Dipartimento Specialità Medico-Chirurgiche, Università di
Catania
Tirannia e schiavitù del corpo: paradossi
del pensiero anoressico
A. Bongiorno, G. Trapani, R. Faraone, C. Lanzarone,
M.C. Manto, A.L. Chisena
Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare,
Servizio Interdipartimentale di Psicologia, AOU Policlinico
“Paolo Giaccone” di Palermo
Un disturbo profondo dell’immagine corporea, non solo dispercettiva, ma legato alla relazione emotiva con il proprio
corpo è elemento centrale nella psicopatologia dei Disturbi
del Comportamento Alimentare.
Il corpo rappresenta il sostegno della propria identità ed un
Introduzione: La restrizione di libertà in ambito carcerario
determina spesso gravi alterazioni dell’equilibrio psichico
dei detenuti, tali alterazioni, possono interessare l’intera
gamma della psicopatologia a noi nota. Nel nostro Paese
non esistono stime epidemiologiche attendibili, ma l’esperienza dei medici psichiatri che operano negli istituti da
tempo evidenzia il problema, sollecitando più mirati interventi di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi mentali. Un aspetto che è stato finora tenuto in ombra dalla letteratura è quello riguardante i Disturbi del Comportamento
Alimentare.
Tali patologie in quest’ultimo ventennio stanno prendendo
piede in diverse fasce di età frutto di varie problematiche
198
SIMPOSI TEMATICI
relazionali esistenziali interessanti l’individuo. In un ambiente dove spesso si viene sottoposti ad un carico di stress
di molto superiore alla norma, dove prevalgono angoscia,
ansia, sentimenti di umiliazione per il trattamento subito e
la sensazione pervadente di impotenza di fronte alla macchina inesorabile che calpesta e sconvolge tutte le sicurezze del detenuto; tutte sensazioni in grado di provocare una
miriade di alterazioni nelle attività psichiche dell’individuo. Mancanza di libertà è: frequente necessità di stare in
compagnia di persone che non si sono scelte, talvolta non
desiderate e non gradite, di dividere con loro ogni minuto
di ogni giornata; rapporti sociali imposti o subiti; odori, rumori, sapori, sporcizia, di altri; promiscuità che degrada;
non stare soli, ma essere soli e sentirsi soli; solitudine e
freddo dentro, nell’anima, non fuori; espropriazione di ogni
riservatezza e di ogni intimità.
Nessun momento, neanche il più personale, privato, intimo,
gode di un minimo di rispetto; perché non si è mai soli e, in
ogni istante, si vede e si è visti, si sente e si è sentiti; perché tutto è di tutti e nessuno ha nulla. Si prospetta interessante valutare come tali molteplici disagi si possano estrinsecare attraverso un disturbo alimentare che non sia conseguenza di atteggiamenti oppositivi o intesi ad ottenere vantaggi secondari e sul quale influirà in maniera negativa una
ridotta attività fisica. Oggetto del nostro studio è quello di
valutare la presenza di tali condotte all’interno di alcuni penitenziari della nostra regione cercando di correlarli con ulteriori variabili.
Metodologia: Il campione da noi studiato è costituito da
circa 500 detenuti (270 M e 230 F) provenienti da 3 carceri della Sicilia. L’età media è di 30 ± 10 anni. I soggetti si
differenziano per tempo di detenzione trascorso in carcere,
durata della pena e numero di volte che si sono trovati in
regime di reclusione. Sono state somministrate le seguenti
scale valutative: Self-Rating Depression Scale di Zung
(SDS) Self Rating Anxiety State di Zung (SAS) e l’EDI-I
per la valutazione dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Criterio di esclusione è la presenza di un Disturbo del Comportamento Alimentare precedente alla reclusione.
Bibliografia
Ceraudo F. Carcere e salute. Principi fondamentali di medicina penitenziaria 1995;24:67.
Amato. Decadimento fisico e psichico. Principi fondamentali di
medicina penitenziaria 1991;16:13.
Milligan RJ, Waller G, Andrews B. Eating disturbances in female
prisoners The role of anger. Eating Behaviors 2002;3:123-32.
Un metodo di valutazione dei Disturbi
del Comportamento Alimentare attraverso
il test SISCI-frasi. Ipotesi di intervento
psicoterapeutico mirato
P. De Giacomo
Università di Bari, Dipartimento di Scienze Neurologiche e
Psichiatriche
Da anni la nostra équipe lavora nel campo dei Disturbi del
Comportamento Alimentare con vari tipi di approccio, sintetizzati del tutto recentemente in un manuale (De Giacomo
P, Renna C, Santoni Rugiu A. Manuale sui Disturbi dell’Alimentazione: anoressia, bulimia, Disturbo da Alimentazione incontrollata. Ed F. Angeli 2005.)
In questa relazione viene esposto un approccio nuovo, che
consiste in un programma basato su frasi a forte impatto psicologico (SISCI-frasi), mirante a valutare le caratteristiche
interattive di soggetti normali e patologici.
Tale programma costituisce la base di un’ipotesi di intervento psicologico mirato, consistente nel selezionare quelle
frasi o quella singola frase (della costellazione di 90 proposte) che può rappresentare una sorta di “password”, una sorta di “Stella polare” per la mente del paziente.
Questo processo genera la possibilità di organizzare la propria mente e costruire in una certa direzione. Tale direzione
è indicata dal terapeuta sulla base delle preferenze emerse
dal programma.
Sarà presentata una sperimentazione su soggetti normali e patologici affetti da DCA o da altri disturbi psichiatrici, dimostrando le differenze e cercando di chiarirne il significato.
25 FEBBRAIO 2005 - ORE 14.15-15.45
SALA RODI
S91 - Identità professionale e responsabilità
soggettiva nel rapporto con il paziente all’interno
delle logiche aziendali
MODERATORI
S. Malizia, L. Secchiaroli
Il conflitto tra istituzionale e individuale
come blocco delle funzioni terapeutiche
A. Lo Cascio, S. Bruni
AIPA, Roma DSM ASL RME
Lo psichiatra che opera nell’istituzione si trova ad affrontare una serie di specifiche difficoltà che discendono dalle esi-
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genze della azienda che spesso vengono poste ben al di sopra delle esigenze terapeutiche che richiedono alcuni trattamenti particolarmente gravosi.
Il doversi bilanciare fra necessità di diversa natura pone lo
psichiatra in una dimensione squisitamente personale, intima che attacca dal proprio interno le sue capacità umane
dalle quali dipende di fatto la possibilità di mettere nel campo terapeutico le sue capacità professionali.
SIMPOSI TEMATICI
Questo conflitto che si declina tra due poli opposti, rappresentati dalla coppia libertà individuale/doveri istituzionali,
può produrre come risultato una scissione tra i due ordini di
valori.
Ciò comporta risultati terapeutici modestissimi ed indipendenti dalla specifica gravità di ogni specifico caso clinico,
ma determina anche un disorientamento soggettivo, personale dello psichiatra che può esitare in un burn-out.
Si riportano alcune brevi vignette cliniche che illustrano le
più
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a cura di - Journal of Psychopathology