CORSO DI FORMAZIONE: “L’ETICA DEL PRENDERSI CURA”
2° MODULO: Lo sguardo su di sé
“Emozioni intelligenti, intelligenza emozionata: strategie per coltivare se stessi”
Bosisio Parini (LC), 5 febbraio 2010
Relatore: Lara ELLI
Torreluna, Oggiono (LC)
Curare è un’attività intenzionale e consapevole, uno scambio di fiducia e di speranze, un impegno che coinvolge la mente, le mani e il cuore. Un compito che impegna a fondo l’animo e l’attività. Il Ben.Essere dell’operatore della cura Chi si prende cura degli altri è sommerso di “sguardi” densi di aspettative di “competenza”. Percepisce negli altri (siano essi colleghi, pazienti, colleghi o superiori) domande continue circa le sue capacità di comprensione, accoglimento, sostegno, sensibilità, comunicazione … Per quanto sia faticoso riuscire a sostenere tali aspettative, esse non sono lontane dalla realtà delle caratteristiche necessarie ad un professionista della cura in grado di conseguire le finalità proprie alle sua professione: curare, prendersi cura dei bisogni di un soggetto che si trova in una condizione di disequilibrio fisico, emotivo, sociale o esistenziale in senso lato. Un curare denso di responsabilità, verso chi ha bisogno e verso sé stessi, una responsabilità che vincola operatore e utente dentro la costruzione di mondi di significato, azione, relazione, desideri, resistenze, dolori, obiettivi, emozioni, intelligenze, soddisfazioni, sviluppi … Chi cura, ha bisogno di riuscire a “nutrirsi” della propria quotidianità. Per questo è fondamentale riuscire a sviluppare un rapporto consapevole con sé, con il proprio mondo di significati. Per curare bisogna amare il proprio lavoro. Per amare il proprio lavoro bisogna cominciare ad amare se stessi quando si lavora. Prendersi cura di sé e delle proprie qualità, delle proprie risorse, delle proprie potenzialità. Questo è il Ben.essere professionale che cresce attraverso la capacità di rivolgere lo sguardo anche su di sé. Comincerei sgombrando il campo da qualsiasi fraintendimento circa il termine benessere. Quando dico che l’operatore della cura deve stare bene quando lavora non mi riferisco ad un aspetto narcisistico della professionalità, né a dimensioni superficiali del benessere della persona. Il narcisismo indica un’incapacità di amare, indica l’investimento emotivo che si rivolge alla propria immagine, non al proprio essere. Il narcisismo è una condizione sia psicologica che culturale. In termini psicologici comporta un eccessivo investimento sulla propria immagine che può derivare da qualche “grande ferita” circa la propria vera identità. Sul piano culturale il narcisismo è la logica conseguenza di mancanza di valori e di senso di umanità che porta a disinteressarsi della vita, dell’ambiente e delle cose che contano, perdendo pian piano di integrità. Il narcisista ha quindi un problema che riguarda la sua identità e noi siamo diventati narcisisti in quanto eccessivamente centrati su noi stessi. È chiaro che questo aspetto, benessere=amore per il proprio Io, per la propria immagine, è lontano da quanto ci si aspetta da un operatore della cura. Il benessere professionale indica una condizione in cui la propria identità è chiara, il valore e il senso di umanità sono radicati, l’interesse per la vita è fondante. Sottolineando l’importanza del ben.essere per gli operatori del sociale non rivolgiamo la nostra attenzione nemmeno ai richiami egoistici che tale termine potrebbe sollecitare. Per Egoismo si intende un insieme di comportamenti finalizzati unicamente, o in maniera molto spiccata, al conseguimento dell’interesse del soggetto che ne è autore, il quale persegue i suoi fini anche a costo di danneggiare, o comunque limitare, gli interessi del prossimo. Anche in questo caso non servono commenti per sottolineare come con il termine ben.essere non ci si riferisce al conseguimento di una personale soddisfazione egoistica. Il benessere professionale sostiene le dimensioni personali per poterle mettere a disposizione dell’altro nel processo di cura, è un benessere perseguito con consapevolezza e orientato alla comune (fra curante e curato) cittadinanza umana. Il processo di cura, sia esso sanitario o sociale, è l’incontro fra un uomo o una donna sani, i “professionisti della cura, e un uomo o una donna che si dichiarano “malati”, bisognosi di cura. Il curante è interrogato dal volto del curato che rispecchia una comune umanità. Troppo spesso vengono trascurati i loro vissuti, sia quello dei “pazienti o utenti” che quello degli stessi operatori. Ignorare problematiche psicologiche o spirituali, emotive o esistenziali non significa che queste non esistano. La convivenza quotidiana con situazioni di dolore, esistenziale, sociale o fisico, può suscitare numerosi e ambivalenti sentimenti non sempre facili da riconoscere o accettare. Nella realtà ogni domanda di cura racchiude non soltanto una semplice richiesta di aiuto tecnico in vista del recupero di un equilibrio fisico, emotivo, sociale o esistenziale. È sempre presente anche una domanda di relazione. Ignorare questa dimensione significherebbe ridurre la cura ad una semplice applicazione di tecnica. E la semplice applicazione di tecnica, pur preservando l’equilibrio dell’operatore, non sarebbe “cura”. Il curante e il curato hanno un bisogno essenziale di comprendersi e di comprendere. L’operatore deve comprendersi nella propria responsabilità professionale e comprendere l’utente nei suoi vissuti e nelle sue richieste; l’utente deve comprendersi nella propria situazione di fragilità e comprendere l’operatore nella sua volontà di aiuto. Questa è la prospettiva della comune cittadinanza umana. Il benessere dell’operatore della cura promuove quindi la necessità essenziale dello sguardo su di sé. Qual è il senso del mio lavoro: ci interroghiamo sul nostro mondo di significati Una domanda così importante contiene il rischio che l’incontro fra la vulnerabilità e fragilità dell’altro e la propria possa diventare un peso eccessivo. Possa scatenare emozioni insostenibili per intensità, per durata o per entrambe le dimensioni. La sofferenza dell’operatore incatena e condiziona l’utente, chi ha bisogno di cure. E diventa sfondo quotidiano per l’operatore e la sua vita professionale. Il risultato è un professionista demotivato, arrendevole, orientato agli aspetti tecnici, disattento, poco sensibile e disponibile all’altro e a sé stesso. Tutto questo quindi non ha soltanto valore umano, psicologico ed etico, deve essere considerato anche nella prospettiva di una migliore pratica professionale. 
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ETICA DEL PRENDERSI CURA - Osservatorio per le Politiche