INSEGNAMENTO DI
FILOSOFIA DEL DIRITTO
LEZIONE II
“IL DIRITTO COME ORGANIZZAZIONE DELLA
FORZA”
PROF. CATERINA BORRAZZO
Filosofia del diritto
Lezione II
Indice
1 Mutamento Di Prospettive Nel Problema Diritto-Forza. --------------------------------------------------------------- 3 2 Hans Kelsen E La Coercitività Degli Ordinamenti ---------------------------------------------------------------------- 8 3 Karl Olivecrona E Le Motivazioni Del Comportamento -------------------------------------------------------------- 10 4 Alf Ross: Il Giudice E Il Sentimento Di Obbligatorietà ---------------------------------------------------------------- 12 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Mutamento di prospettive nel problema
diritto-forza.
Nell’ambito delle teoriche pre-kelseniane, il rapporto tra il diritto e la forza è inteso come
relazione tra norma giuridica e forza fisica: il diritto vuole la realizzazione di determinati
comportamenti, qualificati come giuridicamente obbligatori nella misura in cui vengono
disciplinate le ipotesi di deviazione, attraverso la previsione dell’applicazione di sanzioni.
Il diritto è, dunque, un “dover essere” e l’elemento della forza è fuori dal giuridico.
Persino in Jhering, che privilegia l’elemento sanzionatorio, la forza è vista come
strumento, come un mezzo per la realizzazione ed il trionfo del diritto. Jhering ritiene, infatti, che
la forza sia uno strumento indispensabile al diritto e che quest’ultimo sia soltanto un mezzo
diretto al fine dell’esistenza della società.
E’ questo rapporto strumentale che fa scorgere nell’autore quasi un precursore di Kelsen,
che considera il diritto “una tecnica per il controllo sociale”.
Però, in Jhering il rapporto mezzo-fine si svolge attraverso la tricotomia forza-dirittosocietà con l’introduzione dell’ulteriore fondamentale elemento dello Stato, viceversa, in Kelsen,
che identifica lo Stato con l’ordinamento giuridico e qualifica il diritto come forza organizzata,
tale rapporto si svolge solo tra il diritto e la società, nella misura in cui il diritto è mezzo per il
controllo del comportamento sociale.
Jhering ritiene che solo lo Stato, da lui considerato come la più efficiente organizzazione
del potere, sia in grado di realizzare le sue norme, che saranno norme giuridiche proprio grazie
alla protezione offerta dallo Stato. L’elemento della coercizione, derivante dal potere statale,
rimane esterno alla norma: esistono certamente organizzazioni societarie a struttura coercitiva,
associazioni vietate, bande di briganti a struttura normativa, ma la differenza risiede nel fatto che
le norme giuridiche hanno la protezione statale.
Abbiamo detto che Jhering privilegia l’elemento sanzionatorio: egli, infatti, evidenzia il
carattere sanzionatorio delle norme giuridiche e considera destinatari di esse gli organi statali,
non i consociati. Testualmente Jhering: “la norma giuridica contiene un imperativo astratto
rivolto agli organi del potere statale e pertanto la sua efficacia esterna, cioè la sua osservanza da
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parte del popolo, dal punto di vista puramente giuridico formale deve essere considerata
secondaria rispetto all’altro aspetto primario. Tutti gli imperativi giuridici, senza eccezione, si
rivolgono anzitutto agli organi statali”.
La forza, però, resta sempre un elemento esterno al fenomeno giuridico, in ragione del
fatto che in Jhering non si assiste alla riduzione della sanzione a mera coazione fisica, come,
invece, avviene in Kelsen.
Secondo Jhering, mentre la forza può esistere senza il diritto, quest’ultimo non può
esistere senza la forza, che costituisce, dunque, lo strumento indispensabile per l’attuazione del
diritto stesso, in quanto, “soltanto la forza, realizzando le norme del diritto, fa del diritto ciò che
esso è e deve essere”.
A Kelsen va riconosciuto il merito di aver mutato la concezione del rapporto diritto-forza:
il diritto, cioè l’ordinamento giuridico, è inteso come organizzazione della forza, dunque, la forza
non è più strumento del diritto.
Kelsen ritiene che il diritto si distingua dagli altri ordinamenti sociali per essere un
ordinamento di tipo coercitivo nel quale “l’atto stabilito dall’ordinamento come conseguenza di
un atto considerato socialmente dannoso deve essere eseguito anche contro la volontà del
destinatario e, in caso di resistenza, con l’uso della forza fisica”.
Quando Kelsen parla di “forza” vuole intendere, appunto, la forza fisica, che va ad
identificarsi totalmente con la violenza. L’autore praghese non considera, come, invece, fa
Jherig, la forza come un elemento che resta al di fuori del fenomeno giuridico, bensì considera la
forza stessa materia del diritto.
Per comprendere il mutamento di prospettiva nel problema diritto-forza operato da
Kelsen bisogna partire dal concetto di organizzazione o ordinamento e, anzitutto, considerare
che, essendo l’organizzazione un’esperienza fenomenica, in tale concetto è insito il riferimento
ad un fatto determinato, ad una situazione concreta.
Se è vero che il diritto non può coincidere con la realtà, cioè con il fatto (Sein), perché si
pone dinanzi alla realtà per modificarla, altrettanto vero è che il diritto non può essere totalmente
disgiunto dal Sein, altrimenti non differirebbe affatto, per esempio, da un ordinamento di tipo
morale.
Per ciò che concerne il rapporto intercorrente tra il diritto come organizzazione della
forza e la norma fondamentale, va detto che quest’ultima, la Grundnorm, è un’ipotesi scientifica,
una norma presupposta, che deve essere adoperata da alcuni consociati: i funzionari ed i giudici.
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Considerata, però, la possibilità che tali figure si rintraccino, in qualche misura, anche in
altri ordinamenti coercitivi, ma non giuridici, va rilevato che, se si sostiene che il fondamento e
l’esistenza dell’ordinamento giuridico dipendono dal consenso o approvazione di un gruppo
determinato di consociati, se contasse, dunque, solo il riconoscimento da parte di un gruppo
determinato di essi, non dovrebbe esser negata la qualifica di giuridico, per esempio, ad una
organizzazione di briganti, in cui tali figure possono ritrovarsi; oltretutto, essendo tale gruppo
costituito da un numero certamente limitato di consociati, non sarebbe neppure possibile l’ipotesi
di contrasto tra individuo ed ordinamento giuridico, ciò in ragione del fatto che quest’ultimo
viene quasi ad identificarsi con le volontà di determinati individui.
Questa tesi che individua la forza dell’ordinamento giuridico nel consenso dei giuristi,
dunque, non è affatto soddisfacente.
Ritornando alla formula kelseniana “il diritto è organizzazione della forza”, è possibile
affermare che il diritto è costituito da norme che disciplinano l’uso della forza, l’esercizio cioè
del potere coattivo; comunque, una tale definizione non basta a distinguere il fenomeno giuridico
dalle associazioni vietate, che, pur essendo organizzazioni coercitive, diritto non sono affatto.
Prima di analizzare la teoria sul rapporto tra il diritto e la forza in tre specifici autori come
Hans Kelsen, Karl Olivecrona e Alf Ross, diciamo sin d’ora che un importante merito della
teoria è quello dell’inserimento dell’elemento della forza nell’ambito del sistema giuridico.
I tre gli autori adottano una concezione riduzionistica in fatto di norme e tutti e tre
ribaltano il rapporto tra le norme precettive e le norme sanzionatorie.
Un’ulteriore riduzione da essi operata è, poi, quella di intendere la sanzione giuridica
come coazione fisica.
Sappiamo che, in realtà, è possibile intendere pienamente il significato di efficacia
giuridica solo privilegiando il comportamento dei “privati cittadini”, volendo utilizzare la
terminologia hartiana; non è, dunque, assolutamente possibile la riduzione dell’efficacia
giuridica all’applicazione delle norme sanzionatorie da parte dei tribunali, considerare, cioè,
l’ordinamento giuridico come composto esclusivamente da norme di tipo sanzionatorio.
Va, però, detto che nessuno dei tre autori considerati si spinge fino a tal punto.
Per quanto riguarda Kelsen, se, in un primo momento, egli ritiene che l’efficacia, in
quanto qualificazione del comportamento, non costituisca un problema giuridico, ma sia oggetto
della sociologia del diritto, successivamente Kelsen accoglie il criterio dell’effettività nel
giuridico.
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Egli ritiene che l’effettività di un ordinamento non possa risiedere nel comportamento
degli organi giudiziari, ma risieda, piuttosto, primariamente nel comportamento di tutti i
consociati. I comportamenti degli organi giudiziari possono solo provare l’efficacia
dell’ordinamento giuridico.
Per quanto riguarda Olivecrona, indipendentemente dalla questione relativa alla validità e
all’efficacia delle norme, egli studia il modo di operare di esse nella psiche degli uomini, studia,
dunque, l’esistenza delle norme.
Quanto a Ross, egli risolve le cosiddette norme precettive in un aspetto delle norme di
condotta intese come direttive per i giudici; Ross, più di tutti, risolve il problema dei destinatari
delle norme indicandoli negli organi giudiziari: “la direttiva al privato è implicita nel fatto che
egli conosce quali reazioni può aspettarsi da parte delle corti in certe circostanze”.
Se l’effettività dell’ordinamento giuridico risiede, come abbiamo detto per Kelsen,
innanzitutto nel comportamento dei consociati messo in relazione alle norme precettive (vale a
dire, con terminologia hartiana, norme che impongono obblighi), una concezione dualistica del
diritto appare come una rappresentazione senz’altro più precisa ed appropriata dell’ordinamento
giuridico.
Se è possibile individuare nell’ambito dell’ordinamento giuridico due tipi di norme, come
Hart suggerisce, vale a dire le norme che impongono modelli di condotta e le norme secondarie
intese come norme relative a norme, si può risolvere la questione dei destinatari
dell’ordinamento giuridico nel senso di indicare nei privati cittadini i destinatari delle norme
precettive e negli organi giudiziari e nei funzionari i destinatari delle norme secondarie.
Alla nuova teoria va certamente riconosciuto il merito di aver condotto la forza fisica
nell’ambito del sistema giuridico, ma va respinta la radicalizzazione che Kelsen, Olivecrona e
Ross operano: se è vero che nell’ambito dell’ordinamento giuridico vi sono norme che
disciplinano l’uso della forza, non è detto che tutte le norme debbano essere forzate in tale
schema, cioè, non è possibile ridurre l’intero fenomeno giuridico nelle norme che disciplinano
l’uso della forza.
Si potrà, piuttosto, riconoscere la particolare importanza di tali norme ai fini della esatta
comprensione dell’ordinamento giuridico e, in generale, degli ordinamenti di tipo coercitivo, ma
mai si dovrà giungere a considerare le norme che disciplinano l’uso della forza fisica come
l’essenza stessa del diritto.
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Se, infatti, la presenza di tale tipo di norme nell’ambito di un sistema vale certamente a
distinguere l’ordinamento giuridico da altri ordinamenti sociali, tale presenza non è
assolutamente sufficiente per caratterizzare l’ordinamento giuridico rispetto agli altri
ordinamenti coercitivi.
In termini diversi, la presenza di norme che regolano l’esercizio della forza fisica
permette di classificare l’ordinamento giuridico come ordinamento coercitivo, ma esistono altri
ordinamenti di tipo coercitivo oltre a quello giuridico.
Inoltre, non si può ritenere che un ordinamento coercitivo possa essere costituito solo di
norme sull’uso della forza fisica. Nell’ambito, per esempio, di una banda di briganti, esistono
regole che disciplinano e limitano l’uso della forza tra i componenti della banda stessa ed
esistono norme che prevedono e disciplinano i casi di deviazione da determinati comportamenti.
I modelli di condotta, che i componenti della banda sono tenuti ad osservare, sono costituiti
proprio da questi comportamenti e la mancanza di un organo autorizzato a dirimere le
controversie, rende, nell’ambito della banda, ancora più importanti le norme primarie, di quanto
esse non lo siano in un ordinamento giuridico.
La constatazione che negli ordinamenti giuridici moderni vi siano organi giudiziari
particolarmente sviluppati non significa affatto che le vere norme giuridiche siano soltanto
quelle che in qualche modo, direttamente o indirettamente, sono inerenti ai tribunali.
In conclusione, la presenza non esclusiva delle norme che regolano l’esercizio della forza
fisica consente di classificare l’ordinamento giuridico come ordinamento di tipo coercitivo.
Ma resta il problema di distinguere e caratterizzare l’ordinamento giuridico dagli altri
ordinamenti coercitivi. Va detto che la formula “il diritto è organizzazione della forza” inerisce
alla struttura interna degli ordinamenti coercitivi: rimane aperto il problema se questa effettività
risieda in un atteggiamento psicologico dei consociati o di alcuni di essi (i giudici), in una
situazione di vero e proprio consenso, o semplicemente nei comportamenti esteriori dei
consociati.
Passiamo ora ad un esame specifico della teoria sul rapporto tra il diritto e la forza in
Hans Kelsen, Karl Olivecrona e Alf Ross, relazionando la teoria stessa alle più generali
concezioni dei singoli autori.
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2 Hans Kelsen e la coercitività degli ordinamenti.
In Hans Kelsen l’elemento essenziale del fenomeno giuridico è la sanzione intesa come
atto coercitivo, e le norme giuridicamente rilevanti sono solo quelle che stabiliscono una
sanzione come conseguenza di un determinato comportamento illecito; tutte le altre norme,
dunque, o sono giuridicamente irrilevanti oppure sono, in qualche modo, riconducibili o
comunque collegate alle norme sanzionatorie.
La giuridicità della norma non si identifica, quindi, con la sua validità, intesa come
specifica esistenza della norma: la giuridicità della norma è determinata dall’elemento
sanzionatorio; la validità della norma, invece, si risolve in base ai criteri di appartenenza
all’ordinamento giuridico.
In altri termini, la norma è valida ed esistente se appartiene ad un dato ordinamento
giuridico; tale norma è giuridica, però, solo ed esclusivamente se mira a regolare il
comportamento umano attraverso l’esercizio di un atto coercitivo, applicando, cioè, le sanzioni
L’ordinamento kelseniano, che è punto centrale del pensiero dell’autore praghese, è
coercitivo, in quanto costituito da norme che stabiliscono atti coercitivi, cioè sanzioni, ed è
giuridico se è effettivo, vale a dire se la maggior parte delle norme dell’ordinamento stesso sono
efficaci, nel senso che il comportamento prescritto da tali norme (di condotta) coincide con
quello realmente assunto dai soggetti.
L’effettività dell’ordinamento giuridico non può, però, coincidere soltanto con il
comportamento dei giudici e dei funzionari: se si considera la singola norma, è giusto dire che i
giudici applicano la sanzione quando è risultata inefficace la norma precettiva; se, invece, si
considera l’ordinamento giuridico nel suo complesso, intanto è possibile l’applicazione, e quindi
l’efficacia, delle norme sanzionatorie (secondarie) da parte dei giudici, in quanto sono
normalmente efficaci le norme precettive (primarie), in quanto, cioè, normalmente i cittadini
osservano le norme che prescrivono una certa condotta e sono, dunque, sporadiche le deviazioni
dal comportamento prescritto e sanzionato.
In altri termini, l’ordinamento è effettivo se, prima di tutto, il comportamento degli
uomini risulta conforme a quanto prescritto dalle norme che prescrivono la condotta, non
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essendo possibile ridurre l’effettività dell’ordinamento alla normale applicazione delle norme
sanzionatorie.
L’effettività dell’ordinamento nel suo complesso non è colta pienamente da Kelsen:
l’ordinamento è giuridico in quanto efficace, ma l’effettività deriva dall’efficacia, soprattutto,
delle norme indirizzate ai consociati.
Se, dice Kelsen, al termine efficacia sostituiamo quello di forza, il rapporto validitàefficacia diventa rapporto diritto-forza: il diritto non si identifica con la forza ma non esiste
senza di essa essendo il diritto organizzazione della forza stessa.
L’ordinamento è giuridico, cioè efficace, se è costituito da norme che regolano l’esercizio
della forza fisica (norme sanzionatorie) e se sussiste un certo grado di osservanza delle norme di
condotta, se sono cioè efficaci le sue norme precettive.
La dottrina pura del diritto di Kelsen non può limitarsi a definire l’ordinamento giuridico
come ordinamento coercitivo costituito da norme che disciplinano l’uso della forza, in quanto
anche una banda di briganti può costituire un ordinamento coercitivo nel quale è disciplinato
l’uso della forza.
Kelsen ritiene che la differenza tra l’ordinamento giuridico e gli altri ordinamenti
coercitivi risiede nel fatto che in questi ultimi non viene presupposta una norma fondamentale, la
Grundnorm, in base alla quale ci si deve comportare conformemente all’ordinamento. La norma
fondamentale non viene presupposta negli altri ordinamenti coercitivi essendo essi privi di
efficacia continua.
Alla norma fondamentale si ricorre per dare un senso normativo alla situazione reale
costituita dal fatto che le norme sono normalmente osservate dagli uomini, la Grundnorm
“significa…, in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto”.
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3 Karl Olivecrona e le motivazioni del
comportamento.
L’autore scandinavo Karl Olivecrona dedica molto spazio al rapporto tra il diritto e la
forza.
Nella sua teoria sul rapporto diritto-forza emergono numerosi punti di contatto con
Kelsen: in primis, la concezione del diritto come composto principalmente da norme sull’uso
della forza, quindi il considerarlo come forza organizzata; in secundis, l’intendere il diritto non
come singola norma bensì come ordinamento, data l’impossibilità, secondo Olivecrona, di
considerare una norma isolatamente, ma soltanto in rapporto ad altre norme.
Anche l’autore scandinavo, come Kelsen, ritiene, inoltre, che la norma giuridica sia solo
quella che stabilisce la sanzione, essendo la norma di condotta un mero aspetto secondario di
essa, ed anche egli identifica il diritto con l’organizzazione statale, non potendo lo Stato esistere
senza di esso.
Per Olivecrona il diritto è un insieme di fatti sociali e l’analisi da egli svolta sul fenomeno
giuridico si basa e mira a cogliere il momento applicativo del diritto; nell’autore il diritto è inteso
come “essere” e non come “dover essere”: l’obbligo non esiste, esiste solo l’idea dell’obbligo
rinvenibile nella psiche umana. Il diritto è un fenomeno psicologico e i fatti sociali da analizzare
sono rappresentati da ciò che gli uomini pensano essere diritto.
Gli uomini, sin dal momento in cui vengono al mondo, subiscono l’influenza del diritto
vigente nell’organizzazione statale e le nuove leggi, da essi introdotte nel corso della loro
esistenza, danno origine ad imperativi detti indipendenti a causa della mancanza di un
determinato soggetto attivo che le abbia comandate e volute; essendo, nelle nuove leggi,
implicate molte persone, esse non
originano, dunque, imperativi ascrivibili a determinati
soggetti.
Karl Olivecrona assegna notevole importanza all’indagine psicologica relativa alla
rappresentazione del diritto da parte degli uomini ed alle motivazioni che li spingono ad
assumere un comportamento conforme alla prescrizione normativa.
Anche nell’ambito della teoria del rapporto diritto-forza Olivecrona spiega le ragioni per
cui gli uomini accettano e si sottomettono alla monopolizzazione dell’uso della forza da parte
dell’organizzazione statale; tali ragioni sono rinvenibili nella paura e nella diffidenza reciproca:
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“le riserve latenti di odio, di sete di vendetta e di illimitato egoismo presenti negli uomini
esploderebbero immediatamente in maniera distruttiva, se non fossero tenute a freno dalla
presenza di una concentrazione di forza di gran lunga superiore a quella di qualsiasi singolo
individuo o associazione privata. Gli uomini hanno bisogno della coercizione per vivere insieme
pacificamente: ma la coercizione su di una scala così grande presuppone una forza invincibile”.
Emerge un’adesione da parte dell’Olivecrona al pensiero hobbesiano, però, Hobbes identifica lo
Stato con il sovrano assoluto e ritiene che il diritto sia il “comando” del sovrano; viceversa,
Olivecrona identifica lo Stato con l’ordinamento giuridico e ritiene che il diritto sia un insieme di
imperativi indipendenti, non ascrivibili, cioè, a determinati soggetti attivi.
Ma Olivecrona, nel rapporto tra diritto e forza, non riesce a considerare fino in fondo il
diritto come indipendente ed impersonale: alle spalle, per esempio, delle leggi volte ad una più
equa distribuzione della ricchezza, egli rinviene, infatti, un gruppo sociale determinato, che è la
classe dominante, che, attraverso il diritto, opera delle concessioni parziali a favore dei dominati.
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4 Alf Ross: il giudice e il sentimento di
obbligatorietà.
Come avviene per Kelsen e per Olivecrona, così anche per Ross il rapporto diritto-forza
va inteso nel senso di chiarire il ruolo svolto dalla forza fisica nell’ambito dell’ordinamento
giuridico nel suo complesso.
Anche quella dello scrittore danese è una concezione riduzionistica in fatto di norme.
Infatti, sia le norme di condotta che quelle di competenza sono aspetti della medesima norma che
va intesa come direttiva alle corti circa l’uso della forza fisica. Testualmente Ross: “…un sistema
giuridico nazionale è un sistema individuale di norme la cui unità può essere riscontrata nel fatto
che tutte, direttamente o indirettamente, sono direttive concernenti l’esercizio della forza da parte
della pubblica autorità”.
La posizione di Ross in merito alla teoria sui rapporti tra diritto e forza, risulta analoga
alla posizione assunta da Hans Kelsen sul punto, resta, dunque, il problema di chiarire dove la
teoria trovi il suo sviluppo più organico, in considerazione del fatto che profonda è la differenza
sussistente tra di essi in merito al concetto di diritto, ed i particolare al concetto di validità
giuridica.
Ross, considerando il concetto kelseniano di validità giuridica, oltre che superfluo,
addirittura fuorviante per la comprensione del diritto, cerca di liberarsi del concetto stesso.
Ross ritiene che il fenomeno giuridico vada individuato nel Sein, nel mondo dei fatti,
nell’azione, vale a dire nel momento applicativo del diritto.
A rendere effettivo il diritto sono i giudici per mezzo del loro operato: infatti, prima che i
giudici si pronuncino su di una norma, non è assolutamente possibile affermare se essa sia valida
o meno; ed anche a seguito di una regolare ed uniforme applicazione della norma stessa, potrà, al
più, affermarsi che è altamente probabile la successiva applicazione di essa da parte dei tribunali.
E’ chiaro come per Ross dire che una norma è valida significhi prevederne la futura
applicazione da parte dei tribunali; tale previsione risulta poi più o meno fondata a seconda del
grado di probabilità.
Lo scrittore danese privilegia, dunque, l’attività del giudice nel fenomeno giuridico.
Praticamente, per comprendere cosa sia il diritto, è necessario guardare al comportamento
passato, presente e, soprattutto, al prevedibile comportamento futuro degli organi giudiziari.
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Ross trova priva di alcun senso la discussione relativa alla validità delle norme se non si
fa riferimento all’attività del giudice la cui figura è, dunque, il perno di tutto il sistema rossiano.
Validità ed effettività si identificano e la doverosità consiste nel sentirsi obbligati inteso
come esperienza interiore, psicoemotiva dei consociati.
Il sentimento di obbligatorietà non poggia esclusivamente sul timore delle sanzioni, dal
momento che l’obbedienza alla legge può dipendere da svariati motivi.
Se ne potrebbe dedurre che l’obbligatorietà, intesa come esperienza psicoemotiva dei
consociati, non possa avere alcun ruolo nell’ambito del diritto considerato che esso si forma solo
per mezzo dell’attività dei giudici.
Ross ritiene che a spingere i giudici ad intervenire nel momento in cui si verificano delle
deviazioni dalle norme, non sia il timore delle sanzioni o altri motivi particolari, bensì il senso di
rispetto e di obbedienza alla ideologia giuridica tradizionale, ciò soprattutto nei giudici della
Corte Suprema.
Un ruolo fondamentale è qui svolto dall’obbligatorietà, considerato che i giudici si
sentono obbligati ad intervenire ed agire perché spinti da “un vivo e disinteressato senso di
rispetto e di obbedienza” ; e poiché l’obbligatorietà è un sentire, il rischio è che il diritto esista
solo nella misura in cui sussiste, nei giudici, questo sentimento di obbligatorietà.
La concezione di Ross sul diritto non è autenticamente realistica visto che per lui
l’effettività del diritto dipende dall’attività dei giudici e quest’ultima dipende a sua volta dal
sentimento di obbligatorietà: in altri termini, i giudici credono erroneamente di essere obbligati
ad applicare le leggi.
Ross finisce con l’essere attirato nella morsa del realismo psicologico che, invece,
vorrebbe combattere.
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