Pier Davide Guenzi
La relazione medico-paziente:
una proposta dall’etica delle virtù.
Novara, 17 dicembre 2009
La bioetica delle virtù
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Insufficienza e disagio nei confronti di un’etica
concentrata esclusivamente sulla applicazione di
principi in vista della valutazione delle azioni.
Insufficienza nei confronti di un modello di prassi
medicale di tipo funzionalista o contrattualista.
Attenzione alla duplice soggettività impegnata
nel percorso terapeutico: quella del paziente
(non riducibile alla semplice afffermazione dei
propri “diritti”) e quella del professionista
sanitario (non riducibile al semplice profilo
“doveristico” del suo agire in base ad un
protocollo operativo).
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«La
denuncia
dei
limiti
del
modello
principialistico prende spunto dalla ripresa di un
modello che, nel campo dell’etica medica, come
nella più generale tradizione occidentale, non è
certo una novità: il modello basato sull’etica
delle virtù. È questo il modello che fornisce le
categorie per interpretare il passaggio da
un’etica che pone l’accento sull’atto in sé, ad
un’etica invece che pone l’accento sull’agente,
sul suo modo di essere, sul suo carattere che
negli atti si manifesta e insieme si potenzia» (C.
Viafora, 2006, p. 84).
Cosa devo fare / Chi devo essere
Interpretare il senso
dell’agire medicale
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Modello del contratto o modello della cura
Tradizionalmente l’agire medico è compreso come
sostegno e cura all’interno di una relazione di
profonda partecipazione al destino del proprio
paziente e non semplice applicazione di prestazioni in
forza di un contratto sancito sulla base dei desideri e
delle scelte autonome del paziente.
«Il medico non è semplicemente un venditore di
beni che ha a che fare con un consumatore
qualsiasi, ma un soggetto provvisto di autorità
morale in rapporto di fiducia con il proprio
paziente» (D. Lamb)
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Il fuoco del problema morale non è
definito esclusivamente dalla questione su
cosa si debba fare per assicurare una
prestazione giusta e appropriata in base a
standard etici definibili attraverso principi.
L’accento si sposta sul chi dovrei essere
attualizzando il tema antico della “virtù”
nella prospettiva dello sviluppo pieno (to
live well, to flourish) della personalità
morale (character) di chi è impegnato
nell’azione.
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«La concentrazione suoi singoli atti conflittuali,
nella prospettiva di offrire con la misura dei
principi soluzioni oggettive e imparzialità, fa
perdere di vista la struttura motivazionale del
soggetto nella sua globalità» (Viafora, 2006, 84).
Una rinnovata attenzione a questa prospettiva,
inoltre, rende maggiormente possibile «riaprire
uno spazio per la questione centrale del senso
dell’agire, questione che la prospettiva dell’etica
pubblica elude sistematicamente» (R. Mordacci,
1996, p. 105).
Tuttavia occorre considerare un suo possibile
limite: la relatività della figura di “vita buona” e
di “virtù” a sistemi culturali e valoriali differenti.
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Il merito principale di questa prospettiva,
che costituisce un significativo guadagno
nello stesso dibattito (interminabile) della
bioetica pubblica, è quello di spostare
l’attenzione dal “rispetto delle regole”, pure
imprescindibili, ma che in sé non
esauriscono la specificità del discorso etico,
a quella di abilitare il soggetto a formulare
un giudizio ponderato all’interno delle varie
situazioni e di assumersene in prima
persona il peso in modo responsabile.
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«Il giudizio ha un ruolo indispensabile nella vita
dell’uomo virtuoso, mentre ad esempio non lo
ha, e non potrebbe averlo, nella vita dell’uomo
che si limita a rispettare una legge o una regola»
(A. MacIntyre, 1984).
La nozione chiave di phronesis e di ractio
practica come regola ultima dell’agire che
implica la definizione non in astratto del bene
proprio connesso all’azione, ma all’interno della
situazione e della sua evoluzione.
Ciò richiede la capacità di misurare il proprio
agire secondo il continuo riproporsi della
domanda di quale sia il bene del paziente da
assicurare nello sviluppo della sua condizione
patologica, ponendosi comunque attentamente
in ascolto della sua volontà.
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Non si tratta della flessibilità delle norme
(relativismo morale), ma della ridiscussione
dei giudizi su cosa sia buono e doveroso
all’interno di una situazione a partire dalle
indicazioni generali offerte dai principi.
Ciò non disimpegna la responsabilità del
soggetto agente dall’onere dalla propria
decisione assumendo in chiave positiva la
propria forza motivazionale e l’umanità
della sua partecipazione al destino del
paziente, insieme al quale ciascun
operatore sanitario è chiamato a verificare
ciò che è prioritario in vista del suo bene.
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Questo modello cerca di rimediare
all’astrattezza dei principi «con il
riferimento alla flessibilità dei giudizi
prudenziali e l’avvertenza della storicità
delle norme e della situazionalità
dell’azione; d’altra parte, essendo le virtù
espressione di un’eccellenza nell’agire
pratica, esse assolverebbero al compito di
indicare modelli di azione e ispirare
comportamenti di azione […] a cui la
regola di per sé non impegnerebbe»
(Mordacci, 1996, p. 101).
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Il soggetto agente, come soggetto
virtuoso si lascia mettere in questione
dalle scelte che è chiamato a fare.
«La virtù è la disposizione a lasciarsi
interrogare
dalla situazione
e
ad
approfondire
la
provocazione
dell’esperienza nell’esercizio della ragione,
fino a reperirne il senso e quindi a
determinare la migliore traduzione di
quest’ultimo
sul
piano
dell’agire»
(Mordacci, 1996, p. 106).
La tenacia terapeutica
nelle situazioni critiche
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Oltre l’alternativa accanimento e abbandono
terapeutico come modelli di azione opposti che
tradiscono ugualmente l’incapacità di leggere la
situazione reale del paziente.
La
tenacia
terapeutica,
intesa
quale
«atteggiamento e conseguente comportamento
del medico, che, in presenza di possibilità
ragionevoli di un’evoluzione positiva del quadro
clinico e di un miglioramento della qualità di vita
del paziente, continua nella ricerca e nell’uso di
tecniche diagnostiche e di strumenti terapeutici
appropriati» e proporzionati alla sua situazione
(CNB, 1995).
Due chiavi dall’etica “cattolica”
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Il principio di proporzionalità
La continuità di cura: il caso
dell’alimentazione e idratazione
Il criterio della proporzionalità
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“E’ lecito interrompere l’applicazione di mezzi quando i
risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel
prendere una decisione del genere si dovrà tener
conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi
famigliari, nonché del parere di medici veramente
competenti: costoro potranno senza dubbio giudicare
meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di
personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se
le tecniche messe in opera impongono al paziente
sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne
possono trarre”. Tale giudizio di proporzionalità può
essere formulato: “mettendo a confronto il tipo di
terapia, il grado di difficoltà e il rischio che
comporta, le spese necessarie e le possibilità di
applicazione, con il risultato che ci si può aspettare,
tenuto conto delle condizioni del malato e delle sue
forze fisiche e morali” (Dichiarazione vaticana
sull’eutanasia, 1980).
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Nel processo decisionale, alla luce di questa visione, il
medico non è un passivo o rassegnato spettatore o
semplice esecutore della volontà del proprio paziente,
ma deve essere “interprete” del suo vero “desiderio”.
«La richiesta di sospendere le cure dovrà spesso essere
ostacolata e dilazionata ed il malato dovrà essere aiutato
a superare i momenti difficili nei quali il desiderio di
vivere si oscura: in molti casi dovrà essere salvato dalla
sua disperazione, anche contro una volontà verbalmente
espressa […] Ma alla fine il malato non può essere
obbligato a rimanere in vita in situazione penosa» (M.
Chiodi).
Ciò non significa, però, l’applicazione meccanica di un
principio di autodeterminazione, ma lo sviluppo di una
relazione in un processo terapeutico tra il paziente e il
medico, basato sulla pratica della verità.
La continuità di cura: il caso
dell’alimentazione e dell’idratazione
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La formulazione tipica del magistero cattolico:
«la somministrazione di acqua e cibo, anche
quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti
sempre un mezzo naturale di conservazione
della vita, non un atto medico. Il suo uso
pertanto sarà da considerarsi, in linea di
principio, ordinario e proporzionato, e come
tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui
e fino a quando esso dimostra di
raggiungere la sua finalità propria, che
nella
fattispecie
consiste
nel
procurare
nutrimento al paziente e lenimento delle
sofferenze» (Giovanni Paolo II, 20/03/2004)
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«Nell’affermare che la somministrazione di cibo e acqua è
moralmente obbligatoria in linea di principio, la
Congregazione della Dottrina della Fede non esclude che
in qualche regione molto isolata o di estrema povertà
l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non
essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo
tenetur, sussistendo però l’obbligo di offrire le cure
minimali disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi
necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude
neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente
possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi,
diventando così del tutto inutile la loro somministrazione.
Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in
qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali
possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità
o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a
complicanze nell’uso di ausili strumentali».
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Se esistono criteri di eticità per iniziare o
no un trattamento gravoso e necessario;
ne dovrebbero esistere anche per la
decisione di interrompere tale trattamento
o no.
«Ciò che può non essere voluto, può
essere anche sospeso. […] È la
sospensione di una atto – che implica in
qualche misura un intervento tecnico – nel
cui contesto complessivo non si riconosce
più il senso terapeutico originario» (M.
Chiodi)
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Potete contattarmi all’indirizzo e-mail:
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 Vi ringrazio per l’attenzione!
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