Sant’Agostino e la scoperta della
libertà
Aristotele, la virtù, la felicità e la
libertà
1
Le scienze pratiche
• Se le scienze teoriche, come la metafisica e la fisica,
studiano ciò che esiste indipendentemente
dall’uomo, quelle produttive e pratiche riguardano
ciò che dipende dall’agire umano.
• Questo può essere produttivo, nel caso sia finalizzato
a fabbricare oggetti (le arti e le tecniche) o pratico se
rivolto a conseguire un bene. Nel primo caso si ha
una poìesis, nel secondo una pràxis, con le relative
discipline.
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Il bene dell’uomo
• Tra le scienze pratiche che si concentrano sulla pràxis, si
distingue l’etica, che riguarda il conseguimento di un bene
individuale, e la politica che è rivolta a studiare il bene che
riguarda la comunità (la pòlis).
• In generale ogni attività umana è per Aristotele finalizzata a
raggiungere un bene ritenuto tale da chi la compie.
• Tra i beni vi sono quelli ricercati in funzione di altri beni e
quello che si trova al vertice di tutti i beni. Quest’ultimo è
ricercato non in funzione di altro ma per se stesso.
• Tale bene è la felicità.
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La felicità
• Ma che cos’è la felicità? Aristotele è perfettamente consapevole che del
concetto esistono le più diverse interpretazioni. Egli allora propone di
sottolineare che l’attività che rende felici deve essere un’attività che
raggiunge il massimo bene per l’uomo e il massimo bene è ciò che meglio
realizza la qualità più propria e alta della persona. Dunque la felicità deve
avere una relazione con l’esercizio della ragione che è ciò che ci eleva al di
sopra degli altri viventi. La ragione si esercita al suo grado più alto laddove
ricerca il suo oggetto specifico, la sapienza.
• Dunque la felicità consisterà nell’ottenere il bene della sapienza, bene che
soddisfa in sé, non è cercato in vista di altro e che si consegue tramite
l’attività intellettuale.
• Ovviamente ciò comporta la necessità di aver già soddisfatto alcune
esigenze materiali della vita quotidiana, che altrimenti premerebbero e
distoglierebbero l’uomo dal suo fine (quindi bisogna avere dalla propria
anche una certa fortuna – eutychìa, buon fato, lo chiama Aristotele).
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La virtù suprema
• Dunque ciò che ci permette di conseguire la felicità è
l’esercizio di una facoltà, la ragione.
• Virtù in generale per Aristotele è un habitus, cioè un
comportamento abituale ottenuto con un esercizio
costante di un nostro “talento”.
• La virtù suprema è la sapienza, ottenuta con l’esercizio
abituale del logos. A tale virtù vanno ordinate tutte le
altre.
• La sapienza porta con sé, quale sua conseguenza,
anche il piacere, un diletto che non è ciò che va cercato
direttamente, ma ciò che arriva dopo la virtù (diremmo
il fiore che sboccia sulla virtù).
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Virtù etiche
• Nella complessità dell’animo umano esistono diverse
tendenze che vanno ordinate al conseguimento della
virtù. Vi sono quindi virtù intermedie, l’esercizio delle
quali aiuta a tenere a freno gli impulsi sensibili che
continuano a influenzare la vita delle persone, anche
una volta che si siano soddisfatti i bisogni primari.
Questi desideri sensibili, se lasciati a se stessi,
disperderebbero l’agire umano nei mille rivoli delle
voglie momentanee ed effimere legate alla pura
corporeità. Le virtù che le moderano sono chiamate
da Aristotele virtù etiche.
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Esempi di virtù etiche
•
Coraggio, liberalità, temperanza, giustizia sono da collocarsi tra le virtù etiche.
Esse individuano un agire umano che rifugge da ogni eccesso ed è
caratterizzato dall’abitudine riflessiva a porre nei confronti di ogni tendenza il
freno del logos. Così, per raggiungere questo atteggiamento virtuoso, è
necessario scegliere costantemente il giusto mezzo tra due estremi che ci si
propongono quali opzioni su cui regolare il nostro agire.
• Per esempio di fronte ad un ostacolo arduo da superare, si potrebbe fuggire
con paura o aggredire con temerarietà: la paura ci riporta indietro ad una
condizione in cui l’ostacolo mai potrà essere superato, la temerarietà ci fa
sottovalutare l’entità del pericolo che comporta la nostra azione, facendoci
rischiare in modo inutile e non calcolato.
Il coraggio rappresenta il giusto mezzo che fa valutare correttamente l’oggetto del
nostro agire, non allontanandoci dall’azione, ma promuovendo la corretta
strategia per ottenere successo.
Così questa virtù ha frenato gli atteggiamenti immediatamente sensibili (paura e
aggressività) e ha collocato la nostra azione su un piano più razionale, cioè più
pienamente umano.
7
La giustizia
• La giustizia è la più importante tra le virtù etiche, essendo
caratterizzata nella sua stessa definizione da quella medietà (non a
caso indicata con la locuzione “giusto mezzo”) cui tutte le altre
devono far riferimento. Essa comporta il rispetto delle leggi dello
Stato che condizionano positivamente l’intera vita morale.
• In generale la giustizia riguarda due tipi di comportamento:
La giustizia distributiva attribuisce a ciascuno ciò che gli spetta
La giustizia commutativa o correttiva, retribuisce con un ricompensa o
un premio un dato comportamento. Essa riguarda i contratti di
compravendita, in cui ad un bene corrisponde una data somma di
denaro, o anche i cosiddetti contratti fraudolenti (furto, rapina,
omicidio) in cui all’agente viene comminata una correzione
consistente in una pena proporzionata che ristabilisce la parità tra
chi ha subito il contratto e chi lo ha promosso.
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Le virtù dianoetiche
• Le virtù dianoetiche riguardano la diànoia cioè la conoscenza,
ovvero l’esercizio della razionalità e dunque si collocano sul piano
più elevato della gerarchia delle virtù. Esse sono così ordinate in
ordine crescente di importanza:
• Arte- buon esercizio della ragione nelle attività produttive
• Saggezza – buon uso della ragione in generale nella scelta dei mezzi
per conseguire un fine, cioè nella costruzione di razionali strategie
d’azione nelle più mutevoli e varie circostanze.
• Intelletto- saper cogliere intuitivamente e sinteticamente i principi
primi di ogni scienza.
• Scienza- capacità deduttiva, dai primi principi, di ciò che ne
consegue necessariamente.
• Sapienza – culmine della virtù…
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La sapienza
• La sapienza è la capacità di usare in modo
correlato e armonico intelletto e scienza al fine di
conoscere la totalità del reale e le sue cause
prime. Essa individua il fine dell’agire umano, che
tuttavia ha bisogno di mezzi per essere raggiunto,
cioè si serve della saggezza così come la salute si
serve della medicina.
• Il sapiente conduce una vita teoretica (bìos
theoretikòs), cioè il modello di una vita umana
pienamente realizzata.
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La libertà (Etica Nicomachea, libro
III)
«Poiché la virtù concerne passioni e azioni, e su quelle
volontarie sorgono elogi e biasimi, su quelle involontarie
perdòno e talvolta anche compassione, è senz’altro
necessario per coloro che indagano sulla virtù determinare
il volontario e l’ involontario…» (III,1, 1009 b).
Il tema etico, cioè la scienza che concerne le azioni, non può
prescindere nelle sue valutazioni dalla questione del
volontario e dell’involontario, poiché questa orienta in
modo diverso il giudizio morale.
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Le azioni involontarie
Il primo passo nell’indagine sottolinea che le
azioni INVOLONTARIE sono quelle dovute
1)a costrizione,
2)a ignoranza
Si definiscono le azioni costrette quelle «il cui
principio è fuori dal soggetto». Tali azioni non
dipendono in nessun modo dall’individuo, il
quale neanche vi porta una sua collaborazione.
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Difficoltà: le azioni compiute per timore di un
male o in vista di un bene
Dal punto di vista della loro classificazione, vi sono azioni che
suscitano qualche perplessità. Sono quelle in cui vi è una
motivazione molto forte perché vengano evitate o compiute.
Tale motivazione può essere o un male molto grande da evitare
o un bene molto grande da ottenere.
Qui Aristotele riconosce che la nostra volontà risulta essere
molto influenzata, ma non al punto da risultare “disattivata”.
Infatti le azioni dovute al suddetto tipo di motivazione sono
comunque il prodotto di un orientamento, che origina nel
soggetto, per quanto influenzato da moventi esterni. A riprova
della loro volontarietà sta il fatto che esse sono oggetto di lode o
biasimo.
13
Le azioni compiute per ignoranza
• Sono quelle che sono compiute senza conoscere le circostanze in
cui si svolgono. Un esempio può essere fornito da un uomo che
aziona il comando di un meccanismo senza sapere di che cosa si
tratti. Questa ignoranza rende l’azione involontaria. C’è però
bisogno di una conferma a posteriori che ne dimostri
l’involontarietà al di là di ogni dubbio: questa è data dal dolore
che si prova per l’azione compiuta. In effetti l’atto non sarebbe
pienamente involontario se, dopo averlo eseguito, se ne
provasse compiacimento, poiché ciò dimostrerebbe che vi era
una sorta di tendenza della volontà a compierlo, anche se essa
non era affiorata al livello del concetto o della parola.
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Le azioni compiute per negligenza
• Se io ignoro la regola generale della condotta, cioè il criterio
che in una data circostanza dovrebbe guidare la mia azione,
ciò non significa che la mia azione non sia voluta. E’ voluta ma
io non so che è male. Diremmo oggi: è un’azione negligente.
L’ignoranza riguarda il fatto che ciò che sto commettendo è un
errore. Il cannibale vuole cibarsi di carne umana, ma non sa
che è male. L’ubriaco che ha perso il controllo di sé, fa quello
che comunque vuole, ma quello che vuole non è sottoposto al
vaglio critico della ragione, e dunque risulta essere male.
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In polemica con Socrate
• Per Socrate nessuno volontariamente commette il
male. Aristotele sottolinea che se l’ignoranza di ciò che
si deve o non si deve fare determina la viziosità
dell’azione che si compie, ciò non impedisce che
l’azione risulti lo stesso voluta (io volevo fare proprio
quello, anche se non sapevo che quello era male).
L’ignoranza del vizioso è dunque motivo non della
possibilità di scusarlo, ma del dovere di condannarlo.
Egli infatti agisce pur non sapendo come si deve agire.
Qui sta la sua responsabilità e la sua colpa.
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Le azioni volontarie
• Nel paragrafo terzo dell’Etica Nicomachea Aristotele definisce
le condizioni dell’atto volontario ex contrario rispetto a quelle
dell’atto involontario:
Se l’atto involontario
• è compiuto per costrizione (cioè ha il proprio principio fuori
dal soggetto) e
• se è compiuto nell’ignoranza delle circostanze;
QUELLO VOLONTARIO
avrà il proprio principio nel soggetto
e sarà compiuto conoscendo le circostanze dell’agire.
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Brama e impulso
• Brama, desiderio, impulso e impeto non sono cause dell’involontarietà di un atto.
Altrimenti di direbbe che gli animali e i bambini non agiscono volontariamente
(importante notazione che estende la nozione di volontà anche agli animali;
domanda: se le azioni degli animali sono volontarie, esse sono anche libere? Forse
l’osservazione di Aristotele indurrebbe a non sovrapporre completamente la
nozione dei volontarietà con quella di libertà).
Le cose belle, pur compiute per dovere, ma desiderando compierle, sono forse
involontarie?
Se le cose compiute involontariamente (per ignoranza) implicano dolore, come mai le
cose belle compiute per brama implicano piacere? (evidentemente non sono
involontarie…)
E quelle cattive sono tali sia se si commettono per calcolo sia per impulsività, infatti
appartengono ad ugual titolo alla natura umana e sono entrambe volontarie.
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La scelta deliberata
“È comunemente ammesso che (la scelta deliberata) è cosa
molto affine alla virtù” (Etica nicomachea III, 4, 1111b),
infatti un’azione consegue il suo fine se delibera sui mezzi
più idonei a farlo. La deliberazione quindi è
indispensabile all’azione virtuosa.
DA NOTARE: la prima parte della frase citata riguarda una nozione
“comunemente ammessa”. Non si tratta di un discorso
metodologicamente pressapochistico: tutto il sapere etico, secondo
Aristotele, è fondato su premesse endossali, cioè non su principi di
assoluta evidenza, ma sulle opinioni autorevoli della polis e comunemente
accolte dai sapienti (éndoxa). Ciò rimarca lo spazio di dubbio, di non
necessità, in cui giocano le nozioni etiche o, in modo più ottimistico, la loro
flessibilità che non inficia affatto le conclusioni, ma le rende anzi più
aderenti alla variegata molteplicità dei caratteri e dei costumi umani.
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Atto volontario e scelta deliberata
• Se la scelta deliberata è sicuramente
volontaria, l’atto volontario non le
completamente sovrapponibile. Infatti il
concetto di atto volontario è più esteso perché
comprende
1) gli atti dei fanciulli e degli animali
2)gli atti compiuti senza riflettere, ma voluti.
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Volontà e scelta deliberata
• Ma la stessa volontà non è assimilabile
completamente alla scelta deliberata infatti
Quest’ultima può volere l’impossibile
Può volere cose che non dipendono dal
soggetto.
La scelta invece riguarda i mezzi per ottenere un
fine che è a portata del soggetto che sceglie.
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Opinione e scelta deliberata
• Nell’ultima parte di Etica nicomachea III,4 Aristotele
sottolinea il carattere pratico e non teoretico
dell’obiettivo della scelta. Essa non è opinione nel
senso che non intende determinare
conoscitivamente un oggetto, ma stabilire come tale
oggetto possa essere ottenuto tramite un agire
razionale. C’è quindi proprio una differenza di genere
tra le due cose da tutti constatabile quando si
osservano persone che, malgrado abbiano buone
opinioni, operano scelte cattive.
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L’atto volontario e la scelta deliberata differenti
come genere e specie
• Se la scelta è atto volontario ma non coincide con
questo, ciò significa che essa è una particolare specie
di atti appartenente al genere degli atti volontari.
Qual è la sua differenza specifica?
• L’oggetto della scelta si differenzia da quello della
volontà per essere stato vagliato da una precedente
riflessione razionale. Questo è, diremmo, il suo tratto
distintivo.
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“Electio est appetitus consequens
consultationem”
• Questa frase vergata da un autorevole
commentatore seicentesco di Aristotele (Silvestro
Mauro – cit. in Aristotele, Etica nicomachea, a cura di
M. Zanatta, Rizzoli, Milano, 1994, p. 460) illustra
bene il concetto aristotelico di scelta deliberata. Essa
(l’electio) è volontà-desiderio (appetitus)
conseguente ad una riflessione razionale
(consultationem). Laddove ovviamente la consultatio
avviene prima dell’electio.
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Su che cosa (non) si delibera
(Etica nic. III,5)
• Dopo aver stabilito che cosa è la scelta deliberata, Aristotele
passa all’analisi dell’oggetto proprio della scelta.
• Anzitutto, data la sua intrinseca razionalità, essa riguarda gli
uomini voùn échon, cioè dotati di senno.
• Non riguarda poi le cose indipendenti dall’uomo (per esempio il
modo in cui è fatto l’universo).
• Nemmeno le cose il cui divenire avviene secondo necessità, per
esempio il succedersi delle stagioni o il sorgere degli astri.
• E nemmeno, diremmo oggi, le cose che avvengono secondo
casualità naturale (i periodi di siccità o le piogge) o per fortuna
umana (la scoperta di un tesoro).
• Infine si delibera su alcune cose umane ma non su tutte (non
sulla legislazione di un paese straniero, per esempio).
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Potere e no
• Insomma non si delibera sulle cose
che NON sono in nostro potere
bensì, su quelle che “dipendono da
noi e sono oggetto di azione” (Etica
III, 5).
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Ci deve essere spazio, gioco per
decidere
• Sulle cose oggetto delle scienze rigorose non si
delibera (cioè su come deve essere fatta una casa per
stare in piedi secondo le leggi fisiche), bensì su quelle
che sono oggetto della nostra azione e, d’altro canto
“non sono sempre nello stesso modo”: per esempio
su una strategia medica, sull’arte di governare una
nave etc. Cioè laddove non vi è un percorso
prestabilito con assoluta esattezza, ma vi possono
essere dei dubbi.
• Quindi si delibera sulle cose che avvengono per lo
più e di cui “non si sa come finiranno”.
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Non i fini ma i mezzi
• Non si delibera poi sui fini ma sui mezzi.
• Ogni azione ha in fatti un fine cui tende per natura –
il bene – che o è compreso o non è compreso, ma
non può essere deciso (il medico non può decidere
se guarire o no il paziente, né il pilota se guidare
bene o male la nave). Si decidono invece quali siano
gli strumenti migliori per raggiungere lo scopo
laddove esiste una complessità da districare.
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Come avviene la deliberazione
Si delibera sui mezzi, una volta che i fini siano
dati. La deliberazione è la ricerca del mezzo
migliore, tra quelli disponibili in vista del fine.
Oppure è la ricerca del mezzo per raggiungere
un altro mezzo, per conseguire il fine. Cioè:
qualora vi sia un mezzo indiscutibilmente da
utilizzare, si vedrà quale sia il mezzo migliore per
ottenerlo, fino ad arrivare al mezzo più a portata
di mano.
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Per esempio
• Per esempio se devo andare a scuola, e il mezzo
migliore è l’autobus, dovrò trovare il mezzo che mi
consente di arrivare all’autobus e di prenderlo (p. es.
l’essere vestiti, avere un paio di scarpe e procurarsi il
biglietto), e per ottenere questo mezzo, dovrò essere
a casa e aprire l’armadio, la scarpiera e avere i soldi
per il biglietto e così via fino all’azione che mi è più a
portata di mano (p. es. l’alzarmi dal divano dove fino
ad adesso sono stato seduto).
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Ordine dell’analisi e della
generazione
• Il mezzo che trovo per ultimo è quello più
vicino a me, e dunque genererà la prima
azione che compio (p. es. alzarmi dal divano).
Mentre l’ultima azione che compio prima di
raggiungere il fine corrisponde al primo mezzo
che nella mia analisi ho trovato (p. es.
prendere l’autobus). Dunque «ciò che è ultimo
nell’analisi è il primo nella generazione» (e
viceversa – Etica III, 4 , 1112 b)
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Il possibile
• Oggetto della deliberazione è il possibile e ciò
che dipende da noi, cioè il cui principio è in
noi: «la deliberazione riguarda ciò che può
essere fatto da colui stesso che delibera»
(ibidem). Il processo della deliberazione, non
va all’infinito, ma inizia con il mezzo che va
trovato in vista del fine e finisce con quello più
prossimo al soggetto deliberante.
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Deliberazione e scelta
• La deliberazione è la riflessione che precede la
scelta, cioè la decisione di agire. La scelta
arriva dopo aver deliberato. Un volta
deliberato, si desidera in vista delle azioni che
sono state deliberate. Una volta che ho
trovato i mezzi per il fine, li desidero e scelgo
di agire.
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La volontà e il suo oggetto
• Nel capitolo successivo Aristotele presenta un
problema circa il fine della volontà. Che cos’è il fine
della volontà (che non è oggetto di deliberazione)?
• O il bene – ma allora chi non sceglie rettamente non
vuole poiché si vuole solo il bene.
• O ciò che sembra bene a ciascuno - ma allora, visto
che a ciascuno possono sembrare bene cose diverse
e contrarie, la volontà sceglierebbe cose contrarie e
inconciliabili.
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Volontà in senso assoluto e per
ciascuno
• Per uscire dall’impasse, Aristotele dice che la
volontà «in senso assoluto e secondo verità»
vuole il bene, ma poi esso è concepito in
modo diverso a secondo del soggetto che
vuole: colui che vuole rettamente, vorrà il
bene, il «miserabile» vorrà ciò che a lui
sembra bene – per lo più accade che costui
scambi il bene con il piacere – ma non lo è.
35
Volontario = libero?
•
Da quanto ha appena detto Aristotele possiamo
dedurre la risposta alla seguente domanda:
“Volontario e libero coincidono?” Tenuto conto che
libero è quel soggetto che
1) autonomamente
2) sceglie fra alternative,
Possiamo rispondere
1) Sì, è libero in quanto l’azione volontaria ha il suo
principio nel soggetto stesso
2) No, in quanto la volontà ha per sé un oggetto
assoluto e naturale, il bene.
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Libera è la proairesis (deliberazione,
scelta)
• Tecnicamente parlando, la volontà dunque, avendo un fine
prestabilito, non è libera. La libertà sta invece in quella specie
di azioni volontarie che ricercano i mezzi migliori per
raggiungere il fine voluto. Stabilito, quindi, un fine ultimo per
la volontà, essa si rivolge alla valutazione degli strumenti che
le consentano di ottenerlo. Qui vi è una certa pluralità di
opzioni che sono sottoposte al vaglio del soggetto. Pertanto,
nel procurarsi i mezzi, il soggetto è principio dell’agire, perché
è in lui la facoltà di guadagnare a sé il mezzo, e inoltre opta tra
alternative, ossia i vari mezzi che ha di fronte a sé e tra i quali
sceglie il migliore. Di conseguenza la volontà retta, cioè la
volontà che non è distolta dal giusto fine dall’interferenza del
piacere, è orientata naturalmente al fine ultimo ed è libera
nella scelta dei mezzi.
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Volontarietà della virtù e del vizio
(Etica nic III,7)
• La virtù è quella caratteristica del comportamento
umano che ci indica i mezzi per conseguire il fine
supremo dell’uomo, la felicità e il bene, cui la volontà
retta per sua natura tende. Quindi “la virtù dipende
da noi, e anche il vizio”.
• Così, tirando le conclusioni del suo discorso
precedente, Aristotele sottolinea ancora la differenza
tra la sua impostazione e quella socratica riassunta
nel detto: “Nessuno è volontariamente perverso né
involontariamente infelice”.
38
Volontariamente siamo felici,
volontariamente siamo perversi
• Sarebbe assurdo ricondurre le azioni virtuose,
provenienti da una deliberazione volontaria che
consente di raggiungere il nostro fine, all’uomo che
agisce, ma non farlo quando si tratta di azioni viziose
che ce ne allontanano. Se dunque la felicità ha da
essere volontaria perché frutto di scelte consapevoli
e corrette, la perversione e l’errore sono parimenti
volontari perché frutto di scelte ugualmente
consapevoli, ma scorrette.
39
Legislatori e cittadini
• Legislatori e cittadini infatti lodano la virtù e biasimano il vizio
in maniera perfettamente speculare, ritenendoli entrambi
frutto di scelta volontaria. Ciò non sarebbe giustificabile se le
azioni virtuose o viziose non fossero volontarie.
• Ciò vale anche per quelle disposizioni (qualità del carattere
nate dalla reiterazione di molteplici atti dello stesso tipo e
dall’acquisizione di un’abitudine a mantenere in determinate
circostanze sempre gli stessi comportamenti) virtuose e/o
viziose che sono comunque frutto di una scelta iniziale, che è
in potere di chi sceglie, anche se una volta nata la disposizione
è molto difficile tornare indietro (soprattutto nel caso dei vizi
consolidati).
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Nobiltà e pusillanimità
• Certo quando si è dotati per natura è più facile
diventare virtuosi, tuttavia in ogni caso, dice
Aristotele, la natura orienta ma non stabilisce in
modo definitivo le qualità dei soggetti. Dunque il
virtuoso sarà colui che efficacemente e
volontariamente ha realizzato dei doni naturali, o
efficacemente e volontariamente ha sopperito alla
loro mancanza, mentre il vizioso sarà colui che non
ha coltivato i propri talenti naturali o non ha cercato
costruire con uno sforzo abitudine positive, pur non
avendo una grande dotazione naturale.
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Libertà in Aristotele
• In conclusione possiamo dire che Aristotele, rispetto a
Platone, sottolinea in modo molto più marcato la
responsabilità che ciascuno ha nelle proprie azioni, poiché
delle proprie azioni un soggetto può essere considerato il
principio. Tale principio risiede nella loro volontarietà. Tuttavia
essa si manifesta non in ogni frangente della vita etica, poiché
noi non siamo liberi di orientare la nostra volontà
indifferentemente al bene o al male. Infatti essa è già rivolta
per natura a ciò che è bene. Il fine ultimo della nostra vita non
è liberamente autodeterminato, ma lo sono soltanto le azioni
che scelgono i mezzi per conseguirlo.
42
Una libertà limitata
•
•
•
•
•
Si tratta pertanto di una libertà limitata, circoscritta ad alcune scelte, ma non alle
supreme, per le quali rimane l’alternativa platonica, e greca nel suo più ampio
significato antropologico-culturale, tra il giusto razionale e l’errore irrazionale.
Si potrebbe domandare a questo punto: “Che cosa fa in noi prevalere la ragione o
si arrende all’irrazionalità?”
Ancora un volta la volontà che però non può mettersi in moto se non ha a sua
volta un criterio secondo cui agire, e tale criterio è dato in modo circolare dalla
ragione o dal piacere irrazionale.
In questo circolo si gioca la possibilità di definire la libertà, in un concetto che
oscilla tra il tradizionale intellettualismo greco e una visione più ampia dell’anima
umana laddove sono compresenti una facoltà intellettiva e razionale accanto ad
una appetitiva e volitiva in un rapporto simbiotico e difficilmente dipanabile.
Detto rapporto in ultima istanza è risolto da Aristotele in modo intellettualistico,
postulando un tendenza NATURALE della volontà verso un fine buono, cioè verso
una spontanea sottomissione alla parte più alta e razionale dell’interiorità umana.
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La volontà che non si sottomette
• La volontà che non si sottomette alla ragione, e che viceversa
segue il piacere, si arrenderebbe quindi ad un impulso contro
natura, cioè ad un’inclinazione a non rispettare l’ordine delle
cose, potendo farlo, cioè in ultima analisi essendo libera di
farlo. Ma tale libertà non può essere considerata un elemento
positivo perché comporta il passaggio dalla sottomissione
della volontà ad un’istanza più alta (la ragione) alla
sottomissione ad un’istanza più bassa (il piacere). Tale
scadimento evidentemente non ha nulla di libero, ma
comporta una maggiore schiavitù. Ma qui siamo già bene
oltre Aristotele…
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