N° 1 - GENNAIO 2015 - TEVET 5775 • ANNO XLVIII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
ISRAELE
ITALIA
ITALIA
ELEZIONI PRO
O CONTRO NETANYAHU
27 GENNAIO
PER NON DIMENTICARE
BENIGNI E I DIECI
COMANDAMENTI
‫בס’’ד‬
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Nonostante tutto
bisogna essere ottimisti
Israele sogna il grande gol
FOCUS
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UN BUON SEGNO
TESTAMENTI
I progetti di Lasciti e Donazioni danno pieno valore
alle storie personali e collettive degli amici del popolo
ebraico. Un testamento è una concreta possibilità per
aiutare oggi e domani l’azione del Keren Hayesod.
FONDI
Il nostro buon nome dipende dalle nostre buone azioni.
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associandola ad un ambito di azione da te prescelto. I
temi ed i progetti non mancano.
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alternative - Futuro dei giovani - Sicurezza e soccorso
- Restauro del patrimonio nazionale. Progetti delicati,
dedicati, duraturi nel tempo. Di cui sei l’artefice.
Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891
Responsabile della Divisione Testamenti Lasciti
e Fondi del Keren Hayesod Italia vi potrà dare
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Enrica Moscati - Responsabile Roma
Tu con il Keren Hayesod
protagonisti di una storia
millenaria
KEREN HAYESOD
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EDITORIALE
È
di soli pochi giorni fa
l’annuncio ufficiale - giunto
dal Ministero della Difesa
israeliano - che l'operazione
militare 'Barriera protettiva' svoltasi a
Gaza lo scorso giugno, e durata 50
giorni, è da considerare a tutti gli
effetti una vera e propria 'guerra'. Quel
lungo e sanguinoso scontro tra
l'esercito israeliano e le forze di
Hamas nascoste in mezzo alla
popolazione civile palestinese era già
stato immediatamente percepito
dall'opinione pubblica, soprattutto
israeliana, come una 'guerra sporca',
per le difficoltà di un esercito regolare
sottoposto a precise regole di ingaggio
a operare tra strade, palazzi, colpendo
nemici senza divisa, camuffati,
disposti a sacrificare donne e bambini
pur di arrecare danni materiali e di
immagine ad Israele.
Ora giunge l’ufficializzazione che
quell’operazione - a differenza delle
altre due operazioni condotte a Gaza,
“Piombo fuso” del dicembre
2008-gennaio 2009 e “Pilastro di
difesa” del novembre 2012 - è stata
una guerra a tutti gli effetti, sia per la
durata del conflitto, sia per il modus
operandi teso a distruggere da terra le
infrastrutture nemiche, sia per l'alto
numero degli israeliani morti (73, di
cui 67 soldati), oltre a circa duemila
vittime tra i palestinesi.
E così dalla fondazione dello Stato nel
1948, Israele ha dovuto sostenere ben
otto conflitti militari: la guerra araboisraeliana del 1948 (detta “guerra
d’Indipendenza”), la “guerra” di Suez
(1956), la “guerra dei Sei giorni”
(1967), quella del 1969-1970 contro
l’Egitto (detta “guerra d’usura”), la
“guerra del Kippur” (1973), la prima e
la seconda guerra del Libano (1982 e
2006). Rispetto a tutti gli altri conflitti
l'ultimo, quello del 2014, è la prima
guerra israelo-palestinese.
Questo arido elenco dovrebbe essere
sufficiente a dimostrare che il diritto
di Israele a vivere entro confini sicuri
- affermazione di principio che tutti a
parole sottoscrivono - non è stato e
non è ancora un principio ed un
valore che il mondo arabo vuole
sottoscrivere. Anzi il rifiuto verso
Israele si è evoluto e la rivendicazione
di parte dei territori persi si è
trasformata in una richiesta radicale
di rivendicazione di tutto il territorio
tra il Giordano e il Mediterraneo. È
ciò che chiede Hamas, è ciò che
auspicano l'Iran e Hezbollah, è ciò che
teorizza il Califfato dell'Isis, è ciò che
dicono parlando in arabo i leader di
Fatah che guidano l'Autorità
Nazionale Palestinese.
In un mondo normale l'Europa, gli
Stati Uniti, il Vaticano, dubiterebbero
della credibilità e della serietà di Abu
Mazen che all'estero parla di pace e a
Ramallah stringe accordi con Hamas
che nella sua carta costituente vuole
'gettare gli ebrei a mare'. In un
mondo normale la guerra che Israele
combatte contro il terrorismo
islamico, le misure straordinarie di
sicurezza che impone, la caparbia ed
eroica volontà di non cedere
nonostante il terrore che i palestinesi
cercano di portare nelle strade e
nelle case israeliane, sarebbero
portate ad esempio e costituirebbero
elementi per costringere i palestinesi
a trattare, pena la progressiva
diminuzione dei finanziamenti
internazionali. Ma nel mondo
rovesciato in cui oggi viviamo Abu
Mazen è un uomo di pace, Hamas
non è una organizzazione terroristica,
e l'Iran può essere un importante
elemento di stabilità dell'area. Nel
mondo rovesciato in cui viviamo
quanto più i palestinesi diventano
radicali e rifiutano ogni
compromesso, tanto più li si premia
aprendogli le porte delle
Organizzazioni internazionali. Nel
mondo rovesciato Hamas, nonostante
avesse costruito decine e decine di
tunnel per rapire ed uccidere
israeliani, ha ripreso a ricevere
ingenti finanziamenti internazionali
che ovviamente - essendo un mondo
rovesciato - non vengono controllati e
vengono utilizzati non per la
popolazione civile, ma per riarmarsi.
In questo mondo rovesciato è
normale che Barak Obama si sia
meritato il Nobel per la pace.
SHALOM‫שלום‬
COPERTINA
L'anno è nuovo, ma l'Isis
e l'Iran rimangono gli stessi
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FIAMMA NIRENSTEIN
L’illusione di chi crede
che Israele sia un Paese
riconosciuto dal mondo
UGO VOLLI
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Islamofobia
non è una parolaccia
ANGELO PEZZANA
Yom Kippur: per l’Onu
non è una festività religiosa
ALESSANDRA FARKAS
ISRAELE
Elezioni: un referendum
su “King Bibi”
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ARIEL DAVID
Israele, è allarme povertà
PIERPAOLO PINHAS PUNTURELLO
PENSIERO
Heidegger e il problema
dell’antisemitismo ‘metafisico’
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GIORGIO ISRAEL
27 GENNAIO 2015:
forse è tempo
di aggiornare l’agenda
PIERO DI NEPI
Elogio
della normalità
CLELIA PIPERNO
Una fuga
silenziosa
DAVID MEGHNAGI
EBRAISMO
Benigni, i Dieci Comandamenti
e le fonti ebraiche
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25
JONATAN DELLA ROCCA
Le responsabilità
dei giornalisti
secondo la Torà
DONATO GROSSER
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Un mondo rovesciato
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COPERTINA
L'anno è nuovo, ma l'Isis e l'Iran
rimangono gli stessi
Se non prendiamo coscienza con coraggio ed onestà delle minacce
che gravano sul mondo occidentale, attendiamoci un 2015 pieno di incognite
D
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
obbiamo ammettere con dispiacere che se una sola foto
dovesse mostrare l’immagine più importante, più sofferta e significativa di quest’anno, essa sarebbe quella
della decapitazione del giornalista americano James
Foley. Il camicione color arancio, il suo viso contratto, il mostro
incappucciato poi risultato essere un disk jockey di Londra che ha
aderito all’Isis e che con accento britannico spiega che la testa di
Foley è necessaria all’acquisizione del sommo fra tutti gli scopi del
genere umano, il Califfato Islamico, e che la colpa della morte (e
che morte) di Foley è tutta colpa
nostra perché tormentiamo e perseguitiamo i depositari dell’unica
verità per cui valga la pena di
vivere e vincere. Non sono le
immagini di un fatto di cronaca
ma il punto di svolta del terrorismo islamico, il segnale che ciò
che abbiamo di fronte è una battaglia senza quartiere contro un
pericolo molto più serio che nel
passato, peggiore di quello già
terribile inflittoci da Al Qaeda, comparabile a quello che ci propone l’Iran sulla strada della bomba atomica.
Il terrorismo dell’Isis è molto pericoloso, quanto lo è il rischio
nucleare Iraniano. Perché l’Isis è peggiore di Al Qaeda? Ci sono
parecchie e significative motivazioni. Innanzitutto, l’Isis ha tolto
ogni limite alla crudeltà, niente è proibito ai più bassi istinti della
natura umana in nome del Califfato Islamico: si può fare un’esibizione di teste tagliate, si può ergere in cima a una picca la testa di
un bambino, ci si può giocare a calcio, si possono mettere in fila
perversi gruppi di condannati a morte per le più varie ragioni, dal
4
fatto che siano sciiti al fatto che siano yazidi, oppure che siano
semplicemente abitanti di un villaggio che si vuole conquistare e
si può tagliare loro le teste una dopo l’altra in serie, vantandosi poi
sui social network di averlo fatto con una spada arrugginita perché il condannato soffrisse di più il fatto di essere un infedele. Si
possono mettere in fila i prigionieri innocenti davanti a un fiume
e ucciderli col colpo in testa mentre con un calcio li si butta nell’acqua. Si possono rapire, uccidere, torturare, stuprare, vendere al
mercato le donne di un villaggio
nemico, e incaricare le proprie
donne di diventare le kapò e le
tenutarie dei bordelli in cui le
schiave vengono utilizzate. Si può
anche uccidere senza pietà i propri stessi compagni solo che si
lamentino dopo essersi resi conto
che il loro viaggio in Siria o in Iraq
per unirsi all’armata dei mostri
non è esattamente come se lo
immaginavano. Anche i pentiti
sono vittime di stragi immediate.
In secondo luogo, l’Isis è diverso
perché oltre alla fortissima scelta ideologico-religiosa, ha un piano
di guerra molto preciso. Nato in Iraq sulle rovine di Saddam Hussein, impossessatosi dei suoi uomini e delle sue armi e poi avendo
conquistato quelle che gli americani avevano conferito all’esercito
iracheno, ha scelto innanzitutto di distruggere il confine con la
Siria, è infiltrato ormai in Egitto, in Libia, in Libano... con varie
alleanze come quella con una parte di Jabat al Nusra muove verso
la Giordania e Israele, insomma disegna non solo sulla carta geografica ma nella realtà un nuovo spazio territoriale in suo potere,
destinato ad allargarsi. Il suo esercito è in grado di combattere con
armi avanzate e pesanti, mezzi
corazzati, auto blindate, radar,
kalashnikov. In terzo luogo, sanno
come trovare soldi, molti soldi,
tramite i pozzi di petrolio occupati, le banche rapinate, i contributi
dei sostenitori, i ricatti per i rapiti. I loro stipendi sono abbastanza
alti rispetto alla zona, il loro esercito, molto bene organizzato, non
va mai all’attacco con meno di
500 uomini, ed è in parte mercenario e in parte volontario, e qui
viene la quarta differenza: Isis
può contare su volontari da tutto
il mondo, i suoi uomini sono spesso giovani di
Parigi, Londra, Roma, Boston, Ottawa, Sidney,
figli di immigrati che si sentono esclusi, fanatici alla ricerca di una causa, convertiti all’Islam
imbambolati dal lavaggio del cervello nelle
moschee, nelle madrasse, nei caffè dotati di
narghilé, e sui social networks, e anche ragazze che vedono un assassino travestito da eroe
e partono per l’avventura della loro vita, magari per sposarsi. Ogni idiota, ogni persona fragile di mente, isolata, in una situazione sociale
incerta, può diventare un assassino dell’Isis. E
poi tornano da noi e compiono attentati nelle
nostre strade, fra le nostre mura e questo
aspetto diventerà sempre più importante,
come si vede dall’intensificarsi degli attacchi al
grido di Allah hu Akbar a Parigi o a Sidney. E
qui viene un altro elemento che differenzia questo terrorismo dagli
altri. Nel passato, gli attacchi erano, per così dire, molto più complessi: si trattava in genere di un piano, il sequestro di un aereo,
di una nave, di una scolaresca, si pensava l’attacco per un evento
specifico, un personaggio determinato. Adesso, il social network
pieno di filmetti che definirei pornografici seguita a ripetere, fra
una bandiera nera e l’altra, di attaccare il nemico dovunque ti trovi
con qualsiasi arma. E così se hai un’automobile, un coltello, una
bottiglia di varechina sei invitato a usarli per la gloria dello Stato
islamico. Questo naturalmente rende molto larga la platea dei
Sar
tor
ia
cosiddetti “lupi solitari” che non
sono identificabili per un piano
che possa essere rivelato, scoperto, individuato dalla polizia o dai
servizi segreti. Un ulteriore problema, gradissimo, è che noi non
vogliamo ammettere ciò che
vediamo, che abbiamo paura di
essere accusati di islamofobia se
solo qualcuno decide di prendere
in considerazione il fatto che tutti
gli attentatori si dichiarano in
guerra per la conquista del
mondo al califfato. I politici si
affrettano a dichiararli degli squilibrati, dei mentecatti isolati, e quindi non cercano e non agiscono nel modo giusto. Senza
contare, che fino ad oggi le leggi contro il loro
rientro nel Paese di cui possiedono un passaporto da poco usato per andare a combattere in
Iraq o in Siria sono molto lasche, e prima di
accusare qualcuno di terrorismo da noi ci
vogliono prove che non hanno niente a che fare
col garantismo, sempre sacrosanto, ma solo col
politically correct, sempre sbagliato.
Dell’Iran abbiamo parlato molto volte: qui mi
limiterò a dire che niente può essere più sbagliato della scelta di Obama di affidare a un
eventuale Iran pacificato un compito di stabilizzazione del Medio Oriente. L'Iran è il patron
di Assad, degli hezbollah, di Hamas, del nuovo
Yemen conquistato dai suoi, è stata la forza
che con la persecuzione dei sunniti in Iraq ha di fatto spinto avanti la formazione dell’Isis. E’ un paese che ha appena lapidato una
ragazza, che era stata stuprata, per adulterio, che impicca gli
omosessuali, che perseguita i dissidenti e che persegue una politica genocida nei confronti di Israele. Niente, proprio niente potrà
trasformare la sua politica imperialista in una forza di stabilizzazione. Dobbiamo cavarcela da soli, con questi e con quelli, il califfato o lo stato islamico degli ayatollah hanno programmi di conquista opposti e simili. Buon 2015.
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GENNAIO 2015 • TEVET 5775
·
se
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COPERTINA
L’illusione di chi crede che Israele
sia un Paese riconosciuto dal mondo
Non vi è ‘amore’ per la causa palestinese, ma una fortissima antipatia
della comunità internazionale per lo Stato ebraico, accusato e spesso isolato
come nessuna altra democrazia
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
I
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l primo sentimento nel mondo ebraico e fra gli amici di Israele di fronte alle sconfitte diplomatiche degli ultimi mesi (le
mozioni a favore del riconoscimento di un’inesistente
“Stato di Palestina”, la sentenza della Corte di Giustizia
europea che mette in dubbio il
carattere terrorista di Hamas e in
fondo legittima l’organizzazione
islamista, l’appoggio europeo
all’”intifada dell’Onu” di Abbas,
eccetera), è stata certamente la
sorpresa. In molti settori del
mondo ebraico quel che è seguito
non è l’indignazione, esplosa in
Israele e fra i suoi amici, ma la
rimozione, il tentativo di dimenticare e di non considerare. Nessuna meraviglia, dato che altrettanto era successo con l’antisemitismo fascista e comunista (sempre
esistiti, sempre dichiarati, sotto sotto sempre praticati, ma pubblicamente esposti solo in certi periodi) e perfino con quello
nazista, che a lungo non fu preso sul serio da parti importanti
del mondo ebraico. Perfino di fronte alle prove chiarissime della
Shoà, circolate largamente nel mondo libero a partire dal 1943, il
vertice del grande ambiente
ebraico americano scelse di tacere, di non porre la questione.
Abbiamo fatto polemica sul silenzio del Vaticano di fronte al genocidio; dovremmo farlo anche per il
silenzio del New York Times (di
proprietà ebraica, allora come
oggi) e della parte più “progressista” della comunità ebraica americana. Sistematicamente il NYT
dava le informazioni sui Lager
nelle pagine interne, sommerse in
articoli con notizie varie sulla
guerra. I vertici comunitari americani evitarono in tutti i modi di
mettere Roosevelt di fronte alla
tragedia dello sterminio. Per non
metterlo in difficoltà, spiegarono poi, col suggerire che la guerra
dovesse servire a salvare gli ebrei. Il che la dice lunga.
Al di là del giudizio morale - che bisogna pur dare - sulla viltà
storica di buona parte della sinistra ebraica americana (e non
solo e non solo d’allora), sulla scelta comune ai “progressisti” di
allora e di oggi di privilegiare l’appartenenza politica alla lealtà
al popolo ebraico, bisogna innanzitutto chiedersi come mai la
valutazione della situazione politica internazionale da parte di
molti degli osservatori che si richiamano al mondo ebraico sia
così poco lucida. Bisogna cioè chiedersi non solo ragione della
rimozione e della sottovalutazione, ma anche della sorpresa,
dato che in fondo questa ragione è la stessa, è una forma di
illusione.
L’illusione è che il mondo abbia un atteggiamento normale nei
confronti di Israele, che abbia accettato la sua esistenza e naturalmente abbia superato ogni forma di antisemitismo (a parte
qualche isolato reazionario) e che quindi l’atteggiamento politico nei confronti di Israele dipenda esclusivamente dal suo modo
di agire: se si “comporta bene”, in
particolare naturalmente “facendo
la pace” coi “palestinesi” e rinunciando all’ “occupazione” dei “territori palestinesi”, Israele sarà
premiato, se non lo fa e quindi “si
comporta male”, in particolare
difendendosi dalle aggressioni,
allora e solo allora sarà punito. Lo
stesso giusto criterio si applicherebbe, secondo questa illusione, a
tutti gli altri paesi del mondo.
Si tratta, lo ripeto ancora, di un’illusione. L’Europa e le organizzazioni internazionali vogliono certamente che Israele “si comporti bene” rinunciando completamente ai territori conquistati nella guerra difensiva del 1967,
vogliono che ceda all’Autorità Palestinese Giudea e Samaria,
senza chiederle in cambio né di riconoscere la legittimità di uno
stato ebraico su un territorio conquistato a suo tempo dall’Islam
(che è la ragione teologica profonda della guerra ormai secolare che
gli islamici fanno contro Israele),
né di smilitarizzarsi, né di sancire
la fine della vertenza con Israele e
dunque di rinunciare a ogni altra
pretesa - come per esempio l’Italia
ottenne con l’Austria a proposito
dell’Alto Adige.
Ma tutto questo non basta. L’amministrazione Obama sta facendo
una dura battaglia legale, iniziata
in realtà già sotto Bush, per impedire che sul passaporto di un bambino di cittadinanza americana
nato a Gerusalemme (per chiarire,
anche se la distinzione ai miei
occhi non ha senso: a Gerusalemme Ovest, al di qua della “linea verde”) sia segnato come paese
di nascita Israele. Ciò significa non solo che il governo americano non intende riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, seguito in questo da tutti i paesi del mondo che rifiutano di
collocare le loro ambasciate a Gerusalemme anche al di qua
delle vecchie linee armistiziali, e dai giornali che ostinatamente
mentono parlando di “governo di Tel Aviv” o con la classica
figura retorica della sineddoche che “Tel Aviv ha fatto questo o
quest’altro” per indicare Israele. Vuol dire anche che gli Stati
Uniti non sono disposti a sottoscrivere nessun documento, neppure amministrativo come un passaporto, in cui si affermi che
Gerusalemme, qualunque parte di Gerusalemme, anche la sede
della Knesset o della Presidenza della Repubblica, siano parte di
Israele. Appena si chiudesse un riconoscimento dello “Stato
della Palestina”, verrebbe fuori la
contestazione della legittimità
dell’Israele del ‘49, i cui limiti,
come quelli successivi al ‘67 sono
il risultato di una guerra difensiva
vinta.
In realtà la simpatia della comunità
internazionale, o almeno delle sue
classi dirigenti politiche, per Israele è molto scarsa; lo dimostrano
non solo incidenti di percorso come
la conversazione registrata per
caso o fatta trapelare apposta qualche anno fa fra Obama e Sarkozy con toni ingiuriosi; ma anche le votazioni all’Onu e in altri
organismi internazionali, che finiscono regolarmente in una quasi
unanimità contro Israele, con i paesi occidentali schierati sistematicamente (salvo Usa, Australia e Canada) contro Israele e dalla
parte araba. La diplomazia internazionale, più in generale l’élite
politica europea e i “progressisti” di tutto il mondo preferirebbero
che Israele non ci fosse, lo considera una fonte di fastidi e di problemi, non hanno nessuna particolare ammirazione per la sua
democrazia o per il suo successo economico e tecnologico. E l’Europa sarebbe ben felice di ripetere il gesto del ‘73, quando rifiutò
il transito agli aerei americani che portavano rifornimenti vitali
per la sopravvivenza militare di Israele. Se si rifacesse oggi la
votazione che ha istituito lo stato di Israele nel ‘47 senza dubbio
lo stato ebraico perderebbe la partita non solo con i paesi del
Terzo Mondo, ma anche con quelli europei.
Questo spiega la sorpresa e l’illusione. Come gli ebrei occidentali fra l’emancipazione e la Shoà credettero in buona parte di
essere integrati e al sicuro da sentimenti medievali come l’anti-
semitismo e come in fondo molti
credono ancora questo dopo e
nonostante la Shoà, impegnandosi
a essere buoni cittadini, impegnati e di successo, con l’illusione che
i loro meriti politici e sociali, la
loro rispettabilità sociale, il loro
contributo economico li mettano
al sicuro dall’odio, così molti pensano che lo stesso valga per Israele. Non fosse che per quei fanatici
che continuano a occuparsi del
Tempio o vogliono insediarsi nelle terre degli avi, tutto sarebbe
facile, si potrebbe abbracciarsi con gli arabi che riconoscerebbero certamente la generosità e il carattere pacifico di uno stato
“progressista” e sarebbero ben contenti di dividere i “dividendi
della pace”, come dicevano i collaboratori di Rabin trent’anni fa.
E’ un bel sogno, peccato che la realtà l’abbia smentito: per i cittadini europei “di religione mosaica”, discriminati e uccisi nonostante la loro buona volontà e rispettabilità e per Israele che si è
dovuto salvare da solo e ancora lo deve fare dall’odio che lo circonda, con pochissimi amici veri nel mondo. Dobbiamo aspettarci altri
gesti “simbolici” come quelli dei parlamenti europei e della Corte
di giustizia dei mesi scorsi e anche che questi gesti diventino atti
politici reali: non per amore ai “palestinesi” o per “senso di giustizia” ma per odio verso Israele (e sullo sfondo non confessato,
per antisemitismo). Solo una grande capacità politica e una sicura
considerazione dei pericoli e degli obiettivi da parte del governo
israeliano, non l’illusione pacifista o il “pensiero desiderante” del
“volemose bene” potrà impedire che seri danni ne seguano.
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GENNAIO 2015 • TEVET 5775
È PIÙ DI UNA COMPAGNIA AEREA, È ISRAELE
7
COPERTINA
Islamofobia
non è una parolaccia
ino a non molto tempo fa leggevamo spesso, a difesa di
un islam ‘moderato’, che non andava confuso con l’islamismo estremista, perché "se è vero che i terroristi sono
tutti musulmani, non è vero che tutti i musulmani sono
terroristi". Una verità sicuramente da condividere ancora oggi, ma
con qualche verifica. La prima e più evidente è che è mancata la
presa di distanza dal terrorismo da parte della società musulmana
nel suo insieme. Ne conosciamo le ragioni, che però ci aiutano solo
in parte a capire perché questo distacco non si è verificato. Nei
viene invece presentato quale oppressore dei propri nemici, accusato persino di 'occupare' territori nei quali non esiste nemmeno
l'ombra di un ebreo - Gaza, per esempio - sempre presentata non
per quello che invece è: una entità che ha nel proprio statuto la
distruzione di Israele. Gli attentati che avvengono spesso nelle
città israeliane, per bene che vada, sono attribuiti a 'lupi solitari',
che agiscono non in base a un programma politico organizzato,
ma spinti dalla rabbia che gli attentatori provano per vivere in uno
Stato che li opprime. Così il cerchio si chiude, con la sola Israele
nella parte del responsabile. Che dietro a questi crimini ci sia una
ideologia che si richiama al Corano viene sempre ignorato, così
come non viene mai fatto notare il grido di Allah Uakbar che
accompagna il crimine.
Urlava Allah Uakbar anche il musulmano che il mese scorso ha
investito con la propria auto a Digione undici persone che aspettavano il bus a una fermata (identico a quello avvenuto a Gerusalemme). Sui nostri quotidiani è stato definito 'squilibrato', una
definizione che avrebbe potuto essere accettabile solo se preceduta da 'criminale islamico'. Invece no, ecco un 'lupo solitario' che
agisce da solo, quindi non rappresenta un vero pericolo, non
paesi arabo-islamici la pratica
del dissenso - tipica dei regimi
democratici - è pressoché sconosciuta, chi osa contestare la politica del proprio governo mette a
rischio sicuro la libertà personale, a volte anche la vita. Non solo
il governo, questo vale anche
per la religione, quando si identifica con lo Stato, il che avviene
in tutti i Paesi musulmani. Il
silenzio che ne segue cancella le
buone intenzioni di chi distingue
nelle società musulmane la
moderazione dall'estremismo, al
quale segue evidentemente il
terrorismo come azione politica.
Se esiste un islam moderato, ripetiamo, se esiste, esso scompare
per lasciare evidente solo il suo lato estremo.
Questa premessa aiuta a capire perché non ha alcun senso, nel
mondo occidentale, l'uso della parola "islamofobia", in quanto l'unico islam che ci è dato conoscere è quello che contrassegna i gruppi terroristi che insanguinano il mondo, e, paradossalmente, ma
neanche troppo, gli stati islamici innanzi tutto. Che poi queste
guerre fratricide avvengano sotto il segno della rivalità sciita-sunnita - una spiegazione storicamente ineccepibile - nulla tolgono
all'obiettivo proclamato da entrambe le componenti terroriste:
l'attacco ai valori dell'Occidente, primo fra tutti la democrazia. Un
terrorismo che viene regolarmente sottovaluto - se non ignorato quando colpisce Israele. Lo Stato ebraico, vittima del terrorismo,
dobbiamo preoccuparcene più di
tanto. Non dobbiamo nemmeno
porci domande, perché potremmo venire catalogati come "islamofobi", perché, in base a questa
etichetta, vedremmo nell'islam
un programma di asservimento,
di sottomissione, mentre si tratterebbe di una religione, anzi,
come ci viene ricordato, una 'religione di pace', malgrado il suo
testo sacro - il Corano - venga
regolarmente brandito a mo' di
machete dai tagliagole quando
'giustiziano' quei malcapitati
finiti nelle loro mani insanguinate. Nel caso dell'islam, la fobia è
più che giustificata, soltanto un non vedente potrebbe sostenere
il contrario.
Fino a quando il terrorismo islamico non verrà sconfitto - ma
dopo la recente cancellazione di Hamas dalla lista dei movimenti terroristi da parte del Tribunale Europeo, ci appare un obiettivo lontano nel tempo - essere islamofobi è l'unica reazione sensata per fermare chi vuole distruggere quei valori di libertà e
giustizia che sono alla base della democrazia. Se Israele è in
prima linea, subito dopo toccherà all'Europa, di segnali ce ne
sono già stati in gran numero, ma non sufficienti. A difendere la
pace e la democrazia non sarà la resa a chi urla Allah Uakbar
prima di ucciderci.
ANGELO PEZZANA
È la giusta reazione di fronte
al silenzio dell’islam ‘moderato’
che non critica il terrorismo
e il fanatismo islamico
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
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Yom Kippur: per l’Onu
non è una festività religiosa
Gli uffici dell’Organizzazione mondiale chiudono
per le grandi ricorrenze cristiane e islamiche,
ma non per il giorno più solenne dell’ebraismo.
Una vergognosa discriminazione che deve finire
New York Times ha fatto sua la causa, invitando l’Onu alla coerenza: “non scordiamoci che il suo emblema mostra il pianeta
unito nell’abbraccio di due ramoscelli d’olivo”, ha sottolineato, “mentre il suo statuto
afferma, almeno sulla carta, uguali diritti
per tutte le nazioni grandi e piccole”.
Il mese prima, mentre infuriava la guerra
di Gaza e le proteste globali contro Israele
infuocavano le piazze, 32 ambasciatori di
altrettanti paesi (tra cui Argentina, Uruguay, Canada, Etiopia, Ruanda e Guatemala) hanno inviato senza troppa fanfara una
lettera all’Assemblea Generale dell’Onu,
esortandola a riconoscere Yom Kippur tra
le feste ufficiali dell’organizzazione. All’appello mancava l’Italia, solidale con le cancellerie degli altri paesi UE.
“La proposta è all’attenzione della Quinta
Commissione dell’Assemblea Generale
che si occupa delle questioni budgetarie-finanziarie del sistema ONU, e l’Italia
partecipa al negoziato all’interno del gruppo dei 28 dell’Unione Europea”, spiega il
Consigliere dell’Ambasciata italiana Giovanni Davoli. “Oltre allo Yom Kippur, sono
all’esame altre 3 proposte di nuove festività ONU. Non siamo contrari a nessuna
delle 4 proposte”, precisa Davoli, “tuttavia, insieme ai partner della UE, riteniamo
che sarà comunque necessario mantenere
l’attuale numero di 10 festività previste
per il sistema ONU nel corso dell’anno
solare”.
Quindi se entra lo Yom Kippur deve uscire
qualche altra festività? “L’Unione Europea
non propone l’esclusione di nessuna ricorrenza in particolare”, ribatte il funzionario
italiano, “negoziamo con spirito aperto e
speriamo di trovare una soluzione accettabile per tutti”. L’equilibrismo – o meglio
l’ambiguità - dell’Unione Europea non sorprende i leader delle organizzazioni ebraiche americane, che da anni denunciano
l’accanimento anti-ebraico e anti-israeliano delle Nazioni Unite.
“Data la tradizionale ostilità dell’Onu contro Israele e l’aumento dell’antisemitismo
e degli sforzi per delegittimare lo stato
ebraico”, punta il dito Malcolm Hoenlein,
capo della importante Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, “riconoscere Yom Kippur sarebbe un
passo nella direzione giusta”. “Il verdetto
finale dell’assemblea generale sarà la vera
cartina al tornasole di come l’Onu vede i
suoi ebrei”, gli fa eco Daniel S. Mariaschin,
vicepresidente esecutivo della B’nai B’rith
International. La maggior parte dei quali,
va ricordato, non ha certo in tasca un passaporto israeliano.
ALESSANDRA FARKAS
Nella foto in alto: l’ambasciatore israeliano
all’Onu Ron Prosor
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EW YORK – Yom Kippur festa
ufficiale delle Nazioni Unite?
L’idea, a dir poco temeraria in
un’organizzazione che, a detta
del suo ex Segretario Generale Kofi Annan,
“è al servizio di tutti tranne che degli
ebrei”, è partita lo scorso maggio dall’ambasciatore israeliano all’Onu Ron Prosor.
“Delle tre religioni monoteiste, soltanto
due sono riconosciute dal calendario
dell’Onu”, ha scritto Prosor in una lettera
indirizzata agli ambasciatori dei 193 stati
membri. “Questa discriminazione”, ha
aggiunto, “deve finire”.
Delle 10 festività ufficiali oggi riconosciute
al Palazzo di Vetro, sei sono ricorrenze
federali americane, quattro sono feste religiose. Di queste, due le cristiane (Natale e
Venerdì Santo) e due quelle mussulmane
(Eid al-Fitr e Eid al-Adh). Inserite nel 1998,
queste ultime, in seguito ad una risoluzione dell’Assemblea Generale: lo stesso
organo chiamato a legiferare in merito allo
Yom Kippur.
Ma mentre tutti gli uffici Onu rimangono
chiusi e i lavori si fermano durante queste
quattro ricorrenze religiose, lo stesso non
accade per il giorno più solenne del calendario ebraico. Anzi, quasi tutti gli anni
esaso coincide con l’avvio dei lavori
dell’Assemblea Generale, quando i leader
mondiali convergono a New York, costringendo delegati e funzionari ebrei a dover
scegliere tra obblighi professionali, fede e
famiglia.
“Crediamo che il calendario delle Nazioni
Unite debba riflettere i suoi principi ispiratori di coesistenza, giustizia e rispetto
reciproco”, ha tuonato Prosor, “è ora che i
numerosissimi dipendenti ebrei dell’Onu
non siano più obbligati a lavorare a Yom
Kippur”. “Milioni di ebrei che vivono in
oltre 120 paesi del pianeta”, ha aggiunto,
“si sentirebbero finalmente benvenuti
nella grande famiglia delle nazioni”.
Per Yoram Goren, primo segretario della
missione israeliana all’Onu incaricato del
dossier, “si tratta di un tema squisitamente di natura religioso-culturale”. “Israele e
la politica qui non c’entrano affatto”, assicura, definendo la mobilitazione “una questione che può colmare le distanze e avvicinare le parti perché Yom Kippur si appella ai valori universali di riconciliazione,
perdono e tolleranza”.
In un appello pubblicato a fine agosto, il
PERIZIE E VINTAGE RESTYLING
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ISRAELE
Elezioni: un referendum su “King Bibi”
Dopo due anni gli israeliani tornano alle urne, per un voto che suona
come un referendum sulle politiche del premier Benjamin Netanyahu
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on è durata a lungo la grande
coalizione messa insieme per
guidare Israele dopo le elezioni del gennaio 2013. Dopo
meno di due anni, la maggioranza si è
sfaldata di fronte a un progetto di legge
costituzionale, appoggiato dal Premier
Benjamin Netanyahu, che avrebbe definito Israele uno Stato ebraico senza
riaffermarne le caratteristiche democratiche o garantire i diritti delle minoranze.
Ma non è stato solamente il controverso
progetto di legge a spingere i partiti
centristi guidati dal ministro delle
Finanze Yair Lapid e dal ministro della
Giustizia Tzipi Livni a uscire dalla coalizione. Dietro la fine della
loro breve alleanza con Netanyahu ci sono mesi di disaccordi sulle
politiche economiche, la fine del negoziato con i palestinesi, l’esito incerto della guerra contro Hamas a Gaza, e il crescente strapotere della minoranza dei coloni a scapito delle politiche moderate
nel governo e a detrimento della difficile posizione internazionale
d’Israele.
Quello che tornerà alle urne il 17 marzo è un paese profondamente
diviso tra destra e sinistra, tra seguaci del leader del partito Likud
e oppositori convinti che sia ora di mandare a casa il primo ministro
che dal 2009 è il re incontrastato della politica israeliana: “King
Bibi” - come lo ha definito il settimanale americano Time.
Ma è un paese anche confuso e incerto sulle prospettive politiche
future, come dimostra un sondaggio commissionato dal quotidiano
Haaretz, secondo cui il 54 percento degli elettori non vuole che
Netanyahu mantenga la poltrona di primo ministro, ma allo stesso
tempo una maggioranza relativa continua a considerarlo il candidato più credibile. Questa confusione
nasce in parte dall’apparente assenza di
una leadership all’opposizione in grado
di rimpiazzare Bibi.
Ma esiste un’alternativa a Netanyahu?
Riuscirà il centro-sinistra a strappare la
maggioranza alle destre e formare un
governo stabile? E chi guiderebbe il
paese in questo caso?
L’alternativa principale è quella rappresentata dall’alleanza tra il leader laburista Isaac Herzog con Tzipi Livni e il suo
partito Hatnuah. I due hanno siglato
un’intesa per unire le loro liste elettorali,
promettendo di alternarsi dopo due
anni, a metà mandato, sulla poltrona di primo ministro.
L’alleanza tra il partito più grande della sinistra e il piccolo movimento di Livni ha suscitato perplessità tra gli osservatori politici.
Alcuni, soprattutto a sinistra, hanno visto nella generosità di Herzog un segno di debolezza, un prezzo troppo alto pagato per un’unione con una leader ormai “bruciata” agli occhi dei tradizionali
elettori dell’opposizione per la sua alleanza con Netanyahu. I commentatori più moderati vedono invece nella mossa di Herzog un
cambiamento di rotta dei laburisti, che ora guarderebbero più verso
il centro piuttosto che alla propria sinistra per cercare maggiori
consensi. Herzog potrebbe aver cercato anche di aggiungere alla
sua squadra una personalità di rilievo come la Livni, ex ministro
degli Esteri e pupilla del defunto Ariel Sharon, poiché il leader laburista soffre di un deficit di carisma ed esperienza agli occhi del
pubblico israeliano. Figlio del presidente
Chaim Herzog, il cinquantaquattrenne
Buji ha occupato qualche dicastero di
secondo piano in precedenti governi,
guadagnandosi la fama di grigio ed efficiente burocrate ma non certo quella di
grande leader.
I sondaggi danno la nuova lista di centro-sinistra più o meno a pari merito con
il Likud, quindi l’esito elettorale dipenderà in gran parte, come spesso accade
in Israele, dal numero di seggi vinti dai
piccoli partiti di centro e dalle scelte che
questi ultimi faranno in fatto di alleanze
subito dopo il voto.
L’innalzamento della soglia di sbarramento dal 2 al 3,25 percento
dovrebbe portare una certa riduzione del frazionamento causato
dal sistema elettorale proporzionale, ma il mosaico politico israeliano continuerà a essere variegato, con tanti piccoli partiti spesso in
grado di fungere da ago della bilancia per decidere chi governerà il
paese. In questo panorama, si prevede un crollo per Yesh Atid (C’è
Un Futuro), il partito di Lapid, il giornalista televisivo sceso in
campo con promesse di riforme economiche sull’onda delle proteste contro il carovita. Quello che era stato il volto nuovo delle ultime
elezioni, portando Yesh Atid a diventare il secondo partito del
paese dopo il Likud, sembra ora destinato a perdere più della metà
dei suoi seggi, complice la delusione degli elettori per gli scarsi
risultati ottenuti nei due anni passati da Lapid al dicastero delle
Finanze.
Per queste elezioni, la “new entry” si chiama Moshe Kahlon, leader del nuovo partito Kulanu (Tutti Noi). Ex membro del Likud, per
il quale è stato ministro delle Telecomunicazioni e del Welfare,
Kahlon è apprezzato dal pubblico israeliano soprattutto per aver portato avanti una riforma del mercato della telefonia mobile che ha introdotto nuovi operatori, portando a una riduzione dei
prezzi per i consumatori. Kahlon, che
promette di proporre la sua “Rivoluzione dei cellulari” nei tanti altri settori
dell’economia israeliana in cui i prezzi
sono tenuti artificialmente alti da scarsa concorrenza, tasse e barriere legislative, potrebbe unirsi a Lapid e insieme
formare il gruppo parlamentare più
grande alla Knesset, decisivo per qualunque maggioranza.
Gli altri arbitri importanti della vita politica israeliana sono i partiti
religiosi. Lasciati fuori dall’attuale governo, cercano ora la rivincita
ma Shas, il principale partito cui fanno riferimento gli ebrei ortodossi, ha subito una scissione tra l’ala più moderata guidata dal leader
Arieh Deri e quella più vicina alle destre guidata dall’ex ministro
dell’Interno Eli Yishai, che ha deciso di fondare un suo movimento.
Questo divorzio potrebbe ridurre la presenza in parlamento dei
religiosi e il loro peso politico. Ma il fatto che persino un elettorato
solitamente compatto come quello ortodosso si sia spaccato è
anche un segno della forte polarizzazione politica che attraversa
oggi Israele - un paese diviso tra destra e sinistra, tra chi ama e chi
odia “King Bibi”.
ARIEL DAVID
In alto: Moshe Kahlon, in basso Isaac Herzog con Tzipi Livni
Israele, è allarme
povertà
U
na vecchia canzone yiddish raccontava di una cugina
bellissima, piacente e giovanile che si tramuta, con gli
anni, in una vecchia arpia. La metafora del motivetto
nascondeva la frustrazione dei nuovi immigrati ebrei
negli Stati Uniti che partivano per il paese d’oro e si ritrovavano
nella “terra di Colombo che vada al diavolo!”, come amaramente
terminava il motivetto.
In questi giorni, in Israele, stiamo provando a capire se anche
questa nostra cugina sia bella e giovanile o meno, visto che gli
ultimi dati pubblicati dopo le ricerche di alcune organizzazioni
umanitarie come Latet hanno raccontato una realtà sociale allarmante.
Secondo i dati resi pubblici da Latet sarebbero più di 2.600.000 gli
israeliani che vivono in condizioni di povertà e di questi 932.000
sarebbero bambini. Le ricerche dell'istituto del Bituach Leumi,
della previdenza sociale, confuta questi dati ed afferma invece che
gli israeliani che vivono in condizione di povertà siano 1.600.000. I
ricercatori di Latet sostengono che le ricerche ufficiali dello Stato
hanno tenuto conto solo dei dati del 2013 e non riflettono i dati del
2014 con i relativi tagli agli stipendi, agli aiuti economici per le
famiglie con bambini, così come dell'aumento delle imposte. Le
critiche ai dati pubblicati da Latet sono sostenute dal fatto che
questi non hanno avuto riscontro nel mondo accademico e sono
basati solo sulle ricerche della stessa fondazione e su elementi
soggettivi legati al suo lavoro, mentre i dati pubblicati dalle ricerche di Stato si basano su oggettivi calcoli tra entrate ed uscite.
Di fatto fuori la porta di organizzazioni come Latet e come Patchon
Lev ogni settimana ci sono centinaia di persone in attesa della
distribuzione di cibo gratuito: pensionati che hanno dovuto
affrontare operazioni chirurgiche con relative spese straordinarie
che hanno depauperato i loro pochi risparmi, nuovi immigrati che
non hanno maturato anni di pensione nei loro paesi d'origine e che
sono immigrati già troppo anziani per poter ottenere una adegua-
ta pensione in Israele, giovani che non riescono ad inserirsi nel
mondo del lavoro e sono costretti a vivere con i propri genitori,
famiglie che a mala pena riescono a dare ai loro figli un livello di
nutrimento sufficiente.
Una delle donne in attesa del proprio turno per ricevere cibo nella
sede di Patchon Lev nei pressi di Tel Aviv, intervistata ha raccontato la sua vita attenta ad ogni spicciolo e si è chiesta: "Qui a Tel
Aviv vedo torri alte con penthouse in vendita e non capiscono per
chi siano visto che incontro sempre più israeliani che chiedono
cibo in luoghi come questo."
Le reazioni del mondo politico di Israele alla pubblicazione di
questi dati sono state unanimi ed allarmate, la deputata Miri
Reghev ha affermato che bisognerebbe aumentare immediatamente lo stipendio minimo sindacale, mentre Ghila Gamliel ha
approfittato dei tragici dati pubblicati per criticare l’operato
dell’attuale governo ed in special modo del partito Yesh Atid,
mentre il deputato Izik Smoli ha usato i dati per criticare le politiche economiche del primo ministro Netanyahu.
Di fatto la tensione politica e la differenza tra i dati governativi e
quelli delle organizzazioni umanitarie non spiegano chiaramente
all'israeliano medio se stiamo vivendo la prima parte della canzone yiddish, con una bella e giovane cugina o siamo già nella
seconda strofa con la cugina imbruttita e senza alcun trucco che
copra le rughe.
Nissim Zioni, direttore amministrativo dell’organizzazione
Patchon Lev, ha affermato: "Noi non abbiamo bisogno dei report
governativi o meno per comprendere la dura realtà dei poveri di
Israele. Già dal giovedì arrivano nei nostri centri di distribuzione
centinaia di persone che chiedono aiuto ed i mezzi sono pochi per
poter aiutare tutti. L'unica soluzione per una situazione del genere
può essere data per via legale con la creazione di un dipartimento
che si occupi a livello nazionale della povertà e che sviluppi politiche contro un livello di povertà che si accumula di anno in anno.
Senza un serio approccio governativo la cura contro la povertà
finirà in secondo piano".
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Cresce il numero delle persone che ricorrono
settimanalmente alla distribuzione di cibo
gratuito. Ma quanti sono i poveri? È guerra
dei numeri tra organizzazioni umanitarie
ed enti governativi
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PENSIERO
Heidegger e il problema
dell’antisemitismo
‘metafisico’
Grazie al nuovo libro di Donatella di Cesare,
si riapre il dibattito sul rapporto tra filosofia
e ideologie razziste
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l caso Heidegger è stato riaperto dalla pubblicazione dei
“Quaderni neri” che non soltanto rafforzano la tesi dell’adesione del filosofo al nazismo ma gettano una luce inequivoca
sul suo pensiero circa la questione ebraica. Per Heidegger la
colpa dell’ebraismo è di essersi estraniato dall’Essere, per cui la
questione ebraica «non è una questione razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per
eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente
dall’Essere il proprio compito nella storia del mondo». Come ha
osservato assai giustamente Donatella di Cesare, la pubblicazione
dei “Quaderni neri” ha alimentato la solita contrapposizione
manichea tra chi, come in altre occasioni, tenta di chiudere il caso
trovandovi una conferma che Heidegger non nutriva sentimenti
razzisti ma poneva una questione puramente filosofica, e chi,
all’opposto, trova argomenti per una condanna senza appello del
filosofo. Come dice giustamente di Cesare, occorre evitare sia la
condanna criminalizzante che la reticenza complice, sia la mera
indignazione morale che la banalizzazione cinica. Occorre assumere un approccio di analisi razionale.
La tentazione più semplice, che ha trovato già degli adepti, è di
cercare nella vicenda dei “Quaderni neri” argomenti per proscrivere la filosofia stessa come fonte dell’aberrazione che ha condotto al nazismo e alla Shoah. È una tentazione sbagliata e pericolosa
perché rischia di occultare i problemi autentici che hanno condotto a quell’aberrazione. Certo, la storia del pensiero filosofico tedesco esprime una incomprensione e un disagio così profondo nei
confronti della presenza ebraica – per la difficoltà di definirla
rispetto a un rigido principio di identità nazionale – da trasferire il
problema sul terreno prettamente metafisico. Hegel, che si era
prodotto in sconcertanti elucubrazioni circa l’Africa e gli africani,
come un continente e una popolazione vissuti sempre fuori dalla
storia e quindi non appartenenti di diritto all’“autentica” umanità,
non poteva non emettere un editto altrettanto duro nei confronti
degli ebrei, popolazione priva di stato e di territorio e quindi inesistente come tale e pericolosa, in quanto fattore di disgregazione
dei valori dell’identità nazionale.
La fenomenologia delle posizioni di questo tipo nel pensiero europeo, in particolare di area germanica o ad essa collegata, è vastissima e quindi non stupisce che Heidegger si collochi in questa
corrente in cui la demarcazione razziale degli ebrei appare più
come uno strumento, un mezzo, per definire l’emarginazione di
questo popolo “pericoloso”, che non come una definizione della
sua essenza “negativa” e dissolutiva. Ma se non vogliamo accettare un’analisi di tipo strettamente metafisico, e cioè collocarci
all’interno della logica di questa stessa corrente – col rischio inerente a tutte le visioni ontologiche che finiscono direttamente
nella filosofia della storia e nell’escatologia – lo strumento fondamentale è quello dell’analisi storica, l’approccio razionale per
eccellenza.
Non possiamo qui dipanare un discorso assai lungo e complesso,
ma è sostanzialmente corretto dire che, a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento, prende forma una reazione nei confronti di
filosofie pragmatiste e positiviste, che hanno radici anche nel
pensiero europeo continentale ma soprattutto sono di derivazione
anglosassone. Il progressivo svuotamento del pensiero filosofico a
favore di un approccio ispirato alla metodologia delle scienze esat-
te è visto come un rischio enorme che mette in discussione una
tradizione secolare che ricollega l’Occidente al pensiero greco,
attraverso il recupero che ne ha fatto l’umanesimo rinascimentale
e, nella prima fase, anche il pensiero scientifico del Seicento. L’identificazione degli ebrei come un fattore di disgregazione, si
basa sulla credenza che questo popolo sia entrato nella società
europea senza aderire in modo incondizionato alle identità nazionali e miri al cosmopolitismo, a una visione astratta dell’uomo, al
predominio – per dirla con Heidegger – di una «vuota razionalità
e abilità di calcolo». Per chi conosca la storia della scienza, sa che
questa tematica è diffusa molto oltre il mondo filosofico, e sarà un
cavallo di battaglia della “Deutsche Wissenschaft” contro la
scienza astratta e cosmopolita degli ebrei calcolatori e formalisti,
alla maniera di un Einstein.
Ma proprio qui si è innestata la più tragica mistificazione. Nel
mondo filosofico, tra le figure più autorevoli che hanno combattuto il pragmatismo e lo scientismo, difendendo la “missione” filosofica europea come essenza fondativa della civiltà del continente, sono stati il francese Henri Bergson e il tedesco Edmund Husserl, entrambi di origine ebraica. È capitato di sentire qualcuno
avanzare contro di loro l’accusa aberrante di aver coltivato forme
di irrazionalismo antiscientifico che avrebbero dato alimento al
nazismo… Il discorso si amplia al mondo scientifico, in cui tanti
scienziati ebrei erano collocati sul fronte anti-formalista e
anti-pragmatista, e la stessa imputazione ad Einstein di essere un
fisico astratto e matematizzante in rottura con la tradizione è difficile da sostenere, ove si pensi alle sue resistenze nei confronti
della meccanica quantistica di cui erano sostenitori fisici nazisti
come Heisenberg.
Pertanto, l’imputazione agli ebrei di essere il fattore di disgregazione di una tradizione fondante della civiltà europea era un mero
pretesto nel genere della ricerca del capro espiatorio, alimentato
da prevenzioni antigiudaiche di radice millenaria. Ma la complessità del fronte che sosteneva i valori di quella tradizione, in opposizione al pragmatismo scientista, deve essere considerata con
attenzione e può rivelare le ragioni profonde dell’adesione di tanti
intellettuali tedeschi, e non solo tedeschi, al manifesto ideologico
del nazismo. Questo è l’aspetto da studiare in modo non manicheo, altrimenti non riusciremmo a capire l’atteggiamento di tanti
personaggi, come il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, che dimostrò la sua sostanziale estraneità al nazismo e
alla Shoah, e tuttavia non riuscì mai a emigrare perché non sentiva di poter conservare il legame con una sensibilità classicista
della musica: nel dopoguerra si rese conto di poterlo fare.
Oggi l’Europa appare scossa da un’altra drammatica crisi in cui
una parte consistente delle sue popolazioni non riesce ad accettare l’idea di una gestione puramente tecnocratica e quantitativa:
aveva ragione Husserl a sostenere che l’Europa ha una tradizione
“filosofica” con radici molto più profonde di quanto appaia a
prima vista. La mancata comprensione delle ragioni di questo
rigetto e la loro semplicistica condanna come un mero fenomeno
“populista” e neofascista non è meno superficiale e irresponsabile del lisciare il pelo ai movimenti che lo strumentalizzano e lo
incanalano verso forme di estremismo. Oltretutto, con l’esito evidente che sia ancora una volta la componente ebraica a farne le
spese. La storia si ripete, anche se in forme diverse, e purtroppo
non sempre in farsa.
GIORGIO ISRAEL
l primo giorno del 2015 coincideva con il 10 di Tevet 5775. Il
digiuno dedicato al ricordo dell’assedio babilonese di Gerusalemme e del primo esilio è ormai da molti anni anche
digiuno in memoria delle vittime della Shoah. Dal 1939 al
1945 la Seconda guerra mondiale segnò in Europa lo sterminio
degli ebrei. Anni dell’Era Cristiana, così come il 1933, anno di
sventura che vide l’inizio dei 12 del Reich di Adolf Hitler.
L’Occidente, che fa muovere il mondo al ritmo del proprio calendario, aveva prodotto il nazismo ma seppe anche trovare i mezzi
e la forza necessari per distruggerlo. Il generale Dwight
Eisenhower guidò gli alleati vittoriosi fino al cuore della Germania, e volle intitolare Crusade in Europe le sue memorie di guerra. Per due mandati fu poi Presidente degli Stati Uniti.
Il 2015 ha un inizio davvero in memoriam, occasione di silenzio
per gli ebrei nel mondo e in Israele. Chi ha voluto, ha partecipato al capodanno civile dell’Occidente. C’è comunque poco da
festeggiare, e per averne consapevolezza non c’è bisogno della
quotidiana valanga mediatica. Ma tutti saremo chiamati a
festeggiare, forse senza clamori e con intima riconoscenza, i 70
anni trascorsi dall’ottavo giorno di maggio 1945: Victory Day in
Europa. Il 25 aprile i soldati americani e sovietici si erano abbracciati sul fiume Elba a Torgau, mentre l’Armata Rossa conquistava Berlino. L’Italia è ferma al 25 Aprile della Resistenza, ed è
bene così. Forse però è arrivato il momento di aggiungere al
calendario delle celebrazioni nazionali quell’Otto di Maggio che
i giovani, anche ebrei, continuano serenamente ad ignorare.
E questo ci porta al senso profondo del 27 gennaio. Anche la
condizione esistenziale degli ebrei appare profondamente mutata. Esiste uno Stato Ebraico, e nessuno si azzarda ormai a parlare
di “doppia lealtà” nel mondo globale delle molteplici identità
ammissibili e possibili. E’ arrivato il tempo di aggiornare l’agenda
della memoria. Sono trascorsi 70 anni dal giorno nel quale i soldati di Stalin raggiunsero il “sistema” concentrazionario di Auschwitz e salvarono i superstiti del campo di sterminio di Birkenau. La
logica nazista non corrisponde a quella della normale umanità.
Infatti soltanto gli abili a camminare erano stati avviati alla marcia della morte verso Bergen Belsen. Dopo l’inverno crudele del
1945, sul fronte opposto accanitamente presidiato dalla Wehrmacht e dalle SS, gli internati di Dachau dovettero attendere la
liberazione fino al 29 aprile, tra sofferenze spaventevoli e ancora
decine di migliaia di vittime. La Settima Armata USA di George S.
Patton “generale d’acciaio” con tre divisioni del generale di Henning Linden mostrò immediatamente al mondo intero - e soprattutto ai tedeschi che si fingevano ignari - le prime immagini di un
KZ Lager nazionalsocialista. Anche la logica dei negazionisti e
del revisionismo non può ottenere cittadinanza sui mezzi d’informazione e nel dibattito storiografico.
Purtroppo non è così, ma sono in pochi a scandalizzarsi. La
memoria acquista un senso soltanto se si libera dall’ipocrisia, se
non si rifugia nelle formule rassicuranti, nel rito e nella liturgia
delle commemorazioni. Che certamente sono e saranno indispensabili, ma devono finalmente fare i conti con l’eredità malefica del Terzo Reich. Non si deve dimenticare che Reich in tedesco significa “Stato” e Recht si traduce con “diritto”. Il Reich che
Hitler voleva millenario fu uno Stato di diritto: ebbe in Carl Schmitt il giurista tuttora considerato un maestro per le relazioni
internazionali, trovò con Martin Heidegger il proprio filosofo (e
finalmente Donatella di Cesare ha analizzato a fondo il suo lascito inquinante, come spiega Giorgio Israel in questo stesso numero di Shalom), e la fisica quantistica che si cita normalmente a
sproposito sui grandi quotidiani - chi può dimenticare la particel-
la di Dio individuata al CERN di Ginevra?- ha un padre di nome
Werner Heisenberg, il quale fu per 5 anni a capo del progetto
atomico nazista e non ottenne il risultato in quanto gli era proibito di servirsi della “fisica giudaica” di Albert Einstein.
I meccanismi della memoria non possono fermarsi all’emotività e
alla commozione. Si deve sapere che molto di ciò che consideriamo utile e normale ha avuto un prezzo, e il prezzo lo hanno
pagato i deportati. Sui prigionieri dei lager si sperimentarono
farmaci che troviamo nelle farmacie, la pressurizzazione dei jet
sui quali voliamo e che derivano tutti dal Messerschmitt 262, i
margini di intervento per le ipotermie mortali. Nelle fabbriche
lavoravano e morivano gli schiavi del Reich, sotto la gestione
attenta di Albert Speer, uno dei pochi nazisti, peraltro, che ha
conosciuto il carcere: 20 anni a Spandau, 1946-1966. Le sue
memorie sono un best-seller. Grazie all’Operazione Paperclip del
Presidente Truman e all’Operazione Osoaviakhim di Josip Stalin
gli specialisti di Hitler furono utilizzati per la Guerra Fredda,
anche quelli della Gestapo. Il tunnel delle V2 a Dora Mittelbau
era una delle fabbriche più letali del Reich, sotto la direzione di
Wernher von Braun e Walter Dornberger. Il missile V3 che avrebbe dovuto distruggere New York ha invece ricevuto il nome di
Saturn 5 e ha portato la nostra specie sulla Luna, e forse è questa
la ragione vera per la quale il prossimo grande passo dell’umanità lo dovremo probabilmente alla Cina o all’India. Raccontano
che quando le SS riferirono a Hitler che Ernst Junger era coinvolto nell’attentato del 20 luglio 1944, la risposta fu questa: “Junger
non si tocca, è il migliore di noi.”. Junger è stato uno dei massimi
scrittori del XX secolo, con il nazismo non volle mai compromettersi. Ma la sua scrittura è nella sostanza una inquietante mistica del guerriero. I Diari di quest’uomo contraddittorio, eroe della
Grande Guerra e poi semplice capitano nella Wehrmacht hitleriana fino al 1945, contengono l’unica menzione dello sterminio
degli ebrei con i gas fatta da un intellettuale tedesco in tempo di
guerra. Intoccabile lui, la vendetta fu trasversale. Il figlio Ernstel,
sottoposto alla corte marziale e assegnato a un battaglione di
disciplina, morì in combattimento presso Carrara nel novembre
del 1944. Onorato e rispettato dalla sinistra forse più ancora che
dalle destre, Junger morì nel 1998 all’età di 103 anni. Merita
considerazione, non ammirazione. I conti veri della memoria,
comunque, sono ancora aperti.
PIERO DI NEPI
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
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27 GENNAIO 2015:
forse è tempo
di aggiornare l’agenda
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PENSIERO
Elogio della normalità
Se anche uno su mille ce la fa,
gli altri 999 possono essere
delle persone altrettanto straordinarie
T
utti pensiamo a quello che ce l’ha fatta. Ci identifichiamo
col vincitore, immaginiamo la sua gioia, la soddisfazione,
le gratificazioni, in qualunque settore si sia uno su mille,
le gratificazioni non mancano. Il quarto d’ora di celebrità
che non si nega a nessuno, etc. etc.
Io faccio una proposta controcorrente: immaginiamo cosa succede
invece ai 999 che non ce la fanno. A quei ragazzi che tornano a
casa e saranno gregari, forse mediani. Termini che restituiscono
dimensioni di mediocrità, parola con cui si indica ciò che può essere oggetto di dileggio se non di disprezzo.
Io voglio fare l’elogio dei 999 che non tornano a casa dimessi e
sconfitti, ma che trovano nella normalità la forza della loro dimensione umana. Quei 999 di cui difficilmente il mondo si interessa,
che sono di tanto in tanto protagonisti di qualche format, come figure di contorno e di supporto all’uno che ce l’ha fatta. Un esempio
su tutti il programma “Boss in incognito”. All’inizio si vuol dare la
sensazione che il capo di una azienda (meglio se medio grande) è
uno come gli altri, può fare i mestieri che portano la sua società a
regime, ma successivamente nelle varie vicende che passano sullo
schermo, ci si rende conto che chi è nato per fare il Boss non solo
ha una marcia in più, ma non riesce (quasi) a fare altro. La scena
conclusiva dei premi ai tutor che l’hanno supportato nell’esplorare
i diversi ruoli e luoghi che costituiscono le basi del suo trionfo economico e/o commerciale, ricorda Cenerentola, ovvero anche nella
normalità devi aspirare ad essere il primo, il più normale, perché
all’improvviso arriva la zucca che si trasforma in carrozza.
Ma che legittimità hanno coloro che non si sentono uno ma che,
forse, nei 999 stanno addirittura a loro agio?
Un paese normale lo costruiscono persone normali, che pensano e
lavorano normalmente.
Quella di cui voglio parlare non è la normalità del grigiore, della
ipocrisia e della rassegnazione, ma una sintesi fatta di buon senso,
di pace, di onestà nei rapporti, di lavoro dignitoso, di nonviolenza,
di solidarietà attiva e non parolaia. È quella fase della vita che
si raggiunge quando i fattori conflittuali sono ridotti ad un livello
fisiologico. È quella vita nella quale tutte le componenti esterne
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raggiungono un equilibrio interiore pronto a ricomporsi ad ogni
scossone. E’ quella normalità che fa andare i 999 a lavorare mentre intorno decine di persone coinvolte nei più disgustosi traffici,
vengono accusate e arrestate.
Ciò che misura la virtù di un uomo non sono gli sforzi, ma la normalità (Blaise Pascal).
Una delle probabili cause dei disordini e degli eccessi del mondo
contemporaneo è la competizione: bisogna essere dei vincenti.
Devi essere il numero uno in una società nella quale la competizione mira al successo materiale. Per i Greci, che pure erano molto
competitivi, si trattava di ricercare un certo ideale; oggi, la competitività coincide con la paura di non essere il migliore e dunque
di non valere niente.
Avere i soldi per pagare il mutuo e comprare del cibo, per educare
i nostri figli e garantire alla famiglia una vita decorosa, è di gran
lunga un obiettivo difficile e faticoso, che certamente ci distrae
dall’uno che ce la fa.
I 999, spesso, vanno verso un ritorno alla normalità, intrisa anche
di quella positiva mediocrità che contraddistingue l’uomo “normale”, che non ha grandi aspirazioni, fatto di molti difetti, ma che ha
lo sguardo rivolto verso l’essenziale: le persone a cui vuol bene e
che rispetta. Obiettivi che potrà avere anche l’uno su mille che ce
la fa, ma certamente si corre il rischio che la corsa verso la competizione ti privi di questi due beni fondamentali.
CLELIA PIPERNO
Una fuga silenziosa
S
ono nato e cresciuto in un paese arabo che ho lasciato per
sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia
della mia famiglia in poco più di vent'anni. Lungo l'arco di
due decenni, centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del
mondo arabo e islamico. Le minoranze ebraiche non avevano
partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della
Lega araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano
un pericolo per nessuno. La loro fuga fu silenziosa, ignorata dalla
stampa internazionale. Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato
ai resti delle antiche civiltà che
avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe.
La centralità della Shoah nel
dibattito sulla legittimità dell'esistenza di Israele ha fatto sì che
la memoria delle sofferenze
degli ebrei del mondo arabo
fosse occultata per lungo tempo
agli occhi anche degli israeliani.
Solo di recente in Israele e nelle
comunità ebraiche del mondo, è
stata compresa l'enorme valenza
simbolica dell'esodo ebraico dal
mondo arabo, per controbattere
le false equazioni che fanno da
sfondo a un nuovo antisemitismo.
I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una differenza.
Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal
teatro di guerra, mentre i palestinesi erano componente attiva di
una guerra voluta dal mondo arabo. Gli abitati ebraici caduti in
mano agli eserciti arabi vennero cancellati dalla faccia della terra,
le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All'interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è
rimasta o è potuta tornare alle sue case. La società israeliana ha
accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente
alta. L'arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre
che una necessità per non soccombere alla sfida demografica. Pur
con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso
d'insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si
consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di
riscatto dopo secoli di umiliazioni. Diversa è la situazione alla
quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica
degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica.
Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato
in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi,
l'idea di una loro integrazione nei paesi arabi circostanti o lontani
fu violentemente osteggiata. Il verdetto religioso e nazionalista
era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della
nazione araba e dell'umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni. Chi avesse tentato un accordo, era un
traditore da eliminare.
Aver considerato l'esistenza di Israele un'onta che poteva essere
lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa
morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un'immaturità
politica, l'origine di un fallimento più generale. La questione dei
profughi poteva essere vista come uno dei tanti dolorosi scambi
fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come
è del resto accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, per le
popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli
indù e i musulmani al momento dell'indipendenza del Pakistan e
dell'India. O per l'Italia, con i profughi dall'Istria trasformati per
decenni in fantasmi, privati di uno spazio condiviso per il dolore.
Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di
fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A
vincere nelle guerre che hanno
scandito periodicamente la
recente storia del Vicino Oriente,
non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà
dei soldati che travolsero le
armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno
1967 era composta dai figli delle
mellah e delle hara, oggetto di
disprezzo e di umiliazioni, considerati dalla cultura araba "inadatti" alla guerra, che potevano
al più aspirare a essere «protetti» in cambio di un atto di sottomissione.
Non essere riusciti a «risolvere»
il problema israeliano con i
«metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant'anni prima,
era la fonte di "un'infelicità" che nel delirio ha finito per trasformare i crimini tentati in «olocausti subiti». Fin quando fu possibile
spiegare l'umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento
delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l'aggressione
congiunta israeliana e anglo-francese, l'autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più
sopportabile, l'onore arabo rinnovato dalla promessa che in futuro
le cose sarebbero andate diversamente. Quando alla prova dei
fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in
pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l'incarnazione del male.
La campana a morte per i regimi nazionalisti fu ritardata dal sostegno massiccio profuso dall'Unione Sovietica nel rimettere in piedi
l'esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l'Egitto riconquistò «l'onore perduto». La crisi del nazionalismo panarabo spianava
la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l'Occidente cristiano e l'Islam, con Israele nel ruolo di «Stato crociato» e di «piccolo Satana» al servizio del «grande Satana». Nella logica islamista la jihad dei palestinesi «non riguarda solo i palestinesi ma
tutto l'Islam». «L'onta della Naqba», un'idea che nel mondo arabo
si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, è assurta a simbolo di una sequenza più
ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica. In
questa logica perversa e criminale, che salda l'antisemitismo più
antico con quello più recente, lo stato nato per offrire un rifugio
agli ebrei, diventa "l'ebreo degli Stati".
DAVID MEGHNAGI
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
L'espulsione e la fuga degli ebrei dai Paesi
arabi sono state una tragedia che ha
cambiato una parte della diaspora
e ha modificato il tessuto sociale
15
MONDO
Risvolti ebraici
nel disgelo tra
Stati Uniti e Cuba
La storia dell’ebreo americano
Alan Gross, liberato dopo una lunga
detenzione nelle carceri cubane
E
ffetti di tipo economico, sociale, politico e strategico;
ma il disgelo promosso da Obama nei confronti di Cuba
ha avuto un risvolto importante anche per Alan Gross,
ebreo americano arrestato nel 2009. Lavorava come
operatore delle telecomunicazioni in Paesi con difficoltà nell’accesso ad internet: nella sua missione a Cuba, dove aveva l’obiettivo di aiutare la comunità ebraica locale a collegarsi col web in
qualità di contractor dell’USAID, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale, distribuì dei telefoni satellitari e altro
materiale tecnologico proibito sull’isola e, accusato di aver costituito una rete illegale per conto dei servizi segreti americani, fu
condannato per “voler distruggere la rivoluzione”; la pena di 15
anni fu obbligato a scontarla in condizioni inumane.
La sua detenzione è stata uno dei principali motivi del contendere nei negoziati che hanno portato al ripristino delle relazioni tra
Cuba e Stati Uniti: le trattative per la sua liberazione e più in
generale per la ripresa dei legami con Cuba avevano preso il via
circa un anno e mezzo prima, ma sin dal 2009 Obama coltivava
questo progetto. Hillary Clinton, durante il primo mandato di
Obama, si era impegnata in questa causa e la sua mancata riso-
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luzione costituì per lei un grande rammarico, cosicché si raccomandò che questa eredità fosse presa con cura dal suo successore. Anche numerosi senatori, come il repubblicano Marco
Rubio o il democratico Robert Menendez, hanno fatto della liberazione di Gross una priorità, ravvisando nella sua detenzione
una violazione dei diritti umani. Come rivela un articolo del New
York Times, infatti, gli americani temevano che le condizioni di
salute di Gross stessero peggiorando, tanto che il Segretario di
Stato John Kerry aveva avvertito il ministro degli Esteri cubano
Bruno Rodríguez Parrilla che se Gross fosse morto durante la sua
prigionia, tutti gli sforzi effettuati per la riapertura delle relazioni
sarebbero stati azzerati. Anche le associazioni ebraiche americane si sono impegnate per aiutare Gross a tornare un uomo libero.
Il Jewish Community Relations Council in questi anni aveva
elaborato una duplice strategia per tenere viva la causa di
Gross: da un lato aveva creato un collegio elettorale per prendersi cura della questione presso le istituzioni, mentre dall’altro
sosteneva la famiglia. Eticamente e moralmente non poteva
essere dimenticato un membro della comunità: è stato così tenuto alto il morale di Gross durante la sua detenzione ed è stato
profuso il massimo impegno per contribuire alla sua liberazione.
Il suo rilascio è così divenuto uno degli aspetti più rilevanti della
ripresa del dialogo tra Washington e L’Avana.
Al momento della liberazione, Gross ha avuto parole di sentito
ringraziamento nei confronti di Obama e della comunità ebraica
statunitense: “che benedizione che è essere cittadino degli Stati
Uniti d’America” sono state le parole che ha pronunciato. Anche
dall’altra parte c’è stata profonda soddisfazione: subito dopo il
rilascio di Gross, Steve Rackitt, l’amministratore delegato della
Jewish Federation di Washington, ha detto al Jerusalem Post:
“Siamo grati di celebrare questo miracolo di Chanukkà con la
moglie di Alan, Judy, le sue figlie e l’intera comunità ebraica di
Washington”. Lo stesso Obama ha esternato la sua soddisfazione richiamando il miracolo avvenuto proprio in occasione di
chanukkà ed ha evocato la mitzvà che è stata compiuta con la
sua liberazione, il pidyon shvuyim, il rilascio dei prigionieri.
DANIELE TOSCANO
Piccola radiografia
dell’ebraismo cubano
È prevalentemente sefardita e
distribuito in diverse città
A
si stabilirono per ragioni commerciali, provenendo soprattutto dai
porti di Amsterdam e di Amburgo. Fu dopo il 1898, con la sconfitta spagnola nella guerra contro gli Stati Uniti, che gli ebrei si
stanziarono stabilmente sull’isola senza il rischio di nuove persecuzioni. Nel 1906, un gruppo di ebrei americani fondò la prima
sinagoga cubana. Gli ebrei cubani furono presto coinvolti nella
vita sociale ed economica dell’isola, grazie anche alla loro abilità
nel commercio. Nei flussi migratori diretti verso gli Stati Uniti,
molti decisero di trattenersi sull’isola: i limiti restrittivi posti da
Washington, il basso tasso di antisemitismo ed il clima gradevole
erano motivi convincenti. Nel 1924, a Cuba c’erano circa 24mila
ebrei; L’Avana aveva cinque sinagoghe, un ristorante kasher,
scuole ebraiche elementari e superiori.
Le migrazioni dall’Europa naturalmente si intensificarono con l’avanzata del nazismo. Il felice soggiorno degli ebrei sull’isola si
interruppe però dopo la rivoluzione che nel 1959 rovesciò il dittatore Fulgencio Batista e portò al potere Fidel Castro: circa il 90% degli
ebrei cubani lasciò l’isola, non tanto perché perseguitati, ma perché
le restrizioni economiche colpirono soprattutto la classe media di
cui gli ebrei erano parte; i pochi rimasti erano soprattutto i più
poveri o i più vecchi e dovettero subire le stesse discriminazioni a
cui erano sottoposti gli altri gruppi religiosi, finendo per avere un
accesso ristretto alle università e al mondo del lavoro, senza contare l’appoggio dato dal regime alle campagne contro Israele.
Nonostante le sofferenze, la vita ebraica a Cuba riuscì a sopravvivere. Dalla fine della Guerra fredda, le restrizioni si sono allentate
e gli ebrei cubani hanno potuto beneficiare del sostegno di numerose organizzazioni americane che si sono attivate con azioni
semplici, come l’invio di rabbini per insegnare i precetti basilari o
servire cene gratuite di Shabbat. Anche in precedenza, il regime
castrista non ha ostacolato le organizzazioni nordamericane che
fornivano gli ebrei cubani di cibo kasher o materiale scolastico.
I cambiamenti epocali di Cuba dell’ultimo decennio, durante il
quale il Lider Maximo Fidel Castro a causa di problemi di salute si
è dimesso prima dalla Presidenza del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri e poi anche dalla carica di Segretario del Partito
Comunista Cubano, hanno prodotto profondi effetti sulla società,
favorendo una ripresa della vita religiosa.
Oggi a L’Avana sono attive tre sinagoghe ogni Shabbat e nelle
principali festività. Nelle altre città la vita ebraica non è organizzata come nella capitale, ma anche nei piccoli centri gli ebrei sono
molto attivi, come a Santa Clara, dove sono riusciti a comprare una
casa e a renderla una sinagoga.
DANIELE TOSCANO
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
chi si rivolgeva Alan Gross nella sua missione cubana
quando fu arrestato nel dicembre 2009? A Cuba gli
ebrei sono circa 1400, prevalentemente sefarditi, concentrati soprattutto nella capitale, L’Avana, ma ci sono
altre piccole comunità a Camaguey, Cienfuegos, Guantanamo,
Sancti Spiritus, Santa Clara e Santiago de Cuba.
Si ritiene che i primi ebrei giunsero poco dopo il 1492, con la cacciata dalla Spagna e la scoperta dell’America. Ma le informazioni
sono poche e frammentate fino all’800, quando si intensificò l’arrivo di ebrei: alcuni giungevano dal Brasile, dove erano stati perseguitati nei secoli precedenti sotto il dominio portoghese; altri vi
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FOCUS
Quando la bandiera
di Israele sventola
(qualche volta) negli stadi
Q
Merito di pochi coraggiosi tifosi
e di qualche raro giocatore
ualche settimana fa, il servizio d’ordine del Santiago
Bernabeu ha redarguito tre israeliani andati a vedere
una partita del Real Madrid per aver esposto una
bandiera di Israele. “E’ la politica del club” hanno
spiegato gli agenti della sicurezza. Una grossa delusione per i
tre cugini, che speravano di poter esporre
il loro vessillo in uno dei templi del calcio.
Eppure, la bandiera con il Maghen David
ha fatto importanti apparizioni negli stadi.
Sicuramente inaspettata è stata la sua
comparsa al mondiale tedesco del 2006,
sventolata dal calciatore ghanese John
Pantsil: per festeggiare le due reti e la
vittoria finale contro la Repubblica Ceca,
il centrocampista africano tirò fuori dal
calzettone e sventolò proprio una bandiera
dello Stato ebraico, considerato da lui
come una patria adottiva. Giocava infatti
in quel periodo all’Hapoel Tel Aviv, dopo
aver militato due anni anche nel Maccabi.
Le bandiere israeliane negli stadi europei
si vedono però soprattutto al White Hart
Lane di Londra e all’Amsterdam Arena,
le tane rispettivamente di Tottenham
e Ajax, due squadre che si identificano
con il mondo ebraico. Nel caso dell’Ajax,
come spiega un articolo dell’edizione
internazionale dello Spiegel, l’associazione
non è casuale: Amsterdam era chiamata la
Gerusalemme dell’Occidente prima della
Seconda Guerra Mondiale; circa 80mila
ebrei vivevano in città e molti erano tifosi
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
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edasitalia.com
dell’Ajax. Il De Meer Stadium, campo
di gioco fino agli anni ’90, era nella
parte est della città, dove risiedevano
numerosi ebrei. Il giornalista Simon
Kuper ha analizzato il tema nel suo libro
“Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la
Shoah”, rilevando che durante il secondo
conflitto mondiale proprio lo stadio
dell’Ajax era il luogo di incontro tra
ebrei e non ebrei. La vicinanza dell’Ajax
agli ebrei, secondo Kuper, emerse però
nel dopoguerra, grazie ai massicci
investimenti di Jaap van Praag e di
altri soci ebrei. Lo stesso Van Praag fu
presidente, così come suo figlio Michael.
Gli stessi calciatori iniziarono ad essere
considerati ebrei anche se non lo erano,
mentre i dirigenti e soprattutto i tifosi
individuarono in questa identificazione
un motivo d’orgoglio, una sfida, fino a
renderla una componente essenziale
della loro identità, pur non essendoci
spesso legami con la religione. Oggi
questa identificazione capita che
sia esasperata, come quando i tifosi
avversari la usano per insultare l’Ajax:
“Hamas! Hamas! Jews to the gas” intonano ad esempio spesso
i rivali del Feyenoord di Rotterdam, ma anche da parte dei
tifosi dell’Ajax si usa questo motivo in funzione del tifo, come
quando, nel 2004, in una partita contro una squadra tedesca,
fu mostrato uno striscione che diceva “gli ebrei si prendono
la vendetta per il ’40-‘45”, con chiara allusione alla Shoah. Le
medesime prassi si verificano durante le partite del Tottenham.
Molti cori degli avversari sono a sfondo antisemita: “Tottenham
a bunch of Yids!”, branco d’ebrei, è tra i più frequenti, ma
anche il sibilo del gas dei campi di concentramento o il classico
“Hey, Jew” sulle note dei Beatles. Anche durante le partite
degli Spurs è frequente l’esposizione di bandiere di Israele.
La storia è simile a quella dei tifosi olandesi e si ricollega alla
componente ebraica stanziata nella parte nord di Londra, che
poteva raggiungere facilmente lo stadio. Anche qui, i tifosi ne
hanno fatto una parte della loro identità e ne vanno orgogliosi.
“Yid Army”, esercito ebraico, è il nome che si è data la curva
del Tottenham; non senza polemiche, visto che il termine “Yid”
è molto discusso in quanto epiteto usato per indicare gli ebrei
con disprezzo. Restano stereotipi, ma il calcio spesso crea un
senso di appartenenza per cui, nonostante i diffusi episodi
di antisemitismo, l’identificazione con gli ebrei e la bandiera
di Israele possono diventare elementi fondanti della propria
identità.
DANIELE TOSCANO
n principio fu Ronny Rosenthal. Era il 1989 quando
l’attaccante arrivò in Italia per vestire la maglia
dell’Udinese, ma quella casacca non
l’ha mai indossata perché fu rispedito a
casa prima di firmare il contratto.
Ufficialmente perché non superò le visite
mediche. Voci di corridoio, invece,
sostengono che la decisione fu presa dopo
che sui muri della città friulana furono
trovate scritte antisemite. In Inghilterra, al
contrario, non ebbe nessun problema e vestì
le maglie di Liverpool, Tottenham e Watford.
Avrebbe potuto essere il primo israeliano a
giocare nel campionato italiano ed invece
questo record spetta a Tal Banin, che arrivò
nel nostro paese nel 1997. A volerlo nelle
proprie fila fu il Brescia, che in quella
stagione arrivava in serie A da neo
promossa. Il trequartista non ebbe dubbi
perché il calcio italiano in quel periodo era
paragonabile all’NBA per il basket. Nessun
pregiudizio questa volta, perché non ha
contato la sua religione. Lui ricorda di aver
trascorso anni bellissimi e solo un certo
Roberto Baggio lo convinse a tornare in Israele perché la
posizione di trequartista non sarebbe più stata sua di diritto.
Adesso Tal allena il Maccabi Netanya segno evidente che il
calcio continua ad essere tutta la sua vita.
Passano gli anni e cambiano le squadre, ma c’è chi ha voglia di
scommettere su calciatori israeliani. Nel 2007 il presidente del
Palermo, Zamparini, decide di puntare su Eran Zahavi, esterno
d’attacco che ci mette poco ad entrare nel cuore dei tifosi
rosanero. Venti secondi per la precisione. Tanto gli ci è voluto
per segnare il suo primo gol italiano. Anche nel suo caso nessun
Prima tifavano Italia,
ora Israele
Storie di tifosi che hanno fatto l’aliya
M
inuto 36 la palla finisce alle spalle del portiere e
scoppia il boato. Urla, salti sul divano e abbracci
collettivi. Non c’è il derby tra Roma e Lazio
vissuto da lontano dai tanti italiani che hanno
scelto di fare l’aliya, ma la sfida tra Israele e Bosnia, valevole
per le qualificazioni agli Europei
del 2016. Una sfida che fino a
qualche tempo fa veniva seguita
distrattamente e se alla fine la
nazionale aveva vinto si era tutti
più contenti. Adesso che sono
cambiate le prospettive di vita,
anche il tifo calcistico ne risente.
A Raanana nel momento in cui
Vermouth ha portato in vantaggio
la sua squadra ai danni della
Bosnia l’esultanza è stata
incontenibile. Grandi e piccini
problema di ambientamento né tantomeno pregiudizi. Anche lui
è tornato in patria al Maccabi Tel Aviv ed è una colonna portante
della sua nazionale.
Fino ad oggi sono pochi i calciatori israeliani che sono arrivati
nel nostro paese, come del resto in giro per i massimi
campionati. Colpa di un calcio che sta sbocciando solo ora, ma
anche delle difficoltà che ci sono ad organizzare incontri a causa
delle tensioni che continuano ad esserci. La vetrina
internazionale per molti giocatori non esiste, anche se i talenti ci
sono. Unica eccezione la sta facendo la nazionale
che al momento guida il girone di qualificazione
per gli Europei del 2016. La strada è ancora
lunga, ma le aspettative sono tante. Sarebbe un
fatto storico se riuscisse a centrare l’obiettivo e
per farlo si affida ai gol di Omer Damari. Con
cinque reti, è il capocannoniere delle
qualificazioni assieme a Danny Welbeck. Il
bomber di Rishon Le Zion, che milita nell’Austria
Vienna, ha messo il suo sigillo contro Cipro a
Nicosia, poi tre reti contro Andorra ad Andorra
La Vella e una in casa, nell’importantissima sfida
contro la Bosnia. Degli altri nazionali Ben Haim
gioca in Inghilterra nel Charlton, Natko nel CSKA
di Mosca, Gershon nel Gent, Hemed
nell’Almeria, Rafaelov nel Bruges, Shechter nel
Nantes, Sahar nel Wilelm in Olanda. Gli altri
calpestano i campi in patria nell’attesa del salto
di qualità.
Sfogliando gli almanacchi del passato ci si
accorge che in giro per l’Europa non sono
mancati altri talenti che hanno avuto maggior
fortuna. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta Avi Cohen ha
vestito la maglia del Liverpool, mentre Eyal Berkovic ha girato
tra Southampton, West Ham, Celtic Blackburn, Manchester City
e Portsmouth. Più recente è l’avventura di Yosef Benayoun
attualmente al Maccabi Haifa, ma con un passato tra Liverpool,
Chelsea e Arsenal, tra le altre. Senza dimenticare Eyal Golasa,
ventitreenne in forza al Paok Salonicco e giovane speranza del
calcio israeliano.
NATHANYA DI PORTO
Nella foto: Eran Zahavi
hanno iniziato a festeggiare, anche se non gli sembrava vero.
La piccola Israele che fa la partita e mette in difficoltà la più
blasonata squadra di Susic. Manca ancora un’eternità alla fine
della gara, ma il refrain non cambia. Quando allo scadere
Damari raddoppia la gioia è incontenibile e per le strade si è
già pronti a fare festa. La soddisfazione è totale alla terza rete
di Zahavi. “Ho provato le stesse emozioni di quando vince la
mia Roma - ci racconta Alessandro Astrologo - non avrei mai
pensato di provare una sensazione del genere. Io e mio figlio
Edoardo ci siamo abbracciati quasi avessimo vinto una finale.
Qui ci sono tante squadre, ma il calcio che seguiamo da
lontano è quello italiano. Eppure la nazionale israeliana ci sta
appassionando. Vi racconto un
retroscena. Alla fine della gara
talmente eravamo contenti che
volevamo comprare il biglietto
per assistere alla prossima sfida.
Quando abbiamo chiesto il
tagliando ci hanno presi per
matti. La partita contro il Galles
si giocherà a marzo ed era
inconcepibile voler acquistare fin
da ora un posto per tifare
Israele”.
N.D.P.
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Sono pochi i calciatori
israeliani che militano
nei campionati europei
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FOCUS
Un piccolo grande arbitro
Se la nazionale israeliana non ha mai
riscosso grandi successi, non si può dire
lo stesso di Abraham Klein,
l’arbitro israeliano che diresse persino
la celebre partita Italia-Brasile
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
A
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rbitro per caso. Salvo poi diventare uno dei migliori a livello
internazionale. È la storia di
Abraham Klein, direttore di gara israeliano, che ha saputo superare le
discriminazioni andando sui campi di gioco sempre a testa alta. Purtroppo in qualche circostanza sono state l’ignoranza e
l'odio razziale a negargli gioie immense
come dirigere una finale, ma lui è stato
contento lo stesso, perché qualche soddisfazione se l’è tolta. Non è un caso se è
stato considerato uno dei migliori arbitri
internazionali tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Nacque a Timisoara nel 1934, in un periodo in cui in Ungheria, come in molte altre città in Europa, essere ebrei significava doversi nascondere per sfuggire all’antisemitismo
dilagante in quegli anni. Il papà riuscì a
scappare prima che scoppiasse la guerra,
mentre lui rimase con la mamma e sopravvisse a quegli anni di orrore. Alla fine del conflitto la fame e la discriminazione erano sue compagne di vita, ma ebbe la fortuna di essere spedito a Apeldoorn, in Olanda, dove visse in una sorta di
collegio, accudito e sfamato.
Come ogni bambino che si rispetti il suo
sogno era quello di giocare a calcio.
Proprio come faceva il suo papà
nell'MTK di Budapest. Abraham ci
ha provato, ma con scarsi risultati.
Il pallone, tuttavia, era nel suo
destino. Erano gli anni del servizio
militare, che lui ha svolto in Israele,
e aveva necessità di un paio di pantaloni nuovi. Così durante una
pausa andò dal sarto. Il caso ha
voluto che quel giorno l’uomo
dovesse assentarsi per dirigere un
incontro di calcio e Abraham lo
seguì. Durante la sfida l’arbitro si
infortunò e chiese proprio a Klein di
sostituirlo. Il ragazzo non aveva
idea di quali fossero le regole, ma ci
mise poco a capire come funzionasse il gioco. E ne fu talmente affascinato
che decise di prendere la licenza per arbitrare. In poco tempo divenne il miglior
direttore di gara del campionato nazionale
e iniziarono le partite importanti: nel 1958
diresse il primo incontro tra una squadra
israeliana, l’Hapoel Nahariya, e una selezione dei dilettanti della Germania Occidentale. Aveva solo 24 anni. Carattere e
grinta non gli mancavano. Sei anni dopo
divenne arbitro internazionale e fu chiamato a dirigere Italia-Polonia del 1965,
match valido per le qualificazioni ai Mondiali dell’anno successivo. Prima di allora
era stato in stadi piccoli dove al massimo
potevano esserci ventimila persone. Con
una sfida del genere e ottantamila sugli
spalti dell’Olimpico di Roma non voleva
sbagliare nulla. Così per abituarsi alla
grande folla una settimana prima del suo
esordio decise di pagarsi da solo il viaggio
in Italia e il biglietto per la gara tra Napoli
e Roma. Studiò al meglio la partita che
stava per sancire il suo ingresso a pieni
gradi nell’élite degli arbitri. Gli azzurri
vinsero per 6-1 e Klein si dimostrò all’altezza della situazione.
Carisma, preparazione fisica e intellettuale lo aiutarono ad imporsi, tant’è che lo
vollero come arbitro nella sfida tra Brasile
e Inghilterra ai Mondiali messicani del
1970. “E’ come mandare un boy scout in
Vietnam” scrissero i giornali inglesi. Per
nulla intimorito diresse al meglio la sfida
negando con autorevolezza un rigore a
Pelé.
Dopo l’attacco terroristico di “Settembre
nero” alla delegazione israeliana alle
Olimpiadi del 1972, gli fu impedito per
ragioni di sicurezza di partecipare ai
Mondiali del 1974 in Germania, ma la sua
fama non ne risentì. Infatti venne designato per dirigere di nuovo l’Italia nel
match di qualificazioni per i Mondiali
argentini del 1978 contro l’Inghilterra e
ancora una volta sorrise ai colori azzurri
che si imposero per 2-0. Nessun favoritismo e alla fine ricevette anche i complimenti del delegato FIFA. Proprio in Sudamerica incrociò l’Italia in una delle sfide
più calde, quella contro i padroni di casa.
Risultato 1-0 con gol di Bettega, con Klein
vero portafortuna. Proprio quella gara,
benché diretta al meglio, gli costò la finale
perché gli argentini pretesero un arbitro
meno integerrimo. Abraham si consolò con
la sfida per il terzo e quarto posto tra l’Italia (ancora lei) e il Brasile.
Le origini ebraiche rischiarono di
compromettere la sua carriera, ma
la FIFA non poteva rinunciare ad
un arbitro come lui, quindi resistette alle intimidazioni della stampa
araba quando, con Kuwait e Algeria qualificate alla fase finale dei
Mondiali spagnoli, minacciarono di
boicottare la rassegna se a Klein
fosse stato permesso di scendere
in campo. L’organismo internazionale non poteva sottomettersi a
queste pressioni e concesse solo di
non far apparire il nome del
fischietto nelle trasmissioni arabe.
In quel periodo, però, l’attentato
all'ambasciatore israeliano in
Inghilterra, Schlomo Argov da
parte di terroristi palestinesi scatenò la
guerra in Libano ed il figlio di Abraham fu
mandato a combattere in prima linea. In
queste condizioni Klein non se la sentiva
di arbitrare, ma fece comunque il guardalinee assieme al tedesco Eschweiler in Italia-Perù del 18 giugno.
Una carriera del genere non poteva finire
sul più bello. Il destino ancora una volta
ha girato dalla sua parte. Fu proprio il
figlio Amit a chiamarlo per tranquillizzarlo e incitarlo a tornare ad arbitrare. Al
secondo turno c’era Brasile-Italia e toccò
di nuovo a Klein. Si aspettava una sfida
facile con i verdeoro favoriti alla vigilia,
ma non aveva fatto i conti con Paolo
Rossi, che segnò il 2-1. Solo allora si rese
conto che “Quella sarebbe stata una partita storica”. Così la definì il piccolo (era
alto solo 170 cm) grande arbitro. Anche in
quella sfida nulla da eccepire. Sul punteggio di 1-1 annullò un gol a Zico per fuorigioco e spedì il calciatore negli spogliatoi
prima del tempo per le continue proteste.
Il pareggio di Falcao illuse i brasiliani, ma
ci pensò di nuovo "Pablito" a ristabilire le
distanze. Per Klein una sola macchia:
aver annullato il 4-2 di Antognoni per
un’errata segnalazione del guardalinee. Si
è riscattato nel finale. A 48 anni era ancora in una forma eccellente e questo gli
permise di essere nella posizione giusta
nel momento opportuno. All’ultimo minuto della gara riuscì a vedere al meglio la
parata di Zoff sulla linea su colpo di testa
di Oscar. A passare il turno furono gli
azzurri che poi sconfissero la Polonia in
semifinale e si aggiudicarono la finale. In
molti si aspettavano che la partita clou di
quel Mondiale fosse assegnata ad
Abraham, ma con la Germania Ovest protagonista la Commissione arbitrale decise
inspiegabilmente di non creare imbarazzi
con i tedeschi legati ai fatti storici del
passato. Klein fu scelto come uno dei
guardalinee.
Israele non fu membro dell’Uefa fino al
1990 per questo Klein non poté arbitrare
alcun Europeo. Inoltre agli israeliani non
era ammesso dirigere nei paesi dell’Est
europeo, ma arbitrò due volte la Russia e
Cuba-Polonia nella gara di apertura delle
Olimpiadi di Montreal. Klein si ritirò nel
1984, a 50 anni. Divenne presidente della
commissione arbitri in Israele e istruttore
FIFA.
NATHANYA DI PORTO
Arpad Weisz, il grande allenatore dell’Inter
na delle figure di religione
ebraica più leggendarie nella
storia del calcio italiano è quella
di Arpad Weisz. Ungherese di
nascita, dopo aver calcato il terreno di
gioco per diversi anni come ala sinistra, fu
allenatore in Italia negli anni Trenta vincendo tre scudetti: prima con l’Ambrosiana Inter (1929-30) e poi
con il Bologna (1935-36 e
1936-37) stabilendo il
record, ancora imbattuto, di essere il più giovane tecnico a conquistare
il tricolore. Durante la
sua esperienza meneghina scoprì Giuseppe
Meazza. Nel 1930 scrisse
insieme a Aldo Molinari
il manuale “Il giuoco del
calcio” in cui tracciò la
sua rivoluzione calcistica
destinata a fare proseliti
e scuola per i futuri allenatori, in cui valorizzava
la disposizione tattica
dei giocatori in campo,
dando maggiore importanza alla preparazione
atletica e arretrando la
posizione dei centrocampisti fino ad allora troppo
sbilanciati in avanti. In
questo modo si deve a lui
il ruolo di mediano sulla
difensiva. Fu un allenatore all’avanguardia che
influenzò con le sue idee
anche Vittorio Pozzo che
allenava l’Italia mondiale
dell’epoca. Lo si ricorda
anche per essere stato il
primo tecnico a scendere in campo di
gioco per dirigere gli allenamenti.
Con l’emanazione delle leggi razziali,
Arpad Weisz dovette lasciare il Paese e
trovare rifugio insieme alla famiglia prima
a Parigi e poi nel piccolo paese olandese di
Dordecht. Dopo aver perso la moglie e i
figli catturati e sterminati dalle SS, fu
deportato nel campo di sterminio di
Auschwitz dove morì nel gennaio del 1944.
Nell’ultimo decennio, dopo un oblio durato a lungo, la figura del leggendario allenatore è stata rievocata e pubblicizzata
con diverse iniziative in Italia. Grazie
all’opera di Matteo Marani, direttore del
Guerin Sportivo, che ha scritto un volume
“Dallo scudetto ad Auschwitz” si è venuti
a conoscenza di tanti aneddoti inediti
della sua vita. E negli stadi del Bologna e
del Novara e nel salone del Meazza è possibile visionare le targhe, affisse recentemente, che ne ricordano le gesta.
Da qualche anno è intitolato a suo nome
un torneo calcistico annuale della memoria, cui partecipano squadre dilettantistiche di molte regioni italiane.
JONATAN DELLA ROCCA
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
U
Eccellente tecnico, fu catturato e deportato ad Auschwitz
21
FOCUS
Quando gli ultras
parlano ebraico
Purtroppo anche nel calcio israeliano
vi sono manifestazioni di violenza
e di razzismo, duramente punite
A
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Roma ci fu il Gruppo Anti Manfredonia per contestare
la scelta di tesserare l’ex laziale nel 1987; nel 2000, nel
primo match da ex con la maglia del Real Madrid, i
tifosi del Barcellona lanciarono una testa di maiale a
Luis Figo; la scorsa estate, i fan dell’Arsenal hanno bruciato la
maglietta di Fabregas al momento del suo trasferimento dal Barcellona al Chelsea, dopo che il giocatore aveva promesso che non
sarebbe mai andato in altre squadre inglesi.
Anche in Israele si è verificato un “tradimento”: Eran Zahavi, oggi
trequartista del Maccabi Tel Aviv, è un nome noto a molti intenditori, in quanto titolare della nazionale israeliana nonché ex del
Palermo. Prima di trascorrere le due stagioni in Sicilia, però, giocava proprio nell’Hapoel, l’altra squadra di Tel
Aviv dove era cresciuto. La scelta di tornare in
patria ma sull’altra sponda non è stata presa
bene dai suoi vecchi supporter, che hanno dimostrato il loro disappunto nel derby dello scorso
novembre, in cui si è giunti alla sospensione del
match pochi minuti prima della fine del primo
tempo. Al 32’ un tifoso dell’Hapoel è riuscito a
entrare in campo e ha aggredito Zahavi, il quale
si è difeso sferrando il calcio da cui è nata la
rissa: la parte di campo intorno al lato corto
dell’area di rigore è diventata una sorta di ring,
dove l’arbitro e gli altri giocatori sono presto
intervenuti per separare i due. Tuttavia, l’allontanamento di questo tifoso non ha impedito che
la situazione degenerasse: l’arbitro ha espulso
Zahavi e a quel punto il general manager del Maccabi Jordi Cruyff
(figlio del grande Johan) ha minacciato il ritiro dei suoi, mentre
altri tifosi invadevano il campo e attaccavano giocatori e steward.
Dodici arresti il bilancio finale.
A seguito di questa vicenda, il ministro della Giustizia Tzipi Livni
ha lanciato l’allarme sul pericolo violenza nello sport. Tuttavia, l’episodio di Tel Aviv non rappresenta l’unico caso di violenza del
calcio israeliano, che si trova sempre più spesso a vivere problemi
analoghi al resto del mondo. Il tema più noto è quello dei tifosi del
22
Beitar Gerusalemme e in particolare delle sue frange più estremiste, rappresentate da “la Familia”, il gruppo nato nel 2005 che oggi
conta circa 5mila persone. “Ultranazionalisti e razzisti” secondo un
articolo di Libération; “di estrema destra” e “islamofobi” per il
Washington Post. Il Beitar, nato nel 1936, è da sempre legato al
Likud e alla destra israeliana, ma negli ultimi anni questa tendenza
si è accentuata notevolmente. Come raccontato da un articolo del
New York Times di gennaio 2013, alcuni di questi ultras sono stati
protagonisti di episodi di violenza nei confronti di alcuni lavoratori
arabi. Il caso più eclatante si è però verificato all’inizio del 2013,
quando i tifosi hanno protestato in modo molto acceso contro il
proprietario – l’uomo d’affari israelo-russo Arkadi Gaidamamk – reo
di aver ingaggiato due calciatori del Tarek Grozny, originari della
Cecenia e musulmani. In Israele la presenza in
squadra di giocatori arabi è una prassi, ma non
nel Beitar, unica eccezione tra le 30 squadre professioniste israeliane. Allo stadio è stato esposto
lo striscione “Beitar puro per sempre”: un tifoso
è stato arrestato, altri cinquanta sono stati bloccati, mentre lo stesso club è stato multato. L’allora Presidente israeliano Peres, ma anche il premier Netanyahu e il suo predecessore Ehud
Olmert, questi ultimi grandi sostenitori del Beitar, hanno espresso pubblicamente il loro disappunto per quanto accaduto.
Inevitabili, a novembre scorso, i timori per il
delicato scontro tra il Beitar e il Bnei Sakhnin,
l’unica squadra araba del campionato israeliano,
che, peraltro, alcuni mesi prima era stata multata per aver reso omaggio sul terreno di gioco a Azmi Bishara, ex
deputato arabo israeliano accusato di aver collaborato con Hezbollah. Tanta tensione a inizio partita, ma alla fine, grazie anche alle
imponenti misure di sicurezza prese preventivamente, le cronache hanno riportato solo la vittoria a sorpresa per 1-0 degli arabi:
la dimostrazione di come anche nel calcio emerga il carattere
democratico di Israele, che tuttavia si trova a fare i conti con la
violenza negli stadi, proprio come tanti altri Paesi.
DANIELE TOSCANO
Israele sogna
Francia 2016
Shalom ha incontrato Eli Guttman,
l’allenatore della nazionale israeliana
Sono una persona forte, ma sono anche un essere umano sensibile.
Quali sono i valori in cui credi?
Metodo, professionalità, responsabilità. Ma anche rispetto, onestà
e fedeltà. Queste sono le cose in cui io credo.
Come affronti i momenti di insuccesso nel tuo lavoro?
Per come la vedo io quel che è successo è successo, fa parte del
passato e non si può cambiare. Ma dobbiamo sfruttare gli errori
per non ripeterli e poter migliorare il nostro lavoro senza perdere
fiducia. Riflettere sugli sbagli di una partita ci servirà per non farli
di nuovo.
Quale allenatore ti piace?
C’è un allenatore particolare che ogni volta mi incuriosisce e mi
appassiona a tal punto che la sua filosofia del calcio, per me, è un
modello da studiare. È Josep Guardiola, l’allenatore del Bayern
Monaco.
Qualche volta chiami i giocatori, “i miei figli”. Non è eccessivo?
Se un allenatore non ha intelligenza sentimentale, non può avere
successo. Così io li sento, perché ho tre figli di 17, 24 e 29 anni, e
questa è anche l’età dei giocatori. Se devo essere duro con loro,
sono duro, ma se hanno bisogno di una carezza gliela do. Perché
gli voglio bene, gli voglio trasmettere sicurezza e guidarli nella
loro strada, esattamente come faccio con i miei figli.
Tu sei figlio di genitori sopravvissuti alla Shoa ed alleni la
nazionale di Israele. Senti una responsabilità in più?
Penso che dobbiamo dare tutta l’attenzione e tutto il rispetto possibili ai sopravvissuti, e non dimenticare questa generazione
perché il progetto sionistico può esistere solo grazie a loro.
Siamo alla fine dell’intervista, dacci in consiglio: compriamo il
biglietto per vedere la nazionale israeliana per Francia 2016?
Posso promettere una cosa: ce la metterò tutta per riuscirci!
YAARIT RAHAMIM
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GENNAIO 2015 • TEVET 5775
M
ordechai Shitenberg si trovava di fronte a un plotone
d'esecuzione nazista con sua moglie Roza e sua figlia
Ester. A pochi istanti dalla morte quando qualcuno
ha chiesto: “ci sono qui farmacisti o medici?”, Mordechai ha risposto: “Io sono farmacista ma non vengo senza mia
moglie e mia figlia”. E così sono sopravvissuti all’Olocausto.
Settant’anni dopo suo nipote Eli Guttman è l’allenatore della
nazionale di calcio israeliana che ha contribuito ai successi della
squadra di questi ultimi mesi e sta dando la speranza che la nazionale di calcio d’Israele possa partecipare – dopo un’assenza di
decenni - a una competizione importante internazionale, come i
campionati europei di calcio che si terranno in Francia nel 2016.
L’ultima uscita internazionale della squadra nazionale risale infatti al 1970 quando partecipò ai mondiali di calcio in Messico.
Eli Guttman è nato e cresciuto ad Haifa, e ha iniziato la sua carriera
di allenatore nel 1985. E’ stato anche allenatore a Cipro delle squadre: Enosis Neon Paralimniou e AEL Limassol e in Israele ha allenato le squadre Maccabi Haifa, Hapoel Be’er Sheva, Beitar Gerusalemme, Hapoel Haifa e altre. Con lui per la prima volta la squadra
Hapoel Tel Aviv nella stagione 2009/2010 è arrivata alla Champions
League. Nel settembre 2000 ha vinto con il Beitar Gerusalemme la
Coppa per la pace a Roma. Finora ha vinto come assistant coach un
campionato israeliano e una Coppa d’Israele, e come allenatore
titolare tre coppe e due campionati in Israele. Nel 2011 è stato
nominato l’allenatore della squadra nazionale israeliana.
Shalom lo ha incontrato il mese scorso nella sua città natale.
Qual è il segreto del successo dell'attuale nazionale? Cosa la
distingue dalla squadra in cui ad esempio giocarono campioni
come Haim Revivo, Alon Mizrahi e Eyal Berkovic?
In questa squadra c’è una cosa particolare, speciale, cioè lo spirito
della squadra. Ognuno dei giocatori prende il suo “ego” e lo mette
al servizio della squadra e questa è la cosa più importante. Sono
molto orgoglioso di essere l’allenatore di una squadra così, di
ragazzi intelligenti, seri, che capiscono l’importanza del gioco di
squadra, ed è questo che fa la differenza.
Israele riuscirà a qualificarsi per Francia 2016?
La strada è ancora molto lunga. Abbiamo ancora altre partite difficili e non voglio cantare vittoria prima del tempo. Penso che
queste tre partite che abbiamo vinto ci diano la spinta di cui
abbiamo bisogno per proseguire nella nostra strada.
Cosa significa allenare una nazionale?
Quando sento l’inno, quando ho sentito l’“Hatikvah” nell’ultima
partita, quando 31 mila tifosi hanno cantato insieme l’“Hatikvah”
ho sentito i brividi. Non ci sono paragoni tra l’allenare la squadra
nazionale e le altre squadre. Allenare la nazionale significa rappresentare Israele, e quindi vedere la realizzazione di un sogno,
arrivare al top della carriera. Allenare una squadra durante il
campionato significa incontrare e lavorare con i giocatori ogni
giorno. Se provi uno schema di gioco e ti rendi conto che non funziona, hai tutto il tempo di cambiare, invece nella squadra nazionale no. Il lavoro è tutto molto concentrato, in quattro-cinque
giorni devi fare tutto e nel miglior modo possibile. In poco tempo
dobbiamo studiare le nostre tattiche di gioco ma anche l’avversario. Facciamo una preparazione molto precisa. E' come giocare un
campionato di dieci partite che dura un anno e mezzo, e ogni
partita è come se fosse una finale di coppa.
Sei definito uno “Yeki”, riservato, introverso, ma in più di qualche occasioni ti sei emozionato e hai pianto. Non è una contraddizione?
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EBRAISMO
Benigni, i Dieci Comandamenti
e le fonti ebraiche
Quando la religione diventa uno spettacolo di successo
N
ei giorni seguenti l’evento televisivo “I dieci comandamenti” abbiamo letto commenti da parte ebraica che
hanno elogiato quasi unanimemente la bravura artistica di Roberto Benigni,
ma altresì alcuni hanno lamentato che l’attore toscano non abbia
citato le fonti ebraiche dei suoi
commenti, eccetto qualche rara
volta. Non è la prima volta che con
l’attore toscano il mondo ebraico
si trova in questa situazione: compiacimento per l’estetica e l’esibizione artistica ma discussione sul
modo di confrontarsi alle fonti e
alla natura dell’evento. Già il film
Oscar “La vita è bella” aveva diviso il pubblico. Come allora si tratta di una libertà di osservazione e
di critica che tocca il rapporto tra
verità storica e l’arte. Innanzitutto
è bene capire i meccanismi che
dietro le quinte animano la messa a punto di una trasmissione di
successo, e quali scelte possano
essere state compiute dall’artista su temi delicati che toccano
il mistero biblico con un’infinità
di implicazioni teologiche, riuscendo a far presa su una vasta
platea, su temi che difficilmente vengono proposti dai canali di
Stato nella prima serata. Questo non vuole essere dietrologia, ma
penso che valga la pena mettere per iscritto certe osservazioni.
Va ricordato che la Rai ha investito sul progetto due serate di
prime time, di forte appeal pubblicitario, proprio nella settimana che ha preceduto le festività natalizie, su un tema tanto caro
alla coscienza popolare. Si è trattato di un programma, diviso in
due puntate, che ha registrato un’audience inferiore solo al festival di Sanremo e alla partite di calcio. Il canale sul quale è stato
trasmesso il programma è stato
RaiUno, la rete legata da sempre
al mondo cattolico. E’ logico pensare che lo spettacolo, sebbene
sia stato preparato da lungo tempo, non abbia subito pressioni nei
contenuti, lasciando a Benigni
l’assoluta libertà artistica. Però,
altresì, è lecito dedurre che il protagonista, lautamente compensato, e consapevole di essere ormai
la star della rete, avendo già presentato la Divina Commedia, la
costituzione italiana e altri one
man show di successo, non se
la sia sentita di riportare le fonti
rabbiniche e midrashiche di quasi tutti i suoi commenti, lasciando poi a mani vuote l’altra parte.
Non poteva Benigni commettere
più di uno sgarbo al committente
e a una rete a lui tanto cara. E
poi, a credito dell’artista, va sottolineata la valenza artistica del
programma: si è trattato di uno spettacolo, punto e basta; né
storico documentaristico, né tantomeno di una trasmissione dal
carattere religioso. Con il merito di viaggiare a ritroso nel tempo di tremilatrecento anni come un saltimbanco tra umorismo,
competenza ed ironia, divulgando l’eternità e l’universalità del
messaggio divino.
JONATAN DELLA ROCCA
IMPRONTE VIAGGI E TURISMO
‫ארגון רומאי חברים של ישראל‬
Associazione Romana Amici d’Israele
PRESENTA
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Se lo vorrete non sarà un sogno
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l grande maestro della scuola di Mussar Israel Salanter osservò
che non tutto quello che si pensa va raccontato, non tutto
quello che si racconta va scritto e non tutto quello che è scritto
va pubblicato. Questa osservazione va di pari passo con il
detto dei maestri nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri) che insegnano: "Chi è forte? Colui che sa controllare i propri istinti".
Steven Oppenheimer in un articolo scritto nel 2001 sul Journal of
Halacha and Contemporary Society (n. 41) di New York osservava:
"I giornali hanno una funzione vitale nella società, informando e
guidando il pubblico durante le crisi economiche, sociali e politiche.
Il pubblico si aspetta dai giornali informazioni oneste e veritiere. I
giornalisti hanno quindi un enorme potere perché tante persone si
basano su di loro per le informazioni che ricevono nella vita di ogni
giorno”.
Il giornalista deve quindi sapersi controllare e cercare per quanto
possibile di riportare le notizie in modo onesto senza farsi trascinare dalle passioni o dai pregiudizi. È chiaro quanto sia difficile riuscire a seguire questa linea di condotta al cento per cento, tuttavia la
Torà è stata scritta per esseri umani che sono di natura proni ad
errori e non per esseri perfetti come gli angeli. Con tutto ciò, data
questa responsabilità, è imperativo che l'ebreo che desidera fare il
giornalista sia cosciente del fatto che nell'espletare le sue responsabilità può incorrere in un grande numero di trasgressioni.
Si racconta di uno shochet che andò dal suo Rebbe e gli disse che
era spaventato dalla responsabilità che aveva e temeva che se
avesse commesso un errore, avrebbe potuto causare un enorme
danno alla comunità facendo consumare carne non kasher. Desiderava pertanto cambiare mestiere e darsi al commercio. Il Rebbe lo
convinse a continuare a fare lo shochet, dicendogli che proprio il
fatto che avesse timore di commettere errori significava che era la
persona adatta a fare lo shochet e che se avesse voluto cambiare
mestiere e fare il commerciante, come egli aveva prospettato in
alternativa alla sua occupazione attuale, avrebbe avuto un numero
molto più grande di trasgressioni di cui preoccuparsi. È più che
probabile che facendo il giornalista il numero di possibili trasgressioni sia superiore a quello di chi si dà al commercio.
Oppenheimer scrisse: "È cosa normale per un giornale chiedere
l'opinione del proprio legale prima di pubblicare un articolo importante. Questo viene fatto per evitare di essere citati in tribunale per
avere usato espressioni improprie o per asserzioni non sostenute
dai fatti. La redazione vuole sapere dal proprio legale fino a quale
punto può riportare certi dettagli perché ci sono alcuni limiti che
redattori e reporter sanno di non poter oltrepassare. [...] Nello stesso modo i redattori dei giornali ebraici devono consultare le autorità halachiche [...] per essere certi che quello che viene pubblicato
non esce dai limiti del consentito".
Tra le regole halachiche da prendere in considerazione nella conduzione degli affari di un giornale, queste che seguono sono probabilmente le più importanti:
1. Gli articoli devono essere informativi e devono evitare di creare
inutili dissidi e di incoraggiare polemiche distruttive che creano o
alimentano discordie. Questo lo impariamo dal dissidio generato da
Korach e dai suoi seguaci che non seppero trattenersi dal proseguire nella ribellione fino alla loro tragica fine (Bemidbàr 16:25). In
quella occasione Moshè nostro maestro andò di persona da Datan
e Aviram che si erano ribellati, cercando di far cessare il dissidio. I
Maestri imparano da qui che è proibito persistere nelle discordie
(Sanhedrin, 110a).
2. La Torà proibisce di parlare male del prossimo perché è scritto
"Non andare a sparlare del prossimo" (Vaykrà, 19:16). R. Israel Meir
Kagan alla fine dell'Ottocento scrisse l'opera Chafetz Chaim, un'espressione presa dal versetto dei Salmi (34:13) "Chi è l'uomo che
desidera vivere", per presentare al pubblico una raccolta ed elencazione completa delle regole della maldicenza. Egli spiegò che maldicenza significa dire del male del prossimo anche quando si dice
la verità. Se non si dice la verità si cade nella trasgressione ancora
più grave di diffamazione. Se è proibito sparlare del prossimo nei
colloqui personali a maggior ragione bisogna guardarsi dal farlo in
un giornale con il quale, diffondendo la notizia dappertutto, si rovina la reputazione del prossimo. Ci sono tuttavia situazioni nelle
quali non solo è permesso ma anche doveroso esporre le malefatte
del prossimo. Un esempio attuale è quello di un marito al quale il
Bet Din ha dato ordine di dare il ghet (documento di divorzio) alla
moglie e costui ha rifiutato. In tale caso si può pubblicare sul giornale che il tal dei tali ha disobbedito a un ordine del Bet Din. Ci sono
altre situazioni analoghe nelle quali è permesso pubblicare articoli
sulle trasgressioni di alcuni individui per cercare di farli desistere o
per lo meno per far sì che il pubblico venga avvertito del fatto e
prenda le distanze dai trasgressori.
3. Il giornalista di un giornale ebraico deve stare particolarmente
attento a presentare tutte le notizie tenendo conto del fatto che la
Torà comprende mitzvòt prescrittive che ci impongono di agire in
un certo modo, mitzvòt proscrittive che ci proibiscono di agire in un
altro modo e "Hilchot De'ot ve Chovòt Halevavòt", ovvero "regole
delle opinioni e dei doveri del cuore", come le denominò Rav Itzchak
Hutner. I redattori dei giornali non sono responsabili solo per le
opinioni della redazione ma anche per qualunque articolo pubblicato sul loro giornale che può condurre i lettori a pensare che un'azione o un'opinione proibita sia invece permessa. Cosi facendo trasgredirebbero la mitzvà di "Non porre un inciampo davanti a un
cieco" (Vaykrà, 19:14).
Quest'ultimo punto è particolarmente delicato. Tutti sanno che è
proibito rubare e quindi un articolo che riporta la notizia di un
furto a un negozio di una gioielleria di Via Veneto non ha bisogno
di ulteriori commenti. Ci sono invece notizie alle quali, se riportate in giornale, è doveroso aggiungere che si tratta di comportamenti proibiti dal momento che può non essere chiaro a tutti se lo
siano o meno.
Un esempio recente è quello di alcuni ebrei di Gerusalemme che,
credendo di fare del bene, avevano accettato di partecipare a un
evento organizzato nell'ottobre 2014 dalla International Christian
Embassy di Gerusalemme nel quadro del quale era prevista una
preghiera comune tra ebrei e cristiani vicino al Muro meridionale
del Monte del Tempio. Entrambi i rabbini capi dello Stato d'Israele
dichiararono che la cosa era proibita. In un caso del genere, nel
riportare l'avvenimento è cruciale che il giornalista che desidera
scrivere un articolo abbia cura di indicare nel suo scritto che la
preghiera comune tra ebrei e membri di altre religioni è stata
proibita dal rabbinato. Senza una tale indicazione il pubblico dei
lettori avrebbe potuto pensare che pregare tutti insieme fosse un
esempio di fratellanza umana.
È quindi responsabilità di ogni giornalista ebreo studiare a fondo le
halachòt pertinenti alla loro occupazione e nei casi di dubbio
rivolgersi al rav della comunità. Di conseguenza, è responsabilità
dei dirigenti delle comunità far sì che i giornali che dipendono dalle
comunità si attengano a una condotta in linea con quello che la
Torà ci prescrive.
DONATO GROSSER
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
I
Le responsabilità
dei giornalisti
secondo la Torà
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CULTURA
Tel Aviv, un laboratorio
culturale per le nuove idee
e tendenze
La città israeliana inserita dall’Unesco
nel Creative Cities Network
N
el dicembre scorso, ventotto nuove città, da Torino a
Praga, da Granada a Coritiba, sono state inserite dall’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) come nuovi membri del Creative Cities Network. Sono così divenute 69 le città che hanno individuato
nella cultura e nella creatività una guida strategica per uno sviluppo urbano e sostenibile. Tra le new entry, figura anche Tel Aviv.
Il riconoscimento ufficiale è giunto alla
città israeliana dieci anni dopo essere
stata nominata patrimonio mondiale
dell’umanità per la sua straordinaria
collezione di più di 4mila edifici originali Bauhaus sparpagliati nella città.
Il Network delle Città Creative è un
progetto lanciato nel 2004 con lo scopo
di favorire la cooperazione internazionale tra città mediante l’inclusione sociale e un aumento dell’influenza della
cultura nel mondo. Entrando a far parte
di questa rete, le città si impegnano a
collaborare e a sviluppare delle partnership con i fini di promuovere laboratori culturali, condividere le
tradizioni, rafforzare la partecipazione alla vita culturale e integrare la cultura nei progetti di sviluppo economico e sociale.
Il Network copre sette aree tematiche: artigianato e arti popolari,
design, cinema, gastronomia, letteratura, arti multimediali e musica. Tel Aviv è stata inserita nella categoria delle arti multimediali,
cui appartengono città dove la tecnologia digitale è sviluppata e
implementata con successo nel miglioramento della vita urbana.
Il florido panorama high-tech di Tel Aviv e le numerose imprese
tecnologiche hanno contribuito a far raggiungere alla città israeliana questo traguardo. Attualmente a Tel Aviv ci sono più di 700
start-up nella loro fase iniziale: una città con poco più di 400.000
abitanti, che però è seconda al mondo per il maggior numero di
start-up, mentre ne ha il più alto numero per abitante.
L’inserimento di Tel Aviv nella Creative Cities Network è un grande onore per la città e rafforzerà lo sviluppo di attività, progetti e
iniziative nel campo delle arti multimediali nel mondo accademico, nel settore
degli affari, nell’industria, nelle istituzioni culturali. Al fine di mantenere il titolo, Tel Aviv presenterà annualmente
all’organizzazione le iniziative attuate
in città e la cooperazione sviluppata a
livello internazionale.
Commentando questo risultato, il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha detto:
“L’ingresso di Tel Aviv nel Creative Cities Network dell’UNESCO riflette il riconoscimento del mondo del contributo
dato dalla città al presente e al futuro
– un riconoscimento che attribuisce a Tel Aviv il ruolo di un vivace
centro di creazione culturale e di tecnologia all’avanguardia, con
imprese creative e iniziative originali e innovative”.
L’appuntamento per i rappresentanti di Tel Aviv è per maggio 2015, quando si terrà il prossimo vertice del Creative Cities
Network a Kanazawa, in Giappone.
DANIELE TOSCANO
La Menorah di Anticoli ad Eva Fischer
Il riconoscimento consegnato in occasione
della Giornata europea della cultura ebraica
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l premio “Menorah di Anticoli” 2014, che si assegna a Fiuggi
nella ricorrenza della Giornata Europea della Cultura Ebraica,
è stato attribuito alla pittrice Eva Fischer. La manifestazione,
promossa dalla Fondazione Giuseppe Levi Pelloni e dalla
Biblioteca della Shoah di Fiuggi, è giunta al suo secondo anno di
vita ed è dedicata a figure ed istituzioni del mondo ebraico internazionale. L’anno scorso l’ambito riconoscimento, una copia
dell’antica Menorah di Anticoli riprodotta su pietra dal maestro
Luigi Severa, è toccato alla Fondazione Keren Keyemet LeIsrael
per il suo secolare impegno profuso nel campo dell’ecologia.
L’opera artistica di Eva Fischer è stata presentata da Pino Pelloni
e Daniel Benjamin Morello ed illustrata da Alan David Baumann.
L’artista, oggi ultra novantenne, ha inviato al pubblico di Fiuggi
un suo commosso saluto videoregistrato che ha riscosso lunghissimi e calorosi applausi.
Eva Fischer è nata a Daruvar (Ex Jugoslavia), nel 1920. Il padre
Leopoldo, Rabbino Capo ed eccellente talmudista venne deportato dai nazisti. Sono più di trenta i familiari di Eva scomparsi nei
lager. Negli anni precedenti la guerra, Eva Fischer si diplomò
all’Accademia di Belle Arti di Lione e fece ritorno a Belgrado dove
subì i vandalici bombardamenti nazisti sulla città (1941). Ebbe
così inizio un periodo travagliato fatto di fughe e costellato da
privazioni e duri sacrifici che l’ha portata infine a vivere a Roma,
dove entrò immediatamente a far parte del gruppo di artisti di Via
Margutta coi quali contrasse indelebili amicizie. Di quel periodo
sono gli incontri con Mafai e Guttuso, Tot, Campigli, Fazzini, Carlo
Levi, Capogrossi, Corrado Alvaro e tanti di quella generazione di
artisti che avevano maturato idee luminose entro il buio della
dittatura. Intensa fu l’amicizia con De Chirico, Mirko, Sandro
Penna e Franco Ferrara allora già brillante direttore d’orchestra;
venne così il tempo di lunghe e notturne passeggiate romane
anche con Jacopo Recupero, Cagli, Avenali, Giuseppe Berto e
Alfonso Gatto nonché Maurice Druon. Fu in quel tempo che Dalì
vide e s’innamorò dei mercati di Eva mentre lo stesso Ehrenburg
scrisse sulle “umili e orgogliose biciclette”. Con Picasso s’incontrarono nella bella casa di Luchino Visconti. Poi vennero gli anni
del vagabondare tra Parigi, Madrid e Londra. Gli anni delle mostre
e della sua fama internazionale.
DAVID SPAGNOLETTO
Nella foto: il figlio di Eva Fischer, Alan David Baumann ritira il premio
STORIA
Prima di tutto italiani.
Gli ebrei romani
e la Grande Guerra
ell’anno del centenario della Prima Guerra Mondiale, il
Museo ebraico di Roma ha inaugurato la mostra “Prima
di tutto italiani: gli ebrei romani e la Grande Guerra”
che racconta il contributo ebraico alla Prima Guerra
Mondiale, attraverso foto, lettere dal fronte, libri, medaglie, tefillot,
elenco dei morti in guerra; reperti che raccontano di persone che
hanno lottato per la difesa della propria patria, per poi venire colpiti dalle Leggi Razziali del 1938 e deportati nei campi di sterminio.
La mostra è stata realizzata grazie ai prestiti di Paola Bonfiglioli,
Orietta Citoni, Esther Di Porto, Rosa Piperno, al contributo dell'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, e al contributo
dell'attore cinematografico Silvio Muccino all'interno del video-documentario dell'esposizione.
La mostra è stata inaugurata il 16 Dicembre, alla presenza del
presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, del
Ministro della Difesa Roberta Pinotti, del Rabbino Capo Di Segni,
del'Assessore alla Cultura Gianni Ascarelli, della direttrice del
museo Alessandra Di Castro e di Lia Toaff, curatrice della mostra.
"Nella realizzazione della mostra è stato importante il contributo
della famiglia Anticoli - ha spiegato la curatrice della mostra Lia
Toaff - infatti ci hanno consegnato una serie di lettere scritte
durante la guerra da cui emergeva l'italianità dei soldati senza
trascurare l'aspetto religioso; nel 1915 fu infatti istituito il Rabbinato Militare, che permetteva ai rabbini di seguire le truppe al
fronte. Inoltre da queste lettere emerge il desiderio dei soldati di
rispettare le tradizioni ebraiche; ci sono infatti richieste di permesso durante la Pasqua Ebraica, o richieste di fornitura del pane
azzimo al fronte".
Storie di uomini sulla linea di confine, di rabbinati militari e di
ebrei italiani che tornati dal fronte per difendere la patria saranno
poi declassati dalle leggi “razziste” e deportati nei campi di sterminio nazisti. All’inizio del conflitto l’identità patriottica degli
ebrei era pari a quella di qualsiasi italiano. La Prima Guerra Mondiale rappresentò l’occasione per legittimare la partecipazione
alla vita sociale, visto che per la prima volta gli ebrei furono messi
sullo stesso piano dei cittadini italiani. Il richiamo alle armi rap-
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presentava, infatti, una spinta verso l’emancipazione e smentiva
coloro che identificavano l’ebraismo con la codardia e l’ostilità
verso la patria di adozione.
La mostra è un viaggio nel conflitto del 1915 e nella comunità
ebraica in Italia. All’epoca la popolazione di ebrei ammontava a
circa 35.000 persone su un totale di circa 38 milioni di italiani.
Molti di quegli ebrei accettarono l’entrata in guerra in virtù del
patriottismo e dell’attaccamento alla dinastia dei Savoia. Cinquemila furono quanti partirono per il fronte, nel 50% dei casi ricoprirono il grado di ufficiali. Perché un ebreo potesse essere nominato
ufficiale era necessario che avesse conseguito almeno il diploma
di studi superiori. Ma gli ebrei romani rappresentano un’eccezione rispetto alla popolazione ebraica italiana che aveva un’istruzione di gran lunga superiore a quella della media nazionale. Lungo
la storia, a loro erano stati permessi solo mestieri poveri e durante
gli anni di ‘reclusione’ nel ghetto si erano occupati principalmente
di commercio, così la loro posizione socio-culturale non era avanzata. Ricoprirono, dunque, principalmente il ruolo di militari di
truppa, gli ufficiali rappresentavano una minoranza.
La regione italiana che ebbe il maggior numero di ufficiali ebrei
combattenti (circa 500) fu il Piemonte seguita dalla Toscana (circa
400), dal Veneto e dall’Emilia Romagna (circa 350 ciascuna).
Durante i combattimenti fu garantita l’assistenza religiosa. Per gli
ebrei venne istituito nel giugno 1915 il Rabbinato Militare. Molti
ebrei al fronte, invece, volevano evitare di distinguersi per religione. Solo con il tempo divennero consapevoli e fieri del proprio
essere ebrei e italiani allo stesso tempo. I caduti ebrei durante la
guerra furono all’incirca 420 e si suppone che in totale ne vennero
decorati circa 700. Era di 1.600 il numero di ufficiali ebrei in vita
quando in Italia calò l’ombra delle leggi razziali. In virtù del loro
contributo alla patria, molti combattenti chiesero di essere “discriminati”. Non si registrarono però tanti casi in cui queste “discriminazioni” vennero concesse e molti di coloro che per l’Italia
avevano combattuto, caddero in mano nazista e furono uccisi tra
il 1943 e il 1945 nei campi di sterminio.
GIORGIA CALÒ
Le testimonianze e le lettere inviate dalle trincee
l pomeriggio del 2 settembre 1967 un autista dell’autobus 31,
al capolinea di piazzale Clodio, mise involontariamente fine
alla vita di Gabriele Anticoli, in arte Hello Gabry, definito sui
giornali dell’epoca anziano commediografo, molto noto negli
ambienti artistici della città.
All’epoca io avevo soltanto 6 mesi, ma familiarizzai presto col personaggio, dal momento che le sue foto e i suoi ritratti erano esposti
nel soggiorno della casa di mia nonna, a Monteverde. Il suo pseudonimo, che mi appariva stravagante, era una delle prime apparizioni
domenicali, quando, con mia madre, mia nonna e mia sorella, si andava al cimitero del Verano a visitarne la tomba.
Della famiglia Anticoli, dagli archivi della Comunità Ebraica, si sa
che ha un origine sefardita, di Scola castigliana, la cui presenza a
Roma è documentata dalla fine del ‘700.
Del padre, Prospero, sappiamo che con Flaminia aveva generato
ben tredici figli. Precedentemente agli scavi archeologici che ne
rappresentano l’attuale sistemazione, esercitava la professione di
pasticcere in un chiosco a largo Argentina. Dichiarava di essere l’inventore della bibita “cocco fresco”, che sosteneva che gli fosse stata successivamente copiata e venduta da altri nel chiosco di via del
Tempio. La famiglia risiedette tra via dei Giubbonari, piazza Santa
Maria in Trastevere, e Piazza Ippolito Nievo, sempre poco lontano
dal ghetto in cui gli ebrei romani erano stati costretti a vivere per
quattrocento anni e da cui non si allontanavano volentieri.
Nel 1915 tutti i figli erano nati e la minore, Graziella, aveva circa
due anni. Coccolata dai fratelli, nel tempo Graziella si era ritrovata
in casa scatole contenenti documenti e oggetti (ne sono dimostrazione le dediche su foto e libri) affidatele da Gabriele, che non aveva
avuto figli e che era di 24 anni più grande.
Probabilmente mia nonna aveva un’attitudine alla conservazione,
visto che nel grande armadio a muro e nel mobile del soggiorno
custodiva le testimonianze della sua vita.
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Al Museo ebraico la mostra
sulla partecipazione ebraica
alla Prima Guerra Mondiale
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STORIA
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Tra i ricordi più cari della mia infanzia ci sono quegli oggetti, di cui
saprei riconoscere ancora il profumo: carta, tessuti, abiti, borse.
Nei lunghi pomeriggi invernali, in cui i miei genitori erano impegnati nel negozio ”in piazza”, io e mia sorella entravamo nell’armadio
per esplorare quei tesori. Quel meraviglioso armadio occupa ancora
oggi i miei sogni.
A casa di mia nonna c’erano anche lettere, ritagli di giornale e foto,
che avevano come oggetto, soprattutto, le guerre e i parenti deportati. Le lettere e le cartoline, che zio Gabry le aveva affidato, erano
contenute in un sacchetto di stoffa verde, in dotazione ai soldati, e
risalivano alla Prima Guerra Mondiale. Qualche volta, con tono di
scherno, ne avevo sentito parlare da mia madre.
Il sentimento prevalente era di bonaria derisione nei confronti di
contenuti riguardanti invii di cibo, abiti caldi e denaro. Per mia madre, l’ardore patriottico appariva del tutto immotivato, se
non ridicolo. Nella comprensione di questo punto di vista,
devo sottolineare l’amarezza
data dalla consapevolezza che
tanto patriottismo e la riprovevole adesione al fascismo
“della prima ora”, non aveva salvato una generazione
dall’obbrobrio delle leggi razziali e delle deportazioni.
La tragica ironia di un destino
(o meglio, di un regime fascista) aveva infatti, dapprima
premiato con sussidi la famiglia, in quanto numerosa, per
poi escluderla dalla vita attiva
e trascinarne 15 componenti
nell’orrore, da cui ritornò una
sola persona.
A distanza di tanti anni, e grazie alle possibilità che la tecnologia
consente, ho recuperato questo materiale, l’ho trascritto e letto attentamente, ricostruendo luoghi e tempi, recandomi personalmente
nelle località menzionate, tra Alto Adige e Veneto. Infine ho riconsiderato i contenuti con una diversa sensibilità.
Le date dei documenti vanno dal giugno al settembre 1915. La posta proveniente da Roma è inviata dal padre Prospero e, in misura
minore, da altri familiari e conoscenti, mentre la posta proveniente
dal fronte è inviata da Adolfo e Crescenzo Giorgio, gli altri due fratelli contemporaneamente in guerra, rispettivamente sull’Isonzo e
sul Col di Lana. I testi delle lettere sono toccanti, sia dal punto di
vista della quotidianità romana che della vita al fronte.
Se ne può apprezzare la cura nel lessico, la compiutezza, la correttezza ortografica e la grafia curata, nonostante la provenienza da un
tessuto sociale senza preparazione scolastica.
Tra gli ebrei romani, anche nelle fasce sociali più svantaggiate,
in cui si svolgevano professioni come “fazzolettaio” e “facchino”,
come testimoniano gli Archivi, l’alfabetizzazione era elevata rispetto al resto del Paese.
Tornando ai contenuti, sono rilevanti la preoccupazione del padre
di far sentire vicini (e di sentire lui stesso) i propri figli al fronte, la
costanza nell’inviare indumenti caldi, cibo, lamette e pastine dissetanti, nonostante le difficoltà economiche più volte riferite (13 figli,
di cui 3 al fronte, alcuni molto piccoli ed altri impegnati in attività
commerciali poco redditizie in quel momento storico).
Colpiscono i racconti sulla povertà, le chiamate a Sefer, la speranza
di ottenere dei sussidi, il matrimonio di Bellina e Prospero, l’apertura del chiosco delle bibite, la presenza delle care zie che tanto contribuivano al sostentamento, i piccoli sotterfugi nei confronti degli
ignari mariti e nell’utilizzo che Prospero faceva del denaro ricevuto.
E ancora, le sigarette che Prospero teneva per sé, le notizie che rimandava ai figli, incrociando le informazioni che man mano riceve-
va dagli altri. In una lettera egli si riferisce ad una persona che sono
tanti giorni “che non si spoglia”. E’ noto come in trincea si restasse
con gli stessi indumenti a lungo, tra pidocchi, topi ed escrementi.
“Noi tutti stiamo bene, se non fosse quella maledetta cosa che si
chiama Migragna, che sto vedendo sta diventando cronica, non andrà sempre così Iddio provvederà. Ho fatto tante domande per avere il sussidio, avendo 3 figli sotto le Armi, ma non avendo raggiunto
60 anni d’età, non mi danno nulla”.
“Dunque oggi le Zie Rosa e Gemma mi hanno dato lire Trenta per
dartene lire 10 a te, lire 10 a Crescenzo e dieci ad Adolfo e siccome,
che, tanto tu che i tuoi fratelli mi avete scritto che denari non avete bisogno, così le 30 lire me ne servo per uso di famiglia, salvo a
restituirli alla 1a Occasione, però vorrei un favore da te, spero non
vorrai negarmelo, che quando mi rispondi, o che dovessi
scrivere ad essi, dirgli che io ti
ò spedito le Dieci lire. Capirai
caro Gabriele, che da quando
ho messo il Banco delle Bibite
non fà che piovere continuamente, e quando non piove il
tempo e nuvoloso, capirai non
è questo il tempo che ci vuole
per me”.
“Mi dimenticavo dirti che Zia
Rosa un giorno mi dette lire
Cinque per te, gli dissi che l’avrei consegnato ad un soldato
le 5 lire invece presero la via
del Fornaio, spero avrai tutto
compreso, e vedi di salvarmi
l’apparenza”.
“Di già scrissi in un altra mia, che quando scrivi alle Zie, non mandare a ringraziare di quello che vi mandano Tante volte potrebbe
non fare piacere ai mariti che vi mandano spesso denari e altro.
Quando mi scrivi a me, allora dirai ò ricevuto questo ò quest’altro, e
siccome essi quando io ricevo vostre lettere, vogliono assolutamente leggerle, e così essi sapranno che tu ai ricevuto quanto essi ti
hanno mandato, se vuoi ringraziali, ringraziali pure, ma nelle lettere
che scrivi a me, spero avrai Capito?!”
“Sappi che Zia Rosa, volle che tua Madre io e Zia Fortunata con Rosina e Gemmetta, fossimo state alle nozze, per mezzi, pensò essa,
e così io feci il regalo, e feci le mie buone figure, credi passammo
una bellissima giornata, zio Davidino fece pace con la Famiglia di
Prospero, e fece un bellissimo regalo, così anche la famiglia di Zia
Gemma erano alle nozze, e tutte è andato per la meglio mentre noi
passavamo una bella giornata, (inutile dirti che il nostro pensiero
era rivolto a voi tre al fronte), dunque dicevo mentre noi stavamo
in divertimento a Casa nostra Adelina, con gli altri miei figli rimasti
(Peppe Renato Giulio Ettore Mario e Graziella) fecero anche essi la
festa in Onore dei Sposi, oltre quello che per solito lascio in casa la
mattina, misero essi un tanto per uno, e ci fecero uscire Bistecche,
pesce fritto, vino frutta e Caffè, i dolci ce l’avevano del Cavodde di
loro che l’aveva dato la sera Zia Rosa fecero due pasti, uno all’una,
e la sera alle 9 quando tornammo dal Pasto alle ore 10 a Casa, esse
stavano facendo i Brindisi, la nostra camera da pranzo era illuminata a Giorno, avevano acceso tutte le lampadine. Iddio faccia che noi
possiamo raccontare cose belle!”.
Da parte di tutti si rilevano la costante fiducia in Dio e la volontà
di festeggiare le festività ebraiche, anche in contesti tanto avversi.
“Ti scrissi una lettera dicendoti che mi ero fatto chiamare a Sefere,
e ringraziato Iddio pel tuo scampato pericolo, e stamani sono stato
nuovamente al Tempio, mi sono fatto chiamare nuovamente a Se-
fere, ed è stato suonato il Sciofaire, ci vuole un mese a Monghedd”.
questa avanzata che sarà la più pericolosa e faticosa”.
“Oggi ò ricevuto lettera di Crescenzo, dove fra le altre cose mi dice,
che farà Monghedde a Belluno, forse la vi sarà il nostro Moreno”.
All’inizio era diffusa la convinzione che la guerra sarebbe stata breve. Rapidamente si percepì che non sarebbe stato così e il clima
emotivo mutò. Nei testi delle lettere, col passare dei mesi iniziarono
infatti a comparire termini riferiti alla noia, alla censura, alla morte, a comportamenti repressivi degli ufficiali e al timore dei rigori
invernali.
“Il Kippur l’ho passato ottimamente insieme a Cesare di
zio Consiglio a Donato Della
Riccia, ad Arnaldo Spizzichino figlio di Amedeo volontario al 52° Fant. e tanti altri.
Anch’io ho appreso con dolore la notizia della condanna a
20 anni di Tranquillo Spizzichino il quale comandato insieme ad altri per mettere 5(?)
chilometri di filo telegrafico,
ne metteva soltanto 2 addormentandosi sotto gli alberi”.
Da parte dei figli, traspare la
costante intenzione di rassicurare i parenti a Roma, il
desiderio di mostrarsi valorosi, la condivisione degli aspetti bellici, fino alla giovanile e allegra inconsapevolezza nei confronti del battesimo del fuoco. Gabry,
Adolfo e Crescenzo Giorgio partirono per il fronte nel giugno 1915, a
guerra appena iniziata, e furono destinati tutti e tre al fronte italiano
orientale, in zone poco distanti tra loro. L’entusiasmo e i sentimenti
interventisti erano molto forti. A Roma, il Risorgimento, la chiusura definitiva e lo smantellamento del ghetto avevano determinato
un’attiva partecipazione degli ebrei alla vita politica del paese.
“Credo che anche tu sei in territorio austriaco, e avrai avuto il battesimo di fuoco, come l’ho avuto io, tempo fa, e non dubitare, che ho
saputo fare il mio dovere, come lo farò sempre”.
“Voglio sperare che anche tu come noi ti trovi già in territorio Austriaco e possa al più presto fortunatamente sostenere il battesimo
del fuoco, io come pure il nostro caro fratello Adolfo saprò comportarmi da vero Italiano facendomi onore come più le mie forze permettono la Patria in questo momento è in pericolo e noi chiamati,
dobbiamo difenderla fino all’estremo sacrificando le nostre forze e
le nostre vite per la nostra cara Italia la quale dovrà essere unita e
completa. Sii forte come io lo sono in questo momento, fatti coraggio e sii valoroso ed eroico pel bene della nostra Patria e dei nostri
fratelli. Viva l’Italia, viva Roma nostra città natale”.
“Io sono sopra un monte 1900, nell’Isonzo, a pochi passi dal nemico,
e lavoro continuamente a fare trincee, mestiere molto faticoso per
me essendo non abituato, di più la notte si va a prendere il rancio
giù a basso, e ci piovono spesso a dosso delle grosse caramelle, che
spesso qualcuno ne assaggia il sapore”.
“Alla nostra destra abbiamo l’81° con ½ battaglione di Alpini,
alla sinistra il 59° e il 3° Bersaglieri e tutti in catena dobbiamo
avanzare simultaneamente, il nostro reggimento in questi sei
giorni ha avuto qualche lieve ferita dovuta più che altro allo scoppio di qualche shrapnels nemico. Speriamo di riuscire vittoriosi in
“Non posso credere come mi ha fatto impressione la notizia di Gai,
che speriamo non sia vero. Come già ti scrissi Peperone, è morto, e
l’ho riconosciuto proprio io, a 10 passi da dove ero di guardia, con
una pallottola alla testa, e volevo, prenderlo per sotterarlo, ma non
ho potuto, essendo un punto scoperto, e si fossi uscito mi avrebbero
subito tirato. Brandi credo sia ferito leggermente ma non sono bene
sicuro, e così sono restato
solo”.
“Qui comincia a farsi sentire
il freddo, il nostro più grande
nemico. Persone competenti
affermano che nell’inverno la
neve raggiunge la bellezza di
5 e 6 metri d’altezza; sai che
consolazione stare nella completa immobilità tra la neve!”.
“Ti prego non preoccuparti
del trattamento che lì viene
usato dai superiori, fa sempre
il tuo dovere, e fa che l’animo
tuo stia tranquillo di non far
male a nessuno. Iddio punirà
chi fa male agli inermi, del resto anche qui adottano quei
sistemi che nella tua sono
enumerati, pensare che biasimiamo i Tedeschi! Basta non parliamo
di questo e tiriamo avanti”.
“Oggi mi scrive Angelo che ha ti trovato stanco, abbattuto ed un
poco dimagrito, e di ciò ne ho dispiacere. Cerca più che puoi caro
Gabriele di farti coraggio e cerca di vivere più lietamente che ti è
possibile lo sconforto e lo scoraggiamento a nulla valgono in tali
circostanze e anzi nel tuo caso, sappi che vince il più forte”.
Le lettere si interrompono verso il venti settembre. Probabilmente
in altri sacchetti andati perduti, o conservati da altri fu conservato
il resto del carteggio. Di Adolfo è disponibile una foto che lo ritrae
prigioniero degli austriaci, assieme ad un altro fratello (Renato), ancora nel 1918.
Durante l’occupazione nazista, Adolfo fu deportato ad Auschwitz,
da cui non fece ritorno.
Due anni fa ho messo a disposizione del Museo Ebraico di Roma le
lettere e gli altri documenti di cui ero in possesso. A luglio scorso,
il Museo mi ha comunicato l’intenzione di allestire una mostra sulla
partecipazione degli ebrei alla Grande Guerra, ed ho dato immediatamente il consenso all’utilizzo dei documenti. La mostra è stata
curata da Lia Toaff, il cui approccio ha coinciso con l’idea che avevo
in mente, per cui la ringrazio fortemente.
La mia personale opinione è che l’esposizione renda il giusto riconoscimento agli appartenenti alle Comunità Ebraiche che hanno tanto
dato e sofferto per questo Paese, tra il Risorgimento e la Liberazione e a cento anni esatti dall’inizio del primo conflitto mondiale.
L’inaugurazione è stata una giornata molto intensa, anche per gli
altri familiari, che ho avuto modo di rivedere a distanza di decenni.
Mentre scrivo, mio marito mi ricorda che attualmente la libreria del
soggiorno di mia nonna, che ha custodito per decenni i documenti,
arreda la sala comune della Casa di Riposo Ebraica di Roma. Un
cerchio si chiude.
ESTHER DI PORTO
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
“Oggi vigilia del santo giorno di Kippur, che auguro possa passarlo
bene unito ai tuoi cari fratelli al fronte. Sappi che sino da Lunedi
scorso, scrissi ad Udine una bellissima lettera al nostro Moreno Signor Angelo Sacerdoti, che si trova a Udine, gli raccommandavo che
avesse fatto le pratiche, per farti avere il permesso per festeggiare
il Kippur, e aggiunsi se era possibile riunirvi tutte e tre a Udine,
lo pregavo caldamente volersene interessare, speriamo se ne sia
interessato, e che quando riceverai la presente, possa annunciarmi
che ai passato con i tuoi fratelli il santo Kippur. Iddio Benedetto
lo volesse, così dopo tante peripezie, potervi abbracciarvi, e stare
insieme un giorno”.
29
LIBRI
Italiani in guerra senza se,
e con qualche ma
Prima devoti alla scelta di Mussolini, poi antifascisti dell’ultima ora:
gli italiani raccontati nell’ultimo libro di Avagliano e Palmieri
“I
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
nutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal
solo Mussolini e non dall’Italia...
E se le cose gli fossero andate
bene nella guerra mondiale, Mussolini
sarebbe per molta gente un grand’uomo”.
Così, con la sua abituale (e ironica) franchezza, Gaetano Salvemini scriveva, il 10
agosto 1946, ad Ernesto Rossi e Leo Valiani,
commentando per il futuro i precedenti 6
anni della storia nazionale. E prevedeva
quello che effettivamente sarebbe stato, nel
dopoguerra, l’orientamento prevalente
nell’opinione pubblica e in gran parte degli
storici, compiacenti nei soliti “veli pietosi”
sulla nostra storia: la favola autoassolutoria
d’una partecipazione alla Seconda guerra
mondiale voluta solo dalla classe dirigente
(e nemmeno tutta), e imposta a un popolo
- diversamente che per la patriottica “grande guerra” del ‘15 - decisamente riluttante,
se non apertamente contrario.
A far giustizia di questo comodo mito avevano già iniziato a provvedere i lavori degli
storici più obiettivi degli ultimi decenni
(come anzitutto Renzo De Felice): ora si
aggiunge, sul piano anche della sociologia
politica e della comunicazione, quest’approfondito saggio “Vincere e vinceremo!
Gli italiani al fronte, 1940- 1943”, di Mario
Avagliano e Marco Palmieri, ambedue giornalisti e storici, il primo direttore del Centro
studi sulla Resistenza dell’ANPI di Roma.
Nel dopoguerra, rilevano gli Autori nell’Introduzione, si è assistito “a uno schiaccia-
30
mento della memoria sul dissenso diffuso
verso il fascismo dopo il 25 luglio e dopo l’8
settembre del 1943, che ha finito per far
passare in secondo piano la lunga fase di
partecipazione attiva, e perfino entusiastica alle politiche fasciste, comprese quelle
militari e guerrafondaie”. Partecipazione
che gli Autori hanno ricostruito con uno
studio minuzioso, fatto per anni su una
pluralità di fonti del periodo 1940-43: come
diari personali, corrispondenza dei militari
italiani con le proprie famiglie (tratta da
archivi privati o dalle periodiche relazioni
della censura), rapporti delle autorità militari e di polizia sullo spirito delle truppe e
note dei fiduciari del regime. Ne emerge
una storia “emotiva”, ma anche politica e
ideologica, di quegli anni, che focalizza la
“lunga marcia”degli italiani in guerra. Una
marcia dal consenso “attivo e operante”
con le politiche fasciste, compresi repressione (a volte addirittura più spietata che
da parte degli stessi nazisti) delle varie
Resistenze nazionali, specie in Grecia e in
Jugoslavia, razzismo, antisemitismo e persino partecipazione alla Shoah, all’emergere dei primi dubbi sul regime, e al maturare
(nel corso del ‘43) del dissenso. Che per
molti sfocerà nella partecipazione alla Resistenza: in patria o mediante l’unione (specie nei Balcani) a formazioni delle varie
Resistenze nazionali.
L’esame dei tanti documenti raccolti dagli
Autori dimostra una volta per tutte che,
durante la guerra, gran parte dei combat-
tenti italiani fu perfettamente al corrente
delle atrocità commesse dai nazisti occupanti l’Europa, a danno specialmente
degli ebrei. Accanto ai tanti episodi di
compartecipazione italiana alla Shoah (in
molte città italiane ci furono episodi di
violenza, assalti alle sinagoghe e diffusione di manifesti antisemiti), le fonti attestano, però, anche gli importanti atti di solidarietà coi perseguitati compiuti, anche in
via ufficiale, da tanti italiani. Soprattutto il
rifiuto, da parte di diplomatici o militari, di
consegnare gli ebrei ai nazisti (anche se
manifestato più per difendere la propria
autonomia decisionale nei territori occupati dall’ Italia che per scopi umanitari):
che si verificò soprattutto nel sud della
Francia, in Croazia e in Grecia. Mentre,
sempre in Croazia, i documenti attestano
l’esistenza, nel ‘41-’42, del cosiddetto
“canale fiumano”, rete di contatti segreti
(ramificata sin nella stessa burocrazia dei
ministeri romani) che aiutò parecchi ebrei
croati a rifugiarsi in Italia. Episodio culmine di quest’ incredibile storia (sinora, in
complesso, poco analizzata dagli storici), è
quella vera e propria “Sigonella del ‘42”
che, in una stazione ferroviaria del norditalia, ai confini con la Croazia, vide un
duro confronto tra italiani e alleati tedeschi, decisi a impossessarsi d’un treno,
appena entrato in territorio italiano, che
ospitava un gruppo di studenti ebrei croati fatti passare per ustascia (l’episodio,
chiusosi con l’insuccesso dei nazisti, è
stato ricostruito nello sceneggiato RAI del
2004 “La fuga degli innocenti”).
Un saggio pregevole, che aggiunge altri
tasselli al mosaico di quegli anni di ferro, di
sangue e di vergogna.
FABRIZIO FEDERICI
M. AVAGLIANO, M. PALMIERI
“Vincere e vinceremo!
Gli italiani al fronte, 1940-1943”
pp. 376, €. 25,00.
Un libro di memorie sull’attività
dell’Adei a Venezia
T
utto è cominciato da un
quaderno nero scritto in
bella calligrafia, il punto
di arrivo invece è un libro bello e ricco; ricco di memoria, di storia, di fotografie, di affetti, di rievocazioni di momenti
lieti e tragici e di testimonianza
di un lavoro ininterrotto durato
decenni sul fronte della zedakkà,
della formazione ebraica, di un
lavoro pacato e robusto compiuto dalle donne ebree a sostegno
delle donne ebree e non solo, della loro dignità e della loro formazione. “Le signore del thé delle
cinque - i primi anni dell’Adei a
Venezia (1928 – 1945) tra tzedakà e cultura ebraica” (Stamperia
Cetid, Venezia) , risale ad un paio
di anni fa ma, come spesso accade con il lavoro dell’ Adei – Associazione donne ebree d’Italia –, un prodotto a lievitazione lenta
che cresce con il trascorrere del tempo. Il volume è a cura della
veneziana Lia Erminia Tagliacozzo, omonima di chi scrive, con la
collaborazione di Gadi Luzzatto Voghera. Così se le celebrazioni
per l’85° anniversario della nascita dell’Associazione sono state occasione di riflessione e confronto “sull’identità e le ragioni
di un movimento ebraico femminile” come scrive la presidente
Ester Silvana Israel nella presentazione, il libro è ancora tutto da
godere e il ricavato della vendita viene devoluto per le attività
dell’Adei.
Tra le carte ritrovate il “quaderno con la copertina nera, scritto
fitto con scrittura accurata” conteneva i verbali di tutte le riunioni
di apertura e chiusura degli anni sociali dal 1928 al 1941, insieme
alle relazioni della Presidente dell’Adei veneziana, l’insostituibile Amelia Fiano, fino al 1946. La storia di un mondo, quello del
lato femminile di una borghesia abbiente, colta e liberale e del
lavoro svolto tra beneficenza, intesa nell’ebraico ristabilimento
della giustizia, e lavori di ago, raccolte di francobolli da vendere,
preparazione di pasti per i bambini meno abbienti e allestimenti
di scuole, corsi professionali per ragazze, soggiorni estivi, cultura ebraica per bambini e adolescenti. “Non possiamo fare a meno
di notare - scrive Tagliacozzo - che queste donne, col loro solerte
ed attento lavoro, hanno contribuito a migliorare se stesse attraverso la socializzazione e l’attività culturale e materiale, ad educare all’ebraismo i bambini che erano più soggetti all’assimilare
i propri comportamenti e la propria cultura all’ambiente cattolico
circostante (…) e ad alleviare le condizioni dei correligionari più
poveri e, più tardi, dei perseguitati” .
Lia Erminia Tagliacozzo tesse così l’evolversi della Adei veneziana nel corso dei decenni facendo robusto ricorso ai materiali originali senza mai dimenticare il contesto di riferimento: così, negli anni di attuazioni della riforma Gentile che nel 1923 introduce
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, il lavoro delle adeine parte dalla constatazione della sua presidente Amelia
Fiano: “Io non so se mi inganno: certo, io penso che se per tutti
l’ignoranza è la rovina, per gli Ebrei l’ignoranza è la morte (…) E
oggi – è scritto nella relazione del maggio del 1929 – che la scuola
d’ Italia è come permeata da un senso di cattolicesimo (…) urge
più che mai (…) che nell’educazione dei nostri bambini diamo
consistenza a quei valori etici che visse e vivrà l’ebraismo”. L’Adei è una realtà che va dai “gruppi dell’ago” alla richiesta di voto
attivo e passivo per le donne nelle istituzioni ebraiche (che per
le ebree italiane giungerà nel 1968!), dal lavoro di concerto alle
Comunità ebraiche a quello con altre organizzazioni femminili.
Completa il volume il bel ricordo di Amelia Fiano firmato da Laura
Voghera, e due saggi di grande interesse: di Maria Teresa Sega
“Cambiare se stesse, cambiare la
società. Il movimento emancipazionista tra mobilitazione politica
e impegno pratico” e, di Monica
Miniati, “Donne ebree impegnate. Il ruolo formativo e culturale
dell’Adei dal dopoguerra ad oggi
e l’ impegno pratico”. Spiace non
poter riportare nella loro interezza le straordinarie parole con le
quali Amelia Fiano il 10 ottobre
del 1945 esorta le amiche a riprendere il lavoro: “(...) E oggi,
dopo due anni e più, anni che
contano e incidono nella vita più
di dieci, ci guardiamo negli occhi
ancora smarrite e quasi stupite
di ritrovarci vive, di rivederci, di
risentire i nostri cuori pulsare
insieme di dolore, di terrore. Ma
pur anche di amore per i presenti, per i lontani, per i caduti, vittime innocenti di un odio scellerato”. E più avanti le esorta: “ma
è tempo oramai di non più attardarci sul tremendo passato: il
presente e l’avvenire urgono da presso”.
LIA TAGLIACOZZO
LA TOP TEN DELLA LIBRERIA
KIRYAT SEFER
1
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MASCHIO E FEMMINA DIO LI CREÒ
di AA.VV. ed. Sovera
LA RAGAZZA CHE SOGNAVA IL CIOCCOLATO
di Roberto Olla ed. La Compagnia del Libro
NON VI HO DIMENTICATI
di Alberto Israel ed. Anpi
COMPENDIO DI GRAMMATICA DELLA LINGUA EBRAICA
di Baruch Spinoza ed. Olschki
LE CHAJIM
di Roberto Fiorentini ed. Graphofeel
FORSE ESTHER
di Katja Petrowskaja ed. Adelphi
APPLAUSI A SCENA VUOTA
di David Grossman ed. Mondadori
HO DORMITO NELLA CAMERA DI HITLER
di Tuvia Tenenbon ed .Bollati Boringhieri
STORIA DELL’EBREO CHE VOLEVA ESSERE EROE
di Vittorio Dan Segre ed. Bollati Boringhieri
LA VIA DI FUGA
di Renzo Fubini ed. Mondadori
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Quelle signore
del thé delle cinque
31
LIBRI
Per non dimenticare
la signora del cioccolato
e dei marron glacé
Il giornalista Rai Roberto Olla autore
di una emozionante biografia dedicata
ad Ida Marcheria, scomparsa tre anni fa
“B
ellissima donna in tutte le età della sua vita”: con
queste parole Piero Terracina ricorda Ida Marcheria nel libro di Roberto Olla “La ragazza che sognava il cioccolato” e così la ricordano in tanti, la signora del cioccolato e dei marron glacé, nel
laboratorio del quartiere africano a Roma. A
tre anni dalla sua scomparsa Roberto Olla,
giornalista Rai che molto si è occupato della
Seconda guerra mondiale e della Shoah, le
ha dedicato una biografia rigorosa, risultato
di una lunga amicizia e di molte interviste
in cui Ida raccontava la sua esperienza di
deportata. Nata a Trieste Ida Marcheria viene catturata con tutta la famiglia e condotta
ad Auschwitz. Liberata dai sovietici dopo la
terribile marcia con cui i nazisti evacuarono
il campo, tornò in Italia con la sorella Stella che con lei aveva condiviso i due anni in
campo di sterminio.
Olla alterna con sensibilità le parole di Ida Marcheria alla narrazione. Nel volume - edito da La compagnia del libro e con una
postfazione di Donatella Di Cesare - colpisce l’attenzione alla vita
La Spalato ebraica
che non c’è più
La presenza degli ebrei in Dalmazia
nei ricordi e nelle fotografie
di Luciano Morpurgo
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
L
32
uciano Morpurgo (Spalato1886 - Roma 1971) è stato fotografo, editore della Casa editrice Dalmatia e scrittore. Il
suo terzo libro, Cuore di Israele, rappresenta un importante documento descrittivo della vita della comunità
ebraica di Spalato, tra l’Otto e il Novecento.
Il volume appena pubblicato dalla figlia Anna, e grazie all’interessamento di Carlo Cipriani, della Società Dalmata,
ci offre la ricostruzione della grande vitalità di
questa comunità, i suoi usi, le relazioni famigliari.
L’inserimento in appendice di una scelta fotografica ci permette di immaginare le atmosfere suggestive che non ci sono più, scomparse con la
naturale evoluzione di una città e con l’epilogo
sfortunato di una comunità molto speciale.
Sin dalle prime pagine traspare un profondo sentimento sia per la fede ebraica che per la sua
famiglia, con la quale ha un legame tenero e
rispettoso. Viceversa colpisce la lucidità con la
quale descrive consapevolmente i sentimenti di
ostilità latente che serpeggiavano in Italia e che
lui avvertiva, sia pure celata da espressioni di
ammirazione. Queste sgradevoli sensazioni sono
vissute sia a scuola che da adulto, quando un
commento in più fa prevedere un qualche pensie-
intera di questa donna esile e volitiva: l’infanzia, la cattura, lo sbigottimento all’ingresso ad Auschwitz
- ‘inebetita’ dice di sé. Ma parte
integrante del racconto è anche il
‘dopo’: “Mio figlio mi sgrida. Dice
che non sono mai uscita da Auschwitz. Dice che gli ho trasmesso
tutte le mie angosce”. Una vita in
cui l’impegno di testimone prende
corpo in uno sguardo vigile sul presente: “Arrabbiata?” - si interroga Olla nelle prime righe del volume - Si, e pure molto, con l’Italia in cui viveva, con la sciatteria delle strade sporche e dei soldi
facili, con le svastiche ignorate e ignoranti sui muri, con le lapidi
oltraggiate al cimitero ebraico, con le parole razziste che riuscivano persino a penetrare nell’aria densa,
satura di cioccolato, del suo laboratorio”.
Il volume ha una dimensione corale, insieme ad Ida vi sono spesso Piero Terracina
e Shlomo Venezia: le testimonianze dei tre
ex deportati si incontrano nelle valutazioni
sul presente, nei rapporti di amicizia, nella
capacità di intendersi senza parlare e nelle
discussioni appassionate.
Un rigoroso ‘lei’ ha accompagnato gli anni
di amicizia di Ida Marcheria e Roberto Olla:
“Tutto ciò con la coscienza che una parte
della storia non sarebbe mai passata da lei a
me. Tuttavia Ida voleva che mi confrontassi
con la sua storia e che, scrivendo, invitassi
tutti voi ad un confronto. Perché così lei intendeva la memoria.
Come vita”.
L.T.
ro diffidente con sfumature negative.
I capitoli scorrono gradevolmente spiegando in modo semplice sia
la genesi di questo volume, che i riti ebraici, le sensazioni provate
in seno alla famiglia in queste circostanze, le festività solenni, le
preghiere. Con tratti commoventi descrive l’umanità della balia che
si finge santa Lucia per non farlo sentire un bambino diverso dagli
altri, e sfatare la diceria che chi non riceve doni è cattivo e brucerà
all’inferno, favole di cui sono infarciti e terrorizzati i bambini cristiani. E quanta tenerezza nel ricordo della dolcissima marmellata di
Rosh Ha shanà, in apertura del pasto serale per l’augurio di un anno
dolce, nonostante tutto intorno gli ebrei fossero travolti dalla bufera. Ai fanciulli vengono date giustificazioni a trarre profitto dal
rispetto delle festività religiose, in considerazione del fatto che nei
tempi oscuri che spesso gli ebrei debbono affrontare, è opportuno
celebrare l’aiuto divino che ci ha sempre assistito.
Infine ci colpisce l’atmosfera di coabitazione tra più fedi: scopriamo che il padre teneva chiuso il negozio al tramonto del venerdì per il riposo sabbatico, ma
anche la domenica in omaggio alla festa cattolica. Soltanto pochi anni dopo questa libertà di
esistere sarebbe stata negata.
A corredo di queste riflessioni il volume offre una
ricca collezione di immagini tratte dall’Archivio
fotografico del Fondo Morpurgo dell’ICCD, acquisito nel 1969, contenente circa 24.000 fotografie
catalogate su 85.000 fototipi.
Morpurgo, grande viaggiatore, fu uno tra i primi
ideatori delle cartoline illustrate, cogliendo con la
sua sensibilità gli aspetti di tutte le città che
aveva visitato e offrendo, grazie all’uso novecentesco di scambiarsi i saluti postali, la possibilità
di immaginare luoghi lontani e collezionarli.
GISÈLE LÉVY
Dedicata alle figure di Vittorio Castiglioni,
Angelo Sacerdoti e David Prato, l’ultima Rassegna Mensile di Israel
T
re rabbini che guidarono la Comunità
ebraica di Roma nella prima metà del
Novecento sono il tema di approfondimento dell'ultimo numero della Rassegna Mensile di Israel dell'Ucei, curato da Rav
David Gianfranco Di Segni e da Laura Quercioli Mincer. Grazie a questa ricerca, che raccoglie
anche i lavori di convegni degli anni scorsi,
vengono per la prima volta sistematizzate per
iscritto le figure di Vittorio Castiglioni, Angelo
Sacerdoti e David Prato. Si tratta di un enorme
lavoro scientifico che si avvale di alcuni dei
maggiori esperti del settore e grazie anche alla
pubblicazione inedita proveniente da carteggi
privati aiuta a capire meglio un periodo di storia lungo e travagliato che ha caratterizzato
l'ebraismo non solo locale, di quattro fasi salienti del secolo scorso: l'emancipazione e l'integrazione nel tessuto sociale nazionale dopo
trent'anni dall'abbattimento del ghetto; il vissuto del pensiero sionistico nella capitale; il
rapporto conflittuale con il fascismo; il dramma
dell'esclusione con le leggi razziali, con la tragedia della Shoah e i primi anni della ricostruzione dalle macerie.
Nel volume si evidenzia come questo sia stato
un cinquantennio di identità ebraica romana
attiva nelle vicende sociali del periodo che
trova la massima visibilità attraverso le esperienze di queste figure rabbiniche, ognuna diversa per estrazione e formazione. C'è da sottolineare che ogni rabbinato dei tre merita un
discorso a parte: Castiglioni guidò la Comunità
nei primi anni del Novecento, forte di un curriculum di educatore e rappresentò una figura
rilevante (curò l'unica completa traduzione in
italiano della Mishnà tuttora esistente) ma di
transizione a causa anche all'età. Con Sacerdoti e Prato assistiamo a una gestione religiosa e
politica dell'ebraismo romano e anche nazionale vera e propria che lasciò il segno nelle istituzioni, con ripercussioni sia all'interno del rabbinato italiano e sia nelle relazioni esterne.
Si sfata il mito di una marginalità del rabbinato
romano che per decenni è stata favoleggiata
sui libri di storia: i continui colloqui di ambedue con il Duce, i rapporti frequenti con il rabbinato della Palestina di allora, il ruolo strategico d'interazione con le comunità mediterranee
e le relazioni con il Vaticano per perorare le
diverse cause dell'ebraismo europeo fanno si
che il rabbinato romano fosse sempre coinvolto, direttamente, in numerose relazioni e controversie internazionali. Questo volume ha il
pregio di illustrare ai lettori un impegno rabbinico di significativa importanza che si è sviluppato nel solco di un'ortodossia moderata e tradizionale, nel segno prioritario dell'unità interna, giocando un ruolo decisivo per la crescita
sociale e religiosa, dando un impulso significativo al contributo italiano alla causa sionista.
J. D. R.
Il grande circo delle idee
Miki Bencnaan
La Giuntina, p. 414 €18
“L’anzianità di una persona riduce il valore della sua morte. Solo
pochi si rattristeranno per la perdita delle sue intuizioni. I parenti…torneranno in fretta alle proprie esistenze, sottomessi alle
leggi di natura e all’andamento del mondo”. Nel libro non solo la
morte di due anziane non lascia indifferenti, ma innesca il disvelamento del mistero celato dietro il loro buffo aspetto al momento
del decesso: un costume da elefante ed uno da bambola indosso.
Miki Bencnaan, scrittrice israeliana e animatrice del celebre Teatro Habima, per condurci lungo i sentieri dolorosi della memoria,
sceglie il tocco lieve e vivace della fantasia, del gioco, della creatività. Un esempio di come la storia di ciascuno non si chiuda mai
del tutto grazie alla volontà di reiventarsi, di proporsi in altri ruoli,
diversi, fantastici, magici. E così, mentre un coro canta… Poetica
lettura a tutti!
La Matriarca
G.B.Stern
Sorzogno, p.320 €16
Questa è la storia della famiglia Rakoniz, ebrei cosmopoliti senza fissa dimora fino a quando approdarono a Londra per sfuggire
all’assedio di Parigi nel 1870. Protagonista indiscussa è Anastasia,
la Matriarca, intorno alla quale ruotano gli innumerevoli zii, zie,
cugini, parenti a Parigi, Sanremo e Vienna. E’ lei che comanda, che
decide sul destino dei fratelli, dei figli e delle sventurate nuore.
Una famiglia benestante, acculturata, non molto osservante, che
rispecchia quell’entusiasmo vitale degli ebrei all’indomani dell’emancipazione. Nel romanzo spiccano inoltre le figure dei cugini
Danny e Toni: il primo sempre intento a godersi la vita, la seconda
invece devota verso la famiglia, che sarà, volente o nolente, la futura matriarca. Ironico.
Il mondo senza sonno
Stefan Zweig
Skira, p. 98 € 12
“In ogni paese della sconfinata Europa, in ogni città, via, casa,
stanza, il respiro quieto è sopito, è più corto, agitato: (…) questo
nostro tempo arroventato incendia le notti e confonde i sensi… Più
breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i
giorni”. Struggenti le emozioni che suscita questa raccolta di racconti di Stefan Zweig. Lo scrittore, classe 1881, esule in Brasile e
suicida nel ’42, descrive un’umanità sconvolta dalle atrocità della
prima guerra mondiale. L’intensità della sua scrittura, amplificata dagli studi sulla psicoanalisi, propone al lettore riflessioni mai
scontate. Così come la società, anche l’individuo lotta con sé stesso, con le sue paure, i suoi limiti, l’estraneità a sé stesso.
Ho dormito nella camera di Hitler
Tuvia Tenenbom
Bollati Boringhieri, p.293 € 18,50
Paragonato a Sacha Baron Cohen e a Woody Allen, Tuvia Tenenbom, ci catapulta con il suo provocatorio reportage nella realtà tedesca. L’autore, nato a Tel Aviv da una famiglia di ultraortodossi
sopravvissuti alla Shoah, si trasferisce a New York a 24 anni da laico convinto. Qui, fonda il Jewish Theater, si occupa di giornalismo
e diventa famoso per le sue posizioni caustiche e irriverenti. Nel
2010 gli viene proposto di passare 6 mesi in Germania per scrivere
le sue esperienze. Dal viaggio nasce questo libro, un amaro resoconto farcito da un’inquietante ironia su quanto antisemitismo sia
diffuso in Germania. Da stupefatto provocatore fa molti incontri:
gente comune, rabbini, manager, studenti, giornalisti, neonazisti,
radicali di sinistra e di destra, professori e celebrità come l’ex cancelliere Schmidt….
A cura di JACQUELINE SERMONETA
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Grandi rabbini del Novecento
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LIBRI
EDITORIA PER RAGAZZI
Raccontare la Memoria, raccontare la Storia
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
I
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l 27 gennaio, ‘giorno della memoria’, è entrato nel calendario
civile, impossibile quindi non dedicarvi attenzione, anche
perché i ragazzi sono spesso i protagonisti delle celebrazioni. Il primo motivo è che la legge istitutiva fa esplicito
riferimento alle scuole ‘di ogni ordine e grado’ che hanno accolto
l’indicazione di parlare della Shoah con interesse anche se non
sempre con il rigore dovuto. Inoltre, più di altre categorie, i giovani sono fruitori di fiction, film e iniziative di maggior o minore
serietà che inondano in questo periodo media e social network.
Ma, prima di proporre libri adatti a bambini e ragazzi, è indispensabile una considerazione preliminare: è impossibile affrontare
questi temi in una sola giornata di studio, in un solo film, in un
solo libro. Ne servono molti. E non solo: il 27 gennaio, il giorno
- nel 1945 - dell’arrivo dei soldati sovietici ad Auschwitz, è una
data che appartiene alla storia. E, a settanta anni dalla liberazione del più grande campo di sterminio, è più che mai necessario,
per i bambini e per noi tutti, toglierlo dal terreno esclusivo della
memoria e collocarlo correttamente nella storia. I libri che seguono quindi raccontano di Shoah per proseguire, per associazione
di contenuti, parlando di altre storie, di altre lotte, di altre liberazioni.
Sono tornati a lavorare insieme
la scrittrice Irène Cohen-Janca e
Maurizio A.C. Quarello in un libro edito anche questa volta da
Orecchio acerbo per “L’ultimo
viaggio - Il dottor Korczak e i
suoi bambini”. Un album dalle
illustrazioni struggenti - di cui
ci sarà presto una mostra - ripercorre la vicenda della ‘Casa
dell’Orfano’ a Varsavia. Janus
Korczak pedagogo e medico
polacco, ebbe pratiche innovative nell’educazione rendendo
i bambini protagonisti del processo educativo. Le sue ultime
settimane di vita le trascorse
nel ghetto di Varsavia, il suo
ultimo viaggio fu verso il campo di stermino di Treblinka. “La
sua impronta, insieme a quella dei suoi bambini - spiegano le righe conclusive del libro – resta, indelebile, nella Carta dei diritti
dell’infanzia, approvata dall’Onu a New York , il 20 novembre
1989”.
I due autori avevano già lavorato insieme ne “L’albero
di Anne”, la storia raccontata
dall’ippocastano di fronte al
nascondiglio di Anne Frank ad
Amesterdam e che Anne descrive nel suo celebre diario. La
storia di quegli anni è tragica e
complicata, le scelte diverse: a
darne conto è l’ultimo racconto della raccolta di grafic novel
“Cattive ragazze - storie di
donne audaci e creative”, edito da Sinnos. Lì si racconta, tra
molte storie di donne coraggiose, di Onorina Brambilla “una
ragazza che voleva essere felice e libera e che aveva dentro
così tanta rabbia da scegliere di
lottare”: fu staffetta partigiana,
torturata dalle Ss, e detenuta
nel campo di Bolzano.
Un libro per ragazzi più grandi,
che non parla di Shoah ma di
storia italiana, è “Ciao, vi dirò
che la storia siamo noi” di Maria Luisa Pozzi, edito da Memori:
una vicenda ricostruita da racconti e diari originali di cui conserva il linguaggio vivo e aspro.
Lisetta è piccina quando i partigiani le passano per casa, la sua
amica più grande fa la staffetta
ma il racconto prosegue, e parla
della vita del ‘dopo’: l’invasione
dell'Ungheria, le manifestazioni
contro il governo Tambroni: è
storia, è vita. Ed è complicata:
a liberare l’Italia dall’occupazione nazista vi erano anche afroamericani. Tanti e neri che, una
volta tornati negli Stati Uniti non
avevano diritti civili. A ricordare la loro storia c’è un altro libro
illustrato di Orecchio Acerbo:
“L’autobus di Rosa” di Fabrizio
Silei e Maurizio A. C. Quarelli:
la storia di una donna che si rifiutò di scendere da un autobus.
Lei si chiamava Rosa Parks, era
una sarta di 42 anni, nera, che
nel 1955 a Montgomery rifiutò
di cedere il proprio posto sull’autobus ad un bianco. Per questo
venne condotta in carcere e condannata ma il suo gesto divenne
uno dei simboli della lotta per i diritti civili degli afromaericani
negli Stati Uniti.
PASSAPORTO PER LA GUERRA
Un libro strano e un po’ inquietante è “Immagina di essere in
guerra”. Scritto Janne Teller
per Feltrinelli kids e illustrato
da Helle Viebke Jensen, sembra
un passaporto e inizia così: “Se
oggi in Italia ci fosse la guerra...
tu dove andresti?”. Immagina,
rivolgendosi al giovane lettore
- ma forse anche ad uno adulto
- cosa accadrebbe ad un giovane
adolescente italiano costretto a
fuggire e a trovare rifugio in un
altro paese. Il risultato del capovolgimento di prospettiva fa riflettere. Molto. Ed anche questo
è il significato del Giorno della
Memoria.
A CURA DI LIA TAGLIACOZZO
ROMA EBRAICA
La Comunità ebraica
lancia la campagna
#bringbackourmarò
Iniziativa per sensibilizzare l'opinione
pubblica sul caso dei nostri Marò
“L
a Comunità Ebraica di Roma esprime forte
preoccupazione per la vicenda che da due anni
coinvolge i due fucilieri di Marina, Massimiliano
Latorre e Salvatore Girone. Le ultime decisioni
dell’India, che allontanano il ritorno dei due marò in Italia, non
possono lasciarci indifferenti. Siamo vicini al Governo Italiano di
Matteo Renzi, al ministro dell’Interno Roberta Pinotti e al
ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che si stanno prodigando
affinché la crisi porti a una soluzione positiva. Da ebrei italiani
sentiamo di dover dare ogni contributo possibile per tenere alta
l’attenzione mediatica e sensibilizzare il maggior numero di
persone. Noi tutti rivogliamo i nostri marò qui in Italia”. Lo ha
spiegato il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo
Pacifici.
“La Giunta della Comunità Ebraica di Roma ha deciso di essere
in prima linea e lanciare la campagna #bringbackourmarò sui
social network e in tutta la Rete per chiedere al mondo di non
lasciare soli Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.
Ci impegneremo a promuovere iniziative fino al giorno in cui li
rivedremo tornare a Roma dalle loro famiglie”.
Per sostenere l'iniziativa, dalla metà dello scorso dicembre le
gigantografie dei due Marò - insieme a quella del pilota
israeliano Ron Arad - sono state poste all'ingresso del Museo
Ebraico di Roma, in via del Tempio.
Buon compleanno
alla scuola elementare Polacco
Celebrati i 90 anni dalla sua fondazione
lante. Cosa è più adatto in effetti di una festa che celebra la
rinascita e la speranza? C'è inoltre un ringraziamento particolare
che mi sento di fare e lo rivolgo alle moroth ed i morim, gli insegnanti che da 90 anni si spendono per questa scuola e per la
formazione culturale della nostra comunità".
L'importanza del ruolo di una scuola ebraica per il futuro di qualsiasi comunità, come per il futuro di ogni singolo ragazzo ebreo,
è stata espressa chiaramente dall'ambasciatore israeliano
Gilon:"la scuola ebraica è fondamentale per mantenere viva la
propria identità e non perdersi nell'assimilazione; esattamente
come la storia di Chanukkah ci insegna simbolicamente attraverso le vicende dei Maccabei". Tutti insieme hanno partecipato con
il rabbino capo all’accensionne della lampada la cui festa, ha
ricordato rav Di Segni cade il 25 del mese di Kislev che nel libro
di Bereshit corrisponde come 25ma parola al termine ‘luce’.
La festa è poi proseguita con i canti, i balli e le musiche eseguite
dai Radicanto e da Raiz.
DANIELE TOSCANO
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
U
na piramide di sufganioth, sulla quale svettano 90 candeline, rappresenta anche visivamente la celebrazione
della festa che si è denuta, nei giorni di Channukka,
per i 90 anni di fondazione della scuola ebraica elementare di Roma “Vittorio Polacco”.
A fare gli onori di casa, la direttrice della “Vittorio Polacco” Milena
Pavoncello: "Festeggiamo durante Chanukkah, perché proprio
nella radice di questa parola si ritrova il termine 'educazione' ma
anche 'inaugurazione'. Con la scuola elementare i bambini inaugurano ed attivano il
ruolo che poi svolgeranno nella società.
Nata nel 1924, ha
da sempre lo scopo
di formare buoni
ebrei e buoni cittadini. Polacco, da
cui prende il nome,
fu un giurista, socio
dell'Accademia dei
Lincei e senatore di
altissimo livello".
“Festeggiare questo anniversario
importante a Chanukkah – ha sottolineato il presidente Pacifici - è stata
una intuizione bril-
35
ROMA EBRAICA
Grande successo
per il festival
del vino kasher
Kosher Wine Festival,
per far conoscere il meglio
dell’enologia israeliana e italiana
L
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
o scorso 15 dicembre, è stato presentato a Roma il Kosher
Wine Festival, evento dedicato all'incontro tra l'Italia e i
vini kasher principalmente israeliani, ma anche italiani.
La manifestazione enogastronomica, promossa dalla
Camera di Commercio di Roma e realizzata dalla Azienda Romana
Mercati, ha preso luogo presso la Città dell'Altra Economia a
Testaccio e si è svolta durante tutto l'arco della giornata, scandita
da conferenze e degustazioni. Scopo dell'evento è stato quello di
lanciare e far conoscere i prodotti delle più note cantine israeliane,
sia in maniera concreta attraverso gli assaggi, che teoricamente,
spiegando agli ospiti le caratteristiche e le lavorazioni che rendono il vino adatto o meno al consumo di un pubblico ebraico.
Benché il vino kasher sia stato considerato da molti, per lungo
tempo un vino di qualità inferiore rispetto al vino non kasher, ad
oggi si può confermare con fierezza che, grazie all'impegno e alle
nuove tecniche di lavorazione delle aziende israeliane, tali miti
sono stati sfatati, tanto da rendere questo prodotto tra i cavalli
di battaglia del mercato israeliano all'estero e da meritare alcuni
tra i più alti riconoscimenti del settore internazionale.
Molte tra le etichette presentate, pian piano si stanno guadagnando
un importante spazio nel mercato di nicchia enologico, tra queste
Dalton, Barkan, Domaine du Castel, Segal e tante altre. A prendere
la parola nei diversi convegni sono intervenuti Sandro Di Castro,
il noto chef Laura Ravaioli, Mosè Silvera e Daniele Della Seta,
imprenditori del settore. Inoltre, a metà giornata è stata allestita
una degustazione dei prodotti con presentazione delle relative
aziende. Particolare attenzione è stata data anche alla tradizione
culinaria ebraica e all'importanza che viene attribuita al consumo
e uso del vino anche nell'ambito religioso ebraico.
YAEL DI CONSIGLIO
36
Allestimenti eventi con buffet dolci e salati
Dolci per shabbath • Kiddushim per i Templi
Torte e pasticceria tradizionale e monoporzioni
Torte artistiche • Wedding cakes
Via Michelangelo Pinto 10/16 - Tel. 06.6531328
Via del Portico d’Ottavia 1A - Tel. 06.69309396
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Israele si prepara
all’Expo 2015
L
Presentato il padiglione
che accoglierà la tecnologia
e le scoperte dello Stato ebraico
o Stato di Israele ha esposto per diverse settimane presso
il terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino un’anteprima dello spazio con cui sarà presente all’Expo 2015 di Milano a
partire da maggio prossimo. Il padiglione israeliano sarà
articolato in diverse aree tematiche ambientali: paesaggistiche,
agricole e tecnologiche. Insieme al direttore Sviluppo Marketing
Aviation di Aeroporti di Roma, Fausto Palombelli, e all’assessore
alle politiche del Commercio di Roma Capitale, Marta Leonori, è
intervenuto l’ambasciatore d’Israele in Italia, Naor Gilon che ha
inaugurato la mostra, ponendo l’accento “sull’esperienza accumulata da Israele che serve oggi da modello per una produzione
alimentare con metodi sostenibili, che rispettano l’ambiente e le
risorse naturali. Grazie alle sperimentazioni abbiamo ottime produzioni di uva, orzo, grano, fichi, ulivi. Saremo presenti all’Expo
2015 con il nostro know-how agricolo e organizzeremo degustazioni, eventi e conferenze in linea con il tema dell’Expo”
In questo contesto l’area, progettata dall’architetto David Knafo
e realizzata da AVS, che sarà confinante con il Padiglione Italia,
mostrerà al pubblico mondiale il contributo di Israele alla sicurezza alimentare globale, attraverso le capacità scientifiche del
Paese. Nella struttura, costruita completamente da materiali riciclati, secondo i principi della bioarchitettura, prenderanno posto
degli spazi multimediali che racconteranno la storia dell’agricoltura dello stato ebraico dalla fondazione ad oggi. Un percorso che
si è caratterizzato, data la scarsità di risorse naturali del suolo,
dallo sviluppo di tecnologie e strumenti di avanguardia applicata
all’agricoltura che è divenuto con gli anni un esempio di successo
di come possa essere trasformata una terra arida in un terreno
fertile. Oltre alle immagini in 3D che illustreranno il programma
di rimboschimento ad opera del Keren Kayemet LeIsrael, organizzazione operativa da prima della nascita dello Stato ebraico, uno
spazio sarà dedicato alle attività del gruppo “Netafim” azienda
leader israeliana dell’irrigazione a goccia, che rappresenta il paradigma del successo israeliano nel settore idrico. Inoltre nel padiglione troverà posto anche un ristorante con cucina multietnica
espressione della eterogeneità della popolazione israeliana e del
pubblico che parteciperà in massa all’evento internazionale.
J. D. R.
Uova, zucchero e farina:
bimbi in cucina
A cura del Dipartimento Educativo Giovani della
Cer, un calendario di appuntamenti per i più
piccoli, per imparare a cucinare divertendosi
I
n questi mesi il Dipartimento Educativo Giovani della Comunità Ebraica di Roma sta portando avanti un’iniziativa tanto
utile quanto divertente. Stiamo parlando dei sette incontri che
si stanno svolgendo mensilmente a partire da ottobre in cui i
bambini della nostra Comunità possono partecipare ad un corso di
pasticceria, il tutto organizzato e supervisionato da Lidia Calò.
Muffin, salame di cioccolato, sufganiòt, biscotti da thè, macarons,
orecchie di Aman, e mini pancakes preparati dai ragazzi con l’aiuto
di Giorgia Perugia, un’esperta pasticcera e Cake Designer, la quale
oltre a possedere numerosi attestati, dal classico diploma di pasticceria del Gambero Rosso, alla certificazione per la lavorazione
dell’isomalto (un tipo particolare di zucchero usato per le decorazioni e che permette di creare delle vere e proprie sculture simili al
vetro o al cristallo), si è anche messa in proprio da poco mettendo
su la “Gio’s Art Sugar Fantasies”.
Le richieste giunte per la partecipazione dei ragazzi alla scuola di
pasticceria sono state davvero molte, e la lista di attesa si è allungata perché si è dovuto mantenere il numero di venti bambini per
incontro per rendere più coinvolgente l’esperienza.
Dott. ELISABETTA PEROSINO
Insieme a Giorgia lavora un team di volontari, Samuel Terracina, un
vero e proprio talento per la cucina, Martina Terracina, studentessa
universitaria di Scienze della Formazione, Vittorio Piperno, studente dell’Istituto Alberghiero Regina Margherita, Sharon Di Segni,
anche lei studentessa ma del liceo Renzo Levi, e Debora Gerbi, che
sta studiando per diventare assistente sociale. Gli obiettivi sono
davvero tanti, ovviamente imparare nuove ricette e sfruttare l’aiuto
di una bravissima pasticcera, ma è anche un’attività indicata per
sviluppare delle esperienze sensoriali del tutto nuove per i più
giovani, una collaborazione per avvicinarsi ancora di più al mondo
ebraico attraverso la Kasherut, attraverso anche la preparazione di
alcune ricette tipiche delle festività ebraiche.
Per l’occasione alcune delle
stanze del Bnei Akiva sono state
allestite come una vera e propria
cucina, arricchite con una serie
di stoviglie, forni, pentole ed
utensili per rendere l’ambiente
davvero ad hoc. La particolarità
di questo corso, come ci spiegano sia Lidia che Giorgia, è l’entusiasmo dei bambini, l’attenzione
e la partecipazione, un vero e
proprio impegno in cui si sono
messi in gioco senza remore né
dubbi. Si ringraziano Samuel Terracina per il logo e la grafica,
ovviamente il Ristorante Yotvatà,
che sta fornendo tutti gli “Ingredienti” con cui i bambini stanno
lavorando cosi assiduamente e tutti i collaboratori che hanno reso
possibile lo svolgimento di questi “gustosi” incontri.
REBECCA MIELI
Prof. Silvestro Lucchese
Chirurgo specialista
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ROMA EBRAICA
Quel luogo di culto
ricco di storie
Fra le cose più apprezzate nel
percorso offerto dal Museo Ebraico,
vi è la visita alla Sinagoga Maggiore
U
no dei momenti preferiti dai tanti
turisti che ogni giorno percorrono
incuriositi le diverse sale del
museo è quando le professionali
guide del Museo Ebraico di Roma li conducono nel Tempio Maggiore, il
‘Tempio Grande’.
Una domenica, nel corso di una
visita guidata al Museo Ebraico di
Roma, Giacomo Moscati, il Vice
presidente della Comunità ebraica
di Roma, ha raccontato con grande
passione al gruppo del Benè Berith
Giovani la storia del Tempio. Una
storia piena di aneddoti della
nostra comunità e ricca di aspetti
storico-artistici di grande interesse.
Tornata a casa, ho subito raccontato entusiasta la visita (anche se
non era la prima volta che prendevo parte ad un tour guidato del
museo e del Tempio, la trovo ogni
volta diversa e sorprendente) e
parlando proprio del Tempio Grande ho scoperto che mia Zia Ester
Segrè fece parte della gioiosa folla presente alla riapertura del Tempio Maggiore
dopo la fine seconda guerra mondiale e
dell’occupazione nazista, nel giugno del
1944 quando il Tempio fu liberato dalle
truppe americane.
Anche se tutti i membri della comunità
ebraica romana conoscono il Tempio Mag-
Stranezze americane:
Chrismukkah!
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
Una festività ‘mista’
che scontenta tutti
L’“Associazione Daniela Di Castro
Amici del Museo Ebraico di Roma”
è nata per aiutare il Museo Ebraico
di Roma nella tutela, conservazione,
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
resto invece destinato al giardino.
Nel luglio del 1889 l’Università israelitica
indisse “un programma di concorso per il
progetto di un Tempio Israelitico con
accessori ed altri locali annessi da erigersi
in Roma”. Uno degli obiettivi che si voleva
conseguire era la costruzione di un edificio
maestoso ma soprattutto “monumentale e
ASSOCIAZIONE
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
38
giore, forse, a volte si dimentica l’importanza storica che ha avuto per la nostra comunità sia in tempi felici che in circostanze
purtroppo più tristi.
Il Tempio fu inaugurato nel luglio del 1904
e divenne presto uno dei simboli dell’emancipazione della comunità ebraica
romana dopo demolizione del ghetto e l’Unità di Italia.
Nel 1897 l’Università Israelitica e il Comune di Roma raggiunsero un accordo per
l’edificazione della Sinagoga con l’acquisto
di un’area di 3.373 mq al prezzo di L.167.000
con 1.260 mq di superficie coperta ed il
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
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Tel. 334 8265285
D
ite la verità: quanti di voi hanno
sentito nominare il “Chrismukkah”? Molti di voi lo ricorderanno perché sentito nominare
dal popolarissimo telefilm americano
“Grey’s Anatomy” o, prima ancora, da “The
O.C.” dove il personaggio di Seth Cohen,
figlio di matrimonio misto, cercava un modo
per unire le fedi di entrambi i genitori e da
qui nasce la “sua creazione”... il Chrismukkah: “otto giorni di regali, più un giorno di super regali!”, mostrando il tipico
albero natalizio affiancato dalla Chanukkia.
In realtà, però, non è stato lui ad inventare
questo termine! Si tratta, infatti, di un neologismo della cultura popolare che indica
l’unione, appunto, della festività cristiana
severo”. Al concorso parteciparono ventisei gruppi di ingegneri e architetti i cui
progetti sono conservati presso l’Archivio
Storico della Comunità Ebraica di Roma.
Inizialmente furono considerati artisticamente meritevoli i progetti dell’ingegner
Muggia e quello dell’ingegnere Vincenzo
Costa e dell’architetto Osvaldo Armanni e
fu dunque indetta una seconda prova per i
due gruppi di concorrenti. Il progetto fu poi
affidato a Costa e Armanni dopo a rinuncia
di Muggia.
Il Tempio fu requisito durante l’occupazione nazista e riaperto dalle truppe americane nel 1944. E’ un luogo simbolo
della comunità ebraica, un luogo
legato ad eventi di grande portata
storica come la visita di Papa Giovanni Paolo II ma purtroppo anche
di momenti tragici della nostra
storia come l’attentato del piccolo
Stefano Gaj Tachè a Sheminì Azzeret nel 1982.
Architettonicamente il Tempio
Maggiore presenta una pianta a
croce greca orientata verso Gerusalemme, grandi colonne e raffinate decorazioni parietali di Bruschi
e Brugnoli e vetrate di Vincenzo
Picchiarini. Ai due lati della teva’
dove si trova il matroneo vi sono
due diversi e preziosissimi Aron
Ha-Kodesh. Giacomo Moscati
durante la visita ha raccontato che
questi erano utilizzati spesso per i matrimoni delle donne incinte.
Gli aneddoti sulla storia della comunità
ebraica e del tempio sono veramente
numerosi. Per ascoltarli tutti, non si può
non consigliare una visita guidata al Museo
ebraico di Roma
SARAH TAGLIACOZZO
con la festività ebraica. Una festa creata per
essere celebrata dalle famiglie miste, ma
che poi viene celebrata da molti americani
come festività alternativa, diventata famosa
grazie al grande uso che i Vip internazionali
ne fanno. Popolarità che ha portato una coppia ebreo-cristiana di Bozeman (Montana) a
lanciare nel 2004 il sito internet chrismukkah.com in cui vengono dispensati
curiosità riguardanti la festività.
Il sito, però, ricevette numerose critiche da
parte della Lega Cattolica newyorkese che
assieme al Consiglio dei Rabbini condannò
questa festa come un “insulto” alle culture
cristiane ed ebraiche. Il fondatore della piattaforma, però, non si diede per vinto e nel
2005, assieme a Kathy Stark, scrisse un libro
umoristico di ricette intitolato Chrismukkah!
The Merry Mish-Mash Holiday Cookbook.
Lapidario il giudizio che ne ha dato il quotidiano Usa Today: «La nuova falsa festività
che le aziende sfruttano per guadagnare
qualche dollaro in questa stagione».
MIRIAM SPIZZICHINO
Tanto a mi ‘un me tocca
Collezionista di opere buone
Nasce una nuova formula di spettacolo
teatrale che unirà il talk-show,
l'intrattenimento del pubblico e la commedia,
tutto all'insegna del giudaico-romanesco
Gianfranco Moscati ha festeggiato 90 anni
attualizzandolo, dimostrando che sbaglia chi pensa che certi argomenti e alcune tematiche che tratteremo non lo riguardano, da cui
il titolo provocatorio “Tanto a mi ‘un me tocca”.
Non trattandosi più di una tradizionale 'commedia', l'originalità
della formula ha richiesto il contributo e l'aiuto di molte organizzazioni che insieme stanno lavorando alla struttura definitiva di ogni
serata. Oltre alla Compagnia Quasi Stabile (con Bruno Pavoncello
'Brumbella', Silvana Moscati, Alberto Di Porto 'Omopiccolo', Angelo
Sabatello, Sara Moscati, Stefania Della Rocca, Fabio Gatti, Chiara
Benassi, Antonio Rizzuti e il tecnico Claudio D'Onofrio), partecipano
alla realizzazione del progetto: il Centro di Cultura, il Dipartimento
Educativo Giovani, l'Ufficio della Sicurezza Cer, il giornale Shalom,
la Golda International Eventi e la Scuola Statale I.I.S. di via dei
Papareschi (che da anni è gemellata con la Comunità ebraica).
“Si tratta – spiega Miriam Haiun, direttore del Centro di Cultura – di
una vera e propria condivisione del lavoro con una redazione impegnata sulla pianificazione del talk-show e sulla risoluzione delle
diverse esigenze organizzative. E’ un’iniziativa importante anche
dal punto di visto aggregativo, metteremo infatti insieme un pubblico diverso e vario riuscendo a raggiungere fasce diverse rispetto
al pubblico abituale. Crediamo molto nel successo di questa iniziativa che nasce dalla sinergia dei diversi servizi comunitari e anche
dalla voglia di partecipazione di tante persone”.
Alberto Pavoncello condurrà la serata, ma il compito di maggiore
responsabilità spetterà a Dario Coen che passando attraverso il
pubblico stuzzicherà commenti e battute, provocherà risposte e
solleciterà interventi e domande. Tutti gli incassi saranno devoluti
in beneficienza.
che ho vissuto da bambino, come i documenti riguardanti la razza e
ciò che caratterizzava il periodo fascista, come le date scritte in
numeri romani.
Durante questi anni il suo lavoro ha contribuito a sostenere
diverse organizzazioni, ci vuole raccontare?
A seguito della scomparsa di mio fratello, ho voluto dedicarmi a
svolgere un'attività che potesse aiutare gli altri. Una delle prime
esperienze è stata quella con l'Ospedale pediatrico Alyn di Gerusalemme durante uno dei miei viaggi in Israele. Lì ho avuto l'opportunità di contribuire ad aiutare la struttura che ospita bambini disabili e ho adottato come Guardian Angel una bambina che all'epoca
aveva 3 anni, Galit. Sempre in Israele, ho contribuito ad aiutare il
museo dei bambini deportati "Yad Layeled", dove ho dedicato una
targa all'ospitalità della Svizzera, che mi ha accolto come rifugiato
durante gli anni della guerra, dal settembre del '43 all'aprile del '45.
In oltre mi sono dedicato ad aiutare dei bambini con disagi economici del quartiere San Giovanni a Teduccio a Napoli, dove ho vissuto per molti anni. Tutto questo è stato possibile grazie al ricavato
ottenuto dall'esposizione delle mie raccolte e alla vendita di alcuni
miei cataloghi.
YAEL DI CONSIGLIO
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
A
ddio tradizionale teatro giudaico-romanesco, nascerà
nelle prossime settimane un modo nuovo di divertirsi a
teatro che avrà per protagonisti non solo gli attori sul
palco, ma soprattutto il pubblico in sala.
L'idea nasce dal vulcanico Alberto Pavoncello (il professore) che ha
elaborato una formula che prevede, nella stessa serata, tre diversi
momenti: si presenta l'argomento attraverso la testimonianza e i
suggerimenti degli esperti; poi si passa alla rappresentazione teatrale; quindi si apre il dibattito con il pubblico che verrà sollecitato
con domande e racconti. Il tutto per una serata che vuole essere
all'insegna del divertimento, che non supererà mai le due ore e che
avrà come filo conduttore delle diverse serate il titolo: "Tanto a mi
'un me tocca".
Si inizia a metà febbraio con il tema "la comunicazione su internet
e l'uso dei social network" e si proseguirà fino a giugno, con altre
tematiche.
“La sfida – spiega Pavoncello – sarà quella di affrontare ogni volta
un argomento di attualità, di interesse generale, prima illustrandolo
attraverso alcuni specialisti, poi con la rappresentazione teatrale,
quindi lasciando uno spazio dove l'improvvisazione del pubblico
sarà fondamentale. Il tutto recuperando il giudaico-romanesco ed
I
n occasione dei suoi 90 anni, che ha compiuto 30 dicembre,
Gianfranco Moscati, noto collezionista di ogni genere di documentazione e oggettistica
riguardante l'ebraismo, ci ha
concesso un'intervista. Una breve
carrellata sulla sua attività che da
anni, oltre a dimostrarsi culturalmente e storicamente preziosa, si
è rivelata essere un lodevole
mezzo per aiutare diversi enti.
Da quanto tempo raccoglie documentazioni riguardanti l’ebraismo?
Ho cominciato a collezionare francobolli da quando avevo sei anni.
Le raccolte riguardanti l'ebraismo sono iniziate dopo. Avendo vissuto il periodo delle leggi razziali e della guerra, gran parte delle mie
raccolte è occupata da questo "repertorio storico". Inoltre mia
moglie era imparentata a ferventi sionisti e questo ha contribuito
ad ampliare la mia collezione.
Il collezionare oggetti è nato come passione personale o con l’intento di lasciare delle testimonianze?
Tutto è nato con lo shock delle leggi razziali. E' stata una missione
quella di raccontare il periodo storico e di farlo conoscere alle generazioni future; come è riportato nel libro di Joel "Raccontatelo ai
vostri figli e i figli vostri ai loro figli e i loro figli alla generazione
seguente."
Qual è il pezzo della sua collezione a cui è più "affezionato"?
Ce ne sono tanti. Di certo quelli che riguardano gli anni della guerra
39
DOVE E QUANDO
GENNAIO
13
17.30 Centro di Cultura Ebraica
Libreria Kiryat Sefer,
M A R T E D I via del Tempio, 2
15
GIOVEDI
18
Presentazione del libro
Quale è la via del vento?
Appunti su Isidoro Moshè Kahn
(1934 – 2004) di Paolo Orsucci.
Ne discutono con l’autore:
Vittorio Della Rocca, Gianfranco
Di Segni, Guido Guastalla
e Giacomo Kahn
-----------------------------------------------
20.00 IL Pitigliani
Fatti un maestro trovati un
compagno: lezioni di Talmud
Rav Benedetto Carucci Viterbi
-----------------------------------------------
17.00 Le Palme
22
18.00 Centro di Cultura Ebraica
Centro di Cultura Ebraica - ore
18.00 Libreria Kiryat Sefer, via del
GIOVEDI
Tempio, 2
Lezione con Yarona Pinhas
Le lettere del cielo: l’alfabeto
ebraico e la creazione.
Lezione a pagamento. Posti limitati. Prenotazione obbligatoria.
Info: 0645596107
-----------------------------------------------
25
21.00 IL Pitigliani
27
FEBBRAIO
02
Chassidismo e modernità
L U N E D I alla scoperta dell’individuo.
Nuovo incontro con Gavriel Levi L U N E D I
Al di là delle mitzvot:
gioia e tristezza
-----------------------------------------------
21.00 IL Pitigliani
Con le radici in terra
e la chioma in cielo.
Il significato di Tu Bishvat
con rav Gianfranco Di Segni
-----------------------------------------------
SHABAT SHALOM
Parashà: Va’erà
Venerdì 16 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 16:47
Sabato 17 GENNAIO
Parashà: Beshallach
Venerdì 30 GENNAIO
Nerot Shabath: h. 17.04
Sabato 31 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 17:51
--------------------------------------------------Parashà: Bo
Mozè Shabath: h. 18.09
--------------------------------------------------Parashà: Ytrò
Venerdì 23 GENNAIO
Venerdì 6 FEBBRAIO
Nerot Shabath: h. 16.56
Sabato 24 GENNAIO
Mozè Shabath: h. 18.00
MARTEDI
17.00 Le Palme
17.00 Le Palme
Nerot Shabath: h. 17.13
Sabato 7 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 18.18
Seder di Tu Bishvat
12.00 Pitigliani
I giovani si mostrano: esposizione
DOMRNICA di opere di artisti under 35
Memorie di famiglia IV edizione:
DOMENICA i giovani tramandano le storie
dei nonni
Tombolata a premi
-----------------------------------------------
17.30 Le Palme
MERCOLEDI -----------------------------------------------
10.30 IL Pitigliani
Per non dimenticare!
Scaldiamo gennaio:
M A R T E D I Pensieri e parole
DOMENICA Il miracolo della musica: musica
----------------------------------------------dal vivo con Alberto Mieli, con la
partecipazione di Silvana Moscati
-----------------------------------------------
19
04
08
10
15
-----------------------------------------------
17.30 Le Palme
In cucina: la pizza!
20.30 IL Pitigliani
Apparire o non apparire?
Questo è un dilemma ebraico
Conducono la serata Hamos
Guetta e David Parenzo, con loro
tanti altri ospiti – degustazione
cibi romani tripolini
-----------------------------------------------
17.30 Le Palme
Pomeriggio di giochi
DOMENICA
NOTES
ADEI WIZO
Proseguono ogni lunedì alle ore 15.00 in
sede gli incontri di burraco e il corso di
burraco per principianti con insegnante.
IL PITIGLIANI
Seminario metodo Feldenkrais
con Irene Habib. Domenica 18 gennaio dalle
10.00 alle 14.00 “Peso, respiro e postura
dinamica” essere in forma attraverso la
consapevolezza corporea
Domenica 8 febbraio dalle 10.00 alle 14.00
Liberarsi da rigidità articolari e vertebrali:
“La magia del metodo Feldenkrais”
Info: [email protected] 3403680717
Metodo Feuerstein
Domenica 8 febbraio inizio corso adattamento tattile
Domenica 15 febbraio inizio corso PAS basic
Info: Sarah [email protected] - www.
pitigliani.it
GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Gruppo Ghimel
tutti i giovedì dalle 16.30 con Davide Spagnoletto ed Elisabetta Anticoli Moscati
40
Programmi educativi
Domeniche di ebraismo: attività divertenti
su feste, tradizioni e lingua ebraica.
Dalle 10 alle 15.30 domenica 11 e 25 gennaio e 15 febbraio. Info: Roberta [email protected]
Nuovi corsi per bambini e ragazzi al Pitigliani English Through Art e Krav Kids
Lunedì e/o mercoledì a partire dalle 16.00
Info e prenotazioni: Giorgia Di Veroli [email protected]
Aspettando Purim: grande festa di Purim
per adulti e famiglie.
SAVE THE DATE sabato 7 marzo … non
perdere tutte le anteprime
NASCITE
Nathan Meir, Emanuel Di Segni di Angelo e Luly Dadusc
Samuel Dan Di Segni di Massimo e Giordana Emma Terracina
David Jehosua Di Veroli di Roberto e Batia Miriam Sermoneta
Ginevra, Ruth Efrati di Alberto e Veronica Di Segni
Ruben, Israel Moscati di Simone e Alexandra Sonnino
Asher, Jeuda Veneziano di Fabrizio e Valentina Mieli
BAR-BAT MIZVÀ
Edmond Sasson di Alan Iosef e Tania Hannuna
Alessandra Efrati di Fabio e Ambra Citoni
Filippo Astrologo di Fabrizio e Alessia Moretti
Emanuela Tabolacci di Fabio e Raffaella Ciampa
Zoe Levy di Pierre e Tiziana Corazza
Samuel Dureghello di Emanuel e Miriam Limentani
AUGURI
I migliori auguri a Massimo Di Segni e Giordana Terracina, insegnante della scuola elementare ebraica, per la nascita di Samuel Dan.
Mazal tov a Roberto Di Veroli, rabbino della CER e a Batia Miriam Sermoneta per la nascita di David Jehosua.
Lo scorso 16 dicembre si è tenuta la milá di Daniel Bonnani, figlio di Andrea e di Luisa Moscato. Un sentito ringraziamento da
parte del nonno 'Lupone' e dai genitori al moel Davide Pavoncello
che ha assistito con molto scrupolo il bambino.
SCUOLA ELEMENTARE VITTORIO POLACCO
La Scuola Elementare Vittorio Polacco sentitamente ringrazia
Ariel Bahbout della Ditta Kosher Cake, Alberto Ouazana delle
Macellerie Kosher Deligth e Giovanni Terracina di Le Bon Ton
per avere offerto il proprio contributo per la realizzazione
della festa dei 90 anni della Scuola.
Internet e i nostri figli
Ricerca filmati degli anni ‘30 e ‘40
Mi chiamo Tamar Tal Anati e sono la nuora di Ruben (Bubi) Anati
(Gnagnatti), fratello di Gabriele (Dade), David Andrea, e Emmanuel, figli di Ugo Gnagnatti e di Elsa Castelnuovo, fuggiti da
Firenze e immigrati in Eretz Israel dopo la guerra. Sono regista di
documentari. Forse qualcuno ha visto il mio documentario Hatzalmaniya-Life in Stills. Negli ultimi due anni sto lavorando tra l’altro
ad un documentario sulla famiglia Gnagnatti e la sua fuga nei
boschi della Toscana durante la Seconda Guerra Mondiale. Attraverso la storia di questa famiglia il film documenterà la storia di
un grande numero di ebrei in Italia.
Sto cercando dei filmini fatti in casa del periodo prebellico, intorno
agli anni ‘30, ‘40. Filmati di vita quotidiana, feste, vacanze ecc…
di famiglie ebraiche, al fine di incorporarli nel film e di presentare
un panorama delle comunità ebraiche italiane alla vigilia della
guerra. Se qualcuno ha nastri 8 o 16 millimetri girati in Italia prima
della guerra, mi piacerebbe vederli. Potrei anche convertirli in
formato digitale e quindi assicurarne la conservazione. Vi ringrazio per il vostro aiuto.
Tamar Tal Anati
052-3879377 - [email protected]
Stage retribuiti a New York in marketing/economia
Per laureati in economia, marketing, o statistica, con un anno di
esperienza complessivo anche presso diversi datori di lavoro,
interessati a stage settore consulenza marketing/economia in
USA, D. Grosser and Associates offre stage di 18 mesi a New
York con visto J-1 a partire da maggio 2015. Indispensabile
buona conoscenza lingua inglese. Stipendio iniziale 2200 dollari/
mese. Per informazioni e invio cv si prega contattare: [email protected], tel 001 212 6610435
Su iniziativa della Scuola Media ebraica 'A. Sacerdoti' e dell'Ufficio
della Sicurezza della Comunità, in collaborazione con la Polizia
Postale, il 19 gennaio alle ore 9.00 si terrà un importante incontro
nell'Aula Magna che avrà per tema i pericolo della Rete e sull'uso
corretto di Internet.
All’incontro parteciperanno gli esperti delle Forze dell’ordine in
materia di sicurezza, che insegneranno ai genitori semplici tecniche per mettere i propri figli nella condizione di un uso sicuro e
responsabile dei social networks, della rete in genere e per evitare tentativi di adescamento, di cyberbullismo, ecc.
L’evento si rivolge quindi a tutti i genitori che sono invitati a
partecipare.
La redazione di Shalom partecipa commossa al grave lutto che ha
colpito Lidia Calò – direttore del Dipartimento Educativo Giovani
– per la scomparsa della mamma
Franca Naomi Astrologo
CI HANNO LASCIATO
Gemma Pia Coen in Solomon 26/06/1930 – 10/12/2014
Prospero Di Veroli 22/07/1935 – 19/12/2014
Leda Piperno ved. Di Nepi 26/12/1925 – 17/12/2014
Loredana Rossi 21/05/1948 – 01/12/2014
Raffaele Sadun 22/04/1946 – 13/12/2014
Angelo Sonnino 03/08/1935 – 06/12/2014
Alvaro Zarfati 11/02/1920 – 16/12/2014
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GENNAIO 2015 • TEVET 5775
Gli Asili Israelitici “Rav Elio Toaff” e il Centro di Cultura Ebraica
vi invitano alla presentazione del libro
“Il mondo delle tefillot” Le preghiere spiegate ai bambini.
A cura di Asili Israelitici “Rav Elio Toaff”
La semplicità e il valore della preghiera, come slancio universale
dell’animo umano, in un testo illustrato, per trasmettere anche ai
bambini la riflessione sulla bellezza del Creato e sulla forza della vita.
Domenica 18 gennaio ore 17.30
Asili Israelitici “Rav Elio Toaff”, Lungotevere Sanzio, 14
Info: 065897589 – [email protected]
Il 19 gennaio incontro nella Scuola ‘Sacerdoti’
della Polizia Postale con i genitori per insegnare
un uso responsabile dei Social Network
41
ROMA EBRAICA
Berto l’edicolante
Il Colonnello
B
erto non esitava a riconoscerlo:
era un meteoropatico in piena
regola. Pioggia e maltempo lo
mettevano di cattivo umore e oggi aveva davvero la luna di traverso.
Scrutò il cielo e non ci lesse niente di
buono, mentre folate di vento agitavano già le locandine appese in
mostra. Uscì dal suo pertugio e tirò
giù le tende e i teli per mettere al
riparo giornali e mercanzie dalla burrasca in arrivo.
Intendiamoci: lui chiamava burrasca
perfino un acquazzone estivo ma
tant’è, la pioggia non la sopportava.
“Posso darti una mano?”
Il Colonnello era di fronte a lui, pieno
di buona volontà.
“Beh, tira da quella parte, grazie...
Ecco, così, ora fissala al gancio. E
adesso la tenda... Si, bene, perfetto...”
Brigarono ancora un po’ ma quando
cominciarono a cadere i primi goccioloni Berto era già dentro alla sua
edicola.
“Vieni dentro che sta arrivando un nubifragio.”
Il Colonnello gli andava a genio. In una
vita precedente quello era stato un ufficiale dei carabinieri e, sebbene lui non ne
parlasse, Berto se lo immaginava come
una specie di spia, qua e là in giro per il
mondo. Di certo era fissato con la politica
internazionale ed era di buona compagnia.
Chiacchierare con lui era un antidoto alla
noia.
“Hai sentito di quel vecchio diavolo di Shi-
mon Peres?” chiese il Colonnello “E’ di
nuovo a Roma... O meglio è di nuovo in
Vaticano a convegno col Papa.”
“Quello l’ha stregato il Papa.”
“O forse il Papa ha stregato lui...”
“La verità” disse Berto “ è che sembran
fatti l’uno per l’altro. L’unica realtà che
concepiscono è l’utopia. Li senti parlare e
sembra che la pace sia dietro l’angolo. Che
il bene debba trionfare sul male e la ragio-
ne sul fanatismo…”
“Beh, uno che parla di pace anche nel frastuono della guerra l’utopia della speranza
ce l’ha nel sangue. Peres dipinge scenari
di benessere, sviluppo e fratellanza anche
mentre i missili gli piovono addosso…”
“Per questo il Papa lo adora… Davanti alle
teste mozzate non bastano perdono e cristiana rassegnazione. Serve una visione.
Una strategia. Una sovversione ideale…”
“Appunto, un’utopia… Peres è portatore
di una religione laica che si adatta come
un guanto alla misericordia cristiana.”
Berto sorrise scettico.
“Non esagerare. A quanto dicono è stato
lui l’artefice dell’atomica israeliana.”
“Già… E quando l’ha concepita non era
un’utopia anche quella?”
Rimasero qualche istante a rimuginare in
silenzio mentre la pioggia batteva forte
sulle tende e ne scorreva in rivoli impetuosi.
“Adesso” riprese il Colonnello “ha
proposto al Papa l’ONU delle religioni… Questa di tutte le sue utopie è la
più audace e visionaria.”
“O forse la più bislacca e stravagante”
replicò Berto con una smorfia. “Te lo
vedi un consesso di religiosi al palazzo
di vetro? Ebrei, cattolici, ortodossi,
luterani, buddisti, confuciani, animisti… E poi arrivano i musulmani e per
prima cosa si mettono a discutere di
quale sia il vero Islam. E’ una religione
di pace, gridano da una parte. Morte
agli infedeli gridano dall’altra e magari
gettano sul tavolo una testa mozzata,
tanto per spiegarsi meglio. Poi arrivano quelli moderati e dicono che i
tagliagola sono fratelli che sbagliano
ma che bisogna capirli… E’ solo che
interpretano male il Corano… Non
funzionerebbe te lo dico io…
“Eppure…”
“Eppure niente, non funzionerebbe!”
ripeté Berto deciso. “Ce n’è già una di
ONU ed è un bordello… Figuriamoci se ne
fai un’altra e ci butti dentro dogmi, misteri
e fideismi.”
Scosse la testa con un sorriso.
“Qualcuno l’ha già detto. Meglio lasciare a
Dio ciò che è di Dio.”
MARIO PACIFICI
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LETTERE AL DIRETTORE
voce lettori
La
dei
Museo della Shoah di Roma: i motivi di una lunga sceneggiata
Caro direttore,
come ben sai non è mio costume rilasciare dichiarazioni pubbliche
quotidiane né polemizzare sui giornali con chi la pensa diversamente da me. In tutta la recente vicenda della possibile delocalizzazione
del Museo della Shoah da Villa Torlonia all’Eur sono intervenuto
solo due volte, la prima per fare presente che tutta l’operazione era
stata impostata e quasi portata a termine a totale mia insaputa, la
seconda per stigmatizzare la strumentalizzazione che alcuni hanno
voluto fare delle giustissime aspettative di alcuni sopravvissuti ai
campi di sterminio nazisti, illudendoli cinicamente che cambiando
sede si potesse realizzare un Museo della Shoah in tre mesi.
Ho letto ora la lettera di alcuni figli e nipoti di reduci pubblicata
nell’ultimo numero del tuo giornale.
Ne condivido appieno la loro grande amarezza anche se i toni, a
volte, mi sono parsi eccessivi. Vorrei però ricordare che a parte la
farraginosità delle procedure burocratiche vigenti per l'approvazione di un progetto di un'opera pubblica e la sua successiva effettiva
realizzazione, il vero motivo di questa lunga sceneggiata, come
definita dai firmatari della lettera succitata, non risiede tanto né
nella burocrazia né nelle difficoltà finanziarie sopraggiunte negli
ultimi anni ma superate già ai tempi del governo Monti, quanto
piuttosto, come da almeno due anni ho più volte lamentato, nella
mancanza di volontà politica di realizzare il Museo della Shoah da
parte di tutti i Soci Fondatori, sia degli enti pubblici sia di quelli
ebraici. Credo che Mino Di Porto, che ha partecipato a tutte le riunioni del Collegio dei Fondatori e del Consiglio d'Amministrazione
della Fondazione Museo della Shoah me ne darà atto.
Concludo, facendo presente, a scanso di equivoci, che da quando
ho accettato, più di sei anni fa, di presiedere la Fondazione, io non
percepisco alcun compenso - anzi ci rimetto un po’ anche di tasca
mia - e mi sono impegnato quotidianamente, quasi a tempo pieno,
a titolo totalmente volontario. Shalom e Hag Hanukkah sameah.
LEONE PASERMAN,
Presidente Fondazione Museo della Shoah
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Hanno mezzi finanziari illimitati, è già tutto pronto, e non solo per il
Mondiale di calcio / Allora il futuro del calcio è a Dubai? / Forse non
soltanto il futuro del calcio… Questo acutissimo, puntuto scambio di
battute l’abbiamo ascoltato durante una popolare trasmissione sportiva di Radio RAI del mattino. Le condizioni dei lavoratori nei cantieri dell’Emirato, quasi tutti stranieri ingaggiati nei paesi più poveri
dell’Asia e dell’Africa, fanno rimpiangere quelle degli ebrei in schiavitù a Pitom e Ramesses (Esodo 1, 11). Gli incidenti mortali sono
quotidiani e non fanno notizia. Se questo è il futuro, arruolatevi in
Interstellar e cambiate pianeta.
Smokéd
SHALOM‫שלום‬
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Visto si stampi 7 gennaio 2015
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GENNAIO 2015 • TEVET 5775
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