Sezione ECM
Malattia celiaca: presentazione di un caso clinico
“tipico” e di un caso clinico “atipico”
Antonio Carroccio, Lidia Di Prima, Alberto Notarbartolo
(Ann Ital Med Int 2004; 19: 63-78)
PRESENTAZIONE CLINICA
prima ora 11 mm, proteina C reattiva negativa). L’emocromo conferma il quadro di anemia microcitica (Tab. I)
e i valori di ferritina (3 mg/dL; valore normale > 15
mg/dL) sono indicativi di sideropenia. Una ricerca del sangue occulto nelle feci risulta positiva. Nel sospetto di malattia celiaca, vengono eseguiti i dosaggi per gli anticorpi antigliadina (AGA) immunoglobulina (Ig)G, per gli antitransglutaminasi (anti-tTG) IgA e per gli antiendomisio
(EmA) IgA. Poiché tutti risultano positivi (Tab. I), si procede ad eseguire un’esofagogastroduodenoscopia con
biopsie nella seconda porzione duodenale. L’endoscopia
evidenzia un quadro di esofagite lieve (erosioni < 5 mm,
non confluenti) ed un duodeno di aspetto tubulare con netta riduzione delle sue plicature. L’esame istologico dei
frammenti di mucosa duodenale confermava il risultato dei
test anticorpali, evidenziando: severa riduzione in altezza dei villi e marcato approfondimento delle cripte ghiandolari, associato a diffusa infiltrazione linfocitaria della mucosa e della lamina propria. La paziente veniva, quindi, posta a dieta priva di glutine e si iniziava un trattamento con
inibitori di pompa per la cura dell’esofagite. La rivalutazione ambulatoriale dopo 1 mese, consentiva di evidenziare la scomparsa dei sintomi gastrointestinali (non do-
I due casi clinici che seguono sono entrambi casi di malattia celiaca. Essi tuttavia differiscono nella presentazione clinica poiché nel primo vi sono segni e sintomi più
“classicamente” riferibili alla celiachia e si tratta, dunque,
di una presentazione che definiamo “tipica”. Il secondo caso presenta, invece, sintomi meno frequenti nel quadro della malattia celiaca e che, in qualche modo, possono essere confondenti; queste forme di celiachia vengono definite
a presentazione “atipica”. La successiva discussione chiarirà come queste forme “atipiche” sono così frequenti da
meritare la massima attenzione per potere ridurre le mancate diagnosi di celiachia.
Caso 1
A.G. donna di 34 anni giunge in ambulatorio per storia
di dolore addominale ricorrente, associato ad anemia cronica. La paziente soffre di dolore addominale sin dall’infanzia; il dolore è crampiforme e diffuso a tutto l’addome,
senza correlazione con i pasti. Si attenua ma non scompare dopo le evacuazioni. L’alvo è alterno con periodi di
diarrea (2-4 evacuazioni/die con feci non formate; non diarrea notturna; non muco né sangue nelle feci) e periodi di
stipsi. L’anemizzazione è stata obiettivata per la prima volta durante la prima gravidanza, all’età di 22 anni. Non vengono riferiti febbre e dimagrimento. In anamnesi remota
solo appendicectomia a 18 anni ed aborto spontaneo a 24
anni. Anamnesi familiare positiva per diabete mellito tipo 1 (la sorella). All’esame obiettivo si evidenzia magrezza
(peso 48 kg; altezza 162 cm) e pallore delle mucose; dolorabilità diffusa alla palpazione profonda dell’addome,
senza evidenza di masse. Organi ipocondriaci nei limiti,
così come l’esame del torace e del cardiovascolare. Gli esami di routine ematochimici mostrano una normale funzionalità epatica e renale ed un normale metabolismo glicolipidico; gli indici di flogosi sono negativi (globuli
bianchi 7250/mm3, velocità di eritrosedimentazione alla
TABELLA I. Dati di laboratorio nel soggetto con presentazione “tipica” di celiachia. Prima e dopo la dieta priva di glutine.
Emocromo
Globuli rossi (/mm3)
Emoglobina (g/dL)
Globuli bianchi (/mm3)
Piastrine (/mm3)
MCV (fL)
RDW (%)
Sierologia per celiachia
Anti-tTG IgA (U/mL)
EmA IgA
AGA IgA/IgG (U/mL)
Alla diagnosi
Dopo 12 mesi di dieta
3 150 000
10
7250
352 000
78
16
4 400 000
12.6
7400
255 000
85
13
13.5
Positivo 1:80
2.2/4
6.2
Negativo
1.2/1.8
Valori normali di riferimento: antitransglutaminasi (anti-tTG) < 7 U/mL;
antiendomisio (EmA) negativo; antigliadina (AGA) immunoglobulina
(Ig)A/IgG < 1.5/2 U/mL.
MCV = volume corpuscolare medio; RDW = red cell distribution width.
Cattedra di Medicina Interna (Direttore: Prof. Alberto Notarbartolo),
Università degli Studi, Policlinico di Palermo
© 2004 CEPI Srl
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lore e regolarizzazione dell’alvo) ed un incremento ponderale di 2 kg. Nuove ricerche del sangue occulto nelle feci hanno dato esito negativo. A distanza di 6 mesi dall’inizio della dieta, l’emocromo era molto migliorato con valori di emoglobina di 12.3 g/dL; dopo 1 anno di dieta priva di glutine, la paziente era asintomatica, l’emocromo e
gli indici di riserva marziale erano normalizzati e gli anticorpi per la diagnosi di celiachia erano negativi (Tab. I).
denali. Il quadro istologico della mucosa della seconda porzione duodenale mostra un’atrofia parziale dei villi con ricco infiltrato infiammatorio. Il paziente inizia così la dieta priva di glutine. Il follow-up ambulatoriale mensile
mostra una normalizzazione delle transaminasi dopo 2 mesi di dieta e successivamente esse si mantengono sempre
nei limiti della norma. Il paziente è rimasto, ovviamente,
asintomatico, ma si è registrato un incremento ponderale
di 4 kg nel corso dei primi 6 mesi di dieta, per cui è stata consigliata una dieta ipocalorica. Gli anticorpi antitTG ed EmA risultavano negativi dopo 1 anno di dieta priva di glutine.
Caso 2
B.C. uomo di 32 anni giunge al nostro ambulatorio per
la presenza di ipertransaminasemia. Il paziente, donatore di sangue dall’età di 25 anni, ha ricevuto, 3 anni fa, comunicazione dal Centro Trasfusionale di un’ipertransaminasemia con marcatori virali sierologici per infezione
da virus dell’epatite B (HBV) e virus dell’epatite C (HCV)
negativi. Da allora i controlli effettuati ogni 3-6 mesi
hanno confermato la presenza di ipertransaminasemia
con valori di 1.5-2 volte la norma. L’anamnesi patologica remota è silente, senza alcuna malattia sin dall’età pediatrica. Nulla all’anamnesi familiare. L’esame obiettivo
mostra che il soggetto è in lieve sovrappeso: 76 kg, altezza
170 cm, e non evidenzia nulla di patologico a carico di tutti gli organi e gli apparati esaminati; fegato e milza sono
nei limiti. Gli esami ematochimici confermano la presenza di ipertransaminasemia (alanina aminotransferasi e
aspartato aminotransferasi poco meno di 2 volte la norma);
non vi sono altre alterazioni degli indici di funzionalità epatica: fosfatasi alcalina, gamma-glutamiltranspeptidasi,
pseudocolinesterasi, attività di protrombina e proteine totali con elettroforesi sono nella norma. Funzionalità renale
e tiroidea nella norma. L’emocromo non mostra anemia
(emoglobina 13.0 g/dL), né alterazioni della conta leucocitaria e piastrinica. Lo studio del metabolismo glicolipidico evidenzia una modesta tendenza all’ipercolesterolemia (colesterolo totale 215 mg/dL, colesterolo HDL 41
mg/dL). I dati di laboratorio confermano inoltre la negatività dei marker per epatite B e C. Un’ecografia addominale evidenzia una steatosi epatica di grado medio,
senza alterazioni di milza, vie biliari, vasi portali ed assenza
di linfonodi aumentati di volume. La ricerca di cause meno frequenti di ipertransaminasemia cronica, induce ad eseguire un dosaggio della ferritina, sideremia e transferrina
(ipotesi: emocromatosi), della ceruloplasmina e della cupremia (ipotesi: morbo di Wilson) e degli anticorpi per la
diagnosi di celiachia. I dati di laboratorio, mentre escludono le prime due ipotesi, evidenziano una positività degli anticorpi anti-tTG (valore osservato 12 UI, valore normale < 7 UI) e degli EmA (titolo 1:80). Per la conferma
dell’ipotesi diagnostica di celiachia, il paziente accetta di
eseguire un’esofagogastroduodenoscopia con biopsie duo-
COMMENTO AI CASI CLINICI PRESENTATI
Caso 1
Il primo caso presentato possiamo definirlo un caso di
malattia celiaca a presentazione “tipica”. Vi erano infatti nella paziente sia sintomi gastroenterologici con alterazioni dell’alvo, sia l’anemia da carenza marziale che è
il segno clinico più frequente al momento della diagnosi
di celiachia. Tuttavia, nonostante la sua “tipicità”, il caso merita alcuni commenti. Il primo riguarda le caratteristiche dell’alvo; la paziente riferiva, infatti, periodi di diarrea alternati a periodi di stipsi e questa presentazione associata a dolore addominale che si risolve/attenua dopo
l’evacuazione è spesso suggestiva della sindrome del colon irritabile, cioè di una patologia considerata conseguente ad un disturbo funzionale. Non vi era dunque “la
classica diarrea” con malassorbimento che ci si aspetterebbe nella celiachia. Questa osservazione vale a ricordare
che le chiare manifestazioni da malassorbimento (alvo costantemente diarroico, steatorrea, diarrea anche notturna, dimagrimento, ipoproteinemia, ecc.) sono presenti in
meno della metà dei soggetti adulti al momento della diagnosi di celiachia. In molti altri casi vi può essere un alvo normale o perfino stipsi (quest’ultima in circa il 5% dei
casi alla diagnosi). Inoltre, va osservato che la paziente non
era venuta alla nostra osservazione per le turbe dell’alvo
e il dolore addominale, bensì per chiarire la causa dell’anemia. Questa osservazione sottolinea che in caso di alterazioni dell’alvo sin dall’infanzia (come nel caso da noi
osservato), il paziente “si abitua” alle proprie caratteristiche
dell’alvo, fino a considerare normale un alvo che obiettivamente può essere considerato irregolare. L’anamnesi deve quindi essere accurata e mirata, cercando di rendere
chiare le caratteristiche cliniche che il paziente può non
avere interpretato correttamente.
Il secondo commento da fare riguarda l’anemia. Come
detto, essa rappresenta il segno clinico più comune al
momento della diagnosi di celiachia ed è una diretta con-
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Antonio Carroccio et al.
seguenza del malassorbimento degli oligoelementi e delle vitamine coinvolte nell’eritrogenesi: principalmente
ferro, folati e vitamina B12. La carenza marziale è quella che pare giocare il ruolo più rilevante, tanto che nella
maggior parte dei casi l’anemia del celiaco è di tipo microcitico e si associa a bassissimi livelli di sideremia e ferritina sierica. Tuttavia, osservando l’emocromo della paziente da noi diagnosticata (Tab. I), si può notare che la
multipla carenza vitaminica è evidenziata da un altro parametro che spesso non si guarda con la dovuta attenzione: il “red cell distribution width” (RDW). Questo indice esprime la variazione del volume della popolazione eritrocitaria rispetto al volume medio della stessa. Com’è noto il volume medio dei globuli rossi è indicato dal volume corpuscolare medio (MCV); se una popolazione eritrocitaria è uniformemente formata da emazia piccole
(quadro tipico dell’anemia sideropenica) avremo un MCV
basso ed un RDW basso perché tutti gli eritrociti tendono ad essere piccoli. Se però, oltre alla carenza marziale
vi è una carenza di vitamina B12 e folati, almeno una parte degli eritrociti saranno alterati in senso macrocitico
(com’è tipico dell’anemia da deficit di B12). Così, pur
avendosi un MCV basso (perché questo indice rappresenta
“una media” e la carenza di ferro è nella maggior parte dei
celiaci il maggior problema dell’ematopoiesi), si avrà un
RDW alto perché molti eritrociti avranno un volume nettamente differente dalla media. L’utilità di prestare attenzione ai valori di RDW per avere un sospetto iniziale
di celiachia, sembra sottolineata da recenti studi che mostrano come le alterazioni del RDW nei celiaci siano più
frequenti di altri classici segni laboratoristici di malassorbimento, ivi inclusa la presenza di anemia1. Per altre
considerazioni sulla presenza e le caratteristiche delle alterazioni ematologiche nei pazienti con celiachia si rimanda
ai paragrafi successivi.
liachia2,3. Inoltre, anche le epatopatie croniche dovute ad
infezione da HCV, possono avere una maggiore frequenza
di celiachia rispetto alla popolazione generale, probabilmente per il ruolo dell’HCV nel favorire l’autoimmunità4. Se poi si ribalta il punto di vista, andando a vedere
la frequenza di ipertransaminasemia nei soggetti celiaci al
momento della diagnosi, ci si accorge che essa è presente in circa il 40% degli adulti5 e in oltre il 50% dei soggetti diagnosticati in età pediatrica6. Da tutto ciò l’indicazione a sottoporre a screening per celiachia i pazienti con
ipertransaminasemia, quanto meno quelli senza chiara
eziologia virale. Come nel caso da noi descritto, l’ipertransaminasemia del celiaco si associa spesso ad un quadro ecografico di steatosi epatica e non ha alcun carattere di evolutività. La dieta priva di glutine, infatti, normalizza nel breve-medio termine i valori di transaminasi
che, nel nostro caso, erano normali dopo solo 2 mesi di dieta. In accordo con quanto riportato in letteratura, si può affermare che l’ipertransaminasemia si risolve entro i 6
mesi dall’inizio della dieta priva di glutine, tranne che non
sia presente una concausa di epatopatia.
Un’ultima considerazione che deriva da questo caso
atipico è che la presentazione clinica di questa ipertransaminasemia poteva ben logicamente essere accostata ad
una steatoepatite non alcolica; il soggetto in questione era
infatti in lieve eccedenza ponderale e mostrava un’ipercolesterolemia, entrambe caratteristiche compatibili con
la steatoepatite e non certo immediatamente associabili alla malattia celiaca. Si tratta, ancora una volta, di constatare l’“atipicità” delle presentazioni di celiachia.
EPIDEMIOLOGIA E RUOLO DELLA GENETICA
La malattia celiaca era considerata, fino a poco più di
un decennio fa, una malattia non frequente che interessava circa 1 persona ogni 2000 della popolazione generale
negli Stati Uniti7. L’avvento della diagnostica sierologica, con l’uso di test sensibili e specifici per la diagnosi di
celiachia (anti-tTG, EmA, ecc.) ha aperto la strada a
screening di massa nella popolazione generale. Da quel
momento si è evidenziato che la frequenza di malattia è
molto più alta di quanto si riteneva, ed è oggi stimata fra
1:100 e 1:250 nella popolazione generale8-11.
La frequenza della malattia nelle diverse aree geografiche mondiali, dipende essenzialmente dai suoi due maggiori fattori patogenetici: la frequenza dei geni predisponenti allo sviluppo di malattia celiaca ed il consumo di cereali. La più alta prevalenza della malattia sinora registrata
è quella osservata nelle popolazioni saharawi (di origine
berbera-araba) del Sahara, ove si è avuta una frequenza di
malattia celiaca di 1:70. In generale, per il resto, la fre-
Caso 2
Il secondo caso presentato riguarda un’ipertransaminasemia cronica in un paziente peraltro asintomatico. Si
tratta, dunque, di una presentazione “atipica” di celiachia. L’atipia consiste nella completa assenza di sintomi
gastroenterologici e nell’assenza di anemia o altri segni di
laboratorio di malassorbimento. Il paziente descritto era
perfino un donatore di sangue e l’esame obiettivo mostrava
che era in sovrappeso. Il riscontro di un’ipertransaminasemia “orfana” (senza cause virali) deve però indurre a valutare altre ipotesi di ipertransaminasemia cronica e fra esse la celiachia. Infatti, due importanti studi italiani hanno
evidenziato che circa il 10% dei pazienti con ipertransaminasemia cronica di origine non virale sono affetti da ce-
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MANIFESTAZIONI CLINICHE
quenza è più alta in Europa e in paesi dove si sono avute
grandi ondate migratorie dall’Europa come Nord America
ed Australia. La tabella II12 riassume alcune delle prevalenze di malattia celiaca registrate da studi epidemiologici
in diverse regioni del globo.
Come accennato, la malattia ha una forte componente
genetica. L’importanza dei fattori genetici è supportata da
una frequenza della malattia di circa il 10% in parenti di
primo grado di pazienti celiaci, mentre la concordanza in
gemelli omozigoti è di circa il 70%. Il maggiore componente della predisposizione genetica in pazienti con malattia celiaca risiede nella regione HLA del cromosoma 6.
Infatti, la malattia celiaca è strettamente associata con
gli antigeni HLA di classe II; più del 95% dei pazienti con
malattia celiaca esprimono l’HLA DQ2 (gli alleli
DQα1*0501/DQβ1*02 che insieme formano l’eterodimero DQ2). La maggior parte dei pazienti HLA DQ2 negativi, sono invece caratterizzati dalla presenza dell’HLA
DQ8 (DQα1*03/DQβ1*0302) o di uno soltanto degli alleli componenti il DQ213. È comunque importante sottolineare che l’espressione di alleli HLA determina solo
parte della suscettibilità genetica della malattia celiaca e
studi recenti indicherebbero nei cromosomi 5 e 11 altri fattori di rischio genetici di malattia celiaca. Tuttavia, nonostante numerosi studi genomici siano stati condotti su
famiglie con elevata prevalenza di malattia celiaca, non sono stati identificati con certezza loci genetici chiaramente coinvolti nella patogenesi della malattia celiaca. Inoltre,
è da sottolineare che nella popolazione generale europea
la frequenza del DQ2 è piuttosto alta (15-30%) ed ovviamente solo una piccola percentuale di soggetti sviluppa la
malattia celiaca.
Come già detto, la presentazione clinica della celiachia
viene classificata in “tipica” (diarrea cronica con sintomi
da malassorbimento o anemia sideropenica), ed “atipica”
(manifestazioni extraintestinali). Tuttavia, esiste un’ulteriore “categoria clinica” costituita dalla celiachia “silente”. Si tratta in quest’ultimo caso di pazienti del tutto
asintomatici nei quali la diagnosi viene posta casualmente, nel corso di screening sierologici per la ricerca della celiachia. Questa evenienza non è in realtà rara, non solo perché le ricerche sul territorio si sono moltiplicate ed i programmi di screening sono ormai molto diffusi, ma anche
perché sono note categorie di soggetti ad alto rischio di malattia celiaca nei quali è doveroso eseguire la ricerca sierologica di malattia celiaca per porre la diagnosi. Tali
“categorie a rischio” includono fra gli altri: i familiari di
primo grado dei celiaci, i pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1, i pazienti affetti da tiroiditi autoimmuni, i pazienti affetti da sindrome di Down, ecc.
La tabella III mostra un elenco delle possibili manifestazioni cliniche di celiachia. Come si può vedere è impossibile, in questa sede, soffermarsi su ciascuna di esse
sia per la loro numerosità che per la complessità. Su alcuni punti è però opportuno un cenno di approfondimento. Del quadro ematologico si è già detto a proposito
dell’anemia; aggiungiamo che l’anemia sideropenica del
paziente celiaco ha la caratteristica di non rispondere alla terapia marziale per os. Due studi italiani hanno evi-
TABELLA III. Sintomi e quadri clinici di presentazione della malattia celiaca.
TABELLA II. Prevalenza della malattia celiaca in diverse regioni del
Mondo.
Area geografica
Brasile
Danimarca
Finlandia
Germania
Italia
Olanda
Norvegia
Sahara
Slovenia
Svezia
Gran Bretagna
Stati Uniti
Resto del Mondo
Prevalenza di malattia celiaca
1:400
1:500
1:130
1:500
1:184
1:198
1:250
1:70
1:550
1:190
1:112
1:111
1:266
Da Fasano e Catassi12, modificata.
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Segni clinici più comuni
Segni clinici meno comuni
Adulti
Anemia ferro-carenziale
Diarrea
Bambini
Diarrea
Distensione addominale
Anemia ferro-carenziale
Segni clinici generali
Bassa statura
Pubertà ritardata
Segni gastrointestinali
Aftosi orali ricorrenti
Dolore addominale ricorrente
Steatorrea
Dispepsia
Segni extraintestinali
Anemia da carenza di folati
Osteopenia od osteoporosi
Ipoplasia dello smalto dentario
Deficit di vitamina K
Ipertransaminasemia
Trombocitosi
Artralgie
Polineuropatia
Epilessia occipitale, atassia
Infertilità
Alopecia
Aborti ricorrenti
Antonio Carroccio et al.
denziato che sottoponendo a screening per celiachia pazienti venuti all’osservazione per anemia da causa non determinata, la frequenza di celiachia era di circa il 5%; entrambi gli studi documentavano che se si consideravano
i soggetti già trattati con terapia marziale per os e non responsivi al trattamento, la frequenza di celiachia saliva a
circa il 20%14,15. Un’altra caratteristica dell’emocromo del
paziente celiaco può essere la piastrinosi (numero di piastrine > 400 000/mm3) riportata da alcune casistiche nel
40-50% dei celiaci al momento della diagnosi16,17. I valori di piastrine possono anche superare 1 000 000/mm3,
ponendo problemi di diagnosi differenziale con condizioni
neoplastiche e linfoproliferative18. La patogenesi della
piastrinosi del celiaco non è del tutto chiara. Ma probabilmente hanno un ruolo importante sia la concomitante
anemia, sia l’iposplenismo che è un’altra frequente caratteristica della malattia celiaca19. In ogni caso, anche questa manifestazione clinica tende a scomparire dopo l’inizio della dieta priva di glutine.
Un’altra manifestazione di interesse internistico sulla
quale riteniamo opportuno soffermarci brevemente è
l’osteoporosi. Essa è più comune nei soggetti celiaci non
trattati che nella popolazione generale, ed è probabilmente dovuta ad un deficit di vitamina D, molto comune
nei soggetti celiaci al momento della diagnosi. I valori di
densità minerale ossea a livello vertebrale sono in media
< 30% rispetto alla popolazione generale. La dieta priva
di glutine tende a determinare un recupero mineralometrico che è massimo nel corso del primo anno di dieta, ma
è stato riportato che anche osservando una dieta corretta,
i pazienti celiaci mantengono un tenore calcico dell’osso
inferiore a quello della popolazione generale20,21. Il rischio
osteoporotico è identico nei maschi e nelle femmine, ma
queste ultime, come ovvio, hanno nel periodo postmenopausa un ulteriore calo delle loro concentrazioni di calcio
osseo. È rilevante, inoltre, che la severità dell’osteoporosi è identica nei soggetti con celiachia silente (senza segni clinici manifesti) e nei soggetti con manifestazioni cliniche “tipiche” gastroenterologiche22. Quest’ultima osservazione comporta due rilevanti conseguenze: a) lo
screening sierologico è importante nelle categorie a rischio
per una diagnosi precoce di celiachia che eviti/riduca la
frequenza di osteoporosi severa, b) i soggetti con osteoporosi che non hanno fattori di rischio per tale condizione (ad esempio maschi, giovani donne) devono essere
valutati per una possibile diagnosi di celiachia “atipica”.
Oltre ai dati mineralometrici, che potrebbero anche essere considerati un “endpoint secondario” di non diretta rilevanza clinica, è importante ricordare che i pazienti celiaci hanno un rischio di frattura del 40% all’età di 70 anni, valore questo che è doppio rispetto alla popolazione generale23.
Un ultimo commento clinico vogliamo dedicarlo agli
aspetti ginecologici della malattia celiaca. Le ragazze con
celiachia non trattata, hanno un menarca in età più avanzata rispetto alla popolazione generale24, ed un’amenorrea secondaria, o una oligomenorrea, è di riscontro alquanto
frequente (20-30% dei casi nella nostra esperienza). Dati
discordanti vengono, invece, riportati circa la possibilità
di una menopausa precoce nei celiaci24,25. Anche la vita
riproduttiva è certamente influenzata dalla celiachia; la frequenza di aborti è più alta nei celiaci non trattati che nella popolazione generale24,25 e la conseguente, ovvia, considerazione è che i test sierologici per la diagnosi di celiachia devono essere inclusi fra gli esami da eseguire in
donne con poliabortività. Inoltre, la gravidanza può essere il “fattore scatenante” che determina il manifestarsi dei
sintomi di celiachia: sia nella nostra esperienza che in letteratura viene osservato che circa il 10-15% delle nuove
diagnosi di celiachia nel sesso femminile, si hanno durante
la gravidanza o il puerperio25. È stato, infine, documentato
che l’aderenza alla dieta priva di glutine elimina le problematiche ginecologiche legate alla malattia celiaca25.
LA DIAGNOSI DI MALATTIA CELIACA
I criteri diagnostici della malattia celiaca, al pari degli
aspetti clinici, epidemiologici e patogenetici, hanno subito
nel corso dell’ultimo decennio un’evoluzione che ha cambiato alcuni dei comportamenti considerati fino a poco tempo il “gold standard” per la diagnosi. Una protagonista fondamentale del cambiamento nell’approccio diagnostico è
stata la “sierologia per la malattia celiaca”, cioè l’insieme
dei test di laboratorio su sangue che consentono di porre
il sospetto di malattia celiaca. Tali test sono, infatti, divenuti
sempre più affidabili perché dotati, in genere, di ottima sensibilità e specificità diagnostica, ed inoltre la maggior
parte di essi sono di semplice esecuzione ed alla portata
di qualsiasi laboratorio. Per tale motivo, i test sierologici
vengono eseguiti come esame di primo livello per confermare o smentire il sospetto di malattia celiaca ed una
loro eventuale positività determina l’esecuzione dell’esame di secondo livello, che rimane l’esame istologico della mucosa duodenale. Gli attuali criteri diagnostici si basano su quel che è stato approvato dal gruppo di lavoro della Società Europea di Gastroenterologia Pediatrica (ESPGHAN) nel 199026. In quella consensus si affermò che la
diagnosi di malattia celiaca doveva basarsi sui cinque
criteri elencati di seguito:
- presenza di segni clinici compatibili con la diagnosi di
malattia celiaca;
- presenza di test sierologici positivi per malattia celiaca;
- presenza di lesioni istologiche dei villi intestinali (atrofia) alla biopsia duodenale;
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- scomparsa dei sintomi in corso di dieta priva di glutine;
- negativizzazione dei test sierologici per malattia celiaca durante la dieta priva di glutine.
Come si può notare, si tratta di un iter diagnostico che
prevede un lungo follow-up del paziente, per accertare la
“glutine-dipendenza” delle alterazioni sierologiche e dei
sintomi clinici. Si può, tuttavia, osservare che questo protocollo, pur mantenendo nel suo iter la biopsia intestinale per dimostrare il danno della mucosa duodenale al momento della prima osservazione, non prevede più l’esecuzione di ulteriori biopsie nelle differenti fasi della malattia. Si tratta dunque di una semplificazione che rende
molto meno invasivo l’iter diagnostico; in precedenza, oltre alla biopsia intestinale iniziale, si eseguiva una seconda biopsia dopo circa 1 anno di dieta priva di glutine
(per dimostrare la normalizzazione dei villi intestinali), ed
una terza biopsia dopo la riesposizione al glutine (challenge
diagnostico per dimostrare la ricomparsa di lesioni istologiche intestinali glutine-dipendenti). Dunque, i criteri diagnostici più recenti riducono l’importanza della valutazione
dell’istologia intestinale, semplicemente perché assumono che i test sierologici (e loro variazioni in risposta alla
dieta priva di glutine) riproducono fedelmente la condizione di intolleranza al glutine.
È dunque opportuno che si approfondisca la conoscenza dei test sierologici per la diagnosi di malattia celiaca oggi a nostra disposizione.
ticorpo AGA è presente): le percentuali riportate, in età pediatrica, variano fra il 91 ed il 100%, mentre negli adulti
vengono riportati dati fra il 70 ed il 92%. Tali dati sottolineano come il test dia migliori risultati nei bambini,
mentre una percentuale più ampia di soggetti adulti affetti
da malattia celiaca può risultare negativa al dosaggio degli AGA. Gli elevati livelli di sensibilità del dosaggio associato di AGA IgG + IgA, sono purtroppo controbilanciati da una specificità non molto elevata: essa varia infatti fra il 70 ed il 95% nei bambini e fra il 60 ed il 90%
negli adulti. In particolare gli AGA possono essere falsamente positivi per la diagnosi di malattia celiaca, in pazienti affetti da altre intolleranze alimentari, malattia di
Crohn, colite ulcerativa, pemfigo, artrite reumatoide, fibrosi cistica, malattia di Sjogren ed altre malattie autoimmuni. Quando si considerano separatamente i risultati degli AGA delle due classi, quelli IgA risultano certamente più specifici (mediamente attorno al 90%), ma sono anche i meno sensibili (in media attorno al 70-80%).
Gli AGA IgG sono specularmente dotati di una maggiore sensibilità ma di una minore specificità.
Benché la produzione di AGA da parte del paziente celiaco sia oggi guardata come una sorta di epifenomeno con
scarse o nulle implicazioni patogenetiche, il dosaggio di
questi anticorpi per l’antigene alimentare ha ancora un suo
ruolo nella pratica clinica. Infatti, in età pediatrica, entro
il primo-secondo anno di vita, è possibile trovare soggetti con malattia celiaca di nuova insorgenza che non abbiano
ancora prodotto gli EmA e che possono invece essere individuati sierologicamente per gli alti livelli di AGA27.
Test su siero per la diagnosi di malattia celiaca
Numerosi sono i test utilizzati per la diagnosi di malattia celiaca: gli anticorpi AGA, gli anticorpi antireticulina,
gli anticorpi EmA, gli anticorpi anti-tTG ed altri ancora, meno frequentemente utilizzati. Noi ci occuperemo dei test che
sono di uso più comune e di maggiore utilità nella pratica
clinica, soffermandoci dunque su AGA, EmA ed anti-tTG.
Gli anticorpi antiendomisio
Gli EmA sono attualmente considerati gli anticorpi più
sensibili e specifici per la diagnosi di malattia celiaca28.
Si tratta di anticorpi sia di classe IgA che IgG che reagiscono con strutture connettivali non esattamente precisate. Dati degli ultimissimi anni sembrano indicare che
l’antigene “riconosciuto” dagli anticorpi EmA sia la proteina transglutaminasi, portando così ad una corrispondenza/identità fra gli EmA e gli anti-tTG29. Tuttavia, il
“comportamento clinico” e le indicazioni pratiche ricavabili
dalla determinazione degli EmA e degli anti-tTG sono per
certi versi differenti. Torneremo, dunque, sul problema
dell’identità tra EmA e anti-tTG, soffermandoci per il
momento sull’uso degli EmA nella diagnostica per la
malattia celiaca.
Gli EmA vengono dosati con metodo di immunofluorescenza indiretta e nell’uso più comune si determinano
gli EmA di classe IgA che sembrano quelli più sensibili
e specifici. La metodica richiede un microscopio per la lettura della fluorescenza e, soprattutto, un operatore particolarmente abile che sappia individuare le deboli positi-
Gli anticorpi antigliadina
Gli AGA sono stati scoperti come marker sierologici di
malattia celiaca all’inizio degli anni ’60; con la loro scoperta e con la possibilità di dosarli con metodo ELISA si
è aperta la strada alla diagnosi sierologica per la malattia
celiaca ed allo screening per la malattia. Si tratta di anticorpi rivolti verso le frazioni della gliadina, una delle
principali proteine del glutine; essi possono essere sia di
classe IgG che di classe IgA e vengono normalmente
prodotti sia nei soggetti non affetti che negli affetti da malattia celiaca, ma la loro concentrazione è decisamente più
alta nei pazienti con malattia celiaca. In letteratura vi è generale accordo che la sensibilità del dosaggio associato di
AGA IgG ed IgA è molto alta (considerando cioè come
positivo il test anche quando solo uno dei due tipi di an-
68
Antonio Carroccio et al.
vità (per non dare risultati falsi negativi) e che non consideri i falsi positivi che possono essere dati dalla presenza
nel siero del paziente di altri autoanticorpi, principalmente gli antimuscolo liscio. Si tratta, dunque, di una
metodica di laboratorio che è molto operatore-dipendente, e questo è il suo maggior limite. Peraltro, la sua accuratezza diagnostica è in genere considerata altissima; sia
la sua sensibilità che la specificità si avvicinano, secondo la maggior parte degli autori, al 100%30-32. In particolare, la specificità degli EmA è certamente molto elevata: i risultati falsi positivi vengono segnalati quasi aneddoticamente come “case report” o rarissimamente nel
contesto di qualche studio clinico. Qualche caso di falsa
positività è stato riportato in pazienti con giardiasi intestinale o con tiroidite autoimmune, ma anche in questi casi non è stato del tutto escluso che i pazienti studiati avessero una condizione di celiachia latente33-35. In ogni caso i rarissimi risultati falsi positivi sono sempre a titolo basso. La sensibilità degli EmA viene, in genere, considerata prossima al 95-100%; tuttavia, qualche recente segnalazione ha sottolineato come la positività degli EmA sia
direttamente proporzionale all’entità del danno della mucosa intestinale. I casi istologicamente più severi, caratterizzati da atrofia totale o subtotale dei villi, hanno gli
EmA quasi costantemente positivi; nei casi con danno intestinale modesto (atrofia lieve o soltanto presenza di infiltrato infiammatorio) gli EmA possono non essere positivi. Questo aspetto è stato stressato in particolare da
Rostami et al.36 che hanno documentato nei casi in cui vi
è un danno intestinale molto lieve una sensibilità degli
EmA attorno al 30%. Benché questo dato percentuale
appaia eccessivamente basso, occorre dire che la nostra
esperienza conferma il rapporto fra entità di danno istologico e sensibilità degli EmA; suggeriamo dunque di
considerare pressoché certa una diagnosi di celiachia in presenza di EmA positivi, ma di non escluderla con certezza in presenza di EmA sierici negativi. A tal proposito, abbiamo recentemente dimostrato che se gli EmA vengono
dosati nel terreno di coltura di una biopsia intestinale la
loro sensibilità diagnostica aumenta notevolmente in confronto con il dosaggio su siero37. La spiegazione di questo dato di laboratorio è peraltro semplice se si considera che la sede primaria (probabilmente unica) di produzione
degli EmA è la mucosa intestinale e da questa sede essi
vengono poi immessi in circolo38. Un danno intestinale lieve, dunque, può determinare una produzione di EmA a basso titolo, tale da non essere evidenziabile su siero, ma da
essere identificata direttamente nella coltura di tessuto
intestinale. Dunque, abbiamo a disposizione un’altra modalità di valutazione della produzione di EmA che appare più sensibile della determinazione su siero e che può aiu-
tare a dirimere alcuni casi con sierologia dubbia o con
aspetto istologico duodenale senza una chiara atrofia.
Un ulteriore aspetto dell’uso diagnostico degli EmA è
costituito dalla determinazione degli EmA di classe IgG.
Si tratta di un metodo interessante perché fra i pazienti con
malattia celiaca vi è un’elevatissima frequenza di deficit
di IgA (circa 1 caso su 50 pazienti) e quindi i test che ricercano anticorpi di tipo IgA possono risultare falsamente negativi. Dunque, il dosaggio degli EmA di classe IgG
trova applicazione nell’escludere una mancata diagnosi per
deficit di IgA (a tal proposito è sempre raccomandabile
qualora persistano dubbi, il dosaggio delle IgA totali).
Inoltre, Picarelli et al.39 hanno evidenziato che gli EmA
di classe IgG risultano positivi in un sottogruppo di pazienti
celiaci che, pur non avendo un deficit di IgA, hanno una
negatività degli EmA di classe IgA. Dunque, la determinazione di entrambe le classi di EmA (IgA ed IgG) aumenta ulteriormente l’accuratezza diagnostica dell’uso
del test.
Gli anticorpi antitransglutaminasi
La storia degli anticorpi anti-tTG è molto recente e costituisce una delle “pietre miliari” degli attuali sviluppi nelle conoscenze relative alla malattia celiaca. Infatti, solo nel
1999 Dieterich et al.29 descrissero in un articolo pubblicato su Nature Medicine la presenza di autoanticorpi nei
sieri dei pazienti celiaci che reagivano con la proteina tissutale transglutaminasi; era di estremo interesse l’osservazione che i sieri dei pazienti, preadsorbiti con transglutaminasi, perdevano la loro positività per gli EmA: dimostrazione che gli anticorpi anti-tTG erano identici agli
EmA. Inoltre, lo stesso articolo dimostrava una perfetta correlazione diretta fra titolo (concentrazione) degli EmA e
valori di anticorpi anti-tTG, supportando così ulteriormente l’identità EmA-anti-tTG. Questi autoanticorpi erano sia di classe IgG che IgA, ma solo questi ultimi apparivano di particolare utilità diagnostica. La scoperta della transglutaminasi come autoantigene della malattia celiaca ha aperto immense vie alla conoscenza dei meccanismi patogenetici della malattia celiaca, implicava nuovi possibili approcci perfino in campo terapeutico e prometteva di rivoluzionare la diagnostica sierologica della malattia. L’implicazione clinica più immediata della scoperta degli anti-tTG era, infatti, la realizzazione di un test sierologico con metodo ELISA per il dosaggio degli anticorpi
anti-tTG. Si è potuto cioè realizzare dei kit commerciali
che avessero la proteina transglutaminasi come substrato, dosando con metodo di immunoassorbimento la presenza degli anticorpi anti-tTG nei sieri dei pazienti. Il
vantaggio più considerevole di tale metodica consiste
nella completa automatizzazione del sistema di dosaggio:
69
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
il metodo ELISA consente infatti di esprimere con un
“semplice numero” la concentrazione degli autoanticorpi anti-tTG presenti nel siero e, stabilendo dei cut-off di
normalità nella popolazione non celiaca, si può immediatamente identificare i pazienti con valori di tTG superiori alla norma. Come si può notare, il vantaggio è particolarmente rilevante nei confronti degli EmA che, come
già detto, sono soggetti ad un’interpretazione soggettiva
e sono dunque molto “operatore-dipendenti”. Si è così gradualmente avanzata l’ipotesi di utilizzare i più “obiettivi”
anti-tTG in sostituzione degli EmA, sottolineando anche
il vantaggio che deboli positività per gli anticorpi anti-tTG
potevano essere evidenziate dal nuovo metodo in ELISA,
mentre potevano essere non rilevate dalla lettura degli
EmA. Tali suggerimenti venivano supportati da altri lavori
clinici che mostravano un’eccellente accuratezza diagnostica degli anti-tTG40,41. In generale, la sensibilità degli anti-tTG è stimata variabile fra il 93 ed il 98% e la loro specificità fra il 94 ed il 99%, con un’accuratezza diagnostica prossima al 95%42. Tuttavia, molte evidenze si
sono andate accumulando per meglio comprendere il significato dei valori di anti-tTG oltre la norma e per sottolineare l’importanza che hanno i diversi kit commerciali
nel determinare l’accuratezza del test. Infatti, dopo un’iniziale segnalazione di anti-tTG positività in pazienti con malattie epatiche autoimmuni e senza malattia celiaca43, un
nostro studio sistematico su pazienti consecutivamente osservati per ipertransaminasemia (prevalentemente dovuta ad infezione da HCV) mostrava che circa il 10% di essi risultava positivo per gli anticorpi anti-tTG, ma negativo per gli EmA44. Nessuno di questi soggetti mostrava
un danno dei villi intestinali e si trattava, dunque, di falsi positivi per anti-tTG. Tuttavia, utilizzando un diverso
kit con transglutaminasi umana ricombinante (come antigene nel sistema ELISA) non si aveva più alcuna falsa
positività. Questa interpretazione della falsa positività,
esclusivamente legata all’antigene utilizzato, non è però
del tutto esauriente. Un altro studio su una seconda serie
di pazienti con ipertransaminasemia, ha mostrato che anche utilizzando il sistema ELISA basato su transglutaminasi umana, si ha l’evenienza di falsi positivi45. Considerando che l’ipertransaminasemia è riportata in oltre il
40% dei pazienti con malattia celiaca5,6 e che essa può anche essere l’unico sintomo/dato di laboratorio di presentazione della malattia celiaca, il riscontro di questi falsi positivi per anti-tTG proprio in questi soggetti costituisce un
limite di cui tener conto. Analogamente, è interessante la
segnalazione di falsi positivi per anti-tTG in pazienti con
malattia di Crohn; anche in questo caso per le possibili somiglianze nella presentazione clinica fra malattia celiaca
e morbo di Crohn, è ben importante tener presente la non
assoluta specificità del kit per anti-tTG. In generale, appare evidente che vi possono essere false positività in
soggetti con malattie autoimmuni46,47. La spiegazione
biologica di queste false positività potrebbe risiedere nella considerazione che la transglutaminasi è una proteina
pressoché ubiquitaria che ha un ruolo importante nei processi di “riparazione cellulare” e nei fenomeni apoptotici; è dunque possibile che nel corso di patologie caratterizzate da “attivazione esasperata” del sistema immunitario,
associata ad aumentata apoptosi, si formino degli anticorpi
anti-tTG. Benché studi molto eleganti sembrino aver confermato l’identità fra anti-tTG ed EmA48, è interessante ricordare che nessuno dei falsi positivi per anti-tTG riscontrati negli studi da noi precedentemente citati, è risultato anche positivo per EmA. Ciò, indipendentemente
dal “giudizio biologico” sull’identità fra EmA e anti-tTG,
induce a considerare gli EmA molto più specifici degli anti-tTG. In particolare, poiché i falsi positivi per anti-tTG
lo sono a valori non molto superiori al cut-off (in genere
mai > 1.5 volte il limite della norma, nella nostra esperienza), riteniamo opportuno suggerire per i casi con “debole” positività per anti-tTG, un “test di conferma” per
EmA; solo se anche gli EmA risultassero positivi si procederebbe senza indugio alla biopsia duodenale.
Da notare, infine, che come per gli EmA, alcuni autori hanno esperienza dell’utilità di ricercare gli anticorpi anti-tTG di classe IgG, essendoci pazienti con malattia celiaca che sono negativi per gli anti-tTG IgA, ma positivi
per gli anti-tTG IgG.
La tabella IV riassume sensibilità e specificità dei test
sierologici per la diagnosi di malattia celiaca, in accordo
con i dati presenti in letteratura.
La biopsia intestinale
La biopsia intestinale per lo studio istologico della mucosa della seconda-terza porzione duodenale costituisce
ancor oggi un elemento indispensabile alla diagnosi di malattia celiaca. È stata discussa l’opportunità che la biopsia
rimanga obbligatoria nel formulare la diagnosi di malattia celiaca31,49, ma pur con qualche divergenza di opinione, la maggior parte degli autori considera tuttora indispensabile questo passo. Fra i fautori della non assoluta
necessità della biopsia intestinale, due argomenti vengono principalmente avanzati: 1) la sierologia (anti-tTG ed
EmA) è così accurata nella diagnosi che ci si può affidare soltanto ad essa, 2) non sempre i soggetti con malattia
celiaca presentano un quadro di atrofia dei villi intestinali
e l’istologia non può quindi chiarire ogni dubbio. I fautori
della biopsia in ogni caso (e noi, fino ad oggi, fra questi)
rispondono alla prima osservazione citando i dati su esposti sulla non assoluta specificità degli anti-tTG e sulla
70
Antonio Carroccio et al.
TABELLA IV. Sensibilità, specificità e valore predittivo positivo e negativo dei test sierologici per malattia celiaca di uso più comune.
Test sierologici
EmA sierici (immunofluorescenza indiretta)
ELISA con tTG di guinea pig
ELISA con tTG umana
Antigliadina IgA
Antigliadina IgG
Sensibilità
(%)
Specificità
(%)
85-98*
95-98
93
75-90
69-85
97-98
94-95
99
82-95
73-90
Valore predittivo (%)
Positivo
Negativo
98-100
91-95
99
28-100
20-95
80-95
96-98
93
65-100
41-88
EmA = antiendomisio; Ig = immunoglobulina; tTG = transglutaminasi.
* la sensibilità viene considerata inferiore in pazienti con lesioni di mucosa non gravi (atrofie parziali o quadri infiltrativi).
sensibilità degli EmA nei casi con non severo danno mucosale. Circa la seconda osservazione, cercheremo di
chiarire i diversi aspetti istologici intestinali per meglio
comprendere l’utilità della biopsia.
La biopsia “endoscopica” ha l’indubbio vantaggio di poter essere eseguita nel corso di un esame che fornisce
all’operatore numerose altre informazioni su possibili patologie concomitanti; inoltre, l’endoscopista può decidere di eseguire la biopsia duodenale, anche in assenza di un
precedente sospetto clinico o sierologico, soltanto basandosi sull’aspetto endoscopico del duodeno. È stato infatti dimostrato che i pazienti affetti da malattia celiaca hanno molto frequentemente una notevolissima riduzione
delle pliche duodenali50 con un aspetto della mucosa che
viene definito a “scallopping”. Dunque può essere lo stesso operatore che, di fronte ad un quadro endoscopico sospetto per malattia celiaca, decida di eseguire biopsie
duodenali per una conferma istologica. La raccomandazione indispensabile è comunque quella di non considerare l’aspetto endoscopico come il “gold standard” diagnostico: la biopsia va sempre eseguita secondo quelle che
sono le richieste del clinico che ha valutato sierologia e manifestazioni cliniche. Altra raccomandazione fondamentale per l’endoscopista è che vengano eseguite da tre a cinque biopsie in siti differenti; è stato infatti dimostrato che
la malattia celiaca si presenta con lesioni patch51 (non continue, non identiche in ogni segmento intestinale). Dunque
un singolo campione bioptico può anche essere normale
in un paziente affetto da malattia celiaca, mentre più campioni garantiscono una conclusione istologica affidabile.
Un altro aspetto tecnico rilevante nella valutazione istologica è, poi, legato all’orientamento del frammento di mucosa subito dopo averlo staccato dalla pinza bioptica. La
biopsia deve essere distesa in modo da offrire superiormente la superficie luminale della mucosa intestinale: solo in questo modo si può essere certi che la successiva inclusione e le sezioni per l’esame istologico diano preparati adeguati.
Ma come deve essere valutata una biopsia duodenale per
porre o escludere la diagnosi di malattia celiaca? Diciamo
subito che non in tutti i pazienti con malattia celiaca vi è
un quadro istologico di atrofia dei villi; vi possono essere lesioni molto meno severe, caratterizzate esclusivamente da un ricco infiltrato infiammatorio, senza alterazioni di villi e cripte intestinali. La più diffusa classificazione del danno intestinale nella malattia celiaca venne proposta da Marsh52, tuttavia, quella classificazione aveva il
torto di non differenziare i diversi gradi di atrofia della mucosa intestinale. A modificare tale classificazione, suddividendo in diverse categorie i diversi gradi di atrofia, è intervenuta una successiva proposta che, a nostro avviso, soddisfa meglio le necessità di clinici e patologi53. La figura
1 illustra, infatti, i diversi e progressivi quadri di danno dei
villi intestinali, osservabili nella malattia celiaca. Un
aspetto istologico che è importante rimarcare è che l’identificazione “atrofia dei villi intestinali = celiachia” non è
in realtà corretta. Esistono, infatti, varie e non rare condizioni patologiche diverse dalla malattia celiaca, che si
presentano con un danno dei villi intestinali; fra esse,
molto frequente in età pediatrica l’intolleranza alle proteine
del latte vaccino ma anche, sia nell’adulto che nel bambino, la poliallergia/intolleranza alimentare, la malattia di
Crohn, la giardiasi intestinale, ecc. Dunque un quadro
istologico di danno dei villi non deve essere automaticamente interpretato come diagnostico per malattia celiaca.
Peraltro è vero anche l’esatto contrario: presenza di villi
intestinali normo-conformati non equivale ad esclusione
certa di malattia celiaca; è stato, infatti, già accennato
che esistono condizioni di celiachia con lesioni istologiche caratterizzate dal solo infiltrato infiammatorio della
mucosa e della lamina propria, senza alterazioni strutturali dei villi. In questi casi, la conferma del sospetto di malattia celica (clinico e/o sierologico), non può venire
dall’istologia ma solo dal follow-up clinico del paziente
ed, in particolari casi, da ulteriori esami complementari (risposta alla dieta priva di glutine ed al challenge con glutine, variazioni sierologiche, EmA-biopsy, tipizzazione
HLA per la ricerca degli antigeni predisponenti alla ma-
71
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
A
,B
C
D
FIGURA 1. Spettro degli aspetti istologici delle biopsie duodenali: dalla “normalità” all’atrofia totale. A: aspetto normale di villi e cripte ed assenza di infiltrato
infiammatorio; B: aspetto di iniziale atrofia dei villi e presenza di infiltrato infiammatorio (numero di linfociti intraepiteliali > 40/100 cellule epiteliali); C: atrofia parziale dei villi intestinali; D: atrofia subtotale dei villi.
Da Fasano e Catassi12, modificata.
lattia celiaca). Anche in questi casi di difficile diagnosi,
l’istologia può comunque dare dei contributi ulteriori;
studi immunoistochimici consentono infatti la conta dei
linfociti intraepiteliali CD3 e dei linfociti γ/δ. Nei pazienti con malattia celiaca, entrambi questi sottotipi linfocitari sono aumentati di numero; benché sia ovvio suggerire
che queste più accurate valutazioni vengano fatte presso
“laboratori di riferimento”, possiamo dire che un numero di CD3 > 20 u 100 cellule epiteliali ed un numero di
γ/δ > 3.2 u 100 cellule epiteliali sono indicativi di condizione infiammatoria e suggestivi di malattia celiaca54,55.
Da quanto detto, si può concludere che la biopsia intestinale rimane un elemento fondamentale per la diagnosi
perché costituisce, insieme ai marker sierologici di malattia
celiaca, alla clinica ed alla genetica, uno dei tasselli indispensabili; è però possibile affermare che l’aspetto istologico non sia “il giudice unico” al quale fare riferimento per
porre od escludere una diagnosi di malattia celiaca.
La dermatite erpetiforme potrebbe essere considerata,
più che una patologia associata, una manifestazione gastroenterologica della malattia celiaca. Nelle tipiche lesioni
cutanee di questi pazienti gli studi di immunofluorescen-
TABELLA V. Patologie associate e complicanze della malattia celiaca.
Patologie associate
alla malattia celiaca
Complicanze
Dermatite erpetiforme
Deficit di IgA
Sprue refrattaria
Enteropatia associata
a linfoma a cellule T
Digiuno-ileite ulcerativa
Sprue collagenosica
Diabete tipo I
Patologie autoimmuni
della tiroide
Malattia di Sjogren
Artrite reumatoide
Sindrome di Down
Sindrome di Turner
Miocardiopatia dilatativa
Nefropatia da IgA
Vasculiti
Epatiti e colangiti autoimmuni
LES ed altre collagenopatie
PATOLOGIE ASSOCIATE E COMPLICANZE
DELLA CELIACHIA
La tabella V elenca alcune delle malattie associate alla
malattia celiaca e delle complicanze della malattia.
Carcinoma dell’orofaringe,
esofago e piccolo intestino
Linfoma intestinale T cellulare
Linfoma non Hodgkin
Ig = immunoglobulina; LES = lupus eritematoso sistemico.
72
Antonio Carroccio et al.
za dimostrano gli immunocomplessi IgA, tipici della reattività alterata alla gliadina. Inoltre, le lesioni cutanee, come il danno intestinale del celiaco, sono glutine-dipendenti,
tendendo a scomparire in corso di dieta priva di glutine.
Un’evidente associazione è riportata fra varie malattie
autoimmuni e la malattia celiaca; ciò è probabilmente
dovuto all’aumentata frequenza di manifestazioni di autoimmunità nei soggetti che hanno un HLA DR3 e DQ2.
Fra le associazioni più frequenti vi è quella con il diabete mellito di tipo 1, la cui prevalenza nei soggetti con malattia celiaca è riportata fra il 6 e l’8%. Molto frequente è
anche l’associazione con le tiroiditi autoimmuni (2-4%).
Più elevata che nella popolazione generale è la frequenza delle connettiviti in genere, dell’epatite autoimmune,
della cirrosi biliare primitiva, della colangite sclerosante,
delle malattie infiammatorie croniche intestinali e delle interstiziopatie fibrosanti polmonari56. Frequente è anche la
presenza di malattia celiaca nei pazienti con sindrome di
Down o sindrome di Turner, così come un rischio 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale è registrato nei soggetti affetti da deficit selettivo di IgA57. Molto
dibattuto è il rapporto fra malattia celiaca ed insorgenza
di patologie autoimmuni associate; alcuni autori hanno infatti suggerito che la prolungata esposizione al glutine nei
pazienti affetti da malattia celiaca determini l’insorgere delle altre patologie autoimmuni e che, quindi, una diagnosi
precoce potrebbe evitare tali “complicanze”58. Questa osservazione, non ha trovato successivamente conferma in
altri studi59,60 e non corrisponde alla nostra personale esperienza. Tuttavia, è ovvio che altre ricerche debbano approfondire questo interessante aspetto della malattia celiaca.
Fra le complicanze della malattia celiaca, non crediamo
debbano essere annoverati i deficit di disaccaridasi intestinali, primo fra essi il deficit di lattasi, che sono tipici di
qualsiasi severo danno della mucosa intestinale e che tendono a scomparire con la normalizzazione dell’epitelio intestinale, in corso di dieta priva di glutine. È peraltro ovvio che alcune condizioni, come il deficit di lattasi, sono
così frequenti nella popolazione adulta, che possono coesistere con la malattia celiaca a prescindere dall’evoluzione clinica della celiachia. Una vera complicanza della malattia celiaca è invece la “sprue refrattaria”; essa è caratterizzata dal persistere dell’atrofia dei villi intestinali e
dal quadro clinico di malassorbimento ad essa connesso,
pur se il paziente rispetta correttamente la dieta priva di
glutine61. La diagnosi di sprue refrattaria è una diagnosi
di esclusione: definita come un’enterite severa, sintomatica che non risponde ad una dieta rigorosamente osservata per almeno 6 mesi e che non può essere ricondotta ad
altre cause di enteropatia o a linfoma intestinale. I pazienti
con sprue refrattaria hanno un elevato rischio di complicanze come il linfoma a cellule T associato a celiachia, la
digiuno ileite ulcerativa, e la sprue collagenosica62. Circa
il 75% di questi pazienti hanno cloni abberranti di popolazioni di cellule T intraepiteliali. Queste cellule hanno proprietà distruttive correlate con il loro fenotipo citotossico
che induce ulcerazioni della mucosa e frequentemente
progressione verso il linfoma63. Pazienti con sprue refrattaria possono talvolta richiedere trattamento con steroide o altri immunosoppressori, come azatioprina o ciclosporina e a volte nutrizione parenterale64.
È sempre raccomandabile una stretta aderenza alla dieta priva di glutine che in alcuni studi sembra ridurre il rischio di sviluppare neoplasie correlate con la malattia
celiaca.
IL TRATTAMENTO DELLA MALATTIA CELIACA:
LA DIETA PRIVA DI GLUTINE
Un totale astenersi, per tutta la durata della vita, dal consumo degli alimenti contenenti glutine rimane la pietra miliare del trattamento della malattia celiaca. La dieta richiede, ovviamente uno sforzo educativo ed informativo
rivolto al paziente, da parte dei medici che lo assistono.
Da questo punto di vista, gli aspetti psicologici del problema hanno una grandissima importanza perché non è infrequente che il paziente non “accetti” la malattia e viva
con estrema difficoltà le restrizioni dietetiche, tendendo
ad infrangere le regole suggerite.
Un problema ancora dibattuto è se esista una minima
quantità di glutine che può essere accettata come soglia di
determinismo del danno intestinale e studi su questo argomento sono tuttora in corso. Occorre ricordare che la
gliadina, la proteina tossica per i celiaci è una frazione del
glutine del frumento ed è contenuta in proteine simili
(prolamine) presenti in altre graminacee. Le prolamine si
trovano in un’ampia serie di cereali, per cui la semplice
eliminazione del frumento dalla dieta non esclude che si
possa assumere la proteina tossica; oltre al frumento, segale e orzo sono le principali fonti dei peptidi tossici per
i celiaci. Recenti studi hanno, invece, dimostrato che,
contrariamente a quanto assunto per moltissimi anni,
l’avena è un cereale non tossico e può essere consumato
tranquillamente dai celiaci65. Il triticale (cereale incrociato
da frumento e segale), il kamut ed il farro sono altri cereali tossici. Tossici sono anche tutti i cibi derivati dal frumento o contenenti “germi” del frumento: fra essi, il semolino, il cuscus, ecc. È tossico anche il malto perché esso deriva da una parziale idrolisi delle prolamine dell’orzo (100 g di malto contengono 100-200 mg di prolamine
di orzo); questo implica che i superalcolici contenenti
malto devono essere esclusi dalla dieta del celiaco. Quello
che, tuttavia, va sottolineato è che oltre alle regole “evidenti”, la dieta del celiaco deve fare i conti con le presenze
73
Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
occulte di glutine in cibi che potrebbero sembrare del tutto innocui. È il caso di gelati, anche di frutta, nei quali amido o farine vengono usati come addensanti, di salumi
(prosciutto cotto, mortadella, salami) che nei processi di
lavorazione possono essere contaminati con derivati del
frumento, e di molti altri alimenti. L’attenzione del paziente
celiaco (e le sue ovvie difficoltà) devono quindi essere rivolte anche, e soprattutto a queste presenze “occulte” di
contaminanti. Similmente, l’uso di farmaci i cui ingredienti
inattivi possono contenere glutine può costituire un problema. Un valido ausilio al paziente celiaco che deve districarsi nella “giungla” del consentito e non consentito viene, in Italia, dall’associazione di pazienti e familiari che
svolge un ruolo informativo ed educativo notevole, supportando in parte le difficoltà dei pazienti. La tabella VI
riassume un elenco degli alimenti che i pazienti affetti da
celiachia possono consumare con assoluta tranquillità,
quelli che devono evitare e quelli che possono essere
dubbi.
Sul piano puramente farmacologico, l’uso di vitamine
(vitamina B12, folati, vitamina D, ecc.) o di minerali (ferro, calcio, magnesio, ecc.) può essere utile nei primi mesi dopo la diagnosi, se le condizioni del paziente (stato carenziale) lo richiedono. La terapia steroidea, pur qualche
volta utilizzata nella pratica clinica nei casi di mancata o
lenta risposta iniziale alla dieta, non ha motivo reale di utilizzazione. In un numero molto limitato di casi, può coesistere un transitorio deficit di funzionalità pancreatica che
contribuisce al malassorbimento e non consente il rapido
recupero clinico66,67. Tale deficit normalmente si risolve
in corso di dieta priva di glutine, ma può richiedere o almeno giovarsi di un periodo di trattamento con enzimi pancreatici sostitutivi68. È ovvio che eventuali patologie associate alla malattia celiaca, richiederanno ciascuna il
suo specifico trattamento.
TABELLA VI. Elenco degli alimenti vietati, di quelli sospetti e di
quelli consentiti nella dieta dei pazienti celiaci.
Alimenti vietati
Grano, orzo, segale, malto, farro, avena
Liquori distillati dai cereali suddetti (whisky, vodka, birra, gin, tequila, alcool puro)
Lievito non garantito
Alimenti sospetti*
Formaggi cremosi, morbidi o spalmabili
Ricotta
Crema di yogurt
Prosciutto cotto, salami morbidi, mortadella, wurstel, zampone, cotechino
Pesce surgelato confezionato a fettine
Patatine da friggere surgelate
Passata di pomodoro
Dadi per il brodo
Succhi di frutta “densi”
Budini, dessert
Frutta sciroppata
Marmellate
Gelati, ghiaccioli
Caramelle, chewing-gum
Alimenti che contengono amido non specificato
Alimenti che contengono gelatine
Alimenti permessi
Riso
Mais
Patate
Carne
Pesce fresco e surgelato intero
Tonno sott’olio
Uova, latte, panna, yogurt bianco, mozzarella, formaggi a pasta dura
Prosciutto crudo, speck, pancetta, lonza, bresaola
Legumi
Verdura ortaggi (freschi, sott’olio, in salamoia)
Frutta, frutta secca con guscio
Aceto di vino, vino, derivati del vino: brandy, cognac, grappa,
champagne, spumante
Rhum
Olio, margarina, burro, grasso di maiale, spezie
Coca-cola, aranciata, pompelmo, ananas 100%
Cioccolato fondente
Miele
Prodotti privi di glutine disponibili in farmacia
Lievito disponibile in farmacia
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* alimenti che non dovrebbero contenere i cereali vietati i quali potrebbero
essere usati per le loro qualità addensanti.
Per gentile concessione del Prof. A. Picarelli, Università degli Studi “La
Sapienza” di Roma.
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Per la corrispondenza:
Dr. Antonio Carroccio, Cattedra di Medicina Interna, Università degli Studi, Policlinico, Via del Vespro 141, 90127 Palermo.
E-mail: [email protected]
76
Antonio Carroccio et al.
QUESTIONARIO PER ECM
1. Quale fra i seguenti sintomi/segni è il più frequente nella presentazione clinica di malattia celiaca?
l Diarrea
l Scarso accrescimento
l Ipoalbuminemia
l Anemia
2. La celiachia è di più comune riscontro nei pazienti affetti da: (si possono segnare più risposte)
l Sindrome di Down
l Diabete mellito di tipo 2
l Tiroidite autoimmune
l Poliposi del colon
3. Il test più specifico per la diagnosi di celiachia è:
l Anticorpi antigliadina IgA
l Anticorpi antiendomisio IgA
l Anticorpi antigliadina IgG
l Anticorpi antitransglutaminasi IgA
4. La biopsia intestinale deve essere ripetuta dopo 1 anno di dieta, in caso di:
l Presentazione clinica atipica
l Presentazione clinica con stipsi
l Negatività degli anticorpi al momento della diagnosi
l Assenza degli alleli HLA DQ2
5. Quali tra queste sono complicanze della celiachia? (anche più di una)
l Carcinoma tiroideo
l Digiuno-ileite ulcerativa
l Carcinoma duodenale
l Linfoma di Hodgkin
6. Quale fra le seguenti affermazioni è vera?
l L’osteoporosi si può escludere in soggetti celiaci in sovrappeso alla diagnosi
l L’osteoporosi del celiaco può necessitare di trattamento con vitamina D
l Nonostante il deficit di calcio osseo, non è dimostrato un più alto rischio di fratture
l L’osteoporosi non si osserva mai nei celiaci in età pediatrica
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Ann Ital Med Int Vol 19, N 1 Gennaio-Marzo 2004
SEGUE QUESTIONARIO PER
ECM
7. Quale fra questi fattori è maggiormente importante nel determinare l’anemia?
l Deficit di folati
l Deficit di vitamina B12
l Deficit di ferro
l Anticorpi anticellule parietali
8. L’ipertransaminasemia del celiaco è solitamente caratterizzata da:
l Coesistenza di indici di colestasi alterati
l Valori di ALT/AST > 2 volte la norma
l Quadro istologico di fibrosi epatica
l Normalizzazione entro 6 mesi dall’inizio della dieta priva di glutine
9. Falsi positivi di antitransglutaminasi si possono osservare più di frequente in pazienti con:
l Tiroidite
l Diarrea da insufficienza pancreatica
l Epatopatia cronica
l Anemia sideropenica
10. La biopsia intestinale del celiaco è:
l Sempre caratterizzata da atrofia dei villi
l Con aspetto istologico specifico al 100%
l Con quadri differenti in diverse sedi intestinali
l Caratterizzata da infiltrato eosinofilo
11. Quale fra questi alimenti è assolutamente sicuro nella dieta del celiaco?
l Formaggio fuso
l Gelato alla fragola
l Orzo
l Riso
12. Quale fra le seguenti affermazioni a proposito della terapia nei 3 mesi successivi alla diagnosi è corretta?
l Gli steroidi sono necessari in circa il 40% dei pazienti
l La terapia con ferro non è mai necessaria
l I preparati con enzimi pancreatici possono essere utili
l Gli immunosoppressori possono essere necessari
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“TIPICO” E DI UN CASO CLINICO “ATIPICO” A. Carroccio