Percorso di letteratura
Stefano Verna
Classe 5°As
I.T.S. “Elio Vittorini” – Sezione “C. e A. di Castellamonte
PERCORSO DI LETTERATURA-STORIA
Il Percorso in Sintesi
Il percorso si propone di esaminare il periodo di transizione tra Ottocento e Novecento, un particolare momento della storia e della letteratura europea ed italiana caratterizzato da forti contrasti e contraddizioni. Partendo dal quadro letterario e storico
dell’epoca ci si soffermerà in particolare sulla corrente culturale del Positivismo e sui
suoi sbocchi letterari, analizzando più approfonditamente il Verismo e quindi il suo
maggior esponente, Verga, legato in tutte le sue opere ad un fortissimo senso pessimista
del destino. Se ne esaminerà il pensiero, la vita e l’opera forse più rappresentativa, I
Malavoglia. Se per Verga il destino assume una conformazione chiaramente pessimista,
per Pirandello ― altro grande esponente della letteratura di inizio Novecento ― prende
invece la forma di una condanna, condanna a ricoprire un certo ruolo, ad indossare perennemente una maschera per permetterci di vivere più serenamente a costo però della
nostra libertà comportamentale. Si tenterà di comprendere la sua filosofia e la diversità
di fondo che separa i due più grandi esponenti della letteratura del primo Novecento attraverso l’analisi di alcune delle sue opere più rappresentative di Pirandello, soffermandoci in particolare sull’Enrico IV.
L’origine Della Letteratura Contemporanea
Prima di iniziare è di fondamentale importanza rendersi conto della principale caratteristica che differenzia il periodo preso in considerazione ― quello che va
dall’ultimo trentennio dell’Ottocento fino al primo ventennio del XX secolo ― dai precedenti.
Se nel momento Romantico od Illuminista era infatti possibile individuare delle
grandi correnti estetiche e culturali in grado di costituire delle classificazioni di carattere generale, nel periodo di passaggio tra Ottocento e Novecento non vi è invece una visione del mondo che unifichi il tutto e ci si trova, per la prima volta nella storia della
letteratura, davanti ad un nuovo fenomeno che non si presta ad una lettura omogenea e
che vede l’avvicendarsi ed il sovrapporsi di una ricchissima serie di correnti spesso in
piena contraddizione l’una con l’altra.
Il fenomeno si accentuerà sempre di più con lo scorrere del secolo fino ad arrivare
alla seconda metà del Novecento, dove non sarà più possibile inquadrare tendenze ampie considerando il fatto che ad ogni orientamento, in qualunque campo esso avvenga,
sarà sempre possibile contrapporne un altro di segno contrario. La realtà risulterà inafferrabile e non sarà possibile produrre un modello conoscitivo in grado di individuare
delle costanti neppure di carattere probabilistico.
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Percorso di letteratura
Il periodo di transizione tra Ottocento e Novecento, proprio per la presenza per la
prima volta nella storia di correnti diverse e contraddittorie, pone le basi di questa nuova dinamica che fa della incongruenza e spesso della sua insolvibilità il proprio filo conduttore. Può quindi con buone ragioni essere considerato il nucleo di origine della contemporaneità.
Le Aree Culturali
Pur in questa pluralità, nel passaggio tra Ottocento e Novecento è ancora possibile
individuare sul piano culturale due direzioni di fondo: da una parte l'esaltazione della
ragione, della scienza, del progresso, dall'altra il senso della profonda crisi di questi valori. A seconda della prevalenza di una tendenza piuttosto che dell'altra si creeranno
aree culturali e specifiche espressioni letterarie. Quando si è nel cuore di una determinata area le differenze con l'altra sono abbastanza nette, ma quando si è ai margini i
confini si sovrappongono e si creano così tendenze letterarie, modelli narrativi e poetici
che coniugano la spinta positivistica al vero con quella decadente al morboso, al fantastico, all'assurdo, al surreale.
Si possono individuare pertanto due grandi aree culturali: da una parte quella del
Positivismo da cui discendono il Naturalismo ed il Verismo; dall’altra l’area della crisi
della ragione da cui deriva la vasta zona del Decadentismo.
E’ importante sottolineare la quasi contemporaneità delle due correnti. Se però il
Naturalismo termina prima la propria spinta propulsiva, il Decadentismo si proietta verso l’età delle due guerre fino quasi ad arrivare ai giorni nostri.
Tra le due grandi aree culturali vi sono poi le esperienze classicistiche di Carducci
e quelle bohemienne della Scapigliatura, due tendenze culturali per molti aspetti decisamente diverse ma caratterizzate da un aspetto comune: entrambe si oppongono al
Romanticismo; se Carducci reagisce tornando ad un classicismo nazionalista, gli scapigliati si propongono di sconsacrare la tradizione letteraria italiana andando ad indagare
il "vero" dell'abbrutimento e della morbosità.
Ben diversa sarà la fine dei due percorsi: Carducci diventerà esponente di spicco della cultura del nuovo Regno d'Italia ed i suoi testi saranno trasformati in brani di educazione civica per il loro carattere virile, nazionale, ben lontano dai turbamenti del
Decadentismo. Gli scapigliati, la loro arte ed il modo di condurre un'esistenza disordinata e provocatoria, ignorati in vita, saranno apprezzati e riconosciuti come i veri
propulsori del Decadentismo e del Verismo solo molto tempo dopo.
IL PERIODO: 1870 - 1920
Positivismo
Decadentismo
Scapigliatura
Naturalismo
Simbolismo
Verismo
Classicismo
Crepuscolari
Futurismo
Estetismo
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Il Positivismo
Il Positivismo, inteso come modello culturale egemone e mentalità generale, è collocabile nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Questo periodo è, infatti, quello in cui
dal Positivismo derivano, in campo letterario, il Naturalismo e il Verismo. Le origini del
positivismo sono da ricercarsi nell'illuminismo inglese e francese: dal primo erediterà la
matrice empiristica, dal secondo il principio che il progresso di tutta la conoscenza dipende dal progresso della scienza.
E’ Comte a coniare il termine “Positivismo” per indicare una particolare filosofia.
“Positivo” sta ad indicare il dato conoscitivo, il fatto, ciò che corrisponde
all’esperienza, in contrapposizione alla ricerca romantica e idealistica di idee e di
spiritualismi metafisici.
Per comprendere al meglio quello che è stato il pensiero positivista e perché si sia
così ampiamente diffuso è necessaria una breve introduzione al contesto storico
dell’epoca.
Siamo nel pieno della seconda rivoluzione industriale. Il prepotente sviluppo
della tecnologia ha permesso l’invenzione di nuovi innovativi strumenti quali il
telegrafo, il telefono, la radio, l’automobile. Le scienze della natura con le loro scoperte e i loro successi si pongono come modello di ricerca e di conoscenza.
Si fondano nuove discipline, come la sociologia,
l'economia, la demografia, e si rinnovano le metodologie di varie discipline aventi per oggetto
l'uomo, quali medicina, fisiologia, biologia e psicologia.
L’incredibile impulso all’industrializzazione dovuto alle nuove scoperte tecnologiche, unite al
liberalismo promosso dagli stati occidentali spinge Marx a comporre “Il Capitale” ed altri testi di
impronta . E’ il periodo del grande sviluppo del
movimento operaio e socialista; nel 1870 vi è la
Comune di Parigi, la prima rivoluzione proletaria
vittoriosa, anche se per un breve periodo.
Carl Marx
La borghesia si è ormai saldamente consolidata al potere in tutti i paesi
dell’Europa occidentale, viene quindi a cadere la spinta ideale romantica che
aveva alimentato i moti liberali. Il liberalismo non è più un progetto da raggiungere ma una realtà sociale da governare, amministrare ed anche da difendere proprio dall’emergere dalla nuova realtà socialista.
E’ il periodo del grande impulso colonialista. L’Ottocento, per questo aspetto,
fu soprattutto il secolo della Gran Bretagna, che ampliò i suoi possedimenti coloniali fino all’occupazione di quasi tre quarti delle terre emerse (in Africa, Asia, India, Australia e Nuova Zelanda), seguita poi dalla Francia, dal Belgio,
dalla Germania e dall’Italia.
L’affermazione del Positivismo trova i suoi fondamenti proprio in questa profonda
modificazione della società. Le scoperte scientifiche, tecnologiche, nel campo della
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medicina e dell'agricoltura sconvolgono dalle radici il modo di vivere quotidiano. Gli entusiasmi si coagulano attorno al mito di un progresso umano e sociale inarrestabile.
Questo ideale di progresso è la vera anima dell'epoca. Quanto più si estenderà il paradigma scientifico, tanto più avanzerà il miglioramento complessivo della civiltà. Il sapere non è contemplazione ma trasformazione concreta del reale.
A questi motivi di si aggiunge poi l’affermarsi del nazionalismo e del colonialismo
imperialistico che caratterizzano la fine dell’ottocento. Il positivismo infatti poteva prestarsi a legittimare una modificazione di mentalità in senso nazionalistico e razzistico:
se il progresso umano consiste nella scienza, la civiltà occidentale è la punta di diamante dell’umanità ed essa quindi non va a sottomettere gli altri popoli ma a sollevarli dalla
barbarie dell’ignoranza. Il colonialismo è così “civilizzazione”.
Sul piano ideologico la borghesia trovava poi in questi principi la conferma della sua
ottimistica aspirazione ad un progresso continuo della società, da attuarsi pacificamente, senza traumi o scontri di classi. Fu questo l'aspetto che più incise e più ampiamente
fu recepito. All’ideale romantico subentra la necessità di realismo sia per mantenere il
potere e le posizioni raggiunte, sia per giustificarle come naturali, sia per stroncare come utopistiche le idealità che le contrastano.
I maggiori esponenti europei del pensiero positivista
sono il già citato Auguste Comte, John Stuart Mill ed ―
in senso lato ― il naturalista Charles Darwin.
Auguste Comte
I tratti di fondo della filosofia positivistica comtiana
si possono riassumere in alcuni assunti. In primo luogo la
scienza è l’unica forma di conoscenza certa e il suo metodo deve essere considerato come paradigma da estendere a tutti i saperi in cui si voglia raggiungere la certezza. Il metodo scientifico va quindi esteso allo studio
dell’uomo sia come singolo, con la psicologia sperimentale, sia come essere sociale, tramite la sociologia, perché in questo campo domina ancora la metafisica
astratta.
Nel modello conoscitivo delle scienze naturali individuato da Comte, Mill individua un procedimento basilare,
quello dell’induzione. Esso consiste nella capacità umana di
ricavare delle regolarità individuate empiricamente nel
passato e nel presente delle regolarità che valgano per il
futuro. Il concetto di induttivismo viene poi trasposto nel
campo della democrazia. Come la legge scientifica risulta
dalla somma di tante osservazioni, così la sovranità di uno
Stato nasce dalla somma di tante decisioni individuali espresse dai voti dei cittadini. Come l’ampiezza del numero
delle osservazioni rende più sicura la legge scientifica, allo
steso modo più grande sarà il numero di cittadini chiamato
a votare più forte sarà la sovranità dello stato che ne
scaturisce.
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John Stuart Mill
Percorso di letteratura
Negli stessi anni in cui Mill dal Positivismo ricava
posizioni democratiche, l’empirista induttivista Charles
Darwin, tramite un viaggio nelle isole Galapagos, arriva a
generare scoperte decisive e determinanti non solo per la
sua specifica scienza, ma per la cultura in genere: le
specie non sono fisse, ma si evolvono. Vi è un processo
che parte da capostipiti e poi si differenzia fino a produrre la molteplicità dei viventi, e il processo non può che
andare avanti.
Charles Darwin
Secondo Darwin le specie si evolvono secondo minime variazioni occasionali, che poi
vengono ereditariamente trasmesse nella misura in cui le casuali variazioni risultino
utili.
Il fortuito portatore di novità genetiche vantaggiose avrò maggiori possibilità di riprodursi e quindi di trasmettere ereditariamente la sua modificazione. A decidere quali
variazioni vadano conservate e quali cancellate non presiede un piano provvidenziale
o una qualche necessità, ma solo l’utilità.
Darwin intende fare un discorso prettamente scientifico, ma, al di là delle intenzioni, la sua teoria non può non avere ricadute ideologiche generali. Questa espansione
del darwinismo dallo studio della natura all’analisi dei fenomeni sociali contraddistingue
la terza fase storica del Positivismo, che riguarda il trentennio finale dell’Ottocento ed
è ben diversa dalla filosofia espressa da Comte o da Mill. E’ quello che viene definito
come “socialdarwinismo”, che non è propriamente una corrente ma una tendenza, un
costume culturale. E’ una mentalità che caratterizza il Positivismo che sta diventando
egemone.
Il darwinismo può essere letto come giustificazione dell’esistente, come vittoria
“naturale” del migliore il cui successo, per quanto pesante possa essere per chi ha perso, è comunque legittimato dalla legge che afferma la selezione. In questo modo la borghesia può eliminare ogni forma di apertura al movimento operaio e ogni critica al brutale imperialismo coloniale delle nazioni europee. Ma lo stesso meccanismo può essere
però interpretato in chiave diversa. Che senso ha parlare di selezione naturale per un
essere umano che non vive in natura ma in società? La selezione in questo caso no né
naturale ma sociale. Gli ultimi non sono tali per una qualche legge di natura ma per
precise scelte politiche ed economiche.
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Il Naturalismo
Una letteratura che si sviluppi sotto l’influenza della
cultura positivistica non può che avere un’impostazione fortemente realistica. Il primo tentativo organico di creare
una narrativa lontana dal Romanticismo si verifica in Francia.
A permettere il trasferimento di modelli dalla filosofia
positivistica al mondo dell’arte è Hippolyte Taine, allievo di
Comte, che non elabora una produzione letteraria naturalista, ma piuttosto esprime come studioso, critico e lettore
dell’opera d’arte una precisa indicazione per l’analisi e
l’interpretazione della stessa.
Il critico, per comprendere con serietà scientifica “positiva” il fatto estetico, deve considerarlo come la risultante
di un insieme di fattori:
Hippolyte Taine
La razza e l’ereditarietà;
L’ambiente dove l’opera è stata prodotta;
Il momento storico, ovvero la particolare situazione nella quale un autore (che
ha alle spalle una sua vicenda ereditaria ed è collocato in un dato ambiente
sociale) riceve stimoli e si confronta con gli eventi storici che sta vivendo.
L’opera d’arte diviene così per Taine un documento umano in duplice senso: manifestazione estetica di un autore e contemporaneamente testimonianza di una società in
un dato momento storico.
Il Naturalismo nasce quando questi criteri di lettura vengono trasformati da alcuni
scrittori, primo tra tutti Emile Zola, in regole di produzione letteraria, e cioè:
Il narratore è come uno scienziato dell’animo umano ed il suo romanzo somiglia ad un esperimento in laboratorio;
La razze e l’ereditarietà, l’ambiente, il momento storico sono i parametri dai
quali nascono “naturalmente” le azioni dei personaggi: non sta all’autore inventare con la propria fantasia la trama, essa scaturirà da se una volta che si
siano ben analizzati i tre fattori determinanti;
Se l’opera d’arte è un esperimento, la narrazione deve essere oggettiva, impersonale, come il resoconto di una prova di laboratorio; il racconto sembra
farsi da sé, come se il narratore non esistesse;
Tutti gli obiettivi precedenti sono raggiungibili se i soggetti narrati sono reali,
osservati o osservabili direttamente; si abbandona quindi il romanzo storico e
ci si orienta verso quello sociale contemporaneo.
Da tutto ciò deriva una prosa asciutta e precisa, controllata, attenta ad adottare il
modo di esprimersi dei personaggi messi in campo, priva di effusioni sentimentali, di autobiografismo e intimismo.
Di fondamentale importanza è capire in che modo i tre fattori determinanti vengono interpretati dagli autori naturalistici, per riuscire poi a comprendere al meglio la differenza con il movimento verista.
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I romanzi di Zola ― così come quelli di tutti i principali esponenti del movimento ―
sono sì retti da un forte determinismo, ma va chiarito che ciò non si trasforma in fatalismo e cupa rassegnazione, ma diviene semmai una forma di critica sociale in quanto gli
elementi determinati restano l’ambiente ed il momento storico, entrambi fattori sociali
e quindi legati alla responsabilità umana mentre l’ereditarietà, la “storia naturale”, appare come un risultato dei fattori precedenti. Questa disposizione dei fattori determinanti fa sì che la letteratura che ne risulta sia una forma di critica sociale dell’ordine
costituito.
Per “determinismo” si vuole intendere che l’azione dell’uomo è inserita in una catena di cause ed effetti ad opera di fattori naturali superiori alla sua forza, sicché essa
non può che essere quella che alla fine risulta.
Il Verismo
Il realismo italiano si sviluppa per influenza di quello francese ― che già si era fatto
sentire in Italia nella antecedente poetica scapigliata ― ma sono parecchie le differenze
di contenuto legate alla specificità del nostro contesto storico. L’Italia è appena giunta
all’unificazione nazionale e la realtà del paese è profondamente differenziata. Secoli di
separazione e autonomie regionali hanno prodotto una situazione linguisticamente, economicamente e culturalmente differenziata.
Il “vero” che si trovano dinnanzi gli intellettuali italiani, all’indomani del completamento del processo risorgimentale, è un mondo frammentato in realtà regionali. Ci si
trova quindi di fronte alla prima macroscopica differenza: il realismo italiano non è un
fenomeno nazionale, ma locale.
Rispetto al naturalismo di Zola, a prevalere è l’elemento della permanenza,
dell’ereditarietà, della perennità degli ambienti, che non sono quelli sociali delle grandi
metropoli in trasformazione, ma quelli naturali dei grandi paesaggi arcaici, immobili da
secoli, così come gli uomini che vi sono immersi.
Ci si trova quindi davanti alla seconda differenza: se i naturalisti francesi utilizzano
come momento storico il presente proiettati verso il futuro, i veristi italiani guardano
alla contemporaneità con gli occhi quasi rivolti all’indietro, alla ricerca delle radici delle realtà regionali, con uno sguardo folcloristico teso ad osservare le permanenze nel
presente di un passato perpetuo.
Rispetto al modello di Taine, quindi, gli elementi determinanti divengono
l’ereditarietà e l’ambiente naturale, mentre il momento storico rifluisce su uno sfondo
indeterminato. Scompare la critica sociale e ci si trova di fronte alla rassegnazione ed al
pessimismo.
Entro questo ambito si crea quello che viene definito “fatalismo”, l’idea cioè che la
storia umana sia solo la manifestazione di una più generale evoluzione naturale e che
quindi nulla sia possibile fare per modificarla. E’ facile capire come questa tesi sia stata
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Percorso di letteratura
fortemente influenzata dal socialdarwinismo imperante all’epoca: le leggi della selezione naturale condizionano spietatamente gli uomini.
Si nota quindi che da una generale somiglianza delle due correnti si ritrovi invece una completa differenziazione dei fini. Se la ricerca del vero per i naturalisti
si avverte soprattutto sul piano della formula del “romanzo sperimentale” socialmente e democraticamente
impegnato
sottolineando
la
scientificità
dell’impostazione narrativa ed i contenuti critici nei
confronti della moderna società, il verismo approfondisce ed amplia soprattutto il tema della ricerca della
completa impersonalità dello scritto, accettando solo
una parte delle tesi caratterizzanti del naturalismo.
Luigi Capuana
Con ruoli diversi, Luigi Capuana e Giovanni Verga possono senz’altro essere definiti
come i maggiori diffusori del Verismo.
La produzione letteraria di Giovanni Verga
La posizione storica del Verga nella letteratura del secondo Ottocento è assolutamente centrale, e il cammino
che egli ha dovuto compiere per arrivare ai suoi capolavori
è veramente significativo per comprendere come il Verismo
si sia fatto lentamente strada, districandosi tra le perplessità morali e spirituali della borghesia italiana.
Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840. Gli studi
“contemporaneisti” intrapresi lo portano a pubblicare ancora ventenne una prima serie di romanzi che vanno dallo stile romantico-patriottico ― è il caso de I carbonari della
montagna (1862) ― al romanzo di appendice con Una peccatrice (1866), Storia di una capinera (1871), tutte storie
d’amore dal risvolto drammatico.
Giovanni Verga
Giovanni Verga
Nel 1872, dopo una breve parentesi nella Firenze capitale d’Italia, Verga si trasferisce a Milano, in quel momento la città italiana più europea, sia per il livello di sviluppo
economico e sociale, sia per la vivacità del
quadro culturale che vede attivo in quegli anni il movimento della Scapigliatura, una corrente che rappresenta l’avanguardia artistica
dell’epoca, caratterizzata dalla contestazione
della tradizione letteraria, del senso comune
e della rispettabilità borghesi, cui contrappone un’arte realistica particolarmente attratta
La Milano del 1870: ippovia extraurbana
dal vero della miseria e della depravazione
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Percorso di letteratura
che si nascondono dietro alle apparenze; negli stessi anni inizia a diffondersi in Italia il
Naturalismo francese attraverso le opere civilmente e politicamente impegnate di Zola.
Nei primi anni di soggiorno l’autore non modifica particolarmente la sua produzione
e, sull’onda del discreto successo di Storia di una capinera, pubblica tre romanzi, Eva
(1873), Tigre reale (1873) ed Eros (1873) in cui si avvertono le stesse morbosità psicologiche e toni poco misurati dei precedenti, ma si iniziano a riscontrare gli influssi del
clima scapigliato milanese sia nel tono realistico del racconto, sia in alcuni accenti di
denuncia contro una società dominata dalla ricerca della ricchezza e del piacere. Anche
questi romanzi riscuotono un certo successo e verranno apprezzati come esempio di realismo impietoso verso i vizi e la corruzione dell’alta società.
Nel ’77 la traduzione dell’Assommoir di Zola ha un grande successo; animatore del dibattito sul tema è Luigi Capuana, amico di Verga. Se nei circoli più radicali l’opera dello
scrittore francese viene colta nei suoi aspetti di critica sociale, Verga e Capuana invece si interessano maggiormente al
particolare strettamente letterario di un linguaggio il più
possibile aderente al vero.
L’attenzione dell’autore si sposta quindi in due nuove direzioni; da una parte avverte la presenza nell’uomo di altre
Emile Zola
passioni oltre quelle d’amore: l’istinto di sopravvivenza, la smania dell’ascesa sociale, la spinta economica, il desiderio della
“roba”. Dall’altra lo scrittore volge lo sguardo verso altri strati sociali rispetto al mondo
borghese nel quale ha finora ambientato i suoi romanzi: le classi sociali più basse, nelle
quali non solo è più chiara la lotta per la sopravvivenza, ma che si presentano con un
spettro di sentimenti e passioni diverse da quelle analizzate finora.
L’opera ufficiale della conversione è data dalla novella Nedda (1874), il primo vero approccio dell'autore con il mondo contadino degli umili che soffrono in silenzio, vittime degli egoismi umani e delle consuetudini sociali.
NEDDA
La protagonista è una povera raccoglitrice di olive, che decide di emigrare in un paese vicino per poter guadagnare di più e curare così la propria madre ammalata. Comincia l'odissea della ragazza, sola e smarrita in un mondo nuovo, ostile, indifferente
ai suoi guai; dopo la morte della madre cerca conforto nell'amore di un povero contadino come lei, ma anch'egli muore di stenti e di malattia, trascinando con sé nella
tomba anche l'unica figlioletta, avuta dalla donna. Costei resta quindi sola col suo dolore e tra il disprezzo della gente, che, condizionata da scrupoli morali, non le perdona il suo peccato.
Contrapponendo alle corruzioni della vita aristocratica e borghese la spontanea sanità di sentimenti del popolo, quella sua genuinità che conta su poche parole, sulla forza tenace e dolente delle passioni, il Verga inizia a scoprire anche i segni di un'oscura
legge, l'inesorabilità socialdarwinista del destino che tutto travolge. Come per le specie
animali anche per le classi sociali esiste un principio di ereditarietà, ma soprattutto un
forte determinismo ambientale e sociale in base al quale chi è nato povero così resterà;
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Percorso di letteratura
la gerarchia sociale assume pertanto i tratti di una struttura naturale e come tale non
modificabile. Il concetto è ben esemplificato nell’ideale dell’ostrica che il Verga stesso
introdurrà nei suoi futuri racconti. In tale direzione il Verga non ha più nulla da spartire
coi naturalisti francesi; è invece il cantore del popolo, delle sue vane speranze e dei
suoi miti e delle infinite sofferenze.
Nel 1889 termina di comporre una raccolta di novelle dal titolo Vita dei campi. Tra
le più significative ci sono Rosso Malpelo, Fantasticheria, Cavalleria rusticana, La lupa,
L’amante di Gramigna, in alcune delle quali Verga raggiunge già i suoi più alti livelli stilistici nella ricerca dell’impersonalità.
La convinzione sempre maggiore sulla fatalità darwinistica della vita spinge Verga
ad affrontare un ciclo di romanzi che abbia proprio per oggetto la lotta per la vita.
In una serie di scambi epistolari con Capuana, Verga afferma che “la fiumana del progresso” appare tale
solo vista da lontano, mentre da vicino si tratta di una
violenta lotta per la vita dominata dai moventi più materiali; in questa guerra molti soccombono e sono lasciati indietro. Lo scrittore dichiara di voler studiare i
vinti, coloro che cercando di cambiare la propria posizione finiscono peggio di come stavano prima, per cui
ancora una volta non sembra possibile progredire. Infine, la lotta per la vita vale in tutti gli strati sociali e in
tale direzione lo scrittore ha in mente un ciclo di cinque
romanzi che parta dagli strati più umili per arrivare alle
classi più elevate . Il problema è se si possa usare lo
stesso modello di lotta per la vita per tutti i gruppi sociali, sia per chi combatte solo per sopravvivere sia per
chi compete per il piacere, lusso od il potere.
Verga e Capuana
Con questi problemi aperti e irrisolti Verga affronta il primo romanzo, quello sui
“vinti” al livello più basso della scala sociale: I Malavoglia (1881). Il romanzo è pienamente corrispondete all’idea e alle relative contraddizioni di Verga sul progresso e sulla
lotta per la vita. Effettivamente i Malavoglia combattono per sopravvivere, ma tale lotta difficilmente può essere intesa come tentativo di ascesa sociale e non rientra quindi
nella smania del progresso. Si conferma inoltre la visione sociale immobilistica e pessimistica dello scrittore: chi si muove dal proprio scoglio non può che peggiorare la sua
condizione.
Il romanzo si rivela un insuccesso presso il pubblico, che ricercava nel Verga una
lettura d’evasione che permettesse il riconoscersi nelle storie narrate e non certo una
denuncia sociale. Probabilmente per questo insuccesso pubblica nel 1882 un romanzo, Il
marito di Elena, che in qualche modo recupera le vecchie tematiche dell’amore morboso; ma non è più questa la via letteraria scelta dall’autore.
Ben otto anni dopo l’esposizione del programma, lo scrittore pubblica il secondo
romanzo del ciclo dei «vinti», il Mastro Don Gesualdo (1889); l’importante distanza
temporale tra i due rivela una duplice difficoltà in Verga: da una parte l’insoddisfazione
derivata dallo scarso successo della prima opera, dall’altra le contraddizioni interne allo
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Percorso di letteratura
stesso progetto del ciclo. Con questo romanzo, infatti, Verga sale di un gradino rispetto
alla sua idea di gerarchia sociale. Gesualdo non lotta per la sopravvivenza ma per
l’ascesa sociale.
MASTRO DON GESUALDO
Gesualdo, un semplice manovale arricchitosi con fatica e duro lavoro, costretto, infine, ad assistere impotente alla dissipazione del proprio patrimonio. Egli, infatti, desideroso di inserirsi nella società aristocratica, sposa Bianca Trao, una nobile decaduta spinta a quel passo dalla necessità di coprire una colpa commessa col proprio cugino Ninì Rubiera. Perciò tra i due non regna affetto così come nulla lega la fanciulla
Isabella, nata dall'amore colpevole di Bianca, all'umile Gesualdo che resta, quindi,
ancora più solo in un ambiente ostile e diffidente. La sua vita, dopo la morte della
moglie, si concluderà tristemente a Palermo nel palazzo sontuoso del genero, duca di
Leyra, che si adopera a dissipare il patrimonio accumulato faticosamente da Gesualdo. In quella dimora il povero manovale non era riuscito a trovare però neppure l'affetto e il conforto della figlia, ma la freddezza del genero, l'indifferenza e l'odio dei
servitori.
Rispetto ai Malavoglia qui non esistono valori, anche se arcaici, da salvaguardare;
qui è in pieno svolgimento la lotta non per la sopravvivenza ma per l’ascesa sociale; a
dominare quindi è la motivazione dell’interesse.
Ed è qui che si svela chiaramente la contraddizione insita nell’idea stessa del ciclo
dei vinti: la lotta di Mastro Don Gesualdo non è assimilabile a quella dei Malavoglia, perché questi ultimi difendono la propria sopravvivenza, i valori, la dignità di essere una
famiglia, rappresentando la vera lotta per la vita. Gesualdo, invece, è pienamente immerso e vincente nella “fiumana del progresso”, finché non è travolto dal suo pretendere troppo. A quel punto diventa anche lui un vinto, ma le vicende dei due romanzi obbediscono a logiche diverse e il ciclo mostra al suo interno gravi incongruenze.
A queste contraddizioni Verga risponde con il silenzio. Del resto i gusti del pubblico
stanno rapidamente cambiando, comincia ad andare di moda D’Annunzio ed il mito positivistico inizia a scricchiolare; il Decadentismo sta iniziando a prendere forma e a delinearsi come futura mentalità egemone.
I documenti che restano dimostrano il suo tentativo di andare avanti con il terzo
romanzo, La duchessa de Leyra, ma i conti non sembrano più tornare, perché mano a
mano che sale nella scala sociale Verga si trova dinanzi o le vecchie passioni morbose
abbandonate scegliendo il verismo o qualcosa di completamente nuovo, che non rientra
nel suo modello di adesione al reale, cioè quelle inquietudini tipiche del Decadentismo.
Morirà nella sua Sicilia, il 24 gennaio del 1922, vecchio e isolato, alla vigilia della
marcia su Roma e della salita al potere del fascismo.
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Percorso di letteratura
I Malavoglia: la trama ed i temi principali
Il romanzo narra le vicende di una modestissima famiglia di Aci-trezza, un paesino
nei pressi di Catania, i Toscano. Conosciuti da tutti come i Malavoglia, la famiglia, di tipo chiaramente patriarcale, è composta da otto persone: il saggio nonno padron ‘Ntoni,
suo figlio Bastianazzo e la moglie Maruzza, i loro figli ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia.
I Malavoglia sono pescatori; tutti si danno da fare per migliorare le condizioni economiche della famiglia, in un costante tentativo di superarsi, così come vuole il presupposto verghiano sull’abbandono dello “scoglio”. Proprio con questo intento padron
‘Ntoni compra a credito dall’usuraio del paese, lo zio Crocifisso, un carico di lupini da
rivendere a Riposto nel tentativo di guadagnare qualcosa di più del solito; il destino pessimistico si manifesterà però in tutta la sua evidenza. La barca, Provvidenza, fa naufragio a causa di una forte tempesta che perdura per tutta la notte. Nell’incidente morirà
Bastianazzo, ed il carico dei lupini verrà ovviamente perso.
Nel tentativo di risolvere il debito I Malavoglia si trovano quindi ad affrontare il loro
cammino per la sopravvivenza con una salita ancora maggiore. Il giovane ‘Ntoni, dopo
l’esperienza di militare, torna profondamente cambiato. In città ha visto un altro tipo di
vita, fatto di bellezza, agio, denaro. Perché lui non avrebbe dovuto avere una vita simile? Tornato ad Aci-trezza padron ‘Ntoni si occuperà di ridestarlo dalla sua condizione
mentale, gli troverà subito un lavoro e per il giovane Malavoglia le comodità ritorneranno solo un bel sogno. Assistiamo poi ad un periodo di stasi: l’unico forse nel romanzo;
tutti i componenti della famiglia lavorano, con relativa calma e serenità, per riuscire a
risollevare la famiglia dalla condizione di miseria in cui era improvvisamente piombata.
‘Ntoni ritrova la voglia di vivere invaghendosi di Barbara Zuppiddu, giovane compaesana, Mena sembra destinata a sposare Brasi Cipolla, figlio dell’uomo più ricco del paese;
Luca, il secondogenito, parte per il servizio militare.
Durerà poco. La Provvidenza riesce a venire recuperata e viene rimessa in mare,
ma l’onore di padron ‘Ntoni costringerà a non venir meno del patto stipulato solo oralmente con lo zio Crocifisso, anche se per legalmente avrebbe potuto tranquillamente
evitare questo enorme sforzo. La famiglia è quindi costretta a vendere la casa del nespolo, simbolo dell’unità familiare. Arriva la notizia della morte in battaglia di Luca, e
dopo poco tempo la malaria colpisce Maruzza che non riuscirà a sopravvivere. La Provvidenza si sfascia di nuovo ed il nonno rimane duramente ferito.
‘Ntoni subisce l’abbandono di Barbara e la morte della madre come due colpi durissimi, non capisce più il senso di una vita in paese e parte alla ricerca del suo sogno di vita facile, tornando però poco tempo dopo, più povero di prima ma accolto comunque da
quel che resta della sua famiglia. Mena dovrà rinunciare a sposare il Brasi, ‘Ntoni si darà
al contrabbando venendo poi arrestato per aver ferito un brigadiere che corteggiava la
sorella più piccola, Lia. L’avvocato farà notare alla corte che il comportamento di ‘Ntoni era di protezione verso la sorella, ma ‘Ntoni il suo gesto in realtà non era collegato
alla relazione. La sentenza lo condanna alla galera per cinque anni.
Il disonore della situazione getta nella costernazione i Malavoglia. A causa dello
scandalo sollevato durante il processo Lia abbandonerà Trezza per finire, poi si saprà,
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Percorso di letteratura
nelle vie della prostituzione. Padron ‘Ntoni, morirà in ospedale come mai avrebbe voluto, senza essere a conoscenza dei futuri risvolti della famiglia.
A riscattare la casa del nespolo, ricostituendo il focolare domestico, ci penserà Alessi sposando Nunziata, una vicina di casa. Mena resterà con loro ed accudirà i loro figli. ‘Ntoni, uscito di galera, tornerà al paese, ma si renderà conto di non poter restare
perché indegno del focolare domestico, di cui ha infranto le leggi e la sacralità. Partirà
con incredibile dolore, salutando i componenti superstiti della famiglia e rivedendo per
l’ultima volta la casa sul nespolo e Aci-trezza tutta.
I Malavoglia è il romanzo della lotta per la sopravvivenza, che da una parte è vera e
propria battaglia per la vita, ed è ben rappresentata dalla morte di Bastianazzo in mare
e da quella di Luca nella battaglia di Lessa, dalla malaria e dalla povertà. Ma i Malavoglia penano e combattono per sopravvivere soprattutto come famiglia, attaccata allo
scoglio della casa del Nespolo e alla barca dall'ironico nome di Provvidenza. Tutta la loro storia non è che la narrazione di una lotta estrema per salvare quegli oggetti-scoglio
che permettono loro di essere una famiglia. Nessuno dei Malavoglia combatte per sé, ma
per salvare l'identità collettiva. Solo il giovane 'Ntoni lo fa per se stesso e finirà per perdere anche l'appartenenza alla famiglia. E’ proprio lui il vero vinto di tutta la vicenda.
Nel romanzo esistono due livelli della lotta per la sopravvivenza. Il primo coincide
con la quotidiana fatica di una povera famiglia di pescatori che ogni giorno si gioca l'esistenza in mare. L'altro entra in funzione quando anche questo precario equilibrio si
rompe e chi era già sulla soglia della sopravvivenza entra nella cupa zona della possibile
estinzione. Allora inizia una selezione interna, comincia la sequela dei sacrifici affinché
sopravviva qualcuno per mantenere in piedi la specie.
Come esistono, quindi, diversi livelli di lotta per la sopravvivenza, esistono diversi
livelli di vinti. I Malavoglia sono degli sconfitti in primo luogo per definizione, perché
sono dei poveracci che faticano a campare e appartengono al "brulichio" descritto in
Fantasticheria. Ma anche al loro interno esistono dei vinti più vinti di altri, come Bastianazzo perso in mare, Luca morto in guerra, Lia finita a fare la prostituta, lo stesso vecchio Padron 'Ntoni, costretto a finire i suoi giorni in un triste ospedale mentre il suo ultimo desiderio era di morirsene vicino al focolare. Ma è soprattutto 'Ntoni il più sconfitto
di tutti, privo ormai di uno scoglio.
A far passare i Malavoglia da un livello all'altro di questa lotta è la “fiumana del
progresso”, che impedisce l'osservanza dell’ideale dell'ostrica.
L’ideale dell’ostrica viene enunciato dal Verga nel racconto Fantasticheria. La collocazione sociale degli individui naturale, come naturale è il nascere di un’ostrica su di
uno scoglio piuttosto che su un altro; è la fortuna che ha fatto nascere qualcuno ricco
e qualcuno povero. Di conseguenza questa situazione è immodificabile, anzi, coloro
che cercano di cambiarla finiscono ancora peggio e gli umili possono sopravvivere solo mantenendosi attaccati al proprio scoglio per quanto infimo esso sia. Chi proverà a
cambiare il proprio scoglio rimarrà succube dell’oceano, in questo caso il progresso.
Questo ideale, così certo per Verga, si riflette in due diverse modalità nel romanzo:
nel tentativo dei Malavoglia di sopravvivere meglio di quanto non abbiano fatto fino a
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Percorso di letteratura
quel momento e come storia che irrompe in questo mondo arcaico, da sempre identico a
se stesso, e introduce novità che alterano l'equilibrio. È, in questo caso, il servizio militare obbligatorio che uccide Luca e travia 'Ntoni; è l'insieme delle nuove tasse; è la
grande città che inghiotte Lia, così come è il bianco ospedale dove chiude i suoi giorni il
vecchio Padron 'Ntoni.
Verga non crede nel progresso, anzi vi avverte più pericoli che vantaggi. L’autore è
chiuso, già nei Malavoglia, in un paradosso che gli impedirà di procedere nel suo ciclo di
romanzi: deve tenere insieme la necessità del cambiamento e quella dell'immobilismo,
e il tutto senza speranze né verso l'uno, né verso l'altro.
Alessi, che alla fine del romanzo riesce a ricostruire un nucleo di perpetuazione
della famiglia, non ha vinto nulla, ha semplicemente evitato di perdere ancora. In stretti termini naturalistici e darwiniani già il sopravvivere è una vittoria, e in questo senso
Alessi è un vincente. Ma in termini positivistici è un po' difficile scambiare la pura sopravvivenza come affermazione del progresso.
Verga però ha profondo rispetto morale per questa umanità che lotta non tanto per
raggiungere chissà che cosa, ma solo per continuare a restare al mondo. Di qui l'ideologia della rassegnazione si trasforma in epica narrativa e i vinti diventano eroi.
È il tema della dignità che Verga non solo riconosce, ma esalta nei vinti posti nei
più bassi gradi della scala sociale, come i Malavoglia.
Se in Fantasticheria parlava di «piccole passioni che fanno muovere i piccoli cuori»,
nei Malavoglia l'intero romanzo è costruito su passioni che non appaiono più piccole come nella novella, ma grandi al punto di reggere un intero romanzo. Esse sono diventate
qualcosa di epico e di eroico. Una dimensione di tal genere è costruita sapientemente.
In primo luogo è la scelta stessa di mettere personaggi così umili al centro di un romanzo a dare dignità letteraria a questa umanità. In secondo luogo è il retrocedere del narratore e il suo nascondersi dietro gli attori della vicenda ad elevare i personaggi a voce
narrante del racconto. In terzo luogo a questi personaggi Verga dà la loro voce, riporta
il loro parlato, i proverbi, il modo di vedere il mondo e non commenta, ma semmai inserisce questi valori sullo sfondo della natura.
La voce dei vinti diventa così quella del paesaggio, del loro ambiente, nel quale la
nobildonna di Fantasticheria non potrebbe vivere. Essi sono la dura voce dello scoglio.
I racconti diventano epici quando narrano la grandiosità di uomini che lottano contro forze più grandi di loro. Anche quei Malavoglia perdono la loro battaglia sul destino
si comportano in maniera eroica: la Lia si smarrisce nel grande mondo e scompare come
una vittima sacrificale; Luca si inabissa eroicamente con la nave e nel momento della
morte lancia l'estremo messaggio alla madre, che si sveglia di colpo con una gran sete,
una consonanza di sentimenti degna della tragedia greca. Lo stesso 'Ntoni si allontana
dal paese e dalla famiglia in cui sente di non poter più stare quasi seguendo un destino
di esule. Questo tratto epico dei Malavoglia è ancor di più sottolineato dall'ambiente sociale circostante: usurai, pettegoli, mezze e miserevoli figure che fanno risaltare maggiormente l'eroismo dei protagonisti. E che dire infine della Mena, che rinuncia all'amore e si sacrifica come vergine custode di un focolare che altrimenti si spegnerebbe?
I Malavoglia è un romanzo senza dubbio di incredibile potenza realistica, rivoluzionario sotto diversi punti di vista, primo tra tutti per quanto riguarda l’invenzione di un
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nuovo linguaggio atto all’impersonalità più totale e completa mai realizzata prima, che
si avvale di una serie di novità stilistiche di grande importanza.
Il narratore corale
Il narratore verghiano non esprime le idee dello scrittore né si sovrappone ai vari personaggi
fornendo l’interpretazione esatta di quello che sta accadendo. Il narratore ne I Malavoglia non è
da intendere come un personaggio singolo ma come un insieme di personaggi che svolgono la
medesima funzione, quella di narrare. Si tratta quindi, di un narratore corale e questa funzione è
svolta dagli abitanti di Aci Trezza.
Il discorso diretto, indiretto e indiretto libero
Il discorso diretto è il modo più chiaro per rappresentare la visione soggettiva che ogni singolo personaggio ci offre della realtà.
Nel discorso indiretto le parole e i pensieri del personaggio vengono riportati in terza persona e sono preceduti da espressioni tipo: diceva che, pensava che...
La forma di discorso indiretto libero è simile a quella indiretta ma privata delle formule introduttive impedendo quindi al lettore di capire se a parlare è un narratore indipendente dal
personaggio o il personaggio stesso. Era questo il progetto di Verga: fare in modo che la storia
venisse raccontata direttamente dai protagonisti.
Due mondi a confronto
Il narratore corale presente ne I Malavoglia è una specie di “camaleonte” in quanto assume
le caratteristiche di coloro che, di volta in volta, entrano in scena, esprime le loro paure e le loro invidie. Questo mutare continuo potrebbe rappresentare un difetto perché mancherebbe ne I
Malavoglia, una figura come quella che, invece, è presente nei Promessi Sposi: il “narratore onnisciente” di Manzoni conosce passato, presente e futuro dei suoi personaggi e, per questo, è in
grado di costruire una, e una sola storia. In Verga si corre il rischio che il romanzo diventi una
semplice somma di tante storie o manterrà le caratteristiche di una storia unica?
Le sventure che colpiscono la famiglia sono interpretate come la giusta punizione che si abbatte sui trasgressori delle regole sulle quali si regge “l’intera società”. Quella società nella quale i Malavoglia erano perfettamente integrati dopo la perdita del carico e il naufragio della barca, li guarda con disprezzo: ad un tipo di emarginazione (quella economica) ne corrisponde anche un’altra, quella sociale.
Lo “straniamento”
Gli abitanti di Aci Trezza lungo l’intero romanzo osservano e interpretano gli avvenimenti
seguendo una logica che Verga non condivide. Nonostante non sia mai espresso in maniera esplicita, l’autore riesce a comunicare la sua opinione servendosi di una tecnica chiamata “straniamento”, consistente nel presentare ciò che è normale come strano e ciò che è strano come normale. Il contrasto tra le due mentalità (i Malavoglia da un lato e il paese dall’altro) è così evidente che è impossibile non vedere la violenza che la società esercita nei confronti dei Malavoglia e di valori e comportamenti ritenuti oramai superati e privi di importanza. La tecnica dello
“straniamento” ci ha permesso di capire non solo che autore e narratore non coincidono, ma che
l’autore ha una sua visione della realtà diversa rispetto a quella del narratore.
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Percorso di letteratura
La produzione letteraria di Luigi Pirandello
Pirandello è uno scrittore dalla vastissima produzione teatrale e narrativa, fin dagli inizi inserito a pieno
titolo nella crisi della ragione che, iniziata sul finire
dell'Ottocento, si prolunga nel Novecento, quella stessa
crisi della ragione che non riesce a definire e a controllare il Verga nel ciclo dei vinti. Di questo processo è
uno dei massimi rappresentanti europei, sia per una
personale ed intima visione dell'esistenza, sia per una
chiara coscienza della crisi della propria epoca. Sono gli
studi e i viaggi, la laurea a Bonn e quindi i contatti con
la cultura europea ad ampliare il personale sentire della
Luigi Pirandello
crisi di un'epoca storica. Crisi che esprime, due anni
dopo la laurea, in un piccolo saggio: Arte e coscienza d'oggi, nel quale afferma:
«Crollate le vecchie norme, non ancor sorte o bene stabilite le nuove, è naturale che il concetto
della relatività d'ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere la
capacità di giudizio. Il campo è libero ad ogni supposizione. L'intelletto ha acquistato una straordinaria mobilità. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile».
Con questa chiara coscienza, personale e storica, Pirandello inizia un percorso letterario che sostanzialmente non si allontanerà mai da questa iniziale percezione della
crisi. Il primo romanzo è L'esclusa, pubblicato nel 1893. Si tratta di un romanzo interessante perché fa comprendere come, pur all'interno di una struttura narrativa di stampo
naturalistico, Pirandello introduca la tematica del tutto nuova della relatività dei punti
di vista: nelle reciproche relazioni umane il falso e il vero si mescolano inestricabilmente.
Nel 1903 la miniera di zolfo del padre, fonte principale di reddito, si allaga e tutto
il patrimonio familiare va irrimediabilmente perso; la moglie entra in uno stato di sofferenza mentale che l'avrebbe gradualmente condotta alla follia, fino all'internamento. I
progetti di vita di Pirandello cambiano quindi radicalmente e l'attività letteraria diventa
soprattutto una indispensabile sorgente di reddito: l'autore, già prolifico grazie ad una
forte capacità di scrittura, incrementa ulteriormente questa sua caratteristica.
Nel 1904 pubblica Il fu Mattia Pascal, un romanzo che, accanto agli eventi del
1903, segnò una svolta nella sua evoluzione letteraria. Pirandello in quest'opera abbandona del tutto i possibili richiami ai moduli naturalistici, ancora presenti nell'Esclusa,
approfondendo il tema della relatività dei punti di vista e della conseguente visione della vita come una recita di cui non si capisce il senso e nella quale non è possibile trovare
una verità.
IL FU MATTIA PASCAL
Il romanzo narra le vicende di un piccolo borghese che si sente imprigionato nella
forma di vita costruitagli addosso dall'incontrollabile scorrere degli avvenimenti: sposato senza amore, un'insopportabile suocera in casa, un modesto lavoro, un profondo
senso di frustrazione. Mattia Pascal alla fine decide di fuggire, e il procedere casuale
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Percorso di letteratura
della vita gli offre infine, dopo anni di prigione in casa, l'occasione della piena libertà: vince a Montecarlo una grossa somma al gioco e viene riconosciuto al paese dai
parenti nel corpo di un annegato. Si sente finalmente libero dalla prigione della forma in cui lo avevano rinchiuso i casi della vita e le convenzioni sociali e inizia una
nuova esistenza che gli appare libera e senza vincoli. Ma si può vivere senza legami
sociali, senza cioè una forma e quindi una prigione? Dopo varie peripezie Mattia Pascal scopre amaramente che ciò non è possibile, perché per vivere bisogna essere
"qualcuno", cioè una figura riconoscibile dagli altri, la cui identità sia sancita da documenti; diversamente si diventa "nessuno". Decide così, dopo una lontananza protrattasi per un paio d'anni, di tornare al paese e di "resuscitare", ma neanche questo
è più possibile: ciò che egli rappresentava nel paese è stato sepolto con quell'anonimo annegato, ciò che avrebbe potuto essere è ormai di altri (la moglie si è risposata
ed ha una figlia), ciò che egli è stato nel frattempo lo ha cancellato lui stesso con un
finto suicidio; insomma, è vivo, eppure non esiste più: è il fu Mattia Pascal. Di fronte
alle bizzarrie della vita non gli resta che adattarsi ad essere un paradosso vivente,
portarsi i fiori al cimitero e scrivere la propria storia, perché, se non sa più chi è, forse trasformandosi nel personaggio di un romanzo diventerà qualcosa di definibile.
Pirandello ha, quindi, imboccato la strada della sua problematica: la crisi dell'identità individuale, il relativismo nella conoscenza della realtà, l'impossibilità di comunicare e capirsi tra esseri umani.
Nel 1908, nel tentativo di spiegare approfonditamente questo suo nuovo approccio
alla letteratura e l’utilizzo delle nuove tematiche pubblica il saggio L'umorismo.
Lo scrittore sostiene che esiste una particolare arte definita come «umoristica»: essa
è caratterizzata dalla forte presenza della riflessione. Mentre nell'arte in generale la
riflessione si cela dietro il sentimento, nell'umorismo essa scompone e analizza i sentimenti. Se con il comico si ride del contrasto e basta, nell’umorismo entra in azione
la riflessione, ci si chiedono i motivi di quel comportamento contraddittorio e vi si
trova qualcosa di serio e drammatico. L'umorismo è quindi un genere di arte dominato dal rovello del pensiero e teso a svelare le contraddizioni e le incongruenze che
rendono l'esistenza «un'enorme pupazzata».
Nel 1909 Pirandello porta a termine il romanzo I vecchi e i giovani. Anche in questo
romanzo è forte il «sentimento del contrario», cioè l'umorismo, ben rappresentato dal
vecchio Cosmo Laurentano che trae dalle vicende personali e storiche una morale dominata dal disincanto e dalla percezione chiara e lucida dell'insensatezza della vita.
Un salto di qualità in questa direzione è rappresentato dal suo incontro con il teatro, ed in questo senso il 1915 è l'anno di svolta: Pirandello capisce che la rappresentazione teatrale è la tecnica più corrispondente alla sua poetica dell'umorismo e vi si getta a capofitto producendo moltissimo tra il '16 e il '18, ma soprattutto rivoluzionando il
modo stesso di fare teatro.
Il teatro che Pirandello riceve in eredità dall'Ottocento è di stampo naturalistico, il
che significa che la rappresentazione deve obbedire al criterio della verosimiglianza:
le vicende devono assomigliare alla vita quotidiana del pubblico, la psicologia dei
personaggi deve riprodurre quella del mondo medio-borghese, lo sviluppo degli avvenimenti deve procedere secondo una precisa sequenza temporale e rispettare la coe-
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renza dei legami tra causa ed effetto. Su questo sfondo di verosimiglianza si aggiunge
poi il tocco fantastico di qualche elemento di romanzesco e sentimentale che dà una
dimensione più intensa e commovente
Pirandello si accosta al teatro con un approccio del tutto nuovo: alla verosimiglianza del senso comune sostituisce quella dell'umorismo, che è un acido corrosivo perché
va ad indagare, dietro l'ordine e le belle apparenze, la bizzarria, la contraddittorietà, il
caos e le incongruenze che dominano la vita. Ne risulta una completa rivoluzione della
tradizione:
Le vicende rappresentate appartengono ancora al quotidiano, ma di esso rivelano il volto bizzarro che trasforma il normale in assurdo;
Gli usuali rapporti sociali, affettivi, familiari vengono capovolti nel grottesco,
cioè nell'insieme di tragico e comico; la normale realtà appare allo spettatore,
abituato ad identificarsi con la rappresentazione teatrale, qualcosa che è divenuto improvvisamente caotico e incomprensibile;
I personaggi perdono la loro tradizionale unità psicologica e si presentano come scissi, a volte bloccati in una loro particolare mania, altre volte oscillanti
tra molteplici identità, spesso infine del tutto indefinibili perché il loro Io si è
disgregato;
La comunicazione tra i personaggi sul palcoscenico è frantumata; essa non riproduce il quotidiano parlare ma un convulso sovrapporsi di messaggi, come se
non venisse trascritto ciò che gli esseri umani si dicono ma quello che nel frattempo pensano. Spesso tra il dire e il pensare si interpongono la simulazione e
la menzogna;
La scenografia si trasforma, e inizia a perdere i tratti realistici della tradizione; comincia anzi ad assumere aspetti surreali e a divenire rappresentazione di
scenari del pensiero piuttosto che della apparente e normale realtà.
Nel 1916 Pirandello compone Liolà e Pensaci, Giacomino!, entrambe commedie inizialmente scritte in siciliano e poi tradotte in lingua italiana.
“PENSACI, GIACOMINO!”
L'opera racconta la storia di un anziano professore che, non essendosi potuto permettere una moglie a causa del misero stipendio, decide di vendicarsi dello Stato: sposa
una donna giovanissima e così a essa andrà, per tutta la lunga vita che l'attende, la
pensione del vecchio professore. Ma tutto ciò non è contro il buon senso? Come possono stare insieme una moglie giovane e bella e un decrepito professore? Non vi saranno inevitabilmente dei tradimenti? Il protagonista non si scompone: ha già previsto tutto. È lui stesso che favorisce il tradimento della moglie con un suo allievo,
Giacomino; tanto, non sarà lui ad essere tradito, ma il suo pubblico ruolo, cosa che
non gli appartiene: egli non è un vero marito perché il suo matrimonio è stato solo
una vendetta contro lo Stato.
Le regole della rispettabilità e del buon senso borghese sono così umoristicamente
smontate dall'interno e tutti i sentimentalismi romantici sull'amore sono abbattuti dall'emergere di altre pulsioni: il calcolo, la vendetta, il disprezzo del senso comune.
Nel '17 Pirandello compone Così è (se vi pare), la commedia nella quale per la prima volta, in maniera così esplicita da farne la trama della rappresentazione, lo scrittore
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sviluppa il tema del relativismo della verità e dell'impossibilità di trovare un punto di vista certo e incrollabile. Per l'estrema chiarezza tematica l’opera è diventata una sorta
di manifesto di quello che verrà poi chiamato "pirandellismo", cioè la tendenza a voler
sottolineare con una certa insistenza il tema del relativismo. Ma per Pirandello la molteplicità dei punti di vista non è un sofistico gioco dell'intelletto, ma la sostanza stessa
dell'esistenza umana, nella quale ognuno si costruisce la propria verità su di sé, sugli altri, sul mondo, per poter pensare di essere qualcuno. La critica è rivolta quindi al perbenismo e alle regole sociali che esigono che vi sia per ogni essere umano una e una sola
verità e così si finiscono per distruggere le personali verità che permettono all'uomo di
sopravvivere.
Nel biennio 1917-18 compone ben quattro opere, due in dialetto, La giara e Il berretto a sonagli, due in lingua italiana, Il piacere dell'onestà ed Il giuoco delle parti, proseguendo le tematiche a lui così care e con nuove situazioni che mettessero in luce il
grottesco della vita e della società e chiudendo una felice stagione che gli regala una
notevole fama. Critica e pubblico sono spesso disorientati da un teatro del tutto nuovo;
ma lo scrittore ha definitivamente trovato la sua poetica e la sua tematica.
In campo teatrale dal 1921 al '29 Pirandello produce, tra molti altri lavori, quattro
commedie che sanciscono il suo successo anche a livello internazionale. Si tratta di
composizioni che uniscono il tema della dissociazione dell'Io all'ulteriore demistificazione del teatro come imitazione, trasformando la stessa rappresentazione in oggetto di
un'altra rappresentazione. È “il teatro nel teatro”.
Nel 1921 viene rappresentato il dramma Sei personaggi in cerca d'autore, l'opera
forse più densa e problematica di Pirandello. Vi si racconta la sorprendente storia di sei
personaggi lasciati in sospeso dall'autore, ma talmente vivi da mettersi loro stessi alla
ricerca di qualcuno che possa completare il loro dramma e renderli finalmente definiti
come personaggi.
La finzione teatrale diviene così più forte della cosiddetta vita reale e la stessa vita
reale perde la sua consistenza abituale per divenire una recita di cui però non si conoscono l'autore, lo svolgimento, l'identità dei personaggi. Alla fine, paradossalmente, sono più veri i personaggi inventati di quelli reali. Essi, in fondo, sono una sola e precisa
storia, gli uomini reali sono invece un groviglio di vicende dal quale non si riesce a ricavare una precisa identità.
Il dramma suscitò agli inizi forti polemiche per la condizione di straniamento in cui
il lettore o lo spettatore vengono posti, ma poi venne accolto per quello che era: un'opera che sanciva definitivamente la morte del teatro ottocentesco e apriva allo sperimentalismo del Novecento.
Solo un anno dopo, nel 1922, Pirandello propone un nuovo testo teatrale, Enrico IV,
nel quale al tema del teatro nel teatro si aggiunge l'elemento tragico della morte e del
sottile confine tra follia e ragione. Nello stesso anno Pirandello decide di riunire in un'unica raccolta dal titolo Novelle per un anno i racconti brevi ai quali ha lavorato per tutta la vita. Le Novelle per un anno sfilano così come i giorni, una dietro l'altra; gli uomini
si sforzano di chiamare questo scorrere del tempo un progetto di vita, ma di nulla del
genere si tratta. Non solo quindi nelle singole novelle, ma nella stessa struttura della
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raccolta Pirandello comunica al lettore il senso di una profonda dissociazione dell' anima
e della stessa possibilità di parlare e comunicare.
In Ciascuno a suo modo del 1924, Pirandello riprende la produzione teatrale e affronta il conflitto tra spettatori ed attori mettendo in scena la rappresentazione del
pubblico che irrompe nella recita mentre, In Questa sera si recita a soggetto del 1929 lo
scrittore mette in scena un contrasto a tre facce, regista, autore ed attori. Nello stesso
periodo in cui porta avanti questo lavoro di scavo nei meccanismi del teatro, Pirandello
non solo continua a scrivere novelle ma completa un lavoro narrativo lasciato in sospeso
da parecchi anni, Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Tra il '25 e il '26, Pirandello completa il suo ultimo romanzo, avviato già nel 1909:
Uno, nessuno e centomila.
In questo lavoro lo scrittore conduce alle estreme conseguenze il tema della disgregazione dell'Io e della perdita dell'identità.
UNO, NESSUNO E CENTOMILA
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, a partire da un banale evento quale il commento della moglie sul suo naso che pende da una parte, inizia a chiedersi come e in
quante forme lui appaia agli altri. Precipita così in un vortice relativistico di punti di
vista che crescono all'infinito perché, a come lo vedono gli altri, deve aggiungere
come lo hanno visto e in più come lui si vede e come si è visto. Scopre così con orrore
che una cosa è la vita che scorre in noi e attorno a noi, fluida e indefinibile perché
perennemente immersa nel divenire, altre cose sono le forme in cui si cerca di fissarla, le maschere e i ruoli che gli uomini si impongono a se stessi e agli altri per sentirsi
sicuri di essere "uno".
Moscarda ha terrore di queste forme e inizia a romperle sistematicamente compiendo
gesti folli, imprevedibili, estranei alla maschera che di volta in volta gli è imposta.
Alla fine decide che per rinunciare alle forme bisogna decidere di diventare "nessuno"
per sé e per gli altri, fare a meno del proprio nome, dei propri ricordi, abbandonare i
ruoli che le relazioni sociali necessariamente impongono.
Come è possibile tutto ciò? Moscarda vende tutti i suoi beni, fonda un ospizio e vi si
fa rinchiudere; sparisce dal consorzio civile ma anche dalla propria esigenza di identità; vive giorno per giorno perdendosi nel fluire della vita: si sente nuvola, fiore, albero... La disintegrazione dell'lo è portata alle estreme conseguenze e così la dissoluzione della struttura narrativa del romanzo.
Con questa opera Pirandello chiude i rapporti con il romanzo ma mantiene vivi
quelli con la narrativa attraverso le novelle.
L'ultima fase fino al 1936, anno della morte, vede una
modificazione delle tematiche pirandelliane attraverso la
cosiddetta "trilogia del mito". Con il termine "mito" in Pirandello si intende definire un certo abbandono dell'umorismo
dolente e dissacrante che mostra le incongruenze e la contraddittorietà della vita per scegliere al suo posto un tono
favolistico e da antica leggenda, ambienti lontani dalla vita
comune e collocati in uno spazio surreale, vicende dominate
da aspetti magici e quasi ancestrali.
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Pirandello, insomma, fino alla fine, sperimenta nuove forme di comunicazione letteraria, ma il suo messaggio di fondo resta lo stesso: l'estraneità dell'uomo alla vita, la
relatività della realtà, la fragilità dell'Io. Ora però gli stessi temi sono affrontati da una
lontananza che li rende ancora più universali. Il termine «mito» ha infatti il significato
anche di illusione, di sogno collettivo irrealizzabile, e Pirandello sembra, nelle ultime
tre opere teatrali – Nuova colonia, Lazzaro e Giganti della montagna - mantenere questo doppio significato: da una parte favola antica e lontananza misteriosa, dall'altra illusione destinata a cadere.
Pirandello muore di polmonite nel 1936, dopo aver ricevuto il premio Nobel per la
letteratura nel 1934 ed essere stato riconosciuto a livello mondiale come il maggior esponente del nuovo teatro del Novecento.
Enrico IV
Protagonista di questa commedia è un giovane aristocratico. Durante una festa in
costume si è travestito da Enrico IV, l'imperatore tedesco famoso per l'umiliazione che
dovette subire a Canossa nel 1077 chiedendo perdono, in veste di umile pellegrino, al
papa Gregorio VII.
Per un incidente, che nel corso del racconto si rivelerà non del tutto fortuito, il cavallo sul quale è salito si imbizzarrisce gettando a terra il cavaliere che sbatte la testa e
impazzisce: pensa di essere realmente Enrico IV. Il flusso vitale si è arrestato e cristallizzato nella maschera assunta al momento dell'incidente.
È un'altra pirandelliana variazione sul tema della maschera, solo che questa volta
non sono le relazioni sociali a imprigionare il protagonista, ma gli imprevisti del caso e
la follia.
Vista l'inguaribilità del danno cerebrale, i parenti sistemano Enrico IV in una villa
allestita come una reggia medievale con valletti e servitori e, alla parete, un quadro a
grandezza naturale della marchesa di Toscana, la donna che il giovane amava prima di
impazzire e che proprio il giorno dell'incidente era mascherata in quella foggia. Per dodici lunghi anni nella villa si svolge una vera e propria recita in cui tutti fingono di essere ciò che non sono, tranne Enrico IV, che non è un attore ma un personaggio vivente.
La seconda fase inizia quando, dopo dodici anni, di colpo, rinsavisce, scopre di essere stato una maschera fissa, che nel frattempo la vita è passata, e lui ha perso la giovinezza, la donna amata e tutti i sogni che ognuno immagina di realizzare. Il posto che
ha lasciato vacante è stato occupato da altri. Come Mattia Pascal non poteva tornare ad
occupare la vecchia forma, così Enrico IV non può tornare ad essere ciò che era. Pascal
decide di vivere ai margini della vita in una condizione di sospensione riguardo alla propria identità, Enrico IV decide di tenersi la maschera che il caso gli ha costruito addosso. Per altri otto anni vive da pazzo lucido e savio.
Ora non è più un personaggio vivente ma un attore cosciente di recitare, che osserva dalla sua posizione privilegiata di pazzo/sano la follia della vita dei sani che non sanno di essere anche loro maschere e vuote forme. È una scelta alternativa a quella del
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Percorso di letteratura
Moscarda di Uno, nessuno e centomila, perché Enrico IV non si abbandona al flusso vitale, ma volontariamente si segrega nella forma che gli è capitata addosso.
La terza fase scatta quando, dopo otto anni, un dottore vuole guarirlo da una follia
che non c'è più, organizzando per lui uno psicodramma, cioè una rappresentazione delle
sue fissazioni che gli dovrebbe provocare uno shock salutare.
Si entra, quindi, in un ulteriore livello di teatro nel teatro. Gli attori sono il medico
e i vecchi "amici" di Enrico IV: Matilde, che amava prima dell'incidente e che è immortalata nel grande dipinto sotto le spoglie della marchesa di Toscana, così come era mascherata nel fatidico giorno; la figlia di costei, Frida, che nella sua bellezza ricorda la
giovinezza della madre; Belcredi, il cosiddetto "vecchio amico" che forse era stato il responsabile della caduta e che ora è forse l'amante di Matilde; Di Nolli, il genero della
donna. Il dipinto sulla parete viene sostituito con Frida vestita negli stessi panni di Matilde da giovane e del dipinto. Quando Enrico IV entra nella stanza la donna, dalla nicchia al posto del quadro, lo chiama per nome.
Lo shock è talmente "salutare" che per poco Enrico IV non impazzisce nuovamente,
ma, superata la crisi, rivela di essere già da tempo guarito e che ha scelto di continuare
a fingere perché fuori non c'è più posto per lui. Tutto sembra risolversi e invece, proprio
a questo punto, scoppia la tragedia.
Di colpo la vita ha fatto irruzione per la seconda volta, dopo la guarigione tenuta
segreta, nella maschera di Enrico IV ed egli, nel convulso finale, si trova in una situazione angosciante, nuovamente in sospeso tra forma e vita.
Da una parte venti anni sono passati e la sua forma, fuori, non c'è più; dall'altra la
simulazione è stata scoperta e non sembra più proseguibile; da un'altra parte ancora la
vita gli è ripiombata addosso nell'immagine di Frida che, vestita come Matilde a suo
tempo, lo riporta violentemente e impetuosamente indietro di venti anni: egli l'abbraccia e preso da un impeto feroce ferisce mortalmente Belcredi.
Un gesto di follia? Enrico IV è allora davvero ancora folle? Belcredi morente continua a gridare che Enrico IV non è pazzo, che il suo è quindi un omicidio volontario. Ed è
forse questa l'interpretazione più corretta: con quel colpo di spada il protagonista ha
ucciso la vita che gli si era ripresentata, o forse è stata la forma assunta per vent'anni a
difendersi dalla vita che l'avrebbe dissolta. La maschera ha infine vinto e il protagonista
ora resterà per sempre Enrico IV: lo ha fatto involontariamente da folle, poi volontariamente in una lucida follia, lo dovrà ora fare da vittima del suo stesso gioco.
Dal punto di vista teatrale l'Enrico IV è una commedia in cui Pirandello sviluppa la
dinamica del teatro nel teatro. Sulla scena si svolgono una serie infinita di rappresentazioni: quella di Enrico quando è effettivamente folle; quella di Enrico che interpreta la
parte del pazzo; quella dei visitatori che recitano ad assecondare la presunta follia del
protagonista; quella che essi allestiscono per provocargli uno shock; la convulsa conclusione in cui tutte le rappresentazioni si sovrappongono: Frida appare al protagonista
come reale e la spada da strumento di recita diventa anch'essa vera. Eppure, tutto questo è un'unica rappresentazione. Il teatro si rivela effettivamente il genere strutturalmente adatto alla tematica pirandelliana della relatività dei punti di vista.
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percorso di letteratura-storia - Istituto d`Istruzione Superiore Elio