Working Paper
L'impresa che compete e che dura
Federico Butera
WP4 / 2012
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L'impresa che compete e che dura
di Federico Butera
Michael Cusumano, noto ricercatore, distinguished professor di management alla Sloan School of
Management del MIT e top consultant di strategia e organizzazione di grandi aziende
multinazionali, ha scritto un libro importante rivolto a imprenditori, manager, decisori pubblici,
studiosi, consulenti impegnati aiutare le imprese ad acquisire uno staying power, a restare forti,
ossia a resistere alla temibile concorrenza dei paesi BRIC, a tener duro davanti alla più grave crisi
dal 1929, a durare a lungo rafforzando il loro ruolo di istituzioni economiche e sociali.
Il libro di Cusumano è innanzitutto un importante testo di management sciences, prezioso per gli
studiosi e gli studenti di strategia e organizzazione in virtù delle tesi che propone, fondate sullo
studio approfondito e l’interpretazione di singoli casi di grandi imprese multinazionali: è un’ulteriore
prova che lo studio dei single cases può produrre proposizioni di validità generale (Eisenhardt,
2008), allorché occorra comprendere caratteristiche e paradigmi di straordinarie “invenzioni sociali
ed economiche”, come in questo caso Microsoft, Apple, Toyota.
Questo di Cusumano è soprattutto un libro di densa ma chiara scrittura per imprenditori, manager
di imprese grandi e piccole e per dirigenti di Pubbliche Amministrazioni centrali e locali, sia per
quelli che hanno letto molti libri di management, sia per chi non ne ha letto alcuno.
Sarà una lettura utile soprattutto per chi affronta la crisi per chi sta cercando di cambiare strategia
e vuole trovare una organizzazione adeguata ad essa, per chi vuole proteggersi dai fallimenti
valorizzando la propria storia.
Il volume, inserito fra i tre migliori libri di strategia manageriale del 2011 dalla rivista Strategy and
Business, sintetizza la lunga esperienza di ricerca e di consulenza dell’autore e dei suoi
collaboratori del MIT, proponendo sei princìpi di strategia e di organizzazione. Essi scaturiscono
dall’analisi empirica della condotta di imprese leader, che hanno raggiunto grandi successi e
soprattutto hanno saputo mantenerli e rinnovarli di fronte a drammatici cambiamenti del mercato,
dei contesti istituzionali, delle tecnologie: sono i casi di IBM, Microsoft, Intel, Apple, Toyota, JVC,
Sony, Cisco e molte altre. Cusumano esamina per contrasto anche i casi di imprese giunte alla
vetta della loro crescita del fatturato e della patrimonializzazione di borsa che, però, non sono state
capaci di restare forti, non ce l’hanno fatta nella competizione con soggetti più forti o più astuti di
loro, come Netscape, Chrysler e altre. È una narrazione appassionante e ricca di suggestioni che
vanno oltre le tesi e i princìpi su cui il volume è incardinato.
La tesi di fondo del volume è che le scienze della strategia e dell’organizzazione che si sono
prodigate a individuare le regole, i segreti, le lezioni per il successo hanno fallito perché hanno
fatto solo metà della strada, anche quando sono state basate su ricerche serie e non solo su
brillanti intuizioni (come il celebre caso del best seller In Search of Excellence di Tom Peters). Non
basta avere successo, scrive Cusumano, ma è necessario difenderlo, mantenerlo e svilupparlo nel
tempo. Vi è una ragione strutturale che obbliga a ciò: strategia e organizzazione devono essere
cambiate di continuo e molto velocemente di fronte a mutamenti del contesto, come la
competizione di nuovi paesi, il cambiamento della popolazione, il travolgente sviluppo del Web 2.0,
dei social media e molto altro. Vi è anche una ragione manageriale per staying power: l’orgoglio, la
superbia, la rilassatezza, l’arroganza, l’autoreferenzialità del management che dorme sugli allori di
una storia di successo possono essere essi stessi un pericolo mortale per la sopravvivenza
dell’impresa, come testimoniato nel caso Toyota a fondo esaminato nel volume.
Cusumano prosegue nella linea tracciata nel loro famoso libro Built to Last da Collins e Porras, i
quali avevano esaminato le aziende che erano durate nel tempo (tra cui, ad esempio, Ford, 3M,
General Electric, IBM) e avevano cercato di individuarne alcune caratteristiche chiave, come
un’ideologia di base, il concetto di BHAG (Big Hairy Audacious Goals), il disporre di una propria
cultura, il tentare sempre nuove cose, il rifiutare l’idea di una “grande idea” per avviare un’impresa,
l’innovazione costante. In sintesi, le aziende studiate da Collins e Porras erano non solo soggetti
economici, ma istituzioni economico-sociali: questo assicurava a loro la durabilità e alla società
circostante la prosperità in un contesto di continuo cambiamento. Cusumano si pone un problema
simile: come assicurare continuità e prosperità all’impresa in un mondo in cui nulla è stabile? Ma
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all’analisi di Collins e Porras egli aggiunge l’inquietante e recente questione: la contraddizione fra
l’imperativo di continua e costosa innovazione nei prodotti/servizi, nell’organizzazione, nelle
competenze da una parte e la crescente commodificazione dei prodotti/servizi dall’altra. Per le
imprese occidentali non si tratta solo di fronteggiare la drammatica riduzione dei prezzi dei prodotti
imposta dalle imprese manifatturiere cinesi, o quella dei servizi operata dalle imprese indiane; si
tratta anche e simultaneamente di affrontare l’erosione o la scomparsa del valore dei prodotti
dovuta all’innovazione tecnologica. Come contrastare, per esempio, l’abbattimento del costo dei
componenti prodotti in Cina o l’abbattimento del valore economico della conoscenza scaricabile da
Google a costo zero? Come si può competere e durare in una situazione in cui i prezzi dei prodotti
e dei servizi si abbattono in una proporzione che non ha precedenti?
Tali domande, cruciali per tutte le economie occidentali, lo sono in particolare per l’economia
italiana, la seconda economia manifatturiera d’Europa. La forza dell’Italia nella manifattura non è
però eguagliata nel settore dei servizi che cuba per ben oltre il 75% dell’economia nazionale:
finanza, scuola, sanità, servizi di TLC e Pubblica Amministrazione non hanno lo stesso
posizionamento competitivo in Europa.
Le migliori imprese italiane manifatturiere e di servizi da noi studiate e accompagnate nel
programma Italian Way of Doing Industry (Butera e De Michelis, 2011) si sono rivelate capaci di
competere perché hanno affrontato la crisi continuando incessantemente a innovare – oltre ai loro
prodotti e servizi – la loro governance, il loro posizionamento di mercato, le loro strategie e il loro
dimensionamento, la loro organizzazione macro e micro, la loro tecnologia e soprattutto la loro
identità. La loro battaglia, però, purtroppo non è finita: l’aggravarsi della crisi richiede anche a loro
un nuovo impegno.
E le altre? Le medie imprese senza forte proiezione internazionale e tutte le piccole imprese
rischiano grosso. I fatturati decrescono, le sofferenze finanziarie crescono, la cassa integrazione
aumenta, i fallimenti si moltiplicano. Non sono molte le imprese che hanno accumulato capacità ed
esperienze come quelle rilevate nei casi dell’Italian Way: la loro debolezza di fronte alla riduzione
dei consumi interni si fa critica. Si rivelano allora drammatiche le antiche carenze: insufficienti
servizi finanziari e organizzativi, carenza di infrastrutture tecnologiche e logistiche, insufficienza dei
beni comuni per la competitività, peso dei vincoli burocratici.
Per le grandi corporation – ma la lezione è valida anche per le medie imprese italiane –,
Cusumano propone sei princìpi duraturi, che consentano di reagire al cambiamento con rapidità ed
efficacia, assicurando una capacità persistente di fornire buone prestazioni nell’arco degli anni e
dei decenni. Non sono sei ricette manageriali, ma sei nuove visioni dei comportamenti strategici e
organizzativi necessari per fronteggiare la magnitudo senza precedenti del cambiamento. I sei
princìpi hanno una caratteristica distintiva: rompere con la tradizione di differenziare nettamente la
strategia e l’organizzazione, con la prima che fissa obiettivi e la seconda che li realizza. Ciascuno
dei princìpi di Cusumano, invece, propone un veloce ciclo interattivo, ricorsivo di strategia e
organizzazione. Questo volume sembra annunciare la fine della tradizionale difficoltà di combinare
i libri dei sogni con la rigidità delle burocrazie aziendali: strategia e organizzazione devono essere
fatte della stessa pasta, e nei casi presentati è proprio così. Questa è la virtù principale che
abbiamo rilevato anche nelle migliori imprese dell’Italian Way.
L’approccio si propone di accompagnare le imprese a potenziare il loro contenuto di conoscenza e
di servizi, a rafforzarne la flessibilità e la capacità di gestione dell’inaspettato, in una parola
conservare la forza delle imprese in un ambiente che continuerà ad essere altamente turbolento
anche oltre la presente crisi.
Questi princìpi sono presentati come lezioni apprese da casi concreti da aziende che sono riuscite
a mantenere il successo nel tempo. Gli esempi consentono al lettore di comprendere a fondo
l’importanza e i limiti di portata di quei princìpi che sono ingredienti (non predittori sicuri) di
successo. Essi sono legati alla concretizzazione nelle diverse realtà di prodotto, mercato,
organizzazione, contesto. Inoltre, il proporzionamento e la combinazione di quei princìpi sono
frutto della scelta, della capacità e del judgement del management, che è quello che in definitiva
assicura il successo all’impresa.
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Il primo principio suggerisce di fare strategia e organizzazione di piattaforma piuttosto che di
singoli prodotti. L’articolazione estrema e il diverso valore dei componenti di un prodotto
complesso come l’automobile, il software, i prodotti ICT, i prodotti dell’aerospazio e moltissimi altri,
rendono impossibile che una singola azienda possa avere un successo stabile concentrandosi
solo sul prodotto finito. Nel passato l’IBM, che aveva lanciato i Personal Computer in tutto il
mondo, aveva visto via via erodere il valore dei suoi prodotti dai produttori di componenti
complementor, come i microprocessori di Intel e il software di Microsoft. Alla fine li ha abbandonati
passando ai servizi. È anche il caso dell’automobile, in cui il 90% del valore è prodotto da fornitori
esterni alla marca principale, che spesso sono più profittevoli della main contractor. L’eccezione è
offerta dalla Apple, che ha proposto prodotti “chiusi” sui componenti tecnologici, ma che sta
cambiando linea soprattutto sui contenuti che danno valore. I cinesi, grandi assemblatori, ormai
producono di tutto, a prezzi irraggiungibili.
Cusumano suggerisce allora che la strategia e l’organizzazione si concentrino sulla produzione di
quei componenti che contengano maggior valore e che consentano all’azienda di assumere la
“leadership di piattaforma”. L’area di management, perciò, ha per oggetto non solo le risorse
interne, ma l’intero ecosistema di fornitori, clienti, istituzioni che generano il valore dei prodotti. La
piattaforma o, come io l’ho chiamata, la “rete estesa di nodi vitali” (Butera, 2011a), per Cusumano
genera innovazione in tutti i punti della rete e un “feedback rafforzativo” fra i componenti e la
piattaforma stessa. Nascono così una nuova modalità di fare impresa e un nuovo stile di
leadership di piattaforma, illustrati a fondo nel volume nei casi Intel, Microsoft, Google, e Apple dal
2004.
In una situazione come quella dell’Italian Way of Doing Industry una simile indicazione è molto
importante: come mostra la nostra ricerca citata, le aziende di maggior successo in Italia hanno
scelto mercati internazionali di nicchia, strategie di focalizzazione su componenti di alta qualità e
ad alto valore, un’organizzazione a rete che guidano o in cui sono inserite. La mancanza di
imprese giganti e di disruptive product nell’industria manifatturiera italiana ha fatto diagnosticare a
molti una strutturale debolezza delle imprese italiane. La lettura del volume di Cusumano ci
conferma, piuttosto, che esse sono in linea con le imprese built to last di questo decennio appena
iniziato, e chi le vede come “brutti anatroccoli” riceverà una secca smentita. Il modello della rete
governata appare dunque la forma organizzativa dominante in questa fase (Butera e Alberti,
2011).
Il secondo principio è quello di rafforzare l’offerta di servizi innovativi, per contrastare la
commodificazione sia dei prodotti che dei servizi standardizzati. La “servitizzazione”, come da anni
scrive e insegna Giorgio Merli (Merli et al., 2010), è la modalità (a) di spostare il valore dai prodotti
soggetti ad una concorrenza insostenibile ai servizi associati ai prodotti (ad esempio assistenza
tecnica con alti margini su prodotti con basso margine; customer care come centro di profitto che
crea valore per il cliente; leasing di fotocopiatrici invece che loro produzione; affitto di flotte invece
di vendita di auto, ecc.), oppure (b) di generare servizi di qualità di cui tanto il mercato affluente
quanto quello povero sono assetati (informazioni, conoscenze, sanità, assistenza, istruzione,
trasporti, sicurezza, regolazione sociale, ecc.). In entrambi i casi, quando il livello di innovazione
dei servizi è alto (ossia è alta la corrispondenza ai bisogni, alla customer experience; la qualità e il
costo sono ragionevoli; il sistema tecnico organizzativo professionale è originale, ecc.), i servizi
generano ricavi elevati, contribuiscono fortemente alla generazione di valore per le imprese e per
la società, aprono nuove opportunità di creare impresa e lavoro e, soprattutto, non sono facilmente
copiabili.
La possibilità di arricchire i prodotti con i servizi è fondamentale per la tenuta di imprese o sistemi
di imprese che producono prodotti minacciati da una crescente concorrenza dei paesi BRIC. Il
caso di alcuni produttori di caldaie italiani che offrono non solo i prodotti ma anche i servizi di
installazione, alimentazione, manutenzione, certificazione con le forme contrattuali più convenienti
e amichevoli per il cliente, mostra come questo arricchimento del prodotto con il servizio non solo li
protegge dall’importazione di caldaie asiatiche, ma offre loro la possibilità di esportare prodotti di
qualità insieme ai servizi connessi.
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In un’economia in cui i servizi contano per oltre il 75% del Pil, si può comprendere quanto sia
importante questo principio. Generare servizi di alta qualità a basso costo è la sfida principale del
sistema produttivo italiano. Le imprese che offrono servizi finanziari, tecnologici, educativi, sanitari,
assistenziali sono quelle che dovranno cambiare maggiormente. Lo sviluppo dei servizi richiede
due processi convergenti di innovazione apparentemente divergenti: da una parte lo sviluppo di
organizzazioni e professioni innovative e centrate sul cliente e dall’altra l’industrializzazione delle
attività esecutive periferiche dei servizi. Guardando i dati del Paese finora più innovativo del
mondo, che ha la più alta quota di servizi – gli Stati Uniti – rileviamo che la percentuale dei
lavoratori della conoscenza è più bassa rispetto all’Europa: 38,65% negli Stati Uniti a fronte del
52,17% nel Regno Unito e del 41,49% in Italia (Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo, 2008).
Malone (Malone et al., 2011) spiega appunto che il processo di semplificazione dei task esecutivi
nei servizi è stato oggetto di una rivoluzione industriale negli Stati Uniti: pensiamo al software, a
McDonald’s, a Wal Mart, ecc.
Il terzo principio è, dal mio punto di vista, la creazione di capability all’interno dell’organizzazione.
Non si tratta di costruire quelle competenze molecolari allineate alla strategia, come da anni
propongono Kaplan e Norton con la loro Balanced Scorecard, ma piuttosto di sviluppare in modo
interattivo sia strategie di resistenza e di innovazione sia processi operativi, strumenti, tecnologie,
conoscenze, abilità, competenze capaci di generare resistenza e innovazione. Cusumano conduce
un rapido ma puntuale excursus sulle management sciences rilevando come, dopo un lungo
periodo in cui esse si erano concentrate sulle strategie alle quali far seguire, come conseguenza,
le scelte organizzative, «a metà degli anni ’90 si sviluppa un consenso che costruire capacità
organizzative può evolvere nel tempo ed è almeno altrettanto importante che scegliere una
particolare strategia e molto più importante che scegliere una burocrazia formalizzata di
pianificazione strategica». Cusumano documenta questo principio mostrando come la
competizione fra quelle imprese che seguivano un approccio sequenziale e quelle che invece
seguivano una modalità ricorsiva fra strategia e capacità organizzativa si è conclusa con la
sconfitta delle prime e la vittoria netta delle seconde: Nissan contro Toyota, JVC contro Sony. Il
successo di Microsoft e Apple è per Cusumano certamente attribuibile anche alla cura maniacale
di Bill Gates e Steve Jobs a sviluppare internal capabilities e attivare un processo di continuo
change management. Questo secondo approccio attiva due vie convergenti e sinergiche per
l’innovazione: oltre ai piani di innovazione top-down vengono mobilitate energie interne per
coinvolgere tutti a proporre innovazioni, rafforzando così lo scrigno di competenze da cui attingere
in fase di cambiamento, come scrive Suzanne Berger (Berger, 2005). Questo approccio implica
l’imperativo per il management a tutti i livelli di andare deep, di stare sul campo, di stare sul
ghemba. È il caso di Toyota, che con 350.000 dipendenti registra ogni anno 700.000 proposte di
miglioramenti accettati, grandi e piccoli. Ciò è ottenibile sviluppando progetti esemplari e
miglioramento continuo che generano innovazioni che si diffondono poi all’intero sistema che dà
luogo a continuo apprendimento, a sua volta generatore di nuove strategie e capability. Ciò
corrisponde all’approccio GICS (Gestione dell’Innovazione e del Cambiamento Strutturale)
(Butera, 2009) sviluppato da chi scrive in grandi programmi di innovazione in cui piani, progetti,
miglioramento continuo si sono intrecciati ricorsivamente cambiando insieme organizzazione,
tecnologie, persone: è il caso delle isole della Olivetti, dell’unificazione degli uffici delle entrate, del
sistema di customer care della Omnitel-Vodafone, della recente riorganizzazione degli Uffici
Giudiziari della Lombardia e molti altri. Ciò corrisponde anche a quanto rilevato nella nostra ricerca
sulle imprese dell’Italian Way of Doing Industry, la cui caratteristica distintiva è proprio l’interazione
veloce fra mercato, strategia, organizzazione, anima dell’impresa, qualità del gruppo dirigente
(Butera, 2011a). I casi di Luxottica, Geox, Illy, Alessi esaminati nella nostra ricerca da Alberti
(Alberti, 2011) mostrano che il processo di crescita imprenditoriale è stato sostenuto da due
capability organizzative chiave: (i) assorbire risorse (tangibili e intangibili) e competenze esterne
all’impresa e al distretto, e (ii) ricombinarle con quelle tipicamente distrettuali.
Il quarto è il principio del pull: partire dal mercato, dai bisogni del cliente e procedere a ritroso su
tutte le fasi di produzione del prodotto o servizio. Così si raggiunge un’elevata capacità di
affrontare le continue variazioni del mercato e di riaggiustare i processi e le strutture evitando che
le “burocrazie industriali autoreferenziate” oppongano resistenza al cambiamento e
all’innovazione. È l’inverso della tradizione dell’industrialismo della Ford T, basato sulla dominanza
nei processi produttivi in cui «i clienti potevano scegliere qualunque macchina che volevano
purché fosse il modello T e fosse nera». È invece la lezione di Toyota, un modello centrato sulla
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gestione dei continui cambiamenti di volumi e delle qualità. Ciò è stato rilevato anche nella nostra
ricerca sull’Italian Way: caratteristiche chiave delle migliori imprese sono la straordinaria capacità
di ascolto del cliente e del mercato e la capacità di ristrutturare sia i fattori della produzione che il
proprio mercato in base a questo. Esse costruiscono e cambiano i mercati, leggendo e
interpretando bisogni ed esperienze ancora prima che sia stata costruita la macchina produttiva,
invece che limitarsi a vendere ciò che hanno.
Il quinto principio riguarda le economie di gamma (economy of scope). L’economia di scala ha
dominato lo sviluppo industriale ed economico del secolo passato. Rimane ancora importante, ma
la capacità di trarre il vantaggio competitivo è passata dall’Occidente ai paesi BRIC. E questo non
solo da ora. Nessuna delle aziende studiate da Cusumano ha avuto successo sulla base delle
economie di scala: Toyota lo ha fatto sulla base del miglioramento dei processi, JVC
dell’engineering, Microsoft della capacità di ricerca e sviluppo e così via.
La risposta delle imprese occidentali alla competizione globale nel futuro non può essere centrate
sulla ricerca di economie di scala, ma sulle economie di gamma. Questo vuol dire innanzitutto fare
diversi prodotti all’interno della stessa struttura fisica e tecnologica producendo in grandi volumi
alcuni componenti comuni e differenziando i modelli o le feature, come ormai da decenni ha fatto,
ad esempio, l’industria automobilistica. Ma l’applicazione di gran lunga più rilevante dell’economy
of scope risiede nello sviluppo di attività ad alto livello di conoscenza come la ricerca, la
progettazione, il design, il marketing, lo sviluppo prodotti, la distribuzione, la logistica, la pubblicità,
gestiti non isolatamente ma attraverso la condivisione e il riuso delle conoscenze tra aree di
prodotti e tra funzioni diverse. L’economy of scope richiede un’alta capacità di knowledge
management e knowledge sharing.
Tutto ciò non è facile perché è possibile determinare ingorghi di informazioni o rigidità. Per cui, le
competenze manageriali per differenziare e integrare le aree di generazione di conoscenza non
sono facili da acquisire: questa è quindi una frontiera nello sviluppo del management del futuro. I
casi delle software factory e della produzione automobilistica, presentati da Cusumano alla luce di
una decennale ricerca, portano vasti e approfonditi esempi e riflessioni sui requisiti organizzativi
per sviluppare una economy of scope: l’efficacia ed efficienza dei team e delle strutture che
presidiano aree di prodotti e servizi e la loro integrazione, dai multi project team alle nuove versioni
delle strutture matriciali.
Il sesto principio riguarda la flessibilità, che diventa importante come e più dell’efficienza
(necessaria ma non sufficiente per lo staying power) su cui nel passato sono stati principalmente
misurati i risultati e progettati i cambiamenti. Cusumano si riferisce non solo alla flessibilità
operativa consolidata dalla dottrina e dalla pratica del flexible manufacturing system, ma
soprattutto a quella prontezza ad adattare strategia e struttura ai cambiamenti di mercato, di
contesto competitivo, di tecnologia, di costo dei fattori, di mutamenti normativi, di condizione di
sistema Paese. La velocità dipende da coppie di fattori congiunti: da una parte, la lettura del
cambiamento esterno anche quando i segnali sono deboli o ci si trova di fronte all’inaspettato,
accoppiata alla valutazione delle capacità di cambiare i propri prodotti, processi, strutture interne;
dall’altra, la prontezza di cambiare strategie e reperire le risorse finanziarie e umane per
riposizionarsi in una situazione competitiva, accoppiata alla capacità di cambiamento veloce e
integrato dei propri sistemi organizzativi, tecnologici, di gestione del personale. Ciò che i miei
maestri della scuola socio-tecnica avevano chiamato la “prontezza intrinseca di un sistema”. Il
caso citato da Cusumano è quello di Netscape, che con il suo browser diede l’accesso a Internet
anche ai non specialisti, riuscì a costruire un’organizzazione robusta e flessibile intorno a
un’invenzione geniale: crebbe così a una velocità straordinaria e a un certo punto raggiunse il più
alto valore di capitalizzazione della borsa di Wall Street. Per far ciò aveva adottato quello che
Cusumano e Yoffie (1999) chiamarono una judo strategy contro la sumo strategy del suo ben più
potente competitore, Microsoft. Tuttavia, Microsoft adottò a un certo punto una diversa strategia di
velocità e di flessibilità, rilasciando Explorer in tempi più veloci delle nuove release di Netscape,
oltre a creare una situazione di lock-in, pacchettandolo con Windows. La fine di Netscape si rese
inevitabile a causa dell’eccessiva sicurezza del proprio successo e della scarsa flessibilità
strategica, confessata dallo stesso Marc Andresseen: non aveva capito a fondo come il website
stava rivoluzionando il mondo di Internet.
Viene in mente un celebre caso italiano di segno inverso, quello della Olivetti negli anni ’70 di
fronte all’adozione giapponese delle tecnologie informatiche nei prodotti per ufficio, che sgretolava
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la base tecnologica meccanica su cui erano progettati e fabbricati i suoi prodotti. Olivetti in soli tre
anni – attingendo al proprio scrigno di competenze e con una modalità di cambiamento per
progetti esemplari – svelò non solo una notevole flessibilità nel riorganizzarsi radicalmente, ma
soprattutto spostò la fonte del suo vantaggio competitivo dalla pura efficienza produttiva alla
flessibilità di mercato, basata sulla capacità di cambiare i suoi prodotti ogni sei mesi (Butera,
2011b).
È quindi un nuovo modo di fare impresa radicato in esempi ed esperienze consolidate quello che
consente la nascita, lo sviluppo, l’anticipazione, la resistenza delle imprese esposte ad una
competizione globale e a farle diventare built to last. Assumere una leadership di piattaforma,
sviluppare servizi innovativi, sviluppare capabilities organizzative, ascoltare i clienti e il mercato,
perseguire economie di gamma, avere flessibilità operativa e strategica: questi sono i princìpi
estratti dalla ricerca e dall’esperienza di Michael Cusumano. Li abbiamo trovati consonanti con i
tratti dell’Italian Way of Doing Industry. Diffusione e sperimentazione richiederanno un grande
impegno collaborativo a imprese, scuole e università, istituzioni e richiederanno l’apertura di un
gran numero di cantieri di innovazione organizzativa: la questione dell’organizzazione e del lavoro
dovrà divenire in Italia e in Europa una rinnovata questione nazionale che riguarda le politiche, la
cultura, le competenze, la progettazione, la comunicazione, perché dobbiamo recuperare tempo e
opportunità perdute entro un mondo che sta cambiando a una velocità senza precedenti (Butera,
2011c).
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