Augusta
Sommaire
2010
DIRETTIVO ASSOCIAZIONE AUGUSTA
Sen Kroasch Gumbu – Il Vallone di San Grato
ad Issime, un patrimonio di bellezze naturali
e storiche: alcune osservazioni sul progetto
di sviluppo rurale.
COMITé de RÉDACTION
Président
Ugo Busso
Directeur résponsable
Elena Landi
Membres
Michele Musso
Luigi Busso
Rivista disponibile online
www.augustaissime.it
[email protected]
Photo de couverture
Disegno di Fortunato Dandrès detto “Ras” (*1925w1995), ultimo abitante del villaggio del Bioley (Vallone di Tourrison); il
padre Fortuné Jean Jacques, nato nel 1879, già detto “Ras”, per
le sue qualità fisiche e caratteriali fu soprannominato dagli issimesi di allora con il nome con cui s’indicava il re etiope: ‘ras’.
Collezione Luisella Ronc.
La photo de la quatrième de couverture
Issime, cartolina inizio ‘900.
Lo sperone roccioso chiamato Pirubeck,
prima del crollo parziale provocato dal terremoto del 1968.
“Pirubeck” non è per gli issimesi una semplice roccia, ma evoca nell’immaginario, racconti, leggende, poesie, ed espressioni; ha anche ispirato il nome di una nota rubrica del bollettino
parrocchiale, negli anni ’50-60 del ‘900, curata dal parroco di
allora.
2
SÉBASTIEN MAINIL
Les maisons Walser d’Alagna-Valsesia. Quand la technique se met au service
d’une intégration réussie en milieu alpin.
13
CLAUDINE REMACLE
Pierres écrites.
23
DONATELLA MARTINET
Chantoun o Laval?
30
JOSEPH-GABRIEL RIVOLIN
Bionaz: une colonie walser oubliée.
34
BARBARA RONCO Margitisch
D’housanha hentsch auch gmachut zseeme
um nöit gschénte matti.
Le case le costruivano anche assieme
per non rovinare i prati.
37
ROBERTO FANTONI
La cerealicoltura sul versante meridionale
del Monte Rosa in età tardo-medievale.
58
BATTISTA BECCARIA
Le leggende walser fonti per un’interpretazione
del fenomeno stregonico documentato
sulla catena alpina centrale e nordoccidentale
in età moderna.
66
JOLANDA STÉVENIN
Cenni storici sulla cappella di Ricourt ad Issime –
Saint Louis, Roi de France.
75
Autres photos: Sébastien Mainil, Claudine Remacle, Bruno
Genestreti, Michele Musso, Paola Cipriano,
Sara Ronco, Sebastiano Ronco, Guido Cavalli, Archivio Roberto Fantoni, Archivio JosephGabriel Rivolin, Marco Soggetto, Luigi Busso,
Rolando Balestroni, Vittorio De La Pierre, Willy
Monterin, Archivio Marco Aichino.
UGO BUSSO Schützerschdschoandsch
Zwian geitala ouf tur dan glétscher.
Due ragazzi su per il ghiacciaio.
78
GUIDO CAVALLI
Cornici artigianali e stampe dell’iconografia
popolare nell’area walser della valle d’Aosta
e del Piemonte orientale: alcune peculiarità.
80
MARCO SOGGETTO
Il relitto di Issime. Una storia dimenticata.
86
ROLANDO BALESTRONI
La bela mata dal Capio. Wisse frouwa tsch Kàppju.
La dama bianca del Capio.
89
Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles
et les photos.
Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007
Augusta: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina
Proprietario ed editore: Associazione Augusta
Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)
Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta
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WILLY MONTERIN
Gressoney-La-Trinité
Osservatorio meteorologico di D’Ejola
(m 1850 s.l.m.).
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IN MEMORIAM
Luciana Faletto Landi e Gustavo Buratti.
92
IMELDA RONCO Hantsch
Franzisch Maïa.
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A U G U S T A
Sen Kroasch Gumbu
Il Vallone di San Grato ad Issime
un patrimonio di bellezze naturali e storiche
Alcune osservazioni sul progetto di sviluppo rurale
Il Direttivo dell’associazione Augusta
Come noto, l’Associazione Augusta ha inviato delle osservazioni al Servizio valutazione ambientale dell’Assessorato territorio e ambiente della Regione Autonoma Valle d’Aosta, chiedendo che lo stesso esprimesse parere non favorevole in merito al Progetto 29/2009 “Interventi per lo sviluppo rurale del Vallone di San Grato”
commissionato dal Comune di Issime, e proponendo soluzioni alternative a quanto previsto nel medesimo.
Poiché si ha l’impressione che poche persone, anche ad Issime, conoscano tale Progetto in modo approfondito
ed idoneo a formarsi una propria opinione, basata sui contenuti dello stesso e non su quanto riferito indirettamente da terze persone, si propone qui di seguito un estratto (corredato di foto) delle osservazioni presentate
dall’associazione Augusta, alleggerito nella forma e nei contenuti degli aspetti più tecnici, al fine di renderne
più agevole la lettura e la comprensione.
I
l Vallone di San Grato nel suo stato attuale
mostra i segni, visibili sia nelle zone esposte che in quelle nascoste dai boschi, della
storia della sua colonizzazione. In effetti,
si tratta di un vallone di orientamento estovest di cui una larga fetta di versante esposto a sud è
stata nel medioevo divisa in lotti (particelle). Probabilmente in principio, per gli abitanti originari di Issime,
in seguito per i nuovi arrivati, i Walser. I Walser si sono
installati nel Vallone e vi hanno vissuto almeno a partire
dal XIII secolo, utilizzando una parte di queste grandi
particelle, dopo aver disboscato parte del territorio in differenti modi. Il paesaggio presenta, quindi, gli elementi
di modifica del territorio che ricordano i molteplici modi
di sfruttare la montagna a fini agricoli, sia estensivi (pascoli), sia intensivi (campi e prati). Questo esempio di
habitat diffuso, dove hanno coesistito delle popolazioni
di origine differente su un territorio limitato, è unico in
Valle d’Aosta. Queste differenti evoluzioni sono particolarmente ben visibili tra Prassevin e Zöin (Foto 1 e 2)
(zona dei mayen. Si precisa che per mayen, in töitschu
d’beerga, si intende ad Issime “l’unità rurale” ricompresa
tra 1300 e 1800 m.s.l.m., costituita da abitazioni permanenti, prati da sfalcio e campi, abitata tutto l’anno fino alla
prima metà del XIX secolo), e fra quest’ultimo e Réich,
passando per Vlüeckji (Foto 3), dove i rascard del XV
sec. raccontano i tentativi di utilizzo dell’adret (versante
esposto a sud) del Vallone a fini cerealicoli. Il vallone
di San Grato è l’unico esempio in Valle d’Aosta,
come già evidenziato, ad aver mantenuto intatta la
struttura fondiaria della colonizzazione, passata da
un insediamento temporaneo (della popolazione
romanza) ad un insediamento stabile (della popolazione walser).
Ciascun lotto ha conosciuto una storia agraria differente, che sarebbe da studiare approfonditamente, ma per
un occhio avvezzo è facile riconoscere che certi lotti
sono stati adibiti a pascolo, come il territorio di Toeifi
(Foto 4 e 5), e che altri hanno conosciuto uno sfruttamento intensivo (campi cerealicoli e prati da sfalcio), poi
riconvertiti nel corso del XIX secolo, probabilmente per
il bisogno di un alpicoltore di produrre grandi formaggi
a latte intero, zona di Invanh-Bühla, della famiglia Praz
di Gaby (Foto 7) e Toeifi-Gradunérp della famiglia Christillin di Issime.
Il territorio di Toeifi – Gradunérp è uno dei più affascinanti paesaggi dell’intero vallone di San Grato, per i valori
d’immagine e di scenario costituiti dall’eccezionale morfologia, dalla successione del bosco, pascolo e prateria,
e per la continuità dell’organizzazione agraria storica e,
non ultimo, per le soluzioni funzionali all’irrigazione, alla
fertirrigazione, molte le testimonianze di canali in parte
ancora utilizzati (Foto 6).
Appena a monte di Toeifi, si nota a Granir (zona di Invanh) (Foto 8), che il lotto circostante al grande stadel del
XV-XVII sec. è circondato dai resti di terrazzamenti cerealicoli che non sono interclusi da muri, come avverrebbe
se la zona fosse adibita anche a pascolo. A Méttelti (Foto
9), invece, fino all’inizio del XX secolo, il lotto è stato utilizzato come habitat per delle colture più intensive e la
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A U G U S T A
(Foto 1) In primo piano i villaggi di Bühl e Zöin visti dalla mulattiera alta, dan uabre Weg,
antica ed attuale via di transumanza. Sullo sfondo le case di Prassevin.
(Foto 2) Piana di San Grato – Hubelmatti. In primo piano i grandi muri chiamati “d’Barru” realizzati come cumuli
di spietramento a difesa dei prati e degli antichi campi. La barriera ha la funzione di rompere il fronte e di contenere
entro un’area limitata la valanga che scende dal Galm. Sullo sfondo, in basso il villaggio di Bühl e, in alto di Zöin.
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A U G U S T A
particella è ancora attualmente contornata da un cordone di muri in pietra (Foto 9-10-11), alcuni in cattivo stato
di conservazione, ma che raccontano la storia di questa
particella dove le colture intensive si sono mantenute,
mentre le vicinanze, (es. Toeifi e Invanh) erano dedicate all’allevamento estensivo del bestiame (Nella foto 11 è
evidente il diverso uso del suolo, sullo sfondo il pascolo
di Toeifi, e in primo piano i prati del Méttelti un tempo
sfruttati a coltura intensiva).
Non si tratta che di qualche esempio, ma che mostra
bene la ricchezza del paesaggio culturale di questo Vallone, unico in Valle d’Aosta perché vi hanno coesistito un
habitat temporaneo (alpeggi) e un habitat permanente
(mayen – beerga).
Due sono le mulattiere che salgono il fianco esposto a
sud del Vallone, una si snoda nella fascia bassa del versante detta dan undre Weg (mulattiera di sotto) (Foto 4),
anche chiamata da vuss Weg (mulattiera pedonale) e l’altra, appunto, che si snoda nella fascia alta del versante
detta dan uabre Weg (mulattiera di sopra) (Foto 9 e 12)
o d’chünu Weg (mulattiera per le vacche). Sia la suddetta
mulattiera bassa, sia la mulattiera alta, rispettivamente a
valle e a monte di Méttelti, permettono di raggiungere tal
luogo, e i sentieri (gassi), che vi penetrano dall’alto e dal
basso, delimitati da muretti o da lastre o pietre inserite
verticalmente (blatti) (Foto 4-11-13), per impedire che al
passaggio delle vacche queste ultime uscissero nei campi, sono ancora visibili.
In effetti, i due differenti percorsi, dan undre Weg e dan
uabre Weg, paralleli alle curve di livello, lungo i quali si
distribuiscono le particelle realizzate in maniera diffusa,
perché appartenenti a proprietari differenti al momento della colonizzazione del territorio, corrispondono ai
camminamenti di penetrazione nel bosco e allo schema
direttivo della messa in coltura stessa del Vallone di San
Grato.
La larghezza minima rilevata della mulattiera alta “dan
uabre Weg”, che consente il passaggio del bestiame, è di
60 cm, mentre la massima è di 100 cm. Per la maggior
parte del suo sviluppo la mulattiera attraversa zone con
più o meno accentuata pendenza soprattutto nel senso
trasversale (determinato dal declivio della montagna).
Ciò ha comportato la necessità di accorgimenti per ovviare le inclinazioni: si sono usati perciò muri a secco di
(Foto 3) Parte alta del Vallone di San Grato visto dai laghi – Siawa. Da destra la cresta dell’alpeggio di Vlüeckji,
in alto a sinistra la zona umida della Mongiovetta ed in basso, al centro, la zona umida di Réich.
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A U G U S T A
(Foto 4) Alpeggio di Toeifi
con la casa di Gradunérp.
sostegno a valle e, se occorreva, anche a
monte, per contenere il terreno, mai oltre
il metro e mezzo. Il fondo calpestabile del
percorso è prevalentemente in terra battuta,
a tratti erboso (Foto 12). La pavimentazione
in pietra, infatti, rappresenta uno dei principali fattori di rischio per danni agli zoccoli
degli animali, oltre a provocare scivoloni e
cadute.
La mulattiera bassa, pedonale, “dan undre
Weg”, invece presenta parte del percorso lastricato. Le lastre sono posate di piatto e affondate nel terreno, si sfrutta, perché stiano
ferme, il loro peso.
L’intervento per lo sviluppo rurale del Vallone di San Grato, commissionato dal Comune di Issime, intende realizzare una strada
poderale, lunga quasi 10 km e larga oltre 3
m di sola carreggiata, all’interno del Vallone di San Grato, un acquedotto che capti le
sorgenti che alimentano le zone umide, una
rete di distribuzione di energia elettrica e
una centrale idroelettrica.
(Foto 5) Alpeggio di Toeifi e Gradunérp vista da ovest.
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A U G U S T A
(Foto 6) I resti di un canale per l’irrigazione nei pressi di Toeifi.
Tali opere cancellerebbero definitivamente le bellezze
e le peculiarità di questo territorio: l’antica mulattiera di
transumanza (dan uabre Weg) e la continuità della trama
dei sentieri; le zone umide di Réich, Mongiovetta, Mühni
(il cui insieme copre un’ampia area alla testata del Vallone, ricca di ruscelli e fonti - foto 3) e Bülti nei pressi
di Vlüeckji; i boschi di piante secolari (abete, larice, pino
cembro...); gli habitat naturali di specie rare e protette,
animali e vegetali; elementi architettonici caratterizzanti
il paesaggio walser, il cui esempio tipico sono le lastre e i
blocchi scolpiti in pietra che delimitano le mulattiere.
Nel contempo la costruzione di una strada comporterebbe l’inserimento di nuovi e impattanti elementi: muri di
sostegno e scogliere di altezza fino a 5 m; tornanti; parcheggi; transito di veicoli motorizzati.
L’interposizionamento di una nuova viabilità rurale, non
solo distruggerebbe un antico percorso provocando un
danno irreparabile, ma creerebbe un diaframma rispetto alla continuità culturale paesistica storica, spezzando in due parti il versante, rompendo l’orditura della
sentieristica e dei corsi d’acqua, inserendo nel paesaggio elementi estranei allo stesso, come, per esempio, i
guard rail.
A questo proposito forniamo alcuni dati: si prevede la
realizzazione di muri di sostegno per quasi 5 km con altezze che variano da 1,50 m a 3,50 m, e di scogliere per
quasi 3,5 km con altezze che arrivano anche a 5 m.
Vogliamo qui di seguito evidenziare alcuni aspetti di forte
impatto sul paesaggio naturale e culturale che il progetto in questione andrebbe a determinare:
• Si evidenzia, nel tratto Toeifi – Méttelti, il grave
danno al paesaggio che deriverebbe dall’attraversamento, da parte della poderale, della mulattiera bassa
dan undre Weg, nonché dal passaggio attraverso l’anfiteatro di pascolo che contorna Toeifi e Gradunérp (Foto
4). Infatti, ciò comporterebbe la distruzione della mulattiera (gassu) che collega l’abitato di Méttelti, delimitata in
parte da muretti (Foto 11), e in parte da pietre inserite
verticalmente (blatti) (Foto 13). L’importanza del paesaggio storico della zona del Méttelti è già stata evidenziata.
• La realizzazione della poderale si sviluppa dalle abitazioni di Zöin, per passare per Mattu, Méttelti, Invanh,
Tannu, Vlüeckji, Mundschuvet, Mühni, sulla sinistra orografica del vallone di San Grato. Per questo tracciato
il Progetto ricalca l’antica mulattiera storica che,
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A U G U S T A
d (Foto 7) In primo piano la baita d’alpeggio
della Bühla, sullo sfondo lo stadel di Granir
circondato dai resti di terrazzamenti cerealicoli.
come già evidenziato, è quella utilizzata
per la transumanza, detta dan uabre Weg
(mulattiera di sopra) o d’chünu Weg (mulattiera
per le vacche) (Foto 1, 3, 7, 9, 12).
Questa scelta appare in netta contraddizione con quanto si afferma nella Relazione
progettuale (pag. 19), dove ci si prefigge come
obiettivo ‘la valorizzazione e salvaguardia del
vallone di San Grato con interventi che tengano
conto delle particolarità agricole, ambientali e
storico culturali’, e nello specifico si evidenzia
che ‘i tracciati dovranno essere compatibili con
gli aspetti paesaggistici, naturalistici e storicoculturali presenti, evitando il più possibile di intaccare tali patrimoni’.
Inoltre appare destituito di fondamento e
fuor viante identificare la mulattiera che
collega San Grato a Mühni, quella bassa (definita erroneamente nella Relazione progettuale
Walserweg, pag. 57) come sola mulattiera storica, e di maggior fruizione turistica dell’intero
(Foto 8) Lo stadel di Granir circondato dai resti
di terrazzamenti cerealicoli.
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A U G U S T A
(Foto 9) Méttelti, in alto a sinistra si distingue un tratto della mulattiera alta, dan uabre Weg; in basso, le case del Méttelti,
unite alla mulattiera alta da un collegamento ‘gassu’ evidenziato nella foto dai muretti in pietra che lo delimitano.
(Foto 10) Méttelti, particella ancora contornata da un cordone di pietre
per proteggere e delimitare l’appezzamento adibito a coltura cerealicola.
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A U G U S T A
(Foto 11) Vista da Méttelti. In basso la piana
di Toeifi e Gradunérp,
in alto in primo piano le
case di Méttelti. Si individua chiaramente, dai
muri laterali, il tracciato
della mulattiera ‘gassu’
che dalla ‘chünu Weg’ o
‘dan uabre Weg’ scende
al Méttelti e quindi a
Toeifi e Gradunérp. È
evidente il diverso uso
del suolo, sullo sfondo
il pascolo di Toeifi, e in
primo piano i prati del
Méttelti un tempo sfruttati a coltura intensiva.
La porzione del ‘gassu’ da Méttelti a Toeifi
sarebbe cancellata dal
tornante della poderale
prevista.
vallone. In realtà, la mulattiera alta ‘dan uabre Weg’ è
molto apprezzata dai turisti per l’apertura panoramica e
la vista suggestiva sull’intero vallone.
• Nel tratto di poderale Invanh – Tannu – Vlüeckji il
progetto omette di menzionare l’esistenza, nei pressi di Vlüeckji (precisamente, nella zona detta Bülti),
subito a monte della vasca di captazione dell’acquedotto già esistente, di un laghetto e di alcune risorgive (Foto 14). Nulla è detto, quindi, sull’impatto della
poderale su tale ambiente, in particolare sulle eventuali
conseguenze a danno della zona umida e della captazione
dell’acqua per l’acquedotto. Parimenti, nulla è detto sulle opere necessarie alla realizzazione della poderale, in
considerazione della natura paludosa del terreno, quali,
ad esempio, i drenaggi. Poco prima di tale zona umida e
poco oltre la stessa, il tracciato richiede la realizzazione
di imponenti scogliere (la cui altezza è prevista addirittura intorno a 5 m), che comportano notevoli sbancamenti
e riempimenti.
• Nel tratto tra Vlüeckji e Mühni - zona boschiva ad
alta densità, habitat di alcune specie protette di uccelli
e mammiferi - il progetto prevede la realizzazione di due
serie di tornanti con un impatto notevole della poderale
in questo tratto, con un imponente opera di sbancamento
e di riempimenti con scogliere alte alcuni metri.
• Altro punto di particolare importanza per l’impatto
sull’ambiente naturale è il “bivio” Méttiu, Méttiu-Réich.
Innanzitutto, destano perplessità le dimensioni di tale bivio, che appaiono proprie di una strada di categoria superiore e non di una poderale. Si nutrono seri dubbi che
questa diramazione “consente proseguendo nei prati sottostanti Mettiu di raggiungere Reich e quindi il versante
opposto del vallone oltrepassando il torrente Walkchunbach
con un semplice ponte in legno” come afferma la Relazione
progettuale a pag. 20. In realtà, in questo tratto la poderale necessita di veri guadi perché passa a monte della
confluenza, in un unico torrente, delle acque provenienti dalla Mongiovetta, da Réich e da Mühni, ed attraversa,
quindi, una zona ricca di ruscelli e corsi d’acqua, di particolare interesse naturalistico. Si precisa che la poderale
passerebbe proprio nella zona descritta dallo stesso Progetto (in un altro punto a pag. 138), laddove si afferma
che le acque che confluiscono a formare il torrente Walkchunbach “si originano nei pressi di Mettiu a valle delle
importanti zone umide di Reich e Mungiuvetta, percorse
da ruscelli e rivi che nel periodo di scioglimento nivale forniscono portate significative”.
• In merito al tratto di poderale Réich – Buadma - Tschucke si osserva che il tracciato ricalca, sostituendovisi, il
tracciato dell’antico sentiero, definito nel Progetto “Sentiero dei pescatori”. Il punto di maggiore criticità pare quello costituito dalla serie di tornanti prevista per superare
il dislivello di 80 m tra Réich e Buadma. Desta perplessità che per collegare due località poco distanti tra loro
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A U G U S T A
(Foto 12) Un tratto della mulattiera alta
“dan uabre Weg” nei pressi di Invanh.
in linea d’aria sia necessario uno sviluppo lineare
di ben oltre 1 km. Ciò appare significativo delle
difficoltà di costruire una poderale nel vallone di
San Grato. Inoltre, tale tratto di poderale sarebbe
visibile da quasi tutte le località del versante sulla
sinistra orografica.
• Più in generale, si osserva che non appare
condivisibile l’ottimismo contenuto nella Relazione a pag. 19 in merito all’impatto visivo
della poderale. Infatti, quantunque la poderale tra
Méttelti e Mühni sia poco visibile dall’escursionista mentre questi percorre la mulattiera bassa,
occorre evidenziare che la stessa è visibile in tutto
il suo impatto sul paesaggio non appena l’escursionista si diriga verso i Laghi ed il Monte Crabun, ossia due delle mete preferite dai turisti, o
si muova nella destra orografica, avendo, quindi,
una visione d’insieme del tratto di versante sinistro ricompreso tra Toeifi- Méttelti fino a Mühni.
Tutto questo in netto contrasto con quanto
affermato a pag. 255 della Relazione progettuale in ordine all’impatto sul paesaggio, che
sarebbe il minore possibile in quanto il tracciato “si svolge per la maggior parte in un contesto
defilato rispetto ai canali di fruizione più significativi”. Quest’ultima affermazione appare smentita
anche dal fatto che la mulattiera alta è, in verità,
più panoramica di quella bassa. Il tratto tra Réich
e Tschucke sarebbe comunque visibile dall’escursionista che percorrerebbe la mulattiera bassa.
Quindi, in conclusione, si può affermare che
la poderale avrebbe un impatto visivo negativo innegabilmente importante.
• Relativamente alla captazione dell’acqua dalle
fonti site a monte di Stein e di Mongiovetta, si evidenzia l’importanza di tali fonti sull’equilibrio delle
zone umide sottostanti, rispettivamente di Mühni
e Mongiovetta. Nella Relazione (pag. 275) si pre(Foto 13) Méttelti, particolare di un tratto della mulattiera (gassu) di collegamento fra Méttelti e la mulattiera bassa dan undre Weg che presenta le caratteristiche pietre posizionate di taglio che impedivano
agli animali di entrare nei campi.
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A U G U S T A
(Foto 14) Il piccolo lago al Bülti nei pressi di Vlüeckji.
sume che la captazione dell’acqua non alteri l’equilibrio
idrico di tali zone, e che non arrechi danni all’ecosistema, rimandando le verifiche necessarie all’eventuale fase
esecutiva del Progetto. Si osser va che la zona umida
della Mongiovetta (Foto 15) è alimentata da due fonti: una posta a nord della zona stessa, che verrebbe
contornata dalla poderale (v. pag. 32 della Relazione), e una posta a ovest, che verrebbe captata per
l’acquedotto. La Relazione afferma che le zone umide
sono vincolate dall’art. 34 della L.R.11/98, ma bisogna
aggiungere, in riferimento all’Allegato A del PTA (Classificazione dei corpi idrici regionali e delle aree a specifica tutela), che i laghi e le zone umide (di cui all’art. 40
del Piano Territoriale Paesistico regionale e quelli di cui
all’art. 34 della L.R. n.11/98 e s.m.i.) sono identificati tra i
“Corpi idrici di specifica tutela classificati di particolare pregio”. In conclusione, le maggiori perplessità
sono date dal fatto che il Progetto prevede un uso
intensivo di poche fonti, tutte situate a monte del
bacino imbrifero del Vallone, di cui quella della Mongiovetta ne costituisce una delle maggiori risorse idriche,
come d’altronde evidenziato dallo stesso progetto a pag.
138, ove si dice che “l’asse centrale del vallone di San Grato è percorso e caratterizzato per gran parte dall’azione di
incisione prodotta dalle acque del T. Walkchunbach che si
originano nei pressi di Méttiu a valle delle importanti zone
umide di Réich e Mongiovetta”.
• Il Progetto prevede la realizzazione di una centrale
idroelettrica in località Jansérp, di quattro micro centraline abbinate all’acquedotto, situate a Mühni, Mongiovetta,
Réich e Vlüeckji e, ciononostante, di una linea in media
tensione per l’apporto di energia elettrica dal piano. Una
soluzione progettuale definita “mitigata” prevede, invece,
la realizzazione delle sole quattro micro centraline e la
“predisposizione per un’eventuale futura elettrificazione”
(v. pag. 38 del Rapporto di sintesi) attraverso la posa dei
cavidotti nella trincea dell’acquedotto. Pare, evidentemente, un semplice rinvio della realizzazione di quanto
viene momentaneamente accantonato, altrimenti quanto
realizzato, rimanendo scollegato dalle linee elettriche
presenti nel piano, si tradurrebbe in un’opera inutile e in
uno spreco di risorse.
La centrale idroelettrica di Jansérp sarebbe produttiva
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A U G U S T A
(Foto 15) Zona umida della Mongiovetta – Mundschuvet, uno degli habitat naturali più affascinanti del Vallone.
solo per pochi mesi all’anno ed avrebbe una produzione media annua certamente insufficiente a soddisfare il
fabbisogno energetico dei fabbricati presenti nel vallone.
Ecco perché si rende necessario apportare l’energia elettrica attraverso la linea da Fornas. La centralina utilizzerebbe l’acqua captata alla Mongiovetta, a Réich e a Méttiu,
che sarebbe convogliata in un dissabbiatore e da qui condotta ad una vasca di carico prevista a Buadma. Pertanto
si dovrebbe realizzare una condotta forzata (rettilinea)
lunga 1650 m, oltre ai 300 m di tubazione tra le opere di
presa e il dissabbiatore, con relativi scavi. Inoltre, sulla
condotta forzata si innesterebbero altre due condotte laterali, provenienti l’una da una vasca prevista a Pianh per
raccogliere l’acqua proveniente dalla zona di Simulettu,
l’altra dalla vasca prevista per l’acquedotto a Tannu; esse
sono lunghe rispettivamente 600 m e 300 m.
In merito alla rete di distribuzione elettrica si è rilevato,
innanzitutto, il notevole impatto paesaggistico della linea
aerea di media tensione Fornas - Hantschécku, la cui lunghezza è in 1800 m e comporta l’apertura di un varco di
sei metri richiedente l’abbattimento totale di oltre 1400
alberi adulti (v. pag. 246 della Relazione); i tralicci avrebbero un’altezza variabile da 9 a 14 metri fuori terra.
Inoltre, la rete di distribuzione (per lo più interrata, affiancata all’acquedotto) attraversa siti di grande interesse floristico o è realizzata lungo sentieri storici (non solo
lungo la pista in progetto). Sono, inoltre, previste numerose cabine di trasformazione.
Pertanto, già dalle stesse tabelle valutative delle opere
qui descritte (v. pag. 355 e ss.gg della Relazione) emergeva il loro impatto negativo in relazione a quasi tutte le
voci, soprattutto, ovviamente a quelle di carattere naturalistico.
È altresì noto che la Giunta regionale della Valle
d’Aosta con delibera n. 1127 del 23 aprile 2010
(delibera disponibile sul sito ufficiale della Regione
Autonoma Valle d’Aosta) ha espresso una valutazione negativa sulla compatibilità ambientale del progetto di realizzazione degli interventi per lo sviluppo
rurale del Vallone di San Grato nel comune di Issime, proposto dal Comune di Issime, per le motivazioni espresse nel parere vincolante della Direzione
tutela beni paesaggistici e architettonici dell’Assessorato istruzione e cultura e del Servizio valutazione
ambientale dell’Assessorato territorio e ambiente.
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A U G U S T A
Les maisons Walser d’Alagna-Valsesia
Quand la technique se met au service
d’une intégration réussie en milieu alpin1
Sébastien Mainil*
« Toute architecture naît de la terre et des hommes issus de
cette terre, en harmonie avec les exigences de la vie et des
évolutions de celle-ci dans le milieu. Ainsi naît le goût, le
style en un mot : la tradition. » 2
C
ette citation du célèbre architecte turinois
Carlo Mollino à propos des habitations traditionnelles valdotaines aurait très bien pu
s’appliquer aux maisons Walser d’Alagna-Valsesia tant chaque intervention, chaque évolution, chaque détail trouvent leur justification, mûrie et
réfléchie dans la recherche d’une intégration cohérente
au sein de l’environnement alpin. Ici, le hasard n’a pas sa
place et les coïncidences n’existent pas.
Les Walser, peuple d’origine germanique implanté initialement dans le Haut-Valais, se sont dispersés dès la fin
du XIIe siècle à travers l’arc alpin en empruntant les cols
dégagés à l’époque. C’est ainsi que des habitants de Saas
(Haut-Valais suisse) répondent au souhait des seigneurs
locaux d’occupation de nouvelles terres et fondent au
XIIIe siècle3 la colonie de Macugnaga dans la vallée de la
rivière Anza après avoir traversé le Mont Moro. Au début
du XIVe siècle, quelques habitants de Macugnaga créent
à leur tour un habitat permanent à Pedemonte et Pedelegno (deux futurs groupements d’Alagna) sur des pâturages de mi-saison (dits aussi alpages de mai). D’autres
colons semblent être venus de Gressoney4, village situé
dans la vallée voisine.
Cette colonisation sur des terres jusqu’alors vierges de
toute occupation humaine a nécessité une observation et
une adaptation à un milieu hostile. L’organisation sociale
des hameaux, l’implantation particulière des habitations,
l’agencement des locaux au sein de ces dernières en sont
entre autres le témoignage concret.
La recherche d’une solution optimale dans le domaine
constructif et le développement d’un savoir-faire pointu
de la construction en bois peuvent s’observer au sein
des édifices d’un des plus anciens groupements d’Alagna appelé Im Oubre Rong (ou Ronco Superiore)5. Deux
maisons de cet ensemble exceptionnel6 (fig.1) ont été acquises par la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Piemonte et deux autres par la Fondazione
Internationale Monte Rosa. Des travaux de restauration
ont été menés de 2001 à 2003. Ce chantier a apporté des
informations précieuses sur l’évolution technologique et
typologique des maisons d’Alagna en dévoilant les détails
constructifs primitifs de ce type de bâtiment.
Aux origines des habitations
d’Alagna-Valsesia
Comme dans la plupart des implantations Walser, les
Ingénieur-Architecte, Faculté Polytechnique de Mons et Maître en conservation de Monuments et Sites, Centre International Raymond Lemaire - Faculté Catholique de Leuven
1
Cet article se base largement sur le mémoire de fin d’études de l’auteur : Mainil S., Les maisons Walser d’Alagna. Etude et
proposition de refonctionnalisation (mémoire de fin d’études – FPMS), Mons, 2003.
2
Citation de Carlo Mollino dans la préface de Berton R., Architecture valdotaine et son enracinement dans le paysage, Genova,
1967.
3
Les actes les plus anciens traitant de cette colonie Walser remontent à 1256.
4
On retrouve d’ailleurs de nombreux points communs entre les habitations de Gressoney (Val d’Aoste) et d’Alagna tant dans
leur organisation que dans leur aspect extérieur ou leurs aspects techniques.
5
Le groupement d’Im Oubre Rong constitue l’une des plus anciennes parties d’Alagna et comprend cinq constructions. Il se
développe au sud du torrent Mud qui a donné son nom à l’alpage dont le groupement fait partie.
En 1025, l’empereur Corrado il Salico accorde l’alpage à l’évêque Pierre de Novara. On retrouve des traces de ces terres au
début du XIIème siècle. A cette époque, elles appartiennent à l’église San Giulio d’Orta. En 1138, elles passent aux mains
du monastère clunisien de San Pietro de Castelletto. En 1249, l’abbaye est supprimée par la famille Biandrate qui reprend
les terres sous sa domination. On peut émettre l’hypothèse que la colonisation Walser de l’alpage Mud et donc d’Im Oubre
Rong s’est conclue avec la famille Biandrate. Les premiers colons se seraient d’abord installés un peu plus haut sur ce
versant de la montagne après avoir traversé le col Mud. Après l’assèchement d’une source, ils seraient descendus vers les
terres où se situent les groupements actuels d’Oubre Rong, Rong et Pedemonte.
6
Le caractère exceptionnel de ces constructions réside dans leur préservation quasi-totale de toute transformation. En effet,
les habitations obsolètes ont souvent été détruites ou intégrées dans les processus de transformation. Des documents d’archives traitent en effet de la récupération des matériaux de construction.
*
— 13 —
A U G U S T A
Fig. 1: Schéma d’implantation du groupement d’Im Oubre
Rong (Ronco Superiore).
1 et 2 : maisons acquises et restaurées par la Soprintendenza
per i Beni Ambientali ed Architettonici del Piemonte. 3 : étable – fenil, propriété de la Fondazione Internationale Monte
Rosa. 4 : maison, propriété de la Fondazione Internationale
Monte Rosa. 5 : maison, propriété privée.
habitations primitives d’Alagna auraient été séparées du
fenil et de l’étable7.
Les premières maisons d’Alagna se rapprocheraient typologiquement d’une petite habitation temporaire en bois
avec socle de pierre telle que construite dans les alpages
de mi-saison du Haut-Valais. Un exemple d’une telle habitation à pièce unique et à foyer central se retrouve à
Oubre Rong.
Par ailleurs, des étables-fenils (ou Stodal Bai) étaient
construits au voisinage des maisons. La base, construction mixte pierre-bois, renferme l’étable. Le fenil s’appuie
sur celle-ci, par l’intermédiaire de neuf coins tronco-pyramidaux en bois. Ceux-ci sont encastrés par leurs extrémités dans les poutres de support du plancher. Le vide
ainsi créé empêche la remontée de l’humidité, l’attaque
des rongeurs et assure l’aération du fenil d’où s’échappent les gaz de fermentation. Une ventilation optimale et
une bonne conservation des produits emmagasinés sont
ainsi garanties.
Le groupement d’Oubre Rong conserve également une
construction de ce type (fig. 2). On retrouve entre autres
ces structures (dites greniers-champignons) dans la
région du Haut-Valais ainsi que dans d’autres colonies
Walser (Issime et Gressoney8, Bosco Gurin9). Cette technique est également diffusée à travers toute l’Europe
(depuis la Scandinavie jusqu’à la Galice, les Asturies et
le Portugal du nord) et au Japon. Les constructions sont
toutes destinées à accueillir un espace de stockage des
récoltes ou d’objets de valeur.
Vers une construction
unitaire traditionnelle
Vers la fin du XVe siècle, la maison
évolue vers sa configuration traditionnelle et généralise les techniques constructives (fig.3).
Le corps de l’habitation est formé
d’un noyau central à plan généralement carré et construit en empilement de rondins. Il repose sur
une base en pierre maçonnée à la
chaux. Des loggias, formant une
Fig. 2: Supports-champignons de la
structure en bois de l’étable-fenil : un
coin en bois s’encastre en son sommet dans la poutre du plancher (Photo : Sébastien Mainil, mai 2003).
Un acte de 1331 mentionne la vente d’une propriété à Pedemonte avec habitation, étable, grenier, ce qui porte à croire à une
séparation des fonctions à l’époque.
8
Val d’Aoste
9
Tessin
7
— 14 —
A U G U S T A
Fig.3: Axonométrie explosée de la maison-musée de Pedemonte : détail de la structure et des techniques utilisées.
Source : Mirici Cappa M., Ambiente e sistema edilizio negli
insediamenti walser di Alagna Valsesia, Macugnaga e Formazza in Quaderni di cultura alpina n°55, Priuli & Verlucca
Editori, Ivrea, 1997.
sation semblables, subissant si besoin est des modifications minimes. Le rez-de-chaussée (base en pierre) reprend le dénivelé du terrain et comprend l’étable et le
séjour hivernal de la famille. Le premier étage abrite les
chambres. La division en quatre cellules égales correspond à la construction modulaire de la structure. L’accès
à chaque local se fait via la loggia qui entoure le noyau
central. Le second étage est constitué d’un fenil (Stodal) ainsi que d’un petit espace clos servant de magasin
à provisions (Spicher). Les loggias prennent une place
importante dans les maisons d’Alagna. Elles constituent
de nouveaux espaces de travail (espaces de séchage et
de battage des céréales, remise à outils), de vie (table
à rabats) et de communication (avec l’extérieur et entre
locaux d’un même étage).
L’organisation d’une maison d’Oubre Rong atteste de la
transition entre constructions séparées et fonctions centralisées en un seul édifice. Cette nouvelle organisation
coïncide avec le changement climatique du « petit âge
glaciaire » et exploite au maximum les apports de chaleur. La construction en bois y est maintenue voire même
amplifiée (notamment pour ses qualités isolantes, la disponibilité du matériau et le savoir-faire des constructeurs). La chaleur dégagée par le four et les animaux est
utilisée pour chauffer les chambres de l’étage supérieur.
Ces apports sont bloqués dans leur montée par le fenil
et transversalement par le foin mis à sécher sur les traverses des loggias. Les ouvertures sont limitées en taille
et en nombre. La maison est orientée au sud pour profiter des apports solaires tandis que la façade nord – côté
pente – est réduite au maximum10. Les troncs constituant
la structure de l’étage des chambres sont plus travaillés
et donc plus jointifs. Les ouvertures entre ces bois sont
calfeutrées à l’aide de mousse, d’argile ou de tissu. L’absence d’escalier intérieur et de liaison entre locaux limite
toute prise d’air et atténue les pertes de chaleur.
L’acte de construction c’est …
structure poteau-poutre, l’entourent sur trois à quatre côtés selon la morphologie du terrain.
Les planchers sont constitués de deux nappes de poutres,
disposées perpendiculairement entre elles. Le toit, couvert de lauzes disposées en écailles, présente un large
dépassement. Il crée avec les loggias un subtil jeu d’ombre et de lumière, d’opacité et de transparence.
La maison-type évolue. Les différentes fonctions sont intégrées sous le même toit. La maison devient ainsi une
construction unitaire : unité de travail, de production, de
transformation et de conservation des produits.
Les maisons d’Alagna présentent un plan et une organi-
… des matériaux
Les bois fournis en abondance par le déboisement des
versants de la montagne en vue d’obtenir des terrains
propres à l’exploitation agricole et pastorale constituent
le principal matériau de construction11 des maisons.
Les principales essences utilisées sont des résineux
parmi lesquels figurent en première place le mélèze et
l’épicéa. Ces derniers figurent parmi les plus résistants
mécaniquement et les plus durables. A l’origine, d’autres
espèces issues du processus de défrichement étaient
également utilisées : des pins ainsi que des feuillus (frêne, chêne).
Un ou plusieurs étage(s) sont semi-enterré(s) et sont protégé(s) du vent et du gel, minimisant de la sorte les déperditions
thermiques.
11
Un point est encore à éclaircir à propos de l’utilisation de bois frais ou sec. Aucun document n’y fait référence. On peut
toutefois envisager l’utilisation de bois vert vu le besoin d’une construction rapide (au moins au début de la colonisation).
10
— 15 —
A U G U S T A
Les pierres utilisées pour l’édification des bases des
constructions sont ramassées dans les champs ou extraites de carrières toutes proches. Le liant est constitué de
chaux hydraulique fabriquée dans des fours locaux.
… une main d’œuvre spécialisée
Les bûcherons-charpentiers du début de la colonisation
laissent peu à peu la place à une main d’œuvre spécialisée.
Ce savoir-faire constructif, initialement aux mains d’une
poignée d’hommes issus des migrations, s’est transmis,
répandu et perfectionné. Dès le XVIe siècle, on assiste à
une division du travail : travaux de maçonnerie, de charpenterie ou de taille des pierres de couverture (lauzes).
La charpenterie est le corps de métier le plus développé
si bien que des maîtres bâtisseurs sont appelés dans les
régions voisines, diffusant leur technique perfectionnée
hors de leur vallée.
… une organisation de chantier
L’organisation d’un chantier de construction est connu
dans la vallée voisine (Valle Vogna, très liée historiquement à Alagna) grâce à des traces de contrats. Ceux-ci
étaient signés à la Saint-Jean et prévoyaient la construction
des maisons selon un modèle établi (parfois en référence
à une autre habitation). Les matériaux sont fournis par
le maître d’ouvrage. L’esprit communautaire perceptible
dans de nombreux aspects de la vie quotidienne s’illustre
lors des préparatifs de la construction. Chaque maison
envoie un représentant chargé d’aider à transporter les
troncs abattus jusqu’au chantier12. L’aide fournie est récompensée par un pain et une bouteille d’eau-de-vie13.
La construction d’une maison nécessitait jusqu’à cinq
années de travail. Durant cette période, deux familles se
partageaient la même maison. Cette coutume semble remonter au Haut-Valais où les maisons bi familiales sont
courantes : chacune des familles possède un étage et partage le séjour hivernal et la cuisine. à Alagna, l’étage des
chambres étant unique et divisé en quatre cellules identiques, une famille occupe la chambre sud (la plus chaude)
et nord (la plus froide). L’absence de liaison interne. Ce
mode de distribution croisé impliquent une cohabitation
à gérer par les intéressés, trace supplémentaire d’entraide et de respect mutuel.
… une maîtrise parfaite des nœuds et assemblages.
La comparaison entre une maison d’Oubre Rong14 et la
maison de l’écomusée de Pedemonte (qui présente sous
cet aspect un point d’aboutissement dans la construction
de l’habitation traditionnelle) a permis d’établir une chronologie de l’évolution des nœuds et assemblages traditionnels.
Le noyau central de la maison utilise l’empilement de
rondins (dit aussi technique de la fuste ou Blockbau).
Cette technique constructive (fig.4) a constitué de tout
temps un moyen rapide, facile et économique de s’abriter contre les conditions les plus extrêmes. La jonction
de deux parois est résolue en pratiquant une
entaille à mi-bois sur une hauteur correspondant au rayon du rondin à recouvrir.
Les troncs des étages sont
travaillés de manière
différente selon l’utilisation
des espaces créés.
Les bois constituant les parois du fenil (fig.5)
sont simplement écorcés15. L’empilement
formé ne s’avère pas jointif en raison des
commissures irrégulières entre rondins, assurant ainsi une ventilation constante et opFig. 4: La technique de l’empilement de rondins
(ou blockbau). Un des gestes les plus simples
pour définir la technique : deux mains dont les
doigts s’entrecroisent (Photo : Sébastien Mainil, mai 2003).
La récupération des troncs d’autres habitations démantelées semble être aussi une pratique courante. De nombreuses traces de ce réemploi sont visibles.
13
Giordani G., La colonia tedesca di Alagna Valsesia , Torino, 1891.
14
L’auteur a eu l’occasion d’assister au démontage et remontage de cette maison en septembre 2002. Cette expérience unique
lui a fourni de nombreuses informations inédites sur le mode de construction de ces maisons et plus particulièrement sur
les techniques primitives à Alagna.
15
L’écorce, riche en substances nutritives nécessaires à la vie de l’arbre, constitue la cible principale des attaques d’insectes,
d’où la nécessité de l’éliminer en écorçant les fûts avant de les utiliser dans la construction.
12
— 16 —
A U G U S T A
Fig.
5: Démontage
du fenil d’une maison
d’Oubre Rong (Photo :
Sébastien Mainil, septembre 2002).
timale au foin déposé
à l’intérieur. Un jeu de
cales garantit cet espacement, évite que les
rondins ne roulent les
uns sur les autres et assure une certaine rigidification de la paroi.
Les entailles d’angle
à Oubre Rong constituent une solution primitive (fig. 6). Il s’agit
d’une entaille dite « en
tête de chien ». Le rondin inférieur présente
une gorge de la profondeur de son demidiamètre dans laquelle
viendra se loger l’élément supérieur tourné à 90 degrés. Cet assemblage engendre des problèmes de conservation. D’une part, l’entaille pratiquée empêche l’évacuation correcte de l’eau
dont l’accumulation finit par pourrir le bois. Certains rondins ont d’ailleurs été réparés par la substitution des extrémités. D’autre part, un jeu dans l’assemblage à mi-bois
peut apparaître en raison de la différence de retrait des
éléments superposés dans des directions perpendiculai-
res (le retrait axial du rondin inférieur étant nettement
inférieur au retrait radial du rondin supérieur).
L’efficacité limitée de ce type de nœud semble avoir
conduit à la solution adoptée et généralisée par la suite.
L’entaille est effectuée aussi bien en partie inférieure
qu’en partie supérieure des bois (fig.6). Les possibilités
de jeu entre éléments sont réduites mais les problèmes
d’humidité subsistent partiellement.
Les murs des chambres sont
constitués de demi-fûts. La face
découpée est orientée vers l’intérieur de façon à obtenir une paroi
lisse, tout en assurant la continuité
de l’aspect extérieur (bois brut).
Les bois sont plus travaillés (deux
appuis plans sont constitués pour
faciliter l’empilement). Leur disposition est plus jointive : des clous
de bois assurent leur liaison, de la
mousse, de l’argile ou du tissu leur
calfeutrement. à cet étage, les entailles d’angle sont réalisées aussi
bien à Oubre Rong ou à Pedemonte
de la manière vue précédemment
Fig. 6: Empilement de rondins à
l’étage du fenil. A gauche : Détail
d’un angle d’une maison d’Oubre
Rong (Photo : Sébastien Mainil, septembre 2002). A droite : Détail d’un
angle d’une maison traditionnelle
(Dessin : Sébastien Mainil).
— 17 —
A U G U S T A
(entailles en parties supérieure et inférieure).
Les portes et fenêtres sont de dimensions modestes. Elles constituent en effet une interruption de la structure
portante en rondins et une source de déperdition calori-
Fig. 7: Chambranles des portes A et bas : Détail d’un chambranle de porte d’une maison d’Oubre Rong (Photo : Sébastien Mainil, septembre 2002 - Dessin : Sébastien Mainil). B :
Détail d’un chambranle de porte d’une maison traditionnelles (Dessin : Sébastien Mainil).
fique supplémentaire. à Oubre Rong (fig.7-a), des rainures pratiquées dans les rondins latéraux permettent leur
emboîtement dans le montant de la porte. Les extrémités
de ce dernier sont taillées et ensuite insérées dans une
encoche prévue à cet effet dans les bois constituant le
seuil et le linteau. à Pedemonte (fig.7-b), c’est le montant
qui présente une rainure pour accueillir les rondins latéraux taillés à leurs extrémités. La partie supérieure du
montant présente une gorge destinée à recevoir le rondin-linteau.
Le système porteur des planchers est constitué de deux
nappes de poutres perpendiculaires entre elles et assemblées par entailles. Celles-ci reposent sur la structure en
rondins. Elles se prolongent en dehors du noyau de façon
à constituer le support du plancher des loggias. à leurs
extrémités, celles-ci s’appuient sur des piliers et reçoivent une poutre terminale de ceinturage.
à Oubre Rong (fig.8-a), les éléments de plancher se glissent dans une rainure de la poutre tandis qu’à Pedemonte
(fig.8-b), il s’agit de poutres en forme de T renversé dont
les espaces libérés par la découpe constituent les appuis
des éléments de plancher. Dans les deux cas, ces derniers sont fixés au moyen de clous en bois chassés en
diagonale.
La structure portante des loggias (fig.9) est constituée
de poteaux sur lesquels s’appuient les poutres des planchers. Les poteaux présentent un sommet de forme
tronco-pyramidale s’encastrant dans l’élément horizontal supérieur. La partie inférieure présente une découpe
concave (en forme de selle) de façon à simplement s’appuyer sur la poutre du dessous. Les traverses sont généralement encastrées dans le poteau ou fixées au moyen
de clous en bois.
Une des maisons d’Oubre Rong, avant restauration, présentait des traces d’éléments rapportés au noyau central,
ce qui témoigne d’une évolution dans la composition du
bâtiment. (ajot postérieur de la coursive).
L’appui au sol est assuré par une pierre plate (la base du
poteau est simplement posée). Une des maisons d’Oubre
Fig. 8: Détail des planchers. A: Détail d’une poutre de plancher d’une maison d’Oubre Rong (Dessin : Sébastien Mainil).
B : Détail d’une poutre de plancher d’une maison traditionnelles (Dessin : Sébastien Mainil).
— 18 —
A U G U S T A
tandis que sa composante horizontale de compression
passe par les poutres continues des planchers. Cette
décomposition intuitive sera confirmée par une analyse
structurelle plus détaillée.
Le toit est couvert de lauzes. Il est formé de deux versants de faible pente.
Les poutres qui constituent sa structure sont : la poutre
faîtière, deux poutres intermédiaires, deux poutres sablières reposant sur l’empilement de rondins et, enfin,
deux poutres terminales s’appuyant sur les poteaux des
loggias. Les arbalétriers sont simplement déposés. Leur
fixation est assurée en partie inférieure par un clou en
bois qui empêche le glissement. Dans la maison de Pedemonte, une entaille de la poutre de rive assure l’appui.
Au niveau du faîte, les arbalétriers sont liés par un emboîtement.
La solution apportée à Oubre Rong (fig.11) dans la structure des pignons est différente de celle observée dans la
plupart des maisons d’Alagna. La difficulté réside à maintenir dans un même plan les rondins superposés, là où
les assemblages d’angle (murs disposés à 90°) ne sont
plus possibles.
Le moyen adopté ici est la forme primitive : une pièce de
bois traverse les rondins à travers une encoche. Un pro-
Fig. 9: Structure des loggias (Photos : Sébastien Mainil ,
septembre 2002 et avril 2003 - Dessin : Sébastien Mainil).
Rong présente des piliers de pierre qui assurent ce
contact.
Les poteaux des loggias du dernier étage s’inclinent de
façon à soutenir les poutres de la toiture et à assurer l’indéformabilité des mailles.
Un schéma (fig.10) de descente des charges du toit sur
ces montants disposés en oblique montre que la composante verticale de la force transite par le pilier inférieur
Fig. 10: Schéma de principe de la descente de charge. Les
charges du toit sont reprises par les montants de la loggia
disposés en oblique. La composante verticale de la force
transite par le pilier inférieur tandis que sa composante horizontale de compression passe par les poutres continues
des planchers.
Fig. 11: Conception primitive du pignon d’une maison
d’Oubre Rong (Photos : Sébastien Mainil, septembre 2002 Dessin : Sébastien Mainil)
— 19 —
A U G U S T A
blème subsiste : la paroi non retenue transversalement a
tendance à basculer vers l’avant sous l’effet des charges
importantes supportées par le toit16. Il n’existe aucune rigidification et aucune triangulation de la toiture.
L’amélioration apportée (fig.12) consiste à placer dans
un même plan vertical une poutre parallèle à la poutre
faîtière et à construire un « muret » en rondins entre ces
deux éléments. Outre la rigidification du toit, cette solution assure la stabilité transversale du pignon grâce aux
liaisons créées. L’entrait et le poinçon ajoutés assurent
une triangulation partielle de la toiture.
et un souci d’harmonie:
L’utilisation d’un module dicte toute la structure de la maison et lui confère son caractère esthétique. Ceci laisse à
supposer une certaine préfabrication de la construction
(principalement pendant la saison hivernale)17.
Une recherche d’harmonie dans la modulation de la façade se dégage à Oubre Rong mais le résultat reste ici
relativement incertain et hasardeux. Cette harmonie de
la façade est liée à la répétition systématique du même
entre-axe entre les poutres du plancher et de la toiture
ainsi qu’entre les poteaux sur lesquels celles-ci reposent.
On retrouve en façade un rapport 1/1 : le module est repris aussi bien en hauteur qu’en largeur et en profondeur.
L’alternance des montants crée un rythme 1-4-1 (un module de part et d’autre pour les loggias et 4 modules pour
le noyau central).
L’aménagement intérieur (le cloisonnement des chambres) et le mobilier (les lits en alcôves) sont liés à cette
modulation correspondant aux mesures d’un homme les
bras ouverts (le même geste pour étendre le foin sur les
traverses de la loggia).
La fin des constructions
traditionnelles et leur nouvelle vie
Les Walser d’Alagna se tournent souvent vers des activités de substitution lors des crises économiques. Certains
d’entre eux travaillent comme maçons saisonniers dans
les régions et pays voisins. Ils expérimentent ainsi de
nouvelles techniques, de nouvelles cultures et une autre
idée de confort qu’ils véhiculent à Alagna à leur retour.
A partir du XIXe siècle, la maçonnerie en pierre est nettement privilégiée pour la construction ou la reconstruction
des maisons. Le bois disparaît peu à peu de la structure
des maisons, à l’exception des loggias. L’organisation des
espaces internes, les dimensions et la distribution des
ouvertures se trouvent modifiées.
Les activités agricoles et pastorales disparaissent progressivement. Les maisons, faute d’occupants et d’entretien se
Fig. 12: Conception traditionnelle du pignon et solution
adoptée lors de la restauration d’une maison d’Oubre Rong
(Photos : Sébastien Mainil, avril 2003 - Dessin : Sébastien
Mainil)
dégradent peu à peu. Redécouvertes par l’industrie touristique et immobilière, elles font l’objet d’opérations de restructuration, très souvent au détriment de la structure qui
s’en trouve modifiée de façon irrémédiable. Une méthodologie d’intervention serait particulièrement utile pour
préserver ces monuments issus de la culture rurale.
Une analyse structurelle aux éléments finis d’une des
maisons Walser d’Oubre Rong a été réalisée dans cette
optique. Elle vise la définition du comportement global
de la structure pouvant servir lors d’une intervention de
restauration en localisant les points délicats à examiner
de manière plus approfondie. A titre d’exemple, l’amélioration apportée par le changement de la structure du
pignon et la triangulation de la toiture lors du chantier
de restauration de ladite maison a pu être modélisée et
analysée.
Les charges à prévoir pour le chargement du toit équivalent à 1200 kg /m2. Elles comprennent le poids des lauzes et celui
de la neige.
17
Des signes anciens de numérotation des éléments peuvent être observés sur les bois, ce qui laisse à penser à une préfabrication ou une récupération d’édifices antérieurs démantelés.
16
— 20 —
A U G U S T A
Sans entrer dans les détails de la méthode de travail qui
sortent du cadre de cet article, il convient de noter que
des hypothèses simplificatrices ont été avancées pour
mettre au point le modèle de travail : structure tridimensionnelle représentée par un tracé filaire ne reprenant
que les fibres moyennes des éléments (fig.13), sections
Fig. 13: Modélisation
d’une maison d’Oubre
Rong avec
les forces
appliquées
et les conditions d’appui (logiciel
utilisé : Algor)
constantes pour tous les éléments d’un même type (rondins d’un même étage, poteaux verticaux des loggias,
etc.), prise en compte d’une seule essence de bois (cinq
essences différentes ont été répertoriées), comportements fixés pour les appuis et assemblages, etc.
Les éventuelles variations dimensionnelles (retrait et
dilatation) n’ont pas fait l’objet d’une représentation. Il
serait néanmoins intéressant de se pencher sur le comportement diurne/nocturne, hivernal/estival de la maison puisque le comportement de certains assemblages,
et donc de la structure dans son ensemble, s’en trouve
modifié.
Les charges correspondent à une situation réaliste :
a) le poids propre des bois (masse volumique du mélèze : 650 kg/m³ à 12% d’humidité) ;
b) les surcharges d’exploitation (300 kg/m2 : chargement pour une occupation moyenne d’habitation et
de stockage) ;
c) les surcharges apportées par la neige : (1200 kg/m²,
incluant le poids de la couverture en lauzes estimé à
environ 100 à 150 kg/m²).
Les effets de vent (de l’ordre de 100 kg/m² avec un coefficient de réduction) n’ont pas été pris en compte. D’une
part, ils sont négligeables par rapport aux charges de
neige. D’autre part, l’effet de soulèvement du toit provoqué par cette force est contrebalancé par le poids de la
couverture même en l’absence de neige.
L’examen des résultats fournis par le logiciel permet
de mieux comprendre le comportement de la structure
(fortement hyperstatique) et d’en situer ses points critiques.
Les déplacements (fig.14-a et b)
Les déplacements sont relativement limités, vu les charges importantes introduites. Les valeurs les plus élevées
se situent en toiture (flèche maximale au milieu de la
poutre faîtière égale à 1,51 cm sur 11 m) soit +/- 1/700e
de la portée. Des déplacements plus marqués apparaissent aux extrémités des arbalétriers du débordement de
la toiture (1,27 cm soit 1/400e de la portée) ainsi qu’aux
extrémités du porte-à-faux du plancher de la loggia (1,1
cm soit 1/700e de la portée). Le noyau central connaît un
mouvement limité (de l’ordre de 0,65 cm) au voisinage
de l’ouverture du fenil. L’absence de paroi diaphragme
au dernier étage peut justifier ce comportement.
Aucun déplacement significatif ne s’observe au niveau du
pignon, contrairement à la situation observée sur place.
Les effets de jeu dans les assemblages, de la durée d’application des charges ou encore des éventuelles dégradations pourraient en être la cause.
Les contraintes (fig.14-c)
L’examen des contraintes globales (somme des
contraintes dues à l’effort normal, à la flexion selon
Fig. 14: Résultats de l’analyse aux éléments finis fournis par le logiciel Algor (avant modification du pignon)
A : Déformée (à l’échelle 100)
B : Localisation des différentes valeurs des déplacements
C : Localisation des contraintes les plus élevées prises en valeurs absolues
— 21 —
A U G U S T A
l’axe fort et l’axe faible) montre que les contraintes
maximales se développent dans la poutre faîtière (au
niveau des appuis sur les pignons et en son milieu :
386 daN/cm²), dans les poutres courantes de la toiture
(au niveau de l’appui aux angles : 328 daN/cm²) ainsi
que dans les poutres de rive (au niveau des deux larges ouvertures du fenil : 156 daN/cm²). Les poutres en
porte-à-faux du plancher de la loggia orientale connaissent également une concentration de contraintes (de
l’ordre de 225 daN/cm²).
L’intersection des poutres du plancher constitue un problème supplémentaire. On y observe des contraintes élevées. Il s’agit d’un point délicat de la structure. En plus
de la réduction de section pour l’assemblage, les poutres
sont fortement dégradées à cet endroit.
L’analyse aux éléments finis confirme que la structure
fonctionne essentiellement en compression. Les charges
importantes de la toiture sont reprises partiellement par
le noyau central en rondins et par l’ensemble des poteaux
des loggias. En transitant par les poteaux inclinés de la
loggia, ces efforts sont décomposés en compression
dans les poteaux verticaux inférieurs et dans les planchers comme le laisse présager le schéma intuitif expliqué précédemment.
Le dernier niveau de la maison semble le plus sollicité,
alors que les déplacements et contraintes des autres étages sont nettement inférieurs.
Les ouvertures dans le noyau central en rondins jouent
un rôle négatif : les forces de la toiture ne pouvant
transiter par ce chemin se reportent sur les poutres
de rive.
Le comportement différent des façades de la maison souligne le caractère structurel des loggias. En effet, la présence d’une annexe en pierre exclut l’ajout de poteaux
verticaux de support qui ramènent les forces directement
au sol. Les efforts transitent donc ailleurs, créant des déplacements plus ou moins importants et des concentrations de contraintes dans le plancher et le débordement
de la toiture.
Lors de la restauration menée en 2002, la structure
du pignon de la maison a été modifiée, ce qui a permis de rigidifier l’ensemble de la toiture. Le modèle
informatique a permis de quantifier ces changements
(fig.15) : les effets de cette inter vention sont, d’une
part, la diminution des déplacements (la flèche maximale est retrouvée aux arbalétriers du débordement
de la toiture (1,24 cm) et, d’autre part, une diminution
générale des contraintes des poutres de toiture. La localisation des valeurs les plus élevées reste néanmoins
inchangée au sein de la structure. Les points sensibles
restent l’appui de la poutre faîtière sur le noyau central et sur les poteaux des loggias (305 daN /cm²). Les
poteaux de la loggia sont également fortement comprimés (230 daN/cm²).
Fig. 15: Résultats de l’analyse aux éléments finis fourni le logiciel Algor (après modification du pignon)
A : Déformée (à l’échelle 100)
B : Localisation des différentes valeurs des déplacements
C : Localisation des contraintes les plus élevées prises en valeurs absolues
Conclusion
Attentifs à tous les contextes et tirant profit de la nature
et des techniques de leur époque, les Walser ont traduit
dans la pierre et le bois leur respect pour la nature et la
vie en communauté.
L’organisation sociale Walser basée sur un souci d’ordre
et d’égalité, de respect mutuel et de collaboration, trouve
son expression dans la structure même de la maison et
dans son processus de construction : l’unité des matériaux, la régularité dimensionnelle, la similitude des technologies constructives utilisées, la répétition d’un même
module en façade.
La connaissance précise des détails constructifs, de leur
comportement structurel et de l’évolution des techniques
utilisées permet d’établir un projet de restauration cohérent et respectueux de ces constructions traditionnelles,
véritables modèles d’harmonie et d’intégration.
— 22 —
A U G U S T A
Pierres écrites
Claudine Remacle
G
raver quelques mots sur
un gros bloc de pierre
est la méthode la plus
efficace pour transmettre aux générations futures un évènement localisé que l’on
retient important. C’est une façon de
faire bien plus sûre pour conserver la
mémoire, que les moyens de communication retenus comme « les mieux
informés, tels que poste, télégraphe, journaux » dont se réjouissait
Jean-Jacques Christillin en 1900, et
certainement encore plus efficients
que nos procédés informatiques
d’aujourd’hui.
Le nom de lieu «La Péracritta », La
Pierre écrite, se rencontre ça et là en
Vallée d’Aoste et il désigne des pierres qui transmettent des messages
variés. Ainsi près du village de Veynes à Saint-Christophe, une pyramide triangulaire tronquée, qu’on pense d’origine romaine,
haute d’un mètre environ, possède sur sa face méridionale, une inscription tellement oblitérée qu’elle en est devenue indéchiffrable dans l’état actuel des recherches1.
À Arnad, à l’entrée du vallon de Machaby, une étrange inscription sur une pierre, écrite en latin, rappor-
te l’existence d’un trésor. Les mots gravés sont : IN IPSO
LAPIDE EST TESAVRIS2. On raconte qu’un jour deux
Français sont venus demander où se trouvait la Péra èhcritte et que la nuit, ils sont allés creuser3. Le lendemain,
il y avait un trou au pied du rocher…
Arnad
A. Zanotto, Valle d’Aosta antica e archeologica, Aosta 1986, p. 372 - 374. Jean-Baptiste de Tillier a dessiné schématiquement cette
pierre dans son « Historique de la Vallée d’Aoste » publié dans la première édition de son manuscrit, ITLA, Aoste 1966, p. 29.
2
Le texte a été déchiffré par Roberto Bertolin.
3
E. Noro-Desaymonet, A. Champurney-Cossavella, Arnad in Valle d’Aosta. Più di un secolo di memoria, 2a Ed. Priuli e
Verlucca Ed. Ivrea 2006, p.126.
1
— 23 —
A U G U S T A
Lors de l’inventaire des maisons rurales, il
arrive aux recenseurs de repérer grâce aux
habitants d’un lieu une « pierre écrite ». Cela
s’est passé à Lillianes au cours de l’été 2007.
L’architecte Mauro Zucca, guidé par Lidia
Agnesod de La Barmottaz de Vers-Riasseul à
Lillianes, a relevé un bloc erratique se trouvant sur le chemin qui monte du Fasek au
Sarron, dans un couloir rocheux très raide au
lieu-dit : à Serrapianaz.
On y trouve incisé profondément dans la roche le souvenir de l’année des trois huits. De
quoi s’agit-il ?
Lidia Agnesod à la Barmottaz * 1949
La pierre écrite de Lillianes (photo Gianmario Navillod)
L’année 1888, dite des trois 8, est encore
gravée dans la pierre, mais elle l’est aussi,
parfois, dans la mémoire de quelques personnes âgées : « l’année des trois 8, une année de grosses neiges et d’avalanches ! »,
m’a-t-on dit à Monros de Cogne, en m’expliquant quelles maisons avaient été détruites
ou abimées. Cette terrible année, la neige
a touché le village d’Aviel à Arnad nous a-ton raconté là-bas, mais aussi le village du
Frachey à Ayas, celui d’Estellé à Perloz,
celui de Pra à Issime, celui de Tschòcke
à Gressoney-Saint-Jean, etc. La liste, fournie par les habitants des différents lieux,
pourrait être bien plus longue, comme en
témoignent les vieux journaux, les relations
des intellectuels de l’époque, les archives
et même la dernière revue Augusta, 2009,
dans laquelle Imelda Ronco a rappelé, elle
aussi, « z’joar zam gruasse schnia… wénn
z’Sen Valentin von d’piatzu z’Eischeme séji
gsinh zwia meischtara schnia gsatzti4 »,
l’année de grosse neige, comme le rappellent nos vieux, quand à Saint-Valentin, il y
eu sur la place d’Issime une épaisseur de
deux mètres de neige tassée. Au chef-lieu,
la mémoire collective, en effet, relate que
cet hiver-là il en était tellement tombé que
l’on traversait la place dans des galeries
creusées dans la neige. Le déplacement
d’air causé par une avalanche qui s’était
détachée des pentes du mont Wéiss Wéib
avait même transporté une grosse branche
de sapin jusque sur le toit de l’église5.
Cette année-là, le Recteur de Fornet à Valgrisenche, Joseph-Bernard Gerballaz, signale
Imelda Ronco Hantsch, Au lacke Schnia, a
chnawutu. Un mucchio di neve, uno strato fino al
ginocchio, in Revue Augusta 2009, p. 64.
5
Témoignages fournis par Michele Musso.
4
— 24 —
A U G U S T A
dans son journal6 : « En mars, il tombait une si grande
quantité de neige que bien des communes du pays d’Aoste et du Piémont en furent endommagées ; on compte
plus de 150 morts dans le pays d’Aoste à cause des avalanches, et encore un grand nombre de maisons détruites. Dans les communes du contour d’Ivrée, des villages
entiers écrasés par les avalanches ».
De même, l’abbé Gorret, dans une nouvelle météorologique publiée sur La Revue Alpine, Bulletin de la section
lyonnaise du Club Alpin Français, 1888-1889, signale
deux années particulièrement neigeuses et rappelle qu’à
la rectorie de Saint-Jacques, la couche était très épaisse,
mais il s’agit d’une autre date : « La nuit du 6 au 7 mai, il
neige plus de deux mètres dans le “jardin” de la Rectorie ». Gorret sonne les cloches et distribue les pelles pour
rétablir la communication avec le reste de l’humanité. En
1889, cela continuera : “Plus de 2 mètres de neige le 14
janvier ! Un hiver terrible. La provision de foin est partout
à l’ablatif absolu et les vaches n’entendent rien aux aberrations météorologiques du XXe siècle”, écrit-il avec son
humour habituel.
Dans l’almanach de l’agriculteur valdôtain, Laurent Argentier précise pour 1888 : « 27 février7. – Pendant que,
dans la plaine d’Aoste, l’atmosphère s’est chargée en une
neige humide, depuis le soir du 25 jusqu’au matin du 28
février, dans bien des endroits et surtout dans la montagne, une neige sèche est tombée presque sans interruption.
Aussi, que de désastres n’a-t-on pas à déplorer dans notre
vallée et dans les pays voisins ! à Arnaz, un village entier
a été anéanti avec ses habitants. C’était vers les 9 heures
du matin du lundi 27 février. Une avalanche est tombée
presque verticalement sur le village d’Aviel, dans le vallon
de Machaby. Dix-huit maisons et quinze personnes ont été
ensevelies. La chapelle Saint-Clair est restée debout. Le lendemain arrivent sur le lieu du désastre les autorités d’Aoste
avec une compagnie de soldats munis de pelles. Un grand
nombre de citoyens d’Arnaz et de Verrès sont aussi venus
prêter le secours de leur courage et de leur force dans le travail de sauvetage. On a creusé un puits dans l’avalanche
de la profondeur de 10 à 13 mètres et au 1er mars on avait
extrait 10 cadavres et 4 personnes encore vivantes. … Sous
les ruines d’Aviel, il est resté une grande quantité de bétail,
surtout de brebis et de chèvres. Le 26 février, une avalanche avait rasé une maison du village de Sylvenoire à Aymavilles en écrasant une femme dans son lit. à Champorcher, la vallée est encombrée par la neige. Pas moyen d’en
sortir. Les hommes de Hône ont dû travailler deux jours
pour ouvrir la route jusqu’au chef-lieu de la commune de
Champorcher où la couche de la neige est d’environ quatre
mètres.
à Pont-Bozet, 3 mètres de neige. Deux maisons du village
de Savin furent emportées par l’avalanche, ainsi que deux
jeunes hommes ont un a été retiré encore vivant.
Le 26 février, vers 10 heures du soir, une avalanche a
écrasé quatre maisons du village de Franchey à Ayas.
À Gressoney, il a neigé pendant trois jours et deux nuits
et l’épaisseur de la couche de neige a presque atteint les 4
mètres. Au village de Gresmatta, une avalanche a pénétré dans une maison. De ses 7 habitants, 4 ont péri. Aux
villages de Laubono, Bilchouquer et de Chouquer, les avalanches ont emporté des maisons sans toutefois faire de victimes. À Issime les mêmes accidents. à Cogne, neige m. 2,
95 ; trois maisons emportées et 5 victimes humaines au
village de Mont-Ross.
6 mars- Les grandes neiges ont fait sortir de leurs tanières les loups qu’on croyait disparus pour toujours de nos
montagnes. En effet, le 6 mars courant, on entendit les
hurlements d’un loup non loin du village d’Issime-SaintJacques, du côté de la montagne. Vers les 7 heures du soir,
on le vit à peu de distance des domiciles, d’où il a été mis
en fuite.
23 mars. – Voici la hauteur des neiges sur les différents
points de la vallée, telle qu’elle résulte des données des observatoires :
Petit-Saint-Bernard
m. 1,45
Valsavarenche
m. 1,50
Cogne
m. 2,95
Pontbozet
m. 3,00
Arnad
m. 3,00
Bard
m. 1,90
Champorcher
m. 4,00
Grand-Saint-Bernard
m. 0,92.
Comme on le voit, la vallée du Grand-Saint-Bernard a été
fort peu éprouvée, tandis que la zone qui s’étend entre Cogne, Champorcher et Ayas a reçu une véritable tempête de
neige. »
L’abbé Jean-Jacques Christillin fait le récit de cet évènement de façon exhaustive pour ce qui concerne la vallée
du Lys8 : « L’année 1888 fut une année mémorable à cause du triste hiver qui sévit dans la Vallaise. Le 28 février, il
y avait une quantité de neige si grande que, de mémoire
d’homme, on ne se souvenait pas d’en avoir vu autant ».
De longues descriptions catastrophiques occupent une
page entière et décrivent 4 mètres de neige à GressoneyLa-Trinité, 2,80 mètres au Gaby, 2,25 mètres à Issime. « à
Fontainemore, près de deux mètres et, aux hameaux de
Pillaz, de La Farrettaz et de Clapasson, on mesura 2,60
mètres. Dans toute la Vallaise, il y eut de grandes avalanches. à Guillemore, le gouffre fut comblé de neige
jusqu’au pont. Cette avalanche énorme était descendue
par le chenal de Laval. à Issime une avalanche descen-
René Viérin, Vie quotidienne à Valgrisenche de 1879 à 1921. Journal du Recteur de Fornet Joseph-Bernard Gerballaz, Aoste
1984, p. 24-25.
7
L. Argentier, L’Almanach de l’agriculteur valdôtain, publié sous les auspices du Comice agricole, 7e année, Louis Mensio Ed.,
Aoste 1889, p. 23-24
8
J. J. Christillin, Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys, [1901], 2e Ed. Musumeci, Aoste 1970, p. 192-193.
6
— 25 —
A U G U S T A
dit par le torrent
Stolunbach et renversa une maison
au Praz-Dessus.
La nommée Christine
Christillin,
se trouvant sur le
seuil de sa maison, fut miraculeusement sauvée
et retirée vivante
des décombres9 ».
La description se
prolonge avec la
situation du Pontde-Trentaz
où
toutes les avalanches s’unissaient,
si bien qu’il n’était
plus possible de
communiquer
d’une maison à
l’autre. Christillin
continue en parlant de Niel de
Gaby, des Rivesdu-Yair où il y eu
même des victimes.
Christillin continue
en parlant de Niel
de Gaby.
d Pare-avalanche
à Tschòcke
de GressoneySaint-Jean et date
1888 sur le
pare-avalanche
contre la maison
Christillin de
Pra (Issime). h
De même, le chanoine Louis Vescoz
relate ces faits, dans
son célèbre article « Phénomènes atmosphériques. Souvenir des principales anomalies du temps observées en Vallée d’Aoste
dans le cours du XIXe siècle10 p. 34 : 1888.
Désatres causés par les avalanches.
« L’année 1805 a été appelée l’année de
la grosse neige, ... mais à cette époque,
Aoste était sans périodique. C’est pourquoi, faute de renseignements écrits ou
imprimés, on ne peut que conjecturer les
malheurs qui sont arrivés11. L’année 1888
n’est pas inférieure en sinistres, mais, grâce aux moyens
de communication, tels que poste, télégraphe, chemin de
fer, qui n’existaient pas encore au commencement du 19e
siècle, on peut avoir bien des détails sur les évènements
qui s’y sont passés et lui ont fait attribuer une place bien
marquée dans l’histoire de la météorologie valdôtaine.
D’après le témoignage d’Eligio Girod, cette habitante du hameau de Pra serait une Chamonal : elle a été plaquée contre le
mur de sa maison par le souffle de l’avalanche.
10
Pierre-Louis Vescoz (Chanoine), Phénomènes atmosphériques. Souvenir des principales anomalies du temps observées en
Vallée d’Aoste dans le cours du XIXe siècle, in Bulletin de La Société de la Flore valdotaine, 1919, p. 1-41.
11
À Issime, Jean- Jacques Chritillin rappelle que l’avalanche du Bühl, en 1805, a entrainé la mort de Franzisch Meja (Goyet) ;
Michele Musso a vérifié le registre des décès de cette année-là dans les archives paroissiales et le fait est confirmé : “Goyet
Maria filia quondam Joannis Pantaleonis Linty vidua a Joannis Jacobo Goyet, sexaginta circiter anni nata morte subitanea et
improvisa obiit die vigesima quinta januarii anno 1805”.
9
— 26 —
A U G U S T A
Ainsi pendant que, dans la plaine d’Aoste, l’atmosphère
s’est déchargée en neige humide, depuis le soir du 25
jusqu’au matin du 28 février, dans bien des localités et
surtout dans la région montagneuse, une neige sèche est
tombée presque sans interruption. Que de désastres n’at-on pas eu à déplorer ! »
Le chanoine continue son article sur cette année fatidique, en énumérant les dégâts dans les différentes communes de la Vallée particulièrement touchées et en Piémont : Arnad, Ayas, Aymavilles, Champorcher, Pontboset, Gaby, Cogne, Issime, Carema, Settimo-Vittone.
Ainsi, même si l’Abbé Christillin s’émerveillait de la précision des nouvelles véhiculées par les nouveaux moyens
de communication de la fin du XIXe siècle, c’est un simple
rocher gravé qui raconte en silence l’émotion poignante
ressentie alors par les habitants. Cet exemple a été suivi
par Ubaldo Agnesod, né Casimir (*1948 et + 1996), à
Vers-Rives, toujours à Lillianes. En 1986, face à l’importante couche de neige, il a lui aussi, à son tour, pratiqué
une incision pour indiquer qu’il était tombé 1,70 mètres
cette année là (A C 1986. M.1.070 DE NEJE).
De Lillianes, il n’est jamais question ! On se tourne alors
vers les travaux d’Orphée Zanolli. Il a certainement rencontré ce qui s’est passé dans cette commune et, en effet,
il signale dans le tome II de son œuvre, p. 406, qu’une
avalanche, « en février, est tombée sur le hameau des
Bonnes-Heures et qu’elle rendit inhabitable la maison
que possédait en cette localité Panthaléon Charles »12.
Mais il n’est pas question de l’adret de la commune où
cependant un habitant a voulu, alors, laisser à la postérité
un témoignage incisé dans un rocher tellement la quantité de neige l’avait frappé.
Abréviations : L.I888 = L’an I888. Triste . S.ir = Triste
souvenir. C’est Paul Crétaz qui nous a donné le sens de
l’abréviation : L’an 1888 Triste souvenir pour neige.
Vers-Rives - Lillianes
Transcription du texte de la pierre écrite par Mauro Zucca.
Cette pierre se trouve sur le chemin qui monte de Fasek
à Sarron : on marche presque dessus. En octobre 2008,
Lidia Agnesod nous a donné quelques détails sur ce terrible hiver, en précisant qu’il n’y avait pas eu de victimes
dans ce canton : à Couleura, il y avait 3 mètres de neige
et son grand-père a dû la pelleter pour être sûr que a
maison ne s’écroule pas, car la poutre faîtière fléchissait.
L’avalanche qui était descendue du vail était si haute qu’il
a fallu creuser un tunnel dedans pour arriver à la fontaine
de Vers-Riasseul.
Orphée Zanoli, Lillianes, Tome II, p. 406, note 495 :
Délibération communale de Lillianes, 28 avril 1889.
12
— 27 —
A U G U S T A
Il peut sembler désuet de graver une pierre pour laisser à la postérité le rappel d’un souvenir. Pourtant, c’est
ce que nous pratiquons sur les pierres tombales,…
Cependant en Vallée d’Aoste, les hommes ont souvent
ressenti le besoin impératif de transmettre aux générations futures des informations liées aux catastrophes
naturelles en incisant des dates sur les pierres tombées ou sur les murs de protection, bâtis après la chute d’une avalanche ou après un éboulement. Lorsqu’il
s’agit d’inondations, on dessine sur une maison la hauteur qu’a atteinte l’eau dans le village, comme ici en
Pramotton de Donnas.
On sait qu’en matière de risques, l’homme a tendance
à avoir la mémoire courte, mais les pierres qui restent
non. Elles sont là, posées où l’ordre géologique de l’érosion terrestre les a projetées et où elles sont tombées par
gravité. Parfois, la fraicheur de leur teint montre que la
chute est récente. Dans d’autres cas, elles sont arrivées
Pramotton - Donnas. Quelqu’un a senti la nécessité
de noter trois niveaux. De bas en haut :
août 1978, 8 octobre 1977 et bien plus haut
la date de la catastrophe naturelle des 14-15 octobre 2000.
Epierrements au Bühl (Vallon de Saint-Grat-Issime)
— 28 —
A U G U S T A
d Freyan (Châtillon). Chute d’un bloc de pierre
contre la chapelle le 19 avril 1922. h
en si grand nombre sur les prés, les champs et
les chemins qu’il a fallu les enterrer ou les amonceler en « murgères », d’mürdscheri en töitschu,
pour reconquérir la terre nourricière et les surfaces en herbe.
Ces « murgères », ces pare-avalanches ou ces
blocs rocheux expriment par leur simple présence ce qui s’est passé il y des centaines d’années,
mais parfois il y a seulement quelques lustres.
Et de temps en temps, l’homme a voulu ajouter
du sien en gravant lui-même la date de l’événement. Il est fréquent au surplus qu’il ait bâti face
au danger une croix, un oratoire, une chapelle,
qui, tel un bouclier, témoigne de l’appui psychologique de la foi pour vivre quotidiennement et
sereinement en montagne. Sculpter ou graver la
pierre est et restera un acte lié à la culture qui
perdurera dans le temps bien au-delà du dépérissement de nos moyens modernes et immatériels
de communication…
— 29 —
A U G U S T A
Chantoun o Laval?
I
Donatella Martinet
proprietari del vallone del torrente Laval sono
di Fontainemore, anche sul costone del comune di Issime. Ma da quando?
Il termine Chantoun (francoprovenzale; in
töitschu Tschantun) significa promontorio, piccolo monte, con terreno in forte pendenza; il termine deriva
dal latino ‘canthus’ con il significato di angolo, cantuccio di
terra: da cui ital. cantina, cantone (angolo di un edificio);
piem. ‘canton’ angolo; töitschu ‘kantunh’ villaggio, frazione.
Laval (pronunciato in töitschu con l’accento rigorosamente
sulla prima a) vuol dire semplicemente la valle.
Chanton nel sistema di infeudazione medievale indica una
parte di territorio satellite rispetto ad un areale principale.
Ma satellite di che cosa?
La domanda è intrigante: procediamo!
Il costone di Chantoun si inerpica in destra orografica del
torrente Laval, confine naturale tra i due comuni. Nei secoli
l’uomo si è insediato strappando prati e pascoli ad un aspro
declivio e realizzando mayens ora denominati – dal basso verso l’alto – Crest
(Krecht,
in
töitschu), Vuillermet (Willjermet), Rompousin
(Undru e Uabru
Rumpusin) e l’alpeggio di Chantoun (Laval).
Per accedervi si
può partire dal
villaggio Plana di
Fontainemore o
da Tschentschiri di Issime; i
due
percorsi
si uniscono sopra a Crest.
Una curiosità:
sulle carte catastali il tratto di
sentiero su Issime prima della
congiunzione si
chiama “strada
di Oropa”, evi-
dentemente era utilizzato per la processione mariana.
Il percorso storico è veramente bello! È delimitato a tratti
da “cumuli” di pietre a formare muri d’ala, ma anche da piccoli monoliti lapidei verticali conficcati nel terreno (blatti in
töitschu); i terrazzamenti, murati a secco, vengono superati
con poderosi scalini in pietra, molto curati in prossimità dei
fabbricati. Un pilone votivo, datato 1918, con l’immancabile
statua della Madonna Nera, dona al contesto anche la suggestione spirituale. Non manca una fontana scavata nella
roccia, datata 1910, con le iniziali di un Rolland.
Per trasferimenti e trasporti i proprietari da quest’anno sono
aiutati da una monorotaia, che percorre il tragitto da sopra il
Crest sino a Chantoun in poco più di mezz’ora.
Sotto il profilo dell’utilizzo agrario storico abbiamo dei dati
precisi che riguardano l’inizio del ‘900, con le qualità censite
dal Catasto di origine dello Stato.1
Crest era immerso nei prati, Vuillermet e Romposin tra prati
e seminativi, ai margini del bosco. Stessa cosa per Chanton,
ma subito a monte iniziava il pascolo.
Nella zona più
alta (Romposin e
Chanton) il territorio è stato organizzato in terrazzi, con la costruzione di notevoli
muri a secco di
contenimento delle terre, in quella
più bassa (Crest e
Vuillermet) il numero di sostegni
è minore.
Ma chi coltivava
nei secoli tutto
ciò? La questione è complessa;
andiamo per ordine e per nucleo
abitato.
Vasca
monolitica
in località
Adret.
La Soprintendenza per i beni culturali e ambientali, grazie al coordinamento dell’arch. Flaminia Montanari, nel 1987 ha iniziato una serie di corsi di formazione per rilevatori del patrimonio architettonico minore. I due comuni sono stati censiti nel
periodo 1997-2000. Sotto la guida attenta dell’arch. Claudine Remacle, hanno lavorato, a vario titolo, a Issime Fabrizio Giatti,
Denise Vercellin-Nourrissat, Mauro Paul Zucca; a Fontainemore Alessia Ducler, Patrizia Mondino e Davide Tonna.
Durante la campagna di censimento sono stati consultati numerosi documenti antichi tra cui il Catasto di origine dello Stato. Si
ringrazia la R.A.V.A., Assessorato Istruzione e Cultura, per l’accesso alla consultazione dei risultati del censimento.
1
— 30 —
A U G U S T A
Un catasto sul quale ci possiamo basare è quello sardo della
seconda metà del settecento. Non è mappato, è solo descrittivo, con un libro alfabetico e uno particellare. Ha la peculiarità di essere sistematico ed ancora sufficientemente vicino
all’epoca medievale.
Nel 17722 al Crest troviamo:
M Alby Jean-Joseph fu Joseph, di Issime, con casa, corte
e prati, che possedeva anche beni a Pra Dessus (casa e
prati) e a Stadal di Bourine (edificio in stato di rudere e
pascoli);
M Consol Pierre fu Pierre, di Issime, con una stalla e antistante corte, che viveva a Chincheré, dove possedeva
anche dei prati; aveva, inoltre, un rudere con incolto a
Vazier e dei capanni, con pascoli, a Lyon Brunetta – Cretas, Montrax – Torretta, Hortiay e Planes;
M Freppa Marie sposata con Jacques3, suppongo di Issime,
proprietaria di una casa con corte;
M i fratelli Gris Jean-Dominique (cantina e stalla), JeanLouis (cantina, stalla e casa), Jacques fu Domenico
(casa, corte e prato), di Issime, proprietari anche di una
casa a Gran Prà e una a Romposin;
M Rolland Jean-Baptiste fu Antoine, con casa, corte e prati,
di Fontainemore, proprietario anche di due case a Romposin;
M Rolland Jean-Baptiste fu Jacques, con casa e prati, di
Fontainemore, proprietario anche di due case, prati e
campi a Romposin;
M Rolland spettabile avvocato Jacques fu Jean-Joseph
(casa, corte e prati), di Fontainemore, proprietario anche di casa, prati e pascoli a Creston, rudere e prati a
Vernes e una casa a Romposin.
Vediamo ora dove erano situate le proprietà di costoro a
Fontainemore4:
M Una certa Alby5 Marie-Magdeleine vedova di Joseph,
sempre che si tratti di quel Joseph, possedeva un rudere
e un castagneto a Clos;
M Consol Pierre fu Pierre aveva un edificio completamente diroccato (masure) a Plana e una baracca e incolto a
Crest Marquis;
M Freppa Marie sposata con Jacques non sussiste;
M i fratelli Gris neppure;
M Rolland Jean-Baptiste fu Antoine era di Plana, con casa,
stalla, quattro corti, e aveva anche una stalla a Fracha;
M Rolland Jean-Baptiste fu Jacques risiedeva a Plana, aveva una corte alle Claives de la Plana e un capanno, con
pascolo, a Laval. E qui non ho proprio capito se si tratti
di Chanton-Laval in testa al nostro costone su Issime, o
se esistesse un’altro Laval su Fontainemore;
M Rolland spettabile avvocato Jacques fu Jean-Joseph era un
ricco possidente, tra l’altro con case al Village de l’Eglise
e a Plana, nonché corti a Plana, a Fracha e a Goil.
Salendo ci imbattiamo in Vuillermet, quello più basso, dove,
sempre nel 1772, troviamo Rolland Jean-Antoine fu Pierre,
di Fontainemore, con una casa e molti campi. Questi monticava a Romposin, dove possedeva una casa e un edificio in
2
3
4
5
Dal Cadastre Sarde de la Paroisse d’Issime
Freppa era il cognome del marito.
Dal Cadastre Sarde de la Paroisse di Fontainemore.
Si manteneva il cognome del marito anche da vedove.
Fienagione all’Adret.
stato di rudere, ma proveniva da Plana, dove era proprietario
di terreni e di due case e una corte. Aveva anche altri edifici
su Fontainemore: un rudere, con corte, a La Nova; una casa,
con corte a Balmes e una baracca e incolto a Durand.
Vuillermet dessus non era ancora stato edificato.
Mancano ancora alcuni proprietari di Romposin che non
provengono dai due nuclei sottostanti; si tratta di:
M Rolland reverendo Martin fu Jacques-Antoine, con due
case, di Fontainemore;
M Roffin Jean-Baptiste fu Jean-Antoine, con una casa, di
Fontainemore, che saliva da Grand Pra, dove possedeva
un raccar, prati e pascoli.
Dove stavano a Fontainemore?
M Rolland reverendo Martin fu Jacques-Antoine era un altro ricco possidente; oltre ai terreni, era proprietario di
un rudere e una corte al Village de l’Eglise, casa, prati
e incolti a Pacoullaz, case, corti, stalle e prati a Plana,
nonché corti a Plana, casa a Ronc-Robin, stalle a Fracha
e ancora casa a Niana;
M Roffin Jean-Baptiste fu Jean-Antoine poteva essere o di
Colombat o di Coré, non lo so dire per questioni di omonimia, comunque della sinistra orografica del Lys.
Fin qui siamo a livello dei mayens e quando saliamo all’alpeggio non troviamo più le stesse famiglie, ma un miscuglio
di Girod e un Consol, censiti tutti insieme sotto un’unica,
grande, particella catastale, ultimo numero del registro, ricomprendente edifici, campi, pascoli, incolti e boschi, in un
luogo denominato Chanton; in particolare:
M Girod Jean-Baptiste et frère fu Jean-Antoine, di Fontainemore;
M Girod Jean-Baptiste fu Pantaléon, di Fontainemore;
M Girod Marie-Rose e sua sorella fu Jean, di Fontainemore;
— 31 —
A U G U S T A
M Consol Jean Baptiste feu Jean-Pierre (di Issime?).
Questi, a Fontainemore:
M Girod Jean-Baptiste fu Jean-Antoine, era di Plana (due
case e corte), ma possedeva, oltre a terreni, una corte
alle Claives di Plana, due case, una stalla e una corte
a Ronc-Robin, casa, campo e incolto a la Cleva, casa a
Queue-de-Boeuf;
M Girod Jean-Baptiste fu Pantaléon, possedeva una casa,
con corte, a Plana e una stalla a Farettaz, oltre ad altri
coltivi;
M Girod Marie-Rose e sua sorella fu Jean, si muovevano
tra La Plana (una casa), a Balmes (casa e prati) e RoncRobin (casa, stalle, corte e prati);
M Consol Jean-Baptiste fu Jean-Pierre possedeva un solo
prato a Plana, e null’altro su Issime.
Da questi elenchi deduciamo che i proprietari con un antroponimo di Issime (Alby e Consol) dal Crest si spostavano in
altri territori dello stesso comune. Quelli con nome di origine di Fontainemore (Gris, Rolland) dal Crest salivano sul costone di Chantoun, dove l’ultimo alpeggio non era connesso
coi sottostanti mayens.
I Gris meritano un inciso. Dal momento che sappiamo benissimo che la parte del capoluogo di Fontainemore a monte
della chiesa si chiama “Boure de Gris”, dire Gris di Issime
pare un ossimoro; eppure questi tre fratelli non avevano
beni su Fontainemore. Dagli archivi parrocchiali dei due
Comuni6 emerge che il ramo dei Gris di nome “Domenico”
è di Issime (nasce, si sposa, muore) almeno dal 1698, mentre quelli di Fontainemore sono del ramo “Pietro”; tra i quali
spiccano uomini definiti, rispettivamente, dal 1695: onesto e
probo, egregio, spettabile, letterato, tintore.
Nella ricerca di vecchi documenti ho ritrovato l’antroponimo Gris nel 15357; Grixii Antoine fu Antoine riconosceva di avere in feudo alcuni beni nella Vallaise (più precisamente, a Finières de Cosa, en Ventosa au Chanton de
Collombit, ou Revers de Gillieria, in Reverso de Bresser,
a Les Clèves).8
Non so quando un ramo della famiglia si è spostato a Issime, comunque i nostri Gris, avendo poca campagna (solo
un piccolo prato al Crest) non potevano fare solo i contadini,
ma erano emigranti stagionali, che partivano solitamente in
aprile per tornare a novembre. Tant’è che i quattro figli di
Giacomo, unico dei nostri tre fratelli ad averne avuti, sono
stati tutti battezzati in ottobre e quindi concepiti in gennaio.
Lui stesso, nato nel 1717, non muore ad Issime. Dal 1758
non nasce più nessun Gris ad Issime, dal 1800 non ne muore
più nessuno.
Un altro catasto, più recente, questa volta mappato, facilmente consultabile è quello, già citato, di origine dello Stato9,
dove, pur ritrovando alcuni antroponimi (Consol, Rolland e
Girod), la situazione è notevolmente ingarbugliata.
Gli abitanti del costone all’inizio del XX secolo erano rispettivamente10:
Al Crest
  1. Consol Giacomo e Fortunato di Giuseppe Emilio
  2. Dandres Daniele fu Giovanni-Pietro
  3. Girod Giovanni-Antonio fu Leonardo
  4. Stevenin Giuseppina fu Giovanni in Girod
A Vuillermet dessous
  5. Gros Ferdinando fu Emanuele
A Vuillermet dessus
  6. Rolland Giuseppe fu Martino
A Rompousin dessous
  7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni
  8. Rolland Antonio fu Martino
  9. Rolland Giuseppe fu Martino
10. Savy Francesco, Giuseppe … fu Giuseppe e Pasteur
A Rompousin dessus
  5. Gros Ferdinando fu Emanuele
11. Rolland Maria fu Francesco vedova Angelin-Duclos
Infine, a Chanton
  7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni
  3.-4. Girod Giovanni-Antonio e Stevenin Giuseppina
12. Girod Giovanni-Battista fu Remigio
13. Girod Marco fu Remigio
Chi di questi era di Fontainemore e dove abitava?
  3. Girod Giovanni-Antonio fu Leonardo a Plana e a RoncRobin
  5. Gros Ferdinando fu Emanuele a Barme
  6. Rolland Giuseppe fu Martino a Plana
  7. Girod Ferdinando, Giovanni, … fu Giovanni a Barme e
a Farettaz
  8. Rolland Antonio fu Martino a Plana
  9. Rolland Giuseppe fu Martino a Plana
10. Savy Francesco, Giuseppe … fu Giuseppe e Pasteur a
Plana
11. Rolland Maria fu Francesco vedova Angelin-Duclos a
Plana
12. Girod Giovanni-Battista fu Remigio a Plana e a Farettaz
13. Girod Marco fu Remigio a Plana e a Farettaz
Rispetto al catasto precedente (di 140 anni prima) la situazione si è modificata, non solo per le famiglie, ma anche nelle linee di monticazione.
Al Crest permangono gli Issimesi (Consol, Dandres e Stevenin), mentre il Girod di Fontainemore è connesso all’alpeggio di Chanton, che precedentemente era una realtà
indipendente. Anche i fratelli Girod di Giovanni arrivano a
Chantoun, ma passando da Rompousin inferiore.
Gros Ferdinando, invece, da Vuillermet dessous sale a Rompousin dessus.
Ringrazio di cuore l’infaticabile Michele Musso che ha trascorso alcuni fine settimana nell’archivio di Issime, a consultare
registri in compagnia di vecchie ombre, e Renata Thoux per avermi gentilmente accompagnata all’archivio di Fontainemore in
una gelida mattina.
7
Par O. Zanolli, Bibliothèque de l’Archivium Augustanum, XXII, Inventaires des archives des Vallaise, Tome troisième, Industrie grafiche editoriali Musumeci, Aoste 1988.
8
Fino al XVI secolo l’utilizzo dei cognomi non è consolidato. Nei secoli precedenti le persone erano qualificate per il nome
proprio, quello del padre e il villaggio di abitazione stabile, a volte anche con la loro professione,
9
Redatto tra il 1898 e il 1914
10
Sono stati numerati in modo da trovare facilmente le connessioni, poche per la verità.
6
— 32 —
A U G U S T A
Campo di segale a Rumpusin (anno 2009).
Chantoun, antico rascard.
Viceversa, è completamente saltato il rapporto diretto, per i
Fontanemoresi, tra Crest e Rompousin, ma tutti i nuclei al di sopra del Crest sono ora di proprietà di gente di Fontainemore.
Vuillermet dessus è stato edificato nel 1899 da Rolland Giuseppe fu Martino, le iniziali sono sul colmo del fabbricato.
Per ciò che concerne gli spostamenti tra Fontainemore e Issime, permane il rapporto tra Vuillermet dessous e Barme e
dei proprietari di Plana con Rompousin; mentre Ronc-Robin
cambia anelli di giunzione.
Sparisce la migrazione all’Adret di Fontainemore, come
quella per Fracha, Durand, la Nouva, il Village de l’Eglise e
Niana e si intensifica quella per Farettaz.
Per ultimo, anche se precedente agli altri catasti, riporto
alcuni dati del Livre terrier di Issime11, datato 1645, centotrent’anni prima del cadastre sarde.
In questo documento compaiono solo le colture, non gli
edifici se non come confinanti. Risulta, quindi, impossibile
identificare i possessori di immobili e quindi capire compiutamente le proprietà.
Comunque, possedevano terreni a Crest:
M Balma Pierre di Martin di Fontanamora;
M Consol spettabile Gabriele di Jean-Pierre;
M Creux Pierre di Domenico;
M Creux Martin figlio emancipato di Pierre di Domenico;
M Gries Domenico di Piero;
M Pasteur Antoine, figlio di Barthélemy di Grato di Fontanamora
M Vernes Jacques figlio di Jean, che per il possesso di questo terreno ha avuto un contenzioso con la “Communa
de Fontanamora”;
era proprietario a Vuillermet, detto le Ronc de Vuillermet
La trascrizione è di Michele Musso, che nuovamente ringrazio.
11
M Chincheré Mathieu di Jean-Jacques
a Rompousin, detto Ronc Pongin troviamo:
Chincheré Jenin di Jean-Jacques
Chincheré Mathieu di Jean-Jacques
Girod Jacques di Pantaléon di Fontanamora;
Girod Martin di Pantaléon di Fontanamora;
Rolland Antoine di Jacques di Fontanamora
Rolland Jacques figlio di un altro Jacques di Fontanamora
Ronc Jean-Pierre di Pierre
era proprietario della Montagnie du Chanton, le Chanton:
M Consol spettabile Gabriele di Jean-Pierre.
Ecco, così la confusione regna sovrana! Altri nomi di Fontainemore si affacciano (Balma, Creux e Pasteur) e Issime, d’altronde, non può essere da meno (Chincheré, Ronc e Vernes).
Possiamo forse asserire che l’alpeggio di Chantoun dobbiamo
chiamarlo Laval, grazie ai Consol che hanno retto nei secoli
e che i mayens sottostanti derivano da forti dissodamenti, dal
termine “Ronc”, derivante dal latino “runcare”.
Il costone è stato, comunque, antropizzato sotto la spinta
dei Vallaise, che nei secoli hanno fornito alla popolazione
l’incentivo economico, consistente nel non dover pagare le
rendite per un certo numero di anni, per mettere a coltura
nuovi territori; non importa il villaggio di provenienza né
l’etnia linguistica.
Ancora una volta, così come già evidenziato da altri studi di
demografia e linguistica, il concetto di unitarietà, in una realtà come quella di Issime, con un quadro variegato e composito dal punto di vista etnico, culturale e linguistico, è difficile
da definire. Accade spesso, o meglio è accaduto, che i gruppi
sociali si identifichino in base al loro radicamento su un determinato territorio, alla lingua, alla religione, o alla “razza”.
Nel caso di Issime i due gruppi (francoprovenzale e tedesco) si sono identificati in funzione delle relazioni sociali che
nel corso dei secoli hanno intrecciato e stabilito, fondando la
propria identità sulla lingua e nulla più.
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A U G U S T A
Bionaz : une colonie walser oubliée
Joseph-Gabriel Rivolin
L
e journaliste Felice Ferrero, correspondant de
New York du Corriere della Sera et du Corriere degli italiani au début du XXe siècle, fut un
profond connaisseur des Etats-Unis et un passionné de la Vallée d’Aoste. Ferrero appartenait à ce genre de villégiateurs cultivés d’antan, qui tenaient
à approfondir la connaissance des lieux de leurs vacances
et en faisaient une sorte de seconde patrie, en venant parfois s’y installer de façon durable : notre région est débitrice
d’une grande partie de sa notoriété et de ses fortunes touristiques à des personnalités telles qu’Edouard Aubert, les frères Giuseppe et Piero Giacosa, Giuseppe Cassano, Vittorio
Avondo, Alfredo D’Andrade. On doit aussi à certains d’entre
eux des publications qui ont marqué des étapes importantes
dans la connaissance de notre patrimoine culturel et paysager : qu’on songe par exemple à La Vallée d’Aoste d’Aubert
ou à Castelli valdostani e canavesani de Giuseppe Giacosa.
Moins connu que d’autres, Ferrero a lui aussi le mérite
d’avoir consacré à notre région une remarquable monographie, qui parut en anglais à New York en 1910. Trois ans
après les frères Treves, éditeurs à Milan, en publièrent une
version italienne, sous le titre Val d’Aosta, la perla delle Alpi.
C’est en lisant cet ouvrage que je trouvai pour la première
fois une référence à la présence de colons alémaniques dans
la haute vallée du Buthier. « La seconda tappa del viaggio
per la valle [del Buthier] – écrit Ferrero dans l’édition italienne – ci porta a Bionaz, l’ultimo comune. Gli abitanti la
chiamano Bióna, secondo una regola di pronuncia che si
riscontra in altri casi nel dialetto valdostano: e nome ed abitanti, almeno nel loro aspetto e nella forma del linguaggio,
non lascerebbero sospettare quanto alcuno sostiene: che
Bionaz fu una volta abitato da una popolazione di origine
germanica, come Gressoney. Se la popolazione germanica
ci fu, deve essere da lungo scomparsa: certo non ci rimane
più traccia dei tipi e dei costumi che il King dice di avervi
veduto nel 1855.1 Donde una popolazione germanica potrebbe essere venuta è difficile dire: certo non
dalle valli immediatamente confinanti colla
val Pellina al nord, perché le valli di Evolena
e d’Hérémence, alle quali da Bionaz si ha accesso relativamente facile non sono abitate da
razze germaniche, ma da una razza di origine
non ben definita e di linguaggio singolare. D’altra parte è innegabile che se lingua e costumi
non hanno nulla di germanico, le leggende che
corrono intorno a Bionaz sono di un tipo molto
simile a quello delle leggende di Gressoney, il
che vuol dire di un tipo nordico; leggende nelle
quali le fate e i nani hanno parte più importante
che non altrove. »2
Tout en étant originaire de Bionaz par mon
père, je n’avais jamais entendu parler de cette
prétendue souche alémanique de mes ancêtres : je mis donc cette information sur le
compte de l’habitude, assez répandue, de se
construire un mythe des origines où l’invention
d’une provenance de contrées lointaines prend
la valeur de status symbol pour une famille ou
une population donnée. Je dus changer d’avis
quelques années plus tard, lorsque je me trouvai à examiner la documentation médiévale se
rapportant à l’administration de la seigneurie
de Quart, conservée aux Archives de l’Etat de
Plan-de-Veyne, chef-lieu de la Commune de
Bionaz (d’après E. Whymper, The ascent of the
Matterhorn, Londen 1880)
1
2
S. W. King, The Italian Valleys of the Pennine Alps, London 1858.
F. Ferrero, Val d’Aosta, la perla delle Alpi, Milano 1913, p. 131.
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A U G U S T A
Plan -de-Veyne,
Chef-lieu de la
Commune de Bionaz
(d’après D. Vallino,
Dans la Vallée d’Aoste –
Album d’un alpiniste,
3e cahier, Biella 1880).
Turin : je tombai alors
sur un long rouleau, rédigé à l’intention du châtelain Hugues Garnier,
dit Rode, contenant le
compte-rendu de la perception du « subside »
versé au comte de Savoie par ses sujets des
châtellenies de Quart
et Oyace au mois de
juillet 1379. Le subside
(ou « donatif ») était une
sorte d’impôt una tantum dû au seigneur du
lieu quand il se trouvait
à devoir affronter des
dépenses extraordinaires. Les cas où le seigneur pouvait
requérir ce type de prestation fiscale étaient taxatifs, fixés
par la coutume et les franchises locales et concernaient
habituellement : l’adoubement (c’est-à-dire l’acquisition de
la qualité de chevalier par le seigneur lui-même ou par son
fils) et les campagnes militaires ; le mariage de sa fille ; le
paiement de la rançon au cas où il serait capturé en bataille
et pris en otage ; la reconstruction de ses châteaux et maisons fortes détruites ou incendiées ; la Croisade ou autre
pèlerinage. Les comptes-rendus des subsides contiennent
généralement la liste nominative de tous les contribuables,
ce qui permet de se faire une idée, quoique approximative,
du peuplement d’un territoire donné. Or, dans le rôle des
subsides de la seigneurie de Quart et Oyace ayant payé le
subside cette année-là on lit les noms de 46 chefs de famille
de la paroisse de Valpelline, qui correspondait aux Communes (et paroisses) actuelles de Valpelline, Ollomont, Oyace
et Bionaz. Parmi eux, on en trouve cinq, qui sont désignés
par le surnom de « theotonicus », c’est-à-dire « allemand » :
Iacobus Belion theotonicus, Yanno lo Clop (l’éclopé, le boiteux) theotonicus, Georgius theotonicus, Yramo bastardus
Iacobi theotonici et Anthoniodus theotonicus.3
Il s’agit, de toute évidence, de personnages appartenant à
une petite communauté, mais ils représentent quand-même plus de 10% des contribuables recensés dans toute la
paroisse. Les mêmes apparaissent, avec d’autres, dans un
autre document de la même époque : Georgius theotonicus
et Iacobus Belion, et avec eux les fils de feu Anthonius alamandus, résultent avoir payé une redevance en fromages au
comte de Savoie, seigneur de Quart et d’Oyace, en 1377,
ainsi que le châtelain Garnier l’enregistre dans son compte-rendu. Dans le même document, on lit que les mêmes
Georgius alamandus et Iacobus Belion, avec les fils de feu
Iacobus alamandus, se sont aussi acquittés de la redevance
de 30 livres de beurre. Vu la typologie du paiement en nature, il est facile de comprendre que ces theotonici ou alamandi étaient des éleveurs et des bergers. En effet, trois
d’entre eux furent condamnés, la même année, à payer des
amendes pour avoir fait paître leurs troupeaux (de brebis,
vraisemblablement) de l’Arp Nouvaz in valle Oyacie dans les
pâturages d’Orens : Georgius dut verser 45 sous, Yanno 28
sous et Iohannes de feu Belion 26 sous et 6 deniers.4
La châtellenie d’Oyace étant plutôt vaste, on se demande si
on peut mieux localiser l’endroit ou les endroits où les alamandi s’installèrent. La combe d’Orens se trouve en amont
de Prarayer, ce qui confirme l’information de Ferrero sur la
localisation de la colonie germanique dans le territoire de
Bionaz. Deux attestations plus récentes la renforcent ultérieurement, en rattachant le souvenir des « allemands » à
des toponymes. La première se trouve dans une reconnaissance de 1653, qui mentionne « ung pasturage jesant au lieu
dict Chastellex de Guay ; les fins sont de la premiere part,
seconde et tierce part les choses de Panthaleon de Michel
Barrallier ; de la quattriesme les choses de ceulx de La Leschere que furent des Allemants, que meuvent du venerable
prioré Sainct Ours d’Aouste tendant au Carroz de La Peccy
vers les Allemants soit les choses desdicts de La Leschere
et de là tendant au bout de l’Eau Rousse »5. La deuxième
Archivio di Stato di Torino, sezioni riunite, inv. 68, fol. 113, mazzo I.
Ibidem, inv. 68, fol. 99, mazzo I
5
Registre conservé aux Archives Historiques Régionales de la Vallée d’Aoste, fonds Cadastres et reconnaissances, doc. 5/A/5/19, fol. 448
verso.
3
4
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A U G U S T A
Perquis, hameau
de la Commune
de Bionaz (d’après
D. Vallino, Dans la
Vallée d’Aoste –
Album d’un alpiniste,
3e cahier, Biella 1880).
est une autre reconnaissance, du 16 septembre 1714, passée
en faveur du baron de Quart, Charles-Philippe Perron de
San Martino, par « Antoine Barrallier, Jean-Marie Bionaz et
autres consorts de la montagne de Chamein », qui ont reçu
en fief « tout l’alp jusant en Oyace appellé Chamein (…) duquel les fins sont de la premiere part du couchant les Chenaux de la Drosaz, de la seconde les Champés des Chamois
et les prés des Montagnes soit les choses des Betend (…)
de la troisieme de dessus les Mellieres, de la quattrieme les
fonds du Plan de la Peccy, de la cinquieme les Lex des Allemans, et ensuivant le sentier de la Tour Rossaz ».6 La zone
habitée par les familles germaniques devait donc se trouver
en amont du chef-lieu de Bionaz, entre Pouillaye (1616 m
d’altitude) et Prarayer (2006 m) : une localisation qui correspond tout à fait à la dynamique habituelle de la colonisation walser, privilégiant les terres hautes et les alpages
utilisés, à l’origine, uniquement en été, qu’il était possible
d’occuper en l’absence des possesseurs, pendant les saisons
où le bétail était stabulé dans les villages. Si les pâturages
de Bionaz, appartenant à l’évêque d’Aoste et aux chapitres
de Saint-Ours et du Mont-Joux, sont déjà cités dans un document de 1227,7 en effet, il faut attendre la seconde moitié
du siècle suivant pour avoir la certitude de la présence d’installations humaines stables dans le territoire actuel de cette
Commune. Le compte-rendu des subsides de Quart et Oyace de 1379 mentionne des habitants de Bionaz (un certain
Bonifacius Gonterii et les fils de Johannes Bestent) et de
Pertuys (aujourd’hui
Perquis : Vuillencus,
Nycholinus et Iacobus), ainsi que Bonifacius de Clausonovo
(Clos-Neuf) et Iohannes de Nuce (qui
est probablement à
l’origine du hameau
de Chez-Noyer) ;8 et
le compte-rendu du
châtelain de 1377/78
cite un Iohannes de
Ferreria (La Ferrère), un Iohannes
Villelmeti de Veyni
(Plan-de-Veyne), un Anthonius de la Culla (La Quelou) et
un Girodus de Molendino (Moulin).9 La localisation de ces
toponymes permet d’établir qu’il y avait deux zones de peuplement : la première autour du chef-lieu, habitée par des
autochtones, et la deuxième se situant en amont du Saut de
l’Epouse, où se plaçaient vraisemblablement les habitations
des colons walsers.
La situation spatiale étant déterminée, il reste à identifier
la localisation temporelle. Le surnom ethnique commun à
toutes les familles germaniques mentionnées dans la documentation des années 1377/79 suggère une immigration
relativement récente, de première ou de deuxième génération au grand maximum : en cas contraire, des surnoms
plus spécifiques, servant à mieux distinguer les clans familiaux, auraient probablement eu le temps de se stabiliser.
On peut donc supposer que l’arrivée des Walsers à Bionaz
ne fut pas antérieure au milieu du XIVe siècle. Leur installation, qui fut vraisemblablement contrôlée sinon favorisée
par les derniers seigneurs de Quart, dut être pacifique et
leur intégration dans la communauté locale assez rapide,
car on n’a pas connaissance de conflits pour la possession
des alpages, contrairement à d’autres cas similaires ; quant
au surnom de « theotonicus », il disparut rapidement de la
documentation, où on ne trouve aucune référence à l’usage
d’un dialecte alémanique. Seule la tradition orale, recueillie
par Ferrero, avait gardé jusqu’au début du siècle dernier le
souvenir de cette lointaine colonisation.10
Registre de reconnaissances conservé aux Archives municipales d’Oyace ; cfr. A. Chenal, La vie et l’économie du XVI e au XVIII e siècle dans
la vallée de Valpelline (2e livraison), dans « Le Flambeau » 4 (1988), pp. 66 ss.
7
Historiæ Patriæ Monumenta, Chartarum, t. I, Turin …, col. 1293.
8
Cfr. ci-dessus, note 3.
9
Cfr. ci-dessus, note 4.
10
La plupart des documents mentionnés dans cet article sont cités aussi, avec quelques imprécisions, par E : Tognan et A : Liviero, Alamans : elementi per una storia della colonizzazione Walser in Valle d’Aosta, Aosta 2003, pp. 146-147. Ces auteurs ont le mérite d’avoir rassemblé
un grand nombre de témoignages concernant la présence alémanique dans tout le territoire régional au Moyen Age.
6
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A U G U S T A
D’housanha hentsch
auch gmachut zseeme
um nöit gschénte matti
Le case le costruivano anche
assieme per non rovinare i prati
Barbara Ronco Margitisch
Éischeme, tsch’Hieruhous, le 17 février 2010
Consol Fortunato (*1920), Stevenin Aldina (*1925), Ronco Barbara (*1974)
B. Dé viewer a van d’soass?
F. Van d’soass, jia, van d’soass.
B. Was hedder khee wi trüeli?
F. Trüeli? Héi hennich khee pickunh un schouvlu…Hen
gsoassut allz zar hann, sua, invece in d’andrun ketschu
dambor hen kheen no scavatur van Uberlann…
B. Süscht hedder kheen allz zar hann z’tu.
F. Allz zar hann, jia, allz zar hann.
B. Was tüder, groabe…
F. Jia, groabe, allz le fondamenta wi geit d’messi van
d’ketschu un té zu hewer gmachut un getto mit büttinh
un té zu doa henni gvoan a z’houfuru un bin kannhen
ouf vürsich un vürsich.
B. Z’büttinh auch hedder allz gmachut ir?
F. Ja, z’büttinh henni khee…hen kheebe una
impastatrice, hen kheen una macchina vür…ja, in dar
iesti, d’iestun toaga vür d’soass henni kheen zar hann
però darnoa henni gchauft un’impastatrice…ischt mer
kannhe, ischt gsinh as söiri tellur.
B. Ja, süscht wérti allz das z’tun zar hann, auch?
F. Jia, ah na, das ischt kannhen a mutur…ischt gsinh
un mutur, hen nuan kheen z’vülljen i il cuntenitur,
vülljen i simmanh un dŝcheeru ol sann…vür machun
da vloaschter ol machun z’büttinh un das het génh
gchiert um, hen gseilt la spina im gsicht un das ischt
kannhe…
B. Un das ischt kannhen allz einigs…
F. Un d’réstu bin kannhen vürsich, machun da
vloaschter, zu bin gcheen uger, hen gmachut a
stukh mouru un té zu dan tag drouf amum an andre
stukh…
B. Doa was hedder khee, munnha un simmanh…
B. Allora cominciamo dalle fondamenta?
F. Dalle fondamenta, sì, dalle fondamenta.
B. Cosa avevate come attrezzi?
F. Attrezzi? Qui avevo piccone e pala…Ho fatto le fondamenta tutto a mano, così, invece nell’altra casa su
avevo uno scavatore di Gaby…
B. Se no avevate da fare tutto a mano.
F. Tutto a mano, sì, tutto a mano.
B. Cosa fate, scavate…
F. Sì, scavare, tutte le fondamenta come è la misura
della casa e poi facevamo un getto con calcina e poi lì
cominciavo a fare i muri e andavo su di continuo.
B. La calcina anche la facevate voi?
F. Sì, per la calcina avevo…avevo una impastatrice,
avevo una macchina per…sì, all’inizio, i primi giorni
per le fondamenta avevo a mano però dopo ho comperato un’impastatrice…mi andava, era un po’ più facile.
B. Sì, altrimenti sarebbe da fare anche tutto quello a
mano?
F. Sì, ah no, quella andava a motore…c’era un motore,
avevo solo da riempire il contenitore, riempire di cemento e ghiaia o sabbia…per fare la malta o la calcina
e quella girava sempre, attaccavo la spina nella corrente e quella andava…
B. E quella andava tutta sola…
F. E il resto andavo avanti, fare la malta, poi venivo su,
facevo un pezzo di muro e poi il giorno dopo di nuovo
un altro pezzo…
B. Lì cosa avevate, mattoni e cemento…
F. Mattoni e pietre, sì, questa casa qui, fino a dove abitiamo noi ho fatto con le pietre, dopo da qui in su ho
fatto con i mattoni, sì.
— 37 —
A U G U S T A
F. Munnha un stein, jia, diŝch ketschu héi, unz héi woa
phewünündŝch wir hen gmachut mit stein, darnoa van
doa ouf henni gmachut mit munnha, jia.
B. Sén lljichtur d’munnha dén d’steina.
F. Lljichtur, lljichtur, jia, bellében lljichtur, un té
mia spicciativo vür z’weerch, tuscht léstur un lauft
trochnur…
B. Trochnur…
F. Chint nöit sua d’umidité.
B. D’steina müsseder scheide, sén nöit allu glljéich…
F. Ah ja, ja, müssewer scheide secund wi dŝch’goa,
wissischt wol la position das vinnischt dich…
B. Un doa heddenen keen as söiri a furmu, da steine?
F. Na, na, allz gweerhut mit a hoamer, zar hann,
sua, na, na, khés dinh, ischt gsinh allz zar hann; un
séwer kannhen vürsich unz ouf, unz im tach mit dam
mouru, zu hennich…doa botten d’holzer, il geometra
hemmer kheen d’messi vür z’tach, d’vistini, d’roavi
un allz wi…un ich hen troagen alla segheria, ouf in
Trentu Steg un doa hentsch mer zuagen ous allz
z’holz das hen kheen manhal un henni gholzurut allz
ich, allz…
B. Franh auch z’tach?
F. Na, héi vür d’blatti henni kheen a weerma un d’réstu
henni toan allz ich, hen nuan kheen a weerma vür
mer lécken d’blatti süscht hen gleit d’holzer un dŝchu
troagen ouf ich allu d’blatti, vom rück un…
B. Ouf tur d’leitru?
F. Na, hen kheen gmachut un’andadura vür goan
as söiri béssur, antweegen sén gsinh schwieru déi
blatti…éttljugu hen unza khee vöfzg killu, neh, dŝchu
troagen ouf allu zu ischt mer gcheen eis das ischt guts
z’machun di tachi mit blatti, ischt mer gcheen bdéckhje
un ischt noch bdackhts nunh.
B. Dé eina zar voart hedder khee…
F. Eina zar voart, eina zar voart, nunh ischt sechzg
joar das…un té zu a si das bin kannhe ouf hen kheen
z’armurun le dalle, allu mussun armuru, un hen dŝchu
karmurut allz einigs, allz ich, d’boffi sén gsinh junnhi
un sén kannhen in d’schul…
B. Hentsch nöit muan helfe...
F. Antweegen ich hen gleernit z’machun dar houfer
mit méin pappa, ich hen khee sibbenze joar un hen
aschuan gweerhut mit méin pappa, darnoa henni
gweerhut sibbenze, achzini, nöinzini, zwénzg, noch
dröi joar darnoa ischt askoppiurut da chrig, dŝchacki
darnoa…
B. Hedder mussun goan…
F. Im chrig…wa süscht hennich gleernit z’handweerch
ievun goan chrigschma, ievun machun da chrig.
B. Sédder kannhe zan zwénzg joar.
F. Jia, zan zwénzg joar, nöit franh…nöit noch volli wa
là…
B. Sédder gsinh mit awen pappa dröi joar, ouf ol ab.
F. Dröi joar, jia.
Stadel (sec. XV-XVI), al villaggio di Bourinnes.
B. Sono più leggeri i mattoni delle pietre.
F. Più leggeri, più leggeri, sì, molto più leggeri, e poi è
più spicciativo per il lavoro, fai prima e corre più asciutto…
B. Più asciutto…
F. Non viene così umido.
B. Le pietre dovete sceglierle, non sono tutte uguali…
F. Ah sì, sì, dobbiamo sceglierle a seconda di dove vanno, sai bene la posizione in cui ti trovi…
B. E lì le davate un po’ la forma, alle pietre?
F. No, no, tutto lavorato con un martello, a mano, così,
no, no, niente, era tutto a mano; e andavamo avanti fino
su, fino al tetto con il muro, poi ho…ordinato il legname, il geometra mi ha dato le misure per il tetto, la
trave maestra, i puntoni e tutto come…e io ho portato
alla segheria, su a Pont Trenta e lì mi hanno tirato fuori tutto il legname di cui avevo bisogno e ho messo il
legname tutto io, tutto…
B. Anche il tetto?
F. No, qui per le lose avevo un operaio e il resto ho fatto tutto io, avevo solo un operaio per mettermi le lose
altrimenti ho messo il legname e portate su tutte io le
lose, sulla schiena e…
— 38 —
A U G U S T A
Stadel di Chlousi (sec. XVI), vallone di San Grato.
B. Sua hedder gleernit.
F. Mit méin pappa dröi joar, jia.
B. Un hedder aschuan kheen gmachut, ghousut du?
F. Na, du hewünündŝch pheeben noch in d’oaltun
ketschi, vüm dam chrig, diŝch ketschi héi hendŝchu
gmachut noa dam chrig, diŝcha héi un déja woa
sén d’boffi, noa dam chrig, un doa ambri hen auch
grüscht d’oaltun ketschu, génh noa dam chrig
süscht dar vür hewünündŝch pheebe ambri in Gran
Proa, doa béi da sia, woa phen dŝchi déju z’Tschampi
un Péteretsch, hewünündŝch pheeben doa un héi
hewer züeft an ketschu ambri im Duarf, hewer nöit
kheen ündŝch ketschu, wir hen ghousut noa dam
chrig, noa le ’45, jia…
B. Un la différence das ischt inter z’büttinh un da
vloaschter?
F. Z’büttinh chint hérts in vir un zwénzg stünni invece
da vloaschter geit as poar toaga, vir, vünv toaga ievun
z’cheemi hérts antweege da vloaschter ischt mia chalch
dé simmanh, da chalch chint nöit hértur sibit, ischt
kannhe lannhur vür machun la prise, an dem wi(n)
ich der see, z’büttinh vir un zwénzg stünni ischt gsinh
hérts invece da vloaschter ischt gsinh différent…
B. Un da chalch…hen khüert das a voart sén gsinh
d’chalchuavna dabbiri.
B. Su per la scala?
F. No, avevo fatto un’andatura per andare un po’ meglio, perché erano pesanti quelle lose…qualcuna aveva perfino cinquanta chili, neh, portate su tutte poi è
venuto uno che è capace di fare i tetti con le lose, è
venuto a coprirlo ed è ancora coperto adesso.
B. Allora una alla volta avevate…
F. Una alla volta, una alla volta, adesso sono sessanta
anni che…e poi man mano che salivo avevo da armare
le solette, tutte ho dovuto armarle, e le ho armate tutto
da solo, tutto io, i ragazzi erano giovani e andavano a
scuola…
B. Non potevano aiutare…
F. Perché io ho imparato a fare il muratore con mio
papà, io avevo diciassette anni e lavoravo già con mio
papà, dopo ho lavorato diciassette, diciotto, diciannove, venti, ancora tre anni, dopo è scoppiata la guerra,
già che dopo…
B. Avete dovuto andare…
F. In guerra…ma se no ho imparato il lavoro prima di
fare il soldato, prima di fare la guerra.
B. Siete andato a vent’anni.
F. Sì, a vent’anni, non proprio…non ancora compiuti
ma là…
B. Eravate con vostro papà tre anni, più o meno.
— 39 —
A U G U S T A
F. Jia, jia, wir hewer gchauft…hewer gchauft di zockla,
sén gsinh zockla sua wi steina, wi steina zu hewudŝchu
gleit milde an tag vür dan andre, milden im wasser un
das het gschmolze, gschmolze un ischt gcheen as
dinh wi milch, um see, un darnoa hewer gmischlut,
gmischlut antweegen hewer gmachut as gruass luch
im heert woa hewer gleit milde de chalch zu hewer
potschut ous vür machun da vloaschter.
B. Ah, dé sén gsinh déi d’chalchuavna.
F. Jia, sén gsinh déi, wa wir hen dŝchu gchauft, di
zockla sén gcheen van ambri, van il fondovalle, ischt
gsinh a negosianh das hewer gchauft diŝch zockla
chalch invece z’simmanh ischt gsinh in d’sékh, ischt
gsinh in d’sékh, sibit…voilà, van woa hentsch gmachut
le produsiunh del cemento…
B. Zu hedder gmierut i sann ol dŝcheeru selon was…
F. Wénn hen kheen gmachut…vür machun büttinh
geit sann un dŝcheeru un simmanh, büttinh, au lieu
machun da vloaschter geit bars sann un chalch un
as poar potschiti simmanh, gmischlut, chaqui voart
das hescht gmischlut il pastun das hescht gmachut,
chaque voart, ischt kannhe sua, la rasiunh ormai
hewer kheen d’gwanni, hewer kheen d’hann,
ischt nöit gsinh tschebs, das ischt wi hannun le
dalle, chaqui ner vadura ischt dŝchéis éise wa ich
aschuan va junhs henni gleernit la dimensiunh
das ischt kannhe éise, antweege chaqui hüeji das
het la dalle geit as éise secund dikhur ol lljickur,
secund la dimensiunh das het kheen la dalle un
ich hendŝchu gwisst allu, antweegen hen kheen
gleernit aschuan sibit, hemmer gvalle…hemmer
gvalle antweegen ich hen kheen a meischtiri das
ischt gsinh a mundja, hemmi génh mi wélljen tun
z’astüddiuru…
B. Sédder etwa gsinh in gamba, in d’schul.
F. Jia, wa in gamba binnich nuan gsinh vür la
matematica.
B. Ben ischt anvana etwas.
F. Nuan vür la matematica un vür d’réstu bin nöit gsinh
interessé…un té zu wénn ich hen kheen glljéivrut la
quinta d’mundja hemmer gseit: “Allora ripeti la…
A. La Colombe.
B. Ah, soeur Colombe.
F. Soeur Colombe, “…ripeti la quinta”… “No sorella,
io non sono fatto per gli studi, mi piace lavorare.” E
allora, basta, poi l’ho detto…gseit auch dar mammu:
“Guardi che bisogna farlo studiare perché è abbastanza
intelligente” e la mamma mi ha detto, ma io: “No, no
basta”, allora alla sorella gli ho detto: “Guardi sorella,
io, di matematica mi ha sempre dato dei bei voti e
storia e geografia non mi interessa”. “Ma non c’è solo
storia e geografia, c’è matematica, c’è i verbi, ce n’è
tante cose da imparare”; “Comunque no, la ringrazio
del suo consiglio ma sono fatto per lavorare”.
B. Ir het kheen lljibur weerhu.
F. Tre anni, sì.
B. Così avete imparato.
F. Con mio papà tre anni, sì.
B. E avevate già fatto, già costruito allora?
F. No, allora abitavamo ancora nelle vecchie case, prima della guerra, queste case qui le ho fatte dopo la
guerra, questa e quella dove sono i ragazzi, dopo la
guerra, e giù lì ho anche aggiustato la vecchia casa,
sempre dopo la guerra altrimenti prima abitavamo giù
a Gran Proa, lì accanto al lago, dove abitano quelle di
Tschampi e Péteretsch, abitavamo lì e abbiamo affittato una casa giù al Duarf, non avevamo la nostra casa,
noi abbiamo costruito dopo la guerra, dopo il ’45, sì…
B. E che differenza c’è tra la calcina e la malta?
F. La calcina diventa dura in ventiquattr’ore invece la
malta ci mette un po’ di giorni, quattro, cinque giorni
prima che diventi dura perché la malta contiene più
calce che cemento, la calce non diventa dura subito, ci
andava più tempo perché facesse presa, perciò come
ti dico, la calcina in ventiquattr’ore era dura invece la
malta era differente…
B. E la calce…ho sentito che una volta c’erano i forni
per la calce per lì.
F. Sì, sì, noi compravamo…compravamo i blocchi, erano blocchi così come pietre, come pietre poi le mettevamo a mollo un giorno per l’altro, a mollo nell’acqua
e quello scioglieva, scioglieva e diventava un liquido
come latte, per dire, e dopo mescolavamo, mescolavamo poiché facevamo un grosso buco nel terreno dove
mettevamo la calce ad ammollare, poi tiravamo fuori
delle mestolate per fare la malta.
B. Allora erano quelli i forni per la calce.
F. Sì, erano quelli, ma noi li compravamo, i blocchi venivano da giù, dal fondovalle, c’era un negoziante da
cui compravamo questi blocchi di calce invece il cemento era nei sacchi, era nei sacchi, subito…voilà, da
dove producevano il cemento…
B. Poi aggiungevate sabbia o ghiaia a seconda di cosa…
F. Quando ho fatto…per fare calcina ci vanno sabbia
e ghiaia e cemento, calcina, invece per fare la malta ci
vanno solo sabbia e calce e qualche mestolo di cemento, mescolato, ogni volta che mescolavi il pastone che
avevi fatto, ogni volta, andava così, la razione oramai
avevamo l’abitudine, avevamo la mano, non era difficile, quello è come preparare le solette, ogni nervatura
ha il suo ferro ma io già da giovane ho imparato la dimensione che andava del ferro, perché per ogni altezza che ha la soletta ci va un ferro a seconda più spesso
o più sottile, a seconda della dimensione che aveva la
soletta, e io le sapevo tutte, perché avevo imparato già
subito, mi piaceva…mi piaceva perché io avevo una
maestra che era una suora, mi voleva sempre far studiare…
B. Eravate in gamba, a scuola.
F. Sì, ma in gamba ero solo per la matematica.
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A U G U S T A
Casa con colonne al Chröiz (sec. XVII), vallone di San Grato.
F. Jia, lljibur weerhu, darnoa binni kannhe…hentsch
ghousut d’schuli héi z’Éischeme, du hen khee virze
joar…
B. Déju woa dŝch’sén nunh?
F. Woa dŝch’sén nunh, nöit was hentsch ankleit, eh,
woa dŝch’sén nunh, un méin pappa het gweerhut doa
un ich bin gsinh an boffu, hen troage da vloaschter,
darnoa hen gseit dam pappa: “Vrieg mu ol z’mi tétti
gien vür bocia im schantji”, zu mu gvriegit, dar pappa
het gvriegit, un té:
“Lass-lo crësse ancora ’n pòch, l’é ’ncora giovo”,
basta darnoa hets mer gseit: “Is het nöit vuallju
z’di gia, um nunh heb paziunzu”; un darnoa, noa
as poar wuchi, hen amum gseit: “Pruav…” un dar
pappa ischt gsinh astuf z’mu vriege…het mu gseit:
“Ch’a guarda monsù Regis, ch’a fasa che piélo, se i
conven a lo ten e se i conven nen t’am lo lasse a ca,
mi m’offendo nen!” “Ah, se ’t parle parèj alora dije
ch’a ven-a doman”…
B. Dé sua hedder muan voan a.
F. Dan tag drouf bin kannhe voan a. Basta, kannhe
vürsich, an tag, dan andre, d’wuchi…
B. Un doa hedder aschuan kheen macchinari ol génh
zar hann?
B. Beh, è già qualcosa.
F. Solo per la matematica e al resto non ero interessato…e poi quando io avevo finito la quinta la suora mi
ha detto: “Allora ripeti la…
A. La Colombe.
B. Ah, suor Colombe.
F. Suor Colombe, “…ripeti la quinta”… “No sorella, io
non sono fatto per gli studi, mi piace lavorare.” E allora, basta, poi l’ho detto…l’ha detto anche alla mamma:
“Guardi che bisogna farlo studiare perché è abbastanza intelligente” e la mamma mi ha detto, ma io: “No, no
basta”, allora alla sorella gli ho detto: “Guardi sorella,
io, di matematica mi ha sempre dato dei bei voti e storia e geografia non mi interessa”. “Ma non c’è solo storia e geografia, c’è matematica, c’è i verbi, ce n’è tante
cose da imparare”; “Comunque no, la ringrazio del suo
consiglio ma sono fatto per lavorare”.
B. Voi preferivate lavorare.
F. Sì, preferivo lavorare, dopo sono andato…hanno costruito le scuole qui a Issime, allora avevo quattordici
anni…
B. Quelle dove sono adesso?
F. Dove sono adesso, non quello che hanno tirato giù,
eh, dove sono adesso, e mio papà lavorava lì e io ero un
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A U G U S T A
Stadel (sec. XVII),
costituito da stalla e fienile, a Hubal.
F. Na, allz zar hann, doa in d’schul hewer kheen allz
zar hann, macchinari het ru nöit existurut antweege
ischt gsinh nel 1934, loan di figurer, ischt gsinh de
miserie in Italia, ischt gsinh…génh nuan gschwétzt
van chriga un, basta, ich henni zuahe vürsich, all
toaga bin kannhe weerhun un dar pappa het mu nöit
gvriegit khés dinh zu hets mer krat gseit: “Ma se savìo
n’afé parèj l’aveisso pa fait tante paròle”… Un voilà,
alli la risposta ischt gsinh déja, ich bin kannhe vürsich
un hen mi gvunne wol, difatti noa dröi moanada hets
mer gmierut dan zalmuss, das ich…anner zwian
boffi hentsch kiet 1,20 l’ora, hentsch mer keen zwia
moanada 1,20 un dan drittege moanud mir hets mer
keen 1,30 un d’endri zwei génh 1,20; ich hen mi gvunne
franh wol, jia, un hen gweerhut unz z’létschta…den
angréiffer doa, dar su ischt gsinh géometre dé im
sunnatag hets mi génh ghoeischut, z’mu goa helfe
hannun d’steega, hannun d’weerhji vür d’houfara un
armuru le dalle un doa hets mer zeihut la dimensiunh
van d’éise das ischt kannhe chaque…aschuan du
henni gleernit la dimensiunh, la resistenza vam éise
ragazzo, portavo la malta, poi ho detto al papà:
“Chiedigli se mi prenderebbe come bocia nel
cantiere”, poi chiesto, il papà ha chiesto, e poi:
“Lascialo crescere ancora un po’, è ancora giovane”, basta, poi mi ha detto: “Non ha voglia
di prenderti, per adesso abbi pazienza”; e poi,
dopo un paio di settimane, ho di nuovo detto:
“Prova…” e il papà era stufo di chiedergli…
gli ha detto: “Guardi, signor Regis, faccia che
prenderlo, se le conviene lo tiene e se non le
conviene me lo lascia a casa, io non mi offendo!” “Ah, se parli così allora digli che venga
domani”…
B. Così avete potuto cominciare.
F. Il giorno dopo sono andato a cominciare.
Basta, andato avanti, un giorno, un altro, le settimane…
B. E lì avevate già i macchinari o sempre a
mano?
F. No, tutto a mano, lì alle scuole avevamo tutto a mano, i macchinari non esistevano perché
era nel 1934, ti lascio immaginare, c’erano le
miserie in Italia, era…sempre solo parlare di
guerre e, basta, io ho tirato avanti, tutti i giorni
andavo a lavorare e il papà non gli ha chiesto
niente, poi mi ha solo detto: “Ma se sapevo una
cosa così, non facevo tante parole”…E voilà,
tutta la risposta era quella, io sono andato avanti e mi sono trovato bene, difatti dopo tre mesi
mi ha aumentato la paga, che io…altri due ragazzi prendevano 1,20 l’ora, mi hanno dato per
due mesi 1,20 e il terzo mese a me ha dato 1,30 e gli
altri due sempre 1,20; io mi sono trovato proprio bene,
sì, e ho lavorato fino alla fine…quell’impresario lì, il
figlio era geometra allora la domenica mi chiamava
sempre, di andare ad aiutarlo a preparare i ponteggi,
preparare i lavori per i muratori e armare le solette
e lì mi ha mostrato la dimensione dei ferri che andavano per ogni…già allora ho imparato la dimensione,
la resistenza del ferro per qualunque soletta io avessi
fatto, qualunque altezza, e difatti ho fatto tutte queste
solette, non una ha ceduto, mi sono trovato proprio…
ho imparato da giovane, e così, oltre ad avere le tasche
piene di soldi, che quei poveri diavoli che andavano
in alpeggio dove volevano prendere i soldi, altro che
pascolare qualche mucca, quel panetto di burro era
mangiato tra tutti, poveri ragazzi, invece io lavorando
mi sono trovato bene.
B. Avevate qualcosa in tasca.
F. Ah, sempre, in tasca qualcosa avevo sempre, devo
dire com’è. La paga mi faceva…e poi sono andato avanti…rimasto lì un anno e mezzo fino a che le scuole era-
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A U G U S T A
Alpeggio di Boalma Lundja, vallone di Bourinnes.
vür qualunque dalle das hetti gmachut, qualunque
hüeji, an dem difatti hen gmachut tutte coste (piem.)
dalle (fr.), nöit eina het gséddurut, hennimi gvunne
franh…hen gleernit va junhs, un sua oltre das henni
kheen noch volli d’boudŝchi solda, das déi uppugun
töivla das sén kannhen z’alpu woa hentsch wélljen
gian d’solda, anner dé hüten as poar chü, das ballji
anghe ischt gsinh kessenz inner ellji, d’uppugun boffi,
invece ich ab weerhu hennimi gvunne wol.
B. Hedder khee etwas in d’boudŝchu.
F. Ah, génh, in d’boudŝchu etwas henni génh
kheebe, mussi see wi z’ischt. Dan zalmuss hets mer
gmachut…un zu binni kannhe vürsich, blljibben doa
as joar un halbs unz das d’schuli sén gsinh glljéivrutu
zu ich un méin pappa séwer kannhe weerhun ouf ter
z’Augschtalann, a Pollein un a Sarre un hen génh
gmachut ketschi ouf doa bieri, séwer kannhe vürsich
unz das darnoa ischt askoppiurut da chrig, en ’40 das
hentsch…
B. Hedder mussun loan doa.
F. Mussun loan doa un goa, un klaupe, ischt gsinh
sua…un voilà…
no finite, poi io e mio papà siamo andati a lavorare su
per la Valle d’Aosta, a Pollein e a Sarre e abbiamo sempre fatto case su per lì, siamo andati avanti fino a che è
scoppiata la guerra, nel ’40 che hanno…
B. Avete dovuto lasciare lì.
F. Dovuto lasciare lì e andare, e obbedire, era così…e
voilà…
B. E allora come attrezzi cosa avevate, la pala…
F. La pala e il piccone e il filo a piombo e la cazzuola
e…
B. La carriola per portare le pietre…
F. Una carriola per portare le pietre…
B. Quella era da portare in due?
F. Da portare in due, sì, in due e per andare su per le
andature, quello che era in piano c’era la carriola con
una ruota, però le ruote non erano come adesso, erano
tutte di legno e con la copertura di ferro, erano di quelle che sono fatte…le carriole, le ruote erano tutte di legno, le abbiamo sempre…sovente dovevamo metterle
a mollo nell’acqua la sera cosicché la mattina…se no il
legno oscillava tutto, eh, era…allora c’era la miseria, la
miseria che…
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A U G U S T A
B. Un dé wi trüeli was hedder kheen, d’schouvlu…
F. D’schouvlu un z’pickunh un da séngjil un da
mourlöffil un doa…
B. Da steinbeeru…
F. Steinbeeru, a steinbeeru…
B. Den ischt gsinh den z’troan inner zwei?
F. Z’troan inner zwei, jia, inner zwei un vür goan
ouf ter le andadure, was ischt gsinh in d’eebini
ischt gsinh d’stuasbeeru mit a rowu, però d’rowi
sén nöit gsinh wi nunh, sén gsinh allu mit holz
un mit la copertura éise, sén gsinh deeru das sén
gmachutu…d’beeri, d’rowi sén gsinh allu mit holz,
hewudŝchu génh…suven mussu lécken milden im
wasser dan oabe vür das da muarge…süscht z’holz
het allz kleckut, eh, ischt gsinh…du ischt gsinh de
misère, de misère das…
B. Ja, ja, hedder mussun lugun zu dan trüelu.
F. Oh, mussun lugun zu un resputurun allz un…
B. Süscht hetteder nöit muan goan vürsich.
F. Un resputurun déi das hentsch nündŝch kee weerch
antweegen solda ischt nöit gsinh un weerch ischt nöit
gsinh, ischt nuan gsinh de miserie héi, ouf ol ab, was
willt ich bin…zu Justin bin ich z’oaltschta im lann, uber
as poar moanada compio i novant’anni an dem…
B. 2010, jia.
F. 2010…mah…un voilà, darnoa dar uppig pappa ischt
kannhen vürsich génh z’weerhu hibbiri un ich hen
mussun goan im chrig un voilà…ischt kannhen wol
das hewer muan arwinne.
B. Un dé awen pappa ischt kannhen vürsich einigi?
F. Jia, ischt kannhen vürsich, hewer noch khee héi
gséllji van Éischeme das hen gweerhut zseeme,
antweegen darnoa hentsch gweerhut in ürriu
rechtnunh, ischt nöit gsinh unner an angréiffer, hentsch
gweerhut in ürriu rechtnunh ab gian ketschi z’machu;
hentsch gchauft dŝchiendri le materiel, un d’robbu
das ischt kannhen un…dŝch’heji noch gwunnen schia
solda, ja, ischt noch kannhe wol, antweegen ouf ter
z’Augschtalann ischt gsinh lljöit das hen noch khee
solda, antweegen hentsch ellji gweerhut, ischt gsinh
la Cogne das het kee béllében weerch un chaqui
grandŝchu hentsch kheen vüefze, zwénzg chü, an dem
eis mit dam andre, wissischt la resa ischt noch gsinh
guti, ischt an dem das dŝchi hen mua geen weerch
deene das hen nöit kheebe wi par exemple, wir hibbiri,
was willt, ischt nöit gsinh weerch…
B. Ja, ja, wénn ischt nöit weerch eis mat nöit…
F. Eh, ischt lljütschil z’see...
B. Un d’steina hedder kiat héi z’Éischeme ol…
F. Dambor?
B. Na, vür machun…
F. Ah héi, jia, héi ouf, héi ouf in d’almini, z’undruscht
d’almini hewer khee l’autorisé van la Commune, mit
dam schlitte…
B. Ouf tur d’guvveri, là.
B. Sì, sì, dovevate aver cura degli attrezzi.
F. Oh, aver cura e rispettare tutto e…
B. Altrimenti non avreste potuto andare avanti.
F. E rispettare quelli che ci davano lavoro perché soldi non ce n’erano e lavoro non ce n’era, c’erano solo
delle miserie qui, più o meno, cosa vuoi io sono…dopo
Justin sono il più anziano in paese, tra qualche mese
compio i novant’anni quindi…
B. 2010, sì.
F. 2010…mah…e voilà, dopo il povero papà è andato
avanti sempre a lavorare per qui e io ho dovuto andare in guerra e voilà…è andata bene che siamo potuti
ritornare.
B. E allora vostro papà è andato avanti da solo?
F. Sì, è andato avanti, avevamo ancora amici di Issime
che lavoravano assieme, perché dopo hanno lavorato
per loro conto, non erano sotto un impresario, hanno
lavorato per loro conto prendendo delle case da costruire; compravano loro il materiale, e la roba che andava…hanno ancora guadagnato bei soldi, sì, è andata
ancora bene, perché su per la Valle d’Aosta c’era gente
che aveva i soldi, perché lavoravano tutti, c’era la Cogne che dava molto lavoro e ogni cascina aveva quindici, venti mucche, quindi uno con l’altro, sai la resa era
ancora buona, è per quello che potevano dare lavoro a
quelli che non ne avevano come per esempio, noi qui,
cosa vuoi, non c’era lavoro…
B. Sì, sì, se non c’è lavoro uno non può…
F. Eh, c’è poco da dire…
B. E le pietre le prendevate qui a Issime o…
F. Su?
B. No, per fare…
F. Ah qui, sì, qui su, qui su nei beni comunali, in cima
ai beni comunali, avevamo l’autorizzazione del Comune, con la slitta…
B. Su per le pietraie, via.
F. Sì, su per le pietraie, avevamo la slitta d’inverno,
portato giù le pietre, portato giù mucchi di pietre e
poi…
B. Sì, dovevate fare un mucchio per avere…
F. Un mucchio per avere la scorta quando era la bella
stagione, perché d’inverno non si lavorano calcina e
malta perché gela, quello va tutto a ramengo, devi…
B. E allora d’inverno non lavoravate.
F. Ah, in inverno no, lavoravamo quando c’era poca
neve, ci procuravamo il materiale, ci procuravamo il
legname, le pietre, mucchi di sabbia, perché la sabbia
la prendevamo nel Lys e dopo quando arrivava la primavera cominciavamo…
B. Perché allora nevicava ancora parecchio.
F. Oh sì, sì, nevicava ancora parecchio, nevicava ancora…ancora parecchio, cosa vuoi, quando c’era tanta
neve rimanevamo a casa e voilà, mah, eh, ce ne sarebbero da raccontare per mesi…eh, mio Dio…
B. Allora le lose andavate anche a comprarle?
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A U G U S T A
F. Ja, ouf tur d’guvveri, hewer kheen da schlitte da
winter, gvürt ingier d’steina, gvürt ingier houfi steina
un té zu…
B. Ja, hedder mussun machun a houfe um heen…
F. A houfe um heen la scorta wénn ischt gsinh d’gutu
seisunh, antweegen da winter muss nöit weerhun
büttinh un vloaschter antweegen is gvrirt, das doa
ischt allz a maloura, mussischt…
B. Un dé da winter hedder nöit gweerhut.
F. Ah da winter na, hewer gweerhut wénn ischt gsinh
lljütschil schnia, hewünündŝch prokururut zu le
materiel, prokururut zu z’holz, d’steina, houfi sann,
antweegen z’sann hewer kiet in d’Lljéisu un darnoa
wénn dar ischt arrivurut d’oustaga hewer gvoan a…
B. Antweegen du hets noch gschnout bellébén.
F. Oh ja, ja, hets noch gschnout bellébén, hets noch
gschnout…noch bellébén, was willt, wénn ischt gsinh
d’gruassu schnia séwer blljibben in d’ketschi un voilà,
mah, eh, wérturu z’zéllje vür moanada…eh, mon
Dieu…
B. Un dé d’blatti sédder kannhen chaufe auch?
F. Jia, d’blatti hewer gchauft.
B. Heddudŝchu nöit…
F. Jia, jia, ischt gsinh a la station zam Steg, hets
antloaden d’blatti, le train hets antloaden d’blatti un
doa ischt gsinh eis das het dŝchu gchauft is un té zu
hets dŝchu widervarchauft, certo das is muss heen
dŝchéis prufit, eh, was willt…
B. Dŝchacki, süscht…süscht ischt nümmi weerhu.
F. Is het nöit muan weerhun um nöit…wa là, ischt
noch gsinh un préi das mu het muan heen dar, via…
ischt gsinh allz più o meno équalisé…ischt nuan das
cul poc das ischt gsinh ischt nöit gsinh weerch, ischt
nöit gsinh weerch…
B. Un z’holz, sédder kannhen trommun d’bauma ir?
F. Na, na.
B. Ischt allz gsinh…
F. Van la segheria, invece das van das tach doa hewer
trommut dür im Krecht ouf in z’ündŝcha, hewer
trommut as zwénzgi bauma, autorisé van la Forestal, un
zu hewudŝchu gvürt alla segheria vür dŝchu raffiler…
B. Un dŝchu loan dérre…
F. Na, na, vür z’tach nöit manhal dŝchu loan dérre, na,
vür z’tach hescht muan lécken ouf auch grünz, jia, vür
z’tach jia…
B. Hen gwisst das z’holz hetti manhal z’dérre vür…
F. Ja, vür d’sollara un…dé mussts sinh dorr, dé geit
amanka amanka dröi joar.
B. Un vür d’ermerini un allz…
F. Allz, allz, mussischt heen la stagionatura, amanka
amanka dröi joar süscht, ah na na; invece vür z’tach…
B. Ischt nöit manhal.
F. Hescht muan tachu anche grünz, ischt génh kannhe
wol.
B. Un wi witt, was ischt wi holz? Ésch?
Stadel con porte gemelle a Blatti (sec. XVI),
Vallone di San Grato.
F. Sì, le lose le compravamo.
B. Non le facevate…
F. Sì, sì, era alla stazione di Ponte, scaricava le lose, il
treno scaricava le lose e lì c’era uno che le comperava e
poi le rivendeva, certo che doveva avere il suo profitto,
eh, cosa vuoi…
B. Certo, altrimenti…altrimenti non è più lavorare.
F. Non poteva lavorare per niente…ma là, era ancora un prezzo abbordabile, via…era tutto più o meno
uguale…è solo che quel poco che c’era non c’era lavoro, non c’era lavoro…
B. E il legname, andavate voi a tagliare gli alberi?
F. No, no.
B. Era tutto…
F. Della segheria, invece quello di quel tetto lì l’abbiamo tagliato di là a Krecht sul nostro, abbiamo tagliato
una ventina di alberi, autorizzati dalla Forestale, e poi li
abbiamo portati alla segheria per squadrarli…
B. E lasciarli seccare…
F. No, no, per il tetto non c’è bisogno di lasciarli seccare, no, per il tetto potevi metterlo su anche verde, sì,
per il tetto sì…
B. Sapevo che il legname avrebbe bisogno di seccare
per…
F. Sì, per i pavimenti e…allora deve essere stagionato,
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A U G U S T A
Villaggio di Blatti, Vallone di San Grato, zona dei mayen.
F. Eh, liarch, liarch, krat nöit tannu, liarch antweegen
da liarch ischt ruati, ischt résistanh invece di tannu
voulit tell.
B. Voulit tell…
F. Ah jia, di tannu…liarch.
B. Dé héi auch ischt liarch.
F. Allz liarch, héi un d’ketschu ouf doa, allz liarch, jia,
jia.
B. Un té zu ischt gsinh a witt das hentsch broucht vür
soassu, meroakul, wa bsinnimi nümmi…
F. Ah jia ischt gsinh érllju.
B. Ah, érllju, antweegen hettis nöit sua tell gvoulit im
wasser.
F. Ecco d’érllju, wénn ischt gsinh in éttlljig üerter das
d’soass ischt nöit gsinh vill a post hentsch gstuasst
i stükh érllju, billjini érllju un té khéit z’büttinh doa
drouf, dŝchi hen génh gseit das d’érllju heji nöit
apatturut sua, wiss nöit wi z’séggi, un pürra vür vöiru
varvoats poc, ischt koarjit das…érllju, un vür z’tach
ischt da liarch un éttlljig tanni machun di türrini, wa
interne…
B. Nöit ousna.
allora ci vanno almeno almeno tre anni.
B. E per gli armadi e tutto…
F. Tutto, tutto, devi avere la stagionatura, almeno almeno tre anni altrimenti, ah no no; invece per il tetto…
B. Non c’è bisogno.
F. Potevi fare il tetto anche verde, andava sempre bene.
B. E come legna, cos’è come legno? Frassino?
F. Eh, larice, larice, giusto non abete, larice perché il
larice è rosso, è resistente invece l’abete marcisce facilmente.
B. Marcisce facilmente…
F. Ah sì, l’abete…larice.
B. Allora anche qui è larice.
F. Tutto larice, qui e la casa su lì, tutto larice, sì, sì.
B. E poi c’era un legno che usavano per fare le fondamenta, pare, ma non mi ricordo più…
F. Ah sì, era ontano.
B. Ah, ontano, perché non marcisce così facilmente
nell’acqua.
F. Ecco l’ontano, se era in certi posti dove le fondamenta non erano bene a posto spingevano dentro pezzi di
ontano, tronchetti di ontano e poi buttavano la calcina
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A U G U S T A
F. Na, nöit esterno, antweegen di tannu ischt nöit vür
l’esterno.
B. Ja, wérti wi d’balkunhi…
F. Ecco, allz liarch, allz liarch, jia.
B. Ischt etwa mia résistanh…
F. Mia résistanh, jia, allz liarch…
B. Un wénnu, hedder nji gwénnut?
F. Ich gwénnut na, na, hewer gwénnut dan piellje wa
gwénnut méin bruder, héi ouf hewer gwénnut allz, jia.
B. Ja, doa geit a holzmeischter.
F. Ja, a holzmeischter…hewer gchauft le perline, un
zu hewudŝchu gloan dérre un té hentsch gwénnut
dŝchiendri, ischt gcheen as schianz weerch…
B. Un dé bélla machun z’bschlacht, allz ir?
F. Jia, jia, van ousna…
B. Van ousna un van inna.
F. Na, van inna henni kheen un trabucant, héi, van
inna, un van ousna henni gvoan a van z’uabruscht
z’undruscht, hen gmachut allz ich, allz bschloagen ich
un héi inna hewer kheen un trabucant, eis van Uberlann,
jia, zu d’piannili auch hen kheen un pianellista, hen ru
gstéllt ich auch piannili eh, jia, eh mon Dieu!
B. Hedder nöit gvrücht z’leerne.
F. Na, na, ich hen gleernit più o meno as söiri alltsch,
zu, was willt, hen kheen z’weerch, woa ni hen gweerhut
hen gleernit auch l’elettricista un in central hescht
génh gleernit etwas, gli impiant in d’ketschi doa ambri
un in vill üerter hen dŝchi gmachut ich, par exemple
héi unna, héi unna hen gmachut l’impiant…dunque
ischt goade, hous un garage un gmeine, gmachut allz
l’impiant, ischt sechzg joar, hen nöit kheen z’töischun
un interrutur, muss dŝchi seen wi z’ischt; wa du
hentsch gmachut d’robbu gutur, béssur dé nunh.
B. Béssur dé nunh, nunh ischt gmachiti un nöit
werre.
F. Ecco, um nöit werre, das dŝch’mieji varchaufe, vür
areje solda, ischt sua. Ich méchteder zeihu…sechzg
joar lebtag héi unna…nöit töischut un interrutur;
töischut a lampju, certo…
B. Ben, a lampju d’ackuart…
F. Wa l’impiant ischt a post…na, na, vür das…
B. Ja, ischt auch z’materiel das ischt béssur.
F. Jia, z’materiel ischt gsinh béssur, hentsch gweerhut
mia a post.
B. Bélla di tachi das hentsch gmachut a voart werre
mia dén déi das dŝch’machun nunh.
F. Dŝchi werre mia, mon Dieu, ja, ja…déi das
machuntsch höit zam tag, dŝchi werre nöit sua lanh. Héi
z’Éischeme, wi houfara, in déi zéiti, séwer gsinh a peu
près as dréisgi, ja, ja, dréisg, nunh ischt khémentsch
mé, ischt krat Fréddi, Silvio…
B. Silvio ouf doa, ja, d’boffi…
F. Eh, un dŝchéin boffi…Fréddi ischt auch oalts, wi
binni ich, ischt nümmi z’zéllje, oramai ündŝche lebtag
ischt passrut, was willt…
lì sopra, hanno sempre detto che l’ontano non patisse
così, non so come sia, eppure per far fuoco vale poco,
è vero che…ontano, e per il tetto c’è il larice e qualche
abete per fare le porte, ma interne…
B. Non fuori.
F. No, non esterno, perché l’abete non è per l’esterno.
B. Sì, sarebbero le persiane…
F. Ecco, tutto larice, tutto larice, sì.
B. Forse è più resistente…
F. Più resistente, sì, tutto larice…
B. E foderare, non avete mai foderato?
F. Io foderato no, no, abbiamo foderato il soggiorno
ma ha foderato mio fratello, qui su abbiamo foderato
tutto, sì.
B. Sì, lì ci va un falegname.
F. Sì, un falegname…abbiamo comperato le perline, e
poi le abbiamo lasciate stagionare e poi hanno foderato
loro, è venuto un bel lavoro…
B. E allora anche fare l’intonaco, tutto lei?
F. Sì, sì, da fuori…
B. Da fuori e da dentro.
F. No, da dentro avevo un decoratore, qui, da dentro,
e da fuori ho cominciato da cima a fondo, ho fatto tutto
io, tutto intonacato io e qui dentro avevamo un decoratore, uno di Gaby, sì, poi le piastrelle anche un piastrellista , ne ho messe giù anch’io di piastrelle eh, sì,
eh mio Dio!
B. Non avevate paura di imparare.
F. No, no, io ho imparato più o meno un po’ di tutto,
poi, cosa vuoi, avevo il lavoro, dove ho lavorato ho imparato anche l’elettricista e in centrale imparavi sempre qualcosa, gli impianti nelle case giù lì e in tanti
posti li ho fatti io, per esempio qui sotto, qui sotto ho
fatto l’impianto…dunque c’è stalla, cucina e garage e
bagno, fatto tutto l’impianto, sono sessant’anni, non ho
dovuto cambiare un interruttore, bisogna dire com’è;
ma allora facevano roba migliore, meglio di adesso.
B. Meglio di adesso, adesso è fatta per non durare.
F. Ecco, per non durare, che possano vendere, per
prendere soldi, è così. Io potrei mostrarti…sessant’anni di vita qui sotto…non ho cambiato un interruttore;
cambiato le lampadine, certo…
B. Beh, una lampadina d’accordo…
F. Ma l’impianto è a posto…no, no, per quello…
B. Sì, è anche il materiale che è migliore.
F. Sì, il materiale era migliore, lavoravano meglio.
B. Anche i tetti che facevano una volta durano di più di
quelli che fanno adesso.
F. Durano di più, mio Dio, sì, sì…quelli che fanno oggigiorno non durano così a lungo. Qui a Issime, come
muratori, in quei tempi, eravamo più o meno una trentina, sì, sì, trenta, adesso non c’è più nessuno, c’è giusto Fréddi, Silvio…
B. Silvio su lì, sì, i ragazzi…
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A U G U S T A
B. Sén nöit endri, ischt koarjit.
F. Na, na, sén ellji tuat…ja, ja, as dréisgi, séwer gsinh
as dréisgi houfara, eh jia, mah…
B. A schupputu sédder gsinh.
F. Jia, a schupputu, jia…
A. Ischt gsinh Léisi auch, no? Léisi auch, un
Vinduala…
F. Eh sì.
B. Un déi hen nöit khee sü das hen gleernit, na.
F. Nöit khee sü.
B. Ja, an bitz wénn d’junhu leerne nöit ischt inütil…
F. Das ischt wi déi van höit zam tag, ischt khémentsch
das het gleernit as handweerch, héi hewer kheen a
schmid, hewer kheen…holzmeischter ischt gsinh
Ileeri, ischt gsinh Tregsch, ischt gsinh déi das hen
grüscht d’schu, Dummene…
B. D’schumachera?
F. D’schumachera, Dummini, hentsch kheen dröi, vir
weermanna, hentsch grüscht d’schu un gweerhut ellji
doa sua, hewer kheen a schmid das ischt gsinh Stoffelti,
hewer kheen…wa wi(n) ich ter see, a schupputu lljöit
das hen gleernit as handweerch, nunh khémentsch
mé, nunh ischt khémentsch, khémentsch mé, ischt
krat Silvio das het zeihut z’handweerch dŝchéine süne
süscht ischt allz varluarenz, eh sì, wiss nöit wi der see,
ischt kannhe sua, par bonheur noa dam chrig da lebtag
ischt töischut, ischt gcheen as söiri il benessere un mu
het gweerhut, noch kannhe wol.
F. Eh, e i suoi ragazzi…Fréddi è anche anziano, come
sono io, non è più da contare, oramai la nostra vita è
passata, cosa vuoi…
B. Non ce ne sono altri, è vero.
F. No, no, sono tutti morti…sì, sì, una trentina, eravamo una trentina di muratori, eh sì, mah…
B. Eravate tanti.
F. Sì, tanti, sì…
A. C’era Léisi anche, no? Léisi anche, e Vinduala…
F. Eh sì.
B. E quelli non avevano figli che hanno imparato, no.
F. Non avevano figli.
B. Sì, se i giovani non imparano è inutile…
F. Quello è come quelli di oggigiorno, non c’è nessuno
che abbia imparato un mestiere, qui avevamo un fabbro, avevamo…falegname c’era Ileeri, c’era Tregsch,
c’erano quelli che aggiustavano le scarpe, Dummene…
B. I calzolai?
F. I calzolai, Dummini, avevano tre, quattro operai, aggiustavano le scarpe e lavoravano tutti lì, avevamo un
fabbro che era Stoffelti, avevamo…ma come ti dico,
tanta gente che ha imparato un mestiere, adesso nessuno più, adesso non c’è nessuno, nessuno più, c’è giusto
Silvio che ha insegnato il mestiere ai suoi figli se no è
tutto perduto, eh sì, non so come dirti, è andata così, per
fortuna dopo la guerra la vita è cambiata, è venuto un
po’ il benessere e si lavorava, è ancora andata bene.
Ronco Alfredo (*1931) un Ronco Barbara (*1974) Fornaz,
Éischeme le 24 mérze 2010
B. Dé van woa viewer a?
A. Seeg dou.
B. Van woa d’willt. Machun steina ol goan in d’Lljéisu
gien z’sann…
A. Ja, ja, un machun z’holz un…
B. Ben, seeg nuan, ol…
A. Antweegen déi weerhji doa machun d’steina ol
z’holz, das doa hentsch gmachut allz darvür, d’steina
un z’holz un z’sann.
B. Sua hescht der ghannut z’materiel.
A. Jia, das doa vill hentsch toan da winter wénn ischt
nöit gsinh z’vill schnia, nöit z’vill vroscht, zu d’oustaga
hentsch dén griffen z’mouru.
B. Dé séntsch kannhen trommun d’bauma?
A. Jia, tur d’woalda trommun d’bauma un scheiden
vür machun…d’gruassu holzer, soagun vür machun
d’loadi.
B. Génh allz zar hann?
A. Allz zar hann.
B. Was ischt gsinh z’trussunh?
B. Allora da dove cominciamo?
A. Dì tu.
B. Da dove vuoi. Fare pietre o andare nel Lys a prendere la sabbia…
A. Sì, sì, e fare il legname e…
B. Ben, dì pure, o…
A. Perché quei lavori lì, fare le pietre o il legname,
quello facevano tutto prima, le pietre e il legname e la
sabbia.
B. Così ti preparavi il materiale.
A. Sì, quello sovente lo facevano in inverno se non
c’era troppa neve, non troppo freddo poi in primavera
cominciavano a fare i muri.
B. Allora andavano a tagliare gli alberi?
A. Sì, per i boschi a tagliare gli alberi e sceglierli per
fare…i grossi tronchi, segarli per fare le assi.
B. Sempre tutto a mano?
A. Tutto a mano.
B. Cosa c’era, il segone?
A. Il segone, la sega, l’ascia. Dove cominciamo, dalle
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A U G U S T A
A. Z’trussunh, d’soagu, z’bil. Woa viewer a, van d’steina
ol was…
B. Jia, jia, van d’steina.
A. Hescht aschuan amprénnt, jia?
B. Jia, jia.
A. D’steina séntsch kannhen süjen in as guvver, woa
wérti sinh steina as söiri hübschu.
B. Hescht muan goan tur d’almini ol ouf dabbiri?
A. Tur d’almini hentsch mussun goan vriege…süscht
villuru sén kannhen dabbiri in ürriun guvveri machun
d’steina, déju as söiri lljickur hentsch dŝchu aschuan
kiet sua, d’andru hentsch broche, déju das hescht
muan brechen mit dam schléggil süscht hentsch
gmachut d’lucher mit dam sissjil, un té d’wécka, dŝchu
trommut…
B. Doa ischt auch gsinh allz zar hann?
A. Allz zar hann, zu da winter hentsch dŝchu brunnhen
zu mit da schlittu…
B. Dé mit dam schlitte hescht mussun heen da
schnia?
A. Ah jia.
B. Süscht hescht nöit muan zoanu.
A. Na, dŝch’hen dŝchu ghannut un té dŝchu brunnhen
zu mit dam schlitte, mussun heen da schnia, hentsch
dŝchu gscheiden ous, d’hübschtu vür d’koari…
pietre o cosa…
B. Sì, sì, dalle pietre.
A. Hai già acceso, sì?
B. Sì, sì.
A. Le pietre andavano a cercarle in una pietraia, dove
c’erano pietre un po’ belle.
B. Potevi andare nei beni comunali o su per lì?
A. Nei beni comunali dovevano andare a chiedere…
altrimenti tanti andavano nelle loro pietraie a fare le
pietre, quelle un po’ più piccole le prendevano già così,
le altre le rompevano, quelle che potevano rompere
con la mazza a cuneo, altrimenti facevano i buchi con
lo scalpello, e poi i cunei, le tagliavano…
B. Lì era anche tutto a mano?
A. Tutto a mano, poi in inverno le trasportavano con
la slitta…
B. Allora con la slitta dovevi avere la neve?
A. Ah sì.
B. Altrimenti non potevi trascinarla.
A. No, le preparavano e poi le trasportavano con la
slitta, dovevi avere la neve, le sceglievano, le più belle
per gli angoli…
B. E se no le lavoravi un po’ tu per farle…
A. Ah sì, un po’ le lavoravi già nelle pietraie, un po’…
B. Sì, il più grosso.
Alpeggio di Vlüeckji (Vallone di San Grato).
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A U G U S T A
Alepggio di Kredemì (vallone di Tourrison).
B. Un süscht hescht dŝchu as söiri gweerhut dou vür
dŝchu machun…
A. Ah jia, as söiri hescht dŝchu aschuan gweerhut in
d’guvveri, as söiri…
B. Jia, z’grobschta.
A. Zu as söiri hen dŝchu gweerhut d’houfara, im
guvver hentsch aschuan…déju franh leid hentsch
gloan doa, hentsch nuan kiet déju…franh d’leidschtu
hentsch gloa, noch kannhe süjen guvveri das wérti…
antweegen ellji d’guvveri sén nöit gut, d’steina as söiri
hübschu…
B. A voart Eligio het gschwétzt van le pere bleuve, le
rosse…basta…
A. Ja, ja, d’béschtu sén d’wéissu, in d’guvveri héi ambri
ischt vill deeru wéissu.
B. Sén etwa etwas mildur…
A. Jia, etwas mildur un té werrentsch mia un té zu
mogoara…eini sén kannhen machun d’steina, eini
sén mogoara kannhen in d’Lljéisu wénn z’nöit ischt
gsinh gvruaren machun z’sann un té hen dŝchis allz
brunnhen zu mit dam chuarb…
A. Poi un po’ le lavoravano i muratori, nella pietraia avevano già…quelle proprio brutte le lasciavano lì, prendevano solo quelle…proprio le più brutte le lasciavano lì,
ancora andare a cercare pietraie che fossero…perché
tutte le pietraie non sono buone, le pietre un po’ belle…
B. Una volta Eligio ha parlato delle pietre blu, le rosse…basta…
A. Sì, sì, le migliori sono le bianche, nelle pietraie qui
giù ce ne sono tante di quelle bianche.
B. Forse sono più morbide…
A. Sì, più morbide e poi durano di più e poi magari…
alcuni andavano a fare le pietre, altri andavano magari
nel Lys se non era gelato a fare la sabbia e poi trasportavano tutto con la gerla…
B. Tu cosa avevi, il setaccio?
A. Il setaccio, un setaccio verticale, scelta, setacciata.
B. La setacciavano nel Lys la sabbia?
A. Ah sì, nel Lys.
B. La trasportavano era già tutta…
A. Già scelta la sabbia, tutta trasportata con la gerla, su
e giù per il Lys…
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A U G U S T A
B. Dou was hescht kheen, z’sib?
A. Z’sib, as stotzenz, dŝchu gscheiden ous, gsibbut.
B. Hen dŝchis gscheiden dür in d’Lljéisu z’sann?
A. Ah jia, in d’Lljéisu.
B. Hentsch brunnhen zu ischt gsinh aschuan allz…
A. Aschuan gscheidenz z’sann, allz brunnhen zu mit
dam chuarb, ouf un ab tur d’Lljéisu…
B. Un hentsch nöit kheen stuassbeeri noch…
A. Mah d’stuassbeeri…vill vörti in d’Lljéisu hentsch
njanka muan goa.
B. Ischt etwa gsinh tellur mit dam chuarb.
A. Amanka ous van in d’Lljéisu hen dŝchis mussun
troan mit dam chuarb, z’merteil, un té zu ischt gsinh
mogoara ein das ischt kannhen ouf tur d’woalda,
kannhen trommun d’bauma; d’hübschtu…hentsch
gscheiden ous zwie schie vür z’tach…
B. D’vist?
A. D’vist un ellji d’endri.
B. Den loascht a peu près ganzi, den baum.
A. Jia, jia, hentsch gscheiden ous déju as söiri hübschu,
lénnhu, zu villuru hentsch trommut un gsoagut,
gmachut d’loadi, loadi vür machun…
B. D’loadi allz zar hann auch?
A. Allz zar hann, loadi un troali vür machun da
housunh, un doa d’spitza, d’spitza hentsch gmachut
allz d’roavi, d’spitza un d’lljickun baumjini, baumjini
das hentsch nöit muan soagu, antweegen vill a voart
hentsch gmachut roavi das hen kiet allz z’tach, ganzi
baumjini.
B. Ja, süscht hettischt sollu dŝchunturu ol…
A. Jia, vill…a voart hentsch gmachut allz an einege
stukh…
B. Ischt gsinh tellur…
A. Hübschur, stoarhur, ischt gsinh allz…allu déi
baumjini, hentsch gscheiden tur d’woalda, oh, dŝch’hen
gweerhut!
B. Doa was hentsch trommut, tanni?
A. Liarcha z’merteil, z’merteil liarcha, wol auch tanni
wa z’merteil liarcha, da liarch ischt…wert mia…
B. Geit béssur um tachun.
A. Wert mia, un té zu gmachut allu d’loadi un di troali,
zu d’loadi mussun dérre vir joar un muan weerhu…
B. Wa Fortini het mer gseit das hettischt nöit sollun
loan dérre z’holz vür z’tach…
A. Vür z’tach na, mogoara, wa déi vür weerhun,
d’loadi, d’loadi allz…mussun dérre vir joar, vür z’tach
na, süscht hettidŝchi ardriet un…wa tanto ardrieie tuts
dŝchi darnoa, ischt dén krat glljéich; z’holz hentsch
ghannut da winter, mogoara, zu z’tach hentsch dén
gmachut grech da summer ol d’hérbscht…
B. Ja, ja, ischt nöit gsinh gseits das…
A. Dŝch’hen dén auch toan wi dŝch’hen mua antweege
du ischt gsinh allz zar hann, neh…
B. Ischt kannhen zéit.
A. Oh mon Dieu, mon Dieu…
B. E non avevano carriole e…
A. Mah le carriole…tante volte nel Lys non potevano
neanche andare.
B. Forse era più facile con la gerla.
A. Almeno fuori dal Lys la dovevano portare con la
gerla, in genere, e poi c’era magari uno che andava su
per i boschi, andava a tagliare gli alberi; i più belli…ne
sceglievano due belli per il tetto…
B. La trave maestra?
A. La trave maestra e tutte le altre.
B. Quello lo lasci più o meno intero, quell’albero.
A. Sì, sì, sceglievano quelli un po’ più belli, lunghi, poi
tanti li tagliavano e segavano, facevano le assi, le assi
per fare…
B. Le assi anche tutte a mano?
A. Tutte a mano, assi e travi per fare la casa, e le punte,
con le punte facevano tutti i travicelli, le punte e gli alberelli, alberelli che non potevano segare, perché una
volta facevano tanti travicelli che prendevano tutto il
tetto, interi alberelli.
B. Sì, se no dovevi giuntare o…
A. Sì, tanti…una volta facevano tutto un unico pezzo…
B. Era più comodo…
A. Più bello, più resistente, era tutto…tutti quegli alberelli gli sceglievano per i boschi, oh, hanno lavorato!
B. Lì cosa tagliavano, abeti?
A. Larici in genere, in genere larici, anche abeti ma in
genere larici, il larice è…dura più a lungo…
B. Va meglio per fare i tetti.
A. Dura di più, e poi fatte tutte le assi e le travi, poi le
assi devono stagionare quattro anni per poter lavorare…
B. Ma Fortini mi ha detto che non dovevi lasciare stagionare il legname per il tetto…
A. Per il tetto no, magari, ma quelle per lavorare, le
assi, le assi tutte…dovevano stagionare quattro anni,
per il tetto no, altrimenti si torce e…ma tanto si torce
poi in seguito, è poi lo stesso; il legname lo preparavano in inverno, magari, poi il tetto lo facevano forse in
estate o in autunno…
B. Sì, sì, non era detto che…
A. Facevano poi anche come potevano perché allora
era tutto a mano, neh…
B. Ci andava tempo.
A. Oh mio Dio, mio Dio…
B. Tu anche sei andato a tagliare gli alberi?
A. Sì, sì, euh, il cortile di là, qualcosa siamo andati a
tagliare a Tschentschiri, passati vicino al lago.
B. Sì, allora i muratori facevano un po’ di tutto, via!
A. In inverno quando non costruivano…quando non
potevano costruire, facevano un po’ di tutto, preparavano le pietre, preparavano il legname e…poi c’erano
anche quelli…proprio i segantini, in genere nei boschi
andavano i segantini, tagliavano gli alberi…
— 51 —
A U G U S T A
Alpeggio di Vlu (vallone di San Grato).
B. Dou bischt auch kannhe trommun d’bauma?
A. Jia, jia, euh, da hof héi dür, an bitz séwer kannhen
trommun in Tschentschiri, passrut dar tur da sia.
B. Ja, dé d’houfara hen toan as söiri alltsch, via!
A. Da winter wénn dŝch’hen nöit ghoufurut…wénn
dŝch’hen nöit muan houfuru, hentsch toan as söiri
alltsch, ghannut d’steina, ghannut z’holz un…zu ischt
auch gsinh déi…franh d’soagara, z’merteil tur d’woalda
sén kannhen d’soagara, trommut d’bauma…
B. Ja, d’soagara hen nuan trommut d’bauma.
A. Trommut un gsoagut un…dŝch’hen mogoara auch
gmachut d’houfara wa z’merteil…das doa ischt gsinh
endri, a schupputu, amanka dröi ol…
B. Ja, ja, sén kannhen as poar süscht wértintsch nöit
kannhe vürsich.
A. Na, dŝch’hetti nöit muan weerhu.
B. Jia antweegen bélla z’trussunh hen mussun sinh
inner zwei.
A. Génh zwei un soagun un machun loadi zwei ol auch
dröi.
B. Sì, i segantini tagliavano solo gli alberi.
A. Tagliavano e segavano e…facevano
forse anche i muratori ma in genere…
quelli erano altri, tanti, almeno tre o…
B. Sì, sì, ce ne andava qualcuno altrimenti non sarebbero andati avanti.
A. No, non avrebbero potuto lavorare.
B. Sì perché anche il segone era da
usare in due.
A. Sempre due per segare e fare le
assi, due o anche tre.
B. Anche due o tre.
A. Tante volte erano anche tre, uno sopra e due sotto, facevano il cavalletto…
quello lo vedi ancora qualche volta, i
vecchi mestieri, eh adesso quello…
mio Dio, una volta…
B. Allora quando era tutto pronto cominciavate a costruire?
A. In primavera cominciavano a scavare, tutto a mano…
B. Con il piccone?
A. Il piccone, la pala, la carriola…
B. Poi facevi un buco quadrato?
A. Un buco quadrato fino a che bastava, guardare anche il posto poi, in genere, la casa guardavano anche, quando potevano, un po’ rialzata e piuttosto
lontano dalle acque e dai canaloni, un
po’ rialzato se potevano, e poi una volta
le case le costruivano anche assieme,
in genere, per non rovinare i prati.
B. I prati erano preziosi.
A. Una volta le case le costruivano tutte assieme, avevano tutte lo stesso cortile, vedi dappertutto…
B. Sì, sono le frazioni…tutte assieme.
A. Invece adesso ce n’è una qui e una lì invece allora
no per non rovinare i prati, il cortile era per tutti lo
stesso, non rovinare prati perché allora…
B. Ce n’era bisogno dei prati. Allora lì nel buco cosa
buttavi, cemento?
A. No, no, allora neanche, una volta, in genere…
B. No, per fare le fondamenta?
A. No, facevano così le fondamenta, non mettevano…
una volta non c’era…
B. Allora cosa mettevi?
A. Pietre, pietre e malta, lì sovente avevano la calce, la
facevano affiorare…
B. Allora la calce…
A. La calce era in blocchi, blocchi…
B. Compravano i blocchi, li mettevano a mollo.
— 52 —
A U G U S T A
B. Auch zwei ol dröi.
A. Vill sén unza gsinh dröi, eis drouf un zwei drunner,
hentsch gmachut da sattal…das doa gsischt wol wéilu
voart noch, i vecchi mestieri, eh nunh das doa…mon
Dieu, a voart…
B. Dé wénn ischt gsinh allz zweg hedder gvoan a
z’houfuru?
A. D’oustaga hentsch dé gvoan a z’groabe, allz zar
hann…
B. Mit dam pickunh?
A. Z’pickunh, d’schouvlu, d’stuassbeeru…
B. Zu hescht gmachut as karruts luch?
A. As karruts luch unz das hentsch kheen gnug, lugun
auch d’wéiti té zu, z’merteil, z’hous hentsch auch
glugut, wénn dŝch’hen mua, as söiri burts un as söiri
wéit van d’wasseri un d’schluchtini, as söiri burts wénn
dŝch’hen mua, un té a voart d’housanha hentsch auch
gmachut zseeme, z’merteil, um nöit gschénte matti.
B. D’matti sén gsinh roatschugu.
A. A voart d’housanha hentsch dŝchu gmachut allu
zseeme, zu hentsch kheen ellji da selbe hof, gsischt
phieri…
B. Jia, ischt d’kantunhi…allu zseeme.
A. Invece nunh ischt eis héi eis doa invece du na um
nöit gschénte matti, da hof hentsch kheen ellji da
selbe, nöit gschénte matti antweege du…
B. Ischt dŝchi gsinh manhal matti. Un dé doa im luch
was hescht khéit, simmanh?
A. Na, na, du njanka, a voart, z’merteil…
B. Na, um machun le fondamenta?
A. Na, dŝch’hen gsoassut sua, dŝchi hen nöit gleit…a
voart ischt nöit gsinh…
B. Dé was hescht gleit?
A. Steina, steina un vloaschter, doa vill hentsch kheen
da chalch, hentsch nen gleit afiururu…
B. Dé da chalch…
A. Da chalch ischt gsinh zockla, zockla…
B. Hentsch gchauft zockla, hentsch dŝchi gleit milde.
A. Gleit milden im wasser.
B. Un té dan tag drouf ischt gsinh wi…
A. Té zu hentsch tribbe, dan tag drouf hentsch tribbe
mit dam sann, dan tag drouf ol…s’het mussun milden
as poar stünni, là, da chalch ischt gsinh zockla.
B. Nunh vinneschne mogoara aschuan zweg…
A. Nunh ja, wa ben…wa nunh…a voart di zockla ischt
nuan gmildit was da ischt gsinh guts invece nunh
ischter gmoalni, ischt allz guts; a voart, lécken milden,
ischt gsinh stükh z’khéjen awek, nunh den gmoalni
z’khéjen awek ischt khés dinh un…
B. Dé hescht kheen etwa béssur…
A. Ah jia, béssur…
B. Antweegen was da ischt nöit gschmolze hescht
gleit z’séitu, hescht khéit awek.
A. Das doa hescht khéit awek, das het gsotten doa, ah
ischt gcheen as dinh wi…
A. Li mettevano a mollo nell’acqua.
B. Poi il giorno dopo era come…
A. Poi mescolavano, il giorno dopo mescolavano con
la sabbia, il giorno dopo o…doveva ammollare qualche ora, là, la calce era in blocchi.
B. Adesso la trovi magari già pronta…
A. Adesso sì, ma ben…ma adesso…una volta dei blocchi ammollava solo quello che era buono invece adesso
è macinato, è tutto buono; una volta, mettendo a mollo,
c’erano pezzi da buttare via, adesso che è macinato da
buttare via non c’è niente…
B. Allora forse era meglio…
A. Ah sì, meglio…
B. Perché quello che non scioglieva lo mettevi da parte, lo buttavi via.
A. Quello lo buttavi via, quello cuoceva lì, ah diventava
una cosa come…
B. E la malta?
A. La malta la mescolavi anche a mano, noi avevamo
una cosa quasi come un sarchio, la marra, era quasi
come un sarchio, per mescolare.
B. E quello…cosa mettevi lì dentro?
A. Calce e sabbia.
B. Niente altro…
A. No, allora il cemento non c’era, calce e sabbia.
B. Quindi mettevi una pietra e, con la cazzuola, stendevi un po’ di malta.
A. Sì…poi mescolavano e per portarla su la prendevano sulle spalle, c’erano due assicelle così e due bastoni, la portavano sulle spalle, vuagal lo chiamavano, lo
portavano su i ragazzi, dove c’era la casa facevano un
lungo ponteggio tutto intorno alla casa, andava tutto
su…allora non c’era niente, si portava tutto sulle spalle, eh, le pietre le portavano su con la carriola, due con
la carriola, un lungo ponteggio, faceva…andava su, girava intorno alla casa fino a che bastava.
B. Sì, andavi di seguito e arrivavi…
A. Cominciavi dal basso e quando la casa era piccola
magari mettevi un pezzo, altrimenti facevi il giro o magari anche oltre, da dove potevano prendere lungo…
B. Dovevano un po’…e avevate il filo a piombo per
vedere che il muro fosse più o meno…
A. Sì, il filo a piombo, la squadra e la mazzetta e la
mazza a cuneo…
B. Tutto per fare i muri?
A. Per fare i muri.
B. Per vedere la dirittura.
A. Sì, e la mazzetta e la mazza a cuneo per lavorare le
pietre, adesso hanno pietre già tutte lavorate…
B. Adesso è troppo facile.
A. Sì, sì, neanche più bello! No, non è più bello
come…
B. No, no, non hai più il piacere.
A. Sì, e poi anche il lavoro non è più come…
B. No, ma si vede perché le case sono un po’ così,
— 53 —
A U G U S T A
B. Un da vloaschter?
A. Da vloaschter hescht auch tribben zar hann, wir
hen kheen as dinh wi a roabjir villje, z’moddunh, ischt
gsinh villje wi a roabjir, um tréibe.
B. Un den…was hescht gleit doa dri?
A. Chalch un sann.
B. Un nöit anner…
A. Na, du z’simmanh ischt nöit gsinh, chalch un sann.
B. Dé hescht gleit a stein un, mit da mourlöffil, hescht
gleit as söiri vloaschter.
A. Jia…zu hentsch tribbe un um troan ouf hentsch
kiet vom rück, sén gsinh zwei loadjini sua un té zwia
schnetza, hentsch troan ouf vom rück, da vuagal
hentsch mu gseit, troan ouf d’boffi, woa da housunh
hentsch gmachut a lénhe steg allz um un um d’housunh,
allz kannhen ouf…du ischt nöit gsinh khés dinh, allz
troan ouf vom rück, eh, d’steina hentsch troan ouf mit
da steinbeeru, zwei mit da steinbeeru, a lénhe steg,
het gmachut…kannhen ouf, gchiert um da housunh
unz das ischt gsinh gnug.
B. Ja, bischt kannhen zu un zu un bischt arrivurut…
A. Hescht gvoan a z’undruscht un té wénn da housunh
ischt gsinh lljicki hescht gleit mogoara a stukh, süscht
mogoara gmachut dan tor ol mogoara unza bundanh,
van woa dŝch’hen muan gian lénh…
quelle che fanno adesso.
A. Ha un’altra faccia fatto…euh sì…erano magari due
muratori e due ragazzi, uno faceva la malta e uno la
portava su…
B. Il boccia?
A. Sì.
B. Allora per fare una porta lasci un metro o…
A. Sì, neanche, quasi qualcosa in meno…a seconda di
come la volessero larga, novanta, un metro.
B. Avevi il progetto da seguire?
A. Ah sì, i geometri ci sono sempre stati…qualcosa, ah
sì, ci davano sempre…allora era più facile di adesso,
non ci andavano tante carte, adesso…
B. Anche quello…adesso è un disastro.
A. Un disastro, adesso è un disastro.
B. E per fare sopra la porta cosa avevi, una pietra, una
grossa pietra lunga o…
A. L’architrave o a volte…in alcuni posti mettevano…
in tanti posti mettevano il legno dentro e la pietra fuori,
c’era una lunga pietra fuori, come qui a Pioani sono
tutte pietre fuori, una volta era…sì, dentro mettevano
il legno e fuori la pietra.
B. Poi arrivavi all’altezza a cui dovevi arrivare e cominciavi a mettere giù le travi per fare il tetto?
A. Sì, il tetto, e il più difficile, una volta, erano le lose,
Interno di una abitazione, il piellje (soggiorno).
— 54 —
A U G U S T A
B. Hentsch dŝchi mussun as söiri…un té hedder
kheen da sénhgjil um lugun a peu près das d’mouru
wérti…
A. Jia, da sénhgjil, dan koare un an bickhjil un da
schléggil…
B. Allz um machun d’mouri?
A. Um machun d’mouri.
B. Um lugun as söiri d’schlechti.
A. Ja, un dan bickhjil un da schléggil um weerhun
d’steina, nunh hentsch steina aschuan allu
gweerhutu…
B. Nunh ischt z’vill tellz, gauch.
A. Jia, jia, njanka mé hübs! Na, ischt nümmi hübsch
wi…
B. Na, na, hescht nümmi le plaisir.
A. Ja, un té zu anche z’weerch ischt nümmi wi…
B. Na, wa mu gsit antweegen d’ketschi sén as söiri sua
doa, déju das machuntsch nunh.
A. Is het an andre minnu gmachuts…euh sì…sén
mogoara gsinh zwia houfara un zwian boffi, eis het
gmachut da vloaschter un ein het nen troan ouf…
B. Il bocia?
A. Jia.
B. Dé vür machun an tür loascht a meischter ol eis…
A. Ja, njanka, villjen aswas minnur…selon wi dŝch’wéllji
breiti, nöinzg, a meischter.
B. Hescht kheen z’prodŝchet z’süivuru?
A. Ah jia, les geomètres sén génh gsinh…etwas, ah jia,
dŝchi hennündŝch génh kee…du ischt gsinh tellur dé
nunh, ischt nöit kannhe sövvil pappara, nunh…
B. Das auch…nunh ischt a wildi.
A. A wildi, nunh ischt a wildi.
B. Un vür machun z’uabruscht di tür was hescht
kheen, a stein, an gruasse stein lénnhur ol…
A. An bdéckhjer ol wéilu voart…in éttlljigi üerter
hentsch gleit…in vill üerter hentsch gleit z’holz van
inna un da stein van ousna, ischt gsinh a lénnhe stein
van ousna, wi héi ouf in d’Pioani ischt allz steina van
ousna, a voart ischt gsinh…jia, van inna hentsch gleit
as holz un van ousna a stein.
B. Zu bischt arrivurut unz in d’hüeji woa di hescht
kheen z’arrivuru un hescht gvoan a z’lécken di troali
um machun z’tach?
A. Jia, z’tach, un z’tschebschta, a voart, ischt gsinh
d’blatti, z’tschebschta.
B. D’blatti hedder auch mussun…
A. D’blatti séntsch kannhe süjen dabbiri.
B. Dabbiri…ter d’guvveri?
A. Tur d’guvveri, steina as söiri gspoaltnu, un té zu
ischt nöit gsinh villuru das sén gsinh guti z’machun
blatti, d’blatti ischt gsinh z’tschebschtun dinh das ischt
gsinh.
B. Ah, sédder nöit kannhe chaufe…
A. Du ischt nöit gsinh blatti z’chaufe, etwas z’Uberlann,
hentsch etwa varchauft blatti süscht…
il più difficile.
B. Le lose dovevate anche…
A. Le lose andavano a cercarle per lì.
B. Per lì…nelle pietraie?
A. Nelle pietraie, pietre un po’ spaccate, e poi non erano in molti a saper fare le lose, le lose erano la cosa più
difficile che c’era.
B. Ah, non andavate a comperarle….
A. Allora non c’erano lose da comperare, qualcosa a
Gaby, forse vendevano lose ma altrimenti…
B. Non c’erano.
A. Non c’erano…le lose andavano a cercarle nelle pietraie, pietre che si spaccavano facilmente e poi erano
solo alcuni a saper fare le lose, piano piano con lo scalpello, andavano avanti, poi le aprivano e le lavoravano
con lo scalpello…il peggio erano le lose, il peggio…
B. Poi dopo fai il camino?
A. Il camino lo facevano mano a mano, su su…
B. Sì, voglio dire, non metti le lose prima…
A. Cosa?
B. Fai il camino, il camino lo fai subito e poi dopo metti
le lose.
A. Sì, le lose dopo, sì, sì, si fa il camino e dopo si posano le lose, una volta che hai posato la travatura si fa il
camino, poi quando sistemavano la travatura era una
grande festa, quando mettevano su la trave maestra.
B. Ah sì.
A. Era una festa, quando mettevano su la trave maestra era…
B. Allora il proprietario pagava da bere.
A. Da bere e da mangiare e la cena, era una festa mettere su la trave maestra perché era…
B. Vedevi il lavoro finito.
A. Finito no ma a buon punto, là! Ah, poi il legname
grosso, tutto il piccolo, i travicelli e le lose e tutto…poi
venivano quelli che fanno il tetto.
B. Allora quelli che fanno il tetto mettono solo le lose?
A. Solo le lose, quelli che fanno il tetto sono solo alcuni; a fare le lose e metterle sul tetto erano solo alcuni,
in genere i muratori non erano capaci di fare le lose,
alcuni, ma se no fare le lose era difficile…
B. Sì, ma non tutti.
A. No, no, fare le lose era difficile, non c’erano le pietre, adesso vengono da…
B. Dalla Norvegia…
A. Norvegia o India o…Allora era più facile perché
non c’erano tante carte…
B. Quello sì, lì hai ragione.
A. Se no c’è da tribolare anche, allora era facile…
B. Sì, ma c’era da tribolare sul lavoro, sì, non andare
per uffici e i bolli, carte e documenti…
A. No, no, anche a mettere su la travatura c’era sempre tanta gente…E poi, in seguito, cominciavano pian
piano dentro…
B. Intonacare…
— 55 —
A U G U S T A
Abitazione in muratura affiancata ad uno
stadel del XVI sec., villaggio di Benecade.
B. Ischt nöit gsinh.
A. Ischt nöit gsinh…d’blatti séntsch
kannhe süjen tur d’guvveri, steina das
hen as söiri gspoalten tell un té zu sén
nuan gsinh éttlljigi das sén gsinh guti
z’machun blatti, allz lljéis lljéis mit
dam sissjil, kannhen zu, zu artoan un
beckschut mit dam sissjil…z’wuschta
ischt gsinh d’blatti z’wuschta…
B. Un té darnoa machischt z’chömmi?
A. Z’chömmi hentsch gleit ouf a si, ouf
ouf…
B. Ja, will see, léckischt nöit darvür
d’blatti…
A. Was?
B. Machischt z’chömmi, z’chömmi
machischt sibit un té darnoa léckischt
d’blatti.
A. Jia, darnoa d’blatti, jia, jia, mach
dŝchi z’chömmi un té darnoa leit
dŝchi d’blatti, a voart das hescht toan
d’holzer mach dŝchi z’chömmi, zu wénn
dŝch’hen gmachut d’holzer ischt gsinh
an gruasse virtag, wénn dŝch’hen gleit
ouf d’vist.
B. Ah jia.
A. Ischt gsinh a virtag, wénn dŝch’hen
gleit ouf d’vist ischt gsinh…
B. Dé dar meischter het zallt
z’tringhje.
A. Z’tringhje un z’esse un z’nechtmuss,
ischt gsinh a virtag lécken ouf d’vist
antweegen ischt gsinh…
B. Hescht gsian z’weerch glljéivruts.
A. Glljéivruts na wa wol dra, là! Ah, zu d’gruassu
holzer, ellji d’lljicku, d’lljickun troali (roavi) un d’blatti
un allz…zu sén dén gcheen di tachara.
B. Dé di tachara lécken nuan d’blatti?
A. Nuan d’blatti, tachara ischt auch nuan éttlljigi;
machun blatti un tachun sén nuan gsinh éttlljigi,
z’merteil d’houfara sén nöit gsinh guti z’machun blatti,
éttlljigi, wa süscht machun blatti ischt gsinh tscheb…
B. Ja, wa nöit ellji.
A. Na, na, machun d’blatti ischt gsinh tscheb, ischt
nöit gsinh d’steina, nunh cheentsch van…
B. Van la Norvegia…
A. Norvegia ol India ol…Du ischt gsinh tellur das ischt
nöit gsinh vill pappara…
B. Das jia, doa hescht recht.
A. Süscht ischt z’tribuluru auch, du ischt gsinh
tellz…
A. Tutto intonacare e fare i pavimenti e piazzare le porte e finestre.
B. Lì c’era il falegname.
A. Il falegname li costruiva e i muratori li piazzavano,
sì, in genere le travi le mettevano già man mano che
salivano, se le avevano…adesso anche portare su tutto
sul tetto, prendere le lose a spalle e portarle sul tetto e
perfino lose pesanti…
B. Una alla volta.
A. Ah sì, e perfino lose pesanti, adesso vanno su
come…
B. Adesso hanno la gru.
A. Neanche, adesso hanno…come chiamano quei…
B. Quegli elevatori, quei carrelli…
A. Quei grossi, come quello che c’è di là a Gran Proa
dei pompieri.
B. Quelle autogru, non so…
A. Non so più come si chiama, quelli che alzano su…
— 56 —
A U G U S T A
Particolare della foto precedente. Parti lignee che
delimitano il loggiato, riparato dalle falde molto
sporgenti del tetto, sul fianco di uno stadel (stalla,
granaio e fienile), nel villaggio di Benecade.
B. Ja, wa ischt gsinh z’tribuluru vom weerch,
ja, nöit goan in t’i uffici un bolli, pappara un
documenti…
A. Na, na, bélla lécken ouf d’holzer ischt génh
gsinh an troppe lljöit auch…Un té zu darnoa
hentsch dén gvoan a lljéis lljéis van inna…
B. Bschloage…
A. Allz bschloan un té machun d’sollara un
lécken ouf di türri un fenschtri.
B. Doa ischt gsinh dar holzmeischter.
A. Dar holzmeischter het gmachut un té
d’houfara hen gleit ouf, jia, z’merteil di troali
hentsch aschuan gleit a si das sén kannhen ouf,
wénn dŝch’hen dŝchi khee…nunh bella troan
ouf allz vom tach, gien d’blatti vom rück un
troan ouf vom tach un unza schwier blatti…
B. Eina zar voart.
A. Ah dŝchacki, un unza schwier blatti, nunh
goantsch ouf wi…
B. Nunh hentsch la gru.
A. Njanka, nunh hentsch…wi seentsch déi…
B. Cugli elevatori, cui carrelli…
A. Déi gruassu, wi das das ischt dür doa in
Gran Proa van i pompiers.
B. Culle autogru, wiss nöit…
A. Wiss nümmi wi z’heissi, déi das bürren
ouf…
B. Ben dé d’noami van di trüeli ouf ol ab hewer
gseit ellji.
A. Ja, trüeli hentsch nöit kheen sövvil dinnhi,
du d’houfara hen kheen a sénhgjil, a soagu,
z’tésti un da schléggil un dan bickhjil.
B. Z’tésti? Was wérti das?
A. Ja, z’tésti, auch eis um trommun d’steina.
B. Ja, etwas wi da schléggil.
A. Da schléggil, du hentsch kheen ellji dan bickhjil.
B. Un groabe?
A. Um groabe d’schouvlu, pickunh un schouvlu.
B. Da mourlöffil…
A. Da mourlöffil, jia, das…
B. Doa, woa hescht khéit dri…wa ischt etwa njanka
gsinh…déi karrutun dinnhi woa khéjischt dri büttinh
ol vloaschter…
A. Na, na, ischt nöit gsinh du, allz tribben zar hann,
du hentsch khee…ischt gsinh villje wi a hawu, as
gruass…z’moddunh um tréibe.
B. Dé séwer etwa a post.
B. Bene, allora i nomi degli attrezzi più o meno li abbiamo detti tutti.
A. Sì, di attrezzi non avevano tante cose, allora i muratori avevano un filo a piombo, una sega, la mazzetta e
la mazza a cuneo e un’altra mazzetta.
B. Il tésti? Cosa sarebbe?
A. Sì, il tésti, anche uno per tagliare le pietre.
B. Sì, qualcosa come la mazza a cuneo.
A. La mazza a cuneo, allora avevano tutti la mazzetta.
B. E scavare?
A. Per scavare la pala, piccone e pala.
B. La cazzuola…
A. La cazzuola, sì, quella…
B. Lì, dove buttavi dentro…ma forse non c’era neanche…quei cosi quadrati dove metti calcina o malta…
A. No, no, non c’era allora, mescolavamo tutto a mano,
allora avevano…era quasi come una zappa, un grosso…la marra per mescolare.
B. Allora siamo a posto.
— 57 —
A U G U S T A
La cerealicoltura sul versante
meridionale del Monte
Rosa in età tardo-medievale
Roberto Fantoni
La principale attività attualmente praticata nelle comunità
alpine nel settore agro-pastorale è l’allevamento. Le fonti documentarie attestano invece l’importanza nel passato, anche
in insediamenti fondati a quote elevate, della cerealicoltura.
Questo lavoro esamina la sua diffusione nelle comunità insediate in età tardo-medievale sul versante meridionale del
Monte Rosa.
I
l progetto di colonizzazione tardo-medievale del
versante meridionale del Monte Rosa, attuato
tra il Duecento e il Quattrocento, è chiaramente
espresso negli atti di fondazione dei nuovi insediamenti. Nel 1270 il capitolo di S. Giulio d’Orta
concedeva a titolo enfiteutico a coloni walser l’alpe Rimella
affinché vi potessero costruire case e mulini e impiantare
prati e campi (Fornaseri, 1958, d. CXIII). Un’espressione
simile era utilizzata nel 1420 dai testimoni al processo informativo sulle alpi del vescovo di Novara in alta Valsesia, che
asserivano che su queste alpi trasformate in insediamenti
permanenti i coloni creavano casamenta et haedificia ac prata et campos (Fantoni e Fantoni, 1995, d. 13).
Attorno al nucleo abitato, costituito da case che accorpavano
le funzioni civili e rurali, gli atti notarili del Quattrocento e
Cinquecento presentano un uso del territorio caratterizzato
da orti, campi, limidi, gerbidi, prati, meali, pasquate, trasari
e pascoli, che denunciano chiaramente la vocazione agricola
e pastorale della comunità. Negli inventari cinquecenteschi
gli utensili per la lavorazione dei campi figurano a fianco di
quelli per l’allevamento e la fienagione: in un elenco di beni
della famiglia Viotti di Rima del 1563 sono significativamente
citati in sequenza una sappa e una ranza (Fantoni, 2007a).
I cereali sul versante meridionale
del Monte Rosa
La distribuzione altitudinale dei cereali coltivati in età tardomedievale è ricostruibile attraverso l’ampia documentazione
disponibile per la Valsesia, costituita dai contratti di affitto
con canoni in natura, dalle decime stabilite al momento della
fondazione delle parrocchie e dalle forme consuetudinarie
(originate a partire dalla fondazione degli insediamenti) riportate nelle disposizioni testamentarie e nelle norme delle
Congregazioni di carità.
La segale, caratterizzata da una germinazione rapida anche
alle basse temperature e da un breve ciclo vegetativo, era
indubbiamente la specie più diffusa (anche alle alte quote,
ove rimase persistente nel tempo). Ma era presente in maniera diffusa anche l’orzo, che, sebbene meno resistente al
freddo della segale, cresceva anche dove il frumento non si
adattava bene. Non mancavano inoltre cereali tipicamente
medievali, come il miglio e il panico. Solo in alcune località
della bassa valle era presente anche il frumento.
A Crevola (445 m), in un elenco di fitti in natura del 3 maggio
1323, compaiono quartatolas biave1, medietas sicalis et alia
medietas panici (Mor, 1933, c. LXXVIII). Sempre a Crevola,
tra le diposizioni testamentarie del 1322 di Alaxia compare
un legato per la distribuzione annuale di un sestario di segale alla Carità di S. Spirito (Mor, 1933, c. LXXVI).
In un contratto d’affitto del 1563 per un campo nel territorio
di Isola di Vocca (521 m) compaiono 24 starie di grano, 8 di
segale, 9 di miglio e 7 di panico (Fantoni, 2001, pp. 73).
In un documento del 1327 Arienta di Boccioleto (656 m) istituisce un legato di una mina di segale ed una mina di panico
nella misura della Curia superiore che i suoi eredi sono tenuti a pagare ogni anno alla Confraternita di S. Spirito (Fantoni e Fantoni, 1995, d. 1b).
L’ampia gamma di cereali coltivati nei campi delle località
più basse e solatie dell’alta valle è fornita dall’elenco delle
decime che il prete Zali riscuoteva nel 1617 nel territorio di
Rossa2, costituite da 15 some di segale, 13 some di panico,
… 2 staia di formento, 2 staia di arbelie et orzo (Fantoni e
Cucciola, 1998, p. 230).
In una “memoria” allegata agli Atti di visita del 1594 risulta
che la Carità detta ellemosina del pane di S.to Spirito distribuiva nel giorno dell’Annunciazione a Scopello (679 m) staro
uno di novarese staro uno miglio, mina una miglio, mina una
panicho per un totale di sachi vinti in cira misura novaresa
(ASDN, AVi, v. 24, f. 17r). Carità di S. Spirito che distribuivano grani sono documentate negli stessi Atti di visita anche a
Piode (f. 30r), Campertogno (f. 56r) e Riva (f. 74r).
Nelle comunità dell’alta valle la produzione era molto meno
differenziata.
Il Bescapé, per la Confraternita di S. Spirito di Campertogno
(796 m), scriveva che 100 confratelli devono ciascuno uno
staio di segale che serve per fare pane da distribuire ai poveri
forestieri e del paese (Molino, 2006, p. 121).
termine con cui in ambito pedemontano si indicavano in modo generico tutti i tipi di cereali, ma in particolar modo quelli primaverili
o una mistura composta da segale, miglio e panìco (Nada Patrone, 1981, p. 63).
2
Costituito da insediamenti sparsi, esposti prevalentemente a sud, distribuiti tra 585 e 1059 metri.
1
— 58 —
A U G U S T A
L’allevamento
Nel testamento del 1516 di Antonia vedova di Giacomo di
Spinfoglio di Rassa (923 m) compare la distribuzione ai poveri della valle di Rassa di 15 sestari di segale “confectos in
pane” (Briciole …, pp. 259-260)
In un documento del 1345, che costituisce la più antica attestazione di cereali in Valsesia, compare a Piè d’Alzarella
(frazione di Riva. 1229 m) un appezzamento di terra colta et
seminata cum sicali (Mor, 1933, d. XCI, pp. 222). In un documento del 1523 un appezzamento di terra a prato e campo
nella stessa comunità è gravato dell’onere perpetuo di “starium unum sichali” da consegnare alla Carità di S. Spirito
(Briciole …, p. 185).
A Rimella3 una disposizione ricorrente nei testamenti riguardava la distribuzione di staia di segale in forma di pane. Nel
testamento rogato il 16 dicembre 1481 Antonio fu Giovanni
Jogli de Scarampogl si dispone la distribuzione di otto staia
di sale e quaranta staia di segale da confezionare in pane da
distribuire in tutto il territorio di Rimella; per le anime delle
sue consorti il testatore destina ai Rimellesi altre otto staia
di sale e sessanta staia di segale. La stessa forma è replicata nel testamento del 7 febbraio 1547 di Biagio fu Giovanni
Maria Traglio, che dispone per l’anima sua e di sua moglie,
la distribuzione di 40 staia di segale in forma di pane per l’intero territorio rimellese (Vasina, 2004, pp. 96-97). Ogni famiglia doveva inoltre alla Confraternita di Santo Spirito alcune
staia di grani, poi detto “grano dei morti”. In un elenco del
3
4
13 maggio 1616, da pagarsi ogni anno a memoria de viventi,
compaiono tutti i contribuenti, che versano quantità di segale variabili tra 0,5 e 7 coppi di segale, per un totale di circa
250 litri di grani (Dellarole e Papale, 2004, p. 254; Tonella
Regis, 2004, p. 172). A Rimella è inoltre documentato il toponimo campum avene (Dellarole e Papale, 2004, p. 255).
A Rima4, negli atti notarili del Cinquecento, viene ripetutamente citato l’appezzamento di terra intus campos de avena
(o campos avene; Fantoni, 2006, p. 73). La persistenza toponomastica esprime bene il limite ecologico del territorio di
Rima. L’avena, oltre ad adattarsi bene ai climi freddi come
cereale a semina estiva, può essere facilmente coltivata nei
terreni recentemente roncati, in quanto non necessita zappature profonde. Nonostante l’avena sia uno dei cereali più
nutrienti, sicuramente quello con potere calorico più elevato, il suo scarso rendimento in farina ne limitava l’uso prevalentemente all’alimentazione animale e nell’alimentazione
umana veniva generalmente impiegata in grani. Ma anche a
Rima, come nel resto della valle, era coltivata la segale. Nel
1612 il Bescapè (ed. 1878, p. 156) scriveva che “di notte cade
la neve che danneggia i grani di segale non ancora maturata,
e scarsi ivi sono questi grani”.
Ma la coltivazione di cereali nelle valli adiacenti a quelle del
Sesia raggiunse anche quote superiori.
In un documento del 2 febbraio 1476, i curatori e del custode
della chiesa di S. Maria di Macugnaga reclamano il mancato
Con insediamenti sparsi con diversa esposizione, distribuiti tra 969 e 1420 metri.
Insediamento accentrato ubicato a 1404 metri.
— 59 —
A U G U S T A
Le scorte cerealicole e i mulini
Le scorte cerealicole denunciate negli inventari cinquecenteschi sono costituite quasi esclusivamente dai cereali di cui
è documentata la crescita sul luogo. In alta valle sono citate
riserve generiche di grani e riserve di segale (ad esempio 30
staia di segale, contenute in un’”arca di legno”, ad Oro in val
Vogna nel 1548; Briciole, pp. 227-228). In un altro inventario
del 1671 della val Vogna sono esplicitamente citate stara 5
biada trovata nei campi (Papale, 1988, p. 14).
A Rimella, in un inventario di beni di Giovanni Braga del
1606, compaiono contemporaneamente scorte di grani, farine e pane: staia 15 di segala, 3 di miglio, 6 di pane e 4 di
farina di meliga (Pizzetta, 2004, p. 241).
Poiché le farine si alterano molto più rapidamente dei cereali in granella, la trasformazione veniva effettuata costantemente nell’arco dell’anno in numerosi mulini sparsi su
tutto il territorio. Questi edifici compaiono già come parte
integrante degli atti di fondazione dei nuovi insediamenti
colonici. A Rimella, nel 1256, compariva già uno ius molendini (Fornaseri, 1958, d. C). Nella concessione enfiteutica
del 1270 era chiaramente indicato il diritto di “costruire
case e mulini, impiantare prati e campi” (Fornaseri, 1958,
d. CXIII); tra le decime figurava la blava. Il contratto univa
quindi in modo esemplare il bene (campi), il suo prodotto
(blava) e il suo strumento di trasformazione in alimento
(mulino)5.
La sappa e la ranza (da De Marchi, 2006)
pagamento da circa 23 anni dell’elemosina a favore dei poveri
di staria duo sichalis cocti in pane stabilito con legato di Giovanni fu Tomaso Yuineler (Rizzi, 2004, p. 104; 2006, p. 131;
Bertamini, 2005, v. 1, p. 545; v. 2, pp. 37-38). A Macugnaga,
secondo quanto riportava una relazione di Joachim de Annono del 1553 si riusciva a coltivare solo un seminerio, cioè di
segale, o di miglio, o di panico (Bianchetti, 1878). Nella visita
pastorale del 1582 viene annotata la presenza di una elemosina denominata Spenda, che viene convertita in pane e formaggio da distribuire ai poveri della parrocchia e ammonta a
24 emine (circa 390 litri) di segale e 10 libbre (circa 50 kg) di
formaggio (Bertamini, 2005, v. 1, p. 545).
La coltivazione dei cereali arrivava nella vicina valle di Gressoney sino all’insediamento di Tschaval (1823 m), ove è attestata da un documento del 1440 relativo al pagamento di
un canone d’affitto in natura costituito da orzo (Rizzi, 1992,
p. 58); il documento censisce i beni colonici che Antonio figlio di Yoglin Vuelchin gode per conto dei Vallaise; tra questi compare un appezzamento di terra a campo nel luogo di
Forey, che si stimava potesse produrre 3 quaternari di orzo
ogni anno nella misura grossa (Rizzi, 2004, p. 168).
In Valtournenche, a Singlin, è attestata la coltivazione di orzo
(1385), siliginis (1377, 1385) e avena (1376, 1385) (Tognan e
Liviero, 2003, pp. 133-134).
I forni e la panificazione
La panificazione veniva effettuata nei forni frazionali, ampiamente citati nei documenti tardomedievali6. Numerosi forni
sono ancora presenti in val Vogna e in val d’Otro7. A fianco
dei forni dislocati in edifici appositamente attrezzati erano
presenti forni ubicati in locali appositamente destinati nel
piano seminterrato di costruzioni polifunzionali (Ca Vescovo, Bellosta e Bellosta, 1988, p. 97).
I forni per la panificazione richiedevano un notevole dispendio di combustibile per portarsi in temperatura. Per
questo motivo la panificazione veniva concentrata in un
numero limitato di occasioni e veniva praticata collettivamente. A Macugnaga la panificazione era tradizionalmente
praticata nel periodo prenatalizio. Il delegato governativo
Gioacchino de Annone il 26 maggio 1553 annotava con meraviglia di aver visto ancora del pane di segale duro come
un sasso, cotto a Natale, come mi hanno giurato ed anco
provato. Questo uso era confermato ancora alla fine del
Settecento dall’abate Amoretti (1794), che riferisce che a
Macugnaga nel sol dì di Santa Caterina (25 novembre) si
fa pane per tutto l’anno (Bertamini, 2005, v. 1, p. 477; Rizzi,
2006, p. 136).
Era invece praticata in modo molto più costante nel tempo la
produzione di un altro impasto cotto di cerali: le miacce.
Sulla distribuzione dei mulini nelle valli Egua e Sermenza nel periodo immediatamente seguente alla colonizzazione si rimanda a
Fantoni (2001). Per un dettaglio sul territorio di Rima si rimanda a Fantoni (2006). In letteratura sono inoltre disponibili i censimenti
degli edifici esistenti sino a tempi relativamente recenti di alcune località valsesiane (Molino, 1985, per Campertogno; Fantoni, 2001,
per la val Cavaione). Nell’ambito del progetto ecomuseale dell’alta Valsesia sono stati recentemente ristrutturati due mulini a Mollia
e Alagna.
6
Un forno era già citato in un documento del 1308 a Isolello (pezza di terra aput furnum, Mor, 1933, c. LXVIII).
7
In val Vogna sono tuttora conservati a Vogna di sotto, Ca di Janzo, Oro, Ca Morca, Sant’Antonio e Rabernardo (Bellosta e Bellosta,
1988, pp. 59, 71, 77, 89, 97, 103, 112).
5
— 60 —
A U G U S T A
Le miacce
Le miacce sono probabilmente il prodotto alimentare più
noto della Valsesia. Grazie alla loro facilità di preparazione e
alla gran versatilità alimentare sono diventate le protagoniste di tutte le feste valsesiane8.
Guide turistiche, letteratura locale e riviste specializzate propongono diverse ricette delle miacce valsesiane9. In un recente volume dedicato alla cucina valsesiana (AA. VV., 2001,
p. 8) sono indicati come ingredienti farina bianca, latte intero, uova intere, panna, poca acqua e sale. Una composizione
simile è indicata per Riva Valdobbia da Bello Lanzavecchia
(s.d., p. 29). Ma la ricetta indicata da Molino (1985, p. 72;
2006, p. 67) in un volume dedicato al territorio di Campertogno prevede anche la presenza di farina gialla ed olio10. L’utilizzo di farina di granoturco era indicata anche in un articolo
comparso sull’Almanacco Valsesiano del 1873 (ora anche in
Di Vitto, 2004, pp. 187-188).
Queste differenze indicano una diversificazione del prodotto nel tempo, che mantenne costante la ricetta ma modificò
gli ingredienti in funzione della disponibilità locale.
I diversi ingredienti sono mescolati in un apposito recipiente
sino ad ottenere un impasto di media consistenza. La cottura avviene sul fuoco vivo mediante due piastre di ferro.
Un cucchiaio dell’impasto viene versato al centro della piastra inferiore e allargato a tutta la superficie dalla pressione
esercitata dalla chiusura della piastra superiore. Per esporre
tutte le parti al fuoco la miaccia viene ruotata con una paletta
piatta e i ferri vengono periodicamente capovolti.
La farina di miglio
L’ingrediente essenziale delle miacce è attualmente costituito da farina di frumento (o di mais). In Valsesia la crescita del frumento in età tardo-medievale era circoscritta a
qualche campo della bassa valle e anche successivamente
l’utilizzo di questa farina rimase limitato alla modeste quantità introdotte in valle dalla pianura novarese. L’introduzione
della farina di granoturco, avvenne in epoca sicuramente
successiva al Seicento, periodo in cui il granoturco iniziò ad
essere coltivato anche in Italia settentrionale.
L’ingrediente principale in passato doveva dunque essere
costituito da altri cereali e la voce migliaccio, con cui viene comunemente identificato il prodotto nei documenti del
Cinquecento, sembra indicare nella farina di miglio il costituente principale.
Il miglio era ampiamente diffuso in tutta Europa durante il
Medio Evo, e fu poi soppiantato dalla comparsa di cereali
con maggior valore produttivo e qualitativo. Era impiegato in
chicchi o in farina; nelle minestre era impiegato in semi interi
(assieme al panico e all’orzo) e in semi “pestati” (assieme
al panico). La sua farina, grazie alle ottime capacità di lievitazione, era ordinariamente impiegata sino al Seicento nella
panificazione e nella produzione di dolci rustici, che ricordano nel nome (migliaccio, pan de mej) l’ingrediente principale. Un dolce prodotto in Lombardia, indicato dialettalmente
come miascia, era già descritto da Martino da Como nel suo
Libro de Arte Coquinaria redatto a metà Quattrocento.
Nonostante le elevate esigenze termiche (che richiedono un
minimo termico di 10-12°C per la germinazione e di 17-18°C
per la fioritura e la maturazione) il miglio era coltivato anche
in alta Valsesia per la brevità del ciclo vegetativo, che si compie in condizioni ottimali in un periodo di 60-80 giorni. Con
farina di miglio erano probabilmente preparati sino al Settecento anche numerosi piatti “tradizionali” a base di farina di
granoturco descritti nella letteratura locale11.
Il suo impiego per la preparazione delle miacce non è attualmente documentato ma del suo utilizzo rimane una vaga
memoria storica12.
In un inventario di beni Antonio Verno di Vogna del 1674 compaiono 3 stare di farina per fare migliazzi (Papale, 1988, p.
14); in quello di Giuseppe Prato delle Piane, redatto nel 1769,
è citata 1 mina di farina per far migliacci (Ragozza, 1983, p.
132)13. In entrambe i casi non è indicato il cereale d’origine.
Ferrum ad facendum miliacia
La diffusione delle miacce nell’alimentazione tradizionale
valsesiana è confermata da numerose attestazioni documentarie. I ferri per la preparazione delle miacce compaiono
infatti tra i pochi utensili presenti nelle case valsesiane in
quasi tutti gli inventari di beni redatti dai notai valsesiani a
partire dalla fine del Medio Evo14.
Questo paragrafo costituisce un aggiornamento di testi precedentemente pubblicati su diverse riviste e libri (Fantoni, 2002, 2006, 2007b).
Ad Alagna sono chiamati millentschu (Giordani, 1891; ed. 1974, p. 153).
10
Le miacce erano note anche nella valle del Lys, ove venivano preparate con gli stessi ingredienti e con le stesse modalità di cottura
(Noro Desaymonet, 2000, p. 114), le miasse (milljantscha nel dialetto tedesco) sono ricordate ad Issime anche da Ronco e Musso
(1998, pp. 120-121), che indicano come ingredienti farina di mais e farina di frumento.
Una ricetta di miacioi, con farina di grano tostato, è tramandata per il Cusio da Nazarena S., delle scuole di Casale Corte Cerro (www.
lagodorta.net/scheda.asp? contID0189). La cottura della pastella avviene sull’anvarola (attrezzo ricordato anche in Valsesia). A Quarna sono noti i mijecc, fatti con farina di mais e cotti su una pioda o su una piastra di ferro, di cui rimane memoria storica (Milan, 2002,
p. 69; Cecchetti, 2002, p. 65); gli Autori ipotizzano che una volta fossero fatte con farina di miglio.
11
Per Campertogno si rimanda a Molino (1985, p. 71; 2006; per Rimella a Remogna (1993, 1994). Anche la polenta, attualmente associata quasi esclusivamente alla farina di granoturco era in origine preparata con farina di miglio. Una polenta … con farina di miglio
era citata nel 1569 ad esempio da Agostino Gallo ne Le venti giornate dell’agricoltura e de piaceri della Villa.
12
Anche secondo Ragozza (1983, p. 134) le miacce si ottenevano tradizionalmente utilizzando la farina di miglio.
13
Nello stesso inventario sono citati anche 1 coppo di avena pista, 1 coppo di orzo pisto, 1 staro di orzo e mellio tutto insieme, 6 stara di
farina di biada. La diversa consistenza (e il diverso valore) delle riserve cerealicole presenti in un nucleo familiare è deducibile da un
altro inventario del 1751 in cui compaiono 121 staia di miglio (che valevano 242 lire) e solo 3 staia di farina di frumento (che valevano
10 lire e 10 soldi) (Ragozza, 1983, pp. 132-133). Some, staia e mine sono misure di capacità per aridi; 1 soma corrisponde a 9 staia; 1
staio a 2 mine. Uno staio equivale a 18,28 litri, che per granaglie corrisponde circa a 32 kg.
14
I ferri, nella tradizione popolare, avevano anche capacità divinatorie. Nelle sue note sui pregiudizi popolari in Valsesia l’abate Carestia
(s.d., p. 17) scriveva che la posizione che assumevano i grani di diversi cereali durante la torrefazione il 1 gennaio indicava le loro variazioni
di prezzo nel corso dell’anno: se venivano verso il cucinatore sarebbero diminuiti, se andavano in direzione opposta sarebbero aumentati.
8
9
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A U G U S T A
Campi coltivati a fine Ottocento a Riva
Ragozza (1983, p. 134) segnala, senza indicarne la fonte e
il contesto, la citazione di un ferrum ad facienda miliacia in
un inventario della fine del Quattrocento. Tonetti (1894) segnala un documento del 1544 in cui sono citati brandinalem
unum cum ferro uno a migliatio et nevarolam unam ferri.
Nel documento i ferri per la cottura delle miacce sono associati ad altri due utensili da focolare: la varola, che nel dialetto valsesiano identifica la paletta da fuoco a margini non
ripiegati, e il brandinale, l’alare dove si appoggiava il ferro
rovente (Tonetti, 1894, pp. 66, 317; Molino, 1985, p. 56).
A partire dal Cinquecento le citazioni divengono frequenti.
Nell’inventario dei beni degli eredi di Giovanni Francesco
di Vogna, redatto nel 1548, sono citati “brandale unum cum
ferris tribus a migliazio” (Briciole…, p. 227). Nell’inventario
del 1591 riguardante i beni degli eredi d’Antonio Giadolli del
Solivo di Fervento compaiono paria 2 ferri a miliazzi e ben
nove brandali a miliazzi (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77).
Nel Settecento i ferri compaiono in quasi tutti gli inventari
delle valli del Sesia. In questo periodo il valore di un servizio
completo, costituito da ferri da miliazie con varola e brandinale, era indicato in 4 lire (Ragozza, 1983, pp. 129-130)15.
I ferri attualmente più utilizzati, prodotti da artigiani locali,
sono costituiti da due pesanti piastre circolari incernierate e
sostenute da due lunghi manici. Ma gli utensili più antichi,
ancora presenti in molte case valsesiane, erano costituiti da
due piastre rettangolari, separate, che venivano appoggiate
su un apposito supporto.
I ferri da miacce e gli altri utensili citati negli inventari cinquecenteschi erano probabilmente realizzati nelle fucine documentate in alcune località valsesiane. I ferri censiti a Riva
In val Grande un para ferri di migliazzo compare nell’inventario del 16 marzo 1717 dell’eredità di Marco Avondetti di Guaifola e
nell’inventario dell’eredità di Giovanni Pietro Lancia dei Ronchi di Boccioleto, il 10 marzo 1794 sono elencati li ferri da miliazzo con
suo brandinale e varola (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77). I ferri da migliacci con loro palette di ferro e brandale sono presenti in tutti
gli inventari settecenteschi di case di Scopello (Sasso, 2008). In val Vogna ferri da migliaccio col suo brandinale compaiono in un inventario del 1709 (Ragozza, 1983, p. 129). In val Sermenza, nell’inventario di Margherita Lancina di San Giuseppe del 10 maggio 1793
erano compresi una palletta per levare il migliazzo e li ferri da miliazzo con brandinale e varola; a Rima i ferri delle miacce compaiono
negli inventari di Guglielmo appellato Job (metta de ferri del migliazzo, 1706) e di Anna Maria Bastucchi, vedova Axerio (una cattena
da fuoco con li ferri dal migliazzo, brandinale e varola, 1752). In val Mastallone in data 26 luglio 1778, fra i beni di Maria Domenica
Cengo di Rimella, troviamo un paja di ferri per i migliacci (Fantoni, 2002; 2006, pp. 75-77). L’attrezzo era presente anche nelle case
dei parroci; nel 1737 compare tra i beni di don Antonio Ferraris ad Alagna (Ragozza, 1983, p. 132).
15
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A U G U S T A
merciale, potrebbe essere
ed Alagna provenivano proassunto ad emblema gastrobabilmente dalle officine che
nomico della valle16.
producevano ribebbe ed attrezzi in ferro a Mollia e Riva.
Il declino della
La produzione è documentata
cerealicoltura
a partire dal 1524, ma la preL’esaurimento delle possibilisenza di fucine in questo trattà d’espansione delle risorse
to della valle doveva risalire
agro-pastorali coincise con un
almeno al secolo precedente,
sensibile deterioramento dei
quando è attestato il toponiparametri climatici che regomo Piana Fuseria (1433). I
lavano le potenzialità di alleferri documentati nelle valli
vamento e cerealicoltura, che
Egua e Sermenza potevano
subirono una forte contrazioinvece provenire da una fucine. Questo periodo di generana documentata a Boccioleto
le deterioramento climatico,
nel 1566 (Fantoni, 2001, p.
80; 2002; 2006, pp. 75-77).
è caratterizzato da un cambio
Cinquecento anni dopo la loro
di regime demografico, deprima attestazione prosegue la
terminato dall’inizio dell’emiproduzione di questi utensili,
grazione stagionale (Fantoni,
2007, con bibliografia). Queche fortunatamente non sono
ste trasformazioni incisero
relegati a reperti museali.
sulle modalità di gestione delNell’Ottocento le miacce
le risorse e determinarono un
erano descritte nelle pagine
cambiamento nella produziodell’Almanacco
Valsesiano,
ne agraria e nelle forme di alierano citate nelle poesie diamentazione della popolazione
lettali ed erano ricordate nella
valsesiana (Papale, 2007, pp.
corrispondenza degli emi21-25).
granti. A Rima la millatsch era
La riduzione dell’attività agricelebrata anche in una poesia
cola provocò una drastica ridi Piaru Axerio (Mornese,
1995, p. 118). Negli stessi
duzione della produzione alianni erano celebrate da un’almentare locale. Questa dimiLa panificazione ad Alagna a fine Ottocento
tra poesia di Cesare Frigiolini
nuzione fu compensata dalle
(E ciò lu godi voiauti matacci,
risorse economiche derivanti
godi in gremma, i barguulli, i miacci). In una lettera del 26
dal lavoro esercitato fuori dalla valle, che permise l’acquisto
agosto 1927 dalla Francia, Pietro Rimella scriveva alla soreldi prodotti alimentari importati dalla pianura lombarda e piela Marta ad Alagna che alcuni compaesani gli avevano “dato
montese. I cereali prodotti dalla pianura assunsero un ruolo
da mangiare migliuca fatti coi ferri di quegli stessi che tu hai
fondamentale nell’alimentazione della popolazione valsesiache fanno la forma di fiori con tanti quadrettini” e chiude la
na e la limitazione alla loro importazione fu uno dei fattori
frase affermando, soddisfatto, che “è la prima volta che maninnescanti la rivolta montana del 1678 (Tonetti, 1875, pp.
503-512).
gio migliuca in Francia” (Fantoni, 2007b, p. 57).
Già allora costituivano già la principale attrattiva gastronoOltre ai cereali usati nella panificazione e nella preparazione
mica delle feste valsesiane. Ne è un esempio il ruolo cendi pappe e polente, nel Seicento è documentata anche negli
trale sostenuto ad una festa di Carnevale della Famiglia valinventari dell’alta valle la presenza di scorte di riso, che prosesiana di Milano nel 1925 (Corriere Valsesiano, 28 febbraio
babilmente sostituì nelle minestre molti cereali tipicamente
1925), quando costituirono il piatto unico della serata e furomedievali. Ad Alagna il riso entra in numerose minestre:
no celebrate da alcune sestine dialettali lette dall’avvocato
bangada (minestra), bangadu nessi (brodo di minestra) e baVigna.
nitsha (risotto al latte), i cui nomi sono associati da Giordani
(1891, p. 51) al termine bangu, panico17.
Le miacce continuano ad essere prodotte in tutte le località
A fianco dei prodotti tradizionalmente coltivati in pianura
valsesiane e sono costantemente proposte in quasi tutte le
furono introdotte in valle anche le coltivazioni importate
feste tradizionali. Il prodotto, proprio per l’antica attestaziodall’America. La disponibilità botanica di queste specie non
ne documentaria coniugata alla recente affermazione comNella Deliberazione della Giunta Regionale 15 aprile 2002 nr. 46/5823 (“individuazione elenco aggiornato dei prodotti agroalimentari del Piemonte” ai sensi dell’art. 8 del Digs. 30 aprile 1998, n. 1739) tra le “paste fresche e prodotti della panetteria, della biscotteria,
della pasticceria e della confetteria”, compaiono le “miacce” valsesiane e le “miasse” canavesane. Nella scheda allegata la ricetta delle
prime è basata sulla farina bianca e sull’uso degli strumenti recenti; la ricetta delle seconde con farina di granoturco e strumenti
tradizionali.
17
Piatti a base di latte vaccino e riso sono attestati anche nella cucina di Issime (Bodo, MUSSO, SARASSO, 1998, p. 193).
16
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A U G U S T A
coincise però con la loro diffusione agraria. Il mais comparve sporadicamente in alcune vallate alpine alla fine del Cinquecento, si diffuse durante il Seicento e si affermò solo nel
corso del Settecento, con forti differenze tra i diversi settori
della catena alpina. Ancora più lenta fu la diffusione della
patata, che raggiunse le Alpi solo nella seconda metà del Settecento (Mathieu, 1998, trad. it. 2000, pp. 72-74; tab. 3:1, p.
75). A differenza del mais, la cui coltivazione si arrestò nei
settori inferiori della valli alpine, la patata si dimostrò però
idonea alla coltivazione anche negli insediamenti montani.
La cerealicoltura fu relegata, dalle variazioni climatiche e
dalla carenza di risorse umane, ad un ruolo marginale. A
Macugnaga, anche nei periodi più freddi della Piccola Età
Glaciale, veniva ancora coltivata la segale invernale, seminata in estate e raccolta l’anno successivo (Rizzi, 2003, p. 21).
Nell’estimo del 1722 si trova che si semina ogni anno segale
e se ne raccoglie un anno con l’altro (Rizzi, 2006, p. 134). Una
testimonianza di questa attività è presente anche nella relazione del Cesati, delegato del Magistraro delle regie entrate
del governo di Milano del 26 dicembre 1651: il raccolto poi
non consistere in altro che in un poco di segale, che si semina
e raccoglie nel mese di agosto (Bianchetti, ed 1987, citato in
Rizzi, 2003, p. 21, con riferimento bibliografico a p. 59; Bertamini, 2006, v. I, p. 18; v. 2, pp. 174-176)18. Nell’estimo del
1722 si legge che i terreni di Macugnaga sono tutti lavorati
dai proprietari. Si semina ogni anno segale che si raccoglie
un anno con l’altro… il terreno aratorio o sia zappatorio darà
stare tre di segale per pertica compresa la semenza d’uno staro
di formento per pertica19. In una statistica redatta nel 1822
dal consigliere comunale Filippa, controfirmata dal notaio
Michele Cusa, si ricava che a Rimella si producevano ancora
4 quintali di segale (Vercellino, 2004, p. 396).
Nel corso del Novecento l’emigrazione divenne permanente, determinando un veloce abbandono di tutte le tradizionali attività agro-pastorali. Il lento ma progressivo declino della
cerealicoltura si è concluso, con la sua scomparsa totale, nel
secondo dopoguerra, anche se il ricordo della produzione
cerealicola e il suo utilizzo nell’alimentazione non è ancora
completamente scomparso dalla memoria storica della popolazione valsesiana (Regis e Sasso, 2007).
Ringraziamenti
Si ringraziano Angela Regis (Varallo) per la lettura critica
del manoscritto.
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ogni anno stare 4 tra segale e orzo, e ne raccoglierò 12 compresa la semenza, un anno con l’altro purchè non venghino tempeste o
altre disgrazie dal Cielo” (Rizzi, 2004, p. 67). In una supplica de 1670 si dice che non raccolgono “altro che segale e fieno” (Bertamini,
2005, v. 1, p. 121). Nelle informazioni raccolte in occasione della redazione degli Atti di visita del 1618, il parroco Corrado Humpert
scriveva che si raccoglie solo fieno e segale (Bertamini, v. 2, pp. 114-116). Ancora nel 1722 a Salecchio si seminavano ogni anno 4
stare tra segale ed orzo e se ne raccoglievano 12, purchè non venghino tempeste o altre disgrazie dal cielo (Rizzi, 2003, p. 18). In un altro
documento del 1726 si precisava che la raccolta della scarsa segale avveniva solo quando la quantità delle nevi li permettono li riflessi
solari per arrivare alla minor maturatezza (Zucca, 2003, p. 24).
19
A Macugnaga solo nel Settecento arriva il pane bianco, fatto con il grano proveniente dalla pianura, attestato in docuementi del 1720
e 1741 (Bertamini, 2005, v. 1, pp. 128).
18
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A U G U S T A
Le leggende walser fonti per un’interpretazione
del fenomeno stregonico documentato sulla catena
alpina centrale e nordoccidentale in età moderna
Battista Beccaria
Qualche anno fa, su questa stessa rivista, ho voluto istituire un confronto tra i vescovi controriformisti novaresi e
quelli aostani nei loro rapporti con le comunità walser presenti sulle rispettive diocesi, in un periodo in cui si temeva
seriamente che la diffusione dell’eresia calvinista potesse
penetrare più facilmente fra questa gente germanofona, in
grado di comprendere il sermone protestante d’oltralpe.
Fortunatamente per questi presuli, salvo rarissime eccezioni riguardanti più che altro parroci colti o gente letterata, l’eresia non toccò minimamente le comunità alemanniche, le quali rimasero tenacemente fedeli al cattolicesimo
romano, e questo nonostante le stagionali emigrazioni in
Paesi calvinisti o luterani, che li metteva in contatto continuo con “gli heretici” per causa di lavoro o di commercio.
Oggi voglio, invece, ricorrere all’abbondante letteratura
leggendaria presente negli areali walser valdostani e novaresi, letteratura raccolta da valenti antropologi, ma anche
mutuata dai racconti di persone semplici, per dipingere il
quadro di un immaginario collettivo preziosissimo, a
mio parere, per un’interpretazione del fenomeno stregonico cinque-seicentesco presente sulle Alpi centro-occidentali e in special modo nei villaggi alpini d’alta quota. È, infatti, risaputo, presso gli studiosi di processi alle streghe in
Età moderna, come la stregoneria sia un fenomeno quasi
esclusivamente alpino e solo in minima parte prealpino,
completamente assente in aree di pianura e in contesti urbani, dove la paura della strega è presente solo a livello di
credenza e di racconto, ma mai di fenomeno estatico od
onirico poi confuso, da colui che lo vive e sperimenta, con
la realtà e, in quanto tale, scatenante accuse da parte delle
comunità in cui è di casa e coinvolgente i tribunali ecclesiastici o civili, massime i tribunali della Santa Inquisizione
domenicana o francescana. La montagna, quale area marginale rispetto ai contesti urbani, è conservativa di molti
fenomeni che in città o in contesti di pianura sono precocemente scomparsi o mutati. Noi storici della Chiesa sappiamo, ad esempio, che la dissoluzione delle antiche pievi
medioevali in nuove entità più spezzettate, le parrocchie, è
avvenuta nelle aree di pianura già nel Trecento. In montagna, al contrario, il fenomeno si presenta in ritardo di duetrecent’anni, cosicché possiamo assistere alla formazione
delle parrocchie, che si staccano da antiche Chiese matrici, ancora alla fine del Cinquecento o nei primi decenni del
Seicento. Questo scarto di secoli ci permette di avere informazioni sì più tardive, ma pure più illuminanti e maggiormente documentate anche per capire quanto era già
accaduto in pianura nel Tardo Medioevo, epoca che ci ha
lasciato, al contrario, scarsissime testimonianze di tale processo evolutivo. Lo stesso è accaduto per il fenomeno delle
persistenze pagane, fortemente criminalizzate e capillarmente condannate e perseguite in Età controriformistica
da una Chiesa cattolica e protestante, le quali mettono in
atto una violenta campagna di “modernizzazione” del pensiero, con una mentalità, almeno nei loro vertici istituzionali, già di stampo razionalista, mentre la cultura del magico e del pre-scientifico, combattuta su tutti i fronti, rimane
ai margini e si rifugia in campagna e soprattutto in montagna. Così la stregoneria, che in Età tardomedioevale è
ancora testimoniata anche in aree di pianura e, seppur più
raramente, pure in città, diventa da metà Cinquecento una
realtà che si può riscontrare documentariamente quasi
solo in montagna. E, tanto più il contesto montano è ai
margini e in zone impervie o di alta quota, tanto maggiore
è la probabilità di trovarvi un massiccio fenomeno stregonico attestato dalle fonti archivistiche ecclesiastiche pervenute fino a noi. Una forma di stregoneria, che io chiamerei
Particolare dell’affresco sulla facciata della chiesa di Issime,
inferno donne tormentate all’interno di fiamme. Francesco
Biondi 1698.
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A U G U S T A
impropriamente “minore” (operative witchcraft, come la
definiva Margareth Murray), è capillarmente presente in
tutte le zone dell’areale alpino, indipendentemente da fattori d’altura o di isolamento. Essa è riassumibile in quella
cultura e mentalità pre-scientifica che attribuisce malattie,
disgrazie, morti premature, morìe di bestiame, calamità
naturali (frane, valanghe, esondazioni, temporali rovinosi,
ecc.) a una causa dotata di consapevolezza e volontà, cioè,
in pratica, a una persona malefica, invidiosa, cattiva e in
grado di nuocere, la quale fa sì che il male colpisca qualcuno mediante il semplice contatto fisico, o attraverso cibo
offerto alla vittima, o con sguardi maliardi o, ancora, con
maledizioni pronunciate a voce, ecc. Questa persona, che
in genere è contigua al maleficiato (una vicina di casa, una
compaesana, ecc.), inizialmente è ritenuta magicamente
dotata di poteri malèfici, cioè è essa stessa causa efficiente
del male. Col procedere del tempo e con l’avvento dei trattati demonologici e di certa teologia (e filosofia) demenziale quattro-cinquecentesca, da parte dei detentori del sapere ufficiale - soprattutto teologi, ma anche giuristi, medici,
addetti all’amministrazione giudiziaria, ecc.- il vantato potere magico di queste persone, streghe e stregoni, viene
negato ed è posto in campo un elemento nuovo, il demonio. Essendo il potere di gettare inspiegabilmente malattia
e morte contro qualcuno un fatto non naturale ma soprannaturale, non può la strega, per sé sola, essere causa efficiente di tutto questo. E quindi, di conseguenza, la strega,
in quanto tale, non è sufficiente a spiegare il maleficium.
Per un fatto soprannaturale ci vuole una causa adeguata
pure soprannaturale, così ragionano filosofi e teologi. Di
conseguenza, la strega viene declassata a semplice strumento o intermediario attraverso cui il demonio, vera causa efficiente del male, lo indirizza contro qualcuno. La strega, per invidia, odio e malevolenza vuole maleficiare qualcuno, ma non avendone da sola il potere, è costretta a
chiamare in campo, prima un non meglio specificato “spirito” malvagio, e poi il demonio con cui ha contratto un
patto di sottomissione. La predicazione dal pulpito giunge
a compiere allora questa saldatura tra strega e demonio
che la gente recepisce come indissolubile, a tal punto che
persino la strega medesima se ne convince, e tale si ritiene, cioè serva e strumento del diavolo. La strega che compie il malefìcio, secondo gli schemi mentali di questa cultura magico-prescientifica, è poi ambivalente. Essa è endomalèfica ed esobenefica, ovvero la strega è nociva per i
suoi vicini di casa o compaesani, ma è benefica per i forestieri degli altri paesi, che, infatti, si rivolgono a lei e ai suoi
poteri (magici prima, demoniaci poi) per guarire o essere
liberati dai malefìci che ritengono esser loro buttàti addosso da una strega compaesana. E quindi anche viceversa,
cioè i vicini e compaesani della strega si rivolgeranno, per
guarire dai malefìci, alla strega del paese confinante che, a
sua volta, è malèfica nei confronti dei suoi compatrioti o
vicini di cantone! Non posso insistere oltre sul meccanismo che regola l’operative witchcraft, ovvero la strega maleficiante, anche se questo meccanismo è senz’altro più
complesso di quanto qui da me frettolosamente esposto!
Se, per questi abitanti di montagna dalla mentalità ancora
pre-scentifica, il male non può essere spiegato diversamente, non può cioè essere casuale, prodotto da entità inconsapevoli, da eventi naturali, ma solo da esseri consapevoli e
dalla volontà malvagia, la strega e lo stregone malèfici diventano una presenza necessaria per l’immaginario col-
lettivo e la cultura di queste popolazioni marginali e dal
modo di pensare tout-court magico ed animistico. Ma, accanto a questa, che ho definito stregonerìa minore, ve n’è
un’altra, più rara, e circoscritta generalmente alle aree d’alta quota, che potrei, ancor più impropriamente definire
“maggiore” (ritual witchcraf, secondo la bipartizione murrayana). Essa ci presenta la strega stricto sensu, cioè quella
strega che, oltre ad essere malèfica e succube del demonio, vola, in certe notti dell’anno (le “quattro tempora”) o
della settimana (in genere il giovedì notte), su un bastone
(Macugnaga) o su un cavallo nero (Formazza, Sempione)
o in groppa a un diavolo, suo moroso, e dal nome generalmente pittoresco (Croveo, Baceno, Agaro, Premia, Rivasco, Formazza), alla volta del luogo del Sabba chiamato
qui “Gioco del diavolo”, che generalmente è la cima di
un’alta Montagna (il Rosa, il Cervandone, il monte Cazzola, i ghiacciai del Vannino o del Gries, ecc.), o un’estesa
pietraia (la Rossa sul Devero), un ghiacciaio (sul Rosa, sul
Vannino o il Gries), una balma, un’ampia grotta dentro le
viscere della montagna (in Valle Antigorio). Insomma la
roccia e la montagna sono il luogo deputato all’incontro
fra umani e dèmoni o, in altri casi, spiriti ultramondani, e,
quando l’ibridazione tra Aldilà pagano e Aldilà cristiano si
sarà ben amalgamata, dalla montagna e dal suo ventre
usciranno le processioni dei Morti con o senza il mignolo
acceso a mo’ di candeletta. Non posso trattare qui e ora di
cosa sia tale forma di stregoneria e in che consista fondamentalmente, riservandomi di scriverne, su queste stesse
pagine, in un prossimo intervento in cui intendo confrontare la ricca letteratura stregonica presente nella diocesi novarese con quella valdostana e, in particolare, con un processo che riguarda una donna di Issime. I processi novaresi dell’Archivio vescovile della diocesi gaudenziana che, da
anni oramai, collaboro a catalogare con l’archivista di Curia, e che in parte ho trascritto, pubblicato e fatto argomento di studi sulla stregoneria e sulla interpretazione-decriptazione del Sabba ossolano (particolarmente quello antigorino e formazzino), andranno confrontati non solo con
quelli altrettanto ricchi delle confinanti diocesi di Como, di
Milano o di Vercelli, ma soprattuttto coi pochi documenti
(finora resi pubblici) della diocesi augustana e, in particolar modo, con eventuali processi issimesi e gressonari. La
forte incidenza in àmbito walser del fenomeno stregonico
con presenza di Sabba mi induce a pensare che per l’arco
alpino centrale e centro-occidentale lo studio dell’immaginario collettivo raccolto attraverso le leggende e i racconti
degli anziani, e cioè in primis della Mitologia walser, sia
fondamentale per una interpretazione della stregoneria
“maggiore” (ritual witchcraf) e soprattutto del suo correlato sabbatico. Non anticiperò qui interpretazioni provvisorie già formulate in altri miei studi, condotti sulla stessa
lunghezza d’onda delle pionieristiche ricerche di Carlo
Ginzburg o di Massimo Centini, che vedrebbero, nella
strega che vola, un fenomeno di tipo estatico-sciamanico
simile a quello dei “benandanti” friulani o dei lupi mannari
estoni, ma, in particolare come storico della Chiesa, vorrei
rintracciare nel Sabba antichi culti estatici pagani, demonizzati dalla Chiesa medesima, e poi ibridatisi con apporti
cristiani maldigeriti e mal metabolizzati in un melting-pot, il
quale diventerà col tempo lo schema stereotipo presentatoci dai più classici (e demenziali) manuali ad usum inquisitorum che andavano di moda e impazzavano tra XV e XVI
secolo in tutta l’Europa cristiana (non esclusa quella lutera-
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Particolare dell’affresco sulla
facciata della chiesa di Issime, il
nocchiero Caronte traghetta le
anime . Francesco Biondi 1698.
na e calvinista). Posto che la Teologia sta al Cristianesimo
così come la Mitologia sta al
Paganesimo precristiano, vediamo attraverso la Mitologia
walser, estremamente conservativa e rimasta ai margini della
civiltà urbana, quale sia la concezione e credenza nell’Ultramondo o Aldilà presso queste
popolazioni fortemente decentrate e insediate in alta quota.
Con gran meraviglia constateremo che, sotto una leggera patina
di ibridazione cristiano-cattolica,
si nasconde una concezione ancora fondamentalmente pagana
del mondo Ultraterreno. Purtroppo devo ancora preliminarmente chiarire cosa intendo
io per “paganesimo”. La parola è ambigua, perché fu usata
dai cristiani del IV secolo per stigmatizzare non già la religione veramente praticata nel pagus, ma quella praticata in
città (urbs) da personaggi rimasti fedeli ai culti romani dei
loro avi. Il termine ha quindi assunto un’accezione negativa e dispregiativa, quasi a significare “religione dei paesani, dei rustici, dei rozzi montanari”! Ma la religione, praticata dagli irriducibili cultori dell’Olimpo greco romano,
era completamente diversa da quanto vien fatto derivare
dall’etimo della parola paganesimo. Il pagus è, infatti, l’esatto contrario della civitas o urbs. La religione cittadina, già
evoluta (in essa le varie divinità sono oramai “personificate”) andrebbe più correttamente definita “urbanesimo precristiano”. Essa è una religione “funzionale”. Le sue divinità, infatti, rappresentano “le funzioni” presenti in una CittàStato quali potevano essere le civitates e i municipia
dell’Impero romano. Giove è il re, Mercurio il commerciante, Apollo il medico, Marte il guerriero, ecc. Fatte le
debite distinzioni, i nostri Santi protettori non sono molto
dissimili dalle divinità protettrici dei vari mestieri o “funzioni” presenti nella città antica! Per questo il primitivo cristianesimo si affermò con facilità in città, mentre non fu capito
in campagna e in montagna, cioè in periferia. Il poeta Endelechio già lamentava «Cristo si venera solo in città». Passare da divinità “personali” a un Dio in tre persone, o ai
santi, pure essi persone, non fu un salto culturale traumatico per i cittadini del mondo antico. Viceversa lo fu per i
rustici delle campagne e della montagna. Questi adoravano forze (inanimate) della Natura: particolari rocce, certe
montangne, massi erratici, pietre ritenute dotate di poteri
taumaturgici; e poi fonti sacre, fiumi, stagni, specchi d’acqua; infine alberi sacri, boschi particolari (németon, lucus).
Si potrebbe dire che vi è una specie di “trinità pagana” data
dalla triade roccia sacra-fonte sacra-albero sacro, contro
cui tuonano non tanto gli scrittori antichi (che snobbano la
cosa come stupida superstizione da contadini, da bifolchi
incolti) bensì le fonti ecclesiastiche dei primi Concili, delle
grandi Sinodo provinciali, le raccolte di omelìe dei padri
della Chiesa e dei primi vescovi del IV-V secolo, i Capitolari degli imperatori e re carolingi, i cosiddetti “Libri penitenziali” dell’Alto medioevo, scrittori e omileti fino al X-XI secolo! Non posso qui riportare, ovviamente, in dettaglio né
canoni conciliari, né divieti regi, né dure penitenze a pane
e acqua per chi accendeva ceri sulle rocce sacre ancora nel
X secolo della nostra èra: costoro, i veneratores lapidum, i
veneratores fontium, i veneratores arborum venivano complessivamente tacciati di essere veneratores demonum! Ma
queste persone, definite adoratori del demònio, erano tutte dello strato sociale infimo, presente nelle campagne e
sulla montagna, erano i cosiddetti rustici, gli humiliores del
Tardo antico, gli homines de muntanea dell’Alto Medioevo.
Per Ambrogio di Milano e Agostino di Ippona portare il
Vangelo a costoro era impresa, non solo disperata, ma impossibile, per la distanza siderale che intercorreva tra la
cultura urbana e quella pagana appunto. Dopo un tentativo
poco convinto e malriuscito, anzi sfociato in tragedia (i
martiri della Val di Non), in cui gli evangelizzatori furono
linciati dalla folla dei montanari inferociti mentre tentavano di fermare una processione di Ambarvalia (lustratio
camporum), Ambrogio di Milano e Vigilio di Trento pensarono di soprassedere alla conversione dei rustici, che furono però costretti con la forza dai loro padroni latifondisti
(possessores cristiani), su preciso invito dei vescovi delle
civitates del Nord, a rinunciare ai loro “sordidi culti pagani”. Ancora nell’Alto Medioevo vaste zone della campagna
e della montagna, fuori e lontane dagli àmbiti cittadini, rimasero tenacemente attaccate ai culti antichi delle fonti e
delle pietre, e anche di certe particolari “Montagne sacre”!
Tutta questa digressione sul concetto vero ed etimologico
di “paganesimo” non è oziosa, ci aiuterà a capire come mai,
ad esempio, e lo scrive Martino di Braga un vescovo ispanico del V secolo, nel suo De correctione rusticorum, le lamiae, ovvero le streghe, fossero solite volare sopra stagni
d’acqua! Su per la catena appenninica centrale e nel Sud
dell’Italia le streghe usavano invece volare su certi grossi
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alberi, come la più famosa “noce di Benevento”. Sulla catena alpina o del Jura francese e svizzero, o ancora sulle Alpi
austro bavaresi, le streghe, infine, volavano sopra particolari montagne o ghiacciai. Si va dal celebre Blocksberg
germanico caro alle Valchirie, ai più vicini Monte Rosa,
Cervandone, Cazzola, il gruppo del Cistella, i ghiacciai del
Gries e del Vannino, in zone desolate e pietrose. I tre elementi della roccia, dell’albero e dell’acqua ricorrono dunque nelle varie specificità locali di “stregoneria” con volo al
Sabba. Ma questo è spiegabile considerando il duplice approccio che la Chiesa - impossibilitata a trasmettere a culture primitive e animiste concetti complessi di origine giudaica, poi filtrati attraverso l’ellenismo e la romanità, com’è
appunto il messaggio cristiano - mise in atto onde avvicinare i “pagani”a un cristianesimo per loro comprensibile e
quindi accettabile o, al contrario, per allontanarli dai loro
culti atavici. Da un lato l’appropriazione o esaugurazione
di culti pagani, come gli Ambarvalia, che divennero, senza
una strutturale modifica del rito, il triduo delle Rogazioni
cristiane. O il culto delle rocce di fecondità, che vennero
spesso inglobate nelle absidi di chiese (Santuari di Boca e
Varallo Sesia) o circoscritte dentro le stesse navate di Santuari mariani frequentatissimi (navata sinistra del Santuario vecchio di Oropa) dove la roccia nera e fecondatrice
diventa una Madonna nera o, in altre situazioni, una Madonna del latte. Dall’altro lato la criminalizzazione o demonizzazione di altri culti pagani, che lasciano, soprattutto in montagna, una toponomastica inequivocabile: il sasso
del diavolo, il laghetto delle streghe, la grotta dei diavoli,
ecc. Io stesso ho potuto constatare de visu i segni di ripetuti esorcismi fatti in varie epoche su un enorme masso fessurato ai bordi del “laghetto delle streghe” in quel dell’Alpe Devero, sopra Baceno. In uno spettacolare maxiprocesso a carico di 24 tra streghe e stregoni di Croveo e Baceno,
celebrato nel 1611 nel Palazzo episcopale di Novara, alcune streghe raccontavano al Vicario generale (giudice) e al
Fiscale di Curia (pubblico ministero) che il diavolo appariva loro all’improvviso, uscendo da quella fessura del masso erratico. Ebbene, ispezionando accuratamente l’enorme roccione, con gran meraviglia della guida del parco
che mai le aveva notate, trovai incise tre croci in tre punti
diversi, di cui una con accanto la data cinquecentesca
dell’avvenuto esorcismo. Numerosi sono i dipinti medioevali, ma anche cinque-seicenteschi, dove è affrescato un
santo che scaccia o esorcizza uno o più diavoli, i quali sono
raffigurati come uscenti da una roccia o da un grosso sasso! Nel celebre ciclo di affreschi del chiostro dentro l’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore in Toscana, il Sodoma,
raccontando la vita e i miracoli di San Benedetto, dipinge,
in uno dei riquadri, il santo nell’atto di esorcizzare un masso da cui escono tre piccoli diavoli. Ma gli esempi non si
contano. Sempre nel sopraccitato maxiprocesso bacenese
del 1611, la strega Gianola raccontava che, in un pianoro
sopra Croveo dove pascolava le capre, vide il diavolo che
usciva da un masso e le ordinava di fare una danza “con le
unghie rampinate” a mo’ di volpe, con la quale danza la
tramutò... in volpe, per l’appunto! La roccia è onnipresente
nei racconti di Sabba antigorini e formazzini. Dal luogo
dove si celebra “il Gioco del diavolo”, al masso piatto e rotondeggiante dove le streghe si ungono il corpo prima di
volare, alla pietra sotto la quale nascondono “l’onto o medicina”, alla balma sotto cui accendono il fuoco per cuocere
il bambino nel paiolo, alla grotta nella quale banchettano e
Affresco chiesa di Issime, particolare donne legate e tormentate da un diavolo. Francesco Biondi 1698.
danzano “co’ diavoli loro morosi”, dai nomi pittoreschi di
Aribello, Piatonacio, Rondonacio, Trombone (ma suonatore di violino nel concerto sabbatico), Ariotto, Amasio, Martino, ecc. Insomma la montagna, il masso erratico, la pietraia desolata sopra il ghiacciaio, la grotta, la balma, il pianoro roccioso sono una costante che, direi, non è del tutto
casuale nell’economia del rito sabbatico (ritual witchcraft).
In un recente convegno internazionale tenutosi a Verbania, sul Lago Maggiore, sul tema dell’iconografia trinitaria,
e rivolto al Sacro Monte della SS. Trinità di Ghiffa, ho voluto dare un mio modesto contributo dal titolo Preistoria dei
Sacri Monti. Quel Sacro Monte, formato da un Santuario
attorniato da tre sole cappelle e intitolato alla Trinità, sorge
su un’altura rocciosa, anzi il centro del complesso insiste
proprio su un enorme masso-altare di roccia. La primitiva
chiesetta, pur non essendo né pieve nei secoli medioevali,
né parrocchia dopo il Cinquecento, era mèta di frequenti e
imponenti pellegrinaggi di comunità che provenivano, non
solo dalla sponda occidentale del Lago Maggiore, ma pure
da quella lombarda. Non sapendosi capacitare del fenomeno, il vescovo novarese Cesare Speciano, impressionato
dal gran concorso di genti verso il luogo dotato di un modesto chiesuolo, pensò di farne un Sacro Monte a presidio
dei confini verso la vicina Svizzera, infetta di protestantesimo. Oltre al masso-altare, su cui sorge la cappella centrale
e più importante, il complesso, su tre lati è circondato da
fitti boschi e, sul restante, si affaccia sullo specchio d’acqua del Lago Maggiore. Anche qui si potrebbe scorgere
quella triade roccia-albero-acqua che caratterizza, in certo
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qual modo, una trinità pagana-precristiana. La gente, abituata ab immemorabili a confluirvi come a luogo di culti
ancestrali (sennò perché mai tanto concorso di gente verso un chiesuolo insignificante ancora lungo i secoli medioevali e fino agli inizi dell’Età moderna?) viene assecondata
dal vescovo novarese, che approfitta della straordinaria e
inspiegabile frequentazione del luogo per creare proprio lì
uno dei Sacri Monti novaresi. Si tratta in questo caso, come
ben si può scorgere, di una forma di appropriazione-esaugurazione tardiva (il Sacro Monte) sul luogo di una precedente esaugurazione medioevale (la chiesetta primitiva), a
sua volta sostitutiva di un sito di culto pagano, che attirava
folle di pellegrini ancora nell’Alto Medioevo.
Ma, se osserviamo ancor più attentamente il fenomeno,
lo stesso avviene per il Sacro Monte di Orta che si affaccia sul lago omonimo, o per il Sacro Monte di Varese, o
ancora per il Sacro Monte di Varallo, che domina dall’alto
su una piana d’acque dove la Sesia si allarga a dismisura!
Montagne sacre e Sacri Monti sono forse uno dei tanti
casi di quel sacrum continuum che ha caratterizzato, ancor prima, i siti del sorgere di pievi e santuari mariani!
Dove mai, infatti, possiamo trovare lapidaria ed epigrafia
con tracce evidenti di luoghi di culto romani o addirittura
preromani? Evidentemente, come ci insegna l’esperienza e l’archeologia, presso antiche chiese pievane! I conti,
dunque, tornano. Dove la gente era abituata a confluire
per i suoi culti precristiani, proprio lì la Chiesa primitiva e
quella altomedioevale hanno edificato chiese battesimali
prima e plebanali poi! È stato uno dei tanti “dolci inganni”
con cui l’Autorità ecclesiastica ha voluto perseguire e favorire l’evangelizzazione delle campagne, del mondo cioè
dei rustici e degli illetterati, abituati, dalla notte dei tempi,
a recarsi per abitudine inveterata in certi particolari luoghi
a chiedere favori alla divinità presente in una roccia o in
una fonte, coll’accendervi ceri e col farvi offerte. L’archeologia francese, abituata a cercare insediamenti umani protostorici e santuari pagani, non solamente necropoli come
fa quella italica, trova spesso in questi siti testimonianze di
ex voto e di offerte risalenti al periodo precristiano.
Ma torniamo al primitivo mio assunto. Ho detto innanzi
che la Teologia sta al cristianesimo, così come la Mitologia sta al paganesimo. Ebbene, proprio nei miti walser e
nella letteratura leggendaria di questa popolazione alemannica, vissuta sempre al di fuori dei contesti urbani e anzi, in
certo qual senso, isolatasi in alto lontano dal più diffuso habitat, troviamo resti consistenti di una concezione dell’Aldilà “pagano”, nel senso da noi specificato più sopra. Mi
avvarrò per utilizzare tale mitologia dello straordinario lavoro di uno studioso rosminiano, Renzo Mortarotti, che ha
raccolto l’abbondante letteratura leggendaria in proposito,
presente in numerose località dell’Ossola, in modo particolare Macugnaga (Makanà), Formazza (Pomatt), Agaro,
Salecchio. Una sintesi illuminante è stata, a suo tempo,
pubblicata dallo stesso Autore in un articolo apparso su
“Novarien.” (N. 9 del 1989), rivista di Storia della Chiesa su
cui pubblico anch’io da ormai venticinque anni.
Accennerò, in modo molto riassuntivo, anche a quanto,
sulle oltre quaranta annate della rivista “Augusta”, è stato possibile apprendere dalla viva voce dei vecchi, in linguaggio töitschu, della tradizione di racconti leggendari
giunti fino ai giorni nostri. Tradizione che non si allontana, se non per varianti del tutto ininfluenti, da quella
presente nelle comunità dell’ Ossola e della Valsesia.
Le leggende dei Walser dell’Ossola
Nel mondo walser non esiste, come per il cristianesimo,
un inferno e un paradiso dove le anime possano ricevere
un premio o un castigo, ma tutt’al più una specie di purgatorio dove gli spiriti umani, dopo la morte, soggiornano
per alcun tempo in espiazione delle loro malefatte, in attesa di partire per un non meglio precisato “destino” che li
attende, destino che non ha nulla comunque a che vedere
col paradiso cristiano neppur lontanamente. Inoltre, anche
questo, che ho impropriamente chiamato purgatorio, in
realtà è molto più vicino a una specie di Ade degli antichi,
un luogo di dimora di ombre, di morti, di spiriti, di dàimones nel senso greco del termine, molto lontani dai demòni
del cristianesimo e per nulla omologabili con questi. In un
racconto mitologico, circolante fino al secolo XX a Macugnaga, vi sarebbe adombrato sia il mondo delle divinità
infere, poi trasformate dagli inquisitori in demòni, sia le
ultime reminiscenze del Sabba presentato in tale narrazione in una versione, potremmo dire, moderna. Il racconto si
intitola Il ballo e il diavolo. Nella “Casa del fico”, a Pecetto,
si svolge una serata danzante con abbondanza di libagioni.
Presi dai fumi dell’alcol e dall’euforìa di accattivanti musiche, danzatori e danzatrici si spogliano e danno il via a balli sfrenati e licenziosi. A un certo momento, entra nella
casa un bel giovane che si mette a ballare, a turno, con
tutte le ragazze presenti. Una di queste, però, s’accorge
all’improvviso e con raccapriccio che quel bel giovane non
ha piedi umani ma zampe di becco. Grida dallo spavento e
tutti, a quella vista, fuggono fuor di casa. Un gruppo di quei
giovani decide allora di scendere a Pieve Vergonte a cercare il parroco, che a Macugnaga non c’è ancora, perché salga al paese per esorcizzare la casa e farvi sloggiare l’uomocaprone (da questo particolare deduco che la leggenda risale almeno al Cinquecento N.d.R.) Arrivato su il pievanoesorcista a dorso di mulo, dal fondovalle fino a Macugnaga,
intima alla “bestia”: «In nome di Dio vieni fuori di lì». Dalla
casa esce allora un becco. Il prete gli ingiunge di precederlo fino a un prato dove è piantata una croce. Lì giunti il
prete-esorcista si rivolge al caprone e: «Ti maledico e scongiuro (torna) negli eterni ghiacciai del Monte Rosa. Lì dovrai rimanere in eterno! ». In questo racconto l’Aldilà è già
stato cristianizzato in una specie di inferno eterno dove ha
sede il demonio (il caprone), ma questo inferno senza fuoco (e, anzi, “polare”) è ancora collocato lassù in cima ai
ghiacciai e ai crepacci del Rosa, e non sottoterra come
nell’immaginario cristiano! Questo Aldilà è anche il regno
delle anime dei defunti, che devono dimorare per alcun
tempo sul ghiacciaio della Montagna in attesa di raggiungere un imprecisato loro “destino”. In una leggenda di
Agaro intitolata L’ostessa briccona questa credenza è bene
evidenziata. A Montepiano, sulla strada tra Baceno e Crodo, un pastore di Agaro che scendeva verso Domodossola
incontrò di notte una donna che faceva la strada in senso
inverso con le scarpe in mano. Quando riconobbe in lei
l’ostessa di Oira le chiese dove andasse a quell’ora insolita.
“Vado al ghiacciaio a fare penitenza, perché ho mescolato
il vino con l’acqua”. Lì per lì non capì bene il senso di quella risposta, ma tutto si chiarì alla sua mente quando, giunto
a Oira, chiese della donna e gli fu risposto che era morta
proprio quella notte. Stesso racconto, con poche varianti, è
quello intitolato L’oste maledetto, ambientato tra Calasca e
Macugnaga. Questa volta è un abitante di Makanà che
vede salire a cavallo, alla volta dei ghiacciai del Rosa, l’oste
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dell’osteria di Valbianca di Calasca, paese dove nel frattempo si sta celebrando il suo funerale. Molte anime di morti
vagano senza pace perché morte prematuramente o di
morte violenta, o perché rimaste senza sepoltura. Compito
del prete non è già quello di suffragarle perché raggiungano il paradiso ma quello di aiutarle a salire sulla Montagna
verso il loro “destino”. Nel racconto Un difficile esorcismo il
prete accompagna un’anima inquieta ed errabonda che ha
assunto sembianza di animale, nel caso di un cagnolino. Il
cagnolino segue il prete che lo accompagna dal cimitero
verso il ghiacciaio dove quell’anima finalmente “va al suo
destino”. Ma, per accompagnare queste anime al loro destino, lassù in cima alla Montagna, ci vogliono preti dalla
vita irreprensibile. Anche ne Lo spirito di Cicerval si narra
di un’anima che va vagando su per un’alpe e, quando il sagrestano Della Vedova, a nome e per conto del parroco di
Macugnaga, lo esorcizza, lo fa con queste parole: «Vai dove
sei destinato. Lascia in pace questo alpeggio e chi ci lavora!». Periodicamente i morti escono dal ventre della Montagna e tornano di qua in processione tenendo in mano dei
lumini, o meglio, col mignolo acceso a mo’ di candeletta, e
passano vicino alle loro case e nei loro paesi e frazioni
dove, però, sono pochi i privilegiati che possono vedere questi cortei di morti. A volte, il loro apparire nei pressi di una
casa può voler dire o che in vita vi ci hanno abitato o che
qualcuno che vi abita morirà di lì a poco. Il racconto Segnali di morte ci dice che anche coloro che sono morti lontano
da casa, in paesi lontani di emigrazione, annunciano la loro
dipartita ai parenti, facendo rumori tremendi di notte nella
casa dove sono vissuti. Dove l’apporto cristiano si è, inve-
ce, già ibridato col racconto originario, il morto si fa sentire sui tetti delle baite per chiedere suffragi per la sua anima imprigionata nel ghiaccio, oppure, come nella leggenda Il rosario dei morti, i defunti vengono a rispondere al
rosario recitato da una donna, la quale quella stessa notte
morirà. Nelle leggende di Antigorio, e in specie di Agaro,
la condanna di coloro che hanno commesso gravi peccati
non è il fuoco eterno; essi devono scontare la loro pena nel
ghiacciaio di Curzalma. Queste anime di un “purgatorio
pagano” sono chiamate i “turnant” (coloro che ritornano)
perché appunto, in certe notti, scendono dal ghiacciaio e
tornano al loro paese d’origine per riferire ai vivi dove si
trovano a scontare la pena per poi “andare al proprio destino”. Che sotto queste credenze e dietro queste “visioni” di
alcuni montanari, che scorgevano o credevano di vedere le
processioni dei morti, vi siano chiari fenomeni sciamanici
o “estatici”, come avveniva in Friuli per i benandanti o i
taltos ungheresi o i nò aidi lapponi o i lupi mannari estoni,
è chiaramente espresso in un altro racconto: “Mentre il
corpo di Melchar Zampa (della famiglia Deini) riposava di
notte nel suo letto, lo spirito andava in processione con i
morti e parlava con essi…”. Il meccanismo di trance estatica è il medesimo che presiede al “vissuto del Sabba”, vissuto sperimentato in somnis dalle cosiddette streghe. Si dà il
caso di streghe (e di “benandanti” friulani) che la sera in
cui dovevano partire in volo per il Sabba (o per il combattimento nell’aria per salvare i raccolti agricoli) raccomandavano al partner, che dormiva nello stesso letto, di non spostare il loro corpo dalla posizione in cui giaceva “perché,
tornando poi indietro, il loro spirito avrebbe potuto non
Affresco chiesa di Issime, pene corporali. Francesco Biondi 1698.
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trovarlo più lì e quindi vagare disperato in cerca del suo
involucro”! Non potendo dilungarmi oltre nella disamina
di questi miti, rimando il lettore ai saggi del Mortarotti e di
altri studiosi che si sono interessati a questo tema. Già dal
poco che si può intravvedere nell’esame di questa mitologia la quale, come abbiamo già rilevato, è il substrato teologico di un paganesimo precristiano, sopravvissuto per
secoli a coté di un cristianesimo di superficie, in larghi strati di popolazione montana ai margini, si può scorgere un
atavico culto della Montagna intesa come Aldilà, regno di
numerosi spiriti e, forse ancor prima, divinità ctonie. I morti escono dalle viscere della montagna e tornano in processione verso i loro paesi e le loro case e chiese. Tutto ciò è
ben ravvisabile in racconti di Macugnaga come La donna
zoppa, o Tre giorni, una vita intera, o ancora La donna senza lume. La credenza che una volta all’anno i morti scendessero dal Rosa per riunirsi nella chiesa vecchia del cimitero di Makanà, e lì fare la conta di coloro che sarebbero
morti in quell’anno, ci dice che credenze pagane (montagna e ghiacciaio come sede dei morti) potevano ben mescolarsi con credenze cristiane (i morti radunati nella chiesa del cimitero) senza che i portatori di tali concezioni ne
percepissero la ben minima contraddizione. D’altronde le
cosiddette streghe vivevano tranquillamente e senza contraddizione alcuna il loro stato interiore dualistico, per non
dire quasi schizofrenico: la notte del giovedì andavano al
rito del Sabba coi diavoli in forma estatica, la domenica
andavano alla messa in latino col corpo, e davanti agli inquisitori protestavano di essere brave cristiane. Nel maxiprocesso di Croveo-Baceno queste donne, mentre non
avevano né vergogna, né ritegno a raccontare, nei minimi
particolari scabrosi, l’orgia coi diavoli e le diavolesse nel
“Gioco” al Cervandone, non pronunciavano mai il nome
della montagna (Cervandone), anzi negavano di sapere
come si chiamasse o dove fosse e protestavano di non
averla mai vista né sentita! Cosa che rendeva stupefatti i
giudici, i quali ribattevano: «Ma come? Anche i bambini a
Baceno sanno dov’è e che cos’è il Cervandone, basta uscire dalla porta della chiesa di San Gaudenzio (la parrocchiale) e subito il Cervandone appare allo sguardo di chiunque
alzi gli occhi!». Ma tutte le donne inquisite, nessuna esclusa, continuavano caparbiamente a negare contro ogni
buonsenso ed evidenza, che no, loro non sapevano affatto
dove fosse, né sapevano cosa fosse il Cervandone! Sembra
quasi vìgere presso queste persone il divieto biblico del
secondo Comandamento: “Non nominare il nome di Dio!”.
Il teatro del Sabba, lo ricordiamo ancora una volta, è un
luogo di pietre (pietraia, masso piatto e largo, grotta, balma), il diavolo, quando appare a una strega, esce dalle crepe di un masso erratico, le streghe si ungono il corpo per
il volo stando sedute su un pietrone rotondo a mo’ di tavolo
circolare, l’onto è conservato nascosto sotto una preda.
Tutto congiura a vedervi residui di antichissimi culti precristiani della roccia mai esaugurati, ma piuttosto demonizzati dal clero (e i segni esorcistici incisi su particolari massi ne sarebbero una prova), fatti infine confluire nel Sabba
dallo stereotipo dei manuali inquisitoriali, che fanno sì un
condensato unico e ripetitivo degli svariati racconti di Sabba raccolti, ma dove in ogni singolo processo locale il Sabba particolare ivi descritto lascia vistose tracce di culti e
credenze presenti su quel territorio. Qui da noi residui di
culti della roccia, altrove dell’albero, nella Spagna di Martino di Braga forse degli stagni sacri!
E quelle rintracciabili a Issime
Anche sfogliando solo sommariamente qua e là le varie
annate di Augusta, nei racconti registrati da trascrittori in
lingua töitschu, affiorano alcune di queste credenze comuni ai vari areali walser. E comuni anche a paesi italofoni
confinanti con loro, come Baceno, Croveo, Premia, Rivasco per il contesto formazzino, o Massiola di Valstrona
per il contesto “valsesiano” di Campello Monti. Noi, un
po’ semplicisticamente, siamo soliti concepire come assolutamente isolate, e “pure” da contaminazioni, le comunità walser, ma non era affatto così nella realtà storica: per
favorire una certa esogamia, necessaria al ricambio di
sangue, oltre che per mille altri motivi ovvii, i matrimoni
“misti” erano frequentissimi. In Valle Strona, ad esempio,
gli uomini di Massiola “importavano” soprattutto giovani
vedove da Campello, talché, vista la frequenza della cosa,
un parroco di Massiola del Seicento aveva imposto una
taxe d’entrage su tali matrimoni. La donna walser, diventata massiolese, non trasmetteva più l’idioma titschu-rimellese ai figli, come invece continuava a fare la donna campellese, ma esportava tradizioni, credenze, leggende, cultura materiale, che rimanevano patrimonio anche di Massiola. E viceversa. Oggi che Campello non ha più abitanti
residenti in modo permanente, il poco “dna” rimasto in
valle di questa antica poplazione si trova forse più a Massiola che altrove, anche se nessuno dei quattro cognomi
storici originari di Campello (Guglianetti, Ianetti, Tensi e
Guglielminetti) si è conservato in questo paese di frequenti scambi esogamici (i campellesi aborrivano mescolarsi, per atavica rivalità, coi più vicini abitanti di Forno),
ma solo negli oriundi campellesi della diaspora. I processi
maggiormente spettacolari della Val Antigorio-Val Formazza alle streghe, e alcune leggende meglio conservatesi, non si trovano a Pomatt, ma a Baceno Croveo ed Agaro. La forte consorteria di commercianti bacenesi e croveesi, che nel Cinque-Seicento, ad ogni estate, faceva
spola tra Formazza e Vallese, possedeva perfettamente gli
idiomi vallesani, anche se i due paesi erano italofoni, parlanti correntemente dialetto lombardo-novarese. Renzo
Mortarotti, e dietro a lui il confratello rosminiano Tullio
Bertamini, giustamente tendono a definire “ossolano” e
non riduttivamente “walser” l’immaginario collettivo presente in Antigorio-Formazza, perché è difficile separare e
tagliare col coltello una cultura-mélange dagli interscambi
secolari e pressoché diuturni. Anche Issime ha avuto apporti franco provenzali, piemontesi, francofoni e italofoni
e questo, ovviamente, non solo nel suo idioma ma altresì
in campo culturale. La rivista Augusta sembra privilegiare
l’aspetto linguistico dei suoi racconti e delle sue tradizioni, in realtà, facendo questo, ci testimonia insieme credenze e mondo immaginifico. Anche qui è ben evidente la
presenza stregonica, ritenuta causa della carenza improvvisa di latte nelle mucche (il latte viene inibito magicamente), causa di malefìci (contrastati con le catene del
camino arroventate con legna bianca lavata dal Lys, o attraverso cibi e bevande offerti alla maliarda per ammansirla). Le streghe locali, poi, andavano a radunarsi per i
loro riti sabbatici notturni su pianori d’altura, come all’alpe Simulettu, nei pressi di Leikier (Lago chiaro), a Siawa
(laghi), al Galm, alla Vlu, allo stesso modo che altre streghe ossolane, anziché sulle cime di monti particolari, dicevano di recarsi sulla piana del lago Vannino, in Alta Val
Formazza. La testimonianza, quasi agghiacciante, del fe-
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A U G U S T A
La cappella
della
Madonna
delle Nevi
all’alpe
di Mühni,
ex-voto della
famiglia
Querra
(1660).
nomeno, accaduto nel 1909, delle pietre volanti nel vallone di Tourrison e della presenza demoniaca “di töivla”,
sottoscritta nientepopodimeno che dal parroco di Issime
Grat Vesan; fenomeno che, secondo le testimonianze in
paese, ha origine da un malefìcio perpetrato da una vecchia, Hantsch Anni, ai danni della famiglia Stévenin (Djanet) oriunda del Gaby, è sintomatica dell’humus di credenze su cui allignano tali paure collettive. Il fatto è testimoniato, oltre che dal parroco, anche dai carabinieri accorsi
sul posto e da alcuni abitanti del luogo degni di fede. Bisognerebbe indagare se si sia trattato di fenomeno indotto
da suggestione collettiva o di movimento cinetico delle
pietre prodotto dalla psiche della cosiddetta strega. La capacità di guarire malattie mediante toccamenti accompagnati da formule e preghiere o quella di rimettere in quadro ossa slogate o fratture, senza avere avuto cognizioni
mediche o anatomiche di sorta, potrebbe far pensare a un
funzionamento dell’altro emisfero cerebrale, quello che
non usiamo più e che in noi “ipercivilizzati” è una facoltà
oramai completamente atrofizzata. La stessa facoltà che,
forse, metteva in moto la trance estatica durante il vissuto
e le visioni sabbatiche, o ancora il volo dei “benandanti”
friulani, che si recavano al combattimento onirico, per salvare i raccolti, armati essi di mazze di finocchio contro
streghe e stregoni armati di canne di sorgo. Ma queste
ipotesi di spiegazione non sono materia da farsi trattare
dallo storico e forse neppure dall’antropologo! Certo già
nel Cinquecento, mentre teologi e giuristi tiravano in ballo, a sproposito, il soprannaturale con l’intervento di diavoli e diavolesse infere per dare consistenza alla stregoneria, scienziati dello stampo di un Tostato o di un Della
Porta facevano già esperimenti scientifici sulle streghe in
stato di catalessi che, al risveglio, asserivano di essere state in volo e avere visto località e cose lontanissime, poi rivelatesi realmente esistenti a una successiva verifica. Nelle credenze issimesi sono testimoniate addirittura processioni di streghe con campanacci e “tole”, che schiamazzano, rumoreggiando e terrorizzando chi le incontra sul suo
cammino. Il demonio, poi, è una presenza inquietante,
che ricorre in semplici racconti, come Karuntjisch rossji
(cavallino di Caronte) spauracchio per i bambini, o in credenze dove trasforma in suoi cavalli le donne che tentano
di sedurre un prete, o imperversa nelle tenebre dopo il
suono dell’Ave Maria, per cui è consigliabile stare ritirati
in casa. Ma, oltre al diavolo, vi è la presenza costante anche dei morti che tornano in mezzo ai vivi. Dalla classica
processione dei morti, ai singoli defunti che sono visti,
attraverso le finestre illuminate all’imbrunire, nella casa
dove in vita avevano dimorato. In sostanza anche a Issime
e Gressoney l’immaginario degli abitanti in tempi passati,
remoti o meno remoti, ci testimonia della continua presenza dell’elemento soprannaturale nella vita di ogni giorno, del commercio ininterrotto tra il mondo reale e quello
dello spirito, lontano da una visione, però, del tutto cristiana come da un immaginario classico o latino. Non ci dilunghiamo poi a parlare del mito della Valle perduta (Das
verlorene Tal), situata oltre i monti, e che richiama la patria del Vallese, comune a Gressoney, ad Alagna come a
Macugnaga. Così come alla presenza e credenza nei folletti e negli gnomi (tockhjini), piccoli, agili, nudi e, in genere, deformi, bonari e servizievoli ma insieme anche dispettosi. Questo discorso sul mondo leggendario e in pari
tempo sulle credenze che per secoli hanno accompagnato
la vita di questi eroici emigranti, pastori e contadini, ma
anche abili artigiani e ingegnosi inventori, ci dovrà servire, in un prossimo intervento su questa rivista, a capire, o
meglio a cercare di interpretare il fenomeno stregonico
anche nella valle del Lys. Esamineremo alcuni processi
valdostani più in generale, e uno di Issime più in particolare, per cercare di scorgere negli interrogatori e, soprattutto nelle risposte che le inquisite danno, i resti di antichi
culti o i pochi frammenti residui di una religiosità pagana,
mista oramai a sovrastrutture cristiane, rimasta impigliata, nei secoli, su per le montagne della Valle del Lys. Per
ragioni di spazio non ho qui potuto fare un confronto o un
parallelo tra i miti walser, quelli più in generale della mon-
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A U G U S T A
tagna, e i miti celtici. Sarebbe stato molto illuminante anche perché l’Aldilà walser è, per certi versi, quasi identico
all’Annwn o alla Sidhe degli antichi Celti europei. Ricordiamo che i Celti della Tarda Età del Bronzo e della Prima
Età del Ferro (1200- 500 a.C.), i cosiddetti “Celti halsttattiani”, non erano presenti solo in Cisalpina, nell’attuale
Francia, Spagna, Belgio, Renania, Austria e Boemia, ma
anche in vaste aree della Germania, e, in specie, nella
zona poi occupata in età storica dalle tribù alemanniche
coi loro oppida. Gli Alemanni si spostarono, in seguito in
Età romana, nell’attuale Svizzera dove, nella Seconda Età
del Ferro (500-30 a.C.), fiorì la civiltà dei “Celti lateniani”.
Questi Germani-Alamanni sono a tutti gli effetti un popolo
che ha vissuto per più di mille anni nell’àmbito o, come
dicono i francesi, in una couche completamente celtizzata!
Molto del loro più atavico “immaginario” viene dai Celti,
popolazione della Prima Europa, dove le druidesse sono
- come dire? - delle streghe ante litteram! Ma di tutto questo in una prossima puntata.
Bibliografia essenziale:
R. Mortarotti, Il mondo leggendario dei Walser dell’Ossola, in “Novarien” N. 9 (1978-1979) pp. 275-325. Vedi,
inoltre, le annate della rivista “Oscellana” dove si trovano,
qua e là, analoghi racconti folklorici;
J.J. Christillin, Leggende e racconti della Valle del Lys,
Edizioni Guindani, 2001 (4 me);
B. Beccaria, Le streghe di Baceno (1609-1611). Le ultime sacerdotesse di una religione pagana sopravvissuta sui
monti d’Antigorio, in Domina et Madonna. La figura femminile tra Ossola e Lago Maggiore dall’Antichità all’Ottocento, Mergozzo - Verbania 1997, pp. 111-193;
E. Rizzi, Gli “intrighi delle montagne”. La caccia alle streghe nelle Alpi walser, in Le streghe nelle Alpi, Fondazione
Monti-Anzola d’Ossola 2002, pp. 113-137;
M. Crenna, L’inquisizione nel Novarese, in “BSPN” LXXX
- I (1989), pp. 177-262;
B. Beccaria, Inquisizione e stregoneria a Novara tra Cinque e Seicento, in Una terra tra due fiumi, la provincia
di Novara nella storia, Voll. 3. Volume II: l’Età moderna
(secoli XVI-XVIII), Novara 2003, pp. 545-581;
B. Beccaria, L’Inquisitore, Peter di Macugnaga e il diavolo
vestito di verde, in “Campello e i Walser”, Atti del Quattordicesimo Convegno di Studi, Campello Monti: 5 agosto
2006, pp. 45-67;
M.A. Murray, The Witch-Cult in Western Europe, 1921.
Ora in traduzione italiana: M.A. Murray, Le streghe
nell’Europa occidentale, Roma 1978. Eadem, Il dio delle
streghe, Roma 1972;
B. Beccaria, Inquisizione episcopale e inquisizione romano domenicana di fronte alla stregoneria nella Novara
post-tridentina (1570-1615). I processi del Buelli (1580)
conservati al Trinity College di Dublino, in “Novarien.” N.
34 (2005), pp. 165-221;
B. Beccaria, Inquisizione vescovile, maghi, guaritori, sfatturator di malefici stregoneschi a Novara sullo scorcio del
XVI secolo, in “Novarien.” N. 38 (2009), pp. 51-140;
T. Deutscher, The role of the episcopal tribunal of Novara in
the suppression of heresy and witchcraft (1563-1615), in “The
catholic historical rewiew” vol. LXXVII, N° 3 (juli 1991),
The Catholic University of America Press, pp. 403-421;
B. Beccaria (s.v. G. Beccaria), Massiola tra Cinque e
Seicento. Note e documenti per una storia dei primi cin-
Trave di colmo con inciso il simbolo religioso IHS, la data
1828, le iniziali CC (Cristoforo Consol) e il nodo savoia, all’alpeggio di Tschannavellje (Tchavanöi), Vallone di Tourrison.
quant’anni della parrocchia di S. Maria di Massiola,
Omegna 1994;
M. Crenna, I modi inquisitoriali nel Novarese, in “BSPN”
LXXX - II (1989), pp. 455-491;
B. Beccaria, Credenze, superstizioni, ritualità nelle valli
della Diocesi di Novara fino al XVI e XVII secolo. Dalla
persistenza del paganesimo nell’Alto Medioevo alle superstizioni come relitti dello stesso nel Basso Medioevo e
nell’Epoca moderna, in Atti del Convegno Donne di montagna. Donne in montagna, Varallo Sesia - Centro Congressi Palazzo d’Adda (19-20 ottobre 2002), Borgosesia
2004, pp. 93-140;
B. Beccaria, Persistenze pagane, religiosità popolare,
movimenti di riforma nella Chiesa, pietà e fenomeni devozionali, in Storia della Diocesi di Novara, nella collana
“Storia religiosa della Lombardia. Complementi”, a cura
di L. Vaccaro - D. Tuniz, Editrice La Scuola, Brescia 2007,
pp.639-652;
B. Beccaria, Perché un santuario e un culto trinitario sulle
alture sopra Ghiffa? Preistoria e protostoria di un santuario,
in AA. VV., L’iconografia della SS. Trinità nel Sacro Monte
di Ghiffa. Contesto e confronti. Atti del Convegno Internazionale, Verbania, Villa Giulia: 23-24 marzo 2007, pp. 57-70;
B. Beccaria (s.v. G. Beccaria), Culti preromani in territorio novarese. Il “milieu” religioso all’arrivo del cristianesimo primitivo nelle campagne, in “Novarien.” N. 23 (1993),
pp. 3-36;
Battista Beccaria (s.v. G. Beccaria), Gli studi novaresi
sulle Culture Preromane, Romane e Barbariche, in “Novarien.” N. 24 (1994), pp. 225-233.
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A U G U S T A
Cenni storici sulla cappella di Ricourt ad Issime
Saint Louis, Roi de France
Jolanda Stévenin
T
utte le cappelle dei nostri villaggi di montagna sono espressione e simbolo della religiosità popolare di chi ci ha preceduti.
Dedicate di volta in volta alla Vergine Maria,
agli Angeli o ai Santi protettori, le cappelle
rappresentano un prezioso retaggio di una tradizione plurisecolare.
A noi spetta il compito di mantenere viva quest’esperienza di fede, consci che il passato, anche il più remoto, è
presente in ciascuno di noi e attorno a noi.
Le cappelle sono nella maggior parte dei casi degli exvoto di un singolo benefattore, di una famiglia o di un
intero nucleo abitato.
Esse furono erette per chiedere la salute del corpo e dello
spirito, la fecondità dei pascoli e degli armenti, l’abbondanza dei raccolti, la protezione del villaggio contro i cataclismi di ogni genere.
La cappella del Ricourt du milieu, come attestano i documenti, risale al 1663, ed è intitolata a Saint Louis, roi de
France (25 agosto).
San Luigi (dal germanico Hlodowig, latinizzato in Clodoveus e poi nel francese Louis) fu uno dei maggiori Re
capetingi, un governatore energico e celebre per la sua
santità, un Re che si propose di vivere e di governare secondo i precetti della religione.
Ma, potremmo chiederci come mai fosse stato eletto
un personaggio così remoto quale protettore di una
cappella in un villaggio sperduto tra i monti della Valle
d’Aosta.
Verosimilmente perché si trattava del Santo patrono
del testatore stesso: infatti la cappella fu eretta per volontà di
Louis de feu Jacques Lintin de Issime, il quale, con
un testamento del 15 luglio 1661, impegnò i suoi eredi a
costruire una cappella al Ricourt du Milieu, intitolata a
Notre-Dame du Rosaire.
Il testamento, redatto dal notaio Jean Biolley in presenza
dei Domp Gabriel Goyet, de Christophle de Joconde Busso,
prebstres, de Vuillermin Biolley, de Jean de feu Pierre Ronco et de Mathieu de feu Jacques Busso, du dict Issime, le 15
juillet 1661, debutta con la formula di rito:
“Sçachent tous comme ainsy soit qu’il convient à tous
mourir et qu’il n’y a chose plus certaine que la mort, ni
plus incertaine que l’heure d’icelle”.
Il testatore prende quindi a dettare le sue volontà dopo
aver fatto il segno della croce e aver raccomandato la sua
anima a Dio e alla beata Vergine Maria.
L’atto di cui sopra elenca le disposizioni del testatore:
• che vengano celebrate quattro messe, di cui una di
requiem, al momento della sua sepoltura;
• che si offrano un pranzo agli amici e parenti e un’elemosina ai poveri, con luminarie e altre oblazioni;
• alla venerabile chiesa parrocchiale di Issime sono legati dodici scudi del ducato di Aosta;
• alle tre confraternite, presenti nella parrocchia di Issime, diciotto scudi;
• al reverendo parroco un double d’Espagne per le messe gregoriane e des Cinq Playes;
• è prevista poi la costruzione di una cappella al Ricourt, là dove si trova le Fort Vieux,
• per la suddetta costruzione il legato è di £ 500,00;
• alle tre figlie legittime, Mathée, Jeanne, Jacomine,
sono assegnati cento ducati ciascuna, oltre a una vacca, una pecora e il corredo e, fino al loro matrimonio,
l’usufrutto della maison focale et pelliou, siti a Ricourd
du Milieu;
• si parla inoltre degli appezzamenti: Chanovrier, les
Fresnes, le Mollin Rope dell’alpe Val Freyda (mulino
del quale oggi rimangono le fondamenta nei pressi di
Stubbi, lungo il corso d’acqua che scende da Valfreida, nel Vallone di San Grato, con la data 1605 scolpita
su un architrave di apertura);
• tra gli altri beni sono citate due vacche, due coperte e
tutti i mobili;
• alla moglie Stefana il testatore lega un prato e un campo, un domicilio, un bosco e altri beni siti a Ricourt
Dessus; un appezzamento detto les Sirfumine, oltre a
due vacche, due coperte, due lenzuola e i mobili;
• ai suoi figli Jacques et Jean, sono assegnati la metà
di una stalla e cinque stadel, oltre agli altri beni del
Ricourt du Milieu.
In ottemperanza a quanto disposto dal padre Louis de feu
Jacques Lintin, i figli fecero subito edificare una cappella
a Ricourt “a la forme du dict légat”, dotandola dell’arredo e dei paramenti necessari e di una messa annuale da
celebrarsi le samedi avant le dimanche soit fête du Saint
Rosaire, con dotazione di £ 4,00, di cui £1,00 per la celebrazione della messa e il resto per la manutenzione della
cappella.
In data 24 luglio 1666 il vicario generale J. Rol diede la
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A U G U S T A
sua approvazione a tutti
gli atti relativi al legato
del Louis Lintin e delegò il parroco d’Issime a
benedire la cappella in
oggetto.
Pierre Roncoz et ensuite
le sus dit Jean Jacques
Linty, pour ses autres
biens…
laquelle fondation a été
faite par Louis de Jacque
Lintin l’année 1661, le 15
La cappella incominciò
juillet…
ad essere citata in occaPlus une autre fondation
sione della visita pastorad’une messe annuelle et
le del 14 agosto 1693:
perpétuelle, fondée en la
Dai registri si possono
dite chapelle par Jean de
desumere alcune inforfeu Louis Lintin, l’année
mazioni interessanti:
1682 et le deuxième du
…la chapelle di Ricourt,
mois d’avril, reçue par le
soubs le titre de Saint
notaire
Louis, ayant trois mesGabriel Albert…
ses, bien bastie et bien
La susdite chapelle ne
ornée, avec tous les parepossède ni argent ni
ments, sans cloche.
revenus, et qui est enIn un’altra visita pastoratretenue aux frais du
le, quella del 14 maggio
susdit sieur Jean Jac1700, apprendiamo che:
ques Linty, possède un
…il y a une messe d’oblicallice avec sa coupe
gation pour laquelle le
d’argent, dorée au decuré perçoit 15 sols et le
dans et le pied de cuidîné […].
vre doré; et une pattène
Identico rilievo fu fatto
d’argent, dorée en bon
nella visita pastorale del
état; une chasuble avec
9 giugno 1703,
son étole, son maniil 15 luglio 1713 è specipule, la bourse aussi en
ficato che la cappella est
bon état; trois nappes;
entretenue par les hoirs
le voile pour le callice;
de Jean et Jacques frères
purificateur, le tout
Cappella di Ricourt.
Lintin […].
en bon état; un devant
C’è ancora una citazione
autel de peau fleuragée
della cappella in occasione della visita pastorale del 24
avec les coussins en un simple état; deux burettes en
maggio 1727:
médiocre état;
une autre chapelle au lieu dit Ricort, érigée en l’honneur
les cannons, crucifix, la face de l’aube le tout en sufisende Saint Louis, avec l’obligation de deux messes annuelce; un missel, quoique antique, en bon état.
les.
Le battiment de la ditte chapelle en bon état, après que
le dit sieur Linty aura couvert avec de la chaux les fentes
In data 7 febbraio 1786, il reverendo Jean-Ange Ronco,
qui se trouvent à la voute de la ditte chapelle et refait cerparroco d’Issime, redige, a sua volta, l’ historique della
tains coins de corniches autour des murailles de la ditte
cappella sulla base dei dati che gli vengono forniti da Jean
chapelle…
Jacque fils du spectable avocat Linty (Jean Jacques Linty
Cette chapelle a au devant, une grande grille, au lieu
*1743+1791, figlio dell’avvocato e giudice Jean Pantaleon
d’une muraille, sur le toit d’icelle, soit sur la muraille deLinty *1708+1771).
vant, existe un petit clocher, dans lequel il y a une cloche
Nella relazione si legge tra l’altro:
pesant environ huit rups, en très bon état…
“La chapelle sous le vocable de Saint Louis, roi de France,
Le révérend curé de cette paroisse est obligé, annuellesituée en plaine, dans le village et pertinence de Ricourt
ment, d’aller célébrer deux messes: une le jour du patron
est distante de la mère église d’un tiers de lieue…
d’icelle vingt cinq du mois d’aout, et l’autre le lendemain
elle a été dotée, pour son entretien, soit pour la fondation
s’il peut…”
de la messe, en biens fonds en pré, herbage et vacolle,…
Elle est sise sur la pièce appelée légat dont les fins sont
Ma, con l’evolversi del tempo, l’antico legato diventa un
impegno troppo oneroso per gli eredi.
Jacque de feu Jean Louis Linty Rouer et Pierre de feu
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A U G U S T A
Così, dopo oltre due
nuellement lires 5,
secoli dalla fondapour la célébration
zione della cappelde deux messes, et
la, l’11 aprile 1896,
lires 2,50 pour payer
il parroco d’Issime,
le déjeuner que l’on
reverendo
Ferdioffre aux deux prênand Collomb, protres…
pone al vescovo di
Chapelle de Ricourt,
Aosta l’estinzione
2 messes annuelles
del legato, mediante
à la charge des hél’offerta di £ 200,00
ritiers de Jean Jacfatta dalla famiglia
ques Linty de feu
Linty, mentre le due
l’avocat Jean Pantamesse obbligatorie
léon…
resteranno a carico
Au sujet d’une mesdella Fabrique.
se chantée, léguée
L’obbligo di chiedepar Christillin Philire l’estinzione del lebert à Notre Dame
gato pesa per 1/5 su
de Pitié…
Louis Joseph Linty
Au sujet d’un chantal
*1822+1904 (figlio
à célébrer à la veille
del notaio Jean Loude la Toussaint,
is Linty *1764+1845,
avec un demi-rub
fu Jean Jacques
à payer à l’Eglise
*1743+1791), e per
(Cahier de notices
4/5 sugli orfani
sur divers legs de
del notaio Blaise
la paroisse d’Issime
Linty *1843+1885,
Saint Jacques par le
anch’esso discencuré Grat Vesan, andente di Jean Pannée 1915).
taleon Linty, rappresentati dal loro
All’interno
deltutore Jean Jérôme
la cappella c’è un
Stevenin Türksch,
bell’altare barocco
entrepreneur (resiin legno policromo
dente ad Issime nel
del settecento, dovillaggio di Ceresole
tato di candelieri
- Zinnesili, sposato
e carte-gloria. La
ad Emilia Linty sovolta e la parte suAltare della cappella del Ricourt.
rella di Blaise Linty,
periore delle pareti
quest’ultimo padre
sono decorate. C’è
di Évangeline, Octave et Blaise). Il vescovo, Mgr Josepure una tela raffigurante la Madonna con angeli custodi.
ph Auguste Duc, risponde positivamente alla richiesta di
Le statue rappresentano il Padre Eterno, due angeli con
estinzione del legato, stimando la somma offerta giusta
tromba, i santi Giacomo, Giovanni Battista e Luigi, re di
ed equa.
Francia. Nel corso di quest’anno il parroco Don Saverio
Dal cahier des comptes de la chapelle de Ricourt risulta
Vallochera ha affidato l’incarico per il rifacimento del tetto,
quanto segue:
e, qualche anno fa, per il restauro dell’altare.
l’entrepreneur Stevenin Jean Jérôme, nell’ottobre del
1896 versò la somme de lires 200 (deux cents) pour l’affranchissement du legs, dont lires 160 (4/5) au nom de
Fonti: “Le cappelle nella Diocesi di Aosta”, Jean Domaises neveux Évangeline, Octave et Blaise, et lires 40 (1/5)
ne, Aosta, 1987.
au nom de Louis Linty…
A.N.A. Fonds Donnas, Vol.238, notaire Jean BiolSur l’autorisation épiscopale le curé peut prélever anley.
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A U G U S T A
Zwian geitala ouf tur dan glétscher
Due ragazzi su per il ghiacciaio
Ugo Busso Schützerschdschoandsch
Ich bsinnemich nöit franh z’joar, wén ich un méin küssinh
Arturo, zwian géitala van in d’Kruasi, hennündsch gleit in
z’hopt z’goan machun an spazirutu ouf tur Greschoney, un
grech unz ouf tur déi alpi.
Non mi ricordo l’anno preciso, in cui io con mio cugino Arturo, due ragazzi del villaggio di Crose, ci siamo messi in
testa di fare una passeggiata fino a Gressoney e forse fino a
quegli alpeggi.
Zam hous hewer nöit gseit anner un sua hentsch nündsch
gloan goa mi an lljicken rücksackh, dri zwian bisseti, as
tricku un an dschakavent.
A voart zweck hewer kiat la Corriera unz Greschoney-LaTrinité un van doa hewer kheen gmachut da rechtnunh
z’goan ouvurur, grech unzana unz al Rifugio Quintino Sella.
A casa non abbiamo detto altro e così ci hanno lasciati andare con un piccolo zaino con, dentro, due merendine, una
maglia ed una giacca a vento.
Una volta pronti abbiamo preso la Corriera fino a GressoneyLa-Trinité e di lì abbiamo messo in conto di andare più in
su, forse fino al Rifugio Quintino Sella.
Doa séiwer amoddurut z’vuss im chünuweg unz a Sant’Anna.
Noa as poar stünni weg séiwer arrivurut in d’iestun alpu
woa d’chü hen aschuan kheen gvoarit ouvurur.
Lì ci siamo avviati a piedi sulla mulattiera fino a Sant’Anna.
Dopo un paio d’ore di cammino siamo arrivati al primo alpeggio, dove le mucche avevano già transumato più in alto.
Wa ischt doa das ischtmer bschit a leida: d’sualu van dan
grobbe schu hetdschi anseilt un ich hen nümmi gwist was
tun: hinner, Arturo het nöit wélljen goa un ich auch nöit, wa
um goa vürsich wi tun?
Ma è lì che mi è capitata una brutta sorpresa: la suola di
uno scarpone si è staccata ed io non sapevo più che cosa fare.
Arturo non voleva tornare indietro ed io neppure ma per
proseguire, come potevamo fare?
War séin dé kintrut im lieren goade süjen an stuckh éisene
voade, un an puentu un, mi dscha chlöpfen mi am stein,
hewer glochut d’sualu alli um un um. In déi luchjini, um
seilljen d’sualu am schu, hewer gnéddelljit, eis un eis,
kchnupfti zam béschte, stückjini éisene voade.
Siamo entrati allora nella stalla vuota in cerca di un pezzo
di fil di ferro e di un chiodo con cui, battendolo con una pietra, abbiamo bucato la suola tutta intorno. In quei piccoli
buchi, per legare la suola allo scarpone abbiamo infilato uno
ad uno, annodati alla meglio, pezzetti di fil di ferro.
Noa das weerch, hennich gleit amum a, den uppege schu
um nündsch amodduru wider il Rifugio.
Dopo quel lavoro mi sono di nuovo rimesso quel povero scarpone per avviarci verso il Rifugio.
Doa seiwer arrivurut wider oabe, an zéit um essen an
bissetu z’nacht um, darnoa, goan machun an schiene
schloaf oan noch wissu was war hetti noch muan tun da
muarge.
Lì siamo arrivati verso sera, in tempo per mangiare un po’
di cena, per poi andare a fare una bella dormita senza sapere
ancora che cosa avremmo potuto fare al mattino.
Wa krat arwachti an gruass schien sunnu dash het
gschéinit ubber allu déi griat un déi glétschara hennünsch
nümmi antheen z’goan noch ouvurur grech unz ubber déi
zwia spitza dans heissen Castore un Polluce.
Un sua hewer toan, génh mi méin uppig sualu un oan khén
schnetz un oan as seil.
Wa um arrivvurun unz doa musmu passrun ubber an leit
un lénh kredsu volli kwiechtini ghoufiti vam win. Wén war
wiarti arvallen ubber déi éischi un déi schürfi nöit nuan
ündsch spazituru war auch ündsche lebtag wierti glljéivrut
vür zéit.
Darrum hewernünsch ackordurut z’nündsch hee hért an
di zwian örmia van an dschacku un wén eis wierti gvallen
Ma appena svegli, un gran bel sole che splendeva su tutte
quelle montagne e su quei ghiacciai, non ci ha più trattenuti
dall’andare più in su, forse anche su quelle due punte chiamate Castore e Polluce.
E così abbiamo fatto, sempre con la mia povera suola e senza
nessun bastone e senza una corda.
Ma per arrivare fin lì, bisogna passare sopra una brutta
e lunga cresta di neve ammucchiata dal vento. Se fossimo
precipitati su quei ghiacci e quei dirupi, non solo la nostra
passeggiata ma anche la nostra vita sarebbe finita prima del
tempo.
Perciò ci siamo messi d’accordo di tenerci saldamente alle
due maniche di una giacca e se uno fosse caduto da una par-
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A U G U S T A
Punta
Castore
4.228 m
Colle
Bettaforca
2.672 m
Rif.
Quintino
Sella
3.585 m
Passo del Naso
4.150 m
Capanna Gnifetti
3.611 m
Punta
Felix
4.061 m
Il Monte Rosa visto dalla Testa Grigia (Foto Davide Camisasca)
abber an séitu dar kredzu z’andra, is auch oan loan dan
andren örmil hettidschi gloa vallen in d’andru séitu un sua
wiertewer blljibben ghangti ubber d’kredzu.
Ich wiss nöit wi z’is wierti kannhen, antweegen war séin
arrivurut in di zwia spitza oan arvalle. Sua auch séntsch
cheeme hinner unz al Quintino Sella.
te della cresta, l’altro, anche lui senza mollare l’altra manica, si sarebbe lasciato cadere dall’altra parte e così saremmo
rimasti appesi sopra la cresta. Io non so come sarebbe andata
perché siamo arrivati sulle due punte senza
precipitare. Così pure tornando indietro fino al Quintino
Sella.
Wa doa ischt nündsch passrut in z’hopt an anner sturnéréi.
Al Rifugio hewer gvunnen an skwoadru genoveisara mi üriu
vürer un ejjli wol dineti mi seili, alpenstoka un groapi, das
séin sinh amoderriti wider il Liskamm um z’is trevursuru
ubber den glètscher das heist “Naso del Lyskamm”, um,
zu van a chlémpu zu dar andra, beischurun al Gnifetti.
Ma lì ci è passata per la testa un’altra pazzia: al Rifugio
abbiamo trovato una squadra di genovesi con la loro guida
e tutti ben equipaggiati con corde, piccozze e ramponi che
erano incamminati verso il Lyskamm per attraversarlo sul
ghiacciaio che si chiama “Il naso del Lyskamm” per poi, da
un crepaccio all’altro, scendere alla capanna Gnifetti.
Oan müssurun zwurru, noch génh oan sèil, groapi, un
schnetz séiwernen kannhen zu. Ich noch génh mi méin
sualu génh minnur sicheri.
Senza pensarci due volte, ancora sempre senza corda, ramponi e piccozza, li abbiamo seguiti. Io ancora con la mia
suola sempre meno sicura.
Ischt sua das ubber déi noasu éisch das lljéivrut z’uabruscht
an gruass schürfu méini chnau hen gvoan a z’réidugurun,
antweegen was mi het noch anthee séin nuame gsinh dei
chnüpf vam éisenen voade um un um d’sualu, un dan trit
das hen gloan ubber z’éisch déi das séin ündsch gsinh
vür.
E così che su quel naso che finiva sopra un grosso precipizio
le mie ginocchia incominciavano a tremare, perché ciò che
mi teneva ancora su erano solo quei nodi del fil di ferro intorno alla suola e la traccia lasciata sul ghiaccio da quelli che ci
camminavano davanti .
Van la Gnifetti z’grünn, wol génh mi méin uppig sualu,
séiwer kannhen ambri wi gémtschi um nöit varlljiren d’
létschtun Corriera vür Eischeme.
Dalla Gnifetti al piano, ancora sempre con la mia povera
suola, siamo scesi come camosci per non perdere l’ultima
Corriera per Issime.
Wa geit oan see, das zam hous hewer nöit zélt alz was ich
bsinne sua wol noa sechzg joar: allu déi sturnéréi das war
hen ghousut in déi zwian toaga wa das ündsche verousegen
Lljibi Gott hennündsch nöit toan z’zalle mi ündschem
junnhe lebtag wa das war séimu noch schuldig.
Non occorre dire che a casa non abbiamo raccontato tutto ciò
che ricordo così bene anche dopo sessant’anni: tutte le pazzie
che in quei due giorni abbiamo combinato senza che il nostro
straordinario Buon Dio non ci ha fatto pagare con la nostra
giovane vita, ma di cui gli siamo rimasti ancora in debito.
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A U G U S T A
Cornici artigianali e stampe dell’iconografia
popolare nell’area walser della valle d’Aosta
e del Piemonte orientale: alcune peculiarità
Guido Cavalli
Premesse
S.A.R.
la Regina
Margherita
di Savoia
Litografia
acquerellata
di Carlo
Verdoni
di Torino.
Cornice
in noce
con doppio
filetto
in bosso
L
e vicende della colonizzazione di varie località
del Piemonte e della valle d’Aosta da parte dei
walser, sono state studiate e descritte da molti
autorevoli studiosi; anche i dialetti alemanni, le
particolari abitazioni rurali, l’alimentazione, gli
usi e costumi, gli utensili, i proverbi e i rapporti con le popolazioni francofone e con i feudatari, sono stati oggetto di
ampi studi, favoriti da svariate fondazioni culturali, da riviste
e bollettini a testimonianza dell’interesse sull’argomento.
Questa breve nota vuole trattare un aspetto abbastanza marginale e non del tutto peculiare del mondo walser, cioè l’iconografia religiosa e non, su supporto cartaceo, che a partire
dall’inizio dell’800’ raggiunge praticamente tutte le case, le
chiese, le cappelle, i santuari del mondo contadino rurale, in
pianura come in montagna.
Fino alla metà del 600’ le immagini a disposizione del popolo erano esclusivamente collettive, cioè gli affreschi delle
chiese, i quadri dei santuari, con l’eccezione delle immaginette dei breviari. Già almeno un secolo prima cominciano
a comparire matrici costruite su legni incisi, quindi lastre
di rame, che consentirono un grande incremento delle tirature con un aumento dei formati; nascono così le prime
stampe che anche il popolo poteva acquistare, incorniciare
ed appendere al muro, a protezione della casa, della famiglia, del raccolto. È con l’avvento della litografia, all’inizio
dell’800’ che la diffusione delle immagini diviene capillare
per l’abbassarsi dei costi e per l’aumento delle tirature. Nascono in tutta Europa centinaia di stabilimenti litografici
che fanno a gara per conquistare il mercato proponendo
una sterminata offerta di soggetti realizzati con tecniche
assai variabili. Venditori itineranti percorrono tutto il territorio, in botteghe, negozi, santuari, feste patronali, vengono vendute immagini di santi di ogni genere, immagini
ingenue, molto colorate, che spesso semplificano il bene
e il male, il premio e il castigo. Il soggetto religioso, anche
se prevalente, non è esclusivo; si acquistano immagini di
sovrani, allegorie, scene di caccia, di battaglie famose, di
eventi importati legati al risorgimento, allo statuto e tanto
altro ancora. Nella valle di Gressoney sono molto frequenti
le immagini della regina Margherita di Savoia, che, come
noto, frequentava ed amava questa valle.
Dopo la metà dell’800’ compare una nuova tecnica, cioè la
cromolitografia che di fatto soppianta, in una ventina d’anni
la litografia acquerellata tradizionale, che, fino a quel momento era la tipologia più venduta. Anche le stampe realizza-
te con questa
tecnica godono di un grande successo,
almeno fino
alla seconda
guerra mondiale, quando la fotografia, quindi le moderne
tecnologie segneranno la fine della stampa popolare.
Esempio di cromolitografia a soggetto risorgimentale, prodotta a Lìmburgo (città fra Bonn e Francoforte) intorno al
1880, proveniente dalla valle di Gressoney
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A U G U S T A
Naturalmente queste stampe, per essere appese avevano bisogno di una cornice che poteva essere già venduta con la
stampa, oppure costruita su misura, dallo stesso acquirente
o da un falegname. Anche sulle cornici esiste una infinita
varietà che comprende pezzi dozzinali, ripetitivi, realizzati
con legni poveri e pezzi estremamente complessi, filettati, intarsiati, cassonati di grande bellezza, che andavano a
valorizzare al massimo la stampa. Possiamo affermare che
nel mondo walser le cornici erano molto spesso di questo
secondo tipo.
Zone di produzione delle litografie
Senza scendere troppo nel dettaglio, possiamo affermare
che a metà 800’ le litografie più presenti nell’area nord occidentale d’Italia sono di produzione Torinese, Francese e
Tedesca; cito tra gli altri Doyen, Verdoni, Cordey e Briola di
Torino, Turgis e Agustoni di Parigi, Pellerin di Epinal, May
di Francoforte. Più raramente incontriamo stampe di Bassano Veneto, ma quasi sempre cromolitografie, pezzi stampati
a Milano da Luigi Costantini e da Vallardi, ma quasi sempre
nell’area orientale del Piemonte.
val Sesia e Re nel Verbano Cusio Ossola per la valle Vigezzo, Formazza, l’ossolano e la valle Anzasca. Fra i santuari
“minori” ricordiamo quello di Boden a Ornavasso e la Madonna della Guardia a Perloz dove la popolazione della valle
di Gressoney (alemanna e non ) partecipava ad un’annuale
processione.
Litografia
acquerellata di
Verdoni Torino.
Immagine
della madonna
del sangue
proveniente
dal Piemonte
orientale che
reca la scritta:
“Il vero ritratto
della sacralissima vergine
M. Miracolosa
nella valle
Vigezzo in Re”
I santuari, gli eventi religiosi, le commemorazioni,
nelle litografie
Come abbiamo visto le stampe venivano acquistate da venditori itineranti, presso botteghe, feste patronali e santuari. I
santuari principali, frequentati da popolazioni walser in area
piemontese, erano sicuramente tre: Oropa presso Biella,
per la valle di Gressoney e di Ayas, Boca nel novarese per la
Litografia acquerellata di Verdoni Torino, proveniente dal
Piemonte orientale che reca la scritta :” Vero ritratto del SS.
Crocifisso che si venera nei boschi di Boca”.
Litografia acquerellata di Verdoni Torino. Immagine della
madonna di Oropa proveniente da Fontainemore.
Certamente i walser dell’ossolano si recavano al santuario di
Einsiedeln nella Svizzera centrale e ad Altotting in Baviera,
entrambi dedicati a Madonne nere. In Italia venivano sicu-
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A U G U S T A
ramente frequentati, ma non in modo peculiare per la popolazione walser, la Consolata a Torino, Caravaggio presso
Bergamo, quindi Loreto e, in Francia, Lourdes.
Esistevano anche molti eventi religiosi non legati a santuari; riferiamo, a titolo di esempio, dell’ annuale processione
dell’immacolata concezione che si svolgeva a Ceppomorelli
presso Macugnaga e che viene celebrata con la litografia
che presentiamo. Esistevano probabilmente santuari e feste
anche in Svizzera e Germania alle quali, compatibilmente
con lo stato dei valichi, i walser che si erano stabiliti in Piemonte orientale e valle d’Aosta, partecipavano.
Litografia
in bianco
e nero commemorativa,
prodotta
da Doyen
di Torino.
Rappresenta
la Madonna
su una
nuvola, con
le mani
aperte a simboleggiare
l’erogazione
di grazie.
Sullo sfondo
un cerchio
di raggi
luminosi
con la scritta
“Marie Mère
des Graces
priez pour nous”. La dedica recita: “Dediè a Monsigneour
Jourdain Eveque d’Aoste e comte. Par l’Abbè In. Pre. Goyet
Curè d’Issime St. Michel”.
Frequentissimi erano i certificati di battesimo, prima comunione, cresima, che naturalmente in area walser erano
in tedesco come quello qui sotto riportato, relativo alla prima comunione di una bambina della famiglia Menabrea di
Gressoney-La-Trinité.
La beata vergine Maria Immacolata. Di Agustoni Parigi. Litografia acquerellata. La stampa riporta in italiano : effige
della B. V. M. Immacolata che si venera nel luogo di Ceppomorelli ove si porta processionalmente l’ultima domenica
del mese di giugno”. Il priore Benemerito Giovanni Jachetti
figlio del fu Antonio Maria di Mondelli 1844.
Le botteghe litografiche realizzavano stampe per particolari eventi, come la seguente stampa proveniente da IssimeGaby. Questa litografia, con didascalie in francese, dimostra come fosse facile ordinare allo stampatore, in questo
secondo caso a Torino, una particolare stampa dedicata alla
commemorazione di un personaggio, di un evento, come
una processione. Molte stamperie di Aosta, del Canavese
e del Biellese, consegnavano alle parrocchie litografie di
piccolo formato commemorative di feste di Natale, Pasqua,
souvenir della Mission, con preghiere e indulgenze, spesso
a firma del parroco, per esempio, nell’area di Issime, verso i
primi del 900’, Vesan cure.
Certificato di prima comunione datato 25 maggio 1848 di
Maria Luise Menabrea a firma di Joseph Lateltin, proveniente da Gressoney. La litografia è stata prodotta ad Altkirch
nell’alto Reno nella regione dell’Alsazia
— 82 —
A U G U S T A
I soggetti
In tutto il nord-ovest, compresa l’area walser, sono diffusissime le litografie acquerellate di produzione torinese con
una grande prevalenza di crocifissioni, sacri cuori di Gesù e
Maria, svariate immagini di Madonne, numerosissimi santi
patroni (a Issime s. Giacomo, a Gaby s. Michele, poi s. Antonio abate a Fontainemore etc.). Molto frequente S. Giovanni
Battista, patrono di Gressoney, come del resto della città di
Torino.
provengono. Ribadiamo che queste litografie acquerellate
erano diffusissime in tutte le case, le chiese, le cappelle i
santuari, dove ancor oggi si possono osservare.
Litografia acquarellata proveniente esattamente dalla frazione Champriond nel comuniedi Issime, che reca la scritta :
Druck u verlag v Ed Gust. May in Frankfurt a M. • Geheiligles herz Jesus (54 • Geheiligles herz Maria (55) •
Sacre coeur de Jesus •The sacred heart of Chris • The
holy heart of virgin Mary. Scritto a penna, su entrambe le
stampe, Labaz Jean Jaques Ambroise 1880
Il numero di sante, vergini martiri, santi, beati è quasi infinito, ma anche scene bibliche, commemorazioni di prelati,
famiglie reali. Il quadro non cambia con le cromolitografie,
che confermano l’iconografia precedentemente descritta.
Riportiamo, a titolo di esempio, le immagini di alcuni santi patroni dei comuni della valle del Lys, da dove i quadri
Litografia
acquerellata
prodotta
da Verdoni
di Torino,
proveniente
da Issime
che ritrae
il S. patrono
S. Giacomo
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Litografia
acquerellata
attribuita
Verdoni
di Torino
proveniente
da
Gressoney
St. Jean
Due
litografie
acquerellate
prodotte
da Cordey
di Torino
che rappresentano
S. Michele
arcangelo,
patrono
di Gaby e
S. Antonio
abate,
patrono
di Fontainemore,
provenienti
da questi
due paesi
A U G U S T A
Peculiarità dell’area walser
Certamente dalla valle di Gressoney, ma ancor più nell’Ossolano e dalle valli Formazza, Anzasca, Vigezzo e dai comuni walser della val Sesia, proviene un rilevante numero di
stampe tedesche; erano piuttosto diffuse anche in ambito
non walser, ma qui la frequenza dei ritrovamenti è di molto maggiore, soprattutto per le stampe di Gustav May di
Francoforte, ma anche di Felgener e Steiner di Berlino. Da
notare che queste stampe nella valle di Gressoney, sono
presenti anche a Gaby e Fontainemore, comuni francofoni,
ma ciò si può facilmente spiegare con un “rimescolamento”
dovuto a matrimoni, eredità, trasferimenti. È del tutto normale che chi parlava tedesco preferisse un’immagine con
una didascalia scritta in quella lingua, anche se spesso (in
particolare Gustav May) proponeva stampe sottotitolate in
4 o anche 5 lingue (vedi sopra). Questa bottega di Francoforte produceva, tra l’altro, un particolare tipo di stampa
fatta con carta compressa a formare una cornice ovale, poi
dorata, nella quale è iscritta l’immagine del santo, a volte
acquerellata.
Litografie
(Sacro cuore di Maria
e Madonna
di Czestochowska)
con cornici dorate
su carta compressa
di Gustav May
di Francoforte
dalla valle di Gressoney
Anche le botteghe berlinesi realizzano prodotti
molto elaborati, probabilmente costosi, che
dovevano essere molto richieste anche dai
clienti walser. Non sappiamo se queste stampe
venissero acquistate in
occasione di viaggi oltralpe oppure da venditori itineranti
L’uso dell’oro e del rilievo è frequente nelle stampe tedesche. Sono qui riprodotte tre di queste stampe, di piccolo
formato, due provenienti dall’area di Macugnaga (il santuario Einsiedeln e S. Anna) e una dalla valle di Gressoney (S.
Giovanni). Si tratta, in questo caso, di incisioni su rame, poi
lavorate a rilievo, quindi dorate in parte e risalenti alla metà
del 700’.
Le cornici
Particolare della litografia acquarellata con vistose dorature,
che reca la scritta : “ Druck u. Verlag von A. Felgner Berlin
PAPST PIUS IX Erinnerung an das 25 jahrige Papstjubilaum Papst pius des ix in Rom Am 16 Juni 1871”
Dalla val d’Ossola
Le cornici ritrovate in area walser sono quasi sempre di ottima qualità, con alcune eccellenze, per la realizzazione di
filetti e intarsi e per l’uso quasi esclusivo di legni pregiati
come noce e ciliegio, a testimonianza dell’abilità degli artigiani e della considerazione che essi avevano per l’immagine sacra e per la propria casa. Sappiamo che quasi in ogni
frazione della valle di Gressoney esistevano laboratori di
falegnameria, gestiti da abilissimi artigiani abituati da secoli
a costruire con il legno case, stadel, utensili di ogni genere.
Nel vallone di S. Grato, per esempio, la popolazione che vi
abitava stabilmente, doveva tener conto delle condizioni climatiche invernali che spesso portavano all’isolamento per
alcuni mesi. Esistevano quindi botteghe artigiane in grado
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A U G U S T A
Tre incisioni acquerellate e dorate di S. Anna, S. Giovanni, contornati da otto altri santi,
e del santuario di Einsiedeln, realizzata con la stessa tecnica
di sostenere la manutenzione degli edifici, a provvedere agli
utensili e a tutto ciò che serviva agli abitanti. L’inverno favoriva anche le attività artigianali, come la costruzione di nuovi utensili, giocattoli per i bambini e, appunto, cornici. I falegnami sceglievano con grande sapienza i legni, selezionavano i colori, le vene giuste, sia per l’estetica sia per assicurare
la durata nel tempo. La stagionatura era fondamentale per
evitare il tarlo specie negli ambienti umidi delle case contadine. Raramente venivano usati chiodi per connettere le
Esempio di cornice modanata in noce con doppio filetto in
bosso e filetto centrale realizzato con piccoli rombi alternati
in noce chiaro e noce scuro. Provenienza Fontainemore
assicelle, ma incastri perfetti, colla animale, chiavette e caviglie di legno. L’artigiano creava decorazioni a filetto (spesso
in legno di bosso) e altri intarsi servendosi di quadratini di
legni di colori diversi, in genere ciliegio, noce scuro, acero
e larice, al fine di ottenere effetti molto gradevoli che valorizzavano sia la cornice che la stampa che essa conteneva.
Al contrario delle cornici “industriali” frequenti in pianura,
quelle costruite in montagna e in particolare nell’area walser, mostrano un buono stato di conservazione e di stabilità
proprio perché i materiali usati erano di alta qualità. Nella
valle di Gressoney, in particolare nella parte centrale della valle cioè fra Issime (che nell’800’ comprendeva anche
Gaby) e Fontainemore erano molto presenti alberi di noce,
che fornivano il materiale migliore per la costruzione di
mobili di ogni genere e anche di ottime cornici. Risalendo
la valle altrettanto abili falegnami lavoravano in prevalenza
conifere come larice e cirmolo, ma anche noce e ciliegio di
importazione.
Molti lavori sono stati pubblicati sulla casa walser, sia sull’architettura, sia per quanto riguarda gli interni, gli utensili,
le stufe, l’utilizzo degli ambienti e tanto altro. I quadri dei
santi, le foto degli antenati, piccole statue della Madonna,
andavano spesso a costituire un angolo “devozionale” della
casa, dove pregare con la famiglia unita, quando magari la
neve non consentiva di scendere in paese per la messa domenicale.
Le cornici fornivano un non trascurabile contributo all’arredamento anche di case rurali di una popolazione che, nonostante i bisogni primari, aveva una profonda fede e manifestava una non comune attenzione estetica e funzionale verso
la propria casa.
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A U G U S T A
Il relitto di Issime. Una storia dimenticata
Q
Marco Soggetto
uesta è la storia di una notte di tempesta, di un
volo decollato in tempo di guerra. La vicenda di
una complessa e disperata missione, nonché inevitabilmente degli uomini che vi hanno preso parte e che, in gran numero, hanno perso la vita. Un
racconto che attraversa indifferente lo spazio ed i decenni, collegandosi alle vite di figli e nipoti, al dolore ed all’oblio, al ricordo.
Una storia antica e dimenticata, un mistero custodito dalla montagna e nascosto agli occhi degli uomini, al ricordo delle generazioni: una presenza silenziosa appostata per lunghi anni ai
margini della mia consapevolezza, un problema che da sempre
ritenevo difficilmente risolvibile. Già, poiché si tratta anche della mia storia, della narrazione di una lunga caccia impossibile e
del tutto ipotetica, improvvisamente virata - in una radiosa giornata estiva - su basi terribilmente concrete.
A mia volta, ho spesso rischiato di smarrire la traccia, di perdere la rotta, come quegli sfortunati equipaggi dispersi in una
notte di tempesta. La ricerca cui mi sono dedicato con passione da metà agosto 2009 a questa primavera del 2010 non era
facilmente riconducibile a stereotipate categorie d’indagine;
non potevo riunire i sospetti in una stanza per smascherare il
colpevole, non c’erano antichi templi con geroglifici da identificare, né dati catastali da consultare. Da sempre persuaso che,
da qualche parte, archivi e volumi custodissero la risposta ad
ogni domanda, mi trovavo ora impossibilitato a chiedere consiglio: non vi erano docenti o saggi in grado di raccontarmi cosa
successe in una notte di quasi sette decenni or sono, dunque
avrei dovuto conquistare ogni indizio, ogni minuscola ed esile
certezza, con tenacia e determinazione.
Ad essere sincero, non osavo veramente credere che le montagne mi avrebbero messo a parte del perduto segreto che sfioravo
da anni, negli incontri con pastori e bracconieri, anziani contadini
ed alpigiani. Poi, senza soluzione di continuità, trovai ciò che da
lunghi anni stavo sognando e cercando di localizzare, e non è
impreciso affermare che la mia vita passò su frequenze più alte.
Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto
che non debba essere manifestato, mi ripetevo in quel giorno di
metà agosto in cui la mia mente sovraeccitata trovava spazio
solo per il più grande stupore, per la curiosità, per qualche reminescenza evangelica.
Questo articolo nacque infatti il giorno di Ferragosto 2009,
pur avendo radici negli anni precedenti: è dunque necessario
cominciare dall’inizio, tornando a quelle lunghe estati di sole,
vento e montagna, punteggiate da saltuari cenni ad un obliato
mistero durante alcune escursioni.
Non ero certo l’unico depositario di questa complicata e ramificata leggenda, anzi, ne parlavano in molti. Dal cielo di Challand,
dal cielo di Gaby o forse Issime, era caduto qualcosa: l’anno del
disastro, la provenienza e la natura del misterioso velivolo erano
avvolte da nebulose cortine di supposizioni e citazioni “per sentito dire”, di reiterati abbellimenti che variavano a seconda del mio
interlocutore e del suo desiderio di compiacere il mio interesse.
Ogni volta, curiose circostanze si ripetevano: non ero mai io a
far cenno al mistero, e quasi mai le voci avevano dettagli in comune. Il paradiso per un cultore di leggende, l’inferno per uno
storico alla ricerca di un concreto relitto, schiantatosi in un preciso spazio, esprimibile in solidi metri quadrati ed in una quota,
graziosamente riassumibile in coordinate GPS.
Si sarebbe trattato di un aereo tedesco, americano, italiano;
era caduto subito dopo la Seconda guerra mondiale, come mi
giurarono nel 2006 alcuni pastori intenti a ripulire il letto di un
canale irriguo, lieti di poter fare una pausa sotto il sole a picco.
Nient’affatto, l’aereo si era schiantato durante il conflitto, era
stato abbattuto. Nessuno aveva mai trovato l’equipaggio, oppure, il pilota era morto ai comandi e qualcuno probabilmente
l’aveva sepolto là, nel Lys.
Le voci divergevano in modo ancor più sensazionale quando si
entrava nel dettaglio: che fosse caduto mentre Hitler e Mussolini spadroneggiavano in Europa oppure quando Berlino era ormai ridotta ad un ammasso di macerie, di che aereo si trattava?
Avendo sempre annotato le risposte in alcuni taccuini, abituato
a prender nota di quote, direzioni e dislivelli durante la stesura
del manuale Le Vette della Val d’Ayas, posso ora rendervi idea
della disparità di aneddoti in merito: si trattava di un caccia americano, un grande caccia argenteo.
No, si era schiantato solo un piccolo ricognitore tedesco, con
alcune persone a bordo, del tipo con cui la Wehrmacht teneva
d’occhio le montagne alla ricerca delle formazioni partigiane;
uno Storch, dunque. Nient’affatto, era una “fortezza” americana
ad esser caduta sulle rocce, frammentandosi nell’impatto in pezzi talmente minuti da risultare oggi indistinguibili dal paesaggio:
un enorme bombardiere, una di quelle infinite fortezze volanti
viste nel cielo di Brusson dalla giovanissima Rosetta Loy nelle
notti estive del 1943 ed immortalate nel romanzo Ahi, Paloma.
Mai mi ero confrontato con qualcosa di tanto etereo, in una ricerca basata su voci talmente altalenanti e, in ultima analisi, inconcludenti. Io che avevo creato un ampio sito in cui montagna,
storia, geologia e toponomastica concorrevano nel creare una
precisa immagine di Ayas, io che avevo pubblicato un manuale progettato per condurre le persone in montagna con grande
precisione, mi trovavo a fronteggiare qualcosa di sfuggente.
Imprendibile. Nelle ore di peggior sconforto, ricordavo come
gli dèi usassero inorgoglire coloro che volevano distruggere: la
mia passione per le sfide mi teneva avvinto a qualcosa di impossibile. La mia Balena Bianca.
Nei primi giorni di maggio 2009 avevo trascorso sei monotone
ore nell’aeroporto di Napoli Capodichino, armato di computer
e tempo da far passare. Trovata una comoda postazione in uno
dei bar che punteggiano quel colossale teorema di cemento, vetro ed acciaio, avevo compilato una dettagliata tabella in merito
alle segnalazioni dell’aereo: incrociando i dati avrei potuto appressarmi ad una verità condivisa alla base delle tante leggende
sviluppatesi negli anni.
La tabella rivelò la più grande differenza nel definire la naziona-
— 86 —
A U G U S T A
L’alpe di Vlu superiore
ed un tratto della salita,
non lontano dal luogo di
ritrovamento del relitto.
lità, la tipologia dell’aereo e l’anno del disastro, indicando con insistenza una collocazione geografica relativamente circoscritta.
Un’area irregolare, estesa dalla Becca Torché al Colle di Chasten,
al soprastante Nery; una zona selvaggia e meravigliosa, generalmente poco frequentata e spesso ignorata dalla bibliografia.
Si trattava, naturalmente, di un approccio scarsamente raffinato
ed efficiente: non forniva alcuna certezza circa la presenza del
relitto in quell’area, né offriva un punto preciso, un alpeggio o
un lago, intorno a cui circoscrivere le ricerche.
Avrei potuto vantare maggiori speranze nel cercare il mitico tesoro custodito dal demonio ai piedi della Torché, nel cuore del
perduto ghiacciaio. Sarebbe bastato presentarmi a domicilio la
notte di Natale, armato di pala e di pensieri felici.
Nel settembre 1985 Robert Ballard aveva triangolato la posizione del RMS Titanic partendo dai messaggi di soccorso inviati dalla disgraziata nave nel 1912, nonché dai diari di bordo di
quanti ne avevano soccorso i naufraghi; sfortunatamente, non
disponevo dei suoi mezzi per proseguire la ricerca. Non potevo certo contare sull’equivalente di sonar a scansione laterale,
magnetometri e robot a controllo remoto; nel migliore dei casi,
disponevo di un binocolo e di una bussola.
Avevo salito più volte il Monte Nery e la fiera Torché, riparandone anche la croce di vetta, ed ero stato nel Vallone di Chasten:
tuttavia un uomo, su terreno accidentato, può nel migliore dei
casi controllare un tratto di terreno esteso per qualche metro ai
propri lati, lungo la via di salita.
La mia “copertura” dell’area grossolanamente circoscritta dalle
brevi interviste ai pastori ed ai cacciatori, dunque, era assolutamente insufficiente; intorno a me si aprivano disarmanti estensioni di roccia e boschi, macchie di ginepri e rododendri, valloni
e baratri, prati d’alta quota e nevai, per non parlare della dimensione verticale. Le possenti cime in questione elevano pendii e
pareti per centinaia e centinaia di metri, rendendo impossibile
giudicare cosa giaccia alla base di un versante, cosa sia stato catturato e sepolto da un cono detritico, da un fronte franoso, da una
pietraia ormai interrata. Il Nery, visto da nord e dalla vetta della
Soleron ad ovest, pare una turrita corona di selvagge guglie nere,
tra cui la lama della vetta
spicca eterea, in distanza,
irraggiungibile.
Con il passare degli anni
la mia ricerca aveva conosciuto un andamento altalenante, simile agli strascichi mai sopiti di una
vecchia relazione sentimentale: lunghi periodi di
quiescenza in cui la caccia
sembrava stagnare, improvvisi ritorni di fiamma
e d’interesse allorquando
una nuova testimonianza,
l’ennesimo discorso riportato, tornavano a far cenno al relitto. Ed allora ripartiva la
paziente ricerca della fonte primaria, secondo i rigorosi criteri
appresi nei corsi di laurea: telefonate ed appuntamenti, preghiere e viaggi per vicoli e locali, fino a scoprire che il padre, il nonno, l’anziano vicino citato come colui che ha visto il relitto aveva
in realtà tramandato una vicenda sentita raccontare, a sua volta,
decine di anni or sono. Qualcosa sogghignava in lontananza ed
il mistero tornava ad allontanarsi, nel vago sapore di una continua, eterna sconfitta.
Non potevo onestamente definirmi ossessionato dal relitto, visti
i lunghi periodi in cui nessuna nuova voce giungeva alle mie
orecchie; ero invece profondamente frustrato dalla mia incapacità di scoprire un fondo di verità, una certezza basilare. Come
era possibile, mi chiedevo, che tante persone di diverse età e
background culturale, nelle valli di Ayas e del Lys, conoscessero questa leggenda se non fosse stata reale? Come era possibile
che un aereo precipitasse in terre popolate sin dalla più remota
preistoria, sin dall’epoca dei Salassi e dei Romani, senza diventare parte fondamentale ed indimenticabile della storia locale?
Non si trattava di un pur grave incidente stradale, di un episodio
della guerra partigiana o di un incendio, tragedie purtroppo conosciute da tante valli. Era qualcosa di forestiero, di alieno ed
estraneo, che avrebbe dovuto lasciar traccia.
Da anni collezionavo vecchi libri e manuali, ed avevo ormai riunito una nutrita biblioteca “di montagna”, analizzata e divulgata
nella sezione Recensioni del mio sito, Varasc.it. Tuttavia non
avevo trovato alcun cenno ad un incidente aereo nella bassa
Ayas o nella contigua Valle del Lys. Nessun articolo, capitolo,
nota a pié di pagina o riferimento apocrifo. Niente.
Per anni, dunque, vegliai pazientemente una traccia troppo
spesso raffreddata, nell’attesa di nuovi sviluppi: ero ben conscio che il mistero restava irrisolto e che, forse, non avrei mai
conosciuto la verità. Nonostante la mia passione per la storia,
per la cultura alpina e per le montagne, nonostante le ore spese
su pietraie e ripidi declivi, nonostante l’impressionante novero
di strumenti che la moderna tecnologia dispiegava sussiegosa
ai miei piedi - accesso istantaneo ad Internet, tracciati GPS e fo-
— 87 —
A U G U S T A
tografia digitale, per cominciare - dovevo riconoscere di essere
appena oltre il punto di partenza: qualcosa era caduto, ma non
era destino ch’io sapessi dove e quando.
Il 15 agosto 2009, invece, trascorsi ore d’indescrivibile emozione sul luogo del disastro: uno scabroso, anonimo pendio in
fortissima pendenza, talmente lontano da qualsiasi insediamento stagionale, villaggio e sentiero da non avere nemmeno un
toponimo. Una landa di rocce a tal punto simile ai flutti di una
cascata cristallizzatasi per magia, da provocare inquiete vertigini mentali, la visione laterale sempre persuasa di scorgere l’improvviso fluire della pietra, delle lastre.
Anche quel momento di gioia e di incredulo stupore possedeva
un antefatto.
Il 21 agosto del 2008, salendo al Monte Nery da Tollegnaz,
avevo incontrato ben oltre l’alpe Pera Picolla alcuni simpatici
e capaci escursionisti, diretti a loro volta verso la lontana vetta:
senza saperne il motivo avevo accennato alla mia lunga ricerca.
Il risultato, dopo un istante di incredulo silenzio, era stata una
esplosione di parole: i quattro amici avevano incontrato strani
rottami arrugginiti, tempo prima, senza aver la minima idea
della loro origine. Da quell’istante concesso dal Nery, gli avvenimenti erano entrati in una scansione temporale più rapida.
In seguito al ritrovamento mi immersi nei notevoli problemi che
minacciavano la mia ricerca: i rottami erano minuti e rovinati,
apparentemente fusi da un notevole calore e danneggiati da decenni di frane, smottamenti, valanghe e disgeli. Come identificare l’aereo?
Come giungere, finalmente, a quella sfuggente verità che agognavo da tanti anni?
Prima di rendermi conto di cosa stessi effettivamente iniziando,
mi ritrovai perso nei complicati percorsi alla base di un nuovo
lavoro, di un nuovo libro: non già un testo di storia, bensì il racconto della mia ricerca, quasi un diario di bordo. Il progredire
della ricerca non era scandito dalle pagine accumulate, bensì
dalle scoperte, dagli errori, dalle conferme: mesi di paziente
studio, di collaborazione con esperti internazionali, quali archeologi aeronautici, archivisti e storici, periti, curatori museali,
meccanici e militari, avvocati e giornalisti, docenti di familiar
history e di genealogia. Dall’Italia al Regno Unito, dal Canada
all’Australia, dalla Germania alla Francia, alla Nuova Zelanda,
agli Stati Uniti: mesi trascorsi a rincorrere archivi ed informazioni, a confrontare date e possibilità, sempre sul filo del rasoio,
poiché il più piccolo intoppo - il raffreddarsi di una traccia, l’opinione divergente di due studiosi - avrebbero potuto far naufragare la mia speranza.
Oggi è domenica 11 aprile 2010. Bruciato dal sole valdostano di
ieri, sepolto sotto le cortine di pioggia di questa mattina, penso
al mio lavoro: un libro nato insieme alla ricerca, un racconto
che, senza mai averlo pianificato, coinvolge attivamente il lettore in ogni singolo passo, in ogni conquista, errore, rettifica,
scoperta. Ho creduto all’ipotesi di un preciso bombardiere, l’ho
messa alla prova e quindi scartata in base a fonti e prove contrarie; ho scoperto il vero aereo precipitato tanti anni fa dal cielo
della Bassa Valle, ne ho inseguito le vicende, conoscendo passo
dopo passo la più incredibile delle storie. Ho incontrato i testimoni sopravvissuti a quella insensata missione di guerra, ne ho
analizzato i racconti; ho ricostruito la rotta dell’incursione e letto le parole stizzite ed incredule dei rapporti ufficiali, la rabbia
Un reperto
recuperato
non lontano
dal luogo
dello
schianto.
dei piloti tornati per miracolo alle basi.
Ho vissuto per questa caccia e, quasi a volermi premiare per tanta dedizione, la sorte ha concesso ch’io individuassi le famiglie
di alcuni membri dell’equipaggio. Ciò ha dato vita a più articoli
su quotidiani stranieri, innescando una notevole partecipazione
del pubblico e, in ultima analisi, consentendomi di incontrare
altri preziosi testimoni, altri parenti delle vittime.
Il libro è attualmente in fase di revisione ed impaginazione, mentre inizia la ricerca di un editore interessato alla pubblicazione;
l’incontro con l’Associazione Augusta mi ha suggerito l’idea di
questo articolo, in modo da chiedere l’aiuto degli abitanti di Issime e della Valle del Lys, invitando chiunque ricordasse gli
eventi successivi allo schianto a contattarmi, a condividere le
sue memorie, affinando e migliorando la mia narrazione.
Malgrado le ricerche, difatti, le domande sono tante. Chi ricorda il momento dello schianto? Chi vide, negli anni immediatamente successivi al disastro, il relitto?
Esistono fotografie o reperti del velivolo ancora custoditi da
qualche famiglia?
Lo scopo ultimo di questa mia indagine è semplice, un senso di
bisogno con il quale ho mutamente convissuto per i lunghi mesi
autunnali ed invernali: supplire ad una grave lacuna nella storia
e nella memoria, non solo a livello locale, bensì internazionale.
Portare alle famiglie dei caduti la verità su quanto successe in
una spietata notte di guerra, fare in modo che un evento così
drammatico ed insolito non possa mai più venire dimenticato. E
forse, un giorno, racchiudere in una teca tutti i reperti ancora disponibili di quel vecchio naufragio: uno spazio che ricostruisca
in più lingue la storia di questo volo sfortunato e della sua perduta gente, che riunisca dopo quasi sette decenni i frammenti
gelosamente custoditi dalla montagna, colmando infine il vuoto
nella storia recente di una comunità. Non solo una lapide destinata a screpolarsi in qualche decennio, bensì un ricordo vivo,
accessibile, potenziale punto di partenza per ulteriori studi.
Rivolgo questo appello a tutti i lettori de Augusta, storica e bella
rivista che per tanti anni ha raccontato in modo così sobrio ed
approfondito l’anima, la memoria e l’identità di un popolo e di
una terra dalla struggevole bellezza, affinché il segreto che solo
io ho portato dentro, per lunghi mesi, possa finalmente essere
condiviso con tutti.
E perché la vita e le gesta di quei giovani aviatori ingoiati da una
notte di guerra, ormai obliati da tutti, possano tornare a rivivere
nel pieno di un’epoca, finalmente, di pace.
— 88 —
A U G U S T A
La bela mata dal Capio
La Dama Bianca del Capio
Rolando Balestroni
I caciadur da campel cugnusevu bogn tuti i böc dal
muntagni nduva s’ascundevu al camusi.
Al Capio l’era ‘na montagna piena da vösi besti, ma l’era
un post malacià da rivé e nimò un caciadur l’era bon da
purtès fin anlò a cerché ‘l salvaig. Cuntevu che ‘na vota
d’autùn al Capio l’era scundu nt’la nebia e usì al caciadur,
sicur da vësa nuta vist, s’anviarà pion pion anver la culma
d’la montagna par truvé un bel camùs. ‘na sperla d’sul an
mez la nebia ag fa vögar, an ciuma la montagna, ‘na mata
vistìa ad bianc, bela, ma usì bela da to’ ‘l fià. As muveiva
ligèira c’la pareva vulè ‘ntl’aria. Al giùvu (giovane) al
panseva da sugnè, ma al peiva nuta stè ferm e sù ‘d cursa
anver la bela mata. Par la prèsa da rivè svelt pröva vësa
maraviglia, al puurìn però al ruvìna lung la scarpàa d’la
muntagna. Ad primavèira, via la fioca, as po’ vögar gni giù
dal Capio crös piciu d’aiva bianca; in al lacrimi d’la bela
mata c’la piang purqué l’ha pardù l’amur.
I cacciatori di Campello conoscevano ogni anfratto delle
montagne dove si nascondevano i camosci.
Il Capio era quella dove i camosci si trovavano in abbondanza e, proprio per le sue pareti impervie, solo un cacciatore aveva l’ardire di arrampicarsi alla ricerca del selvatico.
Un giorno d’autunno il Capio era avvolto da una nebbiolina e il cacciatore, certo di non essere visto, si inerpicò
con prudenza lungo un canalone dove certamente avrebbe
trovato un bel camoscio.
Ad un tratto un raggio di sole si fece strada tra la nebbia e,
alzando gli occhi verso la cima, il cacciatore vide una donna bionda vestita di bianco, d’una bellezza divina. Pareva
fluttuasse leggera nell’aria e la nebbia rendeva ancora più
misteriosa e affascinante questa visione.
Il cacciatore rimase ammaliato e, incapace di resistere a
questo richiamo, prese ad arrampicarsi con impeto, ansioso di trovarsi al cospetto di tanta
bellezza.
Innamorato e rapito dal sorriso della
Dama Bianca, il cacciatore precipitò lungo la parete scoscesa.
A primavera, quando le nevi si sciolgono, i rigagnoli bianchi che scendono dal Capio sono le lacrime della
Dama Bianca che piange disperata
per il perduto amore.
Notizie riferite da Letizia Strambo e raccolte da Rolando Balestroni.
Wisse frouwa tsch Kàppju
Der Kàmpelj jàgrà hŝant pchant àllu d chlatte tŝch d
béérgà wà d gamsche hantsche vàrbérgut. Der kàppju
ìsch gŝchit wà ìsch gŝchit vìlj gamsche und nuwà e jàger
hét ts miöt z schtràfu vàr ŝchiöhu ts fìje. E harpscht tàg
der Kàppju ìsch gŝchit umwenkt vàn der nebàl und der
jàger hét bschtràpt en em zlàkch wà hét gwest z vennu e
hepsche gamschu.
Àlts en er vàrt e ŝchunnunbljekch hét glocht der nebàl
und, bet kukke der schpez, der jàger ìsch gŝchit en biund
wib vìlj hepsche, ziérte wisse. Hét duncht dàs wib vloget
en du nebàl… Der jàger ìsch blibt und, nid chunnu hét
schtelts, hét schtràfut tschwend vàr chi ts hepscht wib.
Vollts tsch hérzje vàr d wisse vrowà dàs hét wisslàcchet
ìsch kàngut vàllu.
Em üstàg, wanj der schnìj chech schmelze, d wiss
schljéchtjene dàs gànt embrìn en dun Kàppju chint d
troffà tsch d wisse vrowà dàs wainut und chech gé vàlörus
vàr ts vàrlört hérzje.
(titschu di Rimella)
— 89 —
A U G U S T A
Gressoney-La-Trinité: Osservatorio
Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)
Willy Monterin
L
elle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni degli
anni 2008-2009, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e la variazione frontale del ghiacciaio del Lys.
Si fa presente che il notevole regresso frontale avvenuto quest’anno è stato causato dal distacco
della lingua glaciale dalla parte superiore del ghiacciaio.
1)
Temperature
medie in °C all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.)
2)
Precipitazioni
in mm.di neve fusa
e pioggia all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.)
— 90 —
A U G U S T A
3) Precipitazioni nevose in cm.
all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola
(m 1850 s.l.m.)
4) Precipitazioni nevose in cm.
alla Stazione
Pluviometrica
ENEL del Lago
Gabiet (m 2340
s.l.m.)
Barografo per la registra-zione della pressione atmosferica.
Stazione meteorologica di D’Ejola.
Altezza massima del manto nevoso:
D’Ejola (m 1850 s.l.m.) cm 215 il 16 dicembre 2008 • cm 200 il 28 aprile 2009
Gabiet (m 2340 s.l.m.) cm 147 il 15 gennaio 2008 • cm 435 il 29 aprile 2009
5) Variazioni annuali della fronte glaciale del Ghiacciaio del Lys (valori
in metri).
Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355)
2008
-6
— 91 —
2009
-23
A U G U S T A
IN MEMORIAM
Riconoscente memoria della signora Luciana Faletto Landi
Ugo Busso, Presidente dell’Associazione Augusta di Issime
Il 4 settembre scorso è deceduta ad Aosta la signora Luciana Faletto Landi all’età di 80 anni, vissuti intensamente a
servizio della famiglia e delle tante associazioni civiche e culturali che l’hanno avuta come preziosa collaboratrice e che
la rimpiangono con profonda riconoscenza e vivo rammarico.
Con la sua scomparsa è in lutto soprattutto la cultura valdostana che Lei aveva arricchito con vari pubblicazioni e soprattutto con competenze linguistiche che le permettevano di esprimersi, oltre che nella madre lingua, in un perfetto e
ricercato francese, attinto fin dai primi anni nella condizione di emigrata in Svizzera e poi con passione ed impegno da
autodidatta fino alle ultime battute sul computer che l’hanno tenuta occupata fino alla vigilia del suo decesso.
A ciò si aggiunge la perfetta conoscenza del piemontese attinto da papà Bartolomeo e la passione per la promozione e la
salvaguardia del töitschu, il dialetto walser di Issime, la parlata di mamma Honorine Dandrès, la grande famiglia emigrata
dal villaggio del Bioley ma di cui era fiera ed era sempre rimasta un riferimento affezionato ed attivo.
È dunque in modo particolare che l’Associazione Augusta di Issime rimpiange la sua scomparsa. Era lei che nel 1967,
insieme a Gustavo Buratti di Biella, all’allora sindaco di Issime Edmond Trenta, ad altri esponenti appassionati della cultura alpina e walser locale e ad illustri professori di università italiane ed estere, convenuti ad Issime in occasione di un
Convegno Internazionale dell’A.I.D.L.C.M. (Association Internationale des Langues et Cultures Menacées), fondarono
l’associazione Augusta. Di tale Associazione è rimasta Presidente, dal 1970, per quindici anni.
Fino all’ultimo invece è rimasta Presidente del Comitato di redazione ed importante collaboratrice, per più di 40 anni
della Rivista Augusta.
Poteva scrivere pertanto in uno degli ultimi numeri: “Parvenue au but de ma vie, je suis fière d’avoir contribué à mettre en
valeur les traditions et les usages de mes ancêtres moyennant cette Revue et d’avoir suscité des enthousiasmes auprès de la
jeunesse qui a pris la relève”.
Luciana Faletto Landi all’Assemblea dell’Associazione Augusta nel 2002 mentre presenta la Rivista,
a fianco Claudine Remacle, Ugo Busso e Wilma Consol
— 92 —
A U G U S T A
Villaggio del
Bioley, anno
1966. A destra
Onorina Dandrès, mamma
di
Luciana,
con i parenti;
al centro Fortunato Dandrès “Ras”.
Con questa doverosa memoria la ricordiamo con riconoscenza e rimpianto ma con le parole di un canto della cantoria di
Issime, la salutiamo con serena speranza
Ischt dische an gruz va lljöit das tun anandre loan vür génh
ol miawer noch nündsch beitun um anandre vidergsien?
Rfr War goan nündsch vidergsien an tag, war goan nündsch vidergsien
Jia, ellji gséllji un brudara um anandre arékhen d’hann.
A conferma della suddetta memoria, la rivista Augusta ha pure il piacere di pubblicare un dettagliato e prestigioso curriculum della sua vita e della sua attività culturale.
Points principaux de la biographie de Lucienne Faletto veuve Landi:
Née à Martigny (CH, Valais) le 14 février 1929. La mère était Honorine D’Andrès, d’Issime (Vallée d’Aoste) et le père
Bartolomeo Faletto (de Busano Canavese, Piémont), émigrés pour des raisons de travail (il était sculpteur de pierre)
e qui continuent à se déplacer. En effet de 1935 au 1939 Lucienne fréquente la prestigieuse école primaire de l’institut
religieux Sacré Cœur à Thonon Les Bains (France), sur le Lac Léman.
De 1939 et pendant toute la période de la Seconde Guerre Mondiale elle vie au début à Turin (où elle continue les études)
et après à Issime, dans la maison de famille.
De 1946 à 1949 elle vie de nouveau en Suisse, où elle travaille à Saxon pour une importante entreprise commerciale. Au
début de 1950 elle rentre en Vallée d’Aoste et travaille pour la naissante Région Autonome comme sténo-dactylographe
et secrétaire à la Présidence du Gouvernement (le Président de l’époque était le fameux et important Severino Caveri). à
la région elle connait le géomètre Astolfo Landi (d’origine de Turin mais établit à Aoste après une longue fréquentation
de la Vallée comme vacancier) et en 1952 ils se marient. Tout de suite naissent les deux premières filles, Gemma en 1953
et Antonietta en 1954, et à cause de cela Lucienne quitte la Région. De la maison elle commence une intense activité intellectuelle et francophone (traductions, rédactions articles, leçons). Elle commence aussi à s’intéresser des Walsers de
la Vallée du Lys, ethnie à laquelle elle appartient à moitié. En 1965 elle donne le jour à la troisième fille, Elena. La fin des
années soixante est caractérisée par une intense activité d’enseignement du français d’un côté et de recherche historique
— 93 —
A U G U S T A
de l’autre, avec la fondation en 1967 de l’Association Augusta (pour la défense des langues alémaniques walser). Dans
les années 70 elle participe activement à la section Valdôtaine de l’UIJPLF (Union Internazionale des Journalistes et de
la Presse en langue française) et en devient vite la Présidente pour y rester jusqu’à 1999. Elle collabore assidument avec
M. René Willien, historien valdôtain de haut niveau. Ensemble ils publient un livre sur la vie et les œuvres de l’Abbé J.B.
Cerlogne. A partir des années 80 elle collabore strictement avec le mari, Alpin en congé qui a fait la guerre et a été aussi
déporté dans les camps nazistes comme militaire. Il est fondateur et directeur du journal L’Alpin Valdoten et président
de la section valdôtaine de la Association Nationale des anciens déportés. Elle l’aide activement et à sa mort, en 2002,
devient elle-même présidente ANEI VDA. Elle est aussi passionnée de cuisine et de son histoire. Elle publie des recettes
dans un hebdo mais aime surtout en faire l’histoire sociale. Elle a aussi écrit beaucoup de poésies, jamais publiées, en
français et en piémontais. Intense a été l’activité de recherche et recueil de documents et d’écrits autrui.
Bibliographie principale :
Les valdôtains à table; La cuisine au pied du Mont Rose ; La cuisine au pied du Mont Blanc ; Poésies inédites d’Edmond
Trentaz ; Ai giovani perché sappiano (journal de camp naziste de trois déporté, dont un est le mari) ; Gli ex internati
valdostani ; Le rôle de la femme dans la culture issimienne.
Anche GUSTAVO BURATTI ci ha lasciati
Il 18 dicembre 2009 è mancato, all’età di 77 anni, a Biella,
Tavo Burat (Gustavo Buratti) anima fondante dell’associazione Augusta. Nell’inverno fra il 1966 e ‘67 viaggiò
spesso fra Biella e Issime per organizzare, ad Issime,
il secondo Convegno Internazionale dell’A.I.D.L.C.M.
(Association Internationale des Langues et Cultures
Menacées) ed incontrarsi con il Comitato organizzatore,
composto da René Willien, Tita von Oetinger e Lucienne Faletto Landi ed altri uomini di cultura provenienti da
tutta Europa, per fondare il 31 luglio 1967 l’associazione
Augusta. In quell’occasione si volle tenere presente il valore simbolico della scelta di Issime come sede della prima sezione della Associazione Augusta, giacché punto di
convergenza delle culture italiana, francese e tedesca.
Fu impegnato sul fronte dei diritti delle minoranze linguistiche ed etniche di tutto il mondo, un grande paladino della lingua piemontese, da sempre segretario per
l’Italia dell’A.I.D.L.C.M., il pulpito dal quale difendeva le
minoranze. Fondò lungo l’arco alpino, e non solo, molte
associazioni, in difesa del paesaggio naturale, culturale e
linguistico, molte delle quali ancora oggi attive.
Fu tra i padri fondatori dei Verdi italiani, di cui è stato consigliere nazionale. Memorabili le sue battaglie ambientaliste (biellesi e non). Fu insegnante, consigliere comunale per 40 anni, storico, poeta, membro della “Compania
dij Brandé”, uno dei più grandi studiosi di Fra Dolcino e
dei movimenti ereticali, alla guida del Centro studi dolciniani, socio fondatore del Consiglio federativo della Resistenza biellese, direttore di “Alp”; collaborò al “Bollettino
del Centro studi piemontesi”, “Rivista biellese”, e “L’Alpe” (Grenoble).
Di lui si è detto: “un vulcano di idee, di impegno, di intelligenza, scomodo, tenace, si battè con Pier Paolo Pasolini
per “il valore della diversità”.
Molti conoscono il cartello bilingue italiano/tedesco con
la scritta “Acqua potabile – Trink wasser”, accanto alla
fontana nel Duarf di Issime, vicino al nuovo negozio di
merceria e intimo “Nadel und Faden”.
Fu la prima insegna bilingue a comparire nella comunità
walser di Issime, era l’inverno 1967, quando Tavo Burat
ne affiggeva una in cartone con la stessa scritta e nello
stesso punto.
Questo cartello rappresenta la prima gemma di quella
pianta i cui frutti, oggi, tutti raccolgono.
L’associazione Augusta porta avanti con impegno e dedizione quelle idee che da sempre la animano, le stesse
dettate da Tavo Buratt nel lontano 1967.
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A U G U S T A
Franzisch Maïa
(1)
D
a vünvegen augschte 1804, krat das
is het taggit, vill éischemera sén
amoddurut van im Duarf un d’kantunhi
um goan in d’Mühni vür dan patrunh.
Sén noch nöit gsinh im Chröiz wénn
E
Imelda Ronco Hantsch
n l’année 1804, le 5 du mois d’août, dès
l’aurore une nombreuse caravane partit
du chef-lieu d’Issime et des hameaux pour
se rendre aux Mühnes à la fête patronale
de la chapelle de Notre-Dame aux Neiges.
Les pèlerins n’étaient
pas encore à la hauteur de la chapelle de
saint Grat lorsqu’ils
aperçurent dans un
pré une vieille femme
qui secouait au soleil
levant le foin fauché
la veille. Cette femme
était connue à Issime
sous le nom de Franzisch Maïa.
“O Gotta Maïa, dit
un pèlerin, allonsnous à la messe aux
Mühnes?
“Je n’en ai pas le
temps, répondit la
vieille femme, il faut
que je rentre mon
foin”. Et elle ajouta:
“T’schnee
Weibji
chimmer neüt helfen
troan i ts’heü”.
“La Femmelette de
la Neige ne vient pas
m’aider à rentrer le
foin”.
Personne ne répondit
aux paroles irrévérencieuses de la Maïa,
et les pèlerins firent
leurs dévotions à la
chapelle des Mühnes,
puis, le soir, contents
Il mayen del Bühl
inverno 2009.
— 95 —
A U G U S T A
dŝchi hen gsian in an eegurdu an oalt fümmala
zétten z’hoei gmoats dan tag darvür. Déi gotta het
kheisse Franzisch Maïa.(2)
“Oh gotta Maïa”, seera eis, “goawer zar mesch in
d’Mühni?”
“Ich hen nöit zéit” antchit d’fümmala “ich muss
widerzin z’hoei” un… “Z’Schnia Wéibji chint mer nöit
helfen troan i z’hoei”.
Khémentsch het antcheede diŝchene wüertere oan
respit deer gotta; d’lljöit sén kannhen in d’Mühni
bettu un luasen d’mesch un, wider oabe, séntsch
arwunne kunten zam hous.
Da winter drouf ischt gsinh hérti im beerg. Dan 23
un 24 gruasse moanutsch hets gschnout an ganzen
dinh; Maïa un d’wetta hen dŝchi pheeben im Bühl
mit zwia chü un as poar schmalvi. Z’moal du 25,
doch das is het nöit gloan ab z’schnowe, d’wetta het
kheen ouf an gruassen urrascht. Dŝchi hets gseit dar
wettu un het mu keen a z’loan d’ketschu, woa dŝchi
sén nöit gsinh sichiri antweegen dar lawunu. Maïa
het nöit wélljen darva wissu, loan da housunh un
z’weerch, het mu antcheeden übbil un ischt kannhe
schloafen alli einigi. D’wetta het dŝchi gwandlut in
an anner ketschu z’endruscht z’kantunh, ous tur le
danger.
In d’nacht a lawunu ischt passrut uber dan Bühl
un het vargroaben i d’ketschu woa sén gsinh Maïa
un z’via. Da muarge d’wetta het gsian le désastre.
Khémentsch het dŝcha muan khüere fauru un ra
helfe, ischt gsinh einigi im kantunh. Wa dŝchi het
ra gmachut as mut un, mit ar leitru drouf a loade,
ischt gcheemen unz zar tschappulu im Chröiz. Mit
vill strekhun hetsch muan lljöiten d’klocku um
hoeischun hilf un mit alli d’stérrji hetsch grawut:
“Maïa ischt tuat un allz ischt varluarenz”.
Van im Duarf un doa um hentsch khüert lljöiten
un rawu, un a chupplutu lljöit sén parturut um ra
goan z’hilf, wa ischt gsinh sövvil schnia das dŝchi
sén arrivurut dan tag darnoa. Dŝchi hen dŝchi gleit
a schouvlun um d’ketschu un hen gvunnen drunner
Maïa un z’via, ellji vargroabni. D’lljöit sén gsinh
sichiri das Maïa séji gsinh pünniriti antweegen
dŝchi het kheen gvielt respit dar Lljibu Vrawu,
z’Schniawéibji.
de leur journée, ils rentrèrent dans leurs villages.
L’hiver suivant fut rigoureux dans la montagne. Le 23
et le 24 janvier de l’année 1805, il tomba une énorme
quantité de neige. A cette saison Franzisch Maïa et sa
soeur se trouvaient seules au hameau du Bühl avec
deux vaches et quelque menu bétail. Le soir du 25 janvier, comme il neigeait en abondance, la soeur de la
Maïa fut en proie à une grande inquiétude. Elle en fit
part à sa soeur et lui proposa de quitter la maison où
elles n’étaient pas en sûreté à cause d’une avalanche
qui la menaçait. Sourde à ces avertissements, la Maïa
ne voulut pas abandonner son ménage et elle adressa
même à sa soeur des paroles grossières. Finalement
elle se coucha seule, tandis que sa soeur était allée
habiter une autre maison à l’extrémité du hameau,
hors de tout danger.
Pendant la nuit une avalanche traversa le Bühl écrasant la maison qu’occupait Franzisch Maïa. Ce ne fut
qu’au matin que sa soeur s’aperçut de la catastrophe.
Personne ne pouvait entendre ses pleurs et la secourir,
car elle était seule désormais dans ce hameau. Elle
s’arma cependant de courage pour appeler à son secours les gens de la plaine. Au moyen d’une échelle
posée à plat sur la neige et sur laquelle elle plaçat
une planche elle put avancer vers la chapelle de saint
Grat. Après bien des efforts, elle atteignit la chapelle
et le clocheton et sonna toute la matinée pour donner
l’alarme, puis, s’étant placée devant la chapelle, elle
cria de toutes ses forces:
“Maïa ist tod, und als ist verlorenz”. – Marie est morte, et tout est perdu.
Du chef-lieu d’Issime et des environs on entendit le
son de la cloche et les cris désespérés de la femme. Une
caravane s’organisa aussitôt pour aller à son secours,
mais la quantité de neige tombée était telle que les
sauveteurs n’arrivèrent au Bühl que le lendemain.
On déblaya la neige autour de la maison de la Maïa,
et le jour suivant on trouva la pauvre femme et tous
les animaux écrasés sous les ruines.
Les gens du pays furent persuadés que Franzisch Maïa
avait reçu sa punition pour l’irrévérence dont elle
s’était rendue coupable le 5 août précédent envers la
bonne Vierge des Mühnes, la Schnia Wéibji; comme
elle l’avait appelée.
Da “Légendes et Récits recueillis sur les bords du Lys” par J. J. Christillin. Traduzione in töitschu di Imelda Ronco Hantsch.
Dai registri parrocchiali risulta, atto di morte “Goyet Maria filia quondam Joannis Pantaleonis Linty vidua a Joannis Jacobi Goyet,
sexaginta circiter anni nata, morte subitanea et improvisa obiit die vigesima quinta januarii anno 1805”, atto di battesimo “Linty
- Rüer [Rower, attuale soprannome di un ramo della famiglia Linty] / Maria Joanna filia Joannis Pantaleonis et Maria Joanna ex
Fontanamorae jugalium Linty Rüer, baptisata fuit die 26 octobris 1745”.
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