Capitolo 3
Nasce il sistema degli impianti
Nasce il sistema degli impianti
Ne è passata di acqua sotto i ponti…
Milano-Valtellina, un legame che dal fiume corre sui fili.
La Valtellina, una delle più grandi valli lombarde, abbraccia il corso del fiume Adda. Rappresentava
per Milano il bacino naturale di riferimento e rifornimento della materia prima per la produzione
di energia con i suoi numerosi e preziosi corsi d’acqua. Ma c’era anche un’altra ragione.
Nel primo decennio del secolo si erano costituite varie società elettriche (Edison,Vizzola, SIP, ecc.)
che si erano impegnate per accaparrarsi le migliori concessioni di utilizzo delle acque nelle varie
valli alpine. Da questa “campagna acquisti” rimase fuori l’Alta Valtellina, poiché per la sua posizione
a nord delle Alpi Orobie, presentava un clima particolarmente asciutto, con precipitazioni annue
pari a circa la metà di quelle delle altre valli alpine. Il Comune di Milano, arrivato ultimo al “banchetto” delle concessioni, dovette accontentarsi e ottenne nel 1906 nella provincia di Sondrio la
concessione dallo Stato per l’utilizzo delle acque dell’Adda. Il progetto di massima dell’impianto
idroelettrico di Grosotto fu affidato agli ingegneri Carlo Mina e Giacinto Motta e si trattò per l’epoca di uno dei più grossi impianti d’Europa, regolarmente citato nelle scuole di ingegneria europee,
come Vienna e Zurigo.
Il 16 ottobre 1910 la centrale di Grosotto, intitolata al progettista scomparso Giuseppe Ponzio, iniziò a produrre energia elettrica12. Fu la prima centrale a entrare in funzione e nel 1914 serviva già
60.000 utenti privati. L’impianto idroelettrico era costituito dal canale derivatore delle “Prese”
dell’Adda che da 948 metri sul livello del mare portava l’acqua in un bacino e la immetteva in una
galleria lunga 12 chilometri, per poi arrivare con un salto di 326 metri alle tre turbine della centrale. C’erano quindi la linea “Grosotto-Milano” e la stazione ricevitrice costruita presso la centrale di
piazza Trento. Attraverso linee a 65 kV dalla Val Camonica e dalla Val Cavallina l’elettricità arrivava
così a Milano dopo un percorso di 150 chilometri.
Da gestire “in economia” con una potenza di 13.500 KW disponibili a Milano.
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit.,
Introduzione
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Grosotto non fu la sola. Da allora a oggi è stato costruito un complesso sistema produttivo che
comprende sette centrali e tre serbatoi di accumulo, utilizzando un dislivello che in poche decine
di chilometri supera i 1800 metri. Oggi il sistema idroelettrico in Valtellina, esteso su un’area di
1.000 chilometri quadrati, produce 1,6 miliardi di chilowattora l’anno.
La repentina contrazione delle offerte di carbon fossile sul mercato internazionale, causata dallo
stato di guerra, rischiava di tramutarsi per l’Italia, entrata nel conflitto con improvvisazione e leggerezza, in un disastro economico e militare. In queste condizioni la domanda di energia elettrica,
quale sostituto del carbon fossile, assunse proporzioni dirompenti13.
In pochi anni il consumo di energia aumentò14, i progetti furono numerosi e nelle condizioni di
grande favore commerciale era possibile procedere sulla strada degli investimenti. Nel 1917, nonostante la guerra, la Commissione amministratrice presieduta dall’avvocato Brunetto Griziotti aveva
realizzato la centralina della Boscaccia da 3.600 KW, che si aggiungeva alla centrale di Grosotto,
portando la potenza efficiente a sua disposizione a 42.400 KW15.
Nel corso delle interviste emerge di frequente il legame tra la valle e la città e i lavoratori di
entrambe le realtà, rapporti che Meletti definisce positivi: “ho trovato grande collaborazione ed è
giusto sottolinearlo. La produzione in Valtellina era gestita sostanzialmente da due persone che
erano il capocentrale di Grosio, Bonazzi, e il capocentrale di Premadio, De Lorenzi, che faceva tutta
l’alta valle con le opere di presa. Questi erano “i boss” della valle e anche gli ingegneri, quando parlavano i capi centrale, dovevano fare atto di riverenza perché erano gli “dei ex machina” e quello
che decidevano era legge per tutti. Erano molto autonomi e l’Azienda si fidava della loro grandissima esperienza, anche se, per esempio, sul discorso delle innovazioni Bonazzi era abbastanza
restio. Quando abbiamo fatto delle misure elettriche sulle protezioni delle linee con Tona (era un
autodidatta che sapeva di più di molti ingegneri, viveva per l’Aem e si è impegnato tantissimo), è
capitato che trovassimo una protezione amperometrica collegata al contrario sui relé. L’abbiamo
detto a Bonazzi, che quasi si è arrabbiato ritenendo che fosse giusta così com’era, perché aveva difficoltà ad ammettere che qualcosa (di suo) non fosse perfetto. Un aspetto positivo è stato quando ero al Reparto Telecomunicazioni, una metà del mio gruppo (32 persone) ha voluto partecipare
Alessandro RAMAZZOTTI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano fra le due guerre,Tesi di laurea, Università degli
Studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, a.a. 1986-87, parte I
14
Nel 1910 Milano aveva 595.454 abitanti, nel 1926 aveva annesso 11 Comuni limitrofi portando due anni dopo la
popolazione alla soglia del milione, superato nel 1932.
Aem 75 anni al servizio della città, cit., pag. 12
15
C. BRIZI, L’Azienda Elettrica Municipale di Milano dagli anni ’40 alla nazionalizzazione del settore elettrico, cit.,
pag. 4
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all’ammodernamento, l’altra metà, che era quella dei conservatori, non solo non hanno collaborato ma addirittura… Ecco l’aspetto negativo: hanno fatto sparire parte degli schemi e le registrazioni dei guasti avvenuti, fatto che per i dipendenti di un’azienda è impensabile. In Valtellina ho trovato grande disponibilità ma ho trovato anche un ambiente che rispetto a Milano aveva una sindacalizzazione molto bassa. Per esempio, se il capocentrale diceva di prendere la macchina e andare
al Gavia, piuttosto che ai Forni, quelli prendevano e andavano, mai successo che si dicesse ‘No, non
vado’. Andavano e lavoravano tutti tranquillamente con spirito di gruppo, tutti facevano la loro
parte volentieri. Contrariamente al clima che c’era qui a Milano devo dire che là accettavano anche
di fare dei lavori senza battere ciglio mentre invece qui cominciavano a romperti le scatole, ponevano difficoltà anche per fare lavori relativamente modesti. Abbiamo avuto esperienze di incidenti
anche maggiori che di fatto hanno sensibilizzato maggiormente la realtà valtellinese con un’assunzione di maggior responsabilità, che non era incoscienza perché sapevano cosa stavano facendo e
si assumevano una quota di rischio”.
“In un certo periodo - interviene Casati - in manutenzione sono venuti a lavorare a Milano alcuni
colleghi assunti in Valtellina, valtellinesi che dopo un certo numero di mesi o di anni secondo la fortuna, hanno potuto ritornare in Valle. Andavo spesso a passare le vacanze in Valtellina e un anno
ho trovato sulla strada che va al rifugio Milano uno di questi. ‘Come va, come non va’ si è parlato
un po’ e mi ha detto ‘la grande differenza è che a Milano i capi vogliono che tu lavori e poi per il
resto sono affari tuoi, in Valtellina il capo lo sposi, perché lo incontri al sabato al circolo e la domenica a Messa e se non ti vede il lunedì te lo dice, anche perché sua moglie, in qualche maniera, è
imparentata con te’. Questo collega era estremamente contento dell’ambiente che aveva trovato
a Milano”.
“Gli impianti in Valtellina sono stati fatti a regola d’arte - sottolinea Pagliarini - tanto è vero che
penso nessuno abbia più fatto niente sino ad oggi, con tutte le sicurezze garantite e la manutenzione che ci vuole. Sono impianti all’avanguardia ancora oggi e i valtellinesi ne erano innamorati
perché erano impianti fatti bene”.
Progetti e utilizzo delle acque dell’Adda.
Da sempre l’uomo ha utilizzato l’acqua, cercando di ottimizzare e diversificare le immense potenzialità di questa risorsa, oggi troppo sprecata. Non c’è bisogno di ricordare qui l’utilizzo dei canali
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per l’agricoltura fin dall’antico Egitto o il sistema degli acquedotti romani oppure i più ingegnosi
mulini di Leonardo da Vinci. L’ultima fase di utilizzo delle acque è rappresentato proprio dalle centrali idroelettriche, che per la loro lontananza dai principali centri di consumo, hanno spinto lo sviluppo del trasporto a distanza dell’energia.
I progetti idroelettrici di Aem in Valtellina favorirono lo sviluppo della città e della valle. Gli impianti contribuirono a regolarizzare il corso dell’Adda, che tanto fece disperare e danneggiò nei secoli, fino alla fine dell’Ottocento, la popolazione e diede anche impulso alla realizzazione di nuove strade e abitazioni. La forte richiesta di materiali da costruzione permise la nascita sul luogo di tutta
una serie di attività industriali come fornaci, officine meccaniche e industrie dell’estrazione e del
legno. La possibilità di usufruire di energia elettrica a costi accessibili favorì, di conseguenza, la crescita e la trasformazione dell’industria valtellinese.
Dopo la Grande Guerra si concretizzò il progetto di utilizzo dell’alto Adda e si intensificò l’andirivieni dei carrelli tirati a mano carichi di materiali per i lavori. C’è chi ricorda, rivedendo con gli occhi
da ragazzino il gran lavoro in valle, i calzoni alla zuava, i panciotti e il passo autoritario dei capireparto. Bisogna tener presente anche le difficoltà di trasporto e la modestia dei mezzi a disposizione durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. Ricorda a questo punto l’ingegner Lorenzetti che il
vecchio capo centrale di Fraele, signor Trinca, conosciuto nel 1955, gli raccontava che “l’ingegner
Tito Gonzales, primo Direttore Generale dell’Aem, arrivava in Valtellina col treno sino a Tirano e
poi raggiungeva Grosotto in bicicletta”.
L’Azienda mise in cantiere l’impianto idroelettrico del Roasco, torrente affluente dell’Adda, che
entrò in funzione il 10 gennaio 192216 con una potenza di 14.400 kVA, per poi essere ampliata nel
1927 (23.750 kVA) e nel 1934 (31.350 kVA). Circa 500 km di linee portavano 120mila kW dalla
Valtellina a Milano. Sempre nel 1922 era intanto iniziata la costruzione di quella che per l’epoca era
la grande diga di Cancano in Val di Fraele alta 43 metri, per la quale furono necessari 156 mila metri
cubi di muratura. Era una diga del tipo “a gravità massiccia” con pianta leggermente arcuata e creava un invaso di 24 milioni di metri cubi d’acqua. Questa prima diga e il soggiorno alpino per i dipendenti, che era stato costruito nei pressi, furono sommersi dall’invaso d’acqua quando fu ultimata la
diga di Cancano II nel 1956.
L’impianto comprendeva una centrale della potenza di 14.400 kVA e un serbatoio della capacità di 200.000mc formato dalla diga di Fusino. Il bacino raccoglieva le acque dei torrenti Roasco d’Eita e Roasco di Sacco, affluenti
dell’Adda.
Gli impianti Aem della Valtellina costituiscono oggi un sistema integrato di centrali “in cascata”, dove ogni centrale a
valle sfrutta l’acqua scaricata dalla centrale a monte, più l’acqua nel frattempo derivata nel punto di presa.
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Valutazioni tecniche si alternano a considerazioni profondamente umane ogni volta che De Lorenzi
ripercorre mentalmente le tappe della sua lunga esperienza; ma ciò che più gli preme è il dovere
morale di non lasciare che cada nel dimenticatoio il sacrificio di intere generazioni, che hanno propiziato ogni successivo passo in avanti. “Sì, parlare di Cancano è obbligatorio, lo dobbiamo a chi ha
tanto sofferto, e ancora alla fine degli anni Venti la sofferenza era tanta. C’è chi ha perso la vita…
e la prima diga è stata completata nel ’28, in perfetta sincronia con la centrale, così come il canale
Viola, chilometri e chilometri scavati passo a passo nel ventre della Valdidentro. Da mettersi le mani
nei capelli per lo stupore e per l’angoscia, se si analizza per bene come sono stati realizzati quei
lavori, in quali condizioni. Con l’innesto della centrale di Fraele al sistema delle altre centrali si realizzava un piano tecnicamente molto avanzato di sinergia tra i vari impianti, un risultato di assoluta
avanguardia di cui l’Aem poteva andare fiera… Ma senza la componente umana…”
Una luce per ogni occasione.
Nelle ricorrenze speciali piazza del Duomo e le vie del centro di Milano furono illuminate in modo
sfolgorante. Aem aveva provveduto alla sostituzione delle lampade a gas con quelle a luce elettrica. Già alla vigilia del referendum, che doveva sancire la nascita dell’Aem, il Corriere della Sera il 5
gennaio 1910 scriveva: “Per mostrare i grandi progressi ottenuti con l’impianto elettrico comunale gioverà notare che le lampade ad arco per illuminazione pubblica che erano circa 300 allo scadere con il
contratto con la società Edison nel 1905 saranno portate nel 1910 a 1.500”17.
Negli anni Venti l’uso di energia elettrica fu favorita anche dalla diffusione sul territorio di sempre
più numerosi elettrodotti a media tensione. Ecco cosa ci ricorda la cronaca cittadina: “Un giorno di
primavera a Milano i colori, non tutti certo, si sono trasformati. Prima di quel giorno di aprile del 1925
c’era il verde, che era quello della campagna che circondava il grigio di una periferia aggressiva e invadente, oppure il rosso di un tramonto, di una rivolta archiviata nel sangue o il giallo dell’autunno. Da quel
giorno di ottanta anni fa, invece, i colori sono diventati anche un segnale luminoso, un obbligo, un imperativo: con il rosso tutti fermi, con il verde si riparte, con il giallo meglio riflettere. Tra piazza del Duomo,
via Orefici e via Torino, viene inaugurato il primo semaforo. La gente accorre curiosa e divertita. Migliaia
in piazza, con il fiato sospeso, a spiare il rosso e le poche automobili non ancora padrone delle strade,
e poi via, con il verde, con il passo della fretta, quasi di corsa. Poi ancora indietro, tutti fermi e avanti, titu-
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Alle radici dello sviluppo. I primi 50 anni di storia dell’energia dagli archivi Aem, Edizione a cura di Aem, Milano,
1992, pag. 23
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banti di fronte al giallo ad ammirare affascinati ‘una diavoleria che cambia i tempi della città’ o scettici
di fronte ad ‘un inutile marchingegno che tanto non dura mica’”18.
A volte anche i lampioni per l’illuminazione delle strade diventano protagonisti di fatti della vita cittadina: “Il 12 aprile del 1928 Milano aspetta l’arrivo di Sua Maestà. Sono quasi le dieci e la folla attende re Vittorio Emanuele III per la cerimonia inaugurale della Fiera Campionaria. Il re è in ritardo, una
decina di minuti, non di più. Dieci minuti che gli salvano la vita. In piazza Giulio Cesare esplode una
bomba ad orologeria nascosta nel basamento di un lampione. È una strage. Le schegge di ferro e ghisa
provocano diciotto morti e una quarantina di feriti. Dell’attentato vengono accusati gli anarchici, ma i colpevoli non saranno mai identificati”19.
Tuttavia, la grave crisi economica del 1929 provocò la drastica riduzione dei consumi. Gli utenti di
interi paesi, soprattutto delle province meno ricche, si staccarono dalla rete di distribuzione e molte
abitazioni limitarono l’uso dell’elettricità all’accensione di una sola lampada mobile, che veniva trasferita da un vano all’altro attraverso passaggi praticati nei divisori e nei pavimenti.
Nei primi anni Trenta l’elettricità stava già invadendo ogni settore della vita pubblica e privata: non
si trattava più di rompere il buio della notte, ma di dare carburante al motore del progresso. La
conseguente richiesta di maggiore disponibilità di energia creò fra le aziende distributrici una forte
concorrenza.
Il Principe Umberto di Savoia fu a Milano per l’inaugurazione della ricevitrice Nord l’8 dicembre
1932 “costruita tra Precotto e Crescenzago, tutta imbandierata. […] Il Principe ha visitato minutamente tutti i grandiosi impianti interessandosene vivamente. Dopo aver firmato un albo d’oro ed
aver accolto sorridendo le acclamazioni entusiastiche delle maestranze adunate nel cortile della
ricevitrice, il Principe ha ascoltato un breve saluto rivoltogli dal prof. Pasini”, si legge sul Corriere
della Sera del 9 dicembre 193220.
Quattro anni più tardi, il 30 maggio 1936, fu il re a presenziare all’inaugurazione della VI Triennale
di Arti Decorative e Industriali e per quell’occasione Aem illuminò la Torre del Parco progettata da
Gio Ponti. A proposito di quei lavori, Pacciarini nel riportare un episodio sentito in azienda racconta che “alla Triennale, c’era da fare una sistemazione. Mi ricordo dalla viva voce di quelli che sono
stati assunti dall’impresa Guzzetti, che c’erano gli operai che venivano da Vanzago in bicicletta, con
gli attrezzi sul telaio, tra cui quello famoso che chiamavano “la punta” di ferro, la ‘gugia’. E venivano
Franco TETTAMANTI, 1925, primo semaforo in via Orefici. Milanesi scettici: “Non dura mica”, Corriere della Sera,
2005
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Franco TETTAMANTI, 1928, fiocco azzurro in casa Bramieri. Nasce Gino, il comico “alla milanese”, Corriere della
Sera, 2005
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Alle radici dello sviluppo. I primi 50 anni di storia dell’energia dagli archivi Aem, cit., pag. 130
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lì a cercare il lavoro, così riuscivano a trovarlo. Quel giorno alla Triennale c’era il Presidente Pasini,
ha visto questi qui che erano lì con le mani in tasca e si è messo a urlare:‘Cosa fate lazzaroni, mettetevi a lavorare!’.Trac, sono entrati nella Guzzetti (ndr. si trattava di disoccupati in attesa di lavoro, successivamente assunti dalla Guzzetti). Oltre all’illuminazione pubblica, all’impresa davano l’incombenza dell’illuminazione degli spettacoli lirici al Castello e anche qua il Gualdoni, padre del futuro Direttore Generale, che era il nostro assistente, veniva chiamato il mago delle luci e disponeva
tutti i tipi di illuminazione. Si lavorava in tensione, per questo consigliavo al capo del personale di
preparare i nuovi assunti con lavori in bassa tensione prima di metterli insieme all’operaio. Ma non
ero stato ascoltato”.
È il periodo di maggior sviluppo. Nel ’34 si trasformarono tutte le vecchie linee di trasporto da
60.000 a 130.000 Volt. Nello stesso anno entrò in servizio la ricevitrice Sud inaugurata dal Duce e
dal presidente Pasini. In quell’occasione, per evitare di attendere ore per l’accensione dell’impianto, si decise di simulare l’avvio dei sincroni con ventilatori posti nel sottoquadro che ne riproducevano il rumore. Quando il Duce fece scattare l’interruttore, però, i ventilatori sollevarono anche
molta polvere, il che fece temere un principio di incendio.
Sorsero, inoltre, le nuove sottostazioni di conversione di viale Elvezia, piazza Trento, piazza Po, via
Caracciolo e via Benedetto Marcello.
Con i nuovi impianti Milano ha il suo cuore luminoso in Valtellina.
A Stazzona alla fine del 1937 venne completato un nuovo impianto iniziato un decennio prima: è
il più a valle tra gli impianti idroelettrici dell’Aem. La nuova centrale costruita in caverna, che raccoglie le acque dell’Adda con una galleria lunga 8 km e un salto di 90 metri, entrò in servizio l’8
gennaio 1938. All’immancabile inaugurazione furono presenti personalità del PNF (Partito
Nazionale Fascista) quali Adelchi Serena, Araldo Crollalanza (Senatore e ministro dei Lavori
Pubblici) e il presidente dell’Azienda, ingegnere Albino Pasini. L’energia arrivava a Milano con due
nuovi elettrodotti a 130 kV che dalla Valtellina, attraverso il Passo San Marco, passavano in Val
Brembana.
Da Tirano a Bormio e oltre ancor oggi si trovano numerosi basamenti dei piloni, segno dei lavori.
In tutto questo cemento, che giorno dopo giorno avanzava, il momento più umano rimaneva l’intenso lavoro nei cantieri. Sono stati altresì gli anni in cui cominciavano a comparire i camion, che
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consentivano di agevolare le fatiche dell’uomo, anche se le manovre sulle strade risultavano piuttosto ardite per via delle curve troppo strette. Per ovviare a questi inconvenienti vennero smussate case e demoliti alcuni balconi.
Nel 1939 i consumi di energia aumentarono nuovamente per l’intensificazione delle lavorazioni
belliche e, a causa del continuo aumento del prezzo del carbone, l’Aem dovette pensare alle future necessità: si studiò, quindi, la realizzazione di un nuovo grande serbatoio in Val Fraele, a monte
di quello di Cancano, a circa 2000 metri di quota.
Dighe e centrali, ma anche strade e linee filoviarie.
Iniziarono così i lavori per il serbatoio di San Giacomo, della capacità di 64 milioni di metri cubi
d’acqua e per la grande e ardita diga di sbarramento a gravità alleggerita, con un’altezza massima
di quasi cento metri e un coronamento di circa un chilometro; il volume totale della diga era di
616mila metri cubi di calcestruzzo. Benna dopo benna, il cemento necessario arrivava in speciali
vagoni fino a Tirano, ultima stazione ferroviaria della valle dove il materiale veniva caricato sui filocarri.“Sono stato assunto all’ufficio trasporti - ricorda Della Palma -, dove c’erano i filocarri e la filovia che con una linea elettrica in corrente continua appositamente costruita salivano da Tirano
verso Rasin e verso le Tre Baracche sulla strada dello Stelvio: lì c’era una teleferica per il cemento
che andava verso Cancano, dove veniva scaricato direttamente”, continua Berbenni. Seduti allo
stesso tavolo, con le mani che hanno le dita incrociate o continuano a muoversi, i discorsi si intrecciano, ognuno ha un dettaglio da aggiungere alla storia che li ha visti partecipi. “Quando la richiesta era molta - precisa De Lorenzi - funzionavano le due teleferiche per portare il materiale necessario da Rasin a Cancano e dalle Tre Baracche a Digapoli”.
Di Digapoli parla De Lorenzi: “A me la parola Digapoli è sempre suonata come se dicesse ‘popolo’ e ‘diga’: un’immagine forte sulla quale i ragazzi d’oggi dovrebbero meditare. Forse è al di là della
loro fantasia figurarsi i pozzi, profondi talvolta anche sessanta metri, scavati per la controdiga, distante tre chilometri a monte della diga, che sbarrava il deflusso delle acque in Svizzera, ... Là si era creato un mondo quasi a parte, le duecentocinquanta persone che vi erano staccate, come in un cantiere a sé stante, formavano un altro mondo: lavoro separato e mensa a parte. D’inverno non raggiungevano nemmeno Digapoli, per paura delle valanghe. Le ditte appaltatrici esigevano turni di
otto, a volte dieci ore, dagli operai sprofondati in una specie d’inferno. L’Azienda li controllava, ma
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solo sui risultati del lavoro. L’inverno era decisamente triste, con grandi nevicate come quelle degli
anni Cinquanta; ricordo muraglie di neve alte anche sei, sette metri. Il lavoro calava ma continuava
nelle gallerie, dove la temperatura lo permetteva. A turni finiti la corsa alla mensa faceva venire in
mente l’assalto alla diligenza, per munirsi del tegame d’alluminio colmo di minestra bollente, e c’era
chi lo copriva col berretto e si rimetteva in coda alla fila sperando di ottenere ancora un mestolo
di zuppa: questo nei tempi di guerra, tempi grami. E una valvola di sfogo alla rabbia, alle emozioni,
era l’Osteria del Gatto Nero, nata con la diga e gestita da una donna in gamba, la Carolina Rossi:
che se qualcuno, oltre a giocare a carte e a bere il lecito, alzava troppo il gomito, sapeva come buttarlo fuori. E c’era anche un negozio e il frate che diceva messa, Padre Crapela, così chiamato per
le suole in ferro, con punte, legate alle scarpe e che in dialetto vengono chiamate crapela da ‘crap’,
sasso. Le usava nei punti scoscesi e ghiacciati e particolarmente sul sentiero, una vecchia strada tutt’ora esistente dai tempi della Contea, che dalla località chiamata Pozzo dell’ex diga di Cancano,
portava fino alla sommità alle Torri di Fraele e che il Padre percorreva ogni domenica a piedi, da
Pedenosso fino a Cancano e da qui, con un altro mezzo, veniva portato a Digapoli, dove c’era
anche un pronto soccorso fisso con un infermiere e un dottore, il dottor Frega, oltre alla Guardia
di Finanza e, non ricordo bene, mi sembra anche i Carabinieri”.
Parlando ancora di questi anni, Penasa ricorda di un inverno freddo e difficile,“era il 1945-46, quando due uomini e due donne, rimasero bloccati per quasi due ore su un carrello della teleferica
(l’unico mezzo di trasporto tra Bormio e Cancano usato solo per il trasporto dei materiali se no
si dovevano fare a piedi quei 18 km e si facevano una volta al mese) che era andato a sbattere
contro un pilone e si era fermato; si trovarono così costretti a scaldarsi corpo a corpo per resistere alle basse temperature!”
“Il fiume Adda che viene sbarrato dalla nuova opera è stato opportunamente deviato in galleria in corrispondenza della zona occupata dalla base della diga. La costruzione dell’impianto avverrà in sole tre
stagioni estive - si legge sul Corriere della Sera del 29 agosto 1940 - L’Azienda ha costruito anche
una linea filoviaria di 50 km con pali di cemento armato, che a lavori ultimati servirà per i bisogni turistici ed industriali della Valtellina e che consente di portare autarchicamente grossi bidoni di cemento
dalla stazione di Tirano alla prima cantoniera della strada dello Stelvio, donde passano a una teleferica
lunga 8 km, che raggiunge il nuovo grande21 cantiere”. Nello stesso articolo si precisa che la nascita
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Id., pag. 188
di quest’opera fu seguita anche dalle autorità:“Il podestà [di Milano, Gian Giacomo Gallarati Scotti]
ha assistito ai primi getti, che sono stati benedetti con un’intima cerimonia dal vescovo della Diocesi.
Dopo aver visitato il Villaggio operaio di Digapoli che ospita oltre tremila lavoratori, il podestà ha avuto
parole di vivo elogio per il cons. naz. Pasini”.
Per evitare che le acque defluissero nella zona morenica a monte del serbatoio venne costruito un
diaframma in calcestruzzo con uno sviluppo di oltre 522 metri. “Un lavoro praticamente invisibile
- scrive Berbenni - tutto interrato per circa 500 metri dalla Val Paolaccia ad Alpisella. Lo scavo era
stato effettuato a mano con pozzi verticali con armature in legno e collegamenti in cunicolo ogni
cinque metri fino all’altezza massima di 60 metri. Due pompe Klein di una sessantina di metri e una
portata di circa 30/40 litri al secondo sono state d’aiuto per l’esecuzione delle iniezioni a bassa e
alta pressione per l’impermeabilizzazione e contenimento delle perdite. Migliaia di quintali di
cemento”.
L’infuriare della guerra, tuttavia, causò ritardi nella realizzazione di questa opera grandiosa.
Luce e acqua: non solo energia.
Intanto anche a Milano vengono costruite nuove opere, non sempre elettriche. La novità, che
impiega tre anni per vedere la luce nel 1940, davanti al Castello Sforzesco, è idraulica, un omaggio
dell’Aem alla sua città. È la fontana che fa parte delle “festose improvvisazioni da gala con le quali la
città si adornò in occasione della venuta del Duce - scriveva nel 1937 un cronista milanese - […]
venne ammirata specialmente la grandiosa fontana che levava i suoi molteplici getti di fronte al Castello
Sforzesco, ottenuta ampliando e corredando di speciali impianti la piccola fontana antistante al Masso
del Grappa”22.
Per l’arrivo di Mussolini, Aem partecipò all’allestimento dei lampioni in piazza del Duomo, con ventilatori che mossero nastri rossi simulando bracieri fiammeggianti, uno degli effetti speciali utilizzati
nelle grandi manifestazioni di piazza. Anche in occasione della VII Triennale nel 1940, l’Aem decorò
il Palazzo dell’Arte e il Parco Sempione con fontane e cascate, illuminate di notte con effetti spettacolari.
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La fontana è stata smontata a metà degli anni Sessanta in occasione dei lavori di scavo per la costruzione della metropolitana e rifatta nel 2001, sempre di fronte all’ingresso del Castello.
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Una vocazione sportiva.
Prima della guerra, a Bormio, proprio dove si sono svolti nel 1985 e nel 2005 i Campionati Mondiali
di Sci, c’era già una vocazione sportiva.
L’Azienda nel 1939 fece costruire “tre trampolini di tre grandezze diverse in località Combo. Aveva
anche organizzato corsi di pattinaggio e sci per allievi, dai quali è uscito il pluricampione Carlo De
Lorenzi, seguiti dagli allenatori nazionali Kiilberg, Ramella, Da Col, e una squadra con un allenatore
norvegese, che partecipò ai campionati e di cui facevano parte i Compagnoni (Aristide, Severino
e Ottavio), l’olimpionico Giacinto Sertorelli23 e Veri Confortola, che hanno portato diversi titoli
all’Aem. L’Azienda aveva portato qui l’allenatore di salto, e poi c’era il finlandese Waino Sares come
capo del fondo. Una piccola parentesi: questo signore si era fatto amico di Severino Compagnoni
ed erano come fratelli; combattendo contro i russi in Finlandia, è stato colpito al cuore, dove aveva
il portafoglio, la pallottola è entrata attraverso il portafoglio e sua mamma ha mandato la foto bucata a Severino come ricordo”. Il racconto è di Berbenni insieme a De Lorenzi, che aggiunge:“correvano per l’Azienda i migliori atleti, facevano gare di fondo, gare di sci, poi non li hanno assunti. Però
non era l’Aem, ma il Dopolavoro. A proposito di sci,“te se recordet quand te se spaccà la gamba?”dice rivolgendosi a Berbenni - abbiamo tagliato dei rami, l’abbiamo adagiato sopra e siamo scesi
sino a Bormio, venendo da sopra i 2000”. “Pensa che sono andato dietro la pista di un altro, mi è
andato fuori lo sci e la gamba ha fatto perno, c’era proprio un salto di 70-80 centimetri, sono andato indietro e ho sentito “crac”, mi hanno detto ‘prova a rimettere dentro lo sci’, ma poi mi hanno
portato sino a San Pietro e da lì col cavallo sino a Bormio, dove è venuto il dottore che mi ha
ingessato subito, tirandomi via solo il calzettone”.
Mentre Rinaldi ripensa alla prima gara di biciclette “che ho fatto dopo il ’45 per il gruppo sportivo dell’Aem, avevo una maglia azzurra, con una striscia bianca e poi c’era una parte rossa e una
zona azzurra, la prima gara di bicicletta l’ho fatta con quella maglia lì”.
Una tradizione di famiglia. Il padre, Costante Sertorelli, portò a Bormio lo sci alpino nel 1904, con un paio di sci
costruito con le sue mani. Era considerato un “uomo di ferro”. Ebbe undici figli, una stirpe di maestri famosi e di campioni.
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1933 - Gruppo folcloristico dopolavoro AEM
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Capitolo 3 - Il Gruppo