N. 3 LUGLIO 2014
TRIMESTRALE SUI DIRITTI UMANI
DI AMNESTY INTERNATIONAL
Diritti dei
dei migranti
migranti in
in Europa
Europa
Diritti
PRIMA LE PERSONE,
POI LE FRONTIERE
1
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EDITORIALE
LEGENDA
Cara amica, caro amico,
prima le persone, poi le frontiere è il messaggio
di Amnesty International, semplice e chiaro. Quel
che chiediamo di fare, però, non è cosa da poco.
Chiediamo un rovesciamento della logica di difesa
dei confini che tradizionalmente ispira le scelte
statali, costi quel che costi. Chiediamo che siano
messe in discussione politiche e pratiche finalizzate
alla prevenzione dell’immigrazione (quasi come se
si trattasse di terrorismo o di una grave malattia),
invece che alla gestione di un fenomeno epocale.
Chiediamo che vengano abbandonate misure il cui
effetto è di mettere a rischio (costringendoli a scegliere
le rotte più pericolose) la vita di migliaia di migranti,
rifugiati e richiedenti asilo, ossia di persone in fuga
da persecuzioni etniche, politiche, religiose, da conflitti
armati, da povertà estrema. Persone il cui obiettivo
è la sopravvivenza e che non si fermeranno, dunque,
indipendentemente dall’altezza del muro (metaforico
o reale) costruito per respingerle. Chiediamo di fare
scelte politiche alternative, scelte salvavita. Sì,
dunque, all’operazione italiana Mare Nostrum, che
2
può essere migliorata ma ha già salvato oltre 30.000
persone e alla quale sarebbe bene che il resto di
Europa collaborasse. No agli accordi di riammissione
con la Libia, paese nel quale i diritti dei migranti
sono sistematicamente violati. Sì all’apertura di vie
d’accesso sicure per rifugiati e richiedenti asilo e sì alla
facilitazione della riunificazione familiare. No, invece,
alla disinformazione e alla retorica dell’invasione: il
Libano, un fazzoletto di terra con poco più di quattro
milioni di abitanti, a fine 2013 aveva accolto 800.000
profughi di guerra siriani, l’Europa intera 82.000.
Prima le persone e poi le frontiere è quel che stiamo
dicendo a tutti i governi europei e quel che ribadiamo
anche al governo italiano, dal 1° luglio presidente di
turno dell’Unione europea. Lo faremo forti del vostro
sostegno, morale ed economico, da cui dipende in modo
esclusivo la possibilità di portare avanti con efficacia
questa battaglia di umanità e giustizia.
SOSTIENICI!
STOP
TORTURA
twitt
LA BACHECA
Nell’ambito della campagna “Stop alla tortura” vi abbiamo chiesto attraverso i
social media di inviare un commento su questo tema. Perché per fermare la tortura
anche il vostro pensiero è importante! Ecco alcuni messaggi che abbiamo ricevuto.
La tortura è un’offesa alla dignità umana.
È una pratica che mi spaventa e mi inorridisce.
Non posso che pensare, soprattutto, alle
innumerevoli vittime della tortura in ragione
del loro credo politico, filosofico, religioso
o dei loro orientamenti personali.
Lichene Koala
La tortura è una forma di crudeltà utilizzata per
estorcere dichiarazioni e spesso solo per dare libero
sfogo alla violenza, anche in Italia è spesso
utilizzata. Essere contro ogni tipo di tortura
è un valore etico irrinunciabile.
Giuliano G.
Quando questa parola, tortura, sparirà
anche dal vocabolario, saremo di certo
in un mondo migliore.
Paola B.
Non chiamatelo
“abuso di potere”:
si chiama tortura.
Daniela A.
Ogni lacrima di supplica,/ogni goccia di dolore/toglie vita e
umanità/non di certo a chi subisce,/ma a chi,/per ordine di
altri,/per odio o per vendetta, /un suo simile tormenta./
Ma ignora l’aguzzino/che ad ogni/pena inferta/la propria
anima violenta.
Eleonora G. Finché c’è tortura non c’è civiltà.
Susanna A.
La tortura va oltre la violenza, è l’espressione
di una società malata in cui la vita ha perso ogni
significato, va condannata sempre e combattuta
dalla società civile se così vuole essere chiamata!
Antonella B.
No alla tortura, no a qualsiasi strumento
coercitivo, sì al rispetto dei diritti umani sopra
ogni cosa!
Emma DM.
3
Vogliamo maggiori
garanzie per il rispetto
delle Convenzioni
contro la tortura!
Laura M.
face
twitter.co
facebook
Un fermo di polizia non deve più
trasformarsi in una condanna a morte.
Ilaria D.
Dovrebbe esistere una differenza tra stato
d’arresto e arresto cardiaco.
Alice T.
Solo l’uomo riesce a essere
così crudele con i suoi simili.
Simonetta B.
La dignità di in uomo non ha prezzo:
nessun crimine anche
il più terribile, può giustificare
il ricorso alla tortura.
Angela M.
BUONE NOTIZI
Lussemburgo - 14 maggio
Il parlamento ha ratificato
il Trattato internazionale
sul commercio di armi.
Andorra - 23 aprile
Andorra è diventato il decimo
stato ad aver ratificato
la Convenzione di Istanbul
che entrerà in vigore
dal 1° agosto 2014.
Belgio - 20 maggio
Il parlamento ha ratificato il
Protocollo opzionale al Patto
internazionale sui diritti
economici, sociali e culturali.
Italia - 8 maggio
L’assessore alla Casa del Comune
di Roma ha dichiarato che non
intende applicare la circolare
che limitava l’accesso ad alloggi
popolari alle famiglie rom. FEDERAZIONE RUSSA
BELGIO
LUSSEMBURGO
STATI UNITI
ANDORRA
Ucraina - 19/20 marzo
Oleksiy Gritsenko, Sergiy Suprun
e Natalya Lukyanchenko, tre attivisti
che erano scomparsi la sera del 13
marzo in Crimea, sono stati rilasciati. UCRAINA
UZBEKISTAN
ITALIA
CINA
Stati Uniti d’America - 27 marzo
È stata annullata la condanna
a morte di Michelle Byrom,
giudicata colpevole dell’omicidio
del marito, commesso quando
la donna era in ospedale.
Messico - 28 maggio
È stata riconosciuta pubblicamente
l’innocenza di Jacinta Francisco
Marcial, condannata per il sequestro
di sei agenti di polizia, e le è stato
accordato un indennizzo.
Paraguay - 11 giugno
Il presidente ha firmato
la legge grazie alla quale
lo stato potrà espropriare
più di 14.000 ettari
di terre e restituirle
alla comunità
Sawhoyamaxa.
MESSICO
VIETNAM
FILIPPINE
GABON
PARAGUAY
CILE
Cile - 21 maggio
La presidente Bachelet ha
annunciato un progetto di legge
per arrivare alla depenalizzazione
dell’aborto terapeutico.
REPUBBLICA CENTRAFRICANA
Repubblica Centrafricana - 30 aprile
I 44 bambini, tra 13 e 17 anni,
arrestati a gennaio in Ciad,
dove avevano cercato riparo
dalla guerra, sono stati rilasciati
dalla prigione di Korotoro.
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Federazione Russa - 22 aprile
Kholzighit Sanakulov e suo figlio,
a rischio di rimpatrio forzato in
Uzbekistan, sono stati rilasciati
e hanno raggiunto l’Olanda come
rifugiati politici.
Gabon - 11 aprile
Il Gabon ha ratificato il Protocollo
opzionale al Patto internazionale
sui diritti civili e politici, che ha
per obiettivo l’abolizione della
pena di morte .
Uzbekistan - 31 maggio
Un tribunale ha ordinato la scarcerazione
per motivi di salute di Abdulrasul
Khudoynazarov, condannato per le sue
attività in favore dei diritti umani.
Cina - 17 aprile
Liu Hua, attivista anticorruzione,
è stata rilasciata dopo aver trascorso
37 giorni in un campo per la
rieducazione attraverso il lavoro.
Vietnam - 12 aprile
Nguyen Tien Trung, attivista
pro-democrazia, e Vi Duc Hoi, blogger
e scrittore, sono stati rilasciati prima
della fine della condanna.
Filippine - 8 aprile
La Corte suprema ha respinto
il ricorso contro la legge sulla
salute riproduttiva che obbliga
il governo a fornire servizi
gratuiti di contraccezione.
PRIMO PIAN
PRIMA LE
PERSONE,
POI LE
FRONTIERE
I
l nostro mondo sempre più
interconnesso, segnato da una
crescita tecnologica esponenziale e
in cui le autostrade, i fiumi, i mari e i cieli
solcati dalle merci sono sempre più vasti,
è caratterizzato contestualmente da una
desolante mediocrità del suo sguardo
sull’essere umano che gli impedisce di
attribuire agli uomini almeno lo stesso
valore delle cose. Le merci circolano
liberamente, i trattati che garantiscono
il loro libero scambio e ne liberano
l’impetuoso fluire vengono implementati
anche al prezzo di conseguenze sinistre
sulla salute del pianeta, ma gli uomini no!
I loro movimenti vengono contingentati,
sottoposti a restrizioni spesso crudeli,
subordinati a leggi che criminalizzano il
libero movimento, come le norme contro
la “clandestinità”, condizione assunta a
reato in legislazioni degne delle peggiori
giurisdizioni totalitarie. Questa vergogna
non è però l’aspetto peggiore di tutta la
questione. Il vero disastro, e non solo
per ciò che riguarda il libero movimento
degli uomini e il problema drammatico
dei rifugiati e dei migranti, è la perdita di
memoria, di cultura e, conseguentemente,
del suo sviluppo in termini di civiltà
di Moni Ovadia
55
per rispondere in un orizzonte di senso, al diritto
inalienabile di ogni uomo di decidere liberamente
dove intende progettare la propria vita e quella dei
suoi cari. Tutta la comunicazione e l’”informazione” al
riguardo, si focalizzano sull’emergenza umanitaria,
nel migliore dei casi, atta invece a provocare la
paura dell’orda d’invasione, amatissima dai politici
conservatori e reazionari. Nulla è pensato nella
prospettiva della profondità di un modello nel quale si
concatenino e si sinergizzino virtuosamente le azioni
di breve e di medio periodo, per approdare nel futuro,
alla riedificazione di una cultura in cui l’uomo nella
sua integrità e nella sua dignità primigenia, divenga
il centro radiante. La retorica della cultura europea
tende a gloriarsi e a esibire le proprie vestigia passate
soprattutto in esibizioni scolastiche e in ridondanti
allestimenti museali ma si guarda
bene dal trarre insegnamenti
non retorici dalle radici. L’origine
mitica della cultura latina della
grande Roma, che ha il suo
massimo cantore in Virgilio, è
generata dall’arrivo sui lidi italici
di un rifugiato politico, Enea.
Perché cos’altro fu Enea se non
un rifugiato in fuga da una guerra
perduta per salvare la sua gente?
E la sua lunga peregrinazione
che lo portò di luogo in luogo fin
da noi, che cosa fu se non una
migrazione con i “barconi” a remi
e a vela di allora? La leggenda fondativa della nostra
civilizzazione, nasce dal meticciato di un rifugiato
politico migrante, con un’autoctona italico-latina. E
se cerchiamo altre radici costitutive, incontriamo il
poema omerico di Odisseo, viaggiatore incessante,
eroe vittorioso che diventa rifugiato-migrante e non
smette di viaggiare con Dante secoli dopo e con
Joyce, dopo altri secoli a seguire. Se fossero stati
varati provvedimenti restrittivi ai suoi spostamenti,
non avremmo avuto l’Odissea. Che dire poi della
grande migrazione spirituale di Abramo che esce
da Ur dei Caldei, cacciato dalla coscienza del limite
idolatrico, per migrare con la propria gente verso una
terra santa, santa perché lì il progetto rivelato chiede
di viverci da stranieri fra gli stranieri. Insomma,
quanti orrori dovremo ancora vedere perpetrati sotto
i cieli del nostro pianeta per capire
finalmente nel nostro intimo, che
tutti siamo un solo uomo, il sapiens
sapiens africanus e che abbiamo
generato
l’immensa
varietà
delle nostre culture, lingue, arti,
tradizioni, espressioni a partire da
quell’unico primo uomo. Come?
Viaggiando, migrando, fuggendo
dai pericoli, dalla crudeltà dei suoi
simili, dalla fame, spinto dalla
ricerca di se stesso, rifugiandosi in
un altrove per ricominciare.
Noi siamo, più di tutto, soprattutto
un’umanità di rifugiati, di migranti.
Noi siamo,
più di tutto,
soprattutto
un’umanità
di rifugiati,
di migranti.
6
Le foto contenute in questa sezione e quella
di copertina fanno parte del più ampio progetto
“Unwelcome” del fotografo Simone Perolari,
che ci ha gentilmente concesso di usarle.
Questo reportage vuole raccontare la vita e la
condizione dei migranti, percorrendo le tante
porte della fortezza Europa: da Lampedusa
a Ceuta e Melilla, da Patrasso fino a Calais.
simoneperolari.net
Moni Ovadia, attore teatrale, drammaturgo,
scrittore, compositore e cantante, nasce a
Plovdiv in Bulgaria nel 1946, da una famiglia
ebraico-sefardita.
Nel 1984 si avvicina al teatro, inziando subito
con grandi collaborazioni internazionali e poi
proponendo se stesso come ideatore, regista e
attore di un particolare“teatro musicale”.
Ha debuttato il 16 giugno con il suo nuovo
spettacolo “Doppio fronte”.
PRIMO PIAN
I
HARD DISCOUNT EUROPA:
l prezzo della libertà, a Sfax, è
altalenante come quello dell’oro
al mercato di Londra. Fino a poco
tempo fa, nell’assolato porto a sud di
Tunisi, il tariffario dei broker di esseri
umani prevedeva 3000 euro per arrivare
in Italia, 5000 per la Germania e 6000
per la Francia. A oggi, poco o nulla è
cambiato. Qui l’Europa unita, quella di
Mare Nostrum e Frontex, evidentemente
non è mai arrivata, almeno in termini di
prezzo standard. Poche centinaia di chilometri a nord,
oltre il mare, il prezzo del pomodoro, in
un qualsiasi supermercato, a volte balla
ma si parla sempre di cifre dopo almeno
uno zero e una virgola. Che sia fresco o
in scatola: a volte bastano appena 30
centesimi per portarsi a casa una latta
di pelati. Nadir, 21 anni e una madre a carico, non
sa a quanto vengano venduti i pomodori
in Italia. Sa solo che deve mantenere la
famiglia. È a Sfax perché deve incontrare
Mohamed, una specie di ufficio risorse
umane che propone pacchetti completi
per lavorare all’estero, comprensivi
di viaggio, visto, permesso e alloggio.
L’opzione più economica è un posto da
LA GUERRA
DEI PREZZI
CHE ALIMENTA
di Gianluca Martelliano
7
Gianluca Martelliano è un giornalista specializzato
in economia e ambiente.
Ha lavorato come fixer (una specie di guida turistica
che aiuta i giornalisti stranieri a realizzare inchieste in
Italia) per testate britanniche, francesi e scandinave.
Ha contribuito a realizzare per France 2 un documentario
sullo sfruttamento dei migranti in Italia e sul ruolo della
grande distribuzione.
Per The Ecologist si è occupato della filiera produttiva
che porta dalle arance di Rosarno alla Fanta.
bracciante appena più a nord, dall’altra parte del
mare. E Nadir si indebita e accetta.
Nadir non ha mai visto in vita sua un gommone,
nemmeno in tv. E non lo farà a breve. Si imbarca
su un traghetto turistico e in sei ore arriva a
Palermo. In tasca, i documenti e un contratto di
lavoro fornito da un’azienda agricola italiana.
Tutto regolare, almeno sembra.
Questo è l’inizio di un viaggio migrante. Non lo
racconta un romanzo ma il primo processo, iniziato
nel 2013 e tutt’ora in corso, sugli schiavi delle
campagne d’Italia. L’inchiesta, partita a Lecce
grazie alle denunce di un gruppo di braccianti,
ha portato in tribunale datori di lavoro italiani
che fornivano contratti inesistenti e trafficanti
di esseri umani che truffavano i migranti e li
obbligavano a lavorare per pochi centesimi. Nadir
non esiste. Ma è la somma di tutte quelle vite. Vite
senza scelta: o lavori a quelle condizioni, o muori
di fame. Tecnicamente, il sistema si chiama
caporalato.
Le cartoline dalle campagne della penisola
raccontano solo l’ultimo capitolo della storia, la
meta infelice di un viaggio disperato. Ma i viaggi
sono due. Il primo, quello dei migranti. Il secondo,
quello dei prezzi dei prodotti agroalimentari.
In mezzo, tra le nostre mani che tastano pomodori
e arance al supermarket e le loro che li raccolgono
da terra, c’è un oceano, una lunga catena
economica che passa per trasformatori, grossisti
e grandi gruppi industriali. Multinazionali che
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controllano il mercato e di fatto decidono il prezzo
da pagare agli agricoltori, in un gioco al ribasso
che spreme gli anelli deboli della catena.
L’odissea del prezzo compie un doppio miracolo:
fa sembrare l’offerta vantaggiosa sullo scaffale e
Conoscono bene
il viaggio del prezzo
ma non quello dei
tanti migranti privati
di diritti e dignità.
polverizza i pochi centesimi rimasti in una filiera
produttiva costosa e lunga. Talmente lunga che
i grandi marchi - che sostengono di avere codici
etici rigidi - sono costretti ad ammettere di non
essere in grado di controllarla. Conoscono bene
il viaggio del prezzo ma non quello dei tanti
migranti privati di diritti e dignità. Vittime di
truffe e inganni, senza documenti e perennemente
sotto scacco. In un corto circuito in cui la vittima
diventa il criminale da mandare a casa. E il
consumatore, seduto sul divano e preoccupato per
l’ennesima ondata di sbarchi raccontata dal tg,
trova sollievo nell’intermezzo pubblicitario: oggi
l’aranciata è in offerta a 99 centesimi.
PRIMO PIAN
CHI CHIEDE ASILO,
LO CHIEDE A NOI
di Berardino Guarino
S
e si guarda al nostro mondo, è impossibile
non restare scossi dal numero e dalla
tragicità delle crisi che coinvolgono
quotidianamente milioni di persone innocenti: la
guerra in Siria ma anche in Sud Sudan, in Repubblica
Centrafricana, in Nigeria e ancora in Somalia, dove
ogni accenno di miglioramento viene soffocato dalla
violenza. Continua la silenziosa strage nel mare
e nel deserto, di cui tutti dovremmo sentire sulla
nostra coscienza il peso. L’operazione Mare Nostrum
ha salvato più di 30.000 persone da ottobre a oggi
ed è uno sforzo importante da parte delle autorità
italiane. Resta però senza risposta la domanda
più importante: come si può evitare che persone
che hanno diritto alla protezione siano costrette a
viaggiare in condizioni tanto rischiose e costose?
Senza lasciarci spaventare dai numeri degli arrivi,
che pur in aumento restano comunque poca
cosa rispetto alle grandi migrazioni di massa
che interessano i paesi più poveri del mondo, la
nostra principale responsabilità è lavorare per
un’accoglienza progettuale, che metta le persone al
9
Berardino Guarino è il direttore dei progetti del Centro
Astalli, la sede italiana del JRS, Servizio dei Gesuiti per
i rifugiati. Il Centro Astalli da oltre 30 anni è impegnato
in numerose attività e servizi che hanno l’obiettivo
di accompagnare, servire e difendere i diritti di
chi arriva in Italia in fuga da guerre e violenze, non
di rado anche dalla tortura. Il Centro Astalli si impegna
inoltre a far conoscere all’opinione pubblica chi sono
i rifugiati, la loro storia e i motivi che li hanno portati
a lasciare il loro paese.
centro. Persone che hanno già pagato un prezzo altissimo e che vanno
accolte con dignità e nel rispetto dei loro diritti. Abbiamo guardato con
attenzione all’ampliamento del Sistema di protezione per richiedenti
asilo e rifugiati ma siamo convinti che ci sia ancora molto da fare per
razionalizzare e migliorare l’intero sistema di accoglienza nazionale,
che resta insufficiente.
La crisi ha colpito in modo particolare i più vulnerabili e i migranti
forzati, privi di legami familiari e sociali. Ma è giusto ribadire che la
crisi che viviamo, prima ancora che economica, è culturale e umana:
pesanti tagli al welfare sono accompagnati da un clima politico di
diffidenza verso gli stranieri, che a volte arriva a un’aperta ostilità.
I rifugiati e i migranti forzati affrontano spesso atteggiamenti di rifiuto
e discriminazione. I media tendono a descriverli come una minaccia,
un peso, un problema da gestire. La nostra esperienza ci dice che i
rifugiati desiderano con forza essere messi in condizione di dare il loro
contributo alla società che li ospita. Quando attraverso un impegno
serio e onesto di tutti si trova il modo di superare le barriere d’ingiustizia
e a costruire relazioni, si attivano nella società nuove dinamiche, che
non possono che contribuire positivamente al nostro futuro comune.
È molto importante, dunque, continuare a chiederci come possiamo
influenzare, con creatività, efficacia e positività, i valori di chiusura e
di esclusione che a volte vediamo prendere il sopravvento.
Chi chiede asilo, lo chiede a noi. Non possiamo accontentarci di stare
a guardare, magari commuovendoci, le ingiustizie che accadono sotto i
nostri occhi o appena al di là del mare delle nostre vacanze.
Non è una questione per addetti ai lavori. Ciascuno di noi può iniziare
creando uno spazio, nella propria vita e nella propria quotidianità, per
i rifugiati.
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Cosa chiediamo all’Italia
per il semestre di presidenza
dell’Unione europea
A
mnesty International ritiene che il 2014 debba essere l’anno
del cambiamento per l’Ue. L’emergere in diversi stati membri
di gruppi xenofobi ed estremisti testimonia la necessità di
questo cambio di rotta. Inoltre, il rinnovo dell’assetto istituzionale
europeo, con l’entrata in vigore delle modifiche apportate dal trattato
di Lisbona e l’elezione di nuovi presidenti alla Commissione e al
Consiglio, rappresenta un’opportunità per mettere i diritti umani al
centro dell’agenda politica e istituzionale.
Il ruolo di “traghettatore” della presidenza italiana in tutto questo
appare dunque evidente. Per questo, il 24 giugno, Amnesty International
Italia ha lanciato il memorandum “Un nuovo inizio nelle politiche e
pratiche sui diritti umani in Europa”, che chiede all’Italia e all’Europa
un nuovo approccio ai diritti umani, con particolare riguardo ai diritti
di migranti, rifugiati e richiedenti asilo, a salvaguardia della vita e
della dignità umana, tema oggetto della campagna SOS Europa.
Queste le raccomandazioni generali che Amnesty International ha
indirizzato al governo italiano, in vista del semestre di presidenza
dell’Ue:
• tutelare i diritti umani nell’Ue;
• migliorare le politiche e le prassi esistenti in materia d’immigrazione e asilo;
• combattere la discriminazione, in particolare quella che colpisce le minoranze;
• rispettare i diritti umani dei rom;
• tutelare i diritti delle donne;
• mettere fine alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalle imprese e dalle
multinazionali nelle loro attività estrattive;
• fermare la tortura;
• fermare il trasferimento internazionale di equipaggiamenti utilizzati per violare i
diritti umani;
• accertare la responsabilità dell’Europa nelle c.d. operazioni di rendition condotte
dalla Cia e in altri programmi segreti di detenzione;
• mobilitare l’Ue a tutela di 11 casi di “individui a rischio” seguiti dall’associazione.
Infine, visto il tradizionale impegno dell’Italia sull’abolizione universale della pena di morte,
Amnesty International Italia chiede che anche quest’anno sia protagonista di un’iniziativa
sulla moratoria all’Assemblea generale dell’Onu e si è resa disponibile a dare il proprio
contributo partecipando a una task force, creata presso il ministero degli Esteri su questo
tema, in occasione del semestre europeo.
11
DAL M0ND
SUD SUDAN: VIOLENZE E CARESTIA
Da quando, nel dicembre 2013, è esploso il conflitto
tra le forze rivali fedeli rispettivamente al presidente
Salva Kiir e all’ex vicepresidente Riek Machar, la
popolazione civile è stata presa sistematicamente
di mira nelle città e nei villaggi, nelle case, nelle
moschee, negli ospedali e persino nelle basi delle
Nazioni Unite dove aveva cercato rifugio. In alcuni
di questi luoghi, sono stati trovati scheletri umani,
corpi in decomposizione mangiati dai cani e fosse
comuni, cinque delle quali a Bor che, secondo
fonti governative, contenevano 530 cadaveri.
Ovunque ci sono case saccheggiate e incendiate,
ambulatori distrutti. Sebbene sia scaturito da uno
scontro di natura politica, il conflitto ha assunto
una chiara connotazione etnica tra i dinka, da
cui proviene la maggior parte delle forze fedeli al
presidente Kiir, e i nuer, il gruppo d’origine della
maggior parte dei disertori delle forze armate e
delle milizie fedeli all’ex presidente Machar. Civili
appartenenti ai gruppi dinka, nuer e shilluk sono
stati presi sistematicamente di mira solo a causa
della loro etnia e della conseguente, presunta,
affiliazione politica. I due leader delle fazioni in lotta
a inizio maggio hanno sottoscritto un impegno per
la cessazione delle ostilità, l’apertura di corridoi
umanitari e la cooperazione con l’Onu per garantire
l’arrivo degli aiuti ma gli scontri tra truppe e ribelli
continuano e si teme che i leader non siano più in
grado di controllare i combattenti sul campo. A causa
del conflitto, la situazione umanitaria nel Sud Sudan
sta diventando sempre più precaria. La violenza
in corso ha impedito a tante persone di rientrare
nelle loro terre nel periodo cruciale della semina.
La carestia sarà quasi inevitabile. Con l’arrivo della
stagione delle piogge, le strade diventeranno presto
impraticabili, rendendo impossibile la fornitura di
aiuti umanitari di cui c’è disperato bisogno nelle aree
colpite dal conflitto. Le forniture di cibo e medicinali
vengono inoltre deliberatamente bloccate. Le agenzie
umanitarie sono state attaccate negli stati di Jonglei,
Alto Nilo e Unità e almeno tre loro operatori sono stati
uccisi.
Il presidente ha parlato di una delle peggiori
carestie mai sofferte dalla sua popolazione e si sono
manifestati almeno 19 casi di colera, di cui uno
mortale.
Di fronte all’esplosione di violenza nel Sud Sudan, lo
scorso dicembre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite, dopo aver rilevato crimini contro l’umanità,
omicidi di massa e stupri di gruppo commessi da
entrambe le parti in conflitto, ha unanimemente
approvato l’incremento temporaneo della forza di
peacekeeping ma il dispiegamento delle truppe
aggiuntive è stato lento e la Missione Onu nel Sud
Sudan (Unmiss) è in difficoltà nell’adempimento al
suo mandato di proteggere la popolazione civile.
12
DAL M0ND
NIGERIA SOTTO SCACCO DI BOKO HARAM
Nel nord-est del paese imperversano le
violenze perpetrate dal gruppo estremista
Boko haram: uccisoni mirate, attentati
e rapimenti sono all’ordine del giorno. A
metà aprile, 240 ragazze cristiane della
scuola di Chibok sono state rapite per
motivi religiosi. In un video il gruppo ha
rivendicato il rapimento e affermato che
le ragazze saranno ridotte in schiavitù
o vendute come “spose”. Secondo fonti
attendibili le forze di sicurezza avrebbero
saputo dell’aggressione almeno quattro
ore prima ma non hanno fatto niente
per impedirla. Adesso si parla della
possibilità di uno scambio di prigionieri
di basso profilo, che porterebbe alla
liberazione di metà delle ragazze ma il
governo sembra reticente. Fonti ufficiali
hanno anche affermato di sapere dove
si trovano le ragazze ma ancora non si è
fatto niente per la loro liberazione. Intanto
nella regione continuano le violenze: il 20
maggio, Boko haram ha fatto esplodere
due autobus a Jos, in una strada trafficata
del centro, davanti a una stazione dei taxi,
provocando la morte di oltre 100 persone; il
28 maggio ha assaltato una base militare
e una stazione di polizia nel nord-est della
Nigeria, uccidendo 33 persone fra soldati
e agenti; il 1° giugno, ha fatto esplodere
una bomba all’interno
dello stadio della città
di Mubi, al termine di
una partita di calcio,
uccidendo almeno 40
persone, tra cui anche
bambini. L’elenco delle
violenze sembra non
avere fine.
13
COLPO DI STATO IN THAILANDIA
Il 22 maggio l’esercito thailandese, con a capo
il generale Prayuth Chan-Ocha, due giorni dopo
aver decretato unilateralmente la legge marziale,
ha assunto ufficialmente il governo del paese,
sospendendo la costituzione, attribuendosi
poteri d’emergenza, arrestando centinaia di
esponenti politici e attivisti e limitando una serie
di diritti umani. Alcuni mezzi d’informazione sono
già stati sottoposti a censura e vige il divieto
generale di riferire “notizie che danneggino la
sicurezza nazionale”. Sulla base della legge
marziale, le forze armate ora possono compiere
arresti senza mandato e trattenere i sospettati
per una settimana, sequestrare beni privati e
perquisire persone e proprietà in assenza di
una decisione giudiziaria. L’esercito è inoltre
immune rispetto a richieste di risarcimento. Il
colpo di stato è stato motivato dalle richieste
dell’opposizione di una maggior trasparenza e di
porre fine alla corruzione nel paese. Il 5 giugno,
Sombat Boonngamanong, un noto attivista
sociale che aveva lanciato online inviti a tenere
proteste pacifiche contro il colpo di stato, è stato
arrestato. Negli stessi giorni la corte militare
ha inviato un ordine di comparizione a sette
manifestanti pacifici.
DAL MOND
© Raphaël Bianchi
CRIMINI D’ODIO IN FRANCIA
© Unhcr/D.Kashavelov
UCCISIONI SOMMARIE IN SIRIA
In un orribile attacco avvenuto il 29 maggio ad al-Tleiliye, villaggio nel
nord della Siria, 15 civili sono stati uccisi in modo sommario, di questi
sette erano bambini. Le uccisioni sarebbero state compiute dallo Stato
islamico dell’Iraq e del Levante (Isis). Le vittime erano contadini arabi,
presi di mira perché sospettati di sostenere un gruppo armato curdo, l’Unità
per la protezione del popolo (Ypg), oppure scambiati per curdi di religione
yazida. L’Isis e alcuni altri gruppi armati considerano gli yazidi alla stregua
di infedeli e per questo motivo molti curdi che professano questa religione
hanno lasciato la zona dopo che, nel 2013, l’Isis ne ha assunto il controllo.
Secondo quanto riferito dai mezzi d’informazione, il 13 giugno un ragazzo rom di
16 anni che viveva in uno stabile occupato a Pierrefitte-sur-Seine (fuori Parigi) è
stato rapito, gravemente ferito e ridotto in coma da una decina di persone che lo
sospettavano di furto con scasso. La polizia ha riferito di averlo trovato privo di
sensi e gravemente picchiato, all’interno di un carrello della spesa davanti a un
supermercato. La notte prima, nella città portuale di Calais, nel nord della Francia,
un uomo di 26 anni avrebbe sparato su due migranti provenienti da Sudan ed
Eritrea. Il sudanese è stato ricoverato per le ferite riportate, mentre l’aggressore è
stato arrestato il 15 giugno.
Oltre a vivere sotto la costante minaccia di violenza discriminatoria, rom e migranti
continuano a essere sgomberati con la forza dalle autorità francesi in violazione
delle salvaguardie internazionali e nazionali.
Una comunità rom di circa 200 persone a Bobigny, vicino a Parigi, e un’altra di 400
persone a La Parette, a Marsiglia, rischiano lo sgombero. Le comunità non sono
state consultate in modo adeguato, né è stato loro offerto alcun alloggio alternativo.
Anche migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono a rischio di sgombero forzato. Il
28 maggio, le autorità francesi hanno sgomberato con la forza circa 700 migranti
e richiedenti asilo da campi di fortuna a Calais, come risposta a un’epidemia di
scabbia ma l’azione rischia di peggiorare la situazione.
14
IN BREV
IRAN
Il 17 aprile, in quello che gli attivisti iraniani hanno
chiamato il “giovedì nero”, prigionieri politici e di
coscienza della sezione 350 della prigione di Evin, a
Teheran, sono stati aggrediti, picchiati e sottoposti
a maltrattamenti e ad alcuni sono state negate cure
mediche adeguate. Pakistan
La mattina del 27 maggio, Farzana Iqbal è stata
aggredita da una decina di parenti all’esterno del
tribunale di Lahore ed è morta in seguito delle
percosse. Era incinta. La sua unica “colpa” era
stata quella di aver sposato l’uomo che amava
senza il permesso della famiglia.
Turchia
Il 13 maggio si è verificata una catastrofica esplosione
nella miniera di carbone di Soma, in cui sono morti
oltre 300 minatori e molti altri sono rimasti feriti. Ci
sono state denunce e proteste relative ai pericoli cui
sono esposti i lavoratori delle miniere.
privata del paese, a causa dei contenuti “blasfemi”
trasmessi e delle accuse lanciate contro un alto
ufficiale dell’intelligence militare.
Italia
Il 10 giugno, all’udienza preliminare sul caso di
Giuseppe Uva, fermato dalla polizia il 14 giugno
scorso, portato in caserma e poi al reparto
psichiatrico dell’ospedale di Circolo, dove morì per
arresto cardiaco, il procuratore generale ha chiesto
il proscioglimento di tutti gli indagati dall’accusa
di omicidio preterintenzionale, violenza privata,
abbandono di incapace e arresto illegale, chiedendo
il rinvio a giudizio per il solo reato di abuso di autorità
contro arrestati o detenuti.
India
La notte del 27 maggio, due ragazze dalit, di 14 e 16
anni, sono scomparse dopo che erano uscite di casa per
andare a fare i loro bisogni in un campo. La mattina
dopo, sono state trovate impiccate a un albero. Secondo
l’autopsia, erano state vittime di uno stupro di gruppo
Palestina
e poi strangolate. La polizia ha arrestato due uomini
Il 15 maggio, le forze israeliane hanno ucciso due appartenenti a una casta superiore ed è alla ricerca di Egitto
giovani e ferito altri, durante una manifestazione ulteriori sospetti.
L’11 giugno, un tribunale ha condannato a 15 anni di
fuori dal campo militare di Ofer, per commemorare
carcere il noto blogger e attivista Alaa Abdel Fattah
la “Nakba” e mostrare solidarietà a 125 palestinesi Cina
e altri 24 imputati per una manifestazione pacifica
detenuti senza accusa né processo, in sciopero della Nelle settimane precedenti al 25° anniversario della convocata a novembre per chiedere che dalla bozza di
fame da 22 giorni. L’esercito e la polizia di frontiera repressione a piazza Tiananmen, decine di attivisti Costituzione venisse rimossa la norma sui processi di
d’Israele hanno fatto uso eccessivo e letale della sono stati arrestati, posti agli arresti domiciliari o imputati civili di fronte a corti marziali. forza.
convocati per interrogatori dalla polizia solo per aver
cercato di commemorare le centinaia, se non migliaia, Israele
Russia
di manifestanti pacifici e di civili uccisi o feriti la notte Mordechai Vanunu, che ha scontato una condanna a 18
Il 21 maggio, cinque uomini sono stati condannati tra il 3 e il 4 giugno 1989.
anni per aver rivelato al Sunday Times informazioni sul
per l’omicidio di Anna Politkovskaja, la giornalista
programma nucleare israeliano, è ancora sottoposto a
investigativa assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Pakistan
restrizioni. Le autorità israeliane gli hanno impedito di
Il processo ha lasciato però domande insolute e non vi Il 6 giugno, l’organo governativo che vigila sui mezzi recarsi a Londra dal 17 al 19 giugno per prendere parte
sarà piena giustizia fino a quando non saranno portati d’informazione ha sospeso con effetto immediato la a un convegno di Amnesty International e pronunciare
in tribunale i mandanti.
licenza di trasmettere a Geo TV, la maggiore emittente un discorso al parlamento inglese.
15
DAL MOND
© RomanPankratov.ru
LA LEZIONE DI ANDREY
Non era giornalista, pur avendone tutti i requisiti, ma si era creato un ruolo
ancora più importante. La sua vocazione era accompagnare i professionisti
dell’informazione lì dove c’erano ingiustizie da denunciare e far capire al resto
del mondo: la repressione contro i più deboli, l’arroganza del potere, il dramma
della gente comune. Andrey Mironov, 60 anni, nato a Irkutsk, sul lago Baikal,
era diventato il riferimento obbligato per comprendere il mondo sovietico dopo
il Grande Crollo, per capirne le dinamiche e l’involuzione sempre più autoritaria
del nuovo regime. Ai giornalisti occidentali offriva la chiave per aprire le porte
più segrete dell’ex Impero: dalla Cecenia alla Georgia, dai giochi internazionali
della Gazprom ai depositi di armi biologiche e chimiche sepolti nelle piane gelate
della Siberia.
Andrey Mironov era un personaggio generoso, cercava di soddisfare tutte le
richieste di chi sentiva dalla sua parte, senza tirarsi mai indietro e senza misurare
troppo i rischi. È proprio questo, forse, che ha segnato il suo destino. Andrey
è morto il 24 maggio scorso in Ucraina, ucciso in un’imboscata non lontano
da Sloviansk, mentre accompagnava sulla prima linea degli insorti filorussi un
giovane fotoreporter italiano, Andrea Rocchelli, pieno di entusiasmo e di passione.
Avevo conosciuto Andrey Mironov 12 anni fa a Mosca, in uno dei miei primi viaggi
nella nuova Russia, appena dopo aver intervistato la giornalista Anna Politkvoskaja
nella redazione della Novaya Gazeta. Anna si era esposta in particolare sulla
questione cecena, denunciando i soprusi del Cremlino da una parte e dei guerriglieri
ceceni dall’altra, ai danni della popolazione civile.
16
16
di Giorgio Fornoni
Lei stessa sarebbe stata, pochi anni dopo,
nel 2006, la vittima più illustre di una
guerra dichiarata alla libertà di stampa.
Ci eravamo incontrati in albergo e
mentre parlavamo di tanti nuovi progetti
di inchiesta, Andrey continuava a
massaggiarsi il collo con aria dolorante.
Pochi giorni prima, mi confidò, aveva
subito un’aggressione da parte di agenti
del Kgb, che lo avevano bastonato
duramente lungo la strada di casa. Con
la polizia segreta Andrey aveva ormai
un’esperienza quotidiana. Ancora in
epoca socialista era stato rinchiuso in
carcere e condannato a tre anni di gulag
perché diceva “raccontavo la verità”. A
tirarlo fuori era stato un intervento diretto
di papa Woytyla, al quale aveva scritto
una lettera insieme ad altri condannati.
Mi raccontava, scherzando, che gli
agenti che lo pedinavano continuavano
a lamentarsi che li faceva correre troppo
col suo passo veloce. Andrey era anche un
uomo di cultura. Il suo riferimento ideale
era l’amico Shakarov, il grande scienziato
diventato il simbolo della battaglia per
i diritti civili nella nuova Russia degli
anni Novanta. Era stato membro attivo
del Memorial di Mosca, l’associazione
non governativa per il rispetto dei diritti
umani. Stabilimmo da allora un rapporto
diretto di amicizia, più ancora che di
collaborazione giornalistica.
Con Andrey mi sono calato nella memoria
più fosca dell’epoca dei gulag e ho
incontrato nella sua dacia a 80 chilometri
da Mosca, il testimone più importante di
quella lontana epopea, Gregori Pomeranc,
amico di Solgenitsin e di Shalamov. Con
Andrey ho scoperto a Kolzovo, in Siberia, il
centro per la produzione di armi biologiche
più importante al mondo, dove sono
stoccati 300 ceppi di virus tra i più letali:
antrace, vaiolo, Marbourg-U.
Con Andrey ho visto i cinque depositi
più segreti di micidiali armi chimiche
rimasti in Russia, a qualche centinaio
di chilometri da Mosca. Con Andrey ho
denunciato il pericolo dei reattori nucleari
abbandonati nel mare di Barents e a
Vladivostok, all’interno di sommergibili
abbandonati e ancora da smantellare.
Ricordo che da Vladivostok tornammo
insieme viaggiando a bordo della mitica
Transiberiana. Fu quella l’occasione nella
quale approfondimmo di più la nostra
amicizia. Passammo insieme in un piccolo
scompartimento sei giorni, sei notti e
quattro ore, viaggiando per migliaia di
chilometri e nove diversi fusi orari, mentre
Andrey tornava ai suoi ricordi di infanzia e
citava le letture che suo padre gli faceva
17
del Piccolo Principe e di Dersu Uzala. Fu proprio nella
taiga di Dersu Uzala che comprammo insieme diversi
vasi di miele di tiglio, dei quali andava ghiotto. Quando
passammo da Irkutsk, la sua città natale, lo sentivo
commosso, non solo per i ricordi ma anche perché
sinceramente affascinato da quella gelida bellezza.
Andrey era attento e critico nei confronti della politica
ma amava anche profondamente il suo paese e la
sua gente. Viaggiavamo nel grande inverno russo,
tra distese sterminate di foreste innevate e di laghi
ghiacciati, attraversando la taiga deserta punteggiata
di piccole capanne sperdute. “Parlano sempre della
Transiberiana e di chi è stato capace di costruirla”,
mi diceva Andrey. “Ma nessuno parla mai dei 70mila
operai che hanno lavorato per anni, distrutti dalla
fatica, e dei 15mila che sono morti, sepolti lungo i
binari che andavano tracciando”.
Con Andrey, e con suo grande stupore di fronte a tanto
sfarzo, sono entrato a Mosca nel grattacielo della
Gazprom, la roccaforte del potere energetico russo.
Con Andrey sono tornato in Cecenia, tra le macerie
della scuola di Beslan, teatro di uno dei più crudeli
massacri di quella guerra maledetta, con più di 300
piccole vittime. “Le guerre svuotano l’anima”, mi
disse allora. “Non solo quelle dei guerriglieri disposti a
tutto ma anche quelle di chi ha dato l’ordine di usare i
lanciafiamme per snidarli, incuranti della presenza di
bambini innocenti”. Andrey faceva ormai di tutto per
accontentarmi, nella mia voglia di raccontare storie
e personaggi. Anche i più negativi, come quando mi
accompagnò, a malincuore, a intervistare Ramzan
Kadirov, il terribile e temibile presidente ceceno. Con
tutt’altro spirito, pieno di affettuosa partecipazione,
mi aveva accompagnato al Memorial di Grozny
e a intervistare i tanti colleghi giornalisti russi
sopravvissuti alla brutalità della censura di regime.
E Andrey non aveva esitato a esporsi anche in prima
persona quando denunciò apertamente gli “squadroni
della morte” del regime, in una mia inchiesta per
Report sulla pena capitale. “Dicono che c’è la
moratoria”, aveva detto coraggiosamente davanti alla
mia telecamera in un’intervista a sensazione. “Ma
le esecuzioni avvengono nell’ombra, centinaia ogni
anno, per via extragiudiziale”.
Ho lavorato insieme ad Andrey Mironov, per l’ultima
volta, subito dopo l’insurrezione di piazza Maidan, a
Kiev, e la secessione della Crimea. Dopo giorni passati
tra macerie, fili spinati e ritratti dei caduti illuminati
Condividevamo
gli stessi sentimenti
sulla questione
dei diritti umani
e sul rifiuto
della guerra.
18
dalle candele e cosparsi di fiori, ci ritrovavamo in
un ristorante georgiano a bere birra e mangiare
khachapuri. Ci eravamo visti più volte anche in
Italia, a casa mia, ad Ardesio. Condividevamo gli
stessi sentimenti sulla questione dei diritti umani
e sul nostro rifiuto della guerra. Andrey, da sempre
un attivista impegnato nella causa dei diritti civili,
denunciava apertamente la posizione di Putin e il suo
doppio gioco sulla questione dell’autodeterminazione.
“Se ci credesse veramente”, mi diceva, “lo avrebbe
dimostrato anche in Cecenia o in Ossezia, non solo
sulla Crimea”. Quello che più lo turbava, comunque,
era che l’intervento militare potesse provocare nuove
vittime tra la popolazione civile.
Era con questo spirito, certamente, che Andrey aveva
deciso di accompagnare un giovane fotoreporter
italiano, Andrea Rocchelli, sulla prima linea degli
scontri tra l’esercito ucraino e gli insorti filorussi, un
ultimo azzardo che sarebbe stato fatale a entrambi.
Andrey era convinto che dietro gli insorti di Donesk
e Sloviansk ci fossero manovre destabilizzanti
dall’esterno. La loro macchina, a bordo della quale c’era
anche un fotografo francese che ha poi raccontato la
scena, era stata bersagliata da colpi di kalashnikov.
Mentre i due si lanciavano fuori e saltavano in una
buca per ripararsi, Andrey Mironov e Andrea Rocchelli
sono stati colpiti in pieno da una granata di mortaio.
“Ho capito che non basta denunciare l’ingiustizia”,
scriveva Albert Camus. “Bisogna anche dare la vita
per cambiarla”. Il mio amico e collega Andrey, questo
lo ha fatto e sentiremo in tanti la sua mancanza.
DAL
CA
DAL CAMPO
UNA MACABRA REALTÀ
di Donatella Rovera
ricercatrice di Amnesty International
Tra le migliaia di sfollati accampati
intorno alla moschea del PK12, quartiere
alla periferia nord di Bangui, la capitale
della Repubblica Centrafricana, incontro
Dairu Soba, ferito e disperato. Ha appena
perso 13 familiari, tra cui suo padre e tre
piccoli cugini, uccisi da un gruppo di “antibalaka”, le milizie cristiane che minacciano
di morte o esilio i musulmani. “Mio padre
non poteva correre a cause dei reumatismi;
l’hanno ucciso sotto l’albero davanti a
casa, dov’eravamo seduti a chiacchierare”.
Abdul Rahman Yamsa, 12 anni, ci racconta
che sua mamma, i suoi fratelli minori, sua
zia e due cugine, una di appena 18 mesi,
sono stati uccisi mentre stavano fuggendo
dal paese. “Ci hanno fatto scendere
dall’autobus… hanno ucciso mia mamma,
hanno squartato la mia sorellina in due”.
© ©Reuters/Siegfried
Modola
Reuters/Siegfried Modola
19
A Mbaiki, l’unico musulmano rimasto a fine febbraio
è Saleh Dido, il vicesindaco. “Questo è il mio paese,
sono patriota, rimango”, mi dice l’ultima volta che
ci parliamo. Due giorni dopo viene ucciso, sgozzato
per strada.
A metà gennaio, le milizie “anti-balaka” si sono
scatenate con inedita ferocia contro i musulmani,
accusati di complicità con le forze Seleka (gli
ex-ribelli musulmani che presero il controllo del
paese nel marzo 2013 fino a inizio 2014 e che
commisero gravi violazioni, soprattutto contro i
cristiani). Per impedire i massacri, a dicembre
2013, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha
autorizzato il dispiegamento di 7000 soldati
francesi e dell’Unione africana ma i peacekeepers
si muovono poco fuori dalla capitale e restano
nelle loro basi. A Boyali, Bossembelè, Bossemptelè,
Baoro e altrove, dove andiamo a investigare i
massacri, non c’è traccia di peacekeepers. Gli
unici posti di blocco che troviamo sono quelli delle
milizie “anti-balaka”, che spesso chiedono soldi e
minacciano d’impadronirsi dell’auto.
I musulmani fuggono in massa verso il Ciad e
il Camerun, stipati come sardine in convogli di
camion scortati da militari ciadiani. Chi non trova
posto nei convogli e tenta la fuga senza scorta
corre gravi rischi. All’ospedale di Bouar trovo
20
Souadatu, 12 anni, paraplegica in seguito a un
attentato contro il camion carico di musulmani in
fuga. Un’altra bambina di 11 anni, suo fratello e
sua sorella sono morti nello stesso attentato.
In poche settimane, i musulmani scompaiono
dalla capitale e dalla regione ovest. A Mbaiki,
l’unico musulmano rimasto a fine febbraio è Saleh
Dido, il vicesindaco. “Questo è il mio paese, sono
patriota, rimango”, mi dice l’ultima volta che ci
parliamo. Due giorni dopo viene ucciso, sgozzato
per strada.
A fronte dell’evidente incapacità della comunità
internazionale di proteggere i civili, coraggiosi
preti e suore rischiano la vita per aiutare i pochi
musulmani rimasti e alcune Ong forniscono
assistenza medica e aiuti umanitari.
Il conflitto non fa quasi piu notizia. La scoperta di
cadaveri, spesso mutilati e bruciati, fa ormai parte
di una macabra realtà quotidiana. A settembre,
una missione di pace dell’Onu sostituirà le attuali
missioni di peacekeepers, con la speranza che
non sia troppo poco e troppo tardi.
IN ITALI
Gianni Rufini
Direttore generale
di Amnesty International Italia
AZIONISTI CRITICI
È
stato strano per me sentirmi “azionista” dell’Eni, forte dell’unica
azione della compagnia che Amnesty International ha acquistato
per acquisire il diritto a parlare nella sua assemblea generale. Non
mi sono mai sentito parte di quella “comunità” di cittadini che investono in
borsa, per me il successo di un’azienda è importante solo nella misura in cui
si riversa con effetti benefici sulla società e sui cittadini. Fortunatamente,
essere un “azionista critico” non mi ha costretto a ripensare il mio
atteggiamento, anzi è proprio l’impatto dell’Eni sulle comunità del Delta del
Niger, sul loro benessere e sui loro diritti, il motivo per cui siamo azionisti. È
una battaglia che stiamo conducendo da anni, con qualche buon risultato.
Di recente, cedendo alle nostre richieste, l’Eni ha finalmente cominciato a
pubblicare dati sull’impatto delle perdite dei suoi oleodotti.
Queste sono in parte dovute alle condizioni d’impianti ormai vecchi e in
parte a furti di petrolio organizzati da gruppi criminali, che alimentano un
mercato parallelo, rubando petrolio alle compagnie. Questo mercato nero
rappresenta un problema massiccio per la gente del Delta: l’inquinamento
che ne deriva rende impossibile pesca e agricoltura e causa un degrado
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grave delle condizioni di vita. Inoltre, la presenza di organizzazioni criminali
richiama l’intervento delle forze di sicurezza nigeriane, spesso accusate
di brutalità e di gravi violazioni dei diritti umani. Gli abitanti del Delta si
ritrovano presi in una tripla morsa: il crimine organizzato, le forze armate
nigeriane e l’inquinamento devastante. Una situazione che richiede una
costante azione da parte nostra ma anche un’assunzione di responsabilità
da parte delle compagnie petrolifere. Sotto la nostra pressione, l’Eni ha
fatto alcuni passi significativi ma c’è molto di più da fare. Ci saranno altre
assemblee in cui chiederemo conto alla governance della compagnia del suo
operato e continueremo a esigere trasparenza e diritti.
Per continuare a supportare
la battaglia della comunità di Bodo
abbiamo bisogno anche di te!
SOSTIENICI!
IN ITALI
STOP ALLA TORTURA
IN ITALIA!
22
22
Amnesty International ha svolto ricerche
su 142 paesi giungendo alla conclusione
che nel 2014 la tortura viene praticata
ancora in 79 paesi. Il 13 maggio abbiamo
lanciato la campagna globale “Stop
alla tortura” per sollecitare i governi
a introdurre e applicare garanzie di
protezione per prevenire e punire la
tortura.
Oltre agli obiettivi della campagna a
livello internazionale, concentrati su
Messico, Uzbekistan, Nigeria, Marocco e
Filippine, in Italia, un ulteriore focus della
campagna sarà l’introduzione del reato di
tortura nel codice penale del nostro paese.
A ormai 13 anni dal G8 di Genova, molti
dei responsabili di gravi violazioni dei
diritti umani sono sfuggiti alla giustizia.
Nel frattempo, Amnesty International
è venuta a conoscenza di episodi di
tortura e altre forme di maltrattamento
da parte delle forze di polizia, personale
sanitario e penitenziario. Le segnalazioni
evidenziano come le persone vengano
torturate e maltrattate al momento
dell’arresto, quando vengono trasferite,
mentre sono in stato di fermo in attesa
di giudizio e anche durante la detenzione.
Molte volte questi crimini rimangono
impuniti, anche perché manca ancora una legge
che preveda il reato di tortura nel codice penale,
che Amnesty Internatonal chiede da 25 anni. Al
momento, c’è un disegno di legge già approvato in
senato e attualmente in esame alla camera, che
dilaterebbe i tempi di prescrizione e assicurerebbe
pene adeguate per i responsabili.
In occasione della Giornata internazionale contro
dila Paola
tortura,Brasile
il 26 giugno, le attiviste e gli attivisti
sono scesi in piazza in 20 città italiane, da Roma
a Milano, da Ancona a Palermo, nell’ambito di una
mobilitazione globale di tutte le Sezioni di Amnesty
International nel mondo. La mobilitazione globale
aveva lo scopo di esprimere solidarietà alle vittime
di tortura e alle loro famiglie e di attirare l’attenzione
sul fatto che le persone vengono torturate spesso
in maniera tragicamente banale, con oggetti che
per noi sono di uso quotidiano. Gli attivisti hanno
organizzato brevi rappresentazioni e flashmob,
per indurre una riflessione su come un oggetto
apparentemente innocuo possa diventare un vero e
proprio strumento di tortura, su come la tortura sia
molto più vicina di quanto si pensi.
La mobilitazione di Roma è stata preceduta da una
tavola rotonda organizzata da Amnesty International,
Antigone e Cittadinanzattiva - Giustizia per i diritti,
un’iniziativa pensata per promuovere un confronto
fra la società civile e le istituzioni sul tema della
tortura, per dare un contributo alla discussione in
corso sull’introduzione del reato di tortura nel codice
penale italiano.
23
23
IN ITALI
PERCHÉ IL F2F?
Ci sono persone che per mille motivi non sono mai
inciampate in Amnesty International. Altri invece ci
conoscono superficialmente: sanno che facciamo
qualcosa di buono, riconoscono la candela ma non
sanno in cosa consiste il nostro lavoro. Noi del Face
to face cerchiamo proprio queste persone, nel luogo
democratico per eccellenza: la strada. Lì possiamo
incontrare il professore di diritto che non ha mai
riflettuto sull’importanza di diventare socio e il
giovane che non sa ancora che c’è chi combatte
per quelle ingiustizie che lo fanno infuriare, c’è la
signora che ogni anno fa sostanziose donazioni ma
che non sa quanto sostenerci in modo continuativo
sia più efficace ed efficiente. E c’è anche chi ha
una visione del mondo molto diversa dalla nostra e
chissà che, accolto da un sorriso, non abbia voglia
di approfondire le nostre argomentazioni.
L’ONDA PRIDE 2014
Il primo appuntamento è stato il 7 giugno a Roma,
per festeggiare i 20 anni dal primo Pride italiano.
E poi a seguire Torino, Milano, Venezia, Bologna,
Alghero, Napoli, Lecce, Catania, Siracusa, Palermo,
Perugia, per chiudere il 19 luglio a Reggio Calabria.
Ancora una volta le attiviste e gli attivisti di Amnesty
International sono al fianco della comunità Lgbti
contro ogni forma di discriminazione a causa
dell’orientamento sessuale e/o dell’identità di
genere, per ricordare le violazioni dei diritti umani
nei confronti delle persone Lgbti e i paesi in cui
l’omosessualità è addirittura un reato.
MIGRANT HUMAN RIGHTS TOUR
Dal 11 al 27 luglio, Amnesty Italia organizza il suo primo
tour per i diritti umani dei migranti e richiedenti asilo,
nell’ambito della campagna SOS Europa. Iniziamo a Sofia,
in Bulgaria, dove si terrà una settimana di campeggio per i
diritti umani dei migranti che coinvolgerà diverse attiviste
e attivisti provenienti da tutta Europa. Il tour proseguirà
poi in Italia, dove sono previsti incontri istituzionali e
attività pubbliche, tra cui la partecipazione al festival
Sicilia Ambiente a San Vito lo Capo e il campeggio per i
diritti umani di Lampedusa. Al tour prenderanno parte due
attivisti migranti che racconteranno le loro esperienze e
promuoveremo l’appello che chiede ai governi europei di
mettere le persone prima delle frontiere.
24
AMNESTY INCONTRA
IL MINISTRO DEGLI ESTERI
Il 29 aprile, una delegazione di Amnesty International
Italia, guidata dal presidente Antonio Marchesi e dal
direttore Gianni Rufini, ha incontrato il ministro degli
Affari esteri, Federica Mogherini. Nel corso dell’incontro,
Amnesty International ha manifestato apprezzamento
per la visione del ministro sulla prevenzione dei
conflitti, sulla tutela e promozione dei diritti umani e
sull’attuazione di standard minimi. Il ministro ha poi
ascoltato le raccomandazioni dell’associazione relative
alla gestione dei flussi migratori da parte dell’Ue. Infine,
è stata espressa preoccupazione comune per la crisi in
corso in Ucraina e per il progressivo deterioramento della
situazione dei diritti umani in Egitto e in Libia.
:DIRITTI
CARTELLINO GIALLO PER IL BRASILE
Il 5 giugno, l’Ambasciata brasiliana in Italia ha rifiutato di
ricevere le oltre 6000 firme raccolte da Amnesty International
Italia per chiedere il rispetto del diritto di manifestazione
pacifica durante i Mondiali di calcio.
Lo stesso è accaduto a Brasilia, Madrid e altre città europee.
Negli ultimi 12 mesi le forze di polizia del Brasile hanno
reagito con estrema durezza alle proteste di massa contro
l’aumento dei prezzi, la carenza di servizi pubblici e i costi
elevati sostenuti per l’organizzazione dei Mondiali.
BRING BACK OUR GIRLS
Il 15 maggio, una delegazione di Amnesty International
Italia, guidata dal direttore Gianni Rufini, ha incontrato S.E.
Eric Tonye Aworabhi, ambasciatore della Nigeria in Italia e
ha consegnato le 9200 firme dell’appello “Bring back our
girls”, raccomandando al governo nigeriano di garantire
una soluzione definitiva accettabile e sostenibile alla
vicenda del rapimento delle oltre 200 ragazze da parte di
Boko haram.
Nel corso dell’incontro, Gianni Rufini ha ricordato le richieste
che Amnesty International rivolge da tempo a Boko haram
per porre fine agli attacchi contro la popolazione civile e
liberare immediatamente le ragazze.
25
È dedicato alle parole il nuovo numero di
:Diritti, il fascicolo illustrato di Amnesty
International rivolto ai giovani lettori dagli
8 ai 12 anni. Tutti abbiamo il diritto di
esprimerci liberamente ma siamo anche
responsabili di cosa diciamo e come
comunichiamo! 24 pagine a colori con
fumetti, notizie e giochi, per conoscere i
diritti umani divertendosi. Scopri come
ricevere a casa :Diritti su amnestykids.it
© Archivio privato
APPELL
RUSSIA
MYANMAR
LIBIA
Rilasciare i manifestanti di Bolotnaya
Tun Aung deve essere rilasciato
Migranti e rifugiati a rischio
Il 6 maggio 2012, la polizia disperse una
manifestazione autorizzata a piazza Bolotnaya.
Sono state arrestate tra le 400 e le 650 persone,
molte in seguito accusate di partecipazione a
disordini di massa e/o violenza contro funzionari
statali. Amnesty International ritiene che 10
degli imputati siano prigionieri di coscienza.
Tre coimputati sono stati rilasciati grazie
all’amnistia di dicembre 2013, altri sette sono
stati riconosciuti colpevoli. Nessun funzionario
di polizia ha affrontato accuse per uso eccessivo
della forza, nonostante le denunce e numerosi
casi ben documentati.
Chiedi alle autorità russe di rilasciare
immediatamente e incondizionatamente
tutti i prigionieri di coscienza a causa degli
episodi di Bolotnaya!
Tun Aung è stato arrestato l’11 giugno 2012,
durante alcuni scontri a Maungdaw, stato di
Rakhine, ed è stato tenuto in isolamento per
diversi mesi. Sebbene abbia cercato di sedare
la folla, Tun Aung è stato condannato per
incitamento e partecipazione ai disordini a
11 anni di reclusione, condanna aumentata a
17 anni dopo il ricorso della procura nel 2013.
Attualmente è detenuto nel carcere di Insein, a
Yangon. Tun Aung è un prigioniero di coscienza,
preso di mira perché leader della comunità
musulmana. La promessa del presidente Thein
Sein che non ci sarebbero più stati prigionieri
di coscienza in Myanmar entro la fine del 2013
non è stata rispettata.
Chiedi alle autorità birmane di rilasciare
Tun Aung e tutti i prigionieri di coscienza
immediatamente e incondizionatamente!
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Un gran numero di persone provenienti
dall’Africa Subsahariana che arrivano in Libia
vivono in condizioni difficili e sono a rischio di
sfruttamento, detenzione arbitraria, percosse,
tortura e altri maltrattamenti. Nonostante questi
rischi, persone dal Burkina Faso, Camerun,
Ciad, Eritrea, Etiopia, Ghana, Niger, Nigeria,
Somalia e Sudan continuano ad andare in Libia
in cerca di migliori condizioni economiche o in
fuga da conflitti. Alcuni tentano di raggiungere
le coste europee attraverso il Mediterraneo,
molti si perdono lungo la strada, intercettati
da guardie costiere libiche o vittime delle
milizie armate. Subiscono inoltre razzismo in
quanto sono spesso visti come fonte di crimini
e malattie.
Chiedi al governo libico di proteggere i
migranti stranieri da ogni forma di violenza,
maltrattamento e abuso!
INTERVIST
Porpora Marcasciano
ESSERE TRANSESSUALI
IN ITALIA
di Samanta Paladino
Porpora Marcasciano, presidente del Movimento
identità transessuale per i diritti delle persone
transessuali, travestite e transgender (Mit), ha
partecipato all’Assemblea generale di Amnesty
International Italia, che si è tenuta ad aprile a Bari.
Quali sono le attività del Mit e come lavora?
Il Mit offre una serie di servizi legati ai bisogni e alle problematiche delle
persone transessuali. Abbiamo cominciato nella sede che il comune
di Bologna ci ha concesso nel 1994. Il servizio più importante è un
consultorio Asl per la salute delle persone transessuali, che ha in carico
900 utenti. Abbiamo due psicologhe e un endocrinologo che seguono le
persone transessuali, sia per il cambio di sesso sia per il loro percorso di
vita. C’è lo sportello Cgil che si occupa di tutto ciò che riguarda il lavoro,
i diritti e le tutele in generale. Poi c’è il progetto del comune di Bologna e
della regione Emilia Romagna “Unità di strada per la riduzione del danno
e del rischio nel mondo della prostituzione”, che viene gestito dal Mit, e
che riguarda la sicurezza e i diritti delle persone che si prostituiscono in
strada e ora anche in appartamento. Abbiamo poi avuto dal comune in
gestione degli alloggi che usiamo nei casi di emergenza abitativa per le
persone trans cacciate da casa, in difficoltà improvvisa. C’è poi il centro
di documentazione, l’ufficio legale e il festival di cinema trans, arrivato
alla settima edizione.
Europride, Roma 2011
© Beatrice Lencioni
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Come vive una persona transgender in Italia?
Una persona transessuale o transgender in Italia
non vive esattamente bene. Io cito sempre un
esempio: vive come un esquimese in Amazzonia. Il
contesto è avverso, le famiglie, il mondo del lavoro,
la scuola e così via. Nel paese in genere c’è stata
una regressione culturale molto forte i cui effetti si
riscontrano in termini di esclusione, aggressività
e violenza, su cui l’Italia ha il primato in Europa.
Tanto che è stata richiamata dalle istituzioni
europee e dall’Onu per l’alto livello di violenza nei
confronti delle persone trans. Le persone trans
hanno problemi di accesso al lavoro, alle cure,
perché i centri specializzati non sono in tutto il
territorio, di accesso all’affettività e problemi seri
di violenza. Le persone trans sono visibili e questo
fa pagare loro un prezzo altissimo.
Non mancano ovviamente esempi positivi, grazie
anche al lavoro delle associazioni. Qualcosa è
cambiato nella qualità della vita ma ancora siamo
lontani dall’obiettivo.
Qual è la situazione a livello legislativo?
L’Italia aspetta da tanto una legge contro la
violenza transfobica. Ne è stata presentata una,
che per noi ha grossi limiti. In Italia in realtà c’è
stata una primissima legge, la 164, che consente
il cambiamento di sesso e che risale addirittura
al 1982. Ma poi siamo rimasti fermi lì. Ora
andrebbe adeguata. Il senatore Lo Giudice ha
presentato una proposta di legge per integrare la
164 al cambiamento dei tempi e delle esigenze.
La questione della violenza e dell’inserimento
lavorativo non sono state affrontate. Uno dei punti
su cui stiamo facendo una campagna è far in modo
che le persone possano cambiare nome in tribunale
per i documenti, senza dover affrontare l’operazione
per il cambio di sesso.
speculano tantissime persone. Anche il tema dello
sfruttamento e della tratta sono più legati al tema
delle migrazioni che alla prostituzione in sé. È una
materia eticamente sensibile, scivolosa, specie
per i politici. Le ricette sono difficili da trovare,
specialmente in un paese come l’Italia dove manca
un dialogo serio e laico su questo tema.
Secondo te depenzalizzare l’attività dei lavoratori
del sesso è la strada giusta per tutelare i loro diritti?
Depenalizzare presuppone prima riconoscere
la prostituzione. Intanto andrebbe riconosciuta
come lavoro, con diritti e doveri. Io credo che la
prostituzione per molte persone che la praticano
sia un mezzo ma non un fine. Il punto è tutelare
i diritti e la dignità di queste persone che
vivono l’insicurezza nei luoghi dove praticano la
prostituzione e che spesso vengono trattati dalle
forze di polizia come cittadini di serie b, non come
persone portatrici di diritti. Oggi la prostituzione è
praticata in gran parte da migranti, che fuggono da
condizioni di miseria, guerre e persecuzioni, per cui
si dovrebbe ragionare su un problema più grande,
quello dell’immigrazione clandestina, sulla quale
Voi siete a conoscenza di denunce riguardo alla
condotta delle forze di polizia nei confronti delle
persone trans?
Noi siamo a conoscenza di diversi interventi
scorretti da parte delle forze di polizia. Difficilmente
vengono denunciati perché spesso le vittime sono
socialmente fragili, spesso migranti non in regola.
Noi come associazione cerchiamo d’intervenire
sulla tutela, più che sull’accusa dei colpevoli. Su
invito dell’Europa si è creato anche un osservatorio
su questo tema, l’Oscad. Quello che occorre fare è
formare le forze di polizia per evitare questi episodi.
Io stessa in passato ho avuto esperienze di questo
tipo, dal controllo di documenti a situazioni più o
meno aggressive.
L’ASSEMBLEA GENERALE DI AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA
Sono stati giorni densi di emozioni e condivisioni. Fondamentale è stata la presenza di alcuni ospiti,
testimoni e vittime di violazioni: Yvan Sagnet, che nel 2011 ha avviato le proteste contro il caporalato,
Lorenzo Guadagnucci, vittima di violenza durante il G8, Porpora Marcasciano, presidente del Mit.
La città di Bari è stata coinvolta con una magnifica mobilitazione in piazza, con il contributo dei gruppi
giovani. Ora bisogna trasformare l’entusiasmo in azioni concrete per la difesa dei diritti umani.
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INTERVIST
Francesco e Max Gazzè
“QUELLO CHE LA MUSICA PUÒ FARE”
a cura di Beatrice Gnassi
Francesco e Max Gazzè sono i vincitori
del Premio Amnesty 2014, con la canzone
“Atto di forza”, “un contributo importante
alla conoscenza e alla sensibilizzazione su
un problema gravissimo: la violenza contro
le donne”. Il premio verrà consegnato sul
palco di Rosolina Mare (Rovigo) domenica
20 luglio, nel corso della serata finale della
XVII edizione di Voci per la libertà - Una canzone
per Amnesty, festival che inizierà il 17 luglio
e proporrà anche il concorso emergenti.
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29
Che vi siete detti quando avete saputo di aver vinto
il Premio Amnesty?
FG È stata una bella notizia, ricordi, mi hai chiamato?
MG Sì, eravamo molto contenti. Ero già contento che la
canzone fosse stata inserita nelle nomination, quando
poi ho saputo che aveva vinto è stata una grande
soddisfazione. È un premio importante perché tu ami
in particolare una canzone e poi vedere che viene
capita, che viene apprezzata è importante.
Come è nata “Atto di forza”? Perchè scrivere una
canzone sulla violenza contro le donne?
FG La canzone è nata prima come una poesia. Un
testo che io avevo scritto. E anche la musica esisteva
già, Max l’aveva già composta.
MG Sì, poi abbiamo lavorato insieme per unire parole
e musica, che non era una cosa facile. Ma un grande
pregio di Francesco è che le sue parole hanno una
sonorità particolare.
FG L’idea di scrivere di violenza sulle donne è nata
dalle continue notizie che arrivano dai giornali, dai
telegiornali, come se ormai fosse un fatto normale che
ogni tanto qualcuno impazzisce e compie questi atti.
MG Forse prima se ne parlava meno ma, anche se
è importante che se ne parli, il rischio è che queste
notizie si scordino velocemente, visto che siamo
bombardati da mille informazioni. Volevamo invece
ricordare e far ricordare cosa significa una violenza
sessuale.
MG Quello che dico sempre nei concerti è che questa
canzone non racconta la violenza ma è un tentativo
di descrivere come si può sentire una vittima di un
atto del genere. Solo un tentativo perchè è impossibile
descriverlo a parole, soprattutto per noi uomini.
Volevamo, come sempre, raccontare l’animo umano.
FG L’intenzione era quella di creare un contesto di
emozioni attraverso le immagini, perchè non volevo
entrare nei dettagli della violenza ma descrivere, per
quello che è possibile, la sensazione, lo stato d’animo
di chi subisce violenza.
Quello del “momento di follia” è uno degli argomenti
spesso utilizzati per “giustificare” la violenza sulle
donne. In realtà non si tratta di sporadici momenti
di pazzia ma di un problema sociale complesso
e dilagante, da affrontare a livello culturale e
legislativo. Da un punto di vista maschile come
percepite tutto questo?
FG Sicuramente quello che occorre fare è lavorare
sull’educazione, questo è un punto fondamentale per
cercare di fare in modo che poi non si cada in questi
abissi.
MG Credo anche che la pornografia sia un grosso
problema. Non si parla più di erotismo o sensualità
ma proprio di pornografia che viene proposta ovunque
ai ragazzi, che crescono con l’idea di una donna come
di un oggetto, non di una persona. Bisogna difenderli,
per quanto possibile, da tutto questo.
Per citare una vostra celebre canzone, vorrei
chiedervi cosa “la musica può fare”? Quale può
essere il ruolo della musica quando affronta temi
che riguardano i diritti umani?
MG Vincere il Premio Amnesty! A parte scherzi, premi
come questi sono importanti perchè permettono di
parlare di questi temi attraverso la musica.
FG “Quello che la musica può fare” è creare uno spazio
di riflessione, stimolare un modo diverso di pensare a
una questione come quella della violenza sulle donne.
C’è qualcosa che volete dire alle attiviste e agli
attivisti di Amnesty International che leggeranno
questa intervista?
MG Il vostro lavoro è importante. Amnesty International
è un’organizzazione ormai consolidata. Io da sempre
la sostengo e collaboro come posso. Il vostro lavoro
è socialmente utilissimo. Ricordo i grandi concerti
fatti da Amnesty negli anni 80, grazie ai quali si fece
conoscere da tanta gente. Sul tema della violenza
sulle donne, come su tanti altri temi, Amnesty non ha
mai mollato la presa.
FG Credo che sia un lavoro importantissimo soprattutto
per i giovani, per dare loro un obiettivo in cui credere
e in cui impegnarsi.
La canzone procede per immagini, la natura intorno
che incombe come uno sfondo minaccioso e poi
dei flash sui protagonisti, i 20 anni, il tradimento,
la vena, la nudità. Non era facile raccontare un atto
così brutale in un modo così delicato…
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Bouazizi, il giovane venditore di frutta
tunisino che morì dopo essersi dato fuoco in
segno di protesta, gesto che secondo molti
ha dato il via alle rivolte. La storia della
siriana Fadwa Suleiman, soprannominata
“la passionaria di Homs”, quella del
pacifista italiano Vittorio Arrigoni, ucciso a
Gaza. Una graphic novel che rappresenta
un percorso durante il quale si spiega al
lettore che cosa è davvero successo nei
paesi in questione e soprattutto perché la
gente ha deciso di ribellarsi dopo anni di
repressione. Un punto di partenza che vuole
stimolare il lettore a una più attenta analisi
di quella che è stata appunto definita la
“primavera araba”.
La primavera araba
Jean Pierre Filiu, Cyrille Pomes
Bao publishing, aprile 2014,
€ 16,00
TORTURA
Egitto, Libia, Marocco, Regno del
Bahrein, Yemen, Siria. Per queste
nazioni il 2011 è un anno fondamentale:
uomini e donne di tutte le età danno
il via a un’ondata rivoluzionaria
che rovescia uno alla volta regimi
dittatoriali fino a quel momento
ritenuti inattaccabili. Sfidando la
repressione milioni di persone hanno
invaso le strade per chiedere a gran
voce libertà, giustizia, rispetto e
dignità. In “La primavera araba” lo
storico Jean Pierre Filiu e l’acclamato
autore Cyrille Pomes raccontano,
attraverso un volume riccamente
illustrato, gli eventi rivoluzionari che
hanno visto protagonisti alcuni paesi
arabi e soprattutto i loro cittadini.
È proprio narrando le storie di
personaggi di primo piano che i due
autori illustrano gli eventi. Tra le varie
storie ritroviamo quella di Mohamed
MIGRANTI
CONFLITTI
DA NON PERDER
LA PRIMAVERA
ARABA
IO STO CON LA SPOSA
UNA SOLA STELLA NEL FIRMAMENTO
Chi mai chiederebbe i documenti a una
sposa? È da questa domanda che nasce il
progetto di questo documentario, in cui i tre
registi aiutano cinque siriani e palestinesi,
sbarcati a Lampedusa per sfuggire alla
guerra, ad arrivare da Milano a Stoccolma,
inscenando un corteo nunziale. Così
mascherati, attraverseranno mezza Europa,
in un viaggio di quattro giorni e 3000
chilometri. Un viaggio carico di emozioni
che, oltre a raccontare le storie e i sogni
dei cinque palestinesi e siriani in fuga e
dei loro speciali contrabbandieri, mostra
un’Europa sconosciuta.
Federico Aldrovandi è stato ucciso il 25
settembre del 2005, durante un controllo
di polizia. Aveva 18 anni. Patrizia Moretti,
sua madre (che abbiamo intervistato
nel precedente numero di questa rivista)
racconta tutta la storia, dalla scoperta
della morte di suo figlio fino alla sentenza
che ha condannato i quattro agenti
responsabili. Un percorso lungo e difficile
verso la giustizia. Un libro in cui Patrizia
Moretti restituisce a suo figlio la dignità di
una memoria veritiera. Un lutto privato che
è dovuto diventare pubblico per rompere
il silenzio e fermare l’insabbiamento delle
responsabilità individuali.
Io sto con la sposa
Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande,
Khaled Soliman Al Nassiry
Italia, 2014,
prenotabile su www.indiegogo.com
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Una sola stella nel firmamento
Patrizia Moretti
Il Saggiatore, aprile 2014,
€ 14,50
PENA DI MORTE
DONNE
TORTURA
RAGAZZI
DA NON PERDERE
DEI DELITTI E DELLE PENE
IO CI SONO
GRIDAVANO E PIANGEVANO
NON MI CHIAMO VALENTINA
Questa nuova edizione del testo classico
dell’Illuminismo italiano esce, con il
patrocinio di Amnesty International Italia,
a 250 anni dalla prima pubblicazione. Dei
delitti e delle pene è un’analisi lucida e
articolata del rapporto tra stato e cittadino.
La riflessione centrale ruota attorno alla
tortura e alla pena di morte, considerate
lesive della dignità umana e inefficaci sotto
il profilo punitivo. Il testo è preceduto da
un saggio di Antonio Marchesi, giurista e
presidente di Amnesty Italia, che analizza
il testo alla luce dello sviluppo che le
questioni della pena di morte e della tortura
hanno avuto fino ai nostri giorni.
Lucia, 35 anni, avvocatessa di Pesaro, è
una delle tante vittime della violenza sulle
donne. Mentre torna a casa due albanesi
assoldati dall’ex fidanzato, avvocato come
lei, ora in carcere con l’accusa di lesioni
gravissime e tentato omicidio, la sfregiano
con l’acido. Da allora, comincia per Lucia un
lungo calvario. Ha subito nove interventi ma
ha trovato la forza di reagire. In questo libro
racconta la sua esperienza ma soprattutto
vuole mostrare a tutte le donne che, persino
dalla più devastante delle violenze, ci si
può riprendere, addirittura crescendo nella
consapevolezza personale e ritrovando se
stesse.
Nei giorni del G8, nella caserma di Bolzaneto,
centinaia di persone furono sequestrate
e sottoposte a violenze e umiliazioni da
parte delle forze di polizia: “Gridavano e
piangevano. Quando sono passati davanti
alla cella si vedeva su di loro il sangue
fresco”. Com’è potuto accadere? Roberto
Settembre, giudice di corte d’appello nel
processo per Bolzaneto, ripercorre questa
terribile vicenda. Una storia emblematica
d’ingiustizia, un invito fermo a introdurre in
Italia il reato di tortura, perchè “Gran parte
di quei reati efferati non sarebbero caduti
in prescrizione se li avessimo chiamati con
il loro nome: torture”.
Un albo illustrato bello e coloratissimo
che racconta una giornata di Valentina,
bambina piena di sogni e immaginazione,
che ci farà scoprire la vita di donne
incredibili che, con determinazione,
coraggio e amore, hanno realizzato grandi
imprese, riuscendo a cambiare il mondo e
la storia.
Per capire l’importanza di questi valori e
per iniziare a immaginarsi nel futuro come
donne libere, felici e realizzate. In fondo al
libro, le note biografiche delle donne citate
e i riferimenti per conoscere la vita di altre
donne straordinarie.
Dei delitti e delle pene
Cesare Beccaria
Introduzione Antonio Marchesi
Castelvecchi, giugno 2014,
€ 12,00
Io ci sono. La mia storia di non amore
Giusi Fasano, Lucia Annibali
Rizzoli, aprile 2014,
€ 15,00
Gridavano e piangevano
Roberto Settembre
Einaudi, aprile 2014,
€ 18,00
32
Non mi chiamo Valentina
Testi di Jennifer Fosberry
illustrazioni di Mike Litwin
Valentina Edizioni, marzo 2012,
€ 11,90
Età di lettura: 3 – 7 anni
MIGRANTI
PACE
PENA DI MORTE
DONNE
DA NON PERDERE
TERRA DI TRANSITO
DANZARE TRA LE FAUCI DEL DRAGO
UN ERRORE DI GIOVENTÙ
NOI DONNE DI TEHERAN
Rahell, rifugiato bambino dall’Iraq in Siria,
è costretto ad abbandonare anche questa
terra e senza visti né passaporto sbarca
in Italia, per raggiungere la Svezia. Da lì
però ogni tentativo di espatrio si trasforma
in un’espulsione nel nostro paese, che
per legge detiene l’“appartenenza”
della pratica di Rahell. Da qui nasce
un’indagine, che mostra il paradosso di
una legge iniqua che considera numeri e
pratiche ma non le esigenze e il vissuto
delle persone. E le tiene bloccate in un
paese che non vuole accoglierli e che
loro non vogliono. Il film ha ottenuto il
patrocinio di Amnesty International Italia.
Il libro presenta alcune delle esperienze
contemporanee più significative di teatro di
pace: “Hidden Theatre” di Annet Henneman;
“The Freedom Theatre” di Juliano Mer Khamis;
il teatro “Theandric” di Maria Virginia Siriu; il
teatro dell’oppresso di Augusto Boal. Il teatro
può aiutare le persone coinvolte in conflitti
“intrattabili” o di lunga durata a guardare
il mondo con altri occhi, a ridurre l’ansia e
la paura, a guarire la memoria traumatica
della guerra, a rigenerare il corpo alienato
dall’oppressione, dall’abuso, dalla violenza,
ad avviare percorsi di riconciliazione e di
pace.
Una vicenda personale, quella di Futura
e Patrick, in attesa di un bambino, si
intreccia con la storia di un condannato a
morte, con cui la coppia da anni intrattiene
un rapporto epistolare. L’esecuzione di
Luis, detenuto in Alabama per un omicidio
commesso quando aveva solo 15 anni, è
fissata proprio il giorno del termine della
gravidanza di Futura. Una vicenda umana
complessa in cui convergono solidarietà,
pregiudizi da vincere e scelte personali.
Il libro racconta la pena di morte, in tutta
la sua crudeltà, con il dolore che colpisce
non solo i condannati ma anche familiari e
amici.
Un racconto in prima persona, vissuto sulla
pelle da una voce unica per profondità,
professionalità e capacità narrativa. Farian
Sabahi, scrittrice, giornalista e docente
universitaria, è nella capitale alla vigilia di
un voto cruciale e racconta le donne iraniane,
si racconta. Donne protagoniste, che vogliono
essere fedeli a se stesse ma sono ancora
strumentalizzate come esempi di libertà
dalla propaganda di regime. Un testo che sa
parlare con ironia di tempi complessi. Il libro
contiene un cd con un reading animato dai
versi dei grandi poeti persiani.
Terra di transito
Paolo Martino
prodotto da associazione A Buon Diritto e
Istituto Luce-Cinecittà / Italia, 2014
Danzare tra le fauci del drago
Aristide Donadio
Centro Gandhi Edizioni, dicembre 2013,
€ 16,00
Un errore di gioventù
Elena Gennaro Santoro
0111 Edizioni, febbraio 2014,
€ 15,70
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Noi donne di Teheran
Sabahi S. Farian
Jouvence, marzo 2014,
€ 12,00
Socio/a sostenitore/trice speciale € 75,00
Socio/a sostenitore/trice € 50,00
Socio/a ordinario/a € 35,00
Socio/a junior (da 14 a 18 anni) € 15,00
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Coordinamento editoriale: Beatrice Gnassi
Hanno collaborato: Fernando Chironda, Flavia Citton, Francesca Corbo,
Tina Marinari, Samanta Paladino, Laura Petruccioli, Laura Renzi,
Elena Santiemma, Virginia Solazzo.
Progetto Grafico: Zowart - Roma
Questo numero è stato chiuso a luglio 2014
Aut. Trib. Roma n. 00296/96 dell’11/06/1996.
Iscrizione al R.O.C. n. 21913 del 22/02/2012.
Comitato Direttivo: Antonio Marchesi (Presidente),
Pasquale Quitadamo (Tesoriera Nazionale), Egidio Grande,
Cecilia Nava, Paolo Pignocchi, Paolo Pobbiati,
Gabriella “Ela” Rotoli, Ammar Kharrat, Annalisa Zanuttini.
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