La metropoli moderna, tra fascinazione ed incubo
La grande città come campo di osservazione
Flâneur :
Questo termine, che risulta di immediata ed intuitiva
comprensione per un francese, era utilizzato già nel XIX secolo per
indicare una persona che trascorre il tempo passeggiando in città,
guardando le vetrine senza fare acquisti o osservando la gente. Il termine
lo si può trovare ad es. nell’E
Enciclopedia Larousse dell’Ottocento, dove
il flâneur viene identificato con un perfetto perdigiorno e se ne riferisce
l’atteggiamento agli spazi dilatati della metropoli. Per quanto riguarda la
lingua italiana, si può cogliere una corrispondenza tra la parola flâneur e
l’espressione gergale “ffare flanella”, la quale significa più o meno
bighellonare, passare il tempo barcamenandosi, senza concludere nulla.
L’immagine tradizionale del flâneur è quella di un uomo ben vestito,
presumibilmente ricco ed in possesso di una buona cultura, che si può
appunto permettere il lusso di andarsene a curiosare in giro (in cerca di
spettacoli interessanti o spunti di riflessione che solo lui sa cogliere)
essendo libero da impegni di lavoro. Un volto anonimo nella moltitudine
che osserva tutto senza rendersi a sua volta oggetto di osservazione. Lord
George Brummel (1778 – 1840), che rappresenta il prototipo del dandy
(per certi aspetti il corrispettivo britannico del flâneur) soleva dire che un
uomo è davvero elegante se riesce ad attraversare la città di Londra, da
un capo all’altro, senza farsi assolutamente notare.
L’Uomo della Folla: The Man of the Crowd è un racconto breve di Edgar A. Poe, pubblicato nel
1840, il cui narratore–protagonista è un uomo che, seduto in un caffè nel centro di Londra, si diletta
ad osservare con curiosità le persone che passano sul marciapiede di fronte, catalogandole in base a
certi elementi del loro contegno che egli riesce ad interpretare con facilità. Ad un certo punto, il suo
sguardo è attratto da un uomo, anziano e ben
vestito ma con l’abito alquanto sdrucito e sporco,
il cui aspetto suggerisce grande forza d’animo,
ma sembra celare insieme qualche inquietante e
cupo segreto. Incapace, stavolta, di penetrare il
carattere del personaggio, egli cerca di scoprire
qualcosa sul suo conto seguendolo per ore ed ore;
ma il tentativo si risolve in un fallimento. La
conclusione del narratore è che lo sconosciuto
non è altri che “l’uomo della folla”, che “non
vuole né può star solo”, la cui esistenza consiste
appunto solo nel muoversi in mezzo alla gente.
La caratteristica più inquietante del racconto sta
nell’arcana affinità tra il protagonista e colui che
egli insegue: una sorta di “sdoppiamento della
personalità”, del resto presente in altri racconti di
questo autore. Ma nel misterioso “alter ego” del
narratore affiora un aspetto terribile, che forse
prefigura (giacché Poe è un visionario che vede
lontano) le angosce dell’uomo di oggi, confuso o
perfino reso folle dalla moderna società di massa.
Negli anni ’60 dell’Ottocento, mentre Napoleone III ed il Barone Haussmann procedevano alla
ricostruzione di Parigi ed aprivano i grandiosi boulevards, con la prima pianificazione urbanistica di
una moderna metropoli, Charles Baudelaire (lettore e traduttore delle opere di Poe) proponeva un
mirabile ritratto del flâneur, visto come testimone, poeta ed artista di questi nuovi spazi:
Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete di certo portati, per caratterizzare questo
artista, a gratificarlo con un epiteto che non sapreste applicare a chi dipinge cose eterne, o almeno più
durevoli, di carattere eroico o religioso. Talvolta egli è poeta; più spesso si avvicina al romanziere o al
moralista; egli è il pittore dell’occasionale e di tutto ciò che di eterno esso suggerisce. Ogni paese, per suo
piacere e sua gloria, ha avuto alcuni uomini del genere.
Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna, II – Schizzo di costume, Le Figaro, 1863
La folla è il suo elemento, come l’aria lo è per gli uccelli e
l’acqua per i pesci. La sua passione e la sua professione
sono di diventare tutt’uno con la folla. Per il perfetto flâneur,
per l’osservatore appassionato, è una gioia immensa la
scelta di prender dimora nella moltitudine, nell’ondeggiare,
nel movimento, nel fugace e nell’immenso. Stare fuor di
casa sentendosi tuttavia a casa dovunque; vedere il
mondo, essere al centro del mondo restando insieme
nascosto al mondo, ecco alcuni piaceri accessori per questi
spiriti indipendenti, appassionati, imparziali, che la lingua
riesce a stento a definire. L’osservatore è un principe che si
delizia ovunque di serbare l’incognito. Colui che ama la vita
fa del mondo la propria famiglia, così come chi ama il bel
sesso forma una famiglia con tutte le bellezze che ha
incontrato, che potrà incontrare, o che non incontrerà mai;
così come chi ama la pittura vive in una magica comunità di
sogni dipinti su tela. Allo stesso modo, colui che ama la vita
universale s’inoltra nella folla come in un immenso
serbatoio di energia elettrica. Lo si potrebbe paragonare,
costui, ad uno specchio altrettanto sconfinato che quella
folla, a un caleidoscopio dotato di coscienza che, a ciascun
suo movimento, rappresenta la molteplicità della vita e la
grazia instabile di tutti i suoi elementi.
Ibid. III - L'artista,uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo
Così egli va, corre, cerca. Che cosa cerca? Di sicuro quest’uomo, così come l’ho dipinto, questo solitario
dotato di viva immaginazione, sempre in viaggio attraverso il grande deserto umano, ha uno scopo più alto
di quello di un semplice curioso, uno scopo più generale, ben diverso dal diletto fuggevole della circostanza.
Egli è in cerca di qualcosa che ci sarà consentito chiamare “la modernità”; giacché non è disponibile una
parola più adatta per esprimere l’idea in questione. Si tratta, per lui, di estrarre dalla moda quanto essa, nel
corso storico, può contenere di poetico, di tirar fuori l’eterno dal transitorio.
Ibid. IV - La modernità
Nel periodo che segue le rivoluzioni del ’48, che vedono la restaurazione di un potere autoritario,
filo-borghese, a tutela dell’ordine sociale e dei “valori morali”, Baudelaire sostiene l’inadeguatezza
dell’arte tradizionale alle sempre più dinamiche complicazioni della vita moderna. I cambiamenti
economici e culturali causati dall’industrializzazione richiedono che l’artista si immerga nella vita
della metropoli e diventi un botanico del marciapiede, un analista del tessuto urbano e sociale.
Il flâneur è ben consapevole del suo comportamento pigro e privo di urgenza, come di «uno che
porta al guinzaglio delle tartarughe per le vie di Parigi»: una consapevolezza, questa, non priva di
risvolti teatrali e snobistici. Secondo David Harvey, da questo momento la vita di Baudelaire (come
la figura del flâneur che egli tratteggia) è lacerata tra l’atteggiamento cinico e tediato (lo spleen)
dell’osservatore “neutrale” e quello dell’artista che s’immerge con passione nella vita del popolo.
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La concezione estetica e la visione sociale di
Baudelaire aprono la strada ad una riflessione critica
sugli spazi della moderna metropoli. In particolare,
Georg Simmel sviluppa tale discorso in un ambito
specificamente sociologico, con risvolti psicologici. Nel
suo celebre saggio Le metropoli e la vita dello spirito,
Simmel avanza la tesi per cui la crescente complessità
di situazioni e comportamenti che scandiscono la vita
nelle grandi città, determina lo sviluppo di rapporti
completamente nuovi tra i soggetti umani e tra gli
individui ed i poteri impersonali che guidano la società
contemporanea. Nuove forme di percezione degli spazi
e dei tempi inducono quell’atteggiamento blasé (più o
meno analogo allo spleen, o al “disincanto” di cui parla
Weber) che plasma il vissuto e la percezione di sé.
I problemi più profondi della vita moderna scaturiscono
dall’aspirazione dell’individuo a salvaguardare l’autonomia e
l’individualità della propria esistenza di fronte allo strapotere
della società, dell’eredità storica, della cultura esteriore e
dalle tecniche del vivere: è questo lo sviluppo estremo della
lotta contro la natura che già l’uomo primitivo conduceva per
garantirsi l’esistenza materiale.
Così, il Secolo XVIII ha promosso la liberazione da tutti i vincoli prodotti nel corso della storia in campo
politico e religioso, morale ed economico, in nome del libero sviluppo di quella natura originaria di carattere
benigno, che sarebbe identica in ogni uomo. Così, il Secolo XIX ha sostenuto l’esigenza, accanto alla mera
libertà, di una specializzazione del lavoro umano e della sua efficienza, il che fa dell’individuo un essere
unico rispetto agli altri ed in prospettiva insostituibile, ma al contempo stabilisce la sua estrema integrazione
nelle attività collettive; così Nietzsche ha scorto nella lotta senza tregua dei singoli – come il socialismo ha
scorto invece proprio nella soppressione di ogni antagonismo – la condizione per il pieno sviluppo degli
individui. In tutti questi casi opera lo stesso motivo di fondo: la resistenza del soggetto a lasciarsi appiattire e
sfruttare all’interno di un meccanismo socio-tecnologico.
Un’indagine sui prodotti del vivere specificamente moderno rivolta al loro senso intimo; un’indagine, per così
dire, sul corpo della civiltà per coglierne l’anima (ne è un esempio il mio presente interesse per le nostre
metropoli) dovrà fornire la soluzione dell’equazione costituita dai rapporti che strutture di questo genere
determinano fra i contenuti individuali e super-individuali del vivere, fra le capacità di adattamento tramite cui
l’individuo trova un accomodamento con i poteri esterni a lui.
Georg Simmel: Le metropoli e la vita dello spirito, 1903
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È pressoché impossibile che un’odierna indagine sulla figura del flâneur non faccia riferimento agli
scritti che Walter Benjamin ha dedicato all’opera di Baudelaire (di cui egli è stato anche traduttore)
ed al rapporto di quest’ultimo con gli ambienti urbanistici parigini. Anche se il suo primo saggio su
questo tema (“D
Die Widerkehr des Flâneurs” – “Il ritorno del f.”, 1929) riguarda la città di Berlino,
ispirandosi alle passeggiate di Franz Hessel, Benjamin considera Parigi come il naturale habitat di
tale figura. Il titolo dello scritto sopra citato potrebbe suggerire l’idea che il flâneur rappresenti in
sostanza una figura del passato; ma nella visione dell’autore il passato stesso non costituisce una
realtà ormai superata ed oggettivamente compiuta, bensì un’eredità da reinterpretare continuamente,
capace di irrompere di nuovo nel presente, introducendovi novità decisive.
Sempre in relazione all’opera di Baudelaire, Benjamin rileva come il poeta subisca di continuo gli
urti della folla, delle luci, delle novità: la folla è la “figura segreta” (la potenza nascosta) della sua
poesia, nella quale, mai compiutamente rappresentata, essa dimora come presenza ossessiva; non
nei contenuti, dunque, ma nella stessa forma, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora franto, del verso.
In proposito, Benjamin distingue tra l’“esperienza
generica” di chi osserva solo passivamente, e quella
“vissuta”, che consente di rielaborare attivamente i
traumi prodotti dalla vita, e quindi di difendere la
coscienza dal loro assalto: il semplice choc è privo
di mediazione e dunque non ha sviluppi dialettici.
La curiosità del flâneur è ben più lucida e cosciente
di quella frivola del turista. Quest’ultimo si sposta
tra mete prefissate, consigliate da apposite guide: sa
già che cosa incontrerà nel suo tragitto, che quindi si
riduce ad un semplice rituale. Il flâneur si fa guidare
dall’istinto del nuovo, da indizi celati nell’ambiente,
che egli sa cogliere e seguire, senza un piano preciso
ma adattando il proprio percorso ad ogni occasione.
Assai diverso dal badaud, il semplice curioso che sta
al flâneur un po’ come il ghiottone al buongustaio,
egli è testimone dei primi riti consumistici di massa
celebrati nei passages parigini; assiste alla nascita e
alla morte di mode ed ambienti, si comporta come
un libero ricercatore che, serbando la sua identità,
cambia di continuo luogo e punto di osservazione.
Il flâneur si configura come l’esploratore di un paesaggio incantato, che egli stesso va costruendo:
egli “si abbandona nella folla” in una sorta di trance ipnotica – nella quale egli resta peraltro ben
lucido, pronto a cogliere rivelazioni improvvise, nella prospettiva di un “risveglio”, che costituisce
l’autentica speranza dell’uomo contemporaneo. Quasi “un’anima errante in cerca di un corpo”, egli
s’immedesima di volta in volta in un’altra persona, godendosi “l’impagabile privilegio di essere se
stesso e qualcun altro, a propria discrezione”. Come accade per certi personaggi di Poe, detective
dilettanti e messi in moto dal puro caso, ma insieme capaci di geniali intuizioni, il flâneur incarna la
potente capacità del mondo di riflettere su se stesso e sulle proprie incongruenze.
In Benjamin, il ruolo dell’osservatore urbano assume insieme funzione di strumento analitico e di
stile di vita. Influenzato dalle tesi marxiste, egli vede nel flâneur un prodotto della rivoluzione
industriale senza precedenti nella storia ed appartenente ad un preciso strato sociale: il suo flâneur è
un detective borghese, un investigatore occasionale, emotivamente poco coinvolto ma sempre molto
perspicace. Egli è insieme l’uomo alienato dalla società capitalistica e l’intellettuale che, grazie ai
suoi strumenti teorici, può riuscire ad intuirne e smascherarne le contraddizioni. Benjamin stesso
incarna esemplarmente la figura del flâneur: le sue lunghe passeggiate per le vie di Parigi (che egli
riconosce come “la capitale del secolo XIX”) sono sempre occasione di una vasta gamma di spunti
estetici e di analisi antropologica: il titolo della sua opera incompiuta, il cosiddetto Passagenwerk,
testimonia la sua programmatica attrazione per le affollate vie dei negozi.
L’indagine di Benjamin su questi temi è chiaramente influenzata dalle riflessioni di Simmel, specie
per quanto riguarda gli approfondimenti sociologici e psicologici. Le grandi città costituiscono per
entrambi il teatro delle meraviglie e delle innovazioni, ma anche dei conflitti sociali, dello stress e
dell’alienazione: esse sono il luogo dei problemi così come della loro possibile soluzione.
Simmel e Benjamin rappresentano due generazioni di intellettuali (collegate ma anche ben distinte
tra di loro) formatesi rispettivamente prima e durante il periodo che vede sviluppare in Europa i
regimi totalitari. Nelle loro riflessioni si colgono due momenti emblematici dell’autocoscienza
dell’uomo moderno che ha sperimentato, inizialmente, la speranza di poter tutelare almeno in parte
la propria individualità e, successivamente, la disillusione prodotta dalla cultura di massa e dai
totalitarismi. L’individuo blasé di Simmel ed il passeggiatore sognante di Benjamin sono comunque
momenti chiave di una riflessione, oggi tutt’altro che esaurita, sul rapporto tra individuo e società.
L’ epopea del l ’ uom o c om une
Nell’U
Ulysses di James Joyce, la lunghissima e disorganica passeggiata di Leopold Bloom attraverso
la città di Dublino è ricondotta programmaticamente – non senza una vena satirica – alle peripezie
dell’eroe omerico attraverso contrade misteriose e non di rado piene d’insidie. Anche il personaggio
di Joyce si muove nello spirito del flâneur: egli è un osservatore distaccato ed insieme sensibile alla
vita segreta che sente pulsare nella città. La sua città; che mostra per altri versi il volto di una terra
straniera, una landa in cui il protagonista si aggira come in esilio – il che conferisce a Dublino,
ambiguamente, i tratti di Itaca (la meta del nostos) ed insieme quelli di tutte le contrade ostili ed
arcane attraversate da Ulisse nel corso delle sue peripezie. Il personaggio di Joyce è un ebreo, ed è
al contempo cittadino di un paese (l’Irlanda) che non si è ancora affrancato dal dominio inglese
(l’U
Ulysses esce nel 1922, ma la passeggiata di Bloom per le vie di Dublino si svolge nel 1904).
I dieci anni trascorsi dall’Ulisse omerico nelle sue
peregrinazioni si restringono qui ad una singola
giornata: il che rende estremamente densi i nessi
simbolici presenti in ciascun episodio, e sembra
conferire alle situazioni più ordinarie e banali il
valore di altrettante illuminanti epifanie.
Anche il viaggio dell’“eroe” di Joyce rappresenta,
in definitiva, una ricerca di sé, nel corso della quale
egli si arricchisce di tutto ciò di diverso da sé con
cui entra in contatto, ma senza restarne prigioniero.
E non si tratta di una mera vicenda individuale,
giacché, come accade in Omero (che nelle terre
visitate da Ulisse raffigura le diverse civiltà del
bacino mediterraneo), nelle molteplici situazioni e
nei vari personaggi incontrati da Bloom, l’autore
intende rappresentare altrettanti aspetti della realtà
sociale e culturale dell’umanità contemporanea, o
altrettante fasi significative della sua storia.
Nell’esplorazione che questo moderno Ulisse conduce
durante la sua passeggiata, vengono anche messi in crisi
i confini tra mondo esterno ed interiore: ogni vicenda è
infatti scandita da una particolare forma di percezione,
sempre filtrata dal vissuto del protagonista.
Joyce utilizza metafore, simboli, situazioni ambigue,
intrecciandoli sottilmente tra di loro, in un’intricata rete
di significati, fino a delineare una qualche struttura
globale: si tratta, per molti versi, di un metodo affine a
quello psicoanalitico che, attraverso un flusso di libere
associazioni, intende far emergere infine la complessa e
profonda realtà dei contenuti inconsci. Questo sottile
gioco di simboli e di metafore è stato apprezzato, in
particolare, da Thomas Eliot, che parla in proposito di
un «metodo mitologico: un modo di controllare, dare
ordine, forma e significato a quell’immenso panorama
di futilità ed anarchia che è la storia contemporanea».
L a c i ttà d e s o l a ta
I radicali mutamenti, soprattutto l’espansione, delle grandi città tra fine Ottocento e primi del
Novecento, ed il complicarsi dei loro spazi (collegato anzitutto agli sviluppi economici) risultano
spesso disorientanti per l’umanità che vi abita. Le atmosfere angosciose, ancora indefinite, dei
racconti di Poe, o le più circostanziate minacce individuate in seguito da Simmel (contro le quali
l’individuo cercava di proteggere la propria identità e la propria sfera privata) assumono sempre più
l’aspetto di un destino ineluttabile, appaiono come l’effetto di forze impersonali ed incontrollabili
dall’uomo. Quest’ultimo è, d’altra parte, il responsabile o per lo meno il protagonista principale di
tale processo – il che sembra rievocare l’atmosfera dell’antica tragedia greca, che già affermava
(vedi l’A
Antigone di Sofocle) che molte sono le cose terribili, ma nessuna è più terribile dell’uomo.
Poche opere hanno saputo rendere l’atmosfera tragica, il senso di angosciosa impotenza che regna
nella metropoli moderna con la stessa efficacia del poemetto La Terra Desolata di Thomas Stearns
Eliot (1922): composta proprio all’indomani della prima guerra mondiale, quest’opera rappresenta
la voce di una generazione che, tramontate le illusioni e le false sicurezze della Belle Epoque, si è
risvegliata di colpo nel deserto. Nella prima parte del poemetto, Eliot descrive la folla grigia e quasi
informe degli impiegati londinesi che affluiscono verso il cuore economico della città: il riferimento
che viene quasi spontaneo – e che il poeta non manca di esplicitare – è all’Inferno di Dante, e anzi a
quella contrada nebulosa che si trova appena dopo la soglia infernale, in cui vagano grigie torme di
anime che vissero “sanza infamia e sanza lodo”, alle quali viene negato persino un nome.
Città irreale,
Sotto la bruna nebbia di un’alba invernale,
Una folla fluiva sul London Bridge, tanta gente,
Ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta.
Sospiri, brevi e radi, esalavano nell’aria,
E ciascuno teneva gli occhi fissi davanti ai piedi.
Fluiva su per la collina e giù per King William Street,
Fin là dove Saint Mary Woolnoth scandiva le ore
Con un suono di morte all’ultimo rintocco delle nove.
T.S. Eliot, La terra desolata, vv. 60-68
La Londra qui descritta da Eliot è una città sporca,
inquinata, una città spettrale dove persino il peccato
sembra perdere ogni dignità. Il frequente richiamo
a testi celebri (come la Commedia dantesca), o al
mito greco (vedi la figura di Tiresia, che compare
nella III Parte), o a svariate dottrine della sapienza
occidentale ed orientale, sembra avere la funzione
di coinvolgere l’intera cultura storica dell’umanità
nella presente crisi di ogni certezza o valore. Il che
induce una rilettura ironica, a tratti anche grottesca,
di certi luoghi e personaggi classici (come accade
anche nell’U
Ulisse di Joyce), la quale tuttavia non ha
semplicemente l’intento di dissacrare la tradizione,
ma esprime l’urgenza di una ridefinizione del senso
della morale, o dell’arte, nella consapevolezza che
anche le situazioni più aride e banali possono aprire
a profondità abissali. Sembra inevitabile il richiamo
alle tesi di Nietzsche ed alla “morte di Dio” – anche
se la prospettiva di Eliot è forse da ultimo l’attesa,
di matrice romantica, di un ritorno del divino.
In un’altra opera, pubblicata nel 1925, Eliot presenta un coro di uomini ridotti a vuoti fantocci, privi
di vita, che non può non ricordare il canto leopardiano delle mummie di Federico Ruysch, o il cupo
consesso dei topi nell’oltretomba, che ancora Leopardi mette in scena nei suoi Paralipomeni.
Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Appoggiati gli uni agli altri
Le teste riempite di paglia, ahimè!
Le nostre voci essiccate, quando
Sussurriamo all’unisono
Sono afone e vacue
Come vento nell’erba secca
O zampe di topi su cocci di vetro
Nella nostra cantina disseccata.
Sagoma senza forma, ombra senza colore,
forza paralizzata, gesto senza movimento.
T.S. Eliot, Gli uomini vuoti – I
Queste figure umane quasi prive di vita, sagome anonime,
incapaci di stare in piedi se non appoggiandosi le une alle
altre, richiamano anche il “leviatano con milioni di gambe”
di cui Evgenij Zamjatin parla nel suo romanzo “distopico”
Noi, scritto negli stessi anni di The Waste Land.
Zamjatin descrive una società del futuro, nella quale un’umanità completamente urbanizzata vive in
abitazioni trasparenti, senza più alcuno spazio privato, che realizzano il progetto del Panopticon, il
carcere ideato da Bentham alla fine del Settecento, la cui struttura architettonica esponeva in ogni
momento i prigionieri alla sorveglianza delle guardie. Lo scrittore russo è un comunista, deluso
dagli sviluppi della Rivoluzione d’Ottobre, che hanno visto la trasformazione del partito al potere in
una sorta di nuova chiesa dogmatica ed oppressiva; ma il modello sociale che egli disegna, con gli
individui schedati come carcerati e ridotti a semplici numeri, in nome dell’efficienza produttiva,
sembra adattarsi altrettanto bene ai sistemi capitalistici che, nel frattempo, si vanno rafforzando in
Occidente. Lo stesso si può dire per gli incubi del “Grande Fratello”, successivamente evocati da
Orwell, altro spirito ribelle deluso dall’esperienza sovietica, che
egli accomuna, nei risultati, ai regimi autoritari di tipo fascista.
Il Panopticon
Nel 1927 esce Metropolis, film del regista austriaco
Fritz Lang. Considerato da molti un capolavoro del
cinema espressionista, esso è stato anche il modello di
numerosi film di fantascienza (v. Blade Runner, Brazil,
Terminator, Matrix) che, molto diversi tra di loro per
trama, per ambientazione, nonché per qualità artistica,
hanno tutti in comune il disorientamento e l’angoscia
dell’uomo di fronte agli sviluppi incontrollati della
tecnologia ed alla crescente potenza delle macchine.
La storia è ambientata nel 2026 (cento anni dopo la
produzione del film) e traccia il profilo di una società
totalmente meccanizzata, in cui si è fatto estremo il
divario tra ricchi e poveri. Questi ultimi, per lo più
operai sfruttati da un capitalismo disumano, interessato
solo all’efficienza ed al profitto, vivono in certi ghetti
sotterranei, senza tutele e senza diritti. Il protagonista è
Freder Fredersen, figlio del più potente degli industriali,
che, dopo aver vissuto a lungo nell’ignoranza di tale
situazione, riesce a penetrare nell’ambiente di lavoro
degli operai e, successivamente, a vestirsi come loro e a
condividerne le miserie e le fatiche.
Una presa di coscienza, insomma, alla San Francesco di Assisi; in questo caso agevolata dalla
comparsa di una figura femminile carismatica ed affascinante (che non a caso si chiama Maria), la
quale sostiene la causa degli sfruttati, consolandoli e soccorrendoli, ma cercando insieme di evitare
che le loro rivendicazioni assumano forma violenta. I riferimenti biblici sono numerosi ed evidenti:
dalla mostruosa macchina che, negli incubi di Freder, assume l’aspetto di un grande Moloch, alla
storia della Torre di Babele, narrata da Maria, che rappresenta la stessa Metropolis: la tracotanza
dell’uomo che, dimenticata ogni pietà fraterna, vorrebbe rendersi simile a un dio onnipotente.
Ma un inventore, una sorta di “scienziato pazzo” rivale del padre di Freder, costruisce nel frattempo
un robot umanoide identico a Maria, con lo scopo di screditare quest’ultima e provocare disordini:
la falsa Maria è in effetti una sorta di “meretrice
di Babilonia”, che cavalca mostri apocalittici e si
esibisce provocatoriamente in locali di pessima
reputazione. Gli operai sono vittima dell’inganno
e, affascinati dalle grazie della donna-cyborg, si
scatenano in una cieca rivolta distruggendo gran
parte delle macchine, ma mettendo così a rischio
la stessa incolumità delle proprie famiglie.
Infine tutto si aggiusta: Freder, dopo essere a sua
volta caduto nella trappola, ritrova e salva la vera
Maria, che in lui riconosce il redentore a lungo
atteso, destinato a portare pace e concordia tra
operai ed imprenditori. I due protagonisti, che si
amano, vivono infine insieme felici e contenti, e
il pubblico può andarsene a casa soddisfatto ed
orientato verso un pacifico interclassismo; anche
se Lang dichiarò poi che quel finale non era stato
scelto da lui (che intendeva invece far fuggire i
due innamorati da una città ormai in rovina): il
plot era stato scritto da sua moglie Thea, che poi
avrebbe militato nelle file del nazismo.
La realtà urbana nelle arti figurative
Secondo una tesi avanzata da Simmel e ripresa più tardi da Benjamin, le nuove relazioni sociali
sono molto più influenzate dal senso della vista che da quello dell’udito. Al contempo, le nuove
tecniche consentono, come rileva Benjamin, di riprodurre l’opera d’arte rendendola accessibile ad
un sempre più vasto pubblico, e sottraendole insieme quell’a
aura sacrale che la caratterizzava nel
passato. La fruizione tradizionale si trasforma così in consumo: l’evento estetico unico, irripetibile,
risulta moltiplicato nello spettacolo di massa, la cui peculiare forma artistica è ormai il cinema: alla
visione personale, culturalmente specifica e qualificata, si sostituisce quella collettiva, generica ed
anonima. Per Benjamin, tuttavia, questa situazione presenta anche opportunità di rinnovamento: il
cinema o la fotografia consentono alle masse nuove forme di presa di coscienza, e quindi possono
promuovere una contestazione dell’ordine esistente ben più ampia che in passato. In particolare, per
quanto riguarda il flâneur, la macchina fotografica può costituire un eccellente supporto mnemonico
alle indagini condotte durante le sue peregrinazioni urbane: una sorta di taccuino visivo.
È probabile che, di fronte all’attuale proliferazione della fotografia come passatempo di massa (che,
grazie alla diffusione dei nuovi apparati digitali, ha assunto aspetti patologici, da sindrome coatta),
Benjamin riconoscerebbe la fondatezza delle tesi di Adorno, che si mostrava invece diffidente verso
le nuove tecniche visive, o della condanna senza appello già espressa da Baudelaire nel 1859:
In questi giorni sventurati, è comparsa una nuova industria, che ha
contribuito non poco ad accrescere la sicumera degli stupidi e a
rovinare quanto di divino poteva essere rimasto nello spirito
francese. Questa folla idolatra invocava un ideale degno di lei ed
appropriato alla sua natura … Un Dio vendicatore ha esaudito i voti
di costoro. Daguerre è stato il suo messia. E così questa gente ha
detto fra sé: «dato che la fotografia ci dà ogni desiderabile garanzia
di esattezza (questo credono, i dissennati!), l’arte è la fotografia.» Da
quel momento in poi, l’infame comitiva si è precipitata, come un solo
Narciso, a contemplare la propria banale immagine fissata sul
metallo. Una follia, uno straordinario fanatismo s’è impossessato di
tutti questi nuovi adoratori del sole, bizzarri abomini si sono prodotti.
Come l’industria fotografica è stata il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per
spingere a fondo i loro studi, questa frenesia generale ha dimostrato non solo cecità ed imbecillità, ma ha
assunto addirittura il carattere di una vendetta. Che una cospirazione tanto stupida, portata avanti, come
capita in tutti questi casi, da persone meschine ed illuse, possa avere un completo successo, non lo credo, o
almeno mi rifiuto di crederlo; ma sono convinto che i progressi mal sfruttati della fotografia abbiano
contribuito molto, come del resto ogni altra forma di progresso puramente materiale, ad impoverire il genio
artistico francese, già per proprio conto così raro.
Bisogna dunque che essa [la fotografia] si limiti a svolgere il suo effettivo compito, che è di servire le scienze
e le arti, ma con estrema umiltà, come la stampa e la stenografia, che non hanno mai avuto la presunzione
di sostituire la letteratura. Che essa arricchisca rapidamente l’album del viaggiatore, restituendo ai suoi occhi
la precisione che manca alla sua memoria … Ma se le si consente di sconfinare nei territori dell’impalpabile
e dell’immaginario, in tutto ciò che vale solo in quanto l’uomo lo arricchisce con la propria anima, guai a noi!
Molti, lo so bene, mi diranno: «la malattia che avete appena illustrato è quella degli imbecilli. Quale uomo
degno di chiamarsi artista, o che ami davvero l’arte, ha mai confuso quest’ultima con l’industria?» Sì, lo so,
ma ciò nonostante chiederò loro, a mia volta, se credono alla contagiosità del bene e del male, all’influsso
delle folle sugli individui ed all’obbedienza involontaria, forzata, dell’individuo alla folla. Che l’artista influenzi
il pubblico, e che il pubblico influenzi di rimando l’artista è una legge incontestabile ed inoppugnabile; d’altra
parte i fatti, formidabili testimoni, si lasciano consultare facilmente: il disastro è sotto gli occhi di tutti. Giorno
dopo giorno, l’arte va perdendo rispetto nei propri confronti, si prostra davanti alla realtà esteriore, e il pittore
è sempre più incline a dipingere non ciò che sogna, ma ciò che vede. Eppure c’è una felicità nel sognare, e
c’era una gloria nell’esprimere ciò che si sognava; ma che cosa dico! la si conosce ancora questa felicità?
Potrebbe affermare, l’osservatore in buona fede, che l’invasione della fotografia e la grande follia industriale
sono del tutto estranee a questo deplorevole risultato? È consentito supporre che un popolo i cui occhi si
assuefacciano a vedere nei prodotti di una tecnica materiale le opere della bellezza, non abbia in sostanza a
smarrire, dopo qualche tempo, la facoltà di giudicare e di percepire quanto v’è di più etereo ed immateriale?
Charles Baudelaire, Il pubblico moderno e la fotografia, Salon de 1859, II
È anche vero tuttavia che, come nota sempre Benjamin, la tecnica fotografica (già utilizzata da
Courbet), ha avuto un’influenza non secondaria sugli sviluppi della pittura impressionista, alla quale
l’opera di Baudelaire (amico di Manet e ritratto da quest’ultimo tramite l’utilizzo di una foto), con i
suoi repentini tocchi o le sue suggestive improvvisazioni, può considerarsi abbastanza affine. Non a
caso la prima mostra impressionista è stata allestita, nel 1874, nello studio del fotografo Nadar.
Come accade per la fotografia, la pittura impressionista si propone di fissare l’attimo, cogliendo lo
statuto dinamico della realtà, e di rappresentare quest’ultima attraverso inquadrature occasionali,
altrettanto provvisorie delle situazioni o delle prospettive in continuo mutamento che caratterizzano
la rapida evoluzione della vita moderna. Si apre così la strada a nuove modalità di raffigurazione,
che vengono sempre più a dipendere dal punto di vista – non solo fisico, ma anche interiore – di
colui che osserva. Nonostante l’automaticità dei suoi apparati tecnici, anche la fotografia consente
almeno in parte una simile elaborazione soggettiva.
L’Impressionismo si costituisce, comunque, soprattutto agli inizi, come la pittura urbana per
eccellenza: non soltanto perché molti artisti privilegiano gli ambienti delle metropoli, trasferendo i
loro studi paesaggistici dalla campagna alla città, ma anche perché mostrano di vedere il mondo con
gli occhi del cittadino, rivolgendo il loro interesse alla rapidità con cui la città va crescendo e si sta
trasformando, con la nascita di nuovi edifici o l’apertura di nuovi spazi. In molti dei loro quadri, si
celebrano ambienti animati da uno spirito mobile, spesso frenetico e a tratti persino conflittuale
(iniziano infatti a profilarsi i temi dell’emarginazione e della devianza): di lì a breve verranno in
primo piano, sempre più urgenti, i problemi del traffico, dell’inquinamento, dello stress e delle
nevrosi da eccesso di stimoli, tutti scompensi tipici dell’esistenza metropolitana.
Gustave Caillebotte: La Piazza d'Europa in un giorno di pioggia (1877)
La frenesia della vita cittadina diviene ancor più evidente nella pittura espressionista, che
dell’impressionismo, in particolare della visione soggettiva promossa da tale movimento, si può
considerare un estremo sviluppo: vengono tuttavia in primo piano nell’espressionismo, ed occupano
stabilmente la scena, quei sintomi di disagio e di alienazione che nella poetica impressionistica
erano in fondo restati ai margini, in qualche modo messi in ombra dal senso di rinnovamento e di
continua scoperta che aveva conferito a tale poetica tratti tutto sommato ottimistici.
James Ensor, Cristo entra a Bruxelles, 1888
Walter Benjamin ha visto nell’espressionismo il trionfo
dell’energia interiore sull’ordine costituito, e propone un
accostamento di questa impostazione estetica allo stile
barocco, che anche in campo architettonico svolgerebbe
un’analoga funzione nei confronti dell’equilibrio dell’arte
rinascimentale. L’espressionismo incarna la ribellione
della libertà e della volontà creatrice – che assume
almeno all’inizio forme caotiche – nei confronti delle
istanze canoniche di armonia, che tendono storicamente a
recuperare a sé anche gli spunti di rinnovamento. Tale
ribellione rifiuta e smaschera l’ordine superficiale e le
sue apparenti “mediazioni”, per spingersi in profondità e
recuperare gli aspetti più autentici del vissuto.
È la crisi dell’Io che cede il controllo all’energia dell’Es,
è la ribalta del frammento (almeno in apparenza privo di
senso e di scopo) che emerge lacerando le immagini
virtuali della “totalità” e travolgendo le corrispondenti
visioni etiche ed estetiche. Il compito dell’uomo
contemporaneo è tuttavia, secondo Benjamin (che qui
non sembra molto lontano dal discorso di Nietzsche, oltre
che dalla prospettiva freudiana) quello di interrogare il
frammento, di raccoglierne la sfida in vista di una
possibile ricomposizione.
Ernest Kirchner, Scena di strada berlinese, 1913
Il dinamismo espressionistico avvicina in qualche caso questo movimento a quello futurista (vi sono
anche artisti che possono essere considerati esponenti di entrambi); tuttavia la crisi dei valori e delle
certezze che domina nell’espressionismo, si rovescia nei futuristi nell’ottimistica convinzione di un
rinnovamento, ormai a portata di mano, fondato sulla potenza della tecnica. Il tema della città è al
centro dell’interesse di questi artisti: la metropoli è il luogo della modernità, e in essa si prepara e
già si costruisce il futuro. Il paesaggio urbano è pieno di movimento, è percorso da veicoli, è
attraversato da fasci di luce; le sue immagini inquiete, in cui la prospettiva resta indefinitamente
moltiplicata, con piani tagliati e forme concentriche, suggeriscono velocità ed instabilità; quasi si
percepiscono i rumori. La città futurista si presenta insomma come città delle macchine.
Questa predilezione per il dinamismo si contrappone alle concezioni architettoniche monumentali
della tradizione, giudicate pesanti ed inadeguate ai nuovi criteri di efficienza. Nel manifesto redatto
da Antonio Sant’Elia (pubblicato su Lacerba il 1 agosto 1914) si legge:
«Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante, agile,
mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile a una macchina gigantesca.»
Molti progetti futuristi proposti nei primi decenni del Novecento, potevano apparire come semplici
provocazioni, pure divagazioni di fantasia. Di fatto essi hanno poi dimostrato una certa concretezza:
se valutiamo oggi alcune di quelle proposte, esse ci ricordano edifici o ambienti urbani che sono poi
divenuti realtà. Il che mette in luce gli aspetti non utopistici di questo movimento, i cui sviluppi
hanno peraltro oscillato ambiguamente tra programmi rivoluzionari e prese di posizione illiberali
(vedi l’interventismo nella Grande Guerra e più tardi, in Italia, la vicinanza al regime fascista).
Nonostante le sue innovative intuizioni architettoniche, il futurismo ha portato avanti il compito di
sovvertire i canoni estetici tradizionali, puntando tutto sulla creatività e confidando nel progresso
tecnologico, ma senza farsi troppo carico dei problemi che tale progresso andava provocando. Un
po’ com’è accaduto alla poesia di Palazzeschi, che ironizzava sull’esistente e sugli impegni etici e
civili, per dar vita a un divertimento fantasioso e nichilistico: una cantilena di “parole in libertà”.
Uberto Bonetti, Aeroveduta di Genova, 1930
Parallelamente alla seconda fase dell’esperienza futurista, si sviluppa la corrente architettonica che
viene designata come “movimento moderno” ed è connessa al “funzionalismo” di Le Corbusier o di
F. L. Wright. Altrettanto cosciente dei mutamenti introdotti dallo sviluppo tecnico e scientifico,
questa corrente prende le distanze dal futurismo, perseguendo una maggior concretezza, a partire
dalla realizzabilità dei progetti e dall’analisi razionale della funzione di quanto s’intende realizzare;
Il che richiede anzitutto lo studio delle possibilità messe a disposizione dalle nuove tecniche.
A tali considerazioni si richiama anche il “razionalismo italiano” (Giuseppe Terragni, Giovanni
Michelucci) che, pur operando in gran parte durante il periodo del regime fascista, ha mantenuto nei
confronti di quest’ultimo una certa autonomia culturale.
Giovanni Michelucci & Gruppo Toscano, Stazione di S. Maria Novella a Firenze, 1933
Queste nuove tendenze in campo architettonico rappresentano un consapevole passaggio dalla “città
chiusa” alla “città aperta”. Nella vecchia città recintata dalle mura (che la proteggevano dal mondo
esterno), vigeva un ordine che era visibilmente collegato a valori e punti di riferimento assoluti – in
primo luogo di carattere religioso. La nuova libera gestione degli spazi, strettamente connessa alle
libertà democratiche, si esprime soprattutto nell’architettura popolare, in cui la pianta degli edifici o
l’aspetto delle facciate non risponde più a valori e canoni meramente estetici, ma prima di tutto
all’utilizzo funzionale delle strutture abitative, o commerciali, o ricreative etc.
D’altra parte, i criteri estetici tradizionali, basati sull’armonia e sull’impiego di ornamenti, cedono il
passo alla pura creatività ed alla reinvenzione, a volte gratuita, di strutture o elementi, consentita dai
nuovi mezzi tecnici (vedi il decostruttivismo). Allo stesso modo, la liberazione delle forme e dei
rapporti cromatici in pittura (o quella del metro e della sintassi nella poesia, o dei rapporti melodici
e tonali in campo musicale) esprime l’affrancamento della cultura odierna dalle strutture immutabili
del passato, la loro decostruzione ad opera di istanze tecniche o di pura potenza espressiva.
Il fatto che tale rinnovamento coinvolga oggi anche l’architettura sacra, costituisce un paradosso: la
visione religiosa non può infatti basarsi che su un ordine universale, retto da leggi immutabili. Di un
simile ordine, i luoghi di culto intendono essere tuttora (come sono stati per secoli) la testimonianza
e la rappresentazione simbolica: per questo, proprio in tali ambienti si fa particolarmente avvertibile
il contrasto tra presente e passato, tra la dissoluzione dei punti di riferimento tradizionali, espressa
da certi elementi figurativi, e la funzione che quegli elementi sono incaricati di svolgere.
Un paradosso analogo, anche se innescato da un meccanismo inverso, è dato dalla circostanza che,
mentre diventa sempre più accessibile al vasto pubblico e mentre intende esprimere (anche se non
sempre consapevolmente) il venir meno dei criteri di senso e dei canoni estetici collaudati, l’opera
d’arte continua a rivendicare un valore “oggettivo” ed un conseguente statuto economico, che le
consente poi di farsi quotare sul mercato. Assistiamo oggi ad una proliferazione di televendite ed
aste che rendono disponibili certe opere anche a persone non facoltose, cui si prospetta l’opportunità
di adornare il proprio salotto con qualche pezzo “importante”. In questo processo entropico, per cui
tutto o quasi può costituirsi come appagante feticcio, qualcuno sembra voler trasformare in prodotto
di facile consumo anche quel che resta dell’aura sacrale che un tempo avvolgeva simili oggetti.
Ma ormai, come già vedeva Benjamin (e come ribadisce una nota canzone), l’aura non c’è.
Testi in lingua originale:
«Observateur, flâneur, philosophe, appelez-le comme vous voudrez; mais vous serez
certainement amené, pour caractériser cet artiste, à le gratifier d'une épithète que vous ne sauriez
appliquer au peintre des choses éternelles, ou du moins plus durables, des choses héroïques ou
religieuses. Quelquefois il est poète; plus souvent il se rapproche du romancier ou du moraliste; il
est le peintre de la circonstance et de tout ce qu'elle suggère d'éternel. Chaque pays, pour son
plaisir et pour sa gloire, a possédé quelques-uns de ces hommes-là.»
Charles Baudelaire, Le peintre de la vie moderne II – Le croquis de mœurs, Le Figaro, 1863
«La foule est son domaine, comme l’air est celui de l’oiseau, comme l’eau celui du poisson. Sa
passion et sa profession, c’est d’ épouser la foule. Pour le parfait flâneur, pour l’observateur
passionné, c’est une immense jouissance que d’élire domicile dans le nombre, dans l’ondoyant,
dans le mouvement, dans le fugitif et l’infini. Etre hors de chez soi, et pourtant se sentir partout
chez soi; voir le monde, être au centre du monde et rester caché au monde, tels sont quelquesuns des moindres plaisirs de ces esprits indépendants, passionnés, impartiaux, que la langue ne
peut que maladroitement définir. L’observateur est un prince qui jouit partout de son incognito.
L’amateur de la vie fait du monde sa famille, comme l’amateur du beau sexe compose sa famille
de toutes les beautés trouvées, trouvables et introuvables; comme l’amateur de tableaux vit dans
une société enchantée de rêves peints sur toile. Ainsi l’amoureux de la vie universelle entre dans
la foule comme dans un immense réservoir d’électricité. On peut aussi le comparer, lui, à un miroir
aussi immense que cette foule; à un kaléidoscope doué de conscience, qui, à chacun de ses
mouvements, représente la vie multiple et la grâce mouvante de tous les éléments de la vie.»
Ibid. III - L'artiste, homme du monde, homme des foules et enfant
«Ainsi il va, il court, il cherche. Que cherche-t-il? A coup sûr, cet homme, tel que je l'ai dépeint, ce
solitaire doué d'une imagination active, toujours voyageant à travers le grand désert d'hommes, a
un but plus élevé que celui d'un pur flâneur, un but plus général, autre que le plaisir fugitif de la
circonstance. Il cherche ce quelque chose qu'on nous permettra d'appeler la modernité; car il ne
se présente pas de meilleur mot pour exprimer l'idée en question. Il s'agit, pour lui, de dégager de
la mode ce qu'elle peut contenir de poétique dans l'historique, de tirer l'éternel du transitoire.»
Ibid. V - La modernité
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Dans ces jours déplorables, une industrie nouvelle se produisit, qui ne contribua pas peu à
confirmer la sottise dans sa foi et à ruiner ce qui pouvait rester de divin dans l’esprit français. Cette
foule idolâtre postulait un idéal digne d’elle et approprié à sa nature … Un Dieu vengeur a exaucé
les vœux de cette multitude. Daguerre fut son Messie. Et alors elle se dit: «Puisque la photographie nous donne toutes les garanties désirables d’exactitude (ils croient cela, les insensés!),
l’art, c’est la photographie.» À partir de ce moment, la société immonde se rua, comme un seul
Narcisse, pour contempler sa triviale image sur le métal. Une folie, un fanatisme extraordinaire
s’empara de tous ces nouveaux adorateurs du soleil. D’ étranges abominations se produisirent
Comme l’industrie photographique était le refuge de tous les peintres manqués, trop mal doués ou
trop paresseux pour achever leurs études, cet universel engouement portait non seulement le
caractère de l’aveuglement et de l’imbécillité, mais avait aussi la couleur d’une vengeance. Qu’une
si stupide conspiration, dans laquelle on trouve, comme dans toutes les autres, les méchants et les
dupes, puisse réussir d’une manière absolue, je ne le crois pas, ou du moins je ne veux pas le
croire ; mais je suis convaincu que les progrès mal appliqués de la photographie ont beaucoup
contribué, comme d’ailleurs tous les progrès purement matériels, à l’appauvrissement du génie
artistique français, déjà si rare.
Il faut donc qu’elle rentre dans son véritable devoir, qui est d’être la servante des sciences et des
arts, mais la très-humble servante, comme l’imprimerie et la sténographie, qui n’ont ni créé ni
suppléé la littérature. Qu’elle enrichisse rapidement l’album du voyageur et rende à ses yeux la
précision qui manquerait à sa mémoire … Mais s’il lui est permis d’empiéter sur le domaine de
l’impalpable et de l’imaginaire, sur tout ce qui ne vaut que parce que l’homme y ajoute de son âme,
alors malheur à nous!
Je sais bien que plusieurs me diront : « La maladie que vous venez d’expliquer est celle des
imbéciles. Quel homme, digne du nom d’artiste, et quel amateur véritable a jamais confondu l’art
avec l’industrie ? » Je le sais, et cependant je leur demanderai à mon tour s’ils croient à la
contagion du bien et du mal, à l’action des foules sur les individus et à l’obéissance involontaire,
forcée, de l’individu à la foule. Que l’artiste agisse sur le public, et que le public réagisse sur
l’artiste, c’est une loi incontestable et irrésistible; d’ailleurs les faits, terribles témoins, sont faciles à
étudier; on peut constater le désastre. De jour en jour l’art diminue le respect de lui-même, se
prosterne devant la réalité extérieure, et le peintre devient de plus en plus enclin à peindre, non
pas ce qu’il rêve, mais ce qu’il voit. Cependant c’est un bonheur de rêver, et c’était une gloire
d’exprimer ce qu’on rêvait ; mais que dis-je! connaît-il encore ce bonheur?
L’observateur de bonne foi affirmera-t-il que l’invasion de la photographie et la grande folie
industrielle sont tout à fait étrangères à ce résultat déplorable ? Est-il permis de supposer qu’un
peuple dont les yeux s’accoutument à considérer les résultats d’une science matérielle comme les
produits du beau n’a pas singulièrement, au bout d’un certain temps, diminué la faculté de juger et
de sentir ce qu’il y a de plus éthéré et de plus immatériel?
Charles Baudelaire, Le public moderne et la Photographie - Salon de 1859, II
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«Die tiefsten Probleme des modernen Lebens quellen aus dem Anspruch des Individuums, die
Selbständigkeit und Eigenart seines Daseins gegen die Übermächte der Gesellschaft, des
geschichtlich Ererbten, der äußerlichen Kultur und Technik des Lebens zu bewahren - die
letzterreichte Umgestaltung des Kampfes mit der Natur, den der primitive Mensch um seine
leibliche Existenz zu führen hat.
Mag das 18. Jahrhundert zur Befreiung von allen historisch erwachsenen Bindungen in Staat und
Religion, in Moral und Wirtschaft aufrufen, damit die ursprünglich gute Natur, die in allen
Menschen die gleiche ist, sich ungehemmt entwickele; mag das 19.Jahrhundert neben der bloßen
Freiheit die arbeitsteilige Besonderheit des Menschen und seiner Leistung fordern, die den
Einzelnen unvergleichlich und möglichst unentbehrlich macht, ihn dadurch aber um so enger auf
die Ergänzung durch alle anderen anweist; mag Nietzsche in dem rücksichtslosesten Kampf der
Einzelnen oder der Sozialismus gerade in dem Niederhalten aller Konkurrenz die Bedingung für
die volle Entwicklung der Individuen sehen - in alledem wirkt das gleiche Grundmotiv: der
Widerstand des Subjekts, in einem gesellschaftlich-technischen Mechanismus nivelliert und
verbraucht zu werden.
Wo die Produkte des spezifisch modernen Lebens nach ihrer Innerlichkeit gefragt werden,
sozusagen der Körper der Kultur nach seiner Seele - wie mir dies heut gegenüber unseren
Großstädten obliegt - wird die Antwort der Gleichung nachforschen müssen, die solche Gebilde
zwischen den individuellen und den überindividuellen Inhalten des Lebens stiften, den
Anpassungen der Persönlichkeit, durch die sie sich mit den ihr äußeren Mächten abfindet.»
Georg Simmel: Die Grosstädte und das Geistesleben, 1903
*
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Unreal City,
Under the brown fog of a winter dawn,
A crowd flowed over London Bridge, so many,
I had not thought death had undone so many.
Sighs, short and infrequent, were exhaled,
And each man fixed his eyes before his feet.
Flowed up the hill and down King William Street,
To where Saint Mary Woolnoth kept the hours
With a dead sound on the final stroke of nine.
T.S. Eliot, The Waste Land, vv. 60-68, 1922
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We are the hollow men
We are the stuffed men
Leaning together
Headpiece filled with straw. Alas!
Our dried voices, when
We whisper together
Are quiet and meaningless
As wind in dry grass
Or rats' feet over broken glass
In our dry cellar.
Shape without form, shade without colour,
Paralysed force, gesture without motion.
T.S. Eliot, The Hollow Men, I, 1925
© B. Gensini, 2015
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