La metropoli moderna, tra fascinazione ed incubo La grande città come campo di osservazione Flâneur : Questo termine, che risulta di immediata ed intuitiva comprensione per un francese, era utilizzato già nel XIX secolo per indicare una persona che trascorre il tempo passeggiando in città, guardando le vetrine senza fare acquisti o osservando la gente. Il termine lo si può trovare ad es. nell’E Enciclopedia Larousse dell’Ottocento, dove il flâneur viene identificato con un perfetto perdigiorno e se ne riferisce l’atteggiamento agli spazi dilatati della metropoli. Per quanto riguarda la lingua italiana, si può cogliere una corrispondenza tra la parola flâneur e l’espressione gergale “ffare flanella”, la quale significa più o meno bighellonare, passare il tempo barcamenandosi, senza concludere nulla. L’immagine tradizionale del flâneur è quella di un uomo ben vestito, presumibilmente ricco ed in possesso di una buona cultura, che si può appunto permettere il lusso di andarsene a curiosare in giro (in cerca di spettacoli interessanti o spunti di riflessione che solo lui sa cogliere) essendo libero da impegni di lavoro. Un volto anonimo nella moltitudine che osserva tutto senza rendersi a sua volta oggetto di osservazione. Lord George Brummel (1778 – 1840), che rappresenta il prototipo del dandy (per certi aspetti il corrispettivo britannico del flâneur) soleva dire che un uomo è davvero elegante se riesce ad attraversare la città di Londra, da un capo all’altro, senza farsi assolutamente notare. L’Uomo della Folla: The Man of the Crowd è un racconto breve di Edgar A. Poe, pubblicato nel 1840, il cui narratore–protagonista è un uomo che, seduto in un caffè nel centro di Londra, si diletta ad osservare con curiosità le persone che passano sul marciapiede di fronte, catalogandole in base a certi elementi del loro contegno che egli riesce ad interpretare con facilità. Ad un certo punto, il suo sguardo è attratto da un uomo, anziano e ben vestito ma con l’abito alquanto sdrucito e sporco, il cui aspetto suggerisce grande forza d’animo, ma sembra celare insieme qualche inquietante e cupo segreto. Incapace, stavolta, di penetrare il carattere del personaggio, egli cerca di scoprire qualcosa sul suo conto seguendolo per ore ed ore; ma il tentativo si risolve in un fallimento. La conclusione del narratore è che lo sconosciuto non è altri che “l’uomo della folla”, che “non vuole né può star solo”, la cui esistenza consiste appunto solo nel muoversi in mezzo alla gente. La caratteristica più inquietante del racconto sta nell’arcana affinità tra il protagonista e colui che egli insegue: una sorta di “sdoppiamento della personalità”, del resto presente in altri racconti di questo autore. Ma nel misterioso “alter ego” del narratore affiora un aspetto terribile, che forse prefigura (giacché Poe è un visionario che vede lontano) le angosce dell’uomo di oggi, confuso o perfino reso folle dalla moderna società di massa. Negli anni ’60 dell’Ottocento, mentre Napoleone III ed il Barone Haussmann procedevano alla ricostruzione di Parigi ed aprivano i grandiosi boulevards, con la prima pianificazione urbanistica di una moderna metropoli, Charles Baudelaire (lettore e traduttore delle opere di Poe) proponeva un mirabile ritratto del flâneur, visto come testimone, poeta ed artista di questi nuovi spazi: Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come volete; ma sarete di certo portati, per caratterizzare questo artista, a gratificarlo con un epiteto che non sapreste applicare a chi dipinge cose eterne, o almeno più durevoli, di carattere eroico o religioso. Talvolta egli è poeta; più spesso si avvicina al romanziere o al moralista; egli è il pittore dell’occasionale e di tutto ciò che di eterno esso suggerisce. Ogni paese, per suo piacere e sua gloria, ha avuto alcuni uomini del genere. Charles Baudelaire, Il pittore della vita moderna, II – Schizzo di costume, Le Figaro, 1863 La folla è il suo elemento, come l’aria lo è per gli uccelli e l’acqua per i pesci. La sua passione e la sua professione sono di diventare tutt’uno con la folla. Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è una gioia immensa la scelta di prender dimora nella moltitudine, nell’ondeggiare, nel movimento, nel fugace e nell’immenso. Stare fuor di casa sentendosi tuttavia a casa dovunque; vedere il mondo, essere al centro del mondo restando insieme nascosto al mondo, ecco alcuni piaceri accessori per questi spiriti indipendenti, appassionati, imparziali, che la lingua riesce a stento a definire. L’osservatore è un principe che si delizia ovunque di serbare l’incognito. Colui che ama la vita fa del mondo la propria famiglia, così come chi ama il bel sesso forma una famiglia con tutte le bellezze che ha incontrato, che potrà incontrare, o che non incontrerà mai; così come chi ama la pittura vive in una magica comunità di sogni dipinti su tela. Allo stesso modo, colui che ama la vita universale s’inoltra nella folla come in un immenso serbatoio di energia elettrica. Lo si potrebbe paragonare, costui, ad uno specchio altrettanto sconfinato che quella folla, a un caleidoscopio dotato di coscienza che, a ciascun suo movimento, rappresenta la molteplicità della vita e la grazia instabile di tutti i suoi elementi. Ibid. III - L'artista,uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo Così egli va, corre, cerca. Che cosa cerca? Di sicuro quest’uomo, così come l’ho dipinto, questo solitario dotato di viva immaginazione, sempre in viaggio attraverso il grande deserto umano, ha uno scopo più alto di quello di un semplice curioso, uno scopo più generale, ben diverso dal diletto fuggevole della circostanza. Egli è in cerca di qualcosa che ci sarà consentito chiamare “la modernità”; giacché non è disponibile una parola più adatta per esprimere l’idea in questione. Si tratta, per lui, di estrarre dalla moda quanto essa, nel corso storico, può contenere di poetico, di tirar fuori l’eterno dal transitorio. Ibid. IV - La modernità Nel periodo che segue le rivoluzioni del ’48, che vedono la restaurazione di un potere autoritario, filo-borghese, a tutela dell’ordine sociale e dei “valori morali”, Baudelaire sostiene l’inadeguatezza dell’arte tradizionale alle sempre più dinamiche complicazioni della vita moderna. I cambiamenti economici e culturali causati dall’industrializzazione richiedono che l’artista si immerga nella vita della metropoli e diventi un botanico del marciapiede, un analista del tessuto urbano e sociale. Il flâneur è ben consapevole del suo comportamento pigro e privo di urgenza, come di «uno che porta al guinzaglio delle tartarughe per le vie di Parigi»: una consapevolezza, questa, non priva di risvolti teatrali e snobistici. Secondo David Harvey, da questo momento la vita di Baudelaire (come la figura del flâneur che egli tratteggia) è lacerata tra l’atteggiamento cinico e tediato (lo spleen) dell’osservatore “neutrale” e quello dell’artista che s’immerge con passione nella vita del popolo. * * * La concezione estetica e la visione sociale di Baudelaire aprono la strada ad una riflessione critica sugli spazi della moderna metropoli. In particolare, Georg Simmel sviluppa tale discorso in un ambito specificamente sociologico, con risvolti psicologici. Nel suo celebre saggio Le metropoli e la vita dello spirito, Simmel avanza la tesi per cui la crescente complessità di situazioni e comportamenti che scandiscono la vita nelle grandi città, determina lo sviluppo di rapporti completamente nuovi tra i soggetti umani e tra gli individui ed i poteri impersonali che guidano la società contemporanea. Nuove forme di percezione degli spazi e dei tempi inducono quell’atteggiamento blasé (più o meno analogo allo spleen, o al “disincanto” di cui parla Weber) che plasma il vissuto e la percezione di sé. I problemi più profondi della vita moderna scaturiscono dall’aspirazione dell’individuo a salvaguardare l’autonomia e l’individualità della propria esistenza di fronte allo strapotere della società, dell’eredità storica, della cultura esteriore e dalle tecniche del vivere: è questo lo sviluppo estremo della lotta contro la natura che già l’uomo primitivo conduceva per garantirsi l’esistenza materiale. Così, il Secolo XVIII ha promosso la liberazione da tutti i vincoli prodotti nel corso della storia in campo politico e religioso, morale ed economico, in nome del libero sviluppo di quella natura originaria di carattere benigno, che sarebbe identica in ogni uomo. Così, il Secolo XIX ha sostenuto l’esigenza, accanto alla mera libertà, di una specializzazione del lavoro umano e della sua efficienza, il che fa dell’individuo un essere unico rispetto agli altri ed in prospettiva insostituibile, ma al contempo stabilisce la sua estrema integrazione nelle attività collettive; così Nietzsche ha scorto nella lotta senza tregua dei singoli – come il socialismo ha scorto invece proprio nella soppressione di ogni antagonismo – la condizione per il pieno sviluppo degli individui. In tutti questi casi opera lo stesso motivo di fondo: la resistenza del soggetto a lasciarsi appiattire e sfruttare all’interno di un meccanismo socio-tecnologico. Un’indagine sui prodotti del vivere specificamente moderno rivolta al loro senso intimo; un’indagine, per così dire, sul corpo della civiltà per coglierne l’anima (ne è un esempio il mio presente interesse per le nostre metropoli) dovrà fornire la soluzione dell’equazione costituita dai rapporti che strutture di questo genere determinano fra i contenuti individuali e super-individuali del vivere, fra le capacità di adattamento tramite cui l’individuo trova un accomodamento con i poteri esterni a lui. Georg Simmel: Le metropoli e la vita dello spirito, 1903 * * * È pressoché impossibile che un’odierna indagine sulla figura del flâneur non faccia riferimento agli scritti che Walter Benjamin ha dedicato all’opera di Baudelaire (di cui egli è stato anche traduttore) ed al rapporto di quest’ultimo con gli ambienti urbanistici parigini. Anche se il suo primo saggio su questo tema (“D Die Widerkehr des Flâneurs” – “Il ritorno del f.”, 1929) riguarda la città di Berlino, ispirandosi alle passeggiate di Franz Hessel, Benjamin considera Parigi come il naturale habitat di tale figura. Il titolo dello scritto sopra citato potrebbe suggerire l’idea che il flâneur rappresenti in sostanza una figura del passato; ma nella visione dell’autore il passato stesso non costituisce una realtà ormai superata ed oggettivamente compiuta, bensì un’eredità da reinterpretare continuamente, capace di irrompere di nuovo nel presente, introducendovi novità decisive. Sempre in relazione all’opera di Baudelaire, Benjamin rileva come il poeta subisca di continuo gli urti della folla, delle luci, delle novità: la folla è la “figura segreta” (la potenza nascosta) della sua poesia, nella quale, mai compiutamente rappresentata, essa dimora come presenza ossessiva; non nei contenuti, dunque, ma nella stessa forma, nel ritmo nervoso, ora ondulato, ora franto, del verso. In proposito, Benjamin distingue tra l’“esperienza generica” di chi osserva solo passivamente, e quella “vissuta”, che consente di rielaborare attivamente i traumi prodotti dalla vita, e quindi di difendere la coscienza dal loro assalto: il semplice choc è privo di mediazione e dunque non ha sviluppi dialettici. La curiosità del flâneur è ben più lucida e cosciente di quella frivola del turista. Quest’ultimo si sposta tra mete prefissate, consigliate da apposite guide: sa già che cosa incontrerà nel suo tragitto, che quindi si riduce ad un semplice rituale. Il flâneur si fa guidare dall’istinto del nuovo, da indizi celati nell’ambiente, che egli sa cogliere e seguire, senza un piano preciso ma adattando il proprio percorso ad ogni occasione. Assai diverso dal badaud, il semplice curioso che sta al flâneur un po’ come il ghiottone al buongustaio, egli è testimone dei primi riti consumistici di massa celebrati nei passages parigini; assiste alla nascita e alla morte di mode ed ambienti, si comporta come un libero ricercatore che, serbando la sua identità, cambia di continuo luogo e punto di osservazione. Il flâneur si configura come l’esploratore di un paesaggio incantato, che egli stesso va costruendo: egli “si abbandona nella folla” in una sorta di trance ipnotica – nella quale egli resta peraltro ben lucido, pronto a cogliere rivelazioni improvvise, nella prospettiva di un “risveglio”, che costituisce l’autentica speranza dell’uomo contemporaneo. Quasi “un’anima errante in cerca di un corpo”, egli s’immedesima di volta in volta in un’altra persona, godendosi “l’impagabile privilegio di essere se stesso e qualcun altro, a propria discrezione”. Come accade per certi personaggi di Poe, detective dilettanti e messi in moto dal puro caso, ma insieme capaci di geniali intuizioni, il flâneur incarna la potente capacità del mondo di riflettere su se stesso e sulle proprie incongruenze. In Benjamin, il ruolo dell’osservatore urbano assume insieme funzione di strumento analitico e di stile di vita. Influenzato dalle tesi marxiste, egli vede nel flâneur un prodotto della rivoluzione industriale senza precedenti nella storia ed appartenente ad un preciso strato sociale: il suo flâneur è un detective borghese, un investigatore occasionale, emotivamente poco coinvolto ma sempre molto perspicace. Egli è insieme l’uomo alienato dalla società capitalistica e l’intellettuale che, grazie ai suoi strumenti teorici, può riuscire ad intuirne e smascherarne le contraddizioni. Benjamin stesso incarna esemplarmente la figura del flâneur: le sue lunghe passeggiate per le vie di Parigi (che egli riconosce come “la capitale del secolo XIX”) sono sempre occasione di una vasta gamma di spunti estetici e di analisi antropologica: il titolo della sua opera incompiuta, il cosiddetto Passagenwerk, testimonia la sua programmatica attrazione per le affollate vie dei negozi. L’indagine di Benjamin su questi temi è chiaramente influenzata dalle riflessioni di Simmel, specie per quanto riguarda gli approfondimenti sociologici e psicologici. Le grandi città costituiscono per entrambi il teatro delle meraviglie e delle innovazioni, ma anche dei conflitti sociali, dello stress e dell’alienazione: esse sono il luogo dei problemi così come della loro possibile soluzione. Simmel e Benjamin rappresentano due generazioni di intellettuali (collegate ma anche ben distinte tra di loro) formatesi rispettivamente prima e durante il periodo che vede sviluppare in Europa i regimi totalitari. Nelle loro riflessioni si colgono due momenti emblematici dell’autocoscienza dell’uomo moderno che ha sperimentato, inizialmente, la speranza di poter tutelare almeno in parte la propria individualità e, successivamente, la disillusione prodotta dalla cultura di massa e dai totalitarismi. L’individuo blasé di Simmel ed il passeggiatore sognante di Benjamin sono comunque momenti chiave di una riflessione, oggi tutt’altro che esaurita, sul rapporto tra individuo e società. L’ epopea del l ’ uom o c om une Nell’U Ulysses di James Joyce, la lunghissima e disorganica passeggiata di Leopold Bloom attraverso la città di Dublino è ricondotta programmaticamente – non senza una vena satirica – alle peripezie dell’eroe omerico attraverso contrade misteriose e non di rado piene d’insidie. Anche il personaggio di Joyce si muove nello spirito del flâneur: egli è un osservatore distaccato ed insieme sensibile alla vita segreta che sente pulsare nella città. La sua città; che mostra per altri versi il volto di una terra straniera, una landa in cui il protagonista si aggira come in esilio – il che conferisce a Dublino, ambiguamente, i tratti di Itaca (la meta del nostos) ed insieme quelli di tutte le contrade ostili ed arcane attraversate da Ulisse nel corso delle sue peripezie. Il personaggio di Joyce è un ebreo, ed è al contempo cittadino di un paese (l’Irlanda) che non si è ancora affrancato dal dominio inglese (l’U Ulysses esce nel 1922, ma la passeggiata di Bloom per le vie di Dublino si svolge nel 1904). I dieci anni trascorsi dall’Ulisse omerico nelle sue peregrinazioni si restringono qui ad una singola giornata: il che rende estremamente densi i nessi simbolici presenti in ciascun episodio, e sembra conferire alle situazioni più ordinarie e banali il valore di altrettante illuminanti epifanie. Anche il viaggio dell’“eroe” di Joyce rappresenta, in definitiva, una ricerca di sé, nel corso della quale egli si arricchisce di tutto ciò di diverso da sé con cui entra in contatto, ma senza restarne prigioniero. E non si tratta di una mera vicenda individuale, giacché, come accade in Omero (che nelle terre visitate da Ulisse raffigura le diverse civiltà del bacino mediterraneo), nelle molteplici situazioni e nei vari personaggi incontrati da Bloom, l’autore intende rappresentare altrettanti aspetti della realtà sociale e culturale dell’umanità contemporanea, o altrettante fasi significative della sua storia. Nell’esplorazione che questo moderno Ulisse conduce durante la sua passeggiata, vengono anche messi in crisi i confini tra mondo esterno ed interiore: ogni vicenda è infatti scandita da una particolare forma di percezione, sempre filtrata dal vissuto del protagonista. Joyce utilizza metafore, simboli, situazioni ambigue, intrecciandoli sottilmente tra di loro, in un’intricata rete di significati, fino a delineare una qualche struttura globale: si tratta, per molti versi, di un metodo affine a quello psicoanalitico che, attraverso un flusso di libere associazioni, intende far emergere infine la complessa e profonda realtà dei contenuti inconsci. Questo sottile gioco di simboli e di metafore è stato apprezzato, in particolare, da Thomas Eliot, che parla in proposito di un «metodo mitologico: un modo di controllare, dare ordine, forma e significato a quell’immenso panorama di futilità ed anarchia che è la storia contemporanea». L a c i ttà d e s o l a ta I radicali mutamenti, soprattutto l’espansione, delle grandi città tra fine Ottocento e primi del Novecento, ed il complicarsi dei loro spazi (collegato anzitutto agli sviluppi economici) risultano spesso disorientanti per l’umanità che vi abita. Le atmosfere angosciose, ancora indefinite, dei racconti di Poe, o le più circostanziate minacce individuate in seguito da Simmel (contro le quali l’individuo cercava di proteggere la propria identità e la propria sfera privata) assumono sempre più l’aspetto di un destino ineluttabile, appaiono come l’effetto di forze impersonali ed incontrollabili dall’uomo. Quest’ultimo è, d’altra parte, il responsabile o per lo meno il protagonista principale di tale processo – il che sembra rievocare l’atmosfera dell’antica tragedia greca, che già affermava (vedi l’A Antigone di Sofocle) che molte sono le cose terribili, ma nessuna è più terribile dell’uomo. Poche opere hanno saputo rendere l’atmosfera tragica, il senso di angosciosa impotenza che regna nella metropoli moderna con la stessa efficacia del poemetto La Terra Desolata di Thomas Stearns Eliot (1922): composta proprio all’indomani della prima guerra mondiale, quest’opera rappresenta la voce di una generazione che, tramontate le illusioni e le false sicurezze della Belle Epoque, si è risvegliata di colpo nel deserto. Nella prima parte del poemetto, Eliot descrive la folla grigia e quasi informe degli impiegati londinesi che affluiscono verso il cuore economico della città: il riferimento che viene quasi spontaneo – e che il poeta non manca di esplicitare – è all’Inferno di Dante, e anzi a quella contrada nebulosa che si trova appena dopo la soglia infernale, in cui vagano grigie torme di anime che vissero “sanza infamia e sanza lodo”, alle quali viene negato persino un nome. Città irreale, Sotto la bruna nebbia di un’alba invernale, Una folla fluiva sul London Bridge, tanta gente, Ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e radi, esalavano nell’aria, E ciascuno teneva gli occhi fissi davanti ai piedi. Fluiva su per la collina e giù per King William Street, Fin là dove Saint Mary Woolnoth scandiva le ore Con un suono di morte all’ultimo rintocco delle nove. T.S. Eliot, La terra desolata, vv. 60-68 La Londra qui descritta da Eliot è una città sporca, inquinata, una città spettrale dove persino il peccato sembra perdere ogni dignità. Il frequente richiamo a testi celebri (come la Commedia dantesca), o al mito greco (vedi la figura di Tiresia, che compare nella III Parte), o a svariate dottrine della sapienza occidentale ed orientale, sembra avere la funzione di coinvolgere l’intera cultura storica dell’umanità nella presente crisi di ogni certezza o valore. Il che induce una rilettura ironica, a tratti anche grottesca, di certi luoghi e personaggi classici (come accade anche nell’U Ulisse di Joyce), la quale tuttavia non ha semplicemente l’intento di dissacrare la tradizione, ma esprime l’urgenza di una ridefinizione del senso della morale, o dell’arte, nella consapevolezza che anche le situazioni più aride e banali possono aprire a profondità abissali. Sembra inevitabile il richiamo alle tesi di Nietzsche ed alla “morte di Dio” – anche se la prospettiva di Eliot è forse da ultimo l’attesa, di matrice romantica, di un ritorno del divino. In un’altra opera, pubblicata nel 1925, Eliot presenta un coro di uomini ridotti a vuoti fantocci, privi di vita, che non può non ricordare il canto leopardiano delle mummie di Federico Ruysch, o il cupo consesso dei topi nell’oltretomba, che ancora Leopardi mette in scena nei suoi Paralipomeni. Siamo gli uomini vuoti Siamo gli uomini impagliati Appoggiati gli uni agli altri Le teste riempite di paglia, ahimè! Le nostre voci essiccate, quando Sussurriamo all’unisono Sono afone e vacue Come vento nell’erba secca O zampe di topi su cocci di vetro Nella nostra cantina disseccata. Sagoma senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto senza movimento. T.S. Eliot, Gli uomini vuoti – I Queste figure umane quasi prive di vita, sagome anonime, incapaci di stare in piedi se non appoggiandosi le une alle altre, richiamano anche il “leviatano con milioni di gambe” di cui Evgenij Zamjatin parla nel suo romanzo “distopico” Noi, scritto negli stessi anni di The Waste Land. Zamjatin descrive una società del futuro, nella quale un’umanità completamente urbanizzata vive in abitazioni trasparenti, senza più alcuno spazio privato, che realizzano il progetto del Panopticon, il carcere ideato da Bentham alla fine del Settecento, la cui struttura architettonica esponeva in ogni momento i prigionieri alla sorveglianza delle guardie. Lo scrittore russo è un comunista, deluso dagli sviluppi della Rivoluzione d’Ottobre, che hanno visto la trasformazione del partito al potere in una sorta di nuova chiesa dogmatica ed oppressiva; ma il modello sociale che egli disegna, con gli individui schedati come carcerati e ridotti a semplici numeri, in nome dell’efficienza produttiva, sembra adattarsi altrettanto bene ai sistemi capitalistici che, nel frattempo, si vanno rafforzando in Occidente. Lo stesso si può dire per gli incubi del “Grande Fratello”, successivamente evocati da Orwell, altro spirito ribelle deluso dall’esperienza sovietica, che egli accomuna, nei risultati, ai regimi autoritari di tipo fascista. Il Panopticon Nel 1927 esce Metropolis, film del regista austriaco Fritz Lang. Considerato da molti un capolavoro del cinema espressionista, esso è stato anche il modello di numerosi film di fantascienza (v. Blade Runner, Brazil, Terminator, Matrix) che, molto diversi tra di loro per trama, per ambientazione, nonché per qualità artistica, hanno tutti in comune il disorientamento e l’angoscia dell’uomo di fronte agli sviluppi incontrollati della tecnologia ed alla crescente potenza delle macchine. La storia è ambientata nel 2026 (cento anni dopo la produzione del film) e traccia il profilo di una società totalmente meccanizzata, in cui si è fatto estremo il divario tra ricchi e poveri. Questi ultimi, per lo più operai sfruttati da un capitalismo disumano, interessato solo all’efficienza ed al profitto, vivono in certi ghetti sotterranei, senza tutele e senza diritti. Il protagonista è Freder Fredersen, figlio del più potente degli industriali, che, dopo aver vissuto a lungo nell’ignoranza di tale situazione, riesce a penetrare nell’ambiente di lavoro degli operai e, successivamente, a vestirsi come loro e a condividerne le miserie e le fatiche. Una presa di coscienza, insomma, alla San Francesco di Assisi; in questo caso agevolata dalla comparsa di una figura femminile carismatica ed affascinante (che non a caso si chiama Maria), la quale sostiene la causa degli sfruttati, consolandoli e soccorrendoli, ma cercando insieme di evitare che le loro rivendicazioni assumano forma violenta. I riferimenti biblici sono numerosi ed evidenti: dalla mostruosa macchina che, negli incubi di Freder, assume l’aspetto di un grande Moloch, alla storia della Torre di Babele, narrata da Maria, che rappresenta la stessa Metropolis: la tracotanza dell’uomo che, dimenticata ogni pietà fraterna, vorrebbe rendersi simile a un dio onnipotente. Ma un inventore, una sorta di “scienziato pazzo” rivale del padre di Freder, costruisce nel frattempo un robot umanoide identico a Maria, con lo scopo di screditare quest’ultima e provocare disordini: la falsa Maria è in effetti una sorta di “meretrice di Babilonia”, che cavalca mostri apocalittici e si esibisce provocatoriamente in locali di pessima reputazione. Gli operai sono vittima dell’inganno e, affascinati dalle grazie della donna-cyborg, si scatenano in una cieca rivolta distruggendo gran parte delle macchine, ma mettendo così a rischio la stessa incolumità delle proprie famiglie. Infine tutto si aggiusta: Freder, dopo essere a sua volta caduto nella trappola, ritrova e salva la vera Maria, che in lui riconosce il redentore a lungo atteso, destinato a portare pace e concordia tra operai ed imprenditori. I due protagonisti, che si amano, vivono infine insieme felici e contenti, e il pubblico può andarsene a casa soddisfatto ed orientato verso un pacifico interclassismo; anche se Lang dichiarò poi che quel finale non era stato scelto da lui (che intendeva invece far fuggire i due innamorati da una città ormai in rovina): il plot era stato scritto da sua moglie Thea, che poi avrebbe militato nelle file del nazismo. La realtà urbana nelle arti figurative Secondo una tesi avanzata da Simmel e ripresa più tardi da Benjamin, le nuove relazioni sociali sono molto più influenzate dal senso della vista che da quello dell’udito. Al contempo, le nuove tecniche consentono, come rileva Benjamin, di riprodurre l’opera d’arte rendendola accessibile ad un sempre più vasto pubblico, e sottraendole insieme quell’a aura sacrale che la caratterizzava nel passato. La fruizione tradizionale si trasforma così in consumo: l’evento estetico unico, irripetibile, risulta moltiplicato nello spettacolo di massa, la cui peculiare forma artistica è ormai il cinema: alla visione personale, culturalmente specifica e qualificata, si sostituisce quella collettiva, generica ed anonima. Per Benjamin, tuttavia, questa situazione presenta anche opportunità di rinnovamento: il cinema o la fotografia consentono alle masse nuove forme di presa di coscienza, e quindi possono promuovere una contestazione dell’ordine esistente ben più ampia che in passato. In particolare, per quanto riguarda il flâneur, la macchina fotografica può costituire un eccellente supporto mnemonico alle indagini condotte durante le sue peregrinazioni urbane: una sorta di taccuino visivo. È probabile che, di fronte all’attuale proliferazione della fotografia come passatempo di massa (che, grazie alla diffusione dei nuovi apparati digitali, ha assunto aspetti patologici, da sindrome coatta), Benjamin riconoscerebbe la fondatezza delle tesi di Adorno, che si mostrava invece diffidente verso le nuove tecniche visive, o della condanna senza appello già espressa da Baudelaire nel 1859: In questi giorni sventurati, è comparsa una nuova industria, che ha contribuito non poco ad accrescere la sicumera degli stupidi e a rovinare quanto di divino poteva essere rimasto nello spirito francese. Questa folla idolatra invocava un ideale degno di lei ed appropriato alla sua natura … Un Dio vendicatore ha esaudito i voti di costoro. Daguerre è stato il suo messia. E così questa gente ha detto fra sé: «dato che la fotografia ci dà ogni desiderabile garanzia di esattezza (questo credono, i dissennati!), l’arte è la fotografia.» Da quel momento in poi, l’infame comitiva si è precipitata, come un solo Narciso, a contemplare la propria banale immagine fissata sul metallo. Una follia, uno straordinario fanatismo s’è impossessato di tutti questi nuovi adoratori del sole, bizzarri abomini si sono prodotti. Come l’industria fotografica è stata il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per spingere a fondo i loro studi, questa frenesia generale ha dimostrato non solo cecità ed imbecillità, ma ha assunto addirittura il carattere di una vendetta. Che una cospirazione tanto stupida, portata avanti, come capita in tutti questi casi, da persone meschine ed illuse, possa avere un completo successo, non lo credo, o almeno mi rifiuto di crederlo; ma sono convinto che i progressi mal sfruttati della fotografia abbiano contribuito molto, come del resto ogni altra forma di progresso puramente materiale, ad impoverire il genio artistico francese, già per proprio conto così raro. Bisogna dunque che essa [la fotografia] si limiti a svolgere il suo effettivo compito, che è di servire le scienze e le arti, ma con estrema umiltà, come la stampa e la stenografia, che non hanno mai avuto la presunzione di sostituire la letteratura. Che essa arricchisca rapidamente l’album del viaggiatore, restituendo ai suoi occhi la precisione che manca alla sua memoria … Ma se le si consente di sconfinare nei territori dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto ciò che vale solo in quanto l’uomo lo arricchisce con la propria anima, guai a noi! Molti, lo so bene, mi diranno: «la malattia che avete appena illustrato è quella degli imbecilli. Quale uomo degno di chiamarsi artista, o che ami davvero l’arte, ha mai confuso quest’ultima con l’industria?» Sì, lo so, ma ciò nonostante chiederò loro, a mia volta, se credono alla contagiosità del bene e del male, all’influsso delle folle sugli individui ed all’obbedienza involontaria, forzata, dell’individuo alla folla. Che l’artista influenzi il pubblico, e che il pubblico influenzi di rimando l’artista è una legge incontestabile ed inoppugnabile; d’altra parte i fatti, formidabili testimoni, si lasciano consultare facilmente: il disastro è sotto gli occhi di tutti. Giorno dopo giorno, l’arte va perdendo rispetto nei propri confronti, si prostra davanti alla realtà esteriore, e il pittore è sempre più incline a dipingere non ciò che sogna, ma ciò che vede. Eppure c’è una felicità nel sognare, e c’era una gloria nell’esprimere ciò che si sognava; ma che cosa dico! la si conosce ancora questa felicità? Potrebbe affermare, l’osservatore in buona fede, che l’invasione della fotografia e la grande follia industriale sono del tutto estranee a questo deplorevole risultato? È consentito supporre che un popolo i cui occhi si assuefacciano a vedere nei prodotti di una tecnica materiale le opere della bellezza, non abbia in sostanza a smarrire, dopo qualche tempo, la facoltà di giudicare e di percepire quanto v’è di più etereo ed immateriale? Charles Baudelaire, Il pubblico moderno e la fotografia, Salon de 1859, II È anche vero tuttavia che, come nota sempre Benjamin, la tecnica fotografica (già utilizzata da Courbet), ha avuto un’influenza non secondaria sugli sviluppi della pittura impressionista, alla quale l’opera di Baudelaire (amico di Manet e ritratto da quest’ultimo tramite l’utilizzo di una foto), con i suoi repentini tocchi o le sue suggestive improvvisazioni, può considerarsi abbastanza affine. Non a caso la prima mostra impressionista è stata allestita, nel 1874, nello studio del fotografo Nadar. Come accade per la fotografia, la pittura impressionista si propone di fissare l’attimo, cogliendo lo statuto dinamico della realtà, e di rappresentare quest’ultima attraverso inquadrature occasionali, altrettanto provvisorie delle situazioni o delle prospettive in continuo mutamento che caratterizzano la rapida evoluzione della vita moderna. Si apre così la strada a nuove modalità di raffigurazione, che vengono sempre più a dipendere dal punto di vista – non solo fisico, ma anche interiore – di colui che osserva. Nonostante l’automaticità dei suoi apparati tecnici, anche la fotografia consente almeno in parte una simile elaborazione soggettiva. L’Impressionismo si costituisce, comunque, soprattutto agli inizi, come la pittura urbana per eccellenza: non soltanto perché molti artisti privilegiano gli ambienti delle metropoli, trasferendo i loro studi paesaggistici dalla campagna alla città, ma anche perché mostrano di vedere il mondo con gli occhi del cittadino, rivolgendo il loro interesse alla rapidità con cui la città va crescendo e si sta trasformando, con la nascita di nuovi edifici o l’apertura di nuovi spazi. In molti dei loro quadri, si celebrano ambienti animati da uno spirito mobile, spesso frenetico e a tratti persino conflittuale (iniziano infatti a profilarsi i temi dell’emarginazione e della devianza): di lì a breve verranno in primo piano, sempre più urgenti, i problemi del traffico, dell’inquinamento, dello stress e delle nevrosi da eccesso di stimoli, tutti scompensi tipici dell’esistenza metropolitana. Gustave Caillebotte: La Piazza d'Europa in un giorno di pioggia (1877) La frenesia della vita cittadina diviene ancor più evidente nella pittura espressionista, che dell’impressionismo, in particolare della visione soggettiva promossa da tale movimento, si può considerare un estremo sviluppo: vengono tuttavia in primo piano nell’espressionismo, ed occupano stabilmente la scena, quei sintomi di disagio e di alienazione che nella poetica impressionistica erano in fondo restati ai margini, in qualche modo messi in ombra dal senso di rinnovamento e di continua scoperta che aveva conferito a tale poetica tratti tutto sommato ottimistici. James Ensor, Cristo entra a Bruxelles, 1888 Walter Benjamin ha visto nell’espressionismo il trionfo dell’energia interiore sull’ordine costituito, e propone un accostamento di questa impostazione estetica allo stile barocco, che anche in campo architettonico svolgerebbe un’analoga funzione nei confronti dell’equilibrio dell’arte rinascimentale. L’espressionismo incarna la ribellione della libertà e della volontà creatrice – che assume almeno all’inizio forme caotiche – nei confronti delle istanze canoniche di armonia, che tendono storicamente a recuperare a sé anche gli spunti di rinnovamento. Tale ribellione rifiuta e smaschera l’ordine superficiale e le sue apparenti “mediazioni”, per spingersi in profondità e recuperare gli aspetti più autentici del vissuto. È la crisi dell’Io che cede il controllo all’energia dell’Es, è la ribalta del frammento (almeno in apparenza privo di senso e di scopo) che emerge lacerando le immagini virtuali della “totalità” e travolgendo le corrispondenti visioni etiche ed estetiche. Il compito dell’uomo contemporaneo è tuttavia, secondo Benjamin (che qui non sembra molto lontano dal discorso di Nietzsche, oltre che dalla prospettiva freudiana) quello di interrogare il frammento, di raccoglierne la sfida in vista di una possibile ricomposizione. Ernest Kirchner, Scena di strada berlinese, 1913 Il dinamismo espressionistico avvicina in qualche caso questo movimento a quello futurista (vi sono anche artisti che possono essere considerati esponenti di entrambi); tuttavia la crisi dei valori e delle certezze che domina nell’espressionismo, si rovescia nei futuristi nell’ottimistica convinzione di un rinnovamento, ormai a portata di mano, fondato sulla potenza della tecnica. Il tema della città è al centro dell’interesse di questi artisti: la metropoli è il luogo della modernità, e in essa si prepara e già si costruisce il futuro. Il paesaggio urbano è pieno di movimento, è percorso da veicoli, è attraversato da fasci di luce; le sue immagini inquiete, in cui la prospettiva resta indefinitamente moltiplicata, con piani tagliati e forme concentriche, suggeriscono velocità ed instabilità; quasi si percepiscono i rumori. La città futurista si presenta insomma come città delle macchine. Questa predilezione per il dinamismo si contrappone alle concezioni architettoniche monumentali della tradizione, giudicate pesanti ed inadeguate ai nuovi criteri di efficienza. Nel manifesto redatto da Antonio Sant’Elia (pubblicato su Lacerba il 1 agosto 1914) si legge: «Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile a una macchina gigantesca.» Molti progetti futuristi proposti nei primi decenni del Novecento, potevano apparire come semplici provocazioni, pure divagazioni di fantasia. Di fatto essi hanno poi dimostrato una certa concretezza: se valutiamo oggi alcune di quelle proposte, esse ci ricordano edifici o ambienti urbani che sono poi divenuti realtà. Il che mette in luce gli aspetti non utopistici di questo movimento, i cui sviluppi hanno peraltro oscillato ambiguamente tra programmi rivoluzionari e prese di posizione illiberali (vedi l’interventismo nella Grande Guerra e più tardi, in Italia, la vicinanza al regime fascista). Nonostante le sue innovative intuizioni architettoniche, il futurismo ha portato avanti il compito di sovvertire i canoni estetici tradizionali, puntando tutto sulla creatività e confidando nel progresso tecnologico, ma senza farsi troppo carico dei problemi che tale progresso andava provocando. Un po’ com’è accaduto alla poesia di Palazzeschi, che ironizzava sull’esistente e sugli impegni etici e civili, per dar vita a un divertimento fantasioso e nichilistico: una cantilena di “parole in libertà”. Uberto Bonetti, Aeroveduta di Genova, 1930 Parallelamente alla seconda fase dell’esperienza futurista, si sviluppa la corrente architettonica che viene designata come “movimento moderno” ed è connessa al “funzionalismo” di Le Corbusier o di F. L. Wright. Altrettanto cosciente dei mutamenti introdotti dallo sviluppo tecnico e scientifico, questa corrente prende le distanze dal futurismo, perseguendo una maggior concretezza, a partire dalla realizzabilità dei progetti e dall’analisi razionale della funzione di quanto s’intende realizzare; Il che richiede anzitutto lo studio delle possibilità messe a disposizione dalle nuove tecniche. A tali considerazioni si richiama anche il “razionalismo italiano” (Giuseppe Terragni, Giovanni Michelucci) che, pur operando in gran parte durante il periodo del regime fascista, ha mantenuto nei confronti di quest’ultimo una certa autonomia culturale. Giovanni Michelucci & Gruppo Toscano, Stazione di S. Maria Novella a Firenze, 1933 Queste nuove tendenze in campo architettonico rappresentano un consapevole passaggio dalla “città chiusa” alla “città aperta”. Nella vecchia città recintata dalle mura (che la proteggevano dal mondo esterno), vigeva un ordine che era visibilmente collegato a valori e punti di riferimento assoluti – in primo luogo di carattere religioso. La nuova libera gestione degli spazi, strettamente connessa alle libertà democratiche, si esprime soprattutto nell’architettura popolare, in cui la pianta degli edifici o l’aspetto delle facciate non risponde più a valori e canoni meramente estetici, ma prima di tutto all’utilizzo funzionale delle strutture abitative, o commerciali, o ricreative etc. D’altra parte, i criteri estetici tradizionali, basati sull’armonia e sull’impiego di ornamenti, cedono il passo alla pura creatività ed alla reinvenzione, a volte gratuita, di strutture o elementi, consentita dai nuovi mezzi tecnici (vedi il decostruttivismo). Allo stesso modo, la liberazione delle forme e dei rapporti cromatici in pittura (o quella del metro e della sintassi nella poesia, o dei rapporti melodici e tonali in campo musicale) esprime l’affrancamento della cultura odierna dalle strutture immutabili del passato, la loro decostruzione ad opera di istanze tecniche o di pura potenza espressiva. Il fatto che tale rinnovamento coinvolga oggi anche l’architettura sacra, costituisce un paradosso: la visione religiosa non può infatti basarsi che su un ordine universale, retto da leggi immutabili. Di un simile ordine, i luoghi di culto intendono essere tuttora (come sono stati per secoli) la testimonianza e la rappresentazione simbolica: per questo, proprio in tali ambienti si fa particolarmente avvertibile il contrasto tra presente e passato, tra la dissoluzione dei punti di riferimento tradizionali, espressa da certi elementi figurativi, e la funzione che quegli elementi sono incaricati di svolgere. Un paradosso analogo, anche se innescato da un meccanismo inverso, è dato dalla circostanza che, mentre diventa sempre più accessibile al vasto pubblico e mentre intende esprimere (anche se non sempre consapevolmente) il venir meno dei criteri di senso e dei canoni estetici collaudati, l’opera d’arte continua a rivendicare un valore “oggettivo” ed un conseguente statuto economico, che le consente poi di farsi quotare sul mercato. Assistiamo oggi ad una proliferazione di televendite ed aste che rendono disponibili certe opere anche a persone non facoltose, cui si prospetta l’opportunità di adornare il proprio salotto con qualche pezzo “importante”. In questo processo entropico, per cui tutto o quasi può costituirsi come appagante feticcio, qualcuno sembra voler trasformare in prodotto di facile consumo anche quel che resta dell’aura sacrale che un tempo avvolgeva simili oggetti. Ma ormai, come già vedeva Benjamin (e come ribadisce una nota canzone), l’aura non c’è. Testi in lingua originale: «Observateur, flâneur, philosophe, appelez-le comme vous voudrez; mais vous serez certainement amené, pour caractériser cet artiste, à le gratifier d'une épithète que vous ne sauriez appliquer au peintre des choses éternelles, ou du moins plus durables, des choses héroïques ou religieuses. Quelquefois il est poète; plus souvent il se rapproche du romancier ou du moraliste; il est le peintre de la circonstance et de tout ce qu'elle suggère d'éternel. Chaque pays, pour son plaisir et pour sa gloire, a possédé quelques-uns de ces hommes-là.» Charles Baudelaire, Le peintre de la vie moderne II – Le croquis de mœurs, Le Figaro, 1863 «La foule est son domaine, comme l’air est celui de l’oiseau, comme l’eau celui du poisson. Sa passion et sa profession, c’est d’ épouser la foule. Pour le parfait flâneur, pour l’observateur passionné, c’est une immense jouissance que d’élire domicile dans le nombre, dans l’ondoyant, dans le mouvement, dans le fugitif et l’infini. Etre hors de chez soi, et pourtant se sentir partout chez soi; voir le monde, être au centre du monde et rester caché au monde, tels sont quelquesuns des moindres plaisirs de ces esprits indépendants, passionnés, impartiaux, que la langue ne peut que maladroitement définir. L’observateur est un prince qui jouit partout de son incognito. L’amateur de la vie fait du monde sa famille, comme l’amateur du beau sexe compose sa famille de toutes les beautés trouvées, trouvables et introuvables; comme l’amateur de tableaux vit dans une société enchantée de rêves peints sur toile. Ainsi l’amoureux de la vie universelle entre dans la foule comme dans un immense réservoir d’électricité. On peut aussi le comparer, lui, à un miroir aussi immense que cette foule; à un kaléidoscope doué de conscience, qui, à chacun de ses mouvements, représente la vie multiple et la grâce mouvante de tous les éléments de la vie.» Ibid. III - L'artiste, homme du monde, homme des foules et enfant «Ainsi il va, il court, il cherche. Que cherche-t-il? A coup sûr, cet homme, tel que je l'ai dépeint, ce solitaire doué d'une imagination active, toujours voyageant à travers le grand désert d'hommes, a un but plus élevé que celui d'un pur flâneur, un but plus général, autre que le plaisir fugitif de la circonstance. Il cherche ce quelque chose qu'on nous permettra d'appeler la modernité; car il ne se présente pas de meilleur mot pour exprimer l'idée en question. Il s'agit, pour lui, de dégager de la mode ce qu'elle peut contenir de poétique dans l'historique, de tirer l'éternel du transitoire.» Ibid. V - La modernité * * * Dans ces jours déplorables, une industrie nouvelle se produisit, qui ne contribua pas peu à confirmer la sottise dans sa foi et à ruiner ce qui pouvait rester de divin dans l’esprit français. Cette foule idolâtre postulait un idéal digne d’elle et approprié à sa nature … Un Dieu vengeur a exaucé les vœux de cette multitude. Daguerre fut son Messie. Et alors elle se dit: «Puisque la photographie nous donne toutes les garanties désirables d’exactitude (ils croient cela, les insensés!), l’art, c’est la photographie.» À partir de ce moment, la société immonde se rua, comme un seul Narcisse, pour contempler sa triviale image sur le métal. Une folie, un fanatisme extraordinaire s’empara de tous ces nouveaux adorateurs du soleil. D’ étranges abominations se produisirent Comme l’industrie photographique était le refuge de tous les peintres manqués, trop mal doués ou trop paresseux pour achever leurs études, cet universel engouement portait non seulement le caractère de l’aveuglement et de l’imbécillité, mais avait aussi la couleur d’une vengeance. Qu’une si stupide conspiration, dans laquelle on trouve, comme dans toutes les autres, les méchants et les dupes, puisse réussir d’une manière absolue, je ne le crois pas, ou du moins je ne veux pas le croire ; mais je suis convaincu que les progrès mal appliqués de la photographie ont beaucoup contribué, comme d’ailleurs tous les progrès purement matériels, à l’appauvrissement du génie artistique français, déjà si rare. Il faut donc qu’elle rentre dans son véritable devoir, qui est d’être la servante des sciences et des arts, mais la très-humble servante, comme l’imprimerie et la sténographie, qui n’ont ni créé ni suppléé la littérature. Qu’elle enrichisse rapidement l’album du voyageur et rende à ses yeux la précision qui manquerait à sa mémoire … Mais s’il lui est permis d’empiéter sur le domaine de l’impalpable et de l’imaginaire, sur tout ce qui ne vaut que parce que l’homme y ajoute de son âme, alors malheur à nous! Je sais bien que plusieurs me diront : « La maladie que vous venez d’expliquer est celle des imbéciles. Quel homme, digne du nom d’artiste, et quel amateur véritable a jamais confondu l’art avec l’industrie ? » Je le sais, et cependant je leur demanderai à mon tour s’ils croient à la contagion du bien et du mal, à l’action des foules sur les individus et à l’obéissance involontaire, forcée, de l’individu à la foule. Que l’artiste agisse sur le public, et que le public réagisse sur l’artiste, c’est une loi incontestable et irrésistible; d’ailleurs les faits, terribles témoins, sont faciles à étudier; on peut constater le désastre. De jour en jour l’art diminue le respect de lui-même, se prosterne devant la réalité extérieure, et le peintre devient de plus en plus enclin à peindre, non pas ce qu’il rêve, mais ce qu’il voit. Cependant c’est un bonheur de rêver, et c’était une gloire d’exprimer ce qu’on rêvait ; mais que dis-je! connaît-il encore ce bonheur? L’observateur de bonne foi affirmera-t-il que l’invasion de la photographie et la grande folie industrielle sont tout à fait étrangères à ce résultat déplorable ? Est-il permis de supposer qu’un peuple dont les yeux s’accoutument à considérer les résultats d’une science matérielle comme les produits du beau n’a pas singulièrement, au bout d’un certain temps, diminué la faculté de juger et de sentir ce qu’il y a de plus éthéré et de plus immatériel? Charles Baudelaire, Le public moderne et la Photographie - Salon de 1859, II * * * «Die tiefsten Probleme des modernen Lebens quellen aus dem Anspruch des Individuums, die Selbständigkeit und Eigenart seines Daseins gegen die Übermächte der Gesellschaft, des geschichtlich Ererbten, der äußerlichen Kultur und Technik des Lebens zu bewahren - die letzterreichte Umgestaltung des Kampfes mit der Natur, den der primitive Mensch um seine leibliche Existenz zu führen hat. Mag das 18. Jahrhundert zur Befreiung von allen historisch erwachsenen Bindungen in Staat und Religion, in Moral und Wirtschaft aufrufen, damit die ursprünglich gute Natur, die in allen Menschen die gleiche ist, sich ungehemmt entwickele; mag das 19.Jahrhundert neben der bloßen Freiheit die arbeitsteilige Besonderheit des Menschen und seiner Leistung fordern, die den Einzelnen unvergleichlich und möglichst unentbehrlich macht, ihn dadurch aber um so enger auf die Ergänzung durch alle anderen anweist; mag Nietzsche in dem rücksichtslosesten Kampf der Einzelnen oder der Sozialismus gerade in dem Niederhalten aller Konkurrenz die Bedingung für die volle Entwicklung der Individuen sehen - in alledem wirkt das gleiche Grundmotiv: der Widerstand des Subjekts, in einem gesellschaftlich-technischen Mechanismus nivelliert und verbraucht zu werden. Wo die Produkte des spezifisch modernen Lebens nach ihrer Innerlichkeit gefragt werden, sozusagen der Körper der Kultur nach seiner Seele - wie mir dies heut gegenüber unseren Großstädten obliegt - wird die Antwort der Gleichung nachforschen müssen, die solche Gebilde zwischen den individuellen und den überindividuellen Inhalten des Lebens stiften, den Anpassungen der Persönlichkeit, durch die sie sich mit den ihr äußeren Mächten abfindet.» Georg Simmel: Die Grosstädte und das Geistesleben, 1903 * * * Unreal City, Under the brown fog of a winter dawn, A crowd flowed over London Bridge, so many, I had not thought death had undone so many. Sighs, short and infrequent, were exhaled, And each man fixed his eyes before his feet. Flowed up the hill and down King William Street, To where Saint Mary Woolnoth kept the hours With a dead sound on the final stroke of nine. T.S. Eliot, The Waste Land, vv. 60-68, 1922 * * * We are the hollow men We are the stuffed men Leaning together Headpiece filled with straw. Alas! Our dried voices, when We whisper together Are quiet and meaningless As wind in dry grass Or rats' feet over broken glass In our dry cellar. Shape without form, shade without colour, Paralysed force, gesture without motion. T.S. Eliot, The Hollow Men, I, 1925 © B. Gensini, 2015