Politica e tecnica………
POLITICA E TECNICA LEGISLATIVE
IN MATERIA DI DOPING
di Luca Leone (*)
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DOTTRINA
Politica e tecnica………
Il 1° febbraio 2007 è entrata in vigore a livello internazionale, al termine del primo giro di
ratifiche da parte degli Stati1, la Convenzione contro il doping nello sport, adottata a Parigi alla 33^
Conferenza generale dell'UNESCO il 19 ottobre 2005.
L'Italia ha provveduto alla sua ratifica con la legge 26 novembre 2007 n. 230.
Questa convenzione rappresenta indubbiamente un passo in avanti nella lotta al doping a
livello internazionale rispetto alla precedente Dichiarazione di Copenaghen del 2003, sottoscritta da
un numero elevatissimo di Stati a seguito della Conferenza internazionale promossa dalla World
Anti-Doping Agency e diretta fondamentalmente a riconoscere e sostenere il ruolo di quest'ultima
nell’attività di contrasto al doping, con particolare riguardo al Codice Mondiale Antidoping da essa
prodotto. Con la Convenzione UNESCO si è passati infatti da una mera intesa di carattere esortativo
ad un vero e proprio accordo, vincolante per gli Stati aderenti2.
Essa, salvaguardando i principi che sono alla base della Convenzione contro il doping del
Consiglio d'Europa del 19893, mira non a creare un'ulteriore Autorità nel quadro delle politiche
antidoping, bensì a dare all'UNESCO il ruolo di garante4 rispetto all'adesione dei vari Paesi alle
misure di lotta al doping proposte dalla WADA, in modo pure da fornire a questa l'autorevolezza di
cui necessita, deficitando invero essa del riconoscimento della personalità giuridica internazionale.
È stata pertanto data un’investitura ufficiale alla WADA e al Codice Mondiale Antidoping,
allegato in appendice alla Convenzione e di cui essa fa proprie al suo interno molte norme, quali
l’elenco delle definizioni e delle violazioni antidoping.
Tuttavia, per quanto gli Stati contraenti siano vincolati al rispetto dei principi generali del
Codice come matrice per le misure legislative o amministrative da adottare in materia di doping, la
Convenzione non recepisce il Codice nel suo complesso rendendolo obbligatorio in quanto tale, al
pari di quanto è avvenuto a livello sportivo5.
Non si è pertanto riusciti a superare anche in questo caso la dicotomia esistente tra istituzioni
statali ed organizzazioni sportive, fondata su criteri di quanto possibile autonomia e non ingerenza.
1
L'entrata in vigore della International Convention Against Doping in Sport è stato infatti previsto che avvenisse il primo giorno del
secondo mese successivo al deposito della trentesima ratifica. Ad oggi sono più di 70 gli Stati che hanno provveduto alla ratifica della
Convenzione.
2
È stata prevista l'istituzione di un'apposita Conferenza delle Parti, competente per svolgere l'attività di monitoraggio
sull'applicazione della Convenzione UNESCO contro il doping nello sport (artt. 28-34).
3
L'art. 6 della Convenzione precisa che restano impregiudicati i diritti e gli obblighi che gli Stati membri hanno assunto sulla base di
strumenti internazionali preesistenti, facendo quindi un chiaro rifrimento alla Convenzione di Strasburgo del Consiglio d'Europa.
4
L’UNESCO anche in passato si è operata per lo sviluppo di una corretta e salutare attività sportiva a livello planetario, a partire
dall’elaborazione della Carta internazionale dell’educazione fisica e dello sport del 1978. Grazie all’UNESCO, inoltre, l’anno 2005 è
stato dichiarato (Dichiarazione 58/5 del novembre 2003) International Year of Sport and of Physical education (IYSPE 2005).
5
Divengono invece internazionalmente vincolanti per gli Stati partecipanti alla Convenzione UNESCO la lista delle sostanze e dei
metodi proibiti e gli standards per l'autorizzazione all'uso di determinate sostanze a fini terapeutici, approvati dalla WADA, che
rappresentano i due Allegati parte integrante del testo della Convenzione, grazie al rinvio operato dall’art. 4.
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La Convenzione lascia ai singoli Stati membri la libertà di adottare misure complementari al
codice WADA, attraverso leggi, regolamenti, politiche o provvedimenti amministrativi (art. 5) e
viene inoltre espressamente prevista la possibilità di stabilire sanzioni anche di natura penale per il
personale di supporto degli atleti colpevoli di doping.
Ma, se da un lato non vi è quindi alcun obbligo per gli Stati aderenti i cui ordinamenti non
annoverano sanzioni penali in materia di doping di provvedere in tal senso, dall'altro anche quegli
Stati che viceversa abbiano un regime più severo, prevedendo in particolare sanzioni penali pure nei
confronti degli atleti, non sono obbligati ad abrogare tale regime (artt. 8 e 9).
Se a ciò si aggiunge che nella versione definitiva è stata inserita la c.d. clausola federale,
fortemente voluta da Paesi come gli USA e il Canada, grazie alla quale vengono fatte salve le
competenze dei singoli Stati federati anche laddove lo Stato federale abbia aderito alla Convenzione
(art. 35), si crede di potersi svolgere alcune brevi considerazioni sulla reale portata uniformante
dell'accordo.
Per quanto infatti la Convenzione internazionale contro il doping del 2005 abbia come scopo
la definizione di uno strumento giuridico internazionalmente riconosciuto attraverso cui
armonizzare sia le diverse legislazioni nazionali che la cooperazione tra i vari Stati e le
organizzazioni sportive nazionali e internazionali in materia di contrasto al doping, è pur vero che
anche dopo la sua entrata in vigore restano delle zone d'ombra, lasciate evidentemente obtorto collo
per non pregiudicarne l'adesione generalizzata, che rischiano di limitare parecchio i reali effetti
dell'accordo in termini di omogeneità di trattamento delle pratiche di doping tra nazione e nazione.
In proposito deve ricordarsi come, pure limitandoci al solo ambito europeo, esistano posizioni
recisamente differenti rispetto alla necessità e all'opportunità di intervenire con una legge dedicata,
prevedendo in particolare delle sanzioni di carattere penale per le fattispecie di doping.
Mentre infatti vi sono Paesi – quali ad esempio l'Italia, la Francia, la Spagna e la Svezia – che
hanno emanato leggi ad hoc, ve ne sono altri, per lo più tradizionalmente portati ad
un'organizzazione dello sport di tipo privatistico (si pensi al Regno Unito) e quindi poco propensi
ad ingerenze statali nelle questioni sportive, che credono siano le organizzazioni sportive a dovere
approntare strumenti adeguati di deterrenza, potendosi comunque applicare all'occorrenza le norme
penali già esistenti, in specie con riferimento a fattispecie criminose legate al traffico di stupefacenti
o di medicinali ovvero ad ipotesi di lesioni colpose, se non addirittura di omicidio6.
6
In proposito, di sicuro interesse è il dibattito sviluppatosi tra i giuristi tedeschi a partire dall'inizio degli anni novanta e non ancora
sopitosi, basato più che su questioni di natura organizzativa su profili di politica criminale in senso giuspositivista. In Germania gran
parte della dottrina ritiene infatti che "un'estensione dell'ambito penalistico in relazione alla semplice condotta di fare uso di doping
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E anche dove esiste una specifica legge antidoping si riscontrano diverse differenze. Si
consideri nello specifico che mentre in Italia, così come in Svezia, è sanzionato penalmente il c.d.
doping autogeno, venendo cioè punito come reato l'assunzione volontaria di sostanze dopanti da
parte dello sportivo; in nazioni quali la Francia e più recentemente Spagna e Austria, le sanzioni
penali riguardano le condotte di commercio, prescrizione, somministrazione, offerta etc. ma non
anche gli atleti, passibili soltanto di sanzioni amministrative7.
In Italia, in particolare, la legge antidoping del 14 dicembre 2000 n. 376 prevede le medesime
pene (peraltro con un range di condanna piuttosto ampio: da 3 mesi a 3 anni) e la medesima figura
delittuosa, inquadrabile tra i reati di pericolo a dolo specifico, per tutti i soggetti e per tutte le
fattispecie legate al doping, senza distinguere, tra l'altro, a seconda del quantitativo, così come
avviene invece in Svezia, anch'essa dotatasi da tempo di sanzioni penali a carico dell'atleta8.
Anche in considerazione del fatto che il bene tutelato dalla legislazione statale si ritiene sia
fondamentalmente la salute pubblica, in relazione all'art. 32 della Costituzione – non foss'altro
perché la tutela penale dovrebbe essere accordata quanto più possibile nei soli casi di offesa
significativa su beni costituzionalmente rilevanti – è non quindi la lealtà e la correttezza sportiva 9, la
legge italiana si è esposta a critiche proprio per la scelta di estendere l'ambito penale di punibilità
all'atleta.
Per quanto, in effetti, il fenomeno doping può e deve essere visto ormai come un problema
sociale, che va quindi contrastato non solo dalla regolamentazione sportiva, ove da tempo sono
previste sanzioni a carico dei diversi soggetti coinvolti che possono arrivare fino alla squalifica a
vita, ma altresì dall’ordinamento giuridico generale, preoccupandosi lo Stato dei rischi per la salute
degli atleti che fanno uso di doping, appare opinabile la scelta di utilizzare a livello legislativo
unicamente uno strumento repressivo così elevato sia ottimale sotto il profilo dell’efficacia
parrebbe soltanto la predisposizione di una discutibilissima (e secondo un certo punto di vista, addirittura incostituzionale) tutela di
un principio etico, ciò che dovrebbe esulare dagli scopi di un diritto penale moderno e laico": GABRIELE FORNASARI, Il doping
come problema penalistico nella prospettiva di diritto comparato, in CANESTRARI-FORNASARI (a cura di), Nuove esigenze di
tutela nell'ambito dei reati contro la persona, Bologna, 2001, p. 444.
7
Per una disamina delle diverse legislazioni in tema di contrasto al doping in ambito europeo si veda SILVANA PAGLIARA, Il
doping negli ordinamenti europei e le iniziative mondiali per combatterlo, in Rassegna Avvocatura dello Stato, 2005, 4, p. 308-327.
8
Legge 1° luglio 1992 n. 1969, come modificata dalla legge 25 febbraio 1999 n. 44.
9
In Italia il doping è oggi infatti vietato esplicitamente sia dall’ordinamento sportivo, che fa oggi espresso riferimento al Codice
Mondiale Antidoping della WADA e alla lista delle sostanze vietate e dei metodi proibiti, elaborata annualmente dalla WADA e
immediatamente operativa anche in Italia senza ulteriori approvazioni da parte del CONI, sia dalla legislazione statale. La lettura
delle due normative mostra però chiaramente come esse partano da punti di vista differenti, preoccupandosi l’ordinamento giuridico
sportivo di garantire principalmente la lealtà e la correttezza nelle competizioni sportive; quello statale di tutelare la salute dei
cittadini, mettendo al bando un comportamento che costituisce per essa un indubbio pericolo. Differenti sono ovviamente anche le
conseguenze in caso di trasgressione, distinguendosi in particolare la sanzione dello Stato da quella prevista per l’illiceità sportiva per
essere la prima di carattere addirittura penale.
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sanzionatoria, essendo l’applicabilità della norma penale, soggetta a complessi problemi di prova,
ben più difficile rispetto a quella di eventuali sanzioni amministrative10.
Evitando accuratamente la perigliosa china rappresentata da valutazioni di natura
sociopolitico o addirittura morale sulla scelta di politica criminale operata nel nostro Paese in tema
di doping, sembra nondimeno potersi dubitare della forza deterrente della legge antidoping italiana,
in particolare rispetto alla diffusione del fenomeno tra i giovani a tutti i livelli sportivi, che
dovrebbe tradursi in una marcata spinta dissuasiva a fare ricorso a mezzi che, oltre a essere scorretti,
si rivelano fatalmente nocivi per la salute degli atleti.
E ciò vale quantomeno per gli atleti stessi, costituendo forse per loro una maggiore minaccia
la previsione delle squalifiche sportive e per i quali, di converso, senza neppure distinguere nella
lettera del legislatore tra professionisti e dilettanti, sono stati tramutati in fattori criminogeni quegli
impulsi e desideri, a volte ingenui e difficilmente controllabili in giovane età, che li sospingono
verso il doping e che sono spesso frutto di forti condizionamenti ambientali11.
Ma a proposito del carattere di deterrenza delle sole sanzioni sportive e della necessità di un
intervento pubblico di sostegno alle istituzioni sportive, deve osservarsi come esse dimostrino una
certa incapacità ad affrontare con decisione il fenomeno doping.
Così, lascia invero perplessi che i controlli antidoping svolti in Italia sia dalle Federazioni
Sportive che direttamente dal CONI attraverso il suo Comitato per i controlli antidoping non
riscontrino in media neanche l'1% di positività, mentre i risultati dei controlli disposti dalla
Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping, istituita presso il Ministero della Salute, si
attestano invece ben sopra il 2% di positività. A cosa attribuire un differente esito?
Anche osservando i dati relativi ai controlli a sorpresa effettuati dai diversi organi le
differenze restano notevoli e costanti negli anni12.
10
È appena il caso di ricordare che, non sussistendo vincolo di pregiudizialità per la giustizia sportiva, questa scelta comunque non
influisce sulle possibilità di infliggere le sanzioni disciplinari proprie dell’ordinamento sportivo, caratterizzate da un’assai maggiore
applicabilità (si pensi, in proposito, che vale qui il principio della responsabilità oggettiva dell’atleta risultato positivo al controllo
antidoping o semplicemente in possesso della sostanza vietata, salvo annullamento o riduzione della sanzione se l’atleta riesce a
provare l’assenza di colpa o la colpa non significativa) e tuttavia limitate ai soggetti facenti parte del mondo sportivo.
11
Con riguardo alle critiche mosse alla legge 14 dicembre 2000 n. 376 e in particolare alla scelta di sanzionare penalmente il
possibile "anello debole della catena", sì da rivelarsi la stessa in un possibile boomerang processuale si veda SERGIO BONINI,
Doping e diritto penale prima e dopo la legge 14 dicembre 2000 n. 376, in CANESTRARI-FORNASARI (a cura di), Nuove esigenze
di tutela nell’ambito dei reati contro la persona, Bologna, 2001, p. 255-335, nella cui trattazione si da conto anche del dibattito
inerente l'indubbia valenza simbolica che tale legislazione penale, al pari di altre, riveste.
12
I dati relativi ai controlli statali si possono evincere dalle relazioni sullo stato di attuazione della legge 376/2000 e sull'attività
svolta dalla Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping, presentate annualmente al Parlamento dal Ministro della Salute.
Quelli dei controlli antidoping effettuati dalle Federazioni Sportive e dal Comitato per i controlli antidoping del CONI sono
rinvenibili sul sito web del CONI (Home > Antidoping > Dati Statistici), ove peraltro gli ultimi report sono relativi al 2005 (sic!). È
interessante osservare, peraltro, che le percentuali di positività ai controlli antidoping, in media relativamente contenute, raggiungono
livelli piuttosto elevati se si considerano le singole discipline sportive, arrivando sovente oltre il 10% in sport quali la pesistica, il
triathlon o le bocce.
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Se poi si volesse azzardare una comparazione oltre i confini nazionali, ad esempio con i dati
statistici della Agence française de lutte contre le dopage, si deve constatare come gli atleti
d'oltralpe risultino ex actis più dediti al doping, avendosi in Francia percentuali di positività intorno
al 4% (così nel 2006, peraltro in diminuzione rispetto agli anni precedenti)13.
Non ritenendo di potersi attribuire simili differenze ad una maggiore efficacia del sistema
repressivo italiano, quantomeno per il limitato periodo di tempo di applicazione della legge statale14,
si crede che esistano delle crepe nell'edificio preposto al controllo e al monitoraggio sul doping e
che altro debba essere ancora fatto per giungere ad avere un sistema organizzato diretto alla
repressione delle pratiche di doping; un sistema sulla cui realizzazione pesa anche la perdurante
inattività delle Regioni, restie a svolgere quel ruolo attivo e capillare di prevenzione sul territorio
che la legge assegna loro – in relazione alle importanti funzioni da esse svolte in tema di salute –
nell’ambito dei piani sanitari regionali, con particolare riguardo alle attività sportive amatoriali15.
Rebus sic stantibus, sarebbe importante che i diversi Governi riuscissero a trovare un'intesa
forte in tema di lotta al doping, quantomeno in ambito UE, che portasse anche ad un ponderato
confronto tra le diverse soluzioni proposte dalle normative nazionali e le reali forze di contrasto al
doping che il mondo sportivo è in grado di mettere in campo, dato che quest'ultimo subisce
inevitabilmente le pressioni, di natura spesso economica, messe in atto sia dall'interno che al di
fuori delle istituzioni sportive, correndo così il rischio di vedere compromessi i risultati che da esso
ci si attende, anche da parte pubblica.
13
I dati relativi all'attività di controllo svolta sotto l'egida dell'Agence française de lutte contre le dopage sono rinvenibili
sull'aggiornatissimo sito della AFLD in http://www.afld.fr/ressources.php.
14
Il numero delle condanne statali per doping, che, fatta eccezione per il reato di commercio di sostanze dopanti, pare
verosimilmente piuttosto esiguo – anche a causa delle difficoltà di applicazione che la legge 376/2000 ha trovato per le fattispecie
verificatesi prima dell’emanazione della lista dei farmaci, delle sostanze e delle pratiche mediche vietate, avvenuta con il D.M. 15
ottobre 2002 – non viene riportato nelle relazioni della CVD di cui alla nota 11, ove si legge che "la reperibilità dei dati sulle sanzioni
penali per le violazioni dei regolamenti sportivi risulta ardua e complessa per il mancato collegamento con le istituzioni che
dispongono di tali informazioni" (relazione sullo stato di attuazione della legge 376/2000 e sull'attività svolta dalla Commissione per
la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive relativa all'anno 2006, comunicata alla
Presidenza del Senato il 24 aprile 2007, p. 168).
15
Secondo l’art. 5 della legge 376/2000, riprendendo quanto già stabilito dalla legge 1099/1971 in materia di tutela sanitaria delle
attività sportive, “le regioni, nell’ambito dei piani sanitari regionali, programmano le attività di prevenzione e di tutela della salute
nelle attività sportive, individuano i servizi competenti, avvalendosi dei dipartimenti di prevenzione, e coordinano le attività dei
laboratori” di cui al decreto ministeriale previsto dall’art. 4 comma 3, che ne indica i requisiti organizzativi e il funzionamento.
Questi laboratori avrebbe il compito di effettuare i controlli sulle competizioni e sulle attività sportive che non rientrano tra quelle
specificatamente individuate dalla Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività
sportive, istituita presso il Ministero della Salute, rispetto alle quali i controlli sono invece svolti da differenti laboratori,
appositamente accreditati presso il CIO o altro organismo internazionale riconosciuto in base alle disposizioni dell’ordinamento
internazionale vigente, sulla base di una convenzione stipulata con la Commissione, ai sensi dell’articolo 4 comma 1. Solo alcune
Regioni si sono però realmente attivate finora per la realizzazione e il conseguente accreditamento dei laboratori antidoping regionali
(i LAD), i cui requisiti minimi sono stati peraltro fissati con l'Accordo siglato il 28 luglio 2005 tra il Ministero della Salute, le
Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano.
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Ciò sembra quanto mai opportuno, se si vuole evitare – in un futuro che vede sempre più
allarmante il pericolo doping (non ultimo per la strisciante notizia sulla pratica, che sarebbe già in
uso, del doping genetico) – di avere creato una sorta di enorme castello di difesa contro il doping,
che si riveli tuttavia tristemente vuoto al suo interno: un sistema antidoping che sarebbe allora
destinato ad assumere per lo più solo una valenza simbolica, in risposta alla richiesta di tutela nei
confronti delle istituzioni competenti da parte della società civile, sollecitata dal clamore suscitato
dai mass media, al fine di dare credibilità e stabilità all'intero pianeta "sport", in realtà ormai fuori
controllo.
Ma la lotta al doping non può essere abbandonata né sottostimata dalle istituzioni pubbliche
se soltanto si tiene presente che i rischi ad esso connessi coinvolgono una larghissima parte della
popolazione, per lo più giovani (si pensi che i tesserati, a livello sia agonistico che amatoriale,
superano solo in Italia i 7 milioni di persone).
La Convenzione contro il doping nello sport dell'UNESCO ha quindi lasciato alcune questioni
irrisolte a livello internazionale, tra le quali quella della punibilità per doping degli atleti, che in un
mondo altamente globalizzato quale quello sportivo inevitabilmente creano delle insidiose variabili
nell'efficacia del sistema mondiale antidoping.
Facendo seguito a quanto ribadito dalla Commissione europea, soprattutto in occasione di
riunioni dei Ministri europei dello sport16, ove è stata più volte affermata l'importanza di sostenere
congiuntamente una politica sovranazionale in materia di lotta al doping, si spera che possa arrivare,
in tempi relativamente brevi, una direttiva comunitaria antidoping.
E ciò solo dopo l'entrata in vigore, prevista per il 2009, del Trattato di Lisbona 2007, che
amplierà le competenze comunitarie in materia; disponendo come è noto ancora oggi l'Unione
Europea solo di competenze indirette in tema di sport, a causa dell'inciampo del trattato costitutivo
UE, di cui non è qui il caso di trattare.
16
Si vedano in particolare la dichiarazione di Nizza del 1999 e la dichiarazione di Artimino del 2003.
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In questa direzione, e sin da subito, i diversi Stati europei, superando alcune ambiguità che
hanno mosso le scelte nelle politiche repressive nazionali, si crede non possano sottrarsi dal tentare
di ridurre le differenze che esistono tra esse, realizzando congiuntamente alle istituzioni comunitarie
e insieme alle organizzazioni sportive un sistema antidoping compiutamente "integrato", che
raccordi l'attività dei vari soggetti sportivi e delle istituzioni pubbliche, internazionali, statali e
regionali, e che si interroghi proficuamente su quali siano le migliori strategie repressive, anche in
termini di misura e di effettività nell'applicazione delle sanzioni.
(*) Professore di diritto amministrativo nell'Università di Verona
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