Immanuel Kant
(1724-1804)
Critica della
ragion pratica
Premessa.
La Critica della ragione pura
e il tema della libertà
E’ utile richiamare due luoghi della Critica della ragione
pratica in cui Kant tematizza il rapporto tra l'uso
teoretico e quello pratico della ragione:
L'uso teorico della ragione aveva a che fare soltanto con
gli oggetti della facoltà della conoscenza, e una critica
della ragione relativa a questo uso non si riferiva
propriamente che alla facoltà pura della conoscenza,
perché questa faceva nascere il sospetto, aggravato in
seguito, di smarrirsi facilmente al di là dei suoi limiti,
fra oggetti inaccessibili e concetti del tutto
contraddittori […]
Nell'uso pratico della ragione le cose stanno già in modo
diverso. In questo secondo uso la ragione si occupa dei
fondamenti determinanti la volontà, che è una facoltà
o di produrre oggetti corrispondenti alle
rappresentazioni [le azioni] o di determinare se stessa
a realizzare questi oggetti […], cioè a determinare la
propria causalità. Qui la ragione è almeno in grado di
determinare la volontà […] La prima questione è
pertanto la seguente: se la ragione pura è da sola
sufficiente a determinare la volontà […]
L'etica kantiana, sostanzialmente, risponde alla domanda:
può la volontà, che è capace di creare oggetti (cioè
azioni) o di creare causalità nelle azioni, essere
determinata in ciò dalla ragione, senza che
l'esperienza abbia alcun ruolo?
Kant sa perfettamente che è l'esperienza a determinare
l'uomo nella sua volontà fin dall'infanzia: è un aspetto
innegabile della natura umana; tuttavia, quello che
Kant fa è rimproverare a questa natura di avanzare una
pretesa. Ecco il secondo passo:
La critica della ragione pratica in generale ha dunque
l'obbligo di contestare alla ragione condizionata
empiricamente la pretesa di costituire essa sola il
motivo determinante della volontà.
Accanto a questa natura, cioè, deve esserci qualcosa di
altro, altrimenti l'uomo sarebbe, come un animale,
solo una parte della natura: questo qualcosa è l'idea di
libertà. Si rende necessario, a questo punto, un breve
excursus relativo alla Critica della ragione pura…
Questo passo non mette in dubbio la causalità della natura, ma ci
dice che accanto ad essa può essere pensato qualcosa che può
fare sì che un'azione cominci spontaneamente da sé: questo
qualcosa è la libertà, chiamata da Kant causalità libera.
Egli ci mette davanti agli occhi la situazione che si verrebbe a creare
se non esistesse questa forma particolare di libertà:
[…] se nel mondo sensibile ogni causalità fosse pura
natura, ogni evento risulterebbe determinato nel
tempo da un altro evento in virtù di leggi necessarie;
[…] il ripudio della libertà trascendentale
distruggerebbe ogni libertà pratica.[…] La natura
[diverrebbe] infatti la causa piena e in sé
sufficientemente determinante di qualsiasi evento.
Di tutto ciò che accade non è possibile che immaginare una
duplice specie di causalità, o per natura o per libertà. La
prima consiste nella connessione d'uno stato del mondo
sensibile con uno precedente, secondo una successione
fondata su una regola. […] ne deriva che la causalità della
causa di ciò che ha luogo o sorge, è anch'essa sorta e, in
base al principio dell'intelletto, abbisogna a sua volta
d'una causa. Per contro, intendo per libertà […] la facoltà
di iniziare da sé uno stato; tale causalità non è dunque a
sua volta subordinata, per legge di natura, a un'altra
causa che la determini temporalmente. Secondo questo
significato, la libertà è un'idea trascendentale pura, che, in
primo luogo, è priva di qualunque elemento derivante
dall'esperienza, e il cui oggetto, in secondo luogo, è tale da
non poter essere dato determinatamente in alcuna
esperienza […]
l'esistenza di questa libertà non può essere
dedotta dalla stessa azione, della quale io
posso solo percepire il carattere empirico ma
non certo la necessità morale. Non è possibile
mostrare la realtà della libertà, né tanto meno
provarla (per questo Kant la definisce
trascendentale):
L'autentica moralità delle azioni […], persino
quella del nostro stesso operare, ci resta
pertanto del tutto nascosta. Le nostre
valutazioni possono riferirsi soltanto al
nostro carattere empirico.
Volontà libera e massima soggettiva
Kant entra subito nel merito del suo discorso: il primo
dato della coscienza morale ordinaria è che non c'è
nulla che possa dirsi assolutamente buono, tranne la
volontà buona, la buona intenzione, il cui valore è
indipendente dal successo eventuale dell'azione o dal
fallimento di questa:
La volontà buona è buona non già per l’effetto che
produce o per ciò che ottiene, né per la sua idoneità a
raggiungere qualche scopo prefissato, è buona solo
per il volere, ossia in sé, e considerata in sé […] anche
se, nonostante il massimo sforzo, tuttavia non riuscisse
a ottenere nulla, […] ebbene splenderebbe come
qualcosa che avesse in sé il suo pieno valore.
Una buona volontà è tale quando viene determinata
unicamente dal dovere. Ecco l’esempio:
[…] è conforme al dovere che il bottegaio non
prenda per il collo il cliente inesperto. Si è
dunque serviti onestamente; tuttavia ciò non è
sufficiente per credere che il commerciante
abbia proceduto così per dovere; lo esigeva il
suo vantaggio […] Dunque l’azione non aveva
luogo per dovere ma soltanto con un’intenzione
egoistica.
Nel passo precedente dobbiamo fare attenzione a due
espressioni utilizzate da Kant, solo apparentemente
uguali:
- conforme al dovere: l'esempio del commerciante,
utilizzato da Kant, è particolarmente adatto. Il
commerciante decide di essere onesto con i clienti
semplicemente per il proprio tornaconto, ad esempio
per non perdere clienti o per paura di sanzioni: l'azione
è solo esteriormente conforme al dovere, mentre in
realtà viene compiuta per uno scopo egoistico ed
interessato;
- per dovere: è l'azione compiuta indipendentemente da
ogni fine o scopo. L'azione è ispirata dal dovere per il
dovere: per Kant è questa l’azione buona, cioè libera in
quanto non determinata o condizionata da fattori
empirici e/o egoistici, personali, utilitaristici, etc…
Dunque:
[…] un’azione compiuta per dovere riceve il suo valore
morale non dallo scopo che si deve raggiungere per
suo [dell’azione] mezzo, ma dalla massima in base alla
quale è stata decisa; tale valore non dipende dunque
dalla realtà dell’oggetto dell’azione, ma
esclusivamente dal principio della volontà in base al
quale l’azione è stata compiuta, senza alcun riguardo
per gli oggetti della facoltà di desiderare.
La massima è il principio soggettivo dell’agire, è una
«regola» soggettiva, un modo di agire personale e
intenzionale che ha la pretesa di andare al di là della
singola azione (ad es., la mia massima è di trarre
profitto da ogni circostanza)
Kant dà anche un’altra definizione di dovere:
[…] il dovere è la necessità di un’azione per rispetto
della legge.
Come va inteso qui il termine «legge»? Non certo nel
senso della lex posita, altrimenti l’etica kantiana
sarebbe semplicemente un’etica legalistica e niente
di più.
Kant intende la legge morale, il principio oggettivo,
quel comando della ragione che, se obbedito, rende
libera e moralmente approvabile l’azione. In termini
kantiani:
l’imperativo
L’imperativo categorico e le sue formulazioni
Ricapitoliamo i risultati fin qui raggiunti:
 nulla è assolutamente buono se non la volontà buona;
 la volontà è buona quando è buono il suo volere in sé,
a prescindere da inclinazioni, fini, esperienza;
 il volere è buono in sé quando rispetta la legge pratica;
 la legge pratica non compare in natura ed è
trascendentale: è l’imperativo.
Kant distingue due imperativi,
uno ipotetico, l'altro categorico:
qual è la differenza tra i due?
Ora, gli imperativi in genere comandano o
ipoteticamente o categoricamente.
I primi ci presentano la necessità pratica di un’azione
possibile come mezzo per raggiungere un qualche
scopo che si vuole […] L’imperativo ipotetico sta a
significare soltanto che l’azione è buona in vista di
qualche scopo, possibile o reale.
In pratica: «se vuoi…allora devi». Ad es., se vuoi diventare
un bravo pianista, devi esercitarti quattro ore al giorno.
Un imperativo di questo genere non vale universalmente o
necessariamente per tutti, ma solo nella supposizione
(ipotesi) che qualcuno voglia diventare un bravi pianista.
Si tratta, in effetti, di una regola dell’intelligenza e
dell’abilità…
Imperativo categorico è invece quello che presenta
un’azione come oggettivamente necessaria per se
stessa, indipendentemente dal rapporto con un altro
scopo […] Ora se l’azione si presenta come buona solo
per altro, in quanto mezzo l’imperativo è ipotetico,
mentre se è rappresentata come buona in sé, e
pertanto come necessaria per una volontà di per sé
conforme a ragione […] l’imperativo è categorico.
In pratica: «Tu devi!» è il comando con cui la ragione (non
le inclinazioni, o l’esperienza empirica, o il sentimento)
permette alla mia volontà di essere libera, di
determinare il mio agire secondo una legge universale.
Come si connette, allora, la massima soggettiva a questo
principio universale e apriori?
L’imperativo categorico assume, nella CdRPr, tre
formulazioni che ci consentono di approfondire la
questione.
Prima formulazione: Agisci in modo che la massima
della tua volontà possa sempre valere nello stesso
tempo come principio di una legislazione
universale.
Ovvero: agisci in modo che la massima che ti spinge
ad agire in un certo modo sia universalizzabile,
possa cioè essere razionalmente estesa a tutti gli
esseri pensanti. Per chiarire questo passaggio,
quello del «test della generalizzazione della
massima», Kant propone quattro famosi esempi…
Un uomo indotto alla disperazione da una serie di mali, prova
disgusto per la vita, pur conservando il dominio della propria
ragione quanto occorre per chiedersi se sia in contrasto col
dovere verso se stesso togliersi la vita. Cerca allora di stabilire
se la massima della sua azione possa diventare una legge
universale della natura. Ma la sua massima è: Per amore di me
stesso assumo a principio di abbreviarmi la vita se la sua
ulteriore durata mi fa prevedere più mali che piaceri. Tutto sta
nel sapere se questo principio dell'amor di sé possa diventare
legge universale della natura. Ma è facile vedere che una
natura la cui legge consistesse nel distruggere la vita proprio in
virtù di quel sentimento che è destinato a promuoverla,
cadrebbe in contraddizione con se stessa, quindi non
sussisterebbe come natura; è quindi impossibile che quella
massima possa valere come legge universale della natura,
perciò risulta contraria al principio supremo di ogni dovere.
Commento :
Se generalizzo la massima dell’amore di sé, pensandola come legge
della natura, ne consegue da un lato la conservazione della vita,
se le cose mi vanno bene. Se invece le cose mi vanno malissimo,
la generalizzazione della massima dell’amore di sé porterebbe,
dall’altro lato, alla distruzione della vita. Distruggere la propria
vita, in virtù di quello stesso amore di sé, sarebbe una
contraddizione.
Se si applicasse alla natura questo esperimento del pensiero, ci si
troverebbe di fronte ad una contraddizione insanabile: una stessa
legge consentirebbe la conservazione e la distruzione della vita.
Conclusione:
La massima dell’esempio NON è universalizzabile, in quanto
contraddittoria per la ragione. L’azione di togliersi la vita per
liberarsi dal dolore non è moralmente accettabile secondo
ragione…
Un tale è costretto dal bisogno a farsi prestare del denaro. Si rende
ben conto che non sarà mai in grado di pagare, ma vede anche
chiaramente che non avrà il più piccolo prestito se non si
impegnerà seriamente a pagare entro un determinato tempo.
[…] La massima della sua azione prenderebbe questa forma:
Quando credo di aver bisogno di denaro, ne prendo a prestito
promettendo di restituirlo, benché sappia che non lo farò mai.
[…] Converto allora l'esigenza dell'amor di sé in una legge
universale e pongo così il problema: «Cosa accadrebbe se la mia
massima divenisse una legge universale?». Mi rendo subito conto
che essa non potrebbe mai valere come legge universale della
natura ed essere in accordo con se stessa, perché è
necessariamente autocontraddittoria. Infatti, assumere come
legge universale che ogni uomo, quando crede di essere in
bisogno, può promettere qualsiasi cosa col proposito di non
mantenere, renderebbe impossibile il promettere stesso e il fine
che promettendo ci si propone, perché nessuno crederebbe più a
ciò che gli viene promesso e riderebbe di dichiarazioni del genere
come di inutili pretesti.
Commento:
La conseguenza di false promesse a carattere di legge sarebbe
la fine, in un prossimo futuro, della comunità umana: il
continuo mentire elevato a regola generale e
universalmente accettata impedirebbe le relazioni tra gli
uomini.
Inoltre, la promessa è un «obbligo volontario»: promettere il
falso equivarrebbe a non assumersi un obbligo. Se ciò fosse
elevato a legge universale, a ogni obbligo volontario
(promessa) non sarebbe legato un obbligo volontario
(mantenere la promessa): il che è, evidentemente, una
contraddizione del pensiero.
Conclusione:
Come nell’esempio precedente, la massima che ispira l’azione
non è razionalmente universalizzabile.
Per Kant, cercare di capire se sia possibile rendere
universale la massima del mio agire, continuando ad
applicarla nelle mie azioni, non è un modo per
speculare sulle possibili conseguenze, ma un banco di
prova per capire se la mia massima concorda con
l’imperativo categorico. In sostanza, una falsa
promessa è ingiusta perché, nel farla, io metto i miei
bisogni e desideri (di denaro, in questo caso) al primo
posto, al di sopra di quelli di chiunque altro. Con la
prova dell’universalizzazione si indica una potente
esigenza etica: è un modo per verificare se l’azione che
sto per compiere fa passare o no al primo posto,
davanti a quelli di chiunque altro, i miei interessi e le
particolari circostanze in cui mi trovo.
(M.Sandel, Giustizia. Il nostro bene comune)
Un terzo vede in sé un talento tale che, con un po' di cultura,
potrebbe divenire un uomo utile sotto molti riguardi. Ma sa di
essere in condizioni agiate e preferisce darsi al piacere piuttosto
che impegnarsi per l'ampliamento e il miglioramento delle sue
felici disposizioni naturali. Tuttavia si pone il problema se la sua
massima, di non prendersi cura dei suoi doni naturali, che ben si
accorda con la sua inclinazione al godimento, si accordi
altrettanto bene con ciò che rende il nome di dovere. Ora, egli si
rende conto che potrebbe certamente esistere una natura
secondo questa legge universale, anche se l'uomo (allo stesso
modo degli abitanti del Mare del Sud) lasciasse arrugginire il
proprio ingegno e decidesse di dedicare la propria vita soltanto
ai piaceri; ma egli non può assolutamente volere che questa
diventi una legge universale della natura o che un istinto
naturale la radichi come tale in noi. Infatti, essendo un essere
ragionevole, vuole necessariamente che tutte le facoltà siano
sviluppate in lui, perché sono utili e gli sono state date per tutti i
fini possibili .
Commento:
La massima dell’«autotrascuratezza» (starsene sdraiato come gli
uomini dei «mari del sud» per abbandonarsi all’ozio…) è
qualcosa che può benissimo essere concepito, ma non certo
voluto.
Infatti, volere questa massima come legge significherebbe avere
una volontà che non ha alcun interesse nello sviluppo delle
proprie potenzialità; cioè, in breve, avere una volontà che vuole
la propria mancanza di volontà. Il che è contraddittorio. Inoltre,
l’«autotrascuratezza» elevata a legge significherebbe che la
ragione stessa rinuncia a sviluppare i miei talenti: insomma, la
ragione dovrebbe farmi rinunciare ad essere ragionevole…
Conclusione:
La massima dell’esempio, pur concepibile come idea, non è
universalizzabile in quanto contraddittoria per la volontà.
Infine, un quarto, al quale tutto va bene, vedendo che gli altri (che
egli potrebbe benissimo aiutare) si dibattono fra gravi difficoltà,
ragiona così: «Che me ne importa? L'altro sia felice quanto
piace al Cielo o quanto può esserlo da solo; io non lo priverò di
nulla, anzi neppure lo invidierò; ma non intendo dare alcun
contributo al suo benessere e soccorrerlo nel bisogno». Ora, se
questo modo di vedere divenisse una legge universale di natura,
il genere umano potrebbe senz'altro continuare ad esistere […].
Anche se è possibile che esista una legge universale della natura
conforme a quella massima, è però impossibile volere che tale
principio abbia valore universale di legge della natura. Infatti
una volontà che prendesse partito per esso, cadrebbe in
contraddizione con se stessa, perché sono possibili i casi in cui
quest'uomo potrebbe aver bisogno dell'amore e della simpatia
altrui e in cui priverebbe se stesso di ogni speranza di ricevere
l'aiuto desiderato, proprio in virtù della legge di natura istituita
dalla sua volontà.
Commento:
Generalizzare la massima «se qualcuno ha bisogno non intendo fare
nulla per aiutarlo» porta a questa conseguenza: non posso volere
ciò, perché io stesso potrei prima o poi trovarmi in difficoltà e
nessuno mi aiuterebbe. La volontà non può volere ciò per il fatto
che l’uomo è, per essenza, afflitto dal bisogno: l’«aiuto» di cui
parla Kant al termine dell’esempio, più che a un singolo o
particolare caso possibile, fa riferimento all’«aiuto» che in
generale, in qualità di uomini, noi cerchiamo sempre negli altri.
Conclusione:
Anche in questo caso, la massima non può essere generalizzata in
quanto contraddittoria per la volontà, che non può volere un
mondo in cui, per principio, venga negato l’aiuto reciproco.
I primi due esempi hanno il compito di illustrare l’impossibilità della
massima nel pensiero; i secondi due, nel pensiero e nella
volontà.
Seconda formulazione: Agisci in modo da trattare
l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni
altro, sempre anche come fine e mai semplicemente
come mezzo.
Qui Kant afferma implicitamente che l’uomo è «un fine a
se stesso», la sua stessa esistenza ha ed è un valore
assoluto, mentre le cose materiali hanno un valore solo
condizionato, relativo alle inclinazioni dei soggetti.
La seconda formulazione, dunque, stabilisce che la dignità
degli uomini va sempre rispettata, a prescindere da
egoismi e passioni. Anche i quattro esempi precedenti
possono essere riesaminati alla luce di questa seconda
formulazione:
E’ interessante notare che sia l’omicidio che il suicidio
contraddicono l’imperativo categorico, e per la stessa
ragione. Spesso pensiamo all’omicidio e al suicidio come
ad atti radicalmente diversi dal punto di vista etico […]
Ma il concetto kantiano, secondo cui si deve trattare
l’umanità come fine, colloca omicidio e suicidio sullo
stesso piano; se commetto un assassinio tolgo la vita a
qualcuno in nome di qualche mio interesse […] Ma
secondo Kant anche il suicidio è una violazione
dell’imperativo categorico; se metto fine alla mia vita
per sfuggire a una situazione penosa, mi servo di me
stesso come di un mezzo per dare sollievo alle mie
sofferenze […] Secondo Kant il suicidio è male per la
stessa ragione per cui lo è l’omicidio.
(M.Sandel, op.cit.)
Terza formulazione: Agisci in modo che la tua
volontà, in base alla massima, possa
considerare contemporaneamente se stessa
come universalmente legislatrice.
E’ la formula dell’«autolegislazione» della volontà:
in parte simile alla prima formulazione, insiste
sulla necessità che l’azione, per essere
autenticamente libera, deve trovare nella
ragione stessa - e non in elementi eteronomi - il
proprio fondamento.
La terza formulazione ci consente di allargare il
discorso sulle caratteristiche dell’etica kantiana:
 Formale: l’imperativo indica il come, non il cosa
dell’azione;
 Universale: il comando della ragione, l’imperativo
kantiano non è soggettivo e/o arbitrario ma appartiene
a tutti gli esseri razionali;
 Autonoma, incondizionata, assoluta: trova il proprio
fondamento in se stessa, nella ragione e non in
comandi eteronomi né tantomeno nelle inclinazioni
personali.
Come si può vedere bene, Kant ha operato una
«rivoluzione copernicana» anche nell’etica: come per la
conoscenza, anche nel campo morale l’uomo risulta
essere il «legislatore», la condizione trascendentale e
apriori del nostro stesso agire.
In sintesi, tutta l’argomentazione kantiana è condotta
attraverso una serie di contrapposizioni e dualismi con
cui vengono illustrati tre concetti fondamentali: etica,
libertà, ragione.
CONTRAPPOSIZIONE N.1 (ETICA):
DOVERE vs INCLINAZIONE
***
CONTRAPPOSIZIONE N.2 (LIBERTA’):
AUTONOMIA vs ETERONOMIA
***
CONTRAPPOSIZIONE N.3 (RAGIONE):
IMP.CATEGORICO vs IMP. IPOTETICO
La Dialettica della ragion pratica
e i postulati morali: il Sommo Bene
Nella Dialettica Kant prende in considerazione l'assoluto morale o
sommo bene cui tende irresistibilmente la nostra natura, così
come nella prima Critica egli aveva analizzato la tendenza al
sapere incondizionato.
Il sommo bene può essere pensato, secondo Kant, come una
combinazione di felicità e virtù, una condizione che però non può
verificarsi per nessun essere razionale. Infatti:
- virtù: è la coincidenza di volere e dovere. Ma: la perfetta
adeguatezza della volontà alla legge morale è la santità: una
perfezione di cui nessun essere razionale del mondo sensibile è
capace […] Poiché, tuttavia, è egualmente richiesta dal punto di
vista pratico, essa potrà trovarsi solo in un processo all’infinito,
verso quell’adeguatezza completa […] Ma tale progresso infinito è
possibile solo presupponendo un’esistenza […] perduranti
all’infinito: e ciò prende il nome di immortalità dell’anima […]
Questa è un postulato della ragion pura pratica.
- felicità: è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui,
nell’intera esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere.
Essa, dunque, consiste nell’accordo della natura con lo scopo
totale di quell’essere […]
In altri termini, la felicità consisterebbe in una perfetta coincidenza di
legge morale (i fini dell’agire) e legge di natura. Ma sappiamo che la
causalità naturale e quella della volontà sono due cose ben distinte,
che non potranno mai accordarsi nella nostra dimensione finita:
Pertanto viene postulata anche l’esistenza di una causa dell’intera
natura, distinta dalla natura stessa, che contenga il fondamento di
quella connessione, e cioè dell’adeguarsi esatto della felicità alla
moralità. […] E’ moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio.
Anche quello dell’esistenza di Dio è un postulato, cioè una
proposizione indimostrabile, in cui è necessario avere «fede» per
potere agire in vista del sommo bene. Insieme a quello della libertà
(da cui prende le mosse la stessa CdRPr), immortalità dell’anima e
esistenza di Dio costituiscono le condizioni di possibilità della morale
kantiana.
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e
venerazione sempre nuova e crescente, quanto
più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di
esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale
in me. […] Il primo spettacolo di una quantità
innumerevole di mondi annulla affatto la mia
importanza di creatura animale che deve
restituire al pianeta (un semplice punto
nell’Universo) la materia della quale si formò,
dopo essere stata provvista per breve tempo (e
non si sa come) della forza vitale. Il secondo,
invece, eleva infinitamente il mio valore, come
valore di una intelligenza, mediante la mia
personalità in cui la legge morale mi manifesta
una vita indipendente dall’animalità e anche
dall’intero mondo sensibile […]
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