Tribuna FOCUS
La disponibilità dei beni
nella confisca per
equivalente per i reati
tributari
di Domenico Potetti
SOMMARIO
1. Introduzione. 2. Profitto e prezzo del reato. 3. La disponibilità
della cosa da parte del reo; concetto. 4. La disponibilità dei beni
nelle società di comodo. 5. La disponibilità dei beni nelle società
non di comodo; la questione di fondo sulla confisca dei beni sociali. 6. segue: il problema della disponibilità dei beni sociali. 7.
Disponibilità e onere della prova in capo al terzo. 8. segue: la
procedura.
1. Introduzione
La confisca tributaria per equivalente è stata introdotta
nell’ordinamento penale dall’art. 1, comma 143, della L. n. 244
del 2007, il quale prevede che nei casi di cui agli articoli 2, 3,
4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11 del D.L.vo, si osservano, in
quanto applicabili, le disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p..
La necessità del suddetto intervento legislativo deriva
dall’inefficacia della confisca ordinaria nel settore dei reati
tributari.
Infatti, sia la confisca facoltativa, sia quella obbligatoria,
trovano fondamento necessario nel rapporto di pertinenzialità tra prodotto, profitto e prezzo del reato, da un lato, e reato
medesimo dall’altro (art. 240 c.p.).
Di conseguenza esse non sono risultate applicabili alla generalità dei reati tributari in tutti quei casi in cui i vantaggi
illeciti consistono in un risparmio di spesa (conseguente al reato sotto la forma di mancato versamento delle imposte, nella
maggior parte dei casi), ovvero in un rimborso, qualora, ad
esempio, nella dichiarazione fraudolenta sia esposto un credito in tutto o in parte inesistente.
In questi casi è assai difficile individuare (storicamente e
logisticamente), all’interno del patrimonio del reo, il profitto
proveniente dal reato.
In altre parole, per i reati tributari l’applicabilità della confisca ordinaria incontrava un forte ostacolo soprattutto nella
difficoltà di individuare il rapporto di derivazione del profitto
dal reato.
Tale requisito si presentava, tuttavia, come necessario, e
ciò fu sottolineato anche dalle Sezioni Unite in una importante decisione (1).
Diversamente opinando, riteneva la Corte, si sarebbe dato
spazio a collegamenti esclusivamente congetturali, che avrebbero potuto condurre all’aberrante conclusione di ritenere in
ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di
qualsiasi soggetto venisse indiziato di illeciti tributari, doven-
do al contrario essere tenuta ferma l’esigenza di una diretta
derivazione causale della cosa dall’attività del reo, intesa quale stretta correlazione con la condotta illecita.
In proposito la Cassazione ritenne che (2), ad esempio, in
tema di frode fiscale non era assoggettabile a sequestro preventivo nella prospettiva di una successiva confisca il saldo
liquido di conto corrente in misura corrispondente all’imposta
evasa, non sussistendo il necessario rapporto di derivazione
diretta tra l’evasione dell’imposta e le disponibilità del conto,
dal momento che non può affermarsi che quella disponibilità
liquida rappresenti un indebito arricchimento per una somma
equivalente all’imposta evasa.
La necessità di quella diretta derivazione causale dal reato
ha, di fatto, limitato i casi di confiscabilità del denaro o di altre
utilità economiche nella nostra materia (tributaria) a quelle
situazioni, non molto frequenti, ove fosse possibile una diretta
individuazione del bene (vantaggio patrimoniale) conseguito
all’evasione fiscale.
Ciò si poteva fare, in particolare, in quelle ipotesi nelle quali la condotta illecita si fosse sviluppata, non già a mezzo del
mancato pagamento di imposte, ma attraverso l’ottenimento
di un indebito rimborso (equiparato alla condotta di evasione
dall’art. 1, lett. d) del d. lg. n. 74 del 2000), purché si fosse riusciti ad individuare il luogo ove si trovasse il denaro oggetto di
rimborso o i beni nei quali esso fosse stato reinvestito (3).
Se lodevole è stata l’intenzione che ha mosso il legislatore, tuttavia il suddetto comma 143 è di troppo vaga e quindi
infelice formulazione, dato che il richiamato art. 322 ter c.p.
riguarda tutt’altra materia.
Comunque, l’esegesi della disposizione codicistica richiamata consente di isolare gli elementi compatibili con la confisca tributaria, in ragione della riserva di compatibilità opportunamente inserita nel comma 143 cit..
Sicché dall’art. 322 ter c.p. si evince la seguente fisionomia
essenziale dell’istituto della confisca tributaria:
- la confisca va sempre applicata, sia nel caso di condanna
che di “patteggiamento”;
- in via prioritaria la confisca deve colpire i beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato;
- in via subordinata, ovvero, quando la confisca ordinaria
non è possibile, la confisca deve colpire i beni, di cui il reo abbia la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo
o profitto (c.d. confisca per equivalente) (4).
È quindi evidente, già sulla base del testo dell’art. 322 ter
c.p., che la disponibilità dei beni rappresenta un elemento fondamentale e caratterizzante della confisca per equivalente.
2. Profitto e prezzo del reato
Prima di affrontare specificamente l’oggetto del presente
scritto (la disponibilità dei beni) pare opportuno brevemente
chiarire qual’è il parametro di riferimento per la quantificazione del valore oggetto della confisca per equivalente.
1
Tribuna FOCUS
La tecnica legislativa spesa nella formulazione del comma
143 cit. non poteva che provocare gravi incertezze nell’interprete.
Per cominciare, la confisca per equivalente è prevista dall’art.
322 ter c.p., comma primo, solo rispetto al prezzo del reato (concetto quasi inutilizzabile nei reati tributari), mentre solo per figure di reato nemmeno lontanamente assimilabili ai reati tributari (artt. 321 e 322 bis, secondo comma, c.p.) il comma secondo
dell’art. 322 ter c.p. prevede in via prioritaria la confisca dei beni
che ne costituiscono il profitto (salvo che appartengano a persona estranea al reato), ed in via subordinata, ovvero, quando essa
non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello del profitto.
La tecnica legislativa non eccelsa è foriera di incertezze.
Infatti puntualmente in dottrina (5) è stata propugnata la
tesi basata sull’osservazione per cui l’art. 322 ter c.p. ha diversificato l’operatività della confisca per equivalente: a fronte di
una previsione generale contenuta nel 1° comma, in cui si disciplina la confisca per equivalente del solo prezzo del reato,
si contrappone al 2° comma una previsione speciale riferita al
solo delitto di corruzione attiva, alla cui sola commissione segue anche la confisca per equivalente del profitto dell’illecito.
Quindi, essendo la previsione dell’art. 322 ter, comma 2,
c.p. espressamente dettata per il solo delitto del corruttore,
l’art. 1, comma 143, della l. n. 244 del 2007, nel prevedere (mediante un generico rinvio all’art. 322 ter c.p.) la confisca per
equivalente in ambito penale tributario, avrebbe inteso richiamare solo il primo comma di quest’ultimo articolo (prezzo),
essendo il connesso comma 2 (profitto) riferito specificamente ad altra e peculiare fattispecie delittuosa.
È evidente che, aderendo a quest’ultima tesi (quindi escludendo il profitto quale parametro di riferimento della confisca
per equivalente), il nuovo istituto ne risulterebbe quasi completamente depotenziato, con grave danno per le prospettive
recuperatorie dell’erario; prospettive che poi vanno a realizzare l’intenzione del legislatore della novella.
Tuttavia, molto opportunamente, a proposito del binomio
prezzo/profitto, la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito
(in modo convincente) che il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato, poiché
l’integrale rinvio alle disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p.,
contenuto nell’art. 1, comma 143, della l. n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova
applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma
della norma codicistica (6).
Non si tratta in questo caso di analogia in malam partem in
materia penale, ma di un’agevole interpretazione letterale.
In particolare, nel caso dei reati tributari, il profitto può
venire ad esistenza sotto le sembianze del risparmio di imposta, in relazione al quale non è possibile individuare un bene
monetario o patrimoniale.
La possibilità di utilizzare la confisca per equivalente consente di superare questa preclusione (7).
2
Tuttavia deve essere chiaro che presupposto ineludibile
della confisca per equivalente è la presenza di un prezzo o di
un profitto derivante dal reato per cui si procede che non sia
stato rinvenuto, ma di cui sia certa l’esistenza (8).
Da ciò deriva che per potersi avere la confisca per equivalente è necessario che, in concreto, da quella determinata
condotta illecita sia conseguito un profitto, inteso quale vantaggio economico; non potrà, invece, esservi ricorso a detta
misura laddove nessun concreto vantaggio economico sia stato conseguito a seguito della condotta illecita.
Questo chiarimento è di particolare importanza nella materia dei reati tributari.
Infatti, alcune di queste fattispecie sono configurate quali reati di pericolo, che possono realizzarsi anche laddove, in
concreto, nessun danno per l’erario e nessuna evasione di imposta si siano verificati.
In questi casi è evidente che, in assenza di una concreta
evasione di imposta, e quindi in mancanza di un profitto derivante dalla condotta illecita, non potrà essere disposta nessuna confisca per equivalente.
3. La disponibilità della cosa da parte del reo; concetto
Che il reo abbia la disponibilità della cosa è un presupposto
fondamentale della confisca per equivalente, secondo le previsioni espresse dell’art. 322 ter c.p..
Tuttavia, in mancanza di ulteriori specificazioni del legislatore, si pongono a tale proposito importanti questioni.
La prima riguarda il concetto stesso di disponibilità.
Il legislatore ha evitato (nella formulazione dell’art. 322
ter c.p.) di indicare all’interprete posizioni giuridiche soggettive note, riconosciute e descritte dall’ordinamento civile (ad
es.: il diritto di proprietà).
Eppure, l’utilizzo delle categorie classiche del diritto civile
avrebbe facilmente espresso, rendendola pienamente comprensibile all’interprete, l’intenzione del legislatore.
Al contrario, il concetto di disponibilità comporta per l’interprete ampie incertezze e altrettanto ampi margini di discrezionalità.
Poiché, nonostante ciò, il legislatore significativamente
ha preferito utilizzare un termine atecnico (“disponibilità”),
pare condivisibile quella dottrina (9) secondo la quale la nozione di disponibilità è determinabile non sulla base di criteri
formali di accertamento, come la titolarità di diritti reali o
obbligatori sul bene, ma in forza di un accertamento fattuale,
tale che consenta di ritenere che, indipendentemente dalla
titolarità formale di diritti sul bene, questo rientra nella sfera
di disponibilità dell’autore del reato, il quale, rispetto ad esso,
si comporta uti dominus, come se alla posizione di fatto corrispondesse una legittima posizione di diritto.
Il concetto di disponibilità va dunque inteso come disponibilità di fatto.
Trattasi, cioè di quella situazione di fatto nella quale il reo,
indipendentemente dalla sussistenza di un rapporto giuridico
formale (reale o obbligatorio) rispetto alla cosa, è in grado di
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comportarsi rispetto alla cosa medesima uti dominus, e cioè
come se fosse proprietario.
Intesa in questo modo si può dire, con le debite distanze,
che la disponibilità di cui all’art. 322 ter c.p. finisce per identificarsi con il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività
corrispondente all’esercizio della proprietà, e cioè con il possesso civilistico di cui all’art. 1140 c.c..
Che la disponibilità sia un concetto che attiene al fatto, e
non alle regole formali, risulta altresì da una sentenza della
Cassazione (10) in cui la Corte affermò che ai fini del sequestro preventivo (funzionale alla confisca per equivalente di
cui all’art. 322 ter c.p.) di un conto bancario cointestato con
un soggetto estraneo al reato, la misura preventiva reale si
estende ai beni comunque nella disponibilità dell’indagato,
senza che a tal fine possano rilevare presunzioni o vincoli posti dal codice civile per regolare i rapporti interni tra creditori
e debitori solidali o i rapporti tra banca e depositante.
Parimenti, in giurisprudenza si è ritenuto che, in tema di
confisca, non integra la nozione di “appartenenza a persona
estranea al reato” la mera intestazione a terzi del bene mobile
utilizzato per realizzare il reato stesso, quando precisi elementi di fatto consentano di ritenere che l’intestazione sia del
tutto fittizia e che in realtà sia l’autore dell’illecito ad avere la
sostanziale disponibilità del bene (11).
È quindi condivisibile l’assunto per cui le norme civilistiche e i diritti con esse tutelati non hanno un valore assoluto,
ma cedono alla giurisdizione penale.
Ciò per il carattere sostanzialistico del diritto penale, che è
orientato a giudicare i fatti più nella loro consistenza effettiva
che nel loro aspetto formale, per cui la giurisdizione penale
può superare (considerare non rilevanti) anche assetti contrattuali pure non impugnabili alla stregua di una rigorosa
applicazione della normativa civilistica (12).
Il formale diritto di proprietà sul bene, in capo al terzo
[purché ovviamente il terzo non sia estraneo al reato (13)]
resta quindi travolto dalla confisca, che trova la sua legittimazione nella mera disponibilità della cosa in capo al reo.
Per comprendere l’ampiezza del concetto di disponibilità
nel tema che ci occupa, giova anche ricordare una pronuncia
della Cassazione (14) nella quale la Corte (ai fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente) ritenne rilevante non solo la c.d. interposizione “fittizia”, ossia
un negozio traslativo simulato i cui effetti apparentemente
si spiegano fra dante causa ed interposto, ma in realtà - per
comune volontà di tutte le parti - l’acquisto avviene in capo
all’interponente.
Al contrario, ai fini dell’adozione della misura cautelare
assume rilievo anche la diversa figura della c.d. interposizione “reale”, che ricorre allorquando l’interponente trasferisce
o intesta, ad ogni effetto di legge, taluni beni all’interposto,
ma con l’accordo fiduciario sottostante che detti beni saranno
detenuti, gestiti o amministrati nell’interesse del dominus e
secondo le sue direttive.
In questo diverso, e più ampio, contesto secondo la Corte
assumono rilievo ai fini dell’individuazione dei beni che possono essere sottoposti al sequestro preventivo finalizzato alla
confisca per equivalente, non soltanto i casi in cui l’intestazione in capo all’interposto sia solo apparente (interposizione fittizia), ma anche le ipotesi in cui l’interposto è effettivo
titolare erga omnes, purché costui sia legato da un rapporto
fiduciario con l’interponte (interposizione reale fiduciaria).
La tesi può essere condivisa, purché non si dimentichi che
la disponibilità è concetto di fatto, e quindi in ogni caso è necessario accertare se all’assetto negoziale civile corrisponda
quel potere di fatto sul bene di cui sopra si è detto.
4. La disponibilità dei beni nelle società di comodo
L’applicazione del concetto di disponibilità risulta particolarmente complicata quando il reo sia l’amministratore di una
società, e si ponga la questione della soggezione a sequestro
e a confisca di beni formalmente appartenenti (in proprietà)
alla società.
È ovvio che la società e il suo amministratore (inteso come
persona fisica) siano, giuridicamente, soggetti distinti (più o
meno, a seconda del tipo di società).
Tuttavia, abbiamo visto sopra che il concetto di disponibilità supera e prescinde dalle categorie civilistiche.
Ne consegue che quella separatezza formale fra società e
amministratore non rileva quando la persona fisica abbia una
diretta ed immediata disponibilità di fatto dei beni sociali.
Tale diretta e immediata disponibilità del bene da parte
dell’amministratore (come persona fisica, e cioè al di fuori
della sua funzione di organo della società) sussiste soprattutto (ed è particolarmente evidente) in quei casi nei quali la
società altro non sia che uno schermo fittizio, realizzato per
occultare l’incondizionato e diretto potere della persona fisica
sulla cosa (15).
In effetti, anche se la giurisprudenza della Cassazione si
divide sulla questione (assai impegnativa) se sia possibile la
confisca dei beni sociali per i reati consumati dall’amministratore, la risposta affermativa nel caso di società di comodo
sembra scontata.
Infatti, la stessa Cassazione (16), in una sua importante
sentenza, in sintesi ha affermato che la confisca per equivalente sarebbe caratterizzata dal carattere afflittivo e dalla consequenzialità con l’illecito propri della sanzione penale, mentre
esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione, che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza.
Dalla natura di sanzione penale della confisca per equivalente deriverebbe altresì la inapplicabilità della stessa nei
confronti della società, ex art. 27 Cost., comma 1, posto che la
società è un soggetto diverso dall’autore del reato, e a nulla rilevando, con riferimento alle persone giuridiche, il cosiddetto
rapporto di immedesimazione organica del reo con l’ente del
quale (con compiti o poteri vari) fa parte.
Del resto, prosegue la Corte, la l. 8 giugno 2001, n. 231,
ha configurato la responsabilità amministrativa della persona
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giuridica per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio (art. 5) dagli organi dell’ente o da persone loro sottoposte,
sotto il profilo della culpa in eligendo o in vigilando (artt. 6 e
7), per l’ovvia impossibilità di estendere qualsiasi forma del
sistema sanzionatorio penale a tale soggetto (17).
Ebbene, la Corte, pur negando quindi la possibilità di estendere ai beni sociali la confisca nei casi in cui il reo sia anche
l’amministratore della società, fa però salva proprio l’ipotesi in
cui la struttura societaria costituisca un apparato fittizio, una
pura apparenza, utilizzata dal reo proprio per porre in essere i
reati di frode fiscale o altri illeciti, sicché ogni cosa fittiziamente intestata alla società sia immediatamente riconducibile alla
disponibilità dell’autore del reato.
5. La disponibilità dei beni nelle società non di comodo; la
questione di fondo sulla confisca dei beni sociali
Al di fuori del (più semplice) caso delle società di comodo,
la questione del se la confisca per equivalente possa colpire i
beni della società a seguito del reato consumato dal reo che ne
sia amministratore è di straordinaria complessità, e in effetti
non rappresenta l’argomento centrale di questo scritto.
Vediamola in estrema sintesi.
Cominciamo con il dire che anche il problema di quale sia
la natura della confisca per equivalente nei reati tributari, e se
la sua pretesa natura eminentemente sanzionatoria (pena?)
sia veramente di ostacolo ad ammettere la confisca dei beni
sociali per i reati commessi dall’amministratore della società,
è estremamente complesso, e ci porterebbe molto oltre i confini che abbiamo dato al presente lavoro.
In estrema sintesi, si può convenire nell’assunto che la confisca per equivalente abbia natura anche sanzionatoria (18).
Del resto, è stato da tempo precisato dalla Corte costituzionale che l’istituto della confisca può avere varia natura
giuridica.
Il suo contenuto consiste sempre nella privazione di beni,
ma essa può essere disposta per motivi diversi, ed essere indirizzata a varie finalità.
Per questo può assumere natura di pena, o di misura di
sicurezza o di misura giuridica civile o amministrativa.
Quindi, ciò che occorre considerare non è un’astratta e generica figura di confisca, ma in concreto la confisca così come
caratterizzata dalla norma che la prevede (19).
Tuttavia, riconoscere alla confisca per equivalente natura
anche sanzionatoria (ibrida), non significa che questa natura
sia così spiccata e predominante da poter senz’altro iscrivere
tale tipo di confisca nel novero delle pene.
Oltretutto, la confisca per equivalente non è nemmeno
essa una figura unitaria, e nei reati tributari assume una sua
natura peculiare, nella quale pare innegabile la componente
recuperatoria, che è addirittura predominante.
In pratica nei reati tributari la confisca per equivalente è
stata introdotta recentemente (e serve oggettivamente) per
recuperare all’erario dei valori che non erano recuperabili con
la confisca ordinaria, per i motivi sopra illustrati; prova ne sia
4
che essa non va disposta se è possibile confiscare direttamente il profitto del reato nella sua effettiva individualità (v. art.
322 ter c.p.).
Naturalmente questo recupero di valori sottratti all’erario (una sorta di esecuzione coattiva dell’obbligo tributario),
visto dalla parte del contribuente assume natura afflittiva, o
sanzionatoria, che dir si voglia.
Ma, a ben vedere, la natura afflittiva della confisca per
equivalente è secondaria e indiretta, nel senso che rappresenta la conseguenza della primaria funzione recuperatoria
dell’istituto.
Appare quindi ampiamente condivisibile quanto affermato in una occasione dalla stessa Cassazione (20), secondo la
quale a trasferire la misura patrimoniale della confisca per
equivalente nel novero delle pene propriamente intese si frappongono due ostacoli.
Anzitutto, presupposto imprescindibile per l’applicazione
della confisca per equivalente è che nella sfera giuridico - patrimoniale del responsabile per uno dei reati in ordine ai quali
la misura stessa è applicabile non sia stato rinvenuto, per una
qualsiasi ragione, il prezzo o il profitto del reato per cui si proceda, ma di cui sia ovviamente certa l’esistenza.
Quindi, operando la confisca (ed il sequestro) per equivalente soltanto nell’ipotesi in cui sia impossibile applicare
l’ordinaria misura della confisca del profitto o del prezzo del
reato, quale istituto sostanzialmente surrogatorio di quest’ultima, già ne discende la preclusione a considerare tale confisca come una vera e propria pena patrimoniale.
Infatti, osserva la Corte, risulterebbe a dir poco eccentrica rispetto al sistema ed alla stessa tavola dei valori costituzionali, un’applicazione di pena conseguente alla casuale ed
eventuale impossibilità di rinvenire (e conseguentemente
aggredire) il profitto o il prezzo del reato (una sorta di pena
eventuale!).
Quale secondo argomento ostativo la Corte osserva che,
ove il legislatore avesse davvero voluto concepire la confisca
per equivalente come sanzione criminale, non si spiegherebbe
la previsione della sua irretroattività, sancita dalla l. n. 300
del 2000, art. 15, perché sarebbe bastato a tal fine il generale
precetto sancito dall’art. 25, comma 2, Cost..
Ai rilievi che precedono aggiungo che la confisca per equivalente è di rigida quantificazione (pari al profitto) e quindi anche
per questo non può essere considerata una pena.
La pena, infatti, deve rispondere ai criteri di graduazione
della colpevolezza e della finalità rieducativa (art. 27 Cost.),
cui si addicono le valutazioni di cui all’art. 133 c.p..
Dunque, la confisca per equivalente (almeno quella tributaria) ha natura composita, anche sanzionatoria, ma non è
una pena in senso tecnico.
Quindi non si possono utilizzare gli argomenti che fanno
leva sull’art. 27 Cost. (come fa invece la citata Cass. n. 25774
del 2012) per negarne l’applicabilità ai beni sociali quando il
reato sia stato realizzato dall’amministratore della società.
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Infatti, un’importante sentenza della Cassazione (21) è
andata in contrario avviso, esponendo i seguenti argomenti.
La confisca per equivalente (tributaria, in quel caso) ha
natura poliedrica ed anche sanzionatoria.
Ciò posto, la Corte osservava che il reato era addebitabile
all’indagato, ma le conseguenze patrimoniali ricadevano sulla
società a favore della quale la persona fisica aveva agito, salvo
che si dimostrasse la rottura del rapporto organico (a prescindere dal dato per cui l’ente fosse responsabile ai sensi del d.
lg. n. 231 del 2001).
I beni sequestrati facevano, comunque, parte del patrimonio sociale, la cui consistenza dipendeva anche dal reato; inoltre dei beni l’indagato aveva la libera disponibilità in quanto
li gestiva.
Pertanto la società non poteva considerarsi terza estranea
rispetto al reato, perché partecipava all’utilizzazione degli incrementi economici che ne erano derivati.
Quest’ultima pronuncia pare condivisibile nel punto in cui
afferma la possibilità di sottoporre a confisca i beni sociali.
Essa pare tuttavia affetta da eccessiva sintesi sullo specifico argomento che stiamo trattando, e cioè nella parte in
cui risolveva la questione della disponibilità del reo – amministratore rispetto ai beni facenti parte del patrimonio sociale
osservando semplicemente che dei beni l’indagato “aveva la
libera disponibilità in quanto li gestiva”.
6. segue: il problema della disponibilità dei beni sociali
In Dottrina (22) si è percepito nella pronuncia (Sez. III,
7 giugno 2011, n. 28731) da ultimo citata un tratto di novità
degno di molta attenzione.
Infatti, a differenza delle pronunce in tema di negozio simulato o fraudolento, nella fattispecie esaminata dalla Corte
non si evidenziava alcun atto di autonomia privata con carattere artificioso, avendo il giudice di merito disposto il sequestro dei beni della società sul solo presupposto che l’amministratore, per le sue stesse funzioni, aveva la disponibilità di
beni non suoi ma, appunto, della società.
Il rapporto che legava i beni sociali sequestrati alla persona
fisica dell’amministratore stava unicamente nella circostanza
che costui, nell’esercizio delle sue funzioni, li gestiva, pur senza esserne titolare; ciò bastava, secondo la Corte, a ritenere
che ne avesse la disponibilità.
Si tratta di un’affermazione impegnativa, che avrebbe meritato qualche approfondimento in più, e che nella sua assolutezza non può essere totalmente condivisa.
Infatti, in senso contrario, in dottrina (23) si è ritenuto
che (nel caso del reo - amministratore) difetterebbe il requisito della disponibilità dei beni sociali da parte del reo, perché
i beni della società appartengono al patrimonio sociale della
stessa e, quindi, rientrano nella esclusiva disponibilità della
società medesima.
Al contrario non appartengono in nessun modo alla sfera
giuridico – patrimoniale del reo, che pure ne sia il legale rappresentante.
Le suddette osservazioni appaiono condivisibili: il fatto è
che una cosa sono le suddette società di comodo, altra cosa
sono le società che di comodo non sono, e che cioè non hanno
una mera funzione di schermo.
Lo scenario delle società di comodo, osserva l’Autore medesimo, è assai frequente in complessi circuiti fraudolenti finalizzati all’evasione dell’lVA sugli scambi intracomunitari, ove una
o più persone, solitamente legate dal vincolo associativo, creano una molteplicità di società con il solo fine di appropriarsi
dell’imposta sulle transazioni intracomunitarie (24).
Più complessa, continua l’Autore, è la situazione di società
(non meramente di comodo) di rilevanti dimensioni, nel cui
contesto il potere decisionale è generalmente attribuito al
consiglio di amministrazione, sebbene siano assai frequenti
deleghe più o meno ampie ad uno o più consiglieri.
Secondo l’Autore, laddove la delega, avuto riguardo anche
all’ampiezza della stessa in relazione all’entità del profitto ricavato dalla persona giuridica, abbia connotati tali da consentire un’assoluta autonomia del reo persona fisica sulle risorse
finanziarie della società in misura almeno pari allo stesso,
potrebbe risultare possibile sostenere la sussistenza della necessaria relazione di disponibilità, presupposto essenziale per
la legittimità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, nonostante la mancata coincidenza tra responsabile
del reato e proprietario dei beni da aggredire.
Secondo l’Autore, anche in questo caso, tuttavia, una simile verifica deve trascendere il mero dato formale, dato che non
sono infrequenti situazioni in cui, a fronte di limiti significativi in termini di operatività del consigliere delegato, si assiste,
di contro, a situazioni relative alla gestione della società per
effetto delle quali si viene a determinare, di fatto, una sostanziale compenetrazione tra la sfera soggettiva della persona
fisica e quella patrimoniale della società.
In sostanza, al di fuori delle società meramente di comodo,
nelle società normali il concetto normativo di disponibilità postula un’indagine sulla struttura sociale, in fatto e in diritto; e
cioè un’indagine che abbia ad oggetto non solo i rapporti personali fra il reo e il resto della compagine sociale, ma anche gli
atti di diritto civile che regolano la gestione della società.
Coglie quindi nel segno un giudice di merito il quale ha
ritenuto che il concetto di disponibilità deve essere ricondotto
al potere di disporre in modo diretto ed autonomo del bene
senza limitazioni, senza interventi di terzi soggetti e senza che
il soggetto agente debba, sostanzialmente, rendere conto e rispondere del proprio operato ad altri.
La ratio dell’art. 322 ter c.p., osserva il Tribunale, è quella
di impedire al reo di beneficiare comunque dell’illecito (25).
In questa ottica è chiaro, quindi, che in tanto è possibile
procedere alla confisca per equivalente in quanto si colpisca
un bene rientrante nel patrimonio del reo o in quello di soggetti diversi, comprese le persone giuridiche, che siano del tutto
riconducibili allo stesso (è l’ipotesi delle cd. società schermo,
o di comodo, utilizzate dalla persona fisica per realizzare un
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profitto personale e per porsi al riparo da provvedimenti ablativi dello stesso).
Nel caso portato all’esame del tribunale non sussisteva invece una disponibilità dei beni in capo agli indagati nei termini suddetti, né certamente poteva ritenersi che la società de
qua fosse uno schermo utilizzata dagli indagati per ottenere
un personale illecito arricchimento.
Al contrario, la gestione del bene sociale non comportava una disponibilità immediata del bene, ma solo mediata e,
come tale, non riconducibile al concetto dell’art. 322 ter c.p..
Nello specifico, dall’esame dello statuto della società,
emergeva che l’amministratore delegato al tempo della commissione del reato aveva poteri che gli venivano conferiti da
un consiglio di amministrazione, il quale conservava, a sua
volta, poteri non delegabili.
L’amministratore delegato, pertanto, agiva ed operava in
un ambito complesso e variegato, ragion per cui non poteva ritenersi che il medesimo avesse la disponibilità dei beni sociali
nei termini voluti dall’art. 322 ter c.p. (26).
Per questo ed altri motivi (che qui non serve ripercorrere)
il provvedimento di sequestro impugnato in sede di riesame
veniva annullato.
Dunque, l’accertamento della disponibilità dei beni sociali
da parte del reo - amministratore va fatto caso per caso.
7. Disponibilità e onere della prova in capo al terzo
Il nostro discorso sarebbe monco (soprattutto sotto il profilo concreto e pratico) se trascurassimo la questione della prova di eventuali diritti del soggetto terzo rispetto alla pretesa
di confisca esercitata dallo Stato.
Anche a questo proposito ci soccorre la giurisprudenza di
legittimità, e nella sua più alta espressione.
Le Sezioni unite (27), infatti, hanno già stabilito che i terzi
che vantino diritti reali sulla cosa altrimenti destinata alla confisca hanno l’onere di provare i fatti costitutivi di tali diritti.
Essi, sostiene la Corte, sono tenuti a fornire la dimostrazione di tutti gli elementi che concorrono ad integrare le
condizioni di “appartenenza” e di “estraneità al reato”, che si
frappongono al potere di confisca dello Stato.
Ai terzi fa carico, pertanto, secondo la Corte, l’onere della prova, sia relativamente alla titolarità del proprio diritto sulla cosa
(28), sia relativamente alla mancanza di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa (elemento oggettivo)
o, nell’ipotesi in cui tale nesso sia invece configurabile, all’affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza
che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza.
In Dottrina (29) si sono espresse delle preoccupazioni sulla necessità di tutelare il terzo.
Si è osservato che il problema, specifico dell’ambito penale
e, quindi, ricorrente anche nel caso della confisca, consisterebbe in ciò, che si voglia addossare al terzo la prova di fatti
rispetto ai quali, non solo il terzo medesimo non si trova nella
posizione fattuale e processuale migliore per poterli dimostrare, ma che contrastano addirittura con contrarie presunzioni
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costituzionali a favore di qualsiasi imputato (e che, perciò,
a maggior ragione devono valere nei confronti di un terzo),
come avverrebbe se si richiedesse al terzo di dimostrare di
non aver partecipato attivamente al reato per evitare la confisca, così addossando al medesimo un vero e proprio onere di
discolpa, il cui contrasto con l’art. 27, comma 2, Cost. sembra
difficilmente evitabile.
Si può convenire con l’Autore sulla difficoltà in cui si può
trovare il terzo in tema di prova; difficoltà che riguarda anche
la prova in tema di disponibilità.
Tuttavia occorre anche evidenziare che il terzo non è affatto
coperto dalla presunzione di innocenza ex art. 27 Cost., la cui
spettanza testuale al solo imputato si giustifica in ragione della
responsabilità penale che lo riguarda (e che postula la relativa
garanzia costituzionale), e che non riguarda invece il terzo.
Inoltre, possono ritenersi condivisibili le considerazioni
di autorevole dottrina penalistica (30) secondo cui le misure
incidenti sul patrimonio sono assistite da minori garanzie rispetto al bene della libertà personale; ciò in quanto incidono
su un bene che, in quanto “bene”, l’art. 42 Cost. tutela nella
sua funzione sociale e, in quanto strumento di iniziativa economica, l’art. 41 Cost. tutela nei limiti in cui non rechi danno
alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Pare a chi scrive che, a parte la prova sulla estraneità del
terzo rispetto al reato (che non fa parte dell’oggetto del presente lavoro), per quanto riguarda i diritti del terzo sulla cosa
la suddetta posizione delle Sezioni unite (onere della prova
in capo al terzo) è perfettamente riconducibile allo schema
generale di cui all’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei diritti.
Quello schema generale vale anche per la contesa fra Stato
e terzo in ordine alla proprietà della cosa, voluta dal primo
con l’opposizione del secondo.
La confisca, infatti, altro non è che una fattispecie acquisitiva del diritto, della quale è discussa la natura originaria o
derivativa (31).
Orbene, della confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter
c.p. il legislatore ha previsto il fatto costitutivo, individuato nella disponibilità della cosa da parte del reo, intesa come sopra.
La prova della suddetta disponibilità grava sul Pubblico
Ministero, attore pubblico nel processo penale, posto che lo
Stato, che vuole far valere il suo diritto sulla cosa deve provare
il fatto (disponibilità della cosa) che ne costituisce il fondamento (art. 2697, comma 1, c.c.).
Ancora seguendo fedelmente lo schema di cui all’art. 2697
c.c. (comma 2) il terzo che intenda eccepire l’esistenza di un
proprio diritto dovrà provarne a sua volta il fatto costitutivo.
Occorre però evidenziare che l’onere della prova del terzo non potrà limitarsi alla prova del proprio diritto, perché
(come sopra si è visto) esso resta travolto (estinto) quando
il reo abbia comunque avuto la disponibilità della cosa, nei
sensi di cui sopra.
Quindi il terzo dovrà non solo provare il proprio diritto (proprietà), ma anche di averlo esercitato, almeno nella misura
idonea ad escludere la suddetta disponibilità in capo al reo.
Tribuna FOCUS
8. segue: la procedura
Altra questione importante al fine di valutare la posizione
del terzo, raggiunto dalla pretesa di confisca (per equivalente) dello Stato, attiene alle sedi e alle forme con le quali il
terzo medesimo potrà far valere il suo diritto, tenendo conto
che il terzo di regola rimane estraneo al procedimento penale
a carico del reo.
In proposito la Cassazione (32) ha escluso che il terzo possa utilizzare il disposto dell’art. 579, comma 3, c.p.p., non potendo l’impugnazione contro la sola disposizione che riguarda
la confisca essere proposta con gli stessi mezzi previsti per i
capi penali da coloro che sono rimasti estranei al processo.
Tuttavia, l’ordine di confisca della cosa sequestrata, contenuto nella sentenza di condanna o di proscioglimento, fa stato
nei confronti dei soggetti che hanno partecipato al procedimento di cognizione, conclusosi con la stessa sentenza, ma non
fa stato anche nei confronti dei terzi che non hanno rivestito la
qualità di parte in quel procedimento.
Ciò si desume anche dal disposto dell’art. 676, comma 2,
c.p.p., che rinvia all’applicazione dell’art. 263, comma 3, c.p.p.,
in caso di controversia sulla proprietà delle cose confiscate
con provvedimento definitivo (33).
Pertanto, osserva la Cassazione, il terzo rimasto estraneo al
procedimento penale, nell’ambito del quale sia stato disposto
il sequestro preventivo e successivamente la confisca dei beni
di cui rivendica la proprietà, nel corso delle fasi del giudizio
di cognizione, può già esperire il rimedio previsto dall’art. 263
c.p.p., presentando istanza di restituzione al giudice che ha la
disponibilità del procedimento (art. 263, comma 1, c.p.p.).
Questi potrà decidere con ordinanza de plano, essendo la
procedura camerale ex art. 127 c.p.p. prevista, dall’art. 263,
comma 5, c.p.p. solo in sede di opposizione al decreto del p.m.,
il quale ha la competenza a provvedere sulla richiesta di restituzione nella fase delle indagini preliminari.
Una volta esaurita la fase delle indagini preliminari, nel
corso delle fasi del giudizio di cognizione, il giudice competente dovrà provvedere, secondo la Corte, applicando analogicamente la procedura di cui agli artt. 676, comma 1, e 674,
comma 4, c.p.p., cioè senza formalità, con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato.
Anche se la legge non prevede alcun mezzo di impugnazione del rigetto dell’istanza di restituzione avanzata dal terzo
estraneo al processo, poiché l’esigenza di tutela sostanziale
dei diritti dell’interessato deve essere salvaguardata, secondo la Corte deve essere esteso in via analogica anche il rimedio dell’opposizione prevista per gli incidenti di esecuzione
dall’art. 667, comma 4, secondo periodo; (34) in tal modo viene assicurato il contraddittorio secondo la procedura prevista
dall’art. 666 c.p.p..
Nemmeno il passaggio in giudicato della sentenza che
dispone la confisca può privare il terzo della tutela dei suoi
diritti.
La Cassazione in proposito ha rilevato che (35) l’ordine di
confisca delle cose sequestrate contenuto nella sentenza di
condanna non fa stato nei confronti dei terzi che non hanno
rivestito la qualità di parte nel procedimento penale, i quali
possono proporre incidente di esecuzione davanti al giudice
competente per far valere nei confronti dello Stato (successore a titolo particolare nel diritto di proprietà sulle cose confiscate) gli stessi diritti che avrebbero potuto far valere nei
confronti dell’imputato, compreso quello della restituzione
della cosa della quale sia stata ordinata la confisca.
Ciò avviene secondo la previsione dell’art.676 c.p.p., il quale infatti contiene, tra l’altro, proprio uno specifico riferimento alla confisca e, prevedendo anche (al comma 2) la possibilità che sorga controversia sulla proprietà della cose confiscate
(per dire che, in tale ipotesi, si applica la disposizione dell’art.
263, comma 3, c.p.p.) mostra chiaramente di considerare possibile l’insorgere di una tale controversia nonostante l’irrevocabilità della sentenza con la quale la confisca è stata disposta
e nonostante, quindi, l’apparente definitività dell’attribuzione
allo Stato della proprietà della cosa confiscata (36).
Osserva giustamente la Corte che, diversamente opinando
(e cioè affermando che il terzo rimasto senza sua colpa estraneo al procedimento penale rimanga privo di tutela a fronte
della confisca della cosa a lui appartenente, disposta nell’ambito di detto procedimento), sarebbe difficile conciliare una
tale disciplina con il principio costituzionale dell’inviolabilità
del diritto di difesa (art. 24 Cost.).
Trattasi quindi di una interpretazione costituzionalmente
necessitata.
Note
(1) Sez. un., 9 luglio 2004, n. 29951, Curatela fallimentare in proc.
Focarelli, in Il fisco, n. 43, 2004, p. 7355.
(2) Sez. III, 20 marzo 1996, n. 1343, Centofanti, in C.E.D. Cass., n.
205466. In senso analogo Sez. III, 7 dicembre 1992, n. 2206, Miatto ed
altro, in C.E.D.Cass., n. 192669, ritenne che, in tema di frode fiscale, è
illegittimo il sequestro preventivo di un libretto di deposito bancario o di
certificati di credito, poiché non è ravvisabile il rapporto pertinenziale,
non trattandosi di prodotto o profitto del reato; non si può infatti affermare
che i valori depositati siano cose e utilità create, trasformate o acquisite
con la condotta criminosa ovvero acquistate mediante la realizzazione di
essa; né i medesimi sono frutto di indebito arricchimento per la somma
corrispondente all’imposta evasa, potendo tale collegamento riferirsi a
qualsiasi altro bene o utilità.
(3) In tal senso v. SOANA, Introdotta la confisca per equivalente anche nel diritto penale tributario, in www.giustiziatributaria.it.
(4) A norma dell’art. 322 ter c.p., terzo comma, il giudice, con la
sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni
assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto (o il prezzo) del
reato, ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo
del reato.
(5) SANTORIELLO, Sul sequestro per equivalente dei beni della
persona giuridica per i reati tributari commessi nel suo interesse, in Il
Fisco, 2011, n. 11, p. 1697; in senso analogo v. DELLA RAGIONE, La
confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in www.penalecontemporaneo.it.
(6) Sez. III, 5 maggio 2011, n. 28724, Lamprecht e altri, in C.E.D.
Cass., archivio SNPEN; Sez. III, 7 luglio 2010, n. 35807, Bellonzi ed altri,
ivi, n. 248618. Sez. III, 27 gennaio 2011, n. 8982, Magni ed altri, in C.E.D.
Cass., archivio SNPEN, ricorda che le Sezioni unite (Sez. un., 25 ottobre
2005, n. 41936, Muci, in C.E.D. Cass., n. 232164) risolsero un’analoga
questione con riferimento all’art. 640 quater, c.p., che rinvia, come la L.
7
Tribuna FOCUS
n. 244 del 2007, art. 1, all’art. 322 ter c.p., senza alcuna specificazione,
nel senso che la confisca per equivalente si applica anche in relazione al
profitto del reato. Affermarono, infatti, le Sezioni unite che il sequestro
preventivo disposto nei confronti della persona sottoposta ad indagini per
uno dei reati previsti dall’art. 640 quater c.p., può avere ad oggetto beni
per un valore equivalente non solo al prezzo ma anche al profitto del reato,
in quanto la citata disposizione richiama l’intero art. 322 ter c.p. (conf.
Cass., Sez. I, n. 30790 del 30 maggio 2006; sez. II, n. 10838 del 20 dicembre 2006; sez. II, n. 23425 del 12 aprile 2007; sez. VI, n. 37090 del 30
maggio 2007; sez. VI n. 5401 del 28 gennaio 2009).
(7) In tal senso v. PISANI, Reati tributari del rappresentante legale
della persona giuridica e sequestro per equivalente, in Il Fisco, 2011, n.
29, p. 4698.
(8) Sez. V, 16 gennaio 2004, n. 15445, Napolitano e altro, in
C.E.D.Cass., n. 228750, in motivazione.
(9) PELISSERO, in Commento alla L. 29 settembre 2000, n. 300,
in Leg. Pen., 2001, p. 1028. L’Autore osserva che una diversa interpretazione del concetto di disponibilità, che fosse fondata sulla titolarità di
un diritto, porterebbe a conseguenze aberranti. Infatti, da un lato, sarebbe troppo restrittiva una interpretazione che limitasse la disponibilità alla
sussistenza del diritto di proprietà; dall’altro lato, però, includendo nella
disponibilità tutte le situazioni di fatto che conseguono alla titolarità di
diritti reali o obbligatori sul bene che consentano al soggetto di disporre
del bene medesimo, si arriverebbe alla conseguenza assurda di consentire
l’apprensione di beni altrui sulla base del semplice riscontro formale della
titolarità di un diritto obbligatorio (es. una locazione). Ritiene pertanto
l’Autore che proprio l’interpretazione fondata esclusivamente su criteri
fattuali corrisponda meglio a quelle esigenze di salvaguardia del principio
di colpevolezza che il ricorso a questi criteri sembrava pregiudicare.
(10) Sez. VI, 14 marzo 2007, n. 40175, Squillante ed altro, in C.E.D.
Cass., n. 238086.
(11) Sez. II, 3 febbraio 2011, n. 13360, Cioce ed altro, in C.E.D. Cass.,
n. 249885; Sez. II, 10 giugno 2009, n. 29495, ivi, n. 244435; Sez. VI, 19
ottobre 1990, n. 2688, Longo, ivi, n. 186413.
(12) In tal senso v. BORSARI – BERTOLASO, Reati tributari e riverberi patrimoniali sui beni della società e dell’amministratore. La confisca
per equivalente, in Il Fisco, 2009, p. 559.
(13) Per limitare il volume del presente lavoro non ci occupiamo del
concetto di estraneità (del terzo) rispetto al reato; concetto che anch’esso è
fondamentale nel tracciare la fisionomia della confisca per equivalente.
(14) Sez. II, 26 ottobre 2011, n. 41051, Ferrara, in C.E.D. Cass., n.
251542.
(15) In senso analogo SANTORIELLO, Sul sequestro per equivalente
dei beni della persona giuridica per i reati tributari commessi nel suo
interesse, in Il Fisco, 2011, n. 11, p. 1698, ritiene che la disponibilità del
patrimonio in capo al responsabile dell’illecito sussiste nonostante il ricorso ad intestazioni fittizie o di comodo dei beni, poiché nel processo penale
è sempre possibile verificare se un negozio giuridico sia stato determinato
dal perseguimento (non di obiettivi economici e imprenditoriali attribuiti
dall’ordinamento allo strumento negoziale utilizzato, bensì) di mere finalità impeditive e frustranti le pretese dei creditori. In tal caso, infatti, i beni
oggetto del negozio giuridico a carattere distrattivo devono ritenersi nella
disponibilità del soggetto che ha commesso il reato tributario e possono
essere quindi sottoposti a provvedimento ablatorio.
(16) Sez. III, 14 giugno 2012, n. 25774, in C.E.D. Cass., archivio SNPEN.
(17) Tuttavia, la confisca per equivalente prevista dalla L. n. 231 del
2001, art. 19, comma 2, è applicabile esclusivamente con riferimento ai
reati previsti dagli art. 24 e ss., tra i quali non rientrano quelli fiscali di cui
al D.L.vo n. 74 del 2000.
(18) Per la natura eminentemente sanzionatoria della confisca per
equivalente tributaria v. Corte cost., 2 aprile 2009, n. 97, in Corriere tributario, 2009, n. 22, p. 1775, con nota di CORSO, La confisca “per equivalente” non è retroattiva (conf. C. cost., 20 novembre 2009, in C.E.D.
Cass., archivio COSTSN).
(19) Corte cost., 9 giugno 1961, n. 29, in Giur. cost., 1961, p. 551, con
nota di NUVOLONE, La confisca dei beni e la costituzione; conf. Corte
cost., 16 giugno 1964, n. 46, in Giur. cost., 1964, p. 581.
(20) Sez. II, 6 luglio 2006, n. 30729, Carere, in C.E.D. Cass., n.
234849.
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(21) Sez. III, 7 giugno 2011, n. 28731, in C.E.D. Cass., archivio SNPEN.
(22) PRETE, Reati tributari e confisca per equivalente: la posizione
delle società, in Cassazione Penale, 2012, p. 1897.
(23) v. TRAVERSI, Confisca sui beni sociali per il reato tributario
contestato al legale rappresentante, in Corriere Tributario, 2011, n. 35,
p. 2885 – 2886.
(24) Sul tema v. MANCINI - PISANI, Diritto penale tributario, Forlì,
2009, pagg. 297 e s.
(25) Diversamente, ritengo che la ratio sia quella di garantire il recupero dei valori a beneficio dell’erario, come sopra si è detto.
(26) Nel caso all’esame del tribunale era anche accaduto che amministratore delegato della società non era più l’indagato, ma altro soggetto
non indagato; quindi l’indagato non poteva comunque gestire i beni sociali, e si era interrotto il rapporto organico tra il medesimo e l’ente.
(27) Sez. un., 28 aprile 1999, n. 9, Bacherotti, in C.E.D. Cass., n.
213511.
(28) Il cui titolo, affermano le Sezioni unite, deve essere costituito da
un atto di data certa anteriore alla confisca e (nel caso in cui questa sia
stata preceduta dalla misura cautelare reale ex art. 321, comma 2, c.p.p.)
anteriore al sequestro preventivo.
(29) EPIDENDIO, La confisca nel diritto penale e nel sistema delle
responsabilità degli enti, Cedam, 2011, p. 170 e s.
(30) FIANDACA, Misure di Prevenzione (profili sostanziali), in Dig.
Disc. Pen., VIII, Torino, 1994, p. 114.
(31) Le Sez. un., 28 aprile 1999, n. 9, Bacherotti, in C.E.D. Cass.,
n. 213511, ci hanno ricordato che il carattere originario della fattispecie
traslativa della confisca, posto in dubbio da una parte della dottrina, è stato
sottoposto ad acuta riflessione critica dalla giurisprudenza civile della Cassazione, nella quale è stato rilevato che (al di là di tralaticie enunciazioni
di natura meramente definitoria e classificatoria) la reale causa giuridica
del trasferimento conseguente alla confisca deve essere individuata alla
luce della effettiva disciplina legale dell’istituto. Si è quindi evidenziato
che la confisca (compresa quella regolata dall’art. 240 c.p.) dà luogo ad
un acquisto a favore dello Stato, in relazione al bene confiscato, non altrimenti definibile che come derivativo, proprio perché esso non prescinde
dal rapporto già esistente fra quel bene e il precedente titolare, ma anzi un
tale rapporto presuppone, anche se quel rapporto preesistente è destinato
a venir meno per ragioni di prevenzione e/o di politica criminale (Cass.
civ., Sez. I, 3 luglio 1997, n. 5988). Comunque, osservavano le Sezioni
unite, anche a voler tenere ferma l’opinione tradizionale che riconduce
la confisca nella categoria dei modi di acquisto a titolo originario, deve
comunque escludersi che tale classificazione possa far derivare dalla misura di sicurezza patrimoniale l’effetto di determinare l’estinzione degli
“iura in re aliena” dei quali siano titolari soggetti diversi da quello nei cui
confronti è esercitata la pretesa punitiva.
(32) Sez. II, 14 marzo 2001, n. 14146, in C.E.D. Cass., archivio SNPEN.
(33) V. Sez. IV, 26 novembre 1996, n. 2885, in C.E.D. Cass., n.
206780; Sez. I, 12 giugno 1991, n. 2684, Pini, ivi, n. 187679; Sez. I, 16
maggio 2000, n. 3596, Campione, ivi, n. 216101.
(34) V. Sez. V, 30 settembre 1993, n. 3018, Bartke, in C.E.D. Cass., n.
195238; Sez. VI, 24 maggio 1995, n. 20296, Mancini, ivi, n. 202975; Sez.
IV, 6 novembre 1997, n. 2417, Cè, ivi, n. 210093; Sez. VI, 1 aprile 1999,
n. 1166, Inchingolo, ivi, n. 214675.
(35) Sez. I, 16 maggio 2000, n. 3596, Campione, in C.E.D. Cass.,
archivio SNPEN.
(36) L’ammissibilità dell’istanza con la quale il terzo rimasto estraneo al procedimento penale e quindi impossibilitato ad impugnare il capo
della sentenza relativo alla confisca chieda, nella fase dell’esecuzione, la
restituzione della cosa confiscata, risulta espressamente affermata da Sez.
I, 12 giugno 1991, n. 2684, Pini, cit., ed è, inoltre, chiaramente presupposta anche da Sez. IV, 2 maggio 1994, n. 2019, Galarito, in C.E.D. Cass.,
n. 198755, la quale afferma la necessità, in caso di richiesta di restituzione
di cosa confiscata avanzata da un terzo, di dare avviso dell’udienza anche al condannato nei cui confronti la confisca è stata disposta. Anche
Sez. VI, 20 maggio 1992, n. 1780, Zokon, in C.E.D. Cass., n. 190872, ha
affermato che competente a decidere sulla richiesta di restituzione delle
cose sequestrate dopo il passaggio in giudicato della sentenza è il giudice
dell’esecuzione nelle forme dell’incidente di esecuzione.
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