Capitolo 12
Verso il cambiamento
L’emergenza
Verso il cambiamento
L’emergenza
La goccia che fa traboccare il vaso.
Il 1981 rappresenta un punto di svolta storico. Per decisione del Consiglio Comunale di Milano i
compiti dell’Aem vengono estesi: l’Azienda da “elettrica” diventa “energetica”. Le sue competenze
vengono ampliate al gas e alle nuove tecnologie per il riscaldamento urbano. Per dare risalto al
cambiamento viene studiata e quindi proposta una nuova immagine grafica:Aem cambia il suo logo.
Anche in Valtellina l’Azienda si conferma una realtà consolidata, accanto ad altri grandi nomi quali
Levissima, Ipermercati e alle attività turistiche che esaltano le risorse territoriali e lo sviluppo delle
infrastrutture. “Là dove oggi ci sono ski-lift e funivie - ricorda Berbenni - qualche anno fa si risaliva
a piedi. E per chi eventualmente si infortunava, niente toboga, ma un cavallo”.
Poi “c’era il villaggio sanatoriale a Sondalo, c’era il cotonificio Fossati a Sondrio, la Svizzera e il contrabbando. E un po’ di edilizia quando è ricominciata la ricostruzione delle case. Ha ragione anche
De Lorenzi - dice Rinaldi - quando parla di turismo, ma questo vale per Bormio, per Santa Caterina
e per alcune zone, mentre a Grosio si può dire che è ancora a zero adesso, è ancora ridotto al
minimo rispetto al boom, ma noi non lo abbiamo mai avuto o potuto avere, d’altra parte cosa verrebbero a fare da noi? Possono andare a Fusino per funghi, ma non è turismo di massa”. “È ridotto anche da noi - concorda Berbenni che abita a Bormio. Si è creato un turismo di massa che ha
eliminato il turismo di élite. Era una clientela che ne tirava dietro altri cento ma adesso non c’è più,
a Cortina, a Saint Moritz c’è il turismo di massa ma anche quello di élite”. De Lorenzi porta un
altro esempio di situazione economica:“Prendiamo il grande albergo Bagni Nuovi, lì lavoravano 160
persone, gente che poteva integrare i guadagni con la piccola agricoltura; e non bisogna dimenticare l’Aem: chi scendeva da Digapoli metteva lì i soldi e la famiglia era a posto perché aveva la stalla, la mucca, e così i soldi entravano in circolo; bisogna considerare tutto il complesso”.
Tutto questo ha portato nel corso dei decenni all’incremento di nuovi posti di lavoro. E ulteriori
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trasferimenti. “Io in Valtellina non c’ero mai stato, mi hanno fatto responsabile e sono andato su la
prima volta con l’ingegnere Soldadino nel febbraio dell’86. Prima di me c’era l’ingegnere Pini - racconta Pagliarini, che di lì a un anno si sarebbe occupato in prima persona del coordinamento dei
lavori per il ripristino dei collegamenti interrotti in seguito alla disastrosa alluvione. Una sera l’ingegnere Soldadino mi ha chiamato in ufficio alle otto, abbiamo parlato delle solite cose, poi mi ha
detto ‘Ma lei sarebbe disposto ad andare a fare il capo in Valtellina?’ ‘È una vita che sono a Milano
e di punto in bianco mi chiede di andare in Valtellina, mi faccia pensare un po’. Dopo due o tre
giorni gli ho detto che ‘se serviva andavo, però la Valtellina non l’avevo mai vista’. Lì ho incontrato
persone che amavano moltissimo gli impianti, però ho trovato anche della carenza decisionale nel
senso che nessuno aveva il coraggio di imporre qualche modifica o qualche cambiamento, perché
continuavano a lustrare benissimo gli impianti che avevano, che erano i più belli del mondo dal
punto di vista della pulizia, poi li conoscevano benissimo, ma se c’era da cambiare un pezzo non si
cambiava, o perché costava troppo o perché non ne avevano voglia. C’era un po’ di diatriba con
Milano. In Valtellina avevano un potere economico non sufficiente a garantire gli interventi sugli
impianti, serviva per le spese correnti, ma non volevano dipendere dalla sede centrale. Il perché
non l’ho mai capito, quando sono arrivato ho detto di tagliare quel conto, non volevo neanche una
lira, ‘non me ne frega niente dei soldi, i contratti li fa Milano ma fa i contratti che gli chiedo io’, e
siamo arrivati a quadruplicare gli investimenti nel giro di un anno, moltiplicati per due e per tre negli
anni successivi”.
1987. 18 luglio, il giorno dell’alluvione.
L’acqua, fonte preziosa della vita, ricorda all’uomo che il suo bene è pari alla sua forza.“Un bel giorno comincia a piovere, si sciolgono i ghiacciai, i grossi problemi li abbiamo avuti con le linee e con
i collegamenti telefonici che sono spariti; per parlare con Premadio occorrevano i piccioni, o passare attraverso la linea di emergenza da Milano perché c’erano le onde convogliate delle linee elettriche 1 e 2 a 220 kV che arrivavano a Premadio, il problema vero per noi erano le comunicazioni” sintetizza velocemente Pagliarini, cronista per noi di quei terribili giorni e settimane, che ancora oggi hanno lasciato un segno profondo, sul territorio come negli animi.
Aveva piovuto, dunque. Troppo. L’acqua caduta il 17 luglio 1987, anche sui ghiacciai, era 35 volte
superiore alla media stagionale. Le temperature più alte della media: lo zero termico era a 3.700
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metri di altitudine. Un’alluvione si abbatté sulla Valtellina e la isolò. Pagliarini racconta che “durante
l’alluvione abbiamo avuto come Aem una fortuna sfacciata perché tutta la distribuzione della valle
e anche i collegamenti con Milano dipendevano dalla sottostazione di Grosotto. L’acqua è arrivata
alla soglia di Grosotto, l’ha fermata la schiena d’asino della strada altrimenti ci avrebbe allagato perché la cabina era un metro sotto la strada. In Valtellina sarebbero rimasti al buio tutti e Milano qualche problema l’avrebbe avuto”.
Un altro fattore complicò la situazione: i pendii sotto le abbondanti piogge si sfaldarono, riversando
terra, tronchi, sassi nei fiumi, mentre gli alberi ostruirono i ponti. “Ho avuto un’esperienza - racconta sempre Pagliarini -: sul ponte di Grosotto, era un ponte di ferro, ho visto arrivare un abete che
sarà stato lungo 40 metri, è passato sotto il ponte ed è uscito piallato dall’altra parte, completamente piallato; ero sul ponte e ho fatto una corsa per andare fuori, il ponte ha tremato un po’ ma ha
tenuto. L’acqua aveva una forza, una velocità … portava dei massi grandi come questa stanza!”
Sul luogo era stato chiamato anche Bossi che, in qualità di responsabile della sicurezza in tutti i cantieri Aem, vi sarebbe rimasto fino a ottobre:“da quando ero al SIL andavo in Valtellina una volta alla
settimana e avevo intavolato con le persone un rapporto molto bello; per loro, gli enti locali e le
istituzioni rappresentavo l’azienda. Ma quella domenica mattina ero appena arrivato in Trentino con
la mia famiglia, non c’erano i cellulari e in albergo un messaggio mi diceva di chiamare immediatamente l’ingegnere Fedato: ‘Torna subito, sta tornando anche Soldadino, torna immediatamente a
Milano, in Valtellina è un casino’. Finisco la telefonata, pioveva a dirotto, in camera disfo i bagagli e
lascio quello che serve a mia moglie e alla figlia, tiro su i miei, mi metto in macchina per tornare
indietro, ma una frana sulla strada mi blocca fino alle quattro del mattino. Appena arrivato in
Caracciolo ‘La stiamo aspettando, la stiamo aspettando’, mi portano a Linate e mi caricano in elicottero. Arrivo il 19 luglio”.
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Cronaca di un disastro “annunciato”.
Qualche giorno più tardi, il 26 luglio, quando si pensava che il peggio fosse passato, dal Monte
Zandillà (Coppetto) caddero a valle in ventitré secondi 40 milioni di metri cubi di terra, alberi e
fango, che risalirono sul versante opposto per 300 metri. Il disastro era alle porte.
“Subito dopo l’alluvione le strade erano interrotte ed erano pochissimi i dipendenti che riuscivano a venire a lavorare, qualcuno indispensabile lo mandavo a prendere con l’elicottero, però erano
una minoranza: su 400 persone saranno state 40/45 quelli che erano al lavoro. Noi eravamo su ai
Forni a fare uno sghiaio70, stavamo immettendo acqua nel fiume, c’era anche Luigi Bossi”. Che precisa: “alle 7.27 è andata via la luce, si è disalimentato tutto, abbiamo immaginato cosa fosse successo, siamo risaliti sull’elicottero e forse siamo stati i primi a sorvolare la frana. Alle 7.50 eravamo a
Grosio”. Intanto “abbiamo telefonato a Premadio, dai Forni si riusciva - riprende Pagliarini -, abbiamo smesso di fare quello che stavamo facendo, siamo scesi subito a valle, abbiamo fatto chiudere
tutte le opere di presa, per evitare di alimentare il lago per quello che si poteva perché la natura
è impossibile fermarla. Abbiamo poi ripreso l’attività mantenendo in servizio Livigno, Premadio,
Bormio,Valfurva, tutta la zona dell’Alta Valle con un gruppo di Premadio, il 70.000 che dava 1 MW.
Per dare l’energia a tutti i paesi, abbiamo trafficato un po’ con gli impianti per ripristinare il servizio”. Perché - aggiunge Bossi - “c’era da rialimentare tutte quelle imprese che stavano lavorando
per svuotare quel benedetto lago di Val Pola e quindi, ad esempio, portare alimentazione alla
pompa della Snam Progetti (che però scaricava sulla cima della frana e quindi avevamo paura che
erodesse e venisse giù tutto)”.
“La frana ci ha dato il colpo di grazia, perché tutto quello che eravamo riusciti a rimettere in sesto
è stato compromesso. Tutti ci eravamo dati da fare e avevamo una situazione strana: in Valtellina
eravamo presenti noi e l’Enel, che distribuiva l’energia.Tutti quei paesi intorno a noi erano rimasti
al buio, l’Enel doveva venire da Sondrio e quindi campa cavallo che l’erba cresce, tutti erano al buio
e abbiamo fatto noi il lavoro che avrebbe dovuto fare l’Enel, per cercare di ridare tensione. Solo
dopo, a fatto compiuto, ci siamo messi d’accordo con l’Enel ed abbiamo attaccato linee nostre alle
loro. Abbiamo fatto tutto il possibile per collegare i paesi che erano al buio. Abbiamo avuto difficoltà anche coi collegamenti con Premadio: con la frana è venuta giù mezza montagna e lì la situazione si è fatta drammatica. Premadio era isolata dal punto di vista sia elettrico che delle comunicazioni e i laghi di Cancano erano colmi. Se non funzionava Premadio, le cui acque di scarico deflui-
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Si intende la liberazione di un bacino artificiale o di un corso d’acqua dalla ghiaia che vi si deposita.
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vano verso Grosio, nella galleria Premadio-Grosio bisognava far tracimare il lago; siamo riusciti a
fare un collegamento provvisorio nella piana sotto Bormio”.
Priorità: ripristinare i collegamenti.
Molte condutture erano state distrutte. Era necessario ripristinare al più presto i collegamenti per
i paesi isolati, ma anche per i soccorsi e per l’attività della Regione. Il Ministro della Protezione Civile
Giuseppe Zamberletti istituì a Milano la sede operativa della Protezione Civile.
“In Valtellina gli abitanti vivevano con paura questa possibilità - sottolinea Pagliarini - ma a Premadio
erano al sicuro. Io ero a Grosio con pochissimi altri”. La paura che in Lombardia si potesse ripetere la tragedia che il 9 ottobre 1963 colpì il Veneto con il disastro della diga del Vajont71 era sempre più concreta. La frana diede il colpo di grazia.
Lo sfaldamento dello Zandillà provocò un’onda sismica del 4° grado della scala Mercalli e lo spostamento d’aria abbattè buona parte delle case di Aquilone (SO), provocando ventisei vittime,
rimaste in paese nonostante l’evacuazione degli abitanti effettuata dopo l’alluvione della settimana
precedente, mentre Sant’Antonio Morignone, che era stato completamente evacuato, è stato
sommerso dalla frana. Nei paesi coinvolti ci furono in totale cinquantatre vittime e migliaia di senzatetto.
“L’ingegnere Soldadino all’inizio di agosto mi ha dato una relazione ricevuta dal Comitato
Internazionale Grandi Dighe sulle possibilità di sifonamento72 che aveva quella diga in terra - ricorda Bossi - sono stato uno dei primi a camminare sul corpo della frana insieme al geometra Pozzi,
l’ingegnere Soldadino e il comandante dei Carabinieri di Sondalo. Avrei spergiurato che quella roba
lì non si sarebbe mossa, neanche se il Padre Eterno andava lì a spingerla. Anche se dopo aver letto
quella relazione è subentrata la preoccupazione. La simulazione era stata fatta dall’Ismes sulla base
dei dati inviati dal Comitato Internazionale Grandi Dighe dove diceva, se non ricordo male, che ‘il
90% delle dighe in terra con quella granulometria, al momento della tracimazione veniva sifonata’,
sifonava e se ne andava”. Ci furono grossi problemi su linee elettriche e collegamenti telefonici.
La sera del 9 ottobre 1963 alle 22.39 dalle pendici del monte Toc, 300 milioni di metri cubi di roccia precipitarono
alla velocità di 80 km orari nel bacino artificiale della diga del Vajont, all’epoca la più alta d’Europa. La frana sollevò
un’immensa onda d’acqua e detriti che si abbatterono sui paesi di Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè, Erto,
Casso e sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, Il Cristo. Complessivamente la tragedia causò la morte di
oltre duemila persone.
Nel 2001 il regista Renzo Martinelli ha realizzato un film, Vajont, la diga del disonore.
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Si intende l’infiltrazione di acqua alla base di un terrapieno o di un argine, che può causare il franamento o il cedimento dell’opera.
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Le comunicazioni erano difficili, se non impossibili! “Mi era stato assegnato il compito di installare
le sirene da Sondalo a Sondrio - racconta Bossi - per allertare la popolazione che poteva accedere nella zona evacuata durante le ore previste con regolare permesso rilasciato dal Sindaco e dal
Prefetto; ma mi sono preso un richiamo dall’ingegnere Scacchi perché non mi tenevo l’elicottero
sempre appresso per poter eventualmente caricare gli uomini e venir via”.
Si era dunque riusciti a fare collegamenti provvisori, continua a raccontare Pagliarini scandendo
quei drammatici momenti, “tra una linea nostra ed una linea loro (dell’Enel) e piano piano abbiamo cominciato a scaricare il lago, perché il problema vero, il più grosso è stato proprio quello dei
laghi: erano pieni e al momento era impossibile vuotarli, perché l’Adda era già in piena. Noi avevamo fatto simulazione e calcoli e sapevamo che effetto avrebbe avuto l’eventuale crollo della diga
naturale, siamo riusciti a deviare parte delle acque con molta paura. In centrale c’eravamo io,
Soldadino e il capoturno Bombardieri, a Premadio invece c’era il personale preposto, perché era
a monte della frana”.
Il rischio evitato.
Un mese più tardi, il 24 agosto, pioveva ancora. Una nuova piena non era più un rischio, ma una
realtà: il volume del lago superò i 12 milioni di metri cubi. I livelli non accennavano ad abbassarsi
ed era necessaria un’ulteriore evacuazione per mettere al sicuro la popolazione. Altri 27mila abitanti furono costretti a lasciare le loro case.
Il 29 agosto il lago raggiunse i 15 milioni di metri cubi e il giorno dopo, quando il volume sfiorò i
16,6 milioni di metri cubi, si rischiò la tracimazione non pilotata. Bossi continua il suo racconto:
“Tutti abbiamo passato la notte della tracimazione all’aperto, su un sasso, lì a Ravoledo: abbiamo
sentito per radio un collega che ad un certo punto ha sentito dei sassi rotolare giù (ogni tanto se
ne sentivano, questa frana era abbastanza in movimento, i sassi che erano attaccati al corpo di frana
ogni tanto venivano giù) e lui si è messo a urlare ‘Arriva! Arriva!’ immaginate che paura in quei
momenti…” Il 5 settembre il lago crebbe ancora e cominciò a tracimare, gonfio dei suoi 18 milioni di metri cubi.
Peggio di un bollettino di guerra. Questa volta non erano fazioni nemiche a contendersi un territorio, ma la natura che pretendeva di rifarsi sull’uomo. Una guerra che non si combatteva e non si
poteva combattere ad armi pari.
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Una settimana dopo, grazie a un impianto di pompaggio realizzato a tempi record dalla Snam in
soli 20 giorni e a un secondo impianto di condotte d’acqua realizzato in 32 giorni, il volume del
lago cominciò a diminuire a 16 milioni di metri cubi. E progressivamente, fino al 28 ottobre, si ridusse a 2,6 milioni di metri cubi.
L’emergenza diventa “occasione per l’uomo”.
Ancora oggi quei caldi e piovosi giorni estivi, trasformati in tragedia dall’eccessiva generosità delle
nuvole e del cielo, sono un ricordo vivo per chi partecipò ai soccorsi e ai lavori73.
Non sembri ora fuori luogo la riflessione conclusiva di Pagliarini, che ha invece saputo cogliere un
aspetto molto importante.“Io ricordo con favore l’emergenza ma non tanto per l’emergenza in sé,
ma perché è stata l’occasione che ha stravolto le regole quotidiane, i rapporti non erano più quelli del capo e del dipendente ma quelli di due amici… in centrale eravamo in due gatti, se c’era da
andare a vedere una cosa ci vai tu ci vado io, quello non era più un dipendente ma era… come
io e Soldadino, eravamo lì insieme, cosa che dal punto di vista umano mi ha colpito molto perché
erano state cambiate completamente tutte le regole del gioco”, facendo emergere le risorse e le
capacità dell’uomo oltre la solidarietà.
Anche in quella terribile occasione il Gruppo Volontari di Protezione Civile di Aem “ha prestato la
propria collaborazione per circa tre mesi, con impegno e abnegazione sia per il raggiungimento
della normalità, sia collaborando con le istituzioni per soccorrere le persone e provvedere al trasporto di viveri e materiali di casermaggio nelle tendopoli ove queste erano sfollate, nonché istallando impianti acustici di allertamento per eventuali future evacuazioni e cercando di migliorare le
condizioni di vita fornendo materiali, mezzi e attrezzature”74.
Dopo l’intervento per il terremoto in Friuli nel 1976, infatti, il Gruppo Volontari di Protezione
Civile dell’Azienda è stato chiamato più volte a intervenire: come nel 1980 a favore delle popolazioni terremotate dell’Irpinia e nel 1985 durante l’emergenza neve che ha colpito Milano. In
Valtellina c’era anche l’urgenza di supportare la produzione idroelettrica. “Hanno deciso che era
utile avere una struttura organizzata, su volontà delle persone. Successivamente è nato un comi-
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Con la mostra “Sculture del fiume” l’artista Adriano Tognolini sembra seguire il lavoro iniziato dalla natura. Il suo
scalpello segue le indicazioni di quello del fiume. E dei legni trovati al margine della corrente dopo la furia dell’alluvione, che coinvolse centinaia di famiglie, Tognolini interpreta e completa le forme, dando espressione a quello che nessuno aveva visto nel trapasso dalla vita alla morte.
tato di coordinamento per la Protezione Civile tra tutte le aziende del Comune di Milano; il
Gruppo utilizzava mezzi dell’Azienda”, dice Luigi Bossi, che in qualità di partecipante e presidente
con orgoglio sottolinea: “siamo un gruppo che è l’unico ad avere il riconoscimento di alta professionalità: non sappiamo fare tutto, ma nel nostro mestiere (elettricità, acqua, calore, gas) siamo il
top in Italia”.
I lavori dopo il disastro.
Dopo l’emergenza “quando ero in Valtellina, sarà stato il 1988-89 - continua Pagliarini - abbiamo
ristrutturato il secondo gruppo di Lovero, fatto con personale Aem, con l’assistenza delle imprese,
però con una guerra infinita, perché i tempi si dilatavano continuamente: il personale andava a mangiare a Grosio, lavorava a Lovero e tornava alla sera a timbrare a Grosio. I lavori si dovevano fare
fuori esercizio per evitare perdita di produzione, si facevano sabato e domenica o di notte. Ciò
richiedeva di concordare ogni volta con i sindacati lo straordinario. Il protrarsi delle trattative dava
come risultato che un lavoro previsto per due mesi l’abbiamo portato avanti per quattro mesi, con
un mare di problemi e perdita di produzione. Il successivo intervento di Stazzona, ho voluto che
venisse appaltato, basta, non era possibile andare avanti in quel modo. Tanto più che con questo
sistema, facendo una valutazione, si migliorava in efficienza e convenienza economica”. Questo tipo
di gestione del lavoro con gli appalti era attuato da tempo anche a Milano, come afferma Casati:
“Convivevano i gruppi di Manutenzione dei quali facevamo parte e quelli della Distribuzione; a
74
1976-2001 Venticinque anni di volontariato. L’energia dove serve una mano, cit., pagg. 12-14
Il calendario degli interventi del Gruppo Volontari di Protezione Civile nel corso degli anni è stato piuttosto fitto, dalla
gestione ordinaria dello straordinario alle emergenze umanitarie sul territorio nazionale e internazionale. Come l’esercitazione nazionale a Torino (1988) o la partecipazione alle colonne del comune di Milano nel trasporto di viveri e generi di sostentamento a Leningrado (ora San Pietroburgo) e in Romania (1989). Negli anni Novanta il Gruppo ha partecipato all’edificazione di un complesso scolastico realizzato dall’Associazione Nazionale Alpini a Rossoh (1993); a Palese
(Albania) ha realizzato l’impianto elettrico di una scuola in supporto al CESES-Centro Europa Scuola, Educazione e
Società (1996) e nel 1999 ancora in Albania con la Missione Arcobaleno - emergenza profughi Kosovo. Mentre nel 2000
a Tor Vergata (Roma) per il Giubileo su richiesta della Regione Lombardia ha realizzato le strutture tecnologiche del
campo di accoglienza di duemilacinquecento volontari; a Moncalieri (Torino) e Locana (Valle dell’Orco) in occasione
dell’alluvione ha provveduto a svuotare dall’acqua e dal fango i piani bassi della centrale di cogenerazione e a ripristinare le linee elettriche MT e bt delle Valli dell’Orco e Soana.
Fino a essere riconosciuta dalla Regione Lombardia, Assessorato ai Lavori Pubblici e Protezione Civile, “una delle
Organizzazioni più accreditate sotto il profilo organizzativo e tecnologico per il soccorso alle popolazioni e per il supporto logistico, nonché nelle fasi di addestramento e di formazione dei volontari”. E a partecipare nello Sri Lanka all’aiuto e sostegno dei sopravvissuti al maremoto del 26 dicembre 2004 - Giorgio CERUTI, La Protezione Civile Aem nello
Sri Lanka, Craem Caramel, 2005
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Milano alle otto si presentavano sull’impianto sul quale dovevano lavorare, a mezzogiorno non
andavano in mensa, non ne avevano diritto, il personale di Caracciolo invece si presentava alle 8.00
in Caracciolo, partiva per attraversare Milano, a mezzogiorno rientrava in Caracciolo per mangiare in mensa e poi ripartivano, con una grande perdita di tempo… Eppure era la stessa azienda: il
nostro era il Servizio Energia Primaria e gli altri facevano parte della Distribuzione, non voglio dire
che i nostri livelli di efficienza erano 100, per l’amor di Dio, ma almeno 70 contro 25 degli altri!”
Il tipo di gestione veniva analizzato già da qualche anno, come racconta Casati: “Le analisi che si
facevano ad Organizzazione, quando sono partite nel 1983-84, era che importante per un’azienda di servizi come Aem fosse mantenere la manualità per l’esercizio del Pronto Intervento, questo
era quello a cui Aem non poteva rinunciare e neanche adesso credo possa”. “Il problema era la
produttività - continua Pagliarini - siccome non si poteva riprendere i lazzaroni e cacciarli fuori, allora bisognava in qualche modo mediare tra l’uno e l’altro, però attenzione! Se non si interveniva nel
recupero della produttività e non si continuava a coltivare il lavoro e le capacità produttive, si
distruggeva l’azienda. È ovvio che gli appalti costano meno, però se appalti tutto, fai quello che tiene
la carta e basta”.
La sicurezza prima di tutto.
L’emergenza in Valtellina ha evidenziato quanto fosse importante avere delle procedure di sicurezza e di gestione nell’eventualità di un disastro. Risale all’inizio degli anni ’80 proprio una maggiore
sensibilizzazione in fatto di sicurezza in Aem. “In quegli anni, quando è venuto fuori il famoso
‘Libretto Blu’- ricorda Bossi -, l’ingegnere Soldadino ha voluto darsi delle procedure. In via della
Signora c’era un Ufficio Sicurezza, vista come attenzione e soprattutto controllo che tutto potesse andare bene, ma erano due persone in tutta l’azienda. Nell’82, dopo l’assorbimento della gestione del gas, entrava anche una cultura della sicurezza più sviluppata, in Montedison esisteva un
Servizio Sicurezza e Igiene del Lavoro che da noi mancava. Così nell’83 si crea un Servizio per la
Divisione Elettricità pari a quello della Divisione Gas e si fanno dei concorsi per assegnare delle
risorse e grazie a consulenti esterni di capacità notevoli (Franco Rossigni, Gastaldi dell’Ispettorato
del Lavoro, ecc.) viene formato un gruppetto di persone a non fare una sicurezza di tipo punitivo,
ma per far passare una sicurezza sul lavoro in azienda. L’ingegnere Scacchi […] aveva capito che il
costo della vita umana o comunque la mancanza di operatività di una persona è sicuramente più
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alto di quanto non sia formare le persone a non farsi male. Si decide di fare investimenti pesanti e
si crea quindi una struttura centrale con a capo l’ingegnere Risi, con la definizione delle responsabilità di ognuno”.
Dopo questa doverosa premessa, Bossi si concentra sulla sua esperienza in Valtellina: “ho cominciato a conoscere la Valtellina proprio in quegli anni, con il Servizio Sicurezza e Igiene del Lavoro,
perché lo stesso discorso doveva essere diffuso anche lì e a Cassano, come a Milano. Per la Valtellina
si trattava di fare tutte le procedure, dell’entrata nei canali per le verifiche periodiche, i controlli
delle dighe, le attività delle linee, come salivano-scendevano gli ammaraggisti, come si spostavano
in montagna, i corsi di sci fuoripista per insegnare a coloro che dovevano comunque andare a fare
delle riparazioni i percorsi per evitare di provocare valanghe”.
La Valtellina oggi.
In Valtellina, teatro di scontri tra uomini e natura, oggi è rimasto poco della vecchia vocazione agricola come principale fonte di sostentamento: solo poche stalle, perché adesso “dà fastidio l’odore”. “Comunque c’era sempre la Svizzera per andare a lavorare e ritornare con qualche soldo. In
Svizzera poi trovavano anche di fare la “seganda”75 - dice Rinaldi - tagliare il fieno e durante l’estate si spostavano da una zona all’altra con la falce in spalla, tiravano via la lama, la riponevano e restavano in giro quaranta o cinquanta giorni. Io ho vissuto in Val Grosina con mio nonno…, si dormiva in stalla, si dice del medioevo, io dormivo in un letto ricavato sopra il recinto del maiale, quando ero ragazzo”. A tornare nuovamente indietro al tempo dell’infanzia ci sono anche Della Palma:
“eravamo quattro fratelli ed eravamo in una camera…” e Berbenni: “quei letti che adesso sono
tornati di moda, facevano la carriola, la sera tiravano fuori un cassetto e mettevano dentro il bambino”.
Crescere.
Si è voluto inserire in questo lavoro un capitolo dedicato all’emergenza in Valtellina, nonostante sia
avvenuta in un periodo storico oltre quello preso in considerazione, perché lo si ritiene un evento particolarmente significativo, in conseguenza del quale sono emersi con prepotenza il valore e
le capacità umane, oltre che professionali, dei dipendenti Aem. Per questa ragione si chiede indulgenza al lettore se occupiamo ancora qualche riga per riportare le testimonianze di questi uomi-
Cfr. Fabrizio CALTAGIRONE, Modelli e strategie familiari a Grosio, in Ricerca Folklorica, n.38, Famiglie alpine lombardo-venete tra Otto e Novecento. Seconda parte (Oct. 1998), pagg. 5-20
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ni, il cui cuore è fonte preziosa per la realizzazione di segni concreti di solidarietà.
Anni di lavoro fanno crescere come persone oltre che professionalmente.Talvolta capita che proprio sul luogo di lavoro si scopra una vocazione verso il prossimo e che una volta andati in pensione si compia una scelta radicale. Partire come volontario in Paesi lontani. Nelle considerazioni
di padre Gutierrez, teologo della liberazione del Perù, si legge “Guai a coloro che il Signore troverà ad occhi asciutti, perché non seppero essere solidali con i poveri e i sofferenti di questo mondo”,
occorrerebbe far proprie le miserie degli oppressi, commuoversi e saper vibrare per il dolore altrui,
essere più attenti alle persone.“È solo quando usciamo dal nostro per avvicinarci a queste miserie
che si cominciano a capire i drammi, le sofferenze vere, profonde, di queste genti”. Queste sono le
motivazioni che hanno accompagnato alcuni colleghi nell’espressione della solidarietà agli ultimi.
Esempio significativo è Renato Vivenzi. In Aem ha curato la manutenzione degli impianti elettrici, la
ricerca delle correnti vaganti e delle strutture metalliche interrate fino ad arrivare, a fine carriera,
alla direzione progettazione. Da vent’anni ha messo la propria professionalità e collaborazione a
disposizione di Associazioni che in Africa (Congo Zaire, Angola, Benin, Sudan e Ciad) aiutano le
popolazioni più povere.
Come lui, altri. Dante Rastelli di Tirano, che ha impegnato le proprie ferie estive per portare un
aiuto nelle Isole Salomon; oppure Stefano Raimondi in Burkina Faso. E sicuramente tanti altri, al
momento sconosciuti nei nomi, ma non nei fatti: accanto ai gesti individuali non va, infatti, dimenticata la generosità di tutti i dipendenti e molti dirigenti che con il contributo delle organizzazioni
sindacali e la sottoscrizione di un’ora di stipendio hanno sostenuto numerosi progetti umanitari,
come la costruzione e il successivo ampliamento di un dispensario medico a Ntamunganga nel
Congo Zaire; la creazione di atelier di formazione e produzione artigianale per un mercato equo
e solidale in Burkina Faso; il sostegno a bambini palestinesi.
Si chiude qui, e fortunatamente solo sulla carta, questa parentesi dedicata all’esperienza umana al
di fuori del lavoro. Perché si avvicina il momento della pensione.
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Un gasometro della Bovisa di Milano - Autore: Paoletti Antonio
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