alter ego
in medicina
A New Age of Medical Communications
n. 1 - gennaio 2012
Ipernervazione e dolore
Ruolo del collagene
e dell’argento colloidale
nel trattamento delle lesioni cutanee
alter ego
in medicina
E DITORIALE
di Vincenzo Montrone
alter ego
in m ed i c i n a
Direttore U.O.C. Fisiopatologia, Terapia del Dolore e Cure Palliative Hospice A.O.R.N. “A. Cardarelli” - Napoli
n. 1 - gennaio 2012
Periodico semestrale di informazione riservato ai Sigg. Medici
Registrazione Tribunale di Napoli n. 64 del 7-10-2005
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In un articolo apparso tempo fa sul quotidiano “Repubblica” scritto da
Sergio Fedele si faceva riflettere i lettori sull’importanza della meditazione.
Il giornalista testualmente scriveva: “… Dagli antichi filosofi greci ai maestri
orientali, dagli illuministi ai pensatori moderni c’è un’assoluta convergenza
su una questione: per riflettere e meditare (quindi per svolgere la principale
azione che consente all’essere umano di vivere mettendo in pratica ciò che
ha pensato) occorrono tre elementi fondamentali: il tempo, la solitudine,
il silenzio”.
Ebbene per tutte queste preziose entità il terzo millennio lamenta una profonda deficienza. Oggi il tempo, il suo significato e soprattutto il suo valore
sfuggono all’attenzione di molti. Viviamo in una società dove esiste un profondo disavanzo tecno-psicologico, dove tutto scorre con rapidità ed il
tempo per pensare è inesistente (c’è chi pensa per noi). Questa “malattia”
ha permeato ormai le menti di molti, anche di noi medici che di conseguenza
sempre meno tempo dedichiamo ai nostri malati. Il tempo è un bene prezioso
tutto da riscoprire, così come il silenzio, sempre più raro in una società dove
tutto è rumore. La riflessione si nutre di questi due elementi in assenza dei
quali è priva di contenuto.
Ed è proprio a proposito del rapporto medico-paziente, in un momento di
riflessione, che mi sono domandato se la consuetudine di prescrivere TAC
e RM con estrema facilità faccia parte di quella che si chiama medicina
difensiva, o sia solo il segno di una condizione più generale, legata ai tempi
di oggi: è più rapido chiedere un’indagine strumentale che non visitare il
malato utilizzando tutte le manovre semeiologiche dell’antica arte medica.
Quali sono le conseguenze di questa mancata attenzione al tempo da dedicare alla visita ed all’ascolto della persona sofferente? Tralascio volontariamente il discorso sull’importanza di un corretto orientamento diagnostico,
del rapporto medico-paziente e delle ricadute che questo ha sul risultato
terapeutico, per soffermare l’attenzione sui danni che vengono prodotti.
È il caso di ricordare che una TAC addome fa assumere una quantità di
radiazioni pari a 400 RX del torace. La quantità di radiazioni è misurata in
millisievert. Una TAC addome fa assorbire 10 millisievert, che sono inferiori
ai 50 millisievert considerati dose rischio per la comparsa di tumori e leucemie, ma se pensiamo a quante TAC i nostri malati praticano nel corso
della vita, potremmo forse immaginare il rischio a cui sono sottoposti per
effetto della sommazione di dosi radioattive.
Partendo da questa considerazione, abbiamo effettuato una ricerca per vedere
se vi erano norme che regolamentassero l’uso di tali indagini, riscontrando
l’esistenza di una legge nazionale che risale all’anno 2000 (L. 187/2000).
Tale norma, recependo una direttiva comunitaria, obbligava gli stati a creare
un centro nazionale di raccolta dati. In Italia sembra che tale centro non sia
mai stato istituito. Non esiste dunque un “libretto radiologico” su cui il
radiologo segna la dose di raggi che il paziente assorbe ogni qualvolta effettua un’indagine. È chiaro quindi che nel corso della vita è molto probabile
che i medici, senza saperlo, prescrivendo con leggerezza indagini spesso
inutili, contribuiscano ad aumentare il rischio di patologie tumorali. Concludo dunque queste brevi considerazioni invitando tutti a riflettere sui
nostri comportamenti prescrittivi delle imaging e come consuetudine, chiudo
il mio editoriale con la frase di rito di Renzo Arbore: “Meditate gente …”.
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Ipernervazione e dolore
in medicina
*
**
di M. Buonocore*, A. Bodini*, A. Gatti*, G. Amato*, C. Bonezzi**
Fondazione Salvatore Maugeri, Istituto Scientifico di Pavia, Servizio di Neurofisiopatologia e Laboratorio di Biopsia Cutanea Neurodiagnostica
Fondazione Salvatore Maugeri, Istituto Scientifico di Pavia, Unità Operativa di Medicina del Dolore
Dolore fisiologico e patologico
Il dolore fisiologico è una risposta adattativa dell’organismo
e permette all’individuo di evitare lesioni che possano risultare nocive(1). La dimostrazione di tale effetto protettivo è
dato dai pazienti affetti da insensibilità congenita al dolore.
Essi sono incapaci di difendersi dagli stimoli nocivi e riportano lesioni tissutali per traumi o stimolazioni eccessive di
cui non si rendono conto(2). Il dolore fisiologico è protettivo
perché viene avvertito solo per stimolazioni di intensità
elevate, quelle che effettivamente sono in grado di ledere
i tessuti. Al contrario, il dolore patologico si caratterizza
per un abbassamento della soglia del dolore, dovuto allo
sviluppo di fenomeni di ipersensibilità(3).
Il correlato clinico di tale abbassamento della soglia del
dolore è rappresentato dal segno clinico chiamato allodinia,
definita come un dolore evocato da stimoli che normalmente non evocano dolore(4).
La natura degli stimoli in grado di indurre l’allodinia può
essere molto diversa. Stimoli meccanici, termici e chimici
sono tutti in grado di evocare l’allodinia.
Sommazione temporale e spaziale
I meccanismi attraverso i quali uno stimolo non doloroso
può diventare doloroso non sono tutt’oggi ancora completamente chiariti. L’ipotesi più comunemente considerata è
che l’abbassamento della soglia del dolore sia legato ad un
abbassamento della soglia di attivazione dei recettori periferici per cui, in condizioni di ipereccitabilità, uno stesso
stimolo evoca più potenziali d’azione nella fibra nervosa
ad esso connessa(5).
Ne risulta un’aumentata sommazione temporale degli
impulsi che viene letta, a livello del sistema nervoso centrale, come se i recettori fossero stati attivati da stimoli di
elevata intensità, cosa che si verifica effettivamente nel
dolore fisiologico. Come è ben noto dalla fisiologia di base
per tutte le sensazioni, oltre alla sommazione temporale va
sempre presa in considerazione anche la sommazione spaziale. Questa è rappresentata dall’effetto originante dall’attivazione, più o meno contemporanea, di più fibre nervose
con la stessa funzione.
Appare importante sottolineare come la sommazione spaziale possa aumentare la sensazione percepita anche se la
soglia di attivazione delle singole fibre coinvolte non viene
significativamente abbassata. È quello che, per esempio,
si verifica quando si sfiora la cute sana con un oggetto fatto
dello stesso materiale (ad esempio cotone), ma con dimensione differente: se si utilizza un oggetto di dimensione
ampia (ad esempio un fazzoletto) la sensazione sarà più
netta e definita rispetto a quella evocata dallo sfioramento
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con un oggetto di dimensione molto piccola (ad esempio
un filo dello stesso cotone). Che la sommazione spaziale
possa giocare un ruolo nella patogenesi del dolore sembra
evidenziarsi anche dalla recente letteratura(6, 7).
I recettori del dolore sono generalmente considerati come
se fossero entità anatomicamente stabili. Alcuni studi di
fisiopatologia del dolore tendono però a dimostrare il contrario. È noto, per esempio, come lo sviluppo di fenomeni
di ipersensibilità possa rendere sensibili ad uno stimolo nocicettori che prima erano insensibili allo stesso stimolo, oppure
attivare terminazioni “silenti” degli stessi nocicettori(8).
Molto meno noto è il possibile ruolo giocato da un aumento
numerico di terminazioni nervose presenti nei tessuti, in
seguito a fenomeni di abnorme reinnervazione. Tale fenomeno è infatti scarsamente descritto in letteratura.
Ipernervazione tissutale
L’iperinnervazione è considerata un possibile meccanismo
alla base del dolore(9, 10). Un aumento dell’innervazione è
stata descritta in molte condizioni di dolore cronico: nel
retinacolo laterale di pazienti con dolore al ginocchio
dovuto ad un alterato allineamento patello-femorale(11, 12),
nell’appendice infiammata di pazienti con appendicite in
fase non acuta(13), nel disco leso di pazienti con dolore lombare(14) e nel vestibolo vulvare di pazienti con dolore vulvare cronico(15).
Nella nostra esperienza circa il 10% dei pazienti con aree
circoscritte e monolaterali di allodinia meccanica dinamica
mostra, alla biopsia cutanea neurodiagnostica, una iperinnervazione dell’epidermide rispetto alla regione cutanea
controlaterale sana (Buonocore, dati non pubblicati). Tale
iperinnervazione appare prevalentemente legata ad una
gemmazione di fibre (sprouting) verosimilmente legata a
tentativi di reinnervazione (vedi Figura in pag. 4).
Abbiamo osservato tali fenomeni in diverse condizioni cliniche dolorose croniche quali la nevralgia post-herpetica,
gli esiti cronici di lesioni cutanee da ustione, i monconi
delle dita dolorosi.
Poichè le fibre presenti nell’epidermide sono fibre A-delta
e C afferenti(16, 17), l’iperinnervazione a livello epidermico
può essere associata ad un potenziale aumento del livello
di attivazione nocicettiva delle corna posteriori del midollo
spinale, con conseguente riduzione della soglia del dolore
(allodinia).
Questa ipotesi concorda con un recente studio che mostra
un’aumentata sommazione spaziale, per stimoli meccanici,
in pazienti con fibromialgia, patologia classicamente caratterizzata da una diffusa allodinia meccanica(7).
Un aumento dell’innervazione è stato anche descritto nel
corso di malattie infiammatorie della cute. In generale
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100 uV
A
B
Nella figura viene illustrato il fenomeno della gemmazione di fibre (sprouting) nella cute glabra (palmo della mano) di una paziente
con dolore neuropatico post-chirurgico, localizzato nel territorio del nervo mediano destro. Si noti l’elevata densità di fibre nervose
presenti nell’epidermide sovrastante una papilla dermica (A) confrontata con una condizione di normalità (B) nella quale solo una o
due fibre attraversano la giunzione dermo-epidermica.
un’infiammazione acuta diminuisce l’innervazione cutanea,
mentre un’infiammazione cronica ne aumenta l’innervazione(18).
In particolare, un’iperinnervazione è stata riscontrata in
malattie infiammatorie croniche della cute quali il prurigo
nodularis(19), la psoriasi(20) e la dermatite atopica(21).
Appare importante ricordare come il fenomeno dell’iperinnervazione sia la norma in conseguenza di lesioni nervose periferiche con danno assonale. In tali condizioni si
osserva infatti sempre uno “sprouting” di fibre nervose
periferiche con conseguente aumento delle terminazioni
che, come è ben noto dalla letteratura, diventano ipersensibili agli stimoli meccanici, termici e chimici(22).
In generale, quando però le fibre nervose rigeneranti raggiungono il target tissutale della re-innervazione, il numero
di fibre nervose “eccedenti” diminuisce per assestarsi alla
fine su valori simili a quelli presenti prima del danno.
Probabilmente, però, non sempre ciò si verifica. Uno dei
meccanismi possibili in grado di giustificare la persistenza
di una aumentata innervazione è rappresentato dal mante-
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nimento di elevati livelli di Nerve Growth Factor (NGF),
un importante fattore trofico per le fibre nervose soprattutto
amieliniche che, tra le altre cose, induce una ramificazione
delle fibre nervose.
Di particolare importanza per la patogenesi del dolore
appare l’evidenza scientifica di un abbassamento della
soglia del dolore che si accompagna alla liberazione di
NGF. Studi effettuati sull’uomo hanno evidenziato come
l’iniezione di NGF in un tessuto sia in grado di indurre, a
distanza di poche ore, una condizione di allodinia. Per
esempio, l’iniezione di NGF nel muscolo massetere induce
la comparsa di allodinia meccanica profonda(23).
Anche l’iniezione sottocutanea di NGF si accompagna ad
un abbassamento della soglia del dolore(24).
Conclusioni
Le modificazioni anatomiche delle terminazioni recettoriali
presenti nei tessuti, almeno in alcuni casi, possono contribuire alla genesi e persistenza del sintomo dolore, indipen-
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dentemente dai meccanismi di abbassamento della soglia
di attivazione periferica. Ciò vale particolarmente per quelle
condizioni in cui si verificano fenomeni di “sprouting” che
portano ad un aumento della densità di innervazione.
Ulteriori studi sono auspicabili in questo campo, anche allo
scopo di verificare fino in fondo il ruolo giocato dalla sommazione spaziale nella patogenesi del dolore cronico.
Bibliografia
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L’ESPERTO RISPONDE
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Ruolo del collagene e dell’argento colloidale
nel trattamento delle lesioni cutanee
Cosa pensa dell’effetto del collagene e dell’argento
combinati sul fondo dell’ulcera e sul peri lesionale?
P
er il suo ruolo centrale nei processi di riparazione tissutale, il collagene è impiegato in diverse formulazioni per
poter accelerare la guarigione, valorizzando così alcune delle proprietà più importanti quali la capacità di stimolare
i processi di neoangiogenesi, di granulazione, di epitelizzazione. L’argento, riconosciuto già da moltissimi anni
come un efficace agente antimicrobico, rispetto ad altri metalli pesanti è probabilmente il più idoneo nell’impiego
clinico, in quanto abbina ad un’elevata attività antimicrobica, una bassissima tossicità per l’uomo. Il collagene e
l’argento rappresentano un trattamento completo, ma è di fondamentale importanza distinguere la loro applicazione
sia nella lesione acuta che nella lesione cronica. Nella lesione acuta il collagene va a stimolare direttamente la migrazione
dei fibroblasti e, nel contempo, l’attività metabolica del tessuto di granulazione, attivando rapidamente la fase di epitelizzazione; se il collagene viene applicato subito, oltre ad un’azione emostatica, accelera rapidamente il processo
riparativo. Contemporaneamente l’argento controlla l’infiammazione, scongiurando così l’aumento delle MMP ed
evitando la cronicizzazione. Nella lesione cronica il collagene consente di ribilanciare e modulare la condizione patologica della lesione. Indipendentemente dalla patologia associata, la persistenza della fase infiammatoria è causa di
essudazione e di aumento notevole del livello di proteasi. L’argento inattiva in maniera irreversibile le proteasi in
eccesso, riducendo la sintomatologia dolorosa e proteggendo allo stesso tempo il lavoro del collagene.
Altro aspetto importante da non sottovalutare è la risposta del paziente: il fatto di vedere la lesione migliorare rapidamente
è un elemento molto rassicurante, soprattutto per quei pazienti che si automedicano, e riuscire a controllare e ridurre
il dolore con una semplice medicazione può cambiare radicalmente la sua qualità di vita.
ORNELLA FORMA
Servizio di Vulnologia,
RCCS Ospedale San Raffaele, Milano
Qual è il ruolo del collagene e dell’argento colloidale nelle ustioni post radioterapia?
L
e reazioni della cute alle radiazioni sono un effetto collaterale noto della radioterapia, con reazioni di desquamazione umide non solo dolorose, ma che possono anche sviluppare infezioni locali; trovare una medicazione
che sia protettiva, comoda ed atraumatica per la cute irradiata rappresenta una sfida. Recentemente sono stati
utilizzati polimeri biocompatibili e biodegradabili capaci di assorbire l’essudato delle ferite, rigonfiandosi fino a
formare un gel coesivo e soffice capace di trattenere i fluidi nella medicazione, impedendo la disidratazione della
ferita. Uno di questi è il collagene, componente fisiologico della cute. La preparazione di microsfere, ottenute mediante
nebulizzazione di una soluzione polimerica di collagene e argento, potrebbe rappresentare una valida alternativa alle
medicazioni in uso. Infatti l’argento veicolato nelle medicazioni viene rilasciato lentamente nella forma ionizzata
(Ag+), la quale presenta un forte effetto antimicrobico, e riduce l’attività delle metalloproteasi di matrice (MMP)
coinvolte nei processi riparativi; mentre il collagene aumenta l’adesività delle microsfere verso gli strati di mucopolisaccaridi, aumentando il contatto delle particelle alla superficie cellulare del tessuto leso. Le caratteristiche di adesività
e di resistenza meccanica del collagene e dell’argento potrebbero essere sfruttate per conferire alla medicazione cutanea
un buon potere filmante nel trattamento delle ulcere, ustioni e ferite acute e croniche. Questo tipo di medicazione
potrebbe essere impiegata anche per il trattamento delle lesioni cutanee radioindotte o come cura preventiva all’area
sottoposta a radioterapia. Questa medicazione, oltre ad assorbire l’essudato mantenendo asciutta la cute, previene la
contaminazione da parte di microrganismi come lo Pseudomonas aeruginosa e lo Staphylococcus aureus.
MARIO MARAZZI
S.S. Terapia Tissutale,
AO Niguarda Ca’ Granda, Milano
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in medicina
Quando va utilizzata l’associazione collagene ed argento colloidale
in caso di lesioni contaminate?
L
a formulazione in veicolo spray di collagene equino ed argento catadinico trova impiego nelle lesioni croniche
con effetto sinergico quando l’essudato è particolarmente rilevante. L’essudato abbondante rappresenta uno dei
segni clinici di carica batterica accentuata nelle lesioni vascolari croniche ed è qui che, applicando lo spray di
collagene ed argento come interfaccia tra il fondo di lesione e la medicazione assorbente, il caregiver può essere in
grado di ritardare il cambio di medicazione, mantenendo in sede più a lungo il sistema di bendaggio adottato.
La frequenza di applicazione può arrivare ai tre giorni e la rimozione della medicazione avviene con minimo disagio
per il paziente. Lo spray deve essere applicato con un velo uniforme di colore bianco compatto sul letto di lesione, al
fine di veicolare la quantità necessaria di principio attivo.
Il collagene equino svolge una funzione di supporto per la matrice extracellulare, migliorando la migrazione e l’adesività
cellulare. Lo spray può inoltre avere un effetto emostatico favorevole in particolari condizioni con lesioni croniche
con accentuato sanguinamento, in relazione ad un livello di colonizzazione critica.
MARCO ROMANELLI
Sezione di Riparazione Tessutale Cutanea,
Clinica Dermatologica, Università di Pisa
L’associazione collagene ed argento colloidale può essere una funzione suggerita
nelle lesioni da pressione fino al 2° stadio e in quelle post traumatiche non profonde?
L
e lesioni da decubito, o meglio dette da pressione, sono una conseguenza diretta di un’elevata e/o prolungata
compressione o di forze da taglio, si riscontrano normalmente in corrispondenza di salienze ossee e vengono
catalogate per stadi, in relazione al grado del danno tissutale osservato.
Sono un fenomeno reale, a volte sottostimato e presente a tutti i livelli di erogazione assistenziale (ospedali, assistenza
domiciliare, territorio).
Sul piano della prevenzione è possibile fare molto, intervenendo su quelli che sono i fattori di rischio e sulle modalità
di cura, per esempio attraverso la formulazione e l’utilizzo di protocolli di prevenzione e di assistenza ben codificati,
integrati con l’utilizzo di mezzi tecnologici (materassi e letti antidecubito).
Sul piano del trattamento diretto locale è altrettanto utile l’utilizzo di materiali avanzati di medicazione, che abbiano
magari sinergicamente, come nel caso del collagene e dell’argento, la funzione di controllare sia la naturale tendenza
alla riparazione, tipica delle lesioni nei primi stadi, che il normale processo di contaminazione delle ferite.
Per lo stesso motivo questa medicazione si è rivelata piuttosto efficace in quelle lesioni post traumatiche recenti e non
profonde oltre il derma, in cui però i fenomeni di riparazione abbiano necessitato di un apporto esterno di costituenti
dermici (collagene) e di controllo della carica batterica (argento).
ALESSANDRO SCALISE
Centro Ferite Difficili, Clinica di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva,
Università Politecnica delle Marche, Ancona
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