problemi d’oggi
COS’E’
DI SINISTRA?
Un sindacato invecchiato, pesante, con un tasso di sindacalizzazione degli attivi
sempre decrescente, ma soprattutto tuttora incapace, per mancanza di coraggio,
di disegnare il sindacato del futuro, adatto ai grandi cambiamenti intervenuti nel
mondo del lavoro e nella società. Il rischio che la leadership del partito democratico
non sia che la somma, blindata, delle due nomenclature. Intervista a Roberto Fasoli.
Roberto Fasoli, già segretario generale della Cgil
di Verona, è consigliere comunale a Verona per il
gruppo dell’Ulivo.
Partiamo dal sindacato, anche se non ci sei più,
per poi arrivare al partito democratico…
Non faccio più parte del sindacato ma, ovviamente, sono ancora iscritto, ci mancherebbe altro. Mi
sono iscritto nel 1976 e dal dicembre ’85 a gennaio
2006 sono stato nella Segreteria della Cgil di Verona. Negli ultimi otto anni, ho fatto il segretario
generale. Sono uscito per completamento dei
mandati a gennaio e la Cgil ha eletto -con voto segreto, com’è obbligatorio- una segretaria donna,
l’unica nel Veneto e una segreteria con il 40% di
donne, come da regolamento. Non avviene quasi
da nessuna parte e questa è la cosa di cui sono più
soddisfatto. Lo dico perché, secondo me, se è importante il giudizio che si dà sul lavoro che uno ha
fatto, lo è altrettanto anche quello su come uno lascia l’organizzazione. Io ho lasciato un’organizzazione in piedi, con gli iscritti cresciuti, i dati sono lì, e con un gruppo dirigente che non ha perso
un giorno a litigare sulla leadership.
Per venire al cuore della domanda. Nell’ultimo anno e mezzo in particolare, ma dovrei dire in tutti
gli ultimi anni, ho spinto perché il sindacato fosse
protagonista di un processo di ripensamento, di
rinnovamento di se stesso e il Veneto aveva, da
questo punto di vista, costruito una bella cosa che
si chiamava “conferenza di progetto” con un bel titolo, “Il sindacato e la grande trasformazione”.
L’idea era che il sindacato del XXI secolo non potesse avere gli stessi impianti culturali, gli stessi
modelli organizzativi di quello della seconda
grande industrializzazione. L’economia e la società della conoscenza, il post-fordismo, il superamento dei bisogni primari per grandi fette di popolazione, la trasformazione dell’economia, la
nuova gerarchia anche delle priorità per le persone, richiedevano un sindacato che appunto sapesse fare con grande intelligenza un’opera di ripensamento e di riorganizzazione. Cosa che, devo dire, a tutt’oggi non è riuscito a fare. Continua ad annunciarla, ma non sarà certo la conferenza di organizzazione a portarla a termine perché questa, a
rigore, dovrebbe seguire il cambiamento di posizionamento politico-culturale e di modelli organizzativi. Non è certamente inserendo due donne
e due giovani in più che si riesce a ricalibrare la
propria capacità di interpretare i bisogni del XXI
secolo. Il sindacato fa tre mestieri sostanzialmente: la contrattazione, e già su questo ci sarebbe
molto da dire, la tutela dei diritti e la promozione
anche del desiderio e dell’aspettativa delle persone con le strutture di servizio, un lavoro prezioso
ma a tutt’oggi considerato di rango inferiore, poi
la rappresentanza generale degli interessi, che è il
tema generale di cui si occupa la confederazione,
quindi pensioni, scuola, sanità, ecc. Ebbene, noi
soffriamo su tutti e tre i fronti.
Ma ci tengo a puntualizzare una cosa: non è che io
sia genericamente critico, sono critico in modo
preciso e sono, soprattutto, molto preoccupato.
Non ho l’atteggiamento tipico di chi, quando se
n’è andato, comincia a criticare il sindacato come
se fosse cosa altra da sé, io continuo a voler bene
al sindacato, e parlo di sindacato, non della Cgil,
perché mi sono sempre sentito un rappresentante
del sindacato, quindi Cgil-Cisl-Uil, ovviamente
più della Cgil perché è lì che ho partecipato, ma
mai con un’azione ostile nei confronti degli altri.
Le cose che dirò -ci tengo a dirlo- le ho dette e scritte quando ero segretario generale…
Hai fatto cenno al ricambio generazionale...
Sulle questioni del ricambio generazionale, più
che altro esponiamo dei desideri, ma la struttura
del sindacato è pesante e fortemente invecchiata
nel gruppo dirigente. Chiamiamo giovani persone
che hanno 40 anni. Quando entrai nel sindacato e
divenni segretario di categoria avevo 27 anni,
quando entrai nella segreteria confederale ne avevo 33. Oggi, a 33 anni, uno fa i corsi per delegati.
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Quindi c’è un problema serissimo, anche nel sindacato, di leadership generazionale.
Dicevi che il sindacato sta eludendo tutte le
grandi questioni sul tappeto...
Tutte. La riforma della contrattazione, la riforma
delle pensioni, i ricambi generazionali, il sistema
del welfare, gli investimenti in formazione, il tema dei giovani, le questioni del territorio. Sono
state tutte rinviate e non c’è niente di peggio in politica che rinviare i problemi perché ti ritornano
addosso con violenza. Mi sarebbe piaciuto, per
esempio, che il Congresso, invece che rinviarli, i
problemi li avesse affrontati, ma era evidente che
facendolo in campagna elettorale si finiva per fare un congresso in cui si sosteneva la vittoria di
Prodi contro Berlusconi.
Ti faccio l’esempio del pubblico impiego: non affrontare il tema dell’efficienza della pubblica amministrazione significa che noi a sinistra non avremo mai la garanzia di non essere scavalcati, perché se tu tieni una linea, come il sindacato ha sempre tenuto, con una certa razionalità, uno spazio a
sinistra ti si apre comunque, di quelli che chiedono tutto e il contrario di tutto senza alcuna contropartita, e quindi anche la linea “nessun nemico a
sinistra” non va, perché un pezzo ce l’hai sempre
contro, come stiamo verificando sulle pensioni. Il
dato drammatico è che rischiamo di deludere tutta una fascia di persone ragionevoli, dotate di spirito riformatore, con un buon profilo professionale, ecc., che ci chiederebbe dei gesti di coraggio.
Premiare la professionalità e anteporre, a volte, i
meriti e la responsabilità alla tutela dei diritti, nel
sindacato è considerato blasfemo. Ma la tutela dei
diritti, che è stato uno slogan efficacissino, rischia
di diventare un motto difensivo e sul quale, a volte, finiamo per impiccarci, perché la tutela dei diritti non può significare mai appiattimento. Se non
coniughiamo i diritti con merito e responsabilità,
tutte quelle persone che anche nella pubblica amministrazione, parlo della sanità, della scuola, ecc.,
ci mettono del loro e hanno retribuzioni risibilmente differenziate rispetto a quelle che tirano a
mezzogiorno o al fine settimana, fanno fatica a capire che noi siamo i sostenitori di una linea d’innovazione. Quindi anche nell’immaginario collettivo
finiamo per essere visti come una grande agenzia
di protezione dei diritti dei lavoratori, ma non di
cambiamento. E questo s’incrocia anche coi temi
della questione settentrionale della politica e del
voto. Interi settori di operai e pensionati, soprattutto quelli con bassi titoli di studio, nel voto allegramente tradiscono gli ideali della Cgil votando centro-destra e non ne fanno più nemmeno mistero.
se ho potuto fare quelle
scelte lì è perché sapevo che
comunque avevo un posto di
lavoro dove potevo ritornare
Mentre prima chi teneva la tessera della Cgil si
vergognava di votare la Lega o Forza Italia o An,
adesso non è più così. Te lo dicono tranquillamente: un conto è il sindacato e un conto è la politica.
Questa in sé sarebbe persino una banalità, però
non è che tu puoi pensare che il sindacato continui
a tutelarti se vincono le forze politiche che vorrebbero ammazzarlo, com’è successo nel caso del
governo di centro-destra.
Credo che a noi sfugga in modo drammatico la
percezione di com’è fatta la nostra gente, di che
cosa pensa veramente, di quali siano le gerarchie
delle persone iscritte al sindacato in termini di sistema di valori. Dopodiché noi continuiamo a illuderci che basti lo sciopero, la manifestazione…
Le adesioni come vanno?
Ci dicono qualcosa. Ti do un dato prendendo un
periodo ragionevolmente lungo: dal 1980 al 2000
il sindacato perde 2 milioni di attivi, e vengono sostituiti tutti da pensionati. Adesso ha ripreso a crescere un po’ tra gli attivi, di qualche decina di migliaia in più a livello nazionale. Ma stiamo parlan-
UNA CITTA’
do di numeri assoluti, in realtà c’è solo un rallentamento di un declino in termini di rappresentatività, perché gli occupati sono cresciuti molto di
più, quindi il tasso di sindacalizzazione è continuato a calare. Se tu ragioni solo in termini di
iscritti hai la percezione che il sindacato sia una
cosa formidabile: 11 milioni e mezzo di iscritti, 5
milioni e mezzo alla Cgil, 60.000 a Verona,
350.000 in Veneto… Una potenza! Ma togli i pensionati e i 350.000 già diventano 150.000. A fronte di quanti lavoratori attivi? Noi siamo poco più
del 10% degli attivi, e complessivamente Cgil,
Cisl e Uil arrivano a sfiorare solo il 30%. Allora,
questo è un problema. Si dice: ma in altre parti il
sindacato sta peggio. Ho capito, ma da altre parti
si sta meglio. E che politiche hanno fatto? Hanno
fatto le politiche di gestione di alcuni pezzi di welfare come nel famoso patto di Gand.
Puoi spiegare questa cosa?
Nei paesi nordici il sindacato gestisce alcune responsabilità che sarebbero del pubblico, ad esempio la disoccupazione. Questo, ovviamente, droga
l’iscrizione. E però quelli sono gli unici posti dove il sindacato tiene. Oppure, altro dato più vicino
ai nostri interessi, il problema degli enti cosiddetti bilaterali. Gli enti bilaterali sono quelli costituiti dal sindacato e dai datori di lavoro per gestire alcune problematiche.La Cgil ha fatto una guerra
mondiale per evitare che gli enti bilaterali avessero in gestione determinate politiche… Può darsi
che abbia avuto ragione, io allora ho anche condiviso la scelta, ma forse potremmo ridiscuterne. Per
esempio in edilizia gli enti bilaterali gestiscono
tutta una serie di pratiche dei lavoratori, che in altri settori vengono fatte dal pubblico. Non voglio
dire che hanno ragione tutti quelli che dicono che
il sindacato è antiquato, però quel che mi pare
drammatico è che non ci sia un luogo di discussione su questi temi.
Ma c’è il problema di una burocrazia sindacale poco incline alla battaglia delle idee?
Beh, io comunque vieterei di assumere le persone.
Penso che se ho potuto fare quelle scelte lì è perché sapevo che comunque avevo un posto di lavoro dove potevo ritornare.
Tu ora torni a fare l’insegnante?
Sì, e ovviamente so bene che tornare a scuola è un
conto, tornare in fabbrica dopo che sei fuori da
vent’anni non è propriamente la stessa cosa. Comunque sapere che puoi tornare al lavoro di prima
ti dà una libertà che non hai se fai di mestiere il sindacalista. E’ come fare di mestiere il consigliere
comunale. E’ sbagliato. Se tu eleggi negli organi
dirigenti qualcuno che è già dipendente della Cgil
non è che poi, se non lo eleggi più, non fa più il sindacalista, lo tengono lì, da qualche altra parte, perché altrimenti bisognerebbe licenziarlo. Questa
sembra una banalità, ma io trovo che per molti ragazzi -ma vale anche per la politica- avvicinarsi è
quasi un modo per risolvere dei problemi di lavoro. Certo, nel sindacato è molto più difficile che in
politica perché la remunerazione che dà il sindacato è molto modesta. Infatti c’è anche il problema contrario: persone di valore che sul mercato
del lavoro possono avere retribuzioni medio-alte
nel sindacato ci rimetterebbero solo. Però chi viene da fasce basse del mercato, dalla militanza sindacale può ricavare alcune libertà e agi e, soprattutto, un reddito che, diversamente, per esempio in
fabbrica, non avrebbe. Ma da tutte le fasce alte impiegatizie, non parliamo di quelle dirigenziali, un
quadro del sindacato se non esce col distacco,cioè
con la legge 300 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, è spacciato dal punto di vista economico.
Sono tanti gli assunti rispetto ai distaccati?
Non sono tantissimi perché le agibilità sindacali
funzionano, ma se su queste intervenisse il governo, e quello di centro-destra lo aveva minacciato,
sarebbe un massacro. Le agibilità sindacali consentono al sindacato di avere dei bei vantaggi,
compresa la contribuzione figurativa, che vuole
dire che se tu hai un mandato sindacale i contributi vengono coperti forfettariamente, quindi tu non
li paghi, ma ti vengono riconosciuti, ovvero se ne
fa carico il pubblico, lo stato. Se ai sindacalisti tu
dovessi pagare anche i contributi o ne mandi a casa una parte o dovresti aumentare in modo considerevole gli iscritti.
Intendiamoci: chi critica questo avendo i benefici
come partito politico o come organo di stampa, fa
morire dal ridere, perché i partiti vengono strafinanziati, gli organi di stampa legati alla politica
pure. Rispetto a quelli i benefici che ha il sindacato sono modestissimi. I rimborsi elettorali sono
uno scandalo come spiega anche il libro di Stella.
Però questo lo dicevo per far capire che il sindacato non attraversa una fase tranquilla e quello che fa
impressione è che molti sembrano non accorgersene oppure, semplicemente, rimandano. Ma il
tempo, a mio avviso, sta scadendo.
Torniamo al mancato rinnovamento. Secondo
te il sindacato rischia di non interpretare pezzi
interi di società...
Faccio un esempio: abbiamo costituito una categoria che si chiama Nidil, Nuova identità di lavoro, per i cosiddetti parasubordinati. Intuizione positiva, c’ero anch’io, tra i tanti, a Milano in sala
parto, ma quanti iscritti credi che abbia il Nidil? A
Verona ne ha qualche centinaio. Ma in Italia sono
milioni i lavoratori para-subordinati, temporanei,
precari, interinali. Allora, l’intuizione è giusta, ma
se tu non strutturi anche le politiche diversamente
rischi di essere un soggetto interessante solo da un
punto di vista dei servizi: uno viene lì quando ha
bisogno di un aiuto per un contratto, quando viene
licenziato, quando ha il sospetto che lo imbroglino, ma non sei un veicolo di organizzazione di
questi soggetti, che hanno poi la particolarità di essere, tranne che nei call center, quasi sempre in pochi, sparpagliati nei posti di lavoro, poco considerati anche dagli attivi tradizionali… Adesso le cose stanno un po’ cambiando, ma questi per molto
tempo sono stati visti o come turabuchi da usare negli interstizi in cui nessuno voleva prestarsi, sabati,
domeniche, notti, orari disagiati, oppure come traditori perché magari non scioperavano o se ne sta-
vano isolati, oppure si rapportavano direttamente ai
capi o alla direzione. Ma cosa deve fare un ragazzo
o una ragazza che entra in fabbrica in quelle condizioni lì? Se poi nessuno gli spiega, lo accoglie, lo fa
sentire a casa sua e poi, in termini di politiche, non
si fa nulla che lui percepisca come utile?
Ripeto, chiacchiere ne ho sentite tante, ma poi di
politiche e di scelte… Per esempio, il Veneto aveva fatto uno sforzo, è agli atti un lavoro di analisi
e di discussione durato quasi due anni con Carrieri, con Anastasia e con altri che ci hanno aiutato.
Certo, non era né completo né dava tutte le risposte, ma affrontava i problemi sul tappeto, per
esempio la contrattazione territoriale. Non mi è
parso che alla Segreteria nazionale sia fregato
molto di tutto questo lavoro. Quando la Cgil ha dovuto rinnovare il gruppo dirigente del Veneto, con
un’assoluta noncuranza prima ha proposto un candidato riformista, com’era Agostino Megale, che
poteva stare in linea con questa discussione, poi,
non essendo passato Megale per una serie di nefandezze, con la stessa noncuranza ha proposto
Paolo Patta (poi è diventato sottosegretario) che
scadeva come segretario nazionale della Cgil, ma
che, essendo della minoranza della Cgil, aveva posizioni esattamente opposte alle nostre.
perché non affrontiamo
il problema di organizzare
quelli che lavorano da soli,
senza dipendenti?
Siccome in un posto bisognava dare qualcosa anche alla minoranza, cosa importava a loro se il Veneto aveva un progetto e forse era buona cosa mandare qualcuno che fosse coerente con quel progetto? Ecco, queste sono le cose per le quali io poi ho
lasciato. Potevo restare, se solo mi avessero detto:
“Tu vai avanti con quel lavoro lì in un organo di direzione della Cgil in Veneto”. Pur avendo tutte le
mie perplessità francamente sarebbe stato più difficile per me dire di no, visto che non sono andato
via sputando sulla Cgil. La Cgil è la mia scuola, ho
imparato quasi tutto da lì, però avrei voluto continuare quel lavoro.
Adesso che vedo il sindacato da fuori mi accorgo
con grande preoccupazione che le cose sono peggio
di come me le immaginavo “stando in corsia”. Perché mi pare che il sindacato non si accorga che la sua
discussione rischia di non interessare a nessuno. Io
me la ricordo la polemica tra D’Alema e Cofferati
qualche congresso fa. Allora ci fu un’insurrezione
della Cgil nei confronti di D’Alema quando osò criticare il sindacato per conservatorismo, adesso si rischia che socialmente ci sia un’insurrezione a sostegno di D’Alema per le cose che ha detto a Epifani alla Festa sul lavoro a Serravalle.
Questo, poi, è un altro tema interessante, il rapporto fra il sindacato e il Partito democratico…
Già, e nessuno ne parla. Quando ho chiesto di discutere di questo mi hanno guardato come se fossi matto… C’è un problema di riferimenti politici.
Il sindacato non può fare anche il lavoro dei partiti, lo abbiamo fatto per troppo tempo in supplenza
a una politica che andava a ramengo, ma noi siamo un’altra cosa, dobbiamo dialogare con la politica che ha un compito diverso dal sindacato. E con
quale politica dialoghiamo? C’è il rischio concreto, lo capisce anche un bambino, che la Cgil, per la
storia e le collocazioni che ha, rischi di diventare
interlocutore più della sinistra radicale che del
Partito democratico. Quindi puoi avere una spaccatura frontale con Cisl e Uil, che dialogano maggiormente con questa nuova espressione che tutti
ci auguriamo nasca bene, innovatrice, e sappiamo
che non è così semplice. Ma la Cgil? Che cosa fa,
resisterà? I temi del lavoro dentro il Partito democratico non potranno essere declinati solo con la
logica della tutela dei diritti, ma anche dei meriti e
delle responsabilità, è scritto così nel manifesto.
Anche qui non vedo nessuna discussione in piedi.
Quindi i temi sono molto intrecciati. Il sindacato e
la politica, il sindacato e il territorio, il sindacato e
il Nord…
Ecco, la cosiddetta questione settentrionale…
Stiamo in una delle due regioni in Italia a maggioranza Cisl. Il divario fra Cisl e Cgil è aumentato
negli ultimi anni nonostante tutte le manifestazioni, l’ira di dio che abbiamo fatto. Allora questo
pezzo di mondo del lavoro per quali ragioni si associa a un sindacato? E perché non ci ha premiato? La Cisl è cresciuta in modo enorme nei pensionati, superandoci, mentre prima era sotto, e negli attivi percentualmente ha perso più di noi, anche se rimane il primo sindacato in termini di cifra
assoluta, ma ha avuto una flessione più alta della
nostra. Ma questo ci può consolare? Il divario si è
allargato: perché non discutiamo di questo? Ma
ancor più perché non ci interroghiamo sul fatto che
nel Veneto produttivo, regione ricchissima in Italia e in Europa, e nella Lombardia, altro punto di
crisi, il sindacato fa fatica a rappresentare i lavoratori dipendenti? Poi -blasfemo- perché non affrontiamo il problema di organizzare quelli che lavorano da soli senza dipendenti, perché dobbiamo
lasciarli agli artigiani, cos’hanno di diverso? E
non è che il problema della piccola e media impresa il sindacato non se lo sia mai posto, purtroppo non ha mai fatto nulla. Di fronte al calo della
grande impresa, dove tu facevi gli iscritti col cappello, dovremo pur far qualcosa. Ma questo lo sa
anche Epifani, che lo ha ripetuto nel libro sui cent’anni della Cgil, ma tra esserne consapevoli e fare delle politiche passa il fatto che bisogna spostare i pesi. Dal nazionale al regionale innnanzitutto.
Qui c’entra anche il federalismo? Da un punto
di vista sindacale come stanno le cose?
Il sindacato, in termini di federalismo, è una tragedia. Tu hai un’organizzazione piramidale gerarchica antica, dove il direttivo nazionale discute le
stesse cose che poi vengono discusse al direttivo
regionale, ai direttivi di categoria, ai direttivi delle camere del lavoro, ai direttivi delle categorie
delle camere del lavoro… Se uno sta in tutti quei
posti lì -scusate- si fracassa i coglioni e poi non
avrà discusso mai di cose del Veneto. Certo, bisogna discutere anche della linea nazionale, ma la
Cgil di Verona dovrebbe occuparsi innanzitutto e
soprattutto della città di Verona, della provincia di
Verona, dovrebbe discutere prevalentemente di
quei temi lì perché è il sindacato di quella roba lì…
Perché fa così fatica il sindacato a muoversi?
Ci vorrebbe coraggio e la Cgil in certi momenti l’ha
avuto. Nella mia relazione al congresso di Verona
riporto una citazione bellissima, commovente,
quella che Trentin fa rispetto a Di Vittorio. La leggo: “Resto sempre segnato e lo sarò fino alla fine
della mia vita dalla straordinaria lezione che Di
Vittorio diede a tutti noi, in splendido isolamento,
in un comitato direttivo della Cgil che si sentì offeso dalla sua autocritica.
la lezione di Di Vittorio
quando il comitato direttivo
della Cgil si sentì offeso
dalla sua autocritica...
Voleva capire se per caso nella sconfitta della Fiom
alla Fiat -ricordo che allora la Fiom passò dal 65 al
36%, la Fim dal 25 al 41, la Uilm dal 10 al 23, imperversava la repressione padronale, i licenziamenti, i reparti confino- non c’era forse una responsabilità della Cgil”. E prosegue Bruno Trentin non senza una punta di amarezza: “Questa è un’altra cultura, un altro modo che un grande dirigente sindacale
che veniva dalle lotte bracciantili ha insegnato a
molto di noi”. Cioè Di Vittorio prese e sbattacchiò
il direttivo dicendogli: “Va beh, che c’erano i reparti confino lo sapevamo, che la Fiat reprimeva i nostri lo sapevamo, e perché non siamo stati capaci di
tener conto di questo e abbiamo subìto al punto che
ci hanno dimezzati?”. Grande lezione di un sindacalista che capiva che bisognava cambiare.
Ma se tu leggi il libretto di Foa ed Epifani,100 anni
di Cgil, ti accorgi che le parti innovative sono tutte
in bocca a Vittorio Foa. I punti di criticità li propone,
con molta leggerezza e con una sua arguzia e curiosità, Vittorio Foa. Ma lui, si dirà, lo può fare perché
è un libero battitore, ma non è solo un libero battitore, è uno che nella vita, e come lui tanti altri dirigenMestre
UNA CITTA’
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ti sindacali, ha fatto delle cose forti.
Bruno Trentin firmò l’accordo del 1992 e poi si dimise da segretario della Cgil perché non aveva il
mandato per firmarlo. Dico, per fortuna che firmò,
ha salvato probabilmente l’Italia da una crisi economica spaventosa. Ma se fosse andato a domandare al direttivo della Cgil, non avrebbe firmato.
Puoi raccontare?
Era l’accordo del 31 luglio del 1992, il primo grande patto di concertazione, poi ripetuto con quello
che si ricorda sempre, del 3 luglio del ’93. Quello
del ’92, Trentin lo firmò nella notte e poi, subito, si
dimise da segretario dicendo che non poteva infrangere il mandato, ma che aveva dovuto firmare
perché, in tutta onestà, riteneva che fosse giusto farlo. A settembre ci fu un direttivo con lui seduto in
platea, in prima fila, come sempre con quella faccia
impenetrabile che scrutava tutto e tutti, e, alla fine,
il direttivo gli chiese di ritornare a fare il segretario
generale. Ecco, la Cgil oggi avrebbe bisogno di persone con il coraggio di fare grandi scelte.
In buona sostanza, l’ultima strategia che noi abbiamo è quella dei diritti, ma oggi credo che per
primo Trentin, anche per le cose che ha scritto dopo essere uscito dalla Segreteria generale della
Cgil, ci direbbe che la strategia dei diritti, giustissima nel legare il lavoro all’idea di cittadinanza,
oggi rischia di essere immobilizzante, perché è
una condizione necessaria ma non sufficiente per
interpretare i cambiamenti.
Ecco, i cambiamenti…
In fondo noi subiamo le conseguenze del nostro
successo. Siamo riusciti a riscattare, per buona
parte, le condizioni del lavoro dipendente, dei
pensionati, da una situazione di assenza di diritti e
di privazioni. Quanta gente non aveva la casa o
non aveva le condizioni minime per avere una vita dignitosa? Non sono così giovane da essermi dimenticato che nelle nostre terre c’era il cosiddetto
cesso nel cortile, col buco per terra e i giornali attaccati al chiodo. Nell’arco di 45 anni c’è gente
che ha più telefoni delle orecchie, più auto che mani per guidarle. Questo benessere introduce anche
nei comportamenti un’altra gerarchia di valori, di
desideri, di aspettative, che non sono più quelle di
una volta. Ma tu ne tieni conto o no? E so che c’è
una fascia di persone che vive in una condizione di
povertà, ma da noi il grosso della popolazione ha
migliorato sensibilmente le proprie condizioni di
vita e ora ha paura di perdere molti dei benefici che
sono stati conquistati con tanti sacrifici da parte di
queste generazioni. E ora, anche per le difficoltà
sopraggiunte, la globalizzazione, eccetera, ha paura di tornare indietro. Non è legittimo pensare di
mantenere questa condizione? E il sindacato e la sinistra cos’hanno da dir loro? La destra sappiamo
cosa dice: mani libere così che tutti si potranno arricchire. E danno anche da intendere che quella
condizione sia stata raggiunta a prescindere dalla
politica, quasi grazie all’assenza della politica. Il
che non è vero, perché la Dc sia in Lombardia che
in Veneto ha saputo anche pilotarli i processi. Si
può discuterne la qualità, ma non è che sia mancata la politica. Ma adesso, che ci sarebbe bisogno di
più politica perché le cose sono diventate più complesse? Niente, questo bisogno di politica non trova risposta nelle proposte che facciamo noi.
Tranne in alcune realtà come Venezia o in certe
aree della bassa Polesine, del Rovigino, la sinistra
arranca in Veneto. Come si spiega che a Verona il
governo di centro-sinistra uscente supera di poco
il 30% e un sindaco leghista, giovanotto di belle
speranze, supera il 60%? Sì, certo, c’è la responsabilità del governo, ma quella c’è anche da altre
parti; qua evidentemente ci abbiamo messo del
nostro nel non capire il tipo di domanda che veniva dalla nostra terra. Qua abbiamo avuto gente di
sinistra che ha votato per la Lega. E’ acclarato
dall’analisi dei flussi di voto. Se avessimo perso
perché il governo era moderato ci sarebbe stato
un successo delle liste di sinistra e di Rifondazione. Nel Consiglio comunale di Verona, Rifondazione dopo molti anni non ha il quorum per entrare, dopo 22 anni non c’è un consigliere verde
in Consiglio. Le risposte semplificate conducono a disastri.
Noi abbiamo operai, lavoratori dipendenti e pensionati che sottoscrivono la petizione dei commercianti contro gli studi di settore. Ora, per carità, può essere che il governo abbia sbagliato a interpretare, non lo abbia fatto correttamente, può
darsi che dovesse discuterne con le associazioni,
concedo tutto, ma il senso di appartenenza a una
condizione dovrebbe guidare lavoratori dipendenti e pensionati a domandarsi come può essere
possibile che il reddito dichiarato da un imprenditore che fa la raccolta delle firme contro gli studi
di settore sia uguale all’ammontare delle tasse pagate da un lavoratore dipendente come me. Ci sarà qualcosa che non va. Gli studi di settore possono non andare bene, ma è assolutamente evidente
che il margine di evasione che può fare un lavora-
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tore dipendente o un pensionato è ridicolo. Può essere che non dichiari il secondo lavoro, che non
metta tutti i beni che ha, le case le deve mettere, ma
è infinitamente impari la condizione. E allora perché alcuni lavoratori si sentono di solidarizzare
con certi personaggi, pur sapendo -dico la cosa più
banale- che quando accompagnano i bambini all’asilo nido o gli anziani alla casa di cura o al centro di assistenza loro saranno nella fascia più alta,
mentre il lavoratore autonomo risulterà o esente o
nella fascia più bassa?
se uno fa osservare a un
immigrato che il biglietto sul
bus si paga è razzista o è un
bravo cittadino?
Da noi i nidi o le case di riposo si pagano in base
alle fasce di reddito. Poi, casomai ti incazzi con
l’immigrato che è un lavoratore, come te e dici:
prima noi, poi lui. Come lo spieghiamo tutto ciò?
Beh, e come si spiega?
Certamente un sacco di argomenti li regaliamo alla destra. Il tema della legalità, per esempio. E bisogna essere dei matti perché questo finto buonismo conduce a dei disastri. Se uno viene qua irregolare ha ragione Zanonato, il sindaco di Padova,
a dire che siccome un irregolare non può lavorare,
può solo lavorare in nero, allora o lavora in nero e
già è nell’illegalità o fa altre cose peggiori del lavoro nero che gli diano reddito. Quindi lì non ci sono storie: i clandestini o li regolarizzi tutti o li
espelli. Se li regolarizzi tutti diventi l’unico paese
al mondo che non ha alcun filtro sugli ingressi; se
li espelli devi sapere come fare, perché è tutt’altro
che facile, ma devi decidere di fare una politica vera di allontanamento. Questo è di destra o di sinistra? Un mio amico diceva: “Se uno fa osservare a
un immigrato che il biglietto sul bus si paga è razzista o è un bravo cittadino?”. Credo che noi abbiamo commesso degli errori spaventosi. Intendiamoci, per fortuna che c’è stato il sindacato per
gli immigrati, altrimenti sarebbe stato un massacro. Gli imprenditori chiamano queste persone poi
se ne strafregano del loro destino come cittadini,
gli chiedono quasi di scomparire una volta finito il
lavoro. Però a questi bisogna dire che se si viene
qua ci sono delle regole che vanno rispettate. Basterebbe l’esempio drammatico dell’infibulazione. Non c’è un problema di cultura, in questo paese è vietata, non si può fare, punto. La poligamia è
vietata. Se uno viene qua deve stare alle regole che
ci sono qua. E’di destra o di sinistra dire queste cose? Secondo me è di sinistra, perché vuol dire che
tu proponi all’immigrato un percorso di integrazione, che non vuol dire assimilazione. Io non posso sindacare se tu non bevi il vino o non mangi la
carne di maiale perché la tua religione te lo impedisce, ma non è che tu puoi guidare andando a sinistra perché sei abituato, vieni da un paese in cui
la circolazione della strada dice che si può girare a
sinistra come in Inghilterra. Il rispetto delle stesse
regole del gioco deve valere per tutti.
Queste cose perché le regaliamo alla destra?
Ormai va per la maggiore l’idea che la sinistra
è conservatrice e la destra per l’innovazione...
Pare una maledizione. In questo scorcio di secolo,
improvvisamente, per una specie di capriola della
storia, la sinistra viene considerata conservatrice
e la destra innovatrice. Che non è vero perché la
destra ha dato al governo pessime prove di sé, di
centralizzazione statuale, di liberismo ottuso, senza regole, di polarizzazione della ricchezza. Quindi non è affatto innovatrice. Ma allora perché nell’immaginario collettivo, anche della povera gente, si ha questa percezione?
Vogliamo discutere o diamo la colpa al destino cinico e baro o alla perversione dei giornalisti? Io
credo, ad esempio, che da parte della sinistra ci
vorrebbe una maggiore attenzione alla persona.
Forse la sinistra è stata per troppo tempo ancorata
all’idea della classe, delle masse, del popolo, dell’azione collettiva. Oggi le persone si muovono
più come singoli che come soggetti collettivi.
Faccio un esempio: se uno, com’è successo recentemente a un ragazzo che lavora alla Cgil, va a prenotare un elettrocardiogramma, perché si è sentito male in strada, e lo mandano alla primavera
prossima, ci si incazza come bufali. E si dovrebbero incazzare tutti, destra, sinistra, il mondo. Come mai una struttura pubblica ti manda a 8 mesi le
visite? Perché funziona solo al mattino? Perché le
macchine degli ospedali o le scuole non devono
funzionare anche per la collettività per l’intero arco dell’anno tutta la giornata?
Se tu parli con un lavoratore autonomo serio, che
vuole rispettare le sue regole, ti dimostra che lui
perde metà del suo tempo per seguire le cose burocratiche. Non sono balle, io ci parlo con alcuni,
c’è da diventare matti per smaltire i rifiuti, o per
compilare tutte le carte necessarie. Forse non si
UNA CITTA’
può fare diversamente, ma perché non può essere
la sinistra che prende su di sé tutta la partita della
semplificazione della pubblica amministrazione e
della maggiore efficienza del servizio pubblico?
Perché deve essere di destra differenziare le retribuzioni nel sistema pubblico o nella scuola? Non
saranno mica tutti uguali gli insegnanti? C’è gente che fa progetti, lavora coi bambini al pomeriggio, a casa si fa in quattro… “Ah, ma poi sarebbe
il preside a decidere…”. “Bene, togliamo di mezzo il preside, istituiamo un organo terzo che sia capace di fare la valutazione”. Ogni 5 anni si fa la revisione della patente, magari è una puttanata,
guardano se sei cieco o no, ti ordinano gli occhiali o ti dicono che puoi girare. E perché uno che insegna o che fa il medico o l’infermiere non dovrebbe avere periodicamente una prova di verifica seria e rigorosa? E magari, legata a questa, anche un riconoscimento incentivante. E’ proprio di
destra una roba così? Non lo so. Penso che molti
dei nostri che lavorano con grande impegno e con
grande serietà si infuriano a vedere che hanno le
stesse retribuzioni di gente che si gratta o, in qualche modo, rispetta il mansionario.
Io credo che abbiamo etichettato come di destra
posizioni corrette, di buon senso, ma a forza di dire che sono di destra la gente la convinci: “Ah, va
ben, voto la destra. Se tu dici che sono di destra io
voto la destra”. Poi gli altri ci montano sopra e le
condiscono anche con l’ideologia: ti tieni le tue
tasse, i neri a casa, gli zingari fuori dai coglioni,
prima i veronesi o i veneti nei posti pubblici, niente puttane per le strade, non si possono mangiare i
panini… Non è che si dice di non buttare le carte
per terra, dicono che non si possono mangiare i panini seduti sui monumenti.
Voglio dire, è come se avessimo lasciato senza risposte tutta una serie di domande alle quali l’individualismo di destra dà la sua, che diventa l’unica,
anche per persone che di destra non sono. Non è
che la gente è diventata di destra. Qualcuno lo è
sempre stato, ma tanti glieli stiamo regalando.
Bersani è l’unico per ora che ho sentito dare
una motivazione del perché sceglie la parola
“democratico”, che oggi il cittadino viene prima dell’essere lavoratore. Il lavoro resta importantissimo, ma va dentro la cittadinanza…
Quello che dice Bersani non solo è giusto, ma è poi
l’impostazione che ha l’Europa. Quando Alain
Supiot scrive il rapporto sul lavoro commissionato dall’Europa, pubblicato in Italia da Carocci,
parla di diritti del lavoro come diritti di cittadinanza. Allora anche qua, torniamo al discorso di
prima. Sinistra e sindacato debbono affrontare il
tema in termini diversi perché alcuni diritti del lavoro vanno estesi non solo a tutti i lavoratori, quindi anche agli autonomi, con una grande riunificazione del tema del lavoro, ma anche ai cittadini in
quanto lavoratori potenziali o non più lavoratori o
non ancora lavoratori. I temi della salute, i temi
della previdenza, i temi della formazione… Io, per
esempio, ho avuto difficoltà nel sindacato a spiegare che la cosiddetta centralità del lavoro andava
ripensata e reinterpretata. E non nel senso che il lavoro sia diventato marginale nella vita delle persone. Intanto va tenuto sempre presente che ci sono dei lavori dove ti realizzi e altri che non vedi
l’ora di andartene a casa, di smettere e di andare in
pensione. Quindi il lavoro è prima di tutto condizione di libertà delle persone in quanto possibilità
di autosufficienza economica.
come mai una struttura
pubblica ti manda a 8 mesi
le visite? Perché funziona
solo al mattino?
Questo è importante da tenere presente per capire
anche i giovani di oggi. Tu vai a parlare con questi ragazzi nelle fabbriche, li vedi magari tutti con
la divisa da lavoro, poi quando escono ti accorgi
che se non si occupano di sindacato sono impegnati nel volontariato, fanno sport, musica, viaggiano, hanno diecimila interessi che costituiscono
la loro vera identità, e il lavoro lo considerano una
pratica più o meno strumentale che gli serve a raggiungere un reddito. Detto questo, che per me è
importante da tenere presente, si tratta certo di rendere il lavoro anche un elemento di significato nella vita delle persone. E’ più facile per alcuni lavori e più difficile per altri, ma torniamo al discorso
che facevamo all’inizio. Bisogna premiare la professionalità, dare un senso alla partecipazione.
Che cosa vuol dire, per esempio, la responsabilità
in azienda? Che cosa vuol dire assumere parte del
rischio di impresa? Non sto parlando di azionariato popolare, sul quale è perfino banale capire come, se vuole, il datore di lavoro può imbrogliarti,
e così se tu leghi i risultati al bilancio. Le pratiche
per occultare risorse anche legalmente o per spalmarle in modo tale da rendere i dividendi quasi ne-
gativi sono note. Sto parlando, per esempio, di
considerare, cosa che negli anni Settanta sembrò
blasfema, il salario una variabile dipendente. Su
questo allora Lama uscì su Repubblica e lasciò
esterrefatta tutta la sinistra. D’altra parte una variabile indipendente il salario non lo era mai stato,
anche quando noi lo teorizzavamo. Se tu andavi a
fare una rivendicazione salariale e l’azienda ti presentava il piano di esubero o la chiusura, la piattaforma per l’aumento dei soldi veniva buttata nel
cesso in due secondi e si discuteva della salvezza
del posto di lavoro. Faccio un altro esempio: tu
vuoi che un collaboratore abbia a cuore il suo lavoro? Ma allora bisogna che lo senta una cosa che
dipende anche da lui. Bisogna che l’impresa gli
dia, per esempio, una forma di riconoscimento
della professionalità, bisogna che anche la formazione diventi remunerativa. In cambio però io, impresa (mettiamo sia una realtà seria che investe su
te, ti manda a scuola, ecc.) devo avere una qualche
garanzia che tu, se trovi un altro che ti dà due soldi in più per la formazione che hai, non te ne vada
dopo due mesi… Di fronte a un rischio simile infatti l’impresa finisce per essere incentivata ad
avere sempre carne fresca man mano che serve,
per poi buttarla via, pratica autolesionista per
l’impresa stessa. A quel lavoratore lì puoi chiedergli di essere compartecipe alle sorti dell’impresa se lui per primo sa che starà lì per il tempo
strettamente necessario a svolgere una funzione?
In realtà nessuna impresa può diventare di qualità continuando a usare i lavoratori man mano che
servono. Alcuni imprenditori si rendono conto
che il contratto cosiddetto di fidelizzazione è per
loro vantaggioso: io ti do determinate cose, ma tu
ti impegni a non andartene per un tot di anni.
Nello stesso tempo bisognerebbe decidere che il
lavoro para-subordinato costa il doppio del lavoro normale: tu hai il disagio di essere para-subordinato, di essere a termine? Invece di costarmi 50
mi costi 100. Allora sì, che l’impresa potrebbe
avere incentivo a formarsele queste capacità, ma
se sul mercato le trova a minor prezzo, e può poi
espellerle quando vuole, siamo a un’aporia: si
chiede il senso di attaccamento all’impresa e si
trasmette invece il senso della precarietà.
Quindi anche per me la cittadinanza è il termine
semanticamente più pregnante, perché della cittadinanza attiva e consapevole fa parte l’essere lavoratore attivo e consapevole e professionalmente riconosciuto e retribuito adeguatamente.
Questa cosa dei diritti…
Nella Cgil c’è sempre stata una confusione enorme fra diritti e tutele. Si dice che i diritti non sono
negoziabili. Ma quali sono i diritti? L’articolo 18,
per dirti, è un diritto o una tutela? Il non essere licenziato senza giusta causa è un diritto, ma il reintegro è una tutela. E le tutele sono tutte negoziabili. Perché se fosse un diritto indisponibile, e su
questo la Cgil ci ha un po’ marciato, allora avrebbe ragione Bertinotti a volerlo estendere anche alle piccole imprese, cosa che la Cgil non ha mai detto. Dopodiché, se è un diritto indisponibile, in Italia vai pure al referendum, puoi anche dire che in
tutta Europa, dove le forme di tutela sono diverse,
sono tutti a-democratici. Questa cosa che scrive
Ichino l’altro giorno sulla prima pagina del Corriere della Sera… Io in quegli anni lì continuavo
a spiegare alla Cgil che la lotta contro l’articolo 18
non si faceva perché era un diritto di democrazia,
ma perché accettare l’attacco della Confindustria
significava incentivare un modello di sviluppo
che privilegiava i costi sulla qualità e quindi l’idea
sbagliata che bisognasse abbassare le tutele per
rendere l’impresa più libera. Capisco che era più
difficile spiegarlo così ed era più efficace dal punto di vista mediatico dire che è un diritto inalienabile… Aris Accornero scrisse un libro L’ultimo tabù, dove il primo capitolo era legato al licenziamento. Però, anche lì, sono libri che hanno fatto
poca fortuna alla Cgil. Accornero già nel ’92, ne
La parabola del sindacato, scrisse parole preveggenti su quello che poteva diventare il sindacato se
non faceva una serie di scelte. Si può dire che Accornero sia contro la Cgil? Non scherziamo.
Quindi è questa cultura che, secondo me, manca.
Io mi aspetto che il Pd faccia questo, che porti innovazione nella politica e anche nel rapporto con
le grandi organizzazioni di massa, in questo caso il
sindacato, altrimenti non serve a niente.
D’altra parte, come ho già detto, credo che il sindacato non discuta di Partito democratico, perché
facendolo non potrebbe non pensare anche ad alcune scelte che lui fa. Gli esempi sono tanti. Prendiamo il collocamento… E’successo un disastro da
quando hanno passato il collocamento da numerico
a nominativo? Quando si è fatta questa discussione
qua sembrava che crollasse il mondo se tu sostenevi che non si faceva più il collocamento numerico
con la graduatoria.
Invece?
Nulla, non è successo nulla. La gente andava a la-
vorare senza passare attraverso il collocamento,
che alla fine mediava il rapporto domanda-offerta
per una percentuale talmente piccola di lavoratori
da essere insignificante. Si è fatta una gran battaglia su tutta questa roba qua col risultato di abbandonare alle Province i servizi per l’impiego. Ma
all’estero, dove non ci sono le graduatorie, c’è un
servizio pubblico che media l’incontro domandaofferta perché conosce le esigenze delle imprese,
conosce le esigenze del mercato, fa dialoghi veri,
interviste vere con i lavoratori…
Fanno un’opera da facilitatori?
Sì. Io l’ho visto a Stoccolma, lì le imprese ci vanno veramente dal sistema pubblico, ma il sistema
pubblico non è come qua, inaccessibile, è un luogo dove tu vai, hai i computer dove digiti le offerte di lavoro e le risposte arrivano sul serio. Qui gli
imprenditori non ci credono al sistema pubblico e
si rivolgono a società private o al passaparola. Ma
se ci fosse un luogo pubblico d’intermediazione
della domanda-offerta, l’imprenditore potrebbe
scegliersi i lavoratori, ma anche tu potresti sceglierti i datori di lavoro, magari assistito da qualcuno che sa fare questo mestiere e capisce le caratteristiche che hai e ti dice dove andare a cercare. Perché una società non la può fare una cosa del
genere? E’così diseconomico? Anzi, sarebbe molto più vantaggioso che lasciare le persone in balia
di se stesse a girovagare come dei cretini o a farsi
raccomandare da tizio o da caio. In fondo da noi
questo lo fanno le agenzie di lavoro interinale e anche qua sono tutti tabù…
Il prolungamento del periodo di prova. Lavoce.info (www.lavoce.info) propone di allungare il periodo di prova, e nel periodo di prova lasciare libera l’impresa di licenziare, sospendere, cioè,
l’art. 18. E’una bestialità? Ma quando uno fa 3 anni di missione di lavoro interinale avanti indietro
da un’azienda, oppure fa 3 anni di lavoro a tempo
determinato che cos’è quella roba lì? Lì non ci sono quei diritti: finita la missione, finito il lavoro a
tempo determinato, a casa e basta… E se dopo un
mese rivoglio quel lavoratore, lo chiedo all’agenzia di lavoro interinale e me lo mandano e così
posso andare avanti per 10 anni in teoria, o per tutta la vita. Allora? Non è meglio quel che propone
Tito Boeri? Facciamo un accordo per cui per un
primo periodo tu puoi farla questa cosa, dopodiché basta. Questo ridurrebbe o aumenterebbe le
precarietà? Forse aumenterebbe il potere di ricatto verso i lavoratori nei primi anni, ma se poi tu
questa roba la estendi anche a tutte le piccole fabbriche... Capisci?
Insomma, mi piacerebbe che si discutesse fuori
dalla gabbia delle ideologie. Certo, dopo qual è il
problema? L’obiezione me la faccio da solo: con
questo tipo di imprese tu ce l’hai un interlocutore?
No, perché gli imprenditori che avevano preso un
punto di diminuzione fiscale da Berlusconi gli
hanno fatto infinite peana, ne hanno presi cinque
da questo governo e gli hanno tirato addosso secchiate di merda. Allora si fa fatica a discutere.
quali sono le tasse che puoi
pagare? Quelle lì? Bene,
però se poi non mi paghi
neanche quelle, ti chiudo.
Bisognerebbe ricostruire un patto diverso anche
con gli imprenditori su questo tema, ed è la stessa
ragione per cui bisognerebbe costruire un patto fiscale, un patto previdenziale. Incominciamo a
rendere vantaggioso lasciare i soldi in impresa invece che nel risparmio finanziario. Finché uno se
i soldi li mette in titoli, ha il 12,5% di trattenute,
mentre se li lascia in impresa che produce reddito
ha tasse al 40%, che cosa è probabile che faccia?
Allora facciamo un’altra cosa: quali sono le tasse
che puoi pagare? Quelle lì? Benissimo, però se poi
non mi paghi neanche quelle, ti chiudo.
Tu mi dici che il lavoratore lo devi poter prendere
e poi mollare, facciamo una discussione vera su
cosa vuol dire prendere o mollare. Se a te interessa solo prendere e mollare perché non vuoi avere
oneri, allora questo non te lo do…
Per le pensioni?
Che cos’è di destra e cos’è di sinistra sarebbe un
bel gioco da fare che aiuterebbe la politica. E’ più
di sinistra tutelare i lavoratori che sono andati a lavorare a 14-15 anni o i più giovani? Uno ti direbbe: tutte e due le cose. Grazie. Io dico questo: intanto un accordo sensato di prolungamento graduale dell’età pensionabile l’avevamo già sottoscritto nel ’95. Perché noi poi siamo maestri nel
trovare le scuse, tipo “sì, ma non dipendeva solo
da…”. Avevamo detto che per i coefficenti, che sono le rendite delle pensioni, uno degli aspetti da tener conto era l’andamento demografico? Bene,
nell’arco di 10 anni l’andamento demografico ti dice che tendenzialmente la vita si allunga. Allora tu
dici che, intanto, questo è un dato di verità, secon-
do che è un successo perché vuol dire che le persone stanno meglio, dopodiché puoi proporre di toccare i coefficenti, per esempio, graduando la modifica a partire da una fascia di reddito che non tocchi. Questo diventerebbe già più comprensibile alla gente. E stiamo attenti, perché non aver fatto
quel pezzo di riforma indebolisce anche la credibilità dello stato, che poi chiede di prolungare. Dammi quelle cose lì, separami la previdenza dall’assistenza, mostrami sul serio la contabilità com’è…
Queste sono le cose che un partito nuovo, non un
nuovo partito, e un sindacato dovrebbero fare.
Dico un’altra eresia, che in realtà è una banalità:
con la nascita del partito democratico si riapre o no
la discussione sull’unità sindacale?
a qualcuno hai aggiunto una
quota per la mancia ai nipoti
e a qualcun altro hai dato
un bicchiere di acqua fresca
Che senso ha andare in Europa in tre senza che
nessuno riesca a spiegarne il motivo? Lasciamo
stare i non sindacati tipo la Francia, ma di fronte
alle trade-union inglesi e al sindacato tedesco che,
nonostante le difficoltà che anche loro attraversano, sono i modelli per tanti aspetti più solidi, noi
avremo tre centrali sindacali. Perché? Da che cosa sono divise? Da poche cose, i termini dell’unità sono molto maggiori dei temi della divisione.
Conviene aprirla o no questa discussione?
No, e la Cisl penserà di guadagnare ritagliandosi
un ruolo da interlocutrice con i governi, più attenta al merito, schiacciando la Cgil sull’estrema, così la Cgil, come dicevo, rischia di diventare il sindacato “che resiste”...
Ma ha senso dialogare con il sistema politico con
queste tre centrali sindacali che sono ancora frutto di una divisione che risale alla fine degli anni
Quaranta-inizio anni Cinquanta? Ho dei fortissimi dubbi. Secondo te la gente si iscrive al sindacato perché sa la differenza tra Cgil, Cisl e Uil? Io
scommetto che quasi tutti lo sanno dopo perché si
sono iscritti a quel sindacato lì e non a un altro. Ce
lo dicono i lavoratori nel modo più chiaro che il
veicolo dell’iscrizione è la persona che te la chiede o la sua credibilità o il fatto che è presente in
fabbrica. Saranno il 5% quelli che sanno perché la
Cgil e non la Cisl…
Anche il tema dei servizi è interessante. E’ considerata l’attività meno nobile del sindacato…
Anche su questo noi abbiamo dato scandalo. Chi
dice che il direttore dell’Inca, il patronato, è meno
importante del segretario dei metalmeccanici o
del segretario della camera del lavoro? Sappiamo
quanta gente va lì solo per i servizi? E c’è una gerarchia tra il rinnovo del contratto e la tutela previdenziale o l’assistenza nel caso che tu abbia problemi col fisco? Per me può essere ugualmente
importante del tuo cavolo di contratto che, magari, mi costa 20 ore di sciopero per avere 50 euro
scaglionati in 3 anni. C’è una gerarchia? Una delle cose che non è piaciuta a molti è che noi abbiamo detto che non c’è una gerarchia tra la contrattazione, la tutela individuale e la rappresentanza degli interessi. Sono tre funzioni che, a pari titolo di
dignità, costituiscono l’essenza del fare il sindacato. Quindi i servizi di tutela individuale, i cosiddetti
“servizi” (che a me fa pensare all’espressione “tre
camere più servizi”, sembrano accessori) sono parimenti significativi della tutela collettiva. Chi è
che mi spiega perché no? So anch’io che un sindacato che non contratta non esiste, ma siete proprio
sicuri che non esista? Negli anni in cui noi abbiamo fatto pochi contratti, abbiamo fatto fatica, il
sindacato è stato tenuto insieme anche dalle attività dei servizi che abbiamo fatto e molta parte degli
iscritti arriva dai servizi, dalla gente che viene lì per
farsi la pensione, per farsi il 730, per farsi la pratica e poi, magari, si trova bene e si iscrive anche.
Ti faccio un altro esempio: la contrattazione individuale. Anche qua discutiamo. Se uno dice: mi
accordo col padrone per i fatti miei, questa non è
contrattazione individuale, o meglio, è contrattazione individuale e quindi fai fatica a dare una prospettiva sindacale a quel tipo lì. Intanto questo tradisce già il fatto che tu non sei rappresentativo di
quel lavoratore, ma possiamo decidere di essere
del tutto contrari alle contrattazioni individuali?
Io dico: dipende. Allora, stabiliamo che il premio
del risultato è 200 euro al mese, tu sei un giovane
che deve farsi una famiglia e hai il mutuo da pagare, quindi dici: “Gli schei, li voglio tutti”. Se invece sei un lavoratore studente e devi completare
il corso di laurea e vieni da me sindacato: “Ascolta, a me dei 200 euro non me ne frega niente. Perché non posso avere, oltre alle ore che ho disponibili per fare gli esami -al posto dei soldi- delle ore
in più per studiare, senza diventare matto che la sera sono rincoglionito?”. Sarebbe una contrattazione che tiene conto dei diversi desideri delle perso-
ne e dà a me la rappresentatività di altri che se no
vanno a farsela direttamente col padrone questo tipo di trattativa. Quindi ci vuole anche elasticità,
capacità di distinguere.
Ti faccio un altro esempio: i pensionati. Altro tabù. Parlare male dei pensionati sembra come sparare sulla Croce rossa. Ma ci sono pensionati e
pensionati. “Ma cosa vuol dire, ci sono pensionati che prendono 400 euro al mese…”. Dipende, dipende. Se fossero da soli senza casa di proprietà
sarebbero in condizioni di povertà estrema, ma se
sono coniugati con un signore che ne prende altri
1.500 di reddito e abitano in una casa di proprietà,
hanno un pezzo di orto, due conigli e tre galline,
come i miei suoceri, con i 400 euro di una pensione danno la mancia ai figli e ai nipoti. Allora, bisognerebbe stabilire il quoziente familiare. “No!!!
perché questo viola la libertà della persona!”. Ma
come? Le condizioni materiali, anche nelle erogazioni degli aumenti, devono essere tenute presenti. Se dai un aumento prescindendo dall’analisi
concreta delle condizioni in cui questi vivono, sei
sicuro di aver fatto un’operazione realmente
equa? A qualcuno hai aggiunto una quota per la
mancia ai nipoti e a qualcun altro hai dato un bicchiere di acqua fresca. Ti posso fare casi concreti.
C’è una signora che abita in questo palazzo che
prende il doppio di una pensione minima, ma vive
da sola in una casa in affitto. Questa gran miliardi
non li ha, uno che prende metà pensione e, ripeto,
vive in una casa di proprietà e ha, finché ce l’ha, il
coniuge e domani ha la reversibilità di questo, non
sarà mica nelle stesse condizioni? Allora?
Le gabbie salariali. Foa, in quel libro che citavo
prima, dice di provare un po’ a ripensare sta cosa
del Nord e del Sud, le regioni, il costo della vita.
Dice che è giusto aver tolto le gabbie salariali allora, ma siamo proprio sicuri che lo sia ancora? In
buona sostanza: se tu vai in taxi qua a Verona costa 10 euro andare in stazione, a Roma con 10 euro ti portano in giro per tutta la città, e dico Roma.
E’ vero, ma poi -si dice- va guardato tutto l’insieme, a Roma costa di più l’università… Sì, ma siamo sicuri che sia vero e che la gente lo percepisca
così? Perché noi spesso decidiamo che una cosa
non è un problema vero, ma non è che così abbiamo tolto alle persone la percezione che sia un problema vero. Intanto tu cominci a dire: discutiamo
di questo problema. Invece la prima cosa che dici
è: no, di questo non si discute perché è di destra…
Altro argomento: la contrattazione aziendale si fa
solo qui da noi, invece al Sud, o da molte parti, non
la fanno. Ho capito, ma in quanti posti la fai la contrattazione? E nel sistema pubblico la contrattazione la fai tanto al Nord quanto al Sud perché non
c’è il problema del padrone grosso o piccolo. Su
questi argomenti fai una fatica tremenda a discutere.
Parliamo un po’della nascita del partito democratico. E’ parecchio tormentata...
Io credo che la questione vera sulla quale ci misureremo e che rischierà di essere quella assolutamente più complicata è legata alla classe dirigente
che sapremo mettere in campo. Le leadership ai diversi livelli devono essere contendibili e oggi, per
come si sta strutturando il sistema delle regole, sono leadership non contendibili o, comunque, difficilissimamente contendibili soprattutto da persone
al di fuori dell’attuale nomenclatura dei partiti protagonisti di questo percorso.
Sul piano dei contenuti c’è una discussione in corso e non è che uno avrà la parola definitiva, sarà
poi la vita stessa del partito che la potrà giocare,
ma quando tu nasci creando una condizione di impermeabilità… Per dirti, i soggetti che la pensano
come me, che non sono iscritti ai partiti o che non
sono omologati possono essere cooptati, ma io
non voglio entrare in un partito come contorno o
come servizio. Vorrei sentirmi a casa mia, essere
coprotagonista, cofondatore... Questo non è solo
un problema mio, è il problema di tanti che fanno
volontariato, e non politica, perché oltre a trovarci un senso non hanno quei diecimila sbarramenti
e non sono disponibili a passare per forme di selezione che non hanno niente a che vedere con la
competenza, col merito e con le capacità, bensì solo con la fedeltà e il tempo da perdere. Allora: vuoi
fare un partito nuovo? Su queste cose non dico di
cambiare tutto, ma di dare un segno, di provare a
fare qualcosa di nuovo, questo sì. Temo, invece,
che si vada nella direzione opposta…
Si faccia la somma delle due nomenclature…
Se vuoi l’unica cosa che scombinerà saranno le
donne che devono scegliere, perché se accettano
questa idea, come pare, di mettere metà uomini e
metà donne, le donne diventano il sistema per lasciare a casa qualcuno dei gruppi dirigenti. Ma
non sono sicuro che di per sé questo possa bastare, perché se sono donne assegnate a questa o a
quella componente siamo solo parzialmente nella
novità. Cioè, è un insieme di fattori che debbono
cambiare, che possono essere il genere, le genera-
zioni, la terza G, cioè le genti, tema che non abbiamo affrontato. Anche qui, bisognerà pur parlare del ruolo anche di responsabilità che possono
avere gli immigrati nella politica e nel sindacato.
Quando hai 4 milioni di persone che vivono qua il
problema della loro rappresentanza prima o dopo
dovrai portelo… E dopo c’è proprio il problema di
rendere la politica friendly, cioè qualcosa… come
dire? E’ poco dire “col sorriso”, tu devi dimostrare che uno che ha voglia e che ha capacità può starci da subito, sentendosi a casa sua…
Sembra una perorazione personale, ma io non ho
da perorare niente. Personalmente mi reputo strasoddisfatto: ho fatto il segretario della Cgil per 20
anni, 8 anni il segretario generale, l’ho fatto senza
dover iscrivermi o essere stato iscritto al Partito
comunista di allora o al Partito socialista, quindi
ho affermato l’idea che si potesse farlo, sono andato via nel modo che ho voluto, sono stato in sindacato per il tempo che mi era stato concesso, mi
sono presentato alle elezioni del Consiglio comunale e ho ricevuto un consenso consistente, significativo nel momento in cui i numeri sono quelli
che dicevo prima, 1436 preferenze e il secondo
dell’Ulivo ne prende meno della metà. Non è un
problema personale. E’ che mi domando quante
altre persone si dovranno allontanare perché non
riescono a stare in questo tipo di competizione.
Nessuno mi ha chiesto di avere una responsabilità
per il gruppo dell’Ulivo, anzi, l’unica cosa di cui
erano assolutamente convinti Ds e Margherita insieme era che il capogruppo non lo potevo fare io.
Uno dice: “Ma scusa, a ridosso del Pd, perché?”…
Questo ti dice le difficoltà che ancora noi troveremo. Quindi la vera cifra dell’innovazione, anche
se può sembrare blasfemo per i vecchi ortodossi
della politica, non è il programma politico del Pd,
ma il suo comportamento politico e organizzativo.
non siamo in America
che eleggiamo presidente e
vice. Perché il vice e perché
della Margherita?
Dico due debolezze della candidatura di Veltroni:
non siamo in America dove si elegge il presidente
e il suo vice. Perché il vice e perché della Margherita? E perché non doveva essere possibile che alla fine del percorso, se si candida, per esempio,
Rosi Bindi, e prende il 40% il vice segretario non
lo potesse fare lei? Prima questione, che non è banale…
La gente dall’esterno l’avrà visto come un accordo “inter loro”, un segnale di “tutto deciso”…
Esattamente. La seconda questione: che senso ha
dire di essere d’accordo col referendum, ma di non
poter firmare per non creare problemi al governo?
Se sei d’accordo firmi. Perché se no domani ci
spiegherai che siccome la sinistra radicale ha potuto mettere in difficoltà il governo siamo di nuovo ai pasticci della politica. Ha ragione Bersani
quando dice che vorrebbe un partito di combattimento e non di parata. Lì c’è il grande effetto mediatico, televisione, Lingotto, il leggio trasparente…, tutto bello, hai dietro molte cose che sono
condivisibili, però il primo messaggio pratico è
stato ambiguo…
Voglio proprio vederli i 2.460 delegati quando sarà finita la corsa. Si vedrà come sono stati fatti. I
segretari regionali devono essere eletti il 14 di ottobre: secondo te, c’è qualcuno che può ambire alla carica di segretario regionale fuori dalle attuali
nomenclature di Margherita o Ds? Partendo l’11
luglio per presentarsi il 14 di ottobre con 1.500 firme? Ma ti dico un’altra cosa che uscirà da queste
regole: finiremo per votare con la legge elettorale
che noi vogliamo abolire col referendum, perché
siccome non ci sono le preferenze e il voto è proporzionale, la posizione in lista è decisiva per essere eletti. Noi abbiamo proposto, detto e scritto
che la posizione in lista deve essere decisa attraverso una costruzione democratica delle liste, se
serve con le primarie di collegio. Se a decidere
l’ordine della liste saranno i partiti a tavolino con
le associazioni siamo nelle stesse condizioni della legge elettorale che vogliamo abolire. Se togli
le preferenze, come ha fatto la Regione Toscana,
devi rendere obbligatorie le primarie. Questo dice
la democrazia, se no un cittadino si troverà in lista
qualche nome, più o meno conosciuto, che si è prestato a fare l’indipendente. Torniamo agli indipendenti non più del Pci, ma del Pd. In questo modo per cambiare una classe dirigente dovrai smaltirla per morte naturale…
In due parole cosa dev’essere per te la sinistra?
Penso a una sinistra, che, per dirla con il nostro
sempre amato vecchietto Foa, creda, a differenza
della destra, che la felicità tua non può essere un
fatto privato, non può essere disgiunta anche da
quelle degli altri… Tutto qui.
UNA CITTA’
5
buone pratiche di cittadinanza
LA TV DI STRADA
La storia di un’associazione, Anelli Mancanti, che vive quasi esclusivamente grazie
alla generosità dei volontari e degli immigrati che da ‘utenti’ si trasformano presto
in soggetti attivi, tenendo corsi e partecipando alle varie iniziative. L’esperienza della
telestreet e quella di un torneo di calcio multiculturale nato al parco delle Cascine,
con alcune squadre improvvisate... Intervista a Silvia, Marco, Giorgios, Costanza.
Anelli Mancanti (www.anellimancanti.it) è un’associazione di Firenze che offre vari servizi gratuiti a cittadini italiani e a migranti, svolti da operatori e mediatori culturali per promuovere la cultura multietnica. In particolare vengono svolte attività di accoglienza, orientamento al lavoro e assistenza legale. Silvia, Marco, Giorgios, Costanza sono volontari e si occupano delle varie attività dell’associazione.
La vostra associazione ha molte attività tutte
rivolte alle questioni dell’immigrazione. Come
volontari spesso vengono coinvolti gli stessi ragazzi immigrati, potete spiegarci la ragione di
questa affezione?
Silvia. E’vero, molti ragazzi immigrati, passata la
fase del bisogno, rimangono a fare qualcosa con
l’associazione -e anche i volontari si fermano a
lungo. Forse dipende dalla convivialità, che è una
peculiarità dell’associazione: oltre a lavorare assieme, facciamo cene, feste…
Credo che anche la scelta di responsabilizzare le
persone giochi un ruolo importante. Infatti a chi
viene da noi, alla seconda o terza volta, vengono
affidate delle cose da fare in modo che possa sentirsi riconosciuto, parte attiva del gruppo. Cerchiamo di non fare del mero assistenzialismo,
piuttosto offriamo la possibilità di conoscere altre persone, di scambiare esperienze, di fare amicizia.
E poi ci sono le varie attività pratiche: insegniamo
la fotografia, l’informatica, le altre lingue o come
fare un giornale. Generalmente non si pensa che
queste cose possano interessare o fare parte del bagaglio di conoscenze di un ragazzo immigrato, ma
è una visione miope: perché non dovrebbe aver
voglia di imparare le tecniche di ripresa e montaggio? Anche perché posso dire per esperienza
che questi ragazzi hanno molte più risorse di quanto in genere siamo indotti a credere.
Senza voler fare della retorica posso dire che per i
lo scorso anno era un mio
allievo al corso di italiano,
quest’anno io sono l’allieva
nel suo corso di spagnolo...
bisogni primari riescono a cavarsela molto bene,
meglio dei loro colleghi italiani. Le difficoltà riguardano l’inserimento e appunto la possibilità di
allargare i propri orizzonti conoscitivi. C’è una
grossa difficoltà a fare amicizia fuori dal proprio
gruppo, che in genere coincide con quello del paese di provenienza. Se ci pensi, ciascuno di noi ha
voglia di uscire con persone nuove, di imparare, di
fare foto, di scrivere. I loro desideri sono molto simili a quelli dei loro coetanei italiani. Hanno bisogno di sentirsi meno soli. Molti hanno voglia di
imparare e cercano le occasioni per uscire dal loro ambiente che finisce per offrire sempre le stesse cose. Forse in questo modo riescono ad acquistare anche una cittadinanza consapevole, o come
si dice oggi, attiva.
Tante associazioni si adoperano in attività di sostegno per i documenti, la consulenza legale o magari dando indicazioni su posti di lavoro e contratti: questi servizi non portano necessariamente
ad uno scambio con le persone, è il classico rapporto servizio-utente. Anche noi abbiamo lo sportello legale, ma i nostri sforzi si allargano anche
verso ambiti, diciamo, insoliti che però aiutano i
tentativi di integrazione. L’intuizione e la sfida per
l’associazione è quella di coinvolgere attivamente chi viene qui. E’così che finito il corso di lingua
molti decidono di rimanere per partecipare e organizzare altre attività.
Per dire, abbiamo iniziato facendo i corsi di lingua
italiana per stranieri e oggi ci sono anche corsi di
arabo, francese, spagnolo tenuti dalle stesse persone che frequentavano i corsi di italiano. Alcuni
ragazzi che venivano a fare il corso avanzato si sono infatti proposti di insegnare la loro lingua madre; conoscendo bene l’italiano avevano questo
vantaggio di poter insegnare a loro volta.
Costanza. Ad esempio, il corso di spagnolo è tenuto da un signore che in Cile era professore di
biologia e qui in Italia si mantiene, ormai da qualche anno, facendo le pulizie. Lo scorso anno era
un allievo del corso di italiano tenuto da me e quest’anno io sono l’allieva del suo corso di spagnolo. Un’altra ragazza del Togo, oltre a redigere il
giornale dell’associazione, insegna francese...
Silvia. E’ così: oggi, oltre agli stranieri, vengono
italiani che per pochi soldi possono imparare una
lingua; allo stesso modo alcuni ragazzi decidono
di imparare una terza lingua ancora: si aprono varie possibilità. Questo permette poi di fare amicizia perché si creano i legami classici di qualsiasi
corso, ma in un contesto diverso: difficilmente le
stesse persone in ambienti neutri riuscirebbero ad
allacciare nuove relazioni.
Anche le feste che vengono organizzate sono un
modo per trasmettere questa atmosfera di convivialità e accoglienza. E’ un clima che coinvolge
anche chi qui ci lavora. I volontari all’inizio vengono con l’idea di fare due ore alla settimana o di
concentrarsi in qualche attività, però poi ti accorgi che finiscono per organizzare delle cose magari non previste, oppure si trovano coinvolti nelle
attività più disparate, la “telestreet” o il torneo di
calcio.
Giorgios. Io vengo dalla Grecia e mentre frequentavo la scuola di italiano ho deciso di iscrivermi
anche al corso di fotografia, così da rendere più
sopportabile la mia permanenza in Italia, visto che
non conoscevo molte persone; ora sono qui da più
di un anno e faccio parte della redazione della tv di
Anelli Mancanti…
Come arrivano i ragazzi immigrati alla vostra
associazione?
Marco. I ragazzi della scuola di italiano arrivano
per passaparola; tra di loro si dicono: “Guarda che
c’è una scuola dove puoi imparare l’italiano a 5
euro”. Qualcun altro arriva grazie ad altre associazioni che conoscono la nostra attività; altri leggono di noi su Fuori Binario -il giornale di stradae vengono per chiedere assistenza legale riguardo
Almanacco
delle buone pratiche
di cittadinanza 2006
il mutualismo di ieri e di oggi - il dilemma: cittadini o
utenti? - le “dame” nelle corsie d’ospedale - il diritto
all’autobiografia - il malato cittadino - quella palestra
dove giovani delinquenti son diventati campioni... - il
circuito virtuoso del recupero delle rimanenze dei
grandi magazzini - parlare della malattia non guarisce
ma fa bene - quel paternalismo fatale dell’istituzione
verso le donne in difficoltà - la libertà che è nelle
relazioni, nel legame - aprire dei bar invece che dei
centri di salute mentale? - e poi le storie di ieri che
ancora, forse, ci possono insegnare qualcosa...
288 pagine di interviste e foto, edizioni Una Città
18 euro - 15 per gli abbonati
(spese di spedizione comprese).
Per richiederlo: 0543.21422
[email protected]
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UNA CITTA’
i documenti; o si rivolgono allo sportello di accoglienza che dà una serie di indicazioni pratiche riguardo le docce pubbliche, le mense sociali, dove
trovare dei vestiti o un alloggio temporaneo. A
volte diamo una mano per fare il curriculum, gli
indichiamo dove rivolgersi per un lavoro. Il contatto avviene in questi modi.
Costanza. Facciamo anche un piccolo giornale,
che facilmente arriva nelle mani dei conoscenti o
delle comunità di chi frequenta la scuola; inoltre
lo diffondiamo nel quartiere dove abbiamo la sede. Viene preparato dai volontari e dagli stessi migranti che si preoccupano di fare le traduzioni degli articoli più importanti, infatti pubblichiamo in
arabo, albanese, russo, francese, spagnolo. Non
tutti riescono a leggere bene l’italiano. C’è un laboratorio di giornalismo e chiunque può proporre
un’idea, un tema o una rubrica, poi ne discutiamo
tutti insieme per vedere se c’è la possibilità di pubblicarlo.
con la tv ci piacerebbe
far crescere un senso
di appartenenza e anche di
responsabilità tra gli abitanti
Prestiamo attenzione sia alle questioni locali che
a quelle cosiddette globali; trattiamo una serie di
questioni legate all’immigrazione e allo scambio
interculturale: una ragazza albanese cura una rubrica dove racconta le storie di personaggi della
cultura o dello spettacolo albanese, del tutto sconosciuti qui in Italia. Una ragazza peruviana, molto brava a disegnare, si occupa della parte grafica.
Abbiamo parlato della situazione dei somali che lo
scorso anno avevano occupato una casa. Usciamo
in maniera irregolare per via delle risorse limitate,
ma non pretendiamo di essere giornalisti.
Come siete organizzati per mandare avanti le
varie attività, come vi finanziate?
Marco. Sono le attività stesse che strutturano l’organizzazione, questa viene da sé: man mano che si
va avanti ti accorgi che da una situazione aperta
(anche se di veramente improvvisato non c’è niente) si arriva a una qualche forma, a una qualche
struttura. Nelle varie attività sono coinvolte circa
duecento persone e siamo una trentina di volontari. Non c’è una gerarchia precisa, le mansioni di
coordinamento e raccordo sono molto flessibili e
la gestione risulta molto più vivace; la riunione periodica dei responsabili delle varie attività assicura che la visione e i fini dell’associazione siano rispettati. Le persone che vengono qua ad imparare
l’italiano pagano 5 euro al mese che è un prezzo
simbolico, questo evidentemente non ci permette
neanche di coprire l’affitto della struttura. Se passa un progetto, con i pochi soldi che ci arrivano
possiamo permetterci l’acquisto di qualche attrezzatura, ad esempio una telecamera più funzionale,
un computer più potente, ma fondamentalmente
sono i volontari che ci danno una mano. Non è con
i progetti che sopravviviamo, anche perché, nelle
dinamiche dei poteri locali, non siamo appetibili.
Non “interessiamo”, non siamo granché spendibili in termini di rientro per i partiti, che so, di immagine, di interesse elettorale. Comunque ce la
facciamo.
Silvia. Quello che funziona con Anelli Mancanti è
che quando si individua l’idea si parte, facendo le
cose anche senza avere fondi. Le attività poi vengono portate avanti di anno in anno grazie all’impegno dei volontari che vengono qua e si spendono.
Marco. E’stato sempre così. In fondo la nostra storia inizia nel 1997, in un’altra struttura, un ex-cantiere dove erano presenti alcune baracche che sono state occupate e rimesse a posto da alcuni di noi
facendo poi una vertenza con il Comune per ottenere l’agibilità.
Tra le varie iniziative, fate anche la televisione
di strada, di che cosa si tratta?
Marco. Storicamente le street tv nascono a Bologna, il retroterra infatti è quello delle radio libere.
L’obiettivo all’epoca era quello di interrompere il
monopolio e quindi guadagnare spazi di libertà.
La nostra telestreet adesso ha circa due anni e mezzo e si pone gli stessi scopi. Noi siamo partiti sfruttando la trasmissione nei cosiddetti coni d’ombra.
In pratica nelle frequenze di proprietà esistono degli spazi che in determinate zone non sono utilizzati, per varie ragioni. Ad esempio noi trasmettiamo occupando le frequenze di una emittente di
Prato il cui segnale qui non arriva e perciò il suo
spazio di frequenza non viene coperto dalle sue
trasmissioni.
Ogni telestreet sceglie cosa programmare in base
alla storia e alle esigenze del territorio dove opera. Noi che ci occupiamo di immigrazione ci rivolgiamo prevalentemente agli immigrati che vivono in zona, ma non solo, infatti le persone che
frequentano la nostra telestreet sono molto eterogenee, c’è chi si occupa di video artistici e qualcun
altro che preferisce montare le partite del torneo di
calcio multietnico; c’è infine chi documenta invece i cambiamenti del quartiere…
Giorgios. In tutto siamo una decina, ma il numero
è variabile, succede che una persona va via per due
mesi poi ritorna e riprende il discorso che stava
portando avanti, in questo c’è una grande libertà
di azione che a noi va bene: rende molto fluida la
creazione e la produzione di idee. In genere non
c’è una “linea”, chi frequenta la redazione è parte
dell’associazione e quindi c’è una visione comune delle cose che nasce dalla condivisione delle
varie attività.
Il torneo di calcio è stato l’oggetto della prima trasmissione realizzata da Anelli Mancanti tv dopo il
corso di tecnica che avevamo organizzato.
Marco. La parte più difficile rimane la realizzazione e la redazione di quello che giriamo. E’
un’attività che comporta una certa costanza e molto tempo, infatti per passare dalla ripresa alla messa su dvd occorre parecchio lavoro e appunto una
certa regolarità, e nei gruppi di volontariato è molto difficile mantenere questa continuità nell’impegno.
All’interno della tv nessuno di noi copre una professionalità in modo specifico: il video-artista che
realizza il suo progetto è anche quello che poi
monta i filmati, chi come me organizza la programmazione magari va insieme ai ragazzi camerunensi a fare i documenti per il torneo, i ruoli sono assolutamente intercambiabili. L’idea della tv
di quartiere è iniziata con il corso di fotografia;
c’era la voglia da parte di alcuni di approfondire e
si è andati avanti imparando tecniche più sofisticate come l’uso dell’immagine, le tecniche di ripresa e montaggio, la post-produzione. Quello che
avevamo imparato lo abbiamo applicato alla prima occasione che è stata appunto la prima edizione del torneo di calcio.
All’epoca disponevamo di una tecnologia “rudimentale”, salivamo su un tetto per collegare l’antenna ad un trasmettitore con 0.5 watt di potenza,
arrivavamo ad una distanza di 400 metri, cioè quasi tutta la via dove ci troviamo.
La difficoltà di trasmettere con una frequenza settimanale ci ha fatto riflettere sul fatto che la televisione di “strada” ha una funzione di animazione
culturale piuttosto che di intrattenimento. Anche
adesso -viste le difficoltà di produrre materiali video con regolarità- preferiamo trasmettere per
eventi: quando abbiamo del materiale pronto diffondiamo la notizia che quella sera andremo in onda; informiamo le persone del quartiere con i volantini e anche con il megafono per avvertire che
“fra tot minuti si va in onda”; se le persone sono
anziane magari saliamo noi in casa per aiutarli a
sintonizzare il televisore.
Il quartiere è coinvolto in questa cosa, si sente
partecipe?
Giorgios. L’idea di una telestreet è quella di far vedere alle persone qualcosa che li riguarda direttamente. Quando organizziamo la festa nel quartiere mettiamo uno schermo in piazza e tutti possono rivedere il lavoro di tutto l’anno. Di solito le
persone si mostrano interessate a condividere la
visione di qualcosa che li riguarda, noi riscontriamo una disponibilità a partecipare. In quelle occasioni poi si crea un’atmosfera stile anni ’50,
quando la gente si riuniva nei bar per vedere la televisione.
Per quanto riguarda Anelli Mancanti tv, l’idea è
quella di non ingrandirci, la nostra ambizione è costruire un rapporto stretto con questa strada e con
il quartiere, preferiamo trasmettere per questa piccola zona; ci piacerebbe far crescere un senso di
appartenenza e anche di responsabilità tra gli abitanti rispetto al luogo in cui abitano. Considera che
questa via è abitata da gruppi di persone molto diverse tra loro: i vecchi residenti, gli americani, i
giapponesi, i somali, i sudamericani...
Marco. Crediamo che la televisione -l’immagine
in generale- sia uno degli strumenti più potenti
della società contemporanea. Come laboratorio di
produzione, la tv di strada di Anelli Mancanti è soprattutto un luogo di trasferimento e diffusione di
conoscenze, tecniche e non solo; si tratta di mettere tutti i partecipanti nella condizione di una relativa autonomia espressiva riguardo al mezzo. Il
storie di ragazzi
nostro obiettivo essenzialmente è quello di moltiplicare le energie creative, e far circolare le competenze tecniche, soprattutto tra i ragazzi.
Abbiamo realizzato alcune piccole produzioni a
partire dalle storie dei ragazzi che frequentano la
scuola. Lo scorso anno abbiamo progettato la formazione di un gruppo di immigrati per quanto riguarda l’uso della comunicazione video e della telecamera oltre che del montaggio per realizzare un
cinegiornale.
Siete stati promotori e organizzatori del torneo
di calcio “Mondi Aperti”. Puoi raccontare?
Marco. Qui a Firenze c’è un grosso parco, le Cascine, che da qualche anno è diventato luogo di incontro, oltre che per i fiorentini, anche per intere
comunità di immigrati, soprattutto la domenica.
Qui ad esempio si riuniscono molti sudamericani
per pranzare insieme e ascoltare musica, e non
mancano i problemi di ordine pubblico.
Comunque la presenza di questi grossi prati ha fatto sì che con le belle giornate le diverse comunità
abbiano iniziato a organizzare delle partite di pallone per conto loro. Partite del tutto informali come succede da qualsiasi parte. Mano a mano è successo che queste squadre improvvisate hanno iniziato a sfidarsi tra di loro, che so la comunità marocchina con quella senegalese, i peruviani con gli
albanesi. L’agonismo, il divertimento e quindi anche lo spettacolo erano così coinvolgenti che molte persone venute a passeggiare si fermavano a
guardare fino a che molti avevano iniziato a venire apposta in quelle ore domenicali per vedere le
partite.
L’idea era già lì. Molti ragazzi che frequentano gli
Anelli ci raccontavano di queste partite e ad un
certo punto ci hanno proposto di organizzare un
vero e proprio torneo. La prima edizione del campionato multietnico è nata così, senza un soldo,
senza un campo, senza niente.
Abbiamo organizzato una prima edizione nel
2002; noi abbiamo fornito il minimo indispensabile: le magliette, i pantaloncini e l’affitto del campo di calcio; i ragazzi invece si sono pagati le analisi mediche. La prima volta hanno partecipato otto squadre, poi visto il successo -che non ci aspettavamo -la richiesta è raddoppiata e per far fronte
e mantenere questa iniziativa che ci sembrava
molto importante abbiamo ottenuto un piccolo finanziamento dagli enti locali come la Provincia,
assieme alla concessione di uno spazio adeguato
dove poter fare il torneo. Addirittura lo scorso anno è stato fatto a Coverciano -dove si allena la nazionale!
Ad ogni edizione siamo riusciti a migliorare un
po’, e ora il torneo viene disputato con le divise ufficiali delle rispettive nazionalità. Lo scorso anno
hanno partecipato tredici nazionalità diverse, cioè
tredici comunità immigrate presenti sul territorio
fiorentino come il Marocco, il Camerun, l’Albania, la Romania, la Turchia, la Cina, il Perù, lo Sri
Lanka, ecc.; il Senegal è stato il vincitore delle prime due edizioni. La squadra degli Anelli Mancanti, che pure partecipa, non ne ha vinta una, anzi ha
subito più gol di tutti gli altri. Le squadre poi si ritrovano insieme ed è un’ottima esperienza che
permette la nascita di relazioni e amicizie che in
altri contesti sono più difficili.
la squadra della Cina ci ha
fatto dono di un drago che
apriva la sfilata come
augurio e portafortuna
La giornata inaugurale faceva impressione per la
cura dei dettagli con cui le squadre si erano preparate: ogni nazionalità faceva sfilare i suoi giocatori con la maglia ufficiale, la mascotte in testa e la
bandiera nazionale, poi il tifo al seguito, gli inni
nazionali… La squadra della Cina ci ha fatto dono
di un drago che apriva la sfilata d’inizio come augurio e portafortuna.
Ora, visto il successo dell’iniziativa, c’è l’idea di
far nascere una polisportiva dell’associazione con
l’obiettivo di unire, grazie allo sport, persone di
ogni nazionalità, religione e colore.
E’ un torneo molto rappresentativo delle comunità che vivono e lavorano qui a Firenze. Vorrei aggiungere che spesso si presentano occasioni inattese: ad esempio, ora con l’associazione vorremmo mettere in piedi una squadra di cricket, dato
che la comunità cingalese ci ha invitato al torneo
che organizza ogni anno.
Questo dà l’idea di quanto siano ricche e vitali le
comunità al loro interno. Il rischio, anche come
volontari, è quello di voler vedere solo i loro problemi o le difficoltà di vita a cui vanno incontro,
ma non c’è solo questo. Parliamo di persone che
comunque riescono ad organizzarsi e a ricreare
spazi di relazione che a noi italiani rimangono invisibili.
ORA LAVORO DA PLATTI...
La vita, semplice, in un paesino dell’Afghanistan e poi il padre che un giorno ti abbraccia
e ti dice che devi andare via e quindi l’avventuroso viaggio attraverso il Pachistan, l’Iran, la
Turchia e poi il Mediterraneo fino ad arrivare alle coste della Calabria... Intervista a Sadegh.
Sadegh, afgano, 23 anni, in Italia da quattro anni, è
fuggito dal suo paese per evitare di essere arruolato
nelle milizie talebane. Ha attraversato il Pakistan,
l’Iran, la Turchia e il Mediterraneo per approdare,
infine, sulle coste della Calabria. Oggi lavora come
pasticcere in uno dei caffè più antichi del centro di Torino.
In Afghanistan, prima di partire, la mia vita era molto semplice. Andavo a scuola e quando tornavo aiutavo i miei genitori. Qualche volta giocavo con gli
amici. Vivevo in un paesino, non era proprio una città, era un piccolo paese di contadini. Un bellissimo
posto. Avevamo tanta frutta, non compravamo cose
da fuori, veniva tutto dalla terra. Compravamo solo la
benzina. Avevamo una vita tranquilla, finché purtroppo sono arrivati i talebani e hanno rovinato tutto.
La cittadina in cui abitavo si trova nel nord dell’Afghanistan, nella zona dove vive la popolazione di etnia hazara. Io stesso sono hazara.
Quel giorno avevo 14 anni, dopo mangiato, è venuto
un mio amico e siamo andati a giocare a pallavolo.
Quando sono rientrato con il pallone, mio papà mi ha
abbracciato: “Guarda Sadegh, io e tua mamma abbiamo deciso che devi andare via”. Era arrivata la notizia che i talebani sarebbero entrati nella nostra zona
arrivando dai territori pashtun. I pashtun erano insieme ai talebani a quell’epoca, e io vivevo proprio vicino ai confini con i pashtun. I talebani prendevano i ragazzi giovani e li arruolavano portandoli a combattere contro la nostra stessa gente. Mio padre mi ha dato
dei soldi e mi ha detto che li dovevo legare intorno ai
polpacci. L’indomani, la mattina molto presto, ho salutato mia madre. Mio padre mi ha accompagnato per
un’ora poi è tornato indietro e ho proseguito da solo.
Ho camminato per quasi dodici ore. Dovevo passare
una montagna molto alta, molto brutta, ed ero preoccupato, pensavo che sicuramente avrei incontrato
qualche animale. Avevo paura. Superata la montagna
mi sono fermato a fianco di una pietra a passare la notte. Ho mangiato gli ultimi panini che mi ero portato
dietro. La mattina dopo sono rimasto lì dove avevo
dormito e ho cercato di farmi caricare su un camion.
Aspettavo che ne passasse uno, lo fermavo e gli chiedevo di portarmi a Kandahar. Alla fine un camionista
mi ha preso, mi ha fatto salire e mi ha portato a Kandahar. Gli ho spiegato la mia situazione, le mie difficoltà, e sono stato fortunato perché mi ha aiutato un
po’. Quando siamo arrivati a Kandahar mi ha trovato
un taxi. Sono rimasto sette ore chiuso dentro quel taxi perché il proprietario doveva trovare altri passeggeri prima di partire. Mi diceva che se volevo potevo
pagare da solo per quattro persone e saremmo partiti
subito, ma io non avevo abbastanza denaro, avevo anche dato un po’ di soldi al camionista. Io aspettavo in
macchina, perché eravamo in una zona talebana e a
guardarmi in faccia si capisce subito che sono hazara. Di faccia siamo molto diversi da loro, siamo simili a quelli che vengono dalla Mongolia.
Faceva caldo, molto caldo. Quando ha trovato qualche altro passeggero siamo partiti, diretti verso il Pakistan. Passato il confine, sono arrivato dopo diverse
ore nella città di Quetta. Ho parlato con il taxista e gli
ho detto che i soldi per pagare non li avevo, ma potevo dargli l’orologio. Lui ha accettato. Mi ha portato
in un hotel gestito da afghani.
I pochi soldi che avevo li usavo per pagarmi da dormire, e quasi non mangiavo. Poi un giorno sono andato a parlare dal proprietario dell’hotel, a spiegare
la mia situazione, a dirgli che ero in difficoltà, che
cercavo lavoro. Lui mi ha detto che di lavoro non ne
aveva ma conosceva una persona che cercava un ragazzo. Dopo tre o quattro giorni mi ha portato in
quel posto, era una pasticceria, e mi hanno preso a
lavorare lì.
Io lavoravo e loro mi davano da mangiare, altro non
avevo. Non avevo neppure un orario fisso, lavoravo
tutta la giornata. Un giorno mi sono anche scottato, la
pentola era troppo grande, piena di acqua bollente,
non sono riuscito a sollevarla e mi sono scottato questa parte del corpo. Mi lasciavano dormire lì dove lavoravo. Ogni tanto mi davano un po’ di soldi.
Sono rimasto due anni a lavorare così. Nel frattempo
ero riuscito a mettermi in contatto con mio papà. Il
mio padrone dava la lettera a quelli dell’hotel, se
qualcuno andava in Afghanistan se la portava dietro
e cercava di consegnarla ai miei genitori o a della gente che abitava nella mia zona. Così raccontai a mio padre come stavo, cosa facevo, e lui mi scrisse cosa stava succedendo nel mio paese. Finché non è arrivata
una lettera che diceva che sarebbe arrivata una persona a cercarmi e io sarei dovuto andare con lui. Avrei
dovuto seguire quella persona senza lasciarla mai.
Un giorno questa persona è arrivata, mi ha preso e
portato in Iran. Siamo andati fino al confine e poi l’abbiamo superato a piedi, nel deserto. Quella persona
aveva dei soldi e quando prendeva da mangiare pagava anche per me. Abbiamo camminato fino a una
città molto bella dell’Iran, nella regione del Baluchistan.
Sono rimasto dieci giorni in Iran. La persona che mi
aveva portato non esisteva più, mi aveva consegnato
ad altre persone, iraniani. Io un poco di quello che dicevano lo capivo, anche noi hazara parliamo persiano, ma loro usavano il dialetto e non potevo capire
proprio bene. Mi hanno preso e portato in Turchia. In
Turchia sono rimasto tre giorni ad aspettare in una
stalla. Eravamo tantissime persone, forse quaranta,
quarantacinque. Afghani, del bangladesh, iraniani,
arabi, indiani... Da una parte c’eravamo noi e dall’altra c’erano gli animali, pecore, capre, mucche. Era
buio, la stalla non aveva neanche una finestra. Ogni
ventiquattro ore ci davano un pezzo di pane, non di
più, e un bicchiere d’acqua.
Dopo tre giorni è venuta una persona e ha scelto alcuni di noi: degli afghani, degli indiani, dei pakistani
e degli iracheni. Ci ha fatti salire su un camion. Dopo
ventiquattro ore o qualcosa di più eravamo su una nave, diretti verso la Calabria.
La notte in cui siamo arrivati era molto buio e non si
vedeva nessuno. La nave si era fermata lontano dalla
costa e quello che guidava la nave era sparito. Era fuggito via su un’altra piccola nave. Ci aveva lasciato lì,
non troppo lontano dalla costa.
C’eravamo solo noi quella mattina sulla nave, e ognuno piano piano prendeva coraggio e si buttava in acqua. Mi sono buttato anch’io. C’era tanta, tantissima
acqua, ed ero molto preoccupato. Devo ringraziare un
ragazzo curdo che mi ha preso e mi ha portato fino alla riva. Siamo rimasti sulla spiaggia, non sapevamo
cosa fare. Dopo un po’ qualcuno è andato in direzione del paese. La polizia lo ha visto, lo ha preso e gli
ha chiesto da dove veniva, lui ha detto che veniva dalla Turchia, che era arrivata una nave, e li ha portati da
noi. Così la polizia ci ha presi tutti quanti e ci ha portati in un campo di militari. A Crotone.
La polizia italiana si è comportata bene, veramente.
Io ho conosciuto la polizia pakistana, quella iraniana... erano molto diverse, picchiavano. Gli italiani invece si sono comportati bene. Non capivo niente di
quello che dicevano, capivamo solo quando facevano il segno dell’ok con il pollice alzato.
Siamo andati in un centro di accoglienza, ci hanno dato da mangiare, da bere, e ci siamo potuti fare una doccia. Dormivamo in container attrezzati con letto e tutto, ognuno per quattro persone. E poi il cibo veniva
da fuori, pranzo, colazione e cena. Da quando ero partito dal Pakistan non avevo mai mangiato per bene.
Ogni ventiquattro ore un pezzo di pane, quello era il
nostro cibo.
Sono rimasto due mesi lì, a Crotone. I tre amici afghani che erano venuti con me dalla Turchia se ne sono andati in Inghilterra. Io invece sono rimasto in Italia perché ero minorenne. Se no, in verità, sarei andavo dove andavano gli amici, perché ero da solo e guardavo a loro, vedevo dove andavano e li seguivo. Ma
ero minorenne e mi è stato detto: tu non puoi andare,
non sei neanche responsabile, e allora ho risposto va
bene, resto qua.
Dopo due mesi mi hanno mandato vicino a Macerata, dove sono rimasto un anno. Stavamo in un hotel,
anche lì ci davano da mangiare. Era una comunità gestita da un gruppo umanitario che si chiama Gus. Eravamo tanti ragazzi, tutti minorenni. L’hotel era molto lontano dalla città, in montagna. Ognuno parlava la
sua lingua e c’era anche qualche afghano. Le educatrici ogni giorno ci facevano un’ora di lezione per insegnarci l’italiano. Per il resto stavo lì, non facevo
niente.
Aspettavo che mi chiamassero per fare un’intervista
a Roma, per ottenere il permesso di soggiorno. Chiedevo sempre quando mi avrebbero chiamato per fare
l’intervista e loro rispondevano che bisognava aspettare una lettera da Roma.
Dopo un anno mi hanno mandato in un’altra comunità vicino a Torino, a Cuorgné. Purtroppo anche quella comunità era in montagna. Era tranquilla, non c’era nessuno, c’eravamo solo noi e non avevamo il permesso di uscire, neppure di giorno. Sono rimasto un
anno a Cuorgné finché finalmente è arrivata la lettera da Roma. E sono andato a fare l’intervista.
Parlavo ancora molto poco l’italiano e per l’intervista c’era una traduzione in persiano. Mi facevano delle domande e io rispondevo. Mi hanno chiesto se avevo dei documenti afghani, e io ho detto che non li avevo così come non li aveva mai avuti mio padre, perché in Afghanistan non c’è uno stato, non c’è un’anagrafe che ti dà queste cose. Allora mi hanno fatto tante domande sull’Afghanistan, chi erano i talebani, chi
era il presidente, chi c’era nella mia zona, e io ho dato le risposte che sapevo per dimostrare che ero davvero afghano.
Mi hanno chiesto se ero al corrente di quello che stava succedendo nel mio paese. Ho detto: gli americani, gli italiani, tutti quanti sono andati lì a controllare, a portare la pace. Ho raccontato quello che avevo sentito alla televisione, alla radio, perché qual-
cosa capivo.
L’intervista è andata bene, ha avuto un esito positivo
e mi hanno riconosciuto come rifugiato politico. Così ho potuto lasciare la comunità di Cuorgné. Però non
conoscevo nessuno e avevo bisogno di lavorare. C’era un ragazzo dello Sri Lanka che era stato nella comunità con me e quando era uscita la sanatoria era andato a Torino dove aveva degli amici. Avevo il suo numero e l’ho chiamato, gli ho detto che non ero più nella comunità e gli ho chiesto se da lui potevo trovare
qualcosa. Lui mi ha detto: “Vieni, non c’è problema”.
All’inizio mi sono trovato in difficoltà, ero sempre da
solo. Camminavo a lungo da solo, ma non mi piaceva. Poi il ragazzo dello Sri Lanka mi ha portato in
un’associazione che si chiama Asai. Mi ha presentato al responsabile, che si chiama Sergio, e a una donna che si chiama Danila e che mi ha aiutato tantissimo. Danila mi ha aiutato a trovare lavoro, mi ci accompagnava persino, mi ha anche portato a casa sua,
a conoscere i suoi figli...
Lavoravo a Leinì, in una fabbrica di grissini, e vivevo in un dormitorio a Mirafiori. Poi mi hanno mandato in un’altro posto che si chiamava “La città dei ragazzi”. Anche quello era un dormitorio, ma era meglio dell’altro. Poi Danila mi ha presentato a sua
mamma e sono andato a vivere con lei. Dalla mamma
di Danila mi sentivo come uno di famiglia. Non ero
più solo. E ho trovato un altro lavoro, in una pasticceria molto famosa a Torino, che si chiama Platti. A
Danila avevo raccontato che avevo lavorato in una
pasticceria in Pakistan, così mi ha trovato il posto da
Platti, ho fatto un tirocinio di sei mesi e poi sono stato assunto.
Ora non vivo più dalla mamma di Danila. Ho trovato
una casa in affitto assieme a quel ragazzo dello Sri
Lanka. Sono in contatto con altri afghani che vivono
qui a Torino. Quando sono arrivato eravamo solo in
due, poi ne sono venuti altri e adesso siamo quasi una
decina. Conosco le moschee di Torino, so dove sono,
a Porta Palazzo, a Porta Nuova, ma non le frequento
perché ci sono troppi problemi tra sciiti e sunniti e se
vado mi sento rivolgere tante domande, troppe. Io sono sciita, le moschee a Torino sono tutte sunnite. Se
io mi comporto secondo ciò che dice la religione sciita, loro fanno tante domande, ci mettiamo a discutere, e va male. Io non capisco loro o loro non capiscono me...
Da quando ero partito dal Pakistan non avevo potuto
comunicare con la mia famiglia. A Torino ero in collegamento telefonico con quei ragazzi che stavano
con me a Crotone e adesso sono in Inghilterra. Qualcuno aveva il passaporto e andava in Afghanistan così potevano portarmi delle notizie. Un giorno mi ha
chiamato un amico da Berlino e mi ha detto che i miei
genitori erano emigrati in Iran. Così ho potuto raggiungerli per telefono.
L’anno scorso sono riuscito persino ad andare a trovarli. A Roma, dopo l’intervista, mi hanno dato dei
documenti che funzionano come un passaporto. Non
posso andare in Afghanistan, però posso visitare altri
paesi. Questo finché non prendo la cittadinanza. Così l’anno scorso ho incontrato la mia famiglia in Iran.
Quando sono arrivato non sapevo neanche che mio
padre era morto. L’ho scoperto così, dopo tanti anni
che non l’avevo visto. Ci sono rimasto malissimo, è
stato un grande dolore.
Ho visto mia mamma, le mie sorelle, i miei fratelli. La
mamma diceva che non bisognava uscire tanto perché prendono gli afghani e li rimandano in Afghanistan. Io avevo tutto, i documenti italiani, il permesso
di soggiorno, il visto dell’Iran, ma lei diceva che mi
avrebbero preso lo stesso e mi avrebbero portato in
questura. Così non uscivo volentieri, ero preoccupato a girare per strada.
Ogni mese mando dei soldi alla mia famiglia. Loro
non fanno niente in Iran. Quando c’era mio padre lui
lavorava, ma ora mia madre non lavora e così le mie
sorelle. Fino a poco tempo fa non avevano neppure il
permesso di soggiorno, non li prendevano a scuola e
stavano tutti a casa. Meno male che posso mandare
cento euro al mese e là con cento euro si vive. E meno male che il nuovo governo ha dato il permesso di
soggiorno a tutti gli afghani, così due mie sorelle hanno ricominciato ad andare a scuola. I miei fratelli sono ancora troppo piccoli.
Ho chiesto a mia mamma se vuole venire in Italia, ma
lei non è d’accordo. Ha detto che stanno bene là e che
vogliono tornare in Afghanistan appena sarà possibile.
Anche io prima o poi voglio tornare a vivere nel mio
paese. Ma qui in Italia sento che sto costruendo un
futuro migliore. Volevo un lavoro in pasticceria e già
l’ho trovato. Vivo in un sogno, imparo un mestiere
molto buono e per me questo è incredibile. Quando
ero in Afghanistan non avevo prospettive di imparare una professione del genere. Ogni giorno dopo la
scuola tornavo a casa ad aiutare mio papà, a fare il
contadino.
UNA CITTA’
7
problemi di lavoro
IL VALORE AGGIUNTO
DELLA PARTITA IVA
Il lavoro autonomo, pena anche l’uso di categorie obsolete, resta ‘invisibile’ nella
sua specificità. Oggi la vulnerabilità non riguarda più gli ‘ultimi’, ma una parte
consistente della società. L’autonomo è disposto a uno scambio tra l’ansia
dell’incertezza e la possibilità di determinare le proprie scelte, il dipendente no. Gli
enti minaccianti: ordini e università. Un dialogo tra Sergio Bevilacqua e Pietro Lembi.
Sergio Bevilacqua si occupa di politiche del lavoro, svolge attività di counselling professionale ed
è stato per molti anni un lavoratore autonomo.
Pietro Lembi, architetto, si occupa di politiche urbane e sociali e collabora con il Laboratorio di
Politiche Sociali del Politecnico di Milano. Il confronto che segue è stato raccolto nell’ambito di
una ricerca sul nuovo lavoro autonomo condotta
dal Laboratorio di Politiche Sociali (coordinato
da Costanzo Ranci) assieme all’Osservatorio sui
Ceti Medi coordinato da Arnaldo Bagnasco.
Pietro Lembi. In questi anni abbiamo condotto una
serie di indagini sui fattori di rischio e sulla vulnerabilità; abbiamo studiato il modo in cui abitazione, cura, lavoro, regolazione e protezione sociale
si intrecciano e influiscono nelle vite di tipologie
familiari diverse: coppie bilavoro con figli piccoli, famiglie con anziani a carico, famiglie con
sfratto in quartieri degradati. Ecco, quello che
emerge è che la vulnerabilità non riguarda i cosiddetti “ultimi”, il disagio estremo, ma una parte
consistente della società che oggi sembra presentarsi più fragile ed esposta a fattori di rischio.
Abbiamo allora deciso di interrogarci sulle “Partite Iva”, per vedere chi sono, quali valori hanno,
che tipo di protezioni ricevono dallo stato, che tipo di protezioni vogliono o non vogliono, come
sono rappresentate, ecc.
Sono una parte consistente di lavoratori finora
quasi per nulla presi in considerazione dalla sociologia, così come dai sindacati e da altri organismi di rappresentanza.
Generalmente le rilevazioni ufficiali dividono tra
lavoratori dipendenti e indipendenti, e questi sono
suddivisi tra imprenditori, liberi professionisti, lavoratori autonomi o “in proprio” e, da alcuni anni,
lavoratori a progetto. Ma sappiamo che il nostro
oggetto è in parte trasversale a queste definizioni.
Sergio Bevilacqua. Le forme di lavoro che escono
da questo rigidissimo schema non sono visibili.
Pietro. Studiando la letteratura e le banche dati, mi
sono reso conto che l’oggetto rimane molto sfuggente, e cambia anche radicalmente a seconda del
punto di vista da cui lo si guarda. Aiutami ad inquadrare il problema dal tuo punto di vista, a definire l’oggetto.
un lavoratore in
cassaintegrazione fino a
poco tempo fa per l’Istat era
forza lavoro dipendente
Mi chiedo per esempio quale sia il confine tra l’informatico co.co.pro. e l’informatico che apre la
partita Iva, oppure quello che decide anche di
iscriversi alla Camera di Commercio e magari ha
pure due o tre persone che lavorano per lui.
Sergio. La mia risposta implica un passaggio culturale, la sociologia se vuole districarsi in questa
situazione complessa deve confrontarsi con altre
discipline. Su questi temi o si ha un approccio diverso dal passato o si rimane imbrigliati nella rigidità. Provo a spiegarmi facendoti un esempio: sai
com’era considerato un lavoratore in cassaintegrazione dall’Istat fino a poco tempo fa? Forza lavoro dipendente. Un disoccupato a tutti gli effetti
viene considerato dipendente e qual è il motivo di
questa strana scelta? Perché risulta ancora in organico all’azienda. Penso che per comprendere e
agire sulla realtà si debbano scardinare queste categorie concettuali. La sociologia questo passaggio poderoso l’ha già fatto negli anni ’70, l’hanno
fatto Frey, Sylos Labini, Massimo Paci rivisitando le rappresentazioni delle classi sociali. Hanno
incominciato a studiare la forza lavoro nascosta,
quella che sarebbe andata a lavorare e che l’Istat
non considerava col risultato ultimo di abbassare
il numero dei disoccupati presenti nel nostro paese. Si sono fatti veri e propri scandagliamenti di un
mondo sconosciuto, che stentava ad emergere e
che non trovava alcuna forma di rappresentazione
culturale e anche politica. Per fare questo è stato
necessario definire un approccio culturale basato
su riferimenti concettuali che semplicemente non
8
c’erano.
Penso che la situazione presenti molte analogie: o
ci dotiamo di altre categorie concettuali o certi fenomeni sociali non li vediamo, con il rischio di fare come fa la Cgil, che identifica certe fette di società, come appunto i professionisti delle partite
Iva, con gli autonomi, nei confronti dei quali c’è
un’unica logora categoria: evasori cioè avversari
dei lavoratori dipendenti.
Per cambiare questo approccio limitato e riduttivo
penso sia necessario un approccio interdisciplinare, in cui la psicologia dialoghi con la sociologia,
l’economia con la sociologia. Bisogna riuscire ad
evidenziare quali sono i legami tra economia, sociologia e psicologia.
Se non vogliamo continuare a ignorare pezzi consistenti della società in cui viviamo è necessario
che alcune riflessioni della psicologia sull’identità del lavoratore, la percezione del lavoratore vengano recepite dalla sociologia, dall’economia e
dalla politica. Il rischio è che il professionista a
partita Iva sia assolutamente invisibile perché non
si considera la sua identità professionale, il fatto
che questa persona sia particolarmente interessata alla sua autonomia. E non vale il luogo comune
per cui tutte le persone che lavorano sarebbero interessate ad una dimensione di autonomia perché
ciò che cambia fra un dipendente ed un autonomo
è la predisposizione a reggere le ansie generate
dall’incertezza legata al lavoro, che può arrivare
ma che può anche non esserci, ai pagamenti che
tardano mentre costi e tasse sono costanti e certi.
L’autonomo è disposto ad uno scambio fra l’ansia
legata all’incertezza e la possibilità di determinare le proprie scelte. Il dipendente assolutamente
no. La prova è data dalla difficoltà con cui nel pubblico impiego si riesce a far passare il concetto di
valutazione delle prestazioni.
Con questo non voglio dire che un lavoratore sia
più bravo dell’altro, che una scelta sia giusta e l’altra erronea. Semplicemente sono scelte diverse
che è bene conoscere ed approfondire dando valore a quelle che portano all’autonomia ed evitando
accuratamente luoghi comuni o approcci ideologici come invece si continua a fare.
Questo ragionamento sull’identità è un patrimonio della psicologia mentre dal punto di vista sociologico potremmo definire le persone che dimostrano indipendenza rispetto all’organizzazione
del lavoro come persone orientate a gestire il proprio compito lavorativo trovando soluzioni autonome.
Per l’economia i professionisti producono valore
aggiunto utile alle organizzazioni tanto più se
orientate ad una logica di flessibilizzazione organizzativa.
Questo per dire che nel vocabolario della psicologia, della sociologia e dell’economia ci sono categorie che individuano un elemento comune. Se
vogliamo la troviamo anche nel vocabolario della
politica: alcuni ceti sociali mirano alla propria autonomia nella gestione di alcuni bisogni, in primis
nella gestione del processo decisionale e del proprio tempo. Quindi c’è un modo di definire le caratteristiche del vasto mondo dei professionisti a
partita Iva, il problema è la voglia di continuare ad
approfondire queste connessioni utilizzando le
contaminazioni fra discipline per precisare i contorni di questa parte del mondo del lavoro.
Pietro. Questo mi ricorda il concetto di individualizzazione riproposto da Paci, che fa risalire alla fine del Settecento la voglia delle persone di liberarsi dai vincoli dei sistemi tradizionali e sempre
di più affermare la propria autonomia come
espressione di sé. Tutto ciò secondo me ha a che
fare con il ceto medio, con la voglia di esprimersi
nel lavoro…
Sergio. Penso abbia a che fare con una spinta individuale che ha riguardato anche la classe operaia;
in questo caso la spinta individuale è stata incanalata nel partito e nel sindacato. Come mai il sindacato è così ortodosso, privo di una conflittualità interna? Forse -e so di dire un’eresia- perché il tipico quadro medio può essere paragonato agli “yes
man” aziendali che pur di far carriera non osteggiano niente. Forse questo approccio ci aiuta a leg-
UNA CITTA’
gere buona parte dell’ortodossia del partito comunista italiano di cui parla anche Rossanda nella sua
recente biografia.
Il carrierista tradizionale aziendale in genere è un
“yes man” che non produce valore aggiunto, costituisce quella massa grigia che mantiene un collante organizzativo ed è molto orientato alla conservazione.
Pietro. Una delle parole chiave, che ho sentito utilizzate dai rappresentanti di Acta, l’associazione
che rappresenta i professionisti del terziario avanzato, è “valore aggiunto”. Mi sembra interessante
perché è la prima definizione positiva, visto che di
solito si identifica il lavoratore autonomo con l’evasore, il parassita o comunque quello che si fa i
fatti suoi.
Sergio. Il lavoratore autonomo è funzionale ad una
circolazione di idee, allo scambio di conoscenza e
di competenza, dimensione necessaria per non
perdere il ruolo economico e sociale che il nostro
paese ricopre in questo periodo.
non solo penalizzano chi ha
la partita Iva, ma ne negano
l’identità equiparandolo
ad un precario
Pietro. Mi dicevi che secondo te non è centrale,
per comprendere le condizioni dei lavoratori autonomi, la differenza tra appartenenza a un ordine
professionale e non appartenenza.
Sergio. In cosa consiste il potere di un giovane avvocato? Mi sembra sia minimo se non addirittura
inesistente. Il potere contrattuale è dato, come direbbe Marx, dal potere di scambio.
Tu puoi avere un valore d’uso assolutamente rilevante, puoi essere specializzato, avere un elevato
numero di competenze, ma il valore commerciale
è dato da altro, dalla capacità di scambio.
Su questo meccanismo agiscono tante dimensioni, tra cui l’identità del lavoratore autonomo, perché è la sicurezza, la fiducia in sé che consente di
negoziare il prezzo delle prestazioni, i tempi di pagamento, la qualità del lavoro con il cliente.
Si negozia quando ci si ritiene “forti”, cioè capaci
di fare questa operazione tutta legata a dimensioni di tipo psicologico.
Purtroppo non vedo un interesse vero a censire
questo genere di cose. Il ministro Damiano, la Cgil
pensano che per rafforzare gli autonomi sia necessario farli uscire dalla condizione di precarietà con
alcuni “trucchi” come l’innalzamento dell’Iva.
Non si accorgono che in questo modo non solo penalizzano economicamente chi ha la partita Iva,
ma addirittura ne negano l’identità equiparandolo
ad un precario.
Allo stesso modo il cassaintegrato ha una sua specifica identità legata al concetto di esclusione dal
mercato del lavoro, ha quindi una notevole vulnerabilità. E’un autentico insulto considerarlo un dipendente.
Negli anni ’80 a Torino si sono suicidate 150 persone che si trovavano in cassaintegrazione; questo
dramma invisibile, considerato solo da pochi specialisti, vorrà pur dire qualche cosa a proposito di
identità fragile. Gli intellettuali che accettano la
definizione burocratica dell’Istat, che paragona
un lavoratore in cassaintegrazione ad un dipendente esclusivamente perché lo risulta ancora ufficialmente, finiscono per accettare una lettura
della società basata su elementi formali, non sui
processi reali.
Tornando al caso delle persone con la partita Iva e
alla loro identità, possiamo ricorrere ad un paradosso. Non è il dato formale che definisce un professionista. Per esempio, se una persona lavora a
casa propria, ma ha un solo cliente che ne determina le scelte e il valore delle prestazioni, può essere equiparato ad un lavoratore dipendente “nascosto”. Non è certo il luogo fisico dove esercita il
proprio lavoro che determina la differente identità, ma il suo sistema di relazioni, la sua capacità di
valorizzare autonomamente il proprio lavoro individuando committenti che rispondono alle proprie esigenze ed aspettative. Questa è la differen-
za tra un professionista “vero” e il precario, il dipendente “nascosto” che sta tanto a cuore al ministro Damiano e al sindacato.
Pietro. Allora si deve valutare se sei mono-committente: se hai un unico cliente oppure no …
Sergio. Penso che sia la questione fondamentale.
Personalmente ho lavorato come libero professionista per tre anni in un’agenzia regionale e per
quattro anni in una legata alla Camera di Commercio. In tutti questi anni ero di fatto un dipendente mascherato, anche se io stesso pensavo di
essere un libero professionista avendo maggiore
libertà nella definizione del mio orario di lavoro.
Quando l’agenzia regionale ha chiuso io mi sono
ritrovato nei guai: ero ad altissimo rischio di fragilità sociale. La mia fragilità era data dal fatto che
quella era la mia unica fonte di reddito e in questo
genere di condizioni il tuo livello di potere decisionale è basso, così come la capacità contrattuale. La stessa cosa per quanto riguarda la capacità
di fare scelte professionali che consentissero di
uscire dalla situazione.
Pietro. Questo ragionamento, legato al potere negoziale, ci consente di determinare se quella persona con la partita Iva, o quel lavoratore con contratto co.co.pro., sia più o meno indipendente.
Sergio. Dal punto di vista giuridico-formale è indipendente, ma si tratta di un’astrazione formale
perché, a parte la possibilità di definire il mio orario, la mia condizione era quella di non avere
un’autonomia sostanziale dal mio cliente dal quale dipendevo, come i miei colleghi che avevano un
rapporto di lavoro dipendente; ma a differenza di
loro avevo meno forme di tutela nel momento in
cui l’agenzia regionale ha concluso la sua attività.
Penso che in questo contesto sia l’Istat a dover modificare i propri riferimenti concettuali: alla fine
degli anni ‘70 la statistica è stata in grado di considerare la forza lavoro nascosta. Si è concepito
che il ricercatore facesse alcune domande in più
per approfondire il problema cercando di capire se
a fronte di condizioni favorevoli (per esempio la
possibilità di trovare un impiego) la persona sarebbe stata interessata ad attivarsi nella ricerca di
un lavoro.
Pietro. Infatti guardando le varie banche dati esistenti abbiamo capito che c’è pochissimo, ad
esempio, sulla dimensione di scelta e gradimento
del lavoro autonomo: quanto è frutto di una scelta, quali sono i valori che ci stanno dietro? E neppure sulla cultura civica: quali sono le regole alle
quali decidi di aderire, che cosa chiedi?
Sergio. Ma come mai non ci sono domande in questo senso? Questo indica come quella indagine
venga condotta con categorie obsolete e ormai
inutili.
Pietro. Tu adesso hai aperto una s.r.l., quindi in
realtà non sarai più nella “gestione separata”, ma
stai diventando “altro”.
Sergio. Siamo quattro soci ed incomincia ad esserci una dimensione organizzativa. Ma la mia amica
che ha anche lei una s.r.l. e a differenza di me ha fatto la scelta di rimanere sola, che differenza di approccio può avere rispetto ad una partita Iva? Ribadisco: la differenza non può essere confinata ad
un aspetto di carattere giuridico-formale.
Pietro. E se invece avesse tre persone che lavorano con lei?
Sergio. Intanto c’è da chiedersi perché si trova nelle condizioni di avere tre persone. Probabilmente
perché ha una capacità di gestire la sua attività
commerciale tale per cui ha bisogno di decentrare
una parte del lavoro. Stiamo dicendo, quindi, che
ha un potere negoziale non indifferente: non ha un
solo cliente, ne ha diversi che sovrastano la sua capacità produttiva e quindi deve avvalersi di collaboratori.
Pietro. Voi siete quattro soci, ma tu hai una tua partita Iva personale. Cosa vuol dire essere soci?
Sergio. La nostra società è stata fondata da due soci, abbiamo iniziato nel 1994 a trovarci in riunioni per farci forza l’un l’altro. Fino al 1998 venivamo riconosciuti come un marchio anche se dal
punto di vista giuridico-formale eravamo solo due
partite Iva. Eravamo due professionisti, ma per i
nostri clienti eravamo un’organizzazione che dava loro più garanzie.
Il Centro di formazione professionale della Regione Lombardia, per il quale abbiamo lavorato
per quattro anni, ad un certo punto ci ha proposto
una commessa molto articolata. Noi abbiamo dovuto ricorrere ad altri colleghi perché non potevamo gestire cinque corsi contemporaneamente, la
percezione degli attori economici e sociali era differente dalla nostra collocazione “formale”.
Pietro. Cambia molto essere percepiti come
un’organizzazione e non come singoli professionisti?
Sergio. Certo, sei più forte, hai più potere contrattuale. Abbiamo provato a chiedere tempi di pagamento diversi, con buona pace di tutti gli ordini
professionali che non ti danno alcun aiuto in que-
Bologna, Fiera
sto senso. L’organizzazione è considerata dal
cliente un interlocutore che ha dei vincoli, che ha
a sua volta dei collaboratori da pagare, per cui si sa
che le relazioni sono tra organizzazione e organizzazione, in un certo senso alla pari.
Pietro. Allora anche l’aspetto materiale, strutturale, conta: se lavoro in casa, se ho una sede propria…
Sergio. Ai sociologi ed anche ai pubblicitari piace
molto l’immagine della persona che lavora da internet in vacanza, affacciandosi sul golfo meraviglioso, in realtà è una panzana colossale, irreale. O
sei famoso o vieni percepito come uno che non ha
neanche un ufficio.
Se l’amministrazione dell’ente cliente se ne accorge, il ragionamento è molto pratico: “Che spese vuoi che abbia, lavora da casa, quindi non ha
esigenze particolari perché non ha costi da sostenere e se mi manca la liquidità il primo su cui rifarmi è lui e lo pagherò non a 120 giorni ma a 180”.
Pietro. E anche avere l’Iva o non averla cambia?
Anna Soru, presidente di Acta, sostiene che per il
committente sapere che hai la partita Iva ti rafforza.
Sergio. Noi ora diventiamo s.r.l. ed abbiamo 4 partite Iva; cosa ce ne facciamo? Secondo questo ragionamento dovremmo tenerle in vita perché se un
cliente ci chiama per fare una docenza in aula,
avendo noi la partita Iva dovremmo ottenere una
quota oraria maggiore, tempi di pagamento migliori, cioè un potere di scambio maggiore, in
quanto professionisti.
Io invece sto pensando di chiuderla perché ho un
costo e al cliente posso tranquillamente chiedere
un prezzo più alto, ma questo atteggiamento me lo
posso permettere oggi perché ormai ho un potere
contrattuale maggiore di quando lavoravo presso
l’agenzia regionale che era la mia unica cliente.
Pietro. Lo puoi fare perché hai un potere contrattuale maggiore e hai una s.r.l.
Sergio. Potrei anche non avere l’s.r.l., ma ho ormai
una relazione tale con quel committente che arrivo a decidere quali sono le condizioni che mi vanno bene e soprattutto, per mia fortuna, non ho solo lui come cliente, ma ne ho altri, quindi me lo
posso permettere.
Pietro. Dal punto di vista organizzativo, c’è un
primo passaggio in cui ti associ a livello organiz-
zativo con delle persone e magari ti registri alla
Camera di Commercio. Adesso voi fate un altro
passaggio, diventate un s.r.l., ed avete una persona che lavora per voi con delle competenze amministrative. Quando iniziamo a chiamarti imprenditore?
Sergio. Quando ho un rapporto di forza nel valore
di scambio tale per cui io posso essere anche un
co.co.pro. ma al mio cliente posso dire che se vuole che collabori deve darmi non più 100 ma 150 e
io una parte di quei 50 li do ad un mio collaboratore.
Si può avere qualunque rapporto, Iva, non Iva,
co.co.pro., ma in questo caso si è imprenditori.
Pietro. Le caratteristiche del lavoro indipendente
cambiano molto da un territorio ad un altro?
piace molto l’immagine
della persona che lavora con
internet affacciata sul golfo...
una panzana colossale
Sergio. Beh, se lavorassi in una zona con pochi
clienti ovviamente sì…
Pietro. Di che territori stiamo parlando? Funziona
ancora la lettura delle tre Italie?
Sergio. Se abitassi a Nuoro il mio potere contrattuale quale sarebbe? Potrei avere un valore d’uso
notevole, ma il valore di scambio purtroppo sarebbe basso.
Pietro. Stiamo quindi parlando di metropoli, Milano e Roma e basta?
Sergio. Diciamo territori in cui il tuo valore d’uso
ha un valore di scambio già di per sé elevato. Può
essere anche in Sardegna, ma in quel distretto particolare in cui ho diversi clienti...
Pietro. Quindi parliamo di alcune competenze su
alcuni distretti... e ovviamente di Milano, dove ci
sono tutte le competenze...
Sergio. E’importante il valore aggiunto che tu porti e la presenza di una domanda di servizi, se no il
mio potere contrattuale cade, come ai tempi in cui
lavoravo in agenzia regionale.
Pietro. E’ interessante la difficoltà di queste persone di riconoscersi nelle politiche sia di destra
che di sinistra; e questo non vuol dire neppure essere al centro. Da dove passa una costruzione po-
litica di queste identità?
Sergio. Intanto alcune regole mi aiutano: in primis
torno alla mia biografia, e mi serve moltissimo.
Chi sono i miei concorrenti? Come dice Sergio
Bologna: chi sono gli enti minaccianti? Lo Stato?
Ma figurati! Al massimo l’Inps.
Sai chi mi minaccia? Il dispositivo della Regione
che definisce le tariffe previste nei corsi finanziati dal Fondo Sociale Europeo e stabilisce delle categorie: i docenti universitari automaticamente
hanno il massimale più elevato in quanto tali,
mentre agli altri la Regione chiede 10 anni di anzianità.
Questa concorrenzialità, dal punto di vista economico si definisce concorrenza sleale; l’ente minacciante in questo caso è il mondo universitario,
non è certo lo Stato.
Pietro. Lo sai che in realtà i sociologi e quindi i
professori universitari, faticano a leggere questo
mondo?
Sergio. Non faccio fatica a pensarlo, vorrebbe dire rileggere criticamente i propri comportamenti
personali e infrangere un tabù che li riguarda da vicino, è un’operazione culturale difficile.
Pietro. Prova a dirmi un altro concorrente, oltre all’università. Quali sono i nodi critici, politici?
Sergio. Noi lavoriamo ad alcuni progetti per una
provincia piemontese. La Regione Piemonte, di
sinistra, non paga le Province e l’esito finale è che
la Provincia che non percepisce i pagamenti non ti
paga. Lo Stato non ha obbligato la Regione a saldare i propri debiti e le conseguenze sono ritardi di
pagamento che nel caso specifico superano i 390
giorni.
Sai chi è un’altra minaccia? Gli ordini. Esempio:
io faccio l’orientatore e mi occupo di counselling
dal 1990. In quel periodo saremo stati poche decine in tutta Italia ad avere un profilo del genere.
Adesso si sta definendo la normativa per regolamentare la figura del counsellor.
L’ordine degli psicologi ha dimostrato un elevato
interesse nei confronti delle due figure orientatore e counsellor, perché garantirebbero ambiti occupazionali a chi esce con la laurea in psicologia.
Il ragionamento è destinato a fallire perché per gli
ordini tira brutta aria, ma se il problema si fosse
posto alcuni anni fa come si sarebbe conclusa la
vicenda? Le mie competenze, in assenza di un ti-
tolo ad hoc, che fine avrebbero fatto?
Pietro. Questo concretamente significherebbe che
tu non puoi essere counsellor se non sei laureato in
psicologia ed iscritto all’ordine?
Sergio. Sì, questa è la loro speranza. Anche se io
so bene che pur essendo laureato in lettere sono in
grado di fare questo lavoro. Ma potrei anche essere laureato in ingegneria, purché abbia vissuto nella mia biografia certi passaggi formativi, la terapia
e la supervisione per esempio.
La competenza è un problema altrettanto complesso e non può ovviamente essere garantito da
un atto formale. Il nostro paese dovrebbe liberarsi
dalla ossessiva presenza dell’atto formale che non
aiuta a conoscere la realtà così come non garantisce il cliente.
Pietro. Vedi che, anche nella creazione dell’identità, gli ordini contano, in qualche modo tutelano
perché ti danno una riconoscibilità pubblica, una
cassa, un orizzonte, ti garantiscono che probabilmente sarai tu ad accedere a quel lavoro...
Sergio. Sì, dopodiché il singolo professionista rimane comunque isolato se non trova il cliente. Può
trovare un ambito in più, questo è vero, però poi in
quell’ambito si riverserebbero in tanti e la situazione alla lunga non cambierebbe. Perché una volta che stabilisco nuovi confini e viene definito che
gli orientatori devono essere necessariamente psicologi, il problema per il singolo psicologo non
cambia, accadrà solo che una valanga di giovani
psicologi si riverserà lì e il problema della ricerca
del cliente non cambia.
Pietro. Il Cnel sta facendo una specie di albo di tutte le associazioni di professionisti, ordini e non solo: la sua proposta è quella di recensire non tanto
la professione quanto le attività, recependo una
normativa europea.
Sergio. Ma cosa mi darebbe questo albo? Potere
contrattuale nei confronti della Regione sì o no?
Pietro. Tutelare le competenze e non la professione non aiuta a scardinare il potere degli ordini e a
legittimare un po’ di più i singoli professionisti?
Sergio. Sì tutelare le competenze potrebbe essere
un primo iniziale passo, dopodiché ce ne vorrebbero altri finalizzati a tutelare il valore di scambio
e a contrastare l’invasione di “oligopoli”, università in primis.
UNA CITTA’
9
storie di lavoro
L’ABBIAMO IMPAGINATO
AL CONTRARIO, ALL’ARABA
Una casa editrice nata lavorando con i detenuti che hanno condiviso il desiderio di
fare libri per i più piccoli. La voglia di sperimentare idee, ma anche formati “strani”;
una collana di libri bilingui scritti da immigrati che si traducono, e poi le fiabe, i libri
per dislessici con un font e una carta ad hoc, e ancora l’impegno civico con volumi
sulla mafia, la costituzione e l’uso del denaro... Intervista a Della Passarelli.
Della Passarelli è presidente della casa editrice
Sinnos (www.sinnoseditrice.com), che recentemente ha ricevuto il Premio Andersen per la ricchezza e il coraggio del progetto.
Dove nasce l’idea di una casa editrice?
Sono state due le strade che mi hanno condotto
qui: l’impegno politico e la passione per il teatro.
Tra l’84 e il ‘93 lavoravo al Gruppo parlamentare
di Democrazia Proletaria e ci occupavamo anche
di problemi di detenzione, degli stranieri in particolare; era nata un’associazione, Cidsi (Centro di
informazione per Detenuti Stranieri in Italia)
composta da detenuti e da volontari, che volevamo seguire perché la detenzione degli immigrati
era un fenomeno allora nuovo che desideravamo
capire e quell’esperienza sembrava interessante.
Così Dp mi diede l’incarico di seguire questo lavoro, insieme ad altre questioni specifiche, come
l’indulto per i detenuti politici.
Nello stesso periodo -premetto che io mi sono laureata in Storia del teatro- ero stata invitata ad uno
spettacolo nel carcere penale di Rebibbia. Era
un’Antigone: rimasi colpita dalla forza di questi
attori assolutamente non professionisti e sentii
che lì il teatro poteva essere uno strumento importante; così, oltre che collaborare col Cidsi, cominciai ad insegnare in un corso di teatro legato
all’università.
Dedicando sempre più tempo al carcere (passavo
lì gran parte dei miei fine settimana), si sono stabiliti dei veri e propri rapporti di amicizia con i detenuti. Alcuni di loro avevano fatto un corso di
videoimpaginazione per l’editoria che era stato
finanziato dalla Regione Lazio e decisero di
creare una cooperativa che avrebbe dovuto offrire servizi ad altri editori, come impaginare, curare la grafica, pur essendo essa stessa una casa editrice. A quel punto (siamo nel ’90) abbiamo fondato la Sinnos: sono andata io con altri volontari
da un notaio perché ovviamente i ragazzi non potevano farlo.
Sinnos vuol dire “segni”,
cercavamo un nome
evocativo, l’idea è venuta
a un detenuto sardo
Dopodiché ho detto ad Antonio Spinelli, il vero
fondatore di questa cooperativa -e che purtroppo
non c’è più- che per me comunque erano dei pazzi, perché fare dei libri dal carcere, per ragazzi, mi
sembrava una vera follia.
Nei primi tre anni li ho visti crescere e li ho sostenuti dall’esterno. Alla fine mi hanno convinto a
entrare in cooperativa e nel ’94 ne sono diventata
presidente: sono rimasta intrappolata perché avevo scritto una storia per ragazzi che era stata premiata, Antonio l’aveva voluta pubblicare e a quel
punto…
Sinnos vuol dire “segni”. L’idea è venuta a un detenuto sardo, noi cercavamo un nome che fosse
evocativo, che desse il senso del segno, della lingua e sinnos significa “segni” in sardo.
Perché avete scelto la forma della cooperativa?
Soprattutto Antonio e altri volontari, tra cui Elisa,
la nostra vicepresidente, come pure alcuni ragazzi (che ora sono andati a lavorare in altri settori o
sono tornati nel loro paese perché erano immigrati) desideravano creare una struttura in cui tutti
quanti avessimo il nostro ruolo e potessimo decidere, una struttura che avesse come obiettivo il
reinserimento dei detenuti; in particolare una cooperativa cosiddetta di tipo B, poiché ci occupiamo del reinserimento di soggetti svantaggiati e ci
impegniamo a riconvertire gli utili in altre possibilità di lavoro.
Ciò che mi rende abbastanza orgogliosa di Sinnos
è che è riuscita a mantenere realmente questa
struttura: noi prendiamo le decisioni generalmente insieme, anche discutendo animatamente e in
questi 17 anni siamo riusciti a reinserire una decina di soggetti cosiddetti svantaggiati (alcuni si sono fermati, altri sono andati via), ma soprattutto
Sinnos ha dato lavoro a tanti “liberi”. Noi abbia-
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mo grafici, impaginatori, gli stessi nostri autori
sono persone che non hanno nulla a che vedere con
il carcere. Questa scelta di uscire all’esterno credo
sia stata importante, perché resta un’iniziativa nata in carcere e però guarda oltre.
Qual è stato il percorso di Sinnos?
La primissima tappa è stata la collana i Mappamondi. Il primo presidente di Sinnos, Paolo Traniello, docente di Biblioteconomia all’Università
Roma Tre, conosceva un maestro elementare, Vinicio Ongini (oggi esperto di intercultura per il
Ministero della Pubblica Istruzione). Ebbene, Vinicio aveva un bambino filippino nella sua classe
e, anche alla luce dell’esperienza francese, si era
reso conto che presto anche in Italia sarebbero arrivati bambini stranieri per cui ci sarebbe stato bisogno di libri scritti nelle loro lingue. Così sono
nati i Mappamondi: libri bilingui scritti da immigrati che raccontano in italiano -e poi traducono
nella loro lingua- la loro storia di vita partendo dalle radici, i paesi di provenienza, per arrivare poi all’incontro con l’Italia e alla loro esperienza in questo nuovo paese.
Il passaggio dal carcere al mondo dei ragazzi è stata un’esperienza straordinaria, magica. Il fatto che
quei detenuti, che avevano vissuto esperienze terribili, abbiano voluto fare dei libri per bambini e
per ragazzi… Non so, è come se avessero intuito
che, se si semina nei piccoli… e poi i bambini sono dei fantastici mediatori culturali a tutto campo.
Dopo i Mappamondi, libri dal formato tascabile e
poco illustrati, è venuta Fiabalandia, una collana
quadrata; il primo libro è stato Il signore delle farfalle di Silvia Roncaglia e Cristiana Cerretti.
Mi ricordo che l’autrice venne a proporci il libro
in questo formato “strano” che tutti gli editori le rifiutavano. Ecco, siccome i piccoli editori sono capaci di rischiare e a noi il libro era piaciuto, abbiamo collaudato questo formato “21x21”, un grande quadrato. Era una storia inventata da Silvia sull’uguaglianza, sulla diversità; all’inizio i librai ci
dicevano che non sarebbero potuti andare in distribuzione; oggi siamo già, credo, al cinquantottesimo volume e posso dire che “funzionano”; intendo dire che noi ne stampiamo 2000 copie, ne
vendiamo circa 6-700 all’anno (se ci va bene),
quindi esauriamo le 2000 copie in due anni, due
anni e mezzo.
Oltre a Fiabalandia, destinata ai più piccoli, con
molte immagini, c’è una collana che si chiama Zefiro, sempre connessa al discorso dell’intercultura, che raccoglie fiabe e racconti narrati da immigrati a partire dalla loro tradizione personale. Vengono riscritti in italiano da loro stessi o aiutati da
un nostro autore; a curare la collana è Sofia Gallo,
una fantastica “cacciatrice” di storie. Questa collana ha una ulteriore particolarità: alla fine di ogni
libro inseriamo un approfondimento sulla struttura grammaticale della lingua d’origine.
Noi speriamo che questo possa servire agli insegnanti che hanno in classe bambini e ragazzi stranieri: sapere che i cinesi non usano alcuni verbi, o
che i peruviani non hanno il verbo avere ma ne
usano un altro, può essere molto utile.
La caratteristica particolare della Sinnos, quando
parlo di interculturalità, è che per la prima volta in
Italia il testo a fronte non è quello della lingua classica tradizionale come il greco, il latino, l’inglese,
ma diventa il tagalog, l’eritreo, il cinese, l’egiziano invece dell’arabo classico, ecc. Ciò significa
dare vita, valorizzare quello che i nuovi cittadini
hanno portato con sé, a partire dalla loro lingua.
Questo, soprattutto nelle classi, produce effetti
straordinari: per dire, il bambino egiziano, che la
maestra magari ci presenta come un ragazzino
strano, che non si integra, quando si parla della sua
cultura, della sua lingua, passa al centro dell’attenzione, i suoi compagni gli danno valore, lo
scambio diventa davvero reciproco…
Ovviamente questo tipo di percorso implica un lavoro costante con gli insegnanti. A scuola non si
arriva senza la loro collaborazione. All’inizio sono stati proprio alcuni di loro a contattarci per capire cosa si potesse fare assieme. Ora l’intercultura è diventata quasi una moda, se ne parla tantissimo, nelle linee-guida del Ministero della pubblica
UNA CITTA’
istruzione i libri bilingue sono addirittura indicati
come strumento importante. Questa è una cosa
molto recente, all’inizio invece ci cercavamo reciprocamente per capire come entrare nelle scuole, anche perché i nostri non sono testi scolastici,
cioè non possono essere adottati, quindi è tanta la
fatica degli insegnanti nel proporli alle famiglie.
Economicamente riuscite a mantenervi con i
libri?
Il settore editoriale in Sinnos ripaga gran parte delle spese, però per sopravvivere dobbiamo continuare a fare altri lavori, come quello di “service”
per altri editori, ma soprattutto elaborare progetti.
Oltre alla formazione in carcere, dal ’97 gestiamo
uno sportello d’informazione per gli immigrati in
convenzione con il V Municipio romano (con tre
persone che lavorano a tempo pieno): noi forniamo non solo tutta la modulistica, ma siamo in grado di accompagnare gli immigrati in tutte le pastoie burocratiche che si creano, dal permesso di
soggiorno al ricongiungimento familiare, come
pure la semplice carta d’identità. Contribuiamo a
snellire il lavoro destinato all’utenza italiana e
questo sportello è diventato importante anche per
la città.
così i nostri bambini possono
compiere quel gesto di aprire
il libro al contrario, che è
proprio interculturale
Per quanto riguarda la formazione in carcere, abbiamo appena presentato un progetto alla Regione Lazio, in risposta a un bando denominato
“Chance” per la formazione professionale: ciò che
possiamo offrire ovviamente è la nostra competenza sia nel campo della mediazione culturale,
che in quello dell’informatica, dell’impaginazione e della grafica.
Da poco abbiamo concluso la formazione di alcuni detenuti bibliotecari perché il sistema delle biblioteche di Roma ha aperto le biblioteche in carcere e quindi si è resa utile una formazione specifica. Noi abbiamo gestito il coordinamento dei docenti, abbiamo seguito i detenuti che dovevano lavorare per catalogare, e infine ne abbiamo anche
assunto uno!
Ma in quanti siete a fare tutto questo lavoro?
Siamo in dodici, è un numero piccolo rispetto alla
quantità d’impegni. Tieni conto che, di questi dodici, tre sono impegnati continuativamente allo
sportello (non li vediamo mai); poi c’è il “service”
(impaginazione, grafica, redazione, correzione di
bozze) per altri editori, mentre il grosso del lavoro è assorbito dalla nostra editoria: c’è tutto il commerciale da seguire, i contatti con le librerie. Finalmente da tre anni siamo distribuiti da Dehoniana Libri, un grande distributore nazionale che è
anche “umano”, con il quale si può dialogare. I nostri infatti non sono libri commerciali, non sono
apprezzati da tutti i distributori. Il nostro incubo è
il Topo, Geronimo Stilton: è presente dappertutto,
nei supermercati, con gli sconti del tre per due, regalato insieme alle merendine; i libri della Sinnos
non possono entrare in questo tipo di competizione. La collocazione ideale per i nostri libri sarebbero le biblioteche scolastiche perché noi ci occupiamo di intercultura.
Come vi promuovete?
Abbiamo imparato a fatica che essere presenti è
importante, perciò giriamo tanto, facciamo le fiere del libro più importanti in Italia: quella di Roma
Piùlibri piùliberi, che è diventata fondamentale,
poi abbiamo Bologna, con la Fiera internazionale
del libro per ragazzi, poi c’è Torino.. a queste cerchiamo di partecipare: sono un grande impegno
economico e di fatica, però pian piano le persone
si sono abituate a trovarci, c’è sempre qualcuno
che scopre e apprezza la nostra produzione di libri
in tante lingue.
Sono fondamentali anche le recensioni, il passaparola delle persone che ci seguono, i librai indipendenti specializzati che non si arrendono e le
biblioteche. Questi sono i nostri circuiti. Ora abbiamo anche un sito www.sinnoseditrice.com,
stiamo imparando, anno dopo anno correggiamo
il tiro.
Per la diffusione bisogna avere molta pazienza:
ogni libraio può avere un libro della Sinnos, però
soprattutto le grandi catene a volte non hanno voglia di ordinarli, e quindi, se qualcuno cerca un nostro libro, possono dire che è esaurito o addirittura che non esiste. Perciò ci auguriamo che i nostri
lettori non si scoraggino, che vadano da librai indipendenti, che siano disponibili ad aspettare magari qualche giorno per tornarlo a prendere…
Oltre ai temi dell’interculturalità vi siete occupati anche di mafia, della costituzione, in
qualche modo di educazione civica...
Recentemente abbiamo pubblicato La Scelta, di
Luisa Mattia, un libro che parla di mafia e che ha
ottenuto il premio Pippi 2006, un premio biennale per autrici donne per ragazzi, offerto dal Comune di Casalecchio di Reno.
Attualmente abbiamo più di 160 titoli in catalogo.
Tra le varie collane, ce n’è anche una dedicata al
diritto, Nomos, che nasce con Lorenzo e la Costituzione. E’ anche questo un libro quadrato un po’
più grande; abbiamo stampato questo testo per la
prima volta nel ’96 e continuiamo a ristamparlo.
Per il prossimo anno scolastico ne faremo un’edizione dedicata all’anniversario della nostra Costituzione che compie sessant’anni. Insieme a questo
libro sono nati Chiara e l’uso responsabile del denaro, Tina e i diritti dei bambini che mostrano ai
ragazzi che esistono delle regole, delle norme.
Questi testi contribuiscono alla crescita del futuro
cittadino. Questo è un lavoro che ci appassiona e
ci dà grandi soddisfazioni.
Il volume sulla mafia è uscito in una collana che si
chiama Zona Franca, anch’essa nata da un’idea di
Antonio Spinelli, morto nel 2005, a soli 40 anni.
La sua figura resta per noi fondamentale. Infatti,
per ricordarlo, abbiamo messo in piedi un progetto che si chiama “Le biblioteche di Antonio”: tutti gli anni noi compriamo dei libri da piccoli editori di progetto, cioè dai nostri colleghi -che sono
circa 23/24 nella nostra rete- e li doniamo ad una
biblioteca scolastica che dimostri di essere in una
zona con scarsa promozione alla lettura e però di
avere un progetto di biblioteca, di sapere come
portarla avanti.
Il primo anno la nostra scelta è caduta necessariamente sul paese di nascita di Antonio, che è San
Michele di Bari; quest’anno è stata selezionata la
scuola di Miglionico, in provincia di Matera: è una
scuola molto piccola in un paese dove non c’è
nemmeno una biblioteca comunale.
Sia a livello nazionale che internazionale, avete fatto della rete proprio una scelta strategica.
Puoi raccontare?
A livello nazionale è molto importante la rete dei
piccoli editori: per un certo periodo ci chiamavamo (eravamo allora meno di 23) “meno piccoli di
quel che sembra”. Ci siamo uniti su un obiettivo,
quello delle biblioteche scolastiche. E’ stata un’esperienza entusiasmante, anche perché devo dire
che nei primi 7-8 anni della nostra storia eravamo
visti come una piccola casa editrice nata in carcere e venivamo poco considerati dalle riviste specializzate, ci consideravano un po’“naif”. Poi pian
piano ci siamo fatti strada: abbiamo migliorato la
qualità delle nostre copertine, dei nostri illustratori (adesso ce ne sono di molto bravi che lavorano
anche per editori più importanti) e quindi si sono
accorti che c’era anche una capacità editoriale; così abbiamo cominciato insieme ad altri editori e a
librai a stimolare e a sollecitare il gruppo dei piccoli editori.
Questa rete ci consente di confrontarci, di scoprire come le nostre difficoltà siano simili a quelle
degli altri; ci scambiamo idee e soluzioni per i problemi comuni e questa condivisione è un bel successo.
Dal punto di vista internazionale invece, c’è un’istituzione che si chiama Ibby, di cui l’Italia è appena entrata a far parte. E’ una realtà importante,
anche per la sua storia: questo organismo è nato alla fine della seconda guerra mondiale per iniziativa di una signora ebrea tedesca -Jella Lepman- tenacemente convinta che la lettura avrebbe potuto
salvare i bambini tedeschi dall’orrore a cui avevano assistito; cominciò a farsi mandare in dono da
tutti i paesi dei libri per ragazzi. Adesso a Monaco
c’è la più grande biblioteca per ragazzi. L’Ibby ha
come obiettivo quello di promuovere la lettura tra
i giovani, anche sostenendo le esperienze e i libri
più meritori, dalla biblioteca che viaggia sui muli
in Palestina ai libri fatti in fotocopia in Rwanda…
Anche noi quest’anno siamo stati segnalati per gli
Outstanding Books con il libro per disabili Matteo è sordo. Infatti, oltre a fare i libri in tante lingue, ne abbiamo fatti alcuni anche in Lis, la lingua dei segni…
A questo proposito c’è un’ultima collana che voglio ricordare; si chiama Leggimi e sono libri per
tutti, ragazzi dai nove ai dieci anni, ma soprattut-
to per bambini dislessici.
L’idea viene da una piccola casa editrice che si
chiama Biancoenero con cui abbiamo fatto una
coedizione (abbiamo condiviso le scelte e le spese); Sinnos ha individuato un font adatto ai dislessici, abbiamo utilizzato una carta giallina e abbiamo applicato delle particolari “cure di stile”. Non
solo, poiché gli autori italiani non erano preparati
a scrivere per ragazzi con difficoltà di lettura, noi
abbiamo acquistato e tradotto i primi libri di questo genere da una casa editrice inglese. La prima
autrice italiana che ha scritto per noi in italiano è
stata Lia Levi che ha pubblicato L’amica di carta.
Lia Levi ha una scrittura già semplice di per sé,
quindi non è stato complicato inserire questa scrittura chiara e limpida nei parametri di questa collana che sta riscontrando un certo successo.
In Italia c’è poi l’associazione “Nati per leggere”,
sorta dall’unione tra l’Associazione Italiana Biblioteche (Aib) e l’Associazione Culturale Pediatri (in molti oggi sostengono che, invece di dare
farmaci ai bambini iperattivi, se noi leggessimo
per loro ad alta voce, questo funzionerebbe meglio). Si tratta di una splendida iniziativa che va
avanti da diversi anni: c’è un sito, così come c’è il
sito di Ibby, dove vengono consigliati i libri da leggere ad alta voce ai bambini.
a volte è faticoso gestire una
vera piccola azienda
e al contempo non perdere la
passione degli inizi
Purtroppo, dall’altra parte, abbiamo una scuola
che in genere non ha soldi per comprare libri e
nemmeno le strutture: spesso le biblioteche sono
chiuse a chiave, o gestite da insegnanti poco interessati. Tra l’altro gli insegnanti formati come bibliotecari, se non è cambiato nulla nella finanziaria e nella legge che era stata approvata quando
c’era la Moratti, nel 2008 passeranno ad altri incarichi amministrativi. C’è un ulteriore progetto
in cantiere, “Amico Libro”, per cui il Ministero
darà dei soldi alle scuole per comprare libri. Il timore è che arrivino pacchetti messi a punto dai
grandi editori proprio per entrare nelle scuole.
Noi scontiamo anche un ritardo culturale su que-
sto piano. Nella scuola francese, che pure ha tante
pecche, c’è l’ora di “biblioteca” dove i ragazzini
vanno, leggono, scelgono. Io insegno letteratura
italiana anche all’università americana e ormai gli
studenti fanno le tesine solo su internet, se la cavano con un copia e incolla anche perché gli insegnanti spesso non se ne accorgono. Però come studente non hai elaborato niente, non hai preso una
pausa, non hai pensato.
Inoltre affinché la lettura diventi un piacere e non
solo un dovere ci vuole una forma di educazione,
di esercizio. Gianni Rodari diceva che la lettura è
un sesto senso: noi non ci nasciamo come con gli
altri sensi, e quindi va allenato. Quest’azione può
essere svolta benissimo dai genitori. Ma la scuola
ha un compito importante da questo punto di vista,
perché non si legge in tutte le famiglie e invece tutti i bambini e i ragazzi hanno il diritto di leggere e
di avere dei libri a loro disposizione.
In questi ultimi anni avete pubblicato anche alcuni “scrittori migranti”.
Abbiamo pubblicato vari scrittori. Ricordo Igiaba
Scego, italo-somala, una scrittrice tra le più famose che abbiamo ospitato (infatti temo che ora parta per altri lidi…). Gli scrittori migranti sono autori che ormai utilizzano l’italiano come lingua, e
che però portano dentro un’altra tradizione, un’altra cultura, un’altra storia insomma. Questo crea
anche nella lingua italiana una specie di meticciato perché l’autore assume un certo modo di narrare, una struttura della frase che è diversa, come diversa è la forma del racconto.
Su questo tipo di scrittura c’è un grande dibattito
ed è uscito, con l’editore Città aperta, un bel libro
che s’intitola Nuovo planetario italiano, curato da
Armando Gnisci, un’antologia su quello che c’è
oggi in Italia come scrittura migrante. E’ un fenomeno molto interessante.
Devo dire che non era per noi usuale, ma recentemente abbiamo acquistato i diritti per un bellissimo libro iraniano intitolato Il mercante e il pappagallo, dove non solo abbiamo lasciato il testo in
parsi a fronte, ma l’abbiamo impaginato in modo
che possa essere aperto anche al contrario, all’araba, per così dire, così i nostri bambini possono
fare quel gesto che è proprio interculturale.
Avete avviato un rapporto privilegiato con l’Egitto…
Grazie all’Istituto di Cultura italiana, siamo andati al Cairo a presentare, insieme ad altri editori, a bibliotecari e a due librai, la produzione italiana per ragazzi. Abbiamo fatto un convegno in
cui raccontavamo i nostri progetti, affiancati da
editori egiziani che presentavano i loro. Stiamo
ora concludendo un contratto con Jakub Al Sharouni, un simpatico autore per ragazzi del Cairo,
per un libro inedito, Il tesoro delle sirene, che dovremmo pubblicare per la prossima Fiera di Torino, nel 2008, dove l’ospite d’onore sarà proprio
l’Egitto.
nella scuola francese c’è
l’ora di “biblioteca” dove
i ragazzini vanno, leggono,
scelgono...
Noi siamo interessati a importare la cultura egiziana moderna contemporanea, sia per farla conoscere ai nostri ragazzi, sia per farla leggere in italiano ai ragazzi di origine egiziana, così che si possano riconoscere, in particolare in questo autore
che viene tradotto per la prima volta nella nostra
lingua (in generale la letteratura egiziana per ragazzi è scarsamente presente nel nostro paese). E’
evidente che loro sono meno interessati ai nostri
libri, non c’è una grande immigrazione italiana in
Egitto, e poi a volte le nostre tematiche non sono
adatte, apprezzate da loro; infatti si lamentavano
proprio del fatto che non trovavano punti di contatto.
Però la vicinanza può crescere piano piano: già il
fatto di esserci conosciuti meglio (nelle fiere internazionali ci eravamo già incontrati), di essere
stati tre giorni a parlare, a scoprire anche che tipo
di pubblicazioni facevamo noi e quelle che facevano loro, può creare sinergie; per esempio la casa editrice che fa le fiabe classiche con illustrazioni fantastiche, che vadano bene con il loro formato, può tranquillamente vendere al Cairo.
Loro poi hanno album illustrati molto grandi anche per i ragazzi delle medie, da noi invece è molto faticoso portare questo tipo di produzione alle
medie.
Volendo tracciare un bilancio?
Premetto che gli ostacoli principali sono quelli
economici, e sono grossi. Dodici persone possono sembrare poche, ma per noi è un impegno gravoso anche perché siamo tutti quanti assunti regolarmente con il contratto nazionale delle cooperative. Insomma, pagare ogni mese dodici
stipendi, oltre a tutte le tasse che questi comportano...
A volte è faticoso gestire una vera piccola azienda
e al contempo mantenere la passione degli inizi.
C’è poi un altro fattore: noi siamo una cooperativa prevalentemente femminile e quasi tutte siamo
madri. Fin dall’inizio abbiamo deciso che la passione non doveva travolgerci, facendoci fagocitare dal lavoro, ci siamo quindi impegnate a mantenere orari vivibili, a non sovraccaricarci. Ecco, è
difficile tenere assieme tutto questo.
Quello a cui noi aspiriamo non sono tanto i finanziamenti a pioggia, ma circuiti alternativi più ampi. In Francia editori come noi vivono solo grazie
alle biblioteche scolastiche, non hanno bisogno di
altro mercato.
Noi vorremmo solo riuscire a vendere i nostri libri, siamo degli imprenditori come gli altri: il successo dei nostri prodotti dovrebbe essere misurato dal fatto che vengono apprezzati e quindi acquistati. Il fatto è che non riusciamo ad accedere
ad un mercato più ampio.
Quella delle biblioteche scolastiche resta per noi
una battaglia importante. Purtroppo si dà più importanza al laboratorio di informatica o all’aula
multimediale… Invece i libri sono importanti.
Leggere insegna a maturare un senso critico, a fermarsi, a riflettere…
La nostra ambizione principale è quella di scegliere libri sempre più belli, magari producendo di
meno, ma curando sempre di più la qualità sia dei
contenuti, sia della loro “confezione”.
A lato vogliamo proseguire nella formazione, e riprendere l’attività in carcere. L’ultima esperienza
a Regina Coeli è stata abbastanza positiva, come
dicevo, abbiamo assunto un ragazzo; ci piacerebbe formare un’altra persona in carcere sul nostro
lavoro di videoimpaginazione, potendo magari
accoglierlo tra noi tra circa un anno…
Che altro dire, in fondo il nostro sogno è anche quello di diventare un po’ famosi, che quando si nomina la Sinnos, dicano: “Sì, la conosciamo bene!”.
Parigi
UNA CITTA’
11
un luogo
Harlem, New York
Foto di Federico Visi
Nel luglio del 2006 alcune decine di afro-americani del Consiglio degli inquilini di Harlem
si sono recati davanti alla Fondazione di Bill Clinton al grido di “Bill go home”. L'accusa
era di quelle pesanti. La scelta di Bill Clinton, nel 2001, di trasferire lì il suo quartier generale -tra l’altro per “solidarietà” con la comunità locale- ha avuto un imprevisto effetto-boomerang. Molti dei locali infatti hanno accolto molto male la coincidenza temporale tra il
suo arrivo e il fatto che gli affitti e i prezzi delle case sono saliti alle stelle. Del resto anche
il suo discorso d’insediamento nel nuovo quartiere, quel 30 luglio del 2001, era suonato
pieno di nuove speranze, ma anche in qualche modo malaugurante: “Voglio assicurare
che cercherò di essere un buon vicino di casa per Harlem. Sono felice che il valore delle
proprietà immobiliari sia in crescita, ma non voglio che i piccoli commercianti siano costretti ad andarsene perché arrivo io”. La “gentrification”, la metamorfosi sociale ma anche urbanistica del quartiere nero di New York era in realtà iniziata da tempo. E la colpa,
più che dell’ex presidente, è del boom immobiliare di Manhattan; i grandi costruttori stanno acquistando e ammodernando interi isolati cacciando di fatto gli inquilini, come accaduto al Delano Village, un complesso di 1800 alloggi proprio nelle vicinanze degli uffici di
Clinton. Il cosiddetto “rifugio” del ceto medio nero di New York è ora la meta di giovani liberi professionisti, agenti di Borsa, imprenditori. In vista del loro arrivo, i negozi avevano
già aumentato i prezzi, costringendo i più poveri a spostarsi nel Bronx per far la spesa.
Per alcuni, tra cui il sindaco Bloomberg, la rinascita di Harlem è una rivincita sulla storia.
Il suo declino era incominciato negli anni Cinquanta, con l’afflusso dei neri dal Profondo
Sud e il progressivo allontanamento dei bianchi, man mano che Harlem acquistava la fama di un covo di criminalità e droga. Ora tra la 125a e 133a strada, da Broadway al fiume
Hudson, è prevista la creazione di un Campus della Columbia University. Per realizzarlo
verranno però rase al suolo tutte le autofficine, i laboratori e le case popolari della zona.
Sono a rischio 1600 posti di lavoro, come pure un parco sorto di recente nella zona, dopo anni di lotte per averlo. Se si dovesse arrivare alle strette l’università potrebbe avvalersi della controversa legge sugli sfratti legali, detta anche “Rimozione dei Neri” perché
usata per decenni dalle amministrazioni locali per confiscare proprietà private ed eliminare interi quartieri afro-americani in nome del “rinnovamento urbano”. In questi stessi
giorni, dopo 50 anni di attività, sta chiudendo Copeland’s, storico locale che era sopravvissuto alle rivolte degli anni caldi -ma non alla gentrification. Il proprietario di quello che
più che un ristorante era un’istituzione è molto amareggiato, ma rassegnato: le famiglie,
sia bianche che nere, della middle class, che hanno iniziato a comprare e ristrutturare i
bei palazzi dai mattoni scuri di Harlem non vanno pazze per il suo gustoso pollo fritto come i vecchi abitanti.
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Un sindacato invecchiato, pesante, con un tasso di