36 — cantiere regia
Una sala e una foresta:
«Don Giovanni»
a Aix e Salisburgo
N
di Paolo Petazzi
cantiere regia
egli allestimenti del Don Giovanni ci si trova
di fronte sempre più spesso a riscritture drammaturgiche radicali, che talvolta rischiano di imporsi come spettacoli costruiti liberamente sul capolavoro mozartiano, e forse se ne
servono, più che mettersi al
suo servizio, eppure contribuiscono a svelarne l’inesauribile grandezza almeno in
qualche aspetto, e conquistano il pubblico: a Salisburgo la
regia di Klaus Guth, che nel
2008 aveva avuto accoglienze
molto contrastate, alla ripresa
nello scorso agosto è stata applaudita senza il minimo dissenso, così come al Festival
di Aix-en-Provence ha avuto
solo applausi il Don Giovanni
inaugurale, recitato in modo
eccellente e cantato mediocremente o male, tanto che
sembrava pensato esclusivamente in funzione della regia
di Dmitri Tcherniakov. I tre
diversissimi Don Giovanni che
sono andati in scena tra maggio e agosto, a Venezia, Aix
e Salisburgo proponevano
da prospettive fra loro molto lontane il frenetico, precipitoso impulso vitale del protagonista, eppure in tutti e tre
gli spettacoli appariva determinante la suggestione delle
letture romantiche di questo
capolavoro.
Non so se Damiano Michieletto abbia avuto occasione di conoscere l’allestimento salisburghese di Guth del
2008 (ripreso nel 2010): anche Guth colloca l’intera opera in un unico ambiente che
si trasforma (mutando gli spazi molto meno, in verità, delle bellissime scene di Paolo Fantin), e mantiene l’azione in un clima notturno, tra
oscurità e penombra. I punti di contatto finiscono qui: a
Salisburgo le scene di Christian Schmidt rappresentano
(in modo naturalistico) un bosco notturno che si modifica ruotando e che sembra un incubo, come se non lasciasse mai spazio adeguato all’azione scenica. I personaggi
vestono costumi moderni e non manca un’automobile
(che usano Donna Anna e Don Ottavio e che è in panne
quando incontrano Don Giovanni e gli chiedono aiuto).
Non c’è posto (e la stessa scelta compiono Michieletto e
Tcherniakov) per i musicisti in scena nei due Finali. Nel
Finale II la cena sembra una modestissima colazione al
sacco, e al posto del Marzemino ci si deve accontentare di
una bottiglietta di birra. Guth vede l’intera vicenda come
una corsa del protagonista incontro alla morte, e gli sottrae ogni dimensione metafisica o mitica: il Commendatore ferisce Don Giovanni con un colpo di pistola al ventre, viene da lui colpito con
una mazza da baseball e riappare alla fine a scavare la fossa in cui il protagonista andrà
a cadere senza essere «ingluviato» dalle fiamme dell’inferno. Fasciato alla meglio,
con una ferita che più volte
riprende a sanguinare, Don
Giovanni cerca di trarre dalle sue ultime ore il godimento
più intenso: questa è la visione «quotidiana» che Guth ha
del personaggio. E secondo il
regista tedesco l’opera può finire con la morte del protagonista: gli sembra che le pagine
seguenti rendano meno traumatica la violenza di quella scena e siano solo una convenzionale attenuazione da
espungere. Si tratta, ovviamente, di una scelta inaccettabile, di uno dei punti deboli di uno spettacolo in cui c’è
molto da discutere; ma in cui
la qualità della realizzazione è
dal punto di vista teatrale altissima. Quanto compatibile
con la musica? Molti recitativi sono più parlati che cantati, con indugi, rallentamenti e
sottolineature che non giovano alla scorrevolezza dell’andamento generale. I cantanti
fanno prodigi nelle posizioni
più scomode e formano una
compagnia di alto livello, con
Christopher Maltman (Don
Giovanni), Erwin Schrott
(Leporello), Aleksandra Kurzak (Donna Anna), Dorothea
Röschmann (Donna Elvira), Joel Prieto (Don Ottavio),
Anna Prohaska (Zerlina). C’è
da stupirsi se il direttore Yannick Nézet-Séguin, pur essendo preferibile al grigio
Bertrand de Billy del 2008, laDon Giovanni a Aix-en-Provence.
Don Giovanni, Donna Anna e Leporello nella prima scena.
In alto: Don Giovanni e Zerlina (con Donna Elvira sullo sfondo)
prima di «Là ci darem la mano» (festival-aix.com).
cantiere regia — 37
Don Giovanni a Salisburgo.
In alto: Don Giovanni e il Commendatore durante il «duello».
La «Festa» del Finale II, la cena
(foto di Monika Ritterhaus –salzburgerfestspiele.at).
punto di riferimento palese od occulto, incarnando il bisogno di trasgressione di ogni componente della famiglia
(Donn’Anna fin dal primo incontro lo aggredisce sessualmente, e a lui, non a Masetto Zerlina rivolge le sue arie).
Il Commendatore è un pater familias che siede a capotavola all’inizio dello spettacolo (la famiglia è mostrata tutta seduta a tavola, prima che
cominci l’azione), non possiede alcuna dimensione metafisica, muore forse battendo la testa, non in un duello,
e ogni tanto riappare a prendere qualche libro prima di
tornare a capotavola nel Finale. La visione di Tcherniakov
sembra essere di totale pessimismo: non si salva nessuno
in questa famiglia da incubo e
tutti alla fine appaiono svuotati. Anche qui, inutile sottolinearlo, c’è molto da discutere; ma l’azione scenica è sempre avvincente, e tutti recitano assai meglio di come cantano a cominciare purtroppo da Bo Skovhus, ormai vocalmente scolorito Don Giovanni. Il direttore Louis Langrée imprime al tutto una cercantiere regia
scia fare e non sembra nemmeno provare a imprimere una
sua visione complessiva, appoggiandosi alla sicurezza dei
Wiener? Non so quale direttore illustre avrebbe potuto realmente stabilire una controllata collaborazione in questo
contesto teatrale, e come avrebbe potuto accettare il taglio
dell’ultima parte.
Con questa stolida omissione Guth ha perso l’occasione
di sottolineare il vuoto che si
apre nella vita di tutti i personaggi con la scomparsa di
Don Giovanni. Lo ha fatto
comprendere bene Michieletto anche attraverso la beffarda riapparizione del protagonista alla fine (ma non so se è
lecito attribuire un significato univoco a questo apparente «ritorno»), e altrettanto ha
fatto ad Aix Tcherniakov per
vie completamente diverse.
Anche ad Aix, come a Salisburgo, bisognava spesso
dimenticare il testo e l’ambientazione del libretto (le cui
parole non erano compatibili con quello che si vedeva) e
bisognava accettare l’incubo claustrofobico di un unico ambiente, per Tcherniakov la sala di una ricca casa
borghese, spazio fisso immutabile in cui tutto si svolge. Il
regista ritiene necessario che nel suo spettacolo il tempo
dell’azione si dilati nell’arco di molti mesi, e inventa stretti rapporti familiari tra tutti i
personaggi: Zerlina è figlia di
prime nozze di Donna Anna,
che è cugina di Donna Elvira,
che a sua volta è davvero moglie di Don Giovanni. Insomma Masetto, Don Giovanni e
il Commendatore fanno parte dello stesso nucleo familiare come parenti acquisiti. Perfino Leporello è considerato da Tcherniakov un giovane parente del Commendatore, nella cui casa vive. Agli occhi del regista la differenziazione delle classi sociali, evidente nel testo e nella musica
del Don Giovanni, è meno importante della soffocante compattezza del nucleo familiare, eretto a emblema di tutte le
convenzioni che il protagonista intende rovesciare ponendosi come alternativa radicale. L’alternativa fallisce, e Don
Giovanni attraversa crisi depressive (a una di queste reagisce con lo scatto furioso di «Fin ch’han dal vino»). Tuttavia attira tutti inesorabilmente in un vortice (si direbbe
in un vuoto), e in ogni momento, in ogni gesto è di tutti il
ta tensione guidando la Freiburger Barockorchester.
Spero di non essere accusato di chauvinisme se sottolineo
che il Don Giovanni della Fenice, con la regia di Michieletto, le scene di Fantin, la direzione di Antonello Manacorda e una valida compagnia di
canto regge magnificamente
il confronto con gli spettacoli di Aix e di Salisburgo, e fra i
tre meriterebbe nell’insieme il
punteggio più alto, se si volesse tentare una classifica. Ma
non per fare graduatorie ho
provato ad accostare concezioni registiche totalmente diverse e non confrontabili, che hanno ciascuna grande coerenza e forte suggestione nel proporre una chiave di lettura ben definita, nel cogliere alcuni aspetti essenziali del
celebre capolavoro (lasciandone altri in ombra). Mi ha colpito che in tutte e tre si potesse riconoscere in modi diversi il segno delle riletture romantiche del Don Giovanni, nella cupezza notturna della corsa verso la morte del protagonista ferito di Guth, nelle atmosfere oscure e livide in cui
Michieletto presenta un personaggio dall’ansiosa frenesia
erotico-vitale sotto il segno di una violenta eccitazione, in
un vortice ossessivo, nella stanchezza che più volte sembra cogliere il Don Giovanni sconfitto di Tcherniakov. ◼
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Cantiere Regia - Euterpe Venezia