Anno IV - Numero 12
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
14 Gennaio 2011
Reporter
nuovo
La mostra
Riecco i comunisti
quelli veri
Focus
Le altre cento Italie
dei dialetti
A Roma
Anche far pipì
è un dramma
Costruzioni
Ora la Salini
fa moda
DONNE IN ARMI
CARRELLATA DI FOTO DI SOLDATESSE DALLʼEUROPA E DAL MONDO
Politica
Dedicato al Cav l’ultimo numero di Limes: l’asse con Putin, i sospetti Usa, le disavventure
Fenomenologia (critica) di Silvio
Una “diplomazia pop” fallita i suoi incontri personali con i potenti
P
arlare di Berlusconi è
un’irresistibile tentazione a cui neanche le
testate più autorevoli riescono a resistere. E Limes, la rivista di geopolitica diretta da
Lucio Caracciolo, non è stata
da meno. Il presidente del
Consiglio è il protagonista
dell’intero numero ora in edicola, dal titolo “Berlusconi
nel mondo. L’asse con Putin e
i sospetti Usa. Quanto costano agli Italiani le disavventure del Cavaliere”. Trecentoquattro pagine che vivisezionano il berlusconismo e tratteggiano il fenomeno in tutte
le sue sfaccettature. Nell’editoriale, Caracciolo spiega
l’obiettivo del volume: «Memori del monito di Zhou Enlai, per cui “è troppo presto
per giudicare la rivoluzione
francese”, non azzarderemo
valutazioni sul posto di Berlusconi nella storia universale (...). La domanda cui tenteremo di rispondere è dunque: quanto e come pesa il
presidente del Consiglio più
longevo della Repubblica nel
definire rango e influenza
dell’Italia nel mondo?». Il tutto declinato non attraverso
un’analisi ad personam, ma
provando a delineare una
“geopolitica di Berlusconi”.
Una costruzione mediatica e
personalizzata che, come scri-
ASSE DI FERRO Vladimir Putin e Silvio Berlusconi in un incontro nel 2008 a Villa Certosa
ve Ilvo Diamanti, in ambito
nazionale segna indelebilmente la Seconda Repubblica
e progressivamente sostituisce
con il marketing la perdita di
forza dell’ideologia.
Il racconto dell’universo
del Cavaliere è diviso in tre
parti: i poteri, dall’impero mediatico ai rapporti con la Chiesa fino ad arrivare ai trionfi
calcistici con il Milan; il mondo degli amici, la maggior
parte dei quali discutibili (Putin, Gheddafi, Erdogan); il
resto del globo, dagli Usa alla
Cina fino all’Europa, suddiviso
in sentimenti che vanno dall’ostilità all’indifferenza nei
confronti del nostro premier.
L’origine del potere di Berlusconi è sicuramente rappresentato dal gruppo Finivest, roccaforte di famiglia
attraverso cui il Cavaliere da
trent’anni influenza e controlla il mondo dei media. Secondo Stefano Balassone il
segreto di tale longevità è una
totale passività a livello globale
abbinata al massimo controllo del mercato locale. Più difficile il legame con il Vaticano, ondivago e caratterizzato
da momenti di stretti rapporti alternati a momenti di
freddezza, causati dai comportamenti moralmente discutibili del premier ma spesso superati dal reciproco interesse. È poi il concetto di
“diplomazia pop”, centrata
sulla persona del leader e articolata attraverso incontri
personali con i potenti, ad introdurre le relazioni di Berlusconi con il resto del mondo.
Berlusconi si vanta molto della sua amicizia con Putin.
Mauro De Bonis la definisce
asimmetrica: per il premier la
cosa più importante nelle relazioni tra Russia e Italia, per
il collega russo subordinata
alle necessità dell’ex Urss.
Sullo sfondo, poi, il rapporto
speciale con il leader turco Erdogan, positivo in campo
energetico e nell’industria della difesa, visto con favore dalla Russia e con sospetto da
Washington. Anche il legame
con Gheddafi è abbastanza
contraddittorio. Accordi finanziari si mescolano a un’abbondante retorica ma tuttavia,
secondo Claudia Gazzini, la
sostanza dei rapporti tra Italia
e Libia è rimasta la stessa del
recente passato. Una diplomazia “folkloristica” che non
ha mutato le linee guida impostate dai governi precedenti. Questi gli “amici”, a cui fa
da contraltare lo scetticismo
delle superpotenze mondiali.
Per gli Usa l’Italia è un paese
ininfluente, incapace di definire un interesse nazionale e
governato, come spiega Enrico Beltramini, da un “premier maschilista, razzista e vizioso”. I cinesi sono affascinati
dal successo imprenditoriale di
Berlusconi ma lo bocciano
come uomo politico. L’Europa, invece, è passata da un sentimento di timore a uno di indifferenza, senza nascondere
il fastidio per i comportamenti
scomposti del Cavaliere.
A colloquio con il professor Giovanni Sabbatucci sul giudizio che la storia darà su Berlusconi
«Una via di mezzo tra Giolitti e Peron»
Il fenomeno Berlusconi alla
prova del tempo. Abbiamo
chiesto un parere a Giovanni
Sabbatucci, docente di Storia
contemporanea alla Sapienza
di Roma ed editorialista del
Messaggero.
Professor Sabbatucci, anche un mensile come Limes
ha dedicato un intero numero a Silvio Berlusconi. Come
verrà raccontato secondo lei
il Cavaliere tra cinquant’anni
dai libri di storia?
«La cosa certa è che verrà
raccontato a lungo e gli verrà
dedicato uno spazio proporzionato alla sua importanza in
questa fase. Bisogna considerare che l’età berlusconiana è
già durata più dell’età giolittiana e del periodo di governo
di De Gasperi o Craxi. Sono
ormai quindici anni, che diventeranno quasi venti alla
fine. Quando un politico oc-
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cupa in modo rilevante la fermazioni e del successo quindi è molto probabile che
scena politica per tanto tem- del personaggio. Lei è d’ac- si continuerà a parlare anche
po è ovvio che verrà ricorda- cordo?
delle sue vicende meno edito e le analisi si sprecheranno.
«Io penso che il gossip ficanti. Anche se probabilPer quanto riguarda il giudi- mediatico faccia parte del fe- mente il problema principale
zio sul suo conto, sono con- nomeno Berlusconi. E’ difficile sarà capire i motivi del suo
vinto che sarà oggetto di di- dire che cadrà tutto in una vi- consenso».
battito. Non sarà universal- sione storica perchè anche
Quanto e come il Cavamente condanliere ha camnato e deprecato
biato l’Italia?
come Hitler, né «In realtà lui è già un’icona pop, il che non
«Questo sarà
lodato e santifiun altro degli aresclude la possibilità di essere
cato come De
gomenti su cui
Gasperi. Sarà
discuteranno gli
anche un politico di grande rilevanza»
una via di mezzo
storici di domatra Giolitti e Peni. Si tratterà di
ron».
questo è una parte del perso- capire quanto Berlusconi sia
A questo proposito lo sto- naggio. Nelle vicende senti- stato il prodotto di un qualcosa
rico Luciano Cafagna sostie- mentali di Cavour o nel ma- che era già in atto. E’ un fatto
ne che in futuro non rimarrà trimonio esemplare di De Ga- che le forme della politica in
nulla del gossip mediatico speri non c’è niente che inci- questi anni sono cambiate,
che accompagna il premier, da in maniera rilevante sulla personalizzandosi fortemente
ma si parlerà prevalente- loro figura politica. Berlusco- non solo in Italia e non solo a
mente delle ragioni delle af- ni è un personaggio diverso e partire dall’avvento del CavaPagina a cura di Marco Cicala
liere. Il rivolgimento politicoistituzionale che ha portato
Berlusconi al potere già implicava un cambiamento. Lui
ha occupato quello spazio che
altri avevano creato e in questo senso è un prodotto. Dall’altra parte però lo ha occupato
con tale forza e tale presenza
che ha contribuito a rendere
queste trasformazioni non so
se irreversibili ma sicuramente epocali».
Il Cavaliere oggi sembra
essere ovunque. Film, libri e
canzoni a lui dedicati sono
sempre di più. Non c’è il rischio di trasformare Berlusconi in una icona pop?
«In realtà lo è già. Lui si è
presentato anche così. Si può
benissimo essere un’icona pop
ed essere un politico di grande rilevanza. E probabilmente questo è stato anche un fattore del suo successo».
L’IMMAGINE
Su di lui
film e
tanti libri
La Berlusconi-mania
dilaga nella penisola. Il
“cannibale” Silvio non
risparmia niente e la sua
immagine invade l’intero
sistema mediatico.
Direttamente o
indirettamente. Osannato
da Tg vassalli, criticato da
giornali ostili, sbeffeggiato
dalla satira feroce. Ma il
fenomeno Berlusconi non si
ferma ai media generalisti e
si snoda anche a livello
culturale. La galassia dei
libri che hanno come
protagonista il premier è
ampia e diversificata. Ce n’è
per tutti i gusti: agiografie
travestite da biografie,
denunce dei suoi presunti
misfatti (Travaglio, Gomez e
Colombo i più agguerriti);
ricostruzioni storiche
dell’epopea del Cavaliere
(La resistibile ascesa di Silvio
B.: dieci anni alle prese con la
corte dei miracoli di
Tranfaglia, L’Italia di
Berlusconi: 1993-1995 di
Montanelli e Cervi,
Berlusconi: ambizioni
patrimoniali in una
democrazia mediatica di
Ginsborg); tentativi di
inquadrare e spiegare il
berlusconismo (Elogio del
tempo nuovo: perché
Berlusconi ha vinto di
Abruzzese, La pancia degli
italiani. Berlusconi spiegato
ai posteri di Severgnini);
veri e propri trattati
filosofici (Contro i nuovi
dispotismi: scritti sul
Berlusconismo di Bobbio).
Anche al cinema la figura
del Cavaliere ha riscosso un
notevole successo. Tra le
pellicole più note spiccano
Il Caimano di Nanni
Moretti, Videocracy – Basta
apparire di Gandini e
Shooting Silvio di Carboni.
Un’attenzione spasmodica
che spesso ottiene un effetto
boomerang. Perchè come
diceva La Rochefoucault,
“parlar bene o parlar male
di una persona, l’importante
è che se ne parli”. E così
Berlusconi è sempre più
un’icona pop.
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Politica
Rivive un pezzo di storia italiana nella mostra” Avanti popolo” installata a Piazza Manfredo Fanti
E riecco i comunisti, quelli veri
Dalla fondazione (1921) allo scioglimento (1991). Documenti e mediateca
Chiara Aranci
Gli scritti originali dei Quaderni
del Carcere di Antonio Gramsci
consultabili in via digitale, le copie
invecchiate de “Il Comunista”, “Il Soviet” e “L’ordine Nuovo”, la prima
tessera del Partito Comunista Italiano
e quella dell’Associazione ItaliaRussia, “L’Unità” che annuncia la
scomparsa di Enrico Berlinguer, i verbali di riunioni importanti della Direzione del partito firmati dai segretari, manoscritti degli appunti autografati da Togliatti, il libretto del
Capogruppo, l’edizione originale
degli scritti di Gramsci in francese,
russo, spagnolo, tedesco. Questo
incredibile patrimonio viene esposto
insieme a una ricchissima documentazione digitale dell’archivio del
Pci alla mostra “Avanti Popolo, il Pci
nella storia d’Italia” che racconta i 70
anni della storia del Partito Comunista Italiano, a vent’anni dalla sua
trasformazione nel 1991 nel Partito
Democratico di Sinistra.
Un pezzo di storia italiana nelle
vicende del partito di Gramsci che
viene celebrato nell’ambito delle
manifestazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. Lunga e densa di avvenimenti la storia del partito di massa per eccellenza e nel video che ac-
LA STORIA
I lavori di apertura
del V^ Congresso
Nazionale del
Partito Comunista
Italiano tenutosi a
Roma dal 29
dicembre 1945 al 6
gennaio 1946.
Dall’archivio
dell’Istituto Gramsci
coglie il pubblico vengono mostrati i momenti salienti e più toccanti
che hanno fatto la storia del Pci: dalle poche immagini di Antonio Gramsci fino a quelle del funerale di Berlinguer a piazza San Giovanni, quando l’allora Presidente Sandro Pertini baciò la bara del segretario, nel
mezzo le manifestazioni, le lotte
sindacali, la grande avanzata elettorale del 1975.
La mostra è allestita a Roma nella Casa delle Architetture e sarà visitabile dal 14 gennaio al 6 febbra-
io. La storia di un partito non può
fare a meno di essere legata agli eventi del paese in cui si trova e a quelli
della sfera internazionale. Ecco quindi la mostra come lente d’ingrandimento sulla storia nazionale e internazionale. Intessute l’una nell’altra sono lo sfondo e il campo di azione del percorso di quello che è stato il più grande partito comunista
d’Europa dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino al suo scioglimento a Rimini nel 1991.
La mostra si articola in due livel-
timedialità e all’interattività con un
nuovo approccio alla storia. Il tutto
è disponibile e in maniera immediata
rendendo visibile quello che probabilmente sarebbe rimasto come oggetto di approfondimento per pochi
studiosi in una polverosa biblioteca.
Il materiale digitalizzato (documenti, manifesti, relazioni, fotografie) costituisce la prima tappa di un
processo di informatizzazione dell’enorme patrimonio archivistico
del Pci gestito dalla Fondazione
Istituto Gramsci e dalla Fondazione
Cespe, per una prossima e più ampia fruizione sul web. Numerosi
schermi per visionare fotografie e documenti dell’epoca sono organizzati per gruppi tematici:i giovani, i comunisti e il cinema, artisti per il PCI,
donne in lotta, partigiani e partigiane. Un modo per rivivere le attività
del partito che tanto hanno segnato
la vita politica italiana insieme ai suoi
protagonisti. Oggi come allora viene dedicato grande spazio alla grafica: nel piano superiore due esposizioni con contributi originali. Nella prima “Progetti, Confronti, Incontri” 34 designer italiani interpretano l’idea del Pci, nella seconda
“Bobo e Cipputi. Due comunisti di
carta” vengono presentate le vignette satiriche di Staino e Altan.
li: al primo piano un percorso cronologico conduce ai momenti storici
del PCI, sullo sfondo della storia
d’Italia e gli eventi della sfera internazionale individuati in sei grandi
periodizzazioni, ognuna delle quali viene approfondita in due touchscreen: nel primo, attraverso le parole chiavi, è possibile visionare il
materiale dell’epoca; nel secondo
sono presenti brevi video dello stesso periodo. Circa 1500 le fotografie
e duecento i filmati presenti nella
mostra: un grande spazio alla mul-
C’è scorta e scorta, quella del professore è atipica e si è rivista in Emilia
Per Prodi un bodyguard casareccio
Roberta Casa
Nel mare magnum di internet non esiste una sua fotografia, né se ne conosce il
nome. Eppure quest’uomo
ha affiancato l’ex premier Romano Prodi negli ultimi anni
della sua carriera. Lo abbiamo
visto sempre di sfuggita, alle
spalle del politico bolognese
per circa due anni, dal 2006 al
2008, quando rivestiva il ruolo di presidente del Consiglio.
Seguendolo ovunque, proteggendolo durante i bagni di
folla e le convention, che
espongono i parlamentari a rischi ben noti. Anche durante l’ultima uscita pubblica di
Prodi a Reggio Emilia, in occasione della festa per 150°
anniversario dell’Unità d’Italia, lui c’era e in molti lo
hanno riconosciuto. Di solito siamo abituati a vedere
robusti g-man in abito scuro
alle spalle di personalità note
sia del mondo politico che
dello spettacolo. Questa volta, invece, ciò che si intravede in secondo piano rispetto
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al politico è differente, addirittura “anomalo”. Piccolo,
calvo, tozzo, panciuto, lontano dal prototipo di James
Bond alle prese con la sicurezza personale, addestrato a
sedare tafferugli e scontri,
pronto a salvare la vita del
protetto in caso di attentati.
Questo “bodyguard” ha un
Eppure i rischi “del mestiere” esistono, basti ricordare
l’attentato di un anno fa ai
danni di Silvio Berlusconi,
quando venne colpito in pieno volto da una statuetta del
duomo di Milano. Da allora
una serie di avvenimenti violenti hanno spinto ancor più
i politici nostrani a ricorrere
Piccolo, calvo, tozzo e dall’aria paciosa,
lo segue con discrezione
in tutte le manifestazioni pubbliche
aspetto bonario, così lontano
per immagine e temperamento dalle guardie del corpo del premier in carica. Sicuramente differente dagli
oltre 2400 agenti di protezione che ogni giorno prendono
in consegna centinaia di parlamentari italiani, ancora più
lontano dai prototipi quasi
hollywoodiani che accompagnano personalità ben note al
pubblico per le strade della
città.
a scorte, in alcuni casi anche
private, che ne garantiscono
l’incolumità personale. Ma
Romano Prodi sembra semplicemente non farci caso. O
forse la ragione è diversa.
Spesso, infatti, sorge il dubbio
che le scorte siano sempre più
uno status symbol, un vezzo
irrinunciabile piuttosto che un
bisogno. Chiunque abbia provato questo “pedinamento”
logorante sa bene quanto sia
difficile convivere con tale
necessità, che annulla la privacy e riduce la libertà di
movimento. Dei 585 servizi di
“protezione ravvicinata” disposti dal ministero degli Interni, forse non proprio tutti
hanno una vera e propria ragion d’essere, e sono gli stessi militari, con i loro sindacati
di comparto, a denunciare la
situazione.
Inoltre, altro problema
attinente al servizio di scorta sono le cosiddette “tutele
eterne”, che proseguono per
anni anche dopo la fine del
mandato parlamentare. È
stato così nei casi di Oliviero Diliberto, Carlo Taormina,
Fausto Bertinotti e Marcello
Dell’Utri, che ancora oggi
passeggiano per le vie delle
città con energumeni in abito scuro e auricolare. Agenti di scorta dalla fedeltà decennale che diventano più familiari di amici e parenti.
Come nel caso di Prodi, che
fa affidamento alla sua anomala guardia del corpo, addirittura più bassa del suo
protetto.
PROTETTO Berlusconi è il politico più scortato
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Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini”
della LUISS Guido Carli
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Comitato di direzione
Sandro Acciari, Alberto Giuliani,
Sandro Marucci
Direzione e redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
tel. 0685225558 - 0685225544
fax 0685225515
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
Amministrazione
Università LUISS Guido Carli
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Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008
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Economia
A Copenaghen,
come a Roma
per la linea B, la
metropolitana parla
italiano: 17,4 km
di percorso per un
appalto che vale
1,7 miliardi di euro
da spartire con
Tecnimont e Seli
LAVORI IN CORSO Un cantiere della Salini a Roma. L’azienda guidata da Pietro Salini (a sinistra) sta già realizzando il prolungamento della seconda linea della metro
Anche la Salini ora fa moda
Le opere del gruppo italiano sono contese in tutto il mondo
U
n’italiana a Copenaghen. Venerdì scorso,
l’amministratore delegato della Salini Costruttori
s.p.a. Pietro Salini ha firmato un
contratto importante, con il
quale l’azienda da lui guidata,
a capo di un consorzio tutto italiano, si è aggiudicata la costruzione della nuova metropolitana della capitale danese.
Dopo aver costruito ponti,
dighe e autostrade in mezzo
mondo, l’ultimo fiore all’occhiello della società, leader
mondiale nel settore delle grandi opere, è l’aggiudicazione
del progetto «Cityringen»: due
tunnel di 17.4 km chilometri e
17 nuove stazioni situate a 30
metri di profondità, completamente automatizzati, dove i treni passeranno 24 ore su 24. E
tutto questo nella città che è ritenuta avere il più evoluto sistema di mobilità pubblica
d’Europa. Il cliente, cioè Metroselskabet, una società di
servizi controllata dal comune
di Copenaghen e dal ministero dei trasporti danese, pagherà alle tre società del consorzio (oltre alla Salini, la Tec-
DA IMPREGILO AD ASTALDI ALLA TORNO
Ecco gli altri nostri general contractor
Non solo Salini. A fianco del gruppo di
via della Dataria, in Italia operano altri «General Contractor», ossia società attive nel settore delle grandi opere. La più grande per
fatturato e numero di dipendenti è Impregilo: 20 mila dipendenti e un portafoglio di
contratti che vale 20,7 miliardi di euro. Tra
i progetti più noti in mano oggi al gruppo
di Milano, c’è quello per il discusso ponte
sullo stretto di Messina, presentato in via definitiva lo scorso 21 dicembre. Ma ci sono
anche autostrade e ferrovie in Sud America e numerosi impianti di termovalorizzazione in Germania.
A dividersi con Salini i lavori per il potenziamento della metropolitana di Roma c’è
la Astaldi, che si sta occupando della reanimont e la Seli) 1,7 miliardi di
euro.
L’appalto in Danimarca è
solo dell’ultimo di una serie di
ottimi risultati ottenuti sul
mercato internazionale: gli ingegneri, i tecnici ed operai del
gruppo specializzato nelle grandi opere sono richiesti in tut-
lizzazione della linea C. Quotato in borsa
dal 2002, il gruppo ha 11 mila dipendenti
e opera in 23 paesi con più di 100 cantieri.
In Cile e Perù sta costruendo due centrali
idroelettriche, in Italia ospedali e metropolitane (oltre a Roma, anche a Milano e Brescia).
Torno internazionale, che ha sede a Milano, si occupa di rete ferroviaria e autostradale in tutto il centro e il nord Italia. Torno si occupa di dighe, viadotti, centrali idroelettriche e termoelettriche, soprattutto in Europa e in Sud America. Ma nel suo «curriculum» ci sono anche due «chicche»: Eurodisney, il parco giochi di Parigi, e lo stadio di Milano, il «Giuseppe Meazza» di San
Siro.
to il mondo, dall’Azerbaijan alla
Cina. Ma questo contratto ha
per l’azienda un sapore particolare. Pur essendo già un
competitor mondiale nel settore delle costruzioni civili,
dalle dighe alle grandi vie di comunicazione, è la prima volta
che l’azienda si aggiudica un
appalto così importante in Europa, un mercato più difficile e
oggi reso ancora più asfittico e
competitivo a causa della crisi. Una misura ancora più evidente del successo la si ha leggendo le motivazioni che hanno spinto a scegliere le tre
aziende. Nella decisione di
Metroselskabet un peso importante lo ha avuto il progetto
in sé, sviluppato cercando di
portare al livello minimo l’impatto sulla popolazione residente nel corso dei lavori: un
indizio che più di altri elementi
dà la misura dell’affidabilità del
gruppo italiano. Per l’amministratore delegato Pietro Salini «l’aggiudicazione dell’appalto è un’ulteriore affermazione del “made in Italy”». Un
entusiasmo comprensibile: la
Salini Costruttori ha oggi in
piedi progetti per circa 11,6
miliardi di euro in tutto il
mondo. Se, in Italia, Salini sta
lavorando alla variante di valico autostradale tra Firenze e
Bologna e al prolungamento
della metropolitana B a Roma,
in Etiopia le tre dighe Gilbel
Gibe, le prime due già realizzate, la terza in corso d’opera,
dovrebbero portare energia
elettrica a più di 1 milione di
persone. E altri impianti per
produrre energia idroelettrica
e autostrade sono in progetto
in Algeria, Nigeria, Georgia,
Tunisia, Azerbaijan e negli
Emirati Arabi.
Sono quasi uguali alla moneta che circola nell’Ue ma valgono solo 40 centesimi
Occhio ai 2 euro, ci sono i turchi
GEMELLE Le monete a confronto sono quasi indistinguibili
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Una moneta uguale ai 2 euro ma che
vale molto meno. Lo annuncia preoccupata un’e-mail che sta raggiungendo
le caselle di posta di molte persone negli ultimi giorni e nella quale si mettono a confronto la lira turca e la moneta
dell’Ue. Risultato: sono praticamente
uguali, anche se la prima vale meno di
un quarto della seconda.
La nuova moneta di Ankara, in circolazione dal 1 gennaio 2006 e che rimpiazza la vecchia iperdeflazionata lira, è
davvero molto simile ai 2 euro. Hanno
circa la stessa dimensione, ed entrambe
hanno un anello esterno in nickel (grigio) e la parte centrale in rame (giallo
scuro). Non solo: su una delle due facce c’è la testa del leader storico del Pae-
se, Kemal Ataturk, proprio come sulle
monete europee (dove sono raffigurati ad
esempio il re di Spagna, quello del Belgio e, da noi, Dante). Le differenze sono
che, sull’altra faccia, ci sono due numeri diversi, ma, soprattutto, che la moneta
turca vale circa 40 centesimi di euro, ovvero meno di un quarto della nostra moneta.
Le due monete, insomma, sembrano
fatte apposta per confondere chi le usa
e soprattutto chi le riceve, con in prima
fila i commercianti. Per loro, la confusione tra monete è sempre un grosso problema, che si aggiunge a quello dei falsi. A Roma, per adesso, la lira turca semPagina a cura di Francesco Alfani
bra ancora non essere arrivata, ma già
parlarne fa drizzare i capelli a baristi, tabaccai e giornalai. Un edicolante racconta
che per lui il problema esiste già con le
vecchie monete da 500 lire, anche queste molto simili ai 2 euro, e che continua
a ricevere ignaro quasi ogni giorno. I baristi sono ancora più preoccupati: anche
perchè nella fretta di servire i clienti non
possono mai controllare se nel mucchio
delle monete si nasconde la patacca. I distributori automatici invece, racconta un
tecnico installatore di una azienda del settore, sono sicuri: anche se monete o banconote sono contraffatte o sbagliate, i sistemi di controllo delle macchine sono
sufficientemente sofisticati da riconoscerle e rifiutarle prontamente.
IL PROFILO
Da 70 anni
leader
del settore
Con un valore consolidato della produzione nel 2010 di circa 1,1
miliardi di euro la Salini Costruttori Spa è oggi
il terzo gruppo italiano
del settore delle costruzioni. Gli analisti lo inseriscono tra i quattro attori più influenti al mondo per quel che riguarda la produzione di centrali idroelettriche.
L’azienda è nata nel
1936 per iniziativa dell’omonima famiglia Salini, che ne detiene tuttora la proprietà. Il gruppo ha negli anni conquistato sempre più posizioni sui mercati esteri, e oggi più del 70 per
cento del suo portafoglio
lavori si divide tra Africa e Asia. Qui si è costruita un ruolo di primo
piano nel settore delle
grandi opere: impianti
idroelettrici, dighe, strade, autostrade, ponti,
reti metropolitane, aeroporti, edifici industriali e civili. Salini oggi
può contare su 29 società controllate e 31
partecipazioni in 40 diversi paesi. Ma anche
su oltre 13 mila dipendenti, la stragrande maggioranza dei quali impiegati fuori dall’Europa.
Alla fine del 2009 la
Salini costruttori Spa ha
completato l’acquisizione della Todini Costruzioni Generali, nome
storico del settore delle
grandi opere in Italia,
consolidando la sua posizione nel mercato nazionale. Con il contratto firmato in Danimarca,
il gruppo fa un altro
passo avanti verso la definitiva affermazione
come general contractor
di livello globale.
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Focus
A 150 anni dall’Unità la lingua italiana non ha cancellato le peculiarità locali, lingue vive
Le oltre cento Italie dei dialetti
Nei singoli idiomi modi di pensare, visioni del mondo, immaginari diversi
I
talia unita ma multilingue,
Italia babele di dialetti.
Osteggiati perché corruttori della lingua madre o esaltati perché contenitori di storia e cultura, a 150 anni dall’Unità i dialetti suscitano ancora un grande dibattito.
Solo sessant’anni fa un calabrese che andava a Trento rischiava di non capire i propri
connazionali. Poi arrivò la
televisione di Mike Bongiorno, che con la sua lingua
standard insegnò l’italiano ai
nuovi telespettatori. Oggi la
stessa mamma Rai ricorda ai
suoi abbonati di pagare il canone con uno spot in dialetto, provocando un vespaio di
proteste. “Sono lingue vive!”,
l’urlo a difesa degli idiomi locali risuona dalle Alpi all’Etna. Ma quali sono questi dialetti?
C’è il tabarchino, il sabino,
il logudurese. Su tutti gli oltre trecento idiomi italiani,
però, domina il toscano, che
grazie alla produzione letteraria italiana trecentesca (da
Dante a Boccaccio) si diffuse
tra le “altre genti”. L’Università
di Torino, insieme alla Società Filologica Friulana “G.I.
Ascoli”, ha tentato di mappare
questo intreccio pubblicando
l’Atlante linguistico italiano,
una raccolta di carte sulle
quali sono riprodotte, per
ogni località, le traduzioni
dialettali di un concetto o di
una frase.
Il dialetto, infatti, non è
solo una lingua: come ogni
idioma riflette un modo di
pensare, una visione del mondo, un immaginario di storia
LA MAPPA
e tradizioni, un coagulo di
sentimenti. Secondo un’indagine Istat del 2006, il 16 per
cento della popolazione italiana parla il dialetto in famiglia, il 13,2 per cento lo parla con gli amici, e solo un 5,4
per cento lo parla con estranei. Un patrimonio che, secondo l’istituto di statistica, sta
scomparendo ma che, almeno a livello fonetico, rimane
dentro ognuno di noi: chi
non distinguerebbe dall’accento un siciliano da un veneto?
Oltre che in casa, il dialetto fa la sua parte anche nelle
arti. Si prenda il caso del teatro: Roberto De Simone è
solo l’ultimo rappresentante di
una tradizione secolare che
parte dal Medioevo.
E se Manzoni andò a
“sciacquare i panni in Arno”
per adattare I promessi sposi al
dialetto toscano, oggi Camilleri fa del siciliano un punto
di forza del suo Commissario
Montalbano. È con il neorealismo di Visconti e Rossellini,
invece, che per la prima volta nella storia del cinema il
dialetto viene assunto allo
stesso livello dell‘italiano.
Ma non basta: l’Italia è divisa anche musicalmente, tanto che anche a Sanremo potranno essere presentate canzoni in dialetto. A riunire il
Belpaese, come in una sorta di
spedizione garibaldina del
suono, ci ha pensato “Dialetti d’Italia”, un cd che raccoglie
i 46 più famosi brani popolari in dialetto. Una curiosità: la
compilation si apre con l’Inno di Mameli.
Il ruolo e il valore delle parlate locali. A colloquio con l’italianista Quondam
“Una lingua è un dialetto
con un esercito e una marina”,
dicevano i linguisti. Ne parliamo con Amedeo Quondam,
professore di letteratura italiana all’Università La Sapienza di
Roma e presidente dell’Associazione degli italianisti italiani (Adi).
Qual è la differenza tra la
lingua italiana e i dialetti?
«Di storia, assetto e funzioni. Fino a Manzoni, la “questione della lingua” ha sempre
riguardato la lingua della letteratura (la comunicazione referenziale) piuttosto che la lingua dell’oralità (la comunicazione veicolare). I tanti dialetti delle aree geolinguistiche
della penisola sono stati le lingue materne delle piccole pa-
Reporter
nuovo
Sono una biodiversità da tutelare
trie. Ben presto si pone il problema di una lingua di scambio, in grado di rendere più
agevoli le relazioni interpersonali, sia professionali che private, oltre che il mercato. Fino
all‘Unità d’Italia il sistema delle lingue si è configurato più in
termini di diglossia (titolarità
di due lingue diverse per statuto e funzioni), che di bilinguismo, senza dimenticare la
parte che per secoli ha avuto il
latino come lingua franca di
certe professioni, oltre che della Chiesa».
Nella nostra storia ha vinto il toscano che con i secoli
è diventato lingua nazionale.
Sarebbe potuta andare diversamente?
«Ha vinto il toscano della
tradizione letteraria e più Petrarca (e Boccaccio) che Dante: è stato Petrarca il grande padre della lingua volgare comune a una quota minima di
italiani, fino al Sette-Ottocento, quando esplode la lingua
delle nazioni che si fanno stato. E questa dinamica si registra in pressoché tutte le lingue
europee, soprattutto a partire
dall’Ottocento, quando la lin-
gua diventa un fattore decisivo e distintivo delle nuove
identità nazionali. E non avrebbe potuto essere altrimenti,
almeno fino a quando l’accesso alla scrittura è stato limitato a un’elite».
Oggi nove italiani su dieci
parlano lo stesso idioma. Cosa
vuol dire, in una democrazia,
parlare la stessa lingua?
«È fondamentale: è parte
fondamentale delle libertà e
dei diritti. E infatti la “questione della lingua” si ripropone in termini del tutto di-
Pagina a cura di Giulia Cerasi
versi a partire dalla Rivoluzione francese, come lingua
dei “cittadini” della Nazione e
non più di alcuni suoi ceti minoritari e dominanti; con la seconda rivoluzione tipografica
(l’esplosione dei giornali), e
con la nascita della scuola
pubblica di stato».
I dialetti sono una ricchezza o un punto debole per
un’Italia che, a 150 anni dalla nascita, ancora stenta a trovare la propria identità?
«Oggi che la nuova lingua
franca globale, veicolare e referenziale, è l’inglese, in Italia
- rispetto ad altri paesi - per-
siste una quota eccezionale di
dialettofoni. E’ certamente un
patrimonio culturale: un
aspetto primario della “biodiversità” da tutelare».
Ultimamente si è notata
una rivalutazione dei dialetti anche da parte delle aziende. La Diesel, ad esempio, ha
fatto degli annunci in napoletano, mentre eBay ha contattato gli utenti utilizzando
i diversi dialetti. Come si
spiega questo fenomeno?
«Credo che sia un originale, ma forse effimero, non seriabile, modo di fare marketing, abilmente sulla scia delle discussioni che restano
aperte in Italia e che di tanto
in tanto caratterizzano persino le cronache politiche».
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Focus
Dialetti d’Italia / Le sopravvivenze Fioccano espressioni idiomatiche che suscitano empatia
Dallo slang al manifesto politico
La Lega, il “ghe pensi mi” di Berlusconi, il “pirla” di Mourinho, le fiction
NORD E TOSCANA
A Firenze c’è la “gorgia”
Romanesco sdoganato
Percorrendo la penisola a partire da Nord,
troviamo per primo il gruppo di dialetti galloitalici. Ne fanno parte il piemontese (con tutte le sue declinazioni: astigiano, torinese, cuneese e così via), il ligure, il lombardo (diverso tra orientale e occidentale), l’emiliano, il
romagnolo e il central-marchigiano. Poi c’è
il dialetto veneto, che a differenza delle altre
regioni del nord Italia non è una lingua gallo-italica ma ha origini proprie, “venetiche”. Ci sono anche vere e proprie lingue,
come il ladino, diffuso tra poche migliaia di
persone nelle comunità dolomitiche del Veneto e dell’Alto Adige.
Tutti molto diversi, i dialetti settentrionali
superano gli stessi confini nazionali. Il veneto
è parlato da qualche milione di persone in
Istria, il ligure anche in parte della Francia.
In compenso, a Bolzano c’è chi preferisce
usare il tedesco invece che l’italiano.
Un discorso a parte è quello del toscano,
che per molti non deve essere considerato
un dialetto, ma una versione “vernacolare”
dell’italiano. All’ombra della cupola del Duomo di Brunelleschi a Firenze abbondano i
raddoppiamenti di consonante tra una parola
e l’altra, ma scarseggiano le “c”: è il fenomeno
della gorgia toscana, a causa del quale “vado
accasa” suona tutto diverso da “affitto la
hasa”.
Dove governava il Papa Re, oggi si parlano per lo più i dialetti cosiddetti mediani: Marche, ma solo nelle province più a sud, Umbria, Lazio più qualche comune in Abruzzo e
nel sud della Toscana. Chi è nato sotto la linea ideale che passa per Orbetello e Senigallia pronuncia “chiesa”, “dieci” o “piede” con
la “e” chiusa anziché aperta, dice “annamo”
anziché “andiamo” e tronca molte parole,
come “magnà” e “cantà”.
Giuseppe Gioacchino Belli nell’800 diede
dignità letteraria al romanesco con le sue raccolte di poesie, ma oggi a Roma si parla un
dialetto molto annacquato dalle centinaia di
migliaia di persone trasferitesi nella capitale
negli ultimi 60 anni. In compenso, sono rimaste le differenze tra i quartieri: un “pariolino” parla con un filo di accento, mentre nelle borgate le espressioni sono molto più colorite e cambiano da una zona all’altra. Corrado Mantoni, il conduttore Rai, e poi la coppia Paolo Bonolis – Luca Laurenti lo hanno
sdoganato in televisione: sentire “bbello” o “pischello” non è più strano, anzi, certi modi di
dire si sono diffusi anche nel resto d’Italia.
Ci hanno pensato anche i comici, primo
tra tutti Alberto Sordi, e le serie tv come “I Cesaroni”, la più odiata dalla Lega Nord, ambientata nel quartiere romano popolare per
eccellenza, la Garbatella.
SUD
Molte influenze greche
Anche qui l’origine è nell’Italia preunitaria: i linguisti hanno ribattezzato “meridionali”
le parlate diffuse nelle regioni peninsulari dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Pensi al sud e hai subito in mente il napoletano nobile di Eduardo De Filippo e Totò,
che l’Unesco ha recentemente riconosciuto come lingua. Il campano, che ebbe
un’enorme importanza nel passaggio dal latino volgare all’italiano, oggi domina il gruppo dei dialetti meridionali: le sue espressioni
sono diventate proverbiali, anche grazie alla
grandissima diffusione della canzone partenopea.
Del gruppo fanno parte anche il molisano, il barese e il lucano. Ancora più a sud abbiamo poi il ceppo meridionale estremo, con
il greco-calabro, il calabrese e il salentino.
Da qualche anno il resto del paese si è accorto del Salento: la parte sud della Puglia
patria della “taranta” e del barocco leccese.
Gli abitanti ne hanno approfittato, e oltre a
guadagnare con un turismo in crescita costante hanno cominciato a riscoprire, insieme alle tradizioni, anche il dialetto, come segno di distinzione. Nonostante i secoli trascorsi, il calabrese contiene ancora molte forme linguistiche provenienti dal greco, e ci
sono ancora piccole comunità sia qui che in
Puglia dove si parla un miscuglio di greco,
latino e dialetto.
6
CENTRO
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M
arzo 2010, il temuto
giudice sportivo
Gianpaolo Tosel si
pronuncia in merito ad una
presunta bestemmia del calciatore del Chievo Michele Marcolini. A sorpresa nessuna squalifica. Questa la motivazione: “Il
calciatore proferiva apparentemente un’espressione gergale, in
uso nel Triveneto ed in Lombardia con becero riferimento a
Diaz e non a Dio (il diverso movimento delle labbra nella pronuncia legittima quanto meno
un’incertezza interpretativa)”.
Insomma salvato dal dialetto. Se
il calcio è il linguaggio universale che unisce i popoli, gli
idiomi locali caratterizzano i
calciatori e li avvicinano ai tifosi. Come dimenticare i memorabili show in dialetto milanese dell’ex allenatore portoghese dell’Inter Josè Mourinho
(«Non sono un pirla», «Anche
io sono un bauscia»), o la ruspante romanità del capitano
giallorosso Francesco Totti, che
a un incredulo Paolo Maldini
poco prima di battere un rigore della semifinale di Euro 2000
contro l’Olanda confessò candidamente: «Mo je faccio er cucchiaio!». Mantenne la promessa e segnò uno dei più bei penalty che la storia azzurra ricordi.
Ma non è stato solo lo sport
a sdoganare il dialetto. Oggi la
vulgata locale esce dai confini
territoriali per fare bella mostra
in tutti gli ambiti della società.
In politica, ad esempio, è ormai
quasi un vezzo utilizzare l’idioma locale per creare empatia
con gli elettori. Se Berlusconi decide di prendere in mano la situazione, il mantra è: «State
tranquilli, ghe pensi mi!». Totò
“vasa vasa”, “bacia bacia” in siciliano, è il soprannome dell’ex
governatore dell’isola e oggi senatore Udc Cuffaro, affibbiatogli dai giornalisti per l’abitudine di salutare chiunque con
due baci sulla guancia. Il leader
dell’Italia dei Valori si distingue
per il suo slang dalle forti tinte
molisane. Poi c’è la Lega, che
della difesa delle origini ha fatto un caposaldo del proprio
Quando il Papa disse
ai parroci:
“Damose da fà”
manifesto politico. Il campionario delle espressioni lumbàrd
è ampio (un classico il dispregiativo terùn per identificare gli
abitanti del meridione). Più
concretamente il Carroccio ha
fatto molte proposte di legge per
introdurre stabilmente lo studio
dei dialetti a scuola, ma anche
richiesto una serata dedicata alle
canzoni in lingue locali al Festival di Sanremo e auspicato
una televisione più attenta alle
identità regionali, in una sorta
di federalismo culturale che si
affianchi a quello fiscale e amministrativo.
La televisione è effettiva-
mente lo specchio di questa impennata nell’attenzione ai dialetti. Negli ultimi anni le fiction
più popolari sono state quelle
con una forte impronta territoriale. Su tutte spiccano la famiglia allargata dalla romanesca simpatia dei Cesaroni, le indagini nel fantomatico paesino
siciliano, Vigata, del Commissario Montalbano, le vicende
della Banda della Magliana in
Romanzo Criminale e della
mafia nel Capo dei capi. E’ paradossale come la televisione che
negli anni ’50 e ’60 ha svolto un
ruolo importante nell’alfabetizzazione degli italiani, affrancandoli dall’esclusivo utilizzo dei dialetti per comunicare e diffondendo la lingua italiana, riscopra questi ultimi
come strumento di audience e ne
sfrutti il lato comico e caratterizzante. Da un lato le nuove
tecnologie (satellite, digitale
terrestre, internet) eliminano i
confini nazionali, dall’altro il locale si fa spazio all’interno del
globale, dando vita al cosiddetto effetto glocal che è un tratto
distintivo del postmodernismo.
Del resto, anche l’indimenticato Giovanni Paolo II, il Papa
polacco predecessore di Benedetto XVI, aveva spiazzato tutti affermando durante un discorso ufficiale «semo romani,
volemose bene», concludendo
con un’esortazione ai parroci
della Capitale «damose da fà».
Dal vescovo di Roma, un vero e
proprio messaggio ecumenico
detto “cor core”.
Pagina a cura di Francesco Alfani e Marco Cicala
ISOLE
Sardegna, tante lingue
Nico, il personaggio interpretato a “Mai
dire gol” da Giovanni Storti (quello, per intenderci, del trio comico Aldo Govanni e Giacomo), era perentorio: “Il sardo è una lingua,
l’italiano un dialetto”. Che il sardo sia una lingua è ormai assodato: la questione è quante versioni ce ne siano. Un cagliaritano, che
parla il campidanese, fa fatica a capire un
gallurese, che vive al nord; per non parlare
dell’algherese, a metà tra il sardo e il catalano. Del loro idioma i sardi sono estremamente orgogliosi, al punto che sulla rivendicazione dell’autonomia linguistica si è alimentato il più vasto movimento indipendentista.
In Sicilia le diverse dominazioni hanno lasciato più di una traccia nel dialetto. Dai secoli durante i quali Palermo era la sede del
vicerè spagnolo è rimasto l’uso di dire “travagghiari” anziché lavorare, storpiatura del
castigliano “trabajo”. Altre espressioni vengono dall’arabo, come “bagghiu”, il cortile
(da “bahah”), “zibbibbu”, l’uva da vino (da
“zabib”), e “mischinu”, meschino, da “miskin”. La scarsa alfabetizzazione è una delle cause della tuttora ampia diffusione del
dialetto nelle sue molte versioni, da Trapani
a Siracusa. Anche il “picciotto” di Palermo
cambia nome spostandosi ad est, e diventa
“compare” a Messina, e “’mbare” a Catania.
Reporter
nuovo
Focus
Dialetti d’Italia / Teatro Da Arlecchino e Pulcinella a De Simone, passando per Carlo Goldoni
In scena l’eredità delle maschere
Successi a tutto campo per i testi in vernacolo. In Italia 900 compagnie
Ida Artiaco
Nel dialetto piemontese conserva
ancora il suo antico significato. Così,
secondo gli studiosi di etimologia,
“Masca”, dal latino medioevale “strega”, sarebbe l’antenato della parola
“maschera”, quel colorato, ma a
volte pauroso artefatto utilizzato fin
dalla preistoria per rituali religiosi o
feste popolari, e diventato simbolo,
a partire dalla fine del Cinquecento,
della commedia dell’arte italiana. Il
travestimento, dai palcoscenici e
dalle pagine delle sceneggiature, si è
imposto col tempo nella quotidianità
di grandi e piccoli, e non solo in occasione del Carnevale, soprattutto
perché ogni regione e ogni città del
Bel Paese ha la propria immagine riflessa nel personaggio che la raffigura
e che meglio ne sa interpretare le gioie e i tormenti. Le maschere antenate della commedia dell’arte hanno infatti origine regionale, rappresentando i caratteri considerati più tipici
dell’area geografica di provenienza,
di cui parlano il dialetto. Il tenace
mercante veneziano Pantalone, il
pedante giureconsulto bolognese
Balanzone, il coloratissimo bergamasco Arlecchino e il furbo napoletano Pulcinella sono solo alcune
delle maschere che, nel tempo, han-
MASCHERE
Sui palcoscenici di
tutta Italia e non
solo, continua il
successo dei
personaggi di
origine regionale.
Gli spettacoli
dialettali rimandano
a una serie di
situazioni legate al
quotidiano e a un
universo valoriale e
sentimentale
in cui il pubblico
si riconosce
immediatamente
no fissato anche gli abitanti odierni
di quelle terre in stereotipi difficili da
accantonare, ripresi oggi dal cinema
e dalla televisione. Chiunque può
identificarsi nella fiera del possibile
rappresentato dal teatro, in particolare quello dialettale, che ancora
oggi continua a riscuotere successo,
nonostante le maschere abbiano lasciato il posto a commedie più buffe e caricaturali. Si tratta, infatti, di
uno spettacolo eccezionalmente
vero, grazie a un linguaggio che ap-
partiene intimamente al pubblico e
che rimanda a una serie di situazioni legate al quotidiano e a un universo valoriale e sentimentale in cui
ci si riconosce immediatamente. In
Italia esistono novecento compagnie teatrali amatoriali dialettali, di
cui la maggior parte concentrate in
Veneto, patria di Carlo Goldoni, capostipite della commedia moderna,
e in Sicilia, dove Luigi Pirandello e
Nino Martoglio hanno raccolto l’eredità di Giovanni Meli. Un cult sono
diventati i lavori teatrali di Alfiero Alfieri, autore delle commedie romanesche “Er Marchese del Grillo” o
“Lassatece passà semo romani”, in
grado di rappresentare una parte di
Roma e della “romanità”. L’autore,che oggi vive in Australia, amareggiato e deluso dal comportamento delle amministrazioni che si
sono avvicendate alla guida della Capitale per lo scarso interesse dimostrato nei confronti del teatro dialettale, denuncia l’assenza di giova-
ni che intendano continuare una lunga tradizione di cui egli stesso è solo
l’ultimo esponente. «E’ difficile trovare persone che recitano in dialetto- ha confidato Alfieri in una intervista di qualche anno fa- perché
hanno paura di essere etichettate. E
non posso dargli torto. Io questa
ghettizzazione l’ho vissuta sulla mia
pelle». In Lombardia, Jacopo Rodi e
Rino Silveri continuano la tradizione della commedia in vernacolo milanese, divertente e sapida, con guizzi di cattiveria, umanissima e al
tempo stesso venata di quel tanto di
surreale che permette all’universo inverosimile di bugie e inganni di apparire realtà. A Napoli, la produzione teatrale dialettale è ancora prosperosa. Qui Eduardo De Filippo,
Totò e Raffaele Viviani, la cui filosofia è stata ereditata da Roberto De Simone, Giuseppe Barra e Vincenzo Salemme, hanno rappresentato, con
maggiore successo di altri, l’evolversi
della città e del suo popolo, attraverso
l’esasperazione della tragedia della
quotidianità che si risolve sempre in
una risata amara. D’Altronde, come
disse il grande Eduardo a Enzo Biagi, in una intervista del 1977, “fare
teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano
male”.
Cinema È gara tra produttori che inseguono il successo con film in dialetto
Sul podio, romanesco e partenopeo
Emiliana Costa
“Mamma Roma faccela te
‘na bella cantata de core”. Inizia così, con una richiesta un
po’ colorita, uno dei film più
appassionanti di Pier Paolo Pasolini. Il regista che negli anni
‘60 ha portato sul grande
schermo il popolo italiano,
con le sue fragilità, le sue
mancanze e soprattutto con la
sua lingua. Sì, perché l’autore
bolognese riabilita la parlata del
volgo, con cui ha un rapporto duplice, ma strettissimo. Da
un lato la considera un contenitore di cultura, tradizioni
ed emozioni che ha la facoltà
di conferire alle storie dei suoi
“accattoni” un significato universale. Dall’altro, utilizza il gergo locale come arma a supporto delle sue posizioni autonomiste.
Ma Pasolini non è stato il
primo a riabilitare il dialetto su
pellicola. Sono tanti i cineasti
che nel secondo dopoguerra
hanno sciolto il bavaglio alla
parlata della gente comune,
dopo gli anni di censura im-
Reporter
nuovo
posta dal regime fascista. Si
passa, dunque, dal genovese
di Gilberto Govi al siciliano
stretto di La terra trema di Luchino Visconti. Roma città
aperta (1945) di Roberto Rossellini è considerato il vero e
proprio manifesto del neorealismo, il movimento che ha
contribuito a frammentare
gnori si nasce del 1960: “Signori
si nasce, ed io lo nacqui, modestamente!”. E sempre il
principe della risata sulle tracce della Malafemmina con la
complicità di Peppino de Filippo, scambia il “ghisa” meneghino per un generale tedesco. Cadenze ed espressioni dialettali iniziano ad im-
Opere di grandi registi come Visconti e
Rossellini con attori celebri come Totò, Sordi,
Magnani, Troisi, Benigni
l’italiano standard in una fiorente e rigogliosa quantità di
sotto-lingue. Nel film, Anna
Magnani e Aldo Fabrizi mettono in scena il dramma tutto italiano dell’armistizio del
’43 e lo fanno con la proverbiale ironia capitolina. Ma è il
napoletano con la sua veracità travolgente a imporsi nelle
sale cinematografiche. Indimenticabile l’esclamazione di
Antonio De Curtis, in arte
Totò, nel lungometraggio Si-
pazzare, dunque, sulla celluloide all’italiana: dal “casanduoglio”, antico termine campano, usato da Totò in Miseria
e Nobiltà per chiamare il salumiere, all’accento lombardo di
Franca Valeri, la Cesira del Segno di Venere.
“Siamo tutti italiani”, recitava Fabrizi in Vita da cani, anche se il cinema ormai è diventato un caleidoscopio di
dialetti. La Grande guerra, capolavoro di Mario Monicelli,
consacra nel 1959 i due grandi attori romani del cinema italiano, Alberto Sordi e Vittorio
Gassman. C’è poi chi, come
Gian Maria Volonté, milanese di nascita, passa con disinvoltura dal meridionale Capo
della omicidi di Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto al settentrionale Lulù
Massa di La classe operaia va
in Paradiso. L’attore inventa
una lingua, non corrispondente a una vera parlata regionale. Questa scelta, in un
primo momento criticata dai
puristi dell’idioma locale, diventa d’uso comune nell’italica pellicola e arriva fino ai giorni nostri.
Si Ricomincia da tre negli
anni ’80. Massimo Troisi con
la sua inconfondibile cadenza
napoletana sbanca il botteghino, anche se qualche impenitente padano chiede i sottotitoli. Si importano dal teatro le caratterizzazioni regionali, dal terrunciello Diego
Abatantuono al padano Renato Pozzetto. Negli anni successivi a far concorrenza al-
GRANDISSIMI Gassman e Sordi nella Grande Guerra
l’immortale romano ci pensa
la comicità toscana, prima
con Francesco Nuti e Roberto Benigni e poi con Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Il 2008 consacra definitivamente il dialetto al cinema d’autore. Gomorra di
Matteo Garrone porta nelle
case degli italiani il dramma
nostrano della camorra. E lo
fa egregiamente, con un gergo campano quasi incomprensibile. Segno che la lingua
locale, anche nella sua impenetrabilità, riesce a trasmettere storie ed emozioni più di
quanto riesca a fare l’idioma
standard. Gli attori comici dei
nostri giorni devono quasi
tutti il loro successo allo slang
regionale. Aldo, Giovanni e
Giacomo con il loro ultimo
film, La banda dei babbi Natale, sono riusciti a tenere testa al temibile cinepanettone,
portando sul grande schermo
gli esilaranti sketch di due “polentoni” alle prese con uno
strambo palermitano. “L’italiano è una lingua parlata dai
doppiatori”, diceva il grande
Ennio Flaiano. E forse aveva
ragione.
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Focus
Dialetti d’Italia / Letteratura Perché si scrive in lingua locale. Lo spiega Ugo Vignuzzi
Si hanno spazi di maggiore libertà
Questa produzione letteraria è un mezzo per diffondere più cultura
D
ialetti sì, dialetti no. Il tema
del dialetto si fa sempre più
caldo e diventa sempre più
parte delle cronache politiche degli ultimi mesi. Ma qual è il ruolo di questo prezioso patrimonio accanto alla
lingua italiana? Reporternuovo ne ha
parlato il professor Ugo Vignuzzi, docente di dialettologia all’Università La
Sapienza di Roma.
Professor Vignuzzi qual è il peso
della produzione dialettale nel mare
magnum della letteratura italiana?
«Dipende dalle posizioni teoriche:
Croce avrebbe risposto che la letteratura dialettale d’arte è riflessa e quindi è collaborativa al resto della letteratura italiana. Contini, invece, rivisitando Croce ha sostenuto autore- atto di amore. Fino al ‘900 il dialetvolmente, e io sono perfettamente to era una lingua “della realtà”. Poi è
d’accordo, che la produzione dialet- diventato uno spazio sempre più
tale è una delle due facce della lette- aperto come spazio ulteriore sopratratura italiana. Un detto recita: “La let- tutto di soggettività lirica. Per cui oggi
teratura dialettale è visceralmente e in- si parla di neodialettalità. Si pensi a
scindibilmente collegata sin dalle un caso più unico che raro che però
origini alla letteratura italiana”. Rife- e tipico: Fabrizio De Andre’. L’artista
rendoci al modello del policentrismo, non parlava genovese, ma ha scritto
quello che De Mauro ha chiamato “Creuza de Ma’” andando a prende“Italia delle Italie”, le letterature dia- re il dialetto genovese di fine ‘800, nei
lettali come letterature
vocabolari, quello del
pluricentriche sono
testo non è il genoveLa letteratura
componenti intrinsese contemporaneo. Si
che della letteratura
parla quindi di neodialettale è
italiana. Se si pensa
dialettalità quando la
collegata a quella lingua diventa letterache d’altra parte il fiorentino dantesco prima
ria sulla base di una
italiana
di essere italiano era
soggettività personafiorentino, cioè un diale: il poeta può scriveletto».
re, al limite, perfino in una lingua che
Perché uno scrittore sceglie di non esiste. Non è detto che lo scritscrivere in dialetto? È un atto d’amo- tore debba possedere quel dialetto a
re verso la propria terra o una scel- livello parlato, ma soprattutto lo rieta di una precisa identità?
labora. Un po’ come Dante con la Di«Beh dovrebbe chiederlo a lui. Co- vina Commedia. L’opera dantesca è il
munque non trovo che sia un aut ma modello più forte di lingua letteraria
un et. Nel momento in cui si ha ma reale: nel senso che non c’ è nulun’identità, normalmente la si ama. la che contraddice il fiorentino delLa rivendicazione d’identità è un l’epoca di Dante, ma c’è molta altra
BEST
SELLER
Da alcuni anni
Andrea
Camilleri
svetta nelle
classifiche dei
libri più venduti
roba che non è fiorentino del suo periodo. Dante ci ha messo dentro tutto, anche il fiorentino che apparteneva
alla generazione dei suoi nonni. Lo
stesso oggi fanno i grandi poeti dialettali che usano il dialetto dell’aerea.
Secondo me oggi uno scrittore scrive in dialetto per esigenze di soggettivismo realistico, il che mi rendo conto, è perfettamente un ossimoro:
qualcosa che io posseggo ma su cui
posso esplicare una libertà linguistica che la lingua non mi permette».
Come si spiega il caso “Camilleri”, qual è la sua fortuna?
«Camilleri è un “contastorie”. Ha
imparato quella lingua da un contastorie, un contadino del suo podere.
Quella che usa è una lingua coltissima, infarcita di tradizioni letterarie e
trova nel dialetto uno spazio di soggettività, contemporaneamente realista, che gli permette di usare una lingua mescidata. Oggi nessuno scrive
in dialetto stretto perchè si porrebbero
due ordine di problemi:chi lo parla e
chi lo legge. Camilleri si capisce perchè anche usando parole estremamente marcate, queste sono inserite
in un contesto tale da far capire il sen-
Da 150 anni si dice che i dialetti stanno scomparendo, ma in realtà non
sono scomparsi. Che abbiano subito
delle enormi trasformazioni è vero,
perché negli anni ‘60 è finita la realtà contadina, a cui è seguita l’italianizzazione di massa della televisione.
Ma è anche vero che il glocalismo ha
portato a fenomeni di difesa locale. Io
non sono sicuro che insegnare un dialetto regionale in una certa area serva a difendere il dialetto, così come
sono convinto che scrivere in letteratura dialettale possa servire agli altri. Quello che serve sarebbe una cultura dialettale, cioè insegnare a tutti
la tradizione umana antropologica di
cui fa parte anche il dialetto, le radiso. La scelta di scrivere in dialetto ti ci dell’area. È difficile farlo, sia perché
crea degli spazi di maggior libertà e mancano i soldi, sia perché abbiamo
di maggiore gioco linguistico».
la bellezza di 8700 comuni che non
La letteratura dialettale segue le si riconoscono nella stessa tradiziostesse regole della letteratura ita- ne. Belli per esempio è un grande
liana?
però…io sono romano di prima ge«Se dialettale colta sì. Se sono due nerazione, e posso capirlo di più. Un
lingue autonome non si vede perchè tivolano fa invece fatica a identificadebbano seguire regole diverse. Il dato re la lingua di Belli come il suo diadi fatto è che appartengono alla stes- letto. In più le regioni, che gestiscosa cultura. Ecco, quello che dice no il tema, sono enti che non corriContini, fin dall’inizio,
spondono alle realtà
è l’altra faccia della
dialettali. Ad ogni
Il dialetto da
medaglia, cioè da una
modo, la letteratura diaparte abbiamo la letlettale può essere un
“lingua della
teratura alta e poi la
mezzo, ma ancora più
letteratura altra che realtà” a spazio di importante è il teatro
si fonda sui livelli bassoggettività lirica dialettale, che può essi che sono presenti
sere strumento di dianche nella commevulgazione e rafforzadia».
mento della coscienza dialettale».
L’utilizzo del dialetto in letteratura
Tra gli autori dialettali ce ne è uno
non rischia di far rimanere scono- che predilige e perchè?
sciuta, molto localizzata e di nicchia
«Tra gli autori dialettali ce ne
la produzione letteraria dialettale? O sono molti ma quelli a cui mi sento
l’utilizzo in letteratura del dialetto più vicino per affinità elettive sono
può essere il mezzo per farlo so- Belli e Di Giacomo, ma anche Piranpravvivere?
dello dialettali. Due poeti e un auto«Fare previsioni in campo di fe- re di teatro. E Camilleri che conosco
nomeni umani è sempre difficile. quasi a memoria!».
Da Pasolini a Pirandello e Gadda anche se De Sanctis lo definiva “un malerba”
In campo ci sono le grandi firme
FRIULANO Molte le poesie in
dialetto di Pier Paolo Pasolini
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“Ma che dichi? Ma leva
mano, leva!/ Ma prima assai
che lui l’avesse trovo,/ Ma sai
da quanto tempo lo sapeva/
Che ar monno c’era pure er
monno novo!”
Sono i primi versi del poeta romanesco Cesare Pascarella
del suo capolavoro “La scoperta dell’America” che raccontano come prima di andare e scoprire il mondo nuovo,
Cristoforo Colombo era già a
conoscenza della sua esistenza. Per molti “er monno
novo” non è più tanto l’America, quanto il dialetto. Un patrimonio per molti versi ancora
da scoprire sebbene sia così a
portata di mano. Il rapporto tra
letteratura e dialetto è antico e
nobile, e l’indissolubilità è il
tratto fondamentale di questa
relazione. L’esigenza di scrivere in dialetto nasce da esigenze intimistiche e identitarie. Il
dialetto come lingua di comunicazione primaria viene
inteso come legame forte con
il proprio terrritorio ed espressione dell’ identità a cui ci si riconosce. La produzione lirica
di Andrea Zanzotto, scrittore in dialetto veneto, quella in-
finita del grande Eduardo De
Filippo a Napoli, quella altrettanto prolifica del premio
Nobel Luigi Pirandello in Sicilia, quella poetica del Pasolini in lingua friulana, o quella geniale e rivoluzionaria di
Carlo Emilio Gadda hanno
contribuito alla piena affermazione della letteratura dialettale nel secondo dopoguerra: ora erede a tutti gli effetti
della grande tradizione poetica e letteraria e inserita nell’aristocratica filone della letteratura italiana accanto alla
Pagina a cura di Chiara Aranci
scuola siciliana del ‘200, passando per quella toscana fino
a Goldoni. La scelta del dialetto
diventa per i letterati, nel corso del secondo Novecento,
sempre più spesso una libera
opzione per uno strumento
espressivo efficace e pienamente dominato dallo scrivente, anche senza intenti
polemici o regressivi, proprio in relazione al fatto che
mano a mano che ci si avvicina al presente anche sul
piano sociale e culturale i
dialetti hanno riconquistato
una loro piena dignità espressiva e culturale, non sono
più ostracizzati come era accaduto in passato e anzi sono
stati in anni recentissimi, nell’ultimo trentennio all’incirca,
fortemente rivalutati su tutti
i piani. Francesco De Sanctis
scriveva a proposito del dialetto “Una malerba che la
scuola dovrebbe provvedere a
sradicare”. Oggi invece un
patrimonio infinito da proteggere e da scoprire. E la conferma viene anche dai grandi
successi di pubblico del siciliano Andrea Camilleri e del
suo Commissario Montalbano, come anche dal sardo Salvatore Niffoi, che negli ultimi
hanno scalato le classifiche
delle vendite con i loro romanzi, conquistando sempre
più lettori.
Reporter
nuovo
Cronaca
Odissea nei wc pubblici della città: per tassisti e autisti la soluzione è prendere un caffè al bar
A Roma anche far pipì è un dramma
Cinquantatré bagni per tre milioni di cittadini e migliaia di turisti
S
i sa che il bisogno arriva sempre nel momento meno opportuno, ma a Roma ritrovarsi in questa spiacevole situazione è più
facile. Perché scovare in fretta un bagno, soprattutto per chi non conosce
la città, può diventare un dramma. Per
non parlare di quelle categorie, come
i tassisti, gli autisti dei pullman e i metronotte, che passando le proprie
giornate in strada, devono arrangiarsi più degli altri.
IL TOUR Per verificare come i romani affrontano l’odissea delle toilette,
siamo andati in giro per le vie del centro. Piazza San Silvestro, con il suo wc
sotterraneo, è la prima tappa del
nostro tour. Qui, a indicare dove si
trovi l’ingresso, solo un piccolo cartello bianco con una scritta verde. Scese le scale, un corridoio conduce ai bagni. Dalla porta di quello per gli uomini proviene una strana luce azzurrina, che ricorda quella delle lampade abbronzanti. Ci sono quattro toilette, di cui due fuori uso. In uno dei
due wc sani, per chiudere la porta bisogna utilizzare un manico di scopa.
Il livello di pulizia generale sembra
buono, anche perché i servizi sono curati e sorvegliati da un custode.
DIFFICOLTA’ All’esterno c’è un
ascensore per l’accesso ai disabili. Ma
se si spinge il pulsante di chiamata,
non si muove nulla. L’apparecchio
sembra dismesso da tempo. Piazza
San Silvestro è il capolinea di molti autobus dell’Atac, il trasporto pubblico
capitolino. Un gruppetto di autisti, su
una banchina, chiacchiera per ammazzare il tempo fra un turno e l’altro. Spiegano che di solito, in corrispondenza dei vari capolinea, hanno
a disposizione dei servizi privati. Ma
se lo stimolo arriva nel bel mezzo di
una corsa, beh, lì diventa un problema. «Di solito ci arrangiamo ed entriamo in un bar. Ma lì il costo per andare in bagno equivale a quello di un
caffè, perché qualcosa bisogna pur ordinare», spiega Pietro. Sempre che,
naturalmente, il bagno del locale
non esponga il tanto temuto cartello “guasto”. Se poi l’indisponibilità del
wc sia vera o meno, questo è uno di
quei misteri che difficilmente possono
essere svelati. Un salto alla centralissima piazza di Spagna per visitare il
secondo bagno sotterraneo. Qui l’ubicazione dell’ingresso è, se possibile,
ancora più difficile da trovare, vista
l’ampiezza della piazza. Il cartello, piccolissimo, è identico all’altro. Stesse
anche le scale che conducono alla porta. Stavolta nel bagno degli uomini ci
sono due soli wc, di cui uno è chiuso per manutenzione. Rimane utilizzabile solo quello riservato ai disabili. Possiamo dire, quindi, che c’è
un gabinetto in tutta piazza di Spagna, luogo che pullula di persone a
ogni ora del giorno. Ma l’elemento più
scoraggiante ce lo fa notare Paolo, un
tassista che è in fila con altri colleghi
Reporter
nuovo
LA TESTIMONIANZA
Gioie e dolori della modernità
Sembra una scena da cinepanettone la singolare esperienza di un blogger romano alle prese con un wc automatico. La riportiamo per intero.
Segnalo un fatto realmente accaduto. Ero alla Stazione Tuscolana (Roma)
e avevo bisogno di andare al bagno... Non ero mai stato dentro la stazione; come quasi tutte le stazioni, all’esterno, lungo il binario 1, dopo la sala
controllo, ho trovato l’indicazione degli “omini” toilette. Ho provato stupore
nel trovarmi di fronte ad un bagno automatico e non al classico bagno trasandato italiano. Metto i 50 centesimi... si apre la porta, entro, il pavimento
è bagnato d’acqua... penso tra me e me: «Bene, l’autolavaggio chimico funziona, anche se lascia acqua». Aspetto il richiudersi dietro di me della porta che però si chiude non completamente lasciando uno spiraglio; penso sia
minimo e che da fuori non si possa vedere niente. Come mi tiro giù i pantaloni, zac! la porta si riapre... tiro su di corsa le braghe e la porta si richiude, le riabbasso e arizac! si riapre. Fortunatamente sulla banchina di
fronte ai bagni chimici non c’è gente o meglio ce n’è ma non ha l’angolo di
visuale per poter “ammirare” le mie natiche. Il bagno non aveva carta... mi
ha preso 50 centesimi e me l’ha fatta fare sotto... perchè impazzito! La morale è: “W i bagni turchi di una volta”.
ad aspettare clienti: «Il bagno apre tardi e chiude prestissimo, praticamente per noi è inutilizzabile». Gli orari
di attività dei servizi pubblici sono
scritti su un foglio appeso sulla porta: 10.00 – 16.40. «Quando possiamo, magari durante una pausa, lo utilizziamo, ma spesso c’è una fila interminabile. Quando arrivano le comitive, poi, è meglio lasciar perdere».
E durante le corse? Idem come sopra:
ci si arrangia, perché in giro per la città, di wc, se ne trovano pochissimi.
«Di solito, oltre ad appoggiarci a un
bar, approfittiamo dei grandi eventi,
quando magari in Piazza del Popolo
mettono i bagni chimici».
AL CAFFE’ Non è difficile dedurre
che i servizi igienici più utilizzati sono,
alla fine, quelli dei bar e dei locali. I
più gettonati sono quelli dei fast
food, dove si può anche entrare senza destare troppa attenzione e utilizzare il bagno senza dover consumare niente. Altrimenti, bar e solito, simbolico caffè. Si potrebbe pensare a una
ALLA PARIGINA In Francia sanisettes anche per i disabili
benedizione per i baristi, ma si scopre subito che non è così. È proprio
al celebre bar gelateria “Della Palma”,
non lontano dal Pantheon, che la delusione si avverte di più. «Al centro
di Roma governano i barboni e la gente incivile, basta guardarsi attorno»,
dice il cassiere, «le persone spesso
vengono qui per servirsi del bagno,
perché sanno che è pulito. Ma noi paghiamo apposta una donna per mantenerlo. E abbiamo avuto diversi
problemi».
BIZZARRIE ESOTICHE
IN AZIONE
Un utente
fotografato
mentre con
disinvoltura e
autoironia si
avvale di un
particolare
orinatoio
pubblico
(maschile)
Là, dove il pissoire induce a riflettere
Dimmi dove urini e ti dirò chi sei. Sì, perché se qualcuno non crede che la civiltà di un popolo passi anche
attraverso lo sciacquone, basta che dia un’occhiata al
sito www.urinal.net, una collezione di centinaia di fotografie di orinatoi provenienti da tutto il mondo. Tecnologici in Giappone, alternativi a Londra, eleganti a
New York, artistici a Parigi, funzionali in Olanda, decorati in Iraq, minimalisti in Germania. Insomma, a ogni
paese le sue caratteristiche. Quanto a particolarità, anche se in giro per il mondo se ne trovano a bizzeffe, chi
si distingue sono sempre loro, i cinesi e i giapponesi.
A Chongging, città cinese con 31 milioni di abitanti,
è stato costruito il bagno pubblico più grande e originale. Parte degli orinatoi sono sul tetto di un palazzo,
all’aria aperta, e i sanitari hanno le forme più strane,
come gambe sexy, teste di mostri e addirittura effigi della Madonna. Nel paese del Sol levante, le toilette sono
praticamente ovunque, in ogni struttura o esercizio commerciale, anche se, spesso, nei bagni non è disponibile la carta igienica né il sapone per lavarsi le mani.
Pagina a cura di Andrea Andrei
PASSATO GLORIOSO Eppure
uno dei segni distintivi della grande
civiltà di Roma antica era proprio nel
suo avanzato sistema idrico e fognario e nelle sue latrine. Certo, allora
c’era una concezione della privacy ben
diversa dalla nostra, ed era normale
dare sfogo ai propri bisogni fisiologici
tutti insieme e a poca distanza l’uno
dall’altro, ma di sicuro il problema
non esisteva. E pensare che, se Roma
era famosa per essere la città dei “vespasiani”, i caratteristici orinatoi oggi
in estinzione, ora la capitale italiana
da questo punto di vista è fra le città meno organizzate d’Europa.
CONFRONTI Un esempio per
tutti è Parigi, con la quale il confronto è a dir poco impietoso. Il Comune francese ha fatto installare, dal
1981 al 1986, più di 400 “sanisettes”
(bagni chimici moderni e automatizzati), sparse in tutti i quartieri della città. Addirittura in Francia esiste
un sito internet (www.baignade-interdite.com), che propone una guida alle toilette di tutto il mondo, in
cui chiunque si sia imbattuto nei servizi pubblici o nel bagno di un locale
in una qualsiasi città può scrivere la
propria valutazione secondo criteri
precisi.
I DATI Nella capitale del “bel paese”, stando ai dati pubblicati dall’Ama,
(l’azienda che a Roma si occupa di gestire i servizi igienici pubblici), sul territorio comunale ci sono soltanto 26
bagni pubblici in muratura e 27 toilette chimiche, per un esiguo totale
di 53 wc per circa tre milioni di abitanti e innumerevoli turisti. Se poi si
parla di quali di questi servizi pubblici
sia accessibile dai disabili, allora la situazione si complica. Eppure c’è chi,
come la giovane Valeria, preferisce resistere pur di vedere in giro i bagni
chimici come in Francia: «Sono
sporchissimi. Meglio tenersela». Beato chi ce la fa.
14 Gennaio 2011
9
Mondo
Maghreb tra proteste e spiragli di cambiamento. A colloquio con l’esperta di Internazionale
Ma l’Africa si sta risollevando
La ricetta: “Sviluppo autonomo delle capacità locali e autodeterminazione”
U
na fetta gigante di pianeta fatta di foreste
rigogliose e distese
sterminate di deserto. Una
popolazione povera, in alcuni
casi poverissima, che vive con
meno di 75 centesimi al giorno. L’Africa torna a fare parlare di sé per le rivolte che da
giorni attraversano le città tunisine e algerine e per i rischiosi focolai di guerra in
Sudan e Costa d’Avorio.
Promotori della protesta
nel Maghreb sono gli studenti, che chiedono ai propri governi la chance di un futuro
migliore. “Le piazze infuocate di Tunisi e Algeri sembrano
quelle di Roma, Londra e Atene – spiega Francesca Sibani,
giornalista di Internazionale . I giovani nordafricani desiderano prospettive di lavoro dignitose, proprio come i coetanei europei”. Il mediterraneo,
dunque, sembra essere attraversato dalla stessa ondata di
malcontento causata dalla crisi economica mondiale. “In realtà – aggiunge Sibani – la recessione ha soltanto sfiorato i
paesi dell’Africa del nord, a
causa dell’impoverimento dei
loro partner commerciali. Dietro le manifestazioni contro il
carovita c’è anche un’insofferenza dilagante nei confronti
dei governi autoritari di questi paesi”.
Non è meno preoccupante
la situazione in Sudan e Costa
d’Avorio, entrambi sull’orlo
della guerra civile a causa di divisioni interne alla popolazione. Il 9 gennaio scorso è cominciato a Khartoum il referendum per decidere in merito alla secessione del paese. “Si
tratta – dice la giornalista – di
un primo passo verso la pace,
dopo oltre 20 anni di conflitto”. Ma sono ancora tanti i
nodi da sciogliere, come la suddivisione dei profitti provenienti dal pregiato greggio sudanese. Nonostante la fame e
le epidemie rappresentino ancora i due grandi flagelli del
continente nero, qualcosa sembra muoversi. “L’Africa – conclude Sibani – si sta risollevando. Ha una crescita tale da
competere con quella dei giganti asiatici. La ricetta per migliorare le condizioni di vita
della popolazione è semplice:
favorire lo sviluppo delle capacità locali, lasciando poi a
loro la possibilità di autodeterminarsi, senza sgradevoli intromissioni da parte dell’Occidente dall’odore imperialistico”.
10
14 Gennaio 2011
TUNISIA
ALGERIA
COSTA D’AVORIO
SUDAN
Dopo la rivolta
Ben Ali cede
Disoccupati
in piazza
Unità nazionale
come soluzione
In gioco anche
Cina e Usa
Caroselli e cori lungo le strade.
Si è conclusa così la protesta del
popolo nordafricano contro il carovita, che ha provocato sessantasei vittime.
A poche ore dal richiamo francese sull’uso “sproporzionato”
della forza repressiva, il presidente
Ben Ali è apparso in tv, annunciando un immediato stop al rincaro dei prezzi sui beni di prima
necessità.
Il presidente ha anche assicurato che la polizia avrebbe smesso di sparare sulla folla e che non
si ricandiderà nel 2014.
Tensione altissima in Algeria
per le proteste contro i rincari dei
generi di prima necessità. I disordini sono stati particolarmente violenti ad Algeri, dove centinaia di giovani hanno lanciato pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine.
Il governo è corso ai ripari e ha
adottato misure straordinarie per
frenare l’inflazione. Secondo i
dati del Fondo Monetario Internazionale, la popolazione ha per
il 75 per cento meno di 30 anni e
il 20 per cento dei giovani è disoccupato.
Sono 22mila i rifugiati ivoriani fuggiti in Liberia sulla scia
delle tensioni post elettorali del
novembre scorso. La comunità internazionale preme perché il presidente uscente Laurent Gbago lasci il posto al nuovo eletto Alassane Outtara.
L’agenzia dei rifugiati dell’Onu
sta incrementando il proprio intervento umanitario nella zona,
ma secondo gli osservatori “l’unica soluzione possibile per pacificare la situazione sarebbe quella
di un governo di Unità nazionale”.
E’ cominciato il 9 gennaio
scorso il referendum per decidere in merito alla suddivisione del
paese africano, in Sudan del sud,
a prevalenza cristiana e Sudan del
nord, abitato da musulmani. A
chiedere l’indipendenza sono le regioni meridionali, ricche di giacimenti petroliferi. Le consultazioni rappresentano il primo passo verso la pace, dopo oltre 20
anni di conflitto. Il Sudan è uno
degli scacchieri sul quale si gioca
una partita più grande. Quella tra
Cina e Usa per la conquista delle risorse energetiche.
Usa, dopo l’attentato a Gabrielle Giffords si rinfocola il dibattito sugli sceriffi fai da te
La pistola di Tucson è uno status symbol
Con il massacro in Arizona dell’otto gennaio scorso si riapre in America l’annosa questione del grilletto
facile. Sì, perché se in Italia
per ottenere il porto d’armi
è necessario superare i numerosi sbarramenti imposti
dalla legge, negli Stati Uniti gli amanti della colt sono
protetti dalla Costituzione.
Da oltre 200 anni, infatti, il
secondo emendamento sancisce il diritto a essere armati, anche se la sua interpretazione è da sempre oggetto di acceso dibattito. La
morte di sei persone e le gravissime ferite riportate dalla deputata democratica Gabrielle Giffords hanno rialimentato le polemiche che
emergono ogni qualvolta
qualche squilibrato fa strage di innocenti. Ma la ri-
chiesta di introdurre con- dal killer in un negozio af- scottanti, visto che quello
trolli più rigidi avanzata da follato da famiglie.
delle fire-arms è un terreno
esponenti del Congresso
“Quanto è accaduto a sul quale i pesi massimi
continua a infrangersi con- Tucson è un terribile pro- della politica si muovono
tro il muro eretto dai “si- memoria sulla violenza da con cautela. Ridurre il nugnori delle armi”, una del- armi da fuoco che si registra mero degli sceriffi fai da te
le lobby americane più po- ogni singolo giorno in Ame- in stati come l’Arizona è di
tenti che riesce a mettere rica”, ha affermato il sinda- fatto impossibile. Nel 2008
d’accordo dela Corte Sumocratici e reprema dichiapubblicani.
rò incostitu“Quanto è accaduto è un terribile
Era già accazionale una
duto dopo i promemoria sulla violenza da armi da fuoco legge varata
massacri di
dal District of
che si registra ogni giorno in America”
Waco (1993),
Columbia, che
alla Columbivietava ai prone High Schopri residenti di
ol (1999) e al Virginia Tech co di New York Michael avere pistole e fucili. Il caso
(2007). La storia si ripete, Bloomberg, aggiungendo si trasformò in un test naanche oggi con l’omicidio in che è indispensabile un giro zionale e costrinse l’Alta
Arizona, firmato da Jared di vite sul porto d’armi, Corte a fare chiarezza sulLee Loughner con una concesso troppo facilmente. l’interpretazione dell’articoGlock 19. Pistola comprata
Si tratta di dichiarazioni lo costituzionale. Non era
Pagina a cura di Emiliana Costa
chiaro, infatti, se il diritto a
essere armati fosse solo per
le milizie organizzate o per
tutti i singoli cittadini. Più
che a nuove leggi, dunque,
il sindaco della Grande Mela
pensa a una migliore applicazione delle misure vigenti. Anche perché la maggioranza degli americani resta favorevole ai “pistolers”
e qualcuno è arrivato perfino a dire che episodi come
quello della Giffords sono la
prova che l’autodifesa è più
che mai necessaria.
Mentre imperversa il dibattito politico, nei negozi la
“pistola di Tucson” va a
ruba. Boom di vendite nell’Ohio e nello stato di New
York. La Glock diventa uno
status symbol in un paese in
cui quattro presidenti sono
stati assassinati.
Reporter
nuovo
Mondo
In aumento in tutto il mondo la presenza delle “top gun girls”. In Italia sono diecimila
L’altra metà del cielo in armi
La sociologa:«Ma la componente femminile ancora non muta la struttura”
POLONIA
CANADA
IN SQUADRA Un gruppo di soldatesse portoghesi inserite in un reggimento dell’esercito
A
FRANCIA
nfibi al posto dei tradizionali tacchi a spillo.
Uniformi monocolori al
posto di minigonne e jeans che
esaltano le curve. Banditi trucco e acconciature troppo appariscenti. Ma non fatevi ingannare: queste signore riescono a
conservare la loro straordinaria
bellezza e femminilità anche
se nascoste dietro pesanti elmetti
e occhialoni scuri. È in aumento il numero delle donne che, in
tutto il mondo, decidono di dedicarsi a tempo pieno alla carriera militare e di servire il loro
paese, impiegate spesso in pericolosi teatri internazionali di
scontro, soprattutto in Iraq e in
Afghanistan. Così, se qualche
tempo fa, andavano di moda le
ragazze pon-pon, dedite al focolare e alla famiglia, oggi spopolano le “top gun girls”, giovani
tra i 18 e i 25 anni, con la passione per il fucile, a cui non dispiace rotolarsi nel fango, combattere in prima linea contro il
nemico e affrontare le condizioni climatiche e igieniche più
dure. In Italia, a dieci anni dal
via libera all’ingresso delle donne nelle forze armate con la legge del 20 ottobre del 1999, le soldatesse sarebbero oltre diecimila, tra comandanti di compagnia, sottoufficiali alla guida
di carri armati e a bordo di navi.
Una percentuale ancora bassa,
in controtendenza rispetto alla
media nazionale degli altri Paesi dell’Unione Europea, che hanno aperto le porte alla componente rosa con largo anticipo ri-
spetto al nostro Paese. È il caso
della Francia, che ha accolto il
gentil sesso nei ranghi del suo
esercito oltre cinquanta anni fa,
pur con alcuni limiti nei ruoli di
combattimento. Ma il paese europeo con la percentuale più alta
di donne- soldato, superiore
persino a quella degli Stati Uniti d’America e del Canada, è il
Portogallo, seguito da Spagna,
Grecia e Olanda. Fanalini di
coda, la Germania e la Polonia.
Un processo di integrazione difficile in alcuni paesi, in cui le soldatesse sono spesso vittime di
abusi sessuali da parte dei loro
colleghi maschi. È il caso di
Molti i casi di violenze
ad opera
dei commilitoni
Israele, dove nel 2009 sono stati denunciati oltre quattrocento
casi di violenze su donne, per le
quali il servizio militare è obbligatorio, o che lavoravano
nell’ esercito, ma anche degli
Usa, con ben 112 episodi, commessi dai commilitoni contro soldatesse americane in Iraq, Kuwait e Afghanistan. Il passo da
vittima a carnefice è però breve.
Come dimenticare la foto, pubblicata sul social network facebook, che ritraeva l’ex soldatessa israeliana Eden Abergil mentre deride alcuni prigionieri palestinesi? Oppure le immagini
della ragazza americana che, nel
carcere di Abu Ghraib, conduce
al guinzaglio un detenuto iracheno? «Nelle forze armate il rischio che le donne si comportino come uomini c’è- spiega a ReporterNuovo Fatima Farina,
docente di Sociologia del Lavoro all’Università “Carlo Bo” di
Urbino- anche per le caratteristiche istituzionali e strutturali
dell’organizzazione, perché
l’apertura alle donne non si è accompagnata a un cambiamento
relativo alle sue strutture culturali. In Italia, solo il tre percento delle forze armate è costituito da donne, una percentuale minima, che non intacca affatto un
assetto istituzionale al maschile. Più che di assimilazione si potrebbe parlare di negazione della componente al femminile,
anche perché le forze armate tendono all’uniformità più che al riconoscimento della differenza.
Questo anche nei paesi stranieri: tutti i problemi nascono perché la femminilità, pur se integrata, non è contemplata e prevista nelle strutture culturali. Da
qui nascono quei tentativi di
adattamento da cui emergono
fatti gravi come questi». Gli ingredienti per favorire l’integrazione tra i due generi, soprattutto
in Italia, sono, secondo Farina,
tre. «Bisognerebbe cominciare a
ragionare su una maggiore trasparenza e comunicazione, uniti a provvedimenti che prendano
atto di una componente maschile
e femminile proprio nella pratica quotidiana, perché da questo
punto di vista nulla è cambiato».
TURCHIA
Pagina a cura di Ida Artiaco
Reporter
nuovo
14 Gennaio 2011
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Costume & Società
Fa discutere Hereafter, il film di Cleant Eastwood sulla vita dopo la morte. La parola agli esperti
Impossibile credere a Matt Damon
Sensitivi in contatto con lo spirito dei defunti? Solo autosuggestione
Giulia Cerasi
“Se hai paura di essere rimasto solo, sta tranquillo: non
sei solo”. Cleant Eastwood, nel
suo nuovo film Hereafter, affida a Matt Damon la risposta
alla domanda delle domande,
al quesito che da millenni attanaglia l’uomo: esiste la vita
dopo la morte? E mentre c’è
chi, la maggioranza, si rimette alle rassicuranti ma parziali risposte della religione, c’è anche chi, insoddisfatto, si mette nelle mani - è proprio il caso
di dirlo - di persone che si fanno mezzi - medium, appunto
- per comunicare con l’aldilà.
Proprio come George, il
protagonista del film, che attraverso l’unione delle mani
riesce ad avere delle visioni,
grazie ai loro - supposti - poteri soprannaturali questi sensitivi sostengono di mettersi in
contatto con lo spirito dei defunti, entrando in una sorta di
PARANORMALE
Matt Damon parla con
i defunti attraverso
il tocco delle mani
trance e parlando con la voce
della persona cara. “Poi ci
sono altri che usano la scrittura”, ci spiega Massimo Polidoro, co-fondatore insieme a
Piero Angela del Comitato ita-
liano per il controllo delle affermazioni sul paranormale
(Cicap). “Fino ad oggi - continua Polidoro - nessuno è
riuscito a dimostrare che esistono facoltà paranormali di
qualche tipo in condizioni
scientifiche. Quando si fanno
delle verifiche sperimentali in
laboratorio si scopre che esistono altre spiegazioni del tutto naturali”.
Eppure, nonostante lo scetticismo dei più, sono moltissimi gli italiani che si affidano
ai medium più disparati. Si
prenda il caso di Vanna Marchi, che insieme al mago Do
Nascimiento approfittava dell’incredulità di disperati spacciando sale da cucina e rami di
edera per rimedi contro il malocchio. Oppure la sensitiva Allison Dubois, ispiratrice della
fortunata serie tv Medium che
metterebbe a disposizione della polizia di Phoenix le sue doti
paranormali. Ma il caso emblematico è sicuramente quello di Gustavo Rol. Stimato da
personaggi illustri come Federico Fellini e temuto addirittura da Charles de Gaulle
(“quell’uomo legge nel pensiero e non possiamo rischiare che i segreti dello Stato
francese vengano a conoscenza di estranei”), per mezzo secolo Rol ha affascinato con presunti poteri come la telepatia
e la chiaroveggenza, ma anche
l’attraversamento di superfici e
i viaggi nel tempo. Durante la
sua vita, però, si è sempre opposto a qualsiasi controllo
scientifico. “Questi personaggi - illustra Polidoro - hanno sicuramente una personalità
molto forte, molto carismatica
e suggestiva, in grado di affascinare le persone che incontrano. Molti di loro, poi, hanno una forte empatia che riescono a capire cosa vuole chi
gli sta di fronte”. “Le persone
che contattano i medium dice il membro del Cicap hanno un bisogno molto forte di farsi rassicurare perché
non riescono ad accettare l’idea
che dopo la morte non c’è
niente. La possibilità di parlare coi morti, invece, dà la conferma che esiste qualcosa e che
dopo la morte si vive ancora in
qualche forma”. L’importante,
in fin dei conti, è non essere
soli. Almeno in vita.
L’invenzione di un’internauta canadese rilancia il dibattito su musica e rete
Andrea Andrei
Di rivoluzione in atto non si
può più parlare. Non fosse altro perché ormai la diffusione
pressoché incontrollata della
musica online è una realtà consolidata. E se qualcuno è ancora
preoccupato per gli effetti nefasti che internet avrebbe avuto sulla commercializzazione
della musica, qualcun altro ha
imparato come trarne vantaggio. È il caso di molti artisti che
hanno trovato nella rete una vetrina di grande rilevanza. Ma è
anche il caso di diversi siti internet che, mettendo a disposizione file musicali ascoltabili direttamente online, contribuiscono a rivitalizzare un patrimonio artistico che andrebbe altrimenti perduto. Esempio
emblematico è “lumau2.com”,
curato da Lucie, una signora canadese che ha raccolto un vasto database di canzoni di musicisti francofoni quasi del tutto dimenticati. A questi sono affiancate anche le hit parade
americane dagli anni ’50 agli
anni ’80, in cui si possono
ascoltare per intero le canzoni
di musicisti del calibro di Elvis
Priesley, Beatles e Paul Anka,
fino ad arrivare ai Queen, a Madonna, a Michael Jackson e agli
Eurythmics. Gli artisti sono
divisi per sezioni ed elencati con
tanto di foto. Basta cliccare sui
titoli delle canzoni per avviarne la riproduzione.
12
14 Gennaio 2011
Con Lucie risuonano vecchi motivi
Caricati centinaia di canzoni da ogni parte del mondo
Lucie non è un’esperta webmaster, e si vede. Il suo sito ha
una grafica abbastanza “artigianale” e l’organizzazione complessiva appare un po’ disordinata. Ma ciò che è interessante, oltre la grande varietà di contenuti (dagli sfondi per il desktop ai video umoristici), è la
mau2.com viene apprezzato
soprattutto dagli “over 60”,
che rappresentano un target che
per definizione dovrebbe essere più legato a una concezione
tradizionale della fruizione della musica. Un chiaro segno
che il processo di “democratizzazione” dell’arte avviato da
Il successo di iTunes Store dimostra che
l’industria discografica poteva sfruttare internet
in maniera più proficua
LUCIE La home page del sito canadese sugli artisti dimenticati
tecnica che la signora canadese ha escogitato per ampliare ulteriormente il suo database
musicale. Lucie, infatti, mette
a disposizione un servizio di
conversione dei file musicali
“fatto in casa”: basta inviarle per
e-mail il file che si vuole convertire (ad esempio da wav a
mp3) e lei provvede a rimandarlo indietro bello e pronto,
ma non prima di averlo inserito nella collezione del sito. Le
canzoni contenute nel database, però, non sono scaricabili.
Una cosa particolarmente
interessante è che il lavoro di lu-
internet è ormai concluso. Ed
è così che ci si accorge che forse la rete non ha solo fatto danni, ma ha contribuito a scoprire una nuova dimensione dell’arte. Se il mondo della musica oggi omaggia iTunes, il celebre programma della Apple
per la riproduzione degli mp3
che il 9 gennaio scorso ha
compiuto dieci anni, sarà comunque difficile dimenticare le
reazioni isteriche e le battaglie
forsennate dell’industria musicale contro la nuova tecnologia
telematica e in particolare verso il libero scambio di file mp3.
Come è noto internet e il conseguente fenomeno del peer to
peer è stato accolto dalle case discografiche come una vera disgrazia. Anche se poi l’iTunes
Store, che nel 2003 è stato il primo negozio online di mp3 ad
avere una portata planetaria, ha
raggiunto nel febbraio 2010 il
record di dieci miliardi di canzoni vendute.
Il successo dello store della
Apple testimonia che il fenomeno del download musicale
poteva essere sfruttato prima e
in maniera più redditizia, invece
di essere lasciato completa-
mente nelle mani della pirateria. Storicamente non è la prima volta che il sistema dell’industria musicale si dimostra restia alle innovazioni. Già con
l’invenzione della musicassetta e con la conseguente possibilità di registrare musica, di
personalizzarla e di fruirla in
maniera molto più libera,
un’ondata di sconforto attraversò i discografici di tutto il
mondo. Addirittura all’interno
della stessa Sony ci fu un aspro
contrasto fra il reparto addetto
alla produzione e alla distribuzione musicale e quello tecno-
logico che aveva appena lanciato sul mercato il primo mangianastri tascabile, il leggendario “Walkman”.
Quale sarà, poi, il futuro dei
supporti rimane tuttora il vero
punto interrogativo. La risposta potrebbe riservare delle sorprese, considerati i dati eloquenti delle vendite musicali,
che vedono un importante ritorno del vinile come supporto tra i più apprezzati. Ciò appare come una sorta di rivincita da parte dei più nostalgici,
vogliosi di un feticcio e amanti di quel rapporto sensoriale
profondo che i larghi dischi neri
sono capaci di offrire, sicuramente più significativo dei ben
più “freddi” compact disc. Se si
parla poi di largo consumo, la
soluzione più semplice da immaginare è senz’altro la scomparsa quasi totale dei supporti. D’altronde chi può dire di che
sostanza sia fatta la musica?
Forse di vinile come i vecchi 45
giri o di policarbonato come i
più recenti cd? O forse è “liquida”, come si disse con l’avvento del peer to peer? Quel che
è sicuro è che la parte che rimarrà, quella che continuerà ad
attrarre e ad emozionare, sarà
la parte che non si vede e che
non si tocca. Quella che in pochi, in secoli e secoli di storia,
sono riusciti a spiegare. Ma che,
in un modo o nell’altro, si è trovato il modo di commercializzare.
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