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Sommario
...per la storta della moda
Luigi Pruneti
22
3
Il cavaliero
nel cratere inabissò
Michela Torcellan
Il poeta
patrio
Anna Giacomini
4
26
Un 2007 all’insegna
della continuità
44
Dimore
San Giovanni
o.n.l.u.s.
46
Convegno
Giosue Carducci
47
Celebrazioni
Giuseppe Garibaldi
48
in biblioteca
72
Fregi di Loggia
I Seminari
Marco Materassi
Luigi Danesin
8
14
30
Il dolce paese di Carducci
Fabrizio Del Re
Luigi Pruneti
Giosue Carducci: il Gran Maestro
‘dell’itala gente da le molte vite’
34
Pianto antico
Sui passi di Giosue
38
Il mosaico di Otranto
Aldo Alessandro Mola
20
Il valore della laicità
nel corso della storia
Pietra Leoni
Silvia Braschi
Francesco Corona
- Spigolature
- Carducci e le vicende...
- Tempi di strofe vigile e balzante
- La belle dame...
- Giovanni Ghinazzi
- Recensioni
1
Luigi Pruneti
. . . per la storta
della moda
uesta volta ho deciso di
non disturbare Amleto.
L’ho lasciato insieme al
fido Orazio nel suo inquietante castello di Elsinore che domina possente le piagge di Danimarca, soffuse di nebbia e di malinconia.
Ritornerà, forse a Giugno e già si ripromette
di svelarci misteri e segreti, … sembra, infatti,
che nei sotterranei della fortezza abbia scovato un vecchio scrigno colmo di documenti
singolari … Staremo a vedere.
La momentanea latitanza del Principe mi
consente così di spendere due parole su
Giosue Carducci, il nostro celebre Fratello
al quale è dedicato il presente numero di
Officinae. Sono particolarmente affezionato
2
al vecchio Lione di Maremma fin da quando
il grembiule lo portavo nero insieme alla
goletta bianca e al fiocco azzurro. Allora la
maestra mi chiamava “Lucignolo” perché
ero secco e smorto come la cera delle candele.
In quegli anni, al pari dei miei coetanei,
studiavo le poesie a memoria molte delle
quali erano del Nostro. Mi commuovevo
leggendo Pianto antico, percepivo l’autunno
nei versi di San Martino e fremevo davanti
all’epica figura Uguccione che, chiuso nell’acciaio della corazza, s’accingeva a guidare
la masnada pisana contro la “pantera druda”.
Schegge di un tempo che fu, ora Giosue
Carducci e la sua opera sembrano essere
volutamente dimenticate. Cosimo Ceccuti
ricorda che ‘‘qualcuno non salverebbe più
di dieci componimenti’’ del
Poeta e che altri gli rimproverano ‘‘la conversione
alla monarchia, quasi un
colpo di fulmine, per
l’eterno femminino regale
della Regina Margherita’’.
Fa eco allo Storico Claudio
Marabini, sottolineando la
malcelata ostilità contemporanea nei confronti del
Toscano. Infine Emilio
Pasquini imputa il suo declino al Ventennio fascista
che avrebbe ‘‘esageratamente insistito sul Carducci
più retorico, più enfatico’’.
Al di là delle imperscrutabili
‘‘ragioni letterarie’’, dettate
soprattutto dalle ‘‘regole
dell’umore’’, penso che all’origine dell’oblio vi sia
anche l’esprit du temps. I
nostri anni non riescono a digerire l’uomo
Carducci, lo considerano un corpo estraneo
per quella sua assoluta indipendenza ideologica e politica, lo sentono lontano per
essere stato condizionato solo dalla propria
coscienza. Carducci, nonostante le contumelie di Rapisardi, fu un ‘‘antilecchino’’,
insensibile alla moda, all’opportunismo, alle
tendenze del momento. Non fu un monarchico convertito o un repubblicano pentito,
ma un Italiano interessato al bene del Paese.
Come poteva e può essere accettato costui,
nel piatto panorama culturale attuale? Dagli
anni Cinquanta in poi, nella Penisola, letteratura ed arte sono state sottoposte ad un
accurato vaglio ideologico, stabilendo a
priori ciò che era correttamente orientato
e quello che non rispondeva alle necessità
del momento. In virtù di questo metro fu
boicottato un capolavoro come Il gattopardo,
accusato Tolkien di essere un autore reazionario, dannato alla dimenticanza un lirico
raffinato quale Lucio Piccolo.
Infine si è giunti ad osannare le letture
dantesche di un comico e ad incensare
l’opera letteraria di un cabarettista, assurto,
fra la commozione generale, agli allori del
Nobel. Per forza di cose Carducci, uomo
che seppe “aderire ad un’idea senza restarne
succube […], impegnarsi politicamente
conservando indipendenza critica […],
demistificare tutti gli idoli, anche i propri”,
risulta inattuale.
Ritornerà ad essere ricordato, studiato, amato, quando il coraggio, il rigore morale della
scelta, l’indipendenza di pensiero riprenderanno a lumeggiare, costringendo i miasmi
del conformismo cortigiano a ritirarsi nei
sottoscala di un compiacente, indeterminato
“potere” dal quale furono generati.
Anna Giacomini
Il poeta
patrio
priamo come sempre con
l’articolo del Sovrano Gran
Commendatore Gran
Maestro Luigi Danesin,
denso di fondamentali
informazioni sulle iniziative che competono
alla sua altissima Carica. Oltre ai trionfi sul
fronte delle relazioni con l’Estero Egli ci
ragguaglia sui complessi rapporti con la
Chiesa Cattolica che, nonostante qualche
limitato quanto gratuito attacco che sembrerebbe riportarci indietro di molti anni, annovera tra le sue file un massonologo di gran
vaglia quale P.Rosario Esposito, autore di
numerosi libri e collaboratore della nostra
rivista, oggi anche Fratello Onorario della
nostra Obbedienza.
Sul fronte dell’editoria la stampa del volume
Massoneria Liberale, si aggiunge ai costanti
progressi che la Gran Loggia d’Italia consegue
in termini di divulgazione della propria
immagine e dei principi che da sempre la
ispirano. Mentre Case Editrici di tutto rispetto
la affiancano nel suo impegno culturale, dal
quale nasceranno altre prossime pubblicazioni. Per il concetto di continuità, fondamentale nelle scelte di chi amministra l’Istituzione, il Gran Maestro si affida all’opera
di Luigi Pruneti sul Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Giovanni Ghinazzi (la
cui personalità nobile e liberale ben figura
accanto a quella del grande poeta cui è dedicato il primo numero di Officinae per l’anno
2007. Celebriamo infatti l’opera e le scelte di
un uomo di grande statura, amato ed osannato, principe nelle lettere e fiero nelle passioni
politiche: Giosue Carducci (1835-1907). La
militanza in massoneria, la fede laica e repubblicana, l’abilità straordinaria nel verseggiare su qualunque metro della poesia italiana
e tante altre caratteristiche ne fecero una sorta
di icona, sacra fino ad un certo momento e
poi, per i disguidi del pensiero umano, una
stravaganza da dimenticare.
Noi oggi abbiamo il compito di scoprirne la
verità, la mente sgombra di pregiudizi, e
riprendere quanto di lui ci è rimasto di au-
tenticamente creativo e appassionato, per
rendergli un dovuto tributo di fratellanza. Il
massone lascia ai letterati il compito di un
recupero critico della sua opera, lascia allo
storico la ricollocazione corretta del pensiero
nella sua matrice, e forse lascia anche allo
psicologo il compito di ricostruire una personalità a volte contraddittoria. Il massone
oggi può a giusto diritto, finalmente libero
di dirlo, dichiarare che Giosue Carducci fu
un illustre fratello, giunto al 33° grado del
Rito Scozzese Antico ed Accettato, che ebbe
un’amicizia profonda per il Gran Maestro
Adriano Lemmi, e per Francesco Crispi e
che credette appassionatamente nella dignità
e nel diritto alla libertà dei popoli. Forse
quanto attualmente può essere accettato
senza discussione dalle opposte tendenze
critiche, l’una contro l’altra armate, sembra
proprio un indiscusso e vibrante amore di
patria unito ad fortissimo legame per la sua
terra. Una Patria da riconoscere nel luogo
dove la propria umanità configge le radici,
e che quindi è madre dei suoi uomini e non
certo il monumento atteggiato, caro al manierismo nazionalistico. Così rivisitato Carducci può riservare molte sorprese. Tra i
molti componimenti poetici marcati da un
rimare incalzante ed esasperato emergono
brani limpidi e pura liricità spesso legati a
descrizioni di paesaggio. Tra gli strali profusi
contro tiranni offensori delle libertà e quelli
datati contro un clero intransigente, si fanno
strada accorati accenti di celebrazione dei
combattenti per la libertà di ogni luogo e di
ogni tempo ed una maschia sofferenza per
i dolori privati. In questo numero di Officinae
abbiamo cercato di toccare alcuni importanti
temi che mirassero appunto a rendere massonica giustizia alla verità di Carducci. Luigi
Pruneti e Aldo A.Mola ne hanno inquadrata
la figura letteraria e storica. Mentre varie
considerazioni sul piano ermeneutico scaturiscono dalle indagini degli altri redattori.
Per quanto è stato possibile abbiamo concentrato nella rubrica In biblioteca alcune
significative testimonianze originali che speriamo saranno ben accolte, quali assaggi
invitanti ad una rilettura attenta del maestoso
e ruggente poeta patrio.
Il Direttore
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iamo giunti al 2007.
Anno che si presenta
ricco anzi dovizioso di
importanti appuntamenti con la storia.
Possiamo affermare
che proprio nel corso dei prossimi mesi
potremo confrontarci più volte con il nostro
illustre passato e derivarne qualche temporaneo bilancio, utile per dare impulsi rinnovati alla nostra Obbedienza.
Giosue Carducci e Giuseppe Garibaldi
Nel 2007 ci prepariamo a rievocare l’opera
e il pensiero di un grande letterato, Giosue
Carducci morto il 16 febbraio 1907, e quindi
la figura di un Sovrano Gran Commendatore che fa parte della sfera eletta dei simboli
incarnati: Giuseppe Garibaldi nato il 4 luglio
1807. Nei cento anni che corrono dalla
nascita dell’uno alla morte dell’altro si compì
l’epopea risorgimentale, l’Italia divenne una,
si diffusero alfabetizzazione e civiltà, la Massoneria ebbe modo di delineare le sue due
tendenze: lo schema liberale adogmatico e
per contro l’altro, quello dogmatico. Tutto
un fluire di eventi fondamentali per mettere
ben a fuoco la nostra identità collega idealmente le due date e ci invita ad alcune
riflessioni.
Rapporti con la Chiesa cattolica
In primo luogo possiamo considerare un
aspetto, che sebbene ancora non completamente risolto, rivela chiaramente l’indirizzo
verso cui desideriamo puntare le nostre
azioni. Un ottocento ribollente di sentimenti
anticlericali diretti al potere temporale dei
successori di Pietro, più attenti alle convenienze politiche che alla missione di pastori
di anime, ha compiuto il suo ciclo storico.
Nato in data non precisabile, scoppiato con
le istanze risorgimentali, l’anticlericalismo
ha concluso la sua ragion d’essere con la
fine del potere temporale dei papi. In quella
ormai lontana temperie trovarono luogo
estreme esternazioni come l’Inno a Satana
carducciano o qualche colorita invettiva
verbale dell’Eroe dei due mondi. Oggi tutto
questo appare come un pittoresco lascito
di un momento culturale datato e conchiuso, verso il quale manifestare solo un interesse
di tipo storico senza alcun altro coinvolgimento. Tant’è che è in atto presso la Gran
Loggia d’Italia degli A.L.A.M., Obbedienza
di piazza del Gesù, Palazzo Vitelleschi un
avvicinamento franco ed ampiamente tollerante, cui corrisponde una risposta libera
e civile, verso personaggi di spicco come lo
storico P.Rosario Esposito che, pur facendo
parte del clero cattolico, ha accettato con
commozione di essere insignito del grado
di Maestro Onorario della Gran Loggia
d’Italia. Si tratta di un evento che sancisce
con chiarezza la posizione della nostra Obbedienza nei confronti delle Chiese, posizione di assoluto rispetto e di serena accoglienza
verso quei loro componenti che abbiano
ben compreso come tra noi viga la più
completa tolleranza per la fede di ogni uomo.
Fede che, ricordiamo, è requisito richiesto
5
per poter entrare a far parte della Massonica
Istituzione. Purtroppo ancora qualche zona
d’ombra, dove non è giunto il raggio della
ragione illuminante, produce episodi come
le recenti arbitrarie affermazioni del Vescovo
di Trapani Mons. Francesco Miccichè cui,
peraltro, abbiamo prontamente risposto.
Si tratta oramai di casi isolati generati più
da ignoranza della nostra vera essenza o
forse da confusioni prodotte da una sorta
di provincialismo culturale.
Relazioni estere
La realtà della Gran Loggia d’Italia degli
A.L.A.M., Obbedienza di piazza del Gesù,
Palazzo Vitelleschi è proiettata verso il mondo, la ricerca della Tradizione su cui infiggiamo le nostre radici ci conduce a vivere
una condizione di sintonia estesa a tutti
coloro che credono nei principi di libertà,
uguaglianza e fratellanza, senza distinzioni
di razza, di linguaggio o di religione. Lo
dimostrano apertamente le nostre Logge in
Orienti esteri dove nel corso dei lavori mas-
6
sonici convivono nell’armonia più totale
fratelli che praticano i culti più diversi. Verso
l’Estero stiamo lavorando con grande impegno nell’ambito dell’Unione delle Potenze
Massoniche del Mediterraneo. Non possiamo dimenticare che la strada venne indicata
dallo stesso Garibaldi come obiettivo politico
e con lui Carducci, che fu pronto a chiamare
‘fratelli’ i caduti per la patria di tutti i continenti, gridando allo spirito del poeta inglese
morto per l’indipendenza greca: “tu dove
sei poeta del liberato mondo?”
Iniziative editoriali massoniche
Per ottimizzare la diffusione dei nostri princìpi riteniamo giusto favorire la produzione
di opere che quei princìpi esaltino e che,
con la capacità che ha la carta stampata di
penetrare nei bacini di utenza più impensati,
offrano i risultati dell’impegno professionale
di studiosi della nostra materia ad un mondo
profano sempre più distratto e confuso.
Nasce così la silloge di Massoneria Liberale
frutto composito di vari autori che hanno
dato corpo ad un lavoro di ampie dimensioni per le molte tematiche affrontate.
Curato dal Sovrano Gran Commendatore
Gran Maestro (nella Nostra Persona) rappresenta la quintessenza del pensiero della
Gran Loggia d’Italia ed un punto fermo
nella storia della nostra produzione editoriale, che si è valsa della casa editrice Atanor,
di remota e prestigiosa ascendenza. Per
acquisire una sempre maggior certezza della
nostra identità sono necessarie opere che,
come questa, mirino a fissare la nostra
regolarità e forniscano, con più contributi,
tutti gli elementi atti ad informare i lettori
sulla vasta realtà della Massoneria Liberale.
Così come essenziale per stabilire la nostra
regolarità è lo studio di coloro che hanno
dettato le regole e dunque la ripresa critica
di personaggi iconici quali Garibaldi e Carducci, ma anche Gran Maestri come Giovanni Ghinazzi. La monografia di quest’ultimo, uscita nel 2006, costituisce un altro
punto fermo per un approccio lucido alla
nostra Obbedienza. Luigi Pruneti, l’autore,
è riuscito, scavando nei documenti, negli
epistolari inediti, nei fatti della storia maggiore, a consegnare ai lettori un’immagine
utile a definire il coraggio la chiarezza e la
nobiltà che devono contraddistinguere Colui
che è chiamato a guidare la nostra Obbedienza. L’opera è stata divulgata da un editore
anch’esso storico, Giuseppe Laterza (si ricorda che l’antica casa editrice Laterza era
quella delle opere di Benedetto Croce, Rudolf
Steiner, ecc.), che in questi anni ha immesso
sul mercato molte opere di ispirazione massonica, e segnatamente prodotte da autori
legati alla Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M.,
Obbedienza di piazza del Gesù, Palazzo
Vitelleschi. Così come storica è la casa editrice
Atanor, che attualmente collabora con noi,
e che, fin dagli inizi del novecento (fu fondata
nel 1916), quando la sua sede era a Todi,
ha prediletto e sostenuto argomenti di frontiera per i tempi, quali: esoterismo, occultismo, magia, simbolismo, tantrismo, parap-
sicologia e massoneria. Una tale collaborazione costituisce un nuovo importante obiettivo raggiunto. Altre opere seguiranno la
linea che abbiamo tracciato con Massoneria
Liberale.
Continuità
Possiamo perciò concludere che l’impegno
alla ininterrotta continuità si sta ben articolando su vari fronti, le vie sono segnate, gli
esempi illustri confortano la nostra appartenenza, ciò che è regola è sempre presente
nella nostra operatività e non poniamo limiti
alla nostra crescita culturale. Particolare
attenzione intendiamo rivolgere alla presenza femminile nella nostra Obbedienza con
il sostegno di iniziative che mirino a mettere
in luce l’apporto della donna nella vita iniziatica. Ci accingiamo con grande serenità
ad affrontare un anno di convegni e di
celebrazioni, ma anche di bilanci e di lavoro
finalizzato al sempre maggior rafforzamento
del ruolo che le Massonerie Adogmatiche
affidano alla Gran Loggia d’Italia degli
A.L.A.M. Obbedienza di piazza del Gesù,
Palazzo Vitelleschi, che è quello di portabandiera dello schema liberale.
‘‘A far capo inoltre da questo numero, siamo
lieti di poter comunicare che la rivista Officinae
viene inviata con spedizione singola nominale
a tutti i Fratelli e e le Sorelle della Gran Loggia
d'Italia Palazzo Vitelleschi. Si tratta di una
iniziativa mirante a raggiungere nella forma
più capillare possibile tutta l’Obbedienza con
questa nostra splendida pubblicazione periodica ufficiale e che intende configurarsi non
solamente come una ulteriore novità operativa,
ma anche come un ulteriore impegno teso a
migliorare tutta la struttura culturale della
Gran Loggia d’Italia. Siamo certi, con questo
intendimento, che tale ‘arricchimento’ globale
dell’Obbedienza non potrà che riverberarsi su
tutti noi con frutti belli e copiosi.’’
P.4-5: Dettaglio e vista della Biblioteca-Salone della
GLDI a Roma; p.7: Il SGCGM Luigi Danesin nello studio
della GLDI, Roma.
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olce paese, onde portai
conforme / L’abito fiero
e lo sdegnoso canto / E
il petto ov’odio e amor
mai non s’addorme, /
Pur ti riveggo, e il cuor
mi balza in tanto.
Ben riconosco in te le usate forme / Con gli occhi
incerti tra ‘l sorriso e il pianto, / E’ in quelle
seguo de’ miei sogni l’orme / Erranti dietro il
giovanile incanto1 . Pochi sono i versi che,
come quelli di Traversando la Maremma
toscana, hanno la capacità di esprimere attaccamento ad una terra, rimpianto e affetto,
orgoglio di appartenenza e affinità elettiva.
Strofe queste di Carducci che fecero scuola,
tanto che anche Pascoli chiamò in Myricae
“dolce terra” la sua Romagna2. Continui
furono i richiami nell’opera poetica del Nostro
al Sud della Toscana da lui reputata la vera
“patria”3. In Idillio maremmano ne ricorda
“la grande Estate4”, “il mare sparso di vele5”,
il “bufolo disperso che […] salta e guata6”,
il cinghiale ferito a morte. In altre composizione la descrizione s’impregna di vitalismo
panico, diventa un canto sotteso da una forza
gioiosa, un inno antico alla natura colta nella
propria pienezza: “ … i colli sereni e le on-
deggianti / Messi tra i boschi ed i vigneti
bionde. / E fin l’orrida macchia ed il roveto
/ E la palude livida, pareano / Godere eterna
gioventù nel sole7”. In taluni casi l’alma mater
prende voce e, rivolgendosi al poeta, lo invita
a fermarsi: “… - Ben torni ormai – / Bisbigliaron ver me co ‘l capo chino - / Perché
non scendi? Perché non ristai? / Fresca è la
sera e a te noto il cammino8”. In quel paesaggio amniotico il ricordo spesso diventa
immagine ed ecco affiorare figure dolcissime,
seppur velate da un’indicibile tristezza: “Di
cima al poggio allor, dal cimitero, / Giù de’
cipressi per la dolce via, / Alta, solenne, vestita
di nero / Parvemi veder nonna Lucia: / La
signora Lucia, da la cui bocca, Tra l’ondeggiar
de i candidi capelli, / La favella toscana […]
/ Canora discendea, co ‘l mesto accento / De
la Versilia che ne nel cuor mi sta, / Come da
un serventese del trecento, / Piena di forza e
di soavità9”. Altre volte la rimembranza si
sofferma sul dato morfologico: le colline10
con le loro infinite varietà cromatiche, esaltate
da quel cielo raseno: infinito e profondo, ora
carico di azzurro ora livido e rabbuffato, nel
momento della tempesta. Vi sono poi gli
uomini: contadini, braccianti, butteri, sono
colti a sera, durante la veglia, al canto del
fuoco mentre narrano storie bellissime11, o
scorti per le viuzze dei borghi, ravvolti nei
tabarri, per proteggersi dalla furia del maestrale,
alle cui folate “urla e biancheggia il mar12”.
Maremma terra capace di catturare chi la
percorre, ignaro della sua violenta, ammaliante
beltà. Al pari di Carducci ne furono stregati
scrittori, intellettuali, artisti, attratti a Sud dai
riti agrari o dall’offerta venatoria del forteto
e della palude. Fra questi ultimi, immobili
alle poste o intenti alla tesa vi furono Eugenio
Piccolini, Mario Puccioni e Ferdinando Paolieri che ne descrisse l’inquietante solitudine:
“Attorno a me era la solitudine più selvaggia;
non un segno dell’uomo, una capanna, una
staccionata, un palo... Nulla! In fondo all’orizzonte, una linea dritta come quella del mare,
con il cielo che incupiva dalla parte opposta
al tramonto, brillava, ricordo, una stella di
straordinario splendore, pur nella luce tuttora
diurna […] Rimasi fisso, come smemorato,
ascoltando, senza pensare13”. Lo stesso autore
ne narrò i pericoli, le storie drammatiche che
avevano per protagonisti i signori della macchia: le bufale e i briganti14, col viso giallastro
per la malaria, “la barba ispida e incolta […]
la cacciatora di fustagno, tutta toppe e sbrendoli; i gambali di pelle di capra, alti fin sopra
9
le cosce15”. Un altro verista, Renato Fucini,
novellò, con pagine suggestive, storie ambientate nella Maremma di fine secolo, nei bozzetti
de Le veglie di Neri emergono così i ‘‘montanini’’, disgraziati ‘‘che nell’inverno emigrano
dalla montagna, snidati dal rigore della stagione e dalla fame16’’. Insieme a loro i pastori,
affetti dalle febbri e dal “mal di povero”,
assillati dalla lunga, vorace strada, predatrice
di ogni residua energia: “Si asciugavano il
sudore della faccia senza che fosse caldo,
sospiravano forte, e barattando fra loro occhiate dolorose e pochi monosillabi, non
levavano un momento gli occhi dalla vetrata,
10
per guardare attenti sulla via che per quattro
buoni tiri di schioppo si stendeva bianca e
polverosa davanti alla porta17”. Innamorato
di questa terra fu Guelfo Civini, scrittore e
giornalista del “Corriere della Sera”, scomparso a Roma nel 1954. Egli, sebbene di
origine livornese, fu definito da Indro Montanelli “vero sangue di buttero”. Nei suoi
scritti18 parlò di leggende e di epici drammi,
ma descrisse anche la triste Grosseto e la
povera gente fulminata dalla “perniciosa”,
sotto la statua del Granduca19. Il pittore della
caccia fu Eugenio Cecconi20, nato nel 1842,
autore di quadri come: Colpo di grazia al
cinghiale ferito, La tela alle folaghe, Partenza
per la caccia dalla porta di Capalbio21. Un altro
celebre ritrattista della Maremma, fu Giovanni
Fattori che, a partire dallo ‘82, venne ospitato
dal principe Tommaso Corsini alla Marsiliana,
dove dipinse Marcatura di puledri, Tre butteri
con mandrie di bovini, Mandrie maremmane,
Il salto delle pecore ed altri capolavori della
pittura italiana del secondo Ottocento22. Fra
i tanti ospiti del Grossetano va ricordato pure
Giacomo Puccini che acquistò, ad Ansedonia,
la torre “della Tagliata”. Ricordava Giuseppe
Adami, il librettista de La Rondine, Il Tabarro
e La Turandot23: “Non ho mai capito se il
Maestro amasse o detestasse quel posto che
s’era comprato per un capriccio di caccia e
dove si rifugiava di tanto in tanto per periodi
che si riprometteva lunghi e viceversa erano
brevi24”. Puccini era un altro seguace di Diana
e il 3 Luglio 1896 scriveva all’editore Giulio
Ricordi, da Torre del Lago: ‘‘Caccia poca ma
a giorni torno in Maremma a farne una
scorpacciata25’’. Alcune volte padellava, tanto
da essere chiamato “Omo palla”. Narrava
Giuseppe Brizzi che una volta, alle “Gessaie”,
sparò a vuoto tredici volte di seguito, salvando
la vita a cinghiali, martore, volpi e caprioli26.
Alla Torre “della Tagliata” Adami, gli portò
il libretto della Turandot, che al Lucchese non
piacque. Solo dopo una notte insonne, passata
a tagliare e correggere, si decise a musicarla.
Fu invece un maremmano puro sangue il
pittore Pietro Aldi27, nato a Manciano il 26
Luglio 1852 e morto ancor giovane, nel 1888.
E’ ricordato per le tele celebrative di episodi
storici, fra le quali rammento: Ghino di Tacco
che giura sui Vangeli lo sterminio degli uccisori
del padre suo28, Le ultime ore della libertà senese,
L’Incontro di Teano29. Sempre a Manciano
nacque, nel 1866, Paride Pascucci30 che, a
differenza di Aldi visse a lungo31. La sua pittura
fu influenzata dalle esperienze artistiche di
fine secolo e soprattutto dai “Macchiaioli”,
cosicché, trasse spesso ispirazione dalla realtà
della propria provincia32. Un altro innamorato
della Maremma fu il semidimenticato33 fotografo Adolfo Denci34, fu un grande nel suo
settore e fissò sulle lastre le ultime immagini
di una terra destinata col Novecento a scomparire per trasformarsi in mito. Tutti costoro
furono dunque, per un verso o per l’altro,
legati a questa terra ma ben pochi come
Carducci se ne sentirono figli, legati ad essa
da un cordone ombelicale che il tempo non
riuscì a recidere. Quando gli fu offerta la
presidenza onoraria della Società operaia di
Castagneto, accettò con entusiasmo e da
Piano d’Arta scrisse ad Antonio Albinelli:
“Quando sarò caduto, voi certo, o buoni e
forti, mi ricorderete sulle vostre belle colline
in cospetto al mare. Ciò mi è dolce pensare
e vi amo35”. Quattro anni più tardi Agostino
Bertani lo invitò a presentarsi alle elezioni
politiche per il rinnovo della Camera. Il Poeta
in un primo tempo si mostrò incerto e solo
alla fine accettò, annotando: “obbedisco alla
voce che mi suona in riva al mio mare36”. Si
candidò nella circoscrizione di Pisa ove la
concorrenza s’annunciava agguerrita, pertanto
era abbastanza pessimista: “Io credo – mandò
a dire ad Averardo Borsi – che non riusciremo,
specialmente in Pisa e per Pisa. Mi tieni che
sono tranquillo e rimarrò contento lo stesso,
e grato sempre a voi. Mi basta fare un atto di
onestà politica e dare un segno d’amore
specialmente alla Maremma37”. Carducci
dunque un po’ come Ettore Socci, il ‘Cavaliere
solitario’ dei paria del latifondo, desideroso
di redimerne la povertà e l’abbandono38.
Questo legame non venne mai meno e sembrò segnare la vita del Poeta. Il 18 Marzo del
1885, quando per la prima volta fu colto da
una leggera paresi, stava ancora una volta
lavorando ad alcune strofe su quella terra
lontana. Il cuore era gonfio di ricordi e la
mano vergava i versi: “Ma de la Gherardesca
da’ monti in circuito foschi / di verde selva
su le ferrigne crete / venivan venivan turchine
poi nere le nubi, / triste il libeccio urlando
sopra il piano di Vada. / Il mare sì come un
gregge di pecore matte spingeva / l’onde
frangenti a’ tumuli di rena. / Contro insorgeva
il vento che di salse aspergini i visi / flagellava
ai passanti...39” All’improvviso la mano s’intorpidì, sembrò ribellarsi, ...abbandonò la
matita sulla pagina. I medici gli consigliarono
una dieta appropriata, una maggiore attenzione alla salute e soprattutto di eliminare gli
stravizi. Reagì invece a modo suo, recandosi
alla Torre di Donoratico per una rimpatriata
insieme agli amici, mangiarono e tracannarono “vino di giorno e di notte”, alla faccia
dei dottori e dell’ipertensione40. Vi ritornò
26 Settembre 1885. Con lui vi erano Averardo
Borsi41 e Leopoldo Barboni, letterato e amante
della buona tavola. Fu questo ultimo a descrivere quella ribotta pantagruelica: ‘‘sopraccappellini cotti nel brodo di quaglia (una minestra
che avrebbe fatto peccar di gola perfino San
Macario). Poi i convitati attaccarono con
ferocia crescente una vassoiata […] di cervello
fritto con contorno di prezzemolino croccante. Seguirono quindi altre specialità maremmane, ma l’osanna vero sgorgò dai cuori e
sfondò il soffitto della vecchia sala al comparire
delle vassoiate di tordi. Saranno stati trecento,
tre piramidi di cento l’una, grassi come priori
[…] E poi le ballotte fumanti e fragranti che
diedero la stura ai brindisi, uno dei quali così
suonava: Ecce, icce, occi ucci, beviamo alla
salute dell’eccellente signor Carducci!42’’. Fino
a quando gli acciacchi glielo consentirono
Giosue ritornò in Maremma per passare ore
felici e spensierate, parentesi sempre più rare
nella sua vita che s’ingrigiva di momento in
momento. Poi la situazione precipitò, si
ridusse su una sedia, la mano impedita, pensieri e problemi di ogni genere in attesa, ...in
attesa della morte. Si spense il 16 Febbraio
del 1907, tre giorni più tardi fu tumulato alla
Certosa di Bologna, ma lo spirito, ne siamo
certi, s’involò nella sua Maremma dove il
grano è oro, il mare sorride alla macchia e il
cielo infinito, rorido di luce, insegna anche
al più rassegnato degli uomini cosa sia la
libertà.
_________________
Bibliografia
G. Batini, O la borsa o la vita! Storie e leggende dei briganti
toscani, Firenze 1975.
G. Batini, Toscanissima, viaggio tra segreti, misteri e
curiosità di una terra straordinaria, Firenze 1991.
L. Bezzini, Sparate al Carducci! I Carducci a Bolgheri tra
cipressetti e fucilate. Biografia di Michele Carducci, padre,
11
medico rivoluzionario, Pontedera 1999.
A. M. Comanducci, I pittori italiani dell’Ottocento,
Milano 1934.
Carducci tutte le poesie, a.c. di P. 3, Roma 2006.
E. Diana, In viaggio col Granduca, itinerari nella Toscana
dei Lorena, Firenze 1994.
R. Fucini, Le veglie di Neri, in Renato Fucini, tutti gli scritti,
Milano s.d.
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Lavoro e industria in Toscana fra Ottocento e Novecento,
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A. A. Mola, Giosue Carducci. Scrittore, politico, massone,
Milano 2006.
F. Paolieri, La galoppata, in Novelle toscane, Firenze 2001
G. Pascoli, Myricae, Milano 1967.
L. Pruneti, La Maremma nell’età di Carducci, in Giosué
Carducci, l’uomo, il poeta, il massone, Roma 2001.
L. Pruneti, La Toscana dei misteri. Leggende e curiosità
su castelli e borghi toscani, Firenze 2004.
L. Pruneti, Povertà, speranza e miti nella Maremma di
fine secolo, in Ettore Socci. L’uomo, il politico... Roma 2002.
A. Sbardellati, Ettore Socci, in Ettore Socci. L’uomo, il
politico, il massone, Roma 2002.
Toskanische Impressionen, Der Beitrag der Macchiaioli
zum europaischen Realismus, München 1976.
Note
1 G. Carducci, Rime Nuove, Traversando la Maremma
toscana, vv. 1-8, in Carducci tutte le poesie, a.c. di P.
Gibellini, Roma 2006, p. 351
2 “Romagna solatia, dolce paese, / cui regnarono Guidi e
Malatesta / cui tenne pure il Passator cortese, / re della
strada, re della foresta”. G. Pascoli, Romagna, in Myricae,
Milano 1967, p. 34.
3 Rime Nuove, Nostalgia, v. 30, cit … p. 360.
4 Rime Nuove, Idillio maremmano, v. 25, cit…, p. 388.
5 Ibidem, vv., 49 – 50, cit … p. 388.
12
6 Ibidem, vv, 34 – 35, cit … p. 388.
7 Rime Nuove, Rimembranze di scuola, vv. 30 – 35, cit
…, pp. 384 – 385.
8 Rime nuove, Davanti a San Guido, vv. 5 - 8, cit ..., p. 393.
9 Ibidem, vv. 77 – 85, p. 395.
10 Odi barbare, Colli toscani, v. 6, cit …, p. 510.
11 Rime Nuove, Idillio maremmano, vv., 54 – 57, cit …
pp. 388 - 389.
12 Rime Nuove, San Martino, v. 4, cit …, p. 370.
13 F.Paolieri,Lagaloppata,inNovelletoscane,Firenze2001,p.138.
14 Sul brigantaggio cfr. G. Batini, O la borsa e la vita!
Storie e leggende di briganti italiani, Firenze 1975; L.
Pruneti, La Toscana dei misteri. Leggende e curiosità su
castelli e borghi toscani, Firenze 2004, pp. 91 – 97.
15 F. Paolieri, Il brigante malato, in Novelle toscane … cit, p. 98.
16 R. Fucini, Vanno in Maremma, in Renato Fucini, tutti
gli scritti, Milano s.d., p. 63.
17 R. Fucini, Tornan di Maremma … cit, p. 83.
18 Odor d’erbe buone e Gesummorto.
19 A. Cavoli, Maremma amara, Valentano (VT) 1989, p. 126.
20 Su Cecconi cfr. Momenti della pittura toscana dal neoclassicismo ai postmacchiaioli, Firenze 1977, tav. 44 ed
anche Toskanische Impressionen, Der Beitrag der Macchiaioli
zum europaischen Realismus, München 1976.
21 A. Cavoli, Maremma … cit., p. 129.
22 Ibidem, p. 125.
23 Il libretto fu scritto in collaborazione con Renato
Simoni.
24 L. Pruneti, Povertà, speranze e miti nella Maremma di
fine secolo, in Ettore Socci: l’uomo, il politico, il massone,
Roma 2002, p. 22.
25 A. Cavoli, Maremma … cit., p. 121.
26 Ibidem, p. 48.
27 A. M. Comanducci, I pittori italiani dell’Ottocento,
Milano 1934, pp. 9-10.
28 L’opera si trova nella sede del comune di Manciano.
29 L. Pruneti, Povertà, speranze e miti nella Maremma di
fine secolo … cit, p. 23
30 A. M. Comanducci, I pittori … cit., p. 506.
31 Morì, infatti, a Manciano nel 1954. L. Pruneti, Povertà,
speranze e miti nella Maremma di fine secolo … cit, p. 23
32 Ricordo: Gli Apostoli, Ora di riposo, Gesù morto, Il
Venerdì Santo, Festa in famiglia, Baldoria carnevalesca.
L. Pruneti, Povertà, speranze e miti nella Maremma di
fine secolo… cit, p. 23.
33 A lui il Comune di Grosseto dedicò una retrospettiva
e fu pubblicato un volume Maremma com’era con le
sue immagini più belle. A. Cavoli, Quando l’inferno era
in Maremma, Pistoia 1979, p. 51.
34 Morto a Pitigliano il 17 Giugno 1944, durante un
bombardamento aereo. L. Pruneti, Povertà, speranze e
miti nella Maremma di fine secolo… cit, p. 23.
35 A. A. Mola, Giosue Carducci. Scrittore, politico, massone,
Milano 2006, p. 244.
36 Ibidem, p. 246.
37 Ibidem, p. 248.
38 A. Sbardellati, Ettore Socci, in Ettore Socci. L’uomo, il
politico, il massone, Roma 2002, p. 34.
39 Appendice III, Idillio di San Giuseppe, cit …, vv. 5 –
12, pp. 840 – 841.
40 A. A. Mola, Giosue Carducci … cit, p. 244.
41 Averardo Borsi, giornalista e poeta, divenne, dal 1879,
l’organizzatore delle rimpatriate di Carducci. L. Bezzini,
Sparate al Carducci … cit., p. 35.
42 La Toscana paese per paese, vol. I, Firenze 1980, p. 262.
P.8: I cipressi di Bolgheri (part.); p.9: Cavallo bianco,
Giovanni Fattori, 1903, Galleria d'Arte Moderna, Palazzo
Pitti, Firenze; p.10: Una delle sorelle Bandini, Silvestro
Lega (1826-1895), olio su tela, collez. priv; p.11: Donna
anziana, olio su tela, Silvestro Lega, 1872-73, collez.
priv; p.12: Lapide sul monumento a Carducci, loc. San
Guido; p.13: I cipressi di Bolgheri, veduta (8, 12 e 13:
foto Paolo Del Freo).
13
14
iosue Carducci è tra i
pochi veri giganti della
nostra storia. La sua
grandezza fa tutt’uno
con la fondazione e la
costruzione della
Nuova Italia: due epoche distinte e diverse,
per principi e per contenuti. Il Risorgimento
fu età di alti ideali, generose speranze, martirii... L’unificazione tirò le somme, tradusse
le attese in realtà. Il periodo postunitario fu
però solo di pragmatismo? Di “politichetta”
spicciola? La “prosa” soffocò la “poesia”? Per
molti si. Per altri no. Alcuni continuarono
a vivere in funzione di principi insopprimibili;
benché in numero esiguo, essi bastarono a
tener viva la “missione dell’Italia”: un’idea
universale che congiungeva lo Stato sorto
nel 1859-61 da un canto con l’età di Comuni
e Signorie, con l’Umanesimo e, più addietro
nel tempo, con le civiltà latina e greca e l’
“Oriente” dal quale il Mediterraneo era stato
fecondato; dall’altro poneva l’Italia al centro
del processo di ascesa dei “popoli oppressi”
verso l’indipendenza e la libera cooperazione
nell’ambito della comunità internazionale e
all’insegna della pace.
Tra i profeti della Nuova italia
Carducci fece parte della ristretta cerchia dei
profeti della Nuova Italia: con lungimiranza
ma anche con contraddizioni irrisolte. Perciò
egli rimane e sarà attuale sin quando, pur
esile e quasi invisibile, rimarrà teso il filo che
unisce l’Italia odierna all’Alma Mater, alle
civiltà precristiane e alla convinzione che l’
“itala gente da le molte vite” abbia un ruolo
fondamentale da svolgere proprio mentre
l’Unione Europea allarga i confini e il rapporto tra le sponde del Mediterraneo diviene
questione cruciale per il futuro dell’umanità.
Carducci assomma in sé bagliori e abbagli.
Prendiamo atto degli uni e degli altri: con
gratitudine per quanto egli apprese e insegnò
e doverosa pietas verso i suoi drammi personali e i limiti che, a un secolo dalla sua morte,
sono più evidenti ma vanno spiegati alla luce
della storia, nella consapevolezza che altrettanto accadrà fra cent’anni a chi oggi pare
all’avanguardia dei tempi ma, lo voglia o
meno, serba in sé residui del passato e prima
o poi risulterà quindi crepuscolare, superato:
come sempre è accaduto e accadrà.
I rapporti con la Massoneria
La Massoneria ha motivi speciali per rivisitare
con rispetto vita e opera di Giosue Carducci.
Essa è ancora lontanissima dall’avere non
diciamo colmato ma almeno iniziato a saldare
il grande debito morale nei confronti di chi
dal Risorgimento
alla
Grande Guerra
arducci non fu solo il grande
poeta di Pianto antico, Davanti
San Guido, Piemonte..., fu il “maestro”
della terza Italia dal Risorgimento alla
grande guerra, che egli cercò di scongiurare
all’insegna della pace e della comprensione
tra le nazioni. Dette voce a un ideale
universale e insegnò la via dell’impegno
politico quale dovere civico.
Aldo A. Mola è autore di Giosue Carducci: scrittore, politico, massone (Milano, Tascabili Bompiani, pp.576, 2006,
già in seconda edizione) con presentazione
di Aimone di Savoia.
insegnò ai liberi muratori italiani i fondamenti
della loro identità e, non sempre ascoltato
(come poco oltre ricordiamo), additò loro
la via per essere a tutti gli effetti “uomini
liberi”. Deve farlo perché a cent’anni dal
conferimento del premio Nobel per la letteratura (10 dicembre 1906) e della sua morte,
convegni, mostre e articoli ripropongono la
figura e l’opera di Giosue Carducci (Valdicastello, Pietrasanta, 27 luglio 1835 – Bologna,
16 febbraio 1907): ma in modo occasionale,
frammentario, quasi per “dovere d’ufficio”,
senza sottrarlo al cono d’ombra nel quale da
tempo venne relegato.
Il cono d’ombra
Per comprendere quale compito attenda,
constatiamo in via preliminare che Carducci
sempre meno viene insegnato. Tanti docenti
non se ne sono mai occupati nel corso dei
loro studi, non l’hanno “in simpatia” (purtroppo ‘‘l’offerta formativa” oggi passa attraverso gusti, capricci e... ignoranza dei docenti)
e quindi non ne parlano mai. Come non
fosse mai esistito. Dicono che i giovani lo
sentono estraneo al loro mondo. Ma a chi
tocca farne cogliere l’attualità? Altrettanto
del resto avviene per Dante, Machiavelli,
Manzoni e persino Leopardi: voci di un
passato remoto da riconquistare ogni giorno
con fatica. Quando si spegneranno gli ultimi
15
fuochi celebrativi del 2007 anche Carducci
tornerà a precipitare nell’oblio in cui giace
da decenni? Per liberarlo dalla polvere e
restituirlo a un’attenzione meno occasionale,
occorre cogliere l’essenza della sua opera,
andare oltre l’immagine che egli stesso volle
lasciare di sé e intendere appieno la missione
che si assegnò.
Un vero protagonista
Egli si volle e fu il forgiatore della coscienza
civile di popoli fortunosamente giunti all’unificazione politica e capace quindi di fare da
modello per le tante altre nazioni senza Stato
dentro e fuori Europa. In presenza di una
Unione Europea di 25 Stati e mentre altri
Paesi picchiano all’uscio, Carducci rivela la
sua statura di protagonista della storia generale
16
dell’Otto-Novecento in una prospettiva che
può farne volano del Terzo Millennio se si
vuole andare oltre la riduzione della società
a mera somma di scambi economici, a mercificazione. Carducci esercitò grande influenza, diretta e indiretta, nella formazione degli
italiani dall’unificazione alla seconda guerra
mondiale. Nel febbraio 1907 il maggiore
statista italiano dalla proclamazione del regno
a oggi, Giovanni Giolitti, sempre pacato e
misurato, chiese alle Camere di erigergli un
monumento nazionale in Roma “perché era
degno di star vicino a Vittorio Emanuele II
ed a Garibaldi”: giudizio, questo, che va
molto oltre l’apprezzamento per tante famose
poesie (Pianto antico, Davanti San Guido,
Parlamento, Piemonte...) e celebri prose e
investe la sua personalità complessiva. Quali
meriti ebbe Carducci per essere considerato
uno dei tre massimi forgiatori dell’unificazione italiana? Secondo Giolitti egli aveva
insegnato agli italiani “che nulla vi è di più
alto che il sentimento della libertà, quando
è congiunto all’amore della Patria”.
I tempi
Era l’età in cui, prima di varcare la soglia dei
Templi, gl’iniziandi dovevano spiegare che
cosa dovessero (o ritenessero di dovere) a
Dio, alla Patria e a sé stessi. Re Vittorio divenne
il primo re d’Italia facendo leva sullo Stato:
Corona, forze armate, diplomazia, burocrazia, ..., e consenso internazionale. Dal canto
suo Giuseppe Garibaldi si pose alla guida di
un movimento “di popolo” bisognoso di
un uomo-simbolo. Marinaio esperto, egli
fece del suo meglio per cavalcare le onde, ma
talora fu travolto e rischiò di rimanerne
sommerso. Entrambi si valsero dunque di
forze preesistenti. E Carducci? Di condizioni
poverissime, con studio ‘matto e disperatissimo’ (come di sé aveva scritto Giacomo
Leopardi) egli si formò per divenire educatore. Fece propri gli exempla dei grandi per
ergersi a sua volta a modello. Dai classici
apprese a essere giusto e perfetto: nella parola,
nel gesto, nel sentimento della ricerca. Per
Carducci, però, perfetto non significa insuperabile: sta per compiuto, terminato, punto
di arrivo di un lungo processo di crescita e
di dirozzamento, eroico cammino per gradi
attraverso i quali l’ artiere dalla pietra grezza
ricava quella levigata, sapendo che altri poi
verrà e unirà la sua alla propria a formare
l’edificio perennemente in corso costruzione:
cantiere aperto, dunque, e termine di confronto con quanto era prima e con ciò che
seguirà.
La vita
Alla morte, appena cinquantenne, suo padre
gli lasciò in eredità qualche libro e i ferri di
chirurgo. Giosue conservò i primi, sacri, e
vendette i secondi. Ne cavò dieci paoli. Una
miseria. Prese con sé a Firenze la madre e il
fratello minore, Valfredo. L’anno dopo sposò
Elvira Menicucci (1835-1917), coetanea e
cugina (ma non consanguinea), che tra il
1859 e il 1872 gli dette tre figlie e due maschi1.
Laureato in lettere all’Università Normale di
Pisa, insegnante al ginnasio di San Miniato
al Tedesco (ove ebbe tre soli allievi, incluso
Valfredo), docente al liceo di Pistoia dal 1859,
il 23 agosto 1860 Carducci accettò la nomina
a docente di eloquenza italiana all’Università
di Bologna. All’esordio aveva due allievi.
Quando andò in pensione, nel 1904, i
“carducciani” erano migliaia: in cattedra
(dalle Università ai licei), nei giornali, nelle
redazioni di case editrici, negli uffici pubblici
(Ministero della Pubblica istruzione, Provveditorati), nelle Forze Armate. Tutt’insieme
essi formavano, appunto, la Terza Italia. Alla
realizzazione di quella gigantesca impresa
civile Carducci sacrificò tutto, vivendo con
esemplare sobrietà. Una medesima lucerna
a candele venne adattata nel corso del tempo
dapprima quale lampada a petrolio poi alla
luce elettrica. Quando il barone Carlo Bildt,
ambasciatore del re di Svezia, si recò a conferirgli ufficialmente il premio Nobel, per far
figurare bene l’Italia Carducci noleggiò lampadari sfavillanti, spenti e restituiti a festa
finita. Unico suo lusso furono i libri, tanti
libri, anche rari e preziosi, bene ordinati in
scaffali collocati ovunque, inclusa la camera
da letto: erano la passione suprema della sua
vita di studioso infaticabile. Nel 1902, quand’ormai sulla sua famiglia incombeva lo
spettro della povertà (aveva preso con sé Bice,
rimasta vedova, e i suoi cinque figli), Margherita di Savoia, “regina madre” dopo l’assassinio di suo marito, Umberto I, ne acquistò
per 40.000 lire la biblioteca e gliela lasciò “in
uso” vita natural durante. Nel 1905 la regina
comperò anche la casa affittata dal poeta in
via del Piombo (o di Mura Mazzini) e il 22
febbraio 1907 la donò al comune di Bologna
col vincolo che tutto rimanesse com’era e
fosse messa a disposizione degli studiosi. Oggi
è Casa Carducci: con tanti documenti inediti
in attesa di essere indagati e pubblicati.
L’esempio
La Casa-Museo non doveva essere ripostiglio
ma fucina, quale l’aveva voluta e vissuta egli
stesso: docente severo, anzitutto con sé medesimo, consigliere comunale e provinciale
di Bologna, eletto deputato alla Camera nel
1876, altre due volte candidato, senatore del
regno dal 1890, membro della deputazione
di storia patria delle province dell’Emilia e
poi suo presidente, componente del Consiglio
superiore della Pubblica istruzione, accademico della Crusca, accademico dei Lincei,
infaticabile curatore delle edizioni di classici
(Leopardi, Antonio Ludovico Muratori...),
autore di antologie concepite quali breviari
della Terza Italia. Fu il caso delle Letture del
Risorgimento italiano: frutto di decenni di
ricerca e selezione. Carducci fu dunque il
geniale stratega della vita culturale della Terza
Italia: ideale cui dedicò la sua esistenza. Tra
i motivi fondamentali della sua attualità basti
la sua concezione della lingua: un tema di
cui si è discusso e si tornerà a dibattere molto,
anche in connessione con la discutibile proposta di legge volta a dichiarare l’italiano2
lingua ufficiale della Repubblica. Classicista
di statura superiore e maestro di filologia,
Carducci si schierò con Dante Alighieri contro la riduzione della lingua a feticcio immobile, a un ‘fiorentino’ artefatto e lezioso: al
‘manzonismo degli stenterelli’, insomma,
duramente sferzato in Davanti san Guido,
egli contrappose la lingua viva. Per Carducci,
originario della Versilia, cresciuto in Maremma, vissuto a Bologna e perennemente vagante per l’Italia, da Piemonte e Valle d’Aosta
alla Valtellina, dall’Umbria alla Napoli di
Matilde Serao, Scarfoglio e Benedetto Croce,
dalla Genova di Giuseppe Verdi a Roma
(sua terza “patria”, dopo la Toscana e Bolo-
gna), la lingua non è un fossile: si rinnova e
si arricchisce ogni giorno, sia con apporti
dalle diverse parlate regionali sia dagli scambi
con le letterature e le lingue delle altre genti.
Perciò egli cantò l’universalità di Roma: quella
del Carme secolare, libera da tentazioni
nazionalistiche. Lo comprese bene la Reale
Accademia di Svezia, come hanno documentato Kjell Espmark ed Enrico Tiozzo in studi
innovatori sulle motivazioni profonde delle
designazioni dei premi Nobel3. Il centenario
del conferimento del premio Nobel e della
morte è dunque la grande occasione per
recuperare il Carducci vero. Egli fu, si, grande
scrittore, ma anche e soprattutto politico,
interprete della politica alta, non del piccolo
cabotaggio quotidiano, come scrisse nella
17
lettera ad Adriano Lemmi, di rifiuto della
Cattedra Dantesca: una lezione di coerenza
culturale e di rigore etico.
Carducci tra squadra e compasso
Meno di altri i massoni potranno lasciar
cadere l’opportunità offerta dal centenario.
La Libera Muratoria ha infatti un grande
debito nei confronti di Carducci. Come è
noto, il 22 febbraio 1866 si “fece associare”
ai Fratelli nella “Felsinea” di Bologna e fu
“fatto Massone e segretario provvisorio”: egli
compreso, la loggia contava sette membri,
parte militari, parte docenti universitari. Non
si sa se Giosue avesse avuto una precedente
iniziazione in un’officina regolare o in una
delle tante logge “selvagge” della Toscana
granducale. Sappiamo invece che, giunta a
contare 36 affiliati, la “Felsinea” venne demolita dal Grande Oriente d’Italia e, per loro
perpetua vergogna, i nomi dei suoi dignitari
furono pubblicati da Ludovico Frapolli nel
“Bollettino” dell’associazione. Su sollecitazione di Adriano Lemmi, il 20 aprile 1886
Carducci accettò di tornare fra le colonne,
nella loggia Propaganda massonica4. Legato
al Gran Maestro e al Presidente del Consiglio,
Francesco Crispi, da profonda amicizia,
Carducci non accettò mai direttive o inviti
contrari al suo concetto di libertà e di rigore
culturale. Non condivise l’esaltazione di
Giordano Bruno, teologo e metafisico, quale
campione del “libero pensiero”; respinse
l’interpretazione esoterica di Dante Alighieri,
poi cara a Giovanni Pascoli; rifiutò l’identificazione (già all’epoca prevalente in Italia)
18
della massoneria con materialismo o scientismo positivistico. In effetti, che cosa v’era
in comune tra l’autore di Presso una Certosa
e un’organizzazione massonica tra le cui
logge una imponeva ad affiliati e visitatori il
triplice giuramento antimonarchico, antimilitare e antireligioso? Elevato da Lemmi al
33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, Carducci non venne mai meno ai doveri
massonici. Lo si vide quando fece parte del
giurì che difese l’onore del Gran Maestro da
accuse infamanti. Nel marzo 1896 rifiutò
anche di dare il calcio dell’asino al massone
Crispi, dimissionario da Presidente del Consiglio dei Ministri dopo la sconfitta di Adua.
Mentre tutti abbandonavano lo statista siciliano, Giosue andò ad abbracciarlo in Senato.
Nel settembre 1894 erano stati fianco a fianco
contro anarchici, rivoluzionari e cattolici
decisi ad abbattere lo Stato sorto dal Risorgimento e garante della laicità.
Un vecchio gufo tra i ricordi
Più volte colpito negli affetti, vulnerato nel
corpo da un ictus nel 1885 e nel 1899 dal
secondo (che ne compromise l’uso della
mano destra e gli rese difficoltosa la favella),
Carducci visse gli ultimi anni chiuso nella
folla dei ricordi: Garibaldi, Alberto e Jessie
Mario, Teza, Gandino, Severino Ferrari,
Adriano Lemmi... tante foglie che via via si
staccarono dall’acacia e lo lasciarono solo,
“vecchio gufo che mai non muore” come
esclamò alla notizia dell’ennesimo suicidio
in casa Menicucci, la famiglia di Elvira. Divenne un’icona, e così fu sveltamente imbal-
samato da chi aveva fretta di intirizzirne la
memoria, sottraendola al flusso della vita
qual egli l’aveva invece voluta: anche volendo
a fianco, con disarmante candore, Lina Cristofori Piva e poi Annie Vivanti, ispiratrici
della sua musa e del suo impegno politico e
di stratega della cultura. Giuseppe Chiarini
e tanti altri “fratelli” quando ancora Giosue
era vivo e soprattutto dopo la sua morte, ne
irrigidirono opere e giorni riducendolo a un
santino laico, perennemente imbronciato,
condannato a risultare fastidioso, inattuale,
una bisbetica suocera della Terza Italia anziché
il suo più energico ideatore. Lo capirono
molto meglio all’Accademia di Svezia quando
gli conferirono il Nobel per la letteratura
perché non si era limitato a limare versi ma
aveva incarnato un ideale civile di valore
universale.
Un patriota e un poeta per la memoria
Quando il vero Carducci cominciò ad affiorare dall’epistolario e da morto risultò scomodo qual era stato da vivo, rapidamente
venne spinto ai margini dell’attenzione.
Dimenticato. Tutt’intero. Il massone, il politico e, infine, lo scrittore. Né si può dire che
in tempi recenti siano stati compiuti molti
sforzi per rimediare al malfatto. Nell’insieme
di scritti da Gian Mario Cazzaniga raccolti
sotto il titolo di La Massoneria5 Carducci
compare appena e per un unico aspetto della
sua ricca e complessa biografia. Il “Maestro
della Terza Italia” non può certo attendersi
molto da scuole ispirate da ideologie totalitarie. La Casa Editrice Zanichelli, le cui fortune
tanto debbono a Carducci, ha espunto il suo
nome dal catalogo. Nei Meridiani - che
nondimeno dànno spazio a scrittori anche
di seconda fila, italiani e stranieri - a differenza
di Pascoli e d’Annunzio il “leone di
Maremma” non figura e, passato il centenario, ne rimarrà escluso per chissà quanto.
Nelle antologie scolastiche il numero di
pagine riservategli s’assottiglia di anno in
anno. Forse Giosue presentì l’artificioso oblio
cui sarebbe stato condannato, quando aprì
Presso una Certosa con i versi famosi:
Da quel verde, mestamente pertinace tra le
foglie / Gialle e rosse de l’acacia, senza vento
una si toglie: / e con fremito leggero per che
passi un’anima6.
Bisogna allora rassegnarsi e cedere ancora
una volta Carducci ai nazionalisti (che non
capirono e ne abusarono), a certi militanti,
che lo strumentalizzarono come poi fecero
con l’effigie di Garibaldi, o ai cattolici che osservò pungente “La Civiltà Cattolica” alla
sua morte - “sebbene da lui non mai carezzati,
lo trattarono sempre assai meglio che molti
suoi correligionari, repubblicani e massoni?’’
No di certo. Ma, appunto, occorre passare
dai buoni propositi ai fatti: andare oltre le
pure e semplici celebrazioni e restituire Carducci alla scuola, cui egli dedicò mezzo secolo
di vita, tutta l’opera sua.
________________
Note
1
Il sito web di Casa Carducci continua a ripetere, come
si legge in tutte le storie delle letterature, che egli ebbe
tre femmine (Beatrice, Bice; Laura, Lauretta, e Libertà,
Tittì) e un maschio, Dante. Del primo maschio, Francesco, non una parola, come non sia esistito. Chi dice
che la sua breve vita sia stata del tutto ininfluente in
Carducci? chi dice che la morte di Dante, a soli tre
anni ma quando già recitava l’Inno A Satana, non sia
stata così straziante per il padre, proprio perché seguì
la sua? Nel centenario confidiamo che anche quel sito
venga aggiornato.
2
V’è il rischio che ‘‘l’italiano ufficiale” venga codificato
sulla base di quello in uso da parte di veline e vallette,
presentatori televisivi, pubblicitari e... ministri della
Repubblica che non sempre ci azzeccano (specie coi
congiuntivi).
3
Di cui v. Il premio Nobel per la letteratura. Cento anni
con l’incarico di Nobel, Catania, La Cantinella, 2002.
Include il bel saggio di E. Tiozzo, Il premio Nobel e la
letteratura italiana.
4
Pubblichiamo l’elenco completo degli affiliati alla
Propaganda massonica dalla fondazione al 1925 in
appendice a Giosue Carducci: scrittore, politico, massone,
Milano, Bompiani, 2006.
5
Torino, Einaudi, 2006. L’opera costituisce un notevole
passo indietro dopo le acquisizioni storiografiche degli
Anni Ottanta-Novanta. Di Carducci parla solo Tullia
Catalan in un saggio sulle società segrete irredentiste
e la massoneria italiana. Del resto non vi compaiono
Francesco De Sanctis, Salvatore Quasimodo e molti
altri scrittori massoni o massoni scrittori. Invano si
cercherebbe il nome di Carducci in Marco Novarino,
Grande Oriente d’Italia. Due secoli di presenza liberomuratoria, Roma, Erasmo, 2006. Altrettanto inutile
per conoscere il rapporto tra Carducci e la Massoneria
risulta Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana.
Dal Risorgimento al fascismo, Bologna, il Mulino, 2003.
Del resto anche per Conti Francesco de Sanctis è nome
che suona a vuoto. D’altronde Conti afferma che dopo
l’unificazione nazionale “il milieu intellettuale non
considerò più la massoneria un luogo di aggregazione
privilegiato e le logge si riempirono di borghesia delle
professioni e del pubblico impiego”: affermazioni prive
di basi documentarie e contrarie alla verità dei fatti.
6
In un troppo celebrato saggio scritto nel cinquantenario della morte (Linea e momenti della poesia carducciana, ripreso da Luigi Baldacci per introduzione a
Poesie scelte (Milano, Mondadori, 1983) Walter Binni
citò questi versi, ma cancellò l’ultimo. Svista? Parossismo
laicistico? Che cosa mai vi è da temerne?
P.14: Lungo il viale di Bolgheri, part. p.15: Monumento
bronzeo a G. Carducci; p.16: Lo studio nella casa di
Castagneto Carducci (LI); p.17: Il cimitero di ‘Nonna Lucia’,
Castagneto Carducci; p.18 in alto: Steppa maremmana,
Giovanni Fattori, olio su tela, 1864-65, Collez. priv; p.18 in
basso: Maremma, Giovanni Fattori 1865, olio su tela, Collez.
priv; p.19: L'arrivo dei barrocci, Giovanni Fattori, olio su tela,
1881, Collez. priv; (14, 15, 16 e 17: foto Paolo Del Freo).
19
20
caso. Girovagando per
una delle storiche città
d’Italia dove il poeta
versiliano passò
qualche tempo della
sua vita, può capitare
di leggere una lapide di questo genere. Lì
per lì ci si compiace di aver trovato un’interessante segnalazione dell’illustre passaggio. Poi varie considerazioni nascono dall’osservazione ragionata. Per primo viene
fatto di considerare come l’ospitalità fosse
in generale considerata un privilegio, soprattutto se rivolta a personaggi meritevoli
di incondizionato
rispetto. Il concetto
dell’ospitare e dell’essere ospitato si
riferiva ad un’antica
usanza quasi religiosa derivante da
un culto latino ben
precisato. Ancora
agli inizi dello
scorso secolo era
evidentemente
praticato con affettuoso orgoglio,
oggi è appannaggio
solo di certi aristocratici milieux.
La traccia che la
persona lasciava
nell’intimità di una
famiglia, quando
questa si prestava a
far fronte alle sue prime necessità, era tale
da entrare nella memoria e da costituire
un elemento fondamentale nelle storie
intrecciate al suo albero genealogico.
Il nonno che ospitò Carducci, il bisnonno
che dette da bere a Garibaldi, vanno a
formare in chi tramanda il ricordo, una
sorta di nobiltà acquisita, autoreferenziata
da un bel gesto, anche se modesto. In
particolare il condividere il proprio habitat,
che si offre come una delle massime risorse
del gruppo antropologico che lo configura,
dimostra amore e buona disposizione
verso chi è diretto. Non stupisce che coloro
che tradivano tale rapporto rivoltandosi
contro gli ospitanti o viceversa, fossero
considerati felloni nel medioevo, indegni
o infami in altre epoche.
Compartire il pane ha un profondo valore
simbolico e tradire in questi casi vuol
significare che non solo non si è compreso
questo valore, ma che gli si antepongono
ben più miserevoli considerazioni. Pertanto si capisce ancor meglio come gli ambienti in cui si attua la fratellanza iniziatica
spesso si valgano del banchetto come momento topico delle pratiche rituali.
Si tratta quindi di un fenomeno culturale
che appartiene non solo alla tradizione
ebraico-cristiana ma praticamente a tutte
le tradizioni antropologiche.
Va, a questo punto, formulata una seconda
considerazione. Sulla lapide letta per caso
si rileva un particolare che rappresenta un
non trascurabile dettaglio. La data di installazione allude all’‘era fascista’ che, come
è noto, spesso sostituiva in quegli anni la
scansione del calendario gregoriano.
Curiosa cosa se si abbina alla considerazione di come la fortuna di Giosue Carducci poeta e filologo sia molto sfiorita da
cinquant’anni a questa parte, proprio dalla
caduta del regime fascista. Rileggendo
l’opera carducciana attentamente e ricollocandola nel suo tempo per comprenderne
meglio il coraggio e la modernità, ci si
rende conto che l’ignoranza da cui oggi è
avvolta sembra frutto di una dolorosa
ingiustizia storica.
Viene da pensare che quando di un personaggio si impossessa una retorica databile, quel personaggio sia destinato ad
inabissarsi miseramente nell’oblio dei
lettori, al consumarsi di certi eventi storici.
Ogni ideologia ha per forza di cose le sue
retoriche e quindi qui non si fanno delle
considerazioni di merito, si osserva solo
come per farsi bandiera di un poeta o di
un letterato i regimi sacrifichino sull’altare
della convenienza politica il valore intrinseco di un messaggio e dei princìpi che
trasmette.
Per abbellirsi con le piume del poeta e del
patriota, il regime demolisce l’autonomia
artistica di un creatore che con i suoi versi
e le sue prose desidera esprimere la battaglia
dei sentimenti e la forza delle nobili passioni. In sostanza valori che i regimi, di
qualunque razza siano, sono pronti a sacrificare per il vantaggio di ideologie costruite a tavolino.
Per il caso Carducci vien fatto di pensare
che, purtroppo,
un’intera generazione di lettori entusiasti abbia decretato la sfortuna
di un personaggio
che meritava ancora attenzione,
molta attenzione.
Oggi con la serenità
del tempo trascorso, vecchi di centocinquantanni di
unità politica, forti
di una alfabetizzazione ormai quasi
totale, ci studiamo
di rendere a Carducci una corretta
collocazione.
La massoneria lo
celebra limpidamente come fratello illustre e poiché la
massoneria non è un’ideologia possiamo
essere certi che questa celebrazione sarà
utile al poeta, al creatore di ritmi perfetti,
al bravo filologo, all’appassionato patriota.
Forse ora al massone è affidato un atto di
giustizia nel riprendere in mano l’opera
carducciana. Atto che consiste nel riconsegnare all’arte certe insuperabili bellezze
da guardare solo nella loro originalità
poetica e letteraria.
Perché diciamo che il massone è deputato
a farlo? Perché il massone per suo costume
deve rigettare ogni pregiudizio, rispettare
la creatività pura del genio umano, ricercare il vero, e non strumentalizzare l’opera
altrui, non occupandosi né di politica né
di religione e praticando la vera fratellanza.
P.20: Aratura, G.Fattori, 1881, olio su tela, Galleria Arte
Moderna, Roma.
21
22
eodorico di Verona, dove
vai così di fretta? E’ uno
dei versi che più affiorano dalle memorie
scolastiche. Per Giosue
Carducci il personaggio
del re ostrogoto fa parte di un museo medievale in versi che annovera anche Alberto da
Giussano, Alarico, Jaufré Rudel e Melisenda,
oltre a cittadini di comuni rustici, combattenti
di Marengo, caduti a Roncisvalle e quant’altro.
Singolare è nel poeta la considerazione per
il Medioevo, rara nella cultura italiana ottocentesca, con l’eccezione di alcuni romanzi.
Gli eruditi italiani, classicisti per tradizione,
avevano da sempre guardato ai “barbari”
con repulsione, come se si trattasse di corpi
estranei nella nostra storia e questo atteggiamento non era molto cambiato nemmeno
in epoca romantica.
Il filologo
Carducci appare quindi originale in questa
predilezione, soprattutto tenendo conto che
egli era un raffinato classicista, propenso
anche a vedere la sua cultura come strumento
ideologico anticristiano. Perciò tutto ci si
sarebbe potuto aspettare da lui tranne che
fosse, come e anche di più degli ‘odiati’ romantici, amante del Medioevo, soprattutto
del più esecrato: quello barbarico. Ma il tema
in realtà si inserisce in un disegno unitario.
La leggenda di Teodorico fa parte, come la
maggior parte delle poesie storiche, della
raccolta “Rime nuove” comprendente, in
ben 8 libri, tutta la produzione poetica tra il
1861 e il 1887, anni cruciali della nascita e
crescita nazionale. In questa raccolta il suo
classicismo di sempre si alterna con motivi
idilliaci, letterari, nostalgici, storici, autobiografici. Alcune delle poesie storiche sono in
realtà traduzioni da autori tedeschi, come
August von Platten, Wolfgang Goethe, Heinrich Heine, e si nota come il poeta, mettendo
la sua eccelsa tecnica di verseggiatore a servizio
di tematiche altrui, sappia produrre splendidi
risultati. Carducci appare infatti piuttosto
forzato nelle sue prese di posizione. Sognava
un mondo di valori eroici, convinto che la
modernità li avesse abbandonati, detestava
l’Italia post-risorgimentale, che si era in fretta
scordata delle gloriose lotte unitarie per rifugiarsi in una realtà mediocre basata sul profitto
e sul conformismo, intendeva proporre una
storia fatta di esempi, in polemica con la viltà
dei suoi contemporanei. Ma, paradossalmente, erano proprio questi contemporanei imbolsiti a costituire il suo pubblico e a decretare
a gran voce i suoi successi.
Il Teodorico di Carducci
Gli eroi vagheggiati dal poeta, tragici o ribelli,
vengono comunque proposti come modelli;
se muoiono poco importa, ci pensa il poeta
a eternarli a futura memoria, spesso ribaltando il giudizio di una storiografia convenzionale. In questa visione si inserisce anche il re
degli Ostrogoti, artefice nel VI secolo di una
politica di pacifica convivenza multiculturale
e multirazziale, talmente audace per quei
tempi da andare incontro a sicuro fallimento.
Gli storici altomedievali vedevano in Teodorico un sovrano saggio e illuminato ed è con
queste caratteristiche che passa nelle leggende
europee, come nel famoso Nibelungenlied,
al quale si ispirò anche Wagner. Questo fuori
d’Italia. Nel nostro Paese invece Teodorico
era protagonista di una “leggenda nera”
formatasi in ambiente cattolico. A determinare questo giudizio erano stati gli ultimi tre
anni del suo regno (523-526) segnati dal
fallimento della politica di convivenza tra
Goti e Romani, dalle tragedie famigliari, e da
una mania di persecuzione di cui fanno le
spese prima il filosofo Boezio (giustiziato nel
524 a Pavia dopo un processo celebrato a
Roma in sua assenza), poi il papa Giovanni
I (imprigionato al ritorno dalla sua fallimentare missione diplomatica a Bisanzio nel 525
e lasciato morire di stenti), infine nel 526 il
patrizio Simmaco, suocero di Boezio. Di lì
a poco anche Teodorico sarebbe morto improvvisamente (30 agosto 526). Tre anni di
malgoverno e di intemperanze senili in confronto a 30 anni di pace e prosperità sono
decisamente pochi per una condanna storica,
ma nella leggenda circolata, già poco dopo
la sua morte, giocarono altri fattori che non
potevano che interessare Carducci.
Ariano e infernale
Teodorico infatti era eretico avendo aderito
23
al cristianesimo ariano sconfessato dalla
Chiesa fin dal 314. Ario sosteneva che Cristo
era uomo, non figlio di Dio, vanificando
perciò il culto della Vergine. Tuttavia gli ariani
avevano fatto proseliti, soprattutto presso le
popolazioni barbariche che affollavano l’est
europeo. Così i Goti, stanziati lungo il basso
Danubio in quella che poi divenne la Romania, si convertirono al cristianesimo ariano
e tali rimasero per tutto il periodo italiano.
Ne rimane traccia a Ravenna, dove
è conservato il Battistero degli Ariani.
Nelle città occupavano quartieri diversi dai cattolici, gli stessi dove più
tardi subentrarono i Longobardi,
ariani anche loro. Ma oltre all’inconciliabile opinione religiosa sulla
natura di Cristo, a dividere i Goti dai
Romani erano anche le rispettive
tradizioni: guerriere le prime, civili
le seconde. Teodorico tentò la politica
della convivenza impossibile e fu
marchiato dalla storia. Già Procopio
da Cesarea, storico bizantino al seguito
delle truppe di Giustiniano durante
la successiva guerra greco-gotica (535553), a proposito degli ultimi giorni
di Teodorico, annotava: “Pochi giorni
dopo a tavola gli fu servita la testa di
un grande pesce. Parve a Teodorico
di scorgere in quella la testa di Simmaco testé trucidato... Atterrito da
così grande prodigio e colto da brividi
fortissimi si ritirò correndo nel suo letto...
Poscia narrando ogni cosa al medico Elpidio
rimpianse l’errore commesso contro Simmaco e Boezio. E alto piangendo e spasimando non molto dopo venne a morte, avendo
commesso verso i suoi sudditi questo primo
e unico torto perché, contro il suo solito,
aveva condannato quei due senza fare inchiesta sull’accusa” (Guerra Gotica, Libro I). La
testimonianza di Procopio attesta, già a pochi
anni dalla scomparsa di Teodorico, la diceria
di una morte accompagnata da oscuri presagi,
quasi horror, a espiazione di quel “primo e
unico torto”, come gli viene riconosciuto da
uno storico di parte avversa. E’ Gregorio
Magno a fornire la testimonianza successiva
tra il 593 e il 594. Il papa riferisce quanto gli
era stato riportato da un amico: il padre di
suo suocero si era fermato con la nave a Lipari
proprio nei giorni successivi alla morte di
Teodorico. Sentito dire che sull’isola viveva
un santo eremita, un drappello di viaggiatori
era andato a raggiungerlo e “arrivati che
furono, l’eremita li accolse benevolmente e
nel conversare disse: “Sapete che il re Teodo-
24
rico è morto?” E quelli: “Non voglia Dio che
sia vero! Lo lasciammo vivo e sano, né ci è
arrivata una nuova del genere”. Allora il servo
di Dio: “Eppure è morto. Infatti ieri all’ora
nona lo vidi tra papa Giovanni e il patrizio
Simmaco: discinto, scalzo e con le mani
legate, veniva buttato nel cratere del vulcano
che è qui vicino”(Dialoghi). In questo straordinario racconto compare già formata la
leggenda della punizione divina che avrebbe
trascinato Teodorico all’inferno attraverso
la bocca di un vulcano, segnatamente quello
che conosciamo sotto il nome di Vulcano
nell’isola omonima, ritenuto nell’antichità
sede della fucina dell’ulteriormente omonimo
dio. La punizione sarebbe addirittura stata
vista, anche se dagli occhi di un eletto. Manca
in ogni caso il cavallo in cui si sarebbe materializzato lo spirito diabolico incaricato di
fare da conduttore delle anime dannate. Ma
il diavolo c’è e lo attesta un’altra fonte, il
cosiddetto Anonimo Valesano, vago pseudonimo con cui si indicano due autori attivi
in tempi diversi, comunque nel corso dello
stesso VI secolo. Riguardo alla fine di Teodorico è detto “Di qui il diavolo trovò modo di
far suo un personaggio che pur, fino allora,
aveva amministrato lo stato senza suscitare
dissensi” (Theodoriciana, cap.27).
Filosemita dal sogno impossibile
Lo stesso autore si rammarica del fatto che
Teodorico avesse dato ragione agli Ebrei,
che si erano rivolti a lui dopo uno dei primi
pogrom attestati dalla storiografia cristiana.
A Ravenna alcuni cattolici fanatici avevano
incendiato la sinagoga ed episodi simili erano
avvenuti in altre città. Andati a Verona a
protestare dal re, gli Ebrei avevano trovato
ascolto da parte del ciambellano goto Trivane, il quale: “da quell’eretico protettore di
giudei che era, diede al re una versione dei
fatti sfavorevole ai cristiani. Il re sentenziando
in merito ordinò che tutto il popolo dei
romani provvedesse a restaurare a denaro
contante le sinagoghe incendiate” (cap.26).
La sentenza di Teodorico, ineccepibile
ai giorni nostri, è qui vista come indizio di empietà contribuendo all’immagine di un Teodorico
“dannato” anche nei suoi momenti
migliori e fornendo un contributo
alla demolizione del personaggio. La
leggenda è quindi precoce e si sviluppa
soprattutto nell’ambiente romano dal
quale provenivano le vittime dell’ultimo nefasto triennio del regno di
Teodorico. Gli storici ritengono che
a fomentarla sia stato anche il “sogno
impossibile” di una società composita,
perseguito da Teodorico ed ereditato
da sua figlia Amalasunta, fino alla
tragedia finale di una guerra durata
18 anni, con le truppe bizantine occupanti e il genocidio del popolo
ostrogoto attuato dal generale Narsete,
forse per ordine di Giustiniano. Tutto
ciò precipitò l’Italia nel periodo più
cupo della sua storia, con attestazioni
anche di fenomeni di cannibalismo. La
leggenda di Teodorico attraversa comunque
i secoli di ferro dell’alto Medioevo italiano,
sopravvive all’apogeo e alla caduta di un
altro popolo di religione ariana, i Longobardi,
sopraffatti da un’alleanza tra il papa e i
Franchi (da cui scaturisce il Sacro Romano
Impero), passa indenne tra i sogni di effimeri
re stranieri e resiste al tentativo di germanizzazione degli imperatori sassoni e salici. La
si doveva di certo raccontare, se uno scultore
la mette per immagini sulla facciata di una
chiesa, proprio a Verona, una delle residenze
preferite del re ostrogoto: l’antica chiesa di
San Zeno più volte ricostruita. Si tratta di
due rilievi con una sola scena la cui attribuzione e datazione sono molto contestate a
causa della loro difficile lettura, dato che per
secoli i bambini di Verona usavano prendere
a sassate il re Teodorico. Siamo tra il 1117
e il 1138 quando Mastro Niccolò, un allievo
del grande Wiligelmo, scolpisce (o rimette
in opera?) questa scena di pietra che rappresenta da un lato la “caccia infernale” di
Teodorico con l’ignaro re a cavallo che suona
il corno, mentre un cane gli cammina accanto, dall’altro un cane che azzanna un
grande cervo mentre una figura umana ma
con fattezze mostruose (il demonio o un
suo servo) sta davanti a un arco sormontato
da fiamme, probabile allusione alla porta
dell’inferno. La lunga iscrizione latina che
accompagna le due immagini si riferisce al
bagno dove si sarebbe trovato il re e alla sua
intenzione di inseguire il cervo in groppa al
cavallo che lo avrebbe invece condotto all’inferno.
Rigore filologico nei versi carducciani
Ritornando a questo punto a Carducci e
rileggendo La Leggenda di Teodorico, datata
al marzo 1884, non si può fare a meno di
notare che le fonti sono ben note al poeta,
del resto valente filologo. Ci sono riferimenti
a Gregorio Magno, al Nibelungenlied, alle
sculture di Verona, ci sono i cani, il cervo,
il bagno, il corno da caccia e vi è la coincidenza che Severino Boezio era proclamato
santo proprio nel dicembre 1883. Non vi è
dubbio che la leggenda nera creata dalla
tradizione cattolica doveva piacere molto al
maturo poeta anticlericale, autore negli anni
giovanili di discussi e discutibili sproloqui
come l’ Inno a Satana. Doveva piacergli il
re ostrogoto, ma non tenta affatto di riabilitarlo, anzi lo rappresenta eternamente dannato, e lo fa con compiacimento, quasi con
voluttà. L’eroe non è infatti solo quello del
mito solare, non è sempre giovane e bello
con i riccioli biondi, non vive soltanto nell’eterna Arcadia dei poemi giovanili. Può
essere anche l’anziano condottiero pronto
a espiare le sue colpe, in un giorno qualsiasi
di un’estate veronese, durante una battuta
di caccia. L’importate è che non sia banale
e conformista. Magari dannato, ma sempre
diverso dall’Italietta odiata e al tempo stesso
plaudente. Ecco così che, nel ritmo incalzante
dell’ottonario a rime alterne, il poeta ci
consegna un affresco storico indimenticabile
pieno di immagini, di colori, di suoni, di
luce e di totale mancanza di pentimento,
perché a un dannato “vero” ciò non è concesso. E, primo tra i pochissimi estimatori
italiani, anzi in questo vero pioniere, ci lascia
la celebrazione di un’epoca che, perfino in
anni più recenti, è stata sommariamente
giustiziata sotto l’etichetta di “secoli bui”,
quasi che i barbari, -come i latini e gli arabi,
i greci e gli etruschi- non siano parte delle
nostre molteplici e arzigogolate radici.
P.22: Stromboli, eruzione notturna; p.23: Cavaliere
romano tardo-imperiale; p.24: Spada alto-medievale
da parata o da mostra, Aarburg museum.
Teodorico di Verona,
dove vai così di fretta?
u ’l castello di Verona
Batte il sole a mezzogiorno,
Da la Chiusa al pian rintrona
Solitario un suon di corno,
Mormorando per l’aprico
Verde il grande Adige va;
Ed il re Teodorico
Vecchio e triste al bagno sta.
Pensa il dì che a Tulna ei venne
Di Crimilde nel conspetto
E il cozzar di mille antenne
Ne la sala del banchetto,
Quando il ferro d'Ildebrando
Su la donna si calò
E dal funere nefando
Egli solo ritornò.
Guarda il sole sfolgorante
E il chiaro Adige che corre,
Guarda un falco roteante
Sovra i merli de la torre;
Guarda i monti da cui scese
La sua forte gioventù,
Ed il bel verde paese
Che da lui conquiso fu.
Il gridar d'un damigello
Risonò fuor de la chiostra:
"Sire, un cervo mai sì bello
Non si vide a l'età nostra.
Egli ha i piè d'acciaro a smalto,
Ha le corna tutte d'òr".
Fuor de l'acque diede un salto
Il vegliardo cacciator.
"I miei cani, il mio morello,
Il mio spiedo" egli chiedea;
E il lenzuol quasi un mantello
A le membra si avvolgea.
I donzelli ivano. In tanto
Il bel cervo disparí,
E d'un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrì.
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l'apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no 'l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d'ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorrìa,
Ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
Lo seguìa de' suoi scudieri,
E mettea d'angoscia un grido
Per gl'incogniti sentieri:
"O gentil re de gli Amali,
Ti seguii ne' tuoi be' dì,
Ti seguii tra lance e strali,
Ma non corsi mai così.
Teodorico di Verona,
Dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
A la casa che ci aspetta?".
"Mala bestia è questa mia,
Mal cavallo mi toccò:
Sol la Vergine Maria
Sa quand'io ritornerò".
Altre cure su nel cielo
Ha la Vergine Maria:
Sotto il grande azzurro velo
Ella i martiri covrìa,
Ella i martiri accoglieva
De la patria e de la fé;
E terribile scendeva
Dio su 'l capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
Va il cavallo al fren ribelle:
Ei s'immerge ne la notte,
Ei s'aderge in vèr' le stelle.
Ecco, il dorso d'Appennino
Fra le tenebre scompar,
E nel pallido mattino
Mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
Di Vulcano ardua che fuma
E tra i bòmbiti lampeggia
De l'ardor che la consuma:
Quivi giunto il caval nero
Contro il ciel forte springò
Annitrendo; e il cavaliero
Nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
Che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
Non è il sole, è un'ampia fronte
Sanguinosa, in un sorriso
Di martirio e di splendor:
Di Boezio è il santo viso,
Del romano senator.
25
26
al mosaico delle ‘costituzioni gotiche’ si
possono estrarre alcune linee portanti
che andranno poi a
costituire l’ossatura
degli ordinamenti massonici moderni, a
partire dalle Constitutions of the FreeMasons del 1723:
- leggenda delle origini: comune alle varie
formulazioni è l’intento di dimostrare
l’antica e nobile discendenza dell’Arte
Reale muratoria, nonché il suo decoro
intellettuale connesso alla conoscenza
teorica e all’applicazione pratica delle artes
liberali fondate sulla Geometria. Se inizialmente questi racconti mirano fondamentalmente ad emancipare il lavoro muratorio dal rango minore delle arti manuali,
dal tardo Cinquecento essi si connoteranno di implicazioni politico-religiose volte
a ottenere consensi e benevolenze dai
regnanti e dalla Chiesa (i riferimenti ai re
biblici David e Salomone, a santi e sovrani
come protettori e membri dei Crafts). In
alcuni casi (come per la Carta di Colonia)
la ricompilazione della genesi massonica
può essere strumentale a polemiche di
natura ideologica;
- ammissione e giuramento di appartenenza: quasi tutte le “costituzioni gotiche”
prevedono, in termini più o meno espliciti,
atti formali per l’ingresso nelle compagnie
di nuovi soci. Nella maggior parte dei casi
si tratta di formule cerimoniali la cui
struttura è già delineata nel Poema Regius
e consiste con ogni probabilità nella presentazione al candidato della storia delle
origini e nell’elencazione dei doveri che
egli è chiamato ad assumere, compreso il
vincolo del silenzio su quanto viene fatto
e detto nella compagnia.
L’atto è suggellato dalla prestazione di un
giuramento da parte del candidato, al
quale vengono prospettati i severi castighi
previsti per gli spergiuri. Nei catechismi
massonici settecenteschi, orientati in senso
filosofico più che ai contenuti di mestiere,
l’atto di ricevimento acquisisce più specifici
connotati simbolico-rituali. Con la leggenda delle origini al neofita vengono
comunicate le istruzioni, per lo più in
forma di dialogo, la Mason’s Word (la
Parola), le posizioni d’ordine, segni di
riconoscimento e toccamenti (Grips, letteramente “prese di mano”). Si formalizza
così, in un complesso di simboli verbali
e gestuali, la trasmissione – essa stessa
traditio – di un retaggio tradizionale il cui
esercizio è riservato agli “ammessi ai
lavori”, quale che sia l’operatività cui il
lavoro si riferisce. In questa prassi sono
già contenuti tutti gli elementi base del
rito di iniziazione massonica che attraverso
successive elaborazioni assumerà le modalità tuttora correnti. Un abbozzo di
procedura rituale è delineato nel Ms. di
Shaw (1598). Da notare, in fine del passo
citato, il riferimento a una qualche forma
di “tegolatura” che deve precedere l’ammissione: Nessun maestro o compagno del
mestiere sarà ricevuto o ammesso, se non
alla presenza di sei maestri e di due apprendisti introdotti, il sorvegliante della loggia
essendo uno dei sei; il giorno della ricezione
di detto compagno del mestiere o maestro
sarà debitamente registrato, e il suo nome
e il suo marchio saranno iscritti nel libro
coi nomi dei sei che l’hanno ammesso e
quelli degli apprendisti introdotti; i nomi
degli istruttori che si devono scegliere per
ciascun recipiendario saranno ugualmente
iscritti nel libro. Tutto ciò a condizione che
nessun uomo sia ammesso senza che si sia
esaminata e sufficientemente provata la sua
abilità e il suo valore nel mestiere al quale
è chiamato.
Con il tempo l’atto d’ammissione assume
una consistenza rituale sempre più definita
e – dato di notevole importanza – con
modalità distinte per Apprendisti e Compagni / Maestri, come appare nel Ms.
Kevan: l’Apprendista, dopo aver prestato il
giuramento “in nome di Dio e San Giovanni, su Squadra, Compasso e Regolo”, viene
allontanato dalla Compagnia dal Massone
più giovane, e dopo che è stato adeguatamente spaventato con una quantità di smorfie e gesti, egli deve imparare dal suddetto
Massone il modo di mettersi all’ordine, che
sono i Segni, le Posture e le Parole della sua
ammissione… Quindi tutti i Massoni presenti sussurrano la Parola tra di loro cominciando dal più giovane fino a che giunga al
Maestro Massone, il quale dà la Parola
all’Apprendista ammesso. Nel documento
si precisa poi che “tutti i Segni e le Parole
di cui si è appena detto sono le sole che
competono agli Apprendisti ammessi, ma
per essere un Maestro Massone o Compagno d’Arte c’è altro da compiere”.
Per prima cosa, tutti gli Apprendisti devono uscire dall’Assemblea e solo ai Maestri è consentito rimanere. Poi, si fa nuovamente inginocchiare colui che deve
essere ricevuto come membro della Corporazione, e gli si fa rinnovare il Giuramento. In seguito egli deve uscire dall’As-
27
semblea con il più giovane Maestro per
imparare la Parola e i Segni della Corporazione; quindi entra di nuovo e dà i Segni
di Maestro della Corporazione e pronuncia le stesse Parole di ammissione come
ha fatto l’Apprendista tralasciando solo il
riferimento al Regolo. Quindi i Maestri
sussurrano la Parola fra loro cominciando
dal più giovane come prima. In seguito il
giovane Massone avanza e si pone nella
posizione in cui deve ricevere la Parola e
dice loro: “I rispettabili Massoni e l’onorevole Compagnia da cui provengo vi
porgono i migliori saluti, vi porgono i
migliori saluti, vi porgono i migliori
saluti”.
- libero e di buoni costumi: le normative
delle “costituzioni gotiche” definiscono
fin dal Poema Regius l’attitudine al lavoro
muratorio anche in termini di idoneità
fisica, ma il requisito più importante è
concordemente individuato nello stato
di “uomo libero” per nascita e condizione
in cui deve trovarsi il neofita. Con tutta
probabilità tale prescrizione fa originariamente capo all’intento di dare della Mu-
28
ratorìa l’immagine di arte non servile,
come per altro ribadiscono con tutta evidenza i ricorrenti richiami, nelle leggende
delle origini, al fatto che “l’Arte ebbe inizio
da figli di grandi signori nati in libertà”
(Ms. di Cooke). Ampie parti dei manoscritti delle origini, a partire dal Poema
Regius, sono dedicate poi alle norme eticomorali, descritte nei vari elenchi dei Doveri
(Charges) e relative alla religione, alla
fedeltà al re, al comportamento sul lavoro
e verso gli associati, alla solidarietà. Con
la leggenda delle origini, i Doveri fanno
parte integrante del cerimoniale (rituale)
di ricevimento da leggersi “a voce alta”
come prescrive il Ms. Grand Lodge n. 1;
- sistema dei gradi: nella muratoria di
mestiere vige un ordine gerarchico che
assegna mansioni e responsabilità in base
alle qualifiche delle maestranze (Statuto
di Strasburgo). Ai vari gradi di competenza
corrispondono salari diversi e sono previsti
passaggi alla classe superiore in ragione
del livello d’istruzione raggiunto (Poema
Regius). Dalle classi di mestiere questo
principio gerarchico si trasferirà al sistema
dei gradi simbolici, con i relativi aumenti
di paga, elaborato dalla massoneria “di
accettazione”.
Nelle “costituzioni gotiche” appare ben
individuata la figura dell’Apprendista, che
secondo gli ordinamenti corporativi ogni
maestro può assumere in piena autonomia, ferme restando alcune prescrizioni
comuni come la condizione sociale del
discepolo, il suo diritto al salario, il periodo
dell’apprendistato (dai 3 ai 7 anni), il
numero massimo di apprendisti che il
maestro può tenere presso di sé. Inizialmente l’Apprendista non è inquadrato
nei ranghi della corporazione, non gode
delle prerogative degli ammessi a pieno
titolo, né può essere investito di uffici o
dignità. Con l’evolversi degli assetti organizzativi di mestiere, fra i secoli XV e XVI,
la classe degli Apprendisti ottiene un diverso inquadramento e nel Ms. di Shaw
(1598) si definisce la figura dell’Entered
Apprentice (Apprendista ammesso), dotato di uno status giuridico che tra l’altro
gli concede sia pur limitata autonomia
nell’esercizio del mestiere (gli è permesso
di assumere in proprio qualche opera
purché d’importo non superiore alle dieci
lire). Inoltre, come s’è visto, la presenza
di due Apprendisti è prescritta nel cerimoniale di ricevimento dei Maestri o
Compagni, a conferma della nuova dignità
che la classe ha assunto. Passo successivo
sarà l’introduzione di forme distinte d’ammissione per Apprendisti e Compagni
d’Arte, definendosi per ciascuna gli specifici “gradi” di conoscenza e ambiti operativi. Queste due classi costituiscono il
sistema prevalente negli ordinamenti di
mestiere, dove i termini “Maestro” e
“Compagno d’arte” (Socio) sono impiegati in modo spesso ambiguo, per lo più
come sinonimi. Una più precisa distinzione fra le due qualifiche appare in alcuni
catechismi del primo Settecento: nel Ms.
Sloane 3329 (ca. 1700), dove vengono
descritti due diversi segni di riconoscimento (Grips) per Compagni e Maestri,
e nel Ms. Trinity (1711) che riporta a sua
volta segni distinti per Apprendisti, Compagni e Maestri, e alla domanda “Cosa
rende una loggia giusta e perfetta?” dà la
risposta “Tre maestri, tre Compagni uomini d'arte e tre Apprendisti iniziati”. In
una situazione quantomeno fluida qual
è quella della muratorìa britannica a inizio
secolo XVIII, per la crescente presenza di
“accettati”, è possibile che alcune logge si
siano trasformate in “laboratori” dove
accanto ai nuovi indirizzi ideologici si
sperimentano anche nuovi modelli organizzativi di un lavoro ormai in larga parte
simbolico. Pur non essendo del tutto da
escludere che da qualche parte sia stato
imbastito, magari già prima del Settecento,
uno specifico apparato simbolico-rituale
per il grado di Maestro, è in ogni caso
prematuro pensare a un sistema a tre gradi
già definito e operante, con i relativi rituali,
così in anticipo rispetto alla generalizzata
adozione del 3° grado nella Massoneria
europea, databile solo alla seconda metà
del Settecento.
Di fatto quella di Maestro, più che una
classe operativa, nella tradizione di mestiere è una funzione direttiva spettante a
chi ha ricevuto la commessa dell’opera o
a un Socio eletto fra le maestranze. Analogamente, nei catechismi settecenteschi
la funzione del Maestro è in sostanza
quella di capo della loggia. Così recita un
passo del catechismo nel Dumfries n. 4:
“Quante luci nella Loggia? - Tre. - Quali?
- Il maestro, i compagni ed il sorvegliante.
- In quale maniera sono disposte le luci? Una a oriente e una a occidente, ed una in
mezzo. Per chi è quella a Oriente? - È per
il maestro, quella ad occidente per i compagni d’arte e quella di mezzo per il sorvegliante’’.
Nello stesso documento sono poi presentati in elenchi distinti i Doveri dei Maestri
e Compagni d’Arte e i Doveri dell’Apprendista. Il Ms. Grand Lodge n.1 (1583), fonte
principale delle costituzioni massoniche
successive, richiamandosi ai Doveri dettati
da Euclide “ai figli dei grandi signori cui
insegnava la Geometria”, prescrive che
“Maestro dei lavori deve essere nominato
il più saggio fra di loro, non per amicizia,
né per il suo lignaggio o ricchezza, né per
favoritismo... e il direttore dei lavori dovrà
essere chiamato Maestro per tutto il tempo
che essi lavoreranno con lui”. Questo Dovere è ripreso presso che alla lettera nei
documenti e catechismi successivi, dall’Inigo Jones (?1605) allo Holywell (1748).
Negli Old Charges di Anderson riappare
in questa forma, ai Titoli IV e V:
Tutte le preferenze fra i Muratori sono
fondate soltanto sul reale valore e sul merito
personale, di modo che i committenti siano
ben serviti, che i Fratelli non debbano vergognarsi, né che l’Arte Reale venga disprezzata. Pertanto nessun Maestro o Sorvegliante
sia scelto per anzianità, ma per il suo
merito… Il più esperto dei Compagni d’Arte
deve essere scelto e nominato Maestro, o
sovrintendente del lavoro del committente,
e deve essere chiamato Maestro da coloro
che lavorano sotto di lui.
Anche la prima Grand Lodge di ‘accettazione’ (1717) si allinea dunque alla tradizione di mestiere adottando il sistema a
due gradi simbolici, Apprendista e Compagno d’Arte, mentre il titolo di Maestro
coincide in sostanza con l’attuale Maestro
Venerabile, nella quale si traspone la figura
del “sovrintendente dei lavori”, o commissionario dell’opera. Fra la prima e
seconda redazione delle Costitutions intervengono però alcuni fatti che determineranno una correzione di rotta. La loggia
londinese Queen’s Head, un organismo
di mestiere accolto “all’obbedienza” della
Grand Lodge, fonda l’8 febbraio 1725 una
società di mutuo soccorso per “veri amanti
della Musica e dell’Architettura” denominata Philo-Musicae et Architecturae Societas
Apollini; in pratica una “loggia di
accettazione” nella quale in un biennio
entrano 39 membri (fra questi il musicista
Francesco Geminiani che, iniziato alla
Queen’s Head il 1° febbraio 1725, risulta
essere il primo italiano in assoluto affiliato
alla Massoneria). Nella nuova loggia si
conferisce anche il grado di Maestro, e su
questa scia presto si pongono diverse altre
logge indipendenti, come l’antica e autorevole Loggia di York. La reazione della
Grand Lodge a queste iniziative di organismi massonici concorrenti (la Queen’s
Head viene sciolta nel 1727) si manifesta
con la seconda edizione (1738) delle Costitutions, dove il termine Master Mason
appare come denominazione alternativa
del secondo grado (Fellow Craft). È il
primo passo verso la definizione del 3°
grado (Maestro Libero Muratore) i cui
contenuti specifici, con relativo apparato
simbolico e rituale di iniziazione, verranno
compiutamente elaborati soltanto nei
decenni successivi.
P.26: Bianco e Nero, P. Del Freo, coll. privata; p.27:
SATOR nel Tempio delle Pietre Sapienti, Roma; p.2829: Poliedri complessi in legno, coll. privata.
29
30
Roma il 4 dicembre
2006 nella Sala del
Refettorio della Camera dei Deputati si è
tenuto il Convegno
su Il valore condiviso
della laicità dello stato. Hanno partecipato
i Relatori: Alessandro Diotallevi, Valerio
Morgia, Gerardo Bianco, On.Valdo Spini,
On. Emanuele Fiano, On. Khaled Fouad
Allam, Luigi Pruneti, Paolo Garuti, Paolo
Ricca, Stefano Ceccanti, Vincenzo Ribet.
Nella sua relazione, Dalla tolleranza allo
Stato etico: nascita del concetto di laicità, lo
storico Luigi Pruneti ha posto l’accento
sulla formazione del concetto di tolleranza.
Le sue parole sono state trascritte dalla
traccia registrata nell’intervento pronunciato in quella occasione.
Nell’antichità
Fin dalle origini, il concetto di tolleranza
si presenta in forma esplicita come il problema della tolleranza religiosa. Secondo
alcuni studiosi, la questione connessa alla
tolleranza affonda le sue radici addirittura
nell’età classica. Fu allora, infatti, che si
impose il dibattito sul dissenso religioso,
con gli esempi di Socrate e Alcibiade. Il
primo, accusato di ‘ateismo’ nel 399 a.C.,
subì il processo e la condanna a morte; il
secondo, sospettato di aver partecipato al
sacrilegio delle erme e alla parodia dei
misteri d’Eleusi, dovette riparare in terra
lacedemone. In ogni modo, è sempre nel
mondo classico che si registrano, per merito di alcuni monarchi, i primi provvedimenti rivolti a garantire la convivenza tra
posizioni religiose diverse. Celeberrimo è
il caso di Ashoka il Grande (III secolo a.C.),
sovrano indiano della dinastia Maurya del
Magadha, figlio di Bindusara, al quale
successe nel 272. Egli eresse i cosiddetti
sette Pilastri della Saggezza, il più antico
monumento linguistico dell’indoario, in
cui si presentavano precetti morali e editti
ispirati ai dettami del buddismo. Parimenti,
nella nostra sfera culturale, taluni monarchi
ellenistici, come Antioco II di Siria (286246 a.C.) e Tolomeo II Filadelfo (308-246
a.C.), promuovono provvedimenti di tal
genere. Il problema della separazione dell’autorità politica dal potere religioso, da
cui scaturirà il concetto di laicità (da laikòs,
‘del popolo’), emergerà invece solo più
tardi.
Il Medioevo
Alcuni ne ravvisano i primi presupposti
nel pensiero del pontefice Gelasio I, che
successe a Felice III nel 492. Egli scrisse
una missiva all’imperatore d’Oriente, in
cui tentò di distinguere in maniera estremamente precisa le sfere d’interesse tra
religione e politica, tra potere papale e
imperiale. La storia successiva dell’Età di
Mezzo, al contrario, imboccò la direzione
opposta, registrando un aspro antagonismo tra questi due poteri. Tale stato di
conflitto, però, non fu sempre deleterio:
secondo lo studioso Guido de Ruggiero
(1888-1948), gli attriti tra impero e papato
furono salutari per l’Occidente, poiché lo
vaccinarono contro la stagnante teocrazia
d’Oriente. Sicuramente, secondo lo storico
Gaetano Salvemini (1873-1957), ai primi
lumi di laicismo concorsero anche i Liberi
Comuni, assetati d’indipendenza e autonomia. E’ certo, comunque, che le prime
considerazioni sulla separazione tra potere
religioso e politico risalgono al periodo
medievale: si pensi al De Monarchia di
Dante o al Defensor Pacis di Marsilio da
Padova. Sempre al Medioevo risale la prima presa di posizione, netta e precisa, nei
confronti della tolleranza: il filosofo e
teologo inglese Guglielmo d’Occam (12801349), autore del De imperatorum et pon-
tificum potestate, prendendo spunto dalla
condanna rivolta ad alcune posizioni
espresse da S. Tommaso d’Aquino, difende
l’autonomia della filosofia e della scienza
dalla fede e da qualsiasi altra ingerenza.
L’influsso del pensiero di Occam sarà determinante per gli autori del secolo XIV
ed ispirerà il cosiddetto ‘occamismo’, corrente filosofica, teologica e politica improntata sulla netta distinzione fra l’ambito
della fede e il campo d’azione della ragione,
fra teologia e scienza, fra potere laico ed
ecclesiastico. Le idee di Occam, quindi,
rappresentarono il tratto d’unione tra la
cultura medievale e il pensiero moderno.
Dal Rinascimento
alla Riforma protestante
Un contributo notevole in questo senso
lo portò anche il Rinascimento, con la
riscoperta della civiltà classica, rivisitata
alla luce di un ideale di perfezione umana,
tutta terrena. Da ciò scaturì l’idealizzazione
di un mondo che non conosceva sinergie
né opposizioni tra religione e politica.
L’indagine di Pruneti si è poi concentrata
sul pensiero di Erasmo da Rotterdam
(1466-1536), umanista di grande fama,
che sulla scorta della devotio moderna attua
31
una rilettura in chiave storica e morale
della figura di Cristo, mostrando il suo
scetticismo nei confronti di un irrigidimento dogmatico dell’esperienza religiosa.
Tuttavia, il problema devastante del dissenso religioso emergerà con la Riforma
protestante, all’interno di Paesi che dovevano fare i conti con considerevoli minoranze religiose. La questione religiosa,
quindi, assunse caratteri squisitamente
politici. Di qui i primi atti di tolleranza:
ad esempio, il 13 agosto 1598, data fondamentale, Enrico IV di Borbone promulga
l’editto di Nantes, che sancisce la libertà
di culto, di coscienza e di garanzie territoriali agli Ugonotti. Siamo nel XVII secolo,
periodo delle guerre di religione e dei primi
‘imprenditori di morte del pianeta’, ma
anche momento storico segnato da un
32
gran fermento d’idee. Galileo Galilei (15641642), ad esempio, riprende il pensiero di
Occam traslandolo sul piano della scienza:
la ricerca scientifica non deve subire invasioni di campo.
Nell’Olanda di Spinoza
Poco dopo, il filosofo olandese Baruch
Spinoza (1632-1677) rivendica analogamente la libertas del pensiero filosofico,
pubblicando anonimamente nel 1670 il
Tractatus theologico-politicus, che è subito
esecrato come empio tanto dai cattolici
quanto dai protestanti. Si tratta di un’opera
basilare, in cui si afferma che il pensiero è
frutto della coscienza di ciascun uomo,
quindi per sua natura incoercibile. E’ dunque non solo ingiusto, ma addirittura folle
e assurdo cercare di sopprimerlo. La tutela
della libertà di coscienza richiede pertanto
una totale laicità dello stato. Ci troviamo
in Olanda, nei Paesi Bassi, e il Tractatus
riceve l’unanime disapprovazione; però
in questo Paese si assiste anche ad una
sorta di convivenza pacifica tra confessioni
religiose diverse. In Olanda, infatti, vivevano l’uno accanto all’altro, cattolici, ortodossi, riformati, luterani e persino arminiani. Nasce così il mito di un’Olanda
come terra di libertà; tant’è vero, che lo
storico e filosofo Pietro Giannone (16761748), languendo in carcere, penserà all’oasi felice dell’ Olanda, come Paese simbolo della tolleranza che ancora nella Penisola non si conosce.
Il latitudinarismo
Nel 1689 avvenne un altro importante
evento: l’atto di tolleranza inglese. Esso, in
pratica, non sancì la libertà religiosa, ma
depenalizzò i dissenzienti. Fu un notevole
passo in avanti, determinato in larga misura da una corrente di pensiero maturata
all’interno della Chiesa anglicana: il latitudinarismo. I latitudinari, infatti, consideravano legittima la molteplicità delle dottrine teologiche delle diverse confessioni
protestanti. Essi rappresentarono la Broad
Church che, in opposizione alla High
Church tradizionalista, promosse una pacificazione religiosa fondata sulla concordanza sostanziale tra tutti i cristiani. Per i
latitudinari, in breve, la tolleranza reciproca
rappresentava il corollario della stessa
fratellanza cristiana.
J. Locke e l’Epistola sulla tolleranza
Molto vicino a tale impostazione fu anche
il filosofo inglese John Locke (1632-1704),
che nel 1689, rifugiatosi in Olanda a causa
della definitiva sconfitta del conte di Shaftesbury, pubblicò l’Epistula de tolerantia,
vero e proprio caposaldo lungo questo
processo. La posizione di Locke è molto
complessa e articolata: egli afferma che il
pensiero fa parte della coscienza e quest’ultima non si può reprimere in alcun modo.
Ne consegue che la violenza fisica, verbale
o giuridica non serve a ricondurre sulla
via della vera fede colui che devia. Il solo
modo per agire sulla coscienza va ricercato
nella forza delle idee, non nella brutalità
della repressione. In ciò vi è anche un
aspetto pratico: il dissenso religioso è innocuo nei confronti del potere politico,
ma se subisce la repressione può facilmente
trasformarsi in opposizione e in fondamentalismo, divenendo un pericolo per
tutto il sistema sociale. Egli, al pari dei
latitudinari, afferma che la tolleranza è un
corollario del dovere di fratellanza tipico
del cristianesimo. Il rispetto della coscienza
religiosa del singolo, quindi, emerge da
una concezione spirituale, anziché temporale, della religione: di qui la necessità di
separare nettamente le chiese dallo stato.
Locke è un fautore della tolleranza per
tutti, fuorché per gli atei e i cattolici. I primi
sono addirittura giudicati un pericolo per
l’equilibrio sociale: “Infatti – egli sostiene
nell’Epistola – né una promessa, né un
patto, né un giuramento, tutte cose che
costituiscono i legami della società, di un
ateo possono costituire qualcosa di stabile
o di sacro; eliminato Dio, anche solo con
il pensiero, tutte queste cose si dissolvono”.
I secondi, invece, rientrano nelle confessioni intolleranti, dunque immeritevoli a
loro volta di tolleranza, giacché professano
principi pericolosi per la convivenza sociale. Nel suo An essay concerning toleration,
Locke esplicitamente dichiara: “Per quel
che riguarda i papisti, è certo che di molte
delle loro pericolose opinioni, che sono
completamente distruttive di tutti i governi,
eccetto il governo del papa, non deve essere
tollerata la propagazione”. Poco più avanti,
egli riprende il discorso affermando: “I
papisti non devono godere del beneficio
della tolleranza, perché, dove essi hanno
il potere, si ritengono obbligati a negare
la tolleranza agli altri”. Su questo punto,
Pruneti ha particolarmente sottolineato
la necessità di cogliere nel suo contesto
storico l’affermazione di Locke, ricordando
che in Inghilterra i cattolici ottennero una
completa emancipazione solo nel 1829.
Il contrattualismo
e il giusnaturalismo
Locke è un esponente di quel filone di
pensiero filosofico e giuridico denominato
‘contrattualismo’, secondo cui l’istituzione
della società e dello stato poggia su un
contratto stipulato dagli individui che ne
fanno parte. Non a caso, nei suoi due
Trattati sul governo civile del 1690, egli
critica l’assolutismo biblico/patriarcale di
Robert Filmer ed elabora una teoria liberale
dello stato, sostenendo che la funzione di
un governo consiste nell’assicurare i diritti
fondamentali dell’uomo, il primo dei quali
è il diritto alla vita, seguito dalla libertà e
dalla proprietà. Da parte sua, il singolo ha
il dovere di rinunciare ad un solo diritto
naturale, quello di farsi giustizia da sé,
delegandolo al potere legislativo.
Ciò indica che il pensiero di Locke confluisce in parte anche nel ‘giusnaturalismo’,
una dottrina filosofico/giuridica che prende
le mosse dal De jure belli ac pacis di Ugo
Grozio, opera scritta nel 1625. Il ‘giusnaturalismo’ laicizza l’idea di stato, sostenendo l’esistenza di norme di diritto naturali
che vincolano l’attività del legislatore; se
ciò non avviene, la legge degenera in arbitrio.
La fisiocrazia
Tutte queste correnti di pensiero saranno
alimentate da quel gran periodo di circolazione d’idee che sarà il Settecento, in cui
prenderà impulso, a partire dalla Francia,
un’importante dottrina economica e sociale tendente al liberalismo assoluto: la
‘fisiocrazia’ (da physis, natura, e kratein,
dominare). Secondo i fisiocratici, nessun
intervento normativo deve alterare la dinamica naturale dell’economia, giacché
l’ordine del libero commercio è un meccanismo capace di regolarsi autonomamente. I fisiocratici ebbero un nemico
fondamentale: ciò che rimaneva del feudalesimo, ritenuto il principale ostacolo
al processo di sviluppo della nuova economia, che si fondava sulla totale libertà
dell’imprenditoria umana. Per questo, essi
saranno favorevoli anche a regimi fortemente autoritari (come la monarchia assoluta ed ereditaria), purché capaci di
abbattere i residui del potere feudale e
garantire la prosperità economica.
P.30: Montecitorio, Roma; p.31: Il L.S.G.C.G.M.A.V. Luigi
Pruneti; p.32: Francois Marius Granet, J.A.D.Ingres, olio
su tela, Louvre, Parigi; 1. p.33: Marcotte d’Argenteuil,
J.A.D.Ingres, olio su tela, Louvre, Parigi; (30 e 31: foto
Paolo Del Freo).
33
34
albero a cui tendevi/
la pargoletta mano,/
il verde melograno/
da’bei vermigli fior,/ .../.
Così inizia Pianto
antico, una breve ode
che il Carducci scrisse nel giugno del 1871,
nel terzo anniversario della nascita del
figlio, il piccolo Dante, morto pochi mesi
prima. E’ una delle liriche più note e commoventi del Poeta, di grande semplicità
stilistica e di purezza contenutistica. Nasce
da una profonda meditazione letteraria,
frutto di una faticosa opera di rifinitura
del testo testimoniata dallo studio delle
modifiche e delle correzioni. E’ immagine
pura, è immediatezza emotiva, dove le
parole, scelte con minuziosa attenzione,
si prestano a sapienti giochi simbolici. E’
infatti mirabile constatare come il dato
biografico e le memorie letterarie si dissolvano in un ambito simbolico universalmente rappresentativo. Mito e simbolo si
fondono. La poesia ripropone un tema
generalmente presente nelle immagini
funerarie del Carducci: l’ antitesi tra vita
e morte, tra luce e buio, tra la forza vitale
dell’ esistenza e la reale fisicità della morte,
in un gioco di opposti e polarità, proprio
del simbolo. L’albero è la prima figura
evocata; l’albero è il melograno, quello che
campeggiava nel giardinetto della casa
dove egli abitò a Bologna. Già in queste
prime righe il contenuto simbolico è altissimo. Ora, nel cuore del Poeta, il melograno non è più una semplice pianta, ma un
ricordo, metafora inconsapevole della nostalgia di ciò che fu rispetto a ciò che è. Il
presente è l’immagine dell’albero che rifiorisce e della vita che ritorna nei primi
tepori estivi e che riporta alla mente, per
contrasto, un’altra vita che non ritorna.
Nella rappresentazione del fanciullo che
tende la mano a cogliere i pomi vermigli,
c’è il richiamo ad una doppia valenza
simbolica, quella dell’albero e quella del
melograno con i suoi frutti. L’albero, in
quasi tutte le tradizioni è l’albero cosmico,
inteso come axis mundi, e che spesso assume anche il significato di albero della
vita e dell’immortalità. Tale prerogativa è
suggellata proprio dall’atto del bimbo di
allungare la piccola mano. Ciò ricorda,
infatti, certe raffigurazioni pittoriche, come
per esempio un affresco dell’ipogeo di
Thutmes III a Tebe della fine del XIV
secolo a. C. dove un albero rigoglioso,
raffigurato con una mammella ed un pos-
sente braccio che fuoriesce dalla chioma,
è nell’atto di nutrire con la sua linfa il
faraone. Quest’ultimo, per sottolineare la
forza rigeneratrice dell’albero, afferra con
le mani il grande braccio. L’albero cosmico
è diventato anche albero della vita: i suoi
frutti, così narra la tradizione egizia, mantengono eternamente giovani e sapienti
gli dei e le anime dei morti. Dello stesso
tenore è un rilievo presente nella Camera
delle offerte di Wou Yong (Cina 168 d.C.)
dove viene raffigurato un personaggio che,
sceso dal suo carro, tocca con la mano un
grande albero tra le cui fronde si vedono
appollaiati alcuni uccelli: è un microcosmo
pieno di vita. L’albero, dunque, con la sua
crescita verticale alla continua ricerca della
luce, con il suo rinverdirsi ad ogni primavera, è simbolo dell’eterna rigenerazione,
ma è anche l’immagine dell’incessante
vittoria sulla morte. E’ l’ espressione assoluta del mistero della vita che rappresenta
la reale sacralità del cosmo. Sin qui l’albero
sensu latu. Ma nella poesia del Carducci
l’albero è un melograno, e ciò rende ancora
più evocativo di antichi miti il teso poetico!
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Benché complessa ed articolata sia la simbologia in questione, se ne può rintracciare
agevolmente quella valenza che fa capo ai
miti più arcaici di origine mediterranea,
per esempio di derivazione greca, quale il
mito di Dioniso, dalle cui gocce di sangue
nacque la prima pianta, oppure il mito di
due fanciulle, Rhoió e Síde il cui nome
significa, appunto, melograno. Tutti si
riferiscono, simbolicamente, al ciclo morte/rinascita che si attua tramite un sacrificio.
E’ comunque il mito di Demetra e CorePersefone che rende la melagrana attributo
della Grande Madre, sovrana del cosmo,
nella sua doppia funzione di colei che dà
e che toglie la vita. Nell’Inno a Demetra
(Inni omerici, Milano 1975) Omero narra
la struggente storia di una figlia strappata
all’affetto della propria madre, per volere
e con la complicità degli dei. Tutti cono-
36
sciamo questo mito,tanto che è superfluo
ricordarlo nella sua interezza. Mi soffermo
solo su quella parte del racconto che in
modo mirabile descrive il ratto di Persefone
da parte di Ade, dio degli Inferi, per averla
sua sposa.
L’ira di Demetra è terribile: ella non lascerà
più germogliare alcun frutto sino a quando
la figlia non sia tornata a lei. Il signore dei
morti è costretto a liberare la fanciulla,
non prima di averle dato da mangiare... il
melograno dolce come il miele - furtivamente
guardandosi attorno - affinché ella non
rimanesse per sempre lassù con la veneranda
Demetra dallo scuro peplo (vv. 370-374).
Ade conduce Persefone al tempio di Eleusi
dove l’attende la madre. Il ricongiungimento è felicemente compiuto, ma Persefone ha ormai assaggiato il cibo dell’Ade
e per questo dovrà trascorrere, d’ora in-
nanzi, una parte dell’anno nel mondo dei
morti. E’ solo dopo aver compiuto questo
sacrificio che... ogni volta che la terra si
coprirà dei fiori odorosi, multicolori della
primavera, allora dalla tenebra densa tu
sorgerai di nuovo, meraviglioso prodigio per
gli dei e gli uomini mortali (vv. 401-403).
Le implicazioni simboliche del mito sono
molte ed interessanti, ma non sono qui
da valutare.
Quello che ci interessa è evidenziare che,
in tale contesto, la melagrana diventa simbolo del rinnovarsi e del rigenerarsi della
vita, processo che si attua attraverso il
perenne ciclo vita/morte/vita. È questa
sostanzialità che veniva evocata e celebrata
nei Misteri Eleusini,... i misteri solenni,
venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare o palesare... Felice tra gli
uomini che vivono sulla terra colui che è
stato ammesso al rito! (vv.476 e seg.).
Morte che ghermisce
per rendere a nuova vita.
In Carducci non vi è certo alcuna evidente
allusione a un simile linguaggio simbolico
benché, forse, potrebbe non essere del
tutto casuale il riferimento al melograno,
per un uomo di fede massonica come lui.
Inoltre, la tristissima morte del figlio lo
spinge alla ripresa di una tematica a lui
cara e tradizionalmente presente in molte
sue liriche e che egli sottolinea con l’uso
di termini contrapposti, quali luce e calor/terra fredda, terra negra, così che la
delicata semplicità di questi versi rende il
ricordo doloroso quasi pacificato dalla
constatazione dell’ineluttabilità del destino.
La composizione assume allora i toni accorati di certe nenie popolari, in cui l’abbandono al sentimento del dolore diventa
più tollerabile. Per questo, la rievocazione
del tragico evento non è fine a se stessa,
non è detta per prolungare ciò che appartiene al passato o per abbandonarsi alla
nostalgia di ciò che non è più nella realtà,
ma è il recupero di un particolare momento di vita, un momento felice che si contrappone, ora, ad un altro particolare momento di infelicità.
E’ in tale contrappunto che l’animo del
Carducci si dibatte, come egli stesso ebbe
a dire in una lettera scritta nel 1877: ...Nello
spazio di venti anni sono tre i giovani della
mia famiglia ... che io ho dovuto sentire da
lontano essere uccisi ... Poveri miei giovani,
i miei belli, i miei cari morti! Il mio cuore è
con i morti. ... Addio. Tutto è nulla, e nulla
è tutto! Forse è proprio questa istintiva
capacità di conciliazione degli opposti,
vita/morte, gioia/dolore, ieri/oggi, che rende
certe liriche carducciane, quali Funere
mersit acerbo, Nostalgia, Rimembranze di
scuola, Brindisi funebre, velate di semplicità
ed immediatezza e, quindi, popolari. Non
so se davvero fu così, se davvero il Poeta,
a metà strada fra il suo passato e il suo
presente, raggiunse quell’equilibrio e quella
consapevolezza del vivere cui ogni uomo
aspira.
Così parrebbe, a giudicare da alcune poesie
scritte nel periodo finale della sua vita
artistica, la sua ultima stagione. Dalla rappresentazione di un dolore che appare
senza conforto, dalla condizione di inquietudine e smarrimento che emergono da
Mors e Una sera di San Pietro, Carducci
passa alla tranquilla atmosfera dei versi di
Nevicata, quasi un canto elegiaco, dove il
Mezzogiorno
alpino
e
el gran cerchio de l’alpi, su ‘l granito
squallido e scialbo, su’ ghiacciai candenti,
regna sereno intenso ed infinito
nel suo grande silenzio il mezzodì.
Pini ed abeti senza aura di venti
si drizzano nel sol che gli penètra,
sola garrisce in picciol suon di cetra
l’acqua che tenue tra i sassi fluì.
senso della morte e del distacco dalla vita
è pur sempre presente: ... In breve, o cari,
in breve - tu calmati, indomito cuore - giù
al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò. E
benché taluna critica ritenga che questo
anelito ad una pace più duratura sia da
intendersi come la sua conclusione estrema, amara e rassegnata che nasce dalla
constatazione della precarietà e transitorietà
delle cose del mondo, nel bello, bellissimo
idillio Mezzogiorno alpino, si intuisce un
animo pacato, trasparente agli occhi del
lettore, tanto che vi si può scorgere quella
quiete interiore di chi percepisce serenamente il trascorrere del tempo e della vita
verso l’eternità.
P.34-35: Melograno; p.36: Il faraone si nutre da una
mammella fuoriuscita da un albero, ipogeo di Thutmes III,
fine XIV sec. a.C., Tebe, Egitto; p.37: Melograno, gioiello,
coll. privata (34, 35 e 37: foto Paolo Del Freo).
37
38
refazione
Il mosaico pavimentale della cattedrale dell’Annunziata di Otranto è il più grande
d’Europa, fu realizzato nel periodo
medioevale che va dal 1163 al 1166, in
piena età normanna, dalla scuola d’arte
dei monaci basiliani dell’abbazia di San
Nicola di Casole a pochi chilometri a
sud di Otranto, la città pugliese più
orientale d’Italia. La scuola artistica del
monastero era all’epoca presieduta dallo
ieromonaco1 Pantaleone, preside della
facoltà pittorica del monastero. Il monastero, attualmente ridotto ad un rudere, rappresentò nel medioevo uno
dei più fiorenti centri di cultura cosmopolita del mediterraneo; significativa
testimonianza di questa importanza
sono i numerosi palinsesti, di rara fattura, sparsi per le più importanti biblioteche d’Europa, ed il capolavoro per
eccellenza, l’immenso mosaico pavimentale di Otranto. L’abbazia di San
Nicola di Casole, gettò le basi sulle quali
sorse il Rinascimento italiano, anticipando infatti di più di un secolo le città
del nord Europa, già dal 1160 il monastero operava come una vera università
alla quale era associata una accademia
di scienze talmudiche, una ricca biblioteca, ed un assai conosciuto Scriptorium
equivalente ad una vera e propria casa
editrice dell’epoca. Dai riferimenti espliciti del mosaico di Otranto, Opus Insigne (1163-1166), come lo definisce lo
stesso ideatore Pantaleone, si possono
agevolmente dedurre le caratteristiche
cosmopolite del messaggio culturale
della scuola del monastero basiliano,
aperta ad una “Sapienza Globale”, per
la quale, concettualmente, le conoscenze della storia dell’uomo con i suoi miti
ed i suoi più reconditi misteri, confluivano in una unica visione tradizionale
unitaria. Il mosaico resta dunque la più
vivida testimonianza della grandezza
dell’operato dei monaci basiliani ed ha
come tema principale l’Albero della
Vita della tradizione ebraico-cristiana,
tuttavia presenta un linguaggio simbolico non facilmente interpretabili dall’uomo moderno, almeno per ciò che
concerne una visione d’insieme pura-
mente storico-mitologica, tale linguaggio racchiude al suo interno un messaggio per l’uomo universale, egli diviene il vero protagonista delle scene musive interagendo a più riprese con il
divino, in una dimensione che enfatizza
quegli aspetti tipici della mistica medioevale propri delle accademie talmudiche
e che trascina con se tutta l’eredità
passata delle metafisiche ebraica ed
orientale. Questo punto è fondamentale
per comprendere come uno studio sul
mosaico basato esclusivamente sulla
filologia e sulla paleologia dei simboli
visti puramente nel contesto storico di
riferimento dell’opera non è sufficiente.
Molti studiosi trovano indecifrabile il
tessuto linguistico/espressivo del mosaico negando spesso l’evidenza dei fatti
(ad esempio i riferimenti ai simboli
tantrici induisti o le esplicite simbologie
graaliche etichettando queste ultime
come contaminatio medievalis) ma ciò
che in realtà viene ignorato dalla scienza
ufficiale è il fatto che tali componenti
di linguaggio fanno parte di un contesto
esegetico legato ad una tradizione soteriologia che Frithjof Schoum definiva
l’unità trascendente di tutte le religioni
e che ci riconduce a quel tempo prediluviano in cui si parlava una unica
lingua ed esisteva una unica espressione
dei riti religiosi.
In realtà Pantaleone muove da un unico
piano ontologico tutto incentrato su
misticismo ebraico del Sefer Yetzirah2
pertanto l’asse principale del mosaico
è costituito dall’Albero della Vita biblico
equivalente, come riferimenti posizionali e simbolici all’Albero della Vita
cabalistico in un rapporto di scambio
energetico tra microcosmo uomo e
macrocosmo universo. Il modello energetico proposto dall’Albero della Vita
di Pantaleone riprende un antico filone
di conoscenze oramai frammentarie,
note agli antichi Indù ed ai maestri
ebrei che interpretavano il Talmud nel
metodo denominato haggadah alla base
della cabala ebraica così come la conosciamo oggi. Tale metodo, che ritroviamo nel simbolismo del mosaico come
strato esegetico estraibile dalle scene
bibliche, segue una percorribilità dell’alto verso il basso per raggiungere
l’unificazione delle coscienze, e succes-
39
sivamente dal basso verso l’alto per seguire il sentiero dell’ ascesi mistica. Per
ciò che concerne i simboli cavallereschi
e la Cerca del Graal, il mosaico offre una
originale visione che parte da antichi
riferimenti veterotestamentari legati alla
Coppa d’Oro di Babilonia come emblema di virtù per i Giusti o Puri di Cuore,
tale coppa custodita dal Giusto (uomo
nudo con bastone) nelle scene musive
dell’abside, diviene nel presbiterio l’archetipo della coppia edenica intesa come
ricongiungimento androginico degli opposti eterici, i cui corpi fisici, prossimi
all’ espulsione, sono sottoposti all’impulso
del serpente, ovvero al guasto o degradazione dell’eros secondo la corrente della
brama “per aver mangiato dall’albero
della conoscenza del bene e del male” e
aver precluso così la via all’Albero della
Vita. Da ciò il sentimento eroicocavalleresco del ricordo di un mondo
edenico perduto, espressione precisa delle
simbologie poste in cima all’albero della
navata centrale del mosaico come le scene
di Re Artù a cavallo di un caprone ed in
pugno la Sacra Lancia e le scene di Parsifal
nudo. Il sentiero di crescita ed intuizione
40
cavalleresca di questo mondo perduto
però parte da lontano, osserveremo come
le simbologie della navata centrale seguono i canoni del misticismo ebraico della
cabala come via verso la virtù, verso un
equilibrio di forze contrapposte che agiscono alla base dell’albero (Malkuth) ,
ovvero alla base della colonna vertebrale
in un rapporto efficiente micro-macro
cosmico. Risulta interessante osservare
come le simbologie della cabala e le sefirot
oltre a sovrapporsi alle simbologie dell’albero della Vita del mosaico, equivalgano in modo comparativo ad esplicite
simbologie induiste riferite al sistema dei
chakra o centri energetici del corpo umano e che Pantaleone a volutamente inserire sia nella navata centrale sia nel presbiterio. Segnaliamo inoltre la possibile
presenza di una tomba templare allineata
con l’asse del mosaico posta all’altezza
delle scene di Re Artù e Parsifal, situata
all’ingresso della cripta sotto il presbiterio.
Ho personalmente assistito allo scavo
alla fine degli anni settanta e all’atto del
rinvenimento la tomba presentava una
croce patente di color porpora al centro
dell’asse laterale (ora non più visibile
forse volutamente rimossa). Che ci fosse
una attività templare ad Otranto, come
porto mercantile, è fuori discussione ed
è documentato da numerose testimonianze non abbiamo però riferimenti
espliciti sull’utilizzo della basilica di
Otranto per capitoli templari sappiamo
tuttavia che il vescovo che commissionò
il mosaico ai monaci basiliani era sul
libro paga dei monaci templari di Otranto
è percepì nel 1190 una somma ingente
pari a 270 malachinos d’oro. Quindi è
presumibile, ma è solo una ipotesi, che
la basilica, e quindi il mosaico, fossero
utilizzati anche per riti templari a mezzo
di compensi in monete d’oro. Torniamo
adesso al mosaico procedendo nella trattazione nei successivi paragrafi con una
analisi dei simboli cavallereschi secondo
lo schema tracciato.
Il Graal vetero-testamentario
del mosaico di Otranto
Il corpo centrale del mosaico (abside,
presbitero e navata centrale), è di particolare interesse soprattutto per i temi
cavallereschi. Partendo dall’abside infatti
Pantaleone pone alla destra del cavaliere
impegnato nella caccia al cinghiale un
saggio che ha ricevuto insegnamenti da
un maestro con verga iniziatica a forma
di tau. La scena di caccia e la figura del
Drago-Serpente alato3 che stringe il cervo,
hanno un riscontro oggettivo nelle mitologie nordiche. La ferita prodotta dal
drago è inguaribile, il cervo nelle spire
del serpente viene spesso riferito all’essenza cristica strangolata dalle brame e
dalle pulsioni che solo l’azione angelica
dell’arcangelo Michael può liberata come
unico vincitore nella lotta contro il Drago.
Pantaleone fornisce inoltre i riferimenti
alla via per la restituzione, nel centro del
cuore del giusto, dell’originaria beatitudine ovvero la restituzione dell’Albero
della Vita come impresa ultima del Graal
o via di Michael. Quindi attraverso riferimenti biblici e mitologici, Pantaleone
vuole comunicarci che alla chiamata di
Dio non ci si può sottrarre (Giona) è
necessario lottare contro i leoni (Sansone)
con spirito eroico pur di raggiungere
Dio. Pertanto viene presentata una via
sapienziale, la via dei saggi iniziati come
Mosè che si tramandano i misteri e che
hanno per discepoli uomini qualificati,
perfetti eroi solari.
Questo tema è in rapporto con la visione
globale del mosaico e con le successive
scene della Cosmogenesi del presbiterio.
Difatti, nelle scene dell’abside possiamo
notare ancora Sansone che lotta contro
il leone4, due scimmie che mangiano
frutta simbolo delle tentazioni demoniache, un asino5 simbolo di energie non
qualificate e caotiche, un uomo nudo
con in mano una coppa6 ed un bastone,
ed infine altri due uomini nudi in ginocchio. Nelle libro delle Lamentazioni vi è
un esplicito riferimento alla nudità simbolo di purezza ed al calice che presto
arriverà anche per la figlia di Edom. E’
un chiaro riferimento ad una iniziazione
che ha origini vetero-testamentarie, prerogativa dei giusti che non verranno
sopraffatti dalla luce Divina. Tale prerogativa si ripeterà poi con il calice dell’ultima cena benedetto da Gesù Cristo.
Nella tradizione occidentale sarà la stessa
coppa che darà origine alla mitica ricerca
del San Graal. La coppa nelle mani del
giusto è d’oro7, ciò può essere spiegato
con l’allegoria biblica alla Babilonia prima
della perdizione: la coppa nelle mani del
Signore che inebriava tutta la terra prima
che le genti divenissero folli. Affianco alla
figura dell’uomo puro troviamo uomini
nudi inginocchiati poiché incapaci di
resistere all’ambrosia divina. L’uomo
puro sostiene la coppa aiutandosi con il
bastone dei saggi e quindi osserviamo
qui il legame esplicito di origine biblica
tra nudità, purezza e saggezza che ritroveremo poi nella navata centrale con le
scene di Re Artù.
41
Pertanto le scene dell’abside vogliono
marcare il fatto che dopo aver ricevuto
la chiamata del Signore, aver lottato e
resistito a tutte le tentazioni, vi è ancora
un pericolo, quello di non essere in grado
di resistere all’ambrosia divina contenuta
nella coppa d’oro e dispensata per i giusti.
Alcuni di essi potranno soccombere sotto
il suo peso travolgente. Questa interpretazione è in linea con l’interpretazione
energetica dell’albero della Vita, con la
Cabala Ebraica i suoi riferimenti espliciti
nel mosaico, nonché con il sistema Indù
dei chakras e le scene di Re Artù e Parsifal.
Le scene dell’abside fungono quindi da
preambolo, da introduzione sintetica allo
svolgimento dell’Opus musivo ed in particolare alle scene della Cosmogenesi.
L’archetipo del Graal nel presbiterio
del mosaico di Otranto
Le forze androginiche del Logos che,
mediante l’etere del suono, ordinano
l’elemento infero della terra ossia la luna,
provocano una passaggio dalle acque
inferiori (pesci) a quelle superiori (volatili). Le figure del presbiterio, poste in un
quadrato di 4x4=16 cerchi8, riassumono
la totalità dei principi o archetipi cosmogonici chiamati ASTHAROT e rappresentati, nel Pantheon delle divinità caldaico-babilonesi, con il simbolo di un
asino eretto. Nel mosaico l’asino eretto
è posto da Pantaleone al centro del presbiterio e suona una musica celestiale
attraverso la lira a sette corde9. Gli strumenti musicali nel presbiterio sono proprio il flauto e la lira. Viene subito da
pensare alla disputa tra il flauto di Mursia
e la lira d’Apollo del mito ellenico. Il
flauto è lo strumento incantatore del
serpente che mette in moto una ghirlanda
di lettere ebraiche intorno alla sirena dalla
doppia coda. La lira invece richiama
l’armonia delle sfere celesti ed il principio
dell’ordine cosmico del quale a poco a
poco le due polarità positive e negative
si separano per dare origine alla coppia
primordiale edenica. Nelle scene musive
del presbiterio troviamo chiari i principi
del Sacro Amore espressi dalle immagini
di Re Salomone e dalla Regina di Saba
minacciati dalla sirena dalla doppia coda
Isthar-Astarte che per analogia corrisponde ad una altro principio quello della
Donna Celeste l’ Iside-Ecate con ai piedi
i simboli del sole e della luna. Una figura
42
femminile fondamentale per ritrovare
l’accordo eterico perduto. Il tema della
donna interiore o dell’amore celeste, della
sposa originaria ritrovata è fondamentale
per l’eroe solare poiché portatore del
contenuto ineffabile del Graal. La chiave
di questo accordo è la connessione occulta con un sistema di equilibri cosmici10
di cui la luna è supporto e simbolo. La
donna sulla terra continua a mantenere
un antico rapporto con la luna poiché
detentrice del principio che compenetra
è domina la materia inferiore e che rappresenta un elemento costitutivo della
sua anima. Tale struttura è sensibilmente
illusoria ma è parimente simbolo di restituzione di un mondo superiore perduto, ecco perchè l’uomo virtuoso nel
guardare la donna sente affiorare la speranza della resurrezione di un grado di
beatitudine e di purità di cui l’esistenza
attuale è privazione. Il sistema di simboli
cosmogonici presenta una inversione
simmetrica dei corpi che ricorda un’onda
di canalizzazione delle due forze originarie, positivo e negativo, convergenti verso
la coppia primordiali: Adamo ed Eva.
Anche qui possiamo porre alcune interessanti considerazioni.La coppa del
Graal veterotestamentaria che inebriava
le genti ovvero l’energia del Logos associata all’accordo originario edenico, ora
si separa per l’azione del Serpente ed
agisce esclusivamente sui corpi eterici
(cerchi) di Adamo ed Eva e non su quelli
fisici preda delle brame. L’accordo originario è immancabilmente perduto ma
ugualmente recuperabile attraverso due
azioni distinte: dapprima il dominio del
potere serpentino come dominio della
Kundalini11, successivamente dal recupero della sonorità originaria del Verbo
nell’armonia delle sfere e che solo la
percezione dei corpo eterici (in sanscrito
Anandamaya Kosa), non ancora corrotti
può ridonare. Volendo chiarire meglio
diciamo che il Serpe simboleggia la degradazione della forza originaria secondo
la corrente della brama e il livello dal
quale questa deve risorgere. La gioia
sessuale dei corpi fisici fornirà una parvenza del ritrovamento di un bene originario ma puntualmente delusa. La riascesa dell’uomo al suo rango originario
ha quindi come barriera gli strati della
degradazione dell’eros che dovranno es-
sere alchemicamente superati. Il compito
dell’eroe del Graal, così come lo propone
Pantaleone, affiancando nel mosaico
simbologie tantriche a riferimenti posizionali cabalistici, non è quello di un
totale distacco ascetico o di un dominio
di forze a lui trascendenti secondo un
incipit rituale, bensì un procedere mediante alchimia interiore alla risoluzione
graduale di ogni strato. Da una attenta
analisi delle simbologie nei cerchi della
coppia edenica possiamo dedurre che:
- Yoni e Lingam: uniti sotto un effetto
di vibrazione energetica che nel ripetere
il mantra corrisponde alla nasalità di
AUM
- Simboli ellenistici: ( ( I due cerchi di
Eva ed Adamo presentano degli ornamenti che ricordano rispettivamente l’alfa
e l’omega ellenistici ( (. La trasposizione
dei due simboli corrisponde alla sacra
sillaba indù OM12 formata dall’unione
dei simboli della yoni e del lingam (organo genitali femminile e maschile). La
ghirlanda di lettere associata ai due cerchi
costituisce il corpo eterico che circonda
il corpo fisico dei due esseri primordiali
di polarità opposta rispetto ai due sessi.
Per Eva sarà l’Alfa o il giglio per Adamo
sarà una Omega. Risulta interessante
notare come ruotando di 90° la sillaba
sanscrita OM ovvero ruotando di un
arco pari al percorso che la terra effettua
giornalmente rispetto al sole sino alla
massima elevazioni di quest’ultimo, si
ottiene una figura che ricorda quella di
un calice o una coppa.
_______________
Bibliografia:
F.Corona, La Triplice Via del fuoco nel mosaico di
Otranto, Roma, 2005
G.Stemberg, Ermeneutica ebraica della Bibbia,
Brescia, 1996
Gershom Sholem, La Cabala, Roma, 1992
Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, Roma,
1998
Giulio Busi, La Qabbalah, Bari, 1998
Mircea Eliade, Lo Yoga immortalità e libertà, BUR,
1999
Massimo Scaligero, L'uomo Interiore, Roma, 1989
Arthur Avalon, Il mondo come potenza vol I, II,
Roma, 1973
Arthur Avalon, Tantra della grande liberazione,
Roma, 1996
Arthur Avalon, Shakti e Shakta, Roma, 1995
Arthur Avalon, Il Potere del Serpente, Roma, 1994
Bruno Cerchio, L'ermetismo di Dante, Roma, 1988
C.A. Willersen, L'enigma di Otranto, Lecce, 1980
Grazio Gianfreda, Il Mosaico di Otranto - Biblioteca
di Immagini medioevali, Lecce, 2000
Grazio Gianfreda, Il Monachesimo italo-greco in
Otranto, Lecce, 1999
Note:
1
Monaco presbitero ovvero abilitato alle funzioni
sacerdotali.
2
3
Presumibilmente riferito al volo del drago dello
Zhoar dopo la tentazione di EVA. Ricordiamo e
lo descriveremo più avanti che il volo del drago
equivale anche ad una precisa operazione alchemica.
4
Giudici 14:5: Sansone scese con il padre e con la
madre a Timna; quando furono giunti alle vigne
di Timna, ecco un leone venirgli incontro ruggendo. Giudici 14:6: Lo spirito del Signore lo investì
e, senza niente in mano, squarciò il leone come
si squarcia un capretto. Ma di ciò che aveva fatto
non disse nulla al padre né alla madre.
5
Secondo il Gianfreda L'Asino di Apuleio. Il Mosaico di Otranto, Edizioni del grifo, Lecce, pag.143
6
Lamentazioni 4:21: Esulta pure, gioisci, figlia di
Edom, che abiti nella terra di Uz; anche a te arriverà
il calice, ti inebrierai ed esporrai la tua nudità.
7
Geremia 51:7- Babilonia era una coppa d'oro
in mano del Signore, con la quale egli inebriava
tutta la terra; del suo vino hanno bevuto i popoli,
perciò sono divenuti pazzi (Traduzione CEI).
8
E' a tutti gli effetti un quadrato magico o enneadico sul quale può applicarsi la regola di spostamento nota come regola di Giove.
9
Le corde sono curve e ricordano le orbite dei
sette pianeti in uno schema archeometrico simile
a quello proposta da Alexandre Saint-Yves
d'Aveidre ripreso poi dal Guenon - l'Archeometra
Atanor, Roma.
10
Ben evidenti nella scena taurina del presbiterio
che descrive le energie creative nella sfera sublunare e quindi nel sistema Terra-Luna
11
Kundalini nello stato potenziale giace arrotolata
nelle sue tre spire e mezzo. Nel mosaico il serpente
Kundalini è ritto e sono evidenti le tre spire e
mezzo.
12
Pronunciata AUM
P.38: Otranto, P. Del Freo, coll. privata; p. 39 e seguenti:
Vista totale e particolari del mosaico di Otranto.
43
44
l giorno 15 dicembre
2006 un primo significativo mattone è stato
posato per un progetto
di solidarietà destinato
a coinvolgere indistintamente, tutti coloro che sono sensibili ad un
problema di grande attualità, ciascuno per le
proprie possibilità. L’Associazione dal nome
‘‘Dimore San Giovanni O.N.L. U.S.’’ ha compiuto il primo passo verso la realizzazione del
suo scopo sociale, inaugurando in Torino la
prima unità abitativa approntata per dare
sollievo alle famiglie impegnate nell’assistenza
di bambini malati e lungodegenti. L’idea è
nata tra persone unite fra loro da principi
universali e da una comune sensibilità verso
la beneficenza intesa come solidarietà.
I casi umani
Sempre più spesso assistiamo a situazioni in
cui il bisogno, la precarietà e l’avidità di alcuni
speculatori danno luogo a situazioni insostenibili per le famiglie poco abbienti, che abbiano
necessità di seguire personalmente i propri
figli bisognosi di cure nei nosocomi. L’assistenza ai bambini malati per alcuni genitori
è addirittura proibitiva e richiede sacrifici ai
limiti dell’impossibile. Si è quindi pensato di
offrire la nostra solidarietà con la creazione
dell’ Associazione “Dimore San Giovanni
O.N.L.U.S” che si adopera per mettere gratuitamente a disposizione di queste famiglie
una casa in cui trascorrere il tempo del ricovero
dei loro figli presso i reparti degli Ospedali
infantili, con la speranza di ridurre almeno
una parte del loro disagio.
Coagulare gli sforzi
Il progetto è nato nell’intento di non disperdere la solidarietà in minuscoli rivoli, sicuramente utili, ma non quanto potrebbe esserlo
se convogliata in una direzione precisa, con
una organizzazione snella ma strutturata sul
territorio e soprattutto forte di una larga base
associativa costituita da persone pronte a
contribuire alla sua gestione. Per questo uomini e donne che condividono tali principi,
si sono impegnati, hanno lavorato insieme
traendo forza e vigore dal sentire comune ed
hanno prodotto, mattone dopo mattone, un
progetto di sicura utilità sociale, gestito in
prima persona.
La Gran Loggia d’Italia
A riprova che l’amore per il prossimo e per
chi soffre funge da collante e supera pregiudizi
di ogni sorta, hanno dato vita all’Associazione
le realtà economiche e sociali più diverse.
Artigiani, operai, professionisti, commercianti,
imprese, società si sono unite nell’impresa,
Come sostenerla
e farne parte
titolo personale, per divenire soci
è sufficiente compilare in ogni
sua parte la scheda di adesione
(prelevabile dal sito), inviandola alla sede
dell’Associazione e versare la quota associativa
annuale, non detraibile dalle imposte, pari
ad 150,00euro, nei modi indicati sempre nello
stesso modulo, per la quale verrà rilasciata
regolare ricevuta. Sempre a titolo personale
è possibile effettuare donazioni, compilando
in ogni sua parte l’apposito modulo (prelevabile dal sito ) inviandolo alla sede dell’Associazione. Per il relativo importo verrà
rilasciata una ricevuta; sarà possibile detrarre
l’importo donato dalla dichiarazione dei
redditi (si veda modulo allegato - facsimile
donazioni Persone Fisiche). Le donazioni
dovranno essere versate solo a mezzo assegno
bancario o circolare o bonifico, non sono
ammesse donazioni in contanti. E’ pure
possibile effettuare delle donazioni da parte
di Enti, Società, od Associazioni non riconosciute (come i vari Centri Sociologici Italiani
periferici), sempre compilando in ogni sua
parte l’apposito modulo (prelevabile dal sito)
inviandolo alla sede dell’Associazione. Solo
per Enti e Società l’importo donato si configurerà come un onere deducibile dal reddito
d’impresa. Nella prossima annualità sarà
possibile destinare il 5/000 del proprio modello
UNICO alla “Dimore San Giovanni
ONLUS”, sempreché rimangano invariate
le attuali disposizioni di legge; inoltre chiunque
proponga iniziative finalizzate alla promozione del progetto ed alla raccolta di fondi,
nella propria sfera sociale, troverà la collaborazione concreta del Consiglio Direttivo. Lo
statuto dell’associazione e’ liberamente scaricabile dal sito www.dimoresangiovanni.org
cui partecipa in primo piano la Gran Loggia
d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di piazza
del Gesù Palazzo Vitelleschi, che, contribuendo concretamente alla sua realizzazione ha
onorato uno dei suoi principali scopi statutari:
la beneficenza.
L’aiuto
Dunque i nuclei che saranno sostenuti da
tale iniziativa troveranno una casa completamente attrezzata e fruibile gratuitamente,
completa di quanto necessario per trascorrervi
il periodo richiesto (stoviglie, lenzuola, biancheria, ecc.). La gestione dei periodi di ospi-
talità, ad evitare problemi circa la stesura di
liste di priorità, verrà demandata alle segreterie
dei reparti ospedalieri cui si farà riferimento.
La segreteria di reparto chiederà all’Associazione la disponibilità dell’alloggio, indicando
il presunto periodo di ricovero. In questo
modo si eviteranno eventuali squilibri nella
stesura di liste di priorità che potrebbero
rendere meno “equa” la gestione dell’ospitalità.
Ma il tratto distintivo, al di là del sostegno
economico, sta nel fatto che ogni famiglia
ospitata verrà accolta da uno o due Associati
che provvederanno a introdurla nel reparto
ospedaliero di competenza, e che la condurranno nell’alloggio, dando le prime indicazioni
e fornendo un cestino con generi di prima
necessità. Durante il periodo di ospitalità, gli
stessi volontari si metteranno a disposizione
di chi si trovasse nella necessità di avere consigli,
indirizzi ed aiuti in una città sconosciuta. Va
da sé che si dovranno organizzare dei turni
per affrontare in modo equilibrato l’impegno
preso.
Scopi e modalità
Uno degli scopi è quello di contribuire a
trasmettere un po’ d’affetto a queste famiglie
e di farle sentire protette in momenti sicuramente difficili e segnati dal dolore. Questa
O.N.L.U.S., è un’associazione profana ispirata
dai principi universali massonici ed apre le
porte a quanti vogliano farne parte, semplicemente attraverso l'iscrizione. Naturalmente
lo stesso potrà valere per quanto riguarda la
partecipazione alla gestione operativa. La
forma giuridica e l’organizzazione della
“Dimore San Giovanni O.N.L.U.S.” consente
poi, a coloro che volessero realizzare sul
proprio territorio un’analoga iniziativa, di
utilizzare semplicemente la struttura esistente
ed estendere così il servizio ad altre città e ad
altri centri Ospedalieri. Verrebbero così evitati
ulteriori aggravi di spesa ed ogni risorsa potrebbe essere subito proficuamente convogliata verso l’obbiettivo. La “Dimore San
Giovanni ONLUS” è regolarmente costituita
con scrittura privata recante autenticazione
notarile delle firme e regolarmente registrata.
L’Associazione ha acquisito per atto pubblico,
il giorno 15 maggio 2006, la proprietà di un
alloggio in Torino Via Barbaresco n° 10. Per
chi desiderasse ulteriori informazioni è possibile consultare il sito web www.dimoresangiovanni.org ovvero telefonare al numero
011-5616255 od anche scrivere a Dimore San
Giovanni O.N.L.U.S. - C.so Stati Uniti, 53 10129 TORINO.
P.44: La Mole Antonelliana (1863, arch. A.Antonelli)
45
46
celebrazioni
per il 200°
anniversario
della nascita
25 gennaio 2007, ROMA
Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù
Palazzo Vitelleschi, ore 11,30
Conferenza Stampa condotta dal Sovrano
Gran Commendatore Gran Maestro
Luigi Danesin.
9 – 10 febbraio 2007, NAPOLI
Convegno su:
‘‘Giuseppe Garibaldi oltre l’Unità d’Italia’’
10 marzo 2007, BERGAMO
Convegno su:
‘‘La laicità delle Istituzioni pubbliche. Giuseppe Garibaldi e il suo rapporto con le
Istituzioni pubbliche’’
27 – 28 aprile 2007, GENOVA
Convegno su:
‘‘Garibaldi primo Massone d’Italia’’
7 luglio 2007, VENEZIA
Deposizione nei Giardini Napoleonici di
una corona d’alloro al monumento di
Giuseppe Garibaldi.
luglio 2007, FRANCIA
Celebrazioni organizzate congiuntamente
con il Grande Oriente di Francia.
luglio 2007, PORTO GARIBALDI - Cesenatico
Il Museo Garibaldino di Modigliana (Forlì).
21 – 22 settembre 2007, CAGLIARI –
Isola di Caprera
La casa di Giuseppe Garibaldi.
17 – 18 novembre 2007, PALERMO –
Calatafimi
Il ricordo del Conferimento del 33° ed
ultimo grado a Giuseppe Garibaldi.
6 ottobre – 2 dicembre 2007, ROMA
Cimeli garibaldini, Gran Loggia d’Italia di
Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi.
47
Spigolature
dalla stampa contemporanea
alla morte del Poeta
ntologia
Antologia non dedica nessun
numero d’occasione per la morte
di Carducci, quando l’evento sopraggiunse, così motivando:
‘‘Nessun numero d’occasione per Carducci
ora, che sarebbe un’offesa, essendo la morte
di Lui un incidente nella perennità della
sua gloria, già incominciata assai prima che
la presenza sua ci fosse definitivamente
tolta’’.
Peccato però che, in seguito, ritroviamo
nei successivi numeri della importante
pubblicazione solo qualche sporadico
articolo dedicato ad argomenti marginali
quali la sua vecchiaia o il processo del
padre. Alla sua corposa opera nessun redattore dedicò più di qualche sporadica
pagina.
Il Giornale d’Italia
Il Giornale d’Italia pubblicò una lettera
48
che Carducci malato scrisse a Giuseppe
Chiarini (Arezzo 1833- Roma 1907) negli
ultimi tempi della sua vita. “...Lessi in due
giorni il tuo Leopardi: la seconda parte la
lessi in una notte insonne, e finii la mesta
lettura la mattina di una bella primavera
di maggio: E la dolcezza ancor dentro mi
suona; e voglio tornare a leggerla, quando
il mio spirito si trovi meglio disposto. Perché
ora tanto del fisico che del morale sono
proprio affranto: la macchina è forte e potente, ma la malattia ha ripetuto i colpi e
sempre li rinnova. Sarà quel che Dio vuole.
Auguro a te con tutto il cuore miglior condizione di vita che non sia la mia. Ripenso
con dolcissimo desiderio a te ed alla nostra
gioventù. Credevo di incontrare il mio fine
sereno e senza contrasti: ma ohimè! La fine
è e più vuol essere amara per me e per quelli
che sono parte migliore di me. Ricordami
ai tuoi figli, a tua moglie con moltissimo
affetto e tu ricordati del tuo povero ma fedele
amico. Direi che nulla mi manca, che gli
amici e i buoni han cercato di circondare
d’ogni cura la mia vecchiezza. Ma mi sento
mancare il meglio. Ahimè
Il tuo Carducci” <autografo>
Strano vedere apparire in questo testo una
rassegnazione al volere di Dio che è più
che un manierismo epistolare.
Antologia
La più opportuna e la meglio accolta delle
proposte per la tomba di Carducci fu
quella di Cesare Pascarella. Leggiamo sempre su Antologia: “La salma sia collocata
nel piccolo giardino della tranquilla casa
abitata dal poeta. Il dono della regina Madre, della casa e della biblioteca, alla città
di Bologna rende facile il progetto. Nella
sistemazione delle vie adiacenti l’antica
strada di circonvallazione (la casa del Carducci è posta lungo le antiche mura) sarà
ampliata: essa conduce da un lato a porta
Mazzini, dall’altro ai giardini Margherita
e pare quasi predestinata a portare il nome
di Giosue Carducci. La casa e il giardino
costituiranno un vero memorial degno del
poeta, luogo di pellegrinaggio degli ammiratori italiani e stranieri.
La Giustizia
Sulla Giustizia di Reggio Emilia viene
pubblicata in occasione della morte del
poeta una sua pagina inedita che possiamo
inserire tra le sue più belle prose.
Casa Bevilacqua, Lucca, campagna di San
Quirico, 30 agosto 1881
“La sera senza luna, è meravigliosamente
quieta: i grilli cantano in terra, le stelle
scintillano in cielo: non altro suono, non
altro lume.
Se Castruccio non avesse preso le febbri
nell’oppugnazione di Pistoia, o meglio, se
egli non avesse gittato opera e tempo con
quell’avventuriere brigante di Cesare bavarese: o meglio ancora, se egli avesse giocato
di tutti contro Firenze nel 1326; che sarebbe
ora questa solitaria tacita collina? Che sarebbe Lucca e Firenze? Che sarebbe l’Italia?
Perché senza dubbio l’affermarsi di una
forte e militar signoria improntata al genio
di Castruccio nel mezzo della penisola sul
principio del secolo decimoquarto, avrebbe
dato altri avviamenti e altre sorti alla storia
d’Italia.
Certo lo svolgimento democratico del comune di Firenze sarebbe mancato alla storia
del mondo: ma chi sa a che sarebbe riuscita
la democrazia toscana regolata a unità da
una signoria toscana e ghibellina?
Forse il Rinascimento non sarebbe fiorito
così libero, così fecondo; ma neanche forse
le compagnie di ventura avrebbero fatto
strazio del paese, del sentimento e del costume repubblicano. La larva dell’impero sarebbesi ella dileguata, anzi che divenire
fantasma pauroso e vampiro estenuante.
E la Chiesa?
Intanto i grilli seguitano a cantare; sotto le
stelle brillanti nella notte cupa azzurra a
pena si disegnano immobili le masse degli
ulivi. Il colle è nella grande oscurità; laggiù
in fondo luccica la città etrusca-ligure che
fu cara a Matilde e patria di Castruccio: la
pia, la forte, la industre, la credente città del
Burlamacchi e del Diodati.
E tutto questo, dinanzi alla via lattea, che
distende nel cielo le sue liste piene di mondi,
è assai meno che innanzi al mio pensiero,
questi grilli cantanti.
E il mio pensiero, che è egli stesso dinanzi a
questa notte, all’infinito?
Non affatichiamoci a pensare. Guardiamo
e ascoltiamo”.
Giosue Carducci
P.48: Caricatura di Carducci, intorno al 1930; p.49: Valdicastello Carducci (LU), casa natale di Giosue Carducci.
49
50
ncora dalla prestigiosa rivista della
cultura italiana, un articolo apparso
nel 1905 relativo al caso CarducciNobel, risoltosi nel 1906 con l’assegnazione
dell’ambìto premio al nostro Giosue.
L’Accademia Svedese nel corso del 1905 aveva
inviato in Italia, come osservatore critico, lo
scrittore Holger Nyblom con lo scopo preciso
di riferire più notizie possibili sul poeta italiano.
Sembra che Nyblom in quell’occasione fosse
stato ricevuto con molto calore, soprattutto a
Roma. Tanta affabilità lo indusse a pensare
che forse, nella speranza dell’assegnazione del
premio, gli italiani sostenitori di Giosue Carducci si ingegnassero di rabbonirlo.
Senza troppi scrupoli lo scrittore svedese, che
era anche membro effettivo della commissione
per l’attribuzione del premio, tornato in patria,
con stile molto diretto, riferì le sue impressioni
poco lusinghiere, tanto che da parte della
cultura italiana ci fu un certo risentimento.
Per placare gli animi, che aveva infiammato
oltre le sue intenzioni con la sua pretesa
polemica, Nyblom scrisse un articolo, subito
pubblicato per intero nella rivista svedese
Nordisk Tidsskrift, organo di cultura della
massima importanza.
Anche Antologia volle dare spazio ad un
estratto di quel testo, nell’intenzione di sostenere apertamente e con tutti i mezzi possibili
la candidatura carducciana.
Ne riportiamo la versione ivi pubblicata.
(A.G.)
Relazione su Carducci
Holger Nyblom
Malgrado l’esagerato culto dell’antichità
principalmente negli anni giovanili, ad onta
del suo linguaggio d’una franchezza sdegnosa, ad onta del rancore e delle invettive sue
contro il cattolicesimo e contro la religione
in generale, il poeta ha acquistato grazie alla
sua originalità e alla sua forza e coll’aiuto
dei critici italiani, una celebrità che senza
dubbio sopravviverà. Oggi si trovano in
Italia in tutte le classi, ammiratori di lui,
persino tra i clericali, dei quali molti ebbero
occasione di trovarsi malcontenti di gran
parte dei suoi lavori poetici, ma che però in
lui dovettero ammirare il maestro della
lingua italiana, sia in versi che in prosa, il
patriota infiammato di amore e di sdegno,
l’entusiasta lottante per tutto ciò che è oppresso e spregiato, l’onesto e sincero indagator della verità. Ciò che di buon ora distinse
il Carducci come scrittore fu la sua forza
nella espressione e maestria nella forma, in
cui è emulato da pochi autori italiani; egli
tratta con eguale abilità sì i metri classici,
come quelli italiani, tra i quali vien data la
preferenza al sonetto, che è perfetto presso
di lui. Tra questi ultimi ne troviamo già in
Juvenilia una quantità di eccellenti, come
quelli alle Rondini, al Fratello morto, Santa
croce, a Goldoni, nei quali egli si libera dal-
l’imitazione dell’antico, cosa che generalmente non riesce a fare. Uno dei migliori
scolari di Carducci, Guido Mazzoni, dice
che egli è più classico che pagano e lo si crede
più nemico del cristianesimo di quello che
egli sia veramente; e leggendo le sue poesie
si domanda con Etienne se egli è cattolico,
cristiano o libero pensatore. Ma un vero
libero pensatore non commetterebbe mai
l’incongruenza di rendere un omaggio a
Satana, il principe delle tenebre e del male,
ed in verità sarebbe errore il credere che
proprio a lui egli abbia diretto la sua ode.
Nella personificazione di Satana il Carducci
ha messo in contrasto tutte le idee ed i
pensieri moderni, richiamandosi all’uomo
nell’era classica, con la fede ereditata, con
tutto ciò che è superstizione ed ipocrisia nel
sentimento religioso, con tutte le esagerazioni
cattoliche. Egli l’ha rappresentato come il
difensore della libertà di pensiero, come
ispiratore di Savonarola, di Lutero, di
Witcleff. Egli saluta Satana come suscitatore
di ribellione e di rivoluzione, come colui
che eccita al progresso, alla scoperta scientifica
ed alla ricerca del nuovo, colui che mette a
prova il pensiero umano ed il genio. E’
naturale che questa poesia per il titolo solo
dovesse recare grande scandalo, e Carducci
passò durante lungo tempo per un mal
avventurato lodatore di Satana. Il risultato
della pubblicazione dell’ode fu che l’autore
venne studiato e considerato con molto
51
maggior interesse di prima, ed ogni anno
venne fatta per un certo periodo una nuova
edizione del tanto discusso Inno a Satana.
Etienne lo caratterizza une folie relevée de bel
esprit. Giambi ed Epodi furono scritti poco
dopo che Carducci venne sospeso dalla
cattedra per ragioni politiche, essendo stato
obbligato a lasciare Bologna. Sono pieni di
ira di sdegno, eccitato come egli era dalla
sua espulsione. Essi risentono della lettura
degli Chatiments di Victor Hugo e di Giovenale. Mettono in ridicolo e colpiscono
diversi vizi della società; sono spesso diretti
contro lo Stato e contro il Papato e non
sono immuni da attacchi personali. Taluni
sono alquanto esagerati e non rendono
pienamente l’impressione voluta dal poeta,
vanno oltre il segno e lasciano piuttosto
l’impressione di una violenza di parole che
non di vero dolore del cuore. Tra le migliori
di queste poesie deve ascriversi In morte di
Giovanni Cairoli, ove al suo disdegno per
certi aspetti dell’Italia nuova si mescono le
lamentazioni per il giovane che morì in
52
seguito alle ferite riportate nella campagna
di Roma; ed egli invia parole di conforto e
di coraggio alla madre, la vera Romana che
mandò cinque figli alla morte per la patria.
Il Canto dell’amore chiude la raccolta. Questa
poesia è forse la principale creazione del
poeta per la meravigliosa descrizione del
paesaggio, per l’entusiasmo e per la concentrazione. E’ la potenza dell’amore che egli
dipinge qui, fondendo le deità antiche e le
cristiane; è un inno a questa forza che tutto
può ed il suo entusiasmo sale fino ad esclamare: “il mondo è bello e santo l’avvenir”.
C’è qualche cosa di grandioso e di potente,
di liberatore in questo canto che rapisce. E’
felice la chiusa, quando egli invita il papa
Pio IX - al quale più volte ha imprecato, ma
che adesso bonariamente chiama col nome
di cittadino: il cittadino Mastai - affinché
discenda dalla sua prigione per vuotare un
bicchiere alla libertà con lui. Il Carducci ha,
come fu detto, raggiunto il suo culmine
nelle Rime nuove e nelle Odi barbare, che
sono ambedue del 1880-90. La sostanza è
adesso maturata, i versi sono pieni di potenti
pensieri poetici, la forma è chiara, semplice
e più concentrata. Le Rime nuove cominciano colla ode Alla rima, che doveva propriamente esser messa alla fine delle Odi barbare
per mostrare che l’autore non ha abbandonato il tradizionale amore italiano alla rima,
da lui bandita nelle suddette odi. Qui Carducci si è divertito a trovare belle e sonore
rime ed ha fatto sfoggio, con l’impetuosità
del ritmo e l’agilità che corre a traverso tutto
il componimento, di una grazia ammirabile.
E’ una storia della rima dalle sue origini in
Provenza al suo sviluppo in Italia che finisce
coll’inneggiare alla dominatrice. Nei trentotto
sonetti che si susseguono, l’autore si mostra,
come sempre in questa forma, vero maestro.
Molti di essi sono veri gioielli di poesia lirica,
quali si son trovati di rado finora nell’autore:
per menzionarne alcuni, citerò il Colloquio
con gli alberi colla sua austerità cupa, il Bove
uno dei sonetti più conosciuti dell’autore,
semplice come Omero nello stile, Virgilio,
Dante, quello scritto in morte del suo giovane
figlio, commoventissimo, Sole ed amore,
estremamente bello e felice, Qui regna amore,
appassionato ma pieno di misura e fino, La
Stampa e la Riforma, forte ed orgoglioso
nella sua invettiva. In una parte delle Rime
nuove si trova quasi soltanto una descrizione
della natura con le Pimavere elleniche ed
Autunno romantico, e tra questi componimenti è da annoverarsi il Pianto antico,
eccellente. Fra i migliori citerò Lungi, lungi
e Passa la nave mia. Indi viene una parte ove
si ritrova il grande ammiratore dell’antichità,
Primavere elleniche, in metro eolico, dorico
ed alessandrino. Sono versi pieni di ammirazione per la bellezza antica e per l’amore
eterno. Seguono alcune poesie fra le più
belle della raccolta. Nelle Rimembranze di
scuola il poeta evoca i sentimenti primaverili
di un giovane che, seduto sul banco, guarda
per la finestra gli alberi in fiore e sente il
canto degli uccelli, meditando melanconicamente sulla instabilità della vita e le fine
nella tomba. Il contrasto tra il principio della
vita nella natura e la morte è rappresentato
in modo splendido. Nell’Idillio maremmano
egli sogna della sua giovinezza. Ora i suoi
sogni vanno verso i luoghi cupi della Maremma, ove i suoi sentimenti si svegliarono
per la prima volta verso una creatura femminile. La ‘‘bionda Maria’’ sta davanti al suo
pensiero ed egli si domanda che cosa ella sia
diventata e se non avrebbe egli stesso dovuto
rimanersene calmo accanto a lei lavorando
la terra invece di perseguire, come fa ora, i
miserabili d’Italia con la sua satira. La descrizione della campagna è splendida. Altro
canto di simile carattere fresco e melanconico, ma molto sentito e bello, è Davanti
San Guido. Nella stessa serie si trova Classicismo e romanticismo, ove il classicismo vien
lodato a preferenza del romanticismo, ed il
sonetto Da la qual par ch’una stella si mova,
ispirato da un verso di Guido Cavalcanti, è
di altissimo sentimento poetico. Sui campi
di Marengo, ove egli narra la marcia di
Federico Barbarossa in testa all’armata verso
l’Italia, prova i sentimenti ghibellini; e l’odio
verso il papato ed il suo potere vien espresso
con forza nella canzone della culla di Carlo
V: La ninna nanna di Carlo V. L’ultima parte
delle Rime Nuove si compone di versioni
dalle lingue estere, per lo più dal tedesco,
ma anche dall’antico francese, dal casigliano
e dal portoghese, tutte rivestite di una bella
forma italiana. Come prefazione di questa
parte figurano dodici sonetti, Ça ira, i quali
sono un omaggio entusiastico alla rivoluzione francese, che il poeta caldamente descrive.
In seguito a questi sonetti il Carducci venne
considerato rivoluzionario, ma questi sembrano piuttosto espressione di una calda
fantasia poetica, come di uno che sia entusiasta dell’idea di rivoluzione, più che una
esortazione per i suoi compatrioti a seguire
l’esempio dei Francesi nel 1792. Le prime
Odi barbare destarono le stesse discussioni
come già l’Inno a Satana. Ma questa volta
si trattava più che del contenuto della forma
delle poesie. Carducci aveva tentato di riadattare gli antichi metri senza rima in forma
saffica, alcaica, asclepiadea, archilochea ed
elegiaca. Soltanto deboli tentativi di questo
genere erano stati effettuati nella letteratura
italiana dal Chiabrera, dal Tommaseo, ma
senza seguito. Nel secondo libro delle Odi
barbare è da notarsi dapprima Mors, scritta
in forma elegiaca, ove egli dipinge la strage
della morte durante una epidemia, Per le
nozze di mia figlia e sopra ogni altra Alla
stazione in una mattina d’autunno e Su
Monte Mario. Nella prima di queste ultime
Carducci è riuscito a rendere profondamente
la melanconia che incombe su un congedo
dell’amata in una mattina piovosa dell’autunno nella stazione ferroviaria. In questa
elegia, che è uno dei più belli e perfetti
componimenti che il poeta abbia scritto,
sono uniti un realismo acuto ad un sentimento finissimo di poeta. L’ode Su Monte
Mario contiene una contemplazione poetica
della vita sulla instabilità di essa e sulla necessità di non piangere e sognare troppo,
ma piuttosto goderne per tempo. Non è
una filosofia dionisiaca che si predica qui;
vi predomina invece un senso pieno di
gravità e di tristezza che a quando a quando
abbandona il poeta per dar luogo ad una
ammirazione entusiastica della vita e della
madre terra.
* * *
Lo scritto di Nyblom ebbe il merito di non
cadere nell’enfasi encomiastica e forse anche
per tale motivo costituì un buon viatico per il
premio Nobel. Questo fu consegnato al poeta
malato nello studio della sua abitazione dal
barone Carlo De Bildt, mentre in Svezia aveva
luogo la cerimonia ufficiale, con motivazione
letta dal Segretario dell’Accademia Svedese
alla presenza del re. De Bildt a Bologna aveva
però il compito di rendere quanto più solenne
potesse la consegna del massimo riconoscimento
e quindi pronunciò un discorso in italiano che
Carducci ascoltò con grande attenzione, circondato dai suoi intimi e dalle autorità amministrative della sua città d’elezione. Ne
riportiamo uno stralcio:
“Il testamento di Nobel prescrive che il premio
di letteratura debba essere conferito a quello
fra gli scrittori moderni che abbia compiuto
l’opera la più grande e la più bella in senso
idealistico; tutta l’opera vostra, illustre maestro,
è improntata al culto dei più alti ideali che
sono sulla terra, gli ideali della patria, della
libertà e della giustizia. E’ l’amor di patria che
vi ha ispirato fin dalla vostra prima giovinezza;
della patria, come l’ha fatta ricca di bellezze
la natura; della patria, come la sognarono e
la fecero i forti antenati; della patria come la
conquistarono e la riedificarono i vostri contemporanei con le loro battaglie e le loro vittorie,
le loro sofferenze e le lotte, i loro martiri e
trionfi. E’ sempre la patria che domina il vostro
pensiero, sia che cantiate le gesta gloriose dei
fieri eroi delle antiche repubbliche, sia che vi
passi davanti agli occhi il dolce sorriso della
prima regina d’Italia”.
Dopo altri passaggi concludeva:
“La severità morale delle vostre liriche, la
candida purezza nella quale sorge il vostro
canto verso le alte cime, tutta l’austera semplicità della vostra vita sono pregi elevatissimi,
davanti ai quali c’inchiniamo tutti, a qualunque religione e partito noi apparteniamo; sono
doni di Dio, che sotto qualunque forma apparisce, è sempre lo stesso e da cui imploriamo
che continui a far discendere sul vostro venerando capo la santa benedizione che si chiama
amore”.
Carducci parve voler rispondere, ma la paresi
e l’emozione glielo impedirono, poté solo stringere a lungo le mani del barone De Bildt. Due
mesi dopo, la mattina del 16 febbraio 1907
moriva. (ndr)
P.50: La lettura, Silvestro Lega, olio su tela, 1888, collez. priv;
p.51: Il carro rosso, Giovanni Fattori, olio su tela, 1885,
Pinacoteca Civica, Forlì; p.52: La camera da letto nella casa
di Castagneto Carducci; p.53: Veduta della Maremma,
G.Fattori. 1882, olio su tela, coll. priv. (52: foto Paolo Del Freo).
53
54
econda metà dell’ottocento.
Curtatone e Montanara, Custoza e
Pastrengo, Magenta e Mentana,
Solferino e Milazzo, Calatafimi…..sono già
lontani... Luoghi e nomi di battaglie memorabili dove un pugno di volontari coraggiosi
e fortemente motivati, le truppe regolari
piemontesi, i Mille di Garibaldi e molti altri
ancora si battono fino al sacrificio supremo
per ideali di Patria e di Libertà. Si era creduto
che il desiderio imperativo, l’ardore delle
convinzioni, il sacrificio della propria vita
bastassero a far risorgere la Patria e a ridarle
la libertà. È il momento degli apostoli dell’idea,
delle insurrezioni, dei poeti soldati, dei martiri.
Un periodo di sogni nobilissimi. Si scrivono
qui ed ora le pagine del Risorgimento italiano
con atti di valore degni dei veterani di cento
battaglie.
“il popolo dei morti sorse
cantando a chiedere la guerra”
“Non tornare a casa se non onorato;
tutto sacrifica alla Patria”.
(Guido Re, 1848)
A Curtatone e Montanara ci sono i Toscani,
Battaglione Universitario Toscano, professori
e discepoli affratellati in un unico slancio di
fede e di passione contro Radetzky. I Martiri
di Belfiore impiccati come sovversivi... e tanti
tanti altri... infiniti altri, anche se un solo
caduto è sempre un sacrificio estremo, troppo
grande per ottenere diritti sanciti da un’etica
universale. Si combatte per riscattare un
onore ed una dignità calpestate e fatte segno
di ludibrio:
“...Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t’invadeano ed are
E patria e, tranne la memoria, tutto.”
(Foscolo da I Sepolcri vv. 180 –185)
Lo spirito è eroico ed il terreno è già stato
preparato nel tempo. Ogni occasione è buona
per infiammare gli animi, per alimentare un
fuoco che cova sordo e che va mantenuto
vivo per farlo divampare in tutta la sua potenza e furore. I versi del Foscolo ne I sepolcri
rievocano atti di gloria e di sacrificio senza
pari. Ma dopo il ’48 ci si rese conto che era
stato più facile morire per la Patria che restituirle l’indipendenza e che il problema non
si poteva risolvere con i sacrifici eroici e con
gli entusiasmi ardenti. Dall’apostolato del
Mazzini si passa alle solide mani di Cavour,
dai sognatori ai politici, dalla poesia e dall’oratoria patriottica ai piani diplomatici e
militari, agli eserciti ed ai loro cannoni.
“Dio, creando l'Italia, sorrise sovr'essa e le
assegnò per confine le due più sublimi cose ch'ei
ponesse in Europa, simboli dell'Eterna Forza
e dell'Eterno Moto: le Alpi e i Mari. Sia tre
volte maledetto, da voi e da quanti verranno
dopo di voi qualunque presumesse di assegnarle
confini diversi. Dalla cerchia immensa delle
Alpi, simile alla colonna vertebrale che costituisce
l'unità della forma umana, scende una catena
mirabile di continue giogaie che stende sin dove
il mare le bagna, e più oltre nella divelta Sicilia.
E il mare la recinge quasi d'abbraccio amoroso
ovunque le Alpi non la recingono; quel mare
che i padri dei padri chiamavano Mare nostro.
E come gemme cadute dal suo diadema stanno
disseminate intorno ad essa Corsica Sardegna,
Sicilia ed altre minori isole, dove natura di
suolo e ossatura di monti e palpito d'animo
parlan d'Italia’’. Così scriveva Giuseppe
Mazzini e così Giosue Carducci, il professore/poeta, eternava la sua figura
Giuseppe Mazzini
Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dì, su 'l fluttuante
Secolo, ei grande, austero, immoto appare.
Da quelli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Esule antico, al ciel mite e severo
Leva ora il volto che giammai non rise,
‘‘Tu sol’’ pensando ‘‘o ideal, sei vero’’.
Alle dottrine di Hegel, in Francia si passa a
quelle di Augusto Comte, in Italia a quelle
di Roberto Ardigò. Le passioni sono imbrigliate dal robusto freno della ragione. Il 18
febbraio1861 a Torino si apre con i rappresentanti di tutte le nuove province il nuovo
Parlamento Italiano che come primo atto
approverà la legge sanzionata dal Re il 17
marzo 1861 per la quale Vittorio Emanuele
II assumeva “per sé e per i suoi successori il
titolo di Re d’Italia”. Ma... l’unità d’Italia è
solo sulla carta. Occorre risolvere assillanti
problemi economici e sociali come tracciare
strade, creare ferrovie, potenziare l’agricoltura,
l’industria, i commerci, diffondere l’istruzione, pressoché inesistente, ed una lingua che
è sconosciuta alla stragrande maggioranza
dei cittadini del nuovo regno, poiché l’Italia
è una foresta di dialetti. I nostri Vati rispecchiano in pieno la grave mediocrità della
cultura del momento. La società postunitaria
è retoricamente impegnata nel recupero dei
valori risorgimentali e classico-romani a
rinforzo di un nazionalismo povero di contenuti. La cultura del secondo 800 raccoglie
il disagio degli intellettuali di fronte ad una
situazione reale che smorza gli entusiasmi
delle generazioni precedenti. Giosuè Carducci, nato nel 1835, fu l’educatore, la guida
ideale di vasti strati della borghesia italiana
nell’ultimo periodo dell’800, egli riassume e
rappresenta un’intera epoca della nostra
storia. Lasciamo a Lui la parola per dirci sue
passioni.
P.54: La fucilazione del 3 maggio 1808, Francisco Goya,
olio su tela, 1814, Museo del Prado, Madrid; p.55: Soldati,
G.Fattori, 1878, olio su tela, coll. priv.
55
urge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
È l’ora soave che il sol morituro saluta
le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;
le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l’aër come velo d’argento giace
su ‘l fòro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
con un sorriso languido di vïola,
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l’anima de i secoli,
e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co’ i re vinti i consoli tornavano.
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.
56
dio l’usata poesia: concede
comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
stendesi e dorme.
A me la strofe vigile, balzante
co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:
per l'ala a volo io còlgola, si volge
ella e repugna.
Tal fra le strette d’amator silvano
torcesi un’evia su ’l nevoso Edone:
piú belli i vezzi del fiorente petto
saltan compressi,
e baci e strilli su l’accesa bocca
mesconsi: ride la marmorea fronte
al sole, effuse in lunga onda le chiome
fremono a’ venti.
57
atto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori
glauchi ed azzurri, come i tuoi occhi, o Annie.
Vedi: il sole co ‘l riso d'un tremulo raggio ha baciato
la nube, e ha detto - Nuvola bianca, t’apri.
Senti: il vento de l’alpe con fresco susurro saluta
la vela, e dice - Candida vela, vai.
Mira: l’augel discende da l’umido cielo su ‘l pésco
in fiore, e trilla - Vermiglia pianta, odora.
Scende da’ miei pensieri l’eterna dea poesia
su ‘l cuore, e grida - O vecchio cuore, batti.
E docile il cuore ne’ tuoi grandi occhi di fata
s’affisa, e chiama - Dolce fanciulla, canta.
58
62
Luigi Pruneti pubblica
la biografia di un
protagonista della
Massoneria universale
ell’ambito delle opere sulla Massoneria, il volume di Luigi Pruneti
Giovanni Ghinazzi. La vita e il pensiero di
un Gran Maestro1 è destinato a segnare
una svolta profonda. In primo luogo non
vi si concede nulla alla retorica, all’apologia
né all’autocensura. Già in precedenti saggi l’Autore aveva mostrato
di non lasciarsi intimidire nella
ricerca della verità. Alcune sue
pagine su Il Rito scozzese antico
ed accettato e la Gran Loggia
d’Italia, scritte per il bicentenario
della fondazione in Parigi del Supremo consiglio scozzesista
d’Italia2, avevano affrontato senza
timidezze, anzi con molti dettagli
pittoreschi, le burrascose vicende
che nel 1961-62 segnarono il
passaggio del supremo maglietto
da Tito Ceccherini a Giovanni
Ghinazzi, in quella sede lumeggiato
da Arnaldo Francia3.
Nel nuovo volume Pruneti va
oltre. Attraverso l’opera e il pensiero di un Sovrano Gran Commendatore e Gran Maestro offre
il quadro veridico di anni fondamentali per la massoneria in Italia
e della massoneria italiana: due
aspetti non sempre coincidenti
della Libera Muratoria, ove si ricordi, come qui si fa, che essa è
universale, sicché ogni sua organizzazione vive di relazioni che
vanno al di là dei confini politici
dello Stato in cui sorge e cresce.
Nei decenni dalla riorganizzazione in poi
(1943 e seguenti) non tutte le logge attive
in Italia furono all’obbedienza di poteri (o
“denominazioni”) locali e quasi tutte le
comunità liberomuratòrie sorte nei confini
dello Stato italiano ebbero relazioni con
comunioni esteri, con sicuro beneficio per
la dimensione non meramente nazionale
dei “fratelli d’Italia”.
Ripercorsi, documenti alla mano, gl’inizi
di Giovanni Ghinazzi alla ricerca della
Parola Perduta e la sua rapida ascesa ai
vertici della Gran Loggia d’Italia, l’Autore
individua con mano ferma i momenti
distintivi dell’opera da lui realizzata sin da
quando fu chiamato a reggere in via provvisoria il supremo maglietto. Erano trascorsi
appena dieci anni dalla fine della guerra.
In Italia la Massoneria rimaneva stretta
nella tenaglia del consociativismo ideologico-dottrinario-normativo sintetizzato
dall’articolo 7 della costituzione repubblicana.
Benché inclusa nell’alleanza politicomilitare segnata dalla Nato e dall’Alleanza
Atlantica, garanti di mezzo secolo di pace
armata e di europeismo militante, l’ordi-
namento pubblico conservava in Italia
pesanti condizionamenti ai danni delle
libertà: la massoneria vi era appena tollerata,
mai formalmente riconosciuta, appena
appena conosciuta, spesso anzi indagata e
talora esposta a devastanti offensive scandalistiche e persecuzioni giudiziarie, come
lo stesso Pruneti ha ricordato in La sinagoga
di Satana. Storia dell’antimassoneria, 172520024.
In quel contesto si sviluppò l’opera di Ghinazzi, che nella vita della Gran Loggia
d’Italia recò l’impronta della sua personalità.
Con giovanile dinamismo e il piglio militare
che senpre lo contraddistinse, egli coniugò
attivismo infaticabile e granitica solidità
dei principi ispiratori, come ha ricordato
Paolo Ciannella nel discorso funebre molto
opportunamente da Pruneti inserito nella
ricca appendice documentaria.
Saldamente alla guida di una Comunione
dagli ormai folti e fitti legami internazionali,
sulla fine degli Anni Sessanta Ghinazzi non
si sottrasse alla sfida ricorrente: la riunificazione dei massoni d’Italia in una sola
organizzazione nazionale. Allo scopo scrisse
a Giordano Gamberini, Gran Maestro del
Grande Oriente d’Italia, auspicando una
fusione o “almeno, una fraterna
intesa” sull’esempio dei rapporti
da tempo esistenti fra Grande
Oriente di Francia e Gran Loggia
di Francia. La risposta non fu affatto incoraggiante. Appellandolo
“Colonnello”, quasi per mònito
ed erudizione, l’antico vescovo
della chiesa gnostica gli mandò
copie delle Costituzioni del God’I.
Mentre la Gran Loggia, ormai
adulta, faceva parte di un solido
circuito massonico internazionale,
il Grande Oriente mirava a ottenere lo scambio dei garanti
d’amicizia con la Gran Loggia
Unita d’Inghilterra, all’epoca (e
poi lungamente) ritenuta depositaria e dispensatrice di legittimità
e regolarità. In tale ottica non v’era
quindi prospettiva alcuna di unificazione, se non nella forma di
assorbimento, previo patto leonino, come avvenne per la Serenissima Gran Loggia Nazionale
Italiana di Piazza del Gesù guidata
da Franco Bellantonio. Il tramonto
del sogno di una vera fusione tra
pari logorò anche, senza quasi
lasciare residui, lo spirito di fratellanza che avrebbe dovuto animare le
relazioni (esteriori e riservate) tra istituzioni
che avevano (e hanno) fondamenti affini
e, soprattutto, tanti, troppi nemici comuni,
come bene si vide quando si scatenò l’artificiosa tempesta del cosiddetto “scandalo
P2” e una commissione parlamentare d’inchiesta, forte dei poteri di tribunale ordinario, convocò ed escusse minacciosamente
i dirigenti di tutte le organizzazioni massoniche nazionali, confondendo riserbo con
segreto: equivoci terminologici preludenti
a una successiva inchiesta giudiziaria per
motivi cronologici rimasta ai margini del
63
presente volume.Ghinazzi aveva dunque
avuto ragione quando aveva messo in guardia da forze politiche e sociali che si ispiravano a ideologie autoritarie e totalitarie,
incluso il cosiddetto euro-comunismo. Tre
capitoli densi di citazioni tratte dalla
“Rassegna massonica” e da documenti qui
indagati e pubblicati per la prima volta in
un disegno organico illustrano gli ideali
massonici additati da Ghinazzi e il contesto
sociale entro i quali essi trovarono attuazione, le finalità della Libera Muratoria
nella elaborazione
della Gran Loggia e
la vexata quaestio
dell’ unione in una
sola persona dei
poteri di Sovrano
Gran Commendatore del Rito e di
Gran Maestro dell’Ordine. Rieletto
nel 1980 alla guida
della Gran Loggia
(ed era la settima
volta), Ghinazzi
ebbe la fortuna di
avere a fianco un
Luogotenente di
grande valore,
Mario Bogliolo, che
si era formato a
fianco di Enrico
Martini (’Mauri’)
nella lotta di liberazione. Il suo
profilo meritava di
essere riscoperto e
proposto. Il volume, arricchito da
una informatissima
cronologia e dall’elenco delle visite
rese da Ghinazzi in
veste ufficiale (novantasei viaggi tra
Italia ed estero nei soli anni 1984-85), delle
Officine fondate, riemerse o regolarizzate
durante il suo Sovranato, si completa con
documenti che dànno la misura della lunga
ricerca compiuta dall’Autore.
Utilissimo, il repertorio dei più stretti collaboratori del Sovrano e Gran maestro
(Alessandro Lagi, Vincenzo Milone, Antonio Ragonese, il già citato Mario Bogliolo,
Enrico Fedeli, Enrico Califano, Alfredo
Morelli, Giuseppe Papini, Vincenzo Duratorre, Renzo Canova (Grande Oratore e
64
primo successore di Ghinazzi), Aldo Vitali
(che recò “in dote” la CAMEA, fonte di
molteplici complicazioni) costituisce una
sorta di promemoria per tante possibili
future biografie. Auspichiamo vengano
poste in cantiere, giacché la Massoneria è
frutto, si, di principi antichi e perpetui, ma
questi si incarnano in uomini e donne,
prendono i colori del tempo e divengono
storia. Poco prima di transitare all’Oriente
Eterno “il generale” ebbe la soddisfazione
di “passare in rassegna” le delegazioni delle
della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 forniscono anzi una imponente
documentazione “interna” sulla consistenza
della Gran Loggia, cui va anche riconosciuto
di aver affrontato e risolto il secolare dubbio
sull’iniziazione femminile, in linea con una
antropologia da Terzo Millennio, basata
sulla constatazione che una cosa sono i
capisaldi a-temporali della Libera Muratoria, un’altra le mutevoli costituzioni, gli
assetti amministrativi che nel corso del
tempo e nei diversi Paesi si sono dati i
massoni. Il volume
di Pruneti mostra
come un alto dignitario massonico
possa scrivere di
Libera Muratoria e
di suoi protagonisti
col la distaccata
oggettività dello
storico.
Aldo A.Mola
__________
Note:
1
logge italiani e le 42 rappresentanze di
Istituzioni massoniche d’Oltralpe affluite
a Roma per il seminario nazionale su “La
Massoneria e il mondo di oggi”.
Il successo non stava solo nei numeri. La
Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. era una
realtà iniziatica e morale capace di reggere
al vento di personalismi, polemiche e secessioni che nelle organizzazioni umane
non mancano mai. Era e sarebbe del tutto
improprio parlarne come di un mero
“gruppo di Ghinazzi”5. Proprio gli Atti
Introduzione di Luigi
Danesin, Sovrano Gran
Commendatore Gran
Maestro della Gran
Loggia
d’Italia Palazzo Vitelleschi, Bari, Giuseppe
Laterza ed., 2006,
pp.298 euro 25.
2
ora in La Massoneria
Liberale, a cura di Luigi
Danesin, Roma, Atanòr, 2006, pp. 41-68.
3
ivi, pp.251-62.
4
Bari, Giuseppe Laterza ed., 2002.
5
E’ il termine, davvero
riduttivo, usato da Fabio Martelli in La
massoneria italiana in
periodo repubblicano
( AA. VV., La massoneria, a cura di G.M.
Cazzaniga, Torino, Einaudi, p. 729). In quella
stessa opera collettanea
F. Vigni parla di
“gruppo maschile denominato Gran Loggia d’Italia
degli Antichi ed Accettati Muratori (ALAM), conosciuta anche con la denominazione di Gran Loggia
d’Italia di Palazzo Vitelleschi”(p.791) e di “gruppo
massonico di Ghinazzi (p.730): terminologia inadeguata alla realtà. D’altronde in tale opera Ghinazzi
figura appena tre volte, mentre i Sovrani e Grandi
Maestri Canova, Franci e Danesin non vi compaiono
mai. Davvero troppo poco per una Comunione del
rilievo della Gran Loggia d’Italia.
P.62: Busto bronzeo di G. Ghinazzi, GLDI, Roma; p.64:
Collare da G.M. di G.Ghinazzi, GLDI, Roma; p.65: Tempio
Nazionale, veduta, GLDI, Roma (62, 64 e 65: foto Paolo
Del Freo).
65
Giosue Carducci, scrittore,
politico, massone
Aldo A.Mola, Edizione Bompiani, Milano 2006,
pp.571
uando prendo tra le mani un volume licenziato da Aldo A.Mola,
si genera sempre in me la sensazione di impossessarmi di un premio, una
sorta di completo panorama in cui saranno
ritrovate le risposte alle molte domande
che nel tempo si sono rincorse su quel
certo argomento di cui tratta l’opera. Generate da vecchie letture, da studi
superati, da approcci dovuti,
certe tematiche storiche, o come
in questo caso storico-letterarie,
ricoperte di una coltre massiccia
di domande alle quali non si è
trovata mai una risposta definitiva, si fanno avanti, riemergono, portando con sè l’idea che
ora troveranno soddisfazione.
Per “Giosue Carducci scrittore,
politico, massone” è stato lo
stesso. Autore letto e riletto,
imparato a memoria, mal sopportato e mal inteso, è uno di
quei punti dolenti sui quali si sa
di non aver mai lavorato con
giusta disposizione. Di chi la
colpa? Non è questa la domanda
che possa aiutare a ricostruirci
una purezza critica nei confronti
del poeta toscano: riandare a
tradimenti e dimenticanze può
solo costituire un inizio per risolvere il problema della corretta
lettura. E’ necessario cambiare
atteggiamento. Lo studio profondo e interdisciplinare con la
storia e con la politica della prima
Italia, che ne ha fatto Aldo
A.Mola, costituisce il più premiante modo di affrontare l’argomento.
Ed è anche un modo onesto limpido e
documentato, utile per riappropriarci di
un brano negletto di letteratura patria.
Tale compito può essere svolto, sicuramente nella maniera migliore, dallo storico
che ricolloca con ampiezza di vedute e con
conoscenza di cause una figura ed un’opera
nel suo tempo. Con originale agilità, Aldo
A.Mola indirizza dunque la sua penna
“vigile e balzante” (per mutuare dallo steso
Carducci una felicissima definizione) verso
l’opera poetica, la vita politica e la militanza
66
massonica di un grande troppo dimenticato. Inutile pretendere di scoprire nei
versi perfetti del consumato filologo finezze
estetizzanti che non gli competono. Utile
invece riandare ai dolori familiari, alle
passioni pubbliche, al rapporto irrisolto
con il femminile, tutto collocato nel più
vasto panorama storico del momento.
Luci ed ombre, bagliori e abbagli ma soprattutto verità. Con una disinibita impostazione diacronica Mola sfonda lo schema
consueto della consecutio temporum biografica, che normalmente segna lo svolgersi
delle monografie. Il libro inizia dal conferimento del premio Nobel e termina ritornando a quei momenti, quasi un anello
in cui con tremenda ciclicità si siano incastonate le vicende, spesso terribili, di una
vita ricca di passioni. Usando uno stile
nervoso, molto attuale, fatto di una punteggiatura ritmica che rende il testo molto
simile ad uno spartito musicale, lo storico
riesce a rendere vivace ogni vicenda e
mostrare i sentimenti e spesso la concitazione affettiva che accompagnò il poeta
nel corso della sua vita. Prendono corpo
le sue scelte politiche come espressioni di
un intenso sentimento di amor patrio.
L’essere massone, a sua volta, ci appare
come una scelta di rigore morale e di coerenza nei princìpi oltre che di sincera e
profonda amicizia per certi fratelli eccellenti. La “gloriosa triade” Carducci Lemmi
Crispi è oggetto di attento esame in tutto
il suo significato, “unita nell’azione, nella
persecuzione e nella sventura”. Conforta
molto la considerazione che nella massoneria il poeta abbia voluto vedere anche
un modo per esprimere la convinzione
che siano possibili il dialogo ed
il rispetto tra le culture. Apparenti incoerenze come quella che
da repubblicano gli fece apprezzare il ruolo della monarchia, sono puntualmente annotate e risolte in chiave storica.
Poi in pagine ricche di informazioni tratte da carteggi
esclusivi, Mola ricostruisce il
vario esprimersi del senso
amoroso di Carducci. Attratto
fortemente dal femminile, ne
predilesse anche gli aspetti meno
limpidi accettando le sue
espressioni più torbide, ma
sempre esprimendo verso i
soggetti amati ammirazione e
rispetto. Molto altro si potrebbe
dire dell’opera di rivalutazione
che compie Aldo A. Mola nei
confronti di Carducci, ma
dobbiamo rimandare all’attenta
lettura del saggio. Su un punto
però vorrei ancora soffermarmi.
Nel libro emerge quale astante
in eventi forse troppo grandi per
lui, l’inquietante figura di un
osannato contemporaneo:
Giovanni Pascoli. Allievo, ma
anche in qualche modo
“concorrente” del nostro poeta,
si presenta con tali ombre nella sua personalità, assai ben tratteggiata, da agire come
una sorta di cartina al tornasole. In una
ideale reazione chimica tra Carducci e la
storia, quella incerta personalità fa sì che
l’elemento trionfante sia senza dubbio
alcuno il nostro maschio Giosue, coraggioso e tuonante poeta, professore di intere
generazioni, e patriota appassionato. Pregevole e sapiente la silloge di liriche a
conclusione del volume.
(A.G.)
P.67: L’asino, P.Del Freo, 1989, coll. priv.
cipressi che a Bòlgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e “Ben torni omai”
Bisbigliaron vèr’ me co ‘l capo chino
“Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui!”
“Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei”
Guardando lor rispondeva, “oh di che cuore!
Ma, cipressetti miei, lasciatem’ire:
Or non è più quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!... Via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù:
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.
E massime a le piante”. Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
“Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ‘l lor bianco velo;
E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà”.
Ed io: “Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Tittì” rispondea; “Lasciatem’ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano!”.
“Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta?”
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co ‘l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! Deh com’era bella
Quand’ero bimbo! Ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
“Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare”.
Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr’io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
67
La Massoneria Liberale,
AA.VV., edizioni Atanor, Roma 2006. pp.330
nno 1805: si costituisce il Supremo
Consiglio d’Italia del R.S.A.A il quale,
dal 1° al 33° grado, forma una unica
entità dove ogni tappa iniziatica prepara la
successiva. Da allora sono trascorsi due secoli
e la pubblicazione che mi accingo a recensire
narra le vicende dei suoi 200 anni di vita,
fonde insieme storia ed attualità, riti e rapporti
con le Istituzioni, raggiungendo lo scopo di
costituire memoria del
passato e guida per il futuro. I contenuti vengono
analizzati dagli autori con
rigore sia storico che filosofico, non trascurando le
origini leggendarie della
massoneria, le cui tracce
hanno influito sui Riti di
tutto il mondo. Vengono
poi evidenziati i rapporti
con lo Stato, con le religioni, con altri riti massonici, tutti componenti essenziali della vita e della
vitalità della nostra Obbedienza. La prima parte ci
narra le vicende storiche
del Rito Scozzese Antico ed
Accettato, da quelle più
antiche, come il discorso
del cavalier Ramsay, al
trattato di Losanna (1875)
ed alla dichiarazione di
Ginevra (2005). Il discorso
del cavalier Ramsay, che
non è certo sia stato tenuto
realmente nella data tramandataci, ipotizza l’origine nobile e cavalleresca
della Massoneria che si
fonderà poi, come vedremo, con la tradizione dei
tagliatori di pietre e costruttori di cattedrali. Il trattato di Losanna
adegua il testo delle Grandi Costituzioni al
periodo storico corrente, mentre la dichiarazione di Ginevra le Giurisdizioni degli Alti
Gradi Scozzesi stigmatizzano come la loro
tradizione, fondata su un metodo massonico
che passa attraverso il simbolismo, affermi
la necessità della libertà di coscienza. La storia
del Rito Scozzese Antico ed Accettato è la
storia della Massoneria italiana e sarà, a partire
dalla costituzione della Serenissima Gran
Loggia (oggi Gran Loggia d’Italia degli Antichi
Liberi Accettati Muratori, Obbedienza di
68
piazza del Gesù, Palazzo Vitelleschi) la storia
della nostra Obbedienza. Essa volle fin da
allora mantenere vive la tradizione e la ritualità contro coloro che, pochi anni prima,
avrebbero voluto realizzare la completa politicizzazione dell’Obbedienza svuotando
così i rituali dei loro contenuti simbolici, per
arrivare a considerarli alla stregua di un
orpello inutile e controproducente. È qui
che si è manifestata ancora una volta la saggezza della Massoneria. Ci sono ancora filoni
da scoprire nelle già tanto esplorate miniere
del Rito Scozzese Antico ed Accettato? Crediamo di sì quando leggiamo dei rapporti
che hanno legato e legano la massoneria alla
politica e di come non sempre sia stata rispettata la regola che recita al neofita: “Qui,
Voi non introdurrete alcuna delle Vostre
dottrine, Voi non offenderete nessuno e
nessuno Vi farà offesa”. Crediamo di sì quando leggiamo dei rapporti che la Massoneria
ha avuto con le religioni, e quando e quante
volte essa stessa sia stata considerata, a torto,
una religione. Anche se la massoneria non
è né un partito né una setta, essa è stata più
volte tacciata di eresia per il solo fatto di
ammettere nel suo seno cattolici e non cattolici fino addirittura ad essere considerata
società che “macchina contro la Chiesa ed i
legittimi poteri civili”. Conclude la seconda
parte del libro un sentito ringraziamento a
Giovanni Ghinazzi il cui ingresso in Massoneria nel 1945 è stato unanimemente riconosciuto come basilare non solo per l’Obbedienza di piazza del Gesù, da lui ricostruita
e riconsacrata, ma per l’intera massoneria
italiana e per tante Obbedienze europee. La
maestranza di Ghinazzi
fece si che l’Obbedienza
rientrasse nella tradizione
che era stata alla base dell’impostazione ideologica
ed operativa di Saverio
Fera. Sono trascorsi due
secoli, ed oggi noi li abbiamo rivissuti insieme ai
loro protagonisti grazie agli
autori di questo libro che,
oltre a celebrare il bicentenario, celebra la Massoneria. Oggi ci rendiamo
conto che l’uomo non
soltanto è oppresso ma
anche a rischio di perdere
il senso della vita. Oggi,
come ieri, la funzione del
Rito Scozzese Antico ed
Accettato si mostra in tutta
la sua forza e diviene strumento per il bene ed il
progresso di tutti gli uomini. Dopo l’era artigianale
e quella industriale noi
stiamo vivendo l’era
scientifica. Appare dunque
naturale e logico che i
massoni vorrebbero conoscere meglio il processo
di evoluzione che si realizza
con il metodo iniziatico
utilizzato dal Rito Scozzese
Antico ed Accettato. Tale
processo si realizza come
una verità maieutica, che nella filosofia socratica è l’arte di far scoprire all’interlocutore
le verità che egli porta dentro di sé. Tutto
questo e tanto altro ancora viene offerto dalle
quattro parti in cui è suddiviso il volume.
Per dare un’idea della sua struttura è bene
riassumerne qui l’impianto. Dopo la presentazione del Sovrano Gran Commendatore
Gran Maestro Luigi Danesin, che è anche il
curatore dell’opera, si passa ad Alain de
Keghel, l’autore della prefazione. Parte Prima:
I Riti e il Rito Scozzese Antico ed Accettato.
Comprende i contributi di Aldo A.Mola,
Sergio Ciannella, Luigi Pruneti, Arnaldo
Francia, Ernesto Enrico Tauber, Paolo Musto.
Parte seconda: Massoneria e Società. Raccoglie
gli scritti di: Aldo A.Mola, Josè Antonio Ferrer
Benimeli S.J., Antonio Binni, Rosario
F.Esposito S.S.P., André Combes, Gian Pietro
Calabrò, Arnaldo Francia. Parte terza: Pianeta
Massoneria. Vi hanno contribuito Paolo
Alvigini, Barbara de Munari, Dario Pavesio,
Anna Giacomini, Giovanni Rabbia. La quinta
parte contiene le conclusioni che si articolano
in due scritti. Il primo è un intervento di
Aldo A. Mola assai interessante sotto il profilo
filologico, che incide in modo significativo
nella conoscenza della verità storica. Officinae
a suo tempo aveva già dato spazio al frutto
della ricerca del massonologo. Il volume si
chiude con la commossa lettera, ambientata
letterariamente in una dimensione atemporale, indirizzata ad un Neofita da Barbara de
Munari. Con aggraziato entusiasmo ed accenti poetici tocca corde che vibrano sulle
note dell’Assoluto e dei Massimi Sistemi.
Non è facile dare il meritato rilievo ai singoli
in una silloge di Autori Vari perché molti
sono gli interventi, tutti di alto livello e dunque rimandiamo alla lettura attenta e meditata. Solo esercitando la capacità di analisi e
di ragionamento criticamente impostato è
possibile una crescita culturale non solo
massonica ma anche umanistica e questo
volume vuole proprio raggiungere questo
scopo. Grazie al Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Luigi Danesin, grazie al
Luogotenente Sovrano Gran Commendatore
Gran Maestro Aggiunto Vicario Luigi Pruneti
ed a tutti gli autori per aver dato l’opportunità
a noi iniziati ed a tutti i profani che fossero
interessati, la possibilità di rivivere l’essenza
della Massoneria liberale nonché la storia del
Rito Scozzese Antico ed Accettato, il quale
è, e sarà sempre, fonte della conoscenza dei
segreti di un’antica sapienza perduta. Ad
maiora Gran Loggia d’Italia degli Antichi
Liberi Accettati Muratori.
(M.G.O.)
P.69: Allegoria della Fama, affresco, XVIII sec, palazzo
Roffia, Firenze (foto Paolo Del Freo).
69
Il segreto di San Miniato
R.Manetti, Edizioni Polistampa, Firenze 2006,
pp. 403
el 1915 veniva pubblicato un
romanzo destinato ad avere un
notevole successo nel tempo:
Golem di Gustav Meyrink. Ambientato
nel ghetto di Praga il racconto era incentrato sul misterioso sapere degli alchimisti,
sulla lotta tra i due principi del bene e del
male che si estrinsecava,
tra l’altro, in percezioni
extrasensoriali e sul
concetto di unione indissolubile tra il maschile
ed il femminile. Questi
temi, e non solo questi,
erano trattati con uno
stile febbrile e delirante,
una sorta di espressionismo di effetto
truculento che ha dato
frutti tardivi in tutta una
serie di mode letterarie.
La lettura dell’opera oggi
riconduce ad una condizione storica ben individuabile, dove ogni
particolare è datato, ma
contemporaneamente
offre concetti iniziatici
purtroppo espressi con
lo scopo di fare sensazione, di meravigliare.
Non importava se la
meraviglia fosse spesso
intrisa di angoscia malata, di nausea, di sporcizia e quindi destinata
ad affossare l’opera nella
categoria del feuilleton.
Peccato, potremmo dire,
perchè qualche tratto
sfiorava l’intuizione illuminata, certi concetti erano il frutto di
una conoscenza esoterica di nobilissima
ascendenza. Da quel momento in poi, a
precipizio, il filone del romanzo iniziatico
scivolò sui viscidi percorsi della fantascienza o della fantastoria, fino a quel
patinato oggetto da supermarket che è Il
Codice da Vinci dove si tratta di tutto
senza trattare di niente. Riscatta completamente questo genere letterario il romanzo di Renzo Manetti Il segreto di San
70
Miniato. L’impianto, sostanziato dalle
medievali vicende di un ebreo fiorentino
dall’infanzia alla morte, è quello della
crescita iniziatica che prevede tutti gli atti
del percorso.
Vi si parla infatti dell’unione archetipica
del maschile con il femminile (anche qui
una Miriam come il femminino di
Meyrink), della fede nel Dio unico sovrareligioso, della lotta del bene contro il
male, della percezione ultranormale fatta
di veggenze, dello studio alchemico, del
Graal e di altro, molto altro.
La differenza profonda, con quanto l’editoria ha fino ad ora prodotto, sta nella
conoscenza ampia e matura dell’autore
nei confronti della materia trattata con
raffinata capacità comunicativa, senza
alcuna indulgenza verso il fumoso sensazionalismo.
Per questo suo impegno lo scrittore riesce
a parlare dell’ indescrivibile, spesso ricorrendo ad accenti di pura poesia. Il fatto
è che crede profondamente in ciò di cui
romanza, non solo, ma conosce molto
bene e tutt’altro che affrettatamente la
storia maggiore in cui cala gli eventi.
Va anche detto che parlare di storia semplicemente è riduttivo in questo caso,
perchè la storia cui Manetti si riferisce
non è quella di un popolo o di un luogo,
ma tutta la storia dell’occidente cristiano
e delle sue fondamentali propaggini nell’oriente della Terra Santa.
Piacevole è il ritrovare personaggi conosciuti per aver lasciato tracce significative
di sé nelle cronache,
nell’arte o nella letteratura. Resi umani ed appassionati da una penna
che crede nella vittoria
del bene sul male e nel
kalòs kai agathòs, popolano le oltre quattrocento
pagine con personalità
ben distinte e nettamente
delineate.
Viaggiano, combattono,
si incontrano, si lasciano,
amano e muoiono creando un ampio affresco
diacronico, in cui gli
eventi sembrano intercettati miracolosamente
da un osservatore capace
di sfondare la barriera
del tempo passato.
Le pagine dedicate all’architettura e alla geometria sono esempi di
straordinario amore per
la materia ed illuminano
con i bagliori di un sapere originale, ricco di
riferimenti alla filosofia
neoplatonica e di consumato studio analitico,
certamente costruito sul
campo. Nella limpida
spiegazione del procedimento per ottenere la quadratura del cerchio, la semplicità delle cose vere scioglie con naturalezza
ogni antico retaggio misterico. Mentre
dominano i fatti come protagoniste occulte e sempre risolutive, le mistiche armonie della basilica di San Miniato, vero
grande amore dello scrittore.
Il crescendo di toni che marca il procedere
del romanzo, alla fine conduce il lettore
ad una pacificata catarsi. (A.G.)
I grandi iniziati
del nostro tempo
Paola Giovetti, Edizioni Mediterranee, Roma
2006, pp.225
e si chiede ad un libraio attento
cosa legge la gente al giorno d’oggi,
ci si sente rispondere in modo
sorprendente. Intanto dirà, al contrario
di ciò che si può pensare, che la lettura
è molto più diffusa di qualche anno fa,
che il libro non è in crisi
nonostante venga consegnato in allegato a
quotidiani e periodici
con l’aggiunta di pochi
euro e che oggi si solennizza il trionfo della
manualistica.
Sorprendente. A occhio
e croce ci si fa l’idea che
tra televisione ed internet
stiamo per celebrare il
funerale del vecchio caro
libro, orgoglio di biblioteche che da sole rappresentavano lo status
simbol di una famiglia di
cento anni or sono, per
dire. Invece scopriamo
con gioia che quello del
libro è un settore in crescita. Ma in quale direzione? Dice il libraio, si
va verso la manualistica.
Dunque vien fatto di
concludere che oggi, nella
dispersione e nella confusione di un momento
privo di quei begli scrittori che resero ricco il
nostro dopoguerra (da
Calvino a Tomasi di
Lampedusa, Moravia…)
il lettore sia interessato a
fare ordine nelle sue nozioni, a catalogare
e ad imparare l’uso di ciò che senza una
spiegazione potrebbe restare abbandonato a se stesso.
Il lettore cerca il libro per leggere altri
libri.
Infatti molte case editrici si stanno proprio indirizzando verso collane dedicate
a riassumere in poche pagine, accorpati
per famiglie, gli argomenti dello scibile,
onde creare specifiche panoramiche utili
ad un approccio globale della materia.
Poi, guardato il panorama, il lettore planerà sicuro verso i singoli dettagli che in
questo caso sono i singoli autori o le
singole discipline.
L’ultimo libro di Paola Giovetti sembra
inserirsi proprio in questo schema. I
Grandi Iniziati del nostro tempo è una
collazione costituta da 18 brevi biografie
di personaggi che necessitavano di una
classificazione.
Muoversi nel pericoloso labirinto della
letteratura esoterica con agile sicurezza,
non è facile.
Chi lo sa fare, e Paola Giovetti è maestra,
è necessario che fornisca delle indicazioni,
che dia chiarimenti.
Per scrivere un libro di questa fatta bisogna aver letto l’opera dei 18 autori, averla
soppesata ed offrirne il pregiato succo a
chi ricerca una via di indagine. Il compito
richiede perciò sicurezza di giudizio e
molta conoscenza di tutta l’insidiosa
materia.
Sul percorso inaugurato da Edouard
Schurè con il suo celebre I grandi iniziati
(1899) l’autrice colloca coloro che ad un
sereno quanto esperto vaglio si sono
distinti nei nostri anni “per aver mostrato
all’uomo dimensioni nuove, aperto più
ampi orizzonti”. La grande novità di
quest’opera è costituita dallo spazio lasciato alla psicologia dei personaggi, fattore importantissimo per comprendere
il portato della loro dottrina.
Nulla come l’illuminazione cognitiva è
in tanto stretto rapporto
con la psiche di chi formula un pensiero frutto
di un tale metodo.
Quindi alle pregevoli
sintesi del pensiero dei
suoi protagonisti, Paola
Giovetti unisce notizie
biografiche spesso assai
utili per capire meglio i
loro percorsi iniziatici.
Ad esempio, per citarne
uno, l’inquietante Madame Blavatsky soggetto
dalle eccezionali potenzialità paranormali, capace di dominare le
esperienze più estreme,
si scopre che nel 1863,
dopo un periodo di relativa calma, intraprese
un viaggio in Italia. Conosciuto Garibaldi si
aggregò alle sue truppe
combattendo a Mentana
contro l’esercito pontificio. In quell’occasione
fu anche ferita.
Ecco che apprendiamo
come la scuola teosofica,
di cui Helena Petrovna
Blavatsky fu la musa, non
fosse ignota a Garibaldi.
Non possiamo dire di più
per rispetto dei lettori che non mancheranno di apprezzare la vastità delle informazioni a volte anche inedite che l’autrice
assembla intorno ad ogni personaggio.
Possiamo solo riaffermare che, per coloro
che cercano la loro via anche tra le complicazioni delle esperienze di frontiera,
lo scritto di Paola Giovetti può rappresentare una sorta di preziosa galleria degli
antenati in cui ricercare spunti, similitudini e confronto.
71
Fregi di Loggia
R.L. ‘Clara Vallis’, Or. di Como
Il nome ‘Clara Vallis’ richiama alla mente la ‘Chiara Valle’ del san Bernardo cristiano, un luogo luminoso
e di pace dove Bernardo di Chiaravalle fondò il suo primo monastero. Vuole essere un buon auspicio
e contemporaneamente uno stimolo alla ricerca per arrivare ad illuminare l’antro oscuro della coscienza
umana combattendone l’ignoranza e la debolezza con quella luce che da sempre è simbolo di saggezza
e di verità. Il gioiello è formato da un cerchio esterno con la scritta Quando in tua domo nigri corvi
parturient albas columbas,tunc vocaberis sapiens, iscrizione incisa sulla porta alchemica di Roma, con
chiara allusione alla Grande Opera; all’interno si trova il sigillo di Salomone, simbolo della conjunctio
oppositorum. Sovrapposto a questo vi è un cerchio crociato: il globo del mondo.
ad oggi l’elenco delle Logge già pubblicato...
R\L\1349
R\L\1442
R\L\1216
R\L\1116
R\L\1228
R\L\1413
R\L\1363
R\L\1498
R\L\1250
R\L\1187
R\L\1392
R\L\1493
R\L\1500
R\L\1167
R\L\1122
R\L\1507
R\L\1455
R\L\1501
R\L\1203
R\L\1482
R\L\1164
R\L\1148
R\L\1495
R\L\1184
R\L\1462
R\L\1181
R\L\1485
R\L\1323
Cartesio O\di Firenze
Nino Bixio O\di Trieste
Scaligera O\di Verona
Minerva O\di Torino
Sile O\di Treviso
Luigi Spadini O\di Macerata
Enrico Fermi O\di Milano
Kipling O\di Firenze
Iter Virtutis O\di Pisa
Venetia O\di Venezia
La Fenice O\di Forlì
Goldoni O\di Londra
Horus O\di R.Calabria
Pisacane O\di Udine
Mozart O\di Roma
Prometeo O\di Lecce
Salomone O\di Catanzaro
Teodorico O\di Bologna
Fargnoli O\di Viterbo
Minerva O\di Cosenza
Federico II O\di Jesi
Giovanni Pascoli O\di Forlì
Triplice Alleanza O\di Roma
Garibaldi O\di Castiglione
Astrolabio O\di Grosseto
Augusta O\di Torino
Voltaire O\di Torino
Zenith O\di Cosenza
R\L\1136
R\L\1154
R\L\1284
R\L\1330
R\L\1511
R\L\1383
R\L\1227
R\L\1296
R\L\1353
R\L\1472
R\L\1329
R\L\1334
R\L\1526
R\L\1450
R\L\1486
R\L\1375
R\L\1477
R\L\1529
R\L\1506
R\L\1209
R\L\1452
R\L\1308
R\L\1473
R\L\ 567
R\L\1518
R\L\1195
R\L\1239
R\L\1447
Audere Semper O\di Firenze
Justitiam O\di Lucca
Horus O\di Pinerolo
Jakin e Boaz O\di Milano
Petrarca O\di Abano Terme
Eleuteria O\di Pietra Ligure
Risorgimento O\di Milano
Fidelitas O\di Firenze
Athanor O\di Cosenza
Ermete O\di Bologna
Monviso O\di Torino
Cosmo O\di Albinia
Trilussa O\di Bordighera
Logos O\di Milano
Valli di Susa O\di Susa
Cattaneo O\di Firenze
Mozart O\di Genova
Carlo Faiani O\di Ancona
Aetruria Nova O\di Versilia
Giordano Bruno O\di Firenze
Magistri Comacini O\di Como
Libertà e Progresso O\di Livorno
Uroborus O\di Milano
Ugo Bassi O\di Bologna
Ravenna O\di Ravenna
Hiram O\di Sanremo
Cavour O\di Vercelli
Concordia O\di Asti
R\L\1124 Per Aspera ad Astra O\di Lucca
R\L\1364 Dei Trecento O\di Treviso
R\L\1411 La Fenice O\di Livorno
R\L\1316 Aristotele II O\di Bologna
R\L\1292 La Prealpina O\di Torino
R\L\1274 Erasmo O\di Torino
R\L\ 612 Hiram O\di Bologna
R\L\1457 Garibaldi O\di Toronto
R\L\ 903 Sagittario O\di Prato
R\L\1179 Giustizia e Libertà O\di Roma
R\L\1417 Le Melagrane O\di Padova
R\L\1431 Luigi Alberotanza O\di Bari
R\L\1430 Antares O\di Firenze
R\L\1318 Cidnea O\di Brescia
R\L\1286 Fratelli Cairoli O\di Pavia
R\L\ 582 Nazario Sauro O\di Piombino
R\L\1479 Antropos O\di Forlì
R\L\1108 Internazionale O\di Sanremo
R\L\1530 Giordano Bruno O\di Catanzaro
R\L\1458 Federico II O\di Firenze
R\L\1574 Pietro Micca O\di Torino
R\L\1222 Athanor O\di Brescia
R\L\D. 6886 Chevaliers d’Orient O\di Beirut
R\L\1120 Giosuè Carducci O\di Follonica
R\L\1534 Orione O\di Torino
R\L\1268 Atlantide O\di Pinerolo
R\L\1384 Falesia O\di Piombino
R\L\1516 Alma Mater O\di Arezzo
R\L\1593
R\L\1178
R\L\1336
R\L\1516
R\L\1382
R\L\1285
R\L\1540
R\L\1405
R\L\1456
R\L\1383
R\L\2683
R\L\1545
R\L\1582
R\L\1567
R\L\1600
R\L\1551
R\L\1550
R\L\1602
R\L\1521
R\L\1570
R\L\1620
R\L\1390
R\L\1622
R\L\1271
R\L\ 109
R\L\1293
R\L\1669
R\L\1547
R\L\1675
Cavour O\di Arezzo
G.Biancheri O\di Ventimiglia
Sibelius O\di Vercelli
C.Rosenkreutz O\di Siena
Virgilio O\di Mantova
Mozart O\di Torino
Ausonia O\di Siena
Vincenzo Sessa O\di Lecce
Manfredi O\di Taranto
Cavour O\di Prato
Liguria O\di Ospedaletti
S.Friscia O\di Sciacca
Atanor O\di Pinerolo
Ulisse O\di Forlì
14 juillet O\di Savona
Pitagora O\di Cosenza
Alef O\di Viareggio
Ibis O\di Torino
Melagrana O\di Torino
Aurora O\di Genova
Silentium... O\di Val Bormida
Polaris O\di Reggio Calabria
Athanor O\di Rovigo
G. Mazzini O\di Parma
Palermo O\di Palermo
XX Settembre O\di Torino
La Silenceuse O\di Cuneo
Corona Ferrea O\di Monza
Clara Vallis O\di Como
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Marzo 2007 - Gran Loggia d`Italia