RIVISTA DELL’ ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
QUESTIONI APERTE
2011/2
LA COMUNIONE LEGALE
www.aiaf-avvocati.it
Anno XVI n° 2, maggio-agosto 2011
Quadrimestrale - reg. Tribunale Roma n. 496 del 9.10.1995
AIAF 2011/2
SOMMARIO
Editoriale
2
La comunione legale e le questioni aperte
Milena Pini
Focus
4
Questioni in tema di capacità del coniuge a disporre dei beni compresi nella comunione legale
Stefano Rampolla
11
Atti di liberalità e regime di comunione legale
Mimma Moretti
20
L’impresa familiare ai sensi dell’art. 230 bis c.c.
Alessandra Maddi
28
Le partecipazioni sociali e la comunione legale
Giulia Sapi
32
Comunione dei beni: conto corrente cointestato tra i coniugi e conto corrente intestato a un solo coniuge
Giulia Sarnari
38
Il momento dello scioglimento della comunione dei beni e il procedimento di divisione
Commento alla sentenza della Cassazione, I Sezione civile, del 26 febbraio 2010 n. 4757
Costanza Pomarici
42
La divisione dell’immobile in comunione assegnato quale casa familiare in sede di separazione o divorzio
Milena Pini
Europa
48
Il regime patrimoniale dei coniugi in Europa. Verso un regolamento europeo
Marina Blasi
58
Accordi prematrimoniali in Inghilterra e Galles: l’impatto della sentenza sul caso Radmacher vs Granatino
Suzanne Todd, Vanessa Mitchell
65
Proposta di Regolamento del Consiglio Ue relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi, Bruxelles, 16 marzo 2011, COM(2011)
126 definitivo
75
Proposta di Regolamento del Consiglio Ue relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate, Bruxelles, 16 marzo 2011,
COM(2011) 127 definitivo
AIAF
RIVISTA DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI AVVOCATI PER LA FAMIGLIA E PER I MINORI
Anno XVI n° 2, maggio-agosto 2011 - nuova serie quadrimestrale
Direttore responsabile Milena Pini
Comitato di redazione Manuela Cecchi, Gabriella de Strobel, Luisella Fanni (coordinatrice Quaderni),
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
LA COMUNIONE LEGALE E LE QUESTIONI APERTE
Milena Pini
Avvocato del Foro di Milano e presidente dell’AIAF
La comunione dei beni tra coniugi e il suo scioglimento è materia sconfinata, che continua a sollevare incertezze e interrogativi, nonostante siano
decorsi più di trent’anni dalla riforma del diritto
di famiglia del 1975 che l’ha introdotta come regime legale della famiglia.
Come rileva il notaio Stefano Rampolla nel suo
contributo a questo numero della Rivista AIAF
dedicato alla comunione legale, “sfogliando i repertori della giurisprudenza, ci si avvede senza
difficoltà di quanto interesse desti ancora il regime
patrimoniale legale”, essendo in effetti “numerosi
gli interrogativi tuttora aperti, in ordine ad alcuni
dei quali si agitano accesi dibattiti, con alterne
prese di posizione anche da parte della stessa
Corte di legittimità”.
La maggior parte delle questioni in discussione riguarda l’acquisizione dei beni alla comunione,
per il conseguente interesse all’individuazione
della massa dei beni da dividere al momento dello
scioglimento della comunione, correlato soprattutto alla separazione personale dei coniugi.
Si rileva così un concreto interesse al tema delle
“interferenze” tra atti di liberalità e stato coniugale, sia in relazione all’ipotesi in cui l’attribuzione liberale avvenga tra i coniugi sia che la
stessa sia posta in essere da un terzo a beneficio di
un soggetto coniugato. La professoressa Mimma
Moretti, nell’articolo qui pubblicato, approfondisce alcune questioni che sorgono in relazione alla
donazione di beni o denaro da parte dei genitori
a favore del figlio prima o in occasione del matrimonio, e che riguardano la donazione tra coniugi
e, nello specifico, la natura dei versamenti effettuati da un coniuge all’altro su di un conto cointestato.
Argomento che viene approfondito anche dalla
collega Giulia Sarnari, che riporta gli orientamenti della giurisprudenza sulle “sorti dei conti
2
correnti bancari dei coniugi intestati singolarmente e cointestati, rispetto alle norme sulla comunione legale dei beni, sul suo scioglimento, sui
rimborsi e sulle restituzioni”.
Altre questioni da sempre discusse riguardano
l’impresa coniugale e l’impresa familiare, e l’accertamento dei “requisiti” del lavoro domestico
prestato dal coniuge dell’imprenditore affinché
tale prestazione assuma rilevanza per il sorgere
dei diritti patrimoniali, partecipativi e amministrativi previsti dalla normativa che disciplina l’impresa familiare. La collega Alessandra Maddi approfondisce questo istituto, soffermandosi sui
criteri per il riconoscimento della qualifica di partecipante all’impresa familiare, sui diritti del coniuge partecipante all’impresa familiare e sul procedimento per la liquidazione delle spettanze del
coniuge separato che partecipi all’impresa familiare, nel procedimento avanti il giudice del lavoro.
Lo scioglimento della comunione legale e la conseguente azione per la divisione dei beni comuni
solleva discussioni e contrastanti orientamenti
giurisprudenziali anche per quanto riguarda la
proponibilità della relativa domanda prima del
passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale o dell’emissione del decreto di
omologazione degli accordi di separazione consensuale, tesi accolta da una recente pronuncia
della Corte di Cassazione, sulla quale si sofferma
la collega Costanza Pomarici.
Infine, altra questione dibattuta e sempre di rilevante attualità, che viene da me trattata in questo numero della Rivista, è la divisione dell’immobile in comunione legale che in sede di
separazione o divorzio sia stato assegnato in godimento quale casa familiare a un coniuge, nell’interesse dei figli. Gli interrogativi che sorgono in
relazione all’azione di divisione dell’immobile in
EDITORIALE
comunione legale assegnato in godimento a un
coniuge riguardano la rilevanza del provvedimento di assegnazione della casa coniugale ai fini
dell’ammissibilità dell’azione stessa, le conseguenze della divisione dell’immobile assegnato
quale casa familiare sul diritto personale di godimento del coniuge assegnatario, la rilevanza dell’assegnazione in godimento del bene sulla stima
dello stesso immobile da dividere, le diverse opzioni di assegnazione del bene in natura e di
vendita al terzo o all’asta.
Uno sguardo oltre i confini nazionali ci consente,
inoltre, di prendere atto della complessità e frammentazione della situazione che riguarda i sistemi patrimoniali coniugali in Europa e dell’esigenza di un regolamento che definisca quale sia
la legge applicabile e la giurisdizione nei casi di
matrimoni e di unioni registrate tra coppie di diversa nazionalità.
Come rileva la collega Marina Blasi nel suo articolo sul regime patrimoniale dei coniugi e delle
unioni registrate in Europa,“ le molteplici forme
di manifestazione della comunione inducono sicuramente a ritenere che, in assenza di un’adeguata opera di coordinamento, non solo una
stessa coppia possa essere ritenuta soggetta a
due regimi diversi, a seconda dello Stato in cui la
controversia viene giudicata, ma che un medesimo regime applicabile a una coppia sia ritenuto
di tipo comunitario in un Paese e di tipo separatista in un altro”, da cui discende l’urgente necessità che l’Unione europea adotti un regolamento
sui regimi patrimoniali tra i coniugi e sugli effetti
patrimoniali delle unioni civili registrate, secondo
la proposta presentata dalla Commissione Ue il 16
marzo 2011 relativa alla competenza, alla legge
applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni in materia di regimi patrimoniali
tra coniugi, che pure qui pubblichiamo.
È interessante rilevare che questa proposta di regolamento – così come avvenuto di recente per il
regolamento Ue n. 1259 del 20 dicembre 2010 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio
e alla separazione personale – privilegia il principio dell’“autonomia controllata”, in base al quale
la legge applicabile per i regimi patrimoniali dei
coniugi o dei conviventi sarà quella dello Stato ove
risiedono abitualmente, ma in alternativa le coppie avranno la possibilità di scegliere la legge del
Paese di cittadinanza di uno dei coniugi o dei
conviventi. Inoltre la Commissione propone di
concentrare i vari procedimenti di divorzio, di separazione personale e di liquidazione del regime
patrimoniale tra coniugi, davanti a un’unica autorità giurisdizionale, competente così a conoscere tutte le questioni in un unico contesto. Una
soluzione che sarebbe auspicabile venisse adottata
anche dal nostro legislatore.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
QUESTIONI IN TEMA DI CAPACITÀ DEL CONIUGE A DISPORRE DEI BENI COMPRESI
NELLA COMUNIONE LEGALE
Stefano Rampolla
Notaio in Milano
Malgrado i trent’anni e più di storia alle spalle, la comunione legale dei beni fra i coniugi continua
a sollevare molteplici incertezze, occupando accademici e operatori del diritto.
Sfogliando i repertori della giurisprudenza, ci si avvede senza difficoltà di quanto interesse desti
ancora il regime patrimoniale legale. E, in effetti, sono numerosi gli interrogativi tuttora aperti, in
ordine ad alcuni dei quali si agitano accesi dibattiti, con alterne prese di posizione anche da parte
della stessa Corte di legittimità1.
Va subito detto, tuttavia, che la gran parte delle questioni ancora in discussione riguarda il meccanismo di acquisizione dei beni alla comunione e, di conseguenza, la perimetrazione delle entità suscettibili di inclusione nell’alveo della comunione.
Non molto materiale si rinviene, invece, a proposito dell’argomento che occasiona le presenti note: la disponibilità dei beni comuni da parte di uno solo dei coniugi2.
Eppure, anche in quest’ambito, emerge ben più di uno spunto di discussione.
Considerata l’economia di questa breve trattazione, che costringe a qualche scelta un po’ arbitraria, sembra interessante investigare – senza pretesa di esaustività – gli spazi di autonomia del singolo coniuge, valutando cioè la sua capacità, da una parte, di disporre dei beni per la quota a lui
idealmente spettante e, dall’altra, di porre in essere validi atti dispositivi dei beni comuni.
Mentre la prima questione sembra facilmente archiviabile – stante l’ormai diffusa opinione secondo la quale la comunione legale dei beni darebbe luogo, in ordine ai beni che vi sono compresi,
1
Esemplare il tema del cosiddetto “rifiuto del coacquisto”, oggetto, specie di recente, di numerosi interventi giurisprudenziali. Da ultimo si veda Cass. civ., Sez. un., 28 ottobre 2009, n. 22755, in Giust. civ., 2010, 11, 2529 ss. (commento di Timpano) che – a valle di una precedente posizione di chiusura – ha mostrato un atteggiamento di maggior apertura, riaprendo il
dibattito in materia: sostanzialmente la Cassazione ha negato natura negoziale alla dichiarazione del coniuge non acquirente
contemplata dall’art. 179, co. 2, c.c., lasciando spazio alla possibilità di una manifestazione di volontà volta a escludere il coacquisto ex lege.
2 Gran parte della giurisprudenza in materia riguarda il caso in cui uno solo dei coniugi sottoscriva un contratto preliminare di vendita avente a oggetto l’immobile compreso nella comunione legale. In ordine a questo delicato argomento, la giurisprudenza della Suprema Corte risulta piuttosto oscillante; nelle pronunce più recenti, comunque, sembra prevalere l’orientamento volto a ritenere che la fattispecie vada compresa nell’ambito dell’art. 184 c.c. con la conseguenza che: “In regime di
comunione legale tra i coniugi, il contratto preliminare di vendita di bene immobile (che, ai sensi dell’art. 180, secondo comma, cod. civ., è atto di straordinaria amministrazione [...] non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all’azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale entro cui
è ristretto l’esercizio di tale azione [...] finché l’azione di annullamento non venga proposta, l’atto è produttivo di effetti nei
confronti dei terzi” (in questo senso Cass. 21 dicembre 2001, n. 16177, in Vita Notarile, 2002, Parte prima, 335 ss. e in Riv.
Not., 2002, 971 ss.; conformemente Cass. 17 dicembre 1994, n. 10872, in Nuova Giur. Civ. Comm., 1995, I, 889, con nota di
Regine. Non mancano, tuttavia, sentenze in senso opposto, fra queste Cass. 18 febbraio 1999, n. 1363, secondo cui: “La comunione legale tra coniugi cui all’art. 177 c.c. riguarda gli acquisti [...] non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi [...] con la conseguenza che, nel caso di contratto preliminare stipulato da uno solo dei coniugi, nessun diritto può accampare l’altro coniuge il quale non è neppure legittimato a proporre domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c.”).
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FOCUS
a una specialissima figura di comunione senza quote3 –, quanto alla seconda si noterà come non
manchino casi in cui la disciplina legale legittima la facoltà di disposizione del singolo coniuge.
Il che potrà ricavarsi, talvolta, dalla stessa disciplina legale e, in altri casi, dalla particolare natura
dei beni presi in considerazione.
Merita subito premettere che, per quanto di nostro interesse, l’impianto normativo fondamentale è
costituito:
• dall’art. 180, primo e secondo comma, c.c. il cui combinato disposto, sostanzialmente, prescrive la necessità del consenso congiunto dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione;
• dall’art. 184 c.c. che sanziona con l’annullabilità gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro e da quest’ultimo non convalidati se concernenti beni immobili o beni mobili di cui all’art. 2683 c.c.; la norma afferma, nel contempo, la validità degli atti aventi a
oggetto beni mobili diversi da quelli di cui sopra, stabilendo tuttavia l’obbligo per il disponente di ripristinare la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto stesso4.
Emerge subito, dalla lettura congiunta delle due disposizioni normative, l’opportunità di qualche
chiarimento.
Il più specifico riferimento operato dall’art. 184 agli atti dispositivi5 apre il quesito se esso debba o
meno ritenersi norma speciale rispetto all’art. 180 (il quale fa generico riferimento all’attività di “amministrazione”), con la conseguenza di indurre a considerare gli atti dispositivi di beni (indipendentemente dalla loro natura e valore) sempre attratti al campo delle attività di carattere straordinario.
Al contrario, si è opportunamente osservato che anche gli atti dispositivi possono essere compre-
3
In effetti va precisato che, nell’interpretazione più tradizionale, il regime di comunione viene ricompreso in un ambito del
tutto peculiare, assai distante dalla comunione disciplinata nel Libro secondo del codice civile, caratterizzata appunto dall’assenza di quote. Si tratterebbe in sostanza di una comunione “a mani riunite” più vicina, in punto di natura giuridica, alla comunione di diritto germanico. Ma se, da una parte, queste affermazioni sono rinvenibili già nella manualistica (fra tutti Bianca, a cura
di, La comunione legale, I, Milano, 1989), ciò che giova sottolineare sono i risvolti applicativi di questa interpretazione. Da questo punto di vista giova rammentare la corrente giurisprudenziale – che direi oramai in corso di consolidamento – formatasi a riguardo del tema dell’espropriazione forzata dei beni compresi nella comunione a fronte di obbligazioni contratte separatamente dai coniugi (art. 189, secondo comma, c.c.).
È infatti ormai ricorrente, sia nella giurisprudenza di merito (Tribunale di Trapani 15 marzo 2005, in Giur. merito, 2005, 6, 1287
ss.; Tribunale di Reggio Emilia 26 aprile 2010, inedita) che in quella di legittimità (Cass. 4 agosto 1998, n. 7640, in Giust. civ. Massime, 1998, 1644 ss. con commento di Finocchiaro, in Giust. civ., 1999, 3, 791 ss.), l’affermazione secondo cui l’oggetto dell’espropriazione non possa essere costituito da quota di metà del bene, bensì solamente dall’intero cespite in comunione. In altre parole, i giudici ritengono non ammissibile che l’azione esecutiva possa investire da sola la quota di metà del bene in comunione,
corrispondente – in astratto – alla misura della disponibilità del singolo coniuge obbligato.
Il disposto dell’articolo 189 c.c., secondo comma, secondo cui i “creditori” possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della
comunione fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, andrebbe interpretato non già nel senso di autorizzare l’espropriazione di una quota di metà del bene, bensì in quello di autorizzare l’esecuzione sul bene nella sua interezza fino a
concorrenza di un valore calcolato non con riferimento al singolo cespite, ma “con riferimento all’intera massa della comunione
legale” (Tribunale di Reggio Emilia 26 aprile 2010 cit.).
Questa chiave di lettura trova giustificazione nella considerazione che, ove si ammettesse l’esecuzione sulla quota di metà si giungerebbe all’inaccettabile esito di dar luogo a una convenzione legale fra soggetti non coniugi.
Ancor più a monte, tuttavia, l’orientamento in esame rinviene fondamento proprio nella natura stessa della comunione legale che
si risolverebbe in una figura di “proprietà solidale”, nella quale la quota assolve alla limitata funzione di stabilire la misura entro
cui i beni comuni possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), quella della responsabilità sussidiaria di ciascuno
dei coniugi con i propri beni personali (art. 190) e quella di ripartizione dei beni in esito allo scioglimento della comunione.
4 Articolo 184: “Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono
annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’articolo 2683.
L’azione può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se l’atto non sia stato trascritto e quando il coniuge non ne abbia avuto
conoscenza prima dello scioglimento della comunione l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso.
Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione”.
5 In effetti tale riferimento non è espresso, ma quanto nel testo sembra potersi desumere dalla circostanza che il terzo comma faccia cenno alla necessità di “ricostituzione” della comunione, lasciando chiaramente intendere che si tratti di attività dismissiva di beni prima in essa compresi.
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si nell’ambito dell’amministrazione ordinaria; ciò in dipendenza della necessità di operare una valutazione complessiva, incentrata non tanto sulla qualità dei beni che ne hanno formato oggetto,
quanto sulla complessiva consistenza del patrimonio comune6.
Ne deriva, ragionevolmente, la conclusione che potrà riconoscersi al singolo coniuge la capacità di
disporre autonomamente di beni comuni allorché l’atto di alienazione possa ritenersi compreso nell’alveo della gestione ordinaria7.
Chiarito questo primo punto e affermata pertanto la regola secondo la quale il consenso congiunto riguarda i soli atti dispositivi esorbitanti la gestione corrente, può essere utile investigare se – ed
eventualmente in che misura – su questa regola possa intervenire l’autonomia privata.
Sul piano normativo, va segnalata l’espressa affermazione di inderogabilità delle norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione (art. 210, terzo comma, c.c.)8.
Al contempo, l’articolo 182 c.c. prevede la possibilità che, in caso di lontananza o altro impedimento di uno dei coniugi, l’altro possa farsi autorizzare dal giudice al compimento degli atti necessari, laddove non esista una “procura del primo risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata”.
Affiora quindi la possibilità, per il coniuge, di rilasciare procura all’altro.
Risulta meno evidente se tale facoltà possa ritenersi del tutto libera e discrezionale ovvero se in
ipotesi sia dato evincere – a riguardo dell’atto delegatorio – limiti di forma e/o contenuto.
È opinione piuttosto diffusa9, infatti, che tra coniugi in comunione legale sia impedito il rilascio
di procure generali10. A tale conclusione si tende a pervenire proprio accreditando l’accostamento di simile procura, quanto agli effetti, alla convenzione modificativa del regime legale di amministrazione. Secondo tale tesi, si giungerebbe, in altre parole, a un sostanziale aggiramento del
divieto di cui all’art. 210, secondo comma, c.c. A minori difficoltà darebbe luogo invece, secondo il richiamato orientamento11, il rilascio di procure speciali (per singoli atti), in considerazione
del fatto che queste non concreterebbero dismissione da parte del mandante dei propri poteri di
amministrazione che, anzi, col rilascio della procura per specifico affare verrebbero in sostanza
esercitati.
6
In tal senso Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, I, 124. Contra Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, Padova, 1977, 412 che riduce l’ordinaria amministrazione al compimento di atti di minor valore ed entità, compatibili con
una gestione quotidiana.
7 Impregiudicato rimanendo, comunque, il problema dell’esatta definizione dei confini del concetto di amministrazione “ordi-
naria” piuttosto che “straordinaria”, che la brevità di queste brevi note non consente certamente di affrontare.
8 Si noti, solo per completezza, che tale affermazione di principio incontra probabilmente qualche temperamento in relazione alla disponibilità dei beni compresi in fondo patrimoniale. Giova ricordare, infatti, che l’art. 168, terzo comma, c.c., richiama
proprio l’art. 180, prevedendo tuttavia l’art. 169 c.c. che: “Se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si
possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente”.
9 Sull’argomento, nell’ipotesi di conferimento di poteri di straordinaria amministrazione, la dottrina si divide: tale possibilità
viene ravvisata da autorevoli esponenti solo nel caso, previsto dal citato art. 182 c.c., di “lontananza o impedimento”. In tal senso: Busnelli, La comunione legale nel diritto di famiglia riformato, in Riv. Not., 1976, 51; Acquarone, Amministrazione e responsabilità dei beni della comunione, in Il nuovo diritto di famiglia, 1978, 550, il cui contributo rivela una posizione ancor più restrittiva che sembra negare anche la possibilità di mandati ordinari speciali. Alcuni autori, ulteriormente, ritengono che, non costituendo il potere di amministrazione diritto personalissimo (non riconoscendo, dunque, al combinato disposto degli artt. 160 e
210, terzo comma, il carattere di norme inderogabili), esso sarebbe comodamente delegabile, con il solo limite della spoliazione, e dunque della totale sostituzione, del potere ad amministrare; in tal senso: Corsi, Il regime patrimoniale cit., 127 che ammette la possibilità di conferimento anche di procure generali, con il solo limite dell’irrevocabilità. Decisi in senso contrario: De
Paola, Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, in Teoria e pratica del diritto, 1978, 182; Lops, La procura nel regime
patrimoniale tra coniugi, in Riv. Not., 1976, III, 1531 ss.
10 Intendendosi per tali, in questo contesto, le procure idonee ad attribuire al mandatario il potere di compiere, in via continuativa, una pluralità di atti di disposizione, individuati solo per tipologia o categorie, senza riferimento a uno specifico oggetto.
11 De Paola, Macrì, Il nuovo regime patrimoniale cit., 181 ss.
6
FOCUS
Orbene, se su quest’ultimo punto non si può che essere concordi, pare, a chi scrive, che meriti
maggior favore la più permissiva tesi, volta a riconoscere validità anche alle procure generali12.
In questo senso paiono deporre13:
• la considerazione che il ripetuto art. 182, nel prevedere espressamente il rilascio delle procure
fra coniugi, non esprima alcun limite in proposito14;
• il fatto che il rilascio di procura costituisca qualcosa di ben diverso e minore rispetto al conferimento in esclusiva a un solo coniuge – per via di apposita convenzione matrimoniale – del
potere di gestione (il conferimento di procura non opera infatti né in via definitiva, conservandosi facoltà di revoca, né in senso abdicativo, mantenendo il mandante intatto il proprio potere di amministrazione);
• l’apprezzamento del sistema della comunione legale quale disciplina volta a tutelare il coniuge
nella sua debolezza economica (consentendogli di concorrere, tramite la partecipazione agli acquisti compiuti, alla ricchezza formata durante il matrimonio), non già quale presidio di un’ipotetica incapacità di autodeterminarsi del coniuge; v’è anzi da dire che anche il rilascio di procure ampie e continuative ben può essere espressione di capacità di amministrare;
• la circostanza che, se non appare in alcun modo problematico il rilascio di procure generali da
parte dei coniugi a favore di terzi, non si vede perché mai ciò dovrebbe essere impedito nell’ambito della coppia coniugale.
Pare, a chi scrive, che queste riflessioni siano pienamente convincenti.
Al più si può convenire con l’osservazione secondo la quale dall’inderogabilità della disciplina legale in tema di amministrazione di beni dei coniugi possa derivarsi – in via interpretativa – un ostacolo rispetto al rilascio di procure generali munite di clausola di irrevocabilità15.
E in effetti non vi è chi non veda come l’irrevocabilità determini, in concreto, compressione del
potere di amministrazione del mandante, il quale non può impedire la concorrente attività del mandatario.
In chiusura di argomento, giova dedicare qualche cenno al requisito formale che, alle procure in
discorso, pare assegnato dall’art. 182 c.c.
La norma citata fa riferimento alle procure “risultanti da atto pubblico o scrittura privata autenticata”, il che ha ingenerato nei commentatori il dubbio se si tratti di vero e proprio requisito di forma sicché tra coniugi in comunione legale dovrebbe dirsi impedito il rilascio di procure in forma
libera. Potrebbe opinarsi diversamente ove si trattasse esclusivamente di elemento di fattispecie destinato a escludere la necessità di adire l’autorità giudiziaria in caso di lontananza o altro impedimento di uno dei coniugi.
Il quesito assume un significativo rilievo pratico.
Ove si dovesse concludere nel senso dell’esistenza di una peculiare prescrizione formale (in deroga al principio generale di cui all’art. 1392 c.c. che impone alla procura la stessa forma prescritta
per il contratto che il rappresentante deve concludere), si dovrebbe affermare16, da una parte, la
necessità almeno della forma autentica per la conclusione di atti non formali (ad esempio: vendita di bene mobile non registrato) ma dall’altra, verosimilmente, la sufficienza della forma autentica anche per la sottoscrizione di contratti per i quali è invece prescritta la forma pubblica (ad esempio: donazione).
12 Caso diverso sarebbe quello della procura conferita in relazione a un singolo bene senza esatta definizione dell’atto da compiersi (procura a genericamente amministrare un singolo bene); a riguardo di tale fattispecie possono probabilmente estendersi
le medesime favorevoli conclusioni riservate al caso della procura speciale.
13 Corsi, Il regime patrimoniale cit., 129 ss.
14 Va sottolineato, a questo proposito, che non pare assurgere a prerequisito per il rilascio della procura il caso di lontananza
o altro impedimento del coniuge. In tal senso Corsi, Il regime patrimoniale cit., 128, precisa che, in realtà, quella dell’articolo 182
non costituisce prescrizione formale, ma solo condizione di utilizzo.
15 Ivi, 127.
16 Ivi, 130 ss.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
Ebbene, tale conclusione pare in effetti un po’ azzardata, inducendo ad abbracciare, stante il suo
inattendibile esito pratico, l’opposta interpretazione17.
E d’altra parte parrebbe assai peculiare poter evincere dalla norma de qua (in cui il tema del formalismo appare richiamato solo in via incidentale quale presupposto fattuale per risolvere una situazione di stallo nell’amministrazione di beni comuni) l’espressione di una deroga, direi unica nel
suo genere, all’ordinaria disciplina della forma delle procure. E, nuovamente, non si vedrebbe in
ogni caso motivo per imporre al coniuge un onere formale superiore a quello ordinario (e ciò, posto che la legge non distingue in proposito, anche a riguardo delle procure per specifici affari) se
non supponendo una particolare fragilità del mandante, cui sopperire costringendolo, in ogni caso, alla formalizzazione della procura davanti a notaio; il che, come sopra già anticipato, non sembra possibile evincere dal sistema normativo.
Dalle considerazioni sopra svolte sembra possibile ritenere che, anche a riguardo delle procure fra
coniugi, il requisito di forma resti disciplinato dall’articolo 1392 c.c.
La ricerca di ulteriori brecce al principio di intervento congiunto può proseguire in ambito del tutto diverso.
Sembra, a chi scrive, che il tema della disponibilità delle quote di partecipazione in società presenti rilevanti profili di interesse, anche pratico-operativo18. Il problema riguarda in modo più manifesto il caso delle società di capitali nelle quali, rispetto a quanto accade in tema di società di persone, la quota di partecipazione assume tendenzialmente una connotazione di maggior distanza rispetto al contratto sociale, assumendo con particolare evidenza i contorni di bene negoziabile piuttosto che di elemento rappresentativo l’esser parte di un contratto plurisoggettivo19.
Non vi è chiarezza di situazioni, infatti, tutte quelle volte in cui – pur avendo avuto luogo l’acquisto della quota a favore della comunione legale – solo il coniuge intervenuto all’atto di acquisto
sia stato rilevato nei registri dell’emittente.
Dal punto di vista pratico, la questione assume enorme rilevanza. Essa ha, infatti, un significativo
impatto sia in merito all’individuazione del soggetto autorizzato a esercitare i diritti sociali (di carattere patrimoniale e amministrativo)20 sia a proposito della verifica – ed è il profilo che qui maggiormente ci interessa – di chi sia legittimato a compiere gli atti dispositivi della quota.
Il quesito si pone con particolare immediatezza a carico del notaio incaricato della stipula di un atto di alienazione21: a suo carico grava infatti la valutazione se doversi o meno preoccupare del regime patrimoniale dell’alienante e – in caso di esito positivo – di valutare se dover richiedere o
meno il concorso del coniuge non intestatario della partecipazione.
La lettera dell’art. 184 c.c., peraltro, non lascia grande spazio a dubbi in merito alla piena validità
17 Corsi, Il regime patrimoniale cit.
18 A questo proposito, giova sottolineare che la stessa riferibilità del regime legale “agli acquisti” effettuati dai coniugi piuttosto che “ai beni formati” oggetto degli acquisti medesimi, è stata intesa dagli autori quale segno dell’aspirazione del legislatore
ad ampliare massimamente l’ambito dell’istituto comprendendovi ogni entità degna di valutazione economica. Sicché – fra le altre cose – non si dubita ormai più, in linea di principio, della possibilità che le quote di partecipazione in società, anche di persone, possano formare oggetto di acquisizione alla comunione. Risulta opportuna una precisazione: il carattere maggiormente
personale della quota da cui derivi una responsabilità istituzionalmente illimitata del singolo socio fa propendere la dottrina maggioritaria per un’inclusione delle partecipazioni a società non di capitali (salvo che per la quota del socio accomandante di società in accomandita) nell’alveo della comunione de residuo, operandosi, in via analogica, un affiancamento tra la figura del socio illimitatamente responsabile e l’imprenditore, ciò in virtù di una rilevanza del carattere dell’intuitus personae (per tutti, sul
punto, vedasi Surdi, Comunione legale tra coniugi e partecipazioni societarie, in Dir. Famiglia, 1999, fasc. 4, parte 2, 1489-1503).
19 Si noti che, specie dopo la riforma del 2004, quanto riferito nel testo potrebbe trovare smentita: si prenda ad esempio il caso della società a responsabilità nella quale (magari attraverso lo strumento dei diritti particolari di cui all’art. 2468, terzo comma, c.c.) la particolare configurazione dell’atto costitutivo abbia voluto assegnare particolare rilevanza soggettiva alla persona di
taluno dei soci.
20 Per tale questione si veda, da ultimo, Trinchillo, Partecipazioni sociali e comunione legale dei beni, in Riv. Not., 2002, fasc.
4, 855.
21 Il notaio, infatti, a norma di legge è obbligato a verificare la piena legittimazione a disporre del soggetto intervenuto; l’art.
54 regolamento n. 1326/1914 di esecuzione della legge notarile sancisce che “i notari non possono rogare contratti nei quali intervengano persone che non siano assistite od autorizzate in quel modo che è dalla legge espressamente stabilito, affinché esse possano in nome proprio od in quello dei loro rappresentanti giuridicamente obbligarsi”.
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FOCUS
dell’atto dispositivo compiuto dall’intestatario. Invero, non può porsi in discussione la natura di bene mobile della partecipazione societaria, e ciò anche quando la società sia a sua volta titolare di
diritti reali immobiliari, sicché la cessione della quota di partecipazione possa – in concreto – assumere il significato di strumento sostanzialmente idoneo a far luogo alla circolazione dei beni immobili posseduti dalla società. Sotto tale profilo, il primo comma dell’art. 184 c.c. soccorre a sgombrare ogni possibile equivoco anche con riferimento alla quota di società a responsabilità limitata,
per il cui trasferimento, con particolare rilevanza dopo la novella del 2004, il deposito del relativo
atto per l’iscrizione presso il registro delle imprese22 assolve a una funzione essenziale, quasi idoneo a riconoscergli la qualifica di “bene mobile registrato”. Alla luce di tale disposizione, nella parte in cui si precisa che il regime di annullabilità dell’atto compiuto senza il consenso dell’altro coniuge è riservato ai soli beni mobili compresi nell’elenco dell’art. 2683 c.c., non sembra esservi dubbio in merito alla possibilità di porre in essere atti di alienazione validi ed efficaci con la sottoscrizione dell’atto di cessione della partecipazione, ovvero della girata, da parte del solo intestatario.
L’indagine dei rapporti patrimoniali coniugali non dovrà ritenersi dovuta da parte del notaio, non
assumendo gli stessi rilievo al fine di valutare la legittimazione a disporre validamente da parte del
singolo coniuge. Piuttosto, sembra ragionevole pensare che gravi sul notaio, ove del caso, un onere di informazione, a vantaggio dell’alienante, in merito all’insorgenza degli obblighi di ricostituzione o rimborso a carico del coniuge nei confronti dell’altro. È stata comunque segnalata l’opportunità di una struttura contrattuale che contempli la partecipazione del coniuge non intestatario al
fine di evitare “strascichi successivi, ancorché limitati ai rapporti tra due coniugi”23.
Maggior delicatezza va riservata al quesito se all’atto di alienazione possa ritenersi autorizzato il coniuge non intestatario della partecipazione.
Recente dottrina ha infatti sostenuto tale possibilità per il non intestatario, sulla base del presupposto di inclusione della quota nell’ambito dei beni comuni e, conseguentemente, della necessità
di riconoscere al coniuge non intestatario eguali diritti rispetto all’altro. Si afferma, a sostegno di
questa tesi, che negare al non intestatario il diritto di disporre della cosa comune significherebbe,
in concreto “svuotare del tutto il contenuto del suo diritto ex lege di contitolarità”24. Viene, peraltro,
sottolineata la concreta difficoltà per l’ipotetico acquirente di farsi riconoscere come tale dalla società emittente; concludendosi per la necessità di un accertamento giudiziale in proposito.
Va però messo in risalto che la soluzione sopra prospettata muove dal presupposto che non possa riconoscersi al coniuge non intestatario il diritto di farsi riconoscere dalla società, richiedendo di
essere iscritto nel libro dei soci dell’emittente.
Ebbene, non va trascurato come quest’ultima linea di pensiero sia del tutto minoritaria e, comunque, discutibilmente condivisibile: gli argomenti mossi dai suoi sostenitori25 non appaiono infatti
pienamente convincenti.
Tenuto conto che l’eventuale riconoscimento della situazione di contitolarità darebbe luogo alla necessità di nomina di rappresentante comune (a norma – a seconda dei casi – degli artt. 2347, primo comma, e 2468, quinto comma), viene in prima istanza sostenuto che tale regime sarebbe incompatibile con le regole dettate dall’art. 180 c.c., in quanto potenzialmente attributivo a terzi del
potere di gestione della cosa comune. Senonché, tale considerazione non pare pienamente persuasiva: abbiamo già anzi detto, difatti, che non paiono sussistere ostacoli al rilascio di procure a terzi da parte dei coniugi in comunione.
Ulteriormente, viene sottolineata l’esigenza di distinguere l’acquisto della quota come “bene immateriale” rispetto all’ingresso nella comunione sociale del coniuge dell’acquirente della partecipazio-
22 A norma dell’art. 2470, terzo comma, c.c., il registro delle imprese assolve infatti la funzione di strumento di risoluzione dei
conflitti da più acquirenti dal medesimo dante causa, replicando in buona sostanza lo stesso meccanismo previsto dall’art. 2688
c.c. per i beni mobili registrati.
23 Trinchillo, Partecipazioni sociali cit., 891.
24 Ivi, 891, nota n. 72.
25 In particolare Trinchillo, Partecipazioni sociali cit.
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ne, inteso quale partecipazione al contratto sociale, con acquisizione dei conseguenti diritti e doveri che, pur connessi alla partecipazione, conserverebbero carattere personale26. Ciò sulla base del
principio secondo cui il coniuge dell’acquirente “non condivide mai gli obblighi ed i diritti personali derivanti al coniuge dalle convenzioni contrattuali”27.
Senonché la fondatezza di quest’ultima affermazione appare messa seriamente in crisi, di recente,
pure dalla giurisprudenza che, come sopra evidenziato (cfr. nota 2), riconosce oramai come efficace
nei confronti della comunione (e quindi come vincolante per entrambi i coniugi) il contratto preliminare di vendita di bene immobile comune stipulato da uno solo coniuge. Il che, evidentemente,
testimonia l’insussistenza di ostacoli a che il meccanismo di acquisto ex lege proprio della comunione
legale possa determinare il coinvolgimento del non acquirente in posizioni contrattuali.
Altro impedimento alla possibilità che il coniuge non acquirente possa farsi riconoscere risiederebbe, si sostiene, nelle difficoltà che deriverebbero in dipendenza della presenza, nello statuto della
società di cui si tratta, di eventuali clausole statutarie portanti limitazioni alla circolazione delle quote di partecipazione.
Prendendo a paradigma il caso della clausola di gradimento, l’impedimento deriverebbe dalla considerazione che l’operatività di un meccanismo legale di acquisizione, quale quello della comunione legale, non potrebbe trovare ostacolo nella regolamentazione privata, tanto più se, come nel caso in esame, estranea all’ambito coniugale (l’impedimento, infatti, deriverebbe dal contratto sociale, non da una convenzione fra coniugi). Non potrebbe ammettersi quindi, secondo tale punto di
vista, che l’effetto acquisitivo della partecipazione a favore del coniuge dell’acquirente sia impedito dalla presenza della clausola statutaria.
Anche questa argomentazione sembra potersi contrastare.
La regolamentazione del regime patrimoniale della coppia coniugale opera, infatti, su un piano distinto e differente rispetto a quello, proprio del diritto commerciale, concernente la legittimazione
dell’acquirente nei confronti della società.
Tenuto conto di ciò, non pare che la situazione sopra prospettata possa ritenersi intollerabile: anzi, essa mostra coerenza con le esigenze – di non minor dignità rispetto a quelle poste dal regime
di comunione a presidio degli interessi del coniuge non acquirente – degli altri componenti della
compagine sociale a non dover subire l’ingresso in società di soggetti non graditi.
La tesi sopra enunciata, volta a consentire la possibilità di disposizione individuale della quota anche al coniuge non iscritto al libro soci, pare quindi cedere di fronte alla difficile sostenibilità del
suo presupposto; il coniuge in questione avrà quindi l’onere di richiedere la preventiva iscrizione
al libro soci: solo da questo momento avrà, in concreto, la possibilità di disporne senza consenso
del coniuge, affrontando nei rapporti con quest’ultimo le conseguenze delineate dall’art. 184, secondo comma.
Coerentemente con quanto detto sopra, sembra plausibile concludere che quest’ultima possibilità
resti definitivamente preclusa allorché la registrazione del coniuge in discorso nel libro dei soci sia
impedita da clausole statutarie limitative della circolazione delle quote di partecipazione.
26 Interessante, seppur risalente, la tesi di Detti, Oggetto, natura, amministrazione della comunione legale dei coniugi, in Riv.
Not., 1976, 1206-1209, il quale afferma che: “... l’azione, quale titolo rappresentativo della partecipazione sociale, conferisce al socio i diritti ed obblighi che gli derivano dalla posizione contrattuale nella società, e rappresenta quindi un diritto che non è certamente concepibile come diritto reale. Esso rimane pertanto fuori dalla comunione legale. Di conseguenza ciascuno dei coniugi potrà essere titolare di azioni, [...], senza che il suo regime matrimoniale ponga remore all’acquisto, all’alienazione, alla gestione di
esse. Sulla base delle stesse considerazioni, è da ritenersi esclusa dalla comunione legale la quota di società a responsabilità limitata, per cui non si presenta neanche il dubbio rappresentato dall’elemento reale costituito dal documento [...], visto che la quota
ha il medesimo contenuto riguardo alla s.r.l. del diritto azionario, sia pure non rappresentato da un titolo”; tale posizione è comunque definita oramai marginale (su tutti Trinchillo, Partecipazioni sociali cit., 845).
27 Trinchillo, Partecipazioni sociali cit., 888.
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FOCUS
ATTI DI LIBERALITÀ E REGIME DI COMUNIONE LEGALE
Mimma Moretti
Docente di Diritto di famiglia, Università degli studi di Milano
Premessa
Il tema degli atti di liberalità e il loro rapporto con lo stato di coniugio sono da lungo tempo oggetto di attenzione e di approfondimento, non solo per le difficoltà insite nella stessa individuazione
della categoria delle liberalità non donative, ma anche in relazione alla disciplina loro applicabile.
L’interesse per l’argomento, peraltro, può senza dubbio dirsi accentuato negli ultimi anni: la caduta
del divieto di donazione tra coniugi, l’introduzione della comunione degli acquisti quale regime patrimoniale legale e le recenti normative fiscali hanno, da un lato, ampliato le problematiche connesse
con la materia e, dall’altro, risvegliato l’attenzione verso le attribuzioni liberali e la loro utilizzazione.
Tenuto conto che le “interferenze” tra atti di liberalità e stato coniugale si pongono sia in relazione
all’ipotesi in cui l’attribuzione liberale avvenga tra i coniugi, sia che la stessa sia posta in essere da
un terzo a beneficio di un soggetto coniugato, alcune brevi considerazioni possono essere addotte
a conferma di quanto sostenuto.
Per quanto concerne la prima ipotesi, l’art. 781 c.c. stabiliva che “i coniugi non possono, durante il
matrimonio, farsi l’uno all’altro alcuna liberalità, salvo quelle conformi agli usi”. Veniva, in tal modo,
posto un rigoroso divieto che, per opinione concorde1, ricomprendeva non solo le donazioni dirette,
ma anche le indirette: considerato, infatti, il carattere materiale della norma, tesa a sancire la nullità
di ogni atto con cui si realizza il fine vietato prescindendo dal mezzo impiegato, e posto che la donazione indiretta si realizza tutte le volte in cui “per spirito di liberalità, un soggetto arricchisce un
altro soggetto attraverso l’uso indiretto di un atto, che, di per sé, non è donazione”2, le stesse ragioni
sottese al divieto di donazioni dirette si presentavano anche là dove l’attribuzione liberale avveniva
in modo indiretto, mediante l’utilizzazione di negozi-mezzo di tipo diverso. Nonostante tale rigore
– e, forse, proprio a causa di questo – il divieto di donazioni tra coniugi veniva frequentemente eluso
e la prassi conosceva svariati mezzi atti a tale scopo: ne conseguiva l’importanza e la centralità della
determinazione del carattere liberale delle attribuzioni tra coniugi al precipuo scopo di applicare il
divieto stesso.
Con l’abrogazione dell’art. 781 c.c. a opera della Corte Costituzionale3, tuttavia, il problema della configurazione dell’atto in termini di liberalità non ha certo perso il proprio interesse ma, al contrario,
può tuttora dirsi rilevante nello studio dei rapporti patrimoniali tra coniugi. Anticipando quanto si
dirà, qui sia sufficiente ricordare come sia da tempo discusso se debbano considerarsi “liberali” tutte
1
Torrente, La donazione, a cura di Carnevali e Mora, in Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni, continuato da Schlesinger, 2ª ed., Milano, 2006, 34.
2 Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, 4ª ed., Torino, 2006, 377.
3
Corte Cost. 27 giugno 1973, n. 91, in Giur. cost., 1973, 932, con nota di Vitucci, Dopo la caduta dell’art. 781 c.c., e in Foro
it., 1973, I, 2014, con nota di Jemolo, La fine di un divieto.
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quelle attribuzioni patrimoniali senza corrispettivo che un coniuge ponga in essere a favore dell’altro o a favore della comunione dei beni, qualora tale sia il regime patrimoniale prescelto dai coniugi
stessi.
1. Liberalità a favore dei coniugi
Prendendo innanzitutto in esame l’ipotesi di atti di liberalità a favore di soggetti coniugati, in vigenza
del codice civile del 1939-1942, nessuna particolare questione si poneva qualora si trattasse di liberalità effettuata a favore dei coniugi: il regime legale di separazione dei beni allora vigente, infatti,
lasciando del tutto inalterata la titolarità dei beni acquisiti durante il matrimonio, faceva sì che risultasse del tutto irrilevante lo status di coniugato del beneficiario.
Se altrettanto può dirsi oggi per i coniugi che vivono in regime di separazione dei beni4, ben più
complessa si presenta la situazione qualora gli stessi non abbiano adottato un regime patrimoniale
convenzionale e tra di loro, quindi, operi il regime di comunione dei beni.
Norma di riferimento è senza dubbio l’art. 179 c.c. che, alla sua lettera b), dispone espressamente il
carattere personale dell’acquisto là dove esso sia dovuto “per effetto di donazione o successione”, proseguendo che l’esclusione dalla comunione non opera qualora nell’atto di liberalità non sia specificato che esso è diretto alla comunione.
Se, dunque, si escludono con certezza i contratti tipici di donazione dall’oggetto della comunione,
ampi dubbi possono essere avanzati sulla possibile applicazione della regola stessa alle liberalità non
donative.
Nonostante qualche voce contraria5, peraltro, prevalente è l’opinione che la norma debba essere interpretata in senso estensivo: tanto ragioni letterali, quanto elementi sostanziali sembrano indurre in
tal senso. Si richiama, infatti, sia la presenza del termine “liberalità”, con il quale se ne estenderebbe
la portata al di là dei soli contratti di donazione, nonché si rileva come, diversamente, si finirebbe
per limitare fortemente l’intento liberale del disponente, presente anche nelle liberalità non donative, impedendogli di attribuire il bene a uno solo dei coniugi o alla comunione, secondo la sua specifica volontà6. Ciò che, peraltro, pare acquistare maggior peso è il rilievo dell’iniquità e della mancata coerenza con il sistema di una contraria soluzione che farebbe cadere in comunione dei cespiti
che non sarebbero in alcun modo riconducibili al contributo di entrambi i coniugi7.
Altrettanto può dirsi dell’orientamento giurisprudenziale, chiaramente volto a riconoscere la regola
della personalità dell’acquisto in tutte le ipotesi liberali, siano esse donazioni tipiche o donazioni indirette.
Al di là della costante affermazione che l’acquisto alla comunione dei coniugi può aversi solo là dove,
effettuato dopo l’entrata in vigore della legge 151/1975, non sia dovuto a successione o donazione,
ovvero nel caso di applicazione della lett. f) e cpv. dell’art. 179 c.c.8, si tratta qui di esaminare come
si sia consolidata l’opinione estensiva – ovverosia la sufficienza di una provenienza liberale in senso
ampio – soprattutto nell’ipotesi certamente più frequente e che più ha fatto discutere: i genitori for-
4 Cattaneo, Note introduttive agli articoli 215-219, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova 1992, 415 ss. il quale precisa come la definizione della separazione dei beni in termini non tanto di “regime
matrimoniale”, quanto di “assenza di regime” trovi la propria ragione di essere proprio nella circostanza che “la separazione
esclude tutti quegli effetti, riguardanti i beni degli sposi, che caratterizzano invece gli altri regimi matrimoniali”, primo tra i quali “che nessun limite o vincolo viene imposto agli sposi per ciò che concerne l’amministrazione, il godimento o la disponibilità dei
loro rispettivi beni presenti o futuri”.
5 Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o successione, in La comunione legale, a cura di Bianca, I,
Padova, 1994, 449 ss.
6 Si veda, per tutti, Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano cit., 150.
7 Auletta, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008, 151.
8
Cass. 11 gennaio 2010, n. 225, in Notariato, 2010, 127.
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FOCUS
niscono al figlio la “provvista” per l’acquisto di un immobile, sia esso o meno da adibire a residenza
familiare.
Varie sono le situazioni che si possono prospettare in tal caso, alcune delle quali non creano alcun
dubbio interpretativo.
La prima vede i genitori “acquistare per il figlio”, qualunque sia lo strumento negoziale adottato, prima
della celebrazione del matrimonio: il bene sarà sicuramente personale, stante il chiaro disposto della
lett. a) dell’art. 179 c.c., che annovera tra i beni personali tutto ciò di cui si è titolari prima del matrimonio.
È però possibile che, prima delle nozze, sia stato stipulato il solo contratto preliminare di compravendita, venendo invece rinviata la stipulazione del definitivo a un momento successivo alla celebrazione. Si tratta qui di stabilire se prevalga l’obbligo assunto con il preliminare, tanto da potersi
considerare l’acquisto escluso dalla comunione dei beni, posto che si tratta di mero adempimento
del credito personale già conseguito con il preliminare9, oppure se rilevi l’atto di acquisto, nel senso
del realizzarsi dell’effetto traslativo, compiuto dopo il matrimonio stesso.
Qualora, infatti, si dovesse ritenere valida la prima opzione, la configurazione dell’atto quale donazione indiretta sarebbe in ogni caso ininfluente, posto che la caduta in comunione o, meglio, l’esclusione dalla comunione stessa deriverebbe dal carattere personale dell’acquisto10.
Maggioritaria, peraltro, pare l’opinione che vuole preminente la valutazione del regime patrimoniale
al momento in cui l’acquisto del diritto si perfeziona, ovverosia il tempo del verificarsi dell’effetto
reale con il contratto definitivo: la sua stipulazione dopo la celebrazione delle nozze comporta che
il bene sia destinato a cadere in comunione11.
Così ragionando, peraltro, a prima vista la situazione di chi acquista dopo il matrimonio, avendo prescelto il regime legale di comunione, è identica tanto che si sia stipulato il contratto preliminare prima
o dopo le nozze: in entrambi troverebbe applicazione la lett. a) dell’art. 177 c.c.12.
Si è però posta come premessa che la “provvista” provenga dai genitori e, dunque, la questione della
caduta del bene in comunione o della sua considerazione quale bene personale dovrà farsi non in
relazione alla lett. a), bensì alla lett. b) dell’art. 179 c.c.: se la dazione della somma necessaria per
l’acquisto viene considerata atto di liberalità non donativa, il bene dovrà considerarsi personale.
Sul punto, si devono ricordare, innanzitutto, tre pronunce consecutive13, in cui si riscontrano motivazioni sostanzialmente identiche, tali da originare un principio che può dirsi consolidato: la Cassazione ha stabilito la necessità di distinguere l’ipotesi di donazione diretta del denaro – in cui oggetto
di liberalità rimane la somma – dal diverso caso in cui il denaro stesso sia stato fornito quale mezzo
per l’acquisto dell’immobile, che costituisce il fine dell’operazione negoziale, dovendosi qui ravvisare una donazione indiretta dell’immobile, che resta escluso, pertanto, dalla comunione tra i coniugi
e considerato bene personale.
Stabilito così il principio, si avanzano alcune precisazioni in merito alla possibilità di ricostruire la
fattispecie quale donazione indiretta dell’immobile: il denaro deve essere corrisposto allo specifico
9 In questo senso, si veda Rimini, Acquisto immediato e differito nella comunione legale fra coniugi, Padova, 2002, 243.
10 La questione coinvolge e richiama il più ampio problema relativo alla caduta in comunione dei diritti di credito, sui quali si
veda il revirement giurisprudenziale, operato con Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, in Fam. Pers. Succ., 2008, 596, con nota di Gorini, Diritti di credito e comunione legale.
11 Si veda, per tutti, Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010, 115.
12 A contrastare tale soluzione, prevalentemente accolta, non pare possano richiamarsi le sentenze, tutte conformi, in tema di
mancata legittimazione del coniuge che non abbia partecipato al contratto preliminare. Sul punto si vedano, per tutte: Cass. 24
gennaio 2008, n. 1548, in I contratti, 2008, 1014, con nota di Veltri, Preliminare di vendita concluso da un coniuge senza il consenso dell’altro; Cass. 7 marzo 2006, n. 4823 e Tribunale di Nocera Inferiore 22 aprile 2010, per le quali il suddetto principio discende dalla regola del potere concesso ai coniugi di compiere autonomamente atti diretti ad accrescere il patrimonio comune,
senza necessità che l’altro coniuge partecipi all’atto di acquisto.
13 Cass. 14 dicembre 2000, n. 15778, in I contratti, 2001, 113, con nota di Carnevali, Esclusione delle liberalità indirette dalla
comunione legale tra coniugi; Cass. 8 maggio 1998, n. 4680, in Fam. e dir., 1998, 323, con nota di Gioia, Donazione indiretta:
liberalità o acquisto in comunione?; Cass. 15 novembre 1997, n. 11327, in I contratti, 1998, 242, con nota di Basini, Donazione
indiretta e applicabilità dell’art. 179, lett. b), Codice civile.
13
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scopo dell’acquisto del bene o “mediante il versamento diretto dell’importo all’alienante o mediante
la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare”14; si realizza donazione indiretta dell’immobile qualora l’acquisto venga posto in essere con denaro proprio del genitore disponente, ma con intestazione del bene al figlio, posto che “la compravendita costituisce lo
strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del
destinatario, che ha quindi ad oggetto il bene e non già il denaro”15.
Tra le altre, si possono poi ricordare alcune pronunce di merito che hanno individuato la natura liberale dell’acquisto vuoi nella circostanza che la scelta dell’immobile sia avvenuta a opera del disponente, senza la partecipazione del beneficiario16, vuoi ritenendo irrilevante che il maggior prezzo
restante per l’acquisto sia stato versato dall’intestatario del bene mediante accollo della quota di mutuo di pertinenza dell’immobile, qualora sia comprovato che le rate vengono comunque versate da
chi ha fornito la provvista17.
Da quanto detto si può considerare, dunque, accertato che tanto la donazione diretta quanto la donazione indiretta possono dar luogo a un acquisto personale: l’immobile “acquistato” dal figlio in
costanza di regime patrimoniale di comunione grazie a una liberalità deve essere considerato bene
personale.
2. Segue: i depositi in conto corrente
Si tratta ora di esaminare la diversa ipotesi – prospettata dalle stesse pronunce della Cassazione prima
enunciate – in cui i genitori abbiano sì fornito la provvista al figlio, ma sotto forma di donazione di
denaro. In particolare, al fine di non ricadere nell’ipotesi precedente, è necessario che manchi quel
collegamento negoziale tra liberalità e acquisto dell’immobile, nel senso che il figlio ha liberamente
scelto di utilizzare quanto ricevuto al fine di porre in essere l’acquisto.
Si può operare la medesima differenziazione posta in precedenza – donazione effettuata prima o dopo
la celebrazione delle nozze – per valutare preventivamente se ciò comporti qualche differenza al fine
di dare risposta alla nostra questione.
Quanto al denaro ricevuto per donazione prima del matrimonio – e quindi depositato sul proprio conto
corrente anteriormente – si è a lungo dibattuto se esso possa essere considerato personale, alla stregua dell’art. 179 lett. a) c.c. A fronte di alcune voci contrarie18, sembra peraltro prevalere l’opinione
favorevole considerato che se è pur vero che la lett. f) dell’art. 179 c.c., nel disciplinare la surrogazione dei beni personali, la ammette soltanto in ordine al denaro ottenuto a titolo di corrispettivo per
l’alienazione di un bene personale – non considerando, invece, il denaro di cui un coniuge avesse la
disponibilità prima del matrimonio – altrettanto vero è che la lett. f) della stessa norma, implicitamente,
ammette che il denaro, conseguito con il trasferimento di un bene personale, sia anch’esso un bene
personale, poiché consente che questo sia utilizzato per l’ulteriore acquisto di beni personali19.
È necessario, peraltro, precisare subito come l’eventuale acquisto compiuto dal coniuge che abbia scelto
il regime patrimoniale legale sia destinato a cadere in comunione, sempre che non siano poste in essere la dichiarazione di personalità dell’acquisto, a termini dell’art. 179 lett. f) c.c. e, in caso di bene
14 Cass. 6 novembre 2008, n. 26746, in Fam. Pers. Succ., 2009, 410, con nota di Massella Ducci Teri, Brevi note sulla intestazione di beni in nome altrui ai fini della collazione ereditaria.
15 Cass. 12 maggio 2010, n. 11496, in Notariato, 2010, 508, con nota di Iaccarino, Circolazione dei beni: la Cassazione conferma che gli acquisti provenienti da donazioni indirette sono sicuri. Nello steso senso si è espressa Cass. 25 ottobre 2005, n. 20638.
16 Tribunale di Genova 13 ottobre 2005, in Obbl. e Contr., 2006, 266.
17 Tribunale di Gallarate 24 novembre 2005.
18 Schlesinger, Sub art. 179 c.c., in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, I, Padova, 1977, 396.
19 Si veda, per tutti, Radice, La comunione legale tra coniugi: i beni personali, in Trattato Bonilini-Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007, 142.
14
FOCUS
immobile, anche l’ulteriore presupposto della partecipazione dell’altro coniuge, così come richiesto
dal capoverso della stessa norma. Qualora ciò non avvenisse – e il bene fosse divenuto comune – non
sarebbe neppure possibile, per il coniuge acquirente, richiedere, in sede di divisione ex art. 192 c.c.,
la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale e utilizzate per l’acquisto, considerato
che tale norma prevede solo il diritto alla restituzione delle “spese” e degli “investimenti”20.
Nello stesso senso si è espressa anche la Cassazione, affermando che in tal caso trova applicazione
l’art. 194 c.c., per il quale l’attivo e il passivo sono ripartiti in parti uguali, indipendentemente dalla
spesa sostenuta da ciascuno dei coniugi al fine dell’acquisto21.
Al fine, invece, di ammettere la personalità del denaro ricevuto per donazione, sia essa diretta o indiretta, a favore di un coniuge in regime di comunione dei beni, basti qui ricordare una recente pronuncia che, pur sancendo la caduta in comunione dell’aumento di partecipazione al capitale di società sottoscritto da un coniuge in regime di comunione legale, giunge espressamente a tale
conclusione affermando che essa discende dalla mancata prova della provenienza donativa della
somma impiegata22.
D’altro canto, è opinione ormai consolidata che l’acquisto per surrogazione (art. 179 lett. f e cpv. c.c.)
possa darsi tutte le volte in cui per l’acquisto stesso venga utilizzato uno dei “beni personali” di cui
all’art. 179 c.c., ricomprendendovi anche il denaro personale, a qualsiasi titolo sia pervenuto23.
Classico, al proposito, è il caso in cui il coniuge utilizzi le somme di denaro accantonate sul proprio
conto corrente, provenienti dall’alienazione di un bene personale, indipendentemente dalla contestualità o dalla vicinanza cronologica tra alienazione e acquisto: il diritto di credito relativo al capitale non può essere considerato modificazione del capitale stesso, né può considerarsi acquisto ai
sensi della lett. a) dell’art. 177 c.c.24.
A ben diversa conclusione si giunge, peraltro, là dove, pur in presenza di un conto corrente intestato a uno solo dei coniugi, il saldo del conto stesso sia dovuto ai conferimenti scaturiti dai proventi della sua attività lavorativa. Trova in tal caso applicazione l’art. 177 lett. c) c.c. e le somme, se
pure liberamente utilizzabili dal titolare del conto, devono considerarsi appartenenti alla comunione
de residuo: ne consegue che, se utilizzati per un acquisto, questo diverrà comune25.
È peraltro possibile e frequente che i coniugi aprano un conto cointestato e che lo utilizzino per farvi
affluire somme sia di provenienza personale – ad esempio, una donazione ricevuta o il corrispettivo dell’alienazione di un bene personale o, ancora, somme ricevute a titolo di risarcimento – sia i
proventi della propria attività lavorativa.
Ci si domanda, in tali ipotesi, l’effettiva portata della presunzione di appartenenza alla comunione
di cui all’art. 195 c.c. Sul punto, pare prevalere l’opinione di chi, interpretando letteralmente la norma,
ritiene che essa trovi applicazione estensiva a tutti i beni mobili – e quindi anche al denaro – nella
disponibilità dei coniugi, con la conseguenza che sarà sempre necessario provarne la diversa natura
personale.
La giurisprudenza pare orientata nettamente in questo senso, vuoi negando che la prova sia stata
raggiunta26, vuoi ammettendo e riconoscendo la natura personale del denaro versato27.
20 Paladini, Conti correnti e separazione personale tra coniugi, in Fam. Pers. Succ., 2011, 247.
21 Cass. 24 maggio 2005, n. 10896, in Fam. Pers. Succ., 2006, 118, con nota di Gragnani, Rimborsi e restituzioni nella comunione: esame di alcune fattispecie.
22 Cass. 2 febbraio 2009, n. 2569, in Fam. Pers. Succ., 2009, 403, con nota di Fantetti, Divisione della comunione legale e quote
di partecipazione societaria del coniuge.
23 Paladini, Sub art. 179 c.c., in Della famiglia, a cura di Balestra, Torino 2010, 59.
24 Cass. 20 gennaio 2006, n. 1197, in Fam. Pers. Succ., 2006, 695 con nota di Castelli, Comunione legale e denaro depositato in
conto corrente; Cass. 1 aprile 2003, n. 4959, in Arch. civ., 2004, 289.
25 Si veda, per tutti, Di Martino, La comunione legale tra coniugi: l’oggetto, in Trattato Bonilini-Cattaneo, II, Il regime cit., 68.
26 App. Roma 18 ottobre 2006.
27 Tribunale di Genova 22 marzo 2006. Tale regola, peraltro, ha portata generale, posto che la presunzione di comunione sul
deposito titoli cointestato vale anche per i coniugi in regime di separazione dei beni, sempre che non provino la provenienza
personale delle somme utilizzate: Cass. 29 aprile 1999, n. 4327, in Foro It., 2000, I, 2920.
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3. Liberalità fra coniugi
Venendo ora al diverso tema delle liberalità tra coniugi e ricordando il secolare divieto di donazione
tra persone coniugate e la sua abrogazione a opera della Corte Costituzionale, pare opportuno ricordare molto sinteticamente le ragioni che avevano portato a reiterare, nel codice civile del 19391942, il divieto stesso: l’opportunità che la ricchezza familiare non fosse trasferita a titolo gratuito al
di fuori della famiglia, cui il coniuge non apparteneva, e che il trasferimento di beni tra coniugi
avrebbe potuto “turbare il regime delle loro relazioni che deve essere basato sul reciproco affetto e non
su egoistici calcoli utilitari”. A ciò si aggiunga che il pericolo insito nella donazione tra coniugi veniva individuato nella possibilità che un coniuge coartasse l’altro con “violenza” o “seduzione” e che,
in ogni caso, la previsione del divieto non costituiva pregiudizio per la “posizione di prestigio della
donna di fronte al marito”.
Il riferimento appena compiuto, peraltro, non pare per nulla originato da una necessità per così dire
“storica”, di semplice precedente utile al fine di rendere completa l’esposizione. Lo scopo che ci si
propone, infatti, è di verificare se la “storia” del secolare divieto di donazione tra coniugi presenti
elementi tali da consentire la soluzione di alcuni dei nodi interpretativi che ancora oggi, a quasi trent’anni dalla nota sentenza della Corte Costituzionale e dalla riforma del diritto di famiglia, accendono
il dibattito.
Considerato, infatti, che le motivazioni sottese al divieto sono state giudicate del tutto inadeguate e
non corrispondenti alla coscienza sociale28, tanto che è stata vista con ampio favore la dichiarazione
di incostituzionalità dell’art. 781 c.c., considerata norma “anacronistica”29 e un “relitto del passato”30,
ci si sarebbe aspettati che la caduta del divieto di liberalità tra coniugi – quale momento in cui agli
stessi sarebbe stato concesso di porre in essere quelle attribuzioni a titolo gratuito avvertite come
espressione del legame affettivo e della solidarietà coniugale31 – avrebbe dovuto segnare la fine dell’esasperata indagine sul carattere liberale delle attribuzioni e, soprattutto, la pacifica accettazione dello
stesso. Ci si poteva attendere, cioè, che ai vantaggi patrimoniali che un coniuge procurava all’altro,
quand’anche non assumessero la forma di donazione, fosse riconosciuta natura liberale.
La disamina delle ipotesi in cui si realizza l’arricchimento di un coniuge e il conseguente impoverimento dell’altro porta, tuttavia, a risultati del tutto differenti in quanto pare emergere una chiara tendenza volta a circoscrivere l’ambito delle liberalità tra coniugi.
Risulta, pertanto, opportuno esaminare le ipotesi stesse e, dando conto delle diverse soluzioni proposte, cercare di comprendere il significato e le ragioni di tale tendenza.
Bisogna, innanzitutto, ricordare come la giurisprudenza sia del tutto concorde nell’escludere il carattere liberale dei versamenti effettuati da un coniuge all’altro su di un conto cointestato: perché ciò
si verifichi, infatti, è richiesta la prova dell’esistenza di un vero animus donandi, ossia la prova che
“il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della
liberalità”32.
In modo analogo, la dottrina esclude che possa rilevarsi una liberalità tutte le volte in cui un coniuge
consenta all’altro di prelevare somme dal proprio conto corrente, qualora le stesse siano destinate
ai “bisogni della famiglia”33.
Affiora in tal modo l’idea che, tra coniugi, gli spostamenti patrimoniali dall’uno all’altro non possano
essere intesi quale liberalità, qualora siano sorretti da una diversa “causa”.
28 Motivazioni che, come osservato, “ripetute con stucchevole monotonia, in fondo arieggiano a quelle che si trovano nelle fonti romane”. Così, testualmente, Biondi, Le donazioni, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, XII, Torino, 1961, 1022.
29 Carnevali, Le donazioni, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, VI, 2ª ed., Torino, 1997, 516.
30 Jemolo, La fine di un secolare divieto, in Riv. dir. civ., 1973, II, 462.
31 Si vedano, al proposito, le considerazioni di Vitucci, Dopo la caduta dell’art. 781 c.c., 938 ss.
32 Cass. 12 novembre 2008, n. 26983, in Fam. Pers. Succ., 2009, 12, 968, con nota di Ambanelli, Cointestazione di libretto di deposito a risparmio, accertamento dell’intento liberale e donazione indiretta; Tribunale di Mondovì 15 febbraio 2010, in Fam. e
dir., 2010, 709.
33 Paladini, Conti correnti cit., 250.
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FOCUS
In altri termini, la causa donandi va provata e, in ogni caso, deve essere esclusa quando le motivazioni dell’atto vengono ravvisate nell’idea comunitaria della famiglia34: si richiama così un particolare concetto di causa familiae, di una solidarietà a carattere patrimoniale tra coniugi, tale da improntare di sé gli spostamenti economici all’interno del gruppo e di dare loro giustificazione35.
A conferma di tale assunto, si può richiamare l’ampio dibattito sulla possibile inclusione nel fenomeno liberale della comunione convenzionale, volta ad ampliare l’oggetto del regime patrimoniale
legale36.
Come noto, l’art. 210 c.c., nel disporre che i coniugi possono convenzionalmente modificare il regime della comunione legale dei beni, sembra porre quali unici limiti37: il rispetto dell’art. 161 c.c.,
l’inclusione di determinate categorie di beni, considerati personalissimi, e, in relazione ai beni che
formerebbero oggetto della comunione, l’inderogabilità delle norme dettate per l’amministrazione
dei beni comuni e sulla parità delle quote.
Non pare, in primo luogo, revocabile in dubbio che la caduta in comunione di beni o cespiti, che
ex lege ne sarebbero esclusi, realizza un indubbio vantaggio patrimoniale a favore di quel coniuge
che non avrebbe potuto vantare alcun diritto sugli stessi.
Partendo da questo assodato presupposto e pur tenendo conto della ormai classica distinzione tra
convenzioni programmatiche, che dettano una disciplina destinata a valere per eventuali e futuri acquisti di diritti patrimoniali, e convenzioni dispositive, volte a incidere in modo diretto e immediato
su beni già presenti nel patrimonio dei coniugi, ciò che si tende a criticare – o, quanto meno, a circoscrivere – è proprio l’opinione di quanti ravvisano il carattere liberale di tali convenzioni.
In merito alle convenzioni programmatiche viene innanzitutto posto in dubbio che la finalità di arricchimento, propria dello spirito di liberalità, possa dirsi presente in tutte le convenzioni ampliative38.
Si richiama, infatti, la possibilità che il conferimento di beni personali alla comunione sia sorretto “da
differenti profili funzionali”39, ovvero diretto “a compensare il sacrificio dell’altro, il quale rinuncia
al reddito, che potrebbe derivargli da un lavoro extra-familiare”40, con la conseguenza che sarebbe
“da dimostrare nel caso concreto, che siffatta pattuizione sia qualificata dallo spirito di liberalità”41.
Non manca, poi, chi differenzia tra conferimenti reciproci e unilaterali, unici nei quali potrebbe ravvisarsi lo spirito di liberalità. Qualora gli apporti siano posti in essere da entrambi i coniugi, infatti,
si dovrebbe ravvisare un atto a titolo oneroso: solo le concrete caratteristiche dell’atto consentirebbero, dunque, di valutare se esso è sorretto da una causa di scambio o da spirito di liberalità42.
Se tali considerazioni, dunque, tendono a circoscrivere l’ambito delle liberalità, richiedendo che ne
sia data espressa prova, altri, superando ogni distinzione, negano in radice che la convenzione ampliativa dell’oggetto della comunione legale possa configurare una liberalità. Il coniuge, infatti, nello
stipulare tale convenzione, in realtà non si spoglia completamente della titolarità degli stessi, dei quali
manterrà la contitolarità pro quota: il conferimento, dunque, non è dovuto a spirito di liberalità, ma
34 Parente, Comunione legale e autonomia coniugale, Napoli, 1984, 40 ss.
35 Ci si permette di rimandare a Moretti, Atti di liberalità e comunione convenzionale, in Scritti in memoria di Giovanni Cattaneo, Milano, 2002, 1483 ss.
36 Si ricordi, peraltro, che è prevalente l’opinione che consente ai coniugi di convenire tanto un ampliamento dell’oggetto della comunione legale, quanto una sua riduzione. Sul punto, si veda Paladini, La comunione convenzionale, in Trattato Bessone,
II, Il diritto di famiglia, Torino, 1999, 466 ss.
37 Fatti salvi, naturalmente, quelli propri di ogni convenzione matrimoniale. Sul punto, si rimanda a Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, 442-443.
38 Venditti, Comunione tra coniugi e convenzioni ampliative, in Riv. dir. fam. e pers., 1995, 284 ss. Pare opportuno, peraltro, ricordare che chi riconosce carattere liberale a tali convenzioni programmatiche finisce per sancirne l’inammissibilità in quanto si
sostanzierebbero in donazioni di beni futuri, nulle a termini dell’art. 771 c.c. Sul punto, si veda per tutti Galletta, La comunione
convenzionale, in La comunione legale cit., 1059.
39 Doria, Liberalità ed interessi familiari, in Riv. dir. fam. e pers., 1997, 1547 ss.
40 Auletta, Il diritto cit., 185-186.
41 Autorino Stanzione, Diritto di famiglia, Torino, 1997, 387.
42 Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in Il diritto di famiglia, II, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, Torino, 1997, 305. Sul punto, si veda anche Moscarini, Convenzioni matrimoniali in generale, in La comunione legale cit., 1028 ss.
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trova la propria causa nella valorizzazione della famiglia43. Si aggiunge, poi, che, con la convenzione
di comunione, altro non si fa che estendere, anche a cespiti per i quali essa non è prevista, l’applicazione “di quel medesimo automatismo acquisitivo” proprio della comunione, della cui natura, di
conseguenza, deve partecipare: considerato che sono comuni, a termini della lett. a) dell’art. 177 c.c.,
gli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente, altrettanto dovrà dirsi per gli eventuali conferimenti anche se unilaterali44.
Analoghe conclusioni vengono raggiunte anche in caso di convenzioni dispositive: qualora un coniuge trasferisca pro quota uno o più beni specifici di cui sia titolare esclusivo, deve essere valutato
se a tale convenzione possa essere riconosciuta natura gratuita od onerosa e, in particolare, se possa
essere operata una distinzione che tenga conto dell’eventuale reciprocità degli apporti.
Si rileva, infatti, come dalla bilateralità degli apporti consegua il carattere oneroso dell’attribuzione
che, invece, dovrebbe qualificarsi liberale là dove la messa in comunione di beni personali sia realizzata da uno solo dei coniugi45.
Considerato, poi, che “tutte le situazioni tipiche regolamentate in generale dal diritto [...] subiscono
l’incidenza deformante del rapporto coniugale”, si conclude affermando che “la validità dell’atto di
attribuzione riposa su un profilo causale che caratterizza in via autonoma la fattispecie attributiva”
con la conseguenza di ritenerlo “in via tendenziale incompatibile con la funzione liberale”46.
Ne consegue che, se è pur ammissibile che l’atto di attribuzione venga ricondotto nell’ambito delle
liberalità, ciò può darsi solo in presenza di uno specifico e inequivoco interesse liberale del coniuge
disponente: fino a prova contraria, si dovrebbe ritenere che l’atto trovi la propria giustificazione causale nel rapporto familiare47.
La stessa causa familiae viene poi richiamata anche da chi parte da opposte premesse: il carattere
liberale della convenzione può essere escluso o dalla “volontà negoziale delle parti mirante a precostituire un rapporto di permuta” o dalle specifiche caratteristiche delle reciproche attribuzioni, ma
“la corrispettività appare come un elemento atipico e non naturale”48, con la conseguenza che l’atto
di attribuzione alla comunione deve intendersi quale atto “naturalmente” gratuito49.
Ciò detto, si opera una distinzione tra gli atti con cui determinati beni vengono destinati alla comunione legale a seconda che essi abbiano a oggetto beni di cui il coniuge disponente era già proprietario prima della celebrazione del matrimonio, ovvero di cui diviene titolare dopo il matrimonio, ma
per donazione o successione mortis causa, oppure beni, pur sempre acquistati dopo il matrimonio,
ma non rientranti in tale ipotesi: solo nel primo caso si potrà parlare di liberalità trattandosi, nel secondo, di atti gratuiti sorretti da una causa familiare50.
Si torna, dunque, a quel concetto di organizzazione patrimoniale della famiglia che risulta essere l’elemento sul quale si fonda l’esclusione del carattere liberale vuoi della convenzione, vuoi delle singole attribuzioni. Solo là dove tale giustificazione “familiare” non può rinvenirsi, o quanto meno l’atto
dispositivo pare inadeguato per eccesso rispetto alla stessa51, si ricorre al concetto di liberalità.
43 Parente, Comunione legale cit., 40 ss.
44 Granelli, Donazione e rapporto coniugale, in Trattato Bonilini. La donazione, Torino, 2001, 436.
45 All’interno di tale schema, tuttavia, è dato ritrovare ulteriori precisazioni e distinzioni tra chi ravvisa nell’apporto reciproco
un atto “naturalmente” oneroso (Bassetti, Convenzioni matrimoniali, Napoli, 1992, 68) e chi, inserendo la singola attribuzione in
un ambito di maggior respiro, ritiene necessario valutare la stessa in una “prospettiva di potenzialità, che vale a porre su di un
piano di continuità funzionale l’apporto di beni presenti e gli acquisti futuri” (Quadri, La comunione convenzionale, in Riv. dir.
fam. e pers., 1991, 1127).
46 Doria, Liberalità ed interessi familiari cit., 1548-1549.
47 Granelli, Donazione cit., 431.
48 Bartolini, Gregori, Donazione e acquisti a titolo gratuito in regime di comunione legale, in Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano, 1975, 152.
49 Galletta, La comunione cit., 1050.
50 Venditti, Comunione tra coniugi cit., 307; Moscarini, Convenzioni matrimoniali cit., 1029.
51 Con tale espressione si vuole ricomprendere non solo il caso in cui vi sia sproporzione tra conferimenti, ma anche l’ipotesi
in cui la distinzione sia fondata sull’oggetto dell’attribuzione, ossia se esso sia costituito da beni personali ovvero destinati alla
comunione de residuo.
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FOCUS
A conclusione di quanto fin qui detto, pare opportuno domandarsi quali siano le indubbie “resistenze”
emerse nel qualificare in termini di liberalità le attribuzioni di beni personali alla comunione.
Nessun problema può sorgere per quanto attiene all’aspetto formale dell’atto di “messa in comunione”:
la solennità della forma, prescritta per le donazioni dall’art. 782 c.c., è richiesta per la validità delle
convenzioni matrimoniali dall’art. 162 c.c., creando con ciò una piena corrispondenza formale.
Discusso è, invece, se possano e debbano trovare applicazione tutte le altre disposizioni dettate con
riferimento agli atti di liberalità e, in particolare, le norme sulla collazione, la riduzione delle disposizioni lesive della quota di riserva e la revocabilità per ingratitudine.
Nonostante vi sia chi esclude che la revocabilità per ingratitudine o per sopravvenienza di figli possa
trovare applicazione, data la peculiarità della fattispecie52, non pare vi siano ragioni sufficienti per
operare tali distinzioni: l’attribuzione del carattere liberale non può che comportare che l’atto stesso
sia soggetto a tali norme53.
Non pare, tuttavia, che dal riconoscimento dell’applicabilità delle regole sulla revocazione, né tanto
meno sulla collazione e sulla riduzione, possa desumersi e comprendersi il disfavore verso la qualificazione in termini liberali. Se, infatti, i limitati e precisi confini della revocazione, le cui ipotesi
devono considerarsi tassative, giustificano la risoluzione dell’attribuzione compiuta a favore del coniuge, a maggior ragione si comprende e si giustifica l’applicazione degli istituti della collazione e
della riduzione, posto che si tratta, come noto, di norme a tutela di legittimari e, nel caso di specie,
a tutela di quella stessa famiglia cui il coniuge beneficiario appartiene.
Resta, pertanto, il dubbio che le ragioni della tendenza a negare carattere liberale agli atti di attribuzione alla comunione debbano essere ricercati in una malcelata insofferenza verso le donazioni
tra coniugi, in quella che è stata definita piena corrispondenza del divieto di donazioni tra coniugi
alla coscienza collettiva54.
52 Venditti, Comunione tra coniugi cit., 302, nota 77.
53 In tal senso, peraltro, si è espresso chi, seppur con maggior o minor ampiezza, ha qualificato in termini di liberalità gli atti
di attribuzione alla comunione convenzionale.
54 Non si dimentichino, al proposito, le parole di Trabucchi, L’abolizione del divieto tra coniugi, in Riv. dir. civ., 1973, II, 413
ss. il quale, in relazione alla pronuncia di incostituzionalità, riteneva che l’art. 781 c.c., non ponendo un divieto di donare o di
ricevere donazioni nei confronti di tutti, ma solo relativamente al proprio coniuge, non solo non appariva costituzionalmente illegittimo in relazione all’art. 3 Cost., ma soprattutto atteneva alla disciplina del rapporto matrimoniale, la valutazione dei cui interessi e limiti era di competenza del legislatore e non della Corte.
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L’IMPRESA FAMILIARE AI SENSI DELL’ART. 230 BIS C.C.
Alessandra Maddi
Avvocato del Foro di Milano
L’art. 230 bis c.c., introdotto dall’art. 89 della legge 19 maggio 1975 n. 151 (Riforma del diritto di
famiglia)1, ha voluto “rendere giustizia”, in un mutato quadro giuridico-costituzionale, del valore
produttivo del lavoro e delle ragioni patrimoniali dei familiari che prestino la loro opera continuativamente nelle strutture imprenditoriali a base familiare.
Anteriormente alla riforma del diritto di famiglia, dottrina e giurisprudenza escludevano l’autonoma
rilevanza giuridica del lavoro prestato tra soggetti conviventi, soprattutto se legati da vincoli di coniugio, parentela o affinità, ritenendo che il vincolo di solidarietà sociale, di reciproco sostegno economico che unisce i componenti della comunità familiare impedisse di configurare un rapporto giuridico di lavoro. Si affermava che, in mancanza di una prova rigorosa del cosiddetto animus
contrahendi, le prestazioni lavorative dei familiari fossero caratterizzate dalla presunzione di gratuità.
L’art. 230 bis c.c., nella sua ratio volta a elidere lo sfruttamento del lavoro del familiare, ha dato attuazione al precetto costituzionale di “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost.).
L’equiparazione del lavoro della donna a quello dell’uomo ha dato attuazione al precetto costituzionale “dell’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi” (art. 29 Cost.) e al principio della “parità
uomo-donna” (art. 37 Cost.).
Definizione di impresa familiare
È impresa familiare quella in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini
entro il secondo grado (art. 230 bis, secondo comma, c.c.).
L’art. 230 bis c.c. si applica “salvo che sia configurabile un altro rapporto”.
Secondo consolidate dottrina e giurisprudenza, l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale ed
è dunque applicabile ove non si possa ravvisare, nella collaborazione dei familiari, un diverso qualificato rapporto: rapporto di lavoro subordinato, associazione in partecipazione, società di fatto.
Il carattere residuale dell’impresa familiare non esclude che la norma in esame debba considerarsi imperativa. Ove le parti non abbiano inteso dar vita a un diverso rapporto, non potrebbero sottrarsi alla disciplina indicata dall’art. 230 bis c.c.
L’impresa trova la sua fonte nella previsione di legge, indipendentemente dall’esistenza di un atto
negoziale o di una dichiarazione tacita di volontà:
1
Art. 230 bis c.c., primo comma: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli
utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi ed alla cessazione dell’impresa
sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi”.
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FOCUS
• si tratta di una situazione di fatto;
• può sussistere indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi.
Nella prassi, i coniugi (o gli altri familiari) non stipulano un contratto né costituiscono l’impresa;
talvolta, a meri fini fiscali, dichiarano davanti a un notaio l’“esistenza” dell’impresa.
L’impresa ha carattere individuale. Da un punto di vista esterno, l’imprenditore assume in proprio
diritti e obbligazioni che nascono dai rapporti con i terzi.
Il lavoro che il familiare-partecipe deve svolgere può essere di qualsiasi tipo: intellettuale o manuale, direttivo o esecutivo. L’elemento caratterizzante è costituito dall’esecuzione del lavoro stesso
nell’organizzazione produttiva o in relazione a questa, deve cioè trattarsi di lavoro svolto in relazione ad “attività economica organizzata, al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi”, secondo la definizione di impresa di cui all’art. 2082 c.c.
Rileva qualsiasi tipo di impresa, ma nella prassi le imprese familiari sono essenzialmente piccole imprese.
La continuità dell’apporto richiesto dall’art. 230 bis c.c. comporta una regolarità, una costanza nel
tempo. Non può, dunque, considerarsi partecipe dell’impresa familiare chi svolge prestazioni saltuarie od occasionali.
È, peraltro, pacifico che la continuità dell’apporto non richiede anche, necessariamente, l’esclusività della prestazione in favore dell’impresa familiare. Non è necessaria una collaborazione del familiare a tempo pieno: il familiare può svolgere anche altra diversa attività, purché garantisca un apporto regolare e costante all’impresa familiare.
L’art. 230 bis c.c. prevede testualmente che la fattispecie dell’impresa familiare possa essere integrata anche nell’ipotesi in cui l’attività di collaborazione da parte del coniuge (o di altro familiare
rientrante nelle categorie di cui al terzo comma) venga concretamente prestata mediante lo svolgimento in forma continuativa di un’attività lavorativa “nella famiglia”. Secondo l’interpretazione ormai consolidata a seguito dell’intervento delle Sezioni unite della Cassazione2 non ogni forma di
lavoro domestico prestato dal coniuge dell’imprenditore assume rilevanza ai fini dell’operatività
dell’ipotesi di impresa familiare, ma occorre distinguere il mero lavoro domestico prestato in adempimento agli obblighi di contribuzione e solidarietà di cui agli artt. 143 e 147 c.c., che è ritenuto
insufficiente a far maturare in capo a chi lo presta i diritti patrimoniali, partecipativi e amministrativi previsti dalla fattispecie, e l’attività domestica “strettamente correlata e finalizzata alla gestione
consortile [...] che assuma rilievo in tale gestione, in quanto funzionale e strumentale all’attuazione
dei fini propri di produzione o di scambio di beni o servizi”.
La successiva giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che deve riconoscersi la qualifica di partecipante all’impresa familiare alla moglie casalinga che svolga attività di lavoro a servizio dell’impresa che, pur non richiedendo una presenza continuativa nell’azienda (presenza incompatibile con l’attività casalinga e l’allevamento dei figli), consistano in prestazioni, anche saltuarie, di carattere complementare, tali da determinare un accrescimento della produttività dell’impresa (come la cura di pratiche amministrative e contabili o, più semplicemente, di segreteria, tenendo i contatti telefonici con le banche e i clienti).
Diritti del coniuge o parente o affine partecipante all’impresa familiare
A. Diritti di carattere gestorio
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa, sono adottate a maggioranza dei familiari che partecipano all’impresa stessa.
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Cass. civ., Sez. un., 4 gennaio 1995, n. 89.
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Ogni familiare dispone di un voto, indipendentemente dalla quantità e dalla qualità del lavoro prestato.
Occorre osservare che i poteri di amministrazione dei familiari rimangono confinati nell’ambito dell’impresa familiare e non assumono rilevanza alcuna per i terzi che entrano in contatto con l’imprenditore.
I familiari non possono imporre all’imprenditore le proprie decisioni né possono attuarle direttamente qualora l’imprenditore non vi ottemperi. Ciò significa che gli atti posti in essere dall’imprenditore in violazione o in contrasto con quanto deciso dai familiari (o anche senza che i familiari
siano stati consultati) sono pienamente validi ed efficaci nei rapporti con i terzi. A tal proposito, si
deve ricordare che, in mancanza di un regime di pubblicità legale dell’impresa familiare, il terzo
non è in grado di conoscere l’esistenza stessa dell’impresa familiare.
Gli atti posti in essere in violazione o in contrasto con le decisioni dei familiari sono, tuttavia, illeciti nei rapporti tra imprenditore e familiari-collaboratori. Questi ultimi, quindi, hanno diritto di agire nei confronti dell’imprenditore per il risarcimento dei danni.
B. Diritti patrimoniali
B1. Diritto al mantenimento in relazione alla condizione patrimoniale della famiglia.
Il primo diritto riconosciuto ai lavoratori è quello al mantenimento. Il diritto ha contenuto identico
per tutti i familiari. Il diritto al mantenimento deve essere soddisfatto anche se l’impresa, in ipotesi, è in perdita o non crea profitti.
Il mantenimento consiste nella somministrazione di quanto occorrente per far fronte a tutte le esigenze di vita di chi non ha redditi propri o, comunque, redditi adeguati.
B2. Diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa, ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Quanto alla distribuzione degli utili, la Corte di Cassazione e la dottrina maggioritaria affermano
che la maturazione del diritto agli utili coincide con la cessazione dell’impresa o della collaborazione del singolo partecipante3.
Sono fatti salvi gli eventuali accordi tra i partecipanti per la distribuzione periodica degli utili.
Tale soluzione non convince del tutto. La dottrina è critica sul punto.
L’art. 230 bis c.c. nulla dice con riguardo al momento in cui gli utili devono essere distribuiti.
L’introduzione dell’istituto dell’impresa familiare ha avuto portata innovativa proprio perché ha attribuito ai soggetti che partecipano all’impresa familiare una serie di diritti strettamente legati all’andamento dell’impresa. Tali diritti rievocano chiaramente lo schema societario.
Come abbiamo visto, da un lato, sono attribuiti al familiare-collaboratore importanti poteri gestori.
Il partecipante all’impresa familiare, alla stregua di un socio, ha diritto di adottare a maggioranza
decisioni circa l’impiego degli utili e degli incrementi nonché decisioni inerenti la straordinaria amministrazione dell’impresa.
Da ciò potrebbe derivare una possibile equiparazione del familiare al socio per quanto riguarda il
momento della distribuzione degli utili.
Con riferimento alla società di persone, l’art. 2262 c.c. prevede la distribuzione annuale degli utili.
È chiara la possibilità di assimilare, almeno in parte, la posizione del socio di società di persone a
quella del familiare partecipante all’impresa familiare. Ciò spinge a propendere fortemente per la
distribuzione annuale degli utili anche nell’ambito dell’impresa familiare.
Ancora, dottrina e giurisprudenza di merito hanno osservato che limitare la maturazione degli uti3
Cass. civ., Sez. lav., 23 giugno 2008, n. 17057, in Famiglia e diritto, 2009, 229: “La maturazione del diritto agli utili nell’impresa familiare, dalla quale decorrono altresì rivalutazione ed interessi ai sensi dell’art. 429 c.p.c., coincide con la cessazione dell’impresa medesima o della collaborazione del singolo partecipante, salva l’ipotesi di accordo tra i partecipanti per la distribuzione periodica degli utili stessi”.
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FOCUS
li solamente al momento della cessazione dell’impresa familiare o alla cessazione della prestazione lavorativa significa svalutare l’apporto lavorativo del partecipe e attribuire al titolare dell’impresa un ingiustificato arricchimento.
Inoltre, i familiari partecipanti rimangono pur sempre dei lavoratori che, in quanto tali, hanno diritto a vedersi riconosciuto il corrispettivo dell’opera prestata. La distribuzione degli utili viene così ad assumere una funzione, seppur in senso lato, remunerativa.
Forti dubbi permangono dunque in merito all’orientamento della Suprema Corte, con cui, tuttavia,
occorre misurarsi4.
Occorre anche ricordare che, soprattutto nei casi in cui partecipante all’impresa familiare è il coniuge, nella prassi la domanda di liquidazione degli utili e degli incrementi viene fatta alla cessazione della collaborazione che consegue, nei fatti, alla separazione personale o, più tardi al divorzio.
Con riferimento alla quantificazione degli utili, il criterio della ripartizione è dato dalla qualità e
quantità del lavoro prestato.
Non ha rilevanza alcuna l’importo delle retribuzioni spettanti al lavoratore subordinato per lo svolgimento di analoga attività. Inoltre, l’eventuale scrittura, compilata a fini fiscali, indicante l’apporto
in percentuale di ciascun familiare può avere un valore indiziario ma non sostitutivo del criterio di
divisione fondato sull’apporto effettivo di lavoro.
Esempio: impresa familiare tra coniugi per la conduzione di una farmacia appartenente al marito e
dove la moglie aveva lavorato con continuità.
Sciolta l’impresa, la moglie chiedeva al giudice del lavoro la condanna del marito al pagamento di
una quota per l’incremento dell’azienda, una di partecipazione agli utili e una per parte degli acquisti.
In primo grado la domanda veniva accolta e la somma in favore della moglie veniva determinata
con una consulenza tecnica. Il consulente tecnico, tuttavia, precisava di non aver potuto rilevare la
quantità e qualità del lavoro prestato e di aver quindi avuto riguardo alle percentuali indicate nell’atto notarile di costituzione dell’impresa familiare.
In grado d’appello la sentenza veniva in parte riformata.
La Corte d’Appello, in particolare, reputava di non dover fare riferimento alla percentuale di ripartizione delle quote stabilita nell’atto notarile di costituzione dell’impresa familiare, ma alla quantità
e qualità del lavoro di farmacista svolto dalla moglie, accertate sulla base di numerose deposizioni
testimoniali. La determinazione della somma dovuta veniva quindi stabilita in via equitativa, prendendo come riferimento l’ammontare delle retribuzioni annuali per analogo lavoro dipendente.
Il marito ricorreva per cassazione.
La Corte di Cassazione5 ha avuto modo di evidenziare gli errori logico-giuridici presenti in entrambe le pronunce di merito ed elaborare il seguente principio di diritto: “cessata l’impresa familiare,
la liquidazione della quota spettante al familiare che ha apportato lavoro deve avere per oggetto (dividendo) gli utili, i beni acquistati e gli incrementi d’azienda, senza riguardo all’ammontare delle
retribuzioni per lavoro subordinato in analoga attività, mentre il criterio di ripartizione (divisore) è
dato dalla quantità e qualità del lavoro prestato, con eventuale riguardo, in funzione indiziaria, alle percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell’impresa”6.
4
Cfr. anche Cass. 22 ottobre 1999, n. 11921; Cass. 2 aprile 1992, n. 4057.
5
Cass. civ., Sez. lav., 29 luglio 2008, n. 20574.
6
Cass. civ., Sez. lav., 9 ottobre 1999, n. 11332: “La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento della produttività dell’impresa (beni acquistati con gli utili, incrementi dell’azienda anche in ordine all’avviamento) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, mentre non può essere usato come parametro l’importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività, il cui ammontare prescinde dall’entità dei risultati conseguiti, ai quali è invece commisurato il diritto del componente dell’impresa familiare”.
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Differenza tra A. Società di fatto; B. Impresa coniugale
A. Società di fatto
L’incipit dell’art. 230 bis c.c., “salvo che non sia configurabile un altro rapporto”, ammette testualmente la costituzione di una diversa regolamentazione tra l’imprenditore e i suoi familiari: anzi, come detto, l’istituto dell’impresa familiare ha natura residuale.
Può sussistere, dunque, anche una società di fatto. Il tratto distintivo tra le due figure va individuato nel comportamento tenuto dai familiari componenti dell’impresa nell’assumere relazioni esterne, considerando l’affidamento ingenerato nei terzi coi quali sono state tenute queste relazioni.
Pertanto, per escludere l’impresa familiare, ammettendo di contro la società di fatto, occorre che vi
sia stata l’esteriorizzazione del vincolo sociale, dimostrabile attraverso la spendita del nome della
società o, quanto meno, il fatto che si sia resa manifesta l’esistenza degli estremi del vincolo anzidetto sovrapposto al rapporto costituito ex art. 230 bis c.c.
Tuttavia, per provare l’esistenza di una società di fatto non è sufficiente l’indicazione del comportamento dei familiari verso l’esterno – dato equivoco – ma occorre dare prova degli elementi indefettibili della figura societaria, rappresentati quanto meno dal fondo comune e dall’affectio societatis.
La condivisione degli utili è invece dato proprio anche dell’impresa familiare.
B. Impresa coniugale
Allorché l’attività imprenditoriale/commerciale sia esercitata in comune tra i coniugi, può porsi il
problema di stabilire se si verta in tema di impresa familiare a norma dell’art. 230 bis c.c. o nella
diversa fattispecie dell’azienda coniugale prevista dall’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. Anzi, è bene
precisare che bisognerebbe parlare più correttamente di impresa coniugale avente a oggetto
un’azienda coniugale: infatti l’impresa coniugale, intesa come impresa cogestita dai coniugi, può
avere a oggetto un’azienda coniugale, ossia appartenente ai due coniugi in comunione legale, ovvero un’azienda non coniugale, bensì personale di uno dei coniugi.
In linea teorica la distinzione sembrerebbe agevole:
• se l’impresa è gestita da uno dei coniugi, ma l’altro vi collabora in maniera continuativa, si versa nell’ipotesi di impresa familiare a norma dell’art. 230 bis c.c.;
• se la partecipazione all’attività imprenditoriale assume i connotati di una vera e propria cogestione, trova applicazione la disciplina dell’impresa coniugale di cui all’art. 177 lett. d) c.c.;
• per completezza, se l’impresa viene esercitata in modo esclusivo da uno dei coniugi senza che
vi sia collaborazione o partecipazione da parte dell’altro, si versa in ipotesi di impresa individuale oggetto di comunione de residuo, ex art. 178 c.c.
L’applicazione concreta di tali criteri al fine di distinguere tra le fattispecie pone, tuttavia, non poche difficoltà.
Non aiuta il dato normativo in quanto l’art. 230 bis c.c. attribuisce ai familiari collaboratori un diritto di partecipazione alle decisioni inerenti la gestione straordinaria dell’impresa.
Determinante è verificare il ruolo rispettivamente svolto dal coniuge nella fase gestionale dell’impresa: semplice collaborazione o cogestione dell’impresa.
Occorre ricordare che la peculiarità dell’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. per quanto attiene all’azienda sta proprio nel fatto che, quando la costituzione della stessa avviene dopo la celebrazione del
matrimonio e non si tratta, in forza del titolo, di un bene personale, l’attribuzione della titolarità a
uno solo dei coniugi ovvero alla comunione coniugale dipende non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda, bensì dal dato rappresentato dalla gestione. Allorché l’azienda è gestita da entrambi i coniugi si parla di azienda coniugale.
Nell’impresa familiare, invece, l’apporto del coniuge assume una diversa intensità, rimanendo a un
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FOCUS
livello inferiore, e viene svolto in regime di sottoposizione al potere direttivo del titolare dell’impresa, mentre nella cogestione l’apporto del coniuge comporta una partecipazione alle funzioni direttive e assume rilevanza esterna.
Il discrimine tra gli istituti in esame è, dunque, la partecipazione alla gestione ordinaria dell’impresa che connota l’attività propria dell’azienda coniugale e si profila come incompatibile con l’applicazione del regime dell’impresa familiare7.
Così, nel caso concreto deciso con la sentenza in nota, sono stati ritenuti rilevanti, ai fini della prova
della sussistenza di un’azienda coniugale (negozio di parrucchiere), il fatto che la moglie avesse tenuto
i rapporti con il personale avendone organizzato l’attività, gestito la clientela, curato gli incassi. Il fatto
che solamente il marito avesse tenuto i rapporti con i fornitori e il commercialista e avesse gestito il
conto corrente è stato considerato come indice di una divisione dei compiti nella gestione in comune.
Separazione personale dei coniugi
La separazione personale dei coniugi non costituisce di per sé causa di scioglimento dell’impresa
familiare8:
• in primo luogo perché non cessa il rapporto di coniugio, che viene meno solo con il divorzio;
• in secondo luogo perché non mette automaticamente fine al rapporto di impresa.
Il diritto di partecipazione
A norma del quarto comma della norma in esame, il diritto di partecipazione è intrasferibile, salvo
che il trasferimento avvenga in favore di parenti entro il terzo grado o affini entro il secondo grado. È necessario il consenso di tutti i partecipi. Alla cessazione della prestazione di lavoro, indipendentemente dal motivo della cessazione, o in caso di alienazione dell’azienda, il diritto può essere liquidato in denaro. Il pagamento può essere effettuato in più annualità, determinate dal giudice in mancanza di accordo tra i partecipi.
Trasferimento dell’azienda e diritto di prelazione
L’interesse dei familiari-lavoratori al mantenimento della propria posizione nell’impresa familiare è
tutelato con la previsione del diritto di prelazione legale sull’azienda in caso di suo trasferimento
o di divisione ereditaria (quinto comma dell’art. 230 bis c.c.).
7
Corte d’Appello di Milano 10 maggio 2006, est. Gatto, in Famiglia e Diritto, 2008, 363: “Nell’impresa coniugale, a differenza
dell’impresa familiare, la collaborazione dei coniugi si realizza attraverso la gestione comune dell’impresa.
La peculiarità della fattispecie disciplinata dall’art. 177, comma 1, lett. d), c.c. per quanto attiene all’azienda sta nel fatto che
quando la costituzione (o l’acquisto) della stessa avviene dopo la celebrazione del matrimonio e non si tratti, in forza del titolo, di
un bene personale, l’attribuzione della titolarità ad uno solo dei coniugi ovvero alla comunione legale viene a dipendere non dalle modalità con cui si costituisce o viene acquistata l’azienda medesima, bensì dal dato rappresentato dalla gestione.
In presenza dell’ipotesi, legislativamente prevista, di gestione dell’azienda da parte di entrambi i coniugi non si discute più della
configurabilità di una società di fatto, né tantomeno di un’impresa familiare ai sensi dell’art. 230 bis c.c., la cui applicazione è
residuale rispetto ad ogni altro rapporto fra coniugi normativamente disciplinato”.
8 Cass. civ. 22 maggio 1991, n. 5741: “La separazione personale non è di per sé causa del venir meno dell’impresa familiare,
quando non venga con ciò meno l’apporto continuativo dell’attività”.
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L’imprenditore rimane libero di disporre dell’azienda, con il limite di preferire i partecipanti all’impresa
a parità di condizioni offerte a terzi. L’imprenditore che intende alienare l’azienda deve, conseguentemente, notificare ai familiari-collaboratori la proposta di alienazione con l’indicazione del prezzo.
Controversa in dottrina è la natura della prelazione, se si tratti di prelazione obbligatoria o di prelazione reale.
Con decisione per la quale non constano precedenti specifici, la Suprema Corte, statuendo l’applicabilità al partecipe dell’impresa familiare della disciplina del riscatto di cui all’art. 732 c.c. nei limiti di compatibilità, ha affermato che il rinvio all’art. 732 c.c. contenuto nella norma attiene al diritto di prelazione in senso stretto, potendo svilupparsi nel senso di consentire il riscatto dell’azienda presso i terzi acquirenti9.
Ha trovato così conferma quell’interpretazione che ha sempre sottolineato come nella disciplina
delle prelazioni legali il retratto sia il mezzo normale attraverso il quale si realizza l’interesse protetto dalla norma.
Aspetti previdenziali e fiscali
A. Aspetti previdenziali
Nel caso in cui l’attività (commerciale o artigianale) sia gestita in forma di impresa familiare, il titolare e i collaboratori sono tenuti a iscriversi alla speciale gestione lavoratori autonomi dell’Inps,
a norma della legge n. 335/1995, e versare i relativi contributi .
I contributi sono dovuti dal titolare dell’impresa familiare il quale ha diritto a esercitare la rivalsa
nei confronti di ciascun partecipante per la quota da questi dovuta. Nel caso in cui il titolare non
eserciti tale diritto di rivalsa, ha diritto di dedurre la spesa complessiva dal proprio reddito ai fini
della quantificazione dell’Irpef.
B. Aspetti fiscali
Con la Risoluzione n. 176/E del 28 aprile 2008, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito il punto dell’assoggettabilità a Irpef dell’importo attribuito al coniuge e deducibilità.
L’Agenzia ha precisato che l’impresa familiare è impresa individuale. La liquidazione al coniuge
del diritto di partecipazione all’impresa familiare afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto in questione e pertanto non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal
Tuir; l’importo attribuito al coniuge non va pertanto assoggettato a Irpef in capo al soggetto percipiente.
Ne discende anche che la somma liquidata non rileva come componente negativo e non è deducibile dal reddito di impresa, non ricorrendo il requisito dell’inerenza previsto dall’art. 109, comma
5, Tuir, che si configura per le spese riferite ad attività da cui derivano proventi che concorrono a
formare reddito.
9
Cass. civ., Sez. lav., 19 novembre 2008, n. 27475.
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FOCUS
Profili processuali
A. La competenza
La controversia avente a oggetto i diritti patrimoniali riconosciuti ai familiari dall’art. 230 bis c.c.,
previo accertamento della partecipazione all’impresa familiare, appartiene alla cognizione del giudice del lavoro a norma dell’art. 409 n. 3 c.p.c., considerando che le pretese in questione trovano
titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata riconducibile alla previsione della norma processuale.
B. L’onere della prova
Nella prassi giudiziaria, spesso, allorché il coniuge separato domandi la sua quota di utili, il titolare dell’impresa deduce l’insignificanza delle prestazioni effettuate ai fini della concreta partecipazione alla distribuzione degli utili stessi.
Occorre distinguere il caso in cui vi sia un atto formalizzato delle parti dal caso, più frequente, di
impresa sorta per facta concludentia.
Nella prima ipotesi, di negozio ritualmente formalizzato dalle parti, il coniuge che alleghi la circostanza di un negozio redatto a meri fini fiscali e contesti la sussistenza di un concreto apporto da
parte dell’altro coniuge, deve dare prova che nessuna collaborazione vi è stata nell’attività di impresa.
Nella seconda ipotesi, spetta al coniuge che rivendica i diritti derivanti dall’apporto in concreto dato all’impresa provare, documentalmente e per testi, qualità e quantità di detto apporto10.
Merita di essere esaminato il valore probatorio della scrittura privata autenticata sulla base della
quale il familiare risulta partecipare a una quota predeterminata di utili.
Tale scrittura privata svolge in primis una funzione fiscale e integra, altresì, una presunzione probante
la costituzione dell’impresa medesima e della quota di partecipazione, ma, di per sé, non può costituire prova della prestazione di lavoro del partecipante e della qualità e quantità della prestazione11.
C. Gli accertamenti degli enti previdenziali
Accade poi, non infrequentemente, che siano gli enti previdenziali e assistenziali, Inps e Inail, a indicare, con accertamento ispettivo, la sussistenza di un’impresa familiare e del conseguente obbligo di iscrizione all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Nel caso, quindi, di impugnazione di un verbale ispettivo, il ricorrente-imprenditore che vuol negare la sussistenza dell’impresa familiare, pur essendo attore in senso formale, agisce in un processo in cui è l’ente convenuto che fa valere un diritto avente a oggetto la pretesa contributiva, gravando così sull’ente l’onere di allegare e provare i fatti costitutivi del diritto, mentre il ricorrente
deve fornire prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto.
10 Tribunale di Milano, est. Bianchini, 31 maggio 2006, in Riv. critica dir. lav., 2006: “L’impresa familiare è istituto di carattere
residuale e lo svolgimento, da parte del coniuge del titolare dell’impresa, di lavoro casalingo non è di per sé sufficiente a giustificare il riconoscimento al medesimo coniuge dei diritti derivanti dalla partecipazione all’impresa familiare; è, infatti, a tal fine necessario che ricorrano due condizioni, e cioè che sia fornita la prova sia dello svolgimento di un’attività di lavoro regolare e costante – anche se non necessariamente a tempo pieno – da parte del coniuge, sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro di quest’ultimo, in favore del quale potrà così essere determinata la quota di partecipazione agli utili e agli
incrementi dell’impresa”.
11 Cfr. Corte d’Appello di Roma 17 agosto 2004, in Lav. nella giur., 2005, 490.
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LE PARTECIPAZIONI SOCIALI E LA COMUNIONE LEGALE
Giulia Sapi
Avvocato del Foro di Milano
La questione relativa alla caduta in comunione legale delle partecipazioni societarie acquisite da
uno o da entrambi i coniugi è stata da sempre oggetto di ampio dibattito, in dottrina quanto in giurisprudenza, soprattutto a causa della mancanza di una espressa previsione normativa in merito1.
Vi è stato chi ha osservato che la scelta legislativa di omettere un’elencazione dei “beni” costituenti oggetto della comunione, preferendo utilizzare il più generico termine di “acquisti”, ex art. 177,
comma 1 lett. a) c.c., non sia da ritenersi una lacuna del legislatore, ma sia piuttosto espressione
della volontà dello stesso di offrire all’interprete un concetto elastico, attraverso il quale guardare
alle molteplici forme di ricchezza che nell’ambito di un rapporto coniugale possono conseguirsi2.
In particolare, si è ritenuto che il legislatore abbia voluto ampliare la portata della norma verso oggetti che non possono essere qualificati tecnicamente come beni in senso materiale, potendo così
far rientrare nel termine “acquisti” di cui all’art. 177 c.c. quelle entità o utilità giuridicamente e patrimonialmente apprezzabili che l’ordinamento considera quale possibile oggetto di diritti reali3.
Sviluppando tale nozione di acquisto, la giurisprudenza di legittimità4 è giunta ad affermare che le
partecipazioni societarie possono entrare a far parte della comunione legale per il fatto di essere
state acquistate durante il matrimonio, precisando che “le azioni di società costituiscono incrementi patrimoniali rientranti tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a) c.c., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra i coniugi, in quanto, anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale è assolutamente prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo ‘status’ di socio in essi incorporato”, e chiarendo altresì che “anche se lo statuto sociale
prevedesse l’intrasferibilità delle azioni, tale clausola [...] non potrebbe mai comportare che le azioni possedute da un coniuge non cadano, quanto meno per ciò che concerne la componente patrimoniale data dal loro valore, in comproprietà dell’altro coniuge, consistendo quest’ultimo in un effetto
voluto dalla legge per attuare un principio d’ordine costituzionale quale quello della parità tra coniugi, come tale di certo preminente rispetto alla volontà dei privati”.
Ritenuto quindi che, in linea di principio, l’acquisizione di una partecipazione societaria possa rientrare nel concetto di acquisto, due sono i criteri di cui si avvalgono gli interpreti per accertare se
effettivamente tali partecipazioni entrino a far parte della comunione: il criterio della responsabilità e il criterio della strumentalità o destinazione5.
1
Oberto, I rapporti patrimoniali della famiglia, Padova, 2010, 672.
2
Balestra, Attività di impresa e rapporti familiari, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da Alpa e Patti, Padova,
2009, 75.
3 Bullo, Doria, Quote di società di persone nella comunione legale tra coniugi, in Contabilità, Finanza e Controllo, 1, 2008, 71.
4
Cass. 18 giugno 1994, n. 7437, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24, conforme Cass. 5 marzo 2010, n. 5424, in Il Sole 24 Ore,
Mass. Rep. Lex24, che, peraltro, nel caso di specie, ha affermato l’inapplicabilità dell’istituto ai “beni astrattamente riconducibili
al regime della comunione legale” che abbiano “una provenienza illecita in quanto provento o reimpiego di illeciti proventi”.
5 Balestra, Attività di impresa cit., 79; Oberto, I rapporti patrimoniali cit., 672.
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FOCUS
Secondo il criterio della responsabilità, utilizzato dalla dottrina prevalente, si dovrebbe distinguere
tra la caduta delle partecipazioni sociali in comunione immediata ovvero in comunione de residuo,
in funzione del tipo di responsabilità che si va ad assumere, e cioè del tipo di società di cui si fa
parte6. Con la conseguenza che dovrebbero cadere in comunione immediata le partecipazioni che
comportino una responsabilità patrimoniale limitata alla sola quota sociale, e in comunione de residuo quelle quote comportanti responsabilità illimitata7.
Il medesimo criterio viene in rilievo anche in alcune pronunce della Suprema Corte, in cui si afferma che “ricadono in comunione gli acquisti di azioni o di quote di società di capitali che comportino una responsabilità limitata del socio – con riferimento oltre alle società di capitali, anche alla posizione del socio accomodante nella s.a.s. –, mentre non cadono in comunione immediata, restando assoggettati ad un altro tipo di comunione, quella de residuo, gli acquisti di partecipazioni che
comportino a carico del socio una responsabilità illimitata per le obbligazioni della società”8.
In tale senso anche il Tribunale di Milano9 ha affermato che “non cadono in comunione – restando assoggettati alla disciplina di cui all’art. 178 c.c. e cioè alla comunione de residuo – gli acquisti
di quote di società di persone, ovvero gli acquisti che comportino a carico del socio responsabilità personale illimitata”.
Peraltro, si può rilevare un recente cambio di orientamento della Corte di Cassazione10, che con la
sentenza n. 2569 del 2 febbraio 2009 ha sostenuto che cadono in comunione immediata, rientrando tra gli acquisti di cui all’art. 177 c.c., lettera a), anche le quote di società di persone, riguardo
alle quali ha affermato che “lo status di socio non attribuisce al partecipante ad una società di persone una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito avente ad oggetto la restituzione del conferimento di una quota proporzionale del patrimonio sociale”, ma semmai la quota sociale va “ricondotta nella nozione di beni mobili fornita dall’articolo 810 c.c. ed articolo 812 c.c., u.c., perché, essendo trasferibile a terzi inter vivos e mortis causa ed assoggettabile
anche ad espropriazione forzata [...], costituisce una cosa immateriale che può formare oggetto di
diritti”.
Fortemente criticata dalla dottrina invece è stata la distinzione, effettuata dalla Corte di Cassazione
in una nota (anche se risalente) pronuncia11, tra i titoli azionari di una Spa e le quote di una Srl,
laddove si afferma che “mentre il concetto di acquisto di una res ben si attaglia ai titoli azionari
della s.p.a. come componenti della comunione legale”, maggiori perplessità si pongono sul fatto che
“rientri nella comunione legale la quota di una s.r.l.”.
È stato autorevolmente affermato12 che tale distinzione, basata sul carattere reale dell’acquisto
delle azioni, in quanto rappresentate dai certificati azionari, in contrapposizione al carattere relativo dell’acquisto delle quote, non risulta convincente, atteso che il processo di cartolarizzazione non è immancabile nelle società per azioni, potendo l’emissione dei certificati essere rinviata
a un momento successivo all’acquisto, ovvero addirittura omessa, e in ogni caso è da ritenersi
sempre logicamente successiva all’acquisto, da parte del socio, dei diritti inerenti alla partecipazione sociale.
Peraltro si deve osservare che la citata pronuncia riguardava la possibilità di comprendere nella comunione legale le quote di una cooperativa edilizia Arl in cui “il rapporto sociale, ispirato a scopi mutualistici, tra la società e il socio non è fine a se stesso, ma è diretto all’acquisizione dell’alloggio economico e popolare, che una volta trasferito al socio entra a far parte della comunione legale”, e pertanto
correttamente la Suprema Corte ha ritenuto che “prima del trasferimento non sia rilevante, ai fini della
6
Cass. 1 febbraio 1996, n. 875, in Famiglia e Diritto, 6, 1996, 543.
7
Paladini, Le partecipazioni societarie, in Commentario del codice civile della famiglia, II, Milano, 2010, 25.
8
Cass. 1 febbraio 1996, n. 875 cit., 543.
9
Tribunale di Milano 26 settembre 1994, in Famiglia e Diritto, 1995, 52, con nota di Schlesinger.
10 Cass. 2 febbraio 2009, n. 2569, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24.
11 Cass. 1 febbraio 1996, n. 875 cit., 543.
12 Schlesinger, Commento a Cass. 1 febbraio 1996 n. 875, in Famiglia e Diritto, 6, 1996, 543.
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comunione legale, l’acquisto della semplice partecipazione sociale di uno dei coniugi, così come non
rientra in comunione legale il diritto di credito che sorge dal contratto preliminare”13.
In effetti anche la dottrina prevalente ritiene che lo scopo, perseguito attraverso le partecipazioni
a una cooperativa, non sia quello dell’investimento, ma sia strettamente funzionale allo svolgimento di un’attività, ovvero al conseguimento di beni o servizi da parte del coniuge e, conseguentemente, esclude l’ingresso di dette partecipazioni in comunione legale14. Tuttavia al riguardo si segnala che recentemente alcuni autori hanno criticato tale impostazione, sottolineando che, poiché
la partecipazione a una società cooperativa non è acquisita per l’esercizio di un’attività di impresa,
non vi è ragione per non includerla nella comunione immediata dei beni15.
In ogni caso, la posizione espressa in detta pronuncia della Suprema Corte in merito a una possibile distinzione tra la disciplina delle azioni e quella delle quote, non ha avuto ulteriore seguito
nella giurisprudenza di legittimità, venendo sempre ribadita, nelle successive decisioni, l’inclusione nella comunione legale immediata delle acquisizioni delle partecipazioni societarie rappresentate tanto da azioni quanto da quote16.
Quanto invece al criterio della strumentalità, esso si fonda sulla previsione di cui all’art. 178 c.c.
che, in deroga al disposto di cui all’art. 177 c.c., lettera a), stabilisce che i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi non cadano in comunione immediata, bensì nella comunione
de residuo.
Tale previsione di cui all’art. 178 c.c. è giustificata dalla necessità di salvaguardare l’autonomia e la
libertà delle scelte imprenditoriali del coniuge che, in regime di comunione legale, eserciti un’attività di impresa17 e, contestualmente, di salvaguardare la posizione del coniuge non imprenditore
dalle conseguenze del rischio d’impresa18.
Secondo tale criterio, dunque, la distinzione tra le partecipazioni societarie passibili di cadere in
comunione immediata e quelle assoggettate al regime della comunione de residuo, non può essere ricondotta alla mera differenziazione tra partecipazioni a responsabilità limitata e partecipazioni
a responsabilità illimitata, essendo semmai necessario verificare se l’acquisto della partecipazione
sia strumentale allo svolgimento di un’attività imprenditoriale, dovendo in tal caso applicarsi l’art.
178 c.c., ovvero se l’acquisto sia stato concluso con finalità di investimento, rientrando così nella
previsione di cui all’art. 177 c.c., lettera a)19.
Peraltro, sembra che la giurisprudenza si sia servita raramente del criterio interpretativo della destinazione, potendo al riguardo richiamare solo una pronuncia del Tribunale di Roma, secondo cui
“l’acquisto da parte di uno dei coniugi di partecipazioni in società a responsabilità limitata, rientra
o meno in ‘comunione legale’ a seconda della ‘destinazione’ della partecipazione, ossia a seconda
che questa costituisca o meno uno strumento dell’attività professionale del coniuge”20.
Parte della dottrina ha poi individuato ulteriori deroghe all’ingresso nella comunione legale immediata delle partecipazioni che comportino una responsabilità limitata del coniuge socio.
Innanzitutto sono escluse dalla comunione legale immediata le azioni che, per espressa previsione statutaria, possono essere attribuite dall’assemblea ai lavoratori dipendenti della società come
forma di assegnazione di utili, poiché trattasi di provento dell’attività separata del coniuge, suscettibili dunque di cadere nella comunione de residuo ex art. 177 c.c., comma 1, lett. c)21.
Inoltre sono escluse sia dalla comunione legale immediata, che dalla comunione de residuo, in
13 Cass. 1 febbraio 1996, n. 875 cit., 543.
14 Balestra, Attività di impresa cit., 95.
15 Paladini, Le partecipazioni societarie cit., 27
16 Si veda tra le altre Cass. 24 febbraio 2001, n. 2736, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24.
17 Balestra, Attività di impresa cit., 82.
18 Bullo, Doria, Quote di società di persone cit., 71.
19 Sul punto si vedano Oberto, I rapporti patrimoniali cit., 672 e Balestra, Attività di impresa cit., 84.
20 Tribunale di Roma 18 febbraio 1994, in Nuova Giur. Civ. Comm., I, 1995, 543.
21 Balestra, Attività di impresa cit., 91.
30
FOCUS
quanto rientrano tra i beni personali, le partecipazioni societarie acquistate prima del matrimonio
– ferma restando la caduta in comunione delle azioni sottoscritte in sede di aumento di capitale22
– così come quelle acquistate, successivamente al matrimonio, con il corrispettivo della vendita di
beni personali, sempre che, al momento dell’acquisto, il coniuge abbia reso la dichiarazione di cui
all’art. 179, comma 1 lett. f) c.c., nonché, infine, quelle acquisite tramite donazione o successione
mortis causa.
Da ultimo va segnalato che la giurisprudenza di legittimità, superando l’opinione secondo cui la
comunione legale può riguardare solo i diritti reali e non i diritti di credito, è giunta, in tempi più
recenti, ad ammettere che anche i titoli obbligazionari possano cadere in comunione immediata ex
art. 177 c.c., comma 1, lett. a), ritenendo “fondata l’interpretazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett.
a), secondo la quale fra gli acquisti ivi indicati [...] rientrano tutti gli investimenti compiuti da ciascun coniuge qualunque sia la natura del diritto che ne formi oggetto”23.
In particolare la Corte di Cassazione, nella sentenza citata, ha affermato che la ratio della norma
in questione “è quella di far entrare nella comunione, in linea generale e salvo le specifiche eccezioni, ogni tipo di bene che ciascun coniuge acquisti nel corso del matrimonio”, “tenuto conto che nella realtà economica moderna i valori mobiliari tra i quali rientrano i titoli obbligazionari costituiscono una delle forme più diffuse e significative d’investimento della ricchezza”24.
22 Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24.
23 Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, in Il Sole 24 Ore, Mass. Rep. Lex24.
24 Ibidem.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
COMUNIONE DEI BENI: CONTO CORRENTE COINTESTATO TRA I CONIUGI E CONTO
CORRENTE INTESTATO A UN SOLO CONIUGE
Giulia Sarnari
Avvocato del Foro di Roma
A oltre trent’anni dall’entrata in vigore delle norme relative alla comunione legale dei beni colpisce constatare che non sia ancora chiaro quali siano le sorti dei conti correnti bancari dei coniugi
intestati singolarmente e cointestati, rispetto alle norme sulla comunione legale dei beni, sul suo
scioglimento, sui rimborsi e sulle restituzioni.
I coniugi che si separano, se mostrano di avere ormai acquisito una certa consapevolezza circa quale dei beni immobili è proprio e quale dei beni immobili è da ritenersi della comunione, di fronte
al denaro e al rapporto bancario che con il denaro e per il denaro necessariamente la società moderna impone di instaurare, appaiono confusi, poco consapevoli dei loro diritti e vanno ad attribuire al singolo coniuge rapporti bancari che dovrebbero ricadere in comunione legale o fanno ricadere nella comunione legale rapporti bancari che invece dovrebbero esserne esclusi.
Tale confusione deriva dal fatto che il legislatore del 1975, nell’imporre la comunione legale dei
beni quale regime patrimoniale primario della famiglia, ha disegnato un sistema che, lungi dall’attuare una comunione universale comprendente anche i guadagni di ciascun coniuge, ha attuato un
sistema restrittivo, puntando essenzialmente a far cadere in comunione quell’incremento patrimoniale della famiglia che si realizza attraverso l’investimento del risparmio che, a differenza del reddito, il legislatore del 1975 considera prodotto comunque in pari quote dai coniugi, anche dalla
donna che, pur non portando nella famiglia la propria retribuzione da lavoro (o portando, comunque, una retribuzione inferiore a quella del marito), spendeva enormi risorse personali per la cura
della stessa.
La formulazione letterale delle norme introdotte a definire e a disciplinare la costituzione, l’amministrazione e lo scioglimento della comunione legale dei beni, senz’altro, non è chiara, ma
dalla disamina degli artt. 177, 178 e 179 c.c. emerge che l’investimento familiare, che all’epoca
il legislatore voleva proteggere, è quello immobiliare, la casa acquistata dai coniugi, per la famiglia; a parte l’azienda coniugale, inserita sempre evidentemente per tutelare l’apporto di energie
spese dalla donna nella più svariate forme e senza alcuna identità e inquadramento lavorativo
specifico, il legislatore del 1975 si preoccupa di elencare tutti quegli altri beni che rimangono
fuori dal regime della comunione legale o che vi ricadono semmai solo in via residuale, se ancora esistenti, al momento dello scioglimento della comunione e, a ben vedere, non si preoccupa minimante di destinare gli incrementi patrimoniali della famiglia diversi dall’investimento immobiliare.
Ma da diversi anni ormai l’amministrazione delle finanze e del risparmio della famiglia si atteggia
in maniera più articolata rispetto alla modalità del solo investimento immobiliare, disciplinata e tutelata dal legislatore del 1975.
Nel nostro Paese è ancora primario e fondamentale l’acquisto della casa familiare, ma il regime patrimoniale della comunione legale dei beni, che fondava la propria ragion d’essere sul principio di
solidarietà coniugale e sulla tutela del coniuge che pur non percettore di un proprio reddito da lavoro contribuiva innegabilmente con il proprio impegno domestico alla crescita e al consolidamen-
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FOCUS
to delle risorse familiari, deve fare i conti con altre forme di investimento diverse da quello immobiliare: deve tener conto della produzione di reddito da lavoro da parte di entrambi i coniugi e non
più di uno soltanto, della maggiore autonomia negoziale della donna, anche con riferimento alla
gestione dei propri guadagni e dei propri risparmi e deve, oltretutto, rapportarsi con i diversi sistemi di accumulo e di investimento del denaro che il mercato finanziario propone in maniera sempre più differenziata.
Come in tanti altri ambiti, alla carenza delle norme iniziale (perché non si può dire che il legislatore del 1975 non potesse intuire, già all’epoca, che doveva occuparsi a tutto campo degli incrementi familiari, non solo di quelli immobiliari), ha sopperito il lavoro ermeneutico della giurisprudenza e di autorevole dottrina, lavoro che tuttavia appare frammentario e non univoco e volto piuttosto a disciplinare singole ipotesi, piuttosto che a risolvere, ab origine, determinati punti nevralgici, alcuni dei quali, come vedremo, rimangono comunque scoperti, se non si provvede a intervenire con una espressa disposizione normativa.
Ciò ha determinato quello che nella prassi viene definita la “fuga” dalla comunione legale e sempre più frequente è l’opzione per il regime di separazione dei beni a causa della non chiarezza di
quel che potrebbe succedere se si dovesse avviare, dal momento della celebrazione del matrimonio, il regime della comunione legale dei beni; non è inconsueto ritrovarsi di fronte a un coniuge
(rectius, quasi sempre a una coniuge) che ha optato per la separazione legale dei beni, inconsapevole che il legislatore del 1975, oltre trent’anni fa, per tutelarlo, aveva ipotizzato quel regime patrimoniale legale e automatico dal quale è scappato.
Esaminiamo con ordine.
Nella realtà finanziaria contemporanea il senso di proprietà che avvertiamo per il nostro denaro è
il medesimo di quello che avvertiamo anche per il conto corrente bancario in cui è depositato, ma,
è noto, il dato giuridico è ben diverso.
Senz’altro il denaro è un bene mobile, suscettibile come tale di essere oggetto di proprietà da parte di uno o di entrambi i coniugi e come tale, dunque, può essere sia un bene della comunione
sia un bene personale, destinato solo alla comunione de residuo, sia un bene personalissimo a norma dell’art. 179 c.c., che è escluso possa ricadere nel regime legale. Tuttavia ciò è chiaro in astratto, essendo il denaro, nella sua forma numeraria, un bene fungibile; nella realtà è davvero difficile stabilire quale sia la provenienza di una somma di denaro: in vigenza di regime di comunione
legale dei beni e in assenza di prova, sarà considerata di proprietà comune, secondo la presunzione di cui all’art. 195 c.c.
Non è tuttavia questo il problema, in quanto il denaro non viene conservato e amministrato nella
sua forma numeraria, ma viene depositato in banca e anche il suo acquisto avviene mediante transazioni contabili che non prevedono il passaggio di denaro da un soggetto all’altro, operazioni bancarie sempre più usuali e accessibili.
Nel momento in cui il denaro è “in banca”, se, come evidenziato, il proprietario di quella somma determinata che risulta dal saldo attivo non percepisce alcun cambiamento nella titolarità del
proprio diritto, diversamente, quel diritto di proprietà sul denaro depositato diventa diritto di credito verso la banca alla restituzione dell’importo medesimo per equivalente e ciò a norma dell’art. 1834 c.c.
Orbene, si è molto dibattuto circa la possibilità di far cadere in comunione non solo l’acquisto di
diritti reali, ma anche l’acquisto di diritti di credito e quindi, di conseguenza, di far rientrare in comunione anche i conti correnti del singolo coniuge aperti successivamente al matrimonio, quale
acquisto di un nuovo diritto di credito che accresce, al pari dell’acquisto di un diritto reale, a norma dell’art. 177 c.c., lett. a), la comunione dei beni.
A fronte di queste due possibilità interpretative, la cui disamina ci porterebbe inutilmente troppo
lontano, emerge ormai da diversi anni, sia pur in maniera non radicale ed esplicita, un indirizzo
guida espresso dalla Suprema Corte, che, se ben compreso, consentirebbe di trovare soluzioni chiarificatrici con attenzione specifica e dedicata al caso di specie nel quale ci si imbatte.
La Suprema Corte ha teorizzato che, se è vero che la comunione legale dei beni è un regime che
mira a mettere gli incrementi patrimoniali verificatisi durante il matrimonio nel sistema famiglia im-
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
putabile ai coniugi in parti uguali – in conseguenza dell’impegno profuso da entrambi i coniugi
nella realizzazione del progetto familiare – senza valorizzare quale dei due abbia effettivamente
messo il denaro occorrente all’acquisto, devono senz’altro ricadere in comunione dei beni tutti quei
diritti che costituiscono un accrescimento, in senso lato, di ricchezza e, quindi, non solo il tradizionale investimento immobiliare, ma anche le diverse forme di investimenti mobiliari e ciò nel solo
limite del rispetto delle regole generali della comunione, che garantiscono la permanenza fuori dalla comunione dei beni (diretta e di residuo) solo dei cosiddetti beni personalissimi di cui all’art.
179 c.c.
Sulla scorta di tale ragionamento, che supera la contrapposizione diritti reali-diritti di credito e che
pone l’attenzione sull’effettiva ratio ispiratrice del regime della comunione legale dei beni, adattandola all’attualità, tentando di ammodernarla, il denaro tenuto in semplice giacenza su un conto corrente bancario e che fa sorgere immediatamente un diritto di credito in capo al coniuge unico titolare del conto, non essendo una forma di investimento finanziario che apporta nuova ricchezza,
non può essere automaticamente considerato un acquisto compiuto alla stregua di quanto dispone la lettera a) dell’art. 177 c.c., ma occorre verificare il titolo di acquisto di detto denaro.
E così, se il denaro depositato su un conto corrente di uno solo dei coniugi rappresenta l’utile di
un’azienda cogestita da entrambi i coniugi a norma della lettera d) dell’art. 177 c.c., il conto corrente in questione, al di là dell’intestazione formale, deve ritenersi caduto in comunione.
Diversamente se il denaro depositato su un conto corrente bancario di uno solo dei coniugi è il
frutto dell’attività separata di un coniuge o il frutto di un bene personale del coniuge: a norma della lettera b) e della lettera c) dell’art. 177 c.c. tale conto corrente non cade nella comunione immediata, ma solo nella comunione de residuo, ove non consumato al momento dello scioglimento.
E ancora, se il denaro esistente sul conto corrente intestato a un solo coniuge è denaro percepito
ai sensi dell’art. 179 c.c., il denaro stesso deve ritenersi personale, anzi bene personalissimo nel
senso che giammai cadrà nella comunione, né in quella diretta né in quella de residuo.
Pertanto, a seconda del titolo di acquisto del denaro che giace sul conto corrente intestato a un solo coniuge in regime di comunione legale dei beni, il conto corrente ricadrà nella comunione immediata, nella comunione di residuo o apparterrà senza alcun dubbio ai beni personalissimi di cui
all’art. 179 c.c.
Questo è quanto ragionevolmente possiamo argomentare leggendo le due importanti pronunce
della Suprema Corte sul punto, la n. 1197 del 2006 e la n. 1957 del 2008 (non irrilevante è anche
la lettura della sentenza n. 21098 del 2007).
Nella prima pronuncia si legge che “il danaro ottenuto a titolo di prezzo per l’alienazione di un bene personale rimane nella esclusiva disponibilità del coniuge alienante anche quando esso venga,
come nella specie, dal medesimo coniuge depositato sul proprio conto corrente. Questa titolarità non
muta in conseguenza della circostanza che il danaro sia stato accantonato sotto forma di deposito
bancario giacché il diritto relativo al capitale non può considerarsi modificazione del capitale stesso né è d’altro canto configurabile come un acquisto nel senso indicato dall’art. 177 comma 1 lett.
a) c.c. cioè come una operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo nell’assetto patrimoniale del depositante”.
Con la sentenza successiva, la n. 19567/2008, la Suprema Corte ha poi, sancito che “ai sensi dell’art. 177 lett. c) c.c. il saldo attivo del conto corrente bancario intestato ad uno dei coniugi in regime di comunione dei beni (titolarità individuale) e nel quale siano confluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, entra a far parte della comunione legale dei beni al momento dello scioglimento della comunione stessa con conseguente sorgere solo da tale momento di una titolarità comune dei coniugi sul saldo stesso”; ciò perché la Corte di Cassazione evidenzia che il semplice deposito di denaro su un conto corrente bancario, che fa trasformare il diritto di proprietà verso il denaro in diritto di credito, di per sé non comporta investimento, incremento, non costituisce acquisto in senso lato, ma un modo di custodire il denaro stesso.
Se ciò vale per quanto riguarda il conto corrente intestato a un solo coniuge in regime di comunione dei beni, sulla scorta di tale ragionamento, ad avviso di chi scrive, si può andare oltre e consentire ai coniugi di superare anche la presunzione di contitolarità di un conto corrente e di pro-
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FOCUS
vare con ogni mezzo la titolarità esclusiva del proprio denaro che è confluito su quel conto corrente cointestato a entrambi, senza farsi condizionare dalla formale intestazione che presenta il conto corrente.
In effetti, se la Suprema Corte ha sancito che il guadagno del singolo coniuge e il denaro di cui all’art. 179 c.c. versato sul proprio conto corrente bancario personale non cadono in comunione (il
primo solo in comunione di residuo), non già perché accantonati su un conto corrente personale,
ma perché il bene-denaro è personale a norma dell’art. 177 c.c. lett. b) e lett. c) o personalissimo,
a norma dell’art. 179 c.c., non si vede per quale ragione lo stesso ragionamento non debba estendersi anche all’ipotesi che le medesime somme di denaro siano in giacenza su un conto corrente
comune a entrambi. Tanto più che, si è detto, il denaro depositato su un conto corrente di uno solo dei coniugi, che rappresenta l’utile di un’azienda cogestita da entrambi i coniugi a norma della
lettera d) dell’art. 177 c.c., può essere rivendicato bene della comunione al di là dell’intestazione
formale del conto corrente a un solo coniuge.
Del resto, seguendo il ragionamento della Suprema Corte che ha scartato l’ipotesi preconcetta della comunione dei beni che acquista ipso facto ogni diritto sia esso reale che di credito, non vi è alcuna ragione per ritenere che la contitolarità dei coniugi di un conto corrente bancario in regime
di comunione dei beni attribuisca, nel rapporto interno tra correntisti-coniugi, diritti maggiori di
quelli che attribuisce il regime della comunione dei beni.
Con riferimento al conto corrente bancario intestato a più soggetti, il codice civile, infatti, prevede
una sola regola e con l’art. 1854 c.c. stabilisce che, nel caso in cui il conto corrente bancario è intestato a più di una persona a firma disgiunta con facoltà per ognuna di effettuare operazioni anche separatamente, ciascun cointestatario può esigere, in qualsiasi momento, il saldo attivo e risponde, in solido con gli altri, del saldo passivo.
È noto che l’elaborazione giurisprudenziale è giunta da tempo ad affermare che tale norma è operante solo nei rapporti tra i cointestatari del conto corrente bancario e la banca, ma non nei rapporti tra i contitolari del conto che sono, invece, disciplinati dall’art. 1298, 2° comma c.c.; di conseguenza nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi
creditori, fatta salva una diversa prova.
Si tratta di una presunzione di uguaglianza che opera anche nei casi in cui il denaro sia stato depositato su quel conto corrente solo da uno dei contitolari del conto, perché ciò che occorre dimostrare è la proprietà esclusiva del denaro versato in capo a uno soltanto dei correntisti.
Si è detto che si tratta di una presunzione semplice che quindi può essere superata dalla prova
contraria offerta, secondo le norme generali, in via documentale e rigorosa.
La Suprema Corte ha anche evidenziato che la presunzione semplice, di cui all’art. 1298 c.c., 2°
comma, opera nei rapporti interni tra contitolari di un conto corrente, sempre a nulla rilevando la
configurazione giuridica del rapporto sottostante fra gli intestatari, e quindi, anche il rapporto coniugale e il regime patrimoniale tra loro operante.
La presunzione semplice opera quindi anche quando i cointestatari di un conto corrente bancario
sono coniugi in regime di comunione dei beni, ai quali si applica comunque l’art. 1298 e non invece l’art. 1854 c.c., che riguarda solo i rapporti fra gli stessi e la banca; conseguentemente, qualora il saldo attivo di un conto corrente cointestato a due coniugi sia il frutto di un bene personale di un coniuge, l’altro coniuge non potrà avanzare alcun diritto su tale somma di denaro.
In tal senso, si è espressa la Suprema Corte che, con la sentenza n. 8002 del 27 aprile 2004, ha
chiarito che “il regime di comunione legale di cui all’art. 177 c.c. coinvolge i soli acquisti di beni e
non inerisce invece alla instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi, ad
esempio, all’apertura di un conto corrente bancario nel corso della convivenza coniugale, i quali, se
cointestati, non esorbitano dalla logica di un tale tipo di rapporti e non conoscono quindi alcuna
preclusione legata al preventivo scioglimento della comunione legale coniugale e – quindi – al preventivo passaggio in giudicato della sentenza di separazione”.
Da ciò discende che il coniuge, che in regime di comunione dei beni ha versato i propri guadagni
sul conto corrente cointestato, ha diritto di disporne per la loro totalità e l’altro non può accedervi, fatta salva soltanto la comunione de residuo al momento dello scioglimento; e così anche per il
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
denaro personalissimo, di cui all’art. 179 c.c., che dovesse essere stato depositato sul conto corrente comune, che certo non può cadere in comunione per il semplice fatto di giacere su un conto
corrente cointestato.
Chiariti tali aspetti sull’inquadramento teorico, nell’imbattersi nel caso di specie che di volta in volta si va a esaminare, ci si avvede subito che l’aspetto probatorio è davvero arduo, considerato che
nello svolgersi della vita familiare solitamente i coniugi, specie in comunione dei beni, utilizzano
conti personali e conti cointestati senza avere riguardo alla titolarità del denaro che vanno a depositarvi. Assume rilevanza anche la movimentazione in uscita, laddove risulta pressoché impossibile, nella maggioranza dei casi, individuare se l’uscita è stata utilizzata per l’adempimento di un’obbligazione del singolo coniuge, per l’adempimento di un’obbligazione della comunione o per
l’adempimento dell’obbligazione che ciascun coniuge ha al mantenimento della prole e dell’altro
coniuge a norma degli artt. 143, 147 e 148 c.c.
Non infrequente è, peraltro, il ricorso all’eccezione della donazione indiretta, quando un coniuge
versa denaro proprio sul conto cointesto con l’altro coniuge, eccezione che, com’è noto, viene postulata e ritenuta fondata anche in caso di conto corrente cointestato in regime di separazione dei
beni, anche se mancherebbe la sacralità della forma scritta e anche se viene sempre ribadita la possibilità della prova contraria.
Peraltro, non è da sottovalutare che nel caso di conto corrente cointestato, se è ben vero tutto
quanto sin qui osservato, non si può non considerare che la Cassazione ha chiarito che “il saldo di
conto corrente bancario cointestato, con facoltà di disposizione disgiunta di ciascuno dei contitolari, non può costituire credito ‘contratto nell’interesse esclusivo’ di alcuno dei contitolari del credito
stesso, ai sensi del comma 1 dell’art. 1298 c.c., perché ciò contrasterebbe con la funzione del contratto di conto corrente bancario, il quale è finalizzato all’espletamento del servizio di cassa nell’interesse di tutti i contitolari”1.
Molto si discute circa l’ammissibilità nel nostro sistema degli accordi prematrimoniali, che hanno
l’indubbio vantaggio di richiamare l’attenzione dei nubendi sulle conseguenze patrimoniali del matrimonio e di gestirle negozialmente, ma ancor prima, sarebbe opportuno progettare un sistema
che preveda una reale informazione e conoscenza delle norme vigenti, sicché gli sposi scelgano
consapevolmente non solo il regime patrimoniale da adottare, ma anche i rapporti bancari da instaurare di conseguenza, onde non vanificare gli effetti dell’opzione operata, sino ad arrivare, nelle ipotesi in cui vi è una realtà finanziaria e patrimoniale ricca e articolata, a servirsi del family office, servizio ancora troppo poco diffuso, anche nelle realtà familiari nelle quali sussistono consistenti patrimoni.
Sarebbe, ad esempio, opportuno sapere che in regime di comunione dei beni ogni coniuge dovrebbe avere un conto corrente della comunione dei beni, quindi cointestato, un conto corrente
personale per i guadagni e per i frutti, di cui alla lettera b) dell’art. 177 c.c., che andrà a finire solo nella comunione de residuo e un conto corrente per i beni, di cui all’art. 179 c.c., anche perché
la problematica si complica ulteriormente quando il conto corrente bancario viene utilizzato per
effettuare operazioni bancarie di vero e proprio investimento.
Infatti, se non vi è dubbio che il denaro proveniente da frutti di beni propri di un coniuge o che
costituisce il reddito da lavoro di un coniuge non cade nella comunione diretta, qualora tale denaro sia stato utilizzato per effettuare degli investimenti mobiliari, questi, al pari degli investimenti
immobiliari, sono beni che ricadono nella comunione diretta. Pertanto, se il semplice conto corrente o conto deposito alimentato con tal tipo di denaro non cade in comunione, è indubbio che
l’investimento mobiliare che dovesse essere effettuato con tali giacenze di conto corrente ricadrà
immediatamente in comunione quale incremento patrimoniale. E ciò perché, come sottolineato, il
discrimine è dato dalla sussistenza dell’investimento, dell’accrescimento del patrimonio personale
1
Cass. 21 gennaio 2004, n. 886.
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FOCUS
iniziale, che va oltre il rapporto obbligatorio sottostante. In tali casi il bene originario, il denaro
personale, non sussiste più, si è modificato nella forma dell’investimento che è una entità autonoma, un bene che, a norma dell’art. 810 c.c. cade immediatamente in comunione secondo quanto
dispone l’art. 177 c.c. lettera a).
La Suprema Corte ha statuito che i titoli azionari, i fondi di investimento, i titoli obbligazionari acquistati da un coniuge con i propri guadagni accantonati su un proprio conto corrente personale
in regime di comunione legale dei beni cadono in comunione in quanto “la comunione legale fra
coniugi costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato come quello della
comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 ss. c.c. alla tutela della proprietà individuale ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo
ambito con speciale riferimento al regime degli acquisti in relazione al quale la ratio della disciplina che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi trascende il carattere del bene della vita che venga acquistato e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto”2.
Il problema insolubile sorge quando tali investimenti vengono effettuati con quel denaro personale in base alle ipotesi di esclusione categorica dalla comunione a norma dell’art. 179 c.c. senza la
dichiarazione che sia stato utilizzato del denaro proprio. La necessarietà della dichiarazione è da
sempre considerata un elemento costitutivo nella prassi degli acquisti immobiliari, ma allo stato non
sussiste alcuna attenzione alla necessarietà della medesima dichiarazione nell’ipotesi in cui si effettua l’investimento mobiliare con il denaro proprio personalissimo giacente sul proprio personale
conto corrente.
2
Cass. 21098/2007.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
IL MOMENTO DELLO SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE DEI BENI
E IL PROCEDIMENTO DI DIVISIONE
Commento alla sentenza della Cassazione, I Sezione civile, del 26 febbraio 2010 n. 4757
Costanza Pomarici
Avvocato del Foro di Roma
Com’è noto i casi per cui la comunione legale dei beni, nel regime patrimoniale dei coniugi, può
considerarsi sciolta – nel senso che da quel momento tutti i beni che i coniugi produrranno ovvero acquisteranno non andranno più a far parte della comunione – sono previsti nell’art. 191 c.c. e
devono considerarsi “tassativi”.
Tuttavia, la locuzione “scioglimento della comunione” è piuttosto sommaria, in quanto con lo scioglimento, se è vero che i beni susseguenti non andranno a far parte della comunione, è altresì vero che tutti gli eventi citati dalla norma non producono l’automatico venir meno delle situazioni di
contitolarità dei diritti e delle situazioni giuridiche, oggetto della comunione; non vi è cioè un’assegnazione in titolarità esclusiva a ciascun coniuge dei beni corrispondenti al loro diritto di quota
pro-indiviso sul patrimonio, che avverrà invece con la divisione e liquidazione del patrimonio comune. In verità lo “scioglimento” produce esclusivamente la cessazione del regime patrimoniale della comunione legale.
Al verificarsi di una delle cause di cessazione del regime di comunione legale si realizza altresì l’effetto previsto dagli artt. 177 e 178 c.c., vale a dire l’entrata in comunione de residuo dei proventi
dell’attività separata del coniuge, dei frutti dei suoi beni personali e dei beni destinati all’esercizio
dell’impresa di un solo coniuge, ovviamente per la parte che residua al momento dello scioglimento, ovvero per tutte quelle somme che comunque non risulteranno dedicate alla solidarietà familiare per il tempo della comunione legale.
E in questo, appunto, sta la maggiore problematicità dell’istituto in esame.
Infatti, premesse tutte le note considerazioni critiche relative all’istituto della comunione dei beni
quale regime patrimoniale legale tra i coniugi che, in realtà, si è configurato più che altro come comunione dei beni immobili, la difficoltà dello scioglimento è legata al momento in cui può essere
proposta la domanda o, meglio, al momento in cui lo scioglimento può spiegare i suoi effetti e
quindi alla reale possibilità di una “fotografia” del patrimonio comune, comprensiva, appunto, della comunione de residuo; naturalmente ci riferiamo a quella più usuale e che maggiormente ci interessa, vale a dire a seguito della separazione personale.
La determinazione del momento in cui si produce l’effetto dello scioglimento della comunione legale, in conseguenza della separazione legale passata in giudicato, così da poter procedere alla divisione, è in effetti una questione di rilevante importanza sulla quale si è svolto nel tempo un ampio confronto in dottrina e giurisprudenza, che ha visto affermare: a) che gli effetti della pronuncia debbano retroagire al momento della notifica del ricorso introduttivo per la separazione giudiziale e al deposito in cancelleria per la richiesta di separazione consensuale, o anche, b) al momento dell’emissione del provvedimento presidenziale che autorizza i coniugi a vivere separati.
Tuttavia l’orientamento che si è andato consolidando in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità è pressoché unanime nel ritenere che l’effetto dello scioglimento si produce ex nunc dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione o dell’emissione del decreto di
omologazione degli accordi della separazione consensuale, da cui è conseguita la tesi dell’impro-
38
FOCUS
ponibilità della domanda di scioglimento della comunione legale prima della formazione del giudicato sulla pronuncia di separazione dei coniugi.
Si sostiene, infatti, che il “diritto alla liquidazione” non è ancora esistente al momento della domanda di separazione, così che, per procedere alla divisione del patrimonio familiare, previa declaratoria dello scioglimento, si rende necessario un separato procedimento.
A tutti noi sono noti i problemi derivanti da questo assetto normativo: di tempo, economici e soprattutto, come già detto, di integrità del patrimonio familiare, che non sia solo quello immobiliare.
Su questa situazione incide, e ritengo non poco, la sentenza della Cassazione, I Sezione civile, n.
4757 che, pur confermando il principio per cui il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o l’omologazione di quella consensuale rappresenta il fatto costitutivo del diritto
a ottenere lo scioglimento della comunione legale e divisione dei beni, non individua più tale fatto costitutivo del diritto come condizione di procedibilità per la domanda di divisione dei beni, previo avvenuto scioglimento della comunione legale, ma piuttosto come condizione dell’azione, operando quindi un mutamento rispetto al momento della proponibilità della domanda medesima.
Questo il caso esaminato dalla Corte
Pendente il procedimento di separazione, A chiamava in giudizio B, chiedendo che venisse dichiarato lo scioglimento della comunione legale. B si opponeva ritenendo la domanda improponibile.
Nel corso della causa, tuttavia, si verificava il passaggio in giudicato, prima, della sentenza non definitiva e, poi, di quella definitiva della separazione personale. Il Tribunale rigettava l’eccezione relativa alla proponibilità della domanda, procedeva alla declaratoria di scioglimento della comunione legale, rimettendo il procedimento in istruttoria per addivenire quindi alla divisione, con successiva sentenza (nello specifico dopo aver diviso i beni mobili tra le parti, il giudice rimetteva nuovamente la causa in istruttoria per procedere alla vendita della casa coniugale). B proponeva appello, sempre relativamente all’improcedibilità della domanda, e la Corte d’Appello accoglieva l’appello, dichiarando improponibile la domanda di scioglimento della comunione. A, quindi, proponeva ricorso in Cassazione.
Motivi della decisione
“È ben consapevole il Collegio che questa Corte si è pronunciata al riguardo, seppur non molto frequentemente (e spesso ha esaminato una differente fattispecie: l’introduzione del giudizio di scioglimento della comunione e la relativa pronuncia di primo grado, prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o dell’omologa di quella consensuale), nel senso comunque dell’improponibilità della domanda (tra le altre, Cass. n. 4351 del 2003; n. 9325 del 1998; n. 8707 e
11931 del 1997), ma ritiene di riesaminare la questione.
Ritiene che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, sicuro presupposto dello scioglimento della comunione, debba precedere la domanda di divisione dei relativi beni, significa evidentemente qualificare tale giudicato come presupposto processuale (o, se si vuole, condizione di procedibilità dell’azione) piuttosto che come condizione dell’azione, accogliendosi questa distinzione, che
non trova preciso, esplicito riscontro nel codice di rito, ma viene comunemente seguita da giurisprudenza e dottrina, pressoché unanimi.
Come è noto, i presupposti del processo attengono all’esistenza stessa del processo, nonché alla sua
validità e procedibilità, e devono sussistere prima della proposizione della domanda.
Se l’esistenza del processo richiede che la domanda sia rivolta ad un Giudice, e debba evidentemente consistere una richiesta di tutela giurisdizionale, i profili di validità del processo e di proponibilità della domanda attengono al potere-dovere del Giudice adito di pervenire ad una pronuncia di
merito. Presupposti processuali sono dunque la giurisdizione, la competenza e la legittimazione processuale, il potere del soggetto che propone la domanda nonché del soggetto nei cui confronti la domanda è proposta, di compiere gli atti processuali.
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Le condizioni dell’azione sono i requisiti di fondatezza della domanda, necessari affinché l’azione
possa raggiungere la finalità concreta cui essa è diretta (e cioè il Giudice possa eventualmente pronunciare nel senso favorevole all’attore, la mancanza delle condizioni dell’azione non esclude ab
origine l’esistenza del processo, ma impedisce che questo si concluda con una pronuncia favorevole
all’attore stesso). È sufficiente che tali condizioni esistano al momento della pronuncia, e non necessariamente a quello della domanda (per tutte, Cass. n. 21100 del 2004). Tra le condizioni dell’azione, trovano sicuro riscontro normativo l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), volto al perseguimento
della tutela giurisdizionale, a garanzia dell’interesse sostanziale per cui si propone la domanda: una
situazione giuridica soggettiva di vantaggio, il cui riconoscimento viene posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio (al riguardo, Cass. n. 9172 del 2003).
L’interesse deve essere concreto (collegato all’esistenza di un pregiudizio reale, e non meramente potenziale, per il diritto azionato), ed attuale, nel senso che dovrà esistere al momento della pronuncia
del Giudice. Parimenti va considerata la legittimazione ad agire e a contraddire (art. 81 c.p.c.), che
consiste nell’identità tra la persona dell’attore e quella cui la legge conferisce nel caso concreto il potere di agire per quel determinato fine cui tende la domanda proposta, nonché l’identità della persona del convenuto con quella nei cui confronti tale potere di agire è attribuito.
E, ancora, l’esistenza del diritto, la necessità che la fattispecie dedotta in giudizio si trovi oggettivamente a coincidere con una fattispecie prevista e tutelata da una disposizione normativa.
L’art. 191 c.c. prevede le cause di scioglimento della comunione e, tra essi, la separazione personale
(giudiziale o consensuale).
Giurisprudenza costante di questa Corte afferma che lo scioglimento si perfeziona con il passaggio
in giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l’omologa di quella consensuale) (per tutte,
Cass. n. 8643 del 1992; n. 2944 del 2001). Nel passaggio in giudicato (o nell’omologa) si individua
dunque il momento in cui sorge l’interesse ad agire, concreto ed attuale, volto allo scioglimento della comunione e alla divisione, ma esso può anche riguardarsi come il fatto costitutivo del diritto ad
ottenere tale scioglimento e la conseguente divisione.
Per quanto si è osservato, tali elementi non possono che qualificarsi come condizioni dell’azione, e
non già come presupposti processuali. In particolare il passaggio in giudicato (o l’omologa), come elemento decisivo della vicenda costitutiva del diritto allo scioglimento della comunione legale, comporta che tale vicenda debba ritenersi compiutamente realizzata, con la conseguenza che l’eventuale
carenza o incompletezza originaria diviene irrilevante, perché sostituita dalla realizzazione compiuta del fatto costitutivo del diritto azionato, e non può precludere la pronuncia di merito: ciò che
sempre accade ove, nelle more del giudizio, si realizzi uno dei requisiti, prima carente o inesistente,
previsto dalla legge per l’accoglimento di una domanda giudiziale. Del resto la regola per cui la sopravvenienza in corso di causa di un fatto costitutivo del diritto rimuove ogni ostacolo alla decisione del merito della domanda, e il più generale principio circa la necessità di esistenza delle condizioni di accoglimento della domanda al momento della decisione, appaiono espressione dell’ancor
più generale principio di economia processuale. L’accoglimento del primo motivo è assorbente ed esime dall’analisi degli altri motivi.
Va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, che dovrà procedere allo scioglimento della comunione legale tra i coniugi nonché alle operazioni di divisione, e pure pronuncerà sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P. Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Bologna,
in diversa composizione, che si pronuncerà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità”.
La Corte di Cassazione, in verità, riesamina la questione relativa all’improponibilità della domanda
di scioglimento della comunione prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione
giudiziale o dell’emissione del decreto di omologa di quella consensuale, e lo fa censurando l’attuale individuazione del passaggio in giudicato della separazione quale presupposto processuale
che deve quindi sussistere prima della proposizione della domanda di divisione.
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FOCUS
La Corte, partendo dalla distinzione tra “presupposto processuale” (ovvero condizione di procedibilità dell’azione) e “condizione dell’azione” – che pure dice non aver esplicito riscontro nel codice
di rito, ma viene comunemente individuata da giurisprudenza e dottrina –, esamina sia i presupposti del processo, che devono sussistere prima della proposizione della domanda e che individua
fondamentalmente nella giurisdizione, la competenza e la legittimazione processuale, sia le condizioni dell’azione, cioè i requisiti di fondatezza della domanda, la cui mancanza non esclude all’origine l’esistenza del processo, ma, semmai, impedisce una pronuncia favorevole all’attore stesso,
per cui è sufficiente che le condizioni dell’azione siano presenti al momento della pronuncia e non
anche al momento della domanda.
Nella sentenza in esame la Corte evidenzia come l’indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità, nel sostenere che lo scioglimento della comunione legale si perfeziona con il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione giudiziale o l’omologa di quella consensuale, individui nel
passaggio in giudicato il momento in cui sorge l’interesse ad agire, concreto e attuale.
Tuttavia, sostiene la Corte, il passaggio in giudicato della pronuncia di separazione personale può
essere anche considerato come il fatto costitutivo del diritto a ottenere lo scioglimento e la conseguente divisione, che qualifica come condizione dell’azione e non presupposto processuale, così
che, se il passaggio in giudicato (o l’omologa), quale elemento decisivo della vicenda costitutiva
del diritto allo scioglimento della comunione legale, interviene nelle more del giudizio di scioglimento della comunione legale, l’eventuale carenza o incompletezza originaria della domanda giudiziale sarà sanata.
Il principio può evidentemente essere applicato anche alla “sentenza non definitiva” sullo “status”
nel corso del procedimento di separazione, così da consentire al giudice di decidere in merito alla divisione dei beni comuni, al passaggio in giudicato della sentenza parziale.
Anche la Corte, nella pronuncia in esame, sembra suggerire questo percorso laddove afferma che:
“... del resto la regola per cui la sopravvenienza in corso di causa di un fatto costitutivo del diritto rimuove ogni ostacolo alla decisione del merito della domanda, e il più generale principio circa la necessità di esistenza delle condizioni di accoglimento della domanda al momento della decisione, appaiono espressione dell’ancor più generale principio di economia processuale”.
Sul nuovo orientamento espresso dalla Cassazione nella sentenza n. 4757/2010 le posizioni della
dottrina sono state discordanti. Alcuni autori1 si sono limitati a un esame della sentenza, richiamando la giurisprudenza e la dottrina intervenute sull’argomento fino a oggi, mentre altra autorevole
dottrina2 ha espresso una posizione di deciso dissenso, rilevando che “non può instaurarsi un giudizio di divisione prima del passaggio in giudicato della sentenza per la separazione ovvero dell’omologa”, osservando che “fino allo scioglimento della comunione continuerebbe a operare il relativo
regime con conseguente possibile aumento del patrimonio comune”.
Tuttavia sembra non potersi ancora affermare la possibilità di svolgere la domanda di scioglimento della comunione legale nell’ambito del procedimento di separazione personale, stante il permanere della diversità del rito dei due procedimenti.
Sarebbe certo auspicabile poter riunire tutta la “vicenda separativa” davanti a un unico giudice e
in un unico procedimento, che consentirebbe un iter processuale spedito ed efficace sul piano probatorio e complessivamente più economico per le parti, che potrebbero così essere anche stimolate a ricercare accordi, nella prospettiva che, comunque, le operazioni della divisione non dovranno essere affidate a un secondo processo.
1
Vedi Giurisprudenza Italiana, 4, 2011; Famiglia e Diritto, 12, 2010, con nota di Ferrari; Il Corriere Giuridico, 4, 2010, 448,
con nota di Carbone.
2 Finocchiaro, Qualche considerazione sulla domanda di scioglimento della comunione, in Giust. Civ., 5, 2010, 1082.
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LA DIVISIONE DELL’IMMOBILE IN COMUNIONE ASSEGNATO QUALE CASA FAMILIARE
IN SEDE DI SEPARAZIONE O DIVORZIO
Milena Pini
Avvocato del Foro di Milano
1. La rilevanza del provvedimento di assegnazione della casa coniugale ai fini dell’ammissibilità dell’azione
di divisione dell’immobile in comunione legale
L’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini
in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine di evitare loro l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza e di assicurare una certezza e una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio familiare1.
Questi princìpi sono espressione di un orientamento giurisprudenziale consolidato che si era manifestato ancor prima dell’entrata in vigore della legge 54/2006 e dell’applicazione della regola generale dell’affidamento condiviso, nei procedimenti di separazione e divorzio.
Già la Corte Costituzionale, con sentenza 27 luglio 1989, n. 454, aveva affermato, richiamandosi alla
legislazione all’epoca vigente, che “La ratio seguita dal legislatore è dichiarata nel comma primo dell’art. 155: ‘Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e
adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa’. È dunque ‘l’esclusivo interesse morale e materiale della prole’ a determinare la spettanza
dell’abitazione al coniuge cui la prole è affidata. Il termine ‘abitazione’ è qui assunto come voce sostantiva del transitivo verbale ‘abitare’ con oggetto la ‘casa familiare’, vale a dire quel complesso di beni
funzionalmente attrezzato per assicurare la esistenza domestica della comunità familiare. Il giudice
della separazione, assegnando l’abitazione nella casa familiare al genitore affidatario della prole, secondo la ratio legis, non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi quanto
conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare. Il titolo ad abitare per il coniuge è infatti strumentale alla conservazione della comunità domestica e giustificato esclusivamente dall’interesse morale e materiale della prole affidatagli”.
La Corte di Cassazione ha confermato lo stesso orientamento nel dare applicazione all’art. 155 quater della legge 8 febbraio 2006, n. 54, sebbene faccia riferimento per l’assegnazione della casa
all’“interesse dei figli” in genere, e non più al criterio dell’affidamento, stante la regola generale dell’affidamento condiviso2.
1
Cass. 6 novembre 2006, n. 23674; orientamento da ultimo confermato da: Cass. 20 aprile 2011, n. 9079; Cass. 27 febbraio
2009, n. 4816; Cass. 18 febbraio 2008, n. 3934; Cass. 24 luglio 2007, n. 16398.
2 Cass. 18 febbraio 2008, n. 3934; Cass. 24 luglio 2007, n. 16398; Cass. 22 marzo 2007, n. 6979 e, in materia di divorzio, Cass.
14 maggio 2007, n. 10994; v. anche Corte Cost. 30 luglio 2008, n. 308, che ha affermato che il concetto di mantenimento “comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, tra le quali assume profonda rilevanza quella relativa alla predisposizione e conservazione dell’ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, interessi e consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità della prole. Sotto tale profilo, l’obbligo di mantenimento si sostanzia, quindi, nell’assicurare ai figli l’idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica degli stessi”.
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FOCUS
La giurisprudenza di legittimità è ormai unanime anche nell’affermare che “il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi, all’esito del procedimento di separazione personale non è idoneo a costituire un diritto reale di uso o di abitazione a favore dell’assegnatario”3,
e conseguentemente la Suprema Corte ha ribadito che l’assegnazione della casa familiare in sede
di separazione personale dei coniugi o di divorzio non dispiega “alcun riflesso sulla proprietà del
bene”, tanto più che essa non è idonea “a costituire un diritto reale di uso o di abitazione a favore
dell’assegnatario, ma solo un diritto di natura personale”4.
Sul presupposto della natura di diritto personale di godimento nascente dal provvedimento di assegnazione della casa coniugale, e della garanzia dell’opponibilità al terzo acquirente del provvedimento di assegnazione della casa coniugale, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, ha
da tempo espresso un orientamento favorevole all’ammissibilità della domanda di divisione dell’immobile in comunione, già costituente casa coniugale e assegnato in sede di separazione o divorzio al coniuge collocatario del figlio minorenne o maggiorenne non autonomo5.
In una nota sentenza del Tribunale di Bologna6, che all’inizio degli anni Novanta contribuì a modificare il precedente orientamento che negava la divisibilità del bene sostenendo che il provvedimento di assegnazione della casa coniugale all’uno o all’altro coniuge nell’ambito del procedimento di separazione o di divorzio attribuirebbe all’immobile una sorta di destinazione d’uso tale da escludere la possibilità di una divisione ai sensi dell’art. 1112 c.c., si afferma che “il giudice della separazione, assegnando l’abitazione della casa familiare al genitore affidatario della
prole, secondo la ratio legis non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi, quanto conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare, e tale provvedimento non ha rilevanza sulla determinazione della titolarità dell’immobile”.
Tra le pronunce dei giudici di merito che seguono tale indirizzo si richiama la sentenza del 12 ottobre 2001 del Tribunale di Torino7, secondo cui “l’assegnazione della casa coniugale ad uno dei
coniugi a seguito della pronuncia di separazione personale tra gli stessi non impedisce all’altro
coniuge di chiedere successivamente la divisione giudiziale del bene”, e la recente sentenza emessa il 22 marzo 2010 dal Tribunale di Rovigo che, sulla legittimità della domanda di scioglimento
della comunione relativamente all’immobile assegnato in sede di separazione personale a un coniuge, quale genitore affidatario della figlia minore, sostiene che “deve ritenersi, in linea con il
consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che il diritto di abitazione, considerato quale diritto personale di godimento atipico, pur rilevando rispetto ai terzi ed agli stessi opponibile,
non limita l’alienabilità del bene medesimo. Ne consegue pertanto che ciascuno dei coniugi può
chiedere a tal fine lo scioglimento della comunione prescindendo dal diritto di abitazione ivi esistente”8.
3
Corte Cost. 27 luglio 1989, n. 454; Cass., Sez. tributaria, 16 marzo 2007, n. 619; Cass. 3 marzo 2006, n. 4719; Cass. 8 aprile
2003, n. 5455; Cass. 18 agosto 1997, n. 7860.
4 Cass. 28 settembre 2005, n. 18883, che in questo caso ha confermato la decisione di merito che aveva assegnato in proprietà l’immobile al marito, con obbligo di corrispondere alla moglie la metà del valore del bene, pur in presenza di un provvedimento di assegnazione, da parte del giudice della separazione, del godimento della casa alla moglie.
5 In dottrina, favorevoli all’ammissibilità della divisione della casa familiare gravata dal diritto di godimento assegnato in sede
di giudizio della crisi coniugale, Cubeddu, Provvedimento di assegnazione della casa familiare e divisione del bene, in Fam. Pers.
Succ., 2005, 237 ss.; Saccomani, È possibile dividere la casa familiare affidata a uno dei due coniugi?, nota a Tribunale di Milano 17 gennaio 2003, n. 1888, in Immobili&Diritto, giugno 2005, 60 ss.; Neri, Del rapporto tra giudizio di divisione dei beni in comunione legale tra i coniugi, lo scioglimento della comunione stessa e il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare, nota a Tribunale di Roma 4 luglio 2000 e Tribunale di Roma 29 maggio 2000, in GC, 2001, 826 ss.
6 Tribunale di Bologna 21 gennaio 1993, in NGCC, 1994, I, 700, con nota di Tafuro.
7
www.giurisprudenza.piemonte.it/civile/famiglia/000512102001.htm
8
Tribunale di Rovigo 22 marzo 2010, n. 143; Tribunale di Bari 22 settembre 2008, n. 2117; Cass. 17 settembre 2001, n. 11630,
in www.lex24.ilsole24ore.com/LEX24/
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2. Le conseguenze della divisione dell’immobile assegnato quale casa familiare sul diritto personale di godimento del coniuge assegnatario
Per quanto riguarda le conseguenze della divisione della casa familiare assegnata a un coniuge in
quanto collocatario dei figli minori o presso il quale continuino a vivere i figli maggiorenni non
autonomi economicamente, la giurisprudenza ha precisato che la divisione è inerente alla proprietà dei beni tra i coniugi e non comporta né modifica né revoca dei provvedimenti relativi all’assegnazione in godimento della casa familiare effettuati nell’interesse dei figli9.
Così il Tribunale di Milano, nel ritenere “pienamente ammissibile la domanda di divisione dei beni
in comunione legale o ordinaria tra i coniugi anche in presenza di un provvedimento giudiziale di
assegnazione della casa familiare a uno di essi”, ha precisato che “il giudizio di divisione è diretto
a trasformare il diritto pro quota sull’intero in un diritto di proprietà esclusiva su una porzione determinata e concreta della cosa, ovvero su una somma di denaro che ne ripeta il valore senza alterare in alcun modo la destinazione impressa alla casa familiare ed il diritto di abitazione del coniuge assegnatario”10.
3. La rilevanza dell’opponibilità ai terzi del provvedimento di assegnazione della casa, in relazione alla vendita a un terzo nel giudizio di divisione dell’immobile in comunione
Ormai superata è anche la tesi che si opponeva all’ammissibilità della domanda di divisione sostenendo che l’eventuale vendita a un terzo, in sede di divisione giudiziale, dell’immobile in comunione assegnato quale casa familiare avrebbe comportato la privazione del godimento diretto dell’immobile alienato e, quindi, la vanificazione del vincolo di destinazione della “casa familiare”.
La giurisprudenza di legittimità è infatti costante nel ritenere che l’assegnazione della casa familiare disposta in favore dell’altro coniuge in occasione della separazione, sia giudiziale che consensuale, come pure in sede di divorzio, è opponibile, ancorché non trascritta, al terzo acquirente in
data successiva, per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero anche oltre i nove anni qualora il titolo sia stato in precedenza trascritto.
Ne consegue che il terzo acquirente è tenuto, negli stessi limiti di durata di tale opponibilità, a rispettare il godimento del coniuge del suo dante causa, nell’identico contenuto e nell’identico regime giuridico propri dell’assegnazione, alla stregua di un vincolo di destinazione collegato all’interesse dei figli11.
4. La dilazione dello scioglimento della comunione
Secondo l’art. 1111 c.c. può essere concessa una dilazione alla divisione, richiesta in sede giudiziale da uno dei comunisti, se l’immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri. La
dilazione non può comunque essere superiore a cinque anni.
La giurisprudenza tende tuttavia a limitare l’applicabilità di tale norma, in quanto sottolinea che la contrapposizione tra l’interesse del singolo e quello degli altri comunisti implica una qualificazione collettiva dell’interesse di costoro, e l’irrilevanza, pertanto, di qualsiasi interesse a carattere personale.
9 Tribunale di Monza 3 marzo 2008, in Guida al diritto, 2008, n. 38, 85; Tribunale di Milano 17 gennaio 2003 cit., osserva che
“il diritto di abitazione nella casa coniugale non subisce pregiudizi dalla divisione dei beni in comunione tra i coniugi, in qualunque modo essa venga concretamente realizzata”.
10 Tribunale di Milano sentenza 17 gennaio 2003, n. 1888.
11 Cass. 22 novembre 2007, n. 24321; Cass. 3 marzo 2006, n. 4719; Cass. 10 giugno 2005, n. 12296; Cass., Sez. un., 26 luglio
2002, n. 11096; Cass. 29 agosto 2003, n. 12705.
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FOCUS
Il pregiudizio che giustifica la dilazione della divisione, in altri termini, non può coincidere con la
lesione all’interesse, prettamente individuale, di uno di essi a conservare una posizione di vantaggio, ma deve riferirsi a tutta la collettività, in modo che la dilazione risponda a un interesse obiettivo della comunione. Ne consegue che, in relazione alla domanda di divisione attinente un immobile rimasto nella disponibilità di un coniuge, è stata esclusa la riconducibilità alla tutela di un interesse collettivo, della dilazione richiesta dal coniuge assegnatario12.
Si è anche sostenuto che, poiché la divisione dei beni in comunione può essere ottenuta da un coniuge anche in presenza di un provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare all’altro coniuge, la domanda volta a ottenere dal giudice una congrua dilazione dello scioglimento della comunione sulla casa familiare, ai sensi dell’art. 1111 c.c., non può essere accolta, se fondata su
esigenze di tutela del diritto di godimento13.
In effetti la dilazione dello scioglimento della comunione attiene la sfera della proprietà, e la tutela del coniuge assegnatario della casa non viene meno con la divisione del bene oggetto di comunione, stante l’opponibilità dell’assegnazione al terzo, quanto meno nel limite dei nove anni.
5. Il procedimento di divisione
L’azione giudiziale per la divisione dei beni in comunione si propone nelle forme del rito ordinario, integrate dalle disposizioni di cui agli articoli da 784 a 791 c.p.c.
La divisione si effettua secondo i criteri indicati dagli artt. 192 e 194 c.c., e alla materia si applica
inoltre la disciplina della divisione dell’eredità, stante l’esplicito rinvio operato dall’art. 1116 c.c.,
che recita “alla divisione delle cose comuni si applicano le norme sulla divisione dell’eredità”, in
quanto non siano in contrasto con quelle comprese tra gli artt. 1101 e 1115 c.c.
Le disposizioni così individuate sono quelle di cui agli artt. 713 ss. c.c. In particolare, gli artt. 718,
726-730 c.c. permettono di procedere alla divisione in natura che si attua attribuendo ai coniugi
singoli cespiti di pari valore economico, di cui è stata effettuata la stima, mediante formazione, secondo quanto previsto dall’art. 727 c.c., di due lotti distinti che dovranno comprendere, per quanto possibile, beni mobili, immobili e crediti di uguale natura e qualità.
Autorevole dottrina distingue le operazioni della divisione nelle seguenti fasi14:
a) accertamento del diritto a ottenere la divisione, se sul punto vi è controversia;
b) identificazione dei beni e dei diritti di credito facenti parte della comunione immediata e dei
rapporti dare-avere in base alle regole in tema di comunione de residuo, eventualmente dopo
il prelevamento dei beni personali e l’accertamento del quantum a titolo di rimborsi e/o restituzioni;
c) stima dei beni e formazione di un progetto di divisione, se possibile in natura, predisposto dal
giudice, o tramite un consulente tecnico, ovvero dal notaio, che viene presentato alle parti;
d) nel caso di impossibilità di riparto in natura del bene indivisibile, attribuzione per intero al condividente che ne faccia richiesta;
e) in caso di indivisibilità in natura e in mancanza di attribuzione, vendita dei beni all’incanto;
f) calcolo, nei casi sub c) e d), degli eventuali conguagli e ripartizione, nel caso sub e), del ricavato della vendita.
12 Tribunale di Padova, sentenza 22 marzo 2011, n. 559; Tribunale di Genova, sentenza 22 febbraio 2011, n. 833.
13 In tal senso: Tribunale di Milano 17 gennaio 2003 cit.
14 Così Oberto, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei beni, relazione tenuta all’incontro di studio tenutosi al
CSM sul tema “La comunione legale tra i coniugi”, Roma, 23-24 aprile 2009.
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6. La stima dell’immobile assegnato in godimento al coniuge
La stima del bene (art. 726 c.c.) deve essere effettuata con riguardo al valore attuale dei beni, determinato al momento della divisione15.
Nel caso di immobile assegnato a un coniuge ci si chiede se, ai fini della determinazione del valore del bene, debba o meno essere quantificato tale diritto personale di godimento, analogamente al diritto di abitazione.
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza il diritto personale di godimento non ha
alcuna rilevanza e non può essere preso in considerazione al fine di determinare il valore di mercato dell’immobile da dividere16.
In effetti il diritto personale di godimento è riconosciuto dalla legge in quanto corrisponde all’esclusivo interesse dei figli e non all’interesse del coniuge collocatario17, e il provvedimento di assegnazione della casa ha un limite temporale, coincidente con il raggiungimento dell’autonomia economica dei figli maggiorenni, se ancora conviventi.
Venuto meno il diritto all’assegnazione, l’immobile riacquisterebbe comunque un pieno valore di
mercato.
7. L’assegnazione del bene in natura a favore dell’assegnatario della casa
Ai sensi dell’art. 720 c.c. in caso di indivisibilità o non comoda divisibilità del bene comune, l’ipotesi della vendita costituisce l’extrema ratio, dovendosi preferire l’assegnazione in natura ai condividenti che ne facciano richiesta, dietro versamento del corrispettivo in denaro ai quotisti non assegnatari, con preferenza per il condividente avente diritto alla quota maggiore ma senza alcuna
preclusione derivante dall’uguaglianza delle quote18.
Nel caso di divisione dell’immobile assegnato in godimento a un coniuge, collocatario dei figli, occorrerà dunque distinguere le seguenti ipotesi:
a) se uno solo dei coniugi chiede l’attribuzione dell’immobile per l’intero, l’assegnazione dovrà essere disposta a favore di questi, che dovrà versare all’altro coniuge un importo pari alla sua quota, determinata sul valore intero del bene, non decurtato a causa dell’incidenza del peso imposto dall’assegnazione a favore di un coniuge19;
b) se entrambi i coniugi chiedono in loro favore l’assegnazione di un immobile in comunione legale,
non potrà essere applicato il disposto dell’art. 720 c.c., non potendosi in tal caso individuare un comproprietario titolare di una quota maggiore rispetto all’altro; ne consegue, secondo autorevole dottrina, che l’immobile dovrà essere venduto all’incanto, con ripartizione del ricavato tra i coniugi, senza
possibilità di intervento d’ufficio del giudice al quale non viene riconosciuto un potere discrezionale a dirimere un tale conflitto20; non mancano tuttavia posizioni contrarie in giurisprudenza21;
15 Cass. 6 febbraio 2009, n. 3029; Cass. 26 marzo 2008, n. 7833; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3635; Cass. 31 maggio 2006, n. 13009;
Cass. 21 maggio 2003, n. 7961.
16 Cass. 17 settembre 2001, n. 11630 cit.; Tribunale di Padova 6 giugno 2003; Tribunale di Bologna 21 gennaio 1993.
17 Cass. 17 settembre 2001, n. 11630 cit.
18 Tribunale di Roma 4 novembre 2010, n. 2176; Cass. 10 aprile 1990, n. 2990.
19 App. Palermo 12 gennaio 2009; Cass. 22 gennaio 2008, n. 12119; Finocchiaro, Divisione della “casa familiare” assegnata in sede di divorzio al coniuge affidatario dei figli minori e (pretesa) inidoneità del provvedimento di assegnazione a incidere sul valore
commerciale dell’immobile, nota a Cass. 17 settembre 2001, n. 11630, in GC, 2002, I, 60; Cass. 9 febbraio 2000, n. 1423, in FD,
2000, 458, con nota di Figone, Sulla divisione dei beni coniugali non facilmente divisibili; Tribunale di Bologna, 21 gennaio 1993.
20 Così Oberto, Lo scioglimento della comunione legale cit.
21 Tribunale di Trani 10 ottobre 2008, in DirittoeGiustizia, novembre 2008, ha sostenuto che il giudice non è vincolato nella
scelta di cui all’art. 720 c.c. al criterio del “maggior quotista”, potendo decidere di valorizzare altri elementi di opportunità, quali ad esempio “l’occupazione del bene”, con ciò dichiarandosi favorevole all’attribuzione dell’immobile per l’intero al coniuge al
quale era stato assegnato in godimento lo stesso immobile ai sensi dell’art. 155 quater c.c.; vedi risalenti nel tempo: Cass. 5271/77,
46
FOCUS
c) se nessuno dei coniugi chiede l’assegnazione per l’intero del bene con i necessari conguagli, si
applicherà l’art. 720 c.c. che prevede la vendita del bene all’incanto.
IL CASO (da Cass. 28 settembre 2005, n. 18883)
Con atto di citazione notificato il ... il signor X conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma
la propria moglie e, premesso che lo stesso Tribunale con sentenza del ... aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi, chiedeva dichiararsi lo scioglimento della comunione relativamente all’immobile sito in ..., oggetto di comproprietà in parti uguali, con conseguente assegnazione
in natura a ciascuno dei comunisti della quota di relativa spettanza.
Si costituiva in giudizio la convenuta chiedendo il rigetto della domanda; in via subordinata chiedeva accertarsi la indivisibilità del bene.
Con sentenza del ... l’adito Tribunale dichiarava sciolta la comunione assegnando l’immobile per
l’intero al signor X, che condannava a corrispondere alla moglie la somma di ... quale valore della quota di sua spettanza.
A seguito di impugnazione da parte della moglie, cui resisteva il signor X, che proponeva appello
incidentale, la Corte d’Appello di Roma con sentenza del ... rigettava entrambi gli appelli e compensava interamente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.
La Corte d’Appello, in particolare, riteneva infondata la censura dell’appellante principale secondo
cui il giudice di primo grado, nell’attribuire il suddetto immobile al signor X aveva trascurato la circostanza che la moglie era già assegnataria di tale immobile, costituente la casa coniugale, in virtù della sentenza del Tribunale di Roma che aveva pronunciato la separazione personale dei coniugi; invero il giudizio di separazione personale dei coniugi aveva un oggetto autonomo e diverso da quello presente relativo allo scioglimento della comunione, cosicché ogni questione relativa
all’assegnazione dell’alloggio quale casa coniugale avrebbe dovuto essere proposta con l’impugnazione della sentenza del Tribunale di Roma del ... che aveva dichiarato cessati gli effetti civili del
matrimonio celebrato tra le parti. Il Giudice di Appello poi rilevava la tardività della domanda di
assegnazione ex art. 720 c.c. formulata dalla moglie solo nella comparsa conclusionale, tardività
correttamente rilevata d’ufficio dal giudice di primo grado, attesa la natura perentoria dei termini
cui sono soggette le domande e le eccezioni.
La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso, ha ritenuto corretta l’impostazione data dalla Corte d’Appello di Roma, che aveva evidenziato la diversità e l’autonomia del giudizio di separazione
personale tra coniugi rispetto al procedimento di divisione del bene immobile facente parte della
comunione legale, e ha affermato che:
“l’assegnazione della casa familiare da parte del Giudice della separazione personale dei coniugi o
del giudice del divorzio si pone come provvedimento accessorio alla pronuncia di separazione personale o a quella di scioglimento del vincolo matrimoniale, tendendo a regolare i rapporti tra le parti
con riferimento alla utilizzazione dell’immobile dove essi avevano vissuto in regime di convivenza
ed esaurendo quindi i suoi effetti in tale contesto, senza alcun riflesso sulla proprietà del bene; giova a tale ultimo proposito osservare che invero il provvedimento di assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi all’esito del procedimento di separazione personale non è idoneo a costituire
un diritto reale di uso o di abitazione a favore dell’assegnatario, ma solo un diritto di natura personale (Cass. 22.11.1993, n. 11508; Cass. 18.8.1997, n. 7680).
[...] lo scioglimento della comunione è regolato esclusivamente dalle norme dettate dal Codice Civile
in materia di divisione, senza quindi che in proposito possa avere alcuna incidenza un pregresso
provvedimento di assegnazione della casa familiare all’una o all’altra delle parti”.
6035/80, 3014/81, secondo cui l’art. 720 c.c. attribuisce al giudice un potere discrezionale in ordine alla scelta del condividente
cui assegnare il bene indivisibile, consentendogli perciò di porre a fondamento di tale scelta ogni ragione di convenienza e opportunità che gli sia suggerita dal caso concreto.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
IL REGIME PATRIMONIALE DEI CONIUGI IN EUROPA. VERSO UN REGOLAMENTO
EUROPEO
Marina Blasi
Avvocato del Foro di Roma
1. Il regime patrimoniale dei coniugi negli ordinamenti europei
Gli ordinamenti europei presentano una varietà di discipline del regime patrimoniale dei coniugi,
frutto di culture e tradizioni profondamente diverse, dovute all’interferenza del diritto di famiglia
con la morale e con la gerarchia delle priorità dei bisogni da soddisfare e dei beni che incorporano
le aspettative individuali1.
Occorre innanzitutto distinguere i sistemi legali da quelli opzionali. Un regime legale indica la disciplina dei rapporti patrimoniali dettata direttamente dalla legge: esso non è mai inderogabile, dal
momento che i coniugi possono sostituirlo con un altro, oppure modificarlo entro certi limiti2. In
Francia e in Germania è presente uno schema disciplinato dalla legge, rispettivamente la comunione dei beni e la Zugewinngemeinschaft, ma tali regimi legali coesistono con altre forme di comunione, nonché con la separazione. Tutti i sistemi riconoscono in merito al regime patrimoniale l’autonomia ai coniugi, pertanto occorre individuarne i limiti con particolare riguardo alla protezione
della parte più debole, intendendosi con essa il coniuge e i minori.
La classificazione più diffusa nella letteratura comparatistica distingue gli ordinamenti in comunitari
e separatisti, in base alla previsione del regime legale della comunione dei beni o della separazione.
Deve precisarsi che le peculiarità con cui ciascun sistema ha declinato i suddetti regimi impediscono all’interprete una rigida classificazione. A ciò deve aggiungersi che le riforme del diritto di famiglia in Europa degli ultimi anni hanno determinato movimenti di convergenza e avvicinamento
dei modelli, tanto da risultare reciprocamente contaminati e compenetrati. Tale avvicinamento è
stato determinato dall’affermazione del principio dell’autonomia negoziale, del riconoscimento della piena capacità della donna e della parità dei sessi. La penetrazione delle idee comunitarie nei
regimi separatisti, frutto del movimento di affermazione dell’uguaglianza dei coniugi, realizzato
spesso per via strettamente giurisprudenziale, investe la determinazione del patrimonio destinato a
essere diviso e l’amministrazione dello stesso. La penetrazione delle idee separatiste nella comunione, frutto del movimento di potenziamento dell’autonomia privata, ha investito l’amministrazione separata del patrimonio comune e la definizione dei beni esclusi dal medesimo.
1
Per una panoramica dei regimi patrimoniali in Europa e sulle loro linee di convergenza si può far riferimento a Oberto, La
comunione legale tra coniugi, Milano, 2010, 172 ss. e 1638 ss; Fusaro, Sistemi di comunione dei beni e sistemi di separazione, in
Riv. dir. civ., II, 2001, 99 ss; Id., I rapporti patrimoniali tra coniugi in prospettiva comparatistica, in Lezioni di diritto privato Europeo, a cura di Alpa, Campilli, Padova, 2007, 57 ss.; Patti, I regimi patrimoniali tra legge e contratto, in Patti, Cubeddu, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, 196 ss; Fantetti, Il regime patrimoniale europeo della famiglia, in Fam.
Pers. Succ., 2, 2011, 140 ss.
2 Cfr. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2, 2002, 285 ss.
48
EUROPA
1.1 I regimi patrimoniali separatisti
Nel novero dei sistemi, per i quali il regime legale è quello della separazione, rientrano gli ordinamenti dei paesi di Common Law, tra cui si individuano l’Inghilterra, il Galles, l’Irlanda del Nord, la
Scozia e la Repubblica d’Irlanda. Accanto a questi si suole indicare anche l’Austria, la Grecia e il
Portogallo, sebbene per quest’ultimo solo qualora il matrimonio sia stato celebrato da chi abbia oltre sessant’anni o non abbia rispettato il disposto in tema di pubblicazioni3. In Inghilterra si determina una comunione “in equità”, costruita, indipendentemente dal titolo, provando il contributo di
entrambi i coniugi all’acquisto, il prelievo da un fondo comune, il contributo monetario o economicamente apprezzabile di un coniuge al patrimonio dell’altro. Tali sistemi prevedono, tuttavia, l’attribuzione al giudice di ampi poteri in caso di crisi coniugale. Il regime di separazione garantisce
pienamente solo l’uguaglianza formale tra i coniugi, a ognuno dei quali spetta la titolarità esclusiva
dei suoi beni. Le regole della law of property si riflettono in un modello di amministrazione semplice, in cui a ciascuno dei coniugi è lasciata durante il matrimonio piena autonomia nella gestione
del proprio patrimonio e nell’esercizio delle attività produttive, privilegiando la libertà di azione del
singolo rispetto alle finalità protettive e solidaristiche proprie dei regimi comunitari. La separazione
dei patrimoni negli ordinamenti di matrice anglosassone trova però il suo contemperamento negli
amplissimi poteri concessi al giudice in caso di crisi coniugale, che in tale sede può procedere a
riequilibrare le posizioni anche disponendo trasferimenti. A tal proposito si consideri la decisione
con cui la Court of Appeal britannica nel 2009, nel leading case Radmacher vs Granatino ha stabilito:
“Whilst the civil law jurisdictions of Europe generally employ notarised marital property regime to regulate both the property consequences of marriage and divorce, the common law jurisdictions attach
no property consequences to marriage and rely on a very wide judicial discretion to fix the property
consequences of divorce”4.
In Grecia gli artt. 1400-1402 del codice civile stabiliscono una forma di partecipazione agli utili in
caso di divorzio, di separazione ultratriennale o di annullamento del matrimonio. Questo diritto si
fonda sulla presunzione, salvo prova contraria, di un contributo fornito dall’ex coniuge richiedente
nella misura di un terzo dell’incremento patrimoniale della controparte, escluse donazioni ed eredità ricevute. L’azione va proposta in un termine di prescrizione di due anni dallo scioglimento o
dall’annullamento del matrimonio5.
In Austria, in caso di divorzio, sono divisi equitativamente i beni che durante la vita coniugale erano
destinati alle esigenze familiari, tra cui in particolare la casa familiare, e i risparmi accumulati durante la vita familiare6. Sono esclusi dalla divisione i beni di cui le parti erano titolari prima della
celebrazione delle nozze, quelli ricevuti per donazione o successione e quelli relativi all’attività professionale o imprenditoriale dell’uno o dell’altro. In caso di disaccordo tra i coniugi in sede di divisione, il giudice invocato è dotato di un notevole potere, operando secondo equità la composizione dei seguenti criteri ex § 83, comma primo, della citata legge: contributo fornito nella creazione
del patrimonio, interesse della prole, cooperazione nell’attività del coniuge, mantenimento ed educazione dei figli7.
3
Oberto, La comunione legale cit., 174.
4
Radmacher vs Granatino [2009] EWCA Civ 649, consultabile all’indirizzo www.familylawweek.co.uk/site.aspx?i=ed36874
5
Cfr. Dacoronia, The Greek Family Law and the Principle of the Equalit of the Two Sexes, in AA.VV., The Marriage, Milano, 1998,
234 ss.
6 Cfr. § 81 della legge sul matrimonio.
7 Cfr. Oberto, La comunione legale cit., 175; Fantetti, Il regime patrimoniale cit., 141.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
1.2 La comunione universale
Il regime legale della comunione universale8 è previsto nell’ordinamento dei Paesi Bassi, nel quale
il codice civile agli artt. 1:93 ss. disciplina una comunione legale composta da tutti i beni presenti
e futuri dei coniugi, salvo quelli donati o legati all’uno o all’altro sotto l’espressa condizione che rimangano personali, e salvo i beni strettamente personali. In essa ricadono anche i debiti contratti
dai coniugi sia prima che dopo le nozze, rimanendo escluse le pensioni.
L’amministrazione dei beni compete di regola al solo coniuge che ha conferito gli stessi in comunione, mentre il diritto d’uso e godimento sugli stessi è attribuito a entrambi. Per gli atti dispositivi
dei beni soggetti a registrazione è richiesta l’azione congiunta cosicché, in caso di alienazione compiuta dal coniuge non amministratore o di violazione della regola dell’agire congiunto, l’atto può
essere annullato su istanza dell’interessato entro un anno da che ha avuto conoscenza dell’atto e
sempre a condizione che il terzo sia in mala fede. Queste regole possono peraltro essere liberamente modificate per contratto di matrimonio, in forza del quale si può altresì aderire ad altri modelli legali, quali la comunione dei profitti e dei redditi (artt. 1:123 ss. del codice civile) o quella
dei guadagni e delle perdite (art. 1:127 del codice civile)9.
1.3 La comunione degli acquisti
La comunione degli acquisti costituisce il regime legale degli ordinamenti di matrice romanistica
quali il Belgio, la Francia, l’Italia, il Lussemburgo, il Portogallo, la Spagna, nonché di alcuni ordinamenti dell’Europa centrale orientale, tra cui i Paesi Baltici, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Repubblica Slovacca, l’Ungheria, i Paesi nati dall’ex Jugoslavia, la Romania, la Bulgaria e la Federazione Russa.
Pur ravvisandosi rilevanti divergenze tra i modelli adottati dai suddetti Stati, si può affermare che
tale regime riconosce la contitolarità dei soli diritti acquistati, a qualunque titolo, dopo il matrimonio, dei redditi e proventi da attività dei coniugi e dei frutti dei beni personali e comuni percepiti
nel medesimo periodo. I coniugi restano invece proprietari esclusivi dei beni di cui erano titolari
al momento della celebrazione del matrimonio e di altri cespiti, pervenuti anche in costanza di regime, ricevuti per donazione o successione, di uso strettamente personale, relativi all’esercizio della
professione o surrogati ai precedenti. Rispetto ai debiti, i vari ordinamenti operano una distinzione
tra obbligazioni contratte prima delle nozze, di solito qualificate come personali, e obbligazioni relative alla vita familiare, le quali sono considerate gravanti sui beni comuni. La necessità di contemperare le esigenze di speditezza e sicurezza degli affari con le esigenze di protezione del patrimonio comune si è tradotta nelle discipline adottate per la regolamentazione del patrimonio comune. Questa è ormai ispirata a criteri di parità, con concessione a ogni singolo coniuge del potere
di agire disgiuntamente, tranne che per gli atti di straordinaria amministrazione (cfr. art. 180 c.c. italiano) o per determinati atti dispositivi singolarmente individuati e salva sempre la possibilità di ricorrere al giudice al fine di superare il rifiuto ingiustificato, l’assenza, l’incapacità eccetera. In Francia, ad esempio il legislatore ha riservato, in linea di principio, il potere di amministrazione, ivi
compreso quello di disposizione, a ciascuno dei coniugi, derogando in caso di atti traslativi o costitutivi di diritti reali su determinati beni della comunione, per i quali è richiesto il consenso di entrambi i coniugi. È prevista la responsabilità di ciascun coniuge per cattiva gestione, ma anche la
libera disposizione dei rispettivi redditi una volta soddisfatte le esigenze familiari, e, infine, è contemplato che un coniuge possa essere autorizzato dal giudice a compiere atti di disposizione in sostituzione dell’altro perché incapace o autore di comportamenti fraudolenti10.
8
Cfr. Oberto, La comunione legale cit., 176.
9
Ebben, Marriage and Divorce in Netherlands, in AA.VV., The Marriage cit., 335 ss.
10 Cfr. Oberto, La comunione legale cit., 175 ss.; Fusaro, Sistemi di comunione dei beni cit., 87 ss.
50
EUROPA
1.4 La comunione differita degli incrementi
La comunione differita degli incrementi caratterizza quei particolari regimi che si collocano a metà
strada tra quelli comunitari e quelli separatisti, ravvisandosi elementi di somiglianza con alcuni di
questi ultimi, ossia l’assenza di contitolarità di diritti in costanza di matrimonio, ma anticipando forme di tutela che spetterebbero solo al coniuge contitolare, garantendo così la comunione dei beni
che verrà a formarsi all’atto dello scioglimento del vincolo.
Così, in Svezia, i beni di ciascuno dei coniugi che non formano oggetto di proprietà individuale,
secondo quanto stabilito nella convenzione matrimoniale, o che non sono stati acquistati per donazione o per successione con clausola di personalità o che non derivino dal reimpiego dei beni
personali, rientrano nella proprietà coniugale e vengono divisi in parti uguali al momento dello
scioglimento del matrimonio per morte o divorzio. Al giudice del divorzio è comunque attribuito
il potere di disporre una divisione della comunione differita dei beni, in parti non uguali, qualora
detta divisione dovesse portare a risultati iniqui, combinando così le regole attinenti al regime con
quelle relative al diritto alle prestazioni assistenziali e alimentari postmatrimoniali11.
In Danimarca, ancorché sia definito di “proprietà comune” il regime dei beni acquisiti durante
l’unione, la comunione diviene effettiva solo al momento dello scioglimento del matrimonio, con
la divisione dei relativi beni. Prima di tale evento, ogni coniuge dispone di ampi poteri di gestione
dei beni acquistati durante l’unione. Non è però possibile porre in essere atti dispositivi di determinati cespiti, tra cui la residenza coniugale e i relativi arredi, senza il consenso del coniuge, né
possono compiersi atti che riducono le aspettative del coniuge sui beni della proprietà coniugale,
pena l’obbligo di risarcimento del danno, sino alla possibilità di annullamento dell’atto dispositivo
contro il terzo acquirente12.
1.5 La Zugewinngemeinschaft
La Zugewinngemeinschaft, modellata sulla comunione differita dei paesi nordici, è stata introdotta
in Germania dalla legge 18 giugno 1957 sull’Eguaglianza, con l’intento di rafforzare la posizione
delle donne coniugate. Anche per tale regime la comunione diventa effettiva al momento dello
scioglimento, ma l’oggetto della divisione non è tutto il patrimonio comune, bensì solo l’incremento
realizzato durante la vigenza dei regimi. Pertanto la divisione e distribuzione dell’incremento si traduce in un’operazione aritmetica13.
Il regime durante la sua vigenza funziona come separatista, emergendo il momento comunitario
solo all’atto di scioglimento. Ciò presuppone un’esatta determinazione dei beni che formeranno oggetto dell’Ausgleich finale14 e una precisa articolazione dei rimedi in grado di impedire, da un lato,
trasferimenti o atti in danno dei creditori e, dall’altro, operazioni fraudolente a detrimento del coniuge più debole15. Il patrimonio iniziale, a norma del § 1374, consiste nel valore di tutti i beni o
11 Cfr. Oberto, La comunione legale cit., 183; Fantetti, Il regime patrimoniale cit., 141; Bradley, Marriage, Family Property and
Inheritance in Swedish Law, in The International and Comparative Law Quaterly, 39, II, 1990, 370 ss.
12 Cfr. Oberto, La comunione legale cit., 186; Fantetti, Il regime patrimoniale cit., 141; Lund Andersen, Danish Report concerning
the CEFL Questionnaire on Property Relations Between Spouses, http://www.law.uu.nl/priv/cefl.
13 Cfr. Henrich, Sul futuro del regime patrimoniale in Europa, in Annuario di diritto tedesco, a cura di Patti, Milano, 2002, 29
ss; Henrich, La comunione dei beni e la comunione degli incrementi, in Patti, Cubeddu, Introduzione al diritto cit., 223 ss; Oberto,
La comunione legale cit., 187 ss.; Fusaro, Sistemi di comunione dei beni cit., 77 ss.
14 Sul punto si rinvia a quanto disposto dal § 1379 BGB, che prevede un preciso dovere di informazione sulla consistenza patrimoniale dei coniugi, non solo al momento dello scioglimento del regime, ma anche in caso di richiesta anticipata di Ausgleich
da parte di uno di essi.
15 E infatti si rinvia a quanto stabilito dai commi secondo e terzo del § 1375 BGB, in base ai quali si imputano al patrimonio finale dei coniugi anche le attribuzioni patrimoniali effettuate a titolo gratuito, così come gli atti di dispersione del patrimonio, ovvero ancora gli atti fraudolentemente posti in essere al fine di danneggiare l’altro coniuge, a eccezione di quelli cui quest’ultimo
abbia espressamente consentito.
51
AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
diritti di un coniuge suscettibili di valutazione oggettiva, detratti i debiti, valore che deve essere almeno pari a zero. Al patrimonio iniziale devono essere aggiunti gli acquisti per successione o donazione intervenuti durante la Zugewinngemeinschaft, i quali non ricadono nella comunione degli
incrementi. È necessario che i coniugi redigano insieme un inventario comune dei propri beni iniziali; in assenza di tale inventario il patrimonio iniziale viene calcolato come pari a zero e il Zugewinn sarà perciò corrispondente all’intero patrimonio finale. Per patrimonio finale si intendono i
valori dei beni di spettanza di ciascun coniuge alla fine della Zugewinngemeinschaft. Ai sensi del
§ 1378 Abs BGB, il conguaglio costituisce un credito di compensazione nella misura della metà
dell’eccedenza tra il patrimonio iniziale e il patrimonio finale.
Ciascun coniuge ha l’amministrazione esclusiva dei propri beni, con il solo limite dell’inammissibilità di atti dispositivi dell’intero patrimonio o di beni dell’attività domestica, senza il consenso preventivo dell’altro. Il credito di conguaglio sorge con la cessazione dello stato patrimoniale e si prescrive in tre anni a iniziare dal momento in cui il coniuge ha la notizia della conclusione del regime
dei beni. In caso di morte di uno dei due coniugi devono applicarsi le norme sulla prescrizione
valevoli per la legittima. Prima del venir meno dello stato patrimoniale, la regolamentazione circa
il credito di conguaglio può essere modificata ai sensi dei §§ 1408-1410 attraverso una convenzione
matrimoniale conclusa con atto notarile, salvo che non arrechi pregiudizio degli interessi dei creditori, dei parenti legittimari di un coniuge. Il coniuge tenuto alla compensazione può peraltro rifiutare il pagamento qualora il conguaglio si rivelasse, nelle condizioni date, come gravemente iniquo (§ 1381). È riconosciuta la possibilità di conseguire un conguaglio prima del tempo: se i coniugi
vivono separati da almeno tre anni; se un coniuge non adempie da un tempo più lungo ai suoi obblighi economici derivanti dal matrimonio e si presume non li adempierà neanche in futuro; se i
futuri crediti di compensazione sono messi in pericolo da atti di disposizione del coniuge sull’intero
patrimonio senza il consenso dell’altro, in caso di diminuzione del patrimonio finale attraverso atti
di liberalità a terzi per obbligazioni morali o per sentimento di decenza, dissipazioni del patrimonio
o affari in pregiudizio dell’altro coniuge e in caso di diniego di informazioni circa lo stato patrimoniale (§§ 1385-1386).
2. Lo scioglimento della comunione nei sistemi europei
I sistemi che adottano il regime legale della comunione prestano una particolare attenzione alla disciplina dello scioglimento quale momento dell’oggettivo concretarsi della difesa del coniuge debole, del minore, venendo meno il supporto solidaristico fornito dall’istituto del matrimonio.
Analizzando sinteticamente la disciplina degli ordinamenti europei16, si può rilevare che in Francia,
successivamente alla riforma del 1985, le cause di scioglimento della comunione contemplano le
seguenti tassative ipotesi: morte, assenza, divorzio, separazione legale, separazione giudiziale dei
beni, mutamento del regime patrimoniale (art. 1441). La separazione di fatto è irrilevante ai fini dello scioglimento, sebbene in base all’art. 1442 un coniuge può chiedere al giudice di far decorrere
la cessazione del regime patrimoniale, quanto ai rapporti interni, dalla data in cui hanno cessato di
convivere17. In base alla riforma del divorzio introdotta con la legge 26 maggio 2004, dal 1° gennaio
2005, nei rapporti interni gli effetti dello scioglimento si determinano dall’ordonnance de non conciliation o dalla data dell’omologazione della convenzione che regola le conseguenze del divorzio
se è pronunciato “par consentemént mutuel” (art. 262-1, primo comma). Nell’ordinamento francese
16 Per una panoramica storica e di diritto comparato sullo scioglimento della comunione si veda Oberto, La comunione legale
cit., 1607 ss.
17 Questa ipotesi è stata a lungo interpretata dalla giurisprudenza come facoltà solo per il coniuge a cui non fosse addebitabile
la separazione. Oggi tale facoltà non è più legata alla colpa della separazione.
52
EUROPA
ai fini dell’opponibilità a terzi della cessazione del regime, rileva la data dell’annotazione a margine
dell’atto di matrimonio oltre che degli atti di nascita di ciascuno dei coniugi. Tale annotazione rileva
altresì per l’opponibilità della riconciliazione e del mutamento convenzionale del regime patrimoniale. La séparation de biens judiciaire determina una liquidazione anticipata dei diritti di ognuno
e la cristallizzazione dei due patrimoni distinti. I creditori della comunione hanno la possibilità di
agire per opposizione di terzo contro la sentenza entro un anno e possono intervenire nel procedimento. Infine la morte dà luogo a una comunione ordinaria che è contemporaneamente postcommunautaire e successoire, dando vita a due distinte liquidazioni.
Il codice Belga prevede le stesse cause di scioglimento previste dall’ordinamento francese a eccezione dell’assenza, imponendo (art. 1428) però la redazione di un inventario nei tre mesi dalla data
della morte, della trascrizione del divorzio o della separazione personale, o della pubblicazione sul
bollettino ufficiale dell’estratto della decisione sulla separazione giudiziale dei beni. Ai sensi dell’art.
1461 i coniugi possono convenire per convenzione matrimoniale che, in caso di scioglimento per
decesso, il coniuge superstite riceverà una quota diversa dalla metà, che può addirittura spingersi
ad abbracciare tutto il patrimonio. Può essere chiesta la separazione giudiziaria la cui sentenza produce effetti retroattivi al giorno della domanda anche nei confronti dei terzi (art. 1472) e deve essere seguita dalla divisione nel termine di un anno, prorogabile (art. 1473). I creditori particolari
possono opporsi a che la liquidazione si faccia in loro assenza e hanno comunque il diritto di intervenire nella procedura liquidativa a loro spese.
Nell’ordinamento spagnolo la comunione si scioglie per effetto dello scioglimento o dell’annullamento del matrimonio, per la separazione legale e per il mutamento convenzionale di regime (art.
1392 del còdigo civil). Essa termina anche in caso di dichiarazione di assenza, di dichiarazione di
incapacità o di prodigalità, di fallimento o di condanna di un coniuge “per abandono de familia”.
È rilevante la separazione di fatto protrattasi per oltre un anno “por acuerdo mutuo o por abandono
del hogar” (art. 1393, terzo comma). Infine è prevista la cessazione del regime per effetto del pignoramento della quota di uno dei coniugi.
In Portogallo, ai sensi dell’art. 1688, i rapporti personali e patrimoniali dei coniugi cessano in caso
di scioglimento, dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio. Per ciò che attiene alla divisione, qualunque sia il regime prescelto dai coniugi, essi possono convenire che la divisione dei
beni, nel caso di morte di uno dei coniugi e in presenza di discendenti comuni, si effettui secondo
le regole del regime della comunione generale (art. 1719).
In merito al regime legale olandese della comunione universale dei beni, esso cessa per lo scioglimento del matrimonio, per effetto di separazione legale, di convenzione matrimoniale, ovvero quale conseguenza di un provvedimento giudiziale di scioglimento della comunione. È stabilito altresì
che, nel caso in cui lo scioglimento dipenda dall’accoglimento di una domanda giudiziale, la domanda di divisione del patrimonio può essere immediatamente presentata, come condizionata
dall’accoglimento della domanda diretta alla verificazione dell’evento che provoca lo scioglimento
della comunione. Lo scioglimento per provvedimento giudiziale può aver luogo per ipotesi di mala
gestio, ma anche per effetto del rifiuto, da parte di un coniuge, di informare l’altro sulla gestione e
sulla consistenza della comunione. La decisione produce effetto retroattivo a partire dal giorno della presentazione della domanda (art. 1.111, primo comma).
In Germania, il regime legale della Zugewinngemeinschaft viene a sciogliersi per divorzio e per morte
di uno di essi. Nel caso di scioglimento per cause diverse dal decesso di un coniuge, si procede alla
determinazione del credito a titolo di conguaglio da Zugewinngemeinschaft. Con riguardo al caso
dello scioglimento per divorzio, il regime cessa dal momento della presentazione della relativa
domanda giudiziale. È prevista la possibilità a un coniuge di domandare uno scioglimento anticipato
del regime, con conseguente liquidazione anticipata del suo eventuale credito nei seguenti casi: di
separazione di fatto perdurante da almeno tre anni, di inadempimento per un certo periodo di tempo,
da parte di un coniuge, dei propri doveri patrimoniali derivanti dal matrimonio, di mala gestio18. Anche
18 Cfr. §§ 1385 ss. BGB.
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in tale fattispecie lo scioglimento si determina nel momento in cui viene proposta la domanda
giudiziale per l’effettuazione anticipata del conguaglio. Poiché la sentenza che accoglie questa
domanda non provoca certo lo scioglimento del matrimonio, il § 1388 prevede che con il passaggio in
giudicato di tale decisione si applichi il regime di separazione dei beni.
Per ciò che attiene alla Svizzera, il cui regime legale della partecipazione agli acquisti è per molti
versi analogo a quello della Zugewinngemeinschaft tedesca, la comunione si scioglie: alla morte di
un coniuge, quando sia convenuto un altro regime, in caso di divorzio, separazione, nullità del matrimonio o separazione dei beni giudiziale. In queste ipotesi lo scioglimento si ha per avvenuto il
giorno della presentazione dell’istanza. Di sicuro interesse è l’elenco dei gravi motivi indicati per
legittimare la domanda di separazione giudiziale dei beni, che può essere concessa nelle ipotesi in
cui l’altro coniuge: è oberato o la sua quota di beni comuni è pignorata; mette in pericolo gli interessi dell’istante o della comunione; rifiuta senza giusto motivo il consenso richiesto per disporre
di beni comuni; rifiuta di informare l’istante sui suoi redditi, sulla sua sostanza e sui suoi debiti o
sui beni comuni; è durevolmente incapace di discernimento. In caso di scioglimento della comunione per la morte di un coniuge o per pattuizione di un altro regime, a ciascun coniuge, o ai suoi
eredi, spetta la metà dei beni comuni, ma per convenzione matrimoniale può essere stabilito un altro modo di ripartizione, sempre che non ne restino pregiudicati i diritti alla legittima dei discendenti (art. 241 c.c. svizzero).
3. Il regime patrimoniale dei coniugi nel diritto internazionale privato
In Italia la disciplina internazionalprivatistica del regime patrimoniale dei coniugi ha la sua fonte
nell’art. 30 della l. 31 maggio 1995, n. 21819. Tale norma contempla una disciplina per relationem,
sancendo espressamente che i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati “dalla legge applicabile ai loro rapporti personali” mutuata dall’art. 29.
L’art. 30 riserva il criterio della legge nazionale ai coniugi dotati di una sola cittadinanza comune.
In mancanza, derogando alla norma generale sul concorso di più cittadinanze contenuta nell’art.
19, è previsto l’immediato ricorso al criterio dalla prevalente localizzazione della vita matrimoniale,
sia in presenza di diverse cittadinanze dei coniugi sia in presenza di più cittadinanze comuni dei
medesimi20.
La ratio della norma consiste nell’adeguamento della disciplina di conflitto ai mutamenti di cittadinanza o di localizzazione della vita familiare che possano intervenire nell’arco del matrimonio. L’art.
30 introduce tuttavia un ulteriore criterio di collegamento, utile a stabilizzare la disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi di fronte a tali mutamenti, prevedendo la facoltà di una optio iuris. Le
opzioni consentite dalla norma sono le seguenti: la legge nazionale comune; la legge dello Stato
nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, se i coniugi hanno cittadinanze diverse o più cittadinanze comuni; la legge dello Stato del quale uno dei coniugi è cittadino; la legge
dello Stato nel quale uno dei coniugi risiede; la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale è
prevalentemente localizzata, se i coniugi, che pure hanno una sola legge nazionale comune non
coincidente con la prima, hanno convenzionalmente deciso di far prevalere la prima sulla seconda.
Per essere valido, l’accordo deve essere concluso per iscritto e deve riferirsi alla legge di uno Stato
19 L’art. 30 della legge di riforma del diritto internazionale privato italiano ha radicalmente innovato la disciplina dei rapporti
patrimoniali fra coniugi contenuta nelle disposizioni sulla legge in generale, premesse al codice civile del 1942. L’art. 19 prel. prevedeva, infatti, che tali rapporti fossero regolati dalla legge dello Stato di cittadinanza del marito al momento della celebrazione
del matrimonio, fatta salva la facoltà, seppur limitata, attribuita ai coniugi, di stipulare convenzioni matrimoniali “in base alla nuova legge nazionale comune” (per i rinvii cfr. Di Stasio, in AA.VV., Codice della famiglia, a cura di Sesta, II, Milano, 2007, 4150).
20 Sull’art. 30 si veda Clerici, Art. 30, in Commentario del nuovo diritto internazionale privato, a cura di Pocar et al., Padova,
1996 ss.; Villani, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel diritto internazionale privato, in Giust. Civ., II, 1996, 445 ss.; Oberto, La
comunione legale cit., 205 ss.; Fantetti, Il regime patrimoniale cit., 142.
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EUROPA
di cui uno dei coniugi abbia la cittadinanza o in cui uno di essi sia residente. In ogni caso l’accordo
deve essere considerato valido dalla legge scelta o da quella del luogo in cui l’accordo è stato stipulato (art. 30 cpv., l. n. 218/95). Questa scelta di politica legislativa, esalta l’autonomia dei coniugi,
permettendo loro di inserire nella lex contractus (matrimonii) istituti tratti da ordinamenti diversi
dal nostro, quali, per esempio, quegli accordi preventivi in vista del divorzio.
L’art. 30 l. 218/1995 erode due dei limiti posti dalle norme imperative in materia di convenzioni
matrimoniali. Il primo è di carattere formale e attiene al requisito dell’atto notarile ex art. 162 c.c.,
stabilendosi invece, con riguardo all’accordo sulla legge applicabile, la sufficienza della mera forma
scritta. Ancora sembra confliggere con il disposto dell’art. 161 c.c.21, poiché nel momento in cui si
consente ai coniugi di stipulare un pactum de lege utenda, si viene ad ammettere che in tale fattispecie le parti possono limitarsi a un generico richiamo al sistema di un dato Paese. Deve ritenersi
che l’art. 161 c.c. trova oggi applicazione solo quando i rapporti patrimoniali tra coniugi sono sottoposti alla legge italiana.
L’ambito di applicazione dell’art. 30 comprende solo il regime patrimoniale secondario, inerente alla titolarità e all’amministrazione dei beni dei coniugi, mentre gli aspetti economici dei reciproci
doveri di assistenza e contribuzione ai bisogni della famiglia, ovvero il cosiddetto regime patrimoniale primario, afferiscono al contenuto degli obblighi di solidarietà familiare, dunque ricompresi
nell’ambito dell’art. 29 della legge n. 218. Ricadono poi nella sfera dell’art. 30 istituti analoghi a
quello del fondo patrimoniale, ma non certamente a quello dell’impresa familiare.
L’art. 30 comma 3 circoscrive l’opponibilità del regime dei rapporti patrimoniali, qualora sia regolato da una legge straniera, solo ai casi in cui il terzo ne abbia avuto conoscenza o l’abbia ignorato
per sua imprudenza. Riguardo ai diritti reali sui beni immobili, l’opponibilità è subordinata al rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla lex rei sitae. Considerando l’assenza di norme internazionali pattizie uniformi sui regimi di pubblicità e la presunzione generale di conoscenza dei
regimi legali, non è sempre agevole imputare al terzo un’imprudente ignoranza di questi ultimi,
soprattutto qualora il terzo non sia in grado di conoscere il luogo di prevalente localizzazione della vita matrimoniale, o l’esistenza di una optio iuris. Di certo ha aiutato, anche se non in modo risolutivo, il d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, recante il Regolamento per la revisione e la semplificazione dello stato civile, che ha previsto all’art. 19 la trascrizione nei registri dello stato civile dei
matrimoni celebrati all’estero da cittadini stranieri residenti in Italia e all’art. 69 la medesima annotazione anche per il negozio di scelta dell’ordinamento applicabile ex art. 30, primo comma,
della legge n. 218.
4. Il regime patrimoniale dei coniugi e delle unioni registrate in Europa: le Proposte di Regolamento del Consiglio del 16 marzo 2011 [COM/2011/0126 def. - CNS 2011/0059 */; COM/2011/0127 def. - CNS 2011/0059 */]
Il diritto comunitario di questi ultimi anni ha mostrato una spiccata e sempre crescente tendenza a
intervenire nelle questioni giusfamiliari. L’estrema frammentazione dei sistemi patrimoniali coniugali e, in particolare, le molteplici forme di manifestazione della comunione inducono sicuramente
a ritenere che, in assenza di un’adeguata opera di coordinamento, non solo una stessa coppia possa
essere ritenuta soggetta a due regimi diversi, a seconda dello Stato in cui la controversia viene giudicata, ma che un medesimo regime applicabile a una coppia sia ritenuto di tipo comunitario in
un Paese e di tipo separatista in un altro.
Al mese di luglio 2006 risale il Libro verde sul conflitto di leggi in materia di regime patrimoniale
dei coniugi, con cui la Commissione ha dato l’avvio a un’ampia consultazione pubblica e il cui esito
21 Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi
alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono
regolare questi loro rapporti (art. 161 c.c.).
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
ha confermato la necessità di disporre di strumenti europei in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate (COM(2006) 400) [SEC(2006) 952]. Il
Regolamento “Bruxelles II bis” del 27 novembre 2003 e il Regolamento “Roma III” del 20 dicembre
2010, infatti, pur avendo aumentato la certezza del diritto, la prevedibilità e la flessibilità a beneficio
dei coniugi in caso di procedimenti di divorzio e separazione personale, consentendo di determinare, in base a criteri oggettivi, la legge applicabile e l’autorità giurisdizionale competente, non prevedono però alcuna disposizione relativa alla disciplina delle questioni relative ai rapporti patrimoniali delle coppie internazionali. Nel recente “Programma di Stoccolma - Un’Europa aperta e sicura
al servizio e a tutela dei cittadini” (GU C 115 del 4 maggio 2010), il Consiglio europeo ha chiesto
di estendere il riconoscimento reciproco a materie che rivestono un ruolo centrale nella vita di tutti
i giorni dei cittadini, tra cui figurano espressamente le questioni connesse ai regimi patrimoniali tra
i coniugi e alle conseguenze patrimoniali delle separazioni.
Sulla scorta di tali impulsi, il 16 Marzo 2011 sono state presentate dalla vicepresidente della Commissione Ue, Viviane Reding, commissario per la Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza,
due proposte di regolamento rispettivamente sui regimi patrimoniali tra i coniugi e sugli effetti patrimoniali delle unioni civili registrate [126 e 127]. Entrambi i regolamenti si ispirano e recepiscono
il principio dell’“autonomia controllata”, in base al quale la legge applicabile per i regimi patrimoniali dei coniugi o dei conviventi sarà quella dello Stato ove risiedono abitualmente. In alternativa
le coppie avranno la possibilità di scegliere la legge del Paese di cittadinanza di uno dei coniugi o
dei conviventi. Si tratta di proposte di regolamento che introducono esclusivamente norme di diritto
internazionale privato. Obiettivo principale della Commissione era la “creazione di uno spazio giudiziario europeo è garantire la certezza del diritto ai cittadini europei e consentire loro di accedere
facilmente alla giustizia nelle situazioni transnazionali”22.
Le proposte forniscono la definizione di “regime patrimoniale tra coniugi” e di “effetti patrimoniali
delle unioni registrate”, definizioni necessarie per delimitare l’ambito di applicazione dei regolamenti, individuate per entrambi con l’elencazione tassativa ed esaustiva delle materie cui non si applicano. Le materie coincidono per entrambi i regolamenti e pertanto, ai sensi dell’art. 1 delle due
proposte, sono escluse dal campo di applicazione: le obbligazioni alimentari e le questioni relative
alla validità e agli effetti delle liberalità, le questioni inerenti al diritto delle successioni. I regolamenti non pregiudicano la natura dei diritti reali, la qualificazione dei beni e dei diritti e la determinazione delle prerogative del titolare di tali diritti. È inoltre esclusa dal campo di applicazione
dei regolamenti la pubblicità dei diritti reali, con particolare riguardo al funzionamento dei registri
immobiliari e gli effetti dell’iscrizione ovvero della mancata iscrizione in tali registri.
L’autorità giudiziaria competente è individuata in modo analogo nei due regolamenti al capo II. La
Commissione propone di concentrare i vari procedimenti davanti a un’unica autorità giurisdizionale: procedimento di divorzio, di separazione personale e di liquidazione del regime patrimoniale
tra coniugi. In caso di procedimento di divorzio o separazione personale, le autorità giurisdizionali
competenti a conoscere di tali procedimenti ai sensi del regolamento “Bruxelles II bis” saranno altresì competenti a conoscere della liquidazione del regime patrimoniale tra coniugi conseguente al
divorzio o alla separazione personale. Analogamente, in caso di morte di un coniuge o di un partner, l’autorità giurisdizionale competente per la successione sarà competente anche per le questioni riguardanti i regimi patrimoniali tra coniugi e gli effetti patrimoniali delle unioni registrate. Riunire i procedimenti dinanzi a un’unica autorità giurisdizionale dovrebbe consentire importanti economie, evitando ai cittadini di adire varie autorità giurisdizionali a seconda della materia. Sono inoltre previste norme sulla competenza propria, applicabili indipendentemente dalla successione o separazione, individuata in base a un elenco gerarchico di criteri di collegamento che prevede: la re-
22 In base alla relazione del 2010 della Commissione sulla cittadinanza dell’Unione del 27 ottobre 2010, sussistono ancora numerosi ostacoli al pieno esercizio dei diritti connessi alla cittadinanza dell’Unione, in particolare il diritto della libera circolazione.
Tra gli altri ostacoli individuati figura l’incertezza in merito ai diritti di proprietà delle coppie internazionali. Nella gestione dei
loro beni le coppie internazionali si imbattono spesso in conseguenze impreviste, talvolta negative, dovute alle differenze tra i
vari ordinamenti giuridici nazionali.
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EUROPA
sidenza abituale comune dei coniugi, l’ultima residenza abituale comune, se un coniuge vi risiede
ancora, o la residenza abituale del convenuto.
In ogni caso le autorità giurisdizionali di quello Stato membro potranno dichiararsi incompetenti
ove il loro diritto nazionale non contempli l’istituto dell’unione registrata.
In merito all’individuazione della legge applicabile, regolata dal Capo III, tenuto conto della specificità degli istituti, i due regolamenti differiscono. Ai coniugi è lasciata la possibilità di scegliere la
legge applicabile tra la legge della residenza abituale comune o della cittadinanza. In mancanza di
scelta, la proposta prevede un elenco di criteri di collegamento oggettivi che permettono di determinare la legge applicabile, tenendo conto della mobilità dei cittadini e rispettando la volontà dei
coniugi, ma garantendo nel contempo la certezza del diritto per ciascun coniuge. Questo approccio
è adottato anche nel recente regolamento “Roma III” sulla legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. Analogamente, i coniugi che hanno scelto la legge applicabile al momento
della celebrazione del matrimonio possono decidere, in un momento successivo, di cambiarla e di
sceglierne un’altra. Il cambiamento produce effetti solo per il futuro, a meno che i coniugi decidano
espressamente di attribuirgli efficacia retroattiva. Il regolamento prevede, infatti, che gli effetti del
cambiamento del regime patrimoniale tra coniugi siano limitati alle parti e non pregiudichino i diritti dei terzi. Una simile autonomia non è invece riconosciuta ai partner di un’unione registrata La
proposta determina in modo preciso la legge applicabile agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, che è per l’appunto la legge dello Stato in cui l’unione è stata registrata. Poiché l’unione registrata non è riconosciuta da tutti gli Stati membri dell’Unione e le disposizioni degli Stati membri
che hanno introdotto questo istituto nel loro ordinamento giuridico variano notevolmente, la proposta rinvia alla legge dello Stato di registrazione, impedendo così ai partner di azionare un’optio
juris.
Le disposizioni proposte sul riconoscimento e sull’esecuzione delle decisioni e degli atti pubblici
(Capo IV) sono allineate a quelle vigenti in materia civile e commerciale. La Commissione ha quindi
ritenuto opportuno che lo Stato membro in cui sono chiesti il riconoscimento e l’esecuzione mantenesse un controllo delle decisioni. Le decisioni emesse in uno Stato membro saranno riconosciute
in base a una procedura d’exequatur dinanzi all’autorità giurisdizionale dello Stato membro in cui
è chiesta l’esecuzione.
La scelta della Commissione è stata dunque indirizzata all’uniformità nelle regole che determinano
il giudice competente, la circolazione delle sue decisioni, con conseguente riconoscimento ed esecuzione, nonché all’uniformità nelle regole di determinazione del diritto sostanziale e processuale
applicabile. Tale scelta non soddisferà quegli interpreti che sinora hanno correttamente sottolineato
la necessità di pervenire a un avvicinamento delle stesse regole materiali dei vari Paesi ritenendo
che solo un’“armonizzazione materiale” risponderebbe pienamente al bisogno degli sposi di prevedibilità degli esiti di possibili controversie, a prescindere dalla scelta della legge, che rischia di
comportare risultati diversi da quelli attesi23.
23 Sulla necessità di introdurre in Europa regimi patrimoniali uniformi cfr. anche Henrich, Sul futuro del regime patrimoniale
cit., 1057 ss, che propone l’introduzione di regole uniformi non solo di diritto internazionale privato ma anche materiale, con la
predisposizione di un modello uniforme per una comunione degli acquisti. Sull’idea di un regime matrimoniale convenzionale
europeo v. inoltre Agell, The Division of Property upon Divorce from a European Perspective, in Liber Amoricum Marie-Thérèse
Meulders-Klein. Droit Comparé des Personnes et de la Famille, a cura di Pousson-Petit, Bruxelles, 1998, 1-29.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
ACCORDI PREMATRIMONIALI IN INGHILTERRA E GALLES:
L’IMPATTO DELLA SENTENZA SUL CASO RADMACHER VS GRANATINO
Suzanne Todd
Partner Family Team Withers LLP
Vanessa Mitchell
Solicitor Family Team Withers LLP
Questo è il seguito dell’articolo Il caso Crossley. Amore è... Un’analisi della “magnetica” forza dei
pre-nuptial agreements in Inghilterra e Galles, pubblicato nel numero 1/2008 della Rivista AIAF. Ci
concentriamo sulla recente decisione della Corte Suprema nel caso Radmacher vs Granatino1 e sulla
decisione precedente del Privy Council nel caso MacLeod vs MacLeod2.
Fino al mese di ottobre 2010 nella giurisprudenza inglese era considerato principio costante che gli
accordi prematrimoniali, essendo accordi privati sottoscritti prima del matrimonio facenti riferimento alle conseguenze patrimoniali di un’eventuale rottura del matrimonio, fossero contrari all’ordine
pubblico e, quindi, nulli. La precedente decisione Hyman vs Hyman3 aveva chiarito che la moglie
non può escludere convenzionalmente la competenza del Tribunale nella determinazione delle
conseguenze patrimoniali in caso di divorzio. Infatti, in Inghilterra e in Galles il Tribunale mantiene
la sua generale giurisdizione sulla divisione del patrimonio coniugale poiché tale potere gli è attribuito dalla legge.
In mancanza di una riforma legislativa si è lasciato decidere al potere giudiziario sulla questione
dell’applicabilità e del riconoscimento degli accordi prematrimoniali, alla luce di importanti modifiche nel clima economico e sociale dell’ultimo secolo. Ci sono state richieste da parte di avvocati,
procuratori e magistrati affinché gli accordi prematrimoniali ottenessero efficacia esecutiva. Il Governo ha tentato di occuparsene in un documento di consultazione pubblica nel 1998 intitolato Sostegno alle famiglie. Tale documento indicava che dovevano verificarsi alcune condizioni di “tutela”
affinché gli accordi prematrimoniali potessero avere un qualche riconoscimento giuridico. La consultazione non andò oltre e non portò ad alcuna modifica alla normativa.
L’Inghilterra è sempre stata diversa dalla maggior parte dell’Europa dove, normalmente, le parti scelgono un “regime patrimoniale della famiglia” nell’ambito del matrimonio, che determina la divisione
dei beni in caso di divorzio. Di norma tale contratto viene firmato davanti a un notaio ed è accompagnato da pochi o addirittura da nessun dettaglio sulla situazione patrimoniale delle parti. Spesso
nessuna delle due parti riceve un parere legale indipendente. Nei vari Paesi europei, questi accordi
matrimoniali hanno sempre avuto valenza contrattuale. La posizione dell’Inghilterra è molto diversa.
1. L’approccio del Tribunale inglese alla divisione dei beni
La giurisdizione inglese è caratterizzata da discrezionalità e il Tribunale gode di ampio potere decisionale in merito alla divisione dei beni tra i coniugi in caso di divorzio.
1
[2010] UKSC 42, in appello da 2009 EWCA Civ 649.
2
[2008] UKPC 64.
3
[1929] AC 601.
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Il quadro legislativo è delineato nel Matrimonial Causes Act del 1973. Al giudice si chiede di considerare tutte le circostanze del caso e, in particolare, i fattori individuati nella “Sezione 25”. Tali
fattori includono le esigenze delle parti, il loro reddito, la loro capacità di guadagno, gli standard
di vita, l’età, il benessere dei figli minori eccetera. Nessun fattore è predominante rispetto agli altri
e l’esistenza di un accordo prematrimoniale, in genere, è considerato semplicemente come una delle circostanze del caso.
2. Gli accordi postmatrimoniali e il caso MacLeod vs MacLeod [2008] UKPC 64
Un accordo postmatrimoniale non diverge, sostanzialmente, dalle pattuizioni espresse nella separazione consensuale, se non per il fatto che, normalmente, le parti che siglano un accordo postmatrimoniale non sono sul punto di separarsi; il primo tipo di accordo “prende d’anticipo” l’ipotesi di
separazione o divorzio, mentre nel secondo caso la separazione è avvenuta o è imminente.
Gli accordi di una separazione consensuale possono, in linea generale, determinare la divisione del
patrimonio familiare in caso di divorzio (a meno che non vi siano serie ragioni per discostarsi da
tali accordi). Al contrario, gli accordi postmatrimoniali, fino al 2008, continuavano a essere considerati nulli perchè contrari all’ordine pubblico e soltanto in particolari circostanze veniva a essi riconosciuto “un qualche peso”.
Un mutamento dell’orientamento giurisprudenziale si è avuto con il caso MacLeod vs MacLeod. In
questo caso le parti erano americane e avevano firmato tre accordi nel corso del matrimonio, il primo dei quali nel giorno delle nozze. Al tempo, il patrimonio netto del marito era pari a circa £7
milioni. Il primo accordo prevedeva che ciascun coniuge mantenesse la proprietà esclusiva sui propri beni e rinunciasse al diritto al mantenimento. I beni comuni dovevano essere divisi in parti
eguali e il marito si impegnava a pagare alla moglie una somma forfettaria pari a $25.000 per ogni
anno di matrimonio. Ulteriori accordi vennero firmati nel 1997 e ancora nel 2002. Il terzo accordo
conteneva disposizioni ancor più favorevoli per la moglie, in quanto le riconosceva una cifra forfettaria di £250.000, un vitalizio di £25.000 all’anno, la quota di proprietà del coniuge in uno degli
immobili di famiglia e £1.000.0000 in caso di divorzio o morte del marito. Il matrimonio durò 14
anni. Le prime richieste di tipo patrimoniale in relazione al divorzio vengono avanzate nel febbraio
del 2005 nell’Isola di Man. La moglie sostiene che gli accordi non devono essere presi in considerazione. Il marito cerca invece di far valere il terzo accordo e propone di pagare alla moglie un’ulteriore somma di £750.000. Nel 2008 il caso viene sottoposto al Privy Council.
Il collegio del Privy Council non ritenne suo compito modificare il consolidato principio secondo
cui gli accordi prematrimoniali sono contrari all’ordine pubblico, considerando la questione della
validità e dell’efficacia degli stessi più adatta a eventuali sviluppi di tipo legislativo che non giurisprudenziale. Il collegio affermò che: “In teoria e in pratica esiste una differenza enorme tra un accordo che determina l’attuale stato delle cose venutosi a creare in una coppia sposata e un accordo
stipulato prima che le parti abbiano assunto gli obblighi e i diritti conseguenti al matrimonio e che
intende regolare le eventualità che potrebbero verificarsi in un futuro incerto e indesiderato”.
Ma gli accordi postmatrimoniali sono una cosa diversa. Il ragionamento su cui si basava il “vecchio
principio” (in base al sancito obbligo alla convivenza dei coniugi) non esisteva più. Tuttavia, poiché
le norme sulle variazioni degli accordi sul mantenimento del coniuge non si applicavano agli accordi prematrimoniali, sarebbe stato ingiusto rendere questi ultimi validi ed eseguibili.
Nel decidere quale valenza assegnare invece agli accordi postmatrimoniali, il collegio del Privy
Council ritenne che il Tribunale dovrebbe sempre prendere in considerazione eventuali cambiamenti delle circostanze che rendano gli accordi “manifestamente ingiusti”, oppure la mancanza di
disposizioni adeguate per i figli. In questo caso particolare, sebbene non in stretta conformità agli
accordi postmatrimoniali, la moglie ricevette una somma molto inferiore a quello che le sarebbe
spettato se non avesse firmato gli stessi.
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3. Radmacher vs Granatino [2010] UKSC 42
3.1 I fatti
I fatti relativi a questo caso sottoposto alla Corte Suprema sono i seguenti.
Marito, cittadino francese. Moglie, cittadina tedesca. Si incontrano nel novembre 1997 e si sposano
a Londra il 28 novembre 1998. Dalla loro unione nascono due figli. La moglie proveniva da una
famiglia molto ricca, aveva già ricevuto una cospicua eredità e avrebbe certamente ricevuto ulteriori
beni.
Nell’agosto del 1998 le parti sottoscrivono un accordo prematrimoniale in Germania. Tale accordo
viene firmato a causa delle insistenti richieste del padre della moglie e viene redatto da un notaio.
Si stabilisce la separazione dei beni e la rinuncia al mantenimento in caso di divorzio, anche qualora una delle parti si dovesse trovare in “gravi difficoltà”. L’accordo è regolamentato dal diritto tedesco. Nessuna delle due parti può ottenere quote o benefici dai beni dell’altro durante il matrimonio, né al termine dello stesso. Non viene stabilita alcuna disposizione sui figli.
Sebbene gli elementi essenziali dell’accordo vengano chiaramente comunicati al marito, egli non
riceve una traduzione dello stesso (non parlava il tedesco) né gli viene offerta una consulenza legale indipendente. L’accordo, peraltro, non conteneva alcun dettaglio sui beni di proprietà della
moglie.
Al tempo, il marito lavorava per JP Morgan e guadagnava circa £120.000 lorde all’anno. Nel 2001
guadagnava US$475.000 lordi all’anno e nell’arco dei primi cinque anni di matrimonio aveva messo
da parte un capitale di US$500.000, successivamente speso per la famiglia. Il marito poi, per mutuo
accordo, intraprende un periodo di studi e ricerche a Oxford e il suo reddito scende a £20.000 nette
all’anno.
Nell’ottobre del 2006 le parti si separano e la moglie avvia le procedure di divorzio in Inghilterra.
Sono stati sposati per otto anni. A questo punto il patrimonio personale della moglie ammonta a
oltre £100 milioni. Nonostante le condizioni previste dall’accordo prematrimoniale, il marito fa richiesta di un assegno di mantenimento e di una somma forfettaria.
3.2 Primo grado [2008] EWHC 1532 (Fam)
Il caso fu sottoposto al giudice Baron nel giugno del 2008. Il giudice Baron ritenne che l’accordo
fosse incompleto in quanto il marito non aveva ricevuto una consulenza legale indipendente, non
venivano rivelati i dettagli del patrimonio ed era manifestamente iniquo che egli fosse privato dei
suoi diritti anche in una situazione di necessità. Per questi motivi il peso da attribuire all’accordo
doveva essere ridotto.
Tuttavia, il fatto che il marito avesse firmato l’accordo prematrimoniale e che questo fosse valido e
applicabile in Francia e in Germania, indicava che tale accordo andasse “circoscritto in una certa
misura”.
Al marito venne concessa una somma totale di £5.560.000 composta da £2,5 milioni per una casa
a Londra, £700.000 per pagare i debiti contratti e £2.335.000 da cui far derivare un reddito di
£100.000 all’anno per il resto della sua vita. Fu inoltre richiesto alla moglie di pagare £25.000 per
una nuova automobile nonché di accollarsi i costi per una casa ammobiliata in Germania
(€630.000), dove i figli potessero risiedere con il padre durante le visite, che sarebbe rientrata nel
patrimonio della moglie al raggiungimento della loro maggiore età.
Nella sentenza, il giudice non ha fornito alcuna indicazione circa il grado di adesione della propria
decisione rispetto ai termini dell’accordo prematrimoniale. La moglie ricorse in appello.
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3.3 Corte d’Appello [2009] EWCA Civ 649
La Corte d’Appello, composta dai giudici Thorpe LJ, Rix LJ e Wilson LJ, ha stabilito che Baron J era
incorso in errore nel ritenere che le circostanze in cui l’accordo prematrimoniale era stato raggiunto
riducessero il peso da attribuire allo stesso.
L’accordo prematrimoniale avrebbe dovuto avere un peso decisivo. La sentenza avrebbe dovuto
prendere in considerazione il ruolo del marito come padre dei due figli, ma non avrebbe dovuto
prendere in considerazione le sue esigenze sul lungo termine. Sebbene il giudice Baron J avesse
accertato la natura straniera del caso, ha errato nel non considerare adeguatamente se fosse da ritenersi ingiusto per la moglie ignorare completamente l’accordo prematrimoniale. Il fatto che le leggi nazionali di entrambe le parti considerassero equo l’accordo prematrimoniale doveva essere considerato elemento rilevante.
Sebbene la Corte ritenesse che una riforma complessiva della materia degli accordi prematrimoniali
fosse di competenza del Parlamento, ha ritenuto desueta la regola sulla nullità degli accordi prematrimoniali e che non ci fosse più motivo per avere regole distinte relativamente agli accordi pre
e postmatrimoniali. Il giudice Thorpe LJ afferma in sentenza: “in casi futuri ampiamente in linea
con i fatti del caso di specie, il giudice dovrà dare il giusto peso al regime patrimoniale della famiglia
che le parti hanno liberamente assunto. Non si tratta di applicare una legge straniera, né rendere effettivo un contratto estraneo alla tradizione inglese. Si tratta, ritengo, di un legittimo esercizio della
più ampia discrezione conferita ai giudici al fine di garantire la giustizia tra le parti nei procedimenti accessori di liquidazione (finanziaria)”.
Non considerando le preoccupazioni di Baron J relativamente all’applicabilità dell’accordo, la Corte
d’Appello ha ritenuto che il marito avesse compreso gli effetti dell’accordo e che avesse avuto l’opportunità di avere consulenza legale, ma che avesse deciso di non farlo. Anche ad ammettere che
la moglie non avesse dichiarato l’esatto ammontare dei suoi beni, egli era consapevole della complessiva condizione patrimoniale della moglie; egli lavorava nel mondo della finanza e non esistono
elementi che portano a ritenere che la mancata dichiarazione della moglie gli avrebbe impedito di
sottoscrivere tale accordo.
La Corte ha stabilito che l’abitazione del valore di £2,5 milioni, che la moglie avrebbe messo a disposizione del marito in qualità di padre dei loro figli, avrebbe dovuto tornare alla stessa al compimento del ventiduesimo anno di età del figlio più giovane. La somma forfettaria di £2.335.000 è
stata ridotta al fine di garantire allo stesso una rendita per 15 anni, trascorsi i quali le sue responsabilità finanziarie nel mantenimento dei figli sarebbero terminate. Il marito ha presentato appello.
3.4 Corte Suprema [2010] UKSC 42
Nel marzo 2010 la vicenda è stata sottoposta ai nove giudici della Corte Suprema di Giustizia (dato
che il caso sollevava questioni di rilevante importanza). La Corte Suprema ha rigettato la sentenza
d’appello nell’ottobre 2010 con una maggioranza di 8 a 1. Il giudice Hale ha emesso un parere di
dissenso alludendo a una discriminazione di genere.
La Corte Suprema ha rafforzato la conclusione del caso MacLeod, vale a dire che era insostenibile
conservare la vecchia regola che gli accordi fatti in previsione di una separazione futura siano contrari all’ordine pubblico. Tuttavia, è andata oltre e ha statuito che le motivazioni della sentenza sul
caso MacLeod, ossia che gli accordi pre e postmatrimoniali sono fondamentalmente diversi, risultavano viziate; non c’è motivo per il quale princìpi diversi debbano applicarsi a un accordo concluso prima del matrimonio rispetto a uno concluso appena dopo il matrimonio. Inoltre, anche la
questione se si tratti o meno di contratti risulta irrilevante; infatti, a prescindere dal fatto di considerare un accordo matrimoniale contratto o meno, la Corte deve applicare gli stessi princìpi e può
sempre superare le previsioni dell’accordo delle parti.
La Corte Suprema, inoltre, ha statuito che la prova richiesta dalla sentenza nel caso MacLeod, secondo cui la Corte dovrebbe sempre valutare una variazione delle circostanze che rendano le di-
61
AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
sposizioni palesemente inique, non trova necessariamente applicazione per tutti gli accordi postmatrimoniali. Una distinzione deve essere fatta tra gli accordi di separazione e gli accordi postmatrimoniali. Un accordo di separazione viene stipulato per avere effetto immediato. Ora, mentre questo
può essere vero per alcuni accordi postmatrimoniali, non lo sarebbe per il caso in cui le parti lo
stipulano poco dopo il matrimonio laddove non ci siano circostanze rilevanti che prevalgano in
quel momento. La ricerca di una variazione delle circostanze non costituirebbe prova utile in questo caso.
3.5 Punti principali della sentenza della Corte Suprema
3.5.1 Tutela
Perché un accordo matrimoniale debba considerarsi valido, entrambe le parti devono stipularlo liberamente, senza alcuna influenza o pressione. Rispetto ai fatti in questione, non è stata rilasciata
una dichiarazione completa ed esaustiva sul patrimonio e il marito non ha ricevuto consulenza legale indipendente. Tuttavia, ciò non è stato considerato elemento ostativo della sua efficacia. Sebbene il profilo della tutela sembri essere molto rilevante, la Corte dovrebbe chiedersi se si sia verificata una mancanza “reale” di dichiarazione, informazioni o consulenza.
L’assistenze legale è auspicabile al fine di garantire che una parte comprenda tutte le implicazioni
dell’accordo. La completa ed esaustiva dichiarazione dei beni posseduti dall’altra parte potrebbe essere necessaria; tuttavia, laddove sia chiaro che una parte è assolutamente consapevole delle implicazioni di un accordo matrimoniale e sia indifferente ai particolari dettagliati dei beni dell’altra
parte, non si registra l’esigenza di ridurre l’efficacia dell’accordo. Ciascuna parte dovrebbe ricevere
tutte le informazioni ritenute essenziali per la decisione ed entrambe le parti dovrebbero considerare l’accordo come mezzo di decisione circa le conseguenze finanziarie della rottura del loro matrimonio.
3.5.2 Circostanze relative alla stipula dell’accordo
Come prima, la condotta riprovevole come la costrizione, il dolo, lo sfruttamento di una posizione
dominante o di una falsa dichiarazione ridurrà o eliminerà il peso da attribuire a un accordo matrimoniale.
Le circostanze, che al momento dell’accordo risulteranno rilevanti, riguarderanno elementi come
l’età e la maturità delle parti, se una o entrambe siano state precedentemente coniugate o abbiano
avuto lunghe relazioni. Un altro fattore importante è dato dalla considerazione se il matrimonio sarebbe stato celebrato anche senza l’accordo.
Eventuali accordi ritenuti iniqui fin dal principio godranno di minor peso, sebbene nella pratica le
Corti dovranno valutare se sia iniquo considerare tutte le circostanze al momento della rottura del
matrimonio.
3.5.3 L’influenza del “fattore estero”
Quando si considerano accordi stipulati in passato (e prima della sentenza), l’elemento estero,
come la nazionalità estera delle parti oppure l’eventuale inclusione di una clausola di legge straniera nell’accordo, potrebbe incidere sull’interpretazione della reale volontà delle parti di rendere
effettivo il medesimo. In prospettiva futura, tuttavia, ciò non avrà alcun peso dato che si presumerà che ogni soggetto che conclude un accordo dopo questa sentenza ne abbia accettato la vincolatività.
3.5.4 Equità dell’accordo
La Corte Suprema inaugura un nuovo approccio agli accordi matrimoniali in Inghilterra e Galles:
“La Corte deve dare effetto a un accordo matrimoniale che sia stato stipulato liberamente da ciascuna parte con piena cognizione delle sue implicazioni a condizione che, sulla base di circostanze prevalenti del caso, non risulti iniquo ritenere le parti vincolate al loro accordo”.
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EUROPA
Quando deve ritenersi iniquo far rispettare l’accordo alle parti? I giudici della Corte Suprema si sono
astenuti dal determinare regole precise e severe che potrebbero, in pratica, limitare la loro discrezione nella valutazione di ciascun accordo secondo le proprie peculiarità.
Ciononostante vengono fornite alcune linee guida.
• Figli: a nessun accordo matrimoniale è consentito che siano pregiudicate le ragionevoli esigenze
dei figli.
• Autonomia: la Corte deve rispettare l’autonomia individuale e le decisioni di una coppia coniugata in relazione al modo in cui intendono gestire i loro interessi di natura patrimoniale e finanziaria.
• Proprietà non rientranti nel matrimonio: la distinzione tra beni personali e beni comuni accumulati nel corso del matrimonio risulta particolarmente significativa laddove le parti espressamente regolino tale distinzione in un accordo matrimoniale. Non esiste nulla di intrinsecamente
iniquo in un siffatto accordo e ci potrebbe anzi essere una giustificazione oggettiva per lo stesso,
per esempio l’esistenza di eventuali obblighi verso altri membri della famiglia.
• Circostanze future: quando un accordo prematrimoniale cerca di considerare circostanze future,
sconosciute e spesso impreviste, è maggiormente probabile che sia considerato iniquo. Quanto
più sia durato il matrimonio tanto più è probabile che si verifichi tale ipotesi.
Dei tre elementi individuati negli importanti casi White vs White4 e Miller vs Miller; McFarlane vs
McFarlane5, sono gli elementi del “bisogno” (“needs”) e dell’“indennizzo” (“compensation”) e non
la “condivisione” (“sharing”) che possono più facilmente rendere iniquo un accordo matrimoniale.
Qualora l’accordo venisse ritenuto iniquo rispetto a condizioni di bisogno o per l’esigenza di indennizzare l’altra parte, è probabile che non sia ritenuto vincolante. Per esempio, se un accordo
prematrimoniale prevedesse che un coniuge non intende rivendicare alcunché nei confronti dell’altro in caso di divorzio, anche qualora sia stato accumulato un patrimonio significativo durante
il matrimonio grazie all’equivalente contributo di entrambi i coniugi pur anche con attività diverse,
la Corte probabilmente non considererebbe tale accordo equo.
Tuttavia, laddove ciascuna parte possa soddisfare adeguatamente i propri bisogni, le esigenze di
equità potrebbero non richiedere che l’accordo sia disatteso.
3.6 Conclusioni
Sui fatti di questo caso, la Corte ha considerato i tre aspetti del “bisogno”, dell’“indennizzo” e della
“condivisione” come riportato di seguito:
• Bisogno. La situazione di bisogno del marito non era da considerarsi un elemento che rendeva
iniquo far onorare allo stesso i termini dell’accordo. Egli era in grado di guadagnarsi da vivere
e la generosa liquidazione per provvedere ai figli soddisfaceva indirettamente anche le sue esigenze.
• Indennizzo. Non c’erano esigenze di indennizzare il marito in questo caso. La decisione del marito di cambiare carriera è stata motivata da una scelta personale.
• Condivisione. Quando il marito ha sposato la moglie ha accettato di non rivendicare alcun diritto sul patrimonio della moglie. Pertanto non sussisteva alcuna esigenza di condivisione.
Era da ritenersi equo che il marito rispettasse l’accordo e, al contrario, sarebbe iniqua un’eventuale
mancata considerazione dello stesso. Il suo appello, dunque, è stato respinto.
4
[2000] UKHL 54.
5
[2006] UKHL 26.
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4. Il futuro
La Corte inglese ha inaugurato un approccio rispettoso dell’autonomia individuale e ha elevato gli
accordi prematrimoniali a uno status mai raggiunto prima. Si tratta di un orientamento che sarà certamente ben accolto da coloro che abbiano patrimoni da proteggere nel matrimonio.
Tuttavia, in pratica, non risulta ancora completamente chiaro ai professionisti cosa debba intendersi
con “equità” nel contesto matrimoniale. È palese che una coppia non sarà tenuta a rispettare un
accordo che ometta di provvedere per le esigenze basilari di vita; tuttavia, ci si può legittimamente
chiedere quanto questo importi, quando, nella maggior parte dei casi, le risorse sono limitate e i
coniugi riescono a stento a soddisfare le proprie esigenze primarie Cosa si deve intendere per “informazioni concrete” (“material information”) ai fini della dichiarazione? Per evitare costosi contenziosi su questa materia, i clienti devono essere bene assistiti al fine di fornire dichiarazioni patrimoniali complete prima di stipulare accordi e ciascun cliente dovrebbe, naturalmente, ricevere
consulenza legale indipendente.
È solo nei cosiddetti casi “milionari”, vale a dire laddove ci sia un patrimonio significativo, che l’impatto della sentenza verrà sentito davvero. In tali casi ora risulta più probabile che le parti siano
tenute a rispettare i termini dell’accordo. Tuttavia, ciò potrebbe non verificarsi allorché il patrimonio
accumulato durante il matrimonio sia stato generato in modi non previsti al momento della stipula
dell’accordo. Rimane inoltre da vedere se l’approccio rimarrà lo stesso nel caso in cui il marito sia
la parte finanziariamente più forte e la moglie la parte finanziariamente più debole.
La sentenza appalesa che le parti che stipulano accordi matrimoniali, d’ora in poi, saranno considerate consapevoli del vincolo stabilito dagli stessi. Sembra che si sia invertito l’onere della prova; infatti, sarà onere della persona che cerca di svincolarsi dall’accordo a dover dimostrare i motivi per
i quali i termini dello stesso non dovrebbero essere rispettati. Sebbene in termini pratici la sentenza
incoraggi molte più persone benestanti a proteggere il proprio patrimonio con accordi matrimoniali,
siamo ancora lontani da una posizione in cui i coniugi sono tenuti a onorare i loro accordi indipendentemente dalle condizioni stabilite negli stessi; prova ne è che nel caso Radmacher vs Granatino
il marito, in definitiva, ha ottenuto più denaro di quanto l’accordo in realtà prevedesse.
Una Commissione di tecnici (Law Commission) dovrà presentare un documento di consultazione e
riferire su proposte di riforma legislativa nel 2012. Tuttavia, rimane da vedere se davvero siamo in
presenza di una volontà politica di modificare l’attuale assetto normativo. È certamente tempo che
il Governo introduca norme sulla divisione dei beni al momento del divorzio nell’Inghilterra dell’era moderna, allineandosi così maggiormente alle legislazioni di altri Paesi europei.
64
EUROPA
COMMISSIONE EUROPEA
Bruxelles, 16.3.2011
COM(2011) 126 definitivo
2011/0059 (CNS)
Proposta di
REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO
relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi
{COM(2011) 125 definitivo}
{COM(2011) 127 definitivo}
{SEC(2011) 327 definitivo}
{SEC(2011) 328 definitivo}
Capo I
Campo d’applicazione e definizioni
Articolo 1. Campo d’applicazione
1. Il presente regolamento si applica ai regimi patrimoniali tra coniugi.
Esso non si applica, in particolare, alle materie fiscali, doganali e amministrative.
2. Nel presente regolamento per “Stato membro” si intendono tutti gli Stati membri ad eccezione
della Danimarca[, del Regno Unito e dell’Irlanda].
3. Sono esclusi dal campo d’applicazione del presente regolamento:
a) la capacità dei coniugi;
b) le obbligazioni alimentari;
c) le liberalità tra coniugi;
d) i diritti successori del coniuge superstite;
e) le società tra coniugi;
f) la natura dei diritti reali e la pubblicità di tali diritti.
Articolo 2. Definizioni
Ai fini del presente regolamento si intende per:
a) “regime patrimoniale tra coniugi”: l’insieme delle norme che regolano i rapporti patrimoniali
dei coniugi tra loro e con terzi;
b) “contratto di matrimonio”: qualsiasi accordo con cui i coniugi organizzano i rapporti patrimoniali tra loro e con terzi;
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
c) “atto pubblico”: qualsiasi documento che sia stato formalmente redatto o registrato come atto
pubblico nello Stato membro d’origine e la cui autenticità:
i) riguardi la firma e il contenuto dell’atto pubblico, e
ii) sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a tal fine autorizzata;
d) “decisione”: a prescindere dalla denominazione usata, qualsiasi decisione in materia di regime
patrimoniale tra coniugi emessa da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, quale ad
esempio decreto, ordinanza, sentenza o mandato di esecuzione, nonché la determinazione delle spese giudiziali da parte del cancelliere;
e) “Stato membro d’origine”: lo Stato membro in cui, a seconda dei casi, è stata emessa la decisione, è stato concluso il contratto di matrimonio, è stato formato l’atto pubblico, è stata approvata la transazione giudiziaria o è stato effettuato l’atto di divisione del patrimonio comune o
qualunque altro atto effettuato dinanzi o ad opera dell’autorità giudiziaria o altra autorità da
quella delegata o designata;
f) “Stato membro richiesto”: lo Stato membro in cui vengono richiesti il riconoscimento e/o l’esecuzione della decisione, del contratto di matrimonio, dell’atto pubblico, della transazione giudiziaria, dell’atto di divisione del patrimonio comune o di qualunque altro atto effettuato dinanzi o ad opera dell’autorità giudiziaria o altra autorità da quella delegata o designata;
g) “autorità giurisdizionale”: l’autorità giudiziaria competente degli Stati membri che eserciti una
funzione giurisdizionale in materia di regime patrimoniale tra coniugi o altra autorità non giudiziaria o persona che, su delega o designazione di un’autorità giudiziaria degli Stati membri,
eserciti funzioni di competenza delle autorità giurisdizionali ai sensi del presente regolamento;
h) “transazione giudiziaria”: la transazione in materia di regime patrimoniale tra coniugi approvata
dall’autorità giurisdizionale o conclusa dinanzi all’autorità giurisdizionale nel corso di un procedimento.
Capo II
Competenza
Articolo 3. Competenza in caso di morte di un coniuge
Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro investite di una domanda riguardante la successione di un coniuge ai sensi del regolamento (UE) n. .../... [del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo] sono
altresì competenti a decidere sulle questioni inerenti al regime patrimoniale tra coniugi correlate
alla domanda.
Articolo 4. Competenza in caso di divorzio, separazione personale o annullamento del matrimonio
Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro investite di una domanda di divorzio, separazione
personale o annullamento del matrimonio ai sensi del regolamento (CE) n. 2201/2003 sono altresì
competenti, se sussiste accordo dei coniugi, a decidere sulle questioni inerenti al regime patrimoniale tra coniugi correlate alla domanda.
L’accordo può essere concluso in qualsiasi momento, anche nel corso del procedimento. Se è concluso
prima del procedimento, deve essere formulato per iscritto, datato e firmato da entrambe le parti.
In mancanza di accordo dei coniugi, la competenza è disciplinata dall’articolo 5 e seguenti.
66
EUROPA
Articolo 5. Altre competenze
1. Fuori dei casi di cui agli articoli 3 e 4, sono competenti a decidere sulle questioni inerenti al
regime patrimoniale tra coniugi le autorità giurisdizionali dello Stato membro:
a) della residenza abituale comune dei coniugi o, in mancanza,
b) dell’ultima residenza abituale comune dei coniugi se uno dei due vi risiede ancora o, in
mancanza,
c) della residenza abituale del convenuto o, in mancanza,
d) della cittadinanza dei coniugi o, nel caso del Regno Unito e dell’Irlanda, del loro “domicile”
comune.
2. I coniugi possono concordare di attribuire la competenza a decidere sulle questioni inerenti al
loro regime patrimoniale alle autorità giurisdizionali dello Stato membro la cui legge hanno
scelto come legge applicabile al loro regime patrimoniale, ai sensi degli articoli 16 e 18.
L’accordo può essere concluso in qualsiasi momento, anche nel corso del procedimento. Se è
concluso prima del procedimento, deve essere formulato per iscritto, datato e firmato da entrambe le parti.
Articolo 6. Competenza sussidiaria
Se nessuna autorità giurisdizionale è competente ai sensi degli articoli 3, 4 e 5, sono competenti
le autorità giurisdizionali di uno Stato membro nella misura in cui uno o più beni di uno o entrambi i coniugi sono situati nel suo territorio, nel qual caso l’autorità giurisdizionale si pronuncerà solo
sul quel bene o su quei beni.
Articolo 7. Forum necessitatis
Qualora nessuna autorità giurisdizionale di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli
3, 4, 5 e 6, le autorità giurisdizionali di uno Stato membro possono, in via eccezionale e purché la
causa presenti un collegamento sufficiente con quello Stato membro, conoscere di una controversia in materia di regime patrimoniale tra coniugi se un procedimento non può ragionevolmente essere intentato o svolto o si rivela impossibile in uno Stato terzo.
Articolo 8. Competenza in caso di domanda riconvenzionale
L’autorità giurisdizionale adita ai sensi degli articoli 3, 4, 5, 6 o 7, dinanzi alla quale il procedimento
è pendente, è altresì competente a esaminare la domanda riconvenzionale in quanto essa rientri
nell’ambito di applicazione del presente regolamento.
Articolo 9. Adizione di un’autorità giurisdizionale
L’autorità giurisdizionale si considera adita:
a) alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente è depositato presso l’autorità giurisdizionale, a condizione che il ricorrente non abbia in seguito omesso di prendere le misure
che era tenuto a prendere affinché l’atto fosse notificato o comunicato al convenuto, o
b) qualora l’atto debba essere notificato o comunicato prima di essere depositato presso l’autorità
giurisdizionale, alla data della sua ricezione da parte dell’autorità incaricata della notificazione
o comunicazione, a condizione che il ricorrente non abbia in seguito omesso di prendere le misure che era tenuto a prendere affinché l’atto fosse depositato presso l’autorità giurisdizionale.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
Articolo 10. Verifica della competenza
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro investita di una controversia in materia di regime
patrimoniale tra coniugi per la quale non è competente in base al presente regolamento dichiara
d’ufficio la propria incompetenza.
Articolo 11. Verifica della ricevibilità
1. Se il convenuto che ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato diverso dallo Stato membro in cui è stata proposta l’azione non compare, l’autorità giurisdizionale competente sospende il procedimento finché non sia accertato che il convenuto è stato messo nelle condizioni di
ricevere la domanda giudiziale o atto equivalente in tempo utile a consentirgli di presentare le
proprie difese o che sono stati effettuati tutti gli adempimenti in tal senso.
2. In luogo delle disposizioni del paragrafo 1 si applica l’articolo 19 del regolamento (CE) n.
1393/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione negli Stati membri di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale,
qualora sia stato necessario trasmettere da uno Stato membro a un altro la domanda giudiziale
o un atto equivalente a norma di tale regolamento.
3. Ove non siano applicabili le disposizioni del regolamento (CE) n. 1393/2007, si applica l’articolo 15 della convenzione dell’Aia del 15 novembre 1965 relativa alla notificazione e alla comunicazione all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale1, qualora sia stato necessario trasmettere all’estero la domanda giudiziale o un atto equivalente a norma di tale convenzione.
Articolo 12. Litispendenza
1. Qualora davanti ad autorità giurisdizionali di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano
state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita in precedenza.
2. Nei casi di cui al paragrafo 1, l’autorità giurisdizionale adita per prima accerta la propria competenza entro sei mesi, salvo impossibilità dovuta a circostanze eccezionali. Su istanza di qualunque altra autorità giurisdizionale investita della controversia, l’autorità giurisdizionale adita
per prima comunica all’altra autorità giurisdizionale la data in cui è stata adita e se ha accertato
la competenza o quando prevede di farlo.
3. Ove sia accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita per prima, l’autorità giurisdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore della prima.
Articolo 13. Connessione
1. Ove più cause connesse siano pendenti dinanzi ad autorità giurisdizionali di diversi Stati membri, l’autorità giurisdizionale successivamente adita può sospendere il procedimento.
2. Se tali cause sono pendenti dinanzi ad autorità giurisdizionali di primo grado, l’autorità giurisdizionale successivamente adita può parimenti dichiarare la propria incompetenza su richiesta
di una delle parti a condizione che l’autorità giurisdizionale adita per prima sia competente a
conoscere delle domande proposte e la sua legge consenta la riunione dei procedimenti.
3. Ai sensi del presente articolo sono connesse le cause aventi tra di loro un legame così stretto
1
GU L 324 del 10.12.2007, pag. 79.
68
EUROPA
da rendere opportune una trattazione e una decisione uniche per evitare soluzioni tra loro incompatibili ove le cause fossero trattate separatamente.
Articolo 14. Provvedimenti provvisori e cautelari
I provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti alle autorità giurisdizionali di tale Stato anche se, in forza del presente regolamento, la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
Capo III
Legge applicabile
Articolo 15. Unità della legge applicabile
La legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi ai sensi degli articoli 16, 17 e 18 si applica
alla totalità dei beni dei coniugi.
Articolo 16. Scelta della legge applicabile
I coniugi o nubendi possono scegliere la legge applicabile al loro regime patrimoniale purché si
tratti di una delle seguenti leggi:
a) la legge dello Stato della residenza abituale comune dei coniugi o nubendi, o
b) la legge dello Stato della residenza abituale di uno dei coniugi o nubendi al momento della scelta, o
c) la legge di uno Stato di cui uno dei coniugi o nubendi è cittadino al momento della scelta.
Articolo 17. Determinazione della legge applicabile in mancanza di scelta
1. In mancanza di scelta dei coniugi, la legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi è:
a) la legge dello Stato della prima residenza abituale comune dei coniugi dopo il matrimonio
o, in mancanza,
b) la legge dello Stato della cittadinanza comune dei coniugi al momento del matrimonio o, in
mancanza,
c) la legge dello Stato con cui i coniugi presentano assieme il collegamento più stretto, tenuto
conto di tutte le circostanze, in particolare del luogo di celebrazione del matrimonio.
2. Le disposizioni del paragrafo 1, lettera b), non si applicano se i coniugi hanno più di una cittadinanza comune.
Articolo 18. Cambiamento della legge applicabile
I coniugi possono in qualsiasi momento nel corso del matrimonio assoggettare il loro regime patrimoniale a una legge diversa da quella fino ad allora applicabile. Possono designare soltanto una
delle seguenti leggi:
a) la legge dello Stato della residenza abituale di uno dei coniugi al momento della scelta;
b) la legge di uno Stato di cui uno dei coniugi è cittadino al momento della scelta.
Salvo espressa volontà contraria dei coniugi, il cambiamento della legge applicabile al loro regime
patrimoniale deciso nel corso del matrimonio ha effetti solo per il futuro.
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AIAF RIVISTA 2011/2 • maggio-agosto 2011
Se i coniugi convengono di attribuire efficacia retroattiva al cambiamento della legge applicabile,
la retroattività non pregiudica la validità degli atti conclusi anteriormente ai sensi della legge fino
ad allora applicabile, né i diritti dei terzi derivanti dalla legge anteriormente applicabile.
Articolo 19. Modalità formali di scelta della legge applicabile
1. La scelta della legge applicabile è effettuata nella forma prescritta per il contratto di matrimonio
dalla legge applicabile dello Stato scelto ovvero dalla legge dello Stato in cui è redatto l’atto.
2. Nonostante il paragrafo 1, la scelta è come minimo espressa, è formulata per iscritto, datata e
firmata da entrambi i coniugi.
3. Se la legge dello Stato membro in cui entrambi i coniugi hanno la residenza abituale comune
al momento della scelta di cui al paragrafo 1 prevede requisiti di forma supplementari per il
contratto di matrimonio, si applicano tali requisiti.
Articolo 20. Legge applicabile alla forma del contratto di matrimonio
1. La forma del contratto di matrimonio è quella prescritta dalla legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi ovvero dalla legge dello Stato in cui è redatto il contratto.
2. Nonostante il paragrafo 1, il contratto di matrimonio è come minimo redatto per iscritto, datato
e firmato da entrambi i coniugi.
3. Se la legge dello Stato membro in cui entrambi i coniugi hanno la residenza abituale comune
al momento della conclusione del contratto di matrimonio prevede requisiti di forma supplementari per il contratto, si applicano tali requisiti.
Articolo 21. Carattere universale della norma di conflitto
La legge determinata secondo le disposizioni del presente capo si applica anche se non è la legge
di uno Stato membro.
Articolo 22. Norme di applicazione necessaria
Le disposizioni del presente regolamento non ostano all’applicazione delle norme il cui rispetto è
ritenuto cruciale da uno Stato membro per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua
organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi secondo il presente regolamento.
Articolo 23. Ordine pubblico del foro
L’applicazione di una norma della legge designata dal presente regolamento può essere esclusa
solo qualora tale applicazione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro.
Articolo 24. Esclusione del rinvio
Quando prescrive l’applicazione della legge di uno Stato, il presente regolamento si riferisce alle norme giuridiche in vigore in quello Stato, ad esclusione delle norme di diritto internazionale privato.
Articolo 25. Stati con due o più sistemi giuridici - conflitti territoriali di leggi
Ove uno Stato si componga di più unità territoriali, ciascuna con il proprio sistema giuridico o
complesso di norme per materie disciplinate dal presente regolamento:
70
EUROPA
a) ogni riferimento alla legge di tale Stato è inteso, ai fini della determinazione della legge applicabile ai sensi del presente regolamento, come riferimento alla legge in vigore nell’unità territoriale pertinente;
b) ogni riferimento alla residenza abituale in quello Stato è inteso come riferimento alla residenza
abituale in un’unità territoriale;
c) ogni riferimento alla cittadinanza è inteso come riferimento all’appartenenza all’unità territoriale
determinata dalla legge di detto Stato o, in mancanza di norme pertinenti, all’unità territoriale
scelta dalle parti o, in mancanza di scelta, all’unità territoriale con la quale il coniuge o i coniugi
hanno il legame più stretto.
Capo IV
Riconoscimento, esecutività ed esecuzione
SEZIONE 1
Decisioni
Sottosezione 1
Riconoscimento
Articolo 26. Riconoscimento delle decisioni
1. Le decisioni emesse in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che
siano necessari ulteriori procedimenti.
2. In caso di contestazione, ogni parte interessata che chieda il riconoscimento in via principale
di una decisione può far accertare, secondo il procedimento di cui agli articoli [da 38 a 56] del
regolamento (CE) n. 44/2001, che la decisione deve essere riconosciuta.
3. Se il riconoscimento è richiesto in via incidentale davanti a un’autorità giurisdizionale di uno
Stato membro, tale autorità giurisdizionale è competente al riguardo.
Articolo 27. Motivi di diniego del riconoscimento di una decisione
Le decisioni non sono riconosciute:
a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) se la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da consentirgli di presentare le proprie difese
eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione;
c) se sono in contrasto con una decisione emessa tra le medesime parti nello Stato membro richiesto;
d) se sono in contrasto con una decisione emessa precedentemente tra le medesime parti in un
altro Stato membro o in un paese terzo, in una controversia avente il medesimo oggetto e il
medesimo titolo, allorché tale decisione presenta le condizioni necessarie per essere riconosciuta nello Stato membro richiesto.
Articolo 28. Divieto di riesame della competenza dell’autorità giurisdizionale d’origine
1. Non si può procedere al riesame della competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato
membro d’origine.
71
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2. Il criterio dell’ordine pubblico di cui all’articolo 23 non si applica alle norme sulla competenza
di cui agli articoli da 3 a 8.
Articolo 29. Divieto di riesame del merito
In nessun caso la decisione straniera può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 30. Sospensione del procedimento
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è chiesto il riconoscimento di una
decisione emessa in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata
impugnata con un mezzo ordinario.
Sottosezione 2
Esecuzione
Articolo 31. Decisioni esecutive
Le decisioni emesse in uno Stato membro e ivi esecutive sono eseguite negli altri Stati membri in
conformità degli articoli [da 38 a 56 e dell’articolo 58] del regolamento (CE) n. 44/2001.
SEZIONE 2
Atti pubblici e transazioni giudiziarie
Articolo 32. Riconoscimento degli atti pubblici
1. Gli atti pubblici formati in uno Stato membro sono riconosciuti negli altri Stati membri, salvo
contestazione della validità secondo la legge applicabile e a condizione che il riconoscimento
non sia manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto.
2. In conseguenza del riconoscimento, gli atti pubblici godono dello stesso valore probatorio
quanto al contenuto dell’atto e di una presunzione semplice di validità.
Articolo 33. Esecutività degli atti pubblici
1. Gli atti pubblici formati ed aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro sono, su istanza di
parte, dichiarati esecutivi in un altro Stato membro conformemente alla procedura contemplata
agli articoli [da 38 a 57] del regolamento (CE) n. 44/2001.
2. L’autorità giurisdizionale alla quale l’istanza è proposta ai sensi degli articoli [43 e 44] del regolamento (CE) n. 44/2001 rigetta o revoca la dichiarazione di esecutività solo se l’esecuzione
dell’atto pubblico è manifestamente contraria all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto.
Articolo 34. Riconoscimento ed esecutività delle transazioni giudiziarie
Le transazioni giudiziarie aventi efficacia esecutiva nello Stato membro d’origine sono riconosciute
e dichiarate esecutive in un altro Stato membro su istanza di qualsiasi parte interessata, alle stesse
condizioni previste per gli atti pubblici. L’autorità giurisdizionale alla quale l’istanza è proposta ai
sensi dell’articolo [42 o dell’articolo 44] del regolamento (CE) n. 44/2001 rigetta o revoca la dichiarazione di esecutività solo se l’esecuzione della transazione giudiziaria è manifestamente contraria
all’ordine pubblico dello Stato membro dell’esecuzione.
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EUROPA
Capo V
Opponibilità a terzi
Articolo 35. Opponibilità a terzi
1. Gli effetti del regime patrimoniale tra coniugi sui rapporti giuridici tra un coniuge e un terzo
sono disciplinati dalla legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi in virtù del presente
regolamento.
2. Tuttavia, la legge di uno Stato membro può prevedere che il coniuge non possa opporre a un
terzo la legge applicabile qualora uno dei coniugi o il terzo abbia la propria residenza abituale
sul territorio di quello Stato membro e non siano state rispettate le condizioni di pubblicità o
registrazione previste dalla legge di quello Stato membro, salvo che il terzo conosca o debba
conoscere la legge applicabile al regime patrimoniale tra coniugi.
3. La legge dello Stato membro in cui si trova un immobile può prevedere una norma analoga a
quella prevista dal paragrafo 2 per i rapporti giuridici tra un coniuge e un terzo relativi a tale
immobile.
Capo VI
Disposizioni generali e finali
Articolo 36. Relazioni con le convenzioni internazionali in vigore
1. Il presente regolamento non pregiudica l’applicazione delle convenzioni bilaterali o multilaterali di cui uno o più Stati membri sono parte al momento dell’adozione del presente regolamento e che riguardano materie ivi disciplinate, fatti salvi gli obblighi che incombono agli Stati
membri in virtù dell’articolo 351 del trattato.
2. Nonostante il paragrafo 1, il presente regolamento prevale, tra gli Stati membri, sulle convenzioni che riguardano materie disciplinate dal presente regolamento e di cui sono parte gli Stati
membri.
Articolo 37. Informazioni messe a disposizione dei cittadini e delle autorità competenti
1. Entro il [...] gli Stati membri comunicano alla Commissione nella lingua o nelle lingue ufficiali
ritenute idonee:
a) una descrizione dell’ordinamento giuridico e delle procedure nazionali in materia di regimi
patrimoniali tra coniugi, e i testi pertinenti;
b) le disposizioni nazionali relative all’opponibilità a terzi ai sensi dell’articolo 35, paragrafi 2
e 3.
2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione qualsiasi successiva modifica di tali disposizioni.
3. La Commissione rende pubblicamente accessibili le informazioni comunicate conformemente
ai paragrafi 1 e 2 con mezzi appropriati, in particolare tramite il sito Internet multilingue della
rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale.
Articolo 38. Clausola di revisione
1. Entro il [cinque anni dalla data di applicazione ...] e successivamente ogni cinque anni, la Com-
73
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missione presenta al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale una
relazione sull’applicazione del presente regolamento. Tale relazione è corredata, se del caso, di
opportune proposte di modifica.
2. A tal fine gli Stati membri comunicano alla Commissione le informazioni pertinenti in ordine
all’applicazione del presente regolamento da parte delle rispettive autorità giurisdizionali.
Articolo 39. Disposizioni transitorie
1. Le disposizioni dei capi II e IV del presente regolamento si applicano ai procedimenti avviati,
agli atti pubblici formati, alle transazioni giudiziarie concluse e alle decisioni emesse dopo la
data della sua applicazione.
2. Tuttavia, se il procedimento nello Stato membro di origine è stato avviato prima della data di
applicazione del presente regolamento, le decisioni emesse dopo tale data sono riconosciute
ed eseguite secondo le disposizioni del capo IV se le norme sulla competenza applicate sono
conformi a quelle stabilite dalle disposizioni del capo II.
3. Le disposizioni del capo III sono applicabili solo ai coniugi che hanno contratto matrimonio o
che hanno designato la legge applicabile al loro regime patrimoniale dopo la data di applicazione del presente regolamento.
Articolo 40. Entrata in vigore
1. Il presente regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
2. Il presente regolamento si applica dal [un anno dopo la data di entrata in vigore].
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli Stati
membri conformemente ai trattati.
Fatto a [...], [...]
Per il Consiglio
Il presidente
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COMMISSIONE EUROPEA
Bruxelles, 16.3.2011
COM(2011) 127 definitivo
2011/0060 (CNS)
Proposta di
REGOLAMENTO DEL CONSIGLIO
relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in particolare l’articolo 81, paragrafo 3,
vista la proposta della Commissione,
visto il parere del Parlamento europeo1,
visto il parere del Comitato economico e sociale europeo2,
visto il parere del Comitato delle regioni3,
deliberando secondo una procedura legislativa speciale,
considerando quanto segue:
(1)
(2)
(3)
(4)
L’Unione europea si prefigge di conservare e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone. Al fine di una progressiva
istituzione di tale spazio, l’Unione deve adottare misure nel settore della cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali.
Il Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 ha avallato il principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e altre decisioni delle autorità giudiziarie quale pietra
angolare della cooperazione giudiziaria in materia civile, invitando il Consiglio e la Commissione ad adottare un programma di misure per l’attuazione di tale principio.
Il 30 novembre 2000 il Consiglio ha adottato il progetto di programma di misure relative all’attuazione del principio del riconoscimento reciproco delle decisioni in materia civile e
commerciale4. Il programma ravvisa nelle misure relative all’armonizzazione delle norme sui
conflitti di legge gli strumenti che facilitano il reciproco riconoscimento delle decisioni, e
prevede l’elaborazione di uno o più strumenti sul reciproco riconoscimento in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e conseguenze patrimoniali della separazione di coppie non
sposate.
Il Consiglio europeo riunitosi a Bruxelles il 4 e 5 novembre 2004 ha adottato un nuovo programma, dal titolo “Programma dell’Aia: rafforzamento della libertà, della sicurezza e della
1
GU C [...] del [...], pag. [...].
2
GU C [...] del [...], pag. [...].
3
GU C [...] del [...], pag. [...].
4
GU C 12 del 15.1.2001, pag.1.
75
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(5)
(6)
(7)
(8)
(9)
(10)
(11)
giustizia nell’Unione europea”5. In questo programma il Consiglio invitava la Commissione a
presentare un libro verde sul conflitto di leggi in materia di regime patrimoniale fra coniugi,
compreso il problema della competenza giurisdizionale e del riconoscimento reciproco, sottolineando la necessità di mettere a punto entro il 2011 uno strumento in questo settore.
Il 17 luglio 2006 la Commissione ha adottato il libro verde sul conflitto di leggi in materia di
regime patrimoniale dei coniugi, compreso il problema della competenza giurisdizionale e
del riconoscimento reciproco6. Questo libro verde ha dato l’avvio a una vasta consultazione
sulle difficoltà che devono affrontare le coppie in un contesto europeo al momento della divisione del patrimonio comune, e sugli strumenti giuridici per porvi rimedio. Ha inoltre trattato l’insieme delle questioni di diritto internazionale privato con cui si confrontano le coppie
legate da forme di unione diverse dal matrimonio, in particolare da unione registrata, e le
questioni specifiche che si pongono.
Il programma di Stoccolma del dicembre 20097, che fissa il programma di lavoro della Commissione per il periodo 2010-2014, dichiara che si dovrebbe estendere il riconoscimento reciproco alle conseguenze patrimoniali delle separazioni.
Nella “Relazione 2010 sulla cittadinanza dell’Unione - Eliminare gli ostacoli all’esercizio dei
diritti dei cittadini dell’Unione”8, adottata il 27 ottobre 2010, la Commissione ha annunciato
l’intenzione di adottare una proposta di strumento legislativo che permetta di eliminare gli
ostacoli alla libera circolazione delle persone, in particolare le difficoltà incontrate dalle coppie nella gestione o nella divisione dei loro beni.
Le caratteristiche proprie di queste due forme di unione – matrimonio e unione registrata –
e le differenze che ne conseguono sul piano dei princìpi applicabili giustificano la separazione in due strumenti distinti delle disposizioni che disciplinano gli aspetti patrimoniali del
matrimonio e gli aspetti patrimoniali delle unioni registrate, che sono oggetto del presente
regolamento.
Il modo in cui il diritto nazionale concepisce le forme di unione diverse dal matrimonio varia
da uno Stato membro all’altro, e la distinzione s’impone tra coppie la cui unione è istituzionalmente formalizzata mediante registrazione davanti a un’autorità pubblica e coppie che vivono
in unione di fatto. Queste ultime, sebbene siano legalmente riconosciute da alcuni Stati membri, devono essere dissociate dalle unioni registrate, il cui formalismo permette di tenere conto
della loro specificità e di definire in uno strumento dell’Unione le norme applicabili. Per facilitare il buon funzionamento del mercato interno è necessario eliminare gli ostacoli alla libera
circolazione delle persone legate da unione registrata, in particolare le difficoltà che queste
coppie incontrano nel gestire e dividere i loro beni. Per conseguire tali obiettivi, il presente regolamento raggruppa in un unico strumento le disposizioni sulla competenza giurisdizionale,
sulla legge applicabile, sul riconoscimento e sull’esecuzione delle decisioni e degli atti pubblici, e sull’opponibilità a terzi degli effetti patrimoniali delle unioni registrate.
Il presente regolamento disciplina le questioni correlate agli effetti patrimoniali delle unioni
registrate. La nozione di “unione registrata” è definita ai fini esclusivi del regolamento; il suo
contenuto specifico è definito dal diritto interno degli Stati membri.
È opportuno che il campo di applicazione del presente regolamento si estenda a tutti gli
aspetti civili dei regimi patrimoniali dell’unione registrata, riguardanti tanto la gestione quotidiana dei beni dei partner quanto la loro divisione in seguito a separazione o morte di un
partner.
5
GU L 53 del 3.3.2005, pag. 1.
6
COM(2006) 400.
7
Programma di Stoccolma - Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini (GU C 115 del 4.5.2010, pag. 1).
8
COM(2010) 603.
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(12)
(13)
(14)
(15)
(16)
(17)
Le obbligazioni alimentari tra partner dell’unione registrata, essendo disciplinate dal regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari9, devono essere escluse dal campo di applicazione del presente regolamento, analogamente agli aspetti relativi alla validità e agli effetti delle liberalità,
disciplinati con regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del
17 giugno 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali10.
Devono altresì esulare dal campo di applicazione del presente regolamento gli aspetti inerenti alla natura dei diritti reali eventualmente contemplati dagli ordinamenti nazionali, e
quelli connessi alla pubblicità di tali diritti, già esclusi dal campo di applicazione del regolamento (UE) n. .../... [del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla competenza, alla
legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo] 11. Le autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui si trova un bene di uno o di entrambi i partner possono
quindi adottare misure di diritto sostanziale relative, in particolare, alla trascrizione della trasmissione di quel bene nei pubblici registri immobiliari, qualora la legge di quello Stato
membro lo preveda.
Per favorire una buona amministrazione della giustizia e facilitare la divisione dei beni dei
partner dell’unione registrata a seguito della morte di un partner, è opportuno che a trattare
le questioni relative agli aspetti patrimoniali dell’unione registrata correlate alla morte del
partner siano le autorità giurisdizionali dello Stato membro competenti a conoscere della
successione del partner premorto ai sensi del regolamento (UE) n. .../... [del Parlamento europeo e del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di
un certificato successorio europeo].
Analogamente, il presente regolamento deve permettere di estendere la competenza delle
autorità giurisdizionali di uno Stato membro investite di una domanda di scioglimento o annullamento di un’unione registrata alle questioni inerenti agli aspetti patrimoniali dell’unione
registrata correlate tale domanda, se sussiste accordo dei partner.
Nelle altre situazioni, il presente regolamento deve permettere di determinare la competenza
territoriale delle autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle questioni relative agli aspetti patrimoniali delle unioni registrate, in base a un elenco gerarchico di criteri
che garantiscano l’esistenza di uno stretto collegamento tra i partner e lo Stato membro le
cui autorità giurisdizionali sono competenti. È riconosciuta la possibilità per tali autorità giurisdizionali, salvo quelle dello Stato membro in cui l’unione è stata registrata, di dichiararsi
incompetenti ove il diritto nazionale non contempli l’istituto dell’unione registrata. Da ultimo,
al fine di prevenire situazioni di diniego di giustizia, è introdotta una norma di competenza
sussidiaria per il caso in cui nessuna autorità giurisdizionale sia competente a conoscere della fattispecie alla luce delle altre disposizioni del presente regolamento.
Il buon funzionamento della giustizia presuppone che negli Stati membri non vengano
emesse decisioni incompatibili. A tal fine il presente regolamento deve prevedere norme generali di procedura mutuandole dal regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione
delle decisioni in materia civile e commerciale12.
9
GU L 7 del 10.1.2009, pag. 1.
10 GU L 177 del 4.7.2008, pag. 6.
11 GU C [...] del [...], pag. [...].
12 GU L 12 del 16.1.2001, pag. 1.
77
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(18)
(19)
(20)
(21)
(22)
(23)
(24)
(25)
Per agevolare ai partner la gestione dei beni, la legge dello Stato in cui l’unione è stata registrata si applicherà all’insieme dei beni dei partner, anche se non è la legge di uno Stato
membro.
Per agevolare alle autorità giurisdizionali di uno Stato membro l’applicazione della legge di
un altro Stato membro, la rete giudiziaria europea in materia civile e commerciale, istituita
con decisione 2001/470/CE del Consiglio del 28 maggio 200113, potrà intervenire per informare le autorità giurisdizionali sul contenuto della legge straniera.
Considerazioni di pubblico interesse possono giustificare, in circostanze eccezionali, che le autorità giurisdizionali degli Stati membri applichino norme di applicazione necessaria qualora il
loro rispetto sia cruciale per la salvaguardia dell’organizzazione politica, sociale o economica
degli Stati interessati. Analogamente, in presenza di circostanze eccezionali, le autorità giurisdizionali degli Stati membri devono poter disapplicare la legge straniera qualora la sua applicazione in una precisa fattispecie risultasse manifestamente contraria all’ordine pubblico del foro.
Tuttavia, alle autorità giurisdizionali non dovrà essere consentito di applicare le norme di applicazione necessaria né di avvalersi dell’eccezione di ordine pubblico per disapplicare la
legge di un altro Stato membro, né di rifiutare di riconoscere o eseguire la decisione, l’atto
pubblico o la transazione giudiziaria emessi in un altro Stato membro, qualora l’applicazione
dell’eccezione di ordine pubblico violi la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
in particolare l’articolo 21 che vieta qualsiasi forma di discriminazione. Inoltre, alle autorità
giurisdizionali non dovrà essere consentito di disapplicare la legge applicabile alle unioni registrate per il solo motivo che la legge del foro non riconosce le unioni registrate.
Poiché in alcuni Stati coesistono due o più sistemi giuridici o complessi di norme per le materie disciplinate dal presente regolamento, è opportuno prevedere in quale misura le disposizioni del presente regolamento si applicano nelle differenti unità territoriali di tali Stati.
Poiché il riconoscimento reciproco delle decisioni emesse negli Stati membri è uno degli
obiettivi perseguiti dal presente regolamento, questo deve prevedere norme relative al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni mutuandole dalle disposizioni del regolamento
(CE) n. 44/2001 e adattandole, ove necessario, alle specifiche esigenze della materia oggetto
del presente regolamento. Pertanto lo Stato membro il cui diritto nazionale non contempli
l’istituto dell’unione registrata o attribuisca effetti patrimoniali diversi non potrà negare il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione riguardante, in tutto o in parte, gli effetti patrimoniali di un’unione registrata.
Per tenere conto delle diverse modalità di disciplinare le questioni relative agli aspetti patrimoniali delle unioni registrate negli Stati membri, il presente regolamento deve assicurare il
riconoscimento e l’esecuzione degli atti pubblici. Tuttavia, gli atti pubblici non possono essere assimilati alle decisioni giudiziarie per quanto concerne il loro riconoscimento. In conseguenza del riconoscimento, gli atti pubblici godono dello stesso valore probatorio quanto
al contenuto dell’atto e degli stessi effetti che nello Stato membro d’origine, nonché di una
presunzione di validità che può venir meno in caso di contestazione.
Se la legge applicabile agli effetti patrimoniali delle unioni registrate deve regolare i rapporti
giuridici tra un partner e un terzo, per tutelare quest’ultimo occorre che le condizioni di opponibilità della legge applicabile siano disciplinate dalla legge dello Stato membro in cui si
trova la residenza abituale del partner o del terzo. La legge di tale Stato membro potrebbe
quindi prevedere che il partner opponga al terzo la legge applicabile agli effetti patrimoniali
dell’unione registrata solo se ricorrono le condizioni di registrazione o di pubblicità previste
da quello Stato membro, salvo che il terzo conosca o debba conoscere la legge applicabile
agli effetti patrimoniali dell’unione registrata.
13 GU L 174 del 27.6.2001, pag. 25.
78
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(26)
(27)
(28)
(29)
(30)
In conseguenza degli impegni internazionali sottoscritti dagli Stati membri, il presente regolamento lascia impregiudicate le convenzioni internazionali di cui uno o più di essi sono parti al momento della sua adozione. La coerenza con gli obiettivi generali del presente regolamento esige tuttavia che, tra gli Stati membri, esso prevalga sulle convenzioni.
Poiché gli obiettivi del presente regolamento, ossia garantire la libera circolazione delle persone nell’Unione europea, permettere ai partner di organizzare i rapporti patrimoniali tra loro e con terzi durante la vita di coppia e al momento della divisione dei beni comuni, aumentare la prevedibilità e la certezza del diritto, non possono essere conseguiti in misura
sufficiente dagli Stati membri e possono dunque, a motivo della portata e degli effetti del
presente regolamento, essere conseguiti meglio a livello di Unione, quest’ultima può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato sull’Unione europea. Il presente regolamento si limita a quanto è necessario per conseguire tali obiettivi in
ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo.
Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali e osserva i princìpi riconosciuti dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, segnatamente gli articoli 7, 9, 17, 21 e 47
relativi, rispettivamente, al diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare, al diritto
di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali, al diritto di proprietà, al
divieto di qualsiasi forma di discriminazione e al diritto a un ricorso effettivo e a un giudice
imparziale. Gli organi giurisdizionali degli Stati membri devono applicare il presente regolamento nel rispetto di tali diritti e princìpi.
A norma degli articoli 1 e 2 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, allegato al trattato sull’Unione europea e al
trattato sul funzionamento dell’Unione europea, [detti Stati membri hanno notificato che desiderano partecipare all’adozione e all’applicazione del presente regolamento]/[e fatto salvo
l’articolo 4 di tale protocollo, detti Stati membri non partecipano all’adozione del presente
regolamento, non sono da esso vincolati, né sono soggetti alla sua applicazione].
A norma degli articoli 1 e 2 del protocollo sulla posizione della Danimarca allegato al trattato
sull’Unione europea e al trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la Danimarca non
partecipa all’adozione del presente regolamento, non è da esso vincolata, né è soggetta alla
sua applicazione,
HA ADOTTATO IL PRESENTE REGOLAMENTO:
Capo I
Campo d’applicazione e definizioni
Articolo 1. Campo d’applicazione
1. Il presente regolamento si applica agli aspetti patrimoniali delle unioni registrate.
Esso non si applica, in particolare, alle materie fiscali, doganali e amministrative.
2. Nel presente regolamento per “Stato membro” si intendono tutti gli Stati membri ad eccezione
della Danimarca[, del Regno Unito e dell’Irlanda].
3. Sono esclusi dal campo d’applicazione del presente regolamento:
a) gli effetti personali dell’unione registrata;
b) la capacità dei partner;
c) le obbligazioni alimentari;
d) le liberalità tra partner;
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e) i diritti successori del partner superstite;
f) le società tra partner;
g) la natura dei diritti reali e la pubblicità di tali diritti.
Articolo 2. Definizioni
Ai fini del presente regolamento si intende per:
a) “effetti patrimoniali”: l’insieme delle norme che regolano i rapporti patrimoniali dei partner tra
loro e con terzi, derivanti direttamente dal vincolo creato dalla registrazione dell’unione;
b) “unione registrata”: regime legale di comunione di vita tra due persone registrato da un’autorità
pubblica;
c) “atto pubblico”: qualsiasi documento che sia stato formalmente redatto o registrato come atto
pubblico nello Stato membro d’origine e la cui autenticità:
i) riguardi la firma e il contenuto dell’atto pubblico, e
ii) sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a tal fine autorizzata;
d) “decisione”: a prescindere dalla denominazione usata, qualsiasi decisione in materia di effetti
patrimoniali di un’unione registrata emessa da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro,
quale ad esempio decreto, ordinanza, sentenza o mandato di esecuzione, nonché la determinazione delle spese giudiziali da parte del cancelliere;
e) “Stato membro d’origine”: lo Stato membro in cui, a seconda dei casi, è stata emessa la decisione, è stato concluso il contratto di unione, è stato formato l’atto pubblico o è stato effettuato
l’atto di divisione del patrimonio comune o qualunque altro atto effettuato dinanzi o ad opera
dell’autorità giudiziaria o altra autorità da quella delegata;
f) “Stato membro richiesto”: lo Stato membro in cui vengono richiesti il riconoscimento e/o l’esecuzione della decisione, del contratto di unione, dell’atto pubblico, dell’atto di divisione del patrimonio comune o di qualunque altro atto effettuato dinanzi o ad opera dell’autorità giudiziaria
o altra autorità da quella delegata;
g) “autorità giurisdizionale”: l’autorità giudiziaria competente degli Stati membri che eserciti una funzione giurisdizionale in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate o altra autorità non
giudiziaria o persona che, su delega o designazione di un’autorità giudiziaria degli Stati membri,
eserciti funzioni di competenza delle autorità giurisdizionali ai sensi del presente regolamento;
h) “transazione giudiziaria”: la transazione in materia di effetti patrimoniali dell’unione registrata
approvata dall’autorità giurisdizionale o conclusa dinanzi all’autorità giurisdizionale nel corso di
un procedimento.
Capo II
Competenza
Articolo 3. Competenza in caso di morte di un partner
1. Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro investite di una domanda riguardante la successione di un partner ai sensi del regolamento (UE) n. .../... [del Parlamento europeo e del Consiglio
relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni
e degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo] sono altresì competenti a decidere sulle questioni inerenti agli effetti patrimoniali dell’unione registrata correlate alla domanda.
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2. L’autorità giurisdizionale può dichiararsi incompetente ove il suo diritto nazionale non contempli l’istituto dell’unione registrata. In tal caso l’autorità giurisdizionale competente è determinata
in conformità dell’articolo 5.
Articolo 4. Competenza in caso di separazione dei partner
Le autorità giurisdizionali di uno Stato membro investite di una domanda di scioglimento o annullamento dell’unione registrata sono altresì competenti, se sussiste accordo dei partner, a decidere
sulle questioni inerenti agli effetti patrimoniali correlate alla domanda.
L’accordo può essere concluso in qualsiasi momento, anche nel corso del procedimento. Se è
concluso prima del procedimento, deve essere formulato per iscritto, datato e firmato da entrambe
le parti.
In mancanza di accordo dei partner, la competenza è disciplinata dall’articolo 5.
Articolo 5. Altre competenze
1. Fuori dei casi di cui agli articoli 3 e 4, sono competenti a decidere sulle questioni inerenti agli
effetti patrimoniali di un’unione registrata le autorità giurisdizionali dello Stato membro:
a) della residenza abituale comune dei partner o, in mancanza,
b) dell’ultima residenza abituale comune dei partner se uno dei due vi risiede ancora o, in mancanza,
c) della residenza abituale del convenuto o, in mancanza,
d) della registrazione dell’unione.
2. Le autorità giurisdizionali di cui al paragrafo 1, lettere a), b) e c) possono dichiararsi incompetenti ove il loro diritto nazionale non contempli l’istituto dell’unione registrata.
Articolo 6. Competenza sussidiaria
Se nessuna autorità giurisdizionale è competente ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 o se l’autorità giurisdizionale si è dichiarata incompetente, sono competenti le autorità giurisdizionali di uno Stato
membro nella misura in cui:
a) uno o più beni di uno o entrambi i partner sono situati nel suo territorio, nel qual caso l’autorità
giurisdizionale si pronuncerà solo sul quel bene o su quei beni, o
b) entrambi i partner hanno la cittadinanza di quello Stato membro o, nel caso del Regno Unito e
dell’Irlanda, lì hanno il loro “domicile” comune.
Articolo 7. Forum necessitatis
Qualora nessuna autorità giurisdizionale di uno Stato membro sia competente ai sensi degli articoli
3, 4, 5 e 6, o l’autorità giurisdizionale si sia dichiarata incompetente, le autorità giurisdizionali di
uno Stato membro possono, in via eccezionale e purché la causa presenti un collegamento sufficiente con quello Stato membro, conoscere di una controversia in materia di effetti patrimoniali
delle unioni registrate se un procedimento non può ragionevolmente essere intentato o svolto o si
rivela impossibile in uno Stato terzo.
Articolo 8. Domanda riconvenzionale
L’autorità giurisdizionale adita ai sensi degli articoli 3, 4, 5, 6 o 7, dinanzi alla quale il procedimento
è pendente, è altresì competente a esaminare la domanda riconvenzionale in quanto essa rientri
nell’ambito di applicazione del presente regolamento.
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Articolo 9. Adizione di un’autorità giurisdizionale
L’autorità giurisdizionale si considera adita:
a) alla data in cui la domanda giudiziale o un atto equivalente è depositato presso l’autorità giurisdizionale, a condizione che il ricorrente non abbia in seguito omesso di prendere le misure
che era tenuto a prendere affinché l’atto fosse notificato o comunicato al convenuto, o
b) qualora l’atto debba essere notificato o comunicato prima di essere depositato presso l’autorità
giurisdizionale, alla data della sua ricezione da parte dell’autorità incaricata della notificazione o
comunicazione, a condizione che il ricorrente non abbia in seguito omesso di prendere le misure
che era tenuto a prendere affinché l’atto fosse depositato presso l’autorità giurisdizionale.
Articolo 10. Verifica della competenza
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro investita di una controversia in materia di aspetti patrimoniali delle unioni registrate per la quale non è competente in base al presente regolamento
dichiara d’ufficio la propria incompetenza.
Articolo 11. Verifica della ricevibilità
1. Se il convenuto che ha la residenza abituale nel territorio di uno Stato diverso dallo Stato membro in cui è stata proposta l’azione non compare, l’autorità giurisdizionale competente sospende
il procedimento finché non sia accertato che il convenuto è stato messo nelle condizioni di ricevere la domanda giudiziale o atto equivalente in tempo utile a consentirgli di presentare le
proprie difese o che sono stati effettuati tutti gli adempimenti in tal senso.
2. In luogo delle disposizioni del paragrafo 1 si applica l’articolo 19 del regolamento (CE) n.
1393/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione negli Stati membri di atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale14,
qualora sia stato necessario trasmettere da uno Stato membro a un altro la domanda giudiziale
o un atto equivalente a norma di tale regolamento.
3. Ove non siano applicabili le disposizioni del regolamento (CE) n. 1393/2007, si applica l’articolo
15 della convenzione dell’Aia del 15 novembre 1965 relativa alla notificazione e alla comunicazione all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, qualora sia
stato necessario trasmettere all’estero la domanda giudiziale o un atto equivalente a norma di
tale convenzione.
Articolo 12. Litispendenza
1. Qualora davanti ad autorità giurisdizionali di Stati membri differenti e tra le stesse parti siano
state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo, l’autorità giurisdizionale successivamente adita sospende d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita in precedenza.
2 Nei casi di cui al paragrafo 1, l’autorità giurisdizionale adita per prima accerta la propria competenza entro sei mesi, salvo impossibilità dovuta a circostanze eccezionali. Su istanza di qualunque altra autorità giurisdizionale investita della controversia, l’autorità giurisdizionale adita
per prima comunica all’altra autorità giurisdizionale la data in cui è stata adita e se ha accertato
la competenza o quando prevede di farlo.
14 GU L 324 del 10.12.2007, pag. 79.
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3. Ove sia accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita per prima, l’autorità giurisdizionale successivamente adita dichiara la propria incompetenza a favore della prima.
Articolo 13. Connessione
1. Ove più cause connesse siano pendenti dinanzi ad autorità giurisdizionali di diversi Stati membri, l’autorità giurisdizionale successivamente adita può sospendere il procedimento.
2. Se tali cause sono pendenti dinanzi ad autorità giurisdizionali di primo grado, l’autorità giurisdizionale successivamente adita può parimenti dichiarare la propria incompetenza su richiesta di
una delle parti a condizione che l’autorità giurisdizionale adita per prima sia competente a conoscere delle domande proposte e la sua legge consenta la riunione dei procedimenti.
3. Ai sensi del presente articolo sono connesse le cause aventi tra di loro un legame così stretto
da rendere opportune una trattazione e una decisione uniche per evitare soluzioni tra loro incompatibili ove le cause fossero trattate separatamente.
Articolo 14. Provvedimenti provvisori e cautelari
I provvedimenti provvisori o cautelari previsti dalla legge di uno Stato membro possono essere richiesti alle autorità giurisdizionali di tale Stato anche se, in forza del presente regolamento, la competenza a conoscere nel merito è riconosciuta all’autorità giurisdizionale di un altro Stato membro.
Capo III
Legge applicabile
Articolo 15. Determinazione della legge applicabile
La legge applicabile agli effetti patrimoniali dell’unione registrata è la legge dello Stato in cui l’unione è stata registrata.
Articolo 16. Carattere universale della norma di conflitto
La legge determinata secondo le disposizioni del presente capo si applica anche se non è la legge
di uno Stato membro.
Articolo 17. Norme di applicazione necessaria
Le disposizioni del presente regolamento non ostano all’applicazione delle norme il cui rispetto è
ritenuto cruciale da uno Stato membro per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua
organizzazione politica, sociale o economica, al punto da esigerne l’applicazione a tutte le situazioni che rientrino nel loro campo d’applicazione, qualunque sia la legge applicabile agli effetti patrimoniali dell’unione registrata secondo il presente regolamento.
Articolo 18. Ordine pubblico del foro
1. L’applicazione di una norma della legge designata dal presente regolamento può essere esclusa
solo qualora tale applicazione risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico del foro.
2. L’applicazione di una norma della legge designata dal presente regolamento non può essere
considerata contraria all’ordine pubblico del foro per il solo motivo che la legge del foro non
contempla l’istituto dell’unione registrata.
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Articolo 19. Esclusione del rinvio
Quando prescrive l’applicazione della legge di uno Stato, il presente regolamento si riferisce alle norme giuridiche in vigore in quello Stato, ad esclusione delle norme di diritto internazionale privato.
Articolo 20. Stati con due o più sistemi giuridici - conflitti territoriali di leggi
Ove uno Stato si componga di più unità territoriali, ciascuna con il proprio sistema giuridico o complesso di norme per materie disciplinate dal presente regolamento:
a) ogni riferimento alla legge di tale Stato è inteso, ai fini della determinazione della legge applicabile ai sensi del presente regolamento, come riferimento alla legge in vigore nell’unità territoriale pertinente;
b) ogni riferimento alla residenza abituale in quello Stato è inteso come riferimento alla residenza
abituale in un’unità territoriale;
c) ogni riferimento alla cittadinanza è inteso come riferimento all’appartenenza all’unità territoriale
determinata dalla legge di detto Stato o, in mancanza di norme pertinenti, all’unità territoriale
scelta dalle parti o, in mancanza di scelta, all’unità territoriale con la quale il partner o i partner
hanno il legame più stretto.
Capo IV
Riconoscimento, esecutività ed esecuzione
SEZIONE 1
Decisioni
Sottosezione 1
Riconoscimento
Articolo 21. Riconoscimento delle decisioni
1. Le decisioni emesse in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che
siano necessari ulteriori procedimenti.
2. In caso di contestazione, ogni parte interessata che chieda il riconoscimento in via principale di
una decisione può far accertare, secondo il procedimento di cui agli articoli [da 38 a 56] del regolamento (CE) n. 44/2001, che la decisione deve essere riconosciuta.
3. Se il riconoscimento è richiesto in via incidentale davanti a un’autorità giurisdizionale di uno
Stato membro, tale autorità giurisdizionale è competente al riguardo.
Articolo 22. Motivi di diniego del riconoscimento di una decisione
Le decisioni non sono riconosciute:
a) se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto;
b) se la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto
contumace in tempo utile e in modo tale da consentirgli di presentare le proprie difese eccetto
qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione;
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c) se sono in contrasto con una decisione emessa tra le medesime parti nello Stato membro richiesto;
d) se sono in contrasto con una decisione emessa precedentemente tra le medesime parti in un altro Stato membro o in un paese terzo, in una controversia avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo, allorché tale decisione presenta le condizioni necessarie per essere riconosciuta
nello Stato membro richiesto.
Articolo 23. Divieto di riesame della competenza dell’autorità giurisdizionale d’origine
1. Non si può procedere al riesame della competenza delle autorità giurisdizionali dello Stato
membro d’origine.
2. Il criterio dell’ordine pubblico di cui all’articolo 18 non si applica alle norme sulla competenza
di cui agli articoli da 3 a 8.
Articolo 24. Disparità tra le leggi applicabili
Non possono essere negati il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione riguardante, in tutto
o in parte, gli effetti patrimoniali di un’unione registrata per il solo motivo che la legge dello Stato
membro richiesto non contempla l’istituto dell’unione registrata o non gli attribuisce gli stessi effetti
patrimoniali.
Articolo 25. Divieto di riesame del merito
In nessun caso la decisione straniera può formare oggetto di un riesame del merito.
Articolo 26. Sospensione del procedimento
L’autorità giurisdizionale di uno Stato membro dinanzi alla quale è chiesto il riconoscimento di una
decisione emessa in un altro Stato membro può sospendere il procedimento se la decisione è stata
impugnata con un mezzo ordinario.
Sottosezione 2
Esecuzione
Articolo 27. Decisioni esecutive
Le decisioni emesse in uno Stato membro e ivi esecutive e le transazioni giudiziarie sono eseguite
negli altri Stati membri in conformità degli articoli [da 38 a 56 e dell’articolo 58] del regolamento
(CE) n. 44/2001.
SEZIONE 2
Atti pubblici e transazioni giudiziarie
Articolo 28. Riconoscimento degli atti pubblici
1. Gli atti pubblici formati in uno Stato membro sono riconosciuti negli altri Stati membri, salvo
contestazione della validità secondo la legge applicabile e a condizione che il riconoscimento
non sia manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto.
2. In conseguenza del riconoscimento, gli atti pubblici godono dello stesso valore probatorio
quanto al contenuto dell’atto e di una presunzione semplice di validità.
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Articolo 29. Esecutività degli atti pubblici
1. Gli atti pubblici formati e aventi efficacia esecutiva in uno Stato membro sono, su istanza di parte, dichiarati esecutivi in un altro Stato membro conformemente alla procedura contemplata agli
articoli [da 38 a 57] del regolamento (CE) n. 44/2001.
2. L’autorità giurisdizionale alla quale l’istanza è proposta ai sensi degli articoli [43 e 44] del regolamento (CE) n. 44/2001 rigetta o revoca la dichiarazione di esecutività solo se l’esecuzione
dell’atto pubblico è manifestamente contraria all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto.
Articolo 30. Riconoscimento ed esecutività delle transazioni giudiziarie
Le transazioni giudiziarie aventi efficacia esecutiva nello Stato membro d’origine sono riconosciute
e dichiarate esecutive in un altro Stato membro su istanza di qualsiasi parte interessata, alle stesse
condizioni previste per gli atti pubblici. L’autorità giurisdizionale alla quale l’istanza è proposta ai
sensi dell’articolo [42 o dell’articolo 44] del regolamento (CE) n. 44/2001 rigetta o revoca la dichiarazione di esecutività solo se l’esecuzione della transazione giudiziaria è manifestamente contraria
all’ordine pubblico dello Stato membro dell’esecuzione.
Capo V
Opponibilità a terzi
Articolo 31. Opponibilità a terzi
1. Gli effetti patrimoniali dell’unione registrata sui rapporti giuridici tra un partner e un terzo sono
disciplinati dalla legge dello Stato di registrazione dell’unione di cui all’articolo 15.
2. Tuttavia, la legge di uno Stato membro può prevedere che il partner non possa opporre a un
terzo la legge applicabile qualora uno dei partner o il terzo abbia la propria residenza abituale
sul territorio di quello Stato membro e non siano state rispettate le condizioni di pubblicità o
registrazione previste dalla legge di quello Stato membro, salvo che il terzo conosca o debba
conoscere la legge applicabile agli effetti patrimoniali dell’unione registrata.
3. La legge dello Stato membro in cui si trova un immobile può prevedere una norma analoga a quella
prevista dal paragrafo 2 per i rapporti giuridici tra un partner e un terzo relativi a tale immobile.
Capo VI
Disposizioni generali e finali
Articolo 32. Relazioni con le convenzioni internazionali in vigore
1. Il presente regolamento non pregiudica l’applicazione delle convenzioni bilaterali o multilaterali
di cui uno o più Stati membri sono parte al momento dell’adozione del presente regolamento
e che riguardano materie ivi disciplinate, fatti salvi gli obblighi che incombono agli Stati membri
in virtù dell’articolo 351 del trattato.
2. Nonostante il paragrafo 1, il presente regolamento prevale, tra gli Stati membri, sulle convenzioni che riguardano materie disciplinate dal presente regolamento e di cui sono parte gli Stati
membri.
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Articolo 33. Informazioni messe a disposizione dei cittadini e delle autorità competenti
1. Entro il [...] gli Stati membri comunicano alla Commissione nella lingua o nelle lingue ufficiali
ritenute idonee:
a) una descrizione dell’ordinamento giuridico e delle procedure nazionali in materia di effetti
patrimoniali delle unioni registrate, e i testi pertinenti;
b) le disposizioni nazionali relative all’opponibilità a terzi ai sensi dell’articolo 31, paragrafi 2 e 3.
2. Gli Stati membri comunicano alla Commissione qualsiasi successiva modifica di tali disposizioni.
3. La Commissione rende pubblicamente accessibili le informazioni comunicate conformemente ai
paragrafi 1 e 2 con mezzi appropriati, in particolare tramite il sito Internet multilingue della rete
giudiziaria europea in materia civile e commerciale.
Articolo 34. Clausola di revisione
1. Entro il [cinque anni dalla data di applicazione ...] e successivamente ogni cinque anni, la Commissione presenta al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale una
relazione sull’applicazione del presente regolamento. Tale relazione è corredata, se del caso, di
opportune proposte di modifica.
2. A tal fine gli Stati membri comunicano alla Commissione le informazioni pertinenti in ordine
all’applicazione del presente regolamento da parte delle rispettive autorità giurisdizionali.
Articolo 35. Disposizioni transitorie
1. Le disposizioni dei capi II e IV del presente regolamento si applicano ai procedimenti avviati,
agli atti pubblici formati, alle transazioni giudiziarie concluse e alle decisioni emesse dopo la
data della sua applicazione.
2. Tuttavia, se il procedimento nello Stato membro di origine è stato avviato prima della data di
applicazione del presente regolamento, le decisioni emesse dopo tale data sono riconosciute ed
eseguite secondo le disposizioni del capo IV se le norme sulla competenza applicate sono conformi a quelle stabilite dalle disposizioni del capo II.
3. Le disposizioni del capo III si applicano solo ai partner che hanno registrato le loro unioni.
Articolo 36. Entrata in vigore
Il presente regolamento entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella
Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
Il presente regolamento si applica dal [un anno dopo la data di entrata in vigore].
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli Stati
membri conformemente ai trattati.
Fatto a [...], [...]
Per il Consiglio
Il presidente
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AIAF - Organi statutari
Presidente: Milena Pini
Vicepresidente: Luisella Fanni
Giunta Esecutiva: Milena Pini (Presidente), Luisella Fanni (Vicepresidente), Marina Marino (AIAF Lazio),
Daniela Abram (AIAF Emilia Romagna), Manuela Cecchi (AIAF Toscana), Remigia D’Agata (AIAF Sicilia),
Gabriella de Strobel (AIAF Veneto), Liana Maggiano (AIAF Liguria), Antonina Scolaro (AIAF Piemonte)
Direttore Scuola di Alta Formazione dell’AIAF: Marina Marino
Comitato Direttivo Nazionale
Abruzzo
Puglia
Maria Carla Serafini (presidente)
Federica Di Benedetto
Ada Marseglia (presidente)
Calabria
Stefania Mendicino (presidente)
Luisella Fanni (presidente)
Vittorio Campus, Anna Marinucci, Francesco Pisano
Campania
Sicilia
Rosanna Dama (presidente)
Erminia Del Cogliano
Remigia D’Agata (presidente)
Cinzia Fresina, Antonio Leonardi, Caterina Mirto
Emilia Romagna
Toscana
Ada Valeria Fabj (presidente)
Daniela Abram, Lorenza Bond, Isabella Trebbi
Giordani
Manuela Cecchi (presidente)
Sandra Albertini, Gigliola Montano, Bruna Repetto,
Sandra Tagliasacchi, Valeria Vezzosi
Friuli Venezia Giulia
Umbria
Maria Antonia Pili (presidente)
Graziella Cantiello
Anna Maria Pacciarini (presidente)
Stefania Cherubini, Maria Rita Tiburzi
Lazio
Veneto
Marina Marino (presidente)
Nicoletta Morandi, Costanza Pomarici, Giulia Sarnari
Alessandro Sartori (presidente)
Roberta Bettiolo, Gaudenzia Brunello, Paola Cacco,
Giuliana Castelletti, Francesca Collet, Lorenza
Cracco, Guido Dalla Palma, Gabriella de Strobel,
Caterina Evangelisti Franzaroli, Anna Kusstascher,
Rita Mondolo, Giovanna Olivieri, Umberto Roma,
Anna Sartor, Giulia Schiaffino, Lara Sereno,
Damiana Stocco, Assunta Todini, Daniela Turci
Liguria
Liana Maggiano (presidente)
Ilaria Felicetti, Alberto Figone
Lombardia
Franca Alessio (presidente)
Maurizio Bandera, Marisa Bedotti, Marina Bologni,
Cinzia Calabrese, Cinzia Colombo, Giuseppina
Debiasi, Antonella De Peri, Cesare Fiore, Stefania
Lingua, Carla Loda, Francesca Mazzoleni, Gerardo
Milani, Laura Pietrasanta, Milena Pini, Nicoletta
Stefania Pisano, Mirella Quattrone, Antonella Ratti
Marche
Anna Pelamatti Cagnoni (presidente)
Marina Guzzini
Piemonte
Antonina Scolaro (presidente)
Maria Cristina Bruno Voena, Cristina Giovando,
Maria Cristina Ottavis, Marina Torresini
Sardegna
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