PERCORSI nella MEMORIA 2011
LA VICENDA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI
DOPO L’8 SETTEMBRE 1943
L’ESPERIENZA DI MIO NONNO CARLO
( 1924-vivente)
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Premessa
L’esperienza della guerra è quasi un filo rosso che collega i diversi momenti della storia umana.
La psicoanalisi insegna che l’uomo ha in sé una pulsione istintiva verso l’odio e la distruzione, che
il progresso civile ha cercato di imbrigliare e di reprimere a vantaggio della componente razionale
dell’individuo.
Nonostante ciò, in diverse fasi dell’evoluzione, l’aggressività umana è esplosa, scatenando gli
istinti malvagi che si pensava di aver debellato con l’educazione e la civiltà.
Le due guerre mondiali che sono state più sanguinose e rovinose rispetto alle precedenti per
l’elevato perfezionamento degli strumenti di offesa e di difesa hanno mostrato livelli di odio e di
rancore fra le nazioni tali da abbattere tutti i freni dell’umana moralità e i vincoli di comunanza fra
i popoli civili. I beni nei quali l’individuo ha creduto sono apparsi nella loro fragilità e precarietà: il
rispetto per la dignità umana, i vincoli della solidarietà civile, la tolleranza per il diverso, la fiducia
nella giustizia e l’adesione a norme morali comuni. Esemplare per la violenza con cui ha depredato
il mondo delle sue “bellezze” è il sistema repressivo instaurato dal regime nazista.
Durante il biennio che va dal settembre del 1943 alla primavera del 1945 circa 716.00 soldati
italiani subirono la tragica esperienza della deportazione nei lager del Terzo Reicht.
Si tratta dei cosiddetti IMI, Internati Militari Italiani.
Di loro la storiografia ha cominciato ad occuparsi in tempi recenti, mettendo in luce il valore della
scelta che la stragrande maggioranza dei soldati italiani compì dopo l’8 settembre 1943: il rifiuto a
collaborare con il Terzo Reicht di Hitler e con la Repubblica sociale italiana di Mussolini.
Un ruolo importante nella Resistenza, durante la Seconda Guerra Mondiale, é stato svolto dagli IMI
con la loro” resistenza silenziosa”, che si può definire passiva, solo in quanto non esercitata con
l’ausilio delle armi. Il no detto alle lusinghe del nazismo e del fascismo repubblichino è costato caro
a molti di loro, che, abbandonati dalle istituzioni, hanno dovuto sopportare le sofferenze del duro
regime di internamento dei lager nazisti.
La vicenda degli internati militari, conosciuta attraverso le testimonianze dei protagonisti, è,
secondo me, di grande insegnamento per noi giovani. Essa dimostra che anche quando si è
“vittime” della storia, meri esecutori di scelte assunte ad alto livello decisionale, ogni persona è
protagonista della “sua” storia, entra nei fatti con la sua dignità di persona, con l’universo dei suoi
affetti, con la forza della sua volontà, con il patrimonio delle sue capacità, con il suo sistema di
valori, che la violenza e la forza non possono piegare, sottraendosi agli impulsi istintivi di
rispondere alla violenza con altra violenza.
I Tedeschi chiamavano gli IMI “soldati di Giuda” o “soldati di Badoglio”; venivano scherniti,
disprezzati come traditori e fatti oggetto di ritorsioni dalla popolazione civile tedesca.
Dentro di loro,però, quei prigionieri, gli “schiavi di Hitler,” erano animati e sostenuti dall’orgoglio
di aver compiuto una scelta di libertà e di dignità, di cui, io credo, il nostro Paese ancora oggi debba
andare fiero.
Credo, inoltre, che occorra mantenere vivo presso le nuove generazioni il ricordo del sacrificio degli
IMI. Una parte di coloro che sono tornati dai campi di concentramento, come mio nonno, è ancora
viva e può con la forza delle parole trasmettere l’amore per la democrazia, per la libertà e per la
pace ai giovani. Tra qualche anno questa risorsa verrà a mancare. Rimane a noi giovani il compito
di conservare la memoria di quegli eventi.
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GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI
DOPO L’8 SETTEMBRE 1943
Mio nonno Carlo
Uno degli IMI era mio nonno paterno, Carlo, nato a Missaglia il
4 novembre 1924, vivente, residente a Casatenovo, che il giorno
dell’Armistizio fra l’Italia e gli eserciti alleati, diciannovenne, si
trovava in una caserma di Gorizia da poco arruolato nelle file del
XXIII Reggimento Fanteria Divisione Isonzo.
Come la maggior parte dei suoi coetanei, mio nonno all’arrivo
della cartolina precetto si separò a malincuore dalla famiglia, per
la quale era una fonte di sostentamento vitale e partì rassegnato
per intraprendere il periodo di addestramento, in vista del suo
probabile impiego sul fronte di guerra.
Giunse alla caserma di destinazione il 23 agosto del 1943.
Il distacco dalla propria terra per una persona che fino ad allora aveva vissuto a contatto solo con il
tradizionale mondo contadino brianzolo provocò un insieme di
sentimenti, insicurezza, timore, attaccamento alla fede
religiosa, nostalgia, che emergono dalle parole scritte ai
familiari “ …sebbene mi trovo con dei compaesani non posso
dimenticare i miei cari e il mio bel paese trovandomi tanto più
in un posto tutto diverso del nostro paese. Per ora nulla di
nuovo. A Voi mi raccomando nelle vostre preghiere perché la
Madonna abbia a salvarmi da tutti i pericoli di questo brutto
mondo…” (doc.n.1)
In quel momento, credo non potesse neppure immaginare il
livello di abiezione e di crudeltà con cui sarebbe entrato in
contatto, di lì a pochi giorni.
Il 13 settembre, infatti, dopo cinque giorni dall’annuncio
dell’Armistizio, nonno Carlo
venne fatto prigioniero dai Tedeschi e spedito a Torner in Germania,
nello Stalag XXA con il numero di matricola 46055. ( doc. n.2)
Da lì iniziò una sorta di pellegrinaggio da un lager all’altro, con
trasferimenti all’interno della Germania, della Prussia e della
Polonia, finché il 28 gennaio 1945 venne liberato dai russi. Rientrò
in patria nell’autunno del 1945.
Durante la prigionia, mio nonno tenne un diario.
“ Provvidenzialmente “, in un campo di lavoro, rinvenne
un‘agendina (doc.n.3) e annotò sulle poche pagine bianche
disponibili, utilizzando un mozzicone di matita, il racconto
delle fasi principali della sua vicenda. Il termine “racconto”
è di per sé improprio, perché mio nonno non disponeva
degli strumenti culturali per narrare in modo compiuto ciò
che gli accadeva e di cui era testimone. Le sue parole sono
semplici e spesso ortograficamente scorrette, piene di
anacoluti e di espressioni dialettali. Nella trascrizione ho
cercato di mantenere la grafia originale del testo. Del resto,
esercitava il lavoro di panettiere, nel tempo libero aiutava a coltivare la terra di famiglia e
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disponeva di un’istruzione elementare . Tuttavia, la forza con cui nonno Carlo ha “inciso” le sue
parole e la loro essenzialità testimoniano la volontà di non dimenticare un’esperienza straordinaria
che ha sconvolto la sua visione del mondo fino a quel
momento circoscritta alla semplicità e alla ritualità del
mondo contadino, esprimono l’esigenza di completezza,
documentano l’urgenza di non trascurare i fatti principali
di cui è stato al contempo vittima e protagonista e la
preoccupazione di sfruttare al meglio lo spazio cartaceo
disponibile.
Egli scrive sul primo foglio del suddetto libretto “ La mia
vita Militare/ Il giorno 23 Agosto mi sono presentato al
distretto e mi / an destinato al 23 Fanteria a Gorizia / il
giorno 24 dopo mezzogiorno sono rivato in caserma il 24
mi an vestito / il 27 prima puntura e due giorni di riposo/
e dopo istruzione / il 13 Settembre dopo mezzogiorno sono
venuti in caserma tre Tedeschi e mi an fatto tutti
prigionieri. (doc.n.4)
In una pagina, in forma lapidaria e con scarna oggettività, è
riassunto il suo vissuto di soldato.
Nelle successive sedici pagine del libretto è condensata la cronaca dell’esperienza di prigionia.
In realtà, i quindici brevi giorni di vita militare hanno determinato l’interminabile periodo vissuto
nei lager nazisti , fino al 28 gennaio 1945, quando “…alle ore 10 / sono arrivati i liberatori / i
camerati Russi…”
Durante il lasso di tempo intercorso tra l’armistizio e la fine del conflitto, mio nonno, purtroppo,
ebbe modo di “ conoscere” diversi campi di prigionia tra la Prussia, la Germania e la Polonia .
Torner, dal 18 settembre al 20 ottobre 1943
Inuslavo zucher fabrich dal 21 ottobre all’8 dicembre 1943
Torner dal 9 dicembre al 13 dicembre 1943
Rachel dal 14 dicembre al 18 gennaio 1944,
Strasburgo,dal 19 gennaio al 17 marzo 1944
Sciusermuber dal 18 marzo fino al 27 marzo 1944
Forte, dal 28 marzo al 30 marzo 1944
Landolf,dal 2 aprile al 4 maggio 944
Sventochloviz ( Schientochlowitz), dal 5 maggio 1944 al 28 gennaio 1945
Cracovia, dal 29 gennaio al 26 febbraio 1945
Festingrube dal 27 febbraio al 18 marzo 1945
Cracovia dal 18 marzo al 15 aprile 1945
Stainau, dal 16 aprile al 14 maggio 1945
Bricch dal 15 maggio al 30 maggio 1945
( per quanto riguarda la grafia dei nomi dei lager ho rispettato la scrittura originale).
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IL CONTESTO STORICO
L’ingresso in guerra dell’ Italia e il suo ruolo nel conflitto
L’Italia entrò ufficialmente in guerra a partire dal 10 giugno 1940.
Il giorno stesso della dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania (3 settembre
1939) il nostro Paese si dichiarò neutrale, consapevole di non essere pronto a sostenere dal punto di
vista militare e economico un nuovo conflitto dopo le guerre in Etiopia e in Spagna.
Nel corso dei mesi la situazione cambiò rapidamente.
Hitler già nella primavera del ’40 aveva conquistato Polonia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Olanda
e Lussemburgo e si preparava ad attaccare Parigi.
Per l’Italia la guerra sembrava essere ormai destinata a concludersi rapidamente con la vittoria dei
Tedeschi e per non restarne esclusi, in nome dell’alleanza italo-tedesca del ’39 (Patto d’Acciaio),
iniziò a combattere.
Dopo un primo attacco vittorioso alla Francia, l’Italia accumulò una serie di insuccessi in Africa,
nei Balcani e in Grecia dove dovettero intervenire le truppe tedesche.
A partire dal ’42 la guerra subì una svolta.
La Germania ebbe una prima battuta d’arresto contro l’URSS, mentre per l’Italia si stava
preparando uno sbarco in Sicilia da parte degli alleati.
Il 10 luglio 1943 la truppe americane sbarcarono sull’isola, il 25 luglio, dopo una riunione del Gran
Consiglio del Fascismo, Mussolini fu destituito e arrestato e si formò un governo presieduto dal
generale Badoglio. L’8 settembre quest’ultimo firmò l’armistizio con gli anglo-americani gettando
l’Italia nel caos più completo: i Tedeschi, avendo previsto il “tradimento”, occuparono la parte
centro- settentrionale del paese, mentre il governo fuggiva a Brindisi abbandonando le truppe a se
stesse, con ordini vaghi e contradditori, senza che potessero opporre ai Tedeschi una resistenza
organizzata
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LA DEPORTAZIONE DEI MILITARI ITALIANI
L’esercito italiano alla firma dell’armistizio
L’8 Settembre 1943 il Generale Badoglio, capo del governo, annunciò alla nazione la firma
dell’armistizio, avvenuta 5 giorni prima a Cassibile in provincia di Siracusa. Ormai per gli italiani
era divenuto impossibile continuare a combattere una guerra impari contro avversari più forti e
meglio equipaggiati. Si voleva risparmiare al Paese ulteriori perdite e danni.
Badoglio annunciò che ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane doveva cessare.
A queste parole, molti italiani si illusero che la guerra fosse finita, in realtà quel provvedimento
gettò l’Italia nel caos e provocò la reazione immediata della Germania.
Mentre il Re e il Governo lasciavano Roma per rifugiarsi a Brindisi, i Tedeschi scatenarono la
controffensiva e penetrarono nell’Italia Settentrionale senza incontrare resistenza. I soldati spiazzati
di fronte ai nuovi eventi, interrogavano gli ufficiali per capire contro chi dovessero effettivamente
combattere, ma le informazioni iniziarono a circolare in maniera contraddittoria generando
confusione.
I militari italiani che si trovavano nelle diverse aree di guerra (Balcani, Francia, isole del
Mediterraneo) furono accerchiati e catturati dai Tedeschi. Circa 1 milione e 7 mila uomini furono
disarmati. Tra di loro una piccola parte accettò di restare al servizio dei Tedeschi o di passare alle
milizie fasciste, un’altra riuscì a sottrarsi fortunosamente alla prigionia, la parte più numerosa
invece conobbe la tragica esperienza della deportazione.
La parte restante dell’esercito regio, circa 2 milioni e 700 mila uomini, ritornò a casa, si unì ai
partigiani o trovandosi nell’Italia meridionale rimase per il momento ancora sotto le armi.
Circa 716.000 militari italiani furono deportati e internati nel lager del Terzo Reicht.
Una volta giunti a destinazione, i militari italiani venivano posti di fronte a una scelta: mettersi al
servizio dei nazisti o dei fascisti per sperare di ritornare in patria o rimanere nei campi a sopportare
una vita di stenti e di duro lavoro.
Coloro che dissero “sì” al fascismo, i cosiddetti “optandi” furono una minoranza, poco più del 14%.
Le adesioni maggiori furono raccolte tra gli ufficiali (40% circa, contro il 13% dei soldati).
Inizialmente i Tedeschi facevano leva sul preesistente patto di amicizia, sul cameratismo nato fra
soldati italiani e germanici, poi, visti gli scarsi risultati ottenuti, inviarono personalità italiane della
carriera militare e politica per convincere ad arruolarsi nella nuova Repubblica di Salò. A chi
rifiutava la proposta rimanevano le tragiche prospettive “offerte” dai campi di internamento nazisti.
Fra le motivazioni che hanno spinto la maggioranza degli IMI a rifiutare la divisa fascista ci sono
diverse ragioni: il 30% ha detto “no” per ragioni militari (stanchezza di combattere, avversione
all’idea di combattere propri connazionali), il 26% per questioni etiche (dignità, fedeltà al
giuramento, solidarietà di gruppo), il 24% per motivi ideologici (anti-nazifascismo, cattolicesimo,
liberalismo, marxismo), il 20% per valutazioni diverse.
Tra esse c’era la convinzione assai diffusa che il conflitto volgesse al termine, con l’inevitabile
sconfitta dell’Asse: una previsione corretta per quanto concerne l’epilogo, ma errata per quanto
riguarda i tempi, assai più lunghi di quanto ci si aspettasse. Si credeva insomma che valesse la pena
“resistere” e sopportare il peso della prigionia in vista di una vicina liberazione.
Gli uomini di truppa furono avviati al lavoro coatto, mentre gli ufficiali ( non obbligati a lavorare
fino al ’44) furono rinchiusi nei campi di detenzione.
Il trasferimento dei militari italiani nei lager
Subito dopo la cattura seguì la deportazione.
L’obiettivo di Hitler era di eliminare dal fronte gli italiani ormai nemici e recuperare braccia
giovani e forti a costo zero. Avendo milioni di uomini disseminati su vari fronti, in Germania la
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manodopera scarseggiava. La cattura dei soldati italiani fornì “nuovi schiavi “ da impiegare nelle
fabbriche .
L’efficiente apparato burocratico-militare nazista organizzò il trasporto dei militari italiani nei
campi di concentramento mediante treni, su carri, coperti o scoperti, destinati al trasporto di
animali.
Il trasferimento avveniva in condizioni disumane.
Scrive nonno Carlo “Sono partito il giorno 14 martedì alle
ore 4 dopo mezzogiorno/ sono arrivato al campo
di
concentramento il sabato di notte alle ore 2 giorno 18
Settembre 1943. Il viaggio fu di 4 giorni / mi an dato due
volte lorzo macinato da mangiare / aveva un sapore che
non si poteva mangiarlo tanto che era cattivo e una volta
il pane che era più crudo che cotto e una volta tre cucciai
d’acqua nera detto da loro caffè”. (doc. n.5)
Ancora oggi è ben impresso nella sua mente il ricordo dei
viaggi compiuti in vagoni merci pieni fino all’inverosimile,
che non venivano aperti per giorni, dove mancavano cibo e
acqua e la possibilità di soddisfare i bisogni corporali. I
trasferimenti avvenivano su una rete ferroviaria in grave
difficoltà, per i bombardamenti, i sabotaggi, la mancanza di
materiale rotabile. Un trasferimento durava anche una
settimana con lunghe soste sui binari morti.
Lo status degli internati
Appena arrivati nel lager di destinazione, spesso dopo averne attraversati altri di smistamento, i
soldati italiani si resero conto di non godere dello status di prigionieri di guerra e quindi di non
potersi avvalere delle protezioni previste dalla Convenzione di Ginevra (27 luglio 1929) , che non
avevano diritto all’assistenza della Croce Rossa e che in sostanza erano abbandonati a se stessi.
Hitler, il 20 settembre 1943, con un provvedimento specifico, aveva stabilito che essi dovevano
essere identificati come IMI, internati militari.
Il 20 luglio del 1944 Hitler e Mussolini strinsero un accordo in base al quale i militari deportati
venivano trasformati in “lavoratori civili”, anzi “liberi lavoratori civili”, costringendo con questo
escamotage linguistico anche gli ufficiali a “rendersi disponibili” per i lavori nei campi agricoli e
nelle fabbriche a sostegno dello sforzo bellico tedesco.
A partire da quel momento gli internati
militari
iniziarono
a
ricevere
una“retribuzione”, i lagermark : in realtà
soldi fittizi, pezzi di carta privi di valore
all’esterno del campo: un’ulteriore beffa
perpetrata dai nazisti. Mio nonno che ha
conservati i suoi (doc. n.6), accantonati
quasi fossero risparmi, ancora oggi,
osservandoli, stenta a credere di essere stato
fino a quel punto raggirato nella sua buona
fede.
Ufficialmente il compito di occuparsi di
loro spettava all’ambasciata di Mussolini a
Berlino, presso la quale fu allestito nel
febbraio del 1944 il Sai, “ Servizio
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assistenza internati militari italiani e civili”, che in realtà fu inefficace e impotente. Basti pensare
che solo dal maggio 1944 i prigionieri italiani, a differenza di quelli di altre nazionalità, iniziarono
a ricevere dalle istituzioni e a dagli enti assistenziali qualche pacco contenente viveri di conforto e
altro. Il governo Badoglio si disinteressò degli IMI.
Nonno Carlo, per fortuna, non cessò di scrivere e di ricevere notizie dalla sua famiglia durante
l’intero periodo della prigionia. Certamente gli scritti dovevano rispettare dei requisiti e
l’impostazione ottimistica e positiva anche nei momenti più duri tradiscono una scarsa libertà di
espressione e i vincoli della censura. L’esordio di ogni cartolina è “Carissimi Genitori vengo da voi
con questa mia cartolina per farvi sapere che la mia salute è ottima come pure spero anche di
voi”(doc. n.7)
Per chi non riceveva nulla da casa (cibo, vestiti e notizie) il senso di abbandono diventava
insopportabile.
LA VITA NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO
L’organizzazione dei campi
Gli italiani, secondo le stime, vennero distribuiti o smistati in 249 lager principali: 192 in Germania,
15 in Polonia, 15 in Russia, 14 in Francia, 11 in Iugoslavia e 2 in Grecia
I militari furono divisi in campi diversi: i soldati vennero rinchiusi negli Stammlager/Stalag, alle cui
dipendenze vi erano spesso gli Arbeitskommandos,(gruppi di lavoro) distaccamenti di minori
dimensioni ubicati nelle vicinanze delle fabbriche o dei luoghi di lavoro in cui venivano impiegati.
Gli internati in quei casi restano isolati dagli altri, sorvegliati notte e giorno, sfruttati all’estremo
delle loro forze e nonostante questo disprezzati perché considerati pigri, indolenti e furbi. Per i
Tedeschi gli italiani sono “traditori”, “badogliani”, “vigliacchi” e inetti.
Gli ufficiali furono invece internati negli Oflager.
Il sistema logistico era poi completato dai Dulag ( i campi di transito o di smistamento), dagli
Straflager ( i campi di punizione) . C’erano, inoltre, i Lazarett , i campi ospedale, dove venivano
ricoverati i militari gravemente ammalati, senza peraltro che venisse prestata loro un’adeguata
assistenza sanitaria, non solo per carenze funzionali, ma anche in esecuzione di specifiche direttive.
Mio nonno ancora oggi ripete che la sua più grande fortuna è stata quella di non essersi ammalato
durante la prigionia e ricorda di aver accompagnato personalmente nel Lazarett del campo alcuni
suoi compagni di cui poi ha saputo che erano stati lasciati morire, perché non più utili al sistema
produttivo tedesco.
All’ingresso nel campo, l’impatto emotivo più forte era determinato dal contesto umano, o meglio
disumano, in cui i prigionieri venivano violentemente immersi. E’ significativo il fatto che nelle
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sintetiche ma efficaci annotazioni tracciate dal nonno sull’aspetto degli aguzzini abbondino i
riferimenti al mondo animale:” Qua siamo in mezzo alla sabbia non si vede nulla che 4 Tedeschi /
tutti zoppi e storti che mi assomigliano al pacerisotto e nel parlare mi sembrano cani barbini e
cattivi”.
Le condizioni di vita
Al loro arrivo nel campo i militari italiani subivano le spoliazioni. I Tedeschi dicevano che era
streng verboten (severamente proibito) tenere oggetti come radio, bussole, binocoli pertanto li
sequestravano. In una prima fase essi usavano modi quasi cortesi, rilasciando delle ricevute che
sarebbero servite, a loro dire, per riavere gli oggetti alla fine della guerra. In tutti i successivi
trasferimenti, con maggior brutalità, i militari venivano spogliati di ciò che erano riusciti a salvare
nella prima fase. Al suo ritorno al campo di Torner, il 9 Dicembre, nonno Carlo annota ”…subito
bagno e disinfettazione e rivista al corredo/ bisogna pensare che ci spogliavano pure per vedere se
qualcuno portava due paia di mutande o qualche maglietta in più/ ci lasciavano solo una camicia e
un paio di mutande e la divisa / e altro facevano raus”. Nel campo di Sciusermuber,dove giunge il
18 marzo del 1944, nonno Carlo racconta che il suo guardiano “ .. tutti i giorni ci fa la rivista e se ci
trova qualcosa in tasca sono bastonate con un nervo che era un piacere per la guardia..”
La severità del sistema detentivo è attestata anche dalla scelta deliberata di abbruttire i prigionieri,
di degradare e umiliare la loro dignità, mediante la sporcizia, che infestava baracche, vestiario,
corpo e la scarsità di cibo.
Le regole internazionali prescrivevano che ai prigionieri di guerra fosse riservato un trattamento
alimentare pari a quello che la nazione detentrice offre ai propri soldati a riposo. Con lo
stratagemma di non considerare i militari italiani prigionieri, i nazifascisti elusero questa regola.
Il dosaggio del cibo era estremamente parco e le razioni teoriche venivano decurtate in partenza ,
spesso per trarne dei quantitativi con i quali si alimentava il mercato nero.
Il nonno a tale riguardo scrive “ Abbiamo mangiato alla sera alle ore 5 ½ un po di sboba / che per
condimento forse ci mettevano sabbia o in isbaglio per risparmiare / un po di rape o forse che /
andava nella marmita sola. Mangiata quella mi / an dato quel poco pane e malgerina che per
dividerla non si sapeva dove incominciare tanta che era molta, figuratevi che fame fino a quell’ora
quel giorno…” e aggiungeva come nota consolatoria e rassicurante “… ma bisogna portare
pazienza che tutto finirà’”.
Quello dell’alimentazione fu il problema principale per la sopravvivenza nei campi. I prigionieri
erano denutriti, perdevano peso in maniera allarmante e molti morivano per fame. La situazione era
particolarmente tragica per gli internati utilizzati come lavoratori coatti nelle fabbriche.
Luigi Cajani nel saggio Gli internati militari italiani nell’economia di guerra nazista scrive “ Una
dipendenza della Mannesmannrohren-Werke di Duisburg, a cui nell’ottobre del 1943 furono
assegnati 349 IMI, riferiva che il medico aziendale aveva riscontrato negli internati militari italiani
inviati all’azienda grossi rigonfiamenti (edemi da fame) sulle gambe . Un altro impianto siderurgico
della Rurh, la Gutehoffnungshutte di Oberhausen ricevette nello stesso periodo 1277 IMI in uno
stato di totale debilitazione e denutrizione al punto da non poter essere impiegati al lavoro.
Lo storico Gerhard Schreiber, autore di “ I militari italiani internati nei campi di concentramento
del Terzo Reich”, cita al riguardo il caso delle acciaierie Alfred Krupp di Rheinahausen, dove “ a
causa della precarietà del vitto non adatto a un lavoro fisico particolarmente gravoso, nel giro di
poche settimane il 25% dei prigionieri italiani divenne inutilizzabile. La direzione aziendale
comunicò l’insorgere di perdite di peso fino a 22 chili, spesso la comparsa di malattie di ogni tipo,
comprese turbe mentali”.
I Tedeschi per risolvere il problema della scarsa produttività degli italiani escogitarono il
Leistungsernahrung, che, tradotto, significa alimentazione proporzionata alla produttività. I
lavoratori stranieri venivano divisi in tre scaglioni: il primo costituito da coloro che avevano un
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rendimento pari o superiore all’80% di quello di un operaio tedesco di pari qualifica; il secondo
costituito da coloro il cui rendimento oscillava tra l’80% e il 60%; il terzo costituito da coloro il cui
rendimento era inferiore al 60%. Questi ultimi subivano una decurtazione della razione standard e
ciò che veniva tolto a loro veniva assegnato, come premio, a quelli del primo scaglione. Oltre alla
riduzione del vitto erano previste punizioni come lavoro supplementare e l’assegnazione di incarichi
particolarmente degradanti. Il provvedimento, come si intuisce, non ebbe efficacia. Le stesse
aziende, invano, segnalarono che la suddetta normativa peggiorava il numero degli ammalati fra gli
IMI già malnutriti.
Nel campo di Inuslavo, dove il nonno venne impiegato in una fabbrica di zucchero, ora a caricare
le barbabietole sui vagoni merci, ora alle presse da cui esalava “ un potente calore che non si può
nemmeno sospirare..”, il regime alimentare migliorò, forse grazie all’ “efficienza” produttiva.
Scrive, infatti, il nonno “… mi anno dato il rancio fatto di rape e crauti e pure qualche patatina e
una grossa fetta di pane che forse non arrivava al peso di 50 grami. Non potete inmaginarvi quella
sera mi sembrava di essere un gran signore … il lavoro qua è di 12 ore al giorno continuo... ma
non mi sembra bruto perché sono stato abbituato da giovane”.
La mancanza di cibo era tale che i prigionieri si nutrivano di tutto ciò che era masticabile: bucce di
patate, ghiande, radici, avanzi di cucina recuperati tra i rifiuti.
Antonio Tronci, ex deportato e autore di “ … noi poveri diavoli dimenticati”, racconta di aver
notato “ … alcuni disperati dare la caccia ai grossi topi che percorrevano all’aperto lunghi tragitti
entrando e uscendo da cataste di tubi di plastica accumulati lungo il muro di cinta. Con un metodo
ingegnoso, i miei compagni avevano sistemato dei sacchetti di carta catramata, quella usata per il
cemento nella parte terminale dei tubi. Al termine del percorso, l’animale intrappolato veniva
ucciso con un rapido colpo di mattone … una volta catturati, spellati e tagliata a pezzetti la carne
grassa e rosata, i topi venivano lessati in acqua bollente e mangiati “.
Mio nonno mi ha raccontato che un giorno per la fame mangiò dei corvi che aveva catturato nel
campo, poiché ricordava che suo padre gli aveva spiegato che erano commestibili.
Una notte, con un compagno di prigionia,avendo notato, durante il turno lavorativo, la presenza nei
campi circostanti il reticolato di una coltivazione di patate, il nonno organizzò una fuga per
“rubarne” alcune. La fame doveva essere tanta per sfidare il rischio di essere scoperti e fucilati . In
effetti, l’impresa non andò a buon fine, perché, mentre rientravano di soppiatto nel campo con la
“refurtiva”, i due si imbatterono in un sorvegliante. Avendo scorto il sacco di patate, con estremo
sadismo, il tedesco lo afferrò e lo vuotò in una latrina del campo. La rabbia dei due malcapitati
prevalse sulla paura di essere fucilati o comunque di essere severamente puniti con una forte dose
di bastonate. E’ ancora vivo l’odio provato nei confronti di quel nazista che li aveva privati di un
alimento tanto agognato: “ ..in quel momento lo avrei strozzato...”.
Il nonno scrive sul suo diario “… si vede di quei giovanotti che non sono più capaci di camminare
dalla grande debolezza e di notte con neve a terra sveglia e due o tre ore di piantone fuori per
castigo…” prova per loro una gran pena pur essendo a sua volta ridotto in quelle condizioni.
Anche il rito dell’appello, di per sé semplice, veniva gestito con estrema crudeltà ed era occasione
per far spendere ai prigionieri le poche calorie accumulate, per sfiancare il loro morale e per farli
ammalare. Si doveva stare all’aperto a lungo,perché i conti dei presenti venivano fatti e rifatti più
volte, d’inverno con parecchi gradi sotto zero. In più, in quelle condizioni, i nazisti esigevano
formalismi assurdi quali la posizione sull’ attenti, il viso scoperto e l’assenza di coperte sulle spalle.
Il lavoro
Come spiega lo storico Gerhard Schreiber l’8 settembre si trasformò in un eccellente affare per il
Terzo Reicht”: un bottino di armi e soprattutto uomini da utilizzare nella macchina produttiva
tedesca impiegata allo spasimo a sostegno dello sforzo bellico.
Secondo una ricerca riferita al febbraio 1944 e riportata da Cajani nel suo saggio, gli IMI furono
utilizzati in diversi settori produttivi con una netta prevalenza dell’industria pesante. Più
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specificamente. Il 56% fu impiegato in imprese minerarie, metalmeccaniche e chimiche; il 12 % in
edilizia; il 10,8% nei settori energia, trasporti e comunicazioni; il 10,6% in altri comparti industriali,
compreso quello alimentare; mentre solo il 6% in attività agricole . In circostanze particolari, gli
IMI vennero anche utilizzati per rimuovere le macerie delle città bombardate.
A titolo di esempio, mio nonno venne utilizzato come operaio in uno zuccherificio, su una linea
ferroviaria per sostituire le traversine dei binari, per scavare trincee, per i lavori di posa dei tubi di
una rete idrica, per lavori di scarico e carico di merci, come muratore per costruire le baracche in un
campo, infine, come panettiere.
Il lavoro nella maggior parte dei casi era durissimo: turni di 12 ore con una sola mezz’ora di
interruzione per cibarsi con una zuppa di rape.
Le attività culturali
Sembra paradossale parlare di attività culturali nei campi di concentramento nazisti. In realtà molte
testimonianze autorevoli attestano la presenza fra gli internati di una vivace attività di scambio
culturale. Occorre ricordare che fra gli internati, fra le fila degli ufficiali, c’erano accademici
universitari, giovani intellettuali, professionisti, giornalisti e scrittori. All’interno del lager per
alleviare le sofferenze venivano allestiti dei cenacoli culturali, dove si discuteva di letteratura, di
scienza, di filosofia. Si realizzarono “giornali parlati”, chiamati così perché, non potendoli
stampare, venivano letti a voce. Uno dei più famosi redattori fu Giovannino Guareschi, che, tra
l’altro, ideava racconti, intrisi spesso di amara ironia, che circolavano tra i prigionieri.
Grazie alle competenze tecniche e scientifiche di alcuni prigionieri, con l’assemblaggio di
materiale di fortuna, nacquero nei campi le cosiddette radio clandestine, capaci di captare le notizie
sulla guerra trasmesse da Radio Londra.
I Tedeschi facevano perquisizione sistematiche per trovare gli apparecchi o materiale “pericoloso”,
il più delle volte senza successo.
Nelle pagine di “Diario clandestino”, Giovannino
Guareschi, un illustre IMI, afferma “… Fummo peggio
che abbandonati, ma questo non bastò a renderci dei
bruti: con niente ricostruimmo la nostra civiltà
….ognuno si trovò improvvisamente nudo: tutto fu
lasciato fuori del reticolato… e ognuno si ritrovò
soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua
effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E
ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva
dare, e così nacque un mondo dove ognuno era stimato
per quello che valeva e dove ognuno contava per uno..
Niente mutò nel lager: sempre la stessa sabbia, sempre
le stesse baracche, sempre la stessa miseria. Ma c’era
tutto quello di cui abbisogna un uomo civile per vivere
con civiltà in un mondo civile. Tutto. Anche la
canzonetta di moda che sentivate fischiettare e
canticchiare dappertutto. C’era una canzonetta civile,
perché, parole e musica, era la fedele espressione del
sentimento di tutti. Un nobile sentimento.”
Mio nonno, che, come ho detto, disponeva di una
cultura elementare, ebbe modo anch’egli di esprimere
in forma “artistica” i suoi sentimenti. Scrisse una sorta
di poesia costituita da diciannove “strofe”, tanti quanti
erano i suoi anni all’inizio della prigionia, e con la semplicità dei suoi versi, ignorando i vincoli
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formali della lingua, tentò di mettere in rima la sua esperienza di prigioniero di guerra. Utilizzò un
foglio, che staccò da un registro contabile abbandonato dai Tedeschi in un campo di prigionia
all’arrivo degli Alleati. (doc. n.8)
1. In tradotta da Gorizia partii. Ma il
destino è stato segnato in una terra
per farmi sofrir.
1. In treno sono partito da Gorizia
diretto verso un luogo dove
mio destino sarà quello di soffrire.
2. O viaggiato per quatro giorni con riserva
di poco mangiare e pur giunto in
terra lontana ove per schiavo mi
voglion tratar.
2. Ho viaggiato per quattro giorni con
una misera scorta di cibo e, una volta
giunto alla meta così lontana, ho
capito che sarò trattato da schiavo.
3. Nella Prussia dove mi anno portato
in attesa di farmi sofrir la mi dicevano
che son internato mentre invece mi
fanno sofrir.
3. In Prussia, dove mi hanno condotto,
nell’incertezza dei prIMI momenti,
mi hanno detto che sono un internato
in realtà mi vogliono punire.
4. Col linguaggio di questi signori ve
un problema di farsi capire ma lor dicono
che siamo traditori e per questo ci fan morir.
4. Non riesco a comunicare nella lingua
dei miei carcerieri, ho, però, capito
che per loro siamo traditori e che
per questo dovremo morire.
5. Dalla Prussia passati in Germania in un
altro campo per esser smistato ed altri amici
li abbiamo trovati che an seguito il
destino crudele.
5. Sono stato trasferito dalla Prussia in
Germania in attesa di essere
destinato ad altri campi e lì ho
conosciuto nuovi compagni
6. In quel campo noi siamo riuniti in
attesa di nuova partenza an tentato con
noi conferenza chi voleva combater con lor.
6. In quell’occasione hanno tentato di
persuaderci ad arruolarci
nell’esercito nazista
7. Ma alla fine di una settimana nuovamente
noi siamo partiti e a dombrava ci an
trasferito in quel campo si va a lavorar.
7. Fallito il loro tentativo, ci hanno
fatto ripartire a Dombrava per
sfruttarci come lavoratori in un
nuovo campo
8. Ci an chiusi in scuri vagoni sigilati per
fino le porte quei disonesti che ci avevamo
di scorta non ci venivano nessuno ad aprir.
8. Ci hanno rinchiuso ermeticamente
in vagoni merci e nessuno
veniva ad aprirci le porte.
9. Noi si chiedeva venite ad aprire non dubitate
che vi è un inbrolio. Ci rispondevano chiamate
Badoglio che venga esso a farvi sortir.
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10. Appena giunti cominciano i tormenti e fiacchi
Abbiamo pregato i nostri
sorveglianti di aprire il vagone,
dando la nostra parola che non
saremmo fuggiti. Ma loro
non si sono fidati e ci schernivano dicendo di chiamare in aiuto
Badoglio.
10. Giunti al campo sono iniziati i
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I vestiti fame e lavoro-bastonate fino a
loro se qualcun non potesse lavorar.
11. Il nostro rancio è composto di rape che si
divorano con grand apetito anche il più grasso
li è dimagrito che le ossa si poson contar.
12. Una festa che ceran le patate ladunata ci
faceron far in un ora ci dan da mangiare
mentre i Signori ci stavan a guardar.
13. Tanti nostri fratelli vivono in questa terra
E dura galeria senza un conforto ed una preghiera
Il suo tramonto è usato cosi.
tormenti: freddo, fame, punizioni
per chi non poteva lavorare.
11. Il nostro pasto è costituito da rape
che tutti mangiano avidamente per
la fame: anche chi era di
costituzione robusta è a tal punto
dimagrito che gli si possono
contare le ossa.
12. Una domenica avevano cucinato
le patate; per farci soffrire,
i nostri carcerieri hanno
prolungato la durata dell’aduna-,
ta, intanto si divertivano a
guardarci.
13. Come me, tanti altri uomini
patiscono la sofferenza della
distanza dalla propria patria e
dell’abbandono e così
trascorrono l’ultima parte della
loro esistenza.
14. La mattina la sveglia alle quatro per portarci
al maledetto lavoro la fortuna di esser internato
mi vien detto da un di quei signor.
14. Al mattino ci svegliano alle
quattro per condurci al lavoro.
Questo privilegio, come lo
definivano i nazisti per
deriderci, spetta solo a noi
internati.
15. Questa vita durò per tre mesi si aspetava
Soltanto la morte ma per fortuna che si
Canbio Solo Iddio dobbiamo ringraziar.
15. Si trattò di un periodo durissimo, che, grazie a Dio,
durò solo tre mesi.
16. Per punizione fummo trasferiti laggiù in
polonia in un altro lavoro per i civili
eravam figli loro che il loro pane ci
davan da mangiare.
16. Quando fummo trasferiti
in Polonia, la nostra
condizione migliorò grazie
alla disponibilità della
popolazione civile.
17. Questo popolo del gregge sublime ancolse
il gregge su alcuni monti ma il pastore adesso
cerca di limitare le pene di questo vidente
Traghetto di dolori.
17. Il Signore ci è vicino nel nostro peregrinare da un luogo
di sofferenza all’altro.
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18. In questo lager la vita è cambiata
vi son le donne che dan da mangiare
e la cercan il meglio tratar ma fanno
che di nuovo farci sofrir.
18. Siamo finalmente giunti in un
lager dove le condizioni sono
apparentemente più umane;
tutto questo, però, accresce la
nostra pena.
19. Penso sempre ai miei compagni
alla mia cara Famiglia ve loro
pensano a me e attendo il domani
che si Spera vicino si è.
19. Il mio pensiero è sempre
rivolto alla mia famiglia
e non perdo mai la speranza
di rivedere un giorno i miei
cari.
LA LIBERAZIONE
Le vicende storiche
Fin dall’inizio del 1945 apparve chiaro che la Germania era ormai destinata a perdere la guerra.
Il 12 gennaio 1945 l’Armata Rossa si schierò lungo un fronte di 11.000 km tra il Mar Baltico e i
Carpazi per scatenare l’offensiva decisiva contro la Germania.
Alla fine di gennaio l’Armata Rossa attraversò l’Oder e avanzò fino a trovarsi a soli 70 km da
Berlino.
Durante questa marcia i russi incontrarono decine di migliaia di uomini prigionieri nei lager o in
marcia verso la Germania.
Le forze sovietiche furono le prime a scoprire le tragiche realtà dei campi di concentramento: già
nel 1944 raggiunsero il campo di Majdanek. I tedeschi avevano cercato di nascondere le prove dello
sterminio dando fuoco al forno crematorio ma nella fretta le camere a gas erano rimaste intatte.
Fin dal 1943 i tedeschi, temendo l’imminente arrivo dei russi, avevano provveduto a smantellare
diversi campi dopo aver eliminato tutti i prigionieri.
I sovietici liberarono Auschwitz nel gennaio del 1945.
I nazisti, avendo costretto la maggior parte dei prigionieri a marciare verso ovest (le cosidette
“marce della morte”) fecero trovare ai russi ancora vivi solo alcune migliaia di persone insieme alle
prove degli assassinii di massa compiuti nel campo. Nel frattempo le forza anglo-americane
liberarono i campi a ovest fra cui Dachau e Mathausen. I liberatori si trovarono ad affrontare
condizioni indescrivibili nei campi: mucchi di cadaveri in attesa di essere seppelliti, prigionieri
denutriti, sofferenti e malati e epidemie contagiose. Proprio per evitare possibili contagi molti
campi furono bruciati.
Mio nonno venne “liberato” dai russi che giunsero nel campo di Sventochloviz il 29 gennaio 1945.
Una parte dei prigionieri seguì i tedeschi nella fuga, altri scapparono autonomamente, altri ancora,
fra cui mio nonno, rimasero con i liberatori. In realtà essi non godevano di una piena libertà: erano
sottoposti alla vigilanza e alle dipendenze dei sovietici. Rimase prigioniero dei russi per circa dieci
mesi. Pur subendo un regime di detenzione più blando, i prigionieri come mio nonno continuarono
ad essere sfruttati come manodopera. In particolare mio nonno venne utilizzato, proprio per la sua
competenza, come panettiere per i soldati russi al fronte.
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Il ritorno a casa dei prigionieri
Gli IMI furono liberati in momenti differenti con la progressione dell’avanzata degli Alleati:
avvenne già nel 1944 in Prussia e in Ucraina, tra gennaio e maggio del 1945 in Polonia e in
Germania e prima ancora nei Balcani.
Spesso gli stessi Tedeschi fuggivano abbandonando a se stessi i prigionieri: disattendevano in
questo modo l’ordine di Himmler di ucciderli e di non lasciare tracce o testimoni dei crimini
commessi. Nella fase intermedia tra la liberazione e il rientro in patria, gli IMI in gran parte
subirono una nuova prigionia ad opera degli stessi alleati, che ancora li consideravano nemici. Mio
nonno passò dal duro regime di reclusione tedesco a quello più blando e umano dei russi.
Il trasferimento in patria avvenne per molti in modo rocambolesco e in tempi estremamente lunghi
sia per le difficoltà logistiche di trasporto, sia per incapacità organizzative delle istituzioni, sia per il
disinteresse da parte del governo italiano.
Al loro rientro in condizioni fisiche pietose ( alcuni morirono per l’eccesso di alimentazione rispetto
alle possibilità metaboliche di un organismo gravemente debilitato), alcuni IMI faticarono a
reinserirsi nel contesto sociale. Le famiglie, la comunità locale di origine erano state disgregate e a
volte annientate dalla guerra. Mio nonno racconta che al suo arrivo al paese di origine, nel
novembre 1945, incontrò un compaesano, che, dopo essersi ripreso dallo stupore di rivederlo vivo,
gli comunicò che la sorella amata, con cui aveva intessuto una fitta corrispondenza durante la
prigionia, era ricoverata in ospedale. Dopo quindici giorni ella morì, così come il padre, a causa di
un’epidemia di tifo.
Quali tracce hanno lasciato i due anni di dura prigionia sugli uomini che l’hanno subita?
A parte gli evidenti segni di malnutrizione accompagnati da patologie ormai diventate croniche e
difficilmente reversibili con le terapie dell’epoca ( mio nonno ha perso la sua dentatura e non è più
riuscito a tollerare un regime alimentare “normale”), le ferite più gravi sono state inferte nell’animo
e nella psiche dei protagonisti.
A tutto ciò si aggiunse l’amarezza nel constatare che le istituzioni e i partiti politici, che,
all’indomani della Liberazione, celebrarono il ruolo decisivo della lotta armata partigiana e
l’intervento degli americani, mostravano un pubblico disinteresse nei confronti di quella massa di
reduci che portava involontariamente con sé il ricordo del regime. Gli IMI avevano combattuto loro
malgrado la guerra per il fascismo, ritornavano spesso indossando le divise lacere del regio esercito,
rappresentavano agli occhi dei più un’imbarazzante testimonianza dell’acquiscienza con cui gran
parte della popolazione aveva aderito alla disastrosa avventura militare fascista.
Nessuno attribuiva valore alla resistenza civile che dal ’43 al ’45 gli IMI avevano condotto
all’interno dei campi di prigionia, sottraendosi alla tentazione di accettare le promesse di libertà
offerte dai nazifascisti.
In realtà, nei lager, luoghi in cui violentemente è stata coartata la libertà e disprezzata la dignità
umana, quei soldati hanno ripreso in mano il proprio destino. Essi, pur di fronte al rischio di
sacrificare la propria vita, hanno compiuto una scelta ispirata ai principi di lealtà, di giustizia, di
solidarietà e di pace, su cui il popolo italiano ha fondato la sua identità nazionale attraverso la carta
costituzionale.
Per questo ritengo che la lezione di vita offerta dagli IMI vada ascoltata, recuperata e studiata,
soprattutto da parte di noi giovani.
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Bibliografia
A.A.V.V Alla scoperta della filosofia vol 3a Sansoni,Milano, 2004
F. Hellenberger La scoperta dell’inconscio Bollati Boringhieri, Torino, 1976
S.Freud A. Einstein Perché la guerra? Bollati Boringhieri , Torino, 2006
A.Lepre, C. Petraccone Storia d’ Italia dall’ Unità a oggi il Mulino, Bologna, 2008
A.Giardina, G. Sabbatucci, V.Vidotto Profili storici dal 1900 a oggi Editori Laterza, Bologna,
2009
M.Cereda Storie dai lager Edizioni Lavoro, Roma, 2004
G. Guareschi Favola di Natale Rizzoli, Milano, 1992
G. Guareschi Diario Clandestino Rizzoli, Milano, 1991
G. Guareschi Ritorno alla base Bur, Milano, 2002
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testo della tesina su carlo limonta